Parigi una breve estate

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€ 12,00

ANGELA GIANNITRAPANI

DIABASIS

«Prendetevi tutto, anche quello che scrivo, / m’appoggio a un ulivo, / sono in paese cristiano». Come i versi dell’amato Betocchi, le pagine di Angela Giannitrapani regalano al lettore tutta l’esperienza di una vita, racchiusa nel tempo breve di una vacanza a Parigi. «Prendetevi tutto, – annota – anche queste simmetrie che ora strade e stradine e diagonali e parallele mostrano, acini stretti nel grappolo…» Mentre percorre, di piazza in via, di caffè in albergo, le geometrie di Parigi, un’analoga geometria di parole nasce sulla pagina. E Parigi si rinnova, dopo secoli di letteratura e di stupori d’arte, nelle sensazioni dolci e dolorose della scrittrice venuta dal paese del tufo e dell’olivo.

ANGELA GIANNITRAPANI

Manlio Cancogni, Sposi a Manhattan Manlio Cancogni, L’impero degli odori Manlio Cancogni, Caro Tonino Manlio Cancogni, Gli scervellati Giovanni Michelucci, Lettere a una sconosciuta Emilia Bersabea Cirillo, Fuori misura Silvio D’Arzo, Casa d’altri. Il libro Stefano Scansani, L’Amor morto Eugenio Turri, Il viaggio di Abdu Gino Montesanto, Cielo chiuso Tano Citeroni, Il canto del verzellino Giorgio Messori, Nella Città del Pane e dei Postini Emilia Bersabea Cirillo, L’ordine dell’addio Salimbene de Adam, Cronaca Antonio Bassarelli, Di Elena e dell’ombra Antonio Bassarelli, La trovatura Giacomo Scotti, Racconti dalla Bosnia Nicolas Bouvier, Diario delle isole Aran Vittore Fossati, Giorgio Messori, Viaggio in un paesaggio terrestre Francesco Petrarca, Lettere all’imperatore Adriana Zarri, Vita e morte senza miracoli di Celestino VI Alessandra Sarchi, Segni sottili e clandestini Giorgio Messori, Storie invisibili e altri racconti Eça De Queirós, La corrispondenza di Fradique Mendes Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema Giorgio Prodi, L’opera narrativa

PARIGI, UNA BREVE ESTATE

Dalla collana AL BUON CORSIERO

DIABASIS

AL BUON CORSIERO

PARIGI, UNA BREVE ESTATE

Nata nel 1925, laureata in Lettere all’Università di Roma, Angela Giannitrapani ha insegnato a Reading e a Los Angeles; rientrata in Italia, è stata Professore Ordinario di Letteratura Angloamericana alle Università di Messina e poi di Viterbo. Ha pubblicato quattro raccolte di versi (Professione di poesia, 1968; Poesia come seconda lingua, 1970; Popolo sognante, 1977; Caro umano percorso, 1983) e due volumi di racconti (La giovane laica, 1972, premiato a Venezia; L’ala di Dürer, 1992). La sua ampia produzione critica prende in esame soprattutto autori angloamericani: Wistaria. Studi Faulkneriani, 1963; Destination tomb (dedicato a Beckett), 1971; Un modo di leggere, 1972; I primi racconti di Dylan Thomas, 1973; Pantheon dell’Ottocento americano, 1979; Woodcraft, 1979; Francis Parkman e la fleur de lis, 1984; Memoria critica, 1995; altri contributi, su scrittori americani e italiani, sono apparsi in rivista. Ha collaborato alla Terza pagina di «Paese Sera» e diretto varie riviste letterarie: «Tempo di Letteratura», «Tabella di marcia», «Malavoglia», «The Blue Guitar».


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In copertina Particolare dell’Ile de la Cité, dal Plan de Turgot, Paris 1739 Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN) ISBN 978 88 8103 652 3

© 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it

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Angela Giannitrapani

Parigi, una breve estate A cura di Marina Giaveri

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Angela Giannitrapani

Parigi, una breve estate

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Introduzione, Marina Giaveri Nota biografica Capitolo I

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Letargico bellissimo Capitolo II

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La perla Capitolo III

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Su questa pietra Capitolo IV

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Mio giovane amico Capitolo V

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Charbon Capitolo VI

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Pierrot Capitolo VII

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Much of the night Capitolo VIII

