Ferruccio Andolfi, docente di Filosofia della storia all'Università di Parma, si occupa dei rapporti tra umanesimo e individualismo, con particolare riguardo alla storia del secolo XIX. Dirige «La società degli individui», quadrimestrale di teoria sociale e storia delle idee. Con Edizioni Diabasis ha pubblicato Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt (2004) e curato i volumi: Friedrich Nietzsche filosofo morale, di Georg Simmel (2008), La rivoluzione di Gustav Landauer (2009) e Abbozzo di una morale senza obbligo né sanzione di Jean-Marie Guyau (2009).
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«Così si è affacciata alla mia mente quella che ora costituisce
MONOLOGHI
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Friedrich D.E. Schleiermacher
MONOLOGHI A cura di Ferruccio Andolfi
la mia intuizione più alta. Mi è divenuto chiaro che ogni uomo deve rappresentare l'umanità a modo proprio, con una mescolanza particolare dei suoi elementi».
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I Monologhi (1800) contengono il nucleo del pensiero etico di Schleiermacher nella forma lirica di meditazioni interiori, scandite in cinque parti («riflessione», «sondaggi», «mondo», «prospettiva», «gioventù e vecchiaia»). Insieme ai Discorsi sulla religione offrono un documento significativo dell'individualismo della cultura romantica. L'individualismo viene temperato dal presupposto che le singole manifestazioni dell'animo religioso o morale possano comporsi in un tutto armonico. L'orizzonte entro cui Schleiermacher si muove è "idealistico": e tuttavia egli pone l'esigenza, in tacita polemica con Fichte, di una ricongiunzione di filosofia e vita. L'altro grande interlocutore dei Monologhi è Kant. In polemica con lui ogni elemento imperativo e giuridico viene bandito dall'etica, come ogni soggezione a una legge, fino alla stupefacente dichiarazione: «non conosco più quel che gli uomini chiamano coscienza». Nelle pagine dell'opera si trovano anticipate molte figure che sarebbero state svolte nel secolo XIX dagli esponenti del cosiddetto «individualismo della differenza»: dalla «peculiarità» di Stirner allo «spirito libero» di Nietzsche fino al concetto di «legge individuale» formulato da Simmel.
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Friedrich D.E. Schleiermacher (Breslau 1768-Berlino 1834) fu educato nella Comunità pietista dei Fratelli moravi, dove si aprì a più vasti interessi umanistici. Negli ultimi anni del Settecento frequentò a Berlino i circoli romantici, collaborando con la rivista Athenaeum dei fratelli Schlegel. Pastore luterano, inaugurò la tradizione della teologia liberale. I Discorsi sulla religione (1799) sono la sua opera più importante e radicale di filosofia della religione. I Monologhi (1800) e le Linee fondamentali di una critica delle teorie morali (1803) costituiscono un contributo decisivo per un'etica non imperativa e individualizzata. Nel 1808 divenne predicatore assai apprezzato nella Chiesa della Trinità di Berlino e nel 1810 professore di teologia all'Università di Berlino. Nel 1821-1822 apparve la sua opera maggiore di teologia sistematica, la Dottrina della fede.
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Collana diretta da Ferruccio Andolfi e Italo Testa
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Il volume è stato pubblicato con il contributo della Fondazione Cariparma
Si ringraziano Anna Zaniboni e l’Archivio Carlo Mattioli di Parma per la gentile collaborazione In copertina Ginestre di Carlo Mattioli
Monologen Traduzione di Ferruccio Andolfi
ISBN 978 88 8103 751 3 © 2011 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 - 42121 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it
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MONOLOGHI UN DONO DI CAPODANNO A cura di Ferruccio Andolfi
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Monologhi Un dono di Capodanno
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Il manifesto dell’etica romantica, Ferruccio Andolfi
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I. Riflessione
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II. Sondaggi
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III. Mondo
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IV. Prospettiva
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V. GioventĂš e vecchiaia
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Il manifesto dell’etica romantica Ferruccio Andolfi
Religione ed etica I Monologen (1800) sono presentati dal loro autore come un «dono di Capodanno» offerto ad anime affini nel momento simbolico della svolta del secolo. Essi contengono il nucleo del pensiero etico di Schleiermacher nella forma lirica di meditazioni interiori, scandite in cinque parti («riflessione», «sondaggi», «mondo», «prospettiva», «gioventù e vecchiaia»), e non in quella sistematica, che presto Schleiermacher avrebbe adottato, del trattato o della lezione accademica. Insieme ai Discorsi sulla religione, apparsi l’anno precedente, documentano la fase più propriamente ‘romantica’ del percorso del teologo berlinese: se è vero che alcuni dei suoi scritti posteriori (dalla Kritik der bisherigen Sittenlehre alla Glaubenslehre) conterranno definizioni più precise dei termini usati e argomentazioni più stringenti, non raggiungeranno tuttavia la persuasività oratoria di quei due saggi, che appaiono tuttora al lettore d’oggi carichi di una particolare suggestività. Più in particolare l’opera costituisce un documento significativo dell’individualismo morale della cultura romantica, non diversamente da come i Discorsi contenevano un riconoscimento della legittimità degli innumerevoli modi individuali di rapportarsi religiosamente all’Assoluto, al di là di ogni codificazione confessionale. L’individualismo, in entrambi i casi, viene temperato dal presupposto che le singole manifestazioni dell’animo religioso o morale possano comporsi in un tutto armonico. Forse ciò è da riportare alle stesse esperienze che dischiusero a Schleiermacher l’intuizione del valore della individualità: dap-
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prima la vita religiosa nella comunità di Herrnhut, e poi la frequentazione dei circoli romantici dominati da una intensa forma di «socievolezza» (Geselligkeit). Prima di addentrarci in una ricostruzione della linea argomentativa di queste meditazioni, occorrerà dire qualcosa a proposito del nesso tra le due opere, ovvero del modo in cui Schleiermacher concepisce il rapporto tra la dimensione religiosa e quella morale. Nei Discorsi egli mette in guardia da ogni confusione: l’animo religioso non si occupa di questioni metafisiche né è interessato all’agire morale. Nel suo atteggiamento, prevalentemente passivo, esso percepisce, attraverso gli organi dell’«intuizione» e del «sentimento», l’Assoluto al quale appartiene (l’espressione «sentimento di dipendenza» apparirà più tardi, nella Dottrina della fede). Nei Monologhi, che sono dedicati alla spiegazione del fenomeno della moralità, tutto appare viceversa come compito che si rivolge al volere. Eppure tra questi due modi di trattazione non esiste contraddizione. Il territorio della morale, pur nella sua indubbia autonomia, resta avvolto da un’aura sacra. Il raggiungimento della «coscienza dell’umanità» e la ricerca, in essa, della specificità del proprio compito avvengono in un’atmosfera «devota», che ricorda appunto la prima formazione del teologo nella comunità dei Fratelli moravi1.
La dedica Lo spirito dell’opera è già tutto intero nella pagina dedicatoria che presenta questo sondaggio nella propria interiorità come un dono prezioso che può aprire anche all’altro che lo riceve la strada della scoperta del proprio sé. La visione, che è insieme un’affer mazione, dell’individualità propria non solo non contraddice l’emergenza di altre spiccate individualità, come un individualismo più volgare ci ha abituati a pensare, ma la produce per contagio. Chi è in grado di apprezzare il dono ne trae uno sti-
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molo per le proprie forze vitali e una gioia duratura. Il raccoglimento in se stessi è il presupposto necessario di ogni autentico dono ed è insieme finalizzato a questa apertura altruistica. Dalle prime battute dell’opera il suo autore annuncia che intende pensare questi due momenti come inseparabili.
