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Gustav Landauer (Karlsruhe 1870-München 1919) fu, insieme a Pëtr Kropotkin, esponente di spicco di un socialismo libertario e anarchico, radicalmente pacifi sta, che rifi utava ogni «propaganda del fatto». Diresse il periodico «Der Sozialist». Fu autore di racconti e di opere teatrali, e tradusse in tedesco moderno gli scritti di Meister Eckhart. La sua concezione della relazione organica di tutti gli esseri trovò espressione in Skepsis und Mystik (1903). Come filosofo sociale si oppose al marxismo teorizzando – nel suo scritto più noto, Die Revolution (1907), e in Aufruf zum Sozialismus (1911) – una «rigenerazione sociale» in virtù della quale gli individui come tali, piuttosto che il proletariato, avrebbero modellato un nuovo tipo di associazioni cooperative, capaci di rimpiazzare gradualmente gli Stati e l’economia capitalistica.

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«O giungerà presto

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LA RIVOLUZIONE A cura di Ferruccio Andolfi

su di noi lo spirito che non si chiama rivoluzione, ma rigenerazione; o dovremo ancora una volta e più di una volta immergerci nel bagno della rivoluzione»

Ferruccio Andolfi, docente di Filosofia della storia all’Università di Parma, si occupa dei rapporti tra umanesimo e individualismo, con particolare riguardo alla storia del secolo XIX. Dirige «La società degli individui», quadrimestrale di teoria sociale e storia delle idee. Recentemente è apparsa una sua raccolta di saggi su Stirner, Il non uomo non è un mostro (2009). Per queste edizioni ha pubblicato Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt (2004) e curato i due volumi: Friedrich Nietzsche filosofo morale di Georg Simmel (2008) e Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione di Jean-Marie Guyau (2009).

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€ 10,00

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Ne La rivoluzione (1907) Landauer ricostruisce un processo che attraversa i tempi moderni, aperto a esiti imprevedibili. In esso è sempre attiva la forza dell'utopia, ma i termini “utopia” e “rivoluzione” non si corrispondono pienamente. Se la prima rimanda al ruolo attivo dell’impossibile nel determinare realtà nuove in ogni tempo, la rivoluzione in senso proprio appartiene solo all’epoca moderna dell’individualismo. E di questo mantiene l’ambivalenza. Essa si serve di strumenti politici e quindi non è in grado, come tale, di risolvere la questione sociale. Può conseguire risultati duraturi e non essere esposta a involuzioni oppressive a condizione che abbia luogo parallelamente, nella vita sociale, una «rigenerazione», ovvero la ricostituzione di una comunità spirituale in cui si conservi il ricordo di precedenti comunità. L’appendice di questo volume contiene un discorso tenuto nel 1919 da Martin Buber, discepolo di Landauer, per commemorare l’amico trucidato a Monaco dai «corpi franchi» dopo la breve esperienza della Repubblica dei Consigli.

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Il volume è stato pubblicato con il contributo della Fondazione Cariparma

Si ringraziano Anna Zaniboni e l’Archivio Carlo Mattioli di Parma per la gentile collaborazione

In copertina Ginestre di Carlo Mattioli

Die Revolution

Traduzione di Barbara Bacchi

Landauer und die Revolution Traduzione di Barbara Bordato

ISBN 978 88 8103 643 1 © 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it


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LA RIVOLUZIONE A cura di Ferruccio Andolfi

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Gustav Landauer: la rivoluzione e il suo oltre, Ferruccio Andolfi La rivoluzione Appendice Landauer e la rivoluzione, Martin Buber

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Gustav Landauer: la rivoluzione e il suo oltre Ferruccio Andolfi

Un’opera di psicologia sociale Lo scritto di Gustav Landauer Die Revolution (1907) non è, come il titolo sembra suggerire, un pamphlet agitatorio. È un saggio di analisi storica condotta con molta lucidità e disincanto, pur nell’attesa che qualcosa di nuovo possa prodursi. Esso non nacque nel fervore di eventi rivoluzionari – quegli eventi presto soprag giunti nel corso dei quali Landauer, divenuto uno dei protagonisti della repubblica dei consigli di Monaco, avrebbe sacrificato la propria vita – bensì in una fase di sospensione, in una ‘pausa’ di quel processo rivoluzionario che, dopo la Comune di Parigi, restava aperto, a suo parere, a esiti imprevedibili: dipendenti dalla volontà degli uomini piuttosto che da logiche supposte inarrestabili delle cose. Anche nella biografia personale dell’autore la stesura dell’opera è preceduta da anni, tra il 1902 e il 1907, di abbandono forzato di ogni attività pubblica. Solo più tardi egli sarebbe tornato a un impegno attivo: per un pacifismo radicale contro le tentazioni interventiste del movimento socialista nel periodo anteriore alla prima guerra mondiale, e poi, nel dopoguerra, per la realizzazione della repubblica consiliare1. Il saggio fu pubblicato in una collana di «psicologia sociale» diretta da Martin Buber. Quanto l’opera corrispondesse agli intenti di Buber lo chiarisce Landauer nelle pagine iniziali. La psicologia sociale, spiega, non è una scienza neutrale come la scienza della natura: essa riconduce i fenomeni alle relazioni elementari tra individui da cui si originano, secondo un approccio ‘individualistico’, e con questa decostruzione (Auflösung) di istituzioni


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sacre e formazioni sovraindividuali produce effetti pratico-rivoluzionari. Sotto questo profilo Landauer dichiara il suo debito di riconoscenza verso Voltaire, Rousseau e Stirner e, prima ancora, verso Etienne de la Böetie, che nei Discorsi sulla servitù volontaria aveva mostrato come il potere dei tiranni non proviene da costrizioni esterne ma dalla «psicologia del cortigiano» e può essere rimosso dalla volontà di essere liberi. In un discorso commemorativo pronunciato nel 1919, poco dopo la morte del suo amico, Buber affermò che Landauer avrebbe dovuto insistere nell’opera di rischiaramento teorico che aveva intrapreso anziché gettarsi, sia pure con grande purezza e generosità d’animo, nella rivoluzione tedesca del dopoguerra, che secondo i suoi stessi presupposti non poteva che risolversi in un fallimento2.

Strumento dell’utopia Il tema della rivoluzione viene introdotto in riferimento a quello dell’utopia, che domina la parte introduttiva del saggio. La rivoluzione è presentata appunto come lo strumento di realizzazione dell’utopia o di rottura di quella situazione di relativo equilibrio «autoritario» che Landauer designa con il termine «topia». La storia, a un certo livello di generalizzazione, può essere rappresentata come un continuo alternarsi di topie e utopie, o anche come un succedersi di rivoluzioni che rompono gli equilibri stabiliti per approdare sempre a nuove forme di stabilità autoritaria. Questo però non è il punto di vista che Landauer intende proporre come proprio. Tanto è vero che dichiara, prima di intraprendere l’esperimento di riportare il fenomeno a ‘leggi’ della natura umana, che esso «si sottrae a una trattazione scientifica»3. La visione scientifica delle cose si lascia sfuggire la realtà vissuta di un processo nel quale siamo immersi e del quale non riusciamo a prefigurare gli esiti.