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Storia-memoria Capitolo IX

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Piccolo dolore antico

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Introduzione Me ocurría a veces que todo se dejaba andar, se ablandaba y cedía terreno, aceptando sin resistencia que se pudiera ir así de una cosa a otra. Digo que me ocurría, aunque una estúpida esperanza quisiera creer que acaso ha de ocurrirme todavía. […] Quién sabe cuánto hace que me repito todo esto, y es penoso porque hubo una época en que las cosas me sucedían cuando menos pensaba en ellas, empujando apenas con el hombro cualquier rincón del aire. Julio Cortázar

A volte ti capita che tutto si sfrangi, si ammorbidisca e ceda terreno, accettando senza far resistenza che si possa passare da una cosa all’altra. Accade quando meno te lo aspetti, al solo spingere con le spalle, come dice Cortázar, un qualsiasi angolo dell’aria. Accade mentre passeggi in una città ben nota, che d’improvviso – per una luce inconsueta, in uno scorcio diverso – non ritrovi più; accade mentre attraversi una città conosciuta in un tempo lontano, e un ricordo ti afferra a un crocevia; accade mentre percorri una città a te nuova, quando un nome di strada ti immerge nelle pagine dei tanti libri letti, ed ecco un’altra città, fatta di parole, di immagini e di immaginazione, diventare la tua città. Accade tutto questo nel libro di Angela Giannitrapani. Lei passeggia a Parigi nell’estate del 1992. Un piccolo albergo è il centro di piccoli percorsi affaticati – “da panchina a panchina, quasi trascinandosi” – fra il V e il VI arrondissement, nel cuore del quartiere che è stato degli studenti, degli scrittori, degli editori. Ed ecco una città fatta di carta e di parole distendersi ai suoi piedi, dilatando il cerchio magico del Quartiere Latino, traversando la Senna, toccando Arles e Rouen, spingendosi oltre le Alpi, oltre l’Oceano. Poiché di panchina in panchina – di strada in strada, di giardino in giardino – parole di poeti rinviano ad altre parole di

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poeti; poiché il muro di una chiesa, l’angolo di un palazzo fanno nascere architetture letterarie intessute di sangue e di meraviglia, come il racconto di Flaubert Saint Julien l’hospitalier rievocato dalla piccola chiesa medievale dedicata al Santo; poiché le forme austere del Musée de Cluny non racchiudono solo la Dame à la licorne ma il ricordo amoroso di un incontro avvenuto nel passato, alonato dalla leggenda del maggio ’68; poiché, grazie a un verso di Betocchi, la luminosità dell’estate parigina può condurre nelle campagne di un’infanzia viterbese, anch’essa fatta di chiese medievali e di limpidi azzurri estivi. Un testo si può percorrere in molti modi: il primo percorso di Parigi, una breve estate può essere appunto quello di una passeggiata parigina, quella flânerie fra piazze e boulevards e lungosenna trasformatasi in mito letterario caro a Walter Benjamin. Anche il ritmo della scrittura, qui denso di riferimenti, là dilatato nello spazio bianco di una pagina, ricorda un poco una planimetria urbana di Parigi, nelle belle forme assunte di secolo in secolo sotto la matita dei disegnatori o il bulino degli incisori: visioni della città a volo d’uccello, incastri di edifici e di alberi, scacchiere di isolati abitativi e ampi spiazzi a corona di monumenti. Si dice che, nell’inventare la modernità di Parigi, a metà dell’Ottocento, Haussmann si fosse ispirato ai criteri di organizzazione urbana che avevano presieduto le scelte della Roma papale, centro di secolari pellegrinaggi: una ragnatela di percorsi convergenti verso i luoghi di culto, favoriti da una rete di segni urbani – fontane, pinnacoli, obelischi. Anche se il pellegrinaggio parigino dello scrittore moderno è solitario, gli spazi urbani ne assecondano in analogo modo il procedere, inventando piazzette dal fascino riposante, distribuendo negozi e banchetti di bouquinistes, trasformando in salotti i passages nati da esigenze commerciali. I luoghi vibrano di storia, esibiscono orgogliosamente i secoli passati, gli incontri-scontri che li hanno illustrati, i nomi che li hanno e vi si sono resi famosi. Camminare a Parigi è immergersi nella gloria. Parimenti, percorrere il testo di Angela Giannitrapani è se-

