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In copertina Le illustrazioni e le foto provengono da collezioni private e da opere di Ubaldo Bertoli

Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN) Anna Bartoli

Coordinamento editoriale Fabio Di Benedetto

Editing Leandro del Giudice

ISBN 9788881037933

Š 2013 Diaroads srl - Edizioni Diabasis vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: commerciale@diabasis.it www.diabasis.it

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Mario Rinaldi

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STATI DI LUOGO DIABASIS

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Prefazione

Ho conosciuto Mario Rinaldi a una festa con tante persone a casa di Centurio Frignani discutendo animatamente di vicende politiche, una calda sera d’estate in cui il dibattito si è protratto per ore con tanta passione. È nata così una bella amicizia che ci ha portato a rivederci in tante occasioni e organizzare belle iniziative su temi politici e culturali. Insieme abbiamo presentato libri e sostenuto idee e confronti interessanti, da Matilde di Canossa a temi di attualità inerenti il lavoro, la democrazia, i diritti delle persone. Di Mario Rinaldi ho sempre apprezzato la profonda cultura, la passione per la politica e per la storia. Ha scritto pagine bellissime sulla storia della resistenza nella Valle dell’Enza e anche nel libro Boogie Woogie (2004) storie vere vengono raccontate come un romanzo. Ho letto i suoi libri sempre coinvolgenti e molto importanti. Parlare con Mario suscitava un grande interesse e il desiderio di conoscere. Partendo dalla quotidianità si arrivava sempre alla ricerca di risposte ai problemi della vita. Queste motivazioni mi hanno portato anche ad avvicinarmi alla lirica, frequentando il Teatro Regio di Parma con tutte le discussioni e le attualizzazioni connesse ai contenuti delle opere, soprattutto quelle di Giuseppe Verdi. La bottega di Aldo è un bellissimo libro ambientato nella sua Neviano, comune di nascita e di vita, in cui racconta in un romanzo tante storie vere. La bottega di Aldo, con la sua atmosfera, con i suoi personaggi, rappresenta un mondo, un’epoca che Mario scruta affascinato e attento a tal punto che nel libro dice “c’era di tutto da Aldo”. Nella bottega di Aldo si incontra, parla e discute tutto il paese, si narrano “piccole storie del5

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la gente del posto degne di grandi scrittori”. È un racconto sulla passione per la politica, sulle scelte di vita che hanno visto partecipi tante persone in un mondo con povertà e miseria, ma anche con tanta dignità e voglia di riscatto sociale. Nel libro sono narrati con cura località, paesaggi, il divenire e l’alternarsi delle stagioni, un mondo e uno stile di vita. Un quadro di tutto un Paese. Viene narrato con una descrizione minuziosa tutto il periodo seguente la fine della seconda guerra mondiale, con ricordi di episodi e fatti che spaziano nelle menti e nel tempo. Con simpatia e arguzia i personaggi della bottega di Aldo raccontano la vita e le lotte per cambiare il mondo. Nella sua semplicità, è un luogo affascinante “dove c’era sempre qualcuno che diceva qualcosa”. Le storie dei singoli s’intrecciano in una unica visione e non sono mai una sommatoria di personaggi, ma un unico legame conduttore che delinea l’identità di una comunità. Questo libro è avvincente e porta la mente a immedesimarsi nel contesto delle vicende. Mario racconta la vita degli altri attraverso la sua e quella della sua famiglia, delineando il contesto in cui è vissuto e cresciuto da bambino. Dalla vita ha avuto il grande dono di poter frequentare la bottega di Aldo, una fucina di idee, di sentimenti, per molti aspetti una scuola di vita. Oggi forse non ci sono più botteghe di barbiere così, e mancano tanti luoghi di incontro così carichi di umanità. Dovremo impegnarci di più per costruire anche oggi un mosaico di rapporti umani così ricco e avvincente. Nella Bottega di Aldo ci sono le nostre radici e lo specchio della realtà. Sono raccontate la complessità della vita delle persone che hanno combattuto per la libertà, e dato un senso alla vita con valori e princìpi democratici, a volte attraverso il furore della politica. Uomini e donne semplici, ma che sapevano di cambiare il mondo. Un luogo così significativo in cui si sviluppa tutto il libro non poteva che essere gestito da una grande persona, e Mario dice: “Che personaggio Aldo! Il barbiere del paese. Una vita in salita. Non possedeva niente, con niente man6


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dava avanti la famiglia e la povertà era l’abito che sapeva indossare coi tratti del signore. In casa sua non si parlava il dialetto e i figli, ne aveva quattro, dovevano continuare gli studi superiori. Tre maschi al conservatorio, una femmina alle magistrali, e fare il barbiere voleva dire sì e no vivere alla giornata. Certe idee, dunque, potevano anche sembrare capricci. O sogni strampalati”. Questo libro mi ha fatto pensare e riflettere molto sull’importanza delle nostre radici culturali, sull’identità delle piccole comunità che a volte, come nel caso di Neviano, esprimono una dirompente carica di umanità di persone che credono che i sogni possano diventare realtà. La bottega di Aldo è un grande atto di amore verso le persone e la comunità di Neviano, e la sua storia. È un libro politico, che esprime quanto la cultura sia libertà ed educazione alla libertà. Maurizio Landini Segretario Nazionale FIOM

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ai figli di Aldo. Fabiano, Luigi, Giacomo, Alda.

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Arnaldo Spagnoli, Neviano, collezione privata famiglia Rinaldi.

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Capitolo primo

La guerra, dunque, era finita. Quasi tutti i prigionieri erano tornati a casa e Neviano aveva ripreso a essere il tranquillo villaggio che sempre era stato. C’era il municipio, la farmacia, un negozio d’alimentari e due osterie. Una aveva il gioco delle bocce. Per l’acqua funzionavano le vecchie fontane del Comune con l’acqua ad ore che le donne andavano a prendere coi secchi. I cessi erano fuori, nei retro, alcuni dietro l’orto, modesti gabbiotti costruiti con frasche 1 e melghetti , pochi quelli in muratura, dove il prodotto calava in piccole buche coperte da un’asse che serviva da pedana. I vermi ci guazzavano dentro come fanno le rane nello stagno e d’estate le mosche lo ricamavano di ronzii ossessivi che per nessuno erano un problema perché lì dentro tutti ci si potevano specchiare. In quelli dove il terreno era in pendenza, il “cumulo” colava verso il basso con la lentezza del magma, qualche centimetro al mese, secco in superficie che pareva la scorza delle querce e che di pomeriggio i raggi del sole lo facevano diventare iridescente come le ali dei mosconi e dei tafani. E attorno i fiori ci crescevano belli e robusti come in nessuna altra parte del paese. La misora, ossia la falce che serviva per mietere il frumento, era l’arma che i contadini si puntavano nelle liti come gli attori del cinema facevano con la pistola e la sua forma a misura di collo era buona per lanciare minacce e per consigliare accomodamenti. Tutt’attorno c’erano i campi di frumento che a luglio tingevano di giallo anche il cielo e 1 Canne del sorgo selvatico [N.d.R.].

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in ogni casa c’era il paiolo per fare la polenta. Tutto il resto, tegami, pentole e pentolini, era d’alluminio. Alla sera, per sapere come sarebbe stato il tempo del giorno dopo, si guardava il Buco della Giacoma, lontana sella verso la Liguria, tra il Fuso e il Caio. Era il punto da dove arrivavano le nubi buone per le previsioni, che per i vecchi erano sempre le stesse: “Rosso di sera bel tempo si spera e cielo a pecorelle acqua a catinelle”. C’erano poi le filastrocche di Santa Bibiana e della Seriola, ma non per il giorno dopo. C’era anche il calendario piacentino, che a farlo erano i frati di chissà quale convento e che nelle case lo tenevano sul camino come fosse la Bibbia. Poi c’era il vocabolario. Che altro dire? I muratori per fare la calcina mescolavano polvere di sabbione a ghiaia cotta, che per cuocerla c’era la fornace dei Capuzzi. Nella cava a lavorare dall’alba al tramonto c’erano Beretta e Luigg, le facce bruciate dal sole, che la maggior parte del tempo la passavano a preparare i fori per le mine da far brillare il pomeriggio di ogni giorno. Mazza e palanchino erano i loro strumenti. Per lo scoppio il preavviso era alla buona. «Ocio!», dicevano a quelli che passavano sulla strada, e alzavano le mani per dire fermati che c’è la mina. E dopo lo scoppio, coi sassi che ancora rotolavano non solo nella cava, correvano a bere sotto una pianta dove ben protetto dal sole ci tenevano il fiasco del vino rosso. In una fossa assai ampia l’acqua friggeva quando ci buttavano dentro la ghiaia cotta, che in pochi minuti si sfioriva e diventava una sorta di pasta bianca e cremosa, anche vellutata, uguale al gelato di crema quando ancora gira nella Cattabriga. Poi ci aggiungevano il sabbione, terriccio color ocra. Anche di quello c’era la cava a Neviano, che per farlo diventare polvere prima lo tritavano col masso e poi lo scagliavano a badilate contro una spessa rete di metallo poggiata al muro. La calcina usciva in quel modo, ghiaia di fornace e sabbione setacciato impastati assieme. Di cemento ne usavano poco, forse niente, costava troppo e quel poco che ci mettevano, quando lo mettevano, andava nelle fon12


