«Il punto fondamentale resta questo: il credere assorbe tutta la dimensione più nobile dell’attività umana: cuore, sentimenti, fantasia, intelligenza. Il vero teologo è quello che pensa tanto in profondità da anticipare il futuro».
Antonio Balletto e Piero Tubino
Antonio Balletto
«Troppo spesso l’essere cristiani si riduce alla frequentazione della messa festiva e alla “rincorsa”, a volte inconsapevole, dei Sacramenti. Mentre cresce un livello esteso di povertà, resistono le scelte indotte dal mercato. Sopravvive la “beneficenza” per mettersi la coscienza a posto e che non risponde ai criteri fondamentali cristiani della giustizia». Piero Tubino
Sacerdoti nella città
Antonio Balletto (1930-2008), sacerdote genovese, docente di teologia e filosofia, editore e uomo di cultura impegnato nella società, figura di spicco della vita pubblica ligure, è stato direttore del Collegio Teologico Internazionale Brignole-Sale a Genova (Fassolo), poi docente di Teologia fondamentale al Seminario di Albenga, successivamente al Collegio Alberoni di Piacenza e infine di nuovo a Genova, allo Studio Teologico di Fassolo. Dal 1980 al 1993 ha diretto e rinnovato la Casa Editrice Marietti, facendone un punto di riferimento per tutta la cultura italiana, lanciando fra l’altro nuove collane di ebraismo, di cultura islamica, di dialogo interreligioso. In seguito si è dedicato soprattutto ad un’opera sociale sul territorio ligure, dirigendo la Federazione Solidarietà e Lavoro, animando il Terzo Settore e aiutando la parrocchia di San Siro, nel centro storico più disagiato. Nel 2005 il Comune di Genova gli ha conferito il Grifo d’Oro. Tra i suoi scritti vanno ricordati i saggi pubblicati per decenni con cadenza mensile sulla rivista genovese «Il Gallo», oltre ai volumi Una dimora nella verità (1985) e Fare teologia (1999).
Balletto Tubino
I MURI BIANCHI
SACERDOTI NELLA CITTÀ
Il volume è dedicato a due figure di sacerdoti che hanno profondamente segnato la società e la storia di Genova, rendendosi protagonisti di straordinarie esperienze di solidarietà (non da ultimo con la Caritas), di impegno civile, di insegnamento e di fede vissuta sempre “sul campo” e in un’ottica di condivisione, di dialogo interculturale e di apertura verso il prossimo. Le testimonianze di queste due splendide “avventure” di umanesimo cristiano – le vite di Antonio Balletto e di Piero Tubino, entrambi celebrati dalla loro città con il conferimento del Grifo d’Oro – sono qui rivissute attraverso i testi suggestivi e commoventi della loro vita: interviste, articoli su periodici, discorsi, singoli ricordi, saggi, omelie.
ESPERIENZE DI UMANESIMO CRISTIANO A cura di Salvatore Vento e Luca Rolandi
€ 18,00
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DIABASIS
Piero Tubino nasce a Genova nel 1924. Proveniente da una famiglia della media borghesia genovese, in seguito alla crisi del ’29 subisce ingenti perdite, aggravate durante la guerra. La crisi costituisce per lui un atto provvidenziale che gli fa toccare con mano le difficoltà della vita della gente comune. Ordinato sacerdote, nel 1948 viene mandato nella parrocchia del quartiere operaio di Borzoli. Ma soprattutto in città don Tubino è conosciuto come l’uomo della Caritas diocesana. In questa veste contribuisce all’apertura di diversi centri di servizio sociale nei quartieri di Cornigliano, Centro storico, Marassi e Molassana. Per la sua lunga attività di impegno sociale è stato insignito del Grifo d’Oro dal Comune di Genova.
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I muri bianchi
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Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)
ISBN 978-88-8103-662-2
Š 2010 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 www.diabasis.it info@diabasis.it
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Antonio Balletto Piero Tubino
Sacerdoti nella cittĂ Esperienze di umanesimo cristiano A cura di Salvatore Vento e Luca Rolandi
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Antonio Balletto Piero Tubino
Sacerdoti nella città Esperienze di umanesimo cristiano A cura di Salvatore Vento e Luca Rolandi
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ANTONIO BALLETTO A cura di Salvatore Vento
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Diabasis per Antonio Balletto
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Frammenti di sentieri comuni. Un’esperienza editoriale profetica, una sconfitta dolorosa, Salvatore Vento
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Antonio Balletto. Grifo d’Oro della Città di Genova Gerardo Cunico Capitolo primo
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Interviste e interventi L’ultima intervista, Salvatore Vento Fede e ragione: il percorso comune verso la verità. Un dialogo con Antonio Balletto sull’enciclica di Giovanni Paolo II Chiesa e laicità della politica Intervista a don Antonio Balletto sul tema dei rapporti tra memoria e teologia in “Genova 2004 in viaggio con le associazioni” Sponde da riavvicinare. Confronto e dialogo tra culture e religioni Antonio Balletto. Essere responsabili dell’amore: la giustizia e la conversione In morte di un fratello. Omelia al funerale di Fabrizio De André Maternità assistita. Problemi – Prospettive
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Capitolo secondo 109 110 114 117 120 130 135 144 153 163
Interventi di don Balletto su «Il gallo» (2000-2006) Offendere alcune fonti della Vita Proteggere il corpo è amare Dio Ospitare i pellegrini Il mio servizio della parola La libertà dei figli di Dio Credere aiuta a vivere? Senso e implicazioni della sequela La presenza nella Chiesa Rinnovare la Chiesa
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PIERO TUBINO A cura di Luca Rolandi
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Don Piero Tubino. La carità di un sacerdote e le radici dell’amicizia con don Antonio Balletto, Luca Rolandi
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Piero Tubino. Grifo d’Oro della Città di Genova Giovanni Nervo Capitolo terzo
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Conversazioni, colloqui e testimonianze Don Piero Tubino: il racconto di una vita Come educarci, come educare alla giustizia e alla solidarietà Manifestazione in memoria di Carlo Giuliani a sei mesi dall’uccisione al G8 di Genova, Piero Tubino Lettera agli amici, Piero Tubino A proposito di laureati cattolici, Franca Guelfi Camminando nella storia, Francesco Figari Compagno, fratello, prete, Don Andrea Pierini Nel cuore dei Balcani. La Caritas diocesana di Genova in Croazia e Bosnia, Francesco Ferrari
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Fratello friulano, Remo Cacitti I bambini di Kavaje, Anna Cossetta Le strade di Aleksinac, Anna Gaggero La Caritas come stile di vita, Egidio Canciani La pace è progetto educativo. L’esperienza del LaborPace della Caritas di Genova, Fabrizio Lertora Un anno diverso, Daniela Napoli Una scelta coraggiosa, Paolo Bruzzo Solidarietà e lavoro, Andrea Ranieri Capitolo quarto
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L’esperienza di solidarietà (Dal periodico «Caritas Notizie. Genova») Debitori di speranza Rischio e speranza dei giusti Qualcuno dovrà chiedere perdono per noi? Un pugno nello stomaco Bianca, il servizio, la Caritas
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Diabasis per Antonio Balletto
