Io sono la guerra

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ANNA ZANIBONI MATTIOLI IO SONO LA GUERRA

Una verità compresa tardi e a fatica. Una vita consumata in armi, sui campi di battaglia. L’amicizia venerata e tradita e la fedeltà portata alle estreme conseguenze. L’assurdità di una guerra che prende le armi contro se stessa. La Morte ovunque si volti lo sguardo. Questi i desolati pensieri del Conte Bailardino Nogarola a pochi giorni dall’improvvisa scomparsa del suo signore Cangrande della Scala. Tragico dialogo di memorie e di speranze sempre frustrate, i ricordi del Conte lasciano via via la parola ai pensieri dello stesso Cangrande nei suoi ultimi giorni di vita, all’eco ormai lontana dell’infinito esilio di Dante Alighieri, l’amico incomparabile del principe, e ai tragici destini di due grandi cavalieri ghibellini che impietosamente mostrano al signore di Verona, nel fulgore della gloria, il fatale esito della sua esistenza e la vera disperazione che si cela nel suo celebre sorriso. Un’antica scultura raffigurante Marte veglia, muta, e ormai indecifrabile, sui destini di guerra e di pace, di trionfo e sconfitta dei protagonisti pietrificando glorie e ricordi, miraggi e umane fatiche.

Anna Zaniboni Mattioli è nata a Parma nel 1974. Avendo respirato in famiglia l’amore per l’arte e la letteratura è stato naturale per lei laurearsi in Conservazione dei Beni Culturali, per dedicarsi quindi alla scrittura prediligendo temi storici. Nel 1996 ha pubblicato i racconti “Per Anna” e nel 2005 il romanzo “Sia l’eclissi di Dio”. È la fortunata mamma di Margherita e Beatrice e si occupa con passione e riconoscenza della cura e promozione dell’opera del nonno pittore.

€ 12,00

DI AB ASIS

In copertina: particolare di Cavaliere, scultura di Javier Marín.

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In copertina Particolare di Cavaliere, scultura di Xavier Marin

Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-666-0

Š 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it


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Anna Zaniboni Mattioli

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Ai miei genitori

I’ fui de la città che nel Batista mutò ‘l primo padrone; ond’ei per questo sempre con l’arte sua la farà trista; e se non fosse che’n sul passo d’Arno rimane ancor di lui alcuna vista, que’ cittadin che poi la rifondarno sovra ‘l cener che d’Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. Commedia, Inferno, XIII, 143-150


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ANCORA IL PRINCIPE


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L’Inferno è suo

Ancora la notte del 6 novembre 1318, Verona, chiesa di Sant’Anastasia, la veglia funebre di Uguccione Era proprio di quei giorni che Dante Alighieri voleva parlare a Cangrande. E lo voleva fare dinanzi alla salma del gran comandante. Raccontò allora che non era riuscito a incontrare Uguccione prima di tornare al nord. Il capitano se ne era andato da Pisa. Impossibile sapere dove fosse diretto. La voce di Dante Alighieri dovette farsi più aspra e insieme più appassionata nel ripercorrere quel viaggio. In quella voce dovette esserci tutta la malinconia serotina dell’esule in cammino; l’ansiosa ricerca di un ricovero per la notte, la speranza continuamente infranta di un’ospitalità più calda e duratura, di tempo da dedicare solo allo studio, solo alla scrittura. Nel risalire l’Italia alla volta di Verona, Dante Alighieri aveva attraversato l’aspra terra dei Malaspina, famiglia a lui amica che in anni passati lo aveva ospitato e che lo stimava per grande uomo di lettere e abile diplomatico e procuratore. Lui aveva ricomposto i decennali contrasti della famiglia con il vescovo di Luni. Un’impresa magistrale. Aveva deciso di fermarsi al monastero di Santa Croce del Corvo, nella terra di Luni. L’abate di quel cenobio infatti era il fratello minore di Uguccione. 65


