La trovatura

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ANTONIO BASSARELLI

«Ma Paolo non ascoltava. Inesplicabilmente, sentiva che tutto gli era promesso, che ogni cosa era fatta per lui: l’immortale. Non credeva alle fate, certo, ma sapeva che, di notte, i fantasmi fosforescenti degli schiavi mori e dei mercanti arabi uccisi e non sepolti giravano per la campagna, e che se fosse riuscito a strappare la spada ad un moro, il mantello ad un arabo o il cappuccio rosso ad un folletto, questo sarebbe stato costretto a dargli la trovatura. Nulla gli parve allora più sicuro e più facile.»

LA TROVATURA

ANTONIO BASSARELLI

DIABASIS

DIABASIS

Antonio Bassarelli (Messina, 1931), studi classici e laurea in Giurisprudenza, è diventato Giudice nel 1959. Ha svolto attività giudiziaria fino al 2001, quando ha lasciato il Tribunale di Reggio Emilia. Il suo primo romanzo La trovatura, pubblicato da Rizzoli nel 1972 – e proposto qui in un’edizione completamente riveduta e corretta – lo fece riconoscere scrittore dalla critica, e scrittore di qualità. E gli valse numerosi riconoscimenti, fra cui il “Premio Pisa” e il “Premio Letterario Basilicata”, allora presieduto da Carlo Bo. Diabasis, divenuto con gioia il suo editore, ha pubblicato nel 2006 Di Elena e dell’ombra.

AL BUON CORSIERO

€ 16,00

LA TROVATURA

La “trovatura” è, genericamente, un tesoro nascosto: la cosa da “trovare”. Più specificamente, è quel tesoro creato da forze occulte (un folletto, un mago) per indurre gli uomini a celebrare riti o a compiere imprese di natura magica e a loro incomprensibili. Qui, la “trovatura” è una “romantica morte”, il premio che l’autore promette al protagonista per indurlo all’impresa letteraria. In un rincorrersi di finzioni e realtà – dal cenno iniziale alla fondazione leggendaria di Messina, sino alla cronaca dei bombardamenti Inglesi e Americani del 1943 – prende forma, nell’interno di una casa messinese, un racconto popolato di immagini gesticolanti, inquiete, iraconde, e di personaggi ruvidi e strabordanti, collocati in un’atmosfera che, seppur realistica, assume non di rado tratti grotteschi e caricaturali. Il racconto procede per bruschi spostamenti di prospettiva, nei quali il protagonista si trova ad essere descritto dall’esterno come tutti gli altri personaggi, per poi prendere la parola in qualità di dolente voce narrante. Così, alle scene di paese e ai battibecchi di personaggi maniaci, in preda a ispirazioni demenziali o a collere immoderate, si associano pagine di poetica malinconia esistenziale dove non si esauriscono, tuttavia, le risorse di uno scrittore che dispone di più timbri e più voci. La trovatura è la storia di due sconfitte: quella del protagonista e quella dell’autore. Meglio: è la storia della sconfitta, del niente, della finzione totale che tutto contamina, sino a far assumere al racconto toni sempre più magici e onirici e a terminare nel nome di Borges, vero e proprio nume tutelare del romanzo.


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Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 88 8103 544 1

Š 2008 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it info@diabasis.it

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Prefazione

Più o meno trentacinque anni fa, nel risvolto di copertina della prima edizione, Giulio Cattaneo scriveva che La trovatura «assume sempre più verso la fine toni magici, propiziati dallo stesso suo titolo, e non a caso si conclude nel nome di Borges.» In realtà, La trovatura è anche nato nella suggestione di tre racconti di J.L. Borges: Il Sud, che, nell’edizione L’H. E. R. N. E. e nella traduzione di Roger Caillois, lessi nel 1964; Pierre Menard, autore del Chisciotte, ove si afferma che Menard, appunto, è autore «dell’opera più significativa del nostro tempo, consistente nei capitoli IX e XXXVIII della prima parte del Don Chisciotte e in un frammento del capitolo XXII»; e Le rovine circolari, che mi confuse definitivamente le idee, consegnandomi alla sperimentazione e allo sconforto. Il risultato fu un libro che Rizzoli pubblicò nel 1972 e che, ora, è felicemente introvabile. Potrà, dunque, apparire un atto di perdurante ingenuità o di protervia che abbia consentito alla riedizione. E si tratta, invece, di riparare, per quel tanto che adesso è possibile, alle offese a suo tempo recate ad una lingua cui ero e sono affezionato. Così e tra l’altro, in osservanza alla regola generale dettata, mi pare da Mark Twain, con riguardo agli aggettivi (Se siete in dubbio, eliminateli), ho soppresso non solo questi, quando spudorati, ma anche gli avverbi dubitabili, i pronomi da spreco, le virgole da recita e gli esclamativi di giovinezza.