Con le vesti rimboccate per la traversata della notte e del deserto, e pane azzimo, partecipi del suo dolore, luminosi della sua gioia nel cammino a terra nuova – questa nostra, sempre condivisa – ci piace ricordare don Antonio Balletto, che ha appena cessato la sua vita fisica, e il suo calvario. Gli dobbiamo molto. Diabasis è anche sua eredità. Ha ricevuto da lui lo spirito della Marietti genovese: quella che ideò, che guidò, che ispirò, prima che, sottrattagli e mutata, approdasse altrove. Porteremo il vuoto di don Antonio, ma anche la sicura amicizia. Come i poveri di Genova e come i ricchi che ha aiutato a riagguantare la propria anima, come i lettori e collaboratori che hanno amato la sua casa editrice, anche noi gli siamo debitori. I dialoghi, l’aiuto, le colazioni nel suo studio condividendo le mense, le diversità partecipate, i conflitti fraterni, i consigli, i libri realizzati, le collane, i progetti, le inquietudini diverse e fedeli. Abbiamo conosciuto in lui la misura dell’intellettuale, del cristiano, del pastore. Le sue parole di pastore dolce, attento ai bisogni degli uomini, lontanissimo da una chiesa trionfale e politica. Oppressi da una cultura che sembra occupare più spazio fisico e sonoro che pensiero, il tomismo dal baricentro solidissimo e coraggioso di Antonio Balletto ci è sembrato anche la leggerezza delle cose che, dentro la materia viva e terrosa dell’umano, attengono al divino, lontano da ogni violenza metafisica, lontano da ogni abuso della religione, laico o clericale che sia. [da eRoads n. 63, Pasqua 2008]
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Sponde da riavvicinare. Confronto e dialogo tra culture e religioni*
Il titolo che mi è stato dato parla di confronti tra culture. Io ero bimbo quando abbiamo iniziato a bagnarci in questo mare; subito nell’istituzione scolastica di quei tempi ci insegnarono a chiamarlo “Mare nostrum”, e le sponde che questo mare baciava le sentivamo un po’ come terre diverse, misteriose ma ancora abbastanza familiari. Penso che proprio regioni come la Sicilia e città come Genova dovrebbero immergersi in questa realtà nella quale si vive. Sento nella congenialità del mio cuore e del mio spirito, più vicino questo mare che il Baltico o il Pacifico. Per noi bimbi certamente erano terre misteriose − poi, dopo la guerra, con i romanzi di Camus, quando egli parla di “bagnarsi nel mediterraneo come qualcosa che fa entrare dentro un tipo di luce” le sentimmo ancora più familiari. A noi bambini si diceva che eravamo i discendenti di quei Romani che avevano costruito quelle grandi e nobili città dove la gente ci aspettava perché la liberassimo dalle potenze plutocratiche, parole di cui non capivamo il significato ma suonavano solenni. Si parlava di agili navi che solcavano il Mare Nostrum sin dai tempi più remoti creando incontri, scontri, partecipazione a valori comuni. Là vi erano i nostri fratelli nella fede; ci insegnavano che il Cristianesimo si diffuse proprio in quelle regioni, partendo * Genova, 23 ottobre-13 dicembre 1994. Corso di aggiornamento docenti.
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dalla Siria sino all’Africa; ricordiamo la vivacità dell’Africa quando, ai tempi di San Cipriano, si celebravano sinodi con 270 vescovi. Le nostre ragazze brune, che un giorno sarebbero state le nostre innamorate e le nostre spose assomigliavano alle ragazze di quelle terre. Più ad Oriente esistevano popolazioni che erano, successivamente, giunte da più lontano e avevano portato una falsa religione che aveva vinto Bisanzio; ci dicevano allora, che dal Libano, e, a sud, dall’Arabia erano arrivate queste invasioni. Ci dicevano ancora che queste potenze plutocratiche avevano aperto un canale che avrebbe dovuto essere nostro; mi ricordo che in quinta elementare, quando stava per scoppiare la guerra, ci ripetevano e ci facevano ripetere “Vogliamo Tunisi, Gibuti e il canale di Suez”. Ecco, il crogiuolo in cui siamo cresciuti nel Mediterraneo. Questo quadro volutamente impreciso e, direi, infantile, perché ho voluto dare un po’ il clima di come stava maturando un certo modo di sentire le cose, e anche un po’ patetico, dicevo, questo quadro mi serve per dire quello che mi pare essenziale cioè gli intrecci, gli incontri, le simpatie, le antipatie, gli odii, le esigenze di incontri a sfondo economico e grande capacità, in certi momenti, di fondere le grandi culture. Ho detto, gli incontri e scontri, le navi che giravano, i predatori che facevano paura ma anche gola; questo ha lasciato una sedimentazione nell’immaginario, nell’inconscio delle nostre popolazioni, specialmente quelle costiere, sino ad arrivare ai tempi del Musulmanesimo ottomano, con il tentativo di invadere l’Europa dopo aver preso la Spagna e quindi con quel, “mamma li Turchi” che a Roma si ripeteva sempre. Queste cose le annoto perché bisogna rendersi conto che c’è tutto un substrato che deve essere superato, che non ha dei fondamenti reali − ha indubbiamente dei fatti che sono stati mitizzati ed interpretati in un certo modo − ma quel che è sicuro è che il conflitto di interessi in questo mare, inevitabil74
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mente c’è stato e ci può essere ancora, quando poi i conflitti di interesse vogliono essere nobilitati, mobilitano gli intellettuali perché diano il loro supporto. Questo è stato per le Crociate; se voi notate, c’è stata qualche forte puntata nel Settecento sino alle mura di Vienna, ma sostanzialmente, quando si è aperta una altra via per il commercio, quando l’Europa ha avuto un altro sbocco, sono finite le diatribe con l’intensità che avevano in precedenza. Nel guardare bisogna sempre essere consapevoli che un mondo dentro di noi condiziona, in qualche modo “colora”, modifica sia le sponde che abitiamo che le sponde degli altri. Quindi il primo punto del mio discorso, detto in modo un po’ superficiale ma con fondamenti reali, è proprio questo: o noi facciamo un esame critico nel valutare la nostra sponda e le altre sponde oppure non si potranno fare molti passi avanti. Siamo in una situazione in cui, tutti, ci dobbiamo porre in una posizione critica. Le sponde degli altri dove c’è un brulichio di genti, di idee, di interessi, di azioni e di reazioni: questo brulichio com’è? Il secondo punto è importante: finirla con gli schemi precostituiti nel giudicare la donna, la famiglia, i comportamenti dell’uomo verso la donna; non si può continuare con stereotipi di reazione interiore. Si vada un po’ in quelle terre, si veda; tutta questa storia di persecuzioni, di maltrattamenti; non si può giudicare una civiltà in base a qualche pezzo giornalistico; una civiltà è fatta di radici, di riflessioni, di pensiero, di religiosità, è fatta di costume. Quali valori, quale dignità, come vive questa gente, questo brulichio che sta su queste sponde? È lecito incontrarsi, fondersi, collaborare? Qui ci sono tre atteggiamenti fondamentali in cui la gente si schiera. Ci sono gli ottimisti, coloro che ad ogni alba un po’ più rosa giurano che l’opera è ormai compiuta. Io li chiamerei persone che parlano di amate sponde; essi attenuano di proposi75
