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Marco Aime insegna Antropologia culturale all’Università di Genova. Ha condotto ricerche sulle Alpi e in Africa occidentale. Ferruccio Andolfi, docente di Filosofia della storia presso l’Università di Parma, dirige la rivista «La Società degli individui». Erri De Luca, scrittore, alpinista, collabora a diversi giornali, scrive anche sulla montagna. Rita Messori è docente di Estetica al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Parma. Massimo Quaini, geografo umanista e storico della cartografia nell’Ateneo genovese, è consulente per la pianificazione territoriale. Davide Sapienza è scrittore, traduttore, giornalista e viaggiatore. Giuliano Scabia è drammaturgo e romanziere, dal 1973 è docente di drammaturgia al DAMS di Bologna. Italo Testa, saggista e poeta, è docente di Storia della filosofia politica all’Università di Parma.
CAMMINANDO. QUADERNI DI PENSIERI VIANDANTI
È per avere visioni che andiamo. Se vedere possiamo dove il sentiero finisce, o comincia, lontano. Giuliano Scabia Il deserto comincia qui, dove sono adesso. D’istinto mi dirigo verso le dune. La marcia del condottiero intrecciata con quella dell’esploratore. Un’azione cognitiva e un gesto politico, impossibili da dividere, un nucleo potente che nemmeno il cristianesimo seppe intaccare e ancora oggi guida, maestoso e solenne come un barrocciaio d’antico lignaggio, la nostra percezione del mondo. Eraldo Affinati Per me il viaggio comincia quando si va a piedi. Il volo aereo, il treno, la nave non sono ancora viaggio, ma spostamenti del corpo dentro un imballaggio. Viaggio è quando partono i piedi all’aria aperta. Viaggio è il cammino del pellegrino verso il suo santuario. Viaggio è la migrazione di miriadi di esseri umani da un continente all’altro in cerca di uno scampo o di migliore sorte. A piedi ci si inoltra nel paesaggio altrui alla lentezza giusta.
PENSIERI VIANDANTI L’ETICA DEL CAMMINARE
Il camminare non è solo un’attività fisica dalla valenza ricreativa ed estetica. Il viandante è animato pure da una tensione etica. Misurando il mondo con i suoi passi, chi cammina si inscrive nella dimora terrestre e disegna lo spazio dell’incontro con l’altro. Intraprendere un cammino significa anche ripercorrere i passi delle generazioni passate e così stringere un’alleanza, un patto di solidarietà che attraversa il tempo. E talvolta l’etica del camminare può essere scandita dal passo del testimone, di chi, prendendo la via, intende misurare i limiti della condizione umana, facendone esperienza nel proprio corpo e avviandosi verso l’estremo. Muovendosi in questa scia, la seconda edizione di Pensieri viandanti coinvolge scrittori, poeti, filosofi, antropologi, geografi, prestando particolare interesse al modo in cui la letteratura e la filosofia, dando conto dell’esperienza del cammino, possono esprimere un diverso rapporto etico con il mondo.
2008 A cura di Italo Testa
Erri De Luca
€ 10,00
DIABASIS
Eraldo Affinati, scrittore e giornalista, insegna italiano ai minorenni non accompagnati della Città dei Ragazzi.
L’ETICA DEL CAMMINARE
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A cura di Italo Testa
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Nascendo dal seminario Pensieri viandanti. L’etica del camminare e lo sguardo del testimone, Berceto, 13-14 giugno 2008, che si è snodato variamente attraverso viaggi di avvicinamento in treno, conferenze, camminate, lezioni all’aperto e passeggiate filosofiche, questo libro intende mantenerne il carattere aperto e dinamico, offrendosi come vademecum per camminatori e viaggiatori consapevoli.
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La pubblicazione è stata realizzata dalla Provincia di Parma con il sostegno della Fondazione Cariparma in collaborazione con l’Università degli Studi di Parma
Con la collaborazione redazionale di Sara Piovani Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN) Illustrazioni Riccardo Fattori ISBN 978-88-8103-616-5 © 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 info@diabasis.it www.diabasis.it
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Pensieri viandanti II L’etica del camminare 2008
Con interventi di Eraldo Affinati, Erri De Luca, Giuliano Scabia, Ferruccio Andolfi, Rita Messori, Marco Aime, Massimo Quaini, Davide Sapienza A cura di Italo Testa
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Pensieri viandanti II L’etica del camminare A cura di Italo Testa
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Presentazione, Vincenzo Bernazzoli Introduzione, Italo Testa I. SGUARDI
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Il deserto, Eraldo Affinati
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Le stelle tra i piedi, Erri De Luca
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Canto del guardare lontano, Giuliano Scabia II. PASSI
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La passeggiata del filosofo, Ferruccio Andolfi
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L’identità in cammino, Rita Messori III. VIAGGI
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Sguardi incrociati, Marco Aime
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Viaggio-turismo-paesaggio, Massimo Quaini
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Il futuro della natura, Davide Sapienza
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Gli autori
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Per il secondo anno consecutivo appassionati da tutta Italia, insieme a scrittori, filosofi, sociologi e geografi, si sono dati appuntamento sull’Appennino parmense a PassoParola, il primo festival nazionale del camminare. Ideato dalla Provincia di Parma, PassoParola è nato per rendere omaggio alla cultura del cammino, per celebrarla ed esplorarla in tutti i suoi risvolti. Un modo per promuovere un approccio diverso alla realtà che ci circonda, più rispettoso e più empatico, perché camminando ci muoviamo, andiamo, viaggiamo senza imporre i nostri tempi e i nostri spazi, ma al contrario riscoprendo quelli dettati dalla natura. Un approccio diverso anche verso noi stessi, quindi, perché chi è camminatore sa che non c’è niente di più vicino al camminare del pensare. Per questo il festival non poteva non prevedere un momento di approfondimento, il seminario di studi Pensieri viandanti, che alla sua seconda edizione ha indagato il modo in cui la letteratura, dando conto dell’esperienza del cammino, può dare forma a un’etica della testimonianza. Questo volume raccoglie gli interventi di coloro che vi hanno partecipato, studiosi e pensatori di fama, a cui va il nostro ringraziamento per aver voluto condividere con noi una parte del loro cammino. Vincenzo Bernazzoli Presidente della Provincia di Parma
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Introduzione Sino alla fine dello sguardo Italo Testa
Il camminare non è solo un’attività fisica dalla valenza ricreativa ed estetica. Il viandante è animato pure da una tensione etica. Misurando il mondo con i suoi passi, chi cammina si inscrive nella dimora terrestre e disegna lo spazio dell’incontro con l’altro. Intraprendere un cammino significa anche ripercorrere i passi delle generazioni passate e così stringere un’alleanza, un patto di solidarietà che attraversa il tempo. E talvolta l’etica del camminare può essere scandita dal passo del testimone, di chi, prendendo la via, intende misurare i limiti della condizione umana, facendone esperienza nel proprio corpo e avviandosi verso l’estremo. Muovendosi in questa scia, la seconda edizione di Pensieri viandanti coinvolge scrittori, poeti, filosofi, antropologi, geografi, prestando particolare interesse al modo in cui la letteratura e la filosofia, dando conto dell’esperienza del cammino, possono esprimere un diverso rapporto etico con il mondo. Nascendo da un seminario (Pensieri viandanti. L’etica del camminare e lo sguardo del testimone, Berceto, 13-14 giugno 2008), che si è snodato variamente attraverso viaggi di avvicinamento in treno, conferenze, camminate, lezioni all’aperto e passeggiate filosofiche, questo libro intende mantenere il carattere aperto e dinamico, offrendosi come un vademecum per i camminatori e i viaggiatori consapevoli. In Sguardi, la sezione che apre la raccolta, protagonista è la narrazione e la figurazione poetica del camminare. Eraldo Affinati e Erri de Luca ci accompagnano nei deserti dell’Africa o nei percorsi di avvicinamento alle vette himalaiane; il viaggio fantastico del cavallo e del cavaliere di Giuliano Scabia illustrato da Riccardo
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Fattori ci porta al passo di Pradarena, tra monti appennini favolosi. È qui un’etica dello sguardo a prendere forma, ove il viaggio, nella materialità nuda del contatto fisico con i luoghi, si rivela un’azione cognitiva che affina le nostre facoltà percettive, la nostra sensibilità, la nostra capacità di visione all’indietro, verso il passato di cui ci facciamo carico attraversando gli spazi, e in avanti, aprendoci ad una lontananza ignota, tragica e meravigliosa, perché È per avere visioni che andiamo. Se vedere possiamo dove il sentier finisce o comincia, lontano.
