L'opera narrativa

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Giorgio Prodi è nato a Scandiano (Reggio Emilia) ed è mancato a Bologna nel 1987. Oncologo di fama internazionale, alla Università di Bologna è stato titolare della prima Cattedra di Oncologia e fondatore del primo Istituto universitario di Cancerologia in Italia. Ha fondato con alcuni colleghi nel 1984 e diretto fino al dicembre 1987 il Centro Interdipartimentale per la Ricerca sul Cancro dell’Università di Bologna. Ha fatto parte del Consiglio Superiore di Sanità, della Commissione Oncologica del Ministero della Pubblica Istruzione e consulente del Ministero per la Ricerca Scientifica e Tecnologica. Figura di straordinaria poliedricità, ha accompagnato alla sua attività medica e scientifica importanti studi di filosofia del linguaggio e di semiotica. Ed è stato, anche, un grande narratore. I tre interessi sono stati perseguiti separatamente, in totale e reciproca autonomia. L’Autore ha infatti avuto grande considerazione per l’aspetto tecnico-professionale, cioè per la specializzazione (con la implicita “presunzione” che si possa essere specializzati in più di una cosa). I legami tra i vari interessi ci sono, ovviamente, ma sono un prodotto della ricerca condotta, non un punto di partenza. Egli non ci teneva affatto ad essere il Cancerologo che scrive, o lo scrittore che dirige un laboratorio, o altro. Ha con forza desiderato avere pubblico e giudici specifici.

«L’immobilità è una condizione strana per un uomo il cui cuore batte senza posa, il cui respiro non può fermarsi: soprattutto strana per un ragazzo che proviene da una età di estrema inquietudine, nella quale il movimento in forma di fuoco rappresenta una necessità». Lazzaro. Il romanzo di un naturalista del Settecento

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GIORGIO PRODI

DIABASIS

AL BUON CORSIERO

GIORGIO PRODI

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L’OPERA NARRATIVA

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L’OPERA NARRATIVA

L’opera narrativa racchiude il labirintico apologo dei racconti che costituiscono Il neutrone borghese (1980), inquietante viaggio nel paradosso del reale, in cui la normalità è follia; il romanzo Lazzaro (1985), rappresentazione fantastica e intimistica degli anni giovanili del biologo settecentesco Lazzaro Spallanzani; le tre “favole moderne” che compongono Il cane di Pavlov (1987); i racconti Dopo il Mar Rosso (1990) e Le quattro fasi del giorno (1988); il romanzo Il profeta (1992), affresco visionario che celebra l’eroismo della marginalità, grazie alla forza dell’amore e della speranza.


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In copertina

Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 598 4

Š 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 info@diabasis.it www.diabasis.it


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L’opera narrativa 7 Letteratura come ipotesi e sperimentazione della realtà.

Itinerario narrativo di Giorgio Prodi Elvio Guagnini 19 IL NEUTRONE BORGHESE

Il neutrone borghese Colloquio del Rettore col suo calcolatore ferito a morte Come al professor Scala apparve Hegel Il nostro Ateneo ha un nuovo Istituto L’evoluzione degli animali a penna L’inverno è la più dolce stagione Narciso Il Faraone La scimmia Sogni e osservazioni sui sogni 157 IL CANE DI PAVLOV

I tre capelli d’oro del diavolo Il labirinto Il cane di Pavlov 223 LAZZARO. IL ROMANZO DI UN NATURALISTA DEL SETTECENTO

Prima parte Scandiano: primavera 1744 Seconda parte Scandiano: estate 1744 Terza parte Scandiano-Reggio Emilia: autunno 1744-estate 1747 Quarta parte Bologna: ottobre 1747-maggio 1749 335 LE QUATTRO FASI DEL GIORNO 355 DOPO IL MAR ROSSO

La Torre Dopo il Mar Rosso Il teatro 439 IL PROFETA


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Letteratura come ipotesi e sperimentazione della realtà. Itinerario narrativo di Giorgio Prodi Elvio Guagnini

Fare ricerca scientifica e avvertire la necessità del lavoro letterario. Quale la ragione? Complementarità, bisogno di compensazione, necessità di evasione, esigenza di esplorazione di altri linguaggi e orizzonti costruttivi? Non c’è una risposta univoca a queste domande. Dipende dagli autori. Non sono pochi quelli che lo fanno. Per esigenze e bisogni diversi, ai quali corrispondono differenti qualità espressive e comunicative. La galassia letteraria della nostra contemporaneità comprende stelle e componenti diverse, di varia qualità e grandezza. Il libro, i libri, la produzione di uno scrittore, esigono dal lettore e dal critico una ricerca di collocazione, una definizione di funzionalità e di presenza, una testimonianza della loro necessità, oltreché − s’intende − un giudizio di qualità. Nella determinazione della natura di opere come queste di Giorgio Prodi, è necessario rispettare la complessa formazione dello studioso e dello scrittore e − insieme − le componenti diverse che possono essere state alla base delle sue scelte; scelte di generi e di forme differenziate per le sue espressioni in settori diversi. Il rapporto tra scienza e letteratura è uno dei capitoli trasversali più complessi della letteratura italiana dagli esordi a oggi, dai primi secoli al Cinquecento al Settecento all’Ottocento alla contemporaneità. Un rapporto articolato che riguarda sia l’uso − da parte dei letterati − di temi scientifici o di tratti linguistici derivati da discipline scientifiche, sia l’utilizzazione − da parte di scienziati − di tecniche o strumenti della letteratura per sperimentare un colloquio con un pubblico più ampio o sfidare altre forme comunicative per la verifica dei confini dell’immaginario su temi scientifici. Dunque, una considerazione della letteratura come possibile terreno di divulgazione (o come luogo di sperimentazione di interazioni) ma anche come piano di un confronto tra potenzialità diverse di linguaggi. E una considerazione delle tematiche e delle ottiche scientifiche come possibili fonti di arricchimento e di allargamento degli orizzonti della letteratura e delle sue prospettive di analisi della realtà in direzioni nuove, originali, inedite. Penso, ad esempio, all’inci-


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sività del discorso sulla diversa natura della scienza e dell’arte ( pure sul terreno dei linguaggi) quale si ritrova nel confronto tra i due protagonisti (un fisico e uno scrittore) di Atlante occidentale (1985) di Daniele Del Giudice. L’opera narrativa di Giorgio Prodi si presta, in maniera eccezionale, a rilievi molto articolati relativamente all’incontro, al confronto, all’interazione, ai diversi tipi di relazione tra la cultura e la professionalità scientifica dell’autore e − da un altro lato − gli esiti della sua attività letteraria, che deve essere considerata non come un esercizio compensativo (come lo è per diversi scienziati che scrivono; per qualcuno, anche una forma di evasione) ma come una attività parallela di grande impegno e integrata, interagente con l’attività di ricerca. D’altra parte, la stessa bibliografia della sua opera ci mette di fronte a una catena di discipline frequentate da Prodi, e collegate tra loro, che vanno dalla biologia alla linguistica, dall’epistemologia alla semiotica, dalla logica all’estetica, dalla genetica alla patologia, dall’economia alla filosofia all’estetica. Una naturale convergenza di percorsi che si intersecano e si intrecciano naturalmente, di cui si avverte la presenza anche nella filigrana o, meglio, nel tessuto stesso delle pagine narrative. Pagine di taglio diverso ma indubbiamente segnate dalla natura di una immaginazione e di una scrittura che si pongono come al crocicchio, nei punti di intersezione di un pensare multilaterale. D’altra parte, lo stesso Prodi in un’intervista a Osvaldo Guerrieri (in «Tuttolibri», 19 aprile 1980) ha fatto precisazioni di grande chiarezza: «Per me scrivere non è evasione ma complemento. In me non ci sono conflitti. Le polemiche sulle due culture sono false polemiche, come è una falsificazione il concetto dell’interdisciplinarità. Non vi è nulla di più improduttivo del mettere insieme diverse competenze. Quello che conta, invece, è cercare quanto di comune esiste nelle varie discipline». Sarebbe difficile riassumere la vasta materia dei dieci racconti di Il neutrone borghese (il primo libro di narrativa pubblicato da Prodi nel 1980): una raccolta caratterizzata da una grande varietà di figure, temi, contesti, situazioni, registri e soluzioni di scrittura. È anche vero che l’aver scelto come racconto eponimo Il neutrone borghese, appunto, significava aver messo in primo piano una certa vena, o una certa inclinazione: non un «gusto capriccioso» da «scienziato in libera uscita», come qualcuno ha detto a proposito dei divertissement letterari di certi professionisti di discipline scientifiche, ma una ten-


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sione satirica, ironica (il neutrone, come particella borghese da smascherare, diventa oggetto di ricerca di un gruppo di Fisica Autocritico-Sociale, poi chiamato “Controfisica” e di un congresso al quale, oltre ai collettivi scientifici, partecipano anche rappresentanti di altre forze sociali “non corporative”). Sono racconti, quelli del Neutrone borghese, nei quali − variamente − la scienza, la dimensione della ricerca gnoseologica, la riflessione filosofica, costituiscono una linea di sostegno e di collegamento dell’immaginazione. Anche la letteratura − scriveva Prodi − costruisce ipotesi, benché gli strumenti siano diversi. Ed è interessante vedere come, per esempio, la deformazione, il grottesco, il paradosso, la caricatura realizzata attraverso la finzione narrativa, riescano a colpire alcuni obiettivi polemici considerati: per esempio, il fondamentalismo al quale possono portare programmi distorti di politicizzazione della scienza; la massificazione male organizzata dell’istruzione superiore e della ricerca attraverso tabelle, luoghi comuni, slogan privi di significato, giochi delle parti, decreti insensati: un eccesso di informatizzazione tale da annullare responsabilità e partecipazione; l’astrazione teorica che rischia di portare il pensiero fuori da qualsiasi realtà; la compressione della ricerca autentica da parte della burocrazia e dei ceppi messi a ogni iniziativa. Prodi − anche sulla base di situazioni, figure, comportamenti osservati nel corso della propria esperienza − ha sottolineato (in particolare nei primi cinque racconti) attraverso invenzioni paradossali e caricature, tratti comici e grotteschi, talvolta malinconici (sempre frutto di gusto misura e intelligenza), i lati amari e ridicoli di un mondo da più punti di vista dissestato come quello della ricerca. Cogliendone, con ironia ma anche con un sottofondo di risentimento civile, gli aspetti negativi che provocano insieme riso e sofferenza in chi investe la propria esistenza per migliorarne la situazione. A essere oggetto di osservazione di Prodi, in questi primi racconti, sono anche altri aspetti della vita pubblica e privata, tra i quali l’atteggiamento di certe figure pubbliche, in apparenza impegnate nelle loro funzioni pubbliche (in realtà distratte annoiate disinteressate), o la difficoltà di perseguire obiettivi di giustizia e di verità in un mondo burocratizzato e saldamente in mano a caste politiche (non solo conservatrici) avverse al rinnovamento. Mentre richiami al buon senso e alla naturalezza in materia di rapporti tra i sessi si allineano a considerazioni eleganti sulla storia degli strumenti musicali “a penna”, sul senso dei disguidi comportamentali, e − ancora − a riflessioni sul sogno, sull’inconoscibilità e indecifrabilità del nostro interno, sulla pena e