Il mondo come comunità degli spiriti La tonalità dei monologhi avrebbe potuto suggerire di tradurre il titolo del primo di essi, Die Reflexion, con “meditazione”. Ma sebbene questo significato non sia assente, come prova anche la modificazione del titolo nella terza edizione dell’opera (Betrachtung), ho preferito mantenere il termine «riflessione», che allude alla tesi, sviluppata appunto in questo primo monologo, secondo cui il mondo esterno riflette il nostro essere interiore. L’evento del Capodanno è un invito a meditare, come momento simbolico che richiama al fatto che ogni attimo nel corso della vita ha una connessione diretta con l’Eterno e l’Infinito e può costituire l’occasione per una fuoriuscita dal tempo e dalle sue leggi. In tali circostanze il fervore delle opere tace e ci si appresta a inutili contemplazioni e fantasticherie, sacrificando l’operosità a cui indulgono gli «schiavi del tempo». La prospettiva mondana di chi considera il mondo la cosa principale e riserva allo spirito un piccolo spazio al suo interno viene capovolta a favore dello spirito, «prima e unica realtà», che crea il mondo come proprio specchio. L’impressione di essere plasmati dal mondo è ingannevole, non c’è nulla di proveniente dal mondo che operi effetti su di me, gli stessi sentimenti che sembrano derivare dal mondo fisico risultano dalla mia libera azione. Tuttavia questo primato dell’io non comporta alcuna pretesa di onnipotenza. L’essere finito e individuale non si muove nel vuoto, si confronta pur sempre con un mondo che gli è dato, lo plasma ed esercita un’influenza su di lui. Ma questo da-
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to non è altro che l’eterna comunità degli spiriti, che agiscono l’uno sull’altro. La necessità nasce appunto da questo gioco di interazioni e limitazioni. Un interprete autorevole come Friedrich Michael Schiele ha osservato che dove Schleiermacher si esprime in modo appropriato, non riconosce come reale alcun altro mondo che quest’unico «mondo degli spiriti»2. È su questo avanzato terreno di un mondo spirituale risultante dall’azione di molti che viene cercata una soluzione al classico problema di una conciliazione tra libertà e necessità. L’accordo tra questi due momenti può essere cercato in una duplice direzione: o sottolineando come le circostanze esteriori costituiscono non solo vincoli ma anche opportunità di crescita per un soggetto sempre attivo – sarà questo ad esempio il modo in cui Marx interpreta la relazione «dialettica» tra i singoli uomini e le circostanze materiali della loro vita, sotto il segno di una trasformazione «rivoluzionaria» – oppure mostrando come lo spirito costituisce esso stesso determinazioni fisse, leggi necessarie, senza uscire dal proprio terreno, sulla base di limitazioni che nascono dal semplice intreccio delle azioni di molteplici soggetti (spiriti) interagenti. Probabilmente i due modi di considerare le cose, convenzionalmente definiti ‘materialistico’ e ‘ spiritualistico’, non sono totalmente incompatibili, se si bada al fatto che entrambi vogliono tematizzare, sia pure con accenti diversi, i limiti che il soggetto incontra sul terreno dell’azione. Le affinità sono oscurate da presupposti metafisici opposti. E tuttavia l’idea (marxiana) di un’essenza umana, reinterpretata materialisticamente, potrebbe integrare utilmente quella (schleiermacheriana) di una comunità di spiriti che si definiscono e limitano reciprocamente, circoscrivendo l’ambito delle possibilità umane. L’idealismo di Schleiermacher è del resto temperato dall’idea che non esista alcuna cesura tra le forme più elevate del pensiero e la vita empirica, tra la vita della mente e l’agire esteriore, che è inseparabile dalla coscienza («il tuo essere… non può prescin-
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dere, senza distruggersi, dal suo agire né dal sapere di codesto agire»). La sua saggezza è diversa da quella di chi esorta a contentarsi di un’unica cosa, la contemplazione di se stessi, concepita come alternativa a qualsiasi occupazione mondana. Questo modello di stare nel mondo trascendendolo ad ogni istante ispira anche la concezione dell’immortalità adombrata al termine del primo monologo, in continuità con i Discorsi. Agli uomini che «si contentano» di cercare l’immortalità dopo il tempo, anziché accanto ad esso, Schleier macher raccomanda di dare inizio già ora alla loro vita immortale, nell’incessante movimento che dalle opere di questo mondo li porta alla contemplazione di se stessi.
Storia di una conversione La seconda meditazione è quella che contiene, nella forma particolarmente efficace della confessione del percorso compiuto da un’anima, i motivi più caratteristici dell’etica schleier macheriana. L’attingimento di una chiara «coscienza dell’umanità» che risiede in noi e ci solleva oltre il livello dell’animalità è rappresentato come accesso a un «terreno consacrato». Questo passaggio è descritto come risultato di un’unica libera decisione piuttosto che di tentativi di applicare regole, al modo quindi di una sorta di «conversione» che rende irrevocabile lo stato di illuminazione raggiunto. Schleiermacher si richiama alla propria esperienza personale, rievocando il tempo di questa prima decisiva scoperta, dovuta più a contatti con uomini viventi che all’insegnamento dei filosofi. Gli anni trascorsi come precettore, tra il 1790 e il 1793, nel castello di Schlobitten presso la famiglia von Dohna lo avevano infatti iniziato a una vasta e variegata esperienza dell’umano, di cui egli serba vivo ricordo. Una predica del capodanno 1792 e uno scritto «sul valore della vita» di poco poste-
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riore, pubblicato da Dilthey in appendice al suo Leben Schleiermachers, sviluppano questo tema e possono essere considerati un preludio ai Monologhi3. Ma in questi ultimi la coscienza dell’intera umanità, già di per sé liberatoria in quanto rende inutile una coscienza (Gewissen) angustamente prescrittiva, cede subito il passo a una nuova scoperta, che è approfondimento ma anche rovesciamento della prima: quella della individualità incomparabile di ciascun essere. Ancora autobiograficamente Schleier macher ricorda di essersi contentato per lungo tempo della sola ragione e dell’«uguaglianza di un’unica essenza», da cui aveva creduto di poter far discendere un medesimo diritto e una medesima moralità. Una nuova illuminazione o «rottura» lo conduce alla sua intuizione più alta, per cui «ogni uomo deve rappresentare l’umanità a suo modo, con una mescolanza particolare dei suoi elementi». Se l’umanità gli era comparsa nella quiete della vita di Schlobitten, il valore dell’individualità gli si manifesta a Berlino, tra gli innovatori romantici che comincia a frequentare; o forse meglio questi nuovi contatti lo aiutano a elaborare in principi etici le esperienze che aveva fatto molti anni prima nella Comunità dei fratelli, dove «aveva imparato a conoscere una ricca vita di pietà individualmente diversificata»4.
Cultura dell’io e socievolezza Tuttavia questa «scoperta» che ogni uomo deve rappresentare l’umanità a modo proprio e non sottoporsi a un «dovere» universalmente cogente si colloca all’interno della persuasione, umanistica e religiosa, che tutte queste differenti manifestazioni rappresentino l’estrinsecazione dell’infinito potenziale dell’umanità e siano pertanto compatibili e attinte proprio per confronto con le altre possibili combinazioni. Per questo viene attribuita tanta importanza, qui come nel Saggio di una teoria del com-
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portamento socievole (1799)5, alla socievolezza come mezzo indispensabile per la propria for mazione (Bildung). «Io mi penso in mille diverse configurazioni per distinguere meglio quella che mi appartiene». La storia del proprio io, insieme all’opinione degli amici più intimi, permette a chi attende alla propria formazione di scorgere il profilo del suo essere caratteristico, che è insieme un compito. L’identità così raggiunta costituisce un solido elemento da cui egli non si allontana più. Tra le infinite vocazioni Schleiermacher distingue due tipi principali. C’è chi come lui privilegia l’otium concentrandosi sul processo della formazione di sé (Bildung) e chi invece esprime la propria natura creativa in opere artistiche. Al confronto tra questi due generi di esistenza egli era indotto dalla frequentazione dei circoli romantici. Si può anche supporre che la distinzione tra i due percorsi e l’affermazione che «chi vuole raggiungere qualcosa in un ambito deve rinunciare all’altro» costituissero una sorta di risposta alle sollecitazioni che riceveva da Schlegel ad impegnarsi direttamente in qualche attività artistica produttiva. L’avversione per la produzione era la più grande mancanza di Schleiermacher agli occhi dell’amico, che scriveva: «Io lo spingo e lo tormento tutti i giorni», ma doveva infine ammettere di non trovare in lui «nessun vero interesse a fare qualcosa»6. Nei Discorsi sulla religione questa «lacuna», cioè l’incapacità di percorrere la via che conduce alla religione attraverso «il senso dell’arte», era stata ammessa dallo stesso Schleiermacher come un tratto profondo del suo essere, da trattare tuttavia «con rispetto»7. Da questa opzione fondamentale deriva anche un diverso rapporto con la socialità: mentre l’artista opera in solitudine, il metodo di chi persegue la propria formazione esige la comunione con gli altri spiriti, in vista della contemplazione comparativa delle varie figure che l’umanità ha assunto e di una costruzione di sé attraverso un continuo «scambio del dare e ricevere».