Nella sezione Passi la passeggiata filosofica e l’erranza, con le meditazioni di Ferruccio Andolfi e Rita Messori, diventano l’occasione per ridefinire un’etica del sé, per riappropriarsi della propria individualità in forme che ne rivendichino l’eccedenza, l’inoperosità, l’irriducibilità agli input della produzione sociale, senza peraltro cedere alle sirene dell’origine, originaria, ma lasciandosi piuttosto istruire dalla metafora del cammino nel ripensare il carattere itinerrante di un’identità che voglia essere percorso incessante. Nella sezione Viaggi sono invece le forme contemporanee del viaggio turistico e del rapporto con la natura ad essere indagate criticamente da Marco Aime, Massimo Quaini e Davide Sapienza nella prospettiva consapevole e avvertita dei camminatori, dei grandi viaggiatori, e alla luce di una possibile etica dell’incontro. Esplorare il triangolo viaggio, turismo, paesaggio, per come esso si definisce nella storia del viaggiare e nelle sue forme attuali, permette di individuare lo snodo in cui l’incontro con l’estraneo, che si manifesta, pur paradossalmente, anche nelle forme più mercificate di turismo, può trasformarsi in relazione etica con l’altro: un altro che non è solo l’essere umano che di volta in volta incontriamo senza esser capaci di stabilire un vero rapporto, ma pure l’altro della natura, questo impensato cui le grandi sfide del nostro tempo ci chiedono
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di iniziare a guardare con una nuova responsabilità, per un’urgenza di estendere il patto etico al di là della nostra specie. A queste e ad altre esplorazioni è dedicato Pensieri viandanti. Tracciati per cui di volta in volta il camminare si rivela pratica di una scrittura dell’esperienza, incursione poetica e vagante nella realtà, liberazione dalla boria dei dotti, dimenticanza di sé, rifigurazione etica del nostro rapporto con ciò che ci viene incontro. Non è il caso di anticipare tutti i percorsi possibili, le molte piste che saranno seguite in questo volume, anche perché vale la pena di ripetere che nel camminare, come nel pensare, ciò che più vale è il camminare stesso, e gli incontri più importanti sono proprio quelli che vanno oltre la nostra capacità di previsione, portando alla luce un impensato che può cambiare il nostro modo di stare e di andare, di guardare e accogliere l’esperienza mutevole del mondo. Perché noi siamo forse sempre come la “gente in attesa” di cui ci dice il cavaliere, cantando Chi è il conforto? Chi è l’andare? O gente in attesa: lontano arriva il guardare: ma noi sino alla fine dello sguardo sapremo un giorno arrivare?
In conclusione desidero ringraziare coloro che hanno reso possibile tale iniziativa. La Provincia di Parma, senza il cui sostegno nulla di tutto ciò avrebbe potuto realizzarsi. Il Dipartimento di filosofia, che ha patrocinato il seminario. Gli autori, che hanno dato vita all’incontro, affrontandolo con disponibilità intellettuale e spirito d’avventura. Sara Piovani, che ha coordinato le giornate del seminario e collaborato all’ideazione e alla progettazione dell’evento. E naturalmente i camminatori, gli studenti e gli studiosi che si sono iscritti a Pensieri viandanti e vi hanno preso parte con entusiasmo, convenendo a Berceto da tanti luoghi diversi. Castell’Arquato, 15 marzo 2009
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Le stelle tra i piedi Erri De Luca
Per me il viaggio comincia quando si va a piedi. Il volo aereo, il treno, la nave non sono ancora viaggio, ma spostamenti del corpo dentro un imballaggio. Viaggio è quando partono i piedi all’aria aperta. Viaggio è il cammino del pellegrino verso il suo santuario. Viaggio è la migrazione di miriadi di esseri umani da un continente all’altro in cerca di una scampo o di migliore sorte. A piedi ci si inoltra nel paesaggio altrui alla lentezza giusta. E conta anche il valore della stanchezza per gustare un cibo locale, un sorriso del posto. Sono stato in Nepal, casa delle più alte cime della terra. Per un alpinista è una visita dovuta alle montagne leggendarie. Il lungo volo aereo è stata premessa, non il viaggio. Quello comincia dove le strade smettono e iniziano i sentieri. Lukla ha un piccolo aeroporto con una pista corta e in salita. Il bimotore non pressurizzato ci arriva passando in un corridoio di montagne e per atterrare, anziché scendere, sale. Si atterra dal basso in alto, è un buon avviso di una terra ripida e senza ruote. Da lì in poi non esistono auto, moto, bici. Da Lukla in poi contano solo i piedi. Da lì si va nella valle del Kumbu, residenza delle cime giganti del pianeta. Prima di vederle ci vogliono giorni di cammino e di cambio di quota. Il sentiero è uno solo, traversa villaggi e perde ossigeno, sale e fa lentamente scomparire il colore verde. Per arrivare a quelle montagne è giusto andare a piedi, non solo per adattare il corpo alla quota, ma per rispetto della loro grandezza. A piedi è chiedere permesso. Per ora è tecnicamente impossibile, ma presto si potrà arrivare in cima all’Everest con l’eli-
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cottero. Salteranno lassù evitando i crepacci, il vento, i corpi congelati di quelli che non sono riusciti a tornare e stanno ancora lì. Il progresso contiene sfizi impensabili a quelli venuti prima. A me fa piacere, ma preferisco avvicinarmi a piedi alle montagne. Il respiro si abitua ai loro gradini, il sangue si ispessisce, il sonno è più leggero, il corpo brucia le sue riserve per compensazione. Ho percorso il sentiero che da Lukla porta ai campi base dell’Everest e del Lhotse, sapendo che su quei centimetri di larghezza erano passati i più grandi alpinisti della storia, in fondo recente, dell’alpinismo. Uomini e donne carichi di rischi affrontati e di esperienze si sono spostati con ogni mezzo per essere finalmente lì, a piedi, con lo zaino. Per alcuni di loro non era destino il ritorno. Andavano a raggiungere le più ostili condizioni di natura, a tentare una linea di salita tra tempeste e valanghe per toccare un cocuzzolo a quota di aerei di linea. Un anno fa, affacciato a un finestrino verso l’alba ho visto alla mia altezza la sagoma imponente del Dhaulagiri (8140 m) che gli amici Nives Meroi e Romano Benet sarebbero riusciti a scalare senza uso di bombole di ossigeno. Eravamo seduti vicino. «Lì?» ho chiesto. Nives ha sorriso, Romano ha fatto sì con la testa. Andavamo lì. Ci saremmo arrivati con otto giorni di marcia e di accampamenti. Una montagna la gusti da lontano. Più ti avvicini, meno la vedi, perché ti sovrastano i suoi avancorpi. A un’isola più ti accosti, meglio la distingui. Una montagna no e quando ci sei addosso non la vedi più. Si scala su una faccia verticale e la testa può staccarsi non più di una trentina di centimetri dalla superficie. È la visuale di chi sta sdraiato a pancia in giù su un campo, basta un sasso a chiudere la vista. In parete puoi vedere bene solo quello che hai alle spalle o in basso. Nives mi ha raccontato una sua visione. Scalava di notte a lume della lampada frontale. In Himalaia spesso ci si muove col buio, partendo prima dell’alba dalla tenda.