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sulle difficoltà della conoscenza, sui rapporti tra l’oscurità dello spazio interiore e la realtà esterna. Su una linea affine, forse più complessa e densa di spessori esistenziali, si muovono i tre racconti di Il cane di Pavlov (1987). Dove il primo (I tre capelli d’oro del diavolo) ha una struttura di favola il cui incanto consiste in una ricognizione del senso della realtà della vita: l’inferno come luogo di silenzio e di perdita, di disperazione e di angoscia; il purgatorio come «regno dell’uomo […] regno delle cose né troppo calde né troppo fredde, né troppo alte né troppo basse, né troppo veloci né troppo lente: […] regno delle cose paurose ma non troppo paurose, liete ma non troppo liete», dove «ogni cosa si muove e si trasforma, e dal movimento si produce, seppur incerta, la vita»; il paradiso, come luogo dove l’«immobilità» si concilia «armoniosamente col cambiamento», dove ha «il suo appagamento ogni insaziabilità». Dunque, un percorso naturale dalla giovinezza alla vecchiaia, la “visione” di un paradigma, una presa d’atto della struttura stessa dell’esistenza. Del resto, anche la vicenda del Labirinto, il secondo racconto, rappresenta una catena comportamentale dominata dalla necessità e caratterizzata dall’approdo a una maturità intesa come «accettazione», sollecitata dalla volontà di sconfiggere l’enigma e l’inganno del labirinto attraverso l’approdo di Teseo ad Arianna, l’«antiminotauro», «certezza di vita» che deve sconfiggere la «certezza di morte»: una esplorazione di sé per raggiungere il «pensiero di Arianna», dove le «cose intrecciate diventano rettilinee, anche la passione amorosa può diventare pensiero e contrastare il caso»; la conquista di un luogo definitivo dove permanere, amare, escludere il pericolo. Al marcato impianto allegorico del Labirinto fa da controcanto l’ironia sottile e delicata del racconto eponimo Il cane di Pavlov, dove è il cane − sul quale si svolge la ricerca − a raccontare l’uomo che lo analizza, a proporsi come interlocutore di Pavlov (del quale mette in discussione i punti di vista), a sentirsi come quello che è capace di condizionare la ricerca, muovendo critiche, discutendo concetti filosofici nodali, contrapponendo la poesia (come senso del mistero, ma anche come forma di maggiore concretezza) ai «brogliacci» dello sperimentatore, svolgendo dotte considerazioni sul linguaggio, sull’estetica, sulla metafora. Con interessanti considerazioni conclusive sul rapporto tra scienza ed estetica e sul disinteresse della civiltà contemporanea nei confronti della scienza e della poesia, a vantaggio della tecnica: «[…] ai


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treni e agli altiforni pensano meglio i ragionieri. A loro basta qualche ingegnere messo alla stanga. Poeti e scienziati ne servono pochi, e per ornamento. Che ci sia gente innamorata del pensiero, a loro non importa proprio». Qualcosa di simile a quanto Prodi aveva dichiarato nella citata intervista a «Tuttolibri»: «La scienza intesa come tecnologia non mi interessa molto. Quando parlo di scienza, parlo di una scienza concepita a modo mio, dove prevale l’attività conoscitiva, dove quel che conta è la costruzione mentale. Esiste una logica continua che dalle cose ha prodotto sistemi viventi. La scienza che concepisco è quella che crea continuità». Esattamente il senso della ricerca che sta dietro a tante proposizioni di molte sue pagine narrative. Lazzaro (1985) è − nel quadro della narrativa di Giorgio Prodi − un libro di impianto e tenuta straordinari dove alla ferma architettura delle parti (che segue diverse stagioni della formazione giovanile di Lazzaro Spallanzani, dal 1744 al 1749), corrisponde una notevole piacevolezza di scrittura. Una scrittura apparentemente semplice (e gradevole, per il lettore) che si collega, però, a una complessa determinazione nel mettere a fuoco interessi e aspirazioni del giovane studente e studioso in fase di formazione. Qualche critico ha definito questo libro come una biografia mirata su un limitato periodo di vita del biografato; qualche altro, come una biografia con risvolti autobiografici. Altri, ancora, hanno sottolineato la natura di Lazzaro come romanzo, pure con risvolti di avventura. Tutto vero. E credo che il fascino di quest’opera, a suo modo straordinaria, nasca proprio dalla seduzione esercitata dall’intreccio di generi e di percorsi di ricerca che si avverte fin dalle prime pagine, così incisive, dove − nel paesaggio di Scandiano, luogo natale di Lazzaro Spallanzani (ma anche di Giorgio Prodi, oltre che del Boiardo) − il protagonista avverte le onde di luce e di verde che lo raggiungono dal paesaggio e sente quella esperienza come una nuova nascita (è primavera) a fronte di una natura a più facce che avrebbe bisogno − per essere letta − da una grammatica particolare. «Nell’età più matura − scrive Prodi − ricordiamo questi momenti, ma sono lontanissimi. Infatti con il tempo tale abilità a scomporre la realtà nei suoi vari volti, anziché aumentare, piuttosto si ottunde. La sua massima acutezza la ricordiamo proprio nell’età in cui di solito si nasce, che è sui quindici anni: l’età di Lazzaro, né più né meno. In seguito i volti che stanno dietro le cose si dileguano, finiscono per perdersi sullo sfondo della memoria: ma ci rimane la strana sensazione che siano ancora a portata di mano e che li potremmo ve-


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dere, se conservassimo l’acutezza dei sensi che ce li ha resi manifesti una volta». Da questa ricerca di “lettura” del paesaggio «come un libro, da sinistra a destra, poi in senso contrario», nasce − in Lazzaro − la volontà di diventare uno studioso della natura, che si manifesta presto nella raccolta di reperti, nella loro classificazione, nelle escursioni solitarie (talvolta con amici: Lazzaro − ossimoricamente − è un solitario socievole), nella passione fisica per i sassi e per i fatti e i corpi della terra che lo accomuna al Vallisneri, amico del padre, che insegna a Padova e che viene spesso a Scandiano, luogo amato. Lazzaro è un libro che narra l’urgenza di una passione che − alla fine − avrà la meglio su altre scelte di studio imposte dalla famiglia; di una passione che potrà, più tardi, coniugarsi con la conservazione dello stato ecclesiastico e che si era mantenuta forte anche attraverso (o in seguito a) l’avventura conseguente alla sperimentazione − da parte di Lazzaro − della vita, delle amicizie, dei rapporti sentimentali e amorosi. Lazzaro è un libro che mette a fuoco le componenti di una personalità nella stagione cruciale del passaggio dall’adolescenza alla maturità: la personalità di un giovane che da un lato appare − ai suoi primi insegnanti − attento e rigoroso, disciplinato e docile, dall’altro rivela, dentro, un fuoco, un entusiasmo controllato e lucido, privo di superbia, appassionato di cose filosofiche, di storia naturale, ammiratore della poesia vera (non certo di quella d’occasione), anche quella che nasce dall’ammirazione della natura. Un giovane amante della libertà, «che vuol dire avere con essa un rapporto febbrile molto privato, che nessuno deve scorgere, perché accade nella penombra interna». Le pagine di Prodi seguono le manifestazioni di una curiosità senza limiti, aperta a esperienze e sperimentazioni, operazioni di smontaggio e dissezione dei reperti, in un giovane curioso del proprio futuro ma con cautela, astuto e guardingo, eccitato dal mistero e dai richiami della natura e dell’interiorità, «critico» e, insieme, «archivista» dei fatti della propria vita, osservatore acuto e malinconico, meravigliato, trepido, instancabile, metodico. E Prodi entra nei meccanismi psicologici del giovane alle prese con le avventure della vita, del pensiero, dei rapporti con gli altri, nelle anse delle riflessioni di quel giovane taciturno, docile alla disciplina domestica e degli studi ma anche infuocato dentro di sé, inquieto, profondamente serio ma pure partecipe di esperienze e turbamenti propri della sua età, disposto ad accettare le regole ma anche pronto a esercitare la propria libertà. La storia della formazione di Lazzaro attraverso la vita domestica e la prima scuola a Scandiano, il collegio