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to tutte le difficoltà; nascondono più o meno consciamente le difficoltà, le sedimentazioni che purtroppo si sono verificate nei secoli e ricorrono costantemente. Ci sono, poi, i pessimisti: prima parlavo di amate sponde, questi invece sostengono le armate sponde, cioè la necessità di essere sempre armati contro un nemico. Scriveva Kipling: “L’Oriente è oriente, l’Occidente è occidente e mai i due si incontreranno”. Bisogna che si stia molto attenti a fare queste profezie, poiché si condizionano gli atteggiamenti delle persone. Questa è una visione pessimistica, di una radicale incomunicabilità e diversità reciproca; quante volte io sento, soprattutto operatori marittimi, dire che “quelli” hanno un diritto tutto loro; certo che lo hanno, dovrebbero avere il nostro? Non è un male avere un diritto proprio: bisogna semmai vedere se è giusto od ingiusto. E noi possiamo proclamare che solo il nostro è giusto? Bisognerebbe avere tanta forza ed intelligenza da esaminare prima i nostri codici attuali e quelli del passato. Io cito sempre un esempio di un egiziano che, ai tempi della guerra del Golfo, diceva: “Certo, il diritto internazionale ve lo siete fatto voi e poi dite che è internazionale. Lo avete fatto in tre o quattro nazioni e lo avete chiamato internazionale”. E aggiungeva: “Mi rifiuto, mentre accetto diversi valori occidentali, che vengono dalla rivoluzione francese, di identificarmi con il diritto della VI flotta”. I pessimisti vedono nel passato solo tutto il negativo; solo guerre e conflitti; da loro vengono rimossi tutti i contatti, i momenti positivi. Il presente viene visto come conferma di questa storia ed il futuro non potrà essere diverso. C’è poi una terza categoria − dopo gli ottimisti e i pessimisti − quelli che si chiamano realisti. Questi per me, sono i peggiori di tutti; io ho una paura terribile dei realisti, poiché in nome della realpolitik si sono ammazzati milioni di persone. Se prima abbiamo parlato di amate sponde e di armate sponde, qui le chiamerei bramate sponde, perché c’è proprio la bramosia del possesso. Sappiamo bene che la denominazione “realista” può avere an76
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che un significato positivo, ma troppo spesso, sotto questa espressione si nascondono persone ignoranti, ciniche e capaci di creare un clima e condotte senza sbocchi. Importante, per loro, è avere un potere, economico o politico, supportato dalle ortodossie di cui non tengono conto nella loro coscienza ma che servono alla protervia e al cinismo. Noi dobbiamo stare molto attenti a non lasciarci attrarre da questo ordine, perché è abbastanza facile farsi attrarre dal cosiddetto realismo. Chi ha la capacità di pensare, si serve dei realisti. Ed allora si sanno trovare i supporti intellettuali e anche religiosi; il fanatismo, da una parte, il clericalismo esasperato dall’altra fanno da supporti a queste visioni. Bisogna solo far cambiare gli stolti − dicono i realisti; i fanatici, i fannulloni, che abitano l’altra sponda non riusciranno mai a realizzare una civiltà. In questa situazione così variegata, tra culture diverse e stratificate, quella Araba, Maghrebina, Musulmana, c’è sicuramente qualche difficoltà ad entrare nella modernità; modernità che è stata traumatica. Noi europei abbiamo inventato belle parole, come “protettorato”. Inglesi, francesi, tedeschi hanno “protetto” per più di un secolo queste popolazioni e la modernità è entrata tramite queste protezioni non richieste. Questi popoli si trovano oggi in una situazione che richiede, da parte nostra, un sentire da onesti ricercatori. Perché uso la parola sentire? Tutta la cultura, per conto mio, nasce da un sentire fondamentale. Se io parto da una certa simpatia − che non deve essere arrendevolezza − posso costruire qualcosa, ma quando già vivo, dentro di me, una specie di opposizione, tutte le costruzioni che verranno successivamente saranno costruzioni di contrapposizione e di denigrazione, non di lettura seria; poiché una lettura seria esige che io segnali anche le negatività che ci sono in una civiltà, in una sponda, se no non è schiettezza; ma se non si parte da questo sentire, che comporta di vedere le cose come stanno, la cultura nostra (lo dico a voi che insegnate) tradisce se stessa. Diceva Ranke, il grande storico: “Tutta la vita di analisi per un’ora di sintesi”, mentre è molto più facile fare la grande sin77
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tesi, di tre quarti d’ora, come fanno oggi molti opinion leader. Si toccano temi fondamentali, etici e religiosi, con una disinvoltura da fare paura, se si pensa che per secoli e secoli sono stati studiati attentamente. Bisogna cercare di vedere le cose come stanno, sapendo che le cose non si danno mai direttamente a noi, ma, quando ci vengono, passano attraverso strati di formazione. Bisogna guidare la possibilità di uno scambio, di un incontro nel rispetto delle diversità e degli interessi per un futuro di pace. Nessuno può togliere le diversità: il confronto tra le sponde, l’intesa, esige, per prima cosa, che si salvino le caratteristiche autonome che ciascun popolo ha portato avanti. Per esempio, la denominazione di extracomunitario, così generica, che raccoglie sotto un cappello persone che portano teste molto diverse, impone a queste persone un unico denominatore. Noi europei veniamo considerati italiani, tedeschi, ecc., ciascuno nel rispetto delle proprie appartenenze. Io non ho gocce di sangue tedesco, forse ne ho qualcuna araba. Ci si deve incontrare, costruire insieme un tessuto di scambi, di co-costruzioni, tessuto che è fatto da conoscenze reciproche, da impegni e da legislazioni. La pazienza del conoscere. Platone diceva che per conoscere una realtà bisogna starvi vicino per molto tempo; e allora non si può sentenziare sulle persone che girano nei vicoli, se non mangiamo più e più volte assieme, se non sappiamo stare con loro. Ricordo la commozione, una sera, in un paesino della Siria, dove due famiglie a momenti litigavano perché ambedue volevano ospitarmi. La loro realtà dell’ospitalità, benché io fossi un “funzionario” cristiano e loro fossero musulmani, era qualcosa di sedimentato e profondo. Allora, per proseguire, diciamo due parole su come stanno le due sponde. Da una parte e dall’altra, sono abitate da persone umane, con i loro problemi, con la loro storia, la loro cultura, la loro religione, che bisogna conoscere nei vari aspetti. L’oggi − come si vive in 78
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Egitto, in Siria − potrà essere conosciuto se sullo sfondo sarà sempre tenuta presente la vicenda della storia. La vicenda della storia, anch’essa, complessa, una vicenda dove si sono combattute molte battaglie, che anche i vostri ragazzi conoscono, dalla battaglia di Poitiers in poi. Però poco si parla dell’esperienza spagnola o della Sicilia: della Spagna che ha avuto momenti − perché non si deve fare del facile ottimismo − bellissimi; a Toledo convivevano, attorno al capo musulmano, cristiani, studiosi cristiani, studiosi ebrei che tanto fermento hanno portato nella vicenda del Mediterraneo. Si sente spesso dire che la cultura greca ce l’hanno trasmessa gli Arabi; anche questo è uno slogan un po’ esagerato: è verissimo che gli Arabi hanno avuto bisogno di recepire la cultura greca e quindi di tradurla, perché volevano conoscere le antiche civiltà, soprattutto quella greca che tanto aveva dato, però, siccome il greco lo sapevano poco, chiamavano i cristiani, come traduttori dal greco. E i cristiani traducevano con la loro particolare inflessione; abbiamo avuto, quindi, un crogiolo di diverse culture dove si accoglievano le culture antiche, si fondevano assieme l’arabismo, la cultura cristiana e quella ebraica. Abbiamo ancora dei testi, specie in Spagna, per metà in arabo e metà in ebraico, perché i testi si dovevano ritradurre ancora. E molto bella è l’esperienza della mistica; i musulmani recepiscono dapprima la mistica dei grandi anacoreti cristiani, Simone stilita e tutti gli altri monaci, poi, in un secondo momento, il sufismo ha donato molto alla mistica cattolica, specialmente alla mistica spagnola del XVI secolo. Si stanno facendo degli studi molto attenti sull’influsso della cultura araba sulla mistica di San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila. Perché oggi non possiamo rifare questo cammino insieme, visto che si è percorsa molta strada assieme? È stato tradotto da poco in Italia un libro che parla dell’influsso dell’escatologia musulmana sulla Divina Commedia. Dante ha preso certamente, nella sua visione delle tre cantiche, dalla visione araba.