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guire un alternarsi di densi tessuti letterari, di brevi folgoranti vedute, di bianchi spiazzi di silenzio. “Da panchina a panchina, quasi trascinandosi” il suo passo segna e percorre uno spazio conchiuso: un giardinetto, un frammento di quartiere. I nomi che si affacciano sulla pagina balzano attraverso i secoli, ma traversano appena il confine fra il V e il VI arrondissement: il nucleo medievale costituito dalla chiesa di Saint-Julien-le-Pauvre e dal Musée de Cluny, il verde tributo rinascimentale del Jardin du Luxembourg, i caffè a raggiera intorno all’Odéon, dove i filosofi settecenteschi hanno discusso di stato e di religione, di civiltà e di civismo. I passi si allontanano di poco dall’albergo di rue Delavigne, nel tridente di strade disegnato dall’aristocratica lottizzazione di fine Settecento; ed è forse solo il ricordo a ripercorrere lo scenario di un incontro avvenuto venti anni prima, ad attraversare la Senna per aggirarsi fra le strade del Marais, entro le sontuose dimore del Grand Siècle trasformate in archivi e in musei, nella piazza regale che Napoleone ribattezzò “des Vosges” in onore del Departement più sollecito nei tributi. La minuscola Parigi di Angela Giannitrapani non è la Parigi turistica di tanti viaggi italiani (pur essendo una Parigi afferrata in un viaggio profondamente italiano): nessuna Tour Eiffel fora l’orizzonte, nessun Louvre incolonna le folle in attesa, nessuna mandria di consumatori strascica i piedi doloranti sui marciapiedi degli Champs Elisées. È la Parigi appresa dalle pagine amate: “Era tuttora la città di Balzac, Baudelaire, Hugo, Delacroix, Nerval…”. Mito, capitale del XIX secolo, vera protagonista del romanzo ottocentesco – come è stata giustamente definita – Parigi si disegna nelle parole di infiniti libri letti nell’infanzia, studiati a scuola, percorsi nelle ore di viaggio, di riposo o di attesa; città di carta, si è detto, o – come nella visione di Victor Hugo – libro essa stessa: libro di pietra. Le pagine amate invitano ad altre pagine, moltiplicando lingue e lettere: pagine nuove nascono nella camera del piccolo hotel, dilatando lo spazio e afferrando il tempo – quel tempo che una emorragia stillante, una paura solitaria e bra-

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vamente celata, un assottigliarsi delle forze nella sofferenza rendono precario. Lo spazio urbano, lo sappiamo, è in realtà l’umano spazio disegnato dal corpo che vi si muove, animandone i percorsi; e il momento della vacanza parigina è, per Angela Giannitrapani, anche quello in cui il corpo si è scoperto malato, soggetto a una perdita di sangue che ne mina la forza e l’equilibrio. Per questo la flânerie si fa prudente, contenuta in un cerchio protettivo intorno all’albergo, estendendosi invece in ricordi, rimandi, richiami. “Alle finestre gerani rossi, il rosso del sangue che lei perde.” Il male, la medicina, la visita in farmacia: mai la scrittura vi indugia. Il gocciolio di sangue che indebolisce il corpo diventa piuttosto traccia fiammeggiante che divampa nell’evocazione della pagina del Saint Julien di Flaubert e della vetrata di Rouen che l’ha ispirata: ma la storia del massacro venatorio e familiare raccontata nella cattedrale e nella sua crudele mimesi letteraria è chiosata in una sintesi fatta di soli colori. Dalle narrazioni policrome delle chiese medievali, dalle pagine azzurre di tanti manoscritti ottocenteschi (gli autori del XIX secolo sanno che la carta cilestrina risparmia gli occhi, affaticati dalla luce delle candele) giungiamo fino ai quaderni rigati che per la giovanissima Angela hanno segnato, un tempo, il viaggio dalla lettura alla scrittura, alla critica, alla creazione: anche il gocciolio del sangue è un monito che conduce dalla visione della città al sentire del corpo, e dal corpo alla pagina che lo riassume, lo contiene, lo acqueta. Viaggiando così “da un testo vivo a un testo da creare”, il corpo – cauto esploratore di spazi urbani o prudentemente immobile nella stanza del piccolo albergo di rue Delavigne – si proietta sopra la città, la travalica. Un volo di parole lega Parigi ad Arles, da dove – si dice – un avo francese giunse in Italia a sedurre un’ava; un volo traversa l’oceano, raggiunge la California, ricostruisce i dialoghi di un’amicizia femminile densa di questioni e discussioni; un volo si spezza in partenze e ritorni fra l’Italia e la Francia, ai tempi di quell’incontro (“Pierre, pierrot, ragazzo non ragazzo…”) che la memoria