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La rivoluzione si riferisce alla convivenza umana (Mitleben) nella sua totalità. Investe e sovverte l’insieme delle forme di convivenza: istituzioni sociali politiche economiche e insieme la vita culturale e spirituale. Per indicare l’equilibrio e la relativa stabilità in cui queste forme di convivenza si trovano in un certo periodo di tempo – ma una stabilità autoritaria, ottenuta cioè con mezzi coattivi – Landauer conia il termine «topia», evidentemente pensato in funzione del suo contrario, l’utopia, cioè del movimento che interviene a rompere quell’equilibrio4. La topia copre la totalità dei fenomeni della convivenza che sono percorsi da un principio culturale comune. Finché esso domina, gli individui sono relativamente adattati alle loro condizioni di esistenza anche quando non ne siano beneficiari. Non troppo diversamente Marx aveva descritto, nell’Ideologia tedesca, una condizione di relativo equilibrio che domina «finché in un sistema non è apparsa la contraddizione», ricorrendo al concetto di «individuo personale»5. Ma la contraddizione è in verità sempre latente anche se non dispiegata. La topia crea benessere e fame, sviluppa spirito e stupidità, crea fortuna e sventura. Anche qui può essere opportuno un rimando ai Manoscritti marxiani del 1844, che segnalano drammaticamente questi differenti effetti del processo di produzione moderno, utilizzando persino gli stessi termini (spirito e stupidità)6. La vita privata e familiare in questa fase è regolata dagli stessi principi su cui si regge l’intero sistema e così non entra in tensione ma anzi assicura la pace sociale, non si saprebbe dire con quanto giovamento per l’espressione dell’individualità. Se queste contraddizioni attraversano la topia, è facile prevedere che essa raggiunga un punto di equilibrio instabile. La stabilità e sicurezza della topia è messa a questo punto in crisi dall’utopia. L’utopia sovverte il dominio della convivenza ma non appartiene ad esso, si origina sul terreno della vita individuale e delle sue aspirazioni sempre singole ed eterogenee7. Questa osserva-

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zione è preziosa perché sottrae, almeno in linea di principio, l’utopia in quanto aspirazione individuale al sospetto, per lo più avanzato dai suoi critici, che essa comporti un appiattimento delle diversità individuali intorno a una visione del mondo livellatrice. Tuttavia questo pericolo è messo nel conto da Landauer quando afferma che le aspirazioni dei singoli individui, in momenti di crisi, si uniscono in virtù di un’ebbrezza entusiasta e si organizzano di nuovo nella ricerca di una totalità e di una forma di convivenza. Il sociale prende allora il sopravvento e ci si avvia a dar forma a una nuova topia, dalla quale ci si attende che non racchiuda in sé «niente di nocivo e ingiusto». Qualunque sia la figura della nuova topia essa resta pur sempre una topia, cioè una situazione che si pretende priva di contraddizioni8. La rigidità di questo stato sarà tuttavia spezzata dallo spirito vivente dell’utopia che sopravvive sotterraneo ed è sempre pronto a riaffiorare, nutrendosi del «ricordo» di tutte le precedenti utopie9. La tesi di un’alternanza di topie e utopie viene considerata da Landauer scientificamente fondata solo in uno specifico senso: in quanto non fa riferimento, induttivamente, ai dati più o meno ricchi dell’esperienza, da cui non è lecito trarre conclusioni generali, e si basa invece sul «sentimento intuitivo dell’universale natura umana», che, possiamo intendere, mira sempre a qualche totalità compiuta e sempre la rimette in questione per il suo carattere coattivo. Su questo terreno ‘antropologico’ si può affer mare che è sempre stato l’impossibile (das Unmögliche) a creare realtà nuove10. Gli interpreti che, a partire da Mannheim, hanno creduto di poter riassumere il senso della teoria di Landauer in quest’idea, per la verità suggestiva, dell’alternanza di topie e utopie non colgono nel segno11. Questo è solo un punto di vista subordinato, che vale rispetto ad alcune costanti antropologiche ma prescinde dalla diversità delle basi sociali della convivenza. Se si tiene conto di questa diversità è impossibile fissare una legge costan-


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te di sviluppo attraverso contraddizioni, sul genere di quella formulata dal materialismo storico. Finché rimane su questo terreno, l’utopia appare come un’aspirazione contraddittoria, infelice, che manca continuamente il proprio fine perché si ribalta in una nuova topia. Niente lascia pensare che Landauer intendesse giustificare questi esiti, piuttosto sembra voler denunciare, non meno severamente dei critici dell’utopia, la sua involuzione reazionaria. Anche la strada eroica della rivoluzione, strumento dell’utopia, è destinata a condurre a un nuovo regime di stabilità, è appunto soltanto «via». Ambigui sono i mezzi con cui la rivoluzione si afferma: «caos», «rivolta» e «individualismo». Quest’ultimo comprende i due poli dell’eroismo e della bestialità, la solitudine del grande uomo ma anche l’isolamento dell’individuo atomizzato della società di massa12. Ci sono poi da considerare – e qui Landauer ha certo avuto in mente le circostanze della Rivoluzione francese – le esigenze pratiche entro cui la rivoluzione si afferma, che spingono, per fronteggiare necessità economiche o nemici esterni, ad affidare il potere a qualcuno nella forma di una dittatura, di una tirannide o di un governo provvisorio. Ciò significa un rinnegamento delle esigenze di liberazione da cui la rivoluzione è mossa. Le figure di autorità che dovrebbero salvare l’utopia segnano la sua fine. Quando le topie delle nazioni vicine minacciate ricorrono alle armi la rivoluzione degenera in guerra13. Queste diagnosi, che tendono a rimarcare la degenerazione inevitabile delle rivoluzioni e dei sogni utopici, apportatori, malgrado ogni intenzione contraria, di governi autoritari o dispotici, sono divenute, specialmente dopo l’esperienza dei totalitarismi novecenteschi, fin troppo comuni. Ma esse approdano per lo più alla conclusione che tanto vale abbandonare quei sogni e limitarsi a cercare qualche miglioramento entro la società data con i mezzi del diritto e della democrazia. Le conclusioni di Landauer sono diverse: pur nella chiara consapevolezza degli esiti

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involutivi a cui la rivoluzione e l’utopia sono esposte egli prende atto del carattere vivente dell’istanza utopica e rivoluzionaria che sempre si ripropone attraverso la successione delle topie. Ogni situazione autoritaria solleva sentimenti di opposizione e questi si corroborano nel ricordo di precedenti slanci utopici. «Ogni utopia racchiude in sé il momento intenso del ricordo entusiastico di tutte le precedenti utopie» e «sopravvive sotterranea anche in periodi di topie relativamente stabili». Il complesso di questi ricordi volontà e sentimenti legati al movimento dell’utopia formano un’unità che può essere designata «rivoluzione». La rivoluzione, in questa accezione, non indica nessun particolare evento circoscritto a un tempo particolare, né il semplice confine (Grenze) tra due topie, ma «un principio che avanza sempre di più superando ampi spazi temporali»14.