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L’apertura della mente a tutto ciò che non si è, la presenza di amici ed esseri amati, è essenziale alla via intrapresa da Schleiermacher. La mancanza d’amore, cioè lo squilibrio tra il dare e il ricevere, sarebbe per lui distruttivo. Significherebbe ritornare, inariditi, sotto il giogo della legge e del dovere. Bisogna guardarsi tuttavia dal disperdersi nella comunicazione. Sarebbe assai poco rispettoso dell’amico riversare su di lui confidenze su argomenti insignificanti o anche metterlo a parte di aspetti del proprio sé di cui non si sia già venuti in chiaro per proprio conto. Un effettivo dono suppone una qualche preliminare presa di possesso di sé nel raccoglimento. In un appunto di diario riportato da Dilthey, Schleiermacher così ironizza sulla virtù convenzionale della Offenheit (apertura, schiettezza): «Aperto è chi dell’essere più triviale fa il dominatore di se stesso, o anche chi è fatto solo di porte e finestre»8. Il concetto di amicizia si connette strettamente con quello di un riconoscimento reciproco della propria Eigenheit. La vera amicizia esclude ogni sentimento impuro di tipo utilitario o compassionevole. Anche per questa idea di una associazione di anime elette Schleiermacher si pone all’interno di un tradizione che conduce nella direzione delle amicizie stellari di Nietzsche e della «libera socialità» di Simmel. La Geselligkeit ha certo un carattere più ludico e superficiale dell’amicizia, che sostituisce al gusto per l’«osser vazione» dei caratteri un più impegnativo «sentimento», ma intrattiene con essa uno speciale rapporto: le riunioni socievoli sono luoghi di formazione di amicizie e, per converso, queste possono divenire la base di legami socievoli. Ad entrambe il teologo berlinese assegna una valenza etica9. La meditazione sull’amicizia non è priva tuttavia di una nota dolente, che dipende d’altronde dall’altezza stessa dell’ideale a cui l’autore tende. Una comunione perfetta può essere approssimata solo in modo imperfetto, perché ciascuno vive innanzitutto nel proprio mondo. Grazie alla sensibilità e all’amore la
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comprensione reciproca delle personalità potrà compiersi, fino a un certo grado, in una progressione infinita, che la morte s’incaricherà comunque di interrompere. L’amarezza è però subito temperata dall’aspettativa di tornare, uscendo dal mondo, nel seno dell’Infinito.
Le istituzioni etiche Il terzo monologo si apre con una critica dell’immagine illuministica del mondo coltivata dalla generazione attuale. L’uomo maturo o l’umanità che si crede uscita da uno stato di minorità tessono l’elogio del mondo, obliando ciò che fino a quel momento era desiderato. Quest’elogio lascia trasparire una viltà dell’anima, che rinuncia in nome di un miglioramento del mondo che si suppone già avvenuto a speranze più ardite. L’accresciuto dominio dell’uomo sulla natura è indubbio: Schleier macher dichiara di condividere il sentimento di una comunione delle generazioni che compiono in successione, come un unico organismo, le opere intraprese da quelle precedenti. Tuttavia l’innalzamento progressivo del benessere, fosse pure a beneficio di tutti, non lo soddisfa. Neppure per il bene altrui si può accettare di dedicare tutte le proprie forze a ciò che non si accetterebbe come meta suprema per se stessi. Questa meta non può essere altro che una comunione di spiriti affini, ma per costituirla non giova nessuno degli strumenti utili a soddisfare i bisogni materiali. Un processo degenerativo insidia la comunità spirituale quando è posta al servizio di quella terrena. Ciò si verifica sia nelle amicizie come nell’amore coniugale, dove dominano il calcolo e i rapporti utilitari. Lo Stato stesso, che dovrebbe procurare ai suoi membri il grado più elevato di vita, è concepito come un male necessario, che si apprezza a misura che la sua azione diviene meno percepibile10. Nelle istituzioni l’uomo cerca soltan-
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to, mediante i limiti posti dal diritto, la possibilità di esplicare in modo sicuro le proprie limitate risorse, e non quella di potenziare la propria formazione interiore, che in quelle comunità crede anzi di incontrare un ostacolo. Ma altre forme associative sono possibili e forse anche prossime a realizzarsi, benché ancora non se ne abbia un’idea precisa se non tra i pochi o molti spiriti affini che presentono un mondo migliore. Schleiermacher ha la fiera coscienza di appartenere a codesta schiera di «congiurati per un mondo migliore» e ne dà l’annuncio. Per questi eletti il reciproco riconoscimento non è semplice, ma Schleiermacher esprime la fiducia che essi malgrado tutto possano alla fine palesarsi l’uno all’altro. L’esile accenno alle forme etiche di questo terzo monologo si sarebbe sviluppato più tardi in una trattazione sistematica e oggettiva, che tuttavia non tradisce le intuizioni principali dello scritto giovanile. Le istituzioni sociali continuano ad essere pensate sul modello della più naturale di esse, la famiglia, che contiene germinalmente gli elementi di tutte le altre. Esistono per il singolo individuo etico e non come fini a sé a cui l’individuo debba subordinarsi. È significativo che al di là dello Stato, della Chiesa e della comunità del sapere l’ultima sfera dell’eticità sia identificata con la libera socialità (Geselligkeit), che abbraccia relazioni puramente individuali. Se nello Stato i sudditi sono uguali, nella socialità quanti ne partecipano conservano la propria specificità. Questo ingrediente del sommo bene resta inaccessibile a un’etica universalistica che bada piuttosto alla somiglianza delle singole persone morali11. D’altra parte la valorizzazione dell’individualità consente di conferire un nuovo spirito anche alle forme etiche che attualmente la reprimono. A questa più articolata concezione delle forme etiche corrisponde un’articolazione della riflessione sui doveri dell’individuo, che cerca di contemperare l’obbligo fondamentale che questi ha di realizzare la propria specifica vocazione con quello di
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seguire la propria via all’interno di un contesto comunitario12. Il compito morale, che in prima istanza era stato immaginato come gravante sulle spalle di un singolo uomo, va pensato nella sua interezza, come un’impresa collettiva del genere umano e l’individuo va concepito come parte di una comunità. La formula del dovere viene di conseguenza così variata: «ogni singolo individuo faccia ogni volta, con la sua forza morale interiore, il massimo possibile per assolvere in comunione con tutti l’intero compito morale». L’equilibrio tra i due momenti, personale e sociale della vita morale, viene garantito a condizione che per un verso, nel riconoscere la propria identità con gli altri, il singolo non venga mai meno all’esigenza complementare di rispettare la propria particolare indole, e che per altro verso in questa fedeltà egli cerchi continuamente l’accordo con gli altri, evitando il rischio di una vita completamente «sfrenata». La relazione non è però del tutto simmetrica, poiché «la comunità esiste soltanto in virtù del costante agire in essa degli individui» – come loro «azione», dice Schleiermacher anticipando un motivo che sarà tipico della sociologia simmeliana. È in definitiva l’individuo a riconoscere con un libero atto di volontà lo stato comunitario, ponendosi così a sua volta al di sopra di esso.