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Il resto è stato “assottigliato”, per consentire all’eventuale lettore di sbrigarsi prima. D’altra parte non è necessario rassegnarsi all’idea che questo sia il testo per sempre, essendo noto come il concetto di testo definitivo si appartenga solo alle religioni o alla stanchezza. Mi propongo, dunque, di rivederlo tra una trentina d’anni, eliminando, allora, tutto ciò che adesso non lo è stato. A. B.

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Dicono (ma Dio vede, e sa, ed è misericordioso) che pirati cumani o calcidesi abbiano fondato Messina otto secoli prima che Cristo nascesse; e dicono che, ora, essa sorga tra le colline e il mare, a trentotto gradi di latitudine nord, sempre battuta dal vento, sempre stordita dal sole. Dicono anche che nelle case basse e per le strade, che sono larghe e dritte, gli uomini sentano i propositi asciugarsi, le idee seccare e disperdersi al vento di scirocco. Dicono, infine, che a Messina non accada mai nulla e che ciò sia effetto del clima. Paolo Bringheli vi nacque nel maggio del 1929. Nella stanza dal soffitto altissimo, ove l’eco degli urli della figlia ed un esasperante odore di alcool avevano indotto l’avvocato Ricciardi a sbattere la testa contro un uscio gridando «Basta! Basta, basta, basta! Ditele che basta! Non lo voglio più quest’assassino!», mani caute se l’erano conteso; lucidi occhi di zii, zie, nonni, cugini, parenti, s’erano chinati a cogliere, con l’indiscrezione sicura di chi frughi il volto indifeso di un cieco o di un morto, la prima somiglianza. Ma Paolo, per quel che se ne poteva capire, non somigliava a nessuno: non alla bianca e turgida signora Lina: sua madre; non al leonino avvocato Ricciardi: suo nonno; non al padre che, ancora intontito dai “Bravo!”, dai baci e dalle manate sulle spalle, lo guardava meravigliandosi di sentirlo più estraneo di quando, attraverso la pelle tesa della moglie, ne aveva cercato e intuito i piedi o le spalle. L’ingegnere Bringheli era pallido, gentile. Disse, indeciso, che avrebbe preferito una femmina.

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«Presto!» scherzò qualcuno. «Presto, un bicchierino di rosolio! Franco si sente male: sta dando i numeri!» Gli occhi di tutti si riempirono però di stupore sincero: come poteva un uomo serio... fragile, malaticcio, ma serio, nutrire aspirazioni così bislacche? «Mah!» fece l’ingegnere. «Mi pareva che una femmina... Non so...» «Che cos’è che non sai?» intervenne il suocero. «Che stai impasticciando? Spiegati! Che vuoi dire? » «Non so» disse. «Mi pareva che... di solito, specialmente per la madre...» «La madre di chi?» «Del coso... come si dice?... del bambino! per la madre del bambino.» «Per tua moglie!» «Ecco, sì! per mia moglie» concluse l’ingegnere. «Proprio per mia moglie.» E si afflosciò su una poltrona. La giovane signora Ricciardi, la zia Iris, sorrise e, come sempre, dal bellissimo volto di lei fluì, e si acquietò in espressione di assoluta innocenza, una sorta di invito impudico. Affermò che nascere maschio era la cosa più saggia che Paolo avesse potuto fare. Gli uomini, disse, erano più simpatici e divertenti delle donne, avevano tutto un altro fascino e, infine, a lei, checché se ne pensasse, piacevano di più. «C’è dubbio?» assentì l’avvocato, a disagio per la sensazione che lo sguardo della nuora gli provocava. «Che c’è dubbio? Come si dice: “Maschio, e orbo di un occhio!”. Un uomo, per quanto sia, è sempre un uomo. A mio genero,» aggiunse alzando il mento ad indicare l’ingegnere «la puzza dello spirito lo fa straparlare.» Sembrò che il padre di Paolo volesse dire qualcosa; lo si vide, intanto che le labbra livide si aprivano e chiudevano come in cerca d’aria, alzare più volte un braccio che però ricadde sempre a mezzo; strabuzzò infine gli occhi e, con sforzo che parve esaurirlo: «Il bambino...» farfugliò. «Il bambino...»