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dei Gesuiti a Reggio, l’Università a Bologna per gli studi giuridici, fino alla scelta definitiva degli studi di filosofia naturale, consigliati da Laura Bassi, Veratti e Vallisneri, è accompagnata da una fine esplorazione psicologica e fisica: «Era un giovanotto diritto e ben piantato, molto a suo agio, con un naso sottile e piuttosto curvo, lineamenti marcati e occhi fissi e scuri», di «singolare… incrocio tra la naturale eleganza del portamento e una certa selvatichezza». Sono anche pagine di precisa ricostruzione di ambienti e di figure pubbliche e private, di quegli anni, istituzioni, pratiche e rituali. Dove la messa a fuoco del contesto coincide con quella di una interiorità inquieta e difficile proprio per la serietà di una vocazione che si fa strada non attraverso la rinuncia e l’allineamento, né attraverso un vano ribellismo, ma attraverso la crisi e il dolore che necessariamente accompagnano le scelte autentiche, meditate e sofferte. Con notazioni di grande finezza e assolutamente illuminanti di una personalità: «[…] il suo stato d’animo era di uno che è in debito. Aveva fatto quanto doveva per saldare il conto, senza mai conoscere quale registro portasse scritti i bilanci. Il debito l’aveva, in realtà, con se stesso […]». Solo una grande e profonda esperienza di vita può consentire a uno scrittore di approdare a rilievi così profondi e di grande sintesi, morale e psicologica. I racconti di Dopo il Mar Rosso (1990) sono tra i testi più ardui (e, anche per ciò, di grande interesse) di Giorgio Prodi. Sono testi di carattere scopertamente allegorico, di taglio metafisico, ricchi di proposte simboliche che si devono interpretare senza forzature. Si tratta di tre racconti: La Torre, Dopo il Mar Rosso, Il Teatro. Il primo, più esteso, quasi il traliccio di un romanzo; gli altri due, più brevi. Tutti e tre, in qualche modo, rientrano nel modello del conte philosophique, anche se a suggestioni più lontane nel tempo si aggiungono quelle di una narrativa europea più recente ricca di spessori di tal genere da Kafka a Borges. Certo, poi, vi sono trait d’union caratteristici della narrativa prodiana (come il rapporto − attraverso la memoria − tra passato, presente e futuro, e tra dimensioni diverse dell’essere). E dove, in ogni caso, ciò che è di assoluta originalità è la contestualizzazione di tali temi. Come quello della memoria, della tradizione che si intende fondare attraverso simboli e strutture memoriali che (nel progetto della Torre) non dovrebbero mai concludersi, che dovrebbero rimanere una freccia verso il futuro alla quale l’adesione dovrebbe essere di totale consentaneità e dedi-


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zione, frutto di uno slancio che guarda avanti, al dopo, e possiede il prima. Finché dura l’entusiasmo, finché ci si riconosce in una idea comune, finché non sopravvengono gli egoismi, i conteggi del dare e dell’avere, le ragioni del calcolo privato e di potere, la violenza… Il racconto della costruzione della torre − attraverso i contributi dei vari sovrintendenti che continuano − a distanza e a staffetta − la compilazione di un quaderno di resoconti della ideazione, costruzione e declino della torre − è una suggestiva ricognizione sulla dinamica della crescita e della condivisione di idee e simboli e sulla loro possibile mortificazione e fine. Sono pagine di grande rilevanza, queste di Prodi, non solo per l’architettura del racconto (e per la sottolineatura del valore politico, civile, morale, privato, della memoria e della tradizione) ma anche per la qualità letteraria della rappresentazione dei paesaggi (diversi nelle stagioni e nelle epoche) nei quali la torre si ritrova a crescere e poi a essere interrotta, e per le riflessioni esistenziali che ne conseguono: «Le nuvole arrivano da ogni parte, a notte, e sono così frequenti che i mattoni ne sono forse corrosi. La torre avverte la loro mutevolezza. Esse cambiano continuamente forma, e si rimane a guardarle senza noia, perché appunto compongono nuove figure, anche un cammello a volte, che è una nuvola strana. Noi, da ragazzi, guardiamo le nuvole lungamente, perché è proprio dei giovani sia cambiare forma che guardare nuove forme. Poi ce ne stanchiamo, diventando adulti, ed anche le nuvole si stancano di noi». Un originale prospezione del percorso verso una possibile terra promessa, verso Dio, nel rifiuto delle false deità, egoisticamente costruite, è Dopo il Mar Rosso: una ricerca intensa e asciutta (nella complessità simbolica e − più latamente − allegorica) sulla solitudine, sul valore dei modelli, sui rapporti gerarchico-religiosi anche nel gioco del potere, sul rapporto tra memoria e autorità, sull’amore, sulla giustizia, sull’etica del ricordo, sulla conoscenza, sugli dèi di comodo (e sulle mistificazione dell’etica), sulla formazione delle caste, sulla ricerca di Dio attraverso le metamorfosi fisiche e psicologiche. E, così, pure il terzo racconto, Il teatro, ci mette di fronte a una articolata rappresentazione del mondo come rappresentazione, come messa in scena complessa e totale della vita, in forme diverse e in scenari vari e infiniti. Una grande rappresentazione del mondo seguìta da un occhio (o forse due) quasi invisibile, che penetra la dimensione interna della realtà così come quella esterna (o quelle esterne): fuori dal teatro, in altri simulacri di teatri. Un gioco complesso e multiplo di vita e rappresentazioni, presente e altre realtà tem-


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porali, realtà civile e mondo della natura, mondo dei vivi e realtà “altre”: un intrico complesso che appartiene alla veglia, al sonno, al sogno, all’immaginazione, al mistero. E che qui trova spazio di rappresentazione in forme preziose o − viceversa − allucinate, oniriche, angosciose, alla Bosch. Del resto, anche il racconto lungo Le quattro fasi del giorno (1990) propone una tematica affine a quella di alcuni racconti precedenti: quella del rapporto tra dimensioni diverse della realtà. Quella della vita vissuta, contemplata da un protagonista che − uscito di casa − si trova davanti a una visione del mondo uguale a quella degli altri giorni, «ma non esattamente», poiché è morto (come apprende da un avviso funebre). E prende atto degli effetti di una contemplazione della realtà da questo inedito punto di vista, con prospettive cambiate, senza più inquietudini, con misteri permanenti di una realtà che però, ora, viene percepita con altri sensi, con nuovi rapporti rispetto alle soglie materiali della realtà che ora non esistono più con delusioni e nuove sensazioni sul piano della percezione di questa dimensione inedita, con giochi di nostalgie, ricordi, desideri, rievocazioni di fatti personali, aspirazioni a essere ricordato e timori di essere dimenticato (una seconda morte), ma anche con la paura di suscitare rimpianti dolorosi: «“Tu mi penserai, pensava, dovunque tu sia, qualunque età tu abbia” e gli venne il pensiero che la sua vita residua (chiamiamola così, qualunque fosse) consistesse per intero nell’essere ricordato da suo figlio e da sua moglie. Un amore grandissimo gli sorse dentro, anche se il termine poco si adattava al suo nuovo stato e sarebbe stata preferibile un’altra parola, che non trovava. Il suo amore non aveva ombra di desolazione e neppure di desiderio: era tutto intero e completo, senza alcun residuo, senza niente di quanto lo perseguita in vita, cioè il senso della lotta che deve fare per esistere, per apparire di una qualche importanza, per dimostrare che chi lo prova è vivo». Le tappe del giorno rappresentano la presa di coscienza che la vita è fatta di tante scatole, di tante vite successive, di tappe diverse, di una tappa finale con l’attesa di chiarire misteri, e di procedere a verifiche di misteri. Un sogno fatto con la consolazione degli affetti delle persone care. E poi… Prodi rivela qualità particolari nel percepire e rendere atmosfere sospese, dolorose, còlte in sfumature e tappe successive, intense nella loro enigmaticità. È troppo facile dire, di un romanzo come Il profeta (pubblicato postumo nel 1992), che si tratta di un libro che ha il carattere del messaggio testamen-


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tario. E questo perché affronta temi (anche la malattia, la morte, il rapporto tra professione e senso della vita) che contribuiscono a dargli una fisionomia del genere. E perché, anche, si propone di affrontare − ambiziosamente − problematiche di non poco conto: dal ruolo della ricerca scientifica in rapporto al corso dell’esistenza individuale e sociale, al senso del sacro pure nelle sue possibili identificazioni (ortodosse o meno) e mistificazioni o autoinvestiture, alle falsificazioni strumentali della verità, ai compromessi come modo per uscire da situazioni difficili e per superare impasses diversi insostenibili. Il profeta è un testo narrativo dalla macchina complessa, ancor più delle precedenti, ricco di tratti grotteschi e surreali, a partire dall’ambientazione in un paese dove «il questore della prima provincia della terza regione settentrionale» è − romanamente − Marco Tullio Rufo, figlio di Servio Tullio che era stato «questore delle provincie meridionali», fratello di Sesto Rufo, succeduto al padre nello stesso incarico. E dove la taglia per la cattura di un mostro è pagata in sesterzi. Vi si narrano due vicende parallele che finiscono poi per intrecciarsi: quella di un sedicente Gesù Cristo, al quale viene consigliato di farsi chiamare − più modestamente − “Nazareno” o “il Nazareno”, già tecnico di una Micromeccanica con moglie cecoslovacca e due figli, uomo un po’ strano ma probo di idee e di sentimenti (che assurge al ruolo di profeta con largo seguito popolare; e predica che bisogna pagare le tasse); e quella di un professore di discipline scientifiche, Trequattordici (chiamato più familiarmente, nel racconto, T.), oncologo, impegnato in ricerche sulla cellula neoplastica snobbate dalle pubbliche autorità, al quale il Nazareno si presenta con suggerimenti per la ricerca. I casi della vita dei due si intrecciano strettamente, al punto da condividere moglie e figli, e da chiudere la partita della vita terrena nello stesso tempo. Due personaggi con due missioni diverse, con differenti concezioni filosofiche e visioni del mondo, con teste di diversa costituzione anche dal punto di vista strutturale: due «marginali» («coloro che si interessano di cose che non interessano quasi a nessuno, e vivono ai margini della prevalenza, che è costituita dal mangiare, dal bere e dal ripetere gesti»), quasi due aspetti complementari di marginalità, che poco interessano al Potere se non quando si tratta di strumentalizzarli ai propri fini: «Si potrebbe dire che il professor T. è religioso in ogni aspetto del suo essere, ma gli manca Dio (non è mancanza da poco), Nazareno ha un Dio vigoroso di cui è il profeta, ha un rapporto con la realtà più diretto, quasi da cannibale, e tutto sommato non è che Dio gli serva a molto. Chi ha il pane non ha i denti. Sono