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completa di tutti i segni e simboli di una stagione inquieta (We shall overcome e Guantanamera, sul muro il poster di Che Guevara, nell’aria la speranza di cambiare il mondo…). Moltiplicando gli spazi, il viaggio immobile della memoria retrocede fino a quel primo ambito identitario che ha segnato l’infanzia, ha costruito un’educazione adolescente, ha suggerito gusti ed esperienze: strato a strato, nella Parigi del 1992 emergono le forme di quella Tuscia – Etruria – Maremma a cui hanno dato voce i poeti e a cui anche Angela Giannitrapani ha già dedicato versi. La “nodosa campagna viterbese” evocata in una sua poesia del 1950, i “mattini d’Etruria / su cui s’aggroppano le crete / perfide funeree degli antichi”, quali si disegnavano in una raccolta del 1982, riappaiono a sfondo di una storia personale consegnata al mosaico narrativo. Subito, nelle prime pagine, quando ancora si sta disegnando la sua figura di cauta flâneuse indugiante nei giardinetti del V arrondissement, una riflessione (“Del resto così agiva suo padre”) introduce l’immagine paterna. Ne seguiamo in rapidi scorci la lezione di sensibilità e di cultura – i libri dello studiolo, le visite alle chiese dell’Alto Lazio, guidando la figlia bambina “alle absidi, agli ipogei, territorio non più d’un pugno, scarsa misura, ma quale pugno, quale misura” – e poi il ripiegarsi doloroso: “padre sopravvissuto ad Auschwitz ormai un assente, forastico”. Dietro il padre si disegna la campagna viterbese, che da fondale si tramuta in presenza autonoma, fluendo infine nei tratti e nei colori che riassumono il volto stesso dell’autrice: “gli occhi il miele d’un favo di bosco che inclina all’oro tenue, vibrazione d’erba, luce del verde, per cui guardandola chi fosse anziano tornerebbe al primo suo colpo nella maremma di quando giungevano le quaglie…” Ritratto di Parigi, ritratto maremmano, il testo di Angela Giannitrapani è in ciò stesso un autoritratto. L’uso della terza persona è scelta antica: “l’angolosa ragazza” di una poesia del 1956 (“…ma già grama / per lei la vita…”) era riapparsa nei Ritratti femminili del 1982 (“Prossimo sente e dolce / il tempo di vendemmia; le riviene / agli occhi il folle aspetto / delle

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vigne…”); ora la terza persona è ferma opzione che modula i tempi (“anni durante i quali l’autrice cresceva mentre la ragazzina sempre lì ferma, chiusa in un incanto”) quanto le funzioni narrative. Tempi e funzioni si fissano, al centro del testo, nella reinvenzione giocosa di un nome, Charbon: “Perché Charbon? Il nome della mia negretta di gomma, […] prova d’amore in una situazione difficile dopo la morte di un cucciolo. Nera la pupattola, neri i miei capelli: di qui lo stesso vezzeggiativo.” Ancora un ricordo di anni lontani nell’evocazione di un oggetto presto abbandonato dalla rapida moda dei gadgets ma a lei lungamente caro; e ancora una volta la sintesi di un nome. In quella parola che sopravvive alle perdite, la terza persona si specchia moltiplicata, arricchita anche da una prima persona a commento: “Ci sono tre Charbon e non distinguo tra loro, non riesco a scindere la fantasia dalla memoria, l’invenzione dalla realtà, il presente dal passato, l’io dal non-io. Ad esempio, chi è la Charbon del brano sul cucciolo?” Una nota folgorante di Jorge Louis Borges fissa l’immagine dello scrittore intento a disegnare tutto un mondo, ma poi consapevole di aver tracciato in realtà il proprio ritratto. Qui l’autoritratto è molteplice: letterario innanzitutto, fatto di libri prediletti (un indice dei nomi darebbe una piccola, squisita biblioteca); poi biografico, sommariamente “sentimentale” (in senso sterniano) nella scelta di figure, paesi, momenti; e infine autoriale. Il viaggio attraverso Parigi si conclude sulla pagina, luogo che racchiude il tempo e il mondo. Dall’evocazione iniziale (la storia di Saint Julien nelle trentaquattro formelle rosso-azzurre della vetrata di Rouen) fino al Piccolo dolore antico delle pagine finali (sul restauro, nel 1944, degli affreschi di Lorenzo da Viterbo in una cappella bombardata) un modello si propone al testo: quello del “racconto frantumato”. Mosaico, dunque, come nelle arti visive, con parole e segni d’interpunzione che mimano le scaglie di colore e le impiombature dei vetri; mosaico concepito tramite la scrittura quanto ritrovato tramite la memoria. L’analogia, ancor più che con il racconto scandito in scene nella vi-