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damenta. I muratori, poi, con la carta dei sacchetti ci facevano i berretti che erano uguali alle bustine dei soldati. A spiegare tutta la trafila della calcina era il farmacista, esperto di chimica. Aveva la vocazione dell’insegnante e ogni occasione gli era buona per poterlo dimostrare. Le pietre di Beretta e Luigg, diceva, cotte con l’antracite a novecento gradi, diventano carbonato di calcio e poi, messe nell’acqua, si trasformano in idrossido di calcio. Aiutandosi con le dita disegnava la formula dell’idrossido, che era una cifra di quattro lettere una attaccata all’altra e per darne l’idea alzava la mano col pollice nascosto. Poi spiegava che l’idrossido mescolato al sabbione e assorbendo ossigeno dall’aria diventa la calcina. Alzando il tono declamava: «Questa calcina qua, così come oggi la vedete» e col dito indicava la fossa «è la stessa che gli antichi usavano per le loro costruzioni. Noi non abbiamo inventato niente, e a malapena siamo capaci di fare quello che loro ci hanno tramandato». «E ricordatevi che tutte le cattedrali del Medioevo sono state fatte con questa roba qua», diceva, «anche il Colosseo, se vogliamo andare oltre». E roteava la mano a ritroso per dare l’idea del tempo passato, quasi volesse disegnare i secoli. Di macchine ce n’erano due in tutto il paese, nere come il carbone: la Balilla del medico e la Topolino di uno che aveva terra con mezzadri. Che dire d’altro? Se uno andava al mare dicevano che andava a fare la cura del sole. Da Parma c’era l’accelerato per Rimini, e se si andava in montagna dicevano che si andava a prendere le arie (c’era sempre qualche debole di polmoni in paese). Le montagne erano le Dolomiti, solo di quelle si parlava, e a Neviano erano non più di tre o quattro quelli che potevano permettersi le vacanze. Le due maestre sempre. A loro, nell’agenzia di città dove tre anni prima erano andate per avere informazioni, avevano fatto vedere tanti posti uno più bello dell’altro in valli diverse, ma quello giusto lo aveva indicato un’impiegata che a un certo punto aveva 13

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detto: «Se volete star bene dovete dar retta a me». E aveva parlato di una pensione lontana dai centri, in mezzo al verde, dove si mangia alla meraviglia e dove ci si riposa come in nessuna altra parte del mondo. Nelle tante fotografie che la donna aveva sul tavolo, una montagna, ogni cosa pareva sontuosa. C’erano i paesaggi, gli alberghi con le sale da pranzo, le camere coi mobili tirolesi, le stanze per i giochi dei bambini e via con tutto il resto. La pensione che lei raccomandava era invece una semplice palazzina con una grande pineta attorno e con scritto sul depliant “Qui si ride con un nonnulla”. E quella era stata la differenza. Il ridere e la buona armonia sono sempre una necessità per chi pensa alla villeggiatura, forse la prima, e quel “Qui si ride con un nonnulla” era stato importante per la scelta. E le due maestre da tre anni andavano lì, con grande soddisfazione dell’impiegata. La partenza era alle sette del mattino col postale della Sorit, poi c’era il treno da Parma per Bologna e nel pomeriggio quello da Bologna per Bolzano. Da Bolzano, poi, le corriere portavano nelle valli. Strade a tornanti in mezzo alle pinete con gli occhi fissi a guardare in alto. E all’arrivo già buieggiava. Il bello veniva dopo, al ritorno, quando la villeggiatura diventava il boccone prelibato per gli appetiti dei curiosi. A toccare le fantasie erano i resoconti. «Da noi una carne così non ce la sogniamo neanche», rispondevano le due maestre a chi gli chiedeva del mangiare. Era sempre la prima delle domande, la più importante, poi veniva tutto il resto che erano le passeggiate, gli alpeggi, la frescura, i tramonti e tante altre cose. A incuriosire i ragazzi erano invece i tremila metri di certe montagne dove ancora resistevano canaloni di neve. «Là la gente ci vive felice», pensavano loro che immaginavano le rampe del Sella e del Pordoi con Coppi e Bartali a pedalarci da mattina a sera e coi ragazzi del posto che potevano vederli da vicino. Tutti felici, i ragazzi delle Dolomiti. Nelle case si raccoglieva la pioggia coi bigonci sotto le 14


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gronde, in tutte le cantine c’era la mostadora per pigiare l’uva coi piedi, la poliomielite non era ancora stata debellata, d’inverno i bambini avevano le candele al naso, c’erano decine di combattenti e reduci, il prete aveva la veste lunga fino ai piedi, il signor Veneranda faceva ridere su «Candido», per le mosche c’era il Flit, la radio parlava della cortina di ferro, gli aerei andavano a elica, la Cianciulli “faceva il sapone” a Correggio, in Sicilia c’era la banda Giuliano, i cappotti rivoltati si tingevano coi colori della Superiride, i ragazzotti si mettevano la retina in testa, per dar fresco all’anguria c’era il pozzo del prete, le siringhe si facevano bollire sulla stufa, se uno era indisposto dicevano che aveva un ingombro, le uova erano bianche, le donne di una cer2 ta età erano sempre vestite di nero (lo scosale sul ventre e il fazzoletto nero allacciato sotto il mento), le calze di seta avevano la cucitura sul polpaccio, non c’era mela senza il baco, quelli di Traversetolo si facevano le onde ai capelli, quando in città passava la Mille Miglia c’era sempre chi correva per vedere Nuvolari che aveva un motore da sessantamila cavalli (a dirlo era un suo fantasioso sostenitore) e sui tornanti della Cisa i tifosi del ciclismo andavano a vedere il Giro che ogni anno a maggio passava. E il tempo pareva fermo come un’eternità. Ma una novità c’era, una sola, stava di fronte all’osteria, sul lato opposto della strada. Era la bottega di Aldo che in un certo senso era vista come il simbolo del nuovo. Insomma, il vecchio era l’anteguerra coi fascisti, i balilla, il Duce, il podestà e la Casa del fascio, e il nuovo era la bottega di Aldo. E questo era il sentire dei molti che si ostinavano a non tener conto che rispetto a prima della guerra tutto era cambiato. Il fatto stesso che da Aldo si potesse discutere di ogni cosa era sì una novità ma non per questo in positivo. Il dato poi che nelle osterie non ci fossero più quelle ordinanze che per anni avevano consigliato di non parlare di politica a molti non piaceva affatto. Anzi, i più pensavano a delle 2 Grembiule di stoffa allacciato in vita [N.d.R.].