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molti i profeti di Dio cui interessa più la spada terrena che la giustizia celeste». Sicché Nazareno e Trequattordici usciranno insieme dalla vita: l’uno deluso dallo sfruttamento di chi vorrebbe strumentalizzare la sua popolarità sul piano burocratico e su quello economico, l’altro (il prof. T.) sconfitto dalla stessa malattia sulla quale sta conducendo le proprie ricerche, con il conforto della vita che continua nella memoria e nell’amore, della vita che deve ricominciare e riprendere nei più giovani rimasti a vivere nel mondo terreno. Un libro complesso, si diceva, pieno di svolte, digressioni, riflessioni da romanzo-saggio, pause “filosofiche”. Realizzato in una prosa ricca di tasselli o segmenti aforismatici di grande incisività: «Di sicuro l’imbecillità in spoglie austere e filosofiche è più comune di quanto si creda, e ciò costituisce un vantaggio solo per l’interessato e il suo osservatore, indotto all’ottimismo. Ma ciò che non fa ordinariamente l’osservatore superficiale arrendevole, occorre faccia chi scrive i casi umani, costretto ad approfondire, per la sua stessa mania che lo caratterizza, anche a costo di profondi sbagli». Un libro ricco di notazioni satiriche anche su temi già incontrati in opere precedenti: per esempio, sui pubblici poteri ai quali la ricerca interessa più per parlarne che per farla realizzare effettivamente; o a proposito della memorizzazione informatica dei dati nella quale spesso si perdono di vista obiettivi reali per acquisire dati magari di più scarsa rilevanza; o, ancora, a proposito dell’esigenza sentita dalle autorità pubbliche di assicurare alla giustizia un colpevole quale che sia (a costo di inventarselo). Altre notazioni riguardano, poi, nel Profeta, il «morbo letterario» che non perdona chi comincia a scrivere e difficilmente riesce a smettere; il peso degli interessi materiali che tende a strumentalizzare anche le cose sacre; l’ipocrisia diffusa; la prosa burocraticopolitica entrata in uso in una pratica di scrittura certo di scarsa utilità per lo storico («Portò avanti il discorso di quella che è la posizione collettiva degli operatori dello spirito»). Una prosa ricca di inflessioni di vario genere, quella del Profeta, contrassegnata − come in altri testi dello stesso autore − da splendidi squarci paesistici (soprattutto cieli in movimento, quasi una griffe di Giorgio Prodi) e da un’oscillazione di registri dal grottesco al comico, dalla riflessione filosofica alla satira, dall’osservazione tagliente di costume al tono appassionato e partecipato di una scrittura che rivela profondi spessori sentimentali ed etici.


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IL NEUTRONE BORGHESE


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Il neutrone borghese

C’era un tempo in cui il neutrone era nascosto dietro la sua neutralità. Il suo volto era coperto da una maschera di polvere. La nuova era ha avuto inizio con l’assemblea del nostro Dipartimento di Fisica terminata il 19 scorso: in quell’assemblea il neutrone è stato smascherato. Ciò accadrà per tutte le altre particelle, una dopo l’altra, perché è fatale che la scienza alienata si riappropri dei suoi oggetti. La scoperta del ruolo essenzialmente borghese del neutrone ha aperto una strada nuova alle ricerche fisiche: fenomeni analoghi accadranno nella biochimica, nella biologia molecolare, nella genetica, via via fino alla neurofisiologia e alla psicologia. Nei problemi di fondo i compagni sociologi sono stati battuti clamorosamente sul tempo. Hanno dimostrato ancora una volta di essere imprecisi e demagogici. I sociologi sono dei confusionari, questa è la verità. La fisica ha ripreso il bastone del comando. Dunque, di questa assemblea deve essere dato un resoconto minuzioso. Dividiamo tale cronaca in tre parti. La fase che potremmo chiamare dei presentimenti. La fase preparatoria. L’assemblea vera e propria. Nel nostro Istituto, che è, più precisamente, un Dipartimento, e che chiamiamo Istituto Dipartimentale Policattedra, da dieci anni rifiutiamo la ricerca come asservimento alla pretesa oggettività del reale. Direi che questo è un atto acquisito. Non vale neanche la pena di parlarne. Vale la pena invece di ricordare le notti passate in assemblea nelle aule e nei laboratori in anni lontani: esse sono state più educative della meccanica ondulatoria. Ci siamo riappropriati allora della dimensione sociale della ricerca. Non è fuori tema ricordare quei tempi, perché costituiscono le radici di tutto quanto è avvenuto dopo, soprattutto dell’assemblea conclusasi il 19 scorso. Da allora è scomparsa la ricerca come pretesa oggettività: anzi, per essere più precisi, è scomparsa la ricerca in generale. È difficile condurre le rivoluzioni a metà.


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La sospensione del lavoro sperimentale che noi realizzammo in quegli anni fu allo stesso tempo causa ed effetto della riproposizione di un’attività teorica nuova. Fino a quel momento la sperimentazione ci aveva distolti dalla vera radice dei problemi, onde il detto: la sperimentazione è l’oppio dei fisici. Sperimentazione e didattica erano strettamente legate, mediante modelli di asservimento al dominio, a strutture competitive che ci disgregavano e creavano tra noi spaccature e rivalità. Con l’abolizione della docenza e la conquista della “carriera a ciclo chiuso” tutto questo è caduto. Ci siamo trovati affratellati, senza più che carriera o lavoro ci dividessero. Fu in quel periodo fervido che portammo la fisica nelle fabbriche e nei quartieri: il ricordo sempre più vago che ne avevamo conferiva alla nostra divulgazione una maggiore incisività, una più consapevole concretezza. Scoprimmo il volto sociale della fisica. È con orgoglio che ricordo il nostro Istituto Dipartimentale Policattedra, forte di centinaia di ricercatori e di tecnici, completamente vuoto. Da decine e decine di articoli pubblicati sulle più competitive e alienanti riviste americane, si passò a qualche nota qua e là su bollettini italiani. Chi voleva lavorare poteva farlo, nessuno lo impediva, ma l’ambiente era talmente inadatto a tali esibizionismi che costoro preferivano lavorare al CERN, o a Dubna, o in altri cimiteri di elefanti. Ricordo con piacere quel tempo. Eravamo tutti fuori, in assemblee, occupazioni, fabbriche, vagoni di seconda classe, dormitori, a piccoli gruppi. Tutti assieme ci si vedeva solo, e di sfuggita, a fine mese, al Banco del Monte e del Mutuo Soccorso. Una vera diaspora. Si passava davanti al Dipartimento, si vedevano alcune finestre aperte, di sera alcune luci accese. Erano le vecchie cariatidi: la storia non aveva insegnato loro nulla. Dopo un certo tempo il popolo aveva imparato la nostra fisica e noi avevamo imparato la saggezza del popolo. Ai quartieri ci fecero capire che la collaborazione aveva dato i suoi frutti. In fabbrica ogni tanto ci mettevano in mano cacciaviti e trapani, ed era chiaro che a questo modo veniva meno la nostra specificità di ricercatori fisici. Rifluimmo a poco a poco sul nostro Istituto Dipartimentale Policattedra. Come molti di voi sanno, tale Istituto ha lunghi corridoi, soffitti molto alti, ed una architettura che è appena appena sopportabile se uno è molto occupato. Trovandoci a girare per i corridoi senza uno scopo fisso, quella architettura ci mandava fuori dai gangheri. Mai sentimmo con più forza la


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nostra condizione alienata di ricercatori costretti a lavorare in un contesto borghese. Qualcuno era arrivato al soliloquio (il che è indice di dissociazione). Si domandava: “Siamo noi fisici?” Continuavano ad arrivare finanziamenti, apparecchiature, stipendi. Si sa come vanno queste cose. L’apparato statale è così inerte che non segue l’andamento della storia. Noi vivevamo con un piede nel passato e uno nel futuro. Qualcuno riprese a giocherellare con camere a bolle e spettrografi gamma, i teorici riprovarono le tabelline accorgendosi di ricordare anche le equazioni di Schrödinger. Ci si stava rimettendo sulla via vecchia. Era l’inizio dello sfacelo. Ogni tanto venivano ospiti sgraditi: da Ginevra qualcuno riferiva la scoperta di qualche muone o qualche pione, dalla sezione comunista qualche altro metteva pulci nell’orecchio sui miliardi che l’Istituto Dipartimentale Policattedra costava ai lavoratori. Fu chiaro che così non si poteva andare avanti. Scartata ogni attività tesa al dominio e alla violenza dell’uomo sull’uomo, rimanevano solo la Fisica Autocritica e la Fisica Sociale. Fuori della nostra esperienza di quartiere, dovevamo riproporci su nuove basi i fondamenti della nostra disciplina, smascherandone il fondo parcellizzato e alienante. Occorreva impostare una nuova attività teorica: perciò anche i fisici sperimentali dovevano trasformarsi in fisici teorici. Ma quest’attività era anche incidente sulla prassi, sulla condizione umana, sull’emancipazione dei ruoli subalterni: quindi anche i fisici teorici dovevano diventare sperimentali. Si trattava di mettere in atto una profonda ridiscussione di tutti i ruoli, che si sarebbe ripercossa sul vissuto di ognuno e sulla ristrutturazione della disciplina come momento di riappropriazione del sociale. Furono mesi di inenarrabili sacrifici. Dovevano cadere le ultime barriere sopravvissute alla diaspora nelle fabbriche, nei quartieri, nei dormitori, nei vagoni di seconda classe. Il cambiamento doveva essere radicale. Era necessaria una nuova alleanza con le forze sociali. Quella tra docenti democratici e studenti democratici era troppo ristretta e corporativa. Furono cooptati due vigili urbani, un impiegato del catasto, alcune casalinghe, una femminista, l’aggiunto del sindaco, uno studente di Comunione e Liberazione e dodici studenti di legge: essi rappresentavano la domanda sociale. Difficoltà vennero da parte degli psicanalisti, che volevano entrare a tutti i costi. Noi non eravamo pregiudizionalmente contrari, ma ponemmo come condizione che entrassero due freudiani e uno junghiano. Non si misero d’accordo, e non penso che fu