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Il ricordo del gran comandante, che in quella dolorosa risalita dell’Italia verso Verona stava sfumando nelle malinconiche meditazioni dell’esule, tornò ad essere il suo pensiero più concreto e dominante. Parlare con lui! o almeno con il fratello! quella era la speranza dell’Alighieri. La sorte però non gli era stata favorevole: Uguccione aveva visitato il monastero poco tempo prima. Entrambi i fratelli poi erano partiti insieme per Lucca. Anche l’abate armato e a cavallo, come un soldato, stirpe di guerrieri. Così gli riferirono. Non fu dato all’ Alighieri di sapere quando l’abate o lo stesso Uguccione sarebbero tornati. Partire per Verona senza rivedere il gran comandante, senza rinnovargli le proprie speranze di esule ansioso di rientrare in patria, senza incitarlo a riprendere senza tregua la guerra contro Firenze… Per quanti anni sarebbe rimasto lontano da quelle terre? Per quanto tempo non avrebbe più rivisto Uguccione? Forse per sempre. Dante Alighieri chiese allora di poter incontrare il bibliotecario del cenobio. Questi evidentemente lo conosceva per fama: notizie e copie di alcuni suoi scritti dovevano esser giunte anche al monastero. L’affabilità con cui era stato accolto dal monaco lo aveva spinto a rivolgergli una richiesta. Un dono, una copia del manoscritto che portava con sé: l’Inferno, la cantica che non era ancora stata divulgata. Altre due parti l’avrebbero seguita. Un lavoro che l’avrebbe impegnato ancora per molto, molto tempo. Quella copia era il suo omaggio a Uguccione della Faggiuola con la speranza che il signore di Pisa si sarebbe sentito spronato a liberare l’Italia dall’origine di tutti i mali, dal pernicioso groviglio di serpi che aveva trovato il proprio nido in Firenze. Il monaco avrebbe dovuto accompagnare quel dono con una lettera in cui si sarebbero chiarite le intenzioni del poeta e le ragioni del dono. Se Uguccione avesse infine desi66


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derato ricevere anche le successive parti dell’opera, non avrebbe dovuto che farne richiesta all’autore. Che il dono giungesse prima possibile! Glielo inviasse a Lucca o a Pisa o approfittasse della sua prossima visita al monastero. Lo facesse per la salvezza di Firenze! Dopo pochi giorni Dante Alighieri aveva potuto riprendere il proprio viaggio verso il nord: lo attendevano i difficili valichi dell’Appennino. Nonostante tutto, aveva lasciato il monastero di Santa Croce del Corvo con l’animo inquieto, quasi avvertisse l’inutilità del gesto che aveva appena compiuto. Sperava tuttavia che il signore di Pisa avrebbe ascoltato quel grido di aiuto. Avrebbe riflettuto sulle dure, appassionate invettive del poeta contro i mali che affliggono l’Italia, contro Firenze, contro le intromissioni politiche del papato, i disperati appelli all’imperatore? Uguccione intanto aveva ripreso le armi contro Firenze. Da Verona, Dante Alighieri aveva letto i dispacci che venivano dal campo di battaglia di Montecatini con il cuore in tumulto. Furono per breve tempo la risposta a tutte le sue preghiere. Si spalancava di nuovo la prospettiva del suo rientro in Firenze. Da vincitore. Aveva guardato quel messo che veniva dalle sue terre, come se glielo avesse mandato Uguccione in persona. Di più, aveva interpretato la vittoria del capitano come una risposta al proprio dono; l’indiscutibilità del trionfo di Montecatini era stata come una dedica personale del vecchio Uguccione, una dedica scritta col sangue dei nemici. L’eco di quella giornata sembrava la dimostrazione della giustezza delle sue previsioni e delle sue “infernali” profezie. Eppure qualcosa non tornava. Una sensazione permanente d’inquietudine. Come se qualcosa fosse andato irrimediabilmente perduto. I mesi infatti erano passati ma la situazione non si era sbloccata, Uguccione non approfittava della vittoria, perché? Perché regalava tempo ai fiorentini, tempo utile a riprendersi? Perché non sferrava il suo colpo di grazia, la sua zampata di leone? 67