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rimozioni dovute a certe teste calde che tutti sapevano chi erano. E intanto dicevano: «Chissà dove andremo a finire». Tutto per loro era pericoloso. Certi timori, ora che non c’era più il Duce a tenerli vivi, era il prete a rievocarli nella predica della domenica tuonando a braccia alzate contro i socialcomunisti. E siccome i partigiani erano stati in gran parte di quel colore e il sindaco era socialcomunista, il focoso prete era diventato senza fatica e in breve tempo il portabandiera di quasi tutto il paese. I socialcomunisti erano come il fumo negli occhi e il prete era il più irriducibile nemico di chi diceva di averli votati, ma più ancora di quelli che lui sospettava lo avessero fatto senza che mai si fossero fatti sentire a dirlo in giro. Per arrivare ai suoi giudizi, una necessità incontenibile quasi viscerale, si muoveva come fosse un segugio. I sospettati li chiamava rei non confessi e per loro usava tutto quello che l’astuzia gli metteva a disposizione, anche il confessionale. La sua chiusura, comunque, era totale. «Chi non è con me è contro di me» diceva, e questo, attribuendolo a Cristo, lo aveva scritto su tutti i travetti della canonica. È evidente, considerata la posizione che in un paese occupa il prete, che la sua figura eccedesse in rilievo. I giovani lo temevano perché chi va a ballare vive nel peccato e perché nei suoi tuoni il sesso veniva subito dopo il socialcomunismo. Le ragazze, in particolare, andando a ballare avrebbero aggiunto Satana a Satana e il loro comportamento, pancia contro pancia, un veleno contro la cristianità. Mentre tuonava alzava l’immagine di Maria Goretti, che avevano fatta santa in quelle settimane, e alle porte c’era l’Anno Santo. E i socialcomunisti la canonica la chiamavano il Vaticano. In sostanza quel prete aveva la chierica e Aldo andava apposta in canonica per fargliela. Era una sorta di ingombro, viveva le sue giornate con la censura tra le dita. Ma per Neviano andava bene così e la gente diceva: «Avercene…». Solo di rado il prete scendeva in paese fermandosi a parlare con chi lo salutava col cappello in mano, dava ragione a 16


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tutti, pareva anche timido ed era il contrario di quando diceva messa, che pareva un uragano. Il tutto aveva una sua logica perché il pulpito non era per niente cambiato rispetto a prima della guerra. I partigiani erano stati solo una spiacevole parentesi quale traghetto per arrivare alla democrazia, e la guerra era stata un errore di Mussolini che cattivi consiglieri l’avevano convinto a farla, e se in Africa fosse arrivata la benzina… Fatto sta che nel ’45 le bandiere rosse erano spuntate come papaveri, anche se il terreno di Neviano non era adatto per quel colore. I socialcomunisti prendevano i voti nelle frazioni, e non in paese perché la sua fertilità era stata per vent’anni innaffiata dal prete di prima che a dir messa c’era stato fino al ’39. Siccome il nuovo prete era uguale a quello di prima, la bandiera in canonica non era cambiata. Dopo il 25 aprile il suo studio, con la piccola finestra che guardava i tetti di tutte le case, era diventato la prolunga di quello che il Duce aveva detto fino al 1943. Uguali gli argomenti, uguali i toni e uguale tutto. I socialcomunisti come Satana, con corna, forcone e coda alla Minosse. E si salvi chi può se disgraziatamente avessero dovuto vincere le imminenti elezioni nazionali. I muri, tutti, erano tappezzati da manifesti incollati l’uno sull’altro, vota qui, vota là, che pendevano dalle pareti come intonaci in decomposizione. Su quelli della Democrazia cristiana c’erano scheletri spaventosi avvolti da fili spinati: erano gli italiani dispersi in Russia che imploravano le madri di non votare Stalin. «Fatelo per noi», dicevano. La guerra era ancora lì con tutti i suoi ghigni, e per i socialcomunisti c’erano le grida di certi personaggi del posto che più che attivisti parevano essere agitatori d’altri tempi. Ce n’era uno, bracciante, che ispirato dalla sua tramandata miseria girava le case per dire che: «Se vinciamo noi andrò io stesso a prender le vacche di Bazzini!», proprietario di antica razza con mezzadri alle dipendenze e case anche in città. Di questo era convinto lui che lo diceva ma erano convinti anche gli altri che lo temevano. I vent’anni 17

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di fascismo e le prediche del prete avevano modellato nel profondo le distanze tra chi aveva la terra e chi aveva la miseria e i venti mesi della guerra partigiana erano visti come l’inevitabile nodo che prima o poi sarebbe arrivato al pettine della storia. In quel marasma di convinzioni le elezioni erano diventate la vigilia di una resa finale con paure e contropaure da duello all’ultimo sangue. Per far capire il clima che c’era basti ricordare che da Aldo un avventore aveva raccontato, per scherzo e a bassa voce, di aver visto spuntare dal tetto della canonica l’asta di un periscopio, esattamente come quelli che i sommergibili hanno per scrutare il mare tutt’attorno, e aveva anche descritto l’intero armamentario di lenti e maniglie che il prete doveva manovrare per guardarci dentro e per spiare le famiglie del paese. «Pare che di notte siano venuti a montarlo gli americani», diceva, «e quella macchina rossa che il mese scorso era entrata in canonica per spegnere un incendio non era dei pompieri, di incendi in canonica non ce ne sono mai stati, ma era degli americani!» La notizia era subito circolata e aveva dato a molti la certezza di una protezione a prova di carro armato e ai socialcomunisti il disagio di non potersi sottrarre da quell’invadenza che, se vera, sarebbe stata meccanica solo in apparenza. In quel clima – che per avvertirlo bastava respirare – il sindaco, uomo di buon senso che prima della guerra aveva fatto il tranviere a Milano e prima ancora, da migrante, era andato a lavorare in Germania nelle miniere della Slesia (quando da Aldo gli chiedevano quale fosse in Slesia la città più vicina al suo cantiere, rispondeva Crocavia perché mai gli veniva di dire Cracovia, e la domanda gliela facevano spesso, con malizia), dopo aver celebrato il 25 aprile aveva organizzato una manifestazione per il Primo Maggio e le disposizioni che aveva dato erano state quelle della pompa magna più chiassosa. Turbare, provocare e portare sconquasso. «C’è bisogno di scosse in questo paese», aveva det18


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to in una riunione. «E al prete gliela faremo vedere noi!» La riunione l’aveva tenuta di notte nella cantina della cooperativa di consumo il cui gestore, Cornelio, era un suo assessore e anche l’uomo di sua più stretta fiducia. Cornelio era una di quelle persone con la passione a fior di pelle e l’unico argomento che riusciva a interessarlo era la politica, se si esclude il ciclismo al tempo del Giro di Francia. Per questo in ogni momento era un tutt’orecchi. Mai gli sfuggiva niente di quel che dicevano in paese, anche di quel che pensavano, e fin dal primo mattino dalla tasca della giacca gli spuntava «L’Unità», piegata alla perfezione, che per lui era il Vangelo. La barba se la faceva ogni tre giorni e a vestire era piuttosto trasandato. Era la sua corporatura a non permettergli di fare meglio e un’occhiata era sufficiente per vedergli cose fuori dalle righe. La cintura, per dire, che sul di dietro gli passava al punto giusto, dopo aver girato sui due fianchi gli spariva sul davanti come se a inghiottirla ci fosse una montagna e chi avesse voluto cercarla sarebbe stato preso dall’idea di un’esile mensola che dovesse sostenere il peso di una balconata. L’unico rapporto che quella cintura poteva avere coi suoi pensieri, ammesso che di pensieri ce ne fossero, poteva solo stare nell’illusione di snelle e irripetibili stagioni giovanili. Solo lì poteva stare. Il gilet invece, sempre a causa della corporatura, gli saliva verso il torace e il complesso di quei due stacchi, uno verso il basso e l’altro verso l’alto, dava a tutto il suo corpo l’aspetto di una composizione a forma di rombo i cui pezzi separati dovessero per forza far parte della stessa persona. «Essere rilassati vuol dire dare vantaggi». Questo lo aveva detto il funzionario del partito la notte che era salito dalla città per affrontare la situazione. Aveva poi aggiunto che al prete bisogna cantargliele chiare, senza peli sulla lingua, notte e giorno. Dopo quella sera Cornelio, che per lui le parole del fun19

