VEZIO DE LUCIA Napoli PRG 2004
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LE MIE CITTÀ. MEZZO SECOLO DI URBANISTICA IN ITALIA
Vezio De Lucia (Napoli, 1938). Già direttore generale dell’urbanistica del ministero dei Lavori pubblici e membro del consiglio superiore dei Lavori pubblici; consigliere regionale Pci del Lazio; assessore all’urbanistica a Napoli (prima amministrazione Bassolino). Consigliere nazionale di Italia Nostra, premio Cederna 2006 per l’urbanistica. Progettista dei piani territoriali delle province di Pisa e di Lucca, del piano regolatore di Pisa e di altri comuni. Fra i suoi scritti: Se questa è una città, Editori Riuniti, 1989 e 1992, Donzelli 2006; Napoli. Cronache urbanistiche, Baldini e Castoldi, 1998. Collaboratore dei quotidiani «Il Messaggero», «l’Unità», «il manifesto». È vicedirettore del sito eddyburg.it.
DIABASIS
I MURI BIANCHI
Vezio De Lucia
LE MIE CITTÀ MEZZO SECOLO DI URBANISTICA IN ITALIA Prefazione di Alberto Asor Rosa
Dalla frana di Agrigento del luglio 1966 alla rovinosa ricostruzione dell’Aquila dopo il terremoto dell’aprile 2009; dai sogni del primo centro sinistra alle nefandezze del piano casa di Silvio Berlusconi; dalla salvaguardia di Venezia all’impegno contro l’abusivismo nel Mezzogiorno: mezzo secolo di storia della condizione urbana e del paesaggio raccontata da Vezio De Lucia, una figura di primo piano dell’urbanistica italiana. Le battaglie – insieme ad Antonio Cederna, Edoardo Detti, Luigi Piccinato, Edoardo Salzano, Luigi Scano e ad altri protagonisti della cultura, della politica, delle associazioni – per il rispetto della legalità e dell’interesse pubblico, in un libro sui generis, fra cronaca e autobiografia, appassionato, puntiglioso, documentato. Ma anche tormentato, soprattutto quando racconta dell’armonia cha pareva ritrovata, e poi nuovamente perduta, della patria napoletana.
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I muri bianchi
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Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)
ISBN 978-88-8103-658-5
Š 2010 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it info@diabasis.it
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Le mie cittĂ Mezzo secolo di urbanistica in Italia Prefazione di Alberto Asor Rosa
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A Gabriella, Francesca e Luca
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Le mie città Mezzo secolo di urbanistica in Italia
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Prefazione Vita da urbanista, Alberto Asor Rosa Capitolo primo La speranza Porta Pia Verde per la città Dietro le bombe Il disincanto Berlinguer ti voglio bene Capitolo secondo Intervalli L’Istituto nazionale di urbanistica Contro “la linea dei sistemi urbani” Venezia fra salvaguardia e vitalità Terremoto e dintorni Le due ricostruzioni
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Capitolo terzo La svolta La controriforma La simonia Un addio alle armi La Pisana Tre articoli
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Le immagini
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Capitolo quarto Napoli e non più Napoli Il risorgimento “Vola alto Napoli” Lezioni di piano L’eredità L’armonia perduta Capitolo quinto Peccato capitale La deroga come regola La dissipazione dell’Agro Forma urbis Il diritto alla rendita
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Capitolo sesto In direzione ostinata e contraria Toscana in bilico Su due piani A Sud del Chiarone Italia Nostra I peggiori anni della nostra vita
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Protagonisti
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Riferimenti bibliografici
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Indice dei nomi
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Prefazione Vita da urbanista
Della grande corporazione degli intellettuali, che mi è accaduto spesso di studiare, analizzare, descrivere e talvolta criticare, gli urbanisti costituiscono un segmento molto particolare. Mentre le altre categorie in genere (letterati, scrittori, filosofi, sociologi, ecc.) si danno da fare per persuadere altri a cambiare il mondo, loro lo cambiano, – il loro mestiere consiste esattamente nel cambiarlo, – e siccome hanno questo potere, che il loro mandato disciplinare gli assegna, possono fare, fanno, o molto meglio o molto peggio degli altri. Il mutamento della forma del mondo almeno negli ultimi due secoli (ma la storia parte da più lontano) è dipeso, non esclusivamente, certo, ma assai fortemente da loro: dalla loro professionalità; dalla loro consistenza etico-politica; dal loro rapporto con i grandi progetti di trasformazione del mondo, ove ce ne fossero; e dalla loro dialettica, più o meno autonoma o più o meno subalterna, con il potere. Me ne dispiacerebbe molto, ma potrei fare a meno di leggere libri; potrei ignorare l’ultima teoria filosofica; ma, lo voglia o no, non posso fare a meno di misurarmi con il tessuto mondano, dentro al quale vivo e con il quale quotidianamente mi misuro, creato dagli urbanisti, e quindi con la loro mutevole consistenza etico-politica, il loro rapporto più o meno creativo con le grandi ideologie, la loro dialettica, – ingenua, indifesa, disarmata, sottomessa oppure intelligente, risoluta, critica, antagonistica, – con il potere. Queste considerazioni, peraltro elementari, me ne rendo conto, ma per me significative, mi venivano in mente leggendo questo libro, il libro di Vezio De Lucia, che riassume sinteti7
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camente ma brillantemente, la sua lunga carriera di urbanista. Non potrei dirne nulla che non sfiori la banalità, trattandosi di questioni per me perigliose perché lontane, e dunque difficili da interpretare e da giudicare, se non per la curiosità e la simpatia, immense, anzi sconfinate, che m’ispirano. Ma forse un occhio lontano, ed esterno, – da testimone più che da critico, – può contribuire almeno a disegnare i contorni più generali del discorso, ed è quanto, precisamente, mi accingo a fare. Il titolo del libro, Le mie città, è bello e giusto, ma il libro avrebbe potuto anche intitolarsi Le avventure di un urbanista, oppure, scaricandovi sopra le molte amarezze di cui è condito, Le fatiche di Sisifo, oppure, insistendo di più sull’etica della responsabilità che tutto lo permea, La lotta con Proteo. Perché, letterariamente parlando, è una “storia” quella che l’Autore racconta, con i suoi eroi e antieroi, le sue vicissitudini e le sue peripezie, le sue sconfitte e i suoi risorgimenti. Ed è, politicamente parlando, il resoconto di una lunga fatica: la fatica, inesauribile e inesausta, in taluni momenti terribile e disperata fatica, che costa in Italia (anche altrove?) proporsi di cambiare il mondo in meglio, ridargli ordine e bellezza, conferire un senso concreto alla parola d’ordine della vivibilità, ristabilire alcune linee di coerenza tra il passato, il presente e il futuro, aiutare a loro volta gli uomini a compiere meglio, con maggior agio e più grande soddisfazione, la loro lunga, dura, quotidiana fatica. Di questa storia De Lucia narra sapientemente alcuni passaggi ed episodi; ma a me pare che l’acme, e al tempo stesso il fulcro, ne sia rappresentato dal suo assessorato napoletano alla “vivibilità” (che espressivamente comprende, fin dall’intitolazione, l’urbanistica, ma al tempo stesso non ne risulta esaurito) nella prima Giunta Bassolino. Il racconto di quello che allora fu possibile sognare, progettare, realizzare, e di quello che da un certo momento in poi non fu più possibile né sognare né progettare né realizzare, scontrandosi con le perenni, incrollabili esigenze di una realpolitik cialtrona e arruffona, raggiunge vertici drammatici, di una grande evidenza persuasiva, e suscita echi che vanno ben al di là della materia parti8
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colare trattata. Esso s’intreccia infatti con la storia della decadenza e del tramonto di una grande, solare stagione di possibile rinnovamento a opera di un centro-sinistra permeato di spinte al tempo stesso intellettuali e popolari, stagione di cui Antonio Bassolino rappresenta la figura più esemplare sia dal punto di vista delle promesse e delle aspettative sia, ahimè, anche dal punto di vista delle promesse fallite e delle aspettative disilluse e tradite (può ben dirlo uno come me che ne ha seguito entusiasticamente e solidalmente la prima fase, con distacco e con ira crescente, per non dir altro, la seconda). Tutto il libro declina con forza questa “semplice verità”, ma questo punto nodale forse lo fa con eloquenza ancora maggiore. Per riprendere alcune delle mie considerazioni iniziali, dirò ora che l’urbanistica si presenta come la più efficace cartina di tornasole dello stato di salute di una società che è, o pretende di essere, “avanzata”. La denegazione dei diritti di una buona urbanistica e le sue conseguenti frustrazioni sono il riflesso di una società eticamente e politicamente malata e al tempo stesso la spingono verso il peggio, innescano un circolo vizioso di cui resteranno sempre più vittime quelle povere moltitudini silenziose che ne sono al tempo stesso le peggiori (anche se incolpevoli) responsabili. Tutto questo non avrebbe potuto esser detto, – o almeno non avrebbe potuto esser detto con la forza con cui è stato detto –, se il racconto, la storia di De Lucia non fossero solidalmente fondati su di un principio, su di un ethos, che ne garantisce la complessiva unità e coerenza. Questo principio, io lo definirei come la “supremazia del pubblico” in tutte le sue forme. Mi rendo conto che questo, che ispira a me tanta ammirazione, indurrebbe gli “esperti” ad aprire la discussione. Del “pubblico” se non erro, De Lucia fornisce una versione che qualcuno potrebbe definire (non escludo che ciò sia già accaduto) o troppo rigida o troppo verticistica o troppo unitarista (per usare in quest’ultimo caso un linguaggio di tipo “risorgimentale”): ovvero, rovesciando i termini dell’equazione, poco indulgente nei confronti delle 9