La rivoluzione non è una legge storica Sarebbe però un errore, lo abbiamo detto, far risiedere il senso principale della lettura landaueriana della rivoluzione nel ritrovamento di una qualche legge generale di sviluppo del corso storico. Non possiamo dimenticare l’avvertenza iniziale per cui il tentativo di analisi scientifica che si sta per intraprendere è votato all’insuccesso. E neppure che il socialismo di Landauer si definisce in opposizione a quello di matrice marxista come un socialismo che rifiuta di collegare la trasformazione sociale a qualche ipotetica legge deterministica della realtà storica. Se nello scritto sulla rivoluzione la polemica con il marxismo è solo tacita, in Aufruf zum Socialismus (1911) va al nodo del contrasto: «Che cosa ci insegna la scienza del marxismo? Che cosa afferma? Afferma di conoscere il futuro; pretende di avere una visione così profonda delle eterne leggi di sviluppo e dei fattori condizionanti della storia umana da sapere come vanno le cose, come procede la storia e che cosa deriverà dalle nostre condizioni,


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forme di produzione e di organizzazione»15. E il socialismo viene definito «una tendenza della volontà di uomini uniti a creare qualcosa di nuovo per amore di un ideale»16, con un’accentuazione del momento del volere che la critica marx-engelsiana del socialismo utopistico aveva screditato17. Per lunghi decenni l’affermazione del marxismo come ideologia di riferimento per la trasformazione sociale ha delegittimato tutte le teorie rivali e fatto considerare con sufficienza la tradizione minoritaria (social-utopistica ma anche anarchica) che enfatizzava al contrario il carattere aperto della rivoluzione e la sua connessione con la volontà degli uomini che la pongono in essere. Già nel 1946 in Sentieri in utopia Martin Buber, che di Landauer era stato discepolo e amico, lamentava la estromissione dal socialismo della corrente calda dell’utopia e raccomandava un nuovo passaggio «dalla scienza all’utopia». Da allora, e soprattutto in questi ultimi decenni, la crisi del marxismo e dei sistemi politici che ad esso facevano riferimento rende nuovamente pensabile e forse necessario questo ritorno. In questo quadro la voce di Landauer può trovare di nuovo ascolto. Lo scoglio fondamentale, conclude l’autore al termine dell’esperimento di una analisi scientifica del fenomeno rivoluzionario, è rappresentato dal futuro, «di cui non sappiamo nulla». Ma le ipotetiche leggi della rivoluzione non illuminano neppure gran parte della storia umana passata. Anche se si prescinde dalle centinaia di migliaia di anni in cui si è compiuto il processo evolutivo dell’umanità e si restringe lo sguardo ai pochi millenni di cui abbiamo testimonianze storiche, questo più ridotto arco di tempo non può comunque essere letto sotto il segno della rivoluzione ma piuttosto sotto quello della formazione di culture che entrano reciprocamente in contatto e si sostituiscono più o meno violentemente l’una all’altra. La grande svolta epocale che si è compiuta nella fase di decadenza dell’antichità classica, di avvento del cristianesimo e di sua penetrazione tra i popoli delle

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grandi migrazioni rappresenta appunto un fenomeno di quest’ordine, di contaminazione culturale. Su di esso Landauer si diffonde particolarmente, perché, come vedremo, il Medioevo cristiano rappresenta per lui un orizzonte valoriale a cui i socialisti dovrebbero ispirarsi per un mutamento spirituale. Ma più in generale l’intera vicenda dell’incontro/scontro delle culture viene considerata più «grandiosa» di quanto lo siano i pochi eventi dei tempi moderni che possono essere contrassegnati dal termine rivoluzione. Ecco appunto, per Landauer la rivoluzione è un evento, o un processo, che si realizza a partire dalla Riforma e si sviluppa con la guerra dei contadini, la rivoluzione inglese e americana fino al grande sommovimento della rivoluzione francese, che continua ad agire in Europa fino al 1871.

Il Medioevo cristiano: sintesi di libertà e legame Prima di rivolgerci a considerare questa fase eminentemente rivoluzionaria della storia umana dobbiamo far cenno al periodo che immediatamente la precede, al Medioevo cristiano, entro il quale Landauer vede costituirsi non pochi degli elementi a cui il socialismo deve rifarsi se vuole assumere un carattere spirituale che gli permetta di sfuggire alle aporie della modernità. Questo richiamo al mondo religioso può apparire strano in un anarchico sempre pronto a denunciare il cristallizzarsi di forme di autorità che mettono in ceppi la libertà degli individui. Il Medioevo non è stato proprio un mondo di istituzioni forti e repressive, a cominciare dal feudalesimo e dalla Chiesa? Landauer lo sa, ma crede che la storia debba essere capace di condensare il significato essenziale di un’epoca anche a costo di tralasciare alcuni suoi elementi18. Ciò che di essenziale resta di quell’epoca e di quella cultura e merita di essere recuperato è la sintesi che in essa si è realizzata di libertà e legame (Gebundenheit) – una sintesi che contrassegna


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ogni vera fioritura culturale. La modernità avanza rompendo, nel Rinascimento, questa armonia ed esaltando il momento della libertà dell’uomo di genio a scapito delle appartenenze. Landauer diffida dell’interpretazione illuministica, razionalista e scettica, del Medioevo, che è incapace di intendere nel suo lato positivo l’amore o lo spirito comune, la «follia» (Wahn) da cui esso è compenetrato (durchgedrungen). «È sempre stata solo la follia a organizzare gli individui in forme superiori di organizzazione e di collettività». Questa nostalgia di una nuova follia dà una particolare coloritura al socialismo di Landauer, che peraltro non dimentica di aggiungere, da uomo che non vuole rinnegare l’insegnamento critico della modernità e dei suoi «spiriti liberi», che, diversamente dagli uomini del mondo cristiano, i socialisti si riservano di opporsi a ogni follia quand’essa minacci di soggiogarli19. Qualche anno prima del saggio sulla rivoluzione egli aveva già messo a fuoco, in termini teorici ma riferendosi anche alla mistica medievale di Meister Eckhart, l’equilibrio da ricercare tra «separazione» e «comunità» in Durch Absonderung zur Gemeinschaft (1900). «La comunità a cui aspiriamo – scrive – la troviamo solo se ci separiamo dalle antiche comunità». È nella profondità di noi stessi che «troviamo alla fine la comunità più originaria e generale: con il genere umano e con l’universo»20. Chi fa valere come realtà il suo sentimento dell’individualità isolata sacrifica senza scampo tutte le altre realtà. A questa strategia individualista Landauer oppone la via mistica, che lascia che il mondo ci penetri per giungere alla comunione con esso o essere mondo noi stessi. I nominalisti, dal Medioevo a Stirner, hanno svolto, ammette, un lavoro necessario, di togliere agli universali il loro carattere sacro e repressivo, ma ora s’impone un compito contrario e complementare, di mostrare la nullità dell’individuo isolato, di riconoscere che non c’è individuo ma solo appartenenze e comunità e che una sola potente catena lega l’individuo che siamo con i nostri progenitori e i nostri posteri21. Questo parados-