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zionario erano come la Bibbia, considerava suo dovere rispondere per le rime a tutte le critiche che i democristiani del paese facevano al sindaco e anche a lui. Quando la moglie lo tirava per la giacca per dirgli di stare calmo, ci sono i clienti, lui grignava i denti come un cane ringhioso e a mezza voce ripeteva: «Gliela faccio vedere io a questi pretari, gliela faccio». Sul mezzogiorno, poi, quando la moglie seduta in disparte e grassa come una statua di Botero si dava aria con un ventaglio che pareva un colibrì, lui le diceva: «Tu pensa al negozio che al resto ci penso io». E lei, a sua volta, che niente poteva fare per tenerlo calmo, muoveva appena gli occhi come a dire “Mio marito è fatto così e così me lo devo tenere”. Cornelio ce l’aveva col medico del quale ogni giorno, come assessore delegato, era chiamato a firmare i certificati per l’assistenza ai contadini senza mutua. Il medico si chiamava Luciano, era da poco arrivato dalla città, era liberale e l’essere liberale suonava l’opposto di chi era socialcomunista. Il papa da Roma aveva parlato di scomunica e prima ancora che la scomunica arrivasse tutte le parole erano autorizzate, anche le più estreme e le più irriguardose. In Comune, finite le firme, il medico attaccava così insistente che pareva una goccia. Era sempre lui il primo e gli argomenti non cambiavano mai: in Russia non c’è libertà, in Russia non si fa sciopero, in Russia non ci sono macchine, e via di questo passo. Ma per Cornelio, che aveva la quinta elementare, quegli incontri diventavano drammatici quando il medico esagerava con la superiorità della sua cultura. Erano le citazioni a infastidirlo. «Ma cosa vuoi tirare a mano», gli rispondeva quando si sentiva sopraffatto. Ai compagni che di sera andavano a bere in cooperativa diceva: «Cosa volete che me ne importi a me di Platone, di Socrate e di Croce», e diceva anche che non valeva la pena di perdere del tempo per ascoltare certe baggianate. «Dice sempre le stesse cose», sbuffava, «e non sa dire altro che quelle. Sempre la Russia, sempre Stalin e sempre le solite balle. Parlasse una volta delle leggi vigenti», gli piaceva dire vi20


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genti, «e sarebbe meglio che agli operai ci dessero la giusta Mercedes». «E poi sentite quel che vi dico», aggiungeva rinfrancato, «quel dottore è un pallone insapientito». E nel dir questo, come era solito fare tutte le volte che si sentiva in difficoltà, s’infilava la mano nella tasca destra delle braghe e la muoveva verso il basso, sotto l’inguine, dove per chiunque ha sede la scaramanzia da toccare. Per arrivare al punto desiderato però, per via della pancia, doveva abbassarsi oltre le sue possibilità e a quel punto doveva fermarsi. Ma il gesto, solo il gesto, lo confortava. Non era raro che chi gli si trovava vicino lo sentisse borbottare parole incomprensibili come se in bocca gli bollisse una pentola piena di fagioli. Un giorno che evidentemente stava pensando al medico liberale – forse lo aveva appena incontrato – e profittando del fatto che la moglie non era dietro il banco, il mugugno, dopo essersi infilato la mano nella tasca, lo aveva brontolato quasi a voce alta con l’intenzione forse di farsi capire da quei quattro clienti che stava servendo. Però anche quella volta chiarezza niente. Quello stesso pomeriggio una donna che zitta zitta aveva ascoltato tutta la mugugnata, e che per cercare di capire quel che diceva, gli aveva seguito il movimento delle labbra sillaba dopo sillaba, era andata a trovare un’amica per dirle che lei il problema lo aveva risolto. Lo aveva detto con l’aria soddisfatta di chi è riuscito a svelare il rebus (così i clienti della cooperativa chiamavano le brontolate di Cornelio) e se n’era anche vantata. «Cosa ha detto?», le aveva chiesto l’amica. «Prima sembrava che recitasse una filastrocca e si guardava attorno come fa uno che ha paura di qualcosa, poi s’era chinato con la mano in tasca». «E allora?» «E allora ho capito tutto». «E cos’hai capito?» «Ho capito che diceva “Cosa vuoi che me ne importi a me di Croce, di Socrate e di Platone”».

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Il giorno della festa le bandiere erano dappertutto. Solo rosse. Non c’era albero o sporgenza che non ne avesse almeno un paio e ovunque c’erano ritratti. C’erano Lenin, Stalin, Togliatti, Pajetta, Nenni, Morandi, Gramsci, Di Vittorio e altri ancora. In altre parti c’erano arcigne caricature di De Gasperi con in testa un nero cappello da monsignore, di Truman col mappamondo in mano e di Churchill con un lucido cilindro che fumava un enorme sigaro fatto di sterline. Il prete, che aveva avuto una soffiata (il sindaco aveva poi sospettato del segretario), si era mosso per tempo e tramite certe sue conoscenze di città era riuscito a farsi autorizzare una processione che nel pomeriggio del Primo Maggio, dopo aver percorso il paese in lungo e in largo, sarebbe arrivata nella piazza del municipio alla stessa ora del comizio che il sindaco credeva di poter tenere. In questura gli avevano infatti assicurato che per tutta la giornata l’unico microfono autorizzato sarebbe stato il suo e che nessun altro avrebbe parlato nella piazza. Il Primo Maggio va bene, è una festa che è giusto celebrare, gli avevano detto, ma di comizi non se ne parla proprio. La partita era allora tutta da giocare e il prete s’era sentito il pallino tra le dita. Aveva fatto salire dalla città un monsignore molto conosciuto, un predicatore, e a Neviano la sua fama era dovuta al fatto di essere un prete col brevetto da pilota. Tutti sapevano che era lui, di tanto in tanto, la domenica pomeriggio, se c’era il sole, che passava col suo piccolo aereo sui tetti del paese. Lo chiamavano Rossolini. Il Primo Maggio, alle quattro, una giornata di sole, Neviano era fermo sotto tutti i punti di vista che quasi pareva una cosa irreale. A muoversi era solo la massiccia processione con la Madonna di gesso azzurro che ondeggiava alta su centinaia di teste e i socialcomunisti tenuti a bada davanti al municipio da una ventina di poliziotti saliti dalla città con elmetti e manganelli. Fermata la processione, poi, il predicatore, solenne nei suoi paramenti, si era avvicinato al microfono guardando intensamente davanti a sé ma il discorso non lo aveva fatto. Le bandiere lo mettevano a disagio e lo sdegno 22


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lo rendeva nervoso. «Io vengo dalla città», aveva solo detto, «e fino a dieci minuti fa credevo che il vostro paese fosse quella cosa piacevole che volando ho sempre visto dall’alto. Di questo però devo ricredermi perché oggi il vostro paese lo vedo dal basso e quel che posso dirvi è che di piacevole non ci trovo proprio niente!». Poi per un attimo s’era incrociato col sindaco, che gli era a pochi metri, in mezzo alle sue bandiere. Quattr’occhi pieni di freddo. Chiusa la funzione con le braccia alzate nel gesto di una non solenne benedizione e preceduto da un chierichetto che spargeva incenso si era riavviato verso la canonica con dietro tutta la processione cantando a squarciagola Mira il tuo popolo, o bella Signora. Per i fedeli la sua camminata era la sicura cadenza di un condottiero vincitore. Il giorno dopo in paese i commenti si sprecavano e da Aldo un avventore, uno di quelli che senza timore diceva di votare per il sindaco, aveva detto che quel monsignore di città, con tutti i suoi paramenti addosso, gli era sembrato un grande torrone fasciato da uno spesso foglio di carta stagnola. E nel gesto di chi s’infila qualcosa tra i denti lo aveva chiamato Monsignor Pernigotti. Lasciate che i pargoli vengano a me. Questa frase, assai vistosa, il parroco l’aveva fatta scrivere con calce bianca lungo tutto il muro della canonica e da qualsiasi parte del paese la si poteva leggere. Nel muro esterno, sempre con la calce, e con lettere alte più di un metro, aveva fatto scrivere Cristo vince, Cristo regna, Cristo impera. A dettare il tutto era il braccio di ferro tra lui e il sindaco. Non c’era tregua, e quelle due scritte volevano essere una sorta di crociata per ostacolare i socialcomunisti. «Com’è possibile», dicevano in paese, «che proprio a noi sia toccata una tale disgrazia? Colpa dei partigiani!». Erano in molti a sostenere che se i tedeschi avessero fatto piazza pulita il problema non ci sarebbe mai stato. Quelli che erano stati al fronte e quelli che erano stati prigionieri dicevano che i partigiani erano degli imboscati e che ora, sen23