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ragioni del mercato e dunque, secondo alcuni, dei “cittadini” (vulgo, imprenditori edili), poco incline ad accettare logiche municipalistiche e particolaristiche, molto diffidente nei confronti di segmentazioni politico-geografiche del territorio nazionale in funzione di interessi sempre risorgenti (polemica contro il “rito ambrosiano”, contro quello “romano”, meno codificato, ma non meno efficace, ecc.). Può darsi, – non sono in grado di escluderlo, – che Vezio De Lucia sia un “urbanista all’antica”: che il lungo periodo trascorso più di quarant’anni fa nelle stanze del Ministero dei Lavori Pubblici a Porta Pia, all’ombra di un Direttore generale come Michele Martuscelli, e sotto la guida di Fabrizio Giovenale, Capo del Servizio Studi, “il mio primo e mai dimenticato maestro di urbanistica”, lo abbia segnato per sempre. E allora? Ognuno di noi è quello che è, importante è che se ne cavi il meglio (in genere accade il contrario). Il “meglio” di Vezio De Lucia, – di cui questo libro costituisce la “summa” intellettuale e al tempo stesso la bellissima testimonianza, – è la convinzione, consolidata e fortissima, che per “servire il pubblico” ci vuole una “ratio urbanistica” che studia le questioni e fissa le regole prima che la contrattazione abbia semplicemente inizio, anzi, il più lontano possibile da essa. Affinché questo accada, bisogna avere idee chiare su principi e interessi, e formulare strategie non contingenti ma illuministicamente di lungo periodo, perché solo sul lungo periodo la manipolazione del mondo, quella buona e quella cattiva, prende la sua “forma”. Non è lo stesso discorso che si potrebbe fare oggi sulla nostra politica? Se è così, come penso, vuol dire che le due cose, politica e urbanistica, sono davvero le due facce della stessa medaglia. Il libro di Vezio De Lucia ce lo mette di fronte agli occhi con l’eloquenza dei fatti: per redimere l’una bisogna redimere l’altra, e viceversa. Questo è il circolo che ci sta di fronte, e con cui gli italiani avranno a che fare nei prossimi anni e forse decenni per decidere se star meglio o star peggio (molto peggio). Alberto Asor Rosa 10
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condividevamo. Fu una specie di viatico all’amicizia di una vita, ma l’esserci sottratti alle consuetudini locali De Michelis ce la fece pagare imponendo l’accantonamento del piano. Terremoto e dintorni Napoli è la mia patria. Sta scritta nel palmo delle mie mani, anche se ho trascorso due terzi della vita a Roma. Più di Napoli credo che solo la Sicilia eserciti tanto richiamo sui propri figli. Ho fatto quanto ho potuto per essere utile alla mia città, anche per l’insistenza di Antonio Iannello con cui, dopo l’esperienza condotta insieme per l’approvazione del piano regolatore del 1972, si stabilì una specie di complicità (non senza crisi e distacchi) rivolta specialmente alle vicende di Napoli e al malgoverno della città, argomenti che alimentavano e rinsaldavano il nostro rapporto. Nel 1975 fummo invitati da Giovanni Astengo a Preganziol, nei dintorni di Treviso, dove dirigeva il neonato corso di laurea in Urbanistica, per tenere una lezione su Napoli. Fu una giornata memorabile. Antonio era in stato di grazia. Alternando ironia a ira funesta, raccontò da attore consumato la storia della falsificazione del piano regolatore del 1939, realizzata con geniale semplicità, trasformando con un colpo di pennello il colore della zona agricola, che da giallo diventò verde: un verde che non esisteva sulla tavola di piano; mentre il giallo che indicava la zona agricola si ritenne che rappresentasse una zona edificabile, sulla quale si scatenò la più sordida speculazione. Astengo fu sconvolto e ci obbligò a preparare un fascicolo monografico di «Urbanistica» su Napoli, l’ultimo da lui diretto. Scrivere a due mani con Iannello fu un’impresa titanica. Dopo aver faticosamente concordato un indice, cominciavo a scrivere, utilizzando montagne di appunti, documenti, fotografie e grafici che Iannello mi consegnava per ogni paragrafo. La prima stesura finiva massacrata da correzioni, note, dubbi, angosce che Antonio produceva senza misericordia. I nostri incontri settimanali, quasi sempre di notte, a casa mia, finivano in furiose litigate che all’inizio terrorizzavano la famiglia. Ogni pagina fu scritta e ri50
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scritta decine di volte. Antonio, che aveva un rapporto non facile con la scrittura, era invece brillante nel trasformare testi predisposti da altri. L’ultima fatica fu l’impaginazione composta direttamente in tipografia a Torino. La scelta di ogni fotografia, la sua dimensione, l’abbinamento al testo si protraevano per ore. Vera Quaranta, mitica collaboratrice di Astengo, era allibita. Lo smarrimento si trasformò in ammirazione quando Iannello inventò la didascalia sulla “sottoelevazione” abusiva di un edificio in via Girolamo Santacroce. A Napoli mi riportò il terremoto del 23 novembre 1980. Attraversai la città il giorno dopo. Le luci delle case erano spente, l’atmosfera cupa e sinistra. Si era sparsa la voce che ci sarebbe stata una seconda scossa catastrofica. Forse per questo, quasi tutti stavano per strada e si organizzavano per dormire in macchina. Poi raggiunsi le zone interne. Vidi con costernazione il centro storico di Potenza distrutto, mentre avevano resistito gli edifici della più recente e sordida speculazione, quella che ha trasformato il capoluogo lucano in una delle più brutte città del mondo. Cercai di visitare Balvano, intasata da sterminate autocolonne di militari e volontari, senza che nessuno provvedesse a regolarne il movimento. Si percepiva subito l’assenza di un’organizzazione coordinata dei soccorsi. La convergenza su Balvano di uomini e mezzi, invano attesi in altre decine di comuni, era stata evidentemente determinata dalle immagini tragiche trasmesse dalla televisione e dall’emozione per il crollo della chiesa madre – sessanta morti, quasi tutti bambini e vecchi – avvenuto mentre don Ettore Sartoriello predicava di “Cristo maestro di misericordia”. Diretto verso i paesi più gravemente colpiti, al confine fra la provincia di Salerno e l’Irpinia, percorsi la statale 381, assolutamente deserta, fra boschi di querce, in un paesaggio autunnale dolcissimo. Poi si mostrarono i primi segni della distruzione totale. Qua e là case coloniche ridotte a mucchi di pietre. Accanto, attonite, le famiglie dei contadini. Dopo il valico, all’improvviso, all’uscita da una curva, ecco in basso quel che restava di Laviano. Pareva una discarica. La statale 51
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attraversava le macerie. Erano in azione i cani addestrati alla ricerca dei sepolti vivi. Ovunque scene di disperazione. Si contarono 332 morti. Mi ricordo del centro storico di Palomonte, la sera del 26 novembre. A tre giorni dal terremoto, mancavano ancora i soccorsi. Operava al buio una piccola squadra di pompieri, scavando con le mani e con le unghie, alla ricerca di un giovane disperso. In un angolo, il padre piangeva in silenzio. I vigili del fuoco erano i primi, ovunque. Tranquilli e tenaci. Una giovane volontaria, intervistata da Gianpaolo Pansa su «la Repubblica», disse che l’Italia del terremoto, era diversa da quella di tutti i giorni. Era un’Italia guidata dai pompieri. Poi venivano la croce rossa, i carabinieri, i poliziotti, i finanzieri. Poi il Pci e il sindacato. Quindi i volontari. Ultimo l’esercito. Ricordo di aver incontrato a San Gregorio Magno un generale della finanza che doveva decidere l’impiego al meglio di mille uomini e cinque elicotteri. Voleva riscattare l’onore del corpo, rovinato dall’arresto del comandante generale Raffaele Giudice, coinvolto nello scandalo dei petroli. Pochi giorni dopo il terremoto, insieme con altri funzionari del ministero dei Lavori pubblici, fui inviato a Napoli come tecnico incaricato di verificare l’abitabilità degli alloggi danneggiati. Facevo parte di un’armata Brancaleone dove c’era di tutto. Funzionari pubblici, professionisti, volontari italiani e stranieri, esperti e dilettanti. Si pretendeva che rilevassimo i danni del terremoto e non quelli preesistenti. Si pensi che, a Napoli, prima del terremoto, in situazioni normali (ma c’è mai stata, a Napoli, una situazione normale?) si verificava un crollo a settimana. Il terremoto aveva agito come un possente acceleratore della degradazione. Fu un’esperienza angosciosa. Mi fece scoprire l’infinita miseria di Napoli. Secondo il rapporto Censis pubblicato in quei giorni, in Italia il benessere aumentava più che in ogni altro paese d’Europa. Napoli non stava in Europa, forse neanche in Italia. Era come ai tempi di Matilde Serao. Visitai alloggi con undici persone per stanza, altri senza latrina, ovunque muri la52