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«Come?» gli alitò in faccia il suocero, chinandosi a cercarne lo sguardo. «Che Madonna stai dicendo?» Poi, un lampo di intuizione lo raddrizzò di scatto: «Il bambino!» gridò. E travolgendo una domestica che, nel tentativo di farsi da parte e di salvare insieme i bicchieri su un tavolo, gli si era impigliata alle gambe, sfrondò il gruppo in mezzo al quale, tra le braccia della prozia Concetta, Paolo dormiva tranquillo e sporco di sangue. L’avvocato barcollò. Un brontolio sordo, come di tuono lontano, risalì minaccioso per l’enorme torace, si assottigliò gorgogliando per la gola gonfia, indugiò e sembrò qui impigliarsi in labirinti e meandri dai quali, infine, mutato in sibili e miagolii, uscì e si spense nel vuoto della bocca spalancata. Lentamente, come un’invocazione circolare, cercò gli occhi di tutti. «Ma no, cognato!» s’affannò la signora Concetta, scuotendosi dallo stupore nel quale l’intervento dell’avvocato l’aveva piombata. «Non è niente! Che avete capito? Non è niente: a Luisa le è scoppiato il naso... non è il bambino! A Luisa s’è sciolto il naso e l’ha bagnato un poco.» Lo sguardo bovino di Ricciardi le girò in faccia e passò oltre: evidentemente non sentiva. «A Luisa...» mormorò con voce dolce. «Quale naso... ?» «A Luisella, alla figlia di Iris. Mentre guardava il bambino... Quando si emoziona, ogni tanto le succede. Non è niente, state tranquillo.» «Ah, sì... a Luisella» ripeté cantilenando. Poi, faticosamente, gli occhi grigio-azzurri ripresero vita e si incupirono in fessure sottili. L’avvocato stracciò tra i denti una incomprensibile bestemmia, cosa che, più della precedente spiegazione, tranquillizzò il genero e lo riaffondò, calmo questa volta, nella poltrona dalla quale non era riuscito ad alzarsi. Era stanco. Questo figlio tanto atteso, desiderato per anni, invocato come colui che avrebbe dato senso al proce-

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dere scialbo di un matrimonio tra persone educate; questo figlio sperato istericamente ogni mese, ed ogni mese perduto, in meno di un’ora gli aveva tolto la voglia di vivere. Si sentì vecchio, interamente svuotato... Cosa raccontava, la gente? I figli, le gioie, le speranze... Era questo, invece: niente! O forse era troppo presto per dirlo? Forse tra uno, due anni... «Stai male?» chiesero. «Sì» fece distratto. E pensò: “Tra vent’anni, il più idiota dei suoi amici gli sembrerà più intelligente di me, invece”. «Vuoi un po’ d’acqua?» «Sì, grazie» sorrise. Si vide dall’alto, come un estraneo: un lavoro svogliato, lucroso; una moglie tranquilla; un’amante giovane: quella ragazzina venuta fuori chissà da dove... Nulla da desiderare, ormai, neanche un figlio. «Eccola» disse qualcuno porgendogli un bicchiere. Prese il bicchiere, bevve, si guardò in giro, sorrise. Quel sorriso calmo, inaccessibile, aveva sempre irritato il suocero, lo sapeva. “Forse sarà come lui,” pensò “collerico e donnaiolo, un idiota sanguigno e felice.” «Sono felice» echeggiò l’avvocato, sfiorando con un dito la fronte di Paolo. «Questo delinquente mi ha ridato la vita. Guardatemi: ho vent’anni! Mi sento come un toro! Potrei...» Lo sguardo incrociò quello della nuora ed egli storse la bocca e tacque. Dalla porta in fondo, tra un buffet in stile liberty-egizio, zeppo di bicchieri, coppe, bottiglie, tazzine mai usate, ed una colonna tronca sormontata da un setter in porcellana da anni in ferma contro un acquerello nel quale era possibile riconoscere il Canal Grande, si affacciò una donnetta: «La signora vuole il bambino,» gracchiò «e dice se vogliono passare». Gli abiti neri delle signore anziane, quelli a fiori delle più giovani, quelli corti, lampeggianti di mutande, delle bambi-