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un gran male. Meno dibattuta fu la questione dell’ingresso dei rappresentanti di ordini religiosi, ordini professionali, sindacati, compagnie di assicurazione, ferrovie dello stato, società autori ed editori. Erano tutte strutture vecchie, non rappresentavano veramente nulla. Si ammise soltanto qualche osservatore senza diritto di voto (come il ragionier Pistrigoni, mio amico). Non è vero che ci siano state difficoltà terminologiche o concettuali. I lavori sono iniziati speditamente. Fin dalla prima riunione si è capito che si era ad una svolta decisiva della Fisica. Dopo la fase della diaspora, si stava recuperando anche la dimensione assembleare, per un certo tempo scaduta. Il mio chiodo fisso era che si dovesse trovare un preciso punto di partenza. La critica radicale deve cominciare da un problema, da un caso. Inoltre deve cominciare da un fatto sociale. L’esercizio della Fisica Critico-Sociale doveva iniziare in modo esemplare, con una situazione di totale coinvolgimento delle forze interessate. Da una parte noi fisici con i nostri amici (la Società, l’Uomo che come forma viva penetra il naturale), dall’altro una “cosa” da sottoporre a giudizio. Doveva essere un primo grande processo. Dovevamo costruire un processo. Ma quale? A che cosa? A tutto, certamente. La nostra alienazione era tale che si poteva cominciare da qualsiasi cosa. Ma proprio per questo la scelta diventava difficile, quasi decisiva. Cominciare col piede sbagliato voleva dire rovinare tutto, significava il dominio della fisica vecchia, il fallimento della nostra lucidità, lo scacco del sapere critico. La nostra alienazione si poteva tagliare col coltello, tanto era spessa e grondante e lardacea. Bene. Fu a quel punto che il mio pensiero ronzante si cominciò a concentrare sul neutrone. Dapprima con circoli ampi, elusivi, inconsapevoli come quelli di un’ape. Ci doveva essere qualcosa, se il mio pensiero ronzante girava in circoli quasi concentrici. Andava e veniva, non proprio in circoli ma statisticamente erano circoli, che dovevano dunque avere un centro, ed in questo centro doveva esserci qualcosa. Bene, ronza e ronza, al centro c’era proprio lui, il neutrone. Si sa che il processo della scoperta è un fenomeno quasi insondabile. Köstler dice che la scintilla scatta quando due domini concettuali si intersecano, e proprio nel momento in cui si intersecano. Io sono piuttosto portato a vedere la scoperta come giacente su di un piano, in cui noi ci muoviamo con mo-


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vimenti prima casuali, poi a poco a poco più ristretti, ed è in questo momento che sentiamo la presenza della cosa. È la cosa (o l’idea) che ci prende dall’esterno, ci introduce nel suo campo di forze, ci cattura. Quando noi vediamo la cosa che ci cattura, questa è la scoperta, l’attimo della scoperta. Così è stato col neutrone. Ho capito che si doveva cominciare da lui. Solo dopo ho capito il perché. Così è infatti l’intuizione: si giustifica a posteriori. È come il pistolero che spara prima di avere visto il bersaglio: lo scopre solo a posteriori, come nemico-cadavere. Le ragioni della scelta, dopo, apparvero fin troppe: il carattere ambiguo della particella, la sua ambivalenza e mancanza di ogni carica, il suo ibrido rapporto con la velocità, ed altre cose ancora che non sto ad elencare. Inoltre il modo in cui era stato messo assieme e sviluppato in forma credibile, una mescolanza inverosimile di formalismo tedesco, di empirismo anglosassone, di improvvisazione italiana, di scientismo cosmopolita ebreo. Era chiaramente una particella borghese. Si trattava di smascherarla. Il primo atto della Fisica Autocritico-Sociale (quella che venne chiamata in seguito “Controfisica”) doveva essere il giudizio sul neutrone. L’ altro termine della questione ne derivava automaticamente. Dato l’imputato, si costruiva conformemente la corte giudicante. Lo sforzo organizzativo per l’Assemblea finale fu estremamente meticoloso. Molti collettivi di altri dipartimenti aderirono e costituirono gruppi di studio. Il lavoro assembleare fu diviso in sezioni, e furono stabilite relazioni e comunicazioni a tema libero. Il nostro antico Ateneo esercita ancora un suo fascino, e il prestigio dell’Istituto Dipartimentale Policattedra tornava a splendere di luce propria. I temi delle varie sezioni del Congresso furono così stabiliti: 1) La falsa neutralità del neutrone e la responsabilità della scienza. 2) Neutrone, neutrino e complesso di Edipo. 3) Socializzazione del neutrone a livello nucleare: per una rieducazione del neutrone nel suo proprio dominio di appartenenza. 4) È il neutrone recuperabile? Ruolo e responsabilità della psichiatria democratica. 5) Neutrone e parcellizzazione del sapere. 6) Il neutrone e il giovane Marx.


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Per ogni sezione fu nominato un coordinatore. Furono, in estenuanti sedute, fissati i regolamenti per le votazioni. Nessuna decisione sarebbe stata ritenuta valida se non a maggioranza assoluta. Su questo punto sono del tutto intransigente, come sempre: quando ero in Azione Cattolica mi sono sempre battuto perché all’inizio di ogni anno associativo ci si pronunciasse sull’esistenza di Dio a maggioranza assoluta, senza infingimenti o scappatoie. La ricerca non si può basare su dati aleatori, su maggioranze semplici, magari su alleanze dell’ultimo momento o su giochi di corridoio. La verità assembleare deve scaturire vividamente dal corpo luminoso dell’Assemblea. Deve, per così dire, assurgere al cielo della scienza per forza propria, limpida e leggera. Il cammino scientifico ha una sua rigida moralità da conservare: solo a questo modo la scienza supera se stessa e il proprio tempo. Fin dalle prime ore il verdetto emerse incontrovertibile dal fumo. Il palazzo dello sport era gremito. Lo sforzo organizzativo era stato enorme. Ne era valsa la pena? Certo che ne era valsa la pena. I venditori di panini e gli indiani metropolitani avevano sotto i loro occhi il primo atto di ricerca totale, di sperimentazione fisico-psico-sociale, la prima esperienza integrata nel complesso e globale laboratorio dell’umanità. I tentativi di difesa apparvero subito un fiasco. Il neutrone ne uscì a dir poco ridicolizzato. Un professore col cravattino e la pipa, di chiara imitazione anglosassone, esordì con inflessioni anglo-emiliane da esibizionista. Voleva proiettare diapositive. Il giovane Max Simonatti, membro del collettivo “Api, alveari e arch.” gli urlò: “Scopri le carte, buffone. Dicci da che parte stai”. Il cravattino perse subito le staffe. Afferrò il microfono e gli urlò dentro: “Sto dalla parte della Fisica. Oh frase infelice! Un attimo di silenzio, poi un boato di ilarità. Via il cravattino. Viene un altro che pretende gesso e lavagna. Non ha capito niente di niente. Ci vuol fare la lezione. Tutti gli studenti di Legge e le casalinghe si mettono a urlare frasi irripetibili (le tue equazioni mettitele nel… dicci con chi stai ecc.). Da tutte le parti si comincia spontaneamente a scandire “Neutrone, Padrone / No alla Provocazione”. Arriva una staffetta. Dice che all’incrocio ha visto un carabiniere in bicicletta. Consultazioni febbrili. Viene nominata una delegazione per chiedere la fine dell’assedio del palazzo dello sport. La delegazione corre, il carabiniere non c’è, andava a casa, forse è già arrivato a casa, di carabinieri non se ne vedono, se non si vedono sono appostati, certamente sono appostati all’interno del palazzo dello sport, forse sono travestiti da fisici.


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Il presidente urla al microfono che non si deve fare il gioco della reazione, che occorre conservare la calma. A poco a poco la calma ritorna. Il Sindacato “Docenti e popolo uniti nella lotta” manda tra congressisti giovanotti con bracciali incaricati dell’ordine. Spiegano che non c’è pericolo, che la manovra provocatoria è stata sventata. Da questo momento i lavori si svolgono nella tranquillità più assoluta. Gli interventi delle sei sezioni si snodano uno dopo l’altro durante sei giorni. Vi è una chiara convergenza di ipotesi, e alla fine, nella giornata del diciannove, il neutrone è definito borghese, con la sola astensione del presidente. Un lungo applauso corona il primo risultato della Fisica Autocritica e Sociale. Le conseguenze non tardano a farsi sentire. Sono passati solo quindici giorni, e arriva dagli Stati Uniti il primo segno. Alcuni fisici nostrani pensavano che i lavori dell’Assemblea, pur importanti, avessero ripercussioni solo a livello della Fisica Sperimentale. Invece eccoti qui la faccenda dei ricercatori di Stanford. Prova e riprova, guarda cosa vanno a scoprire: esistono cariche frazionarie. Mettete questo assieme ai dati più vecchi della parità che non è parità, collegate la faccenda ai quarks: vi pare che tutto questo avvenga a caso? Solo una mente senza apertura dialettica può pensare un’ipotesi simile. Il caso non spiega nulla. In realtà è la contraddizione che noi consapevolmente, con la nostra Assemblea, abbiamo lanciato nel mondo delle particelle. La contraddizione fa il suo lavoro, mentre noi facciamo il nostro. Anche i fisici americani ne devono approfittare, perché no. Non facciamo questioni di barriere ideologiche o religiose. Ora occorre al più presto riordinare gli atti del congresso e pubblicarli in edizione economica. Un titolo che mi piacerebbe è “Api regine, api operaie e architetti”. Dà l’idea del lavoro e del progetto: del lavoro dell’uomo nel grande progetto della natura. Il sottotitolo potrebbe essere “Il processo a Galilei non fu un vero processo”. Darebbe una connotazione storica non indifferente alla comprensione degli atti del 1° Congresso della Società Italiana di Controfisica.


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Il labirinto

I Quando Teseo entrò nel labirinto, un ramo fiorito lo attrasse con tristezza, perché molte cose pensò sarebbero svanite nel tempo, a partire da quel ramo, e la sua vicenda sarebbe stata sommersa dalla catena dei fatti che cominciavano ad accadere. Il ramo fiorito era il primo anello di una serie di cambiamenti necessari, nei quali egli penetrava con malaccorta inesperienza. Quel ramo gli suggerì tuttavia che non poteva non legarsi al primo anello della catena. Così in quel momento divenne adulto, perché la maturità è accettazione. Teseo non sapeva come fosse il labirinto, né cosa custodisse. Del Minotauro aveva le immagini vaghe della leggenda, che lo dicevano uomo con testa di toro: certo era innaturale immaginarlo molto grande, sia come uomo che come toro. Ma Teseo preferiva pensarlo sotto forma di spazio cavo al termine di un cammino lunghissimo: forse era nient’altro che una regione cubica dietro l’intrico dei corridoi, molto densa, dove ognuno avrebbe trovato quanto la sua paura si aspettava. Il Minotauro poteva anche essere l’assenza di ogni cosa, il vuoto di cui ci si accorge improvvisamente, con la sensazione di essere alla resa dei conti. Teseo pensava che l’unica arma, di fronte all’ineluttabile, fosse di rendergli omaggio come a cosa naturale, ma sapeva che ciò era contro natura, perciò impossibile. Questa era la contraddizione del Minotauro, per Teseo, che malinconicamente vedeva il mondo con occhi mostruosi (così che anche le cose normali si vestivano di orrore), ma che ritrovava spesso sotto apparenze orrende la semplicità dello sguardo. Non sapeva nulla di ciò che lo aspettava oltre la porta. Da fuori aveva visto un muro alto a perdita d’occhio, ma doveva essere solo la cinta esterna. Come Dedalo avesse progettato l’interno, Teseo ignorava. Immaginava non tanto muri e pavimenti, quanto spazio e geometria. La struttura del labirinto impediva forse la libera circolazione d’aria che si ha tra le case e gli alberi, o sulla superficie del mare quando si naviga. Nel labirinto lo spazio doveva essere talmente concentrato da schiacciare chi vi entrasse: il Minotauro non era forse nient’altro che quello spazio mortale.