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vati dall’umidità e solai decrepiti, che si reggevano per miracolo, vidi anche solai fatti con spezzoni di binari del tram. Nelle periferie era peggio che nel centro storico. Peggio ancora nei brandelli di campagna sopravvissuti alla speculazione. Il problema della casa a Napoli, già prima del terremoto, era spaventoso. Fu calcolato che per raggiungere uno standard abitativo equivalente a quello medio nazionale, sarebbero stati necessari circa 200 mila nuovi alloggi: un terzo del fabbisogno abitativo espresso dalle undici aree metropolitane del Paese. Un fabbisogno che non era possibile affrontare con le risorse finanziarie e con gli strumenti operativi ordinariamente disponibili per l’edilizia pubblica. E dove costruire tanti alloggi, pensando all’assoluta mancanza di spazio nel capoluogo e nei comuni limitrofi, nei quali si raggiungono densità territoriali vertiginose? Se il problema della casa era drammatico, ancora più grave era quello della mobilità. La città era paralizzata, s’impiegavano due ore per andare dal centro al Vomero. Ma il problema dei trasporti era sostanzialmente ignorato dalle istituzioni, nel dibattito giornalistico e fra gli esperti. Mi parve indispensabile predisporre una proposta schematica ma rispondente alla complessità dei problemi sul tappeto. Coordinai un gruppo di esperti di varie discipline (fra i quali Ada Becchi, Alessandro Dal Piaz, Cesare De Seta, Roberto Giannì, Paolo Leon, Edoardo Salzano) ed elaborammo un’ipotesi di localizzazione di nuovi alloggi nell’area napoletana verso le fasce più esterne della conurbazione, immediatamente a ridosso di fermate esistenti o da prevedere lungo la rete ferroviaria. Onde evitare che esplodessero incontenibili fenomeni speculativi, ritenemmo indispensabile la preventiva acquisizione pubblica di notevoli estensioni di aree. La proposta suscitò una vasta discussione. Il quotidiano «Il Mattino» la pubblicò in un apposito inserto. L’iniziativa interessò Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro. Mi convocò nel suo ufficio a via XX settembre, aveva letto accuratamente la proposta, la condivideva, e mi chiese a bruciapelo di assumere il coordinamento di un apposito ufficio governativo inca53
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ricato di realizzarla. Ero francamente sbalordito e mi sembrò indispensabile dirgli subito che ero comunista. “Vedo che per lei è un problema – mi rispose – per me no”. Mi fece allestire un ufficio nella prefettura di Napoli con le finestre su piazza San Ferdinando, sopra Gambrinus, e incaricò un ufficiale dei vigili del fuoco di fornirmi tutta l’assistenza logistica di cui avevo bisogno, dall’automobile all’elicottero per i sopralluoghi. In poche settimane predisposi una prima ipotesi d’intervento, e intanto partecipavo agli incontri presso l’ufficio del ministro dove si discuteva soprattutto del fabbisogno finanziario per avviare l’operazione. Troppo bello per essere vero. La proposta alla quale lavoravamo non era evidentemente sfuggita al vaneggiamento delle brigate rosse, che cominciarono a far circolare messaggi contro la “deportazione” dei napoletani. Il 27 aprile del 1981 le brigate rosse uccisero l’autista e un poliziotto di scorta e rapirono l’assessore regionale all’urbanistica Ciro Cirillo, fedelissimo di Antonio Gava. La richiesta immediata fu di bloccare “la deportazione dei proletari e di requisire le case sfitte dei padroni”. A soli tre anni dalla fermezza adottata in occasione del sequestro del presidente della Dc Aldo Moro, stavolta si scelse subito la via della trattativa che fu condotta in un torbido intreccio fra brigatisti, camorristi e servizi segreti. La risposta del potere politico fu quella che volevano i terroristi: no alla deportazione dei napoletani. E infatti, nel volgere di pochi giorni, con un dibattito parlamentare di inconsueta rapidità, alla legge in discussione a favore dei comuni colpiti dal terremoto del 23 novembre 1980 fu aggiunto un titolo di sei articoli relativo all’Intervento statale per l’edilizia a Napoli. La legge dichiarava “di preminente interesse nazionale” la realizzazione di 20 mila alloggi e delle relative opere di urbanizzazione nel comune di Napoli, affidando tutti i poteri al sindaco della città (che era il comunista Maurizio Valenzi), a capo di una giunta che si reggeva grazie all’astensione dei democristiani e degli altri partiti di centro. All’opposizione il solo Msi, forte di 18 consiglieri su 80. Il sindaco era 54
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nominato ope legis commissario straordinario del governo e soggetto soltanto al rispetto della Costituzione e dei principi generali dell’ordinamento. Ove non fosse stata possibile la realizzazione di tutti gli alloggi previsti nel comune di Napoli, le funzioni di commissario straordinario erano attribuite anche al presidente della giunta regionale della Campania che avrebbe provveduto alla realizzazione dei restanti alloggi. I tempi previsti erano frenetici: 10 giorni dall’approvazione della legge per definire il programma costruttivo e per individuare le aree da espropriare; 15 giorni per occuparle; altri 15 giorni per procedere all’affidamento dei lavori in concessione a imprese private. Le due ricostruzioni L’approvazione della legge per la ricostruzione determinò il panico nel comune di Napoli. Per aiutare Valenzi, la direzione del Pci inviò a Napoli, forse per iniziativa di Giorgio Napolitano, il deputato Guido Alborghetti, vicepresidente della commissione Lavori pubblici della Camera, che di fatto assunse il coordinamento delle iniziative. A me fu chiesto di dirigere l’ufficio tecnico del commissariato di governo, all’uopo comandato dal ministero dei Lavori pubblici. In verità, non avevo condiviso l’impianto legislativo che regolava il programma straordinario, ero convinto che un’altra catastrofe edilizia avrebbe potuto abbattersi su Napoli, e avrei preferito stare alla larga. Fu Guido Alborghetti a convincermi a restare, per difendere l’obiettivo, di cui dovevamo farci garanti, del pieno rispetto del piano regolatore del 1972, senza deroghe e sotterfugi. Alborghetti condusse intanto, mirabilmente, con assoluta trasparenza e puntualità, l’affidamento dei lavori a un centinaio di imprese raccolte in 12 raggruppamenti, fra lo stupore del mondo delle costruzioni e della stampa nazionale. Per l’organizzazione delle strutture tecniche, superando le ostilità dei potenti apparati burocratici municipali, feci capo all’ufficio studi urbanistici del comune, formato dai giovani 55
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tecnici che avevano ideato e progettato il cosiddetto piano delle periferie, uno dei più convincenti progetti di riqualificazione urbana elaborati nel Decennio della follia (è il titolo di un libro di Diego Novelli che riprende l’espressione con la quale Giovanni Agnelli definì il periodo che inizia alla metà degli anni Settanta, nel quale le maggiori città italiane – Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli – furono per la prima volta, e tutte contemporaneamente, amministrate da maggioranze di sinistra). I giovani dell’ufficio, che furono chiamati i ragazzi del piano, li avevo conosciuti a Roma prima del terremoto in incontri di lavoro per la messa a punto del piano delle periferie e con alcuni di loro – Elena Camerlingo, Rosanna Costagliola, Maria Franca de Forgellinis, Giovanni Dispoto, Giancarlo Ferulano, Roberto Giannì, Mario Moraca, Giuseppe Pulli, Laura Travaglini – si stabilì un legame che non si è mai interrotto. La storia dei ragazzi del piano è raccontata da Gabriella Corona in un libro avvincente, dove l’indagine storica è condotta con i toni della narrazione. Comincia così: L’idea di scrivere questo libro mi è balenata all’improvviso, mentre camminavo per Napoli, lungo il corso Vittorio Emanuele. Questo pensiero, giunto come un lampo, mi diede una profonda emozione, un forte entusiasmo. Avrei potuto lavorare con delle fonti «vive», intrecciare livelli di realtà molto diversi e lontani, raccordare la storia delle trasformazioni concrete degli assetti ambientali con quella delle aspirazioni e delle idee di un gruppo di amministratori che aveva avuto a Napoli un ruolo fondamentale nell’elaborazione degli interventi pubblici.