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ne, si mossero e furono fermati dall’avvocato: «Tutti, no!» disse avviandosi. «Le leviamo l’aria. Ci andiamo io, Iris e Franco.» «Ci vuole un altro momento, però» fece la donnetta. «Un solo momento e possono passare.» Sull’abbrivio, l’avvocato, per non incastrarsi nella porta, cedette il passo alla nuora ed arrossì. «E allora perché chiami, bestia?» gridò dietro alla domestica già scomparsa. Cercò lo sguardo del figlio, e la sensazione d’aver consumato una villania inutile quanto rivelatrice gli gonfiò in fronte, perpendicolare, una vena: Ugo, al solito, non s’era accorto di nulla. I figli, perdio! Questi suoi figli!... Ma da chi ne avevano preso? Che avevano inteso fare? E ce n’erano specchio di femmine da sposare? ne mancavano a Messina? E invece no! se l’era voluta prendere per forza questa Iris... questa fiorentina con un nome da casino. Bella, certo! Bellissima! Ma, Cristo!, c’era bisogno di sfregargliela sul muso a tutti, ogni volta che guardava? Si sentì soffocare ed allentò il colletto. E quell’altra, poi? quella gran testa di calabrese di Lina? Che ci aveva trovato in uno scardellino di ingegnere che campava per scommessa? con gli occhiali, piccolo, brutto... Oh, la bestia! pure una femmina voleva! «Dov’è quello della femmina?» gridò quasi, non vedendo il genero. «Sono qua, babbo» fece l’ingegnere, affacciandosi da dietro le enormi spalle del suocero. Lo guardò in faccia e gli sorrise finché notò gli occhi azzurri iniettarsi di sangue. “Questa” pensò “me la porto addosso per tutta la vita.” E non si sbagliava. Negli anni che seguirono, infatti, tutte le volte che l’avvocato Ricciardi ebbe occasione, con chiunque parlasse, di riferirsi al genero, si servì sempre di quella perifrasi dispregiativa. E il 14 luglio del ’42, essendo entrato nella camera

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della figlia esclamando: «È morto!», ed avendogli questa chiesto: «Chi è che è morto?», «Tuo marito,» aveva detto «quello della femmina!». * * * Nessuno mi vide piangere, allora: di questo sono certo. Sono anche certo di altre poche cose inessenziali. Il resto, quello che accadde (sembrò accadere) prima o dopo, è probabilmente falso o probabilmente vero. Per anni, ho sognato: nell’incessante gioco delle sovrapposizioni, non posso escludere d’aver vissuto i miei sogni. Nacqui a Messina, è vero. Ed è altrettanto vero che a Messina non accade mai nulla: questo, affermo. Altri, contraddittoriamente, credono all’inutile moltiplicarsi di fatti tipici: dicono che gente nasce e muore, che alcuni sono infelici, che molti costruiscono case. Io so, comunque, che, nella mia terra, il nascere è specioso, irrituale: la promettente condanna ad un processo che non si instaura. La morte abita l’Isola, se si vuole, e, prima d’esserne toccato, ciascuno ride o figlia o dà forma alle cose; ma il riso e i figli e le cose, poiché nulla accade, nascono già contaminati: incapaci d’essere causa di altre, diverse, matrici. Dicono che ciò sia effetto del clima, dicono anche sia frutto della perpetua, inconsapevole, saggezza degli abitanti. Forse è così. O vento, sole e saggezza conseguono (seguiranno) a ciò che non accade. Poiché la mia infanzia, la giovinezza, la maturità, la mia morte, sono intuizioni, esse, inutilmente, si ripetono e mi appartengono ad eguale distanza. Non ho difficoltà a prevedere che mia madre abbia urlato per cinque ore e dodici minuti quando traversai il suo corpo, lacerandolo. Sorride, lei, inspiegabilmente, parlando del giorno in cui nacqui: chiede, o chiedeva, a mio padre: «Ricordi?». Ho qui il suo volto: nego che, in mia vece, abbia desiderato una femmina; nego abbia mai desiderato qualcosa. Portava gli occhiali, è vero, ma di certo non desiderava portarli,