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Ecco come c’è stato un momento in cui la storia ha visto unite queste tre realtà. Certo con dei sobbalzi. Poi, quando i Cattolicissimi Reali di Spagna hanno cacciato gli Ebrei nel 1492, si è avuto l’inizio di una frattura sempre più profonda. Ha cominciato a manifestarsi in Occidente una lettura che vede questa gente rozza, sporca, senza voglia di lavorare e di realizzare quel progresso che noi abbiamo raggiunto. Si è diffusa una specie di insopportabilità per gli Ebrei e poi per i Musulmani, per gli Arabi… Il Medioevo ha sviluppato sino ad un certo punto una profonda attenzione per la cultura ebraica e musulmana. Poi sono iniziate le difficoltà, con le Crociate. Le relazioni arabe sulle Crociate sono interessanti per capire come, nell’altra sponda, si sia evoluta l’ostilità verso i Cristiani. Bisogna cominciare a cambiare, senza polemiche e senza esasperazioni, con maggiore informazione sull’oggi e sulla storia. E molte di quelle cose che i nostri ragazzi non imparano a scuola, forse, le impareranno sulla strada, conoscendo altre culture in presa diretta. Bisogna avviare un altro tipo di cultura storica e mentale per poter interpretare il “diverso”. Noi non abbiamo categorie atte ad interpretare il diverso. Quando abbiamo queste categorie e le mettiamo accanto alle nostre, queste ultime vincono sempre. Si tratta di incrociare queste visioni, i cambiamenti epocali sono avvenuti quando si sono fatti questi incroci. Non è tanto importante lo scoprire che la terra gira, come fatto in se, quanto il cambiamento di paradigma che questo comporta nella propria visione dell’universo. A mio avviso, oggi, si tratta di unire categorie mentali diverse. Noi abbiamo delle finestre attraverso le quali vediamo la realtà, Calvino lo diceva con una frase molto bella: “Noi siamo come una finestra, il mondo che guarda un altro mondo”. Se tale finestra è fatta a quadratini piccoli come quelle degli antichi palazzi si vede in un certo modo, se si vede da una finestra ampia, la visione cambia. Per arrivare ad una nuova visione io devo prendere anche altre visioni. Questa è la conoscenza, il fatto di assumere lo sguardo con cui un Marocchino o un Tunisino interpretano la realtà. 80
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I due punti sui quali voglio ancora fermarmi per poco sono: confronto e dialogo sulla cultura; e qui dobbiamo cominciare a capire cos’è cultura per loro e per noi. Questi popoli vivono ancora in una cultura che io chiamerei una cultura ben piantata per terra. Noi non viviamo più in questo modo, con una cultura imperniata sulla corporeità, sulla materialità; la materialità per noi non conta niente. Nelle case di una volta l’acqua un po’ entrava, un po’ veniva fatta filtrare, era un elemento della terra, proprio personalmente sperimentato. Oggi nella nostra civiltà, gli ingegneri, ma anche gli ecologisti, non hanno mai toccato una zolla di terra. Qui ci troviamo davanti a due modi di partenza su che cosa sia un fatto culturale: per noi un fatto culturale, oggi, è − prevalentemente − accumulare nozioni; abbiamo il computer, siamo bombardati dall’informazione. Per integrarsi, per costruire un mondo, bisogna integrare i mondi culturali diversi. La cultura, per l’altra sponda del Mediterraneo, la chiamerei umore della terra, del cielo, del mare, umori che entrano dentro e che danno un certo modo di vedere. Albert Camus ha scritto delle pagine stupende, a riguardo. Ecco perché questi romanzieri del Novecento debbono essere più letti dai ragazzi. Non perché io voglia che leggano Camus o Dostojevski di per sè, ma perché assumerebbero qualcosa che li renderebbe pronti, non a giudicare “gli altri” perché non sanno usare il computer ma a integrare i due modi della conoscenza. E poi c’è un secondo momento, che è la cultura come scoperta, ponte verso la realtà, verso la ricchezza dei giorni, verso ciò che è vero e profondo; la pazienza della cultura che cerca di tracciare dei sentieri non per dominare ma per incontrare. Noi, dal XVII secolo in poi siamo spinti a dominare questa terra, perché la civiltà nostra, costretta dalla modernità ha tentato di scoprire tutte le leggi. Ma questo non può essere l’unico metro; le scienze e le tecniche sono molto importanti per l’uomo, ma quando si assolutizzano e si toglie identica importanza ad un sentiero poeti81
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co che porta verso la comprensione della realtà, che in questo momento c’è ancora su altre sponde, assolutizziamo una parte dell’uomo e lo inaridiamo terribilmente. Noi oggi consideriamo che uno scienziato abbia ragione solo perché studia una determinata cosa; non si va più a vedere le ragioni che egli porta. Non ha ragione perché è un grande fisico, non può bastare nemmeno se porta la documentazione, perché questa bisogna interpretarla. Bisogna che l’uomo entri in sintonia con la natura, altrimenti, nella sua sete di dominare, si rende schiavo delle cose e di se stesso. L’importanza, poi, della cultura come lievito interiore che suscita modi di essere, modi di riposarsi. Diceva già Nietzsche, nel secolo scorso, che la nostra mentalità ci induce a giustificarci se andiamo a fare una passeggiata in montagna. Perché giustificarci se facciamo una delle cose più intelligenti che ci siano? Ma, siccome sullo sfondo c’è il ragionamento che una passeggiata non frutta, allora dobbiamo scusarci. Non sarà forse utile che le culture diverse, dove cultura non è “funzione di” ma è promozione di umanità, ci facciano trovare noi stessi? Io intravvedo in questo modo la possibilità di incontro, di dialogo, come noi ritroviamo la fecondità della nostra cultura, le radici dantesche e leopardiane, loro possono trovare molto da noi. Qui bisogna rimboccarsi le maniche e aiutarsi a vicenda. Ancora, la cultura come luce per la condotta pratica. Una cultura che si faccia ethos profondo, costruttrice di quelle grandi leggi che edificano le civiltà. Guardate un po’ se la nostra cultura può diventare guida per la nostra condotta quotidiana. Per lo più ha spaccato la nostra testa, le nostre coscienze. Le culture delle altre sponde sono luce per la condotta quotidiana. Di conseguenza anche i mezzi per la trasmissione di queste culture sono diversi; non è tanto il libro quanto la saggezza dei vecchi, la tradizione orale. Non a caso esiste un proverbio di quelle terre che dice: “quando muore un vecchio si chiude una biblioteca”. Ed è proprio così. Nessuno può negare che questi tratti che ho de82