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za alcun merito, pretendevano di comandare il paese. Poi c’erano quelli che dicevano che in Italia si stava meglio prima e che se oggi si sta peggio la colpa è di Togliatti. E a nessuno interessava se al tempo del fascio non c’era la libertà e neanche che Mussolini avesse fatto la guerra. «L’unico errore che ha fatto», sentenziavano, «E se non ci fossero stati i traditori non l’avrebbe neanche persa. E i partigiani che erano morti? Nessuno li ha chiamati. Se stavano a casa sarebbero ancora vivi e se sono morti è perché se la sono cercata. Peggio per loro». Sta di fatto che il sindaco quelle scritte le vedeva come una pubblicità contro di lui e come pubblicità le aveva tassate. Tariffa più alta e grande soddisfazione nel sotterraneo della cooperativa. Apriti cielo. E il cielo s’era aperto davvero. La stampa di tutt’Italia se n’era subito occupata e la «Settimana Incom» aveva portato Neviano in tutti i cinema d’Italia. Non c’era giorno che in paese non ci fossero fotografi e giornalisti. La “tassa sul sagrato”, così la chiamavano, aveva messo Neviano al centro di un’attenzione che mai nessuno aveva immaginato. Le macchine targate Roma e Milano non facevano più notizia e non c’era nessuno che non si fosse attrezzato per esser pronto in caso di chiamata. Il centro era la bottega di Aldo dove la gente arrivava col vestito della festa e lì si sedeva con gli occhi fissi verso la finestra. «Chissà cosa succede oggi», dicevano, e intanto divagavano. Un mattino di sabato, pioveva, un giornalista con due gran baffi e una sahariana che quasi gli arrivava alle ginocchia era entrato in bottega. Istantaneo il silenzio. Aveva chiesto la barba: pelo e contropelo. Aldo con una insolita reverenza e pieno di soggezione lo aveva fatto accomodare sul seggiolone e mentre girava il pennello sentiva che la mano gli si ammorbidiva per l’emozione. Guardandolo, poi, gli era sembrato di ricordare chi fosse quel signore, perché il suo viso non gli era nuovo. E anche i baffi non gli erano nuovi. Era un ricordo, il suo, una cosa lontana, forse una stranezza, e mentre lo insaponava, che neanche più sapeva 24


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perché dovesse girare il pennello, diceva tra sé e sé: «Questo si chiama Gino e io lo conosco». E sentiva disagio perché gli sembrava strano che quella persona che buona buona gli stava sotto la salvietta potesse essere un giornalista. Per lui i giornalisti, come categoria, come carne e ossa, non dovevano mai essere gente comune e tantomeno chiamarsi Gino come Bartali. Eppoi i giornalisti dovevano essere forestieri, gente della capitale o di grandi città. Venire da lontano, insomma. Anche gli altri ch’eran lì, superato il disagio, s’erano ricordati di quel tipo e ognuno aveva fatto per conto proprio gli stessi pensieri di Aldo. Il giornalista, allora, che tutto avvertiva come se da sotto la salvietta gli arrivassero dei segnali, prima che qualcuno gli chiedesse qualcosa, aveva anticipato ogni domanda e s’era presentato per conto proprio. «Io mi chiamo Gino», aveva detto, «e il mio giornale è di Milano». Dunque tutto confermato. Aveva anche detto di essere parmigiano e che lui nel nevianese c’era stato al tempo dei partigiani. «Li conosco bene questi posti, e se avessi voglia di sforzarmi, voglio dire se ne valesse la pena, potrei ricordarmi anche di voi, uno a uno, e delle vostre case». E la bottega s’era gelata. Quel “se ne valesse la pena” lo aveva detto col tono di uno che vuol far sapere di non essere interessato a niente, neanche ai fatti per i quali era lì a lavorare. Ma dato il mestiere, per quello era pagato, qualche domanda aveva dovuto farla e allora aveva chiesto del prete e del sindaco, finita la barba, ma niente di più. Nemmeno un appunto s’era preso. Poi di colpo, forse per ravvivare l’ambiente che vedeva intimidito e non gli andava di vederlo così, s’era messo a parlare d’altre cose e lo aveva fatto col vigore di uno che vuol dare una spallata a una porta chiusa. Le parole, una a una, le aveva scandite come un pittore fa coi pennelli. E guardava, mentre scandiva, guardava e scrutava, cercava gli occhi dell’uno e quelli dell’altro, li fissava, e in quel che diceva a prevalere erano i sottintesi e ogni argomento lo troncava dopo averlo solo accennato. «Questo spara per sentirci in bocca», pensavano tutti, che la diffidenza l’avevano nell’istinto e 25

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mal sopportavano di essere puntati in quel modo. Poi s’era fermato e di colpo nella bottega era tornato il silenzio. S’era allora guardato attorno, un po’ ironico un po’ inquieto, sapeva d’aver esagerato, ed era uscito brontolando dopo aver pagato la barba e dopo aver detto ad Aldo di tenere il resto. Di cose ne aveva dette parecchie, in soli dieci minuti. Aveva parlato della commedia della vita, dei preti, dei sindaci, della politica e dei sogni della gente, ma più che d’altro aveva parlato di sé. O così era sembrato. Insomma, a tutti erano parsi chiari i suoi bollori, i suoi tormenti anche, e ancor di più la sua incapacità di poterli tacere. Dopo ch’era uscito, i commenti s’erano sprecati. Il giorno appresso, facendo il proprio commento – il giorno prima era stato zitto – Aldo aveva detto che mentre quel Gino soliloquiava lui pensava a una bomba a mano con la linguetta pronta per esser tolta dalla sicura. Era da poco che quel Gino s’era messo a riconsiderare tutto di sé, dei suoi anni passati, le esperienze fatte, le convinzioni, e mai perdeva l’occasione di dire di aver cominciato a vivere una seconda vita. Per dirlo, ogni circostanza gli era buona, anche ogni argomento. Ai più amici, i più vecchi, quelli che aveva in maggior confidenza, parlava di crisi esistenziale e diceva che nei pensieri e nel sentire gli era entrato un qualcosa che giorno dopo giorno lo allontanava da quello che sempre era stato e che da quel qualcosa, un rodimento, si sentiva messo in difficoltà. Aveva tante storie che lo legavano al passato, agli amici principalmente, ma quel che lo tormentava era l’intima sfida di due persone che gli vivevano dentro, l’una contro l’altra. Una aggressiva e tutta nuova, l’altra piena di memoria e chiusa in se stessa. L’incudine e il martello insomma, e una voce che gli diceva “Vai avanti”, “Se uno parla almeno apre discussioni”, e “Meglio è parlare che stare zitti”. La razionalità di cui era capace gli faceva osservare la mediocrità di tutti i giorni che con fastidio chiamava l’insignificanza delle chiacchiere ripetute. «La gente chiacchiera, 26


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chiacchiera, chiacchiera», diceva, «stesse un momento zitta». Ce l’aveva con le ideologie, che sono la giustificazione di tutte le nefandezze della storia, e ripeteva: «L’unico motore capace di muovere l’uomo è l’odio senza ragione, l’odio fine a se stesso, perché così è sempre stato e perché così è la natura degli uomini». E ancora diceva di aver finalmente capito l’esigenza di milioni di uomini nel cercare eremi fuori dal mondo dove potersi ritirare per praticare la solenne cerimonia del silenzio. Ogni volta che tornava, i suoi argomenti si ripetevano. Prima però la barba. Poi consigliava ai giovani, se c’erano, di fare attenzione. I giovani lo ascoltavano a bocca aperta, incantati. I loro orientamenti, quelli politici, andavano formandosi coi comizi nella piazza del municipio dove s’erano abituati a sentire gli uni negare le ragioni degli altri ma anche a percepire la passione delle idee e le differenze che possono esserci tra gli uomini e tra i partiti. Nelle sue parole i ragazzi coglievano invece il contrario di tutto, e il disagio che li colpiva cambiava in dubbi le loro ancor fragili certezze. Anzi, nella strana armonia delle cose tra loro opposte, i dubbi diventavano altre certezze, molto diverse da quelle di prima e anche contrarie. «Voi avvertite che nell’aria c’è qualcosa che spinge fuori», aveva detto un giorno che più del solito gli andava di parlare forte, «che spinge per cancellare il mondo dei padri. E questo voi lo godete fino a farlo diventare un sogno. Voi credete, credete, credete, ma a cosa credete? Quello che si cancella non torna più. E io che posso dire di aver a mio tempo sognato mi trovo a discutere di cose assurde come questa tassa sul sagrato. Sapete qual è la mia previsione a proposito non dei sogni ma della realtà? Che presto conteranno i carrieristi, gli imbecilli, i cortigiani e i calcolatori d’ogni fatta, cioè quelli che saranno capaci di coniugare la loro cultura fatta di niente con la propria innata furbizia e con una sfilza senza fine di frasi fatte e di parole difficili. E avremo la banalità al potere. E ognuno odierà l’altro. Ecco dove cadono le illusioni. Le illusioni prima ti fanno cam27