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trea agiografia francese, è forse con la storia sacra affrescata da Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta e sminuzzata in quasi 20.000 briciole dalla guerra. Un lavoro – compiuto sotto la direzione di Cesare Brandi e poi divenuto esemplare nella storia del restauro – ricompose l’affresco, integrando a tratteggio alcune parti scomparse. Così, nel recupero della memoria, si compongono scaglie ritrovate e vuoti; qui un rigo franto o un accenno di verso è posto a suggerimento di uno sviluppo testuale, come, sulle pareti, il tratteggio verticale che riempie senza coprirlo un piccolo vuoto di colore; là il biancore della pagina allude a una scomparsa, a un oblio, a una censura, come la sinopia ridisegnata dai restauratori a indicare una più vasta superficie irrimediabilmente distrutta. L’autoritratto d’autore è un percorso di poetica: lo stesso ritmo, apparentemente accidentale, che contraddistingue il girovagare urbano (soste prudenti, spazi definiti) e che segna l’itinerario temporale nelle sue scansioni (infanzia maremmana, viaggio in California, soggiorni francesi dal ’68, rimembrati nel ’92 ) sottende gli squarci metaletterari, ove l’oggetto della scrittura è la stessa struttura testuale. La riflessione teorica si insinua con naturalezza nel dialogo fra i personaggi (pochi, essenziali) come nel monologo d’autore. Anche il panorama di letture, pitture, musiche che a quei personaggi ha fornito tratti e sfondi si rivela un ambito preciso entro cui sono definite scelte estetiche e soluzioni tecniche. Così, per esempio, Malte Laurids Brigge è evocato dapprima come un compagno, pur fittizio, di quartiere (“Quasi dietro lo spigolo […] Rilke ha stabilito la dimora di Malte […], la stupenda dramatis persona secondo la quale a Parigi si viene per vivere e in realtà si muore”). Lo ritroviamo poi presso “le aiuole delle Tuileries”, lo sentiamo citato in un dialogo, lo intuiamo presente al Musée de Cluny (alla cui Dame à la licorne il testo rilkiano ha dedicato pagine famose). Ma il suo ruolo non è quello di semplice avatar parigino, immagine che riappare di scena in scena a segnalare una continuità di riferimenti: introduce spesso un’interrogazione sulla genesi del testo, sul suo processo di sviluppo, sui possibili esiti: “Malte non muore, cresce da episodio a episodio, per-

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ché chi scrive ha il dovere di far crescere i suoi protagonisti…” “‘Un narratore! Prego, un narratore’, invoca Malte”. Come, nel primo decennio del Novecento, Rilke aveva proposto nel Malte Laurids Brigge un “romanzo-non romanzo” audacemente affrancato dai paramenti della tradizione ottocentesca quanto non riducibile alle nuove formule dell’espressionismo, così il testo di Angela Giannitrapani propone un “racconto-non racconto” pienamente consapevole del retaggio novecentesco – comprese le sperimentazioni sul frammento – quanto libero dalle aporie del post-moderno. È una forma squisitamente modellata sulle esigenza di una sensibilità nuda e disarmata, a cui una densità di riferimenti letterari e artistici giunge depurata ed essenziale: è un prezioso tessuto (“testo”, appunto) fatto di prosa e verso, di bianco e di nero, di parola e di spazio significante, che, percorso nella sua interezza, rivela precisi rinvii e approfondimenti tematici a sottendere la frantumazione testuale. Tessere è, d’altra parte, l’immagine che la nostra cultura ha scelto a fondamento della stessa attività autoriale: il poeta opera “entrebescant / los motz e l so afinant / lengu’entrebescada / es en la baizada”. Così Angela Giannitrapani, poeta e narratore e saggista, intesse le parole e affina il suono – lingue intrecciate come nel bacio. All’alba della poesia occidentale, Bernart Marti chiudeva il suo testo evocando il trionfo amoroso dei corpi; a chiusa di Parigi, Angela Giannitrapani riattraversa il tempo di una vita, ricongiunge la passeggiata parigina ai vagabondaggi dell’infanzia viterbese, abbandona lo straniamento della terza persona e consacra anche la scrittura al riconoscimento d’amore: Per me bambina gli anni tra campi e maremma e foglie d’autunno. Etruria, autunno, amore da imprigionare nel pugno.