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Poi, un giorno arrivarono nuove tremende notizie, inaspettate: il tradimento di Castruccio, la tragica caduta di Uguccione, la contemporanea perdita di Pisa e di Lucca, la sua precipitosa fuga verso il nord. Solo quando aveva visto giungere Uguccione a Verona che pareva l’ombra spiritata di se stesso, furioso, a mendicare l’ospitalità scaligera, Dante Alighieri aveva compreso che le sue speranze di ritornare con onore a Firenze erano definitivamente perdute. Era chiaro che il vecchio leone, il signore di Pisa, non si sarebbe più ripreso. Ormai era troppo tardi. Non avrebbe più potuto riprendere la sua guerra contro Firenze. Furono il destino e il troppo orgoglio. Sì, furono il destino e il troppo orgoglio a impedire a Dante Alighieri, negli anni veronesi, di chiedere al gran comandante se veramente non avesse mai ricevuto l’Inferno o un’imperdonabile quanto incomprensibile indifferenza o scortesia avessero sempre impedito a Uguccione di ringraziare il poeta per quel dono. Fu un saluto scabro e asciutto quello che si scambiarono prima della partenza di Uguccione per Vicenza. Quasi sapessero che era l’ultimo e che da lì in poi si sarebbe trattato solo di aspettare l’ineluttabile. Al vecchio comandante sfuggirono un breve sorriso e un pugno di parole che avrebbero voluto essere cortesi ma che furono in realtà una manciata di sassi: “Messer Alighieri, mai un verso a me dedicato…un vostro verso”. Poi si era girato e se n’era andato senza dare tempo al poeta di rispondere, col mantello pieno di tramontana, digrignando i denti. Come un dannato dell’Inferno. Il destino di Uguccione dunque era già segnato! Non gli era giunto nemmeno il sublime dono di Dante Alighieri. La nebbia su di lui dunque era già calata… Ecco allora la vera, dolorosa ragione di quella visita durante la veglia funebre. Il poeta avvicinò il proprio volto affilato a quello del principe, lo fissò. Le sue mani lasciarono in quelle di Cangrande una copia del prezioso manoscritto. 68


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L’Inferno. Non parlò, ma il principe comprese. Fosse lui dunque alla fine, questa era la sua preghiera, il fatale, ultimo latore di quel dono. Prima che la bara venisse chiusa, lui, Cangrande, avrebbe dovuto lasciare fra le mani del grande cavaliere quel manoscritto che era suo di diritto. Gli fosse di viatico verso il regno di Dio, per ciò che aveva avuto in animo di fare. Il principe fissò impietrito quel manoscritto che ormai stringeva fra le mani. Dante Alighieri lanciò un dolente ultimo sguardo rivolto al feretro. Si alzò, allungò un’ultima volta la sua destra su quelle pagine, le sfiorò appena senza guardarle, poi chiese licenza di poter andare. Doveva riposare almeno un po’ prima di ritornare alla chiesa per partecipare, tra la folla, ai solenni funerali. Cangrande gli concesse licenza senza ulteriore indugio e, prima di unirsi ancora ai frati, rimase solo per parecchio tempo stringendo il manoscritto fra le mani. Conosceva quel testo perché il poeta stesso, tempo prima, ne aveva fatto pubblica lettura dinnanzi a lui e a pochi altri eletti. Il principe per un attimo ritornò in sé. Erano passati molti anni, ora era a Treviso, nel convento dei Santi Quaranta. L’acqua del bagno era diventata fredda. Chiese a gran voce che la vasca fosse rabboccata con dell’acqua calda. Rimasto di nuovo solo, dopo un breve silenzio volse gli occhi verso Uguccione. “Lì è cominciato il mio disprezzo per te. Non rancore, tanto meno odio. Solo disprezzo. Eri uno sconfitto, dovevi sparire. Che onore avrei mai potuto tributarti il giorno seguente ai tuoi funerali, vecchio? Avrei voluto sputare sul tuo cadavere, gettarvi sopra fango e urina. Eri sorto come un predatore implacabile. Invece tu eri fatto di carne e sconfitta. Respiravi la fine. La tua morte non mi avrebbe fermato!” Il volto di Uguccione rimase inespressivo, come se quelle parole su di lui non avessero sortito alcun effetto. “Mi hai sentito, vecchio?” Il comandante non si mosse. 69