Uno sguardo in avanti: il destino e la decisione In che cosa si fondano le speranze che Schleiermacher ha espresso con tanta forza nei monologhi fin qui considerati? Non sull’attesa dell’intervento di una superiore provvidenza, alla quale si appellano gli uomini convenzionalmente religiosi. La Aussicht della quarta meditazione lo esclude, come esclude che qualsivoglia «destino» possa prendersi gioco delle decisioni dell’uomo. A condizione naturalmente che si tratti realmente di decisioni, e non di un inconsistente avvicendarsi di sensazioni e desideri. Seguendo il filo della propria formazione, a partire da quel
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primo atto originario della volontà che lo costituisce, l’uomo resta padrone di sé, si sottrae a ogni potenza estranea. Se questa costituzione dell’io era fatta risalire, nei Discorsi, all’intuizione e al sentimento dell’universo, ora nei Monologhi si scopre che essa coincide con un atto libero della volontà, che mi induce a «diventare sempre più quel che sono». Finché resto aderente a questo essere determinato nessuna circostanza esterna può davvero dominarmi, e viene piuttosto rimodellata sul calco di questo essere. L’impressione di subire il peso oppressivo del destino nasce solo dalla messa in comune della libertà. Ma tutto ciò che proviene dall’agire comune degli uomini deve pur sempre passare attraverso la mia libertà, o la mia peculiarità. L’azione che a ogni momento sono capace di intraprendere mi dà la certezza di disporre di me stesso. Gli altri avrebbero potuto reagire in modo attivo alla violenza esterna: se non l’hanno fatto è perché non l’hanno veramente voluto. Per mostrare come ciò sia possibile Schleiermacher si appella alla sua esperienza personale di liberazione dalle angustie della vita comunitaria e più in generale dalla falsa concezione morale fino ad allora professata. Egli si dichiara convinto di aver finalmente raggiunto una propria salda peculiarità da cui non si staccherà più e alla quale non sarà difficile connettere tutte le future acquisizioni di una cultura multiforme. In questo quadro di certezze esistono tuttavia elementi indefiniti, aspettative concernenti aspetti cruciali dell’esistenza, quali la scelta dell’amata o la paternità, rispetto ai quali il proprio volere potrebbe trovarsi limitato dalla «libertà altrui« o dal «corso del mondo». Schleier macher confida che la forza della volontà possa superare molti ostacoli, ma il suo argomento decisivo è che, se anche lo sforzo fosse vano e tutto ciò che è desiderato fosse negato, nulla riuscirebbe comunque ad opporsi davvero alla crescita della sua vita interiore». Se non altro la forza divina della fantasia mette al riparo da ogni smentita della realtà.
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Questo nucleo profondo e immutabile di se stesso è anche ciò per cui Schleiermacher vuole essere apprezzato dagli altri e per cui reclama la loro considerazione. La comunione spirituale che si instaura grazie al riconoscimento reciproco del valore fondamentale che ciascuno incarna è capace di vincere la distanza e anche la morte. «Non ho mai perduto nessuno che mi sia stato caro». Di fronte alla morte degli amici la sicurezza di Schleiermacher sembra tuttavia per un momento incrinarsi. È vero che per un certo verso gli amici non muoiono perché continuano ad esercitare una permanente influenza su chi li ha avuti cari, il quale accoglie in sé la loro vita. Ma è altrettanto vero che è ormai impossibile esercitare un’azione su di loro. In questo senso ogni amico che scompare è come se privasse chi gli sopravvive di una parte della propria vita e quasi lo ‘uccidesse’. È questa una rappresentazione sottile e profonda del morire, inteso come un impoverimento delle relazioni e delle capacità di influenza sugli altri. Schleiermacher ha trascritto questo passaggio del testo, come ricorda in una lettera alla sorella Charlotte, da un «piccolo libretto», in cui aveva preso nota di quest’idea, da lui stesso definita oscura ma penetrante13. Subito dopo Schleiermacher introduce però anche una diversa idea della morte: quella di una meta necessaria per ogni essere che abbia portato a compimento la propria individualità e a cui non resti più aperto quindi nessun progresso possibile. Malgrado l’alta considerazione che egli ha di se stesso e degli spiriti a lui affini, si rende conto che una condizione di assoluta perfezione appartiene propriamente solo a dio. Questo lo porta vicino a un pensiero inespresso, che più tardi Feuerbach avrebbe svolto in una direzione a dire il vero assai poco religiosa: un essere totalmente perfetto, che non abbia bisogno di nulla, non ha bisogno neppure di esistere, l’esistenza è una caratteristica esclusiva dell’essere bisognoso.
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Un uomo non può offrire al suo simile dono più prezioso del dialogo che ha condotto con se stesso nell’interiorità del proprio animo, con esso gli procura infatti quanto c’è di più grande, la visione aperta e imperturbata di un essere libero. Nessun dono è più duraturo, poiché nulla può distruggere in te il godimento che una volta quella visione ti ha procurato; e la sua intrinseca verità le assicura il tuo amore, di modo che torni volentieri a contemplarla. Nessun dono riesci a proteggere con maggior sicurezza dalle brame e dalla malizia altrui, poiché esso non è circondato da alcun elemento accessorio che possa prestarsi ad usi o abusi, o suscitare desideri sensibili. Se qualcuno, in disparte, guarda di traverso questo tesoro e gli attribuisce tratti ridicoli, che i tuoi occhi francamente non vedono, fa sì che questo vano motteggio non ti sottragga la gioia, come non mi induce a rimpiangere di aver condiviso con te ciò che possedevo. Accetta il dono, tu che sei in grado di intendere il pensiero del mio spirito! Il tuo canto accompagni il gioco sonoro dei miei sentimenti, e la scossa che ti trasmette il contatto con il mio animo sia uno stimolo rinfrescante anche per la tua forza vitale.