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lineato velocemente, non siano un po’ di tutte le sponde, però ho accentuato alcune cose a scapito di altre. La casa, per esempio, per loro, non è tanto la separazione da un cielo che minaccia quanto lo spazio per la tranquillità, per riposarsi ma anche per comunicare. La tenda, per il Mediterraneo nomade, ripara dai rigori della notte, è come il velo, che dona quel minimo di privacy, custodisce affetti, scambi, miserie, tenerezze, di cui si ha bisogno, però è anche momento di incontro. Nella nostra civiltà, che ancora io ho conosciuto, la casa era un po’ il ricettacolo di tutti; nei nostri rioni le case del palazzo erano un po’ di tutti, la casa non separava. La visione di una cultura tocca tutte queste realtà, la mensa, la casa, ed è qui dove possiamo avere tanti arricchimenti. Possono dar fastidio, queste persone, perché c’è poco lavoro, ma guardando un po’ più in là, le ricchezze interiori potrebbero fare un uomo diverso. Io non ho dato un taglio religioso al mio intervento ma per me il Cristianesimo ha molto da ricavare, nello sviluppo delle sue potenzialità, da questi incontri. Come è stato del resto per il passato. C’è un poeta che amo molto, ogni anno spero sempre che gli diano il Nobel; nato ad Aleppo, in Siria, scrive le sue poesie in arabo ma vive a Parigi da tanti anni, Adonis, di cui ho fatto tradurre un libro, “La poetica del Corano”. Un giorno eravamo a tavola a Parigi e mi disse: “Bisogna che voi cristiani la smettiate di considerare Cristo come vostro, semmai voi siete di Cristo, ma Cristo è di tutto il bacino mediterraneo”. Mi ha fatto pensare molto questa frase, da un punto di vista culturale e da un punto di vista religioso. Cosa abbiamo fatto di questo Cristo noi cristiani, molte volte, se non un ometto occidentale? Ma questo è un altro discorso. Oggi si dice che le religioni sono quelle che fomentano il fondamentalismo. Ma pensate che su un miliardo di musulmani, il fondamentalismo ne annovera mezzo milione, se arriva a questa cifra! Sono persone che hanno in mano dei fiammiferi, quindi possono dar fuoco alla paglia, però non esasperiamo questo punto, perché il Musulmanesimo in se stesso 83
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non è fanatismo e non è radicalismo. C’è la scuola d’Egitto, con i Fratelli Musulmani, ci sono alcuni gruppi, Hamas ed altri gruppi, ma sono minoritari. Se noi, in questa popolazione, buttiamo della benzina e accendiamo un fiammifero, provochiamo il finimondo. Mi ha fatto molta impressione vicino alle grandi moschee, del Cairo o di Damasco, vedere l’uscita dopo la preghiera; è una moltitudine, spesso infervorata dalla vigorosa eloquenza dei capi religiosi, se lì si butta un fiammifero è la fine. Allora bisogna lavorare perché loro ritrovino quella che è l’essenza della loro religiosità. E la sostanza della religiosità è, per esempio, la donazione di una parola del Corano, che non va solo letta, ma meditata, assimilata. Mi sono trovato con uno dei maggiori studiosi di questo aspetto dell’Islamismo, un berbero che vive a Parigi, Arkoun, con il quale, mentre facevamo questi discorsi, cioè che cosa intendessi io per parola di Dio e cosa intendesse lui, musulmano, alla fine ci dicevamo che avremmo potuto scrivere un libro insieme, tale era la sintonia della nostra visione. Così loro possono arricchire noi, e noi loro, perché il Cristianesimo serio, l’Ebraismo e l’Islam seri nella storia della spiritualità sono stati molto attenti all’intelligenza della gente, non all’emotività della gente. Quando Gesù, nel Vangelo, dice di non adoperare una infinità di parole come fanno i pagani, ma di dire “Padre nostro”, dà una linea che è per il cuore intellettuale, il cuore aperto dove sta la possibilità della decisione dell’uomo. E come noi abbiamo da dare ricchezza a loro così loro a noi; per esempio, con quella loro attenzione ad Allah, dio sempre misericordioso. È grandissima la prima sura del Corano, fondamentale per la loro preghiera. Il senso del mio discorso è sostanzialmente questo: dobbiamo conoscere, dobbiamo conoscere con intelligenza, superando questa specie di inconscio collettivo dei giudizi precostituiti. Conoscere significa non solo assumere delle nozioni, ma partecipare ad un cammino, vedendo come nella storia ci siano stati momenti di incontro bellissimi e anche di scontri. 84
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Questo concetto l’ho applicato velocemente alla cultura e all’aspetto religioso. Concluderò il mio discorso dicendo che per me è finito il tempo del confronto e del dialogo, deve cominciare il tempo della condivisione, della co-costruzione; la gente che abita queste sponde credo che sia chiamata a stringersi la mano, innanzitutto, ma poi a produrre pane da scambiarsi, pane materiale e pane della cultura. A scambiarsi segni di libertà, di dignità, di rispetto, costruendo un grande tessuto insieme, il tessuto dell’umanità di domani. Ho la speranza che questo verrà, sono certo che può venire, sono certo anche che se non ci si muove, non verrà. Questa nostra città poteva essere − potrebbe ancora essere, ma la situazione non è incoraggiante − la prua di questo incontro tra le civiltà di queste sponde. Me l’hanno ripetuto spesso, invocando un lavoro particolare, i responsabili dell’Istitute du Monde Arabe di Parigi, uno degli istituti più prestigiosi al mondo, in questo campo. Io ne ho parlato a quelli che credevo essere i responsabili di questa città, sia per censo che per livello istituzionale. Mi hanno sorriso in faccia. È triste, alla mia età, aver visto queste reazioni, per cui ho smesso di proporre a loro queste cose; non le proporrò mai più perché non mi pare giusto essere deriso quando si propongono cose di questa importanza. Le proporrò a chi non ha censo e posizioni istituzionali particolari: speriamo che un po’ di più mi ascoltino.