Marina Giaveri


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Nota biografica

Nata nel 1925, laureata in Lettere all’Università di Roma, Angela Giannitrapani ha insegnato a Reading e a Los Angeles; rientrata in Italia, è stata Professore Ordinario di Letteratura Angloamerica alle Università di Messina e poi di Viterbo. Ha pubblicato quattro raccolte di versi (Professione di poesia, 1968; Poesia come seconda lingua, 1970; Popolo sognante, 1977; Caro umano percorso, 1983) e due volumi di racconti (La giovane laica, 1972, premiato a Venezia; L’ala di Dürer, 1992). La sua ampia produzione critica prende in esame soprattutto autori angloamericani: Wistaria. Studi Faulkneriani, 1963; Destination tomb, 1971 (dedicato a Beckett); Un modo di leggere, 1972; I primi racconti di Dylan Thomas, 1973; Pantheon dell’Ottocento americano, 1979; Woodcraft, 1979; Francis Parkman e la fleur de lis, 1984; Memoria critica, 1995; altri contributi, su scrittori americani e italiani, sono apparsi in rivista. Ha collaborato alla Terza pagina di «Paese Sera» e diretto varie riviste letterarie: «Tempo di Letteratura», «Tabella di marcia», «Malavoglia», «The Blue Guitar». Caratteristica delle sua scrittura poetica, come ha scritto Giovanni Raboni, ospitandone due “partiture” nei Quaderni della Fenice da lui diretti presso Guanda, “è la quantità di emozioni e di informazioni reali convogliata da raffinati meccanismi simbolico-formali nei quali si manifesta la straordinaria sensibilità culturale dell’autrice. Si potrebbe pensare a una poesia ‘cubica’ che abbia per argomento centrale la propria esistenza e per fine la dimostrazione della propria asso-

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luta autonomia. Ma in realtà le cose non stanno così o, meglio, non stanno soltanto così, grazie al mirabile equilibrio che la Giannitrapani riesce a stabilire fra tensioni formali e tensioni materiali, fra intelligenza e passione, fra le delicate o severe o enigmatiche pulsazioni dell’oggetto e il prepotente farsi avanti e testimoniare di sé del soggetto. [Ne risulta] una poesia eccezionalmente prensile e sostanziosa, capace di mutare incessantemente in trascinante ricchezza espressiva la limpida, geometrica precisione della propria struttura.”

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Mio giovane amico

Era stata G.T. a recitarle strofe del codirosso, a dispiegare il ventaglio dei boschi e dell’oceano – sequoie, rocce, cormorani, i fiumi del Sur. E Monterey, l’ex-capitale spagnola, ma Jeffers in mezzo alla natura (G.T.: “Amava il granito, i falchi”). Non l’uomo. Non le città. Neanche i suoi stessi versi. G.T. delirava un po’, recitando, ogni sillaba un ringhio (l’acredine di Jeffers). Ebrea del Mid-West, clan qua e là negli USA dei vari Hoover Roosevelt Truman Eisenhower Kennedy; funzionaria in gamba nonostante troppo sesso e nicotina e alcool; maturatasi alla scuola dei gruppi di protesta, dell’impegno di Joan Baez + Joan Didion, poi Pete Seeger, i ragazzi congolesi e i tamburi della Missa Luba. Vicende così esplosive che l’ora notturna – muto l’hotel “îlot de verdure au coeur de la cité” – suggerisce una nicchia nella narrazione, un glifo per la ribelle. Ma alt. Ma stop. Sarebbe sfida al nucleo. Già gli anni si mescolano, un prima, un prima del prima, un dopo, un dopo del dopo, e deridono chi scrive o vuole scrivere, goffa europea pur sempre adescatrice d’immagini, pigra perditempo pur sempre allieva di Chaucer, sul litorale losangelino compagna della figlia dei ghetti straniata fra schemi della violenza e della non-violenza; a chiusura le ceneri nell’oceano (Hazel: “G. un tutt’uno con le maree e la sabbia”). Quella sabbia calpestavano i loro piedi nudi. Secondo un letterato Prix Médicis il narrare ha l’infantile crudeltà dello sventrar bambole – fuga dal plot per tornarvi 39


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e nuovamente dissociarsene. Fantasioso viavai che livellerebbe l’oggi, lo ieri, l’altroieri in rue Delavigne ove luci minano il buio e diavolerie celesti dei vetri, e lo specchio raddoppia i libri, e da una coscienza sopita esige zelo il remoto nucleo. “Un narratore! Prego, un narratore”, invoca Malte.