Il piano delle periferie, approvato dal consiglio comunale di Napoli pochi mesi prima del terremoto, era un grandioso programma di riqualificazione urbana, formato da interventi coordinati di nuova edificazione e di recupero. Riguardava le parti più critiche e mortificate della periferia napoletana e cioè gli ex comuni autonomi – San Giovanni a Teduccio, Barra, Ponticelli, San Pietro a Patierno, Secondigliano e gli altri – che alla fine del XIX secolo e durante il fascismo erano stati aggregati 56
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per formare la Grande Napoli. Da allora quei luoghi avevano cominciato la discesa verso l’inferno. I centri storici delle periferie – che nessuno aveva riconosciuto essere tali – erano stati sventrati e annientati dalla speculazione del dopoguerra peggio del centro storico del capoluogo, senza servizi, senza spazi pubblici, senza rispetto per gli sventurati residenti. Il piano delle periferie, con poche modifiche, formò il nocciolo centrale del programma straordinario per la ricostruzione, insieme al completamento dei due grandi quartieri di edilizia pubblica di Ponticelli e Secondigliano e alla realizzazione di circa 50 interventi puntuali di recupero, disseminati sull’intero centro urbano, volti all’eliminazione di situazioni di accentuato degrado, con caratteri dichiaratamente sperimentali, anche al fine di verificare metodologie da utilizzare in seguito per il centro storico. Il nostro progetto era completato da una gran mole di attrezzature e servizi. Prevedemmo in particolare spazi verdi per circa 100 ettari, fra i quali tre parchi (a S. Giovanni a Teduccio, a Ponticelli, a Scampia) grandi come la villa comunale di Napoli. L’intento ambizioso era di promuovere il riscatto delle più grandi e sfortunate periferie della città innestando in esse uno degli elementi più prestigiosi della città borghese. A Scampia, m’imposi per trasformare in un grande parco lo spazio centrale dov’era previsto un inutile piccolo centro direzionale. I parchi pubblici, meglio di ogni altra opera, volevo che fossero il simbolo del recupero di un’autonoma dignità urbana. Per far fronte alle scadenze frenetiche della legge lavorammo giorno e notte, fornendo per tempo ad Alborghetti i dati da inserire nei contratti con le imprese. Verificammo accuratamente e confermammo la scelta fondamentale di non stravolgere il piano regolatore. Non fu una scelta facile. Molti, anche dentro palazzo San Giacomo, speravano di utilizzare i poteri illimitati che la legge attribuiva al sindaco-commissario per riportare in vita le lottizzazioni e gli scempi che erano stati stralciati dal ministero dei Lavori pubblici con l’approvazione del piano regolatore. Alborghetti utilizzò con sapienza e 57
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determinazione il credito che gli veniva dall’essere l’uomo mandato da Botteghe oscure, e fu agevolato dal fatto che la situazione sociale e dell’ordine pubblico sull’orlo del tracollo – in quei giorni le brigate rosse uccisero un consigliere comunale democristiano e ferirono l’assessore comunista all’edilizia – allontanava il programma straordinario dai riflettori dell’opinione pubblica e del mondo politico. I lavori cominciarono nei tempi previsti, i nostri uffici furono attrezzati adeguatamente, anche con il ricorso a consulenti di rinomata competenza, cito solo Gianfranco Caniggia, Giuseppe Campos Venuti, Tommaso Giura Longo, Italo Insolera e Carlo Melograni. Furono mobilitati centinaia di progettisti, e ricordo la passione e la qualità professionale e umana di Pietro Barucci. Non fu facile la vita nei mesi della ricostruzione. Più volte Guido Alborghetti, e anche Giuseppe Campos Venuti, Gerardo Chiaromonte e Giorgio Napolitano, intervennero per impedirmi di lasciare l’incarico. Restai a Napoli fino all’ottobre 1983, quando la secca sconfitta elettorale del Pci chiuse una stagione di speranze e illusioni. La direzione dell’ufficio fu assunta da Roberto Giannì e da Laura Travaglini. Valenzi era stato sindaco per sette anni e dopo di lui, nei tre anni successivi, lo seguirono in sei: un commissario ex prefetto, poi quattro sindaci a capo di inconsistenti giunte di pentapartito, poi ancora un prefetto, prima di un nuovo scioglimento anticipato del consiglio comunale. I successori di Valenzi dilatarono smisuratamente il programma originario con l’addizione di strade, autostrade, svincoli, bretelle, acquedotti, fognature, opere di ogni genere – alcune inutili, altre dannose – che non avevano alcun rapporto con la ricostruzione. Fu la cosiddetta “svolta infrastrutturale”, magistralmente descritta da Francesco Barbagallo in Napoli fine Novecento. A differenza di Valenzi, i suoi successori sfruttarono fino in fondo le procedure straordinarie, sia per la scelta di opere mai previste da piani o programmi ordinari, sia per l’assoluta discrezionalità nella scelta delle imprese concessionarie. Alla fine, il programma aggiuntivo sarà più oneroso di quello originario e 58
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sarà travolto dai severi giudizi della commissione parlamentare d’inchiesta sul dopoterremoto presieduta da Oscar Luigi Scalfaro e dalle inchieste della magistratura napoletana. Tutto ciò finì con il determinare il giudizio globalmente negativo della stampa e dell’opinione pubblica sulla ricostruzione, senza differenze, tutto nero, come le vacche nella notte. Un’eccezione, come al solito, furono gli articoli accuratamente documentati di Antonio Cederna, che riconobbe il primato di Napoli sul «Corriere della Sera» e poi su «la Repubblica». Ricordo un titolo su quest’ultimo giornale (20 maggio 1987): La Scandinavia? In periferia, fra Ponticelli e San Giovanni. Per un osservatore superficiale era invece difficile distinguere fra la parte originaria della ricostruzione di Napoli – quella uscita immacolata dalle indagini parlamentari e della magistratura – dalla ricostruzione degenerata di Antonio Fantini e di Enzo Scotti, e dalla grande abbuffata delle zone interne. In effetti, a parte il libro di Gabriella Corona, sono mancate un’analisi e una riflessione approfondite. La ricostruzione impostata ai tempi di Valenzi fu un’esperienza certamente non priva di errori, ma ha almeno il merito di aver dato una dozzina di parchi e giardini, e qualche buon esempio di recupero, alla città che nei primi trent’anni del dopoguerra aveva conosciuto solo asfalto e cemento.