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In morte di un fratello. Omelia al funerale di Fabrizio De André*
Qui è il luogo ed è il tempo del cuore ferito ancora una volta che diviene valle grande dove il risuonare del silenzio alto e delle povere nostre parole, si fa invocazione struggente. E invochiamo per lui cieli sereni, acque limpide, sconfinati e liberi paesaggi. Invochiamo un Padre che sa, che vuole stringere a sé questo suo figlio. Questo suo figlio, cavaliere errante, in cerca di respiro, di amore, di libertà. In cerca dell’oro che il suo cuore nobile coglieva anche tra le fanghiglie delle nostre terre, nei vicoli umidi, sporchi e bui; in cerca di quell’oro ch’era reliquia nobile di splendore di umanità. Sì, tu Fabrizio, meglio di noi scoprivi oro e amore da vero rabdomante e quest’oro di umanità offrivi cantando come un antico aèdo dal gran cuore e il tuo canto ci ha toccato, ha toccato l’esistenza di tanti giovani: tutti hanno sentito il timbro sincero che vede i fiori anche nella disperazione e sferza come si conviene gli stolti che credono d’essere semidei e disprezzano tutto e tutti. Invochiamo per te, Fabrizio, cavalcate serene nei “pascoli del cielo” e pace e gioia infinita da quel Dio che è Padre al Quale ti affidiamo. * Basilica Santa Maria Assunta di Carignano, 13 gennaio 1999.
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Invochiamo per la tua sposa, per i tuoi figli, per i parenti tutti e invochiamo anche per tutti noi che siamo qui perché possiamo avere cuore, testa e coscienza umana. Grazie, Fabrizio, per l’oro scoperto che ci lasci in eredità e perché hai aperto un sentiero per me. Vi fu un Uomo Dio, un tempo, che vide regali stupendi là dove noi vediamo solo fango e ignominia. Io prego che ora tu possa sederti con Lui alla mensa della Vera Vita, mentre noi dobbiamo arrancare e faticare. La tua città, la tua Genova è qui per dirti che ti vuol bene, per dirti grazie e molti di noi pregano per te.
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Capitolo secondo
Interventi di don Balletto su «Il gallo» (2000-2006)*
* La selezione degli articoli è stata realizzata da Luciana D’Angelo, principale animatrice della redazione.
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Ospitare i pellegrini*
Straniero, chi è fuori dalla protezione della città Sono tornato a leggermi un buon vocabolario per ritrovare quanto di più originario porta il termine “pellegrino”. Dal latino “peregrinum” che significa “straniero”, deriva da “péregre” che vuol dire “fuori città”. Già in questa ricognizione un po’ grossolana ci si accorge che il termine oltre a designare una condizione che ha a che fare con coordinate geografiche, comporta anche una “estraneità”, una mancanza di luoghi d’appoggio, di luoghi di protezione. La persona è in balia di sé, separata da quel mondo di cui ognuno di noi ha bisogno. Non sa dove posare le membra e dove depositare la propria memoria, le ricche affettività, il proprio retaggio. Tutto diviene sempre più in balia del caso, dell’imponderabile, del fato. L’insicurezza cresce e con essa il timore, la paura, sino, in certi casi, al parossismo. La personalità può scomporsi in maniera anche grave. Pensate: non poter entrare in un luogo dove si hanno alcune protezioni, dove i figli non hanno la possibilità di rapportarsi ai genitori in quel rispetto della privatezza che il nostro cuore ricerca; dove gli sposi possono essere esposti a sguardi irriguardosi e irriverenti; dove una madre non può dedicarsi a sposo e figli e, magari, a genitori anziani senza ambasce create da indiscrezioni e pettegolezzi. * Febbraio 2001.
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Non si tratta dunque del puro riparo del corpo dalle intemperie (già gran cosa questa!), ma anche della protezione e custodia della persona nelle sue espressioni e manifestazioni più personali, più discrete e più private. Si tratta, in sintesi, di non abbandonare una persona alla mercé dell’indiscrezione e del ludibrio. Ospitare, espressione della Divina Misericordia Detto in positivo, si tratta di quella terrena attenzione e custodia che potrebbe anche esser detta pietas in senso cristiano e virgiliano. È forse la beatitudine della mitezza che dovremmo tenere in più grande considerazione e che dovremmo far crescere. Mitezza e liberante protezione conducono a quell’accoglienza in casa, in qualche asilo che riscaldi il cuore e l’anima. Così è la vera ospitalità a cui il discepolo di Gesú è sollecitato a dedicarsi. Quanta ricchezza di umanità si ritrova ripercorrendo la storia tracciata dalle Scritture Sante. Indicazioni sulla natura e sui modi dell’ospitalità; prescrizioni etiche che inducono al compimento di questo dovere, alla realizzazione di questo fatto così umano; e quanti esempi la tradizione biblica ci racconta. In queste radici bibliche nasce e cresce l’ospitalità come opera di quella Misericordia che governa il mondo e tutta la storia. Quell’ospitalità, che è ancora parte di civiltà antiche specie nelle terre d’Oriente, nella Bibbia diviene segno ben trasparente dell’infinita Misericordia, l’anima vivificatrice che alimenta tutta la storia. Perché ospitare secondo la Bibbia Nel “Dizionario di teologia biblica” di Xavier Leon Dufour ed edito da Marietti si legge: “L’ospite che passa e che chiede il tetto che gli manca ricorda, innanzitutto, a Israele la sua antica condizione di stra118
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niero fatto schiavo, poi la sua presente condizione di viandante sulla terra. Questo ospite ha quindi bisogno di essere accolto e trattato con amore, in nome di Dio che lo ama. Non si indietreggerà di fronte ai più gravi sacrifici per difenderlo; non si esiterà a importunare amici se personalmente non si ha la possibilità di sovvenire alle necessità di un ospite inatteso. Tale accoglienza premurosa e religiosa, di cui Giobbe si gloria, e di cui Cristo approva la delicatezza (Lc 7,44) manifesta la carità fraterna che il cristiano deve esercitare nei confronti di tutti (Rom 12,13 e 13,8). Un uso scandaloso della genuina tradizione cristiana Non posso fare a meno a questo punto di esprimere il “mio scandalo” dinanzi all’opinione di tanti cristiani che sprizzano avversione verso gli ospiti che chiedono asilo. Per questi cristiani “perfetti” un rispettoso richiamo alla serietà della vita di cui magari si fanno vanto mi pare necessario e doveroso. Non avevo mai visto, nella mia ormai lunga esistenza, tanta spudoratezza e tanta improntitudine. Sentir l’onorevole Bossi che invoca espulsioni di stranieri per difendere la genuinità delle tradizioni cristiane sarebbe ridicolo, se non fosse tragico e delittuoso. I cristiani che si riconoscono in questa predicazione di odio con il pretesto di difesa della purezza della “tradizione” cristiana, abbiano almeno un po’ di memoria critica per ricordare come nel secolo appena finito ci siano stati annunci che volevano varie “purezze” e la memoria critica e umana sappia riconoscere quanto ne è seguito. Si aprirebbe ora un discorso sulla nostra civiltà e sulle anime che la rendono viva, operante e costruttrice. È un discorso lungo e complesso che affronterò in seguito.