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so della posizione dell’individuo che rientrando in se stesso attinge la vita universale giustifica anche la strategia politica che Landauer propone in questo saggio alle avanguardie «progredite», di separarsi dalle masse per cominciare a costituire una propria vita comunitaria, senza perdere comunque mai il senso di una comune appartenenza umana anche con coloro che sfigurano la loro umanità22. Il saggio sulla rivoluzione riprende sia il tema degli individui come forme fenomeniche e punti di passaggio di una catena della vita che scorre in loro protendendosi all’infinito verso il passato e il futuro, sia la critica della modernità, ossessionata dal valore sacro dell’individuo, in nome di un modello culturale «comunitario», in cui l’unità delle forme organizzative non è un vincolo imposto bensì «uno spirito che alberga negli individui»23. Landauer contesta che l’immissione del cristianesimo tra i popoli «riposati e pieni di energia» (ausgeruhten) delle grandi migrazioni possa essere inteso intellettualisticamente come la sovrapposizione alle loro for me di convivenza di una dottrina ostile alla vita. «La cosa prima e più evidente di ogni nuovo inizio è la vita». Il cristianesimo interviene solo a trasfigurare forme di convivenza che proseguono con nuova energia. Le molteplici formazioni sociali della civiltà medievale, compenetrate di spirito unitario «rappresentano un complesso di entità autonome liberamente associate». Landauer definisce questo principio caratteristico del Medioevo, in opposizione al principio accentratore del potere statale, «principio di stratificazione». E conclude: «La forma del Medioevo non era lo Stato, ma la società, la società delle società»24. Si può facilmente immaginare quale interesse rivestisse un simile modello sociale per un pensatore orientato verso una autoorganizzazione della vita sociale25.


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La crisi dei tempi moderni La rottura di questo clima, che già si annuncia negli individui geniali e spregiudicati del Rinascimento, è evidente anche nei protagonisti della Riforma, a partire da quel personaggio «inquietante» e disarmonico che fu Lutero. Da qui prende avvio una nuova epoca, priva di spirito comune e che nel suo complesso si può definire ‘individualistica’, con tutta l’ambivalenza che Landauer attribuisce a questo termine. In essa la forza accentratrice dello Stato supplisce alla mancanza di spirito ma insieme le aspirazioni alla libertà danno luogo a periodiche rivoluzioni26. Le nuove intuizioni filosofiche e scientifiche dei pensatori moderni rimangono patrimonio di una piccola cerchia di dotti e restano prive di efficacia per le masse ignoranti27. Il cristianesimo da principio vitale collettivo si riduce a strumento di salvezza privata, mentre, con Lutero, si ristabilisce il cesarismo, ovvero l’allenza del trono e dell’altare. Da qui in poi Landauer ricostruisce le vicende della rivoluzione politica, che si presenta in una prima fase come lotta per lo Stato moderno, in Inghilterra dapprima e poi in Olanda e in Francia. La «qualità unificatrice», per questi pionieri della rivoluzione, è lo Stato e la legge. Una lotta così indirizzata però realizza il paradosso che non appena è cessata riprende vigore ciò che è stato combattuto: la violenza esterna28. La ricostruzione procede ad analizzare minuziosamente episodi e personaggi, noti e meno noti, di questo processo. Un momento cruciale, in questo percorso, è dato dalla formazione, nel XVIII secolo, della società civile e dalla nascita dell’economia politica. Qui viene alla luce una forma di appartenenza (Zusammengehörigkeit) che non è Stato ma neppure una semplice somma di individui. Essa costituisce un’anticipazione di quell’organizzazione superindividuale che il socialismo intende essere, ricollegandosi all’esistente. Esso infatti «non è una invenzione del nuovo»29. Con una proiezione in avanti Landauer delinea a partire da questa novità tre prin-

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cipali tendenze che si confronteranno in futuro: una corrente che inserisce nello Stato gli ambiti della vita economica; una seconda corrente (quella ‘anarchica’ in cui Landauer si riconosce) che assegna a questa «scoperta della società» tutto il suo rilievo cercando di creare forme di convivenza sue proprie; e infine una terza tendenza, nella quale non è difficile riconoscere i tratti del socialismo marxista, che, assecondando movimenti storici che stanno di fatto avvenendo, mira all’estinzione dello Stato passando attraverso «lo Stato economico democratico assoluto»30. L’obbiezione di fondo verso questa terza via è che nessuna meta è raggiungibile se non si adottano mezzi che le sono conformi o in cui essa già vive. Il punto culminante del moto liberatorio dei tempi moderni è dato dalla Rivoluzione francese, di cui Landauer percepisce il significato paradigmatico31. Mai come allora i combattenti sono stati mossi dal sentimento di «dover allontanare in uno slancio in avanti tutti gli ostacoli, rimuovere tutti i mali, risolvere tutte le questioni, creare tutta la felicità». Uno spirito di gioia e di fraternità si effonde su di loro32. Eppure anche essa non sfugge al destino delle rivoluzioni: «ciò che la rivoluzione raggiunge è proprio la sua fine» – benché con questa osservazione Landauer non intenda dire, come gli storici revisionisti dei nostri tempi, che essa non sia riuscita a ottenere nulla di effettivo e di duraturo33. L’arresto della rivoluzione avviene non tanto per una particolare nequizia dei capi o per circostanze esterne sfavorevoli; ciò che pregiudica i suoi risultati e la fa degenerare, fino agli estremi del sospetto e del terrore, è qualcosa di insito nella sua natura. «Essa non contiene in sé forze positive e la sua forza sta nella ribellione e nella negazione». Impeto, esistenza di sogno, entusiasmo, questi sono i suoi tratti, che la spingono a risolvere problemi sociali, innanzitutto la questione della proprietà, coi mezzi della rivoluzione politica34. Ma se l’abolizione della proprietà privata del suolo è un passo preliminare che richiede decisioni po-


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litiche, Landauer è poi convinto che in generale la confusione tra la politica e il sociale che si è verificata nella grande rivoluzione e nelle lotte del secolo XIX sia stata letale35.

Rivoluzione politica e rigenerazione sociale Una «grande decisione s’impone»: tra lo Stato, che è un surrogato della comunità e si regge sul potere e la violenza, e la società, che è un’unità basata sul legame spirituale. Ripetendo le parole di Proudhon, Landauer dichiara che la rivoluzione sociale non assomiglia affatto alla rivoluzione politica: essa «non può divenire vitale e acquisire stabilità senza rivoluzioni politiche di ogni genere», ma in sé è «una costruzione pacifica, un’organizzazione originata da un nuovo spirito e rivolta verso uno spirito nuovo». Non bisogna immaginare però una politica dei due tempi, quasi che la rivoluzione politica sia un momento propedeutico a quella sociale. Una volta che si adottino per la trasformazione mezzi politici si resta inevitabilmente condizionati dalla loro logica. Si tratta invece di agire sulla stessa istituzione statale riconoscendo in essa in primo luogo uno stato o una condizione, nata sulla base di certi rapporti statalizzati o coercitivi tra gli uomini, che può essere modificata adottando rapporti alternativi36. La scelta di questa strategia, che ricorda la delegittimazione del dispotismo da parte di Etienne de la Böetie, inventore di quella «psicologia sociale» che per Landauer è essa stessa rivoluzione, ha diverse importanti conseguenze. In primo luogo essa rende superflua la violenza, perché non si tratta di abbattere un nemico esterno ma di instaurare in positivo, negli spazi della vita sociale, comportamenti e relazioni che sostituiscono le istituzioni statali coercitive. In secondo luogo è possibile realizzare questi obiettivi da subito, parzialmente e con gradualità. Su ciò insiste, interpretando Landauer ma verisimilmente andando oltre la lettera di quanto egli dice, Martin Buber. «Se lo Stato – egli commenta – è