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né vederci meglio, né essere miope o non averli: gli erano estranei nel viso e nei pensieri, come tutto. Si ripete... Ritrovo minutamente, e dimentico, l’immenso avvocato Ricciardi: posso toccare l’insaziabilità delle sue vene, dedurne l’inclinazione alle aule giudiziarie. Egli, che coltivava una naturale tendenza a dire sciocchezze, amava affermare che mio padre era nato così, che gli occhiali erano in lui una sorta di apposizione morale. Così diceva. Ed io non credetti mai che fosse smisurato; capii che urlava e che questo riempiva enormemente la casa. Altre volte, nelle notti di festa, le stanze si intrigavano di gambe: una selva di altre grida e di gambe. Venivano tutti: i parenti ricchi, quelli di paese, quelli poveri, che mi pareva dovessero vergognarsi. Li guardavo bene in faccia per capirlo. Poi scrissi: «L’avvocato non presta loro danaro, ma essendo, oltre che ricco, buon cattolico, prega sempre Iddio perché li aiuti a trovarne altrove». Avevo dodici anni: prima e dopo ho anche pensato il contrario. Quanto a mio nonno, egli finì per negare, senza gioia, che fossero poveri. Vennero sempre in tanti: cantarono e mangiarono dolci; brindarono ai nuovi anni, mentre il fumo ed il sonno mi spingevano negli angoli bui della casa. Qui, per l’incerto silenzio, ritrovo mio padre. Non credo avesse un’amante: fin quando ebbi dieci anni, e mia madre cessò di chiederglielo e di piangere, non lo ammise mai. So anche di non aver capito: pensai ritenesse necessario il suo pianto, o, altrimenti, avrebbe detto di sì e l’avrebbe fatta finita. Decisi che quelle lacrime, i silenzi, il rancore, non incrinassero il bugiardo specchio dei miei anni: la guerra, più tardi, fu, come sembra, un gioco di rumori e di morti; potei guardare la mia immagine e riconoscermi, udire le liti e singhiozzarne. Soltanto ora non so (questo soltanto, ignoro) quando la verità sia venuta: se furono le parole di mio padre ad imputridire per prime, o i miei libri ed il mio tempo a corrompersi. Ero, forse, un bambino dal gran triciclo americano e rosso, quando, per la prima volta, mi accorsi di lui. Pensava non

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capissi, immagino. Mi diceva ancora dello Stretto: che prima, nei tempi dei tempi, era un immobile lago; dei calabresi che, scalzi, vi si specchiavano con “Ohoo!” di meraviglia. Diceva dell’Isola (mia madre era in cucina; Luigi e forse Melina dormivano già), dei monti dall’attico suono, delle foreste in cui lottarono il cervo e l’orso. Io facevo di sì con la testa. Invento adesso la costa, le case in legno quasi sulla strada, il canto dei carrettieri, la notte, il profumo orientale dei gelsomini, i grandi fiori bianchi, a campana, e il pozzo. Egli me ne consegnò la magia: «Nelle notti di agosto,» diceva «se il silenzio è vero, se le stelle non tremano, se preghi senza muovere le labbra e ascolti,... in fondo, dove l’acqua è sottile, potrai udire qualcuno che piange.» Non credo che mia madre capisse. Gridò, senza vederci, nel buio, che lei aveva tre bambini cui badare, che tanto valeva mio padre mi buttasse direttamente nel pozzo, che a quell’ora avrei già dovuto essere a letto: che ci andassi, dunque. E lui taceva. Potrei dire del suo volto scavato, tracciare ogni linea della sua fronte, ripetere il suono di ogni sua parola, senza tornare ad amarlo. Egli, del resto, non mi amava. E non desiderò neanche una bambina. Che l’avvocato, nell’annunziarne la morte a mia madre, lo abbia chiamato quello della femmina, mi parve, a quel tempo, una prova. * * * Paolo aveva allora tredici anni, e Luigi, suo fratello, dodici: età sufficiente perché i loro abiti venissero tinti di nero. A Melina, che ne aveva sette, venne invece cucita una striscia di lutto sul grembiule. Arrivò gente. Le donne gridarono e poi piansero. La zia Concetta gridò che l’ingegnere era un figlio bandiera, e la trave principale della casa, anche.