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minare con la testa nelle nuvole e poi ti fanno trovare col culo per terra. È lì che s’infiltrano gl’imbecilli e anche i cortigiani. Oggi si parla di comunismo e di mondo nuovo, sogno antico che Lenin ha brutalmente profanato. Chi distrugge le illusioni e chi toglie il fascino all’utopia è un colpevole di tutto. Lo è di fronte agli uomini e lo è di fronte alla storia. Dante, Lenin lo avrebbe messo all’inferno, in un girone fatto apposta per lui e per tutti i ladri d’illusioni». «E allora?», gli aveva chiesto Marino, il figlio della maestra, che lo sentiva travolgente. «Allora niente, la mia è solo amarezza. Se volete è anche banalità. Di 25 aprile ce ne saranno sempre, via uno sotto l’altro, ma anche di tramonti ce ne saranno sempre perché questa è la vita». Poi, facendosi serio fino al punto di somigliare a un altro, e facendo un gesto verso il municipio e anche verso la chiesa, aveva detto che ormai siamo alla commedia. «Anzi, alla farsa. E il grottesco è che anche dietro la farsa possono attecchire i sogni della gente». Aveva quindi acceso una sigaretta, una delle tante, e dalla sahariana aveva tratto un piccolo taccuino. Poi con la matita, l’aveva sempre in tasca, s’era messo a disegnare il suo autoritratto. Aveva iniziato tracciando l’arcata dei baffi. Mentre disegnava canticchiava Dell’amor più desto è l’odio, l’aria del baritono che Verdi – aveva subito spiegato – fa cantare a Renato nel primo atto del suo Ballo in maschera. «Verdi era uno che della vita aveva capito tutto», aveva poi detto porgendo l’autoritratto ad Aldo che immobile come un pezzo di legno lo ascoltava col rasoio tra le dita. Sulla tavola troneggiava la boccia del vino. Vino da botte, s’intende, brillante nel suo rubino e brusco al punto da far schioccare le labbra al primo contatto col bicchiere. Per Gino quel vino era il massimo dei sapori, era il nettare. Era il sapore di tutti i sapori della terra. La boccia era trasparente e il suo lungo collo fatto a ciminiera era il campanile di una cattedrale. Una cosa da adorare, insomma, e da pre28


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garci davanti. «Non sarebbe pensabile per questo vino», aveva detto mentre tutto assorto osservava la bottiglia, «avere il sapore che ha se la boccia non fosse quella che è». Il pranzo era stato alla buona, come tutte le cose improvvisate. Quel giorno un avventore di Aldo, uno di quelli che ormai s’era abituato a parlare con lui e ad ascoltarlo, lo aveva invitato a mangiare a casa sua. «Quello che c’è c’è», gli aveva detto, e alla moglie l’aveva vociato dalla strada. Gino, che per abitudine non metteva ostacoli a chi lo invitava a pranzo, o a cena, aveva allora detto che per lui sarebbero bastate due uova in un tegame e ancor meglio una cipolla con un po’ d’olio in una tazza. A tavola, poi, s’era trovato davanti un abbondante piatto di tagliatelle, per le quali la padrona di casa si era scusata perché non erano quelle del negozio. «Le ho fatte io, deve accontentarsi». Ma quello che più di tutto gli era piaciuto, assieme al vino, era stato il pane fatto in casa, come le tagliatelle. E toccando nei vari punti la grossa micca che alzava col gesto del sacro, si sentiva percorso dai profumi del forno, del fuoco e della cenere messi assieme. «Delizioso», ripeteva, e sotto gli occhi si stampavano luccicanti perline di sudore. Alla fine, dopo i sorsi a occhi chiusi dall’ultimo bicchiere, aveva preso dalla giacca il suo solito taccuino. Aveva disegnato un vigneto, con la boccia del vino avvolta dai filari. Sul basso aveva tratteggiato un piccolo portale e in alto, sul collo, aveva messo la croce ripetendo pari pari la forma del cavatappi che gli stava di fianco, sul tavolo, a leve aperte. In saecula saeculorum aveva poi scritto come dedica, e con un largo sorriso lo aveva allungato alla padrona di casa. Era così cominciata un’altra delle sue tante frequentazioni nevianesi. «Ma lei chi è?», chiese un signore che lo ascoltava sempre quand’era da Aldo. Gino non aveva risposto. Lo aveva solo guardato. «Intendo dire come la pensa», aveva insistito il signore, 29

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«perché in tanti anni che ci conosciamo mica sono riuscito a capire quali sono le sue idee e ogni volta che la sento la confusione mi aumenta». Erano passati più di vent’anni dal tempo del sagrato e Gino era ormai un pensionato. Era anche un signore anziano ormai, ma a Neviano tornava spesso per frequentare gli amici che negli anni s’era fatto. E non c’era nessuno che non avesse in casa un suo autoritratto attaccato al vetro della credenza. Il corpo gli si era appesantito, solo un po’, i capelli gli s’erano ingrigiti ma c’erano ancora tutti e i grandi baffi erano rimasti quelli di prima. «Dei giorni mi sembra uno di sinistra poi di colpo mi diventa uno di destra. È questo che non capisco». «Macché destra e macché sinistra», aveva sbottato lui, «queste cose io non le accetto. Io osservo la vita come la osserva lei e vedo che di sinistre ce ne sono tante, troppe direi, per esempio la mia, che certamente è molto diversa dalla sua». «Vale a dire?» «Per la sinistra che non mi piace i problemi non dovrebbero mai esser risolti, perché a valere, sempre, è il poter dire che la colpa è del Governo. Per chi è così, il modo di pensare non è mai nel pensiero ma è solo nell’essere. Chi è così non pensa; vive semplicemente la sua natura, che da mattina a sera esprime negli atteggiamenti. Penso alla noia negl’occhi, alla insoddisfazione perenne, la barba incolta, le canzoni con la chitarra a tracolla, i borsoni fatti a zaino, i jeans sfilacciati, le cravatte a fiori su camicie scozzesi e per le donne alla puzza sotto il naso. Quella sinistra che dice di essere di sinistra perché in Italia non c’è stata la riforma protestante e nutre se stessa col cinema d’essai a patto che sia in bianco e nero. A proposito lo sa lei che il cinema a colori è di destra? Ecco, adesso lo sa. Mi riferisco inoltre a quella sinistra che non manca mai di essere sensibile a tutte le sparate demagogiche, nessuna esclusa. È una strana sinistra quella che sta invadendo la sinistra, o che già l’ha invasa, e io non saprei definirla se non in un solo modo: una 30


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malattia esistenziale senza alcuna possibilità di essere curata. Le voglio anche dire che chi è così, sono molti, prima o poi ti dirà “Uffa mi sono stufato” e si butterà dall’altra parte. Io questa sinistra la detesto perché se rifletto mi ci specchio dentro pari pari». «Mi guardi pure», aveva detto fissando severo il signore che lo stava ascoltando, severo a sua volta, quasi incredulo, «e vedrà come anch’io sono uguale a tutti gli altri. E poi sa cosa le dico? Che chiunque a modo suo è di sinistra così come chiunque a modo suo è di destra, e che la destra, al contrario della sinistra, l’abbiamo dentro come dotazione naturale». «Cioè?» «Cioè che l’uomo quando nasce è uguale agli animali, ha gli stessi impulsi, gli stessi istinti e gli stessi egoismi. Questa è la natura e chi è di destra non fa altro che essere come natura l’ha fatto. Tutto lì. Chi vuol essere di sinistra deve invece ragionare, deve comprendere, deve analizzare e deve porsi tanti perché e tanti percome. Anche della sociologia deve fare. In sostanza essere di sinistra è fatica». «E io continuo a non capire». «Voglio dire che la sinistra è debole perché la natura è più forte di lei». «Allora lei vuol dire che la natura è di destra». «Senta», aveva risposto Gino, «a lei non risulta che nella sinistra vive il sogno di cambiare l’uomo?» «In che senso?» «Nel senso di fare l’uomo nuovo, diverso da quello che è sempre è stato». «E allora?» «E allora le ripeto che la natura è più forte della sinistra». «È per questo che lei è diventato di destra?» «Macché destra», aveva ribattuto Gino, «lei continua a battere questo tasto. Io non sono né di destra né di sinistra e quello che per certo so è che non credo più alle illusioni. Io sono un deluso di tutto, della sinistra, della vita e anche della destra. E voglio aggiungere che il guaio di oggi, quello che io avverto, è che c’è sempre chi ha la pretesa di sta31