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Protagonisti
GIOVANNI ASTENGO (Torino, 1915-San Giovanni in Persiceto,
Bologna, 1990). Architetto. Professore di urbanistica a Venezia. Dal 1948 al 1976 è stato direttore della rivista «Urbanistica», che raggiunse in quegli anni livelli mai più uguagliati di diffusione e di prestigio internazionali. Fra le sue pubblicazioni vanno ricordati i Criteri di indirizzo per lo studio dei piani territoriali di coordinamento in Italia, Ministero dei Lavori pubblici, 1953, e la voce “Urbanistica” in Enciclopedia universale dell’arte, v. XIV, Sansoni, 1966. Prezioso collaboratore di Michele Martuscelli per l’inchiesta su Agrigento. Restano esemplari, per rigore metodologico e impegno etico, i suoi piani regolatori di Assisi e di Gubbio. Ogni sua attività professionale ha segnato una tappa nello sviluppo dei metodi di pianificazione. Come Giuseppe Campos Venuti, Antonio Cederna, Edoardo Detti, Raffaele Radicioni, Edoardo Salzano e pochi altri urbanisti, si è direttamente impegnato nell’azione politico-amministrativa come consigliere comunale e assessore all’urbanistica del comune di Torino e poi consigliere e assessore all’urbanistica della regione Piemonte. LEONARDO BENEVOLO (Orta, Novara, 1923). Architetto. Dopo trent’anni d’insegnamento nelle facoltà d’architettura di Roma, Firenze, Venezia, Palermo ha abbandonato l’università nel 1976 denunciando in un libro (La laurea dell’obbligo, Laterza, 1979) lo stato di semianalfabetismo degli studenti e le fallimentari contraddizioni dell’istruzione universitaria di massa. Grandissimo storico e divulgatore, le sue opere sono tradotte nelle principali lingue del mondo. Ricordiamo (sempre in edizioni Laterza): Storia dell’architettura moderna, 1960; Le origini dell’urbanistica moderna, 1963; Roma, da ieri a domani, 1971; con Francesco Scoppola, Roma, l’area archeologica centrale e la città moderna, De Luca, Roma, 1988;
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Storia dell’architettura del rinascimento, 1968; La cattura dell’infinito, 1991; L’architettura nell’Italia contemporanea. Ovvero il tramonto del paesaggio, 2006 (sempre edizioni Laterza). Ha sempre partecipato autorevolmente al dibattito sulle città e sulla politica urbanistica in Italia. Si è a lungo occupato di Roma, in particolare della sistemazione dell’area archeologica centrale, a fianco di Cederna, La Regina, Petroselli. PIETRO BUCALOSSI (San Miniato, Pisa, 1905-Milano, 1992). Me-
dico. Direttore dell’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Milano. Sindaco di Milano (1964-1967); ministro repubblicano dei Lavori pubblici (1974-1976), si deve a lui la legge di riforma urbanistica che ha preso il suo nome, poi travolta dalla controriforma degli anni Ottanta. Autorevole e rigoroso, fece approvare la legge (n. 492/1975) che bloccava la costruzione di nuove autostrade. GIUSEPPE CAMPOS VENUTI (Roma, 1926). Architetto. Professore di urbanistica al Politecnico di Milano. Dal 1992 al 1993 presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica, poi presidente onorario. È stato il primo, fra i protagonisti dell’urbanistica italiana del dopoguerra, ad associare all’impegno culturale e professionale quello politico e amministrativo. Della sua molteplice attività professionale, si ricordano i piani regolatori di Reggio Emilia, Padova, Pavia. Autore di testi, sempre tempestivi e attenti all’attualità, tutti a vasta diffusione, fra i quali: Amministrare l’urbanistica, Einaudi, 1967 (e successive); Urbanistica incostituzionale, Marsilio, 1968; Urbanistica e austerità, Feltrinelli, 1978; La terza generazione dell’urbanistica, Franco Angeli, 1994; Cinquant’anni di urbanistica in Italia, Laterza, 1993. ANTONIO CEDERNA (Milano, 1921-Sondrio, 1996). Laureato in
archeologia a Pavia nel 1927, ha cominciato come archeologo. Per oltre quarantacinque anni giornalista impegnato soprattutto nella quotidiana denuncia di scempi e malversazioni in materia di beni culturali, di urbanistica, di paesaggio. Ha scritto sul settimanale «Il Mondo» (1950-1966), sul «Corriere della Sera» (1967-1981), «la Repubblica» (1981-1996) e su moltissime altre testate. È stato consigliere comunale di Roma una prima volta con i radicali nella lista socialista (1958-1962), poi da indipendente del Pci (1990-1994) e deputato della sinistra indipendente (1987-1992). Ma è stato anche
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un protagonista della vicenda urbanistica italiana e, a Roma, ha sostenuto con determinazione e competenza, anche da parlamentare, il progetto Fori, il grande parco archeologico centrale fra il Colosseo e piazza Venezia, poi accantonato dalle amministrazioni capitoline di destra e di sinistra. Si è occupato a lungo di Italia Nostra. I suoi libri sono: I vandali in casa, Laterza, 1956 (nuova edizione 2006); Mirabilia urbis, Einaudi, 1965; Mussolini urbanista, Laterza, 1979 (nuova edizione Corte del Fontego, 2006); Brandelli d’Italia, Newton Compton, 1991. Per conoscere Cederna, cfr. Maria Pia Guermandi, Valeria Cicala (a cura di), Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, Bononia University Press, 2007. PIERLUIGI CERVELLATI (Bologna, 1936). Architetto. Professore
di urbanistica a Venezia. Assessore al comune di Bologna (19641980), è stato il principale promotore del progetto per il restauro del centro storico. Progetto conosciuto in tutto il mondo e all’origine della cultura del recupero urbano. Fra i suoi scritti: con Carlo De Angelis e Roberto Scannavini, La nuova cultura delle città, Mondadori, 1977 (dov’è il resoconto delle vicende bolognesi); La città post-industriale, Il Mulino, 1984; La città bella, Il Mulino, 1991; L’arte di curare la città, Il Mulino, 2000. EDOARDO DETTI (Firenze, 1913-1984). Architetto. Professore di
urbanistica a Firenze. Presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica dal 1970 al 1977, ne promosse il rinnovamento dopo l’involuzione accademica clamorosamente contestata dagli studenti a Napoli nel 1968. È stato sempre in prima linea nella difesa di Firenze, con lucida e assoluta coerenza. L’impegno fiorentino cominciò quando fece parte della cosiddetta “commissione delle macerie”, istituita nell’agosto del 1944 da Carlo Ludovico Ragghianti, presidente del comitato di liberazione nazionale di Firenze. Fu poi assessore all’urbanistica nella giunta presieduta da Giorgio La Pira e si deve a lui l’insuperato piano regolatore adottato nel 1962. Fu anche raffinato architetto. ANTONIO IANNELLO (Napoli, 1930-1998). Architetto. Dirigente
del partito repubblicano e a lungo impegnato in Italia Nostra, di cui è stato segretario generale dal 1985 al 1990. “Un po’ guerrigliero, un po’ certosino, ogni sua battaglia è stata animata da un rigoroso senso etico a favore dell’interesse pubblico. Contro una lottizzazio-
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ne abusiva o un piano regolatore che piaceva troppo agli speculatori alternava irruenza, sottigliezza giuridica e gusto della beffa” (Francesco Erbani, Uno strano italiano. Antonio Iannello e lo scempio dell’ambiente, Laterza, 2002). Spese le sue ultime energie per opporsi al crescente successo dell’idea federalista. Ha scritto, con Vezio De Lucia, il fascicolo monografico su Napoli della rivista «Urbanistica», n. 65, del 1976 e, poco prima della morte, il volume L’inganno federalista, Vivarium, 1998. ITALO INSOLERA (Torino, 1929). Architetto. Ha insegnato urbanistica a Roma, Firenze, Venezia e Ginevra. Studioso, storico dell’urbanistica e urbanista militante, il suo nome resta legato a Roma moderna, Einaudi, 1976 (l’ultima edizione è del 2001) libro di base sull’urbanistica della capitale. Progettista (con Lando Bortolotti, lo studio Benevolo-Giura Longo-Melograni, Luigi Gazzola, Vittorio Giorgini) dei piani coordinati dei comuni della Maremma livornese Castagneto Carducci, San Vincenzo, Bibbona, Cecina, Sassetta. Dal vasto elenco dei suoi scritti, vanno ricordati ancora: il capitolo L’urbanistica della Storia d’Italia di Einaudi, 1973; con Luigi Gazzola, Parchi naturali. L’esperienza di Rimigliano, Edizioni delle autonomie, 1982; con Francesco Perego, Archeologia e città. Storia moderna dei Fori a Roma, Laterza, 1983; con Luigi Di Majo, L’Eur e Roma, Laterza, 1986; Saper vedere l’ambiente, De Luca, 2008; con Walter Tocci e Domitilla Morandi, Avanti c’è posto, Donzelli editore, 2008. GIACOMO MANCINI (Cosenza, 1913-2002). Avvocato. Deputato
socialista (1948-1992), ministro per i Lavori pubblici nel secondo e terzo governo Moro (1964-1968) e nel primo e secondo governo Rumor (1969-1969). Si devono a lui le più importanti iniziative per il rinnovamento dell’urbanistica italiana negli anni del primo centro sinistra: dall’approvazione del piano regolatore di Roma del 1965, che impone la tutela assoluta dell’Appia Antica, all’inchiesta su Agrigento, alla cosiddetta legge-ponte, agli standard urbanistici, all’insediamento della commissione presieduta da Giulio De Marchi sulla difesa del suolo (remota capostipite della legge 183/1989). “Uomo potente, con una vasta ramificazione clientelare nella sua Calabria, eppure politico accorto, tenace, riformista” (Francesco Erbani, «la Repubblica», 14 luglio 2006).
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MICHELE MARTUSCELLI (Muro Lucano, Potenza, 1918-Roma,
2004). Direttore generale dell’urbanistica del ministero dei Lavori pubblici dal 1965 al 1983. Ha gestito da protagonista il “processo di riforma” in materia di governo del territorio degli anni Sessanta e Settanta. Autore dell’inchiesta su Agrigento del 1966, si devono a lui anche i provvedimenti legislativi di quella stagione: dalla legge 167 del 1962, alla legge ponte del 1968 e agli standard urbanistici dell’anno successivo, dalla legge per la casa del 1971 alla legge Bucalossi del 1977, all’equo canone del 1978. ADRIANO OLIVETTI (Ivrea, Torino, 1901-Aigle, Svizzera, 1960).