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«Vi ricordate» piangeva «quando storceva gli occhi, ché non voleva sentire rumore? Quanto era bello!» «Bello! Bello!» consentiva anche chi non aveva mai visto l’ingegnere comportarsi in quel modo. «E vi ricordate quel Mezzagosto che non si volle fare il bagno perché diceva che il mare gli faceva male?» Qualcuno ricordava. «Pare che lo sapeva!» singhiozzava la signora Concetta. «Pare che se lo sentiva!» Ed intendeva riferirsi al fatto che il nipote era presumibilmente morto affogato perché la nave era stata affondata dagli inglesi. La signora Lina urlò, pianse, si contorse, s’inarcò; invocò i santi del paradiso e le anime del purgatorio; girò per casa toccando tutti gli oggetti, sedette torcendosi le mani, chiese perché campava, volle sapere dov’era e quanti erano i suoi figli; poi li strinse, poi disse che non erano loro, poi tentò di affogarsi nel lavandino, di bere la varechina, di mordersi le vene dei polsi... Infine si calmò e, seduta in punta ad una sedia, prese a piangere piano piano, come una bambina. «E dove sei?» cantilenava, lisciando la gonna sulle gambe. «E dove sei, amore mio? E dov’è che te ne andasti?» «Avanti, gioia!» tentavano. «Calmati, bella!... fallo per i tuoi figli.» «E dove sei?» ripeteva, monotona, dondolandosi avanti e indietro sulla sedia, come cullasse qualcuno. «E dove sei, fiato mio? E come fu che te ne andasti?» E lisciava la gonna. Venne la sera e poi la notte. Nessuno sapeva che farci. «E dove sei?» ripeteva. «E come fu?» Sembrava non dovesse finire mai. Invece, all’alba, fu silenzio. Il giorno dopo cercarono di saperne qualcosa. L’avvocato si recò alla capitaneria, all’ammiragliato, al porto, ma nessuno aveva notizie precise: la nave era affondata; per il resto, non si sapeva niente. La casa tornò a riempirsi di gente. Parenti, amici con la faccia lunga, giravano da una stanza all’altra come in cerca

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di qualcosa: in realtà non sapevano che fare, perché non c’era un cadavere intorno al quale sedersi, né da organizzare l’accompagnamento, né da tenere lontani i ragazzi dalla stanza in cui si inchioda la cassa. Vestito di nero, pallido, esile, biondo, Paolo stava in piedi, con le spalle contro le pareti, e guardava. Non aveva pianto. A Luigi aveva detto di non gridare, ché solo le femmine gridano; alla madre, nulla, nemmeno una parola. L’aveva solo abbracciata, quasi distratto, quasi estraneo. A volte, sembrava incantarsi su un oggetto o nel vuoto; poi sbiancava o arrossiva, ma sempre tranquillo, come se quella morte non lo avesse ferito. Invece, un dolore minuzioso, asciutto, pungente, gli formicolava per tutto il corpo, gli toccava in brividi impercettibili le labbra e le mani, gli inaridiva la bocca e la pelle; e quando, così periferico e sottile, sembrava dovesse abbandonarlo e concedergli finalmente il pianto, risospinto dai visi estranei, offeso dalle parole inutili, risucchiato dal pudore e dall’orgoglio, rifluiva d’un colpo, denso di calore, e gli si aggroppava dentro, per poi ancora sfrangiarsi e di nuovo essere pietra. Trascorse così due giorni: fermo contro le pareti; straziato da una sensibilità lucida e puntigliosa che, frantumando la realtà in mille particolari, deviando l’attenzione sui cocci di ciò che udiva e vedeva, al dolore aggiungeva rabbia o vergogna o risentimento o nausea. Come una puntura, avvertì l’imbarazzo col quale il ragioniere Molteni, che un attimo prima s’era furtivamente rigirato un dito nel naso, fu costretto a porgere, senza avere il tempo di pulirla, la mano ad una signora; notò, e sentì appiccicosa sul viso, la traccia di bava che lo zio, baciandolo, aveva lasciato sulla guancia destra di Luigi; ebbe il fastidio di una calza che la madre s’era infilata alla rovescia. «E tu non piangi?» chiese l’avvocato. «Non ne hai, cuore?» Paolo non lo sentiva nemmeno. Guardava Luisa intenta a leggere: vedeva il capo della cugina lievemente reclinato da un lato; i capelli lunghi, lisci, biondi; quel dolce filo azzurrino sul collo; la gola di un candore accecante... “È la più bel-