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bilire chi sei e cosa sei, come ad esempio lei in questo momento. E visto che ci siamo, voglio dirle che la storia, di tanto in tanto, diciamo ogni cent’anni, partorisce un sogno e chi si trova a viverlo, chi lo adotta, viene chiamato di sinistra. In altre parole la sinistra è un sogno della storia». «Sì, ma il mondo è cambiato coi sogni della storia». «È questo il punto. Senza sogni il mondo non cambierà mai, ma poi i sogni muoiono, come gli uomini, e a restare è quello che lei chiama “la destra”». «Va bene», aveva risposto l’avventore, «ma quello che non capisco è perché solo alla sinistra è permesso di sognare». «Perché il sogno è la sua prerogativa. Senza sogno la sinistra non esisterebbe». «Quindi, lei dice, la destra non può sognare». «Al contrario», aveva ripetuto Gino, «la destra può sognare come chiunque altro, anche alla grande, ma nel momento in cui si mette a sognare perde tutto di sé e diventa la sinistra». L’argomento non finiva mai perché Gino ogni volta ne montava un pezzo e per come lo montava, pareva uno che volesse condurre una sorta di intrattenimento a puntate. «È come il pozzo di san Patrizio», scherzavano da Aldo, «gira, gira, gira, e non finisce mai». Quando entrava si dava un’occhiata attorno, si sedeva se c’era posto e con varie premesse, sempre amabili e ovviamente da par suo, preparava la seduta. Non sopportava l’insofferenza, che intuiva prima ancora di constatarla. Quando capiva che quel giorno non era per lui, salutava con garbo e usciva sulla strada. «Per oggi basta così», diceva. E quel “per oggi” era il sottinteso di un “ne riparleremo”. Quando poi tornava, magari dopo un mese, a stimolare il sospeso era un unico cliente, sempre quello, persona precisa e gioviale, uno di quelli che sono soliti annotare ogni cosa di quel che vedono o sentono e che anche a distanza di anni ricordano tutto di tutto e ti sanno riferire di quello che hanno visto o sentito: il giorno, il mese e anche 32


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l’ora. Era un ex partigiano cui gli argomenti di Gino piacevano da morire. Li ascoltava a bocca aperta perché nel sentirli provava il piacere delle cose nuove. Avvertiva, insomma, i venti di un ciclone. E quando capiva che Gino era in paese correva da Aldo. E Aldo, vedendolo arrivare, capiva che Gino da lì a poco sarebbe arrivato a sua volta. «Senti che roba». A parlare quel giorno era stato l’ex partigiano. La misura per lui era superata. «Lei è stato partigiano, non può parlare così». Gino aveva appena fatto alcune considerazioni, ovviamente delle sue, ma contrariamente al solito era stato quasi aggressivo. «Certo che l’ho fatto. Perché?» «Quindi lei è antifascista». «Io ho combattuto il fascismo tanto come lei, perché me lo sentivo addosso e non lo sopportavo più. Oggi invece a ispirare i miei fastidi, e direi a farmi parlare come parlo, è un fascismo che non è più quello di Salò, che se anche ci fosse non mi farebbe paura, ma è quello che tutti i giorni si muove nelle persone e che può annidarsi dappertutto, anche in lei e anche in me. Anzi, non si sa mai dove lo si possa trovare. E poi, veda, chiariamoci le idee. Oggi sono molti quelli che dicono di essere antifascisti con la pretesa di essersi guadagnata una patente perché hanno fatto il partigiano. Ma io queste patenti non le riconosco e gli anti non mi interessano affatto. Uno è stato anti dal... al..., chiaro? E a dirlo dev’essere un attestato con tanto di data e di timbro, e lei sa a quale periodo mi riferisco. Se invece all’attestato si vuole dare una valenza per sempre allora tutto cambia perché il problema non è essere stati antifascisti un tempo ma è essere non fascisti oggi. Spero che questo lei lo capisca. Ma a proposito dei suoi discorsi io le chiedo se lei si ricorda le piazze osannanti per l’impero di Mussolini e le folle impazzite per la dichiarazione di guerra. Le ricorda queste cose o no? Ecco il problema, noi siamo tutta quella roba lì, come direbbe Totò». L’ex partigiano lo guardava incredu33

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lo, non sapeva cosa dire, e quando Gino s’era zittito solo una cosa gli era venuta di dire: «Quello che non capisco è cosa c’entra Totò». «Totò c’entra», gli aveva risposto Gino, «eccome se c’entra. E se vuole glielo spiego anche». «Ne sarei curioso». «Vede, in quello che lei chiama fascismo e antifascismo io ci vedo una grande commedia dove nel ’45, mandato dal Padreterno, Totò si presenta in un tribunale per giudicare il popolo italiano a partire dal 1922. E sa cosa dice Totò quando tutto togato inizia il processo?» «Lo dica lei. Io non lo so». 3 «Totò dice “Imputati... alziamoci ”. E le ragioni sono sotto gli occhi di tutti, anche dei suoi se ha l’umiltà di pensarci. E tanto che ci sono voglio dirle che la guerra partigiana, la nostra guerra, passerà alla storia come il sogno fallito d’aver cancellato il fascismo. Lo abbiamo sconfitto, questo sì, ma sconfiggere non vuol dire cancellare». «Secondo lei, allora, il nostro antifascismo era un sogno» «Proprio così. La realtà, brutta e arida, è quella che lei chiama “la destra”. E da lì non si scappa. E poi guardi, a me interessa il futuro e se potessi il passato lo cancellerei. Anzi, del passato e di tutta la roba che oggi ci gira attorno non voglio più sentirne parlare». Si era quindi zittito e il pensiero gli s’era mosso per cercare il nascosto del suo interlocutore. «Questo ha la patente», pensava. Poi a voce quasi alta aveva detto: «Voi siete pieni di routine». «In che senso?» «Nel senso che nei nostri pensieri, quando eravamo in montagna, tutto era un orizzonte. Lo marchi questo, perché gli orizzonti sono il motore dei sogni. Tenga presente che mentre i vincitori celebrano i loro trionfi, di orizzonti se ne aprono altri, tanti altri, ma chi celebra non li vede. Il re3 Imputati...

alziamoci è uno spettacolo di rivista portato dalla compagnia di Totò in giro per l’Italia nel 1943 [N.d.R.].

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duce organizza manifestazioni, rilascia attestati, inaugura monumenti, appende bandiere, in altri termini celebra se stesso con la convinzione di avere a che fare con una divinità. E col passato che gli diventa altare, di sogni non può più averne. Qui comincia il grottesco, perché la divinità ha sempre bisogno di sacerdoti, anche di bigotti, e piano piano quello che le si forma attorno diventa un brodo senza fermenti, un qualcosa di cui essa si nutre ma che anche l’avvelena. È così che nascono i tipi come me. Ecco cosa sono io: un eretico o se preferisce un infedele». «E io sono a disagio», aveva risposto il signore, «lo sono perché quello che lei dice non riesco né a capirlo né a condividerlo. Io penso che se fosse come dice lei, non sarebbe più possibile distinguere il rivoluzionario dal conservatore e neanche chi è di destra da chi è di sinistra». «E dai con la destra e la sinistra, abbia pazienza. La questione è molto semplice. Il conservatore è quello che non ammette i cambiamenti mentre il rivoluzionario è quello che non ammette soste ai cambiamenti. I cambiamenti sono orizzonti e vivono nella cadenza dei giorni. Via uno sotto l’altro. Per quanto riguarda la sinistra e la destra le ho già detto che a me non piacciono questi discorsi ma ugualmente le dirò che, quando si compiono, tutte le rivoluzioni sono di sinistra – o possono sembrarle – mentre il potere che poi esprimono è sempre di destra. È il potere che è di destra perché col potere tra le mani anche il rivoluzionario diventa conservatore. In ogni modo le rivoluzioni, tutte, dopo aver esaltato la banalità degli uomini e dato gas al loro grigiore più profondo, si trasformano prima in delusioni e poi in tragedie. «Questo è un anarchico», pensava l’avventore. E Gino continuava: «Poi il comunismo verso cui tutti abbiamo guardato, io per primo ma lei ci guarda ancora, è il sogno di una società dove un giorno tutto sarà realizzato e dove ogni cosa sarà in funzione di una felicità senza tempo, definitiva, e il paradiso tornerà a essere quello terrestre. Io penso che una siffatta società, ammesso che possa esistere, 35