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“E non t’importa? Non t’importa nemmeno sapere che quel feroce disprezzo è in questi giorni completamente scomparso? Che la tua compagnia mi è tornata inspiegabilmente familiare? Come se fossimo tornati di nuovo alleati, amici, pari… Dopo la tua veglia funebre tutto era cambiato. O forse nulla era cambiato. Forse sapevo da un po’ di tempo che eri un perdente, ma non ne avevo la consapevolezza. Semmai era caduta l’ipocrisia.” Il principe non avrebbe consentito mai a nessuno, tanto meno a se stesso, di dubitare della sua amicizia con l’Alighieri. Eppure, la notte della veglia, quando era ritornato al feretro di Uguccione col manoscritto nella destra, non aveva avuto esitazioni. Lui, Cangrande, rimaneva il predatore vittorioso. In fondo le parole dell’amico ne erano state una puntuale conferma. Fango dunque sugli altri, sugli sconfitti. E Uguccione usciva da quella vicenda come un supremo sconfitto. Gli onori che lui stesso aveva ordinato gli fossero tributati con la veglia e con il funerale del giorno dopo, non erano altro che necessità, semplici norme di parte ghibellina, parti di un regolamento da rispettare. Uguccione rimaneva un cavaliere dell’impero. Ma l’uomo, lo ripugnava, definitivamente. “Dovrei affidarti così al Padreterno, Uguccione della Faggiuola!? Come pretendi di varcare la porta del Cielo?, stringendo forse fra le mani l’Inferno?” chiese sussurrando con stralunata ironia. Riverso nella vasca il principe pronunciò ancora, a distanza di anni, quelle parole, quasi senza rendersene conto. “Sto male” disse infine guardando l’amico fiorentino che ancora non aveva parlato. Non era una richiesta d’aiuto. Tanto meno di perdono. Aveva mai chiesto perdono a qualcuno? Nemmeno all’imperatore Ludovico, sebbene a Trento poco tempo prima lo avesse apertamente offeso. “Devo avere la febbre alta” disse. Fu certo di delirare. 70


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Dante Alighieri e Uguccione rimanevano accanto al principe ancora immerso nell’acqua. Eppure, più il tempo passava più quella compagnia si faceva dolce e naturale. Lo stomaco continuava a dolergli. E quel che andava ricordando gli faceva altrettanto male. Non era stato così allora. Perché? Quei due antichi amici cui presto avrebbe dovuto render conto di una promessa mancata non gli erano di peso. Si ricordò all’improvviso dei suoi ufficiali che lo attendevano per la cena. Fu come un brusco risveglio… “che aspettino ancora un poco”. “Non ho mantenuto la parola data. Ma questo voi lo sapete forse già.” sussurrò Cangrande passando i suoi occhi venati di sangue dal comandante al poeta. Conservo ancora io l’Inferno. Non l’ho mai adagiato nella tua bara” disse tornando a Uguccione. “Ho creduto di assecondare il destino. Lo stesso destino che sempre aveva tenacemente impedito che quei versi finissero a te. Ciò che avevi toccato avevi poi guastato e perso.”. “Quanta fatica inutile, quanta energia sprecata.” ti dissi “Hai perso tutto vecchio, tutta la tua ricchezza, i tuoi molti castelli, i beni della tua antica famiglia, le tue conquiste. Quanto effimeri i tuoi successi. Quanto assurdi i tuoi trionfi… Non avrai nemmeno questo…, dissi sfiorando il vostro manoscritto.” E guardò l’Alighieri. Poi passando dagli occhi di Uguccio71


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ne alla parete della stanza continuò col ricordo. “Ti fissai, tu eri nella bara, le mani strette all’elsa della tua spada, e ti dissi, lo ricordi?: “Porta dunque il peso e l’ultima responsabilità del tuo fallimento… fino alla fine. Non meriti questo dono. Abita dunque gli inferi! Sei della stessa sostanza.” Alzò la voce quasi a rammentare la durezza di quelle sue antiche parole. “Non sei tu la guerra. A me spetta la vita, il comando vittorioso, la decisione giusta. A te solo silenzio e oblio. Molti hanno creduto in te e nella tua spada, nella tua onnipotenza. Tu dovevi essere la nuova giustizia. Hai ammucchiato ricchezze oltre ogni misura. Eri solo assetato di sangue. Siamo diversi tu ed io, vecchio. Te ne sei andato al momento giusto, semmai un po’ in ritardo. Nuove armi, nuove spade!” Tornò all’Alighieri che non aveva mutato l’espressione. Poteva sembrare una giustificazione perché disse “Mi sentivo forte della fiducia che tempo addietro mi aveva concesso l’imperatore Enrico, forte dei privilegi ottenuti per fedeltà. Forte del vicariato di Verona e di Vicenza, forte di ogni giorno di guerra speso per rinsaldare le alleanze delle città fedeli all’impero, forte di ogni colpo inferto all’orgoglio maledetto di Padova. Forte degli assalti vittoriosi contro Cremona e Parma, Monselice, Este, Monatagnana, Piove di Sacco e Modena. Forte del timore che solo il mio nome suscitava nel papa e nelle città che si fanno scudo della sua tiara. Forte perché ero io, forte della mia carne e delle mie ossa, di ogni pensiero che mi nasceva in testa. Smisi di pregare. Smisi? Forse non avevo mai cominciato a farlo…” Il ricordo si fece più concitato. Che fosse ancora delirio? “Se non fossi stato in una chiesa forse le parole rivolte a te, Uguccione, sarebbero state anche peggiori. Forse avrei anche sputato o urinato sul tuo cadavere. I pensieri veloci, lisci, rivolti esclusivamente alla mie vittorie. Alla mia giovinezza. Alla mia forza instancabile. Alla chiarezza dei miei obiettivi. 72