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PIERO TUBINO a cura di Luca Rolandi
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Lettera agli amici Piero Tubino
Miei cari amici l’estate è passata e, forse, anche le vostre vacanze; un anno di lavoro ci aspetta tutti. In questo tempo con alcuni di voi ci siamo anche incontrati. Avrei sperato di fare un viaggio nei Balcani e… invitarvi, ma almeno per ora ho dovuto rinunciare; i miei anni, ormai sono tanti e io ci devo fare i conti. Inutile dirvi che vi ho pensato più volte; ci sono sempre occasioni che mi richiamano i vostri volti, le vostre persone; momenti vissuti intensamente, anche fugaci o prolungati nel tempo. Voi state camminando per la vita; …e anch’io, ma per me i più tanti sono ricordi e quando succede che ci incrociamo rivivo il rapporto e le esperienze avuti insieme. Con molti ci si conosce ormai da tanto tempo. Con alcuni è continuato un rapporto, anche se saltuario; con altri, non pochi, bisogna andare un po’ indietro negli anni per ritrovarlo. Per tutti, a ripensarci, non si è spento dentro di me il legame vissuto, talvolta intenso e sempre vero, nonostante i diversi modi di pensare, qualche volta… con difficoltà. A fronte degli avvenimenti di questo tempo che sono… “storia”, mi son chiesto più volte di che cosa vivete, che cosa vi sostiene, che cosa “conta” per voi nelle vicende, nel lavoro, nello studio, di tutti i giorni, nella famiglia e nelle amicizie. Da che parte state e con quale consapevolezza? Negli anni ormai lontani – Sessantotto, Settanta, Ottanta – si lottava per le “scelte di campo” e per un comportamento conseguente; oggi, mi pare, si è tentati di vivere alla giornata. Erano gli anni del conflitto est-ovest che si rifletteva nella vita; aveva senso 244
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lottare per la pace (vedi gli “obiettori di coscienza”, la mostra navale bellica a Genova e relative contestazioni), per le conquiste sociali e per l’ottenimento di una legislazione a tutela degli Immigrati. Si era costituito un fronte assolutamente nuovo di …alleanze fra gli Enti cittadini più diversi: Caritas, Sindacati, Associazione Industriali, Acli, Croce Rossa, Conferenza San Vincenzo, ottenendo leggi adeguate in Regione e in Comune. A quel tempo, il sottoscritto e altri erano etichettati come “comunisti”, anche all’interno della comunità diocesana. Oggi si stenta a cogliere i motivi veri per una “ sinistra” e per una “destra” nella competizione politica che annulla i “valori”. Troppo spesso l’esser cristiani si riduce alla frequentazione della messa festiva e alla “prima comunione” dei figli. Mentre cresce un livello esteso di “povertà”, resistono le scelte indotte dal “mercato”. Sopravvive la “beneficenza” per mettersi la coscienza a posto e che non risponde ai criteri fondamentali cristiani della giustizia. Pensando a voi, so bene che queste considerazioni trovano pure corrispondenza nelle vostre coscienze. Quello che mi ha spinto a scrivere è il desiderio di richiamarvi a queste “convinzioni” e a chiedervi quanto sono vive dentro di voi nella vita di tutti i giorni; come si riflettono nelle scelte, anche minute, che facciamo: dalla vita di Fede vissuta con coerenza nel lavoro, nelle relazioni di famiglia, dalle “spese” cha facciamo, alla “presenza” nella vita sociale, senza richiudersi nel piccolo mondo privato e, non ultima, alla “parte” delle nostre sostanze che in modi diversi diamo ai poveri, quei poveri che spesso sono vicini a noi e nella nostra stessa parentela. Se cerchiamo una spinta e una sollecitazione, basta che leggiamo i titoli dei giornali di questi giorni. “Guadagnavo milioni; ora non ho più nulla” – “Il grande crac; finanza senza regole, mercati fuori controllo. Una crisi infinita. Inchiesta sui padroni del mondo” – “il buco nero delle assicurazioni” – “500mila lavoratori inglesi tremano” – “Draghi: ‘una delle crisi più gravi della storia’ – “…Alitalia 245
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nel dramma” – “Perchè in Italia sarà l’anno nero della recessione” – “Italia meno occupati, perfino all’Istat” – Così le famiglie svuotano il carrello della spesa”. Quali convinzioni, dunque, e come sostenerle, da quali ragioni e come alimentate; per tutti, per chi ha una Fede e… per chi non ce l’ha o crede di non averla. Vi auguro grande pace e molta speranza. Arrivederci!
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Una scelta coraggiosa Paolo Bruzzo
“Molto reverendo Don Tubino, desidero scriverle, anche a nome di moltissimi genovesi, e complimentarmi con Lei per la serietà, la intelligente, precisa puntualizzazione, per il coraggio dimostrato nel “rimandare” a quel paese il nutrito branco di codardi, di imboscati, di vigliacchi che puntavano, impunemente, di trascorrere… il periodo di “leva” nel più aberrante parassitismo, nella vigliaccheria legittimata da così dette autorità di governo e (peggio) militari, fidando nella “protezione” di un “Ente” che rappresenta, per Genova, la più grande, “onesta”, importante ed articolata, la più antica, amata, efficiente “Opera di Bene”, libera e indipendente della città. Inizia così una lettera inviata a don Piero (e per conoscenza alla Curia Arcivescovile) nel giugno del 1996 quando la Caritas di Genova con altre Caritas ricusò l’ennesimo gruppo di “precettati” (cioè obiettori non richiesti ed inviati in servizio dal Ministero della Difesa senza rispettare le eventuali richieste d’impiego dei giovani e degli enti) iniziando una forte campagna di protesta e “disobbedendo” a quanto previsto dalla Convenzione. La “ammiratrice” di don Piero, una professoressa, scrisse la missiva travisando completamente i titoli dei giornali e finalmente poté dire la sua su quegli “imboscati” degli obiettori. In realtà quello era ovviamente un atto non contro gli obiettori ma contro il sistema militare che continuava a osteggiare il mondo del servizio civile. A partire da quell’episodio ci fu un confronto con l’allora ministro Andreatta che portò alla cessazione nel giro di pochi mesi della 289