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un rapporto che si distrugge soltanto contraendone un altro, lo si distrugge di volta in volta appunto nella misura in cui se ne adotta uno diverso»37. L’alternativa non è dunque «Stato o non-Stato». La comunità ha una capacità di autorganizzazione assai maggiore di quella che le viene abitualmente riconosciuta e tuttavia non assoluta. Ora «la misura dell’incapacità a mantenere spontaneamente un ordine giusto determina la misura della coercizione legittima». Lo sfera statale supera però, e di solito in modo rilevante, la misura della coercizione legittima. A questa differenza tra la coercizione a cui lo Stato è legittimato in un certo momento storico e quella effettivamente esercitata Buber dà il nome di «Stato in eccesso», attribuendo ai socialisti il compito di «far arretrare la linea di fatto dello Stato a quella di principio»38. Se questa interpretazione è attendibile, la collocazione dell’utopia di Landauer da parte di Mannheim nella sfera dell’utopismo che egli ha denominato «chiliastico» appare problematica. Mannheim traccia una linea di continuità tra l’universo religioso di Meister Eckhart e degli anabattisti e le utopie in fondo residuali degli anarchici, caratterizzando queste prospettive come irrazionalistiche e prive di una prospettiva temporale che non sia quella dell’assoluta presenzialità o dell’attesa del momento opportuno. Il chiliasmo rappresenterebbe la matrice più remota dell’utopia, destinata ad evolvere nelle forme dell’utopia liberale, di quella conservatrice e infine di quella socialista, le quali costituirebbero, pur nella loro idealità, momenti di avvicinamento progressivo alla realtà storica e alle sue esigenze. L’anarchismo, e con esso la posizione di Landauer, è presentato invece come una posizione radicale che non viene a patti con la realtà e che individua in ogni «topia» o forma istituzionale il male stesso39. Ora la questione mi sembra meno semplice di come viene prospettata da Mannheim. La specifica forma di anarchismo elaborata da Landauer contiene sì alcuni tratti del modello chiliastico illustrato dal sociologo (ad esempio il riferimento alla mistica me-


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dievale e la spiritualizzazione della politica ed anche la mancanza di una fede nel progresso), ma certamente di essa non si può dire che esprima energie di tipo estatico e orgiastico piuttosto che idee né che «consideri la rivoluzione come un valore in sé». Bisognerà considerare perciò più attentamente come si aggregano i singoli tratti della visione delle cose di Landauer, che certamente, lo abbiamo visto, rappresenta un mondo mentale assai diverso da quello di altri pensatori anarchici – ad esempio Bakunin, richiamato da Mannheim – e non indulge ad alcuna idealizzazione della distruzione come fonte di creazione. Buber può forse aiutarci di nuovo ad operare delle distinzioni. Egli parte dall’assunto che le utopie sociali moderne abbiano ereditato la forza dell’escatologia religiosa. Ma proprio per questo si presentano, al pari dell’escatologia, in due diverse forme: una «apocalittica», che Buber vede operante soprattutto nel marxismo, per cui il processo di redenzione si compie «attraverso il balzo dell’umanità dal regno della necessità a quello della libertà», e una «profetica», che «in ogni momento pone la preparazione della redenzione alla portata di ciascun individuo». Questa ultima forma sarebbe propria di alcuni sistemi utopistici tra i quali Buber include in primo luogo quello di Landauer40. Se è vero che la trasfor mazione sociale si compie nell’attimo, ciò non implica che si compia catastoficamente o palingeneticamente in un «momento propizio» (kairos), bensì solo che è possibile ed effettiva in ogni attimo e non deve essere rimandata al futuro41.

Conclusioni La caratterizzazione scientifico-sociologica che Landauer ci dà del passaggio topia-utopia-topia con il medio della rivoluzione non è priva di effetti conoscitivi. Essa si situa sul piano dell’analisi antropologica e, come l’autore stesso ammette in una lettera, non è del tutto vana. Cerchiamo di precisare quali sono gli

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elementi che si possono acquisire per questa via. Innanzitutto l’idea che l’utopia rappresenti un’esigenza ineliminabile dell’animo umano, che si ripropone continuamente, a sovvertire gli ordini stabiliti. Vale la pena notare come essa venga rappresentata, con un’inversione rispetto al concetto corrente di utopia, come un’istanza squilibrante in opposizione alla topia, che è il momento, potremmo dire distopico, in cui la realtà sociale pretende di costituirsi come una totalità che non contiene contraddizioni («niente di nocivo e di ingiusto»). La rivoluzione in quanto puro strumento atemporale (principio) di trasformazione dell’esistente secondo le esigenze dell’utopia ha la stessa generalità e, in questo senso generalissimo, lo stesso fondamento antropologico. Che cosa intende allora Landauer quando osserva che l’esperimento di una rappresentazione scientifica della rivoluzione è destinato al fallimento? Con questa osservazione egli adotta una prospettiva diversa, storica, e su questo piano la rivoluzione indica per lui un processo che abbraccia solo i tempi moderni in cui siamo immersi, aperto a esiti imprevedibili. In esso è sempre attiva la forza dell’utopia. Potremmo quindi cominciare a notare che i due termini ‘utopia’ e ‘rivoluzione’ non si corrispondono pienamente, se non in un’analisi antropologica generale. Se la prima rimanda al ruolo attivo dell’impossibile nel determinare realtà nuove in ogni tempo, la rivoluzione in senso proprio appartiene solo all’epoca moderna dell’individualismo. E di questo mantiene la stessa ambivalenza. Essa si serve di strumenti essenzialmente politici e quindi non è in grado, come tale, di risolvere la questione sociale. Si può dire che può conseguire risultati duraturi e non rovesciabili a condizione che abbia luogo, parallelamente, nella vita sociale una «rigenerazione» o la ricostituzione di una comunità spirituale, in cui si conservi il ricordo e l’esperienza di precedenti comunità. Ma quando la rigenerazione si compie sembrerebbe che la stessa rivoluzione divenga superflua. I tempi compressi della rivoluzione, che di un colpo dà realtà ai sogni di


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individui a loro volta a lungo «compressi», si alternano a lunghi periodi di depressione e scoraggiamento. Ciò è da mettere nel conto, almeno fino a che «giunge uno spirito che permane nel positivo» e non vive più nell’aggressione e nella distruzione42. L’imagine di uno spirito che permane nel positivo sembra reintrodurre però l’idea di una condizione atemporale di felicità raggiunta e oziosa, su cui si sono invariabilmente appuntate le critiche degli avversari dell’utopia delle più diverse tendenze. Tuttavia ciò che Landauer ha in mente quando allude a un permanere nel positivo (ein Bleiben im Positiven) non è affatto una condizione di appagamento e di definitiva assenza di contraddizioni che succeda temporalmente alla «vittoria della rivoluzione». Egli sa benissimo che questo genere di convinzioni è diffuso non solo tra i socialisti ‘autoritari’ ma anche tra i suoi stessi compagni di strada, che pongono e rinviano la fraternità tra gli uomini al momento in cui gli ostacoli e le autorità siano stati messi da parte. «In verità essi sono fratelli – obietta – solo durante il periodo in cui lottano contro gli ostacoli e le autorità e le rimuovono». Non c’è da attendersi che lo spirito (l’amore, la fraternità) venga alla luce attraverso (durch) la rivoluzione, esso vive in essa, e dopo di essa non vive più. Ciò non significa tuttavia che esso si esaurisca nella rivoluzione, la quale, nella realtà come nel concetto, è essenzialmente provvisoria, come una «febbre di salute» tra due malattie, preceduta da debolezza e seguita da uno stato di spossatezza. «È necessario – conclude – qualcosa di completamente diverso e qualcosa di più della rivoluzione perché sulle costruzioni degli uomini sopraggiunga qualcosa che permanga e che permanendo proceda sempre oltre».