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Gli uomini temono di guardare entro se stessi, e molti tremano servilmente quando alla fine non possono eludere la domanda: che cosa ho fatto? che cosa sono diventato? chi sono davvero? Si tratta per essi di una faccenda angosciosa e di esito incerto. Credono che un uomo possa conoscere più facilmente gli altri che se stesso, e pensano di agire con lodevole modestia se, dopo la più severa indagine, si riservano la possibilità di un errore di valutazione. Eppure è solo la volontà che nasconde l’uomo a se stesso; il giudizio non può errare se egli rivolge lo sguardo realmente a se stesso. Ma questo è appunto ciò che molti non possono né vogliono fare. La vita e il mondo li tengono totalmente soggiogati e, con lo sguardo deliberatamente orientato a non percepire altro, in quelle realtà non riescono a vedere se non il vago e ingannevole riflesso di se stessi. L’altro posso conoscerlo solo dalle sue azioni, perché il suo agire interiore non lo vedo mai. Che cosa propriamente voglia non posso mai saperlo immediatamente; posso solo confrontare tra loro le sue azioni, e dedurre, senza alcuna certezza, a quale fine sono dirette e da quale spirito sono mosse. Ma non è forse una vergogna che qualcuno guardi se stesso come un estraneo guarda un estraneo? che non sappia nulla del proprio agire interiore, e si reputi acuto solo per il fatto di saper cogliere la decisione finale che mette capo all’atto esterno, insieme al sentimento che l’accompagna e all’idea che l’ha immediatamente preceduta e orientata? Come potrà pretendere di conoscere gli altri e se stesso? Che cosa può guidare le sue oscillanti congetture, che dall’esterno inferiscono l’in-
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terno, se in nessun caso cruciale può basarsi su qualcosa di immediatamente certo? Il presentimento sicuro dell’errore genera ansia; l’oscuro sospetto di essere colpevole gli stringe il cuore, e i suoi pensieri vagano inquieti, per timore di quella piccola parte di autocoscienza che gli uomini recano con sé, degradata al ruolo di un severo educatore1, e che spesso devono ascoltare di malavoglia. Gli uomini hanno certo buone ragioni di preoccuparsi, se esaminano onestamente l’attività interiore che sta a fondamento della loro vita: in essa spesso non riuscirebbero a riconoscere traccia d’umanità, e vedrebbero la coscienza morale2, cioè la consapevolezza che l’umanità ha di se stessa, gravemente oltraggiata. Infatti chi non ha riflettuto sul suo agire precedente, non può neppure dare garanzie che in quello a venire si rammenterà di far parte dell’umanità e si mostrerà degno di essa. Se ha spezzato già una volta il filo dell’autocoscienza, se si è abbandonato anche per una sola volta a rappresentazioni e sentimenti che condivide con gli animali, come potrà esser certo di non essere precipitato nella più grossolana bestialità? Contemplare l’umanità in se stessi, e, una volta che la si è ritrovata, non distogliere mai lo sguardo da essa, è l’unico mezzo sicuro per non sviarsi dal suo sacro suolo. Questo è il legame3 interno e necessario tra l’agire e il contemplare, che rimane inesplicitato e misterioso solo per gli uomini sciocchi e ottusi4. Un operare veramente umano produce la chiara coscienza dell’umanità che risiede in me, e questa coscienza non tollera alcun altro agire se non quello che è degno dell’umanità. Chi non riesce ad elevarsi a questa nitida visione delle cose è spinto vanamente qua e là da oscuri presentimenti. Invano egli viene educato e condizionato mediante abitudini, invano escogita mille artifici e prende decisioni per reintrodursi di nuovo a forza nei confini dell’umanità. Le sacre barriere non si aprono, egli rimane su un terreno non consacrato e non può sfuggire alle persecuzioni della divinità irata né al sentimento
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vergognoso di essere esiliato dalla propria patria. È sempre un vano gioco e un’intrapresa inutile dare regole e fare tentativi nel regno della libertà. Per essere un vero uomo si richiede un’unica decisione libera: chi l’ha presa una volta rimarrà tale per sempre; chi smette di esserlo, non lo è stato mai5. Ripenso ancora con gioia e fierezza al tempo in cui trovai l’umanità e mi resi conto che non l’avrei mai più perduta. Da dentro6 giunse a me quest’alta rivelazione, e non fu prodotta da alcuna dottrina della virtù né dai sistemi dei sapienti. La lunga ricerca, che né l’una né gli altri erano in grado di soddisfare, fu coronata da un attimo luminoso; nell’azione la libertà dissolse gli oscuri dubbi. Posso ben dire che da allora non ho mai più abbandonato me stesso. Non conosco più quel che gli uomini chiamano coscienza, nessun sentimento mi tormenta né ho bisogno di ammonimenti7. Da allora io non perseguo neppure questa o quella virtù, né gioisco di questa o quella azione, come fanno coloro nella cui fuggevole vita appare, solo isolatamente e a tratti, qualche dubbia testimonianza della ragione. In silenziosa pace e in inalterabile semplicità reco in me ininterrottamente la coscienza dell’intera umanità. Spesso mi soffermo a considerare, volentieri e con animo leggero, il mio agire in tutti i suoi aspetti, e sono sicuro che in esso non troverò mai nulla che l’umanità debba rinnegare. Se questa fosse l’unica cosa che richiedo a me stesso, da quanto tempo avrei potuto trovar pace e, nella compiutezza raggiunta, attendere la fine! Infatti la mia certezza è irremovibile, e mi sembrerebbe una colpevole viltà, estranea al mio spirito, se volessi attendermi solo da una vita più lunga un compimento più pieno, e se volessi dubitare che possa accadere ancora qualcosa che sia in grado di farmi cadere dalle altezze della ragione nella pura animalità. Ma dubbi, a dire il vero, ne ho ancora: non appena ho raggiunto una meta, ne sorge dinanzi a me un’altra più elevata, e poiché mi appare ora più ed ora meno attraente, la riflessione su me stesso non sempre sa indicarmi per
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quale via posso avvicinarmi ad essa, e a che punto mi trovo, di modo che il giudizio vacilla. Tuttavia esso diventa più sicuro e si conferma sempre più quanto più spesso ritorno alla originaria ricerca di me stesso. Ma se anche fossi ancora lontano dalla certezza, io vorrei comunque continuare a cercarla, in silenzio e senza lamentarmi: poiché più forte del dubbio è la gioia di aver trovato quel che devo cercare, e di esser sfuggito alla follia comune, che inganna molti dei migliori per tutto il corso della loro vita, e impedisce loro di innalzarsi ai veri vertici dell’umanità. Per lungo tempo bastò anche a me aver trovato la sola ragione, e adorando come unico e supremo valore l’uguaglianza di un’unica essenza8, credetti che ci fosse un solo diritto per tutti i casi, che per tutti l’agire dovesse essere il medesimo, e che uno si distinguesse dall’altro solo perché a ognuno è assegnata una certa condizione e un posto suo proprio. Fui convinto che l’umanità si rivelasse diversa solo nella molteplicità delle azioni esterne, e che l’uomo, il singolo uomo, non fosse un essere conformato in un modo particolare, bensì solo un elemento, e ovunque il medesimo elemento, della totalità. Così procede l’uomo! Quando arriva a disprezzare l’indegna particolarità della vita animale sensibile e acquista la coscienza dell’umanità in generale, sottoponendosi al dovere, non subito è capace di elevarsi anche alla superiore individualità della propria formazione e moralità, né di intuire e comprendere la natura9 specifica che la libertà sceglie per se stessa. La maggioranza degli uomini si mantiene, ondeggiante, a un livello medio indefinito, e rappresenta l’umanità in una forma invero assai grossolana, per la semplice ragione che non arriva a concepire l’idea della propria esistenza superiore. Io, invece, sono stato totalmente preso da quest’idea. Il sentimento della libertà, da solo, non mi acquietava; inutile mi parve la personalità e l’unità della coscienza che scorre in me senza alcun punto fermo, e mi sentii spinto a cercare qualcosa di valore morale più elevato, a cui essa
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accenna. Non mi bastava più vedere l’umanità in rozze masse informi, che interiormente sono del tutto identiche, e solo esteriormente, per attrito o contatto10, danno luogo a fenomeni transitori e fugaci. Così si è affacciata alla mia mente quella che ora costituisce la mia intuizione più alta. Mi è divenuto chiaro che ogni uomo deve rappresentare l’umanità a modo proprio, con una mescolanza11 particolare dei suoi elementi, affinché essa possa manifestarsi in ogni modo possibile, e si realizzi tutto ciò che può scaturire12 dal suo seno, nella pienezza dell’infinità. Questo semplice pensiero mi ha elevato e separato da tutto ciò che di comune e di informe mi circonda, facendo di me un’opera della divinità che può rallegrarsi di avere una figura e una conformazione del tutto speciale; e la libera azione13 che lo accompagnava ha raccolto intorno a sé e ha legato intimamente gli elementi della natura umana in una esistenza particolare. Se da quel momento avessi riflettuto incessantemente su quel che c’è di proprio nel mio agire come ne ho sempre riguardato il lato umano in generale; se fossi divenuto cosciente di ogni mio operare e delle limitazioni implicate da ogni atto libero, e avessi ben considerato, con fermezza, l’ulteriore sviluppo e ogni espressione della mia natura: non potrei nutrire alcun dubbio su quale ambito di umanità mi appartenga, né su dove debba cercare il principio comune dell’estensione del mio spirito come dei suoi limiti. Dovrei essere in grado di misurare esattamente il contenuto del mio essere, conoscere punto per punto i miei limiti, e sapere profeticamente che cosa posso ancora essere e diventare. Se non che l’uomo giunge solo tardi e con difficoltà a una piena consapevolezza della propria natura peculiare; non sempre osa concentrarsi su di essa, e preferisce piuttosto rivolgere lo sguardo al patrimonio comune dell’umanità, attaccandosi ad esso con amore e riconoscenza. Spesso, scambiando la dimensione sensibile con quella spirituale, egli si chiede dubbioso se debba separarsi da