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C’è poco da invocare. Non è lui il narratore? Non ha lui le redini? E nell’ultimo paragrafo d’un brano, al culmine della tensione, si blocca, lancia un SOS – tre punti tre linee tre punti? Lei lo sa: di volta in volta annebbiato astuto ambiguo sventra la sua bambola, al presente negandosi, al presente tornando, dentro la memoria e fuori, quel viavai quasi modello del come procedere fra righe statiche e derive di strutture fino alle “isole” blu della dama dell’unicorno, Musée de Cluny; poi, scaglia dopo scaglia, fino a Orange, al teatro romano in cui a recitare è l’attesa: il vuoto. Modello per chi. Per un’esistenza impastata di pagine, scaglia dopo scaglia, modello dopo modello? Per lei forestiera che supplica i globuli rossi di non abbandonarla in un hotel o lungo la Senna? Ha timore del vuoto. Giardini, giardinetti – square Desruelles, square Louvois, square du Vert-Galant, square Chevtchenco – potrebbero risucchiare con gorghi e falasie. A Vienne, meridione francese, un intellettuale del nord scopriva il tempio augusteo sigillato sul nulla: fenditura nella promessa delle Città bianche. Città bianche o città grigie, solari o plumbee, continuava Joseph Roth a illudersi nonostante Weimar e appena più tardi un’Europa in fiamme, la sua agonia? Nessuno degli altri scritti lo mostra illuso. E nasce il dubbio che pur gli ovali blu style-mille-fleurs siano zone di grazia precarie. Sequenze ghiacciate da sortilegio; loro scudo i forti maschi della fauna e le mezzelune e il rosso araldico degli emblemi virili. (È guida nel Musée de Cluny il narratore: muoviamoci piano – per assorbire, capire una quiete così quieta).

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Non lui la sua guida. Durante la rivolta studentesca l968 il numero “Spécial Étudiants” de «Les lettres françaises» usciva tempestivo a chiarire i fatti: la destra (l’Occident) Nanterre-Parigi; Cohn-Bendit e il 22 Mars; la Sorbona e l’Internazionale; al di qua e al di là dei boulevards St-Germain, StMichel, la morsa dei flics. Su un muricciolo nell’ora vespertina lei con il dossier ed ecco alla lettura unirsi un ragazzo sfuggito agli arresti, non alla brutalità dei cui segni andar fiero. “Tra noi i liceali, i lavoratori. Si muovono Sartre Truffaut Chabrol. Truffaut. Godard”. Mai lei avrebbe dimenticato quel dossier, quel vespro, le ferite del quartiere (oltre le ferite di Berkeley e di G.T.). Come G.T. il ragazzo torturava le parole. Infine buio, i primi globi e altra la voce quasi scolpisse ogni sillaba ma ogni sillaba – eretta – lì lì per crollare. Sarebbe crollato il ragazzo. “Ho sonno. Sonno. Su, vieni a casa mia”. Tempo dopo ritrovarsi, già preistoria il numero de «Les lettres françaises». Tacciono increduli, gravi. Oh la Tyche, una coincidenza, un convergere e proprio nella cour d’honneur tra le più serene, il fiabesco di residui dall’Alto Medioevo e dettagli del flamboyant. Dunque, al Cluny, è Tyche la guida.

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Flamboyant addirittura il mattino con la bizzarria delle nuvole in un cielo incandescente, le nuvole velando guglie e rosoni e da specchio a specchio d’acqua, da fontana a fontana, satiri mostri ninfe. Ritrovarsi. Nella cour d’honneur un pozzo, una ghiera: questo l’incipit della loro storia privata – pozzo, ghiera, ombra arborea –; così presso il bel gioiello entrambi sollevare lo sguardo finché gli sguardi s’allacciano e sul momento fermi entrambi, senza respiro. Appena respirano urge un problema. Chi è lui. Chi è lei. Ritrovarsi vuol dire riconoscersi? Il ragazzo delle barricate non è oggi, dopotutto, davvero ragazzo. Nella memoria squame d’un mosaico, non l’identità totale. E l’identità di lei? Voce, capelli, pallore, anch’essi squame. Ha mozzato i capelli? Oggi flamboyant anche il suo io, mattino nuvoloso, cielo bruciante, ninfa, naiade, sirena? Ridono e Tyche li guida dentro il museo, uniti in contemplazione.