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la del mondo” pensava, mentre gli occhi gli dolevano come se qualcuno li premesse. “È bellissima!" «Va’ almeno da tua madre» diceva l’avvocato. «Dille almeno qualcosa.» Paolo guardava la gola di Luisa, e quel bianco gli entrava dentro e lo stordiva. «Ma che sei, pigliato dalla botta?»1 si spazientì l’avvocato, al quale qualcosa nel volto del nipote ricordava l’incomprensibile sorriso del genero. «Ohu, mi senti?» «Lascialo stare, nonno» fece Luisa alzandosi. «Non lo vedi che sta morendo?» Gli occhi di Ricciardi si incupirono: quella ragazzina di nemmeno vent’anni esagerava. Si permetteva di parlargli in un modo... «E lasciamolo stare!» sbuffò allontanandosi. «Tanto, in questa casa, ognuno fa quello che gli pare.» Luisa sorrise al cugino, posò il giornale e gli si avvicinò: «Ti senti bene?» chiese. «Sì,» disse Paolo «bene.» «Sei pallido... dovresti riposare.» «Sto bene» disse Paolo. Lei lo fissò. «Eppure...» Poi s’accorse di quanto quel ragazzo le somigliasse: «Come sei bianco» fece, incantata. Gli carezzò il viso e ne ebbe qualcosa di intimo, come carezzasse se stessa. «Come sei bianco» ripeté, indugiando con le dita sul collo di lui, e lo baciò piano su una tempia. Allora, per la prima volta da quando aveva saputo del padre, Paolo sentì il dolore sciogliersi in ondate dolcissime, sentì il calore sfuggirgli dalla pelle e, finalmente, svenne. 1. Pigliato dalla botta: è gergo venatorio. Dicesi della selvaggina che, raggiunta dalla fucilata, sia stordita ma non morta. Vale, appunto, stordito, intontito, ecc. [N.d.R.]

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Fu solo un istante: il tempo che Luisa dicesse «Madonna mia santissima!» ed egli era già in piedi; ma non gli sarebbe più accaduto di vergognarsi tanto come di quell’attimo di debolezza. Allo stesso modo che tutte le cose belle, guardate da Luisa, gli apparivano splendide, quel momento d’impudicizia, vissuto sotto gli occhi di lei, gli sembrò osceno. Ebbe nausea di se stesso; fu sicuro che mai più la cugina avrebbe potuto guardarlo come si guarda un uomo; giurò, infine, che nessuno l’avrebbe più visto svenire, o piangere, o lamentarsi, o fare, insomma, qualcosa che solo le donne possono permettersi senza perdere la faccia. «E quando morirò,» decise «sarò solo.» Così, dieci giorni più tardi, quando, grinzo e piagato, bruciato dall’acqua e dal sole, ma vivo, il padre gli comparve davanti, egli lo abbracciò, sì, convulso, lo strinse, sì, come volesse entrargli dentro, ma né singhiozzi né lacrime si confusero a quelli dell’ingegnere, e nessuno, osservando il viso tranquillo di Paolo, avrebbe potuto sospettare che un lancinante grido di felicità (Luisa! Oddio, Luisa, Luisa, Luisa!) gli spaccasse il cervello. * * * L’ingegnere Bringheli raccontò una confusa storia di navi e di siluri. Era successo tutto di notte. C’era stato una specie di schianto, o di scoppio, o di boato, e lui s’era ritrovato a mare tra il legname e l’immondezza che neanche sapeva come. Poi aveva gridato, nello scuro, e c’era pure altra gente che gridava, ma non si capiva bene se gridava veramente, oppure era il mare, oppure sempre lui. Aveva avuto una paura che non si può dire, ecco! E gridava anche per farsi coraggio, ché i pesci gli potevano mangiare le gambe e perciò le teneva arrocchiate. Basta: erano cose che, a raccontarle, uno non ci poteva credere. E con gli altri sette, che li aveva visti poi, erano rimasti due giorni aggrappati ai pezzi di fasciame, prima che