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quel patrimonio come un essere a se stante, nel timore di ricadere nella vecchia colpevole limitatezza, ovvero nell’angusto ambito della personalità esterna; e solo tardi impara ad apprezzare e a far uso del suo altissimo privilegio. Così, tra questi dubbi, la coscienza è destinata a rimanere a lungo vacillante; le aspirazioni più proprie della natura spesso restano inosservate, e quando i suoi limiti si manifestano, lo sguardo passa oltre con eccessiva facilità, e si fissa solo sull’universale, dove l’individuale si rivela solo per negazione. Potrei già contentarmi del fatto che la volontà ha domato l’indolenza e che l’esercizio ha affinato lo sguardo al punto che ormai ben poco gli sfugge. Dovunque mi capita di agire secondo il mio spirito e intendimento, la fantasia mi presenta mille altri modi di agire, secondo un diverso spirito e intendimento, a chiara prova della mia libera scelta, ovvero di come si possa agire diversamente senza ledere le leggi dell’umanità; io mi penso in mille diverse configurazioni per distinguere meglio quella che mi appartiene. Tuttavia, siccome quest’immagine non mi si profila ancora compiuta in tutti i suoi tratti, e la connessione ininterrotta di una chiara coscienza non me ne garantisce ancora la verità, la contemplazione di me stesso non può avvenire ancora in una disposizione di animo sempre uguale e serena. Spesso essa deve passare in rassegna espressamente tutti gli atti e le aspirazioni, la storia intera del mio io; e non può trascurare l’opinione degli amici che ho lasciato volentieri accedere alla mia vita interiore, quando la loro voce si discosta dal mio proprio giudizio. In verità mi sembra di essere lo stesso uomo di quando cominciò la mia vita migliore, ma di esserlo in modo più saldo e determinato. D’altronde come potrebbe mai un uomo, dopo aver raggiunto un’esistenza propria e indipendente, nel bel mezzo del suo divenire e della sua formazione, assumere all’improvviso una natura diversa, ed esprimere un altro aspetto dell’umanità, senza aver portato il precedente alla sua massima perfezione? come potrebbe
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anche solo volerlo? o come potrebbe accadergli senza che egli lo sappia? O non ho mai compreso me stesso, o sono ancora quel medesimo io che credevo di essere, e ogni apparente contraddizione, quando sia stata risolta dalla riflessione, mi mostrerà con sicurezza dove e come si nascondono e si intrecciano gli elementi estremi del mio essere. La duplice vocazione dell’uomo sulla terra indica, mi sembra, una grande linea di separazione tra le diverse nature. Son due cose assolutamente diverse14 plasmare, da un lato, la propria umanità in una figura nettamente delineata, e rappresentarla nei propri molteplici atti, e, d’altro lato, proiettarla all’esterno producendo opere artistiche, in modo che tutti possano vedere ciò che si intende mostrare. Solo chi si trova ancora al livello più basso, nel vestibolo dell’individualità, e, per timore di limitarsi, rifiuta di dare una netta definizione di se stesso, può voler conciliare le due vocazioni, con il risultato di raggiungere ben poco in entrambe. Chi vuole raggiungere qualcosa in un ambito deve rinunciare all’altro; solo alla fine15 del cammino c’è un passaggio dall’uno all’altro, accessibile solo a quei vertici di perfezione che l’uomo raramente raggiunge. Come potrei avere dubbi su quale dei due è caduta la mia scelta? Ho sempre evitato16 di perseguire le opere dell’artista mentre ho afferrato con fervore tutto ciò che giova alla mia formazione e ne accelera e rinsalda l’andamento. L’artista va a caccia di tutto ciò che può diventare segno e simbolo dell’umanità; scava il tesoro della lingua, trae un mondo dal caos dei suoni, cerca un senso segreto e un’armonia nel bel gioco di colori della natura. In ogni opera che gli si presenta sonda gli effetti prodotti dalle singole parti, la legge e la composizione del tutto, e trae maggior godimento dal recipiente artistico che dal suo prezioso contenuto. Poi si formano in lui nuovi pensieri per nuove opere, si alimentano segretamente nel suo animo, e crescono coltivate in lui in silenzioso nascondimento. Il suo zelo non ha mai sosta, progetti ed esecuzioni si susseguono, l’eser-
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cizio migliora sempre più, instancabilmente, le capacità, e il giudizio, man mano che matura, tiene a freno e disciplina la fantasia. Così la natura creativa si dirige verso la meta della perfezione. Ma tutto questo l’ho intuito solo grazie al sentimento, perché è estraneo al mio pensiero. Da ogni opera d’arte si irraggia per me l’umanità che vi si riflette, assai più luminosamente che l’arte dell’artista. Questo io lo colgo solo a fatica in una considerazione successiva, fino a riconoscere solo un poco la sua essenza. Io lascio libera la libera natura, e quand’essa mi offre i suoi bei segni pieni di significato, risveglia in me sensazioni e pensieri, senza che per questo mi senta forzato a dar loro forma, in maniera diversa e più definita, in un’opera mia propria. Non aspiro a portare alla perfezione17 il materiale su cui imprimo la mia impronta. Perciò rifuggo dall’esercizio, e se a volte accade di rappresentare nell’azione ciò che risiede nel mio intimo, non m’importa che l’atto si rinnovi spesso in forme sempre più belle e comprensibili. Il libero otium è la mia divinità prediletta. È in esso che l’uomo impara a comprendere e definire se stesso; in esso il pensiero trova la base della propria forza, e domina poi facilmente su tutto, quando il mondo lo sollecita anche ad agire. Per questo io non posso neppure costruire in solitudine come l’artista; in solitudine si inaridiscono i succhi del mio animo e s’arresta il corso dei miei pensieri. Io devo proiettarmi al di fuori di me in qualche sorta di comunione con altri spiriti per vedere quali generi di umanità esistono, quale mi resta estraneo e quale può diventare mio proprio, e per definire sempre più fermamente il mio essere attraverso lo scambio del dare e ricevere. La sete sempre inappagata di seguitare a plasmare incessantemente il mio essere non consente di dare anche un compimento esterno al mio agire, alla comunicazione della vita interiore. Mi limito a collocare l’azione e il discorso nel mondo, e non mi dò cura se anche gli spettatori non sono in grado di penetrare con la loro mente attraverso la ruvida scorza e di scoprire felicemente,
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anche nelle realizzazioni più imperfette, il pensiero che le anima, il mio proprio spirito. Non mi resta né il tempo né la voglia di far domande: devo perfezionare ancora, se possibile, nella mia breve vita, il mio proprio essere, a partire dal punto in cui mi trovo, mediante nuovi pensieri ed azioni. Animo ben poco artistico, odio già il fatto di ripetere due volte la stessa cosa. Per questo preferisco fare tutto in compagnia di altri: quando medito, oppure contemplo, o assimilo qualcosa di estraneo, ho bisogno della presenza di qualche essere amato, di modo che all’agire interiore faccia subito seguito la comunicazione, e possa accordarmi senza difficoltà con il mondo grazie al dolce e gradevole dono dell’amicizia. Così è stato finora, e così è tuttora, e io sono ancora così lontano dalla mia meta che dubito di poterla mai raggiungere. Qualunque cosa dicano i miei amici, ho certamente ragione di escludermi dal sacro territorio degli artisti. Rinuncio volentieri a tutto ciò che essi mi concedono a condizione di trovarmi meno imperfetto di quanto essi credono nel campo in cui mi sono collocato. Apriti a me ancora una volta, o visione del vasto dominio dell’umanità abitato da coloro che aspirano solo a formare se stessi, e a rappresentare se stessi in un agire vario senza produrre opere durature! Apriti ancora una volta e fammi vedere se mi spetta o meno in quel dominio un posto mio proprio; se in me c’è concordia o se qualche interna contraddizione impedisce che la mia immagine costituisca una unità conclusa, facendo sì che il mio essere, invece di raggiungere la perfezione si dissolva, come un progetto mal riuscito, in un vuoto nulla. Ma no, non devo temere, nessun triste sentimento18 si agita all’interno della mia coscienza! Riconosco come tutto ciò s’intreccia in me a formare una vera totalità; non sento alcun elemento estraneo che mi opprima, non mi manca nessun organo, nessuna delle nobili membra necessarie alla mia propria vita. Chi vuole costruirsi in un essere determinato, deve avere la mente19 aperta a tutto ciò che lui
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stesso non è. Anche qui20, nell’ambito della più elevata moralità, regna la medesima precisa relazione tra azione e contemplazione. Solo se nell’atto presente l’uomo è cosciente della propria individualità, può esser sicuro di non lederla nel suo prossimo atto; e solo se esige fermamente da se stesso di contemplare l’umanità intera, o di contrapporre la propria realizzazione di essa a ogni altra, può conservare la coscienza della propria peculiare natura: ogni singolarità infatti viene conosciuta solo per contrapposizione. La condizione suprema del proprio perfezionamento in una cerchia determinata è una sensibilità universale21. Ma questa come potrebbe sussistere senza amore? La terribile sproporzione tra dare e ricevere riuscirebbe distruttiva per l’animo al primo tentativo di formarsi senza amore, sviandolo dal suo cammino, e porterebbe a completa rovina o farebbe cadere nell’abiezione22 chi volesse diventare a quel modo un essere individualizzato. Sì, amore, tu sei la forza d’attrazione del mondo! Nessuna vita propria e nessuna formazione è possibile senza di te, senza di te tutto è destinato a dissolversi in una rozza massa informe! Coloro che non desiderano essere altro che questo non hanno bisogno di te: ad essi basta la legge e il dovere23, un agire uniforme e la giustizia. Il sacro sentimento sarebbe per essi un tesoro inutilizzabile: per questo lasciano inselvatichire, senza coltivarlo, quel po’ di amore che è stato loro concesso; disconoscendo ciò che è sacro, lo gettano con incuria nel patrimonio comune dell’umanità, che deve essere amministrato secondo un’unica legge. Per noi invece sei il principio e la fine di ogni cosa: senza amore non c’è formazione individuale, e senza una propria formazione non c’è perfezione nell’amore; l’una completa l’altro, ed entrambi crescono insieme inseparabilmente. In me sento unite queste due supreme condizioni della moralità! Sensibilità e amore sono diventati una cosa sola in me, ed entrambi si elevano sempre più in alto, a chiara testimonianza che la vita è fresca e sana e che la mia formazione diventa sempre più salda.