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II Gli fu spalancato un vasto portone verde, che gli chiusero alle spalle. Si trovò in uno spazio ottagonale, selciato con sassi rotondi su cui i carri avrebbero sobbalzato. Ma non vi erano carri, né voce alcuna. Le voci, deboli, vanivano ormai solo dall’esterno, oltre il portone, ed erano di compianto, già tendenti a svanire in brusii indistinti. Altri tredici giovani erano già entrati, nei giorni precedenti, uno dopo l’altro. Di loro, nell’atrio deserto e austero, non c’erano tracce. Al centro vi era un grande albero. Il cielo sopra era aperto, e le alte mura vi guidavano lo sguardo: come se esso fosse estremamente lontano ed avesse bisogno di una indicazione per essere notato. Fu questo che diede a Teseo la prima misura dello spazio diverso che dominava all’interno. L’albero nodoso era forse l’ultimo per Teseo. Era già legato al secondo anello della catena, quello in cui ogni cosa, appena toccata dallo sguardo, sembrava dileguarsi. L’albero era al contempo visto e non visto, né parve a Teseo ragionevole domandarsi se il suo sguardo lo avrebbe ancora incontrato. Aveva varcato una soglia decisiva, unica entrata ed uscita, mai usata però come uscita. Nessuno poteva immaginare una piccola porta nascosta (come una ferita o una incrinatura del labirinto, aperta su di una pianura desolata o sul mare) dalla quale gli altri giovani fossero fuggiti, dileguandosi in fretta per paura di essere presi, impauriti e felici in compagnia dei loro nastri, delle loro tuniche e della loro riacquistata voglia di vivere. Teseo si guardò intorno. Pensò che non era il caso di affrettarsi alla ricerca del proprio destino, e che sarebbe stato più saggio aspettarlo, concedendogli tutto il tempo richiesto. Ai piedi dell’albero c’era una panca di pietra, e una fontana dava acqua chiara che si disperdeva tra i ciottoli. Teseo tirò fuori dalla sua bisaccia il pane, lo tagliò con il coltello e lo mangiò lentamente. Poi si sdraiò sulla pietra e contemplò in alto il cielo, che aveva la forma di un riquadro ottagonale, frastagliato dai rami dell’albero. Teseo si accorse che non uno dei rami si muoveva, e che non vi era un filo di vento. Anche in ciò stava la diversità dello spazio interno. Fece attenzione ai rumori che prima arrivavano da fuori: si erano quasi estinti, erano flebili lamentazioni, sospiri e pianti di gente che se ne andava. La sera arrivò dall’ampia ferita del cielo in alto. Sdraiato con la bisaccia sotto la testa, Teseo pensò all’entrata nella notte e nel sonno. Il suo pensiero era Arianna. Non poteva che essere mescolato ad altri pen-


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sieri, che raramente lo abbandonavano, come immagini di rami fioriti, di onde marine, di lettere dell’alfabeto e di numeri. Arianna compariva dietro tutto quanto lui pensava o ricordava. Questa gli sembrò un’altra contraddizione del labirinto: perché mentre si sentiva staccato da ogni cosa, trasferito in uno spazio e in un tempo diversi, Arianna continuava ad essere presente ovunque, anche tra i rami dell’albero, ed il pensiero di non vederla più era bizzarro e innaturale. Si erano salutati in fretta, con un commiato molto più semplice di quello degli altri giovani entrati prima, fatto di pianti e di preghiere lamentose. Di Arianna a Teseo era rimasta la visione degli occhi, che ora erano gli occhi stessi della notte. Teseo pensò che le distanza tra i luoghi e la separazione dei muri fossero una condizione del pensiero: che non ci fossero distanze invalicabili o muri impenetrabili. Anche il tempo si dilatava e si restringeva, ed il passato poteva rincorrere il presente e sorpassarlo, buttandosi nel futuro. Ci sono modi precisi con cui il pensiero compie tali congiungimenti, e Teseo li vedeva nel buio come figure della geometria. I grandi occhi della notte gli assicuravano la presenza del passato, l’amore per Arianna e la conoscenza delle cose viste anche con gli occhi di lei, ‘cose viste da due sguardi’. La mattina arrivò con un chiarore impreciso tra i rami. Teseo si lavò alla fontana. Di fuori si sentiva solo il parlottare delle guardie che si davano il cambio: parlavano di vino e di fichi. I ciottoli rotondi del selciato non avevano traccia di escrementi taurini, né c’era odore di stalla. Le linee dell’atrio erano sobrie, il luogo era privo di ornamenti. Di fronte a Teseo, quattro aperture senza porte conducevano a quattro altissimi corridoi, uguali tra loro, col pavimento di ciottoli simile a quello dell’atrio. Partivano simmetricamente in direzioni diverse. Teseo pensò che poteva rimanere fermo lì dov’era, e aspettare il Minotauro. Avrebbe aspettato con pazienza, vedendolo sorgere ad un tratto da una delle quattro aperture. Forse sarebbe trascorso moltissimo tempo. Forse il Minotauro avrebbe divorato un Teseo fattosi cadavere scarnito dalla fame. Ma a Teseo pareva strano che il Minotauro fosse una bestia capace di muoversi. Era piuttosto qualcosa che attirava, una proprietà dello spazio che si manifestava nel punto più chiuso e involuto del labirinto, in quel tratto dove ogni destino si sarebbe compiuto. Imboccò l’apertura centrale pensando inutile restare al margine dei fatti, e si inoltrò nel corridoio. Altri corridoi perpendicolari cominciarono ad intersecarlo. Ma Teseo non si curava delle vie laterali: andava diritto, con passo né veloce né lento, e con


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una certa noncuranza. Poteva vedere che il corridoio, sprofondato in avanti nello spazio, tagliava in alto come una lama il cielo azzurro, e sopra c’erano intense nuvole vaganti, e finalmente sul mezzogiorno vide il sole, e la propria ombra disegnata sui ciottoli. I muri erano di pietre squadrate, su cui una volta era stato dato l’intonaco, decorato poi di dipinti. Rimanevano infatti, nelle parti più protette, tracce di serti vegetali e di veli, ma quasi tutta la superficie ora aveva perso anche l’intonaco, e sotto apparivano le pietre. Fili d’erba crescevano tra i ciottoli, e si infittivano alla base del muro. La strada segnata dal corridoio prendeva così l’aspetto di una via tra i campi, fiancheggiata da altissime siepi: era invece una via che guidava verso luoghi indeterminati. I muri, sia quelli del corridoio che percorreva, sia quelli dei corridoi perpendicolari, erano uguali e simmetrici. Teseo non aveva fretta, la sua bisaccia era salda dietro la schiena, i suoi sandali facevano presa sui ciottoli tondi, il suo passo era tranquillo. Anche i fili d’erba gli piacevano, ed anche i muri scrostati e severi, innalzati solo per dirigere e sviare i cammini. Amava il silenzio che dominava intorno, da capo a fondo, nella via che percorreva e nelle vie laterali, e il senso remoto del luogo, che era come una casa perennemente inabitata dopo la sua costruzione, con stanze visitate solo casualmente, ogni nove anni, da passi incerti che non lasciavano tracce. Andando nell’intrico delle strade annodava tre gruppi di pensieri. Il primo riguardava il Minotauro, che era lo sfondo poco geometrico di tutta la geometria tessuta intorno ai suoi piedi e sotto il cielo. Non sapeva come fosse fatto (sapeva solo che procurava orrore), né come gli si potesse presentare davanti. Continuava a figurarsi immagini agghiaccianti, improvvisi aliti letali o fasci di luce invisibile sovrapposti alla luce visibile. Ma la sua giovinezza lo proteggeva dall’angoscia. Egli era protetto anche dal fiato chiamato anima, in parte fiato suo in parte fiato di Arianna. Più che pensare al Minotauro pensava, dunque, a ciò che vedeva e sentiva: il muro, i fili d’erba, la solitudine. Il secondo pensiero riguardava il labirinto nella sua geometria. Ne aveva vista una piccola parte, aveva avvertito come ampiamente si estendesse nella enorme lunghezza delle sue strade, e si chiedeva se fosse possibile averne una visione complessiva. Un uccello pensante, di volo molto alto, avrebbe potuto contemplare l’intrico dal cielo, e capirne la ragione, trasformando il caso (gli infiniti inganni degli incroci) in una legge. Ma l’uccello pensante, anche cavalcato da un uomo, avrebbe registrato nella retina l’intrico dei muri solo per


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un breve tratto, forse anche abbagliato dal sole, e l’immagine si sarebbe velocemente dispersa nel pensiero come un sogno. Tuttavia Teseo, volgendosi verso l’alto, provò ad immaginare un volatore silenzioso dalle ali di cera. Teseo suppose che il Minotauro potesse essere il conoscitore dell’inganno dei corridoi, e non semplicemente una bestia guidata dal fiuto e dalla ferocia. Ma respinse anche questo pensiero. Infatti la legge del labirinto non poteva ridursi a ciò che era dentro al labirinto, costruito per la situazione innaturale del figlio di Pasifae. L’ipotesi più semplice era che esistesse qualcuno, che non fosse il progettista né l’abitatore, cui l’idea del labirinto potesse essere chiara come un discorso di cui sia Dedalo che il figlio di Pasifae fossero stati solo involontari ascoltatori. E Teseo pensava che anche lui dovesse essere dentro al labirinto. La mente piena di dèi, Teseo cercava nell’incrocio dei corridoi il vero progettista, e la sua mente lo chiamò dio del labirinto e signore, intendendo con questo che egli avesse conoscenza di tutti i labirinti possibili, quelli costruiti per sviare e quelli costruiti per dirigere, ed in quel momento immaginò che anche il suo corpo fosse un labirinto di innumerevoli cammini, riuniti e intrecciati continuamente. Il terzo pensiero usciva dai suoi argini e contaminava lietamente gli altri. Era il pensiero di Arianna, che sempre compariva con i suoi occhi di luce e il sorriso e il fiato, che erano un poco quelli di Teseo, anima della sua anima nel cammino all’interno del labirinto. Compariva di soppiatto tra i pensieri dei fili d’erba nei muri, dell’osservatore celeste che navigava con ali di cera, del Minotauro cacciato sempre più al fondo del suo regno. A volte il pensiero di Arianna era sfolgorante in se stesso, apparizione che gli veniva incontro correndo nei corridoi e gli parlava. Se c’era ancora un ‘mondo al di là del muro’, era perché esisteva Arianna. Tutte le altre immagini esterne gli parevano illusorie, come cancellate dalla realtà che stava vivendo. Ma Arianna era reale, era in un punto fisico al di là del muro e fuori del suo cammino, e il suo pensiero la sentiva dispersa in concentrazione sufficiente per essere amata anche nel labirinto delle strade senza fine e degli incroci senza direzione. Così Teseo, quella prima mattina, prese fuori della bisaccia il suo zufolo di canna, si sedette con la schiena contro l’interminabile muro e suonò pensando a lei, sicuro che avrebbe udito. Teseo si inibì invece ricordi troppo ravvicinati. Evitò i desideri. L’amore del corpo ha bisogno della presenza del corpo.