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Note

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1. Per una ricostruzione dell’intera vicenda intellettuale e politica di Landauer è preziosa la monografia di Gianfranco Ragona, Socialismo e anarchismo nella Germania guglielmina. Il percorso politico e intellettuale di Gustav Landauer (Trauben, Torino 2003), che l’autore sta per riproporre in una versione notevolmente modificata e arricchita. Si veda inoltre di Siegbert Wolf, Gustav Landauer zur Einführung, Junius, Hannover 1988, e l’ampia Gustav Landauers Bibliographie, Trotzdem Verlag, Grafenau 1992. Tratta più specificamente il tema dell’utopia il saggio di Bernhard Braun, Die Utopie des Geistes. Zur Funktion der Utopie in der politischen Theorie Gustav Landauers, Schulz-Kirchner, Idstein 1991. Per una collocazione di Landauer all’interno della tradizione del «socialismo utopistico» resta fondamentale il capitolo a lui dedicato da Martin Buber in Netivot be Utopia, Gerusalemme 1946 (ed. ted. Pfade in Utopia, Lambert Schneider, Heidelberg 1950, trad. it. Sentieri in Utopia, Edizioni di Comunità, Milano 1967). 2. M. Buber, Landauer und die Revolution, in «Masken», Halbmonatschrift des Düsseldorfer Schauspielhauses, Jg. XIV, 1918/19, H. 18/19, pp. 282-291, rist. in Id., Pfade in Utopie – Ueber Gemeinschaft und deren Verwirklichung, L. Schneider, Heidelberg 1985, pp. 315-330. Secondo Buber Landauer era talmente persuaso della tragicità di tutte le rivoluzioni finora avvenute – una tragicità basata sul fatto che esse non erano sostenute da una rigenerazione sociale e dovevano pertanto degenerare in burocraticismo ed azione violenta – che decise di partecipare in prima linea alla rivoluzione tedesca per un dovere di solidarietà, per fare ciò che gli toccava fare, nel tentativo di scongiurare gli esiti che pure le sue stesse teorie gli permettevano di anticipare, con la coscienza cioè di essere una vittima sacrificale. – La traduzione di questo saggio appare in appendice a questo volume. 3. G. Landauer, Die Revolution, a cura di S. Wolf, Unrast Verlag, Münster 2003, p. 27. 4. G. Landauer, Die Revolution, cit., p. 31 s. 5. K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, in Opere, V, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 68. 6. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di F. Andolfi, Newton Compton, Roma 1976, p. 126. 7. G. Landauer, Die Revolution, cit., p. 32. 8. Ibidem. 9. Ibidem, p. 34. 10. Ibidem, p. 109. 11. In Ideologia e utopia (1929) Karl Mannheim imputa a Landauer, come in generale agli anarchici, una concezione totalmente astorica dell’utopia in base


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alla quale solo nell’utopia e nella rivoluzione si darebbe una vita autentica, mentre l’ordine istituzionale (topia) non rappresenterebbe altro che il cattivo residuo delle rivoluzioni e delle utopie in fase di declino. Egli riconosce tuttavia a questa concezione il merito di mantenere una trascendenza rispetto all’ordine stabilito, impedendo così alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta (il Mulino, Bologna 19652, p. 199 s.). 12. G. Landauer, Die Revolution, cit., p. 33. 13. Ibidem, p. 35. 14. Ibidem, p. 36. In un’epoca come la nostra che, con tutta la sua inquietudine, sembra però acquietata nell’escludere come insana e pericolosa ogni prospettiva utopica può valere la pena tornare a chiedersi se essa non sopravviva sotto la superficie (unterirdisch). La vita sotterranea dell’utopia spiega il carattere improvviso e imprevedibile delle sue manifestazioni. 15. G. Landauer, Aufruf zum Sozialismus, Oppo Verlag, Berlin 1998, p. 38. 16. Ibidem, p. 18. 17. Oltre al Manifesto del partito comunista deve essere qui ricordato F. Engels, Die Entwicklung des Sozialismus von der Utopie zur Wissenschaft, 1880. 18. G. Landauer, Die Revolution, cit., p. 63. 19. Ibidem, p. 52. 20. G. Landauer, Durch Absonderung zur Gemeinschaft, in Id., Die Botschaft der Titanic. Ausgewählte Essays, Context Verlag, Berlin 1994, p. 9 s. 21. Ibidem, p. 17 s. L’idea degli individui come punti di concrezione del flusso vitale è rintracciabile anche nella coeva filosofia della vita di Simmel (cfr. ad esempio Das individuelle Gesetz, 1913, trad it. La legge individuale, Armando, Roma 2001, p. 81 ss.). 22. Ibidem, p. 27. 23. G. Landauer, Die Revolution, cit., p. 54. Per contro «alle epoche di dissoluzione, decadenza e transizione è stato riservato il diritto di creare qualcosa come singole persone isolate e atomizzate: emarginate e prive di appartenza» (p. 60). 24. Ibidem, p. 56 s. 25. Thorsten Hinz ha dedicato una monografia al significato della mistica cristiana (ma anche ebraica) e in particolare di Meister Eckhart per il pensiero di Landauer. L’autore sottolinea il disinteresse di Landauer per le forme istituzionalizzate della religione e la sua esclusiva attenzione per la «compenetrazione» di credenti che vivono la loro religiosità al di fuori di ogni mediazione gerarchico-autoritaria. I contenuti della sua «religiosità comunitaria» sono «mistici, vitali e antigerarchici». La sua mistica è anarchia ma anche viceversa. Nel Medioevo Landauer ha visto un tempo che «non aveva bisogno di ri-