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pratica delle “precettazioni d’ufficio”. Gli obiettori hanno sempre “creato problema” e solo degli “incoscienti” come don Giovanni Nervo, don Piero e gli altri apripista della Caritas in Italia potevano cogliere la sfida e dare gambe a quella che fu una grande storia. Forse qualcuno un giorno si deciderà a scrivere questa storia per farne memoria nel senso biblico del termine. Per ora pare dimenticata. Una storia che dovrebbe essere raccontata senza stereotipi, da tutte le angolazioni, a tutti i livelli per scoprire come questo fiume di spirito – improntato alla pace, al rifiuto di ogni violenza, al servizio, alla volontà di costruire un mondo più giusto e solidale – abbia irrigato campi che hanno dato o stanno dando frutti insperati e campi dove la messe deve essere ancora raccolta. A questo fiume hanno portato acqua giovani che sono arrivati all’obiezione con le motivazioni più disparate e con predisposizioni diverse. Hanno portato acqua anche i tanti formatori, responsabili, direttori, parroci che ci hanno creduto. Recentemente ho sentito uno dei nostri parroci, che fu uno dei responsabili di “centro operativo” più attivo, dire che la sospensione della leva è stata, per quanto segno dei tempi e frutto di un cammino, la più grande disgrazia per il mondo giovanile e per la nostra comunità. L’obiezione ha costretto i giovani e la Caritas ad approfondire tematiche, a relazionarsi con le istituzioni, a parlare di diritti e di doveri, a studiare, a fare politica, a praticare la formazione, a inventare, a creare, a servire, a confrontarsi con le associazioni, a muoversi nella cristalleria della nostra Chiesa su un tema scottante come quello della guerra, dell’esercito, di cosa un cristiano deve e non deve accettare. Il fenomeno obiezione in Caritas ha cambiato profondamente la Caritas stessa, la Chiesa, le istituzioni, il territorio, i servizi sociali, la comunità. Chi conosce e ha vissuto questa storia sa che ovunque si guardi nel nostro territorio fisicamente, socialmente, storicamente, culturalmente si trova motivo di citare un collegamento con il fenomeno Obiezione. È assolutamente importante “guardare” però non con un unico obiettivo, ma cambiare le focali, mettere dei filtri e al290
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lora quei campi irrigati vengono fuori e quei semi ancora sottoterra si scoprono in vita e pronti a “fruttare” chissà tra quanto tempo e chissà dove. Dice Nervo “…il problema della pace è certamente posto con forza dalla guerra, ma obbliga di fatto ad una riflessione che va molto più a monte e che noi, come Caritas, ci siamo trovati a fare sotto lo stimolo degli obiettori di coscienza, che ci hanno spinto a trattare il problema della nonviolenza e della difesa popolare nonviolenta…”. Non leggete questa storia monoliticamente. Obiettore evoca o “imboscato” o “impallato”… ebbene questi giovani, a migliaia, erano eterogenei per provenienza, per esperienze, per ceto, per titolo di studio, per sogni, per religioni, per credo politico… eppure tutti hanno dato qualcosa a modo loro nell’ambito delle varie sfaccettature dell’esperienza. Molti hanno cambiato la vita, tutti ricordano questa esperienza come una pietra miliare della loro vita. Nel 2008 don Luigi Ciotti, durante il 30° anniversario dell’obiezione in Caritas a Genova, disse: “Solo nell’insieme l’azione del singolo trova coraggio, senso, speranza. Per cambiare, seminando solidarietà, diritti, giustizia, la società ha bisogno di riconsiderare la centralità del ‘noi’”. Ho avuto la fortuna di partecipare alla storia dell’Obiezione di Coscienza come attore non protagonista immediatamente prima della storica sentenza della Corte Costituzionale che decretò la pari durata del servizio civile degli obiettori rispetto al servizio militare mettendo così fine ad una delle più eclatanti discriminazioni dettate dalla legge 772 del 1972. Era la fine degli anni Ottanta carichi di fermenti in tutti gli ambiti, a tutti i livelli e in tutto il mondo. Tiananmen doveva ancora arrivare, il muro di Berlino doveva ancora cadere e l’Afghanistan, oggi occupato dalla NATO, era invece occupato dall’Unione Sovietica. In Italia governava il pentapartito. A Genova con il contributo degli obiettori terminava positivamente la lotta contro la Mostra Navale Bellica esempio “dimenticato” di lotta nonviolenta. Nel mio lavoro in Caritas ho conosciuto più di mille tra obiettori e ragazze dell’anno di volontariato sociale e più di un centinaio di persone 291
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che se ne occupavano sotto diverse forme. C’era la netta sensazione di partecipare attivamente alla comunità, di cambiare lentamente ma inesorabilmente le cose, di costruire la storia… ma non eravamo degli invasati visionari perché vedevamo in diretta i risultati: alcuni nell’immediato altri dopo anni di fatiche. Ventisette anni di lotta, confronto e sentenze della Corte Costituzionale hanno portato all’abolizione della legge 772. Nel giro di due anni gli obiettori che, contro le direttive del Ministero della Difesa, si recavano in missione nei Balcani durante la guerra autodenunciandosi, ottennero il cambiamento radicale di rotta ministeriale. Ma l’obiezione non è stata solo autodenuncia, disobbedienza, auto distacchi, auto trasferimenti, digiuni, ecc. È stata anche innovazione nei servizi della nostra città, servizi di frontiera, sperimentazioni, nuove associazioni, nuove cooperative, nuove politiche. È stata animazione ai diritti, alla solidarietà, alla giustizia, alla mondialità con approcci e competenze diversificate. È stata la prima volta che la nonviolenza è stata approcciata in maniera scientifica. È stata l’intervento massiccio e determinante nelle emergenze nazionali dal Friuli all’Irpinia, dalla Sicilia all’Umbria passando per Alessandria. È stata testimonianza ad esempio con le comunità … ma quanti anche al giorno d’oggi andrebbero a vivere per un anno insieme ad altri emeriti sconosciuti? Dice Roberto: “Durante il servizio civile (1983-1984) aprimmo il dormitorio al Monastero per l’emergenza freddo. C’erano dodici ‘barboni’ ospitati a dormire. Io e un altro obiettore dormivamo in una stanza a parte. Don Piero il giorno dopo ci disse “Se volete condividere davvero, dovete dormire insieme a loro”. Non l’ho mai dimenticato”. Roberto è uno dei tanti obiettori che ho conosciuto… che bello esserci stato! …che bello aver conosciuto tanti compagni di strada… oggi sono sparpagliati nella nostra società: operai, assessori, deputati, sindaci, operatori sociali, medici, architetti, maestri, commessi, artigiani, professori, politici, sacerdoti, assistenti sociali, avvocati, notai, spazzini, magistrati, funzionari ONU, ristoratori, ecc. ecc. …stanno seminando. 292
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Torniamo alla nostra professoressa… non ho dubbi che anche oggi, se ci fosse la leva obbligatoria, lettere di questo genere verrebbero scritte e che anche nella nostra Chiesa si riaprirebbe un dibattito sopito più dalla mancanza di un obbligo che non dal termine di un percorso completo di crescita culturale, politica e religiosa. L’obiettore (non solo al servizio militare) crea sempre “complicazioni” perché spezza delle routine e fa interrogare le persone. Sarà forse per questo disagio che l’obiettore viene messo costantemente in discussione, analizzato, interrogato e messo nelle condizioni di “pagare” per la scelta.
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Prediletti nella solidarietà nel servizio della cultura e nel pensiero che rendono gli uomini liberi prima ancora che fratelli Antonio Balletto e Piero Tubino sacerdoti nella città per voce diretta ci parlano in questo libro stampato nel carattere Simoncini Garamond su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sagi di Reggio Emilia per conto di Diabasis nel febbraio dell’anno duemila dieci
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