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soffrirebbe la mancanza di orizzonti perché con sé porterebbe il concetto dell’eternità. Lo dico con amarezza: una tale società non potrà che morire di propria mano, di autoasfissia diciamo, con la delusione di miliardi di uomini in tutti i continenti. E poi il sogno dell’uomo nuovo! Andiamo amico, l’uomo non cambierà mai. È per questo, come ho detto altre volte, che Lenin lo metterei all’inferno». Gino aveva poi tolto dalla giacca il solito taccuino, anche la matita, e con un sorriso s’era messo a tratteggiare un suo strano autoritratto, sempre partendo dai baffi. Da quel che sul foglio via via prendeva forma, la bocca, gli occhi e tutto il resto, usciva un qualcosa che faceva pensare a tante altre facce, migliaia, tutte nell’atto di fuggire da se stesse. E dentro, nei suoi tratti, si muoveva l’idea di una sofferenza antica, la sua, che altro non era se non il dubbio di poter essere egli stesso quel servo che da sempre temeva gli vivesse nell’anima come il veleno di una vipera. Quel servo lo cercava ovunque e tutti quelli coi quali aveva occasione di parlare erano una buona occasione per scrutare se stesso da fuori. «Questo è per lei», aveva poi detto allo sfinito interlocutore, e gli aveva allungato l’autoritratto con fare garbato, quasi volesse ringraziarlo per averlo aiutato nella sua inesauribile ricerca. Gino aveva novant’anni ma vecchio non era. O meglio, vecchio lo era ma non nella testa e più il tempo passava più l’acume dei suoi pensieri sapeva trovare la strada giusta per farsi sentire. Era un’acutezza burbera e pungente ed era la lama di quella giovinezza nascosta che sempre vive per non morire mai, anche nella vecchiaia. Inquadrava le persone con la misteriosa capacità di vederle da dentro e in tutte sapeva individuare quegli aspetti che di volta in volta desiderava trovare. E a dire che li aveva trovati – quando li trovava – erano le pupille, che gli si accendevano come lampadine. Negli altri cercava le sue stesse angosce e chi non gli era uguale lo rifiutava per istinto. 36


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Arrivava a Neviano sempre accompagnato da qualcuno e subito andava da Aldo, che pareva lo aspettasse. Ormai per tutti e due il saluto era quello dell’abitudine e i tanti anni della loro frequentazione si ritrovavano negli sguardi, nei pochi convenevoli, anche negli argomenti, e solo raramente poteva esserci un qualcosa che non uscisse dal passato. Parlavano della salute e del dolore alle ginocchia, della difficoltà del digerire, del cuore che va per conto suo e via di questo passo. «Io sento il peso dei piedi», diceva Gino toccandosi le gambe, e Aldo annuiva. «La vecchiaia è una brutta malattia», dicevano poi tutti e due. Piano piano, dopo i convenevoli, il suo fascino s’imponeva. Il lavoro di giornalista lo aveva portato a viaggiare in tutti i paesi del mondo e le sue avventure erano inesauribile scorta di conversazione. Raccontava a modo suo e da par suo dei grandi monasteri tra le montagne del Sinai, dove i monaci riempivano le notti coi canti gregoriani; delle immense petroliere che giravano attorno all’Africa: delle mandrie di rinoceronti e di elefanti della savana e a tutto aggiungeva le cose di popoli lontani, con le loro abitudini, i loro riti e le loro civiltà. Il suo raccontare creava in bottega un’atmosfera che unita al silenzio poteva essere paragonata alla staticità delle vecchie fotografie. Mai si sentiva una mosca volare quando raccontava, e dopo era totale l’appagamento di chi lo aveva ascoltato. Ad affascinare non era tanto la bellezza di quel che diceva, che sarebbe stato per sé sufficiente, quanto il modo di descriverlo, ché a tutti sembrava di leggere un romanzo a colori. Quando raccontava, sempre, cercava di portare sugli altri l’effetto che su di lui avevano fatto in gioventù i grandi racconti di Conrad e London, i suoi autori preferiti. Ma a esaltarlo di più era l’altrui succo. Era l’ascoltare i cacciatori, gli ex partigiani e i reduci della guerra. Erano le piccole storie della gente del posto a esaltarlo, roba di poco conto, che lui definiva degne di grandi scrittori. Quelle dei cacciatori, in particolare, erano recite sull’eroismo di 37

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spericolati avventurieri che sapevano trasformare i campi attorno a casa in steppe sterminate e anche in misteriose lande d’altri continenti. Ma anche i racconti della ritirata di Russia lo esaltavano e anche quelli dell’Africa di Rommel. C’era di tutto da Aldo, e l’insieme di quel tutto dava sapore alla rimanenza dei suoi anni perché le tante vicende del suo passato solo lì potevano specchiarsi e riproporgli di continuo quelli che sempre erano stati i suoi sogni, con l’onnipresente esigenza di vivere altrove. Di autoritratti ce n’erano un centinaio e la mostra l’avevano allestita nella grande palestra del paese. Solenne l’apertura. C’erano autorità e invitati e c’era gente che arrivava come in processione. Gino era molto conosciuto e quel giorno la «Gazzetta» gli aveva dedicato due intere pagine con titoli cubitali. Gli autoritratti, uno dopo l’altro, erano esposti in modo da sembrare una fila di tele senza fine, una accanto all’altra. A incuriosire ce n’era uno sull’ingresso, scelto per essere il manifesto della mostra, con una scritta a mano annotata nella parte bassa di sinistra, che Gino stesso aveva voluto mettere di proprio pugno. Col tempo che passa a morire sono i sogni, quello che resta sono le delusioni. E non erano pochi quelli che dicevano: «Gino è un originale, anche un filosofo. L’ha sempre pensata così», dicevano, e lui di ottimismo non ha mai voluto saperne. Gli autoritratti erano il filtro della sua ironia. Il fatto poi, che avesse passato i novanta, significava che quell’ironia era una voce finale, lapidaria. Era l’ironia di chi ha sempre osservato la vita più attraverso i sogni che non attraverso i fatti e che a un certo punto, giunto ormai ai limiti dell’esistenza, si trova costretto ad ammettere, suo malgrado, che i fatti – come sosteneva il lontano avventore di Aldo – sono ciò che resta e che restando si rendono visibili attraverso tutte quelle cose che a lui avevano sempre dato un grave senso di fastidio. A restare sono i ricordi, sono i monumenti e sono le piccole targhe che gli uomini si scambiano attraverso le associazioni e i dopolavoro per testimoniare pre38


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senze altrimenti inosservabili. È l’uomo con la sua solitudine che resta, con le sue illusioni e i suoi surrogati. A restare sono i reduci, quelli con la penna e quelli senza penne. I reduci di ogni cosa, insomma, anche quelli delle chiacchiere ripetute. Era un gioco sottile che portava il visitatore a immaginare porte e tende che continuamente dovessero aprirsi per poi mostrare chissà quali altri scenari. E invece niente. Autoritratto dopo autoritratto trovavi sempre lui che ti guardava, coi suoi occhi tondi e beffardi, e che continuava a scrutare i visitatori che beati e compiaciuti nutrivano se stessi del loro stesso consenso. Senza capire niente di niente. Anzi, più guardavano meno capivano. L’ironia era tutta lì e saltava fuori ogni volta che uno di loro, rivolgendosi al vicino, voleva dare a intendere di aver afferrato il senso di ogni cosa e di aver colto nei particolari il bandolo di tutta la matassa. Gino in disparte, con la vecchia sahariana che ormai gli si scuciva da tutte le parti e con la sigaretta tra le dita gialle di nicotina, scrutava severo e mentre rispondeva agli ossequi che da ogni parte gli arrivavano, sembrava il vecchio Falstaff che si divertisse a ironizzare sulle burle della vita.

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Ultimo gesto d’amore l’Autore ha dipinto i propri luoghi per riconsegnare la storia di tutti alla memoria civile in questo libro stampato nel carattere Simoncini Garamond a cura di PDE Spa presso lo stabilimento di L.E.G.O. Spa - Lavis (TN) per conto di Diabasis nel giugno dell’anno duemila tredici

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