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III Il sole era a picco quando Teseo si addormentò alla base del muro, e nell’atto di addormentarsi ebbe come un moto di ringraziamento, perché i suoi tre gruppi di pensieri convergevano in un’unica sensazione. Il Minotauro, se era orribile, non era diverso da quanto la morte riserba a ognuno, compreso il non sapere come è fatta. Il labirinto era sia l’enigma e l’inganno, sia il disegno che svela: a lui, non ad altri, era stato dato di abitarlo ed esplorarlo. Che gli fosse concesso di svelarne il segreto, non credeva: ma pensava che a pochi era dato di confrontarsi con lui, anche come vittime. Arianna era l’antiminotauro: spingeva a considerare il disegno invisibile del labirinto, volgendolo in certezza di vita anziché in certezza di morte. Mentre si addormentava nel meriggio luminoso, si sentì nel suo regno, e la scelta che era stata fatta di lui come vittima in Atene gli parve un privilegio. Si sentì all’interno di un dominio familiare, con la prerogativa della solitudine. Al risveglio riprese il cammino. Il suo andare calmo e inarrestabile accentuava la propensione dei suoi pensieri verso la geometria del labirinto, che egli cominciò a vedere con gli occhi di Arianna, imparando a fondere tra loro molte cose che di solito restavano separate. Capiva che per pensare fortemente a qualsiasi cosa è necessario entrare sempre in qualche labirinto, tagliandosi fuori da tutto il resto. Cominciò a imboccare anche strade perpendicolari. Per molto tempo aveva percorso un unico corridoio nell’unica direzione da cui era entrato, volgendo la mente con intensità al problema dell’orientamento, e cercando tracce da ricordare. Ma la quantità delle strade, la somiglianza dei muri e delle pietre ed il numero delle deviazioni lo avevano frastornato. Era stato sommerso dall’intrico del labirinto. Abbandonò quindi ogni interrogativo sulla direzione. Il progettista aveva probabilmente tenuto conto anche del desiderio di orientamento delle vittime, e si era impegnato ad aumentare gli inganni, superando la pura geometria. A volte due strade convergevano in una piazzetta acciottolata, al fondo della quale stava una fontana che mandava acqua da un mascherone a bocca aperta, e ai lati si aprivano altre due vie rettilinee o curve. La piazza dava il senso di uno spazio chiuso, e il rumore dell’acqua aumentava a dismisura il silenzio, lo rendeva familiare e compatto. Il disegno della piazza si ripeteva, cosicché ogni volta pareva di sfociare nello stesso luogo.


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Teseo cominciò ad osservare i muri. Erano uguali ed ugualmente scrostati, ma il tempo li aveva lavorati inegualmente; forse nella parte alta il vento li lambiva con una direzione prevalente, e si potevano ricostruire alcune diversità. Ma anch’esse si ripetevano troppe volte, aumentando la sensazione di essere in uno spazio diverso, nel quale ogni punto equivaleva ad ogni altro. Nessuna legge poteva essere dedotta dall’osservazione delle diversità. Nessuna identificazione di luoghi era possibile. Nel fianco dei muri si aprivano ferite terrose da cui nascevano piante di fico che avevano frutti succosi. Teseo, mangiandoli avidamente, pensava che ne avrebbe trovati altri. Sarebbero stati sufficienti anche per Arianna. Così prendeva piede in lui una oscura e ferma sensazione di futuro, anche senza conoscerne il volto. Sul Minotauro adesso ragionava a questo modo: se il labirinto fosse stato veramente il suo regno, il Minotauro lo avrebbe percorso di continuo. Benché senza servi, lo avrebbe pulito dagli arbusti, avrebbe levigato le pietre e impedito alla natura la sua lenta conquista. Ma ciò non accadeva: c’erano fili d’erba tra i ciottoli, e arbusti abbarbicati ai muri. Dunque il Minotauro non regnava: era il tempo, più che il Minotauro, a dominare il luogo. Il Minotauro attendeva, appartato in qualche recesso: il labirinto era per lui più prigione che regno. Osservando attentamente anche un piccolo tratto di muro, si può – pensava Teseo – ricostruire il tempo, sia delle stagioni (dalla fioritura e sfioritura dei piccoli arbusti) che degli anni e dei secoli. Ma ora la sua attenzione era diretta altrove, ed egli non ne poteva sprecare neppure una piccola parte. Pensava ad Arianna. Pensava all’attimo continuo in cui era immerso, che corrispondeva ad un punto senza dimensioni. Tempo e spazio fuggivano via. Atene era un luogo immaginario al di là del muro, al di là anche di una distesa marina fitta d’onde, che si chiudeva dietro la scia di una nave ornata di vessilli. IV Teseo aveva ormai percorso innumerevoli strade. Anziché l’orrore e la paura della ripetizione (il Minotauro della mente) si era introdotta in lui sempre più forte la sicurezza del suo regno, scandita dal ritmo dei corridoi e dal dipanarsi del suo pensiero, che gli pareva sempre più piovere dall’azzurro che sovrastava. Era come se vedesse il labirinto dall’alto. Immagini cadevano giù, e venivano da destra e da sinistra, ma ora avevano tutte una radice comune,


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una sorta di origine immobile: era Arianna. A qualsiasi cosa pensasse, la sentiva già presente all’interno del labirinto. Arianna era penetrata nel suo spazio, che ora era il loro. Arianna era la signora del luogo. Si trattava di cercarla. Teseo aveva trovato un muro dirupato, che formava una specie di scala verso l’alto, e vi si era arrampicato cautamente, pietra dopo pietra. Giunto in alto, ad un’altezza da cui il pavimento acciottolato sembrava molto distante, si era guardato intorno, ed aveva visto una distesa senza fine di margini superiori di muri, ad altezza un po’ diversa, ed anche con una lieve ondulazione, ad indicare che il labirinto non era del tutto pianeggiante; ma niente c’era al di fuori, né mare, né praterie o monti, niente c’era a portata d’occhio che non fosse occupato dai vertici dei muri, con qualche raro arbusto. Così Teseo ridiscese, sicuro di non avere indicazioni da questo tipo di ricerca. Un’altra volta aveva intravisto la luna da un incrocio di muri, una luna tonda così chiara da proiettare ombre sul pavimento, con aumento di geometria e di immobilità. Teseo si era voltato in alto a contemplarla, perché sempre gli era stata cara la solitudine della luna, e in quel mentre aveva visto il volto di lei iscurirsi e poi diventare nero, tranne che per una piccola falce, e dopo tornare tondo e luminoso, come se un’ombra di tristezza, subito fugata, le fosse passata davanti: il suo Minotauro, aveva pensato Teseo. Un’altra notte Teseo, addormentato profondamente vicino ad una fontana, aveva sognato la distruzione del labirinto: i muri crollavano uno sull’altro, egli fuggiva per le strade che da amiche erano diventate ostili, e la distruzione non pareva venire dalla terra ma dal cielo, come se grandi creature alate portassero morte e, col pretesto di uccidere il Minotauro, volessero uccidere lui. Il sogno era particolarmente angoscioso, proprio perché la morte non veniva dalla terra, ma dallo splendore e dalla chiarezza del cielo, perciò la sua corsa al grido di “Arianna, Arianna” era una protesta contro il cielo e i suoi ingannevoli splendori. Teseo aveva ormai i suoi luoghi preferiti (gli stessi o diversi?), che amava associare alle sue azioni abituali: di notte dormiva vicino a fontane mormoranti; sul mezzogiorno dormiva alla base di un muro diritto; consumava il pasto di fichi camminando per strade rettilinee; modulava il suono del flauto camminando per strade curve. In alcun luogo trovò mai tracce di un suo precedente passaggio, come bucce o escrementi. L’estensione del labirinto era tale da rendere assai improbabile che Teseo si immergesse due volte negli stessi muri. La sua era una esplorazione senza oggetto: più passavano i giorni,


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meno egli riusciva a farsi un’idea del labirinto. Tutto era assolutamente ripetitivo e indeterminato. Perciò pensava di continuo alla stranezza delle ripetizioni. Incroci e fontane erano occasioni di approfondimento del pensiero, non del labirinto. All’interno del labirinto il pensiero esplorava se stesso. E pensare ad Arianna significava ormai cercarla internamente, come se fosse parte del meccanismo della mente. Il desiderio di lei era diventato bisogno: era cioè necessità di natura, quale è certamente il pensiero. V Il pensiero di Arianna era sempre più concreto. Teseo parlava ad alta voce con lei. Non aveva dubbi, perché il suo amore aveva raggiunto la perfezione dell’egoismo. Sapeva che Arianna non poteva vivere senza di lui esattamente come lui non poteva vivere senza Arianna: il viaggio nel labirinto aveva dilatato il senso della sua sicurezza, perché egli aveva trovato il regno di entrambi. Dopo alcuni giorni la presenza di Arianna divenne così concreta da fargli ardere il corpo. Era una febbre senza esito e sfibrante, ma appariva senza esito anche tentare di contrastarla. La voleva vicina, sentiva continuamente la sua voce chiamarlo. Quando già la luna si era fatta vedere due volte nella sua rotondità, Teseo non fu più capace di allontanare dagli occhi e dalle mani il seno di Arianna. Al secondo plenilunio Teseo ebbe la certezza che Arianna era entrata nel labirinto: non più come presenza diffusa ed aerea ma come solida persona, vestita del suo peplo, con i capelli ornati dai suoi fiori, con gli occhi segnati dal suo bistro, con i suoi calzari leggeri. VI Non solo parlava ad Arianna come fa un pazzo, anche sotto la luna e nei sogni, ma urlava il nome del Minotauro: lo cercava correndo col coltello levato, lo insultava, e i muri immobili rimandavano in eco le sue frasi di scherno dirette a Pasifae, sua madre, che si era invaghita di un toro. La certezza che Arianna fosse ormai dentro al labirinto aumentò la sua ansia di ritrovarla. Dire ‘nel labirinto’ era come dire ‘in tutta la terra’. La probabilità dell’incontro poteva solo aumentare con l’aumento del percorso: si mise a correre