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C’è forse qualcosa a cui la mia sensibilità potrebbe restare chiusa? Coloro che non avrebbero difficoltà ad innalzare il primo che capita a virtuoso ed esperto nel campo della scienza, non fanno che lamentarsi perché non mi impongo alcuna limitazione, e quando sembra che voglia dedicarmi a qualcosa con serietà, deludo ogni speranza. Infatti, dicono, quando ho raggiunto un certo punto di vista, il mio spirito volubile si affretta subito, al modo usato, verso altri oggetti. Oh, potessero lasciarmi in pace una buona volta e comprendere qual è la mia destinazione, che non posso coltivare la scienza24 visto che mi propongo di coltivare25 me stesso! Mi concedano di tener aperta la mente a tutto ciò che essi si affaccendano a fare, e considerino almeno degno dei loro sforzi quel che costituisco in me grazie alla contemplazione del loro agire. Coi loro lamenti essi danno una testimonianza a mio favore; altri, al contrario, che pur di diversa natura aspirano come me a penetrare nel cuore dell’umanità, lamentano che in fondo la mia mente sarebbe limitata26, nel senso che potrei passare indifferente27 di fronte a molte cose sacre, e corrompere, per vana smania di polemica, la imparzialità e profondità del mio sguardo. Sì, in effetti io passo di fronte a molte cose, ma non resto indifferente; discuto, sì, ma solo per mantenere imparziale lo sguardo. Così e non diversamente devo agire, a modo mio, sforzandomi sia di riempire che di ampliare la mia mente. Quando s’impadronisce di me il sentimento di qualche manifestazione dell’umano che mi è ancora ignota, la prima cosa che metto in questione non è se esista, bensì se sia, e sia solo, quale appare in colui nel quale l’ho vista per la prima volta. Il mio spirito, che si è risvegliato tardi, nel ricordare quanto a lungo ha sopportato un giogo estraneo, teme sempre di ricadere sotto il dominio di opinioni altrui; e ogni volta che un nuovo oggetto gli rivela la presenza di nuova vita, esso si appresta, con le armi alla mano, a conquistare anzitutto la propria libertà per non dover ricominciare nulla, come prima, sotto la schiavitù dell’educazione. Non ap-
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pena ho raggiunto la mia propria visione delle cose, il tempo delle dispute è già bello e passato; io lascio sussistere volentieri ogni altra visione accanto alla mia, e la mia mente porta pacificamente a compimento il compito di interpretarla e di penetrare nella sua specificità. Così quel che spesso potrebbe sembrare un limite della mia sensibilità è solo il suo primo movimento. Essa ha dovuto esprimersi spesso in questo modo, in quel bel periodo della vita in cui tante cose nuove mi hanno colpito, ed altre, che fino allora avevo solo presentito oscuramente, e per le quali avevo lasciato in me uno spazio vuoto, mi sono apparse in piena luce! Spesso ha dovuto confrontarsi in modo ostile con quegli stessi uomini che erano all’origine della mia nuova visione. Io ho assistito a ciò serenamente, confidando nel fatto che avrebbero capito quando infine la loro mente sarebbe penetrata nella profondità del mio essere. Spesso neppure gli amici mi hanno compreso, quand’io passavo pacificamente, senza far polemiche ma anche senza prender partito, dinanzi a ciò che essi abbracciano immediatamente con fervore ed entusiasmo. L’intelligenza non può apprendere tutto in una sola volta, ed è vano per essa voler adempiere il suo compito in un solo atto; questo compito si prolunga all’infinito in due direzioni28, e ognuno deve avere un modo proprio di unirle e di realizzare così il tutto. Quando qualcosa di nuovo colpisce il mio spirito, mi è precluso penetrare subito, d’impulso, nel cuore della cosa e conoscerla alla perfezione. Un tale procedimento non sarebbe in linea con quella equanimità che è la nota fondamentale dell’armonia del mio essere. Se io isolassi qualcosa a questo modo sarei trascinato fuori del centro della mia vita, e quando penetrassi una cosa resterei estraneo ad ogni altra, senza arrivare a possedere davvero la prima. Da principio devo depositare ogni nuova acquisizione nell’intimo del mio animo, e poi proseguire il consueto gioco della vita coi suoi svariati atti, acciocché il nuovo si mescoli con il vecchio e venga
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in contatto con tutto ciò che già era in me. Solo operando a questo modo riesco a prepararmi la via per una visione più profonda e più intima. La contemplazione e la pratica29 devono alternarsi più volte, prima che io possa rallegrarmi di aver penetrato e approfondito interamente qualcosa. Così e non altrimenti posso mettermi all’opera, se non voglio offendere il mio intimo essere, poiché in me l’autoformazione e l’attività della mente devono mantenersi in equilibrio in ogni momento. Perciò avanzo lentamente, e dovrò vivere a lungo prima che riesca ad abbracciare tutto in egual misura; tuttavia, qualsiasi cosa abbracci, recherà la mia impronta30, e, qualsivoglia parte dell’infinito territorio dell’umanità i miei sensi abbiano afferrato, essa si conformerà anche in egual misura come qualcosa di mio proprio e trapasserà nel mio essere. Oh quanto più ricco è divenuto il mio essere! Quale bella coscienza del valore interiore, quale sentimento elevato della vita e dell’esistenza propria coronano la riflessione su me stesso, quando mi soffermo sul godimento di tanti giorni felici! Non fu vana l’attività silenziosa, che vista da fuori pareva una vita di ozio inoperoso31: ha promosso egregiamente l’opera interna della mia formazione. Questa non sarebbe progredita tanto con una condotta e un’occupazione sbagliata, inadeguata alla mia propria natura, e ancor meno con una sensibilità limitata32. È un vero peccato che l’intima essenza dell’uomo sia così misconosciuta anche da coloro che ben potrebbero e meriterebbero di riconoscerla per ogni dove. È un peccato che anche tra costoro siano in tanti a confondere l’agire interno con il fare esteriore, credendo di riconoscere tanto l’uno che l’altro, in ogni singolo caso particolare, a partire da frammenti isolati, e immaginando contraddizioni là dove viceversa tutto concorda. Il carattere proprio del mio essere è forse così difficile da scoprire? Questa difficoltà impedisce forse per sempre che il desiderio più amato del mio cuore si palesi sempre più a tutte le persone degne? Sì, anche ora,