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voluzioni, perché disponeva largamente di ciò che dovrebbe essere lo scopo di ogni sforzo rivoluzionario: creare o essere spirito comune». Il critico contesta che da un punto di vista storiografico ci si possa attenere alle generalizzazioni per cui l’età moderna equivarrebbe a Ungeist e il medioevo a Gemeingeist, e raccomanda un atteggiamento storico più aderente alle realtà differenziate dell’epoca medievale, in cui le strutture ecclesiastiche di autorità non hanno meno peso della Durchdrungenheit. Trova anche semplicistico liquidare la cultura delle ultime società precristiane come una cultura inconsistente piuttosto che come una diversa concezione del senso della vita, centrata, in alternativa a quella cristiana, sulla maestà del cosmo. Certo, riconosce Hinz, in questa sua parzialità (o visione condensata) Landauer persegue un proprio ideale anarchico di mancanza di dominio, emancipazione, tolleranza e solidarietà, ma la sua «valutazione restaurativo-utopica» e «romantica» del Medioevo rischia di entrare in contraddizione con la grande forza morale del suo pensiero libertario, finendo per trascurare le vittime di strutture oppressive di cui si sottovaluta il peso (Mystik und Anarchie. Meister Eckhart und seine Bedeutung im Denken Gustav Landauers, Karin Kramer Verlag, Berlin 2000, pp.173-200, passim) 26. G. Landauer, Die Revolution, cit., p. 64. 27. Ibidem, cit., p. 70. A questo proposito Landauer si chiede quali meravigliosi effetti si sarebbero prodotti se, in analogia a quanto era già accaduto agli inizi del Medioevo, quelle intuizioni avessero preso piede tra popoli nuovi, questa volta nei paesi extraeuropei di recente scoperta. 28. Ibidem, cit., p. 84. 29. Ibidem, cit., p. 105 s. 30. Ibidem, cit., p. 107 s. 31. L’interesse costante di Landauer per la rivoluzione francese è testimoniato anche dalle sue traduzioni in tedesco dell’opera di P. Kropotkin, Die französische Revolution, 1789-1793, 2 voll., Theodor Thomas Verlag, Leipzig 1909, e dei Briefe aus der französischen Revolution, 2 voll., Rütten und Loening, Frankfurt a. M. 1918. 32. Die Revolution, cit., p. 110 s. 33. Landauer si richiama, approvandolo, a un giudizio assai sfumato pronunciato da Camille Desmoulins in una lettera al padre nel 1793. Pur avendo una chiara percezione delle ambizioni e dell’avidità che offuscano l’intelletto dei capi rivoluzionari, Desmoulins apprezza i vantaggi della libertà di stampa capace di stigmatizzare i comportamenti degli sciocchi e degli ignoranti, e così conclude: «Lo stato delle cose è ora incomparabilmente migliore di prima dello scoppio della rivoluzione, perché c’è una speranza di poterlo migliorare, che non esisteva sotto il dispotismo». Landauer nota come ai farabutti non toc-


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chi più la stessa sorte di allora ma si compiace dell’evoluzione del costume che fa sì che almeno venga ghigliottinato un minor numero di valorosi e coraggiosi, e vede anch’egli come un risultato duraturo della rivoluzione la libertà d’opinione grazie a cui nulla è più «intangibilmente sacro» (ibidem, p. 116 s.). 34. Ibidem, cit., p. 112. 35. Anche Hannah Arendt, nel suo On Revolution (Viking Press, New York 1963), contesta la pretesa delle rivoluzioni, in particolare di quella francese, di dare soluzione a questioni sociali, ma da questo rilievo fa seguire la conclusione che solo le rivoluzioni che si sono poste obiettivi politici (come quella americana) possono ottenere risultati liberatori ed evitare rischi totalitari. Landauer mantiene invece la centralità della questione sociale e si limita ad osservare che deve essere risolta sul proprio terreno con mezzi prevalentemente non politici. Malgrado queste profonde dissonanze è possibile trovare qualche punto di contatto tra i due pensatori nella coscienza che hanno dei rischi involutivi delle rivoluzioni e nel comune apprezzamento del sistema dei consigli, cioè di una forma impolitica di politica (su questo cfr. B. Braun, op. cit., p. 96 s.). Per la posizione di Arendt rispetto alle utopie rinvio al mio Hannah Arendt e la critica dell’utopia sociale, in M. Durst, A Meccariello, a cura di, Hannah Arendt. Percorsi di ricerca tra passato e futuro 1975-2005, La Giuntina, Firenze 2006, pp. 33-44. 36. «Lo Stato – scrive Landauer in Vom Wahn und vom Staat – è un rapporto, è una relazione tra gli uomini, è un modo in cui gli uomini si rapportano tra di loro; e lo si distrugge adottando altre relazioni, comportandosi l’uno con l’altro in maniera diversa» («Der Sozialist», 15 giugno 1910). Questo tema è giustamente valorizzato da Buber (Sentieri in Utopia, cit., p. 59). 37. M. Buber, Sentieri in Utopia, cit., p. 60. Corsivo mio. 38. Ibidem, p. 60 s. La distinzione di Buber presenta una singolare somiglianza con quella che Marcuse avrebbe introdotto tra «repressione fondamentale» e «repressione addizionale» in Eros and Civilization (Beacon Press, Boston 1955). 39. Riassumo qui con molta libertà le tesi sviluppate da Mannheim nel capitolo di Ideologia e utopia dedicato alla «mentalità utopica». 40. M. Buber, Sentieri in Utopia, cit., p. 19 s. 41. Parafrasando Landauer Buber afferma che «il socialismo può essere attuato in qualsiasi momento, purché lo voglia un numero sufficiente di persone» e che lungi dall’attenderne l’avvento «bisogna cominciare» (ibidem, p. 60 e p. 69). 42. G. Landauer, Die Revolution, p. 88.

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La rivoluzione

Qui vedi solo la via della passione, che tu chiami tramonto e che giudichi secondo la via di quelli che vi sono giĂ passati, io invece vedo la salvezza perchĂŠ giudico secondo la schiera di quanti vi giungeranno.

Massimo di Tiro


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La sociologia non è una scienza; e, anche se lo fosse, la rivoluzione per motivi particolari si sottrarrebbe a una trattazione scientifica. La scienza esatta si costituisce in questo modo: l’intelletto dell’uomo combinato con i sensi esperisce vissuti che trasforma in costruzioni dell’essere. Intervengono quindi la memoria e il linguaggio che continuano a lavorare nella stessa direzione: viene innalzato così un nuovo piano di costruzioni dell’essere. Abbiamo pertanto elementi stabili isolati che fungono da supporti e contenitori di tutto ciò che accade, agisce e si modifica, oppure che si presentano anche come nuove entità autonome, concetti, astrazioni, ecc. Il compito della scienza esatta è ora quello di restituire la forma del divenire a questo essere, che è stato creato da noi per i nostri sensi e il nostro intelletto. I concetti vengono frantumati e fluidificati, sotto la pressione del confronto e della riflessione le cose si disperdono come pulviscolo alla luce del sole: ed ecco che tutto ha assunto un aspetto diverso da quello di cui avevano favoleggiato le parole e gli occhi degli uomini. La scienza esatta è dunque raccolta e descrizione di tutti i dati dei sensi, critica periodicamente rinnovata delle astrazioni e delle generalizzazioni e, su questa base, critica complessiva del nostro illusorio mondo dell’essere, creazione del divenire, il quale, in accordo con la nostra esperienza interiore, viene posto a spiegazione dell’affermazione di entità sostanziali del nostro intelletto sensibile. Il discorso è un altro per quell’ambito che chiamo storia nel senso più ampio. In essa infatti come sostrato elementare non