Ingegnere. Presidente della società omonima, singolare figura di industriale e utopista, dedicò gran parte della sua vita e cospicue risorse a una complessa ipotesi politica e istituzionale, a metà fra capitalismo e socialismo. Il modello è la Tennessee Valley Authority, voluta dal presidente Usa Franklin Delano Roosevelt, dopo la crisi economica del 1929. Nel suo programma la pianificazione del territorio assume un’importanza fondamentale, e gli urbanisti diventano una sorta di nuova aristocrazia. Patrocinò la formazione del piano regolatore della Val d’Aosta (1937), il primo piano territoriale formato in Italia. Dal 1950 alla scomparsa, fu presidente dell’Inu, che grazie a lui fu oggetto di un possente rilancio organizzativo e culturale, insieme alla rivista «Urbanistica». Si occupò a lungo di Matera, nella qualità di presidente dell’Unra-Casas e dell’Inu. LUIGI PICCINATO (Legnano, Verona, 1899-Roma, 1983). Architetto. Professore di Urbanistica a Roma. Studioso dell’urbanistica greca e medievale (in provocatoria antitesi all’urbanistica imperiale romana in voga durante il fascismo). Ha svolto un’intensa attività professionale in Italia e all’estero (progettista dei piani di Roma, Napoli, Siena, Grosseto, Padova, Instambul, Skopje e di moltissimi altri luoghi). Con Gino Cancellotti, Eugenio Montuori e Alfredo Scalpelli è autore di Sabaudia, di gran lunga la più bella delle città nuove costruite durante il fascismo in occasione della bonifica dell’Agro pontino. È stato fra i fondatori e a lungo vicepresidente dell’Inu. Fino alla scomparsa in prima linea nell’impegno per la riforma urbanistica.
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EDOARDO SALZANO (Napoli, 1930). Ingegnere. Professore di urbanistica a Venezia. Fondatore e direttore di «Urbanistica informazioni» dal 1972 al 1992. Presidente dell’Inu dal 1983 al 1990. Assessore all’urbanistica a Venezia dal 1975 al 1985. Ha svolto anche un’importante attività professionale. Dal 2002 si occupa quasi a tempo pieno di eddyburg, il suo sito che tratta di “urbanistica, società, politica e di argomenti che rendono bella, interessante e piacevole la vita”. Per l’impegno nella conduzione del sito, che raccoglie un crescente consenso, nel 2006 ha vinto il premio Cederna (patrocinato dalla provincia di Roma) per la divulgazione. Scrittore e pubblicista, mi limito a ricordare: Urbanistica e società opulenta, Laterza, 1969: con Piero Della Seta, L’Italia a sacco, Editori riuniti, 1993; Fondamenti di urbanistica, Laterza, 2003; Memorie di un urbanista, Corte del fontego, 2010. Importantissimi gli editoriali di «Urbanistica informazioni» e, negli ultimi anni, gli “eddytoriali” di eddyburg. LUIGI SCANO (Venezia, 1946-2007). Profondo conoscitore della
legislazione urbanistica, alla riforma urbanistica ha dedicato la vita. Fondatore ed esponente del partito repubblicano di Venezia. Dal 1970 al 1974 segretario organizzativo del Ceses – Centro studi e ricerche su problemi economici e sociali, diretto da Renato Mieli. Dal 1970 al 1980 è stato consigliere comunale di Venezia e, negli anni successivi, ha continuato a collaborare con il vicesindaco Gianni Pellicani e con l’assessore Edoardo Salzano, in particolare per la disciplina urbanistica del centro storico. Dal 1977 al 1980 ha partecipato alla formazione del piano comprensoriale di Venezia. Dal 1986 al 1993 è stato consulente della regione dell’Emilia Romagna per il piano paesistico. Ha collaborato ai piani territoriali di coordinamento delle province di Pisa, Lucca, Foggia, al piano di assetto del parco regionale di Veio, al piano strutturale del comune di Pisa e a molte altre esperienze di pianificazione, occupandosi in particolare degli apparati normativi. È improbabile che sia vissuta altra persona al mondo facendo per anni questo lavoro. Dal 1980 al 1990 è stato componente del consiglio direttivo nazionale dell’Inu. Nel marzo del 1992 ha fondato – insieme a Silvano Bassetti, Paolo Berdini, Teresa Cannarozzo, Antonio Casellati, Antonio Cederna, Filippo Ciccone, Antonio Iannello, Edoardo Salzano, Mariarosa Vittadini e altri – l’associazione Polis di cui è stato
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segretario generale finché ha vissuto, promuovendo iniziative, convegni e pubblicazioni, in particolare su questioni relative al diritto urbanistico. A Polis hanno fatto capo per anni quanti non si riconoscevano nell’Inu. Ha scritto moltissimo, fondamentale resta Venezia: terra e acqua, Edizioni delle autonomie, 1985, nuova edizione Corte del Fontego, 2009. FIORENTINO SULLO (Paternopoli, Avellino, 1921-Salerno, 2000). Figura tragica ed emblematica della vicenda urbanistica italiana. Laureato in giurisprudenza e in lettere. Deputato per 41 anni, dalla I alla XI legislatura. È stato il più giovane deputato all’Assemblea costituente. Uno dei capi storici della Democrazia cristiana, fondatore della corrente di Base. Più volte sottosegretario, ministro dei Trasporti nel governo Tambroni del 1960, si dimise quando quel governo ottenne la fiducia con i voti determinanti del Movimento sociale italiano. Il suo nome resta però legato alla proposta di riforma urbanistica, basata sull’esproprio preventivo delle aree fabbricabili, presentata quando era ministro dei Lavori pubblici nel quarto governo Fanfani (1962-1963) e nel successivo governo Leone (1963). Sconfessato dal suo partito, fu ancora ministro per la Pubblica istruzione (1968-1969), per la Ricerca scientifica (1972) e per l’Attuazione delle regioni (1972-1973), ma lentamente e progressivamente emarginato dalla vita politica che abbandonò definitivamente nel 1987. Lo scandalo urbanistico, Vallecchi, 1964, è il libro in cui ha raccontato e documentato la storia della sua proposta di legge, l’attacco forsennato al quale fu sottoposta e il rinnegamento da parte della Dc. BRUNO ZEVI (Roma, 1918-2000). Architetto. A seguito delle leggi
razziali, nel 1938 si stabilisce prima a Londra e poi negli Stati Uniti dove si laurea presso la Graduate School of Design della Harvard University, presieduta da Walter Gropius, e dirige i «Quaderni Italiani» del movimento “Giustizia e Libertà”. Scopre Frank Lloyd Wright, della cui predicazione a favore di un’architettura organica rimarrà acceso sostenitore per tutta la vita. Tornato in Europa nel 1943, partecipa alla lotta antifascista nelle file del partito d’azione. Nel 1944 promuove l’Associazione per l’architettura organica (Apao) e l’anno successivo fonda la rivista «Metron». Professore all’Iuav di Venezia e alla facoltà di Architettura di Roma. Dal 1954 al
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2000 tiene una rubrica settimanale di architettura su «Cronache» e poi su «L’Espresso»; gli articoli dei primi decenni sono raccolti nei venticinque volumi di «Cronache di architettura». Nel 1955 fonda il mensile «L’architettura-cronache e storia» che dirige ininterrottamente sino al gennaio 2000. È stato segretario generale dell’Inu fino al 1968, in prima linea nell’impegno per la riforma urbanistica. Presidente del partito radicale e deputato alla Camera nella decima legislatura. Tra le opere: Verso un’architettura organica, Einaudi, 1945; Saper vedere l’architettura, Einaudi, 1948; Storia dell’architettura moderna, Einaudi, 1950; Architettura in nuce, Sansoni, 1960.