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Da oggi in poi uniti, quest’anno e il successivo e l’altro, solo limite la brevità dei periodi e il lavoro, sebbene vicini il Musée de la Chasse dove va lui e Les Archives Nationales dove va lei, così un salto e di nuovo insieme nella strada, non si sciupa tempo, splendido ogni clima – purché lui non cambi umore. Cambia umore. Gheriglio chiuso dentro il suo involucro, o burattinaio e burattino, svenevole pierrot, false lacrime, zuccherata mina vagante, mentre nei giorni del dossier era il guerriero, aveva o voleva avere un ruolo a protezione dell’Alma Mater (per Puvis de Chavannes Bois sacré?), troppo sfrenato se si esclude la notte con il sonno quando i ricci dall’apparenza ruvida lei glieli scioglieva in uno spiumarsi, tenui della volatile tenuità di fiori campestri a una bava d’aria. Metallo invece la zazzeretta nera nera da cui traggono vantaggio gli occhi color miele, agrigno il pierrot nello scompigliarla ma sprofondando in quel miele a suo dire “preso dai favi di bosco” perché “oro lieve, vibrazione d’erba”. Immediatamente il nucleo narrativo sepolto risuscita. Risuscitano luoghi remoti stringendosi al nucleo. Lei trema. Neri capelli e occhi oro lieve: la ragazzina del nucleo. Guarda il pierrot con meraviglia. Lui non sa d’aver acceso un fuoco.

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Però sveglio, in gamba: quello sguardo, quel tremore. Le sta davanti, le gironzola davanti e dietro (un circuirla). Ottobre, l’Alma Mater1 non ha più bisogno di protezione e lui può dedicarsi a chi di protezione ha bisogno: una natura speculativa sebbene elementare come humus o acqua; grazia filtrata da pensiero lungo, lungo, sottile (sotterraneo, sottinteso); centri nervosi di forza ascendente. Ed è sotterranea schermaglia, lui e centri nervosi di forza ascendente suoi, lei incline al gioco meditabonda o no, entrambi moderati, in entrambi pudore da orfani famelici mentre dopo il Musée de la Chasse e Les Archives divorano braciole funghi crudités, leggono, inchiodano un quadro, a tutto volume i tamburi dei Troubadours du Roi Baudouin – la Missa Luba della Los Angeles di G.T. –, né è un caso che il pierrot si chiami Pierre e ignaro riavvii con varianti un duello fra lei e il padre, Pietro: nelle strade d’anteguerra non frequentate le loro bici ostruirsi, scontrarsi, per l’uomo una stessa velata forma di protezione. Poi subentravano letture e pellegrinaggi dai Cristi dei tabernacoli e dalla Torraccia agli affreschi di Lorenzo – minime le dosi e sorridendo, comunque pur sempre lavorio di bulino. O innesto. Ma alla fine solo fase monca. In quanto a Pierre nessun bulino o ceppaie magliuoli gettoni poiché è all’oscuro della storia d’una crescita. D’altronde non ha valore che il presente, culmine, sì, d’una crescita, ma cresciamo tutti giorno per giorno e come negar la provvisorietà del culmine. Riguardo a vecchie ombre non più la talea è una talea, la barbatella una barbatella, superata dunque la fase monca. Superata? Con il rapporto padre-figlia a rodere una scrittura, cioè talmente dentro lei figlia che il corpo lo assorbe bloccando ogni accesso? Il nucleo narrativo plagia l’esistenza della narratrice o è la narratrice a specchiarsi nel nucleo, e il corpo sfrutta la confusione, geloso delle parole ormai nervi e sangue, parole ormai sue. Dar loro l’addio, 45


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rinunciare ai semi alati, all’ash-key? In una poesia Zbigniew Herbert darà l’addio alla penna all’inchiostro al lume.

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Nello smemorarsi e rimemorarsi di una vita dei suoi libri delle sua città visibili e invisibili degli incontri e delle origini cosmicamente intrecciate in un’estate parigina del millenovecentonovantadue riflesso specchio soglia e nello smarrirsi ora su ciglio della notte è la storia di questo piccolo e prezioso libro di Angela Giannitrapani fotocomposto nel carattere su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni e stampato dalla tipografia SAGI di Reggio Emilia per conto di Diabasis nel novembre dell’anno duemilanove


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