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Nives si trovava già sopra i settemila metri, ha guardato in basso e le è sembrato di vedere le luci di una città. «E quelle? Da dove spuntano? Non c’è nessun centro abitato là sotto». Ci ha messo un po’ di fiato e di sbirciate per accorgersi che erano stelle, più basse di lei sull’orizzonte. «Stelle! Avevo sotto i piedi stelle a grappoli». Ci sono punti di felicità in una scalata che non hanno niente a che vedere con la cima. Felicità improvvise: fanno scaturire dal corpo un’energia pulita in risposta alla bellezza. Marina Zvetaeva, poeta russa, ha scritto: «solo in cima all’entusiasmo l’essere umano vede il mondo esattamente». A Nives è arrivato quel colpo di entusiasmo quando ha visto le stelle in mezzo ai piedi. E la salita è stata più leggera. Non sono speciali gli alpinisti, ma il loro ambiente sì. Non solo perché il vuoto fa il vuoto, e non c’è gente intorno, ma perché le alte quote sono un posto in cui si è di passaggio, senza diritto di residenza. A quelle altezze non spunta desiderio di possedere, nessun istinto di proprietà dove comincia la zona della sopravvivenza. Salgo alle montagne per approfondire la mia estraneità, ribadire che sono precario e di passaggio. Dentro questa evidenza fisica mi procuro felicità improvvise come quella di Nives coi piedi tra le stelle.
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. II . PASSI
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La passeggiata del filosofo Ferruccio Andolfi
Una premessa quasi autobiografica Il titolo volutamente ambiguo di questa conversazione itinerante lascia indeterminato chi sia il passeggiatore. I filosofi prima di chiudersi nelle biblioteche hanno amato il movimento in spazi aperti. Socrate andava a zonzo per la città interpellando i suoi concittadini sulle più diverse questioni e mettendone in crisi le certezze – forse un po’ troppo sicuro di sé per apprendere da loro. Epicuro raccoglieva i suoi discepoli in un giardino, mentre i peripatetici erano detti così perché discutevano passeggiando. Forse per noi però sono più interessanti i casi di filosofi moderni, come Rousseau e Nietzsche, che si abbandonano a fantasticherie solitarie o concepiscono aforismi in consapevole opposizione ad altri stili ‘sistematici’ del filosofare e a una «passione sociale» divenuta dominante, che distoglie dalla solitudine e spinge gli uomini ad aggregarsi in grandi città e a deputare luoghi appositi (Università, biblioteche) alla ricerca. La tentazione a cui non ho saputo però resistere nel formulare il titolo è di propormi io stesso come filosofo passeggiatore. Quindi sovrapporrò le mie ragioni di filosofare passeggiando a quelle dei miei illustri predecessori. Forse così riusciremo anche a intravedere ragioni nuove, cioè legate a trasformazioni recenti – non esclusivamente mie ma per così dire culturali – per ripristinare quella modalità piuttosto trascurata del filosofare. Leggiamo, per cominciare, un brano di Rousseau: Che cosa ho ancora da temere da loro ora che tutto è compiuto? Non avendo più il potere di peggiorare il mio stato non possono più in-
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cutermi timore… Da allora mi sono rassegnato senza riserva e ho ritrovato la pace. Dopo che mi hanno mosso a sdegno, la loro compagnia sarebbe per me insipida, persino gravosa, e io sono assai più felice nella mia solitudine che se vivessi con loro. Solo per il resto della vita, poiché non trovo consolazione, speranza e pace che in me, non devo né voglio occuparmi d’altri che di me. Dedichiamoci interamente alla dolcezza di conversare con la mia anima, giacché è la sola cosa che gli uomini non possono togliermi. Io scrivo le mie Fantasticherie soltanto per me… La loro lettura mi ricorderà la dolcezza che provo a scriverle… A dispetto degli uomini, saprò gustare ancora la gioia della società, e vivrò decrepito con me in un’altra età come se vivessi con un amico meno vecchio1.