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Indice dei nomi
Abaterusso Alessandro, 157, 189 Accornero Aris, 85 Achilli Michele, 25, 199 Agnelli Giovanni, 56 Aiello Eros, 189 Alborghetti Guido, 55, 57, 58 Alemanno Gianni, 159 Alicata Mario, 199 Amato Giuliano, 40 Amendola Giorgio, 41 Andersen Hans Christian, 159 Andreatta Beniamino, 53 Andreotti Giulio, 72, 182 Apollodoro di Damasco, 152 Argan Giulio Carlo, 37, 73, 81, 145 Asor Rosa Alberto, 162, 163, 187 Astengo Giovanni, 16, 17, 33, 36, 50, 51, 73, 180, 187, 191, 200, 203 Aymonino Carlo, 47 Baffoni Ella, 80 Baioni Mauro, 189, 201 Baldi Antonio, 104 Balducci Ernesto, 43 Barbagallo Francesco, 58, 130, 200 Barbera Lorenzo, 21 Barbieri Roberto, 104 Barile Paolo, 34 Barucci Pietro, 58 Basile Sergio, 17 Bassani Giorgio, 19, 28, 73, 176 Bassetti Silvano, 195 Bassolino Antonio, 8, 9, 87, 88, 103, 117, 118, 126-131, 201 Becchi Ada, 53, 87, 88, 104, 113,
125, 127, 201 Benevolo Leonardo, 47, 65, 73, 145, 151, 152, 182, 191, 194, 201-203 Berdini Paolo, 78, 141, 156, 158, 159, 185, 196, 200, 202, 203 Berenson Bernard, 182 Berlinguer Enrico, 32, 41, 182 Berlinguer Giovanni, 79 Berlusconi Silvio, 66, 69, 71, 83, 104, 105, 116, 183, 186, 187 Bernoulli Hans, 37 Bertini Riccardo, 189 Bertinotti Fausto, 178 Bettini Goffredo, 74 Bevilacqua Piero, 65, 201 Bianchi Bandinelli Ranuccio, 37 Biasini Oddo, 147, 148 Blasi Carlo, 156 Boatti Giuseppe, 203 Bobbio Scipione, 104 Bodei Remo, 178 Boggiano Augusto, 200 Borghini Gianfranco, 110 Bortolotti Lando, 194 Bottino Felicia, 135 Branca Giuseppe, 14 Brandi Cesare, 148, 149 Brenna Sergio, 203 Bresso Mercedes, 65 Briganti Giuliano, 148, 149 Brunetta Renato, 178 Bucalossi Pietro, 28, 30, 31, 44, 45, 61, 66, 79, 84, 136, 187, 192 Bufalini Paolo, 85
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Cabianca Vincenzo, 34 Cacciari Massimo, 47, 49, 129, 178 Cacopardo Domenico, 46 Caiola Maria Carmela, 175 Calzolari Vittoria, 16, 106, 140, 199, 202 Camerlingo Elena, 56, 125 Campos Venuti Giuseppe, 14, 16, 17, 34, 41, 44, 58, 73, 74, 130, 191, 192, 199, 200 Canali Luca, 148 Cancellotti Gino, 195 Caniggia Gianfranco, 58 Cannarozzo Teresa, 21, 196, 199 Cannata Giuliano, 68 Carapella Giovanni, 78 Carillo Santiago, 32 Carraro Franco, 81 Caruso Enrico, 168 Casellati Antonio, 46, 196 Casini Maria Pia, 189, 203 Casucci Silvio, 189 Cattaneo Carlo, 37 Caudo Giovanni, 78, 143, 174, 188, 200, 203 Causi Marco, 78 Cazzato Vincenzo, 200 Ceccarelli Paolo, 49 Cederna Antonio, 18, 23, 59, 64, 65, 68, 69, 73, 75, 78, 80, 118, 130, 135, 136, 140, 144-149, 151, 153, 176, 187, 191-193, 196, 199, 201-203 Cederna Giulio, 202 Cefis Eugenio, 40 Cerulli Irelli Vincenzo, 157, 202 Cervellati Pierluigi, 32, 65, 73, 187, 193, 199 Chiaromonte Gerardo, 58 Chinello Cesco, 49 Chiti Batelli Alberto, 65 Ciampi Carlo Azeglio, 107 Cicala Valeria, 193, 203 Ciccone Filippo, 36, 64, 78, 188, 196, 200, 203 Cirillo Ciro, 54
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Cirino Pomicino Paolo, 77, 86-88, 109, 118, 127 Ciucci Giorgio, 202 Ciuti Riccardo, 189 Clementi Alberto, 200 Coarelli Filippo, 147 Colombo Emilio, 39 Compagna Francesco, 29 Conte Carmelo, 84, 87, 172 Conti Laura, 68 Coppola Pasquale, 114, 130 Corona Gabriella, 56, 59, 64, 200, 201 Costa Paolo, 47 Costagliola Rosanna, 56, 120 Coward Noel, 137 Craveri Piero, 114, 130 Craxi Bettino, 63, 69,182 Croce Elena, 19, 26, 73, 176 Cusmano Guido, 65 D’Agostino Guido, 104 D’Alema Massimo, 81, 183 Dal Piaz Alessandro, 53, 114 d’Amore Giuseppe, 72 D’Angelo Paolo, 177, 203 D’Antonio Mariano, 131 Deaglio Enrico, 67, 201 De Angelis Carlo, 193, 199 De Caro Stefano, 119 De Cunzo Mario, 26 de Forgellinis Maria Franca, 56 De Gasperi Alcide, 182 Del Castello Carlo, 189 Della Seta Piero, 42, 67, 73, 75, 78, 79, 145, 149, 196, 200, 202 Della Seta Roberto, 67, 78, 200 De Lorenzo Francesco, 87, 109 De Lucia Vezio, 7-10, 49, 63, 64, 72, 73, 85, 88, 118, 128, 194, 199-202 De Marchi Giulio, 194 Demarco Marco, 132, 201 De Marco Roberto, 83 De Martino Umberto, 139 De Michelis Gianni, 49, 50, 63
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3. De Lucia 103_212.qxp:Apologia MC
De Mita Ciriaco, 182 De Montaigne Michel, 140 De Rose Emilio, 63 De Seta Cesare, 53 Detti Edoardo, 16, 17, 19, 34-37, 42, 44, 187, 191, 193, 200 Di Donato Giulio, 87 di Gennaro Antonio, 133, 175, 189, 201, 203 Di Gioia Vincenzo, 26 Di Leo Raffaella, 178 Di Lorenzo Agostino, 116 Di Majo Luigi, 194 Di Palma Maurizio, 14, 64 Di Pietro Antonio, 75 Di Salvo Franz, 122 Dispoto Giovanni, 56, 129 Dolci Danilo, 21 Ducci Roberto, 148 Einaudi Luigi, 184 Emiliani Vittorio, 18, 68, 147 Erba Valeria, 14 Erbani Francesco, 130, 133, 151, 194, 199, 203 Fanfani Amintore, 31, 40, 182, 197 Fantini Antonio, 59 Fazio Mario, 18 Feletti Edgarda, 129 Ferrarotti Franco, 122, 202 Ferri Enrico, 63, 66 Ferulano Giancarlo, 56 Filippini Enrico, 148 Fini Gianfranco, 103, 183 Flaiano Ennio, 140 Florino Michele, 115 Foa Renzo, 81 Fontana Gaetano, 107 Fontanelli Paolo, 204 Forcella Enzo, 73 Forlani Arnaldo, 63, 71, 182 Foscari Teresa, 73 Franchi Paolo, 85 Franchini Dario, 189 Franco Andrea, 78
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Frisch Georg Josef, 157, 175, 189, 203, 204 Gabanelli Milena, 158 Galasso Giuseppe, 26, 87 Galloni Federica, 159 Gava Antonio, 21, 54, 87 Gazzola Luigi, 194 Geremicca Andrea, 68 Ghetti Augusto, 47 Ghio Mario, 16, 19, 65, 187, 199 Giampaola Daniela, 119 GiannĂŹ Roberto, 53, 56, 58, 109, 110, 130, 132, 200 Giannini Massimo Severo, 20 Gibelli Maria Cristina, 184, 202, 203 Gigante Marcello, 73 Ginsborg Paul, 85, 199 Giolitti Antonio, 73, 85 Giordano Gennaro, 108 Giorgini Vittorio, 194 Giovenale Fabrizio, 10, 14, 15 Girardi Franco, 37, 38, 200 Giudice Raffaele, 52 Giura Longo Andrea, 157, 189 Giura Longo Tommaso, 58, 194 Giustino Enzo, 114 Goethe Wolfang, 140 Gramsci Antonio, 82 Grassi Lorenzo, 80 Grassi Paolo, 78 Gregori Mina, 65 Gropius Walter, 197 Guarino Giuseppe, 40 Guermandi Maria Pia, 126, 193, 201, 203 Guzzo Piero, 188 Hadid Zaha, 137 Howard Hubert, 176 Iannello Antonio, 26, 27, 50, 51, 65, 72, 74, 105, 177, 193, 196, 200 Iannicelli Visenta, 78 Improta Umberto, 108 Indovina Francesco, 49, 200
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3. De Lucia 103_212.qxp:Apologia MC