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il bragozzo li pigliasse e li portasse a riva. Ma uno gli era morto proprio vicino, all’alba, gorgogliando come i colombi quando li mettono nella pignatta per affogarli; e l’acqua gli si faceva rosa attorno alla bocca; e poi era rimasto solo il rosa, ma per un momento. Altri due s’erano lasciati scivolare lisci e zitti, proprio mentre veniva la barca, sfiniti dalla felicità di sapersi salvi. E la notte era stata terribile... Ma il primo sole, con tutto quel sale che bruciava gli occhi, e l’olio nella bocca già piagata, e il sommergibile lì, che girava come un pesce nero... quello, per davvero, non si poteva, raccontare. Lui aveva pensato che stava morendo, e invece gli inglesi avevano girato da un’altra parte e se n’erano andati. Allora, s’era addormentato sotto il sole, che i pesci potevano fare quello che volevano; e poi era venuto scuro; e poi di nuovo il sole: chi se lo ricordava? E alla fine, quelli con la barca che li avevano portati a terra avvolti nei teloni. «Ma come?» sbalordiva l’avvocato, «gli inglesi vi giravano attorno e non vi hanno visto? un pezzo di dieci cristiani?» «Non so» diceva. «Forse ci hanno visto e forse no: chi le può dire queste cose?» «Oh, le bestie!» esclamava l’avvocato picchiando le mani aperte sulle cosce. «Oh, le bestie! E vogliono vincere la guerra!... Dieci cristiani?... Oh, le bestie!» Sembrava provare rabbia che il genero fosse scampato agli inglesi, invece era solo irritato per alcune frasi di stima che s’era lasciato sfuggire quando l’aveva creduto morto. Paolo ascoltava il padre raccontare. Egli non aveva mai fatto molto caso a quell’essere sparuto, sempre serio, che non si sentiva e non si vedeva, e che non dava fastidio a nessuno. Da quando era morto, però, da quando l’aveva abbracciato, ed ora, tutto bende e fasce, che parlava piano, senza imprecare, come se quella cosa fosse successa ad un altro, adesso gli appariva un uomo forte e modesto, un eroe vero insomma, anche se nell’acqua aveva gridato per la paura.

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«Quanti sono morti?» chiese. «Quasi tutti» disse l’ingegnere. «Centotrenta, eravamo... Ma può essere che qualche altro s’è salvato.» Lo vedeva aggrappato alle tavole, ed il mare liscio e bianco nell’alba, e quel poveretto che moriva... Oh, se ci fosse stato lui in quell’acqua! Oh, se avesse potuto tenersi stretta Luisa, e poi lasciarle il relitto che non ce la faceva a reggerli entrambi... e dirle, mentre le spalle, il collo, affondavano: «Ti amo, Luisa! Ti am...», e l’acqua entrargli nella bocca e poi nelle orecchie a spegnere per sempre il grido di lei: «Paolo,... amore mio...». Certo, aveva deciso che nessuno lo avrebbe visto morire... Ma una morte così... Eh, una morte così... Oh! una morte così!

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Antonio Bassarelli

La trovatura

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Capitolo primo Capitolo secondo Capitolo terzo Capitolo quarto Capitolo quinto Capitolo sesto Capitolo settimo Capitolo ottavo Capitolo nono Capitolo decimo Capitolo undicesimo Capitolo dodicesimo Capitolo tredicesimo Capitolo quattordicesimo Capitolo quindicesimo Capitolo sedicesimo

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Nella preziosità di una lingua elegante e pulita a dar conto sicilianamente del pirandelliano caos dell’esistere sulla finzione della finzione di Borges questo primo Bassarelli viene stampato nel carattere Simoncini Garamond presso la tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nel maggio dell’anno duemila otto

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Al Buon Corsiero

Manlio Cancogni, Sposi a Manhattan Manlio Cancogni, L’impero degli odori Giovanni Michelucci, Lettere a una sconosciuta Carlo Frabetti, I giardini cifrati Emilia Bersabea Cirillo, Fuori misura Silvio D’Arzo, Casa d’altri. Il libro Andrea Briganti, Ramblas e altri racconti iberici Foscolo Focardi, L’anglista sentimentale Stefano Scansani, Orapronòbis Roberto Amato, Le cucine celesti Manlio Cancogni, Gli scervellati Stefano Scansani, L’Amor morto Eugenio Turri, Il viaggio di Abdu Gino Montesanto, Cielo chiuso Tano Citeroni, Il canto del verzellino Nicolas Bouvier, La polvere del mondo Giorgio Messori, Nella Città del Pane e dei Postini Emilia Bersabea Cirillo, L’ordine dell’addio Roberto Amato, L’agenzia di viaggi Salimbene de Adam, Cronaca Antonio Bassarelli, Di Elena e dell’ombra Manlio Cancogni, Caro Tonino Racconti dalla Bosnia, a cura di Giacomo Scotti Nicolas Bouvier, Diario delle isole Aran Vittore Fossati, Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre Francesco Petrarca, Lettere all’imperatore Adriana Zarri, Vita e morte senza miracoli di Celestino VI Aleksandar Gatalica, Secolo Rino Genovese, Ci sono le fate a Stoccolma Alessandra Sarchi, Segni sottili e clandestini

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