L’impulso a passeggiare fantasticando qui è dato da una cocente delusione per quanto concerne i rapporti sociali e il riconoscimento atteso e negato. Questo induce a un elogio della solitudine e a chiudersi in un’autoanalisi. La pace conclamata è ancora piena di rancore. L’unica socialità che si riesce a immaginare è quella di sé con sé nel ricordo. Il brano suggerisce che ci si rifugia nella campagna e nella vita solitaria per sfuggire alla infelicità, o come Rousseau aggiunge con accenti un po’ paranoici, alla persecuzione degli uomini. Anche a me accade di cercare il rifugio in campagna – per me l’altopiano di Leonessa, nell’alta Sabina, dove possiedo una casa – in uno scenario familiare e, almeno in alcune stagioni, ristoratore per la purezza e la limpidità dell’aria, quando voglio sfuggire a tensioni troppo lungamente accumulatesi di varia origine. L’arena politica non suscita grossi entusiasmi, i luoghi di lavoro sono competitivi, le relazioni private difficili. Vivere per un tratto – non riuscirei a staccarmi dalla città troppo a lungo e non solo per impegni e obblighi – a contatto con paesaggi rasserenanti è un farmacon. Che non agisce però da solo ma crea semplicemente le condizioni perché i problemi privati e relazionali da cui si è assillati possano essere reinquadrati con maggiore serenità e un giu-
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sto distanziamento. Non di rado da queste meditazioni non derivano soltanto soluzioni private a propri problemi (una migliore arte di vivere) ma anche approfondimenti teorici che a partire da esperienze limitate e di corto raggio si aprono verso visioni del mondo complessive. Mondo selvaggio e sentirsi a casa L’esperienza di camminare tra i prati e tra i boschi può essere compiuta sulla base di motivazioni diverse e persino opposte. Tutte legittime, corrispondenti di volta in volta a bisogni profondi della nostra vita, in una certa sua stagione. Possiamo voler stimolare il nostro sentimento vitale con l’euforia che deriva dalla scoperta dell’ignoto oppure coltivare un più quieto sentimento del ritorno a casa tra paesaggi familiari e più contenuti. L’avventuroso Thoreau ci ha lasciato una bella descrizione del primo di questi stati d’animo in Walking (1851): Le nostre spedizioni non sono altro che gite, e ci ritroviamo, la sera, accanto al vecchio focolare da cui siamo partiti. Per metà del cammino non facciamo che ritornare sui nostri passi. Dovremmo avanzare, anche sul percorso più breve, con imperituro spirito d’avventura, come se non dovessimo mai far ritorno. L’Ovest di cui parlo è solo un altro modo di definire la natura selvaggia; e […] dalla natura selvaggia dipende la sopravvivenza del mondo. […] La vita è stato selvaggio. Quel che è più vivo è più selvaggio, e quel che non è ancora soggetto all’uomo, lo rinvigorisce. […] La mia esistenza dipende in gran parte dalle paludi che circondano la città, e non dai giardini ben coltivati nel villaggio. […] Il mio stato d’animo infallibilmente si innalza in misura proporzionale all’essenzialità del paesaggio. Datemi l’oceano, il deserto, la natura incontaminata!2
In qualche rara occasione, in viaggi lontani della mia giovinezza o prima maturità ho sperimentato qualcosa del genere. Ma in generale la natura che mi è cara è più mite e accogliente. Non sono alla ricerca dello «stato selvaggio», di quell’assoluta libertà
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che Thoreau cercava nella natura in opposizione alla cultura e alla società. Mi manca lo spirito del camminatore e dell’esploratore che non sa se tornerà sui suoi passi. Forse anche perché so che queste peregrinazioni infinite, che a metà Ottocento negli spazi illimitati e poco popolati dell’Ovest americano era ancora possibile concepire, si vanno riducendo e sono prossime a diventare le proposte più esclusive delle agenzie di viaggio. Thoreau poteva ancora vagabondare venti e più miglia senza incontrare alcuna abitazione e rallegrarsi per quanto poco spazio occupassero nel paesaggio l’uomo coi suoi traffici, e spregiare i giardini coltivati facendo dipendere la sua vita dalle «paludi che circondano la città», ma vedeva già con preoccupazione i recinti (le staccionate) invadere i luoghi fino ad allora occupati dai boschi. Ce la sentiremmo ancora di dire che «la sopravvivenza del mondo dipende dalla natura selvaggia»? Saremmo già paghi di avere città attorniate e invase da spazi verdi. I sentimenti sublimi, l’elevazione dell’animo trovano sempre meno appigli nella essenzialità del paesaggio. E se dovessimo far dipendere la nostra salute dai grandi spazi che ci circondano, saremmo tutti irrimediabilmente malati. Ci sono temperamenti inclini alla solitudine ed altri più socievoli, ciascuno organizza un proprio equilibrio tra questi momenti, ma certo perdersi into the wild è diventata un’impresa vana. Si tratta allora di capire quali funzioni assolveva il vagabondaggio nella natura incontaminata e se nelle nuove condizioni di civiltà è possibile ancora trovare qualche forma di refrigerio e di stimolo vitale in quella immersione attiva nella natura, che suppone uno sforzo preliminare per raggiungerla prima ancora di poterne godere. La natura è un luogo di bellezza e possiamo ben dire che il primo movente che ci spinge a cercarla è la soddisfazione del nostro senso estetico. Anche qui è difficile prescindere dalla quantità di brutture del nostro mondo artificiale. Ogni volta che torniamo in
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un luogo che ci è caro troviamo che l’inquinamento visivo è cresciuto: non solo si è modificato il rapporto tra spazi costruiti e no, ma soprattutto le costruzioni non sono concepite in armonia con l’ambiente che le contiene. Dove questa armonizzazione si realizza, pensate alla strada che stiamo calpestando, non c’è nulla da rimpiangere. Ma è un fatto raro, per lo più siamo costretti a ritirarci altrove, più lontano, e un senso di impotenza ci impedisce di batterci per evitare che si producano questi peccati estetici. Una parte sempre più significativa dell’agire politico è destinata in futuro a passare di qui. C’è un paradosso dunque: si richiede un impegno attivo per proteggere la natura dalle violazioni a cui è soggetta e consentirle così di consolarci dalle infelicità che provengono dal mondo civile e dalla nostra partecipazione ad esso. La fuga dal mondo dei dotti Il cammino nel libero spazio della natura, acquista per un filosofo, ma presumo per chiunque nella misura in cui partecipa della sua condizione, un valore liberatorio in un senso particolare. Rappresenta una fuga dal gravame della cultura, di cui per altro verso egli non può fare a meno. Un filosofo camminatore particolarmente critico rispetto alle ristrettezze del mondo dei dotti è stato Nietzsche, che nello Zarathustra rimpiange di esser stato seduto troppo a lungo alla loro mensa. Mentre giacevo nel sonno, una pecora trovò di che pascersi alla corona d’edera che mi cinge il capo, ne mangiò, e disse: «ecco, Zarathustra non è più un dotto». Giacché questa è la verità: io sono uscito dalla casa dei dotti: e per giunta ho sbattuto la porta alle mie spalle. Troppo a lungo la mia anima sedette affamata alla loro mensa; io non sono addestrato alla conoscenza al pari di loro, per cui conoscere è come schiacciare le noci. Io amo la libertà e l’aria sulla terra fresca; preferisco dormire sulle vostre pelli di bue, che sulle vostre dignità e rispettabilità.
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Io sono troppo ardente e riarso dai miei stessi pensieri: spesso mi si mozza il fiato. E allora bisogna che fugga all’aperto, via dal chiuso delle stanze polverose. Loro invece siedono freddi nell’ombra fredda… aspettano e guardano a bocca spalancata pensieri, che altri hanno pensato. Se fanno i saggi, le loro piccole sentenze e verità mi raggelano: spesso alla loro saggezza è mischiato un odore, che sembra venga dalla palude. Abili e con dita versatili: che mai può la mia semplicità a petto della loro complicatezza! Quelle dita sanno infilar l’ago, intrecciare i fili e tessere la trama: e così tessono le brache dello spirito! Noi siamo estranei a vicenda… Che uno cammini sulle loro teste non vogliono neppure sentirlo dire… ciononostante io cammino coi miei pensieri al di sopra delle loro teste, e perfino volendo camminare sui miei errori, mi troverei pur sempre al di sopra di loro e delle loro teste3.