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Innamorato Francesco, 203 Insolera Italo, 14, 16, 58, 64, 65, 76, 140, 151, 154-156, 158, 194, 200, 202, 203 Irace Fulvio, 137, 202 Isozaki Arata, 137 Jacoviello Alberto, 114 Kapoor Anish, 126 Kohl Helmut, 142 La Capria Raffaele, 73 Lacava Alberto, 16, 139, 153, 189 La Malfa Ugo, 182 Lamberti Amato, 104 Lanciani Rodolfo, 140 La Pira Giorgio, 35, 193 La Regina Adriano, 145, 149, 151, 156, 187, 188, 192 La Torre Pio, 68 Lauricella Salvatore, 26 Lauro Achille, 107, 137, 201 Lenzi Elisabetta, 189 Leon Paolo, 47, 53, 64, 154, 189, 202 Leonardi Ivano, 189 Lettieri Antonio, 201 Liberatore Paolo, 189 Libertini Lucio, 67, 68 Libeskind Daniel, 137 Locicero Massimo, 132 Lombardi Riccardo, 25 Lunardi Pietro, 69 Lupi Maurizio, 15, 183 Macaluso Emanuele, 68 Macry Paolo, 132 Magnani Luigi, 176 Mafai Miriam, 32, 75, 85, 148, 199 Magnier Annick, 203 Mancini Giacomo, 13, 15, 19, 21, 28, 73, 75, 84, 85, 146, 187, 194, 199 Manzoni Alessandro, 149 Marchais Georges, 32 Martuscelli Michele, 10, 13-16, 1921, 26, 27, 29-31, 33, 45-47, 189,
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191, 195, 199 Marcialis Giusa, 14 Marone Riccardo, 104, 118, 129, 201 Marotta Gerardo, 130 Marrone Titti, 127, 201 Marroni Umberto, 159 Mazzanti Raffaele, 65 Melograni Carlo, 58, 194 Merkel Angela, 142 Micali Gianfranco, 204 Mieli Paolo, 24 Mieli Renato, 196 Migliore Gennaro, 118, 204 Mondani Paolo, 158 Monello Paolo, 68 Montino Esterino, 159 Montuori Eugenio, 195 Moraca Mario 56, 129 Morandi Domitilla, 158, 194, 203 Morante Elsa, 140 Morassut Roberto, 158 Moretti Nanni, 140 Morisi Massimo, 203 Moro Aldo, 23, 24, 54, 182, 194 Moroni Piero, 16 Moscardini Carlo, 167 Mu単oz Antonio, 152 Mussi Fabio, 84 Mussolini Alessandra, 103, 117 Mussolini Benito, 146, 151, 152, 193, 201 Musu Ignazio, 47 Napolitano Giorgio, 55, 58, 85 Natoli Aldo, 75 Nenni Pietro, 24, 84, 184 Nicolazzi Franco, 63, 69, 71 Nicoletti Paolo, 189 Nicolini Renato, 201 Niemayer Oscar, 178 Nigro Gianni, 14, 44 Nobili Franco, 87 Novelli Diego, 56, 85, 200 Nucci Camillo, 14, 203 Nunes Gino, 135, 164
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3. De Lucia 103_212.qxp:Apologia MC
Occhetto Achille, 65, 66, 75, 84, 187 Odorisio Carlo, 17 Olivetti Adriano, 33, 36, 38, 195 Orlando Leoluca, 73 Padula Pietro, 32 Pagano Giuseppe, 37 Palermo Carlo, 75 Palladino Luca, 172 189 Pallottino Gaia, 176 Pampaloni Geno, 65 Pansa Giampaolo, 52, 87 Paolucci Antonio, 163, 203 Paris Rita, 143, 202 Parrella Valeria, 126, 201 Parri Ferruccio, 184 Pasolini dall’Onda Desideria, 19, 73, 176, 177 Pasolini Pier Paolo, 140, 184 Passino Roberto, 47 Pastore Antonio, 130, 201 Pellicani Gianni, 30, 45, 49, 196 Perego Francesco, 194, 200, 202 Petroselli Luigi, 75, 145, 147, 148, 151, 187, 192, 201 Pezzullo Miriana, 129 Piccinato Luigi, 16, 22, 33, 145, 195 Pirani Mario, 178 Pirillo Lucio, 104 Portelli Alessandro, 201 Portoghesi Paolo, 105 Prandini Giovanni, 63, 64, 71, 72, 74 Pratesi Fulco, 68 Prodi Romano, 183, 186 Pugliese Carratelli Giovanni, 73 Pugliese Enrico, 124, 201 Pulli Giuseppe, 56 Puntillo Eleonora, 26 Quaranta Antonella, 172, 189 Quaranta Vera, 51 Quaroni Ludovico, 140 Quilici Gigli Stefania, 202 Quilici Lorenzo, 202
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Radice Roberto, 69, 105 Radicioni Raffaele, 191 Ragghianti Carlo Ludovico, 35, 193 Ranieri Antonio, 175, 189 Ranieri Umberto, 87 Raponi Vito, 18 Rastrelli Antonio, 126 Rea Anna, 117 Reagan Ronald, 61 Realacci Ermete, 130 Recanatesi Franco, 87 Renzini Anna, 74 Ricucci Stefano, 184 Righetti Donata, 109 Ripa di Meana Daria, 14 RodotĂ Stefano, 14, 199 Romano Marco, 34, 35, 49 Romagnoli Giampaolo, 189 Ronchi Edo, 204 Roosevelt Franklin Delano, 25, 195 Rosania Gerardo, 69, 84, 172, 174 Rosi Francesco, 73 Rossanda Rossana, 18 Rossi Brigante Alfonso, 71 Rossi Doria Bernardo, 78 Rossi Doria Manlio, 37, 82 Rossi Paola, 200 Ruffolo Giorgio, 74 Rumor Mariano, 194 Russo Giovanni, 68, 73 Russo Iervolino Rosa, 118, 131 Rutelli Francesco, 78, 103, 135, 143, 149, 158 Sabelli Rodolfo, 172 Sales Isaia, 87 Salzano Edoardo, 14, 17, 30, 32, 34, 36, 42, 44, 53, 68, 73, 157, 184, 189, 191, 196, 199, 200, 202-204 Sansonetti Piero, 68 Santoro Luigi, 124 Sartoriello Ettore, 51 Saviano Roberto, 130, 175, 184, 201 Scalfari Eugenio, 24, 87, 149 Scalfaro Oscar Luigi, 59
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Scalpelli Alfredo, 195 Scannavini Roberto, 193, 199 Scano Luigi, 46, 47, 49, 63, 64, 68, 105, 185, 188, 196, 200 Scaramuzzino Carmelo, 189 Sciarra Enrico, 78 Scoppola Francesco, 191, 202 Scotti Enzo, 59, 87, 148 Segni Mario, 183 Sestini Aldo, 140 Sindona Michele, 184 Soda Giovanni, 203 Sodano Tommaso, 204 Soru Renato, 186, 187 Spilotros Elisa, 189 Stanghellini Stefano, 44 Stella Gian Antonio, 180, 203 Storto Giancarlo, 78, 185, 200 Strobbe Francesco, 14, 199 Sullo Fiorentino, 28, 84, 187, 197, 199 Sylos Labini Paolo, 67
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Travaglini Laura, 56, 58, 129 Tremonti Giulio, 69 Trillò Bernardo, 17 Trompeo Pietro Paolo, 176 Turroni Sauro, 185 Tutino Alessandro, 34, 44 Valentini Giovanni, 178 Valenzi Maurizio, 54, 55, 58, 59 Valerio, comandante (Walter Audisio), 184 Vecchiato Giorgio, 22 Veltroni Walter, 143, 155, 157, 158, 185, 187 Ventura Francesco, 65 Verdone Carlo, 137 Vernola Nicola, 148 Vetere Ugo, 148 Vittadini Mariarosa, 196 Vittorini Marcello, 14, 16 Volpicelli Lidia, 189 Wright Frank Lloyd, 197
Taddei Susanna, 168, 189 Tamburini Giulio, 14, 185 Tamburrano Giuseppe, 24, 85, 199 Tessitore Fulvio, 123, 124 Testa Alfonso, 18 Thatcher Margaret, 61 Tocci Walter, 78, 158, 159, 194, 203 Todros Alberto, 16, 17 Togliatti Palmiro, 182
Zanchini Edoardo, 201 Zanotti Bianco Umberto, 176 Zeccato Rosa, 178 Zeri Federico, 148, 149 Zevi Bruno, 33, 34, 73, 197 Zingaretti Nicola, 159 Zoppi Mariella, 14, 65, 200, 203 Zucconi Massimo, 70, 171
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Le città di Vezio De Lucia con un corpo e un’anima ancora umane nel rispetto della vita e del bene comune dell’armonia del paesaggio all’insegnamento fedele che architetti ingegneri urbanisti non sono neutrali al loro oggetto soggetto di vita collettiva e storia sono raccontate in questo libro stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle Cartiere Fedrigoni dalla tipografia SAGI di Reggio Emilia per conto di Diabasis nel mese di marzo dell’anno duemila dieci
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