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esistono sostanze, materie, né cose di alcun genere: si prescinde completamente dai portatori di ogni storia, dai corpi degli uomini, che vengono presi in considerazione tutt’al più quando vengono maltrattati o decapitati. Del resto i dati della storia sono avvenimenti, azioni, sofferenze, relazioni. Ciò che per la scienza di cui abbiamo parlato rappresenta dunque l’ultimo risultato faticosamente raggiunto – il divenire, è qui il primo punto di partenza in assoluto. Comunque, per poter parlare di questo divenire, dobbiamo agire nello stesso modo in cui operano i sensi e lo spirito dell’uomo nella percezione: si erigono delle costruzioni dell’essere, e così parliamo di Medioevo o di età moderna, di Stato e società, di popolo tedesco o francese, come se fossero cose o entità. Ogni descrizione o indagine approfondita ci riconduce però sempre da queste costruzioni alla realtà, alla realtà elementare della nostra esperienza primitiva, nella quale anche noi ci troviamo immersi: all’accadere fra gli uomini, dell’uomo con l’uomo, di gruppi umani più o meno grandi, solidali o in contrasto fra loro, all’accadere di unioni in vista di determinati scopi ecc. In breve, la scienza esatta provvede a correggere l’esperienza; ci allontana dall’esperienza portandoci verso le astrazioni dello spirito. La cosiddetta scienza storica, quanto più diventa sottile e raffinata, non può invece far altro che ricondurci continuamente proprio ai primi dati dell’esperienza. E l’ultima forma della scienza storica, la nostra psicologia sociale appunto, rappresenta il modo per ora più raffinato per dissolvere le costruzioni ausiliarie della memoria nella materia grezza dell’esperienza, cioè nelle relazioni elementari dell’uomo con l’uomo. Poiché la storia non crea dunque alcun teorema dello spirito, non è una scienza; essa crea tuttavia qualcosa di diverso: le forze della prassi. Le costruzioni ausiliarie della storia: la Chiesa, lo Stato, l’ordinamento in ceti, le classi, il popolo ecc., non sono soltanto strumenti di comprensione, bensì soprattutto creazione di nuove realtà, comunità, forme finalistiche, organismi di ordine


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superiore. Nella storia lo spirito creatore non crea conoscenze teoretiche; quindi è anche assolutamente corretto e significativo che le espressioni ‘storia’ e ‘politica’ indichino allo stesso modo l’accadere e l’agire, che è attività, come l’osservazione, che intende essere passiva o neutrale, ma che nella maggior parte dei casi è solo un volere e un agire latente. Per questa concentrazione e contemplazione abbiamo in tedesco un termine appropriato: attualizzazione. In effetti in ogni storia il passato viene attualizzato, reso presente; anche l’inglese ha per questo un termine appropriato, to realise, che significa contemporaneamente realizzare e prendere coscienza: in questa realizzazione sono riunite la rappresentazione e la volontà, la conoscenza e la potenza creatrice. Ogni sguardo nel passato o nel presente dei raggruppamenti umani è un fare e un costruire proiettato nel futuro. E ugualmente la direzione opposta, che dissolve di nuovo le costruzioni esistenti e perduranti della storia negli elementi di origine psichica e quindi nell’individualismo, non è critica, dissolvente e distruttiva solo dal punto di vista teoretico, ma è distruttiva anche nella prassi. Così in questo primissimo approccio introduttivo siamo di colpo giunti al cuore del nostro tema. Il nostro compito è quello di osservare il fenomeno della rivoluzione dal punto di vista della psicologia sociale. E ora noi troviamo che la psicologia sociale stessa non è altro che la rivoluzione. Rivoluzione e psicologia sociale sono definizioni diverse, e certo anche sfumature diverse, della stessa e identica cosa. Dissolvimento e frantumazione delle forme della totalità, delle strutture idealizzate attraverso l’individualismo: questo è psicologia sociale, questo è rivoluzione. La decapitazione di Carlo I e la presa della Bastiglia furono psicologia sociale applicata; e ogni indagine e analisi delle istituzioni sacre e delle formazioni sovraindividuali è rivoluzionaria. Le due direzioni della scienza storica si rivelano dunque come le due tendenze della prassi storica: da un lato costruzione di strutture sovraindividuali e di forme superiori di or-

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ganizzazione, che danno senso e sacralità alla vita degli individui; dall’altro distruzione e abolizione di queste forme quando sono diventate intollerabili per la libertà e il benessere degli individui. In quanto psicologi sociali Rousseau, Voltaire, Stirner sono stati dei rivoluzionari; e così il primo aspro confronto con il tema ci ha già condotto a trattarlo esaurientemente e a superarlo: poiché il compito di questa indagine non deve essere quello di fare la rivoluzione, ma di scrivere su di essa. *** Iniziamo dunque dal principio. Ci eravamo ripromessi di mostrare che anche se storia e sociologia potessero essere scienza pura, per motivi particolari la rivoluzione non potrebbe essere oggetto di una trattazione scientifica. Per dimostrarlo ci accingiamo dunque ad affrontare la questione per la seconda volta. La dimostrazione che qualcosa non può venir trattato in una determinata forma, sembra essere condotta al meglio facendo un tentativo sincero e onesto in questo senso e portandolo avanti finché non si può andare oltre. Nelle pagine seguenti inizierò quindi a parlare della rivoluzione in modo rigorosamente scientifico e deduttivo, e il lettore è pregato di verificare con attenzione che tutto si svolga correttamente, poiché io riconosco fin dall’inizio di essere convinto della mancanza di prospettive di questo tentativo. Spero mi si vorrà risparmiare di dimostrare che può esistere solo una scienza deduttiva, e non una induttiva, sebbene non si possa negare che la maggior parte dei cosiddetti lavori che hanno la pretesa di essere scientifici, non solo dei nostri tempi, siano un intollerabile ammasso di materiali e sentimenti. Quindi senza ulteriore dimostrazione possiamo affermare: la scienza autentica è deduttiva perché è intuitiva; l’induzione e la meticolosità collezionista di coloro che non hanno una natura sintetica e che perciò non sanno far altro che addiziona-


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LA GINESTRA Biblioteca per un individualismo solidale

Da due secoli, di fronte alla crisi delle rassicuranti comunità naturali e all’accelerazione dei processi di individualizzazione, filosofi e pensatori sociali si sono posti il compito di costruire teorie nelle quali la coesione della società non confligge ma va di pari passo con la cura di sé di individui emancipati. La collana La ginestra documenta l’esistenza di questa tradizione di individualismo solidale attraverso i testi di autori classici e contemporanei.

Titoli pubblicati Georg Simmel Friedrich Nietzsche filosofo morale a cura di Ferruccio Andolfi Ralph Waldo Emerson Società e solitudine a cura di Nadia Urbinati

Harry G. Frankfurt Catturati dall’amore a cura di Gianfranco Pellegrino Gustav Landauer La rivoluzione a cura di Ferruccio Andolfi Titoli in preparazione

Pierre Leroux Individualismo e socialismo a cura di Bruno Viard Zygmunt Bauman Individualmente insieme a cura di Carmen Leccardi Ágnes Heller La bellezza della persona buona a cura di Brenda Biagiotti

Theodor W. Adorno La crisi dell’individuo Friedrich E.D. Schleiermacher Monologhi


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Questo libro

di Gustav Landauer settimo della collana La Ginestra nata dall’amicizia e dal lavoro comune individuale e solidale tra l’Associazione omonima e le Edizioni Diabasis viene stampato nel carattere Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia SAGI di Reggio Emilia nel dicembre dell’anno duemila nove


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