La vita e il movimento all’aria aperta contro la clausura in ambienti chiusi ed espressamente dedicati alla ricerca – il mondo dei dotti, questo è il senso di questa pagina di Nietzsche, una tra tante, rivolta a dissociarsi dal proprio stesso mondo di provenienza. La situazione è indubbiamente paradossale: il filosofo ha, oggi più di un tempo, obblighi di studio, lettura, apprendimento, che lo vincolano a spazi chiusi, a stare seduto al tavolo di lavoro, magari con un computer acceso e la schiena curva. Tuttavia è proprio questo stile di vita a distoglierlo dal libero pensiero creativo, dalle verità semplici, a imbracare lo spirito entro griglie offerte dal pensiero degli altri. Anche il successo nella vita, o almeno nella carriera, sembra dipendere da questo disciplinamento, dalla produzione di opere che siano ostensibili e accette alla critica dei propri pari. Molta produzione scientifica nasce da questa ambizione di acquistare una certa rispettabilità e non sarà degna di alcun ricordo. Tuttavia è proprio questa la piega che la filosofia sta prendendo ai nostri giorni con la pretesa, non nuova a dire il vero ma solo rinnovata con maggior forza, di costituirsi come scienza. Bando allora a ogni riflessione che non si sottoponga al va-
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glio della logica, che non sia riportabile a idee chiare e distinte, a problemi ben formulati, a ipotesi confutabili. Prima di cominciare a pensare s’impone a chi voglia fare il mestiere del filosofo – un mestiere appunto con le sue regole e corporazioni – di leggere tutto ciò che c’è da leggere (ma quanto?), di familiarizzarsi con discipline molto tecniche, di cui nessun che non sia addetto ai lavori verrà mai a capo: filosofia di questo e filosofia di quest’altro, mai filosofia tout court. Tutto il resto è giudicato chiacchiera. E non la scampano neppure i grandi: il povero Hegel con la sua dialettica confusa è diventato il capro espiatorio dei nuovi filosofi-scienziati. Tuttavia lo spirito resiste all’imbracamento. La ricerca di saggezza per la vita si prende la sua rivincita. A volte lo fa nella forma dubbia dell’offerta di aiuto – la «consulenza filosofica» – che distrae dall’uomo interiore. A volte prende la strada di una meditazione che trascende gli apprendimenti, pur necessari, per puntare diritto a cose come il senso dello stare al mondo, la cura di sé, l’amore per gli altri, le responsabilità verso il mondo – i grandi temi della filosofia morale e politica, che non coprono l’intero campo della ricerca filosofica, ma la distolgono dal narcisismo della domanda epistemologica su come si apprende e sulla natura della verità. Di fronte all’aggressività della filosofia dei dotti – la pesantezza della ricerca storica e filologica, l’imperativo di restare nell’ambito delle sole domande formulabili correttamente – lo spirito si riprende la propria libertà a contatto con la natura, anche se difficilmente riesce a liberarsi dal risentimento, che abbiamo visto affiorare nella pagina di Nietzsche ma anche in quella di Rousseau, rivolto d’altronde non solo contro gli altri ma anche contro il proprio nemico interno, il «dotto» che anche i filosofi più trasgressivi non hanno smesso di essere. Il brano di Nietzsche si conclude con un’affermazione di superiorità e di disuguaglianza: «perché gli uomini non sono uguali:
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così parla la giustizia». Eppure la pratica della filosofia che Nietzsche raccomanda produce una comunicazione più facile e allargata. Non per nulla le opere di Nietzsche sono così popolari. Sul terreno filosofico di elezione, che è quello della meditazione su di sé e sui fenomeni morali, tutti possiedono competenza e sono interlocutori possibili. Chi il filosofo lo fa per professione deve certo farsi carico di un fardello storico e teorico assai complicato, ma nella misura in cui ritorna al nucleo della sua missione – Beruf vuol dire l’una e l’altra cosa, professione ma anche missione –, se non vuole fallire, gli si impone un immane lavoro di semplificazione, a cui forse gli altri scienziati non sono tenuti. La dimenticanza di sé Tuttavia il risentimento uccide ed occorre liberarsene. Camminare nella natura cura dall’infelicità e anche dal risentimento. Per lo meno in rari attimi di beatitudine il viandante dimentica se stesso e le proprie lotte, la necessità di farsi valere in un mondo ostile. In un brano che ricorda l’idea nietzscheana del meriggio, Robert Walser ha espresso proprio questo tema della dimenticanza di sé che la visione della natura favorisce: Ecco, l’anima del mondo si è aperta, e ogni e qualsiasi cattiveria, sofferenza, dolore è in procinto di scomparire: così fantasticavo. Il quadro meraviglioso del presente assurse subito a sensazione dominante. I giorni del futuro impallidivano, il passato dileguava. Nell’incendio di quell’attimo arsi anch’io. Da ogni direzione avanzò luminoso, con splendido gesto beatificante, tutto ciò che è grande e buono. In mezzo alla bella contrada, io pensavo solo ad essa: qualunque altro pensiero veniva meno. […] Io non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più che mai me stesso4.
La meditazione silenziosa durante il cammino ha una prima funzione, che è quella di portarci lontano dalle preoccupazioni quotidiane, dalla sfera dell’utile e del lavoro. A questo sembra alludere Thoreau.
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Vorrei, nei miei vagabondaggi pomeridiani, – scriveva già Thoreau – dimenticare le occupazioni del mattino e gli obblighi sociali. Ma talvolta non è facile liberarsi delle cose del villaggio. Il pensiero di qualche lavoro si insinua nella mente e io non sono più dove si trova il mio corpo, sono al di fuori di me. Perché rimanere nei boschi se continuo a pensare a qualcosa di estraneo a quel che mi circonda? Diffido di me stesso, e non posso non rabbrividire quando mi accorgo di essere sino a tal punto coinvolto nelle faccende quotidiane, per utili che siano, – e talvolta questo accade5.