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in modo instancabile. Supponeva che Arianna si muovesse con più blanda dolcezza, conforme alla sua natura di donna. Si immaginò il labirinto dall’alto, lui dentro come una palla spinta da urti casuali a destra e a sinistra, e da qualche altra parte Arianna, spinta anch’essa quietamente dal caso, incanalata in percorsi senza fine. Teseo cercò di calcolare la probabilità di un incontro, ed il suo calcolo si mescolò all’invocazione alla Dea Fortuna. Il suo cervello era senza armi, perché non conosceva l’estensione del labirinto, né il numero dei corridoi o la posizione degli incroci. Pensò che un urlo potesse amplificare la sua presenza, estendendola a più strade adiacenti, moltiplicando perciò la probabilità dell’incontro. Ma non poteva sapere se davvero l’urlo fosse così potente da scavalcare la cerchia dei muri in alto, penetrando nelle strade vicine. Da solo non avrebbe mai potuto misurare la portata della sua voce. Rumori da altri corridoi non ne sentiva, eppure alcune cose accadevano: distacco di intonaci o rovinio di pietre o sciacquio di fontane. Anche il rumore dell’acqua cominciava quando lui era di fronte alla maschera di pietra che la buttava fuori, all’incrocio delle vie. I muri fasciavano ogni suono in modo molto rigoroso. Anche se Arianna fosse stata in strade vicine e avesse risposto al richiamo, le distanze da percorrere per incontrarsi sarebbero state ugualmente indeterminate, e l’incertezza non sarebbe stata ridotta di un soffio. Certo, sentire Arianna vicina gli avrebbe dato una gioia immensa, ma l’unica decisione da prendere in tal caso non poteva essere che rimanere fermi, ognuno al proprio posto, perché cercarsi avrebbe significato perdersi. Man mano che la mancanza di Arianna si prolungava, sempre meno Teseo si accontentava dei suoi calcoli: quindi, nonostante le incertezze, decise di lanciare ad ogni incrocio il suo richiamo, col rischio di indicare la sua presenza al Minotauro. Dopo altri giorni di ricerca (si era del tutto abituato a non pensare mai quale strada scegliere, i suoi muscoli si erano irrobustiti grazie alla velocità del cammino, la sua voce era diventata grave e arrochita, ma capace anche di toni molto acuti), Teseo pensò che la probabilità di trovare Arianna fosse molto più alta di quanto avesse supposto. Si immaginò infatti Arianna, così come era davvero, con amore e dolcezza, ma anche col suo coraggio freddo e disperato, con i suoi calcoli accurati, le notti passate a tessere supposizioni sull’intrico del labirinto. Certo, Arianna doveva aver preso materialmente la via che conduceva dalla


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città all’entrata del labirinto, probabilmente di notte. Certo, ad un momento determinato, era accaduto che ella avesse svegliato il guardiano offrendo il suo oro in cambio di un breve giro di chiave. Teseo immaginava l’ansia di Arianna, il petto che saliva e scendeva dopo la corsa affannosa, i discorsi per convincere il custode che il silenzio mortale del Minotauro avrebbe coperto per sempre il suo gesto, la perorazione accorata a favore della propria morte. Immaginava l’apertura veloce del portone richiuso subito alle spalle senza testimoni se non l’albero e la fontana, il suo ritrovarsi nella solitudine in attesa dell’alba. Il Minotauro non la impauriva, ma avrebbe voluto sentire un lieve stormire di rami, anziché il rumore sempre uguale della fontana. Tutto questo immaginava Teseo, e ciò doveva essere realmente accaduto. Ma se questo era accaduto, la decisione di Arianna aveva seguito un pensiero pieno di speranza. Non era stata una decisione di morte. La morte riguardava il rischio, non la decisione. Se Arianna era entrata, lo aveva fatto decisa a vivere e a ritrovare lui, Teseo. L’aumento di probabilità era appunto il pensiero di Arianna, il suo calcolo. VII Finalmente Teseo vide il pensiero di Arianna. Lo vide mentre camminava oltre un incrocio, in direzione trasversale. Il pensiero è un filo che collega le cose. Il pensiero di Arianna era tale filo rettilineo, di colore rosso porpora, consistente e lanoso, diritto e senza indecisioni. Teseo si inginocchiò accanto a quel filo, lo prese tra le mani e lo portò alle labbra. Sentì, oltre alla determinazione che esprimeva il suo andare senza incertezze, anche il calore che gli faceva sorgere dentro, mentre lui lo pensava in forma di intreccio fitto e di maglia (e sotto il seno di Arianna si alzava e si abbassava): le cose intrecciate diventano rettilinee, anche la passione amorosa può diventare pensiero e contrastare il caso. Il filo di Arianna si allungava per le strade che si perdevano senza ragione e dava ad esse una ragione, perché di là lei era passata, lasciando il suo segno. La scoperta del filo avvenne al chiarore netto dell’alba. Il giorno che si apriva era in attesa di quanto si doveva dipanare. Teseo avrebbe voluto partire di corsa, ma decise di comportarsi come si sarebbe comportata Arianna, cioè riflettendo ancora. Se fosse partito di corsa, avrebbe scelto a caso una delle due direzioni. Forse il filo era legato per una estremità all’albero dell’entrata. Voleva andare nella direzione giusta, non poteva sopportare l’idea di allontanarsi. Così osservò attentamente il filo. Teseo vide legati al filo degli steli, che facevano col filo un angolo e costruivano una freccia.


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Il tempo premeva: Arianna aveva già sicuramente finito il suo peplo e i suoi gomitoli, e stava ferma ad attenderlo. La sua bisaccia era sempre piena di cose utili da offrire con grazia. Certamente era stata riempita da innumerevoli gomitoli rossi, essendo il rosso il colore della passione. Arianna attraverso il filo lo avvertiva che era immobile in attesa. Teseo si volse, inginocchiato, verso la luce del sole che cominciava a splendere. Aprì le braccia, si alzò lentamente in piedi e con le braccia aperte lanciò al sole un urlo di gioia e di preghiera, un urlo che il sole avrebbe potuto scambiare per disperazione, tanto era folle e al di là di ogni speranza, già nel dominio della certezza. Cominciò la sua corsa precipitosa: le sue membra erano agili come quelle di un gatto. Agli incroci i muri lo vedevano passare con la velocità di una freccia: pareva che avesse in mano una fiaccola, e che il segno rosso del filo fosse la fiamma vista dall’occhio in corsa. Egli sentiva il suo corpo compatto lanciato alla ricerca. Alle volte rallentava per non finire contro i muri; gettò via la bisaccia; gettò via il coltello conservando solo il pugnale alla cintura; la sua corsa aumentava ed aumentava; i ciottoli erano sempre saldi sotto i suoi piedi; gettò via i calzari che si erano logorati; tra i muri era comparso finalmente il vento, perché egli muoveva l’aria con le sue membra sudate. Le fila degli incroci, delle curve e delle piazze rimaneva dietro la sua corsa come un archivio confuso; ciò che esisteva era solo il filo rosso, la geometria della sua passione sovrapposta alla geometria della crudeltà e dell’inganno. I passi della corsa risuonavano veloci e regolari contro i muri, la macchina dei muscoli essendo guidata dal fiato dell’anima. Il sole stava declinando quando Teseo vide che il filo era arrivato alla sua estremità: Arianna era seduta su una panca accanto alla fontana in una piazza aperta tra i muri. Il loro incontro, al calar del sole, fu la riunione di ciò che non può rimanere separato, occhi che si fondono tra loro, e l’uno non sa più chi sia a guardare e chi sia guardato, e tutto si unisce nella notte che viene assieme alle parole, ai sussurri e agli atti dell’amore. Il labirinto era disseminato intorno, confuso come una massa amorosa: era il loro regno, il luogo definitivo del loro isolamento e della loro unione.


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VIII Questa è la storia di Teseo e di Arianna, rimasti dentro al labirinto senza desiderio di uscirne, pregando gli dèi di essere dimenticati. Quanto al Minotauro, può darsi che egli sia stato ucciso da Teseo durante la sua corsa, così folle e tesa da non lasciargli nella memoria alcuna traccia. O può essere che il Minotauro non sia mai esistito. O che esista ancora in qualche angolo in agguato: che Teseo e Arianna lo sappiano, e che la loro unione sia resa più salda dal pericolo. Teseo e Arianna sono i primi che hanno affrontato il labirinto, piantandovi le loro bandiere. Hanno avuto molti figli, noi siamo i loro figli. Qui siamo stati generati da amore, e qui è il nostro luogo definitivo. Di coloro che sono rimasti fuori si sono perse le tracce.


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Nota dell’editore Questo libro comprende tutte le opere di Giorgio Prodi pubblicate in vita. Nell’ordine: Il neutrone borghese (Bompiani, 1980); Lazzaro (Camunia, 1985); Il cane di Pavlov (Camunia, 1987); Le quattro fasi del giorno (il Belpaese, 1990); Dopo il Mar Rosso (La Bautta, 1990); Il Profeta (Camunia, 1992).


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Opera intera narrativa di uno scienziato epistemologo e scrittore poliedricamente unito che ha vissuto le due culture nella testa e nel cuore senza cedimenti e senza concessioni nella difficoltà molto italiana di essere se stessi questo libro viene stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nel febbraio dell’anno duemila nove


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