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Contrariamente a quanto avevo deciso inizialmente, preferii interrompere la veglia e andare a riposarmi un po’. Arrotolai l’Inferno e lo infilai nella cintura, sotto il mantello. Mi avvicinai di nuovo alla tua bara. Ti fissai a lungo. La testa libera, sgombra da ogni pensiero, tedio, lutto e preghiera. Presi commiato con poche parole appena mormorate: “Io sono Marte. Io sono la guerra.” “La mattina dopo ci furono i tuoi funerali. Che magnifica parata, Uguccione!” disse stranamente senza ironia Cangrande. I ricordi del principe allora si fecero ancora più nitidi. “Presenziai alla lunga cerimonia in tuo onore. La bara fu sigillata e posta nel sepolcro di Sant’Anastasia. Come s’era deciso… Sentii su di me il vostro sguardo…” disse voltandosi verso l’Alighieri. “I vostri occhi prendevano commiato da Uguccione e da ciò che egli aveva rappresentato, dalle lunghe, frustrate speranze di un esilio infinito e dal vostro passato, dalla vostra Firenze. Prendevate commiato dal vostro sublime dono… I miei pensieri invece erano lontani, correvano. Erano già a Soncino, presso la tomba di Ezzelino. Avevo ricevuto proprio quella mattina l’invito a recarmi là. In dicembre infatti vi si sarebbe tenuta un’assemblea dei signori e delle città fedeli a Federico d’Austria. Le possibilità di uscire da quell’assemblea come capitano generale della lega dei ghibellini non erano remote. C’era però molto da lavorare prima. Preparare gli alleati, indurli ad un voto favorevole a me. Molte lettere erano pronte a partire, gli ambasciatori erano già a cavallo. Lasciai la chiesa di Sant’Anastasia che il tuo sepolcro, Uguccione, non era ancora stato del tutto murato. Si sentiva già il fetore della morte. La vita era altrove. Io, Marte. Io, la guerra. Da allora non c’è stato altro che guerra.” 73


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GLI ALTRI (NOI, LA STORIA, LA POESIA E IL MITO)

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L’amico incomparabile A chi passa e va Per la sua morte Noi

19

IL CONTE

21 27 30

Pensieri Il primo incontro Prima della tempesta

45

IL PRINCIPE

47 53

Tempo per sé L’esule fiorentino, una notte

57

NOI E LA STORIA, SOLTANTO PER POCO

59

L’esilio

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ANCORA IL PRINCIPE

65 71 74 77 82 83 86

L’Inferno è suo Io sono la guerra Marte, ancora Marte, sempre Marte Il mio sorriso è come un colpo di spada Commiato La stella forte, la canicola Stanchezza, troppo di tutto


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ANCORA IL CONTE MA ANCHE IL PRINCIPE

93 99 100 112 115 119 121 133 136 140 142 144 146

Quella notte, terribile Verso l’ora sesta I nuovi signori di Verona Ricordi mantovani, molto personali Contro Passerino Bonacolsi Nei pressi del castello di Soave, d’inverno La notte fra il 15 e il 16 agosto 1328 Gli ultimi Bonacolsi Di fronte a Luigi Gonzaga La maledetta profezia La strada del ritorno Il rapporto Una lettera andata smarrita

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ANCORA GLI ALTRI, PER L’ULTIMA VOLTA

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Cronache fiorentine Cronache mantovane Cronache venete


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Questo libro che narra le ultime battaglie di Cangrande della Scala e la sua definitiva per le parole del conte Bailardino Nogarola viene stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia SAGI di Reggio Emilia per conto di Diabasis nel novembre dell’anno duemila nove


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