Lo scopo è quello di concentrarsi nell’io. Anche le passeggiate di Nietzsche sembrano avere quest’obiettivo principale. Egli giunge anzi a rivendicare il diritto a non dimenticarsi, in nome della natura, di noi stessi. Nell’aforisma 327 de Il viandante e la sua ombra, intitolato «La natura dimenticata», scrive: «Noi parliamo di natura e intanto ci dimentichiamo di noi stessi: noi stessi siamo natuta, quand même –. Per conseguenza la natura è qualcosa di affatto diverso da quello che sentiamo nel farne il nome». Tuttavia questa concentrazione su di sé non rappresenta lo stadio più alto dell’elevazione. A questo livello può darsi persino che i problemi si aggroviglino e i risentimenti si esaltino. La capacità di immergersi nella contemplazione della bellezza e di distogliersi dalla stessa dimensione temporale, da ricordi e aspettative, per riempire la mente dello spettacolo del presente porta oltre l’io e le sue cure. Forse permetterà, dopo, di risolvere meglio anche le tensioni che lo riguardano. Leopardi ne La vita solitaria ci ha dato una bella rappresentazione di quest’io che «sedendo immoto», al margine di un lago, tra gli alberi, circondato nella quiete immota di un sole sfolgorante, quasi oblia se stesso e il mondo o piuttosto li confonde. Talor m’assido in solitaria parte Sovra un rialto, al margine di un lago Di taciturne piante incoronato Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
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la sua tranquilla imago il Sol dipinge, Ed erba o foglia non si crolla al vento, E non onda incresparsi, e non cicala Strider, né batter penna augello in ramo, Né farfalla ronzar, né voce o moto Da presso né da lunge odi né vedi. Tien quelle rive altissima quiete; Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio Sedendo immoto; e già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, né spirto o senso Più le commuova, e lor quiete antica Co’ silenzi del loco si confonda.
Qui viene a proposito una riflessione sullo stile della conoscenza facilitata dal vagabondare, o meglio da questo vagabondare/sostare. Sebbene l’idea del ‘discorrere’ e del ‘discorso’ sia imparentata con quella di un passaggio graduale da un tratto a un altro di un ragionamento, e dunque da una premessa a una conclusione, il procedere del camminatore apre piuttosto la strada a intuizioni, quando non a folgorazioni, che ci rendono chiaro ed evidente ciò che prima era aggrovigliato e contorto. Non siamo più noi a possedere le idee o a giostrare con esse ma sono piuttosto esse che ci prendono. Il dolce far niente Rispetto ai ritmi stressati della nostra vita produttiva – di lavoratori ma anche di studenti – la decisione di destinare una quota del nostro tempo a un’attività così poco produttiva come quella del camminare e sostare (le due cose sono relative, un camminare senza sosta, magari con un contapassi, sarebbe di nuovo l’inserzione di una logica di efficienza in un contesto estraneo), nella natura ma, perché no?, anche in un parco cittadino o nel centro storico di una città d’arte – costituisce una interruzione che può indurre a ripensare anche il nostro modo abituale, dato per scontato, di «investire» il tempo e di «finalizzare» la nostra esi-
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stenza. Il filosofo come figura improduttiva è sempre stato da questo punto di vista un battistrada. Anche prima che Marcuse si levasse contro il principio di prestazione. La gerarchia delle forme di vita, con il primato assegnato alla vita contemplativa, è forse uno dei pochi principi condivisi da filosofi di ogni indirizzo. Nella quinta fantasticheria così Rousseau, nel ritiro felice dell’isola di Saint Pierre, ha dato voce a questo ideale di vita: Il prezioso «far niente» fu il primo e principale godimento che volli assaporare in tutta la sua dolcezza, e tutto quel che compii durante quel soggiorno non fu in realtà che l’occupazione deliziosa e necessaria di un uomo votato all’ozio. Una delle mie più grandi delizie era di lasciare i libri sempre chiusi e non possedere una scrivania. Di che si gioisce in uno stato simile? Di niente di esteriore, di niente se non di se stessi e della propria esistenza; finché dura questa condizione, siamo sufficienti a noi stessi, come Dio. Il sentimento dell’esistenza, spogliato da ogni altro affetto, è per se stesso un sentimento di contentezza e di pace che basterebbe da solo a rendere questa esistenza cara e dolce a chi sapesse allontanare tutte le impressioni sensuali e terrestri di continuo sopraggiungenti a distrarci e a turbarne, quaggiù, la dolcezza. Ma la maggior parte degli uomini agitati da continue passioni, poco conoscono questo stato, e avendolo gustato soltanto imperfettamente durante pochi istanti, ne conservano appena un’idea oscura e confusa, incapace di farne loro sentire il fascino. Del resto non sarebbe neanche bene – nell’ordinamento presente delle cose – che, avidi di tali dolci estasi, si disgustassero della vita attiva di cui i bisogni sempre rinascenti impongono l’obbligo6.
I pochi tentativi di mettere in dubbio questo ideale – l’ammonimento a trasformare il mondo invece che interpretarlo (Marx), l’esaltazione dell’agire politico, penso ad Hannah Arendt – non hanno portato in realtà a nessuna inversione di tendenza, e d’altronde i valori dell’otium filosofico permeano di sé anche il regno della libertà marxiano, ultima figura del «socialismo», e l’improbabile comunità politica della Arendt.
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La richiesta rivolta alla filosofia di «servire a qualcosa» suona oscena, se non vuole richiamare semplicemente l’esigenza che essa si confronti con questioni di importanza vitale, e non sia dunque per questo lato «oziosa». La questione sarà piuttosto di stabilire un equilibrio tra la sua esigenza costitutiva di raccoglimento e la sua proiezione pubblica. Le domande provenienti dalla sfera pubblica non possono essere evase rifugiandosi in una impossibile atarassia (anche di questo c’è traccia nel brano riportato di Rousseau). Ma la coscienza che ci troviamo in una società dominata dai valori dell’efficienza e della produttività ci renderà sospetti tutti i messaggi filosofico-politici rivolti a istaurare una società della competizione e del merito. Un’importante funzione di resistenza a queste lusinghe, che hanno dalla loro un’apparenza di ragionevolezza, appartiene proprio a noi filosofi, che svolgiamo una funzione sociale proprio difendendo la nostra improduttività. Un corollario di questa ripugnanza della filosofia, o almeno della filosofia che ho in mente, per l’istanza moderna della produttività è la sua sensibilità, classica e un po’ retro, per la felicità degli individui: un tema che, come vide bene Marcuse cinquant’anni fa, in un saggio sull’edonismo, la filosofia morale moderna ha ostracizzato, in concomitanza, per non dire altro, con l’esigenza del capitalismo moderno di crescere sulla base dei comportamenti sacrificali di lavoratori efficienti. Solitudine e socialità Siamo così giunti ai margini di una questione più generale – quella del rapporto tra la vita solitaria del passeggiatore e la presenza degli altri nel suo orizzonte. Per dirla con Emerson, che di Thoreau è stato maestro, tra «società e solitudine». Il saggio così intitolato (Society and solitude, 1870) si apre con una narrazione poetica, la storia di Saadi. Questi, dopo aver apprezzato le gioie della compagnia di uomini di ogni condizione e le piacevolezze del-
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la vita di corte, si lascia alle spalle i riti della civiltà e condivide, solitario, la vita degli elementi. Saadi mesceva i giorni come coppe di perle, serviva i nobili e gli umili, i signori e i pezzenti, amava le campanule ondulanti sulle pareti rocciose, una capanna adorna di spire fumose, il suono lacerante dell’ascia o brusii di ruote, o il luccichio che l’uso dipinge sulla spada, e tende e baracche; e nondimeno gli piacevano i magnifici signori nei palazzi, le incontentabili donne regali, circondate di forme e cerimoniali, ornate di riti e vestiti cortigiani ed etichetta e gentilezza. Ma, divenuto consorte della neve e del vento, si lasciò dietro ogni civile ordinamento: dai numi dei boschi nutrito di mieli selvaggi, la sua memoria ne fu incantata. Entrava in caverne e cavità di alberi, dormiva accanto al lupo e alla pantera. Stava dinanzi al mare agitato con gioia inquieta, incontrollata; condivideva la vita degli elementi, legami di sangue e stirpe erano infranti: come se in lui il cielo camminasse, e il vento s’incarnasse, il monte parlasse, e lui, poeta, anima di cristallo terso, fosse una sfera concentrica con l’universo. Perché ognuno possa star nella sua casa: per questo la natura è così spaziosa.