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mentre contemplo profondamente la mia natura intima, mi confermo di nuovo nella convinzione che è questo l’impulso che mi muove più fortemente di ogni altro. Così stanno le cose, benché mi si dica spesso che sono chiuso in me stesso33 e che respingo spesso con freddezza le sacre offerte di amore e di amicizia. Certamente non mi sembra necessario parlare di ciò che ho fatto o che mi è accaduto; considero troppo insignificante ciò che di me appartiene al mondo per soffermarmi su di esso con coloro a cui farei conoscere volentieri il mio intimo. E neppure parlo di ciò che giace in me ancora oscuro e informe e manca ancora di quella chiarezza che sola lo rende mio. Come potrei offrire all’amico ciò che ancora non mi appartiene? Perché dovrei nascondergli ciò che sono realmente? Come potrei sperare di comunicare senza malintesi ciò che io stesso ancora non comprendo? Non si tratta di riservatezza o di mancanza di amore, ma di quel sacro rispetto senza il quale l’amore non è nulla, della delicata attenzione a non profanare e a non intricare inutilmente i valori supremi. Non appena mi sono appropriato di qualcosa di nuovo ed ho fatto qualche progresso sul piano della cultura o dell’indipendenza personale, non mi affretto forse ad annunciarlo, con le parole e le opere, all’amico, di modo che possa condividere la mia gioia e, percependo la crescita della mia vita interiore, trarne lui stesso profitto? Amo l’amico come me stesso: appena riconosco qualcosa come mio, gliene faccio dono. È vero che non partecipo a ciò che egli fa o che gli accade come la maggior parte di coloro che si definiscono suoi amici. Le sue opere esterne mi lasciano senza ansie e preoccupazioni di sorta, una volta che comprendo l’interiorità da cui derivano e so che devono essere quali sono perché egli è quello che è. Non danno alimento né impulso al mio amore, non hanno nulla a che fare con esso. Appartengono al mondo e devono adattarsi alle leggi della necessità, con tutto ciò che ne consegue. Ma qualunque cosa ne segua, qualunque cosa accada all’amico, egli saprà trattarla con una li-
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bertà degna di lui. Il resto non mi interessa, contemplo tranquillamente il suo destino come riguardo il mio. Chi potrà considerare fredda indifferenza un simile comportamento? Il fondamento su cui poggia il rispetto verso me stesso e il sentimento della libertà è la chiara consapevolezza del contrasto esistente tra il mondo e l’uomo: devo forse attribuirla meno al mio amico che a me stesso? Ciò di cui mi faccio maggior vanto è che in me amore e amicizia hanno sempre avuto una nobile origine, senza mescolarsi mai a sentimenti volgari; mai frutto dell’abitudine o di fiacchi sentimenti, sono sempre un atto di pura libertà e si indirizzano unicamente verso l’essere più proprio dell’uomo. Sono sempre rimasto chiuso a quei sentimenti volgari: un beneficio non mi ha mai indotto all’amicizia, né la bellezza all’amore, né la compassione si è impadronita di me al punto che attribuissi merito alla sfortuna e mi rappresentassi il sofferente diverso e migliore di quello che è. Così nel mio animo è restato spazio per l’amore e l’amicizia vera, e mai si estingue il mio desiderio di riempirlo in modo sempre più perfetto e vario. Dovunque noto qualche disposizione a una individualità originale, di cui sensibilità e amore forniscono le più alte garanzie, lì c’è anche per me un oggetto d’amore. Vorrei abbracciare con amore ogni essere particolare, dalla gioventù più schietta, in cui germoglia la libertà, fino alla forma più matura e compiuta di umanità. A coloro che considero di tal natura, rivolgo dentro di me un saluto d’amore, anche se questo atto resta solo accennato, perché non c’è concesso altro che un fuggevole incontro. Né concedo mai a un uomo la mia amicizia misurandolo secondo qualche criterio mondano o secondo la sua apparenza esterna. Il mio sguardo vola oltre il mondo e il tempo, e ricerca la grandezza interna dell’uomo. Se la sua intelligenza abbia già compreso poco o molto, fin dove sia avanzato nella propria formazione, quante opere abbia creato o comunque compiuto, tutto ciò non lo posso determinare e, se manca, posso consolar-
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mi facilmente. La peculiarità del suo essere e le relazioni di quest’essere con l’umanità è ciò di cui vado in cerca; e lo amo nella misura in cui riconosco quella sua individualità e intendo quelle relazioni; anche se, beninteso, posso dimostrargli tale amore solo a patto che egli mi intenda. Ahimè, quante volte invece è tornato indietro incompreso! Il linguaggio del mio cuore non fu percepito, quasi che io fossi restato muto, e i destinatari del mio amore credettero che fossi realmente muto. Molte volte gli uomini percorrono strade vicine, e tuttavia non si avvicinano l’uno all’altro. Invano uno, presago della presenza di un amico, chiama e desidera un incontro amichevole; l’altro non ode. Spesso gli opposti arrivano a toccarsi, uno pensa che sia per sempre, mentre l’incontro dura solo un momento. Un movimento in senso opposto li strappa l’uno all’altro, e nessuno comprende dove sia finito l’altro. Questo è accaduto spesso al mio desiderio d’amore: non sarebbe una vergogna se alla fine esso non fosse maturato34 e la mia troppo facile speranza non fosse svanita cedendo il posto a una saggezza ricca di presentimenti? «Questi comprenderà di te un certo aspetto, e quegli un aspetto diverso; con quest’amore puoi abbracciare il primo, ma guardati dal manifestarlo all’altro»: così mi suggerisce spesso la moderazione35, ma spesso invano. L’impulso interno del cuore non lascia spazio alla prudenza; ancor meno mi permette di nutrire l’orgogliosa pretesa di porre limiti agli altri uomini e al sentimento con cui corrispondono a me e al mio amore. Io divento sempre più esigente, faccio sempre nuovi tentativi, e vengo subito punito dalla mia avidità, spesso perdendo, nel tentativo, quello che avevo ottenuto. Ma all’uomo che attende alla propria personale formazione non può accadere nulla di diverso, e che a me le cose vadano a questo modo è solo la prova più certa che io attendo alla mia formazione. Solo un individuo simile unisce in sé in un modo particolare diversi elementi dell’umanità. Egli appartiene a più di un mondo36. Come potrebbe,
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muovendosi nello stesso cammino di un altro, che è a sua volta un individuo a sé, restare sempre in prossimità dell’altro? Al pari di una cometa, l’uomo colto collega molti sistemi cosmici, si muove intorno a parecchi soli. Ora lo guarda gioiosamente un astro che mira a conoscerlo, mentre egli si piega amichevolmente verso di lui e gli si avvicina; poi l’astro lo vede trascorrere di nuovo in spazi lontani, con un sembiante mutato, sì che dubita che egli sia ancora il medesimo. Ma questi ritorna in rapida corsa, e di nuovo si approssima all’astro con amore e amicizia. Dove si trova il bell’ideale di un’unione perfetta, di un’amicizia che sia ugualmente perfetta da entrambe le parti? Solo dove la sensibilità e l’amore sono cresciuti in uguale misura, e quasi oltre ogni misura. Ma allora insieme all’amore anche gli individui stessi sono giunti a perfezione, e suona l’ora – ahimé, per tutti essa suona prima del tempo37 – di uscire dal mondo38 e di riconsegnarsi all’infinito, tornando nel suo seno.
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Questo libro di Friedrich D.E. Schleiermacher
nono della collana La Ginestra nata dall’amicizia e dal lavoro comune individuale e solidale tra l’Associazione omonima e le Edizioni Diabasis viene stampato nel carattere Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello nel gennaio dell’anno duemila undici