Il senso del rapporto tra queste due dimensioni dell’esistenza, è così chiarito alla fine del saggio: La solitudine è impraticabile e la società fatale. Dobbiamo tenere la testa nell’una e le mani nell’altra. La condizione per riuscirci è conservare la nostra indipendenza senza perdere la simpatia. Questi meravi-
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gliosi destrieri hanno bisogno di una mano ferma che regga le redini. Abbiamo bisogno di una solitudine capace di tenerci avvinti alle sue rivelazioni anche quando ci troviamo per strada o in un palazzo […] Non è la circostanza di vedere tanta o poca gente che importa, ma la prontezza a simpatizzare…7
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Un seguace di Emerson, il giovane Christopher McCandless, di cui abbiamo imparato a conoscere la vicenda attraverso la biografia di Jon Krakauer, Into the Wild, esemplifica bene questo percorso8. La sua ricerca radicale di una lontananza dalla società e dai sui riti borghesi arriva fino alla crudeltà di una rottura senza spiegazioni con la famiglia, una famiglia in definiva né migliore né peggiore di altre, e, dopo varie esperienze di comunità di elezione, fino alla prova della solitudine estrema nelle terre selvagge dell’Alaska. La sfida sarà mortale, ma da quello che si può ricavare dalle scarse memorie ritrovate, il giovane Christopher prima di morire era pronto a tornare con una nuova forza interiore ma pacificato nel consorzio umano. Tra i suoi ultimi appunti i cacciatori che ritrovarono le sue spoglie poterono leggere: Happiness is real only when shared. Si è voluto connotare a volte questo individualismo emersoniano come ‘democratico’ in opposizione a quello aristocratico di Nietzsche, che peraltro di Emerson fu grande ammiratore. Ma forse siamo in presenza solo di un nuovo modo d’intendere la nobiltà. Anche nel caso del filosofo americano il principio fondante è la fiducia in se stessi (self-reliance), ed essa si combina per lui con un’immagine alta della democrazia in quanto illimitata capacità di apprezzamento dei propri simili piuttosto che con le sue pratiche spesso degradate. Com’è possibile che un uomo consegua in solitudine un forte senso di sé (e persino della propria superiorità) e poi divenga aperto agli altri e desideroso della loro compagnia? Perché impara, risponderebbe Emerson, la tolleranza della natura che, «spaziosa» qual è, ammette nel suo seno
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come legittime e amabili tutte le differenze. Non c’è uomo come non c’è creatura vivente che non abbia una propria amabilità. Per raggiungere quest’atteggiamento di accettazione si richiede, appunto, una particolare elevatezza d’animo. Note 1. J.-J. Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, BUR, Milano 1998, pp. 200-205 passim. 2. H.D. Thoreau, Camminare, SE, Milano 2007, p. 12 e pp. 34-38. 3. F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1976, II, «Dei dotti», pp. 151-153. 4. R. Walzer, La passeggiata, Adelphi, Milano 1976, p. 73. 5. H.D. Thoreau, La passeggiata, cit., p. 18. 6. J.-J. Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, cit., p. 258 e p. 264. 7. R.W. Emerson, Società e solitudine, Diabasis, Reggio Emilia 2008, pp. 36 s. 8. Il romanzo di Jon Krakauer, Into the Wild, pubblicato nel 1996, è stato tradotto in italiano con il titolo Nelle terre estreme, Corbaccio, Milano 2008. Un film basato sul romanzo, diretto da Sean Penn, è apparso nel 2007.
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Gli autori
Eraldo Affinati è nato a Roma, dove vive e lavora. Insegna italiano ai minorenni non accompagnati della Città dei Ragazzi. Collabora al «Corriere della Sera». La sua scrittura nasce spesso da un viaggio. Ha pubblicato: Veglia d’armi. L’uomo di Tolstoj (1992); Soldati del 1956 (1993); Bandiera bianca (1995); Patto giurato. La poesia di Milo De Angelis (1996); Campo del sangue (1997); Uomini pericolosi (1998); Il nemico negli occhi (2001); Un teologo contro Hitler. Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer (2002); Secoli di gioventù (2004); Compagni segreti. Storie di viaggi, bombe e scrittori (2006); La Città dei Ragazzi (2008); Berlin (2009). Ha curato inoltre l’edizione completa delle opere di Mario Rigoni Stern, Storie dall’Altipiano (2003). Marco Aime è nato a Torino e insegna Antropologia culturale presso l’Università di Genova. Ha condotto ricerche sulle Alpi e in Africa occidentale. Oltre a numerosi articoli scientifici ha pubblicato: Chalancho, ome, masche, sabaque. Credenze e civiltà provenzale in valle Grana (1992); Il mercato e la collina. Il sistema politico dei Tangba (Taneka) del Benin settentrionale (1997); Le radici nella sabbia (1999); Diario dogon (2000); Sapersi muovere. Pastori transumanti di Roaschia (2001); La casa di nessuno. Mercati in Africa occidentale (2002); Eccessi di culture (2004); L’incontro mancato (2005); Gli specchi di Gulliver (2006); Timbuctu (2008); Primo libro di antropologia (2008). È autore anche di alcune opere di narrativa: Taxi brousse (1997); Fiabe nei barattoli. Nuovi stili di vita spiegati ai bambini (1999); Le nuvole dell’Atakora (2002); Nel paese dei re (2003); Sensi di viaggio (2005); Gli stranieri portano fortuna (2007). Ferruccio Andolfi è nato a Roma ed è docente presso l’Università di Parma, alternandosi nei due insegnamenti di Filosofia teoretica e Filosofia della storia. Ha pubblicato i volumi: L’egoismo e l’abnegazione. L’itinerario etico della sinistra hegeliana e il socialismo (1983); Figure d’identità (1988); Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt (2004). Ha edito opere di Ludwig Feuerbach, Karl Marx, Jean-Marie Guyau e Georg Simmel. I lavori più recenti inda-
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gano le varie forme dell’individualismo nella filosofia otto-novecentesca e l’ipotesi di una legge individuale di sviluppo etico. Dal 1998 dirige la rivista «La società degli individui», quadrimestrale di teoria sociale e storia delle idee. È membro del Comitato scientifico dell’editore MUP e coordina, insieme a Italo Testa, per le edizioni Diabasis, la collana «La ginestra – Biblioteca per un individualismo solidale». Erri De Luca è nato a Napoli e ha esercitato diversi mestieri manuali in Africa, Francia, Italia: camionista, operaio, muratore. Collabora a diversi giornali. Alpinista, scrive anche sulla montagna. Alla prima opera pubblicata Non ora, non qui (1989), seguono numerosi volumi, tra i quali: Una nuvola come tappeto (1991); In alto a sinistra (1994); Alzaia (1997); Tu, mio (1998); Tre cavalli (1999); Montedidio (2003); Il contrario di uno (2003); Mestieri all’aria aperta (2004); In nome della madre (2006); Sottosopra (2007); Pianoterra (2008); Il giorno prima della felicità (2009). Per la poesia ha pubblicato Opera sull’acqua e altre poesie (2002); Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo (2005); L’ospite incallito (2008). Ha tradotto: Libro di Rut (2000); Kohèlet/Ecclesiaste (2001); Giona/Iona (2001); Esodo/Nomi (2001); Vita di Sansone (2002); Vita di Noé/Nòa (2004); L’ospite di pietra. L’invito a morte di Don Giovanni. Piccola tragedia in versi (2005). Rita Messori è docente di Estetica presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Parma. Il suo ambito generale di interesse è il rapporto tra esperienza estetica e linguaggio, a cui sono riconducibili le ricerche intorno al rapporto tra estetica ed ermeneutica, tra estetica e tradizione retorico-poetologica. È autrice dei volumi Le forme dell’apparire. Estetica, ermeneutica e umanesimo nel pensiero di Ernesto Grassi (2001); La parola itinerrante. Spazialità del linguaggio metaforico e di traduzione (2001). Di Ernesto Grassi ha tradotto e curato Il colloquio come evento (2002); di Paul Ricoeur ha tradotto e curato Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine (2002). Ha inoltre curato i numeri monografici Affettività, spazialità e forma artistica (2002) e Martin Heidegger trent’anni dopo (2006) della rivista «Studi di estetica». Massimo Quaini, geografo umanista e storico della cartografia nell’Ateneo genovese, consulente nel campo della pianificazione territoriale, ha attraversato con i suoi contributi scientifici, culturali e didattici i momenti più significativi della geografia italiana ed europea dell’ultimo trenten-
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nio. Attualmente lavora alla costruzione di una geografia che sia in grado di rispondere alla domanda di una pianificazione urbana e rurale più aderente al territorio, in riferimento alla tematica dei beni culturali e del paesaggio come spazio abitato dall’uomo. Ha pubblicato: Marxismo e geografia (1974); La costruzione della geografia umana (1975); Dopo la geografia (1978); Tra geografia e storia: un itinerario nella geografia umana (1982); Fortuna della cartografia (1982); Il mondo come rappresentazione (1992); Levanto nella storia (1987-88); La mongolfiera di Humboldt (2002); Il mito di Atlante. Storia della cartografia occidentale in età moderna (2006); L’ombra del paesaggio. L’orizzonte di un’utopia conviviale (2006); Visioni del celeste impero. L’immagine della Cina nella cartografia occidentale (2007). Giuliano Scabia, nato a Padova, è poeta, drammaturgo e romanziere. Dal 1973 docente di drammaturgia al DAMS di Bologna, è stato il protagonista di alcune tra le esperienze poetiche e teatrali più vive e visionarie degli ultimi quarant’anni. Dopo aver collaborato con Luigi Nono nella scrittura del Diario italiano e de La fabbrica illuminata, è stato uno degli iniziatori del Nuovo Teatro e l’ideatore di situazioni teatrali e comunitarie memorabili, come quelle dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste (Marco Cavallo, 1976), o quella con un gruppo di attori-studenti attraverso l’Appennino emiliano (Il Gorilla Quadrumàno, 1976), o quella de Il Diavolo e il suo Angelo (1979-1985) attraverso paesi e città. Negli ultimi tempi ha quasi completato i circa 40 che costituiscono il ciclo del Teatro Vagante, che frequentemente va in giro a recitare da solo, in case di conoscenti e amici, in piccole comunità che si formano per ascoltare seguendolo a volte in lunghe camminate nei boschi. Tra le sue opere per il teatro: Padrone & Servo (1964); All’improvviso & Zip (1967); Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno (1972); Forse un drago nascerà (1973); Teatro nello spazio degli scontri (1973); L’animazione teatrale (1978); Dire fare baciare (1981); Scontri generali (1983); Teatro con bosco e animali (1987); Fantastica visione (1988); Visioni di Gesù con Afrodite (2004). Il suo lavoro sulla lingua è confluito anche nei romanzi In capo al mondo (1990); Nane Oca (1992); Lorenzo e Cecilia (2000); Le foreste sorelle (2005) e nelle Lettere a un lupo (2001). Per la poesia ha pubblicato Il poeta albero (1995); Opera della notte (2003) e la raccolta di saggi Il tremito. Che cos’è la poesia? (2006).
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Davide Sapienza, nato a Monza, è scrittore, traduttore, giornalista e viaggiatore. Dal 1984 ha lavorato nell’editoria musicale come giornalista ed è stato curatore di diversi libri sulla musica rock (U2, Waterboys, Neil Young, Nirvana, Frank Zappa), svolgendo anche l’attività di consulente discografico. Dal 1998 si è dedicato principalmente alla letteratura e ai viaggi in montagna. Ha scritto articoli e reportage di viaggio per diverse riviste (Specchio/La Stampa, Rolling Stone, GQ, Diario, Rivista della Montagna). Ha debuttato in narrativa con I Diari di Rubha Hunish (2004), libro-diario centrato sul rapporto tra paesaggio, cultura, e spostamento fisico sul territorio. Ha pubblicato in seguito il romanzo La Valle di Ognidove (2007). Studioso di Jack London, ha pubblicato numerose traduzioni di testi classici e inediti del grande autore americano. Italo Testa, nato a Castell’Arquato, è docente di Storia della Filosofia Politica presso l’Università di Parma. Insegna inoltre Storia della Filosofia a Ca’ Foscari. I suoi studi hanno interessato l’idealismo tedesco, la teoria critica, la teoria dell’argomentazione e la filosofia della letteratura. Per la saggistica ha pubblicato i volumi Ragione impura (2006); Teorie dell’argomentazione (2006); Hegel critico e scettico (2002) e curato le raccolte di saggi Hegel contemporaneo (2003); Ragionevoli dubbi (2001). Per la poesia ha pubblicato Gli Aspri inganni (2004); sarajevo tapes (2004); Biometrie (2005); canti ostili (2007); Luce d’ailanto (2009). È co-direttore della rivista di poesia e letteratura «L’Ulisse» e, presso Diabasis, della collana di classici dell’individualismo solidale «La ginestra». Fa parte della segreteria di redazione della rivista «La Società degli individui».
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Zainetto leggero agile compagno di viaggio sull’antica arte di camminare pensando praticata sui sentieri e sui campi del più creativo festival che sia stato mai realizzato giunto al suo secondo anno di vita questo libro viene stampato nel carattere Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nell’aprile dell’anno duemila nove
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