GIULIANO GUARESCHI € 15,00
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UNA VITA PER MIO PADRE, GIOVANNINO GUARESCHI
La prima edizione costituita dalla sola prima parte di questo volume ha ricevuto il Premio Mario Soldati (settore Critica e Giornalismo) nel 2004.
GIULIANO GUARESCHI
DIABASIS
Figlio d’arte e figlio primogenito naturale Giuliano Montagna è emigrato in Australia a 19 anni, nel 1961, nel sogno − impossibile in Italia − di esercitare come il padre la professione di giornalista. Dopo un’intera vita passata nel desiderio di morire con quel cognome, il suo cognome, Giuliano Montagna ritorna in Italia Giuliano Guareschi, giornalista e scrittore. Ne fanno fede il DNA, giudice biologico e legale (era il “lontano” dicembre del 2008), e questo libro.
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Topolino Transports Internationaux Routiers
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Cura redazionale Gianluca Grassi e Alessandro Scansani
Progetto grafico e copertina BosioAssociati, Savigliano (CN)
ISBN 978-88-8103-545-8
Š 2009 Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italia telefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047 info@diabasis.it www.diabasis.it
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Giuliano Guareschi Montagna
Una vita per mio padre Giovannino Guareschi Nuova edizione accresciuta di un epilogo, La forza del destino, e delle Cronache australiane
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A mia madre Luisa
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Itaca
Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga fertile in avventure e in esperienze. I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere d’incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In Ciclopi e Lestrigoni, non certo né nell’irato Nettuno incapperai se non li porti dentro se l’anima non te li mette contro Devi augurarti che la strada sia lunga. Che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti – finalmente, e con che gioia – toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre tutta merce fina, anche profumi penetranti d’ogni sorta, più profumi inebrianti che puoi, va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti. Sempre devi avere in mente Itaca – raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos’altro ti aspetti? E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare. Costantinos Kavafis (Da: Settantacinque poesie, Einaudi 1992, trad. e cura di Nelo Risi, Margherita Dalmati)
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PRIMA PARTE
Mio padre Giovannino Guareschi Dal Po all’Australia inseguendo un sogno
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Una speranza lunga una vita
Sono tornato a casa inseguendo una speranza: diventare la persona che sono. Un giornalista che ha avuto fortuna in Australia nel mestiere al quale inconsapevolmente mi aveva votato mio padre, scrittore famoso. I suoi protagonisti hanno animato libri e film divorati in ogni angolo del mondo. Quale desiderio poteva scaldare un figlio se non l’avventura dell’imitazione? Papà aveva cercato di spegnere la mia voglia di imboccare la “strada tribolata”: diceva così. Una sera, in automobile, prima che lasciassi la mia piccola città, ha raccontato di trappole e delusioni in agguato nei corridoi di ogni giornale. E il sapermi lontano dagli affetti lo preoccupava. Voleva che cambiassi idea. Da lui ho ereditato la testa dura e sono partito. Eccomi di ritorno. Stasera la mia terrazza si affaccia sulla cupola illuminata della Steccata: protegge nuvole e angeli del Parmigianino. A Sydney sfogliavo libri che ne riproducevano l’incanto e immalinconivano la nostalgia. Adesso posso allungare la mano, quasi sfiorarli. Ma una nostalgia più profonda resiste in fondo al cuore. Quanto tempo è passato dal ruvido addio a mio padre, eppure la memoria raccolta nei fogli sui quali ho appena scritto la parola fine, ribadisce silenziosamente un desiderio che può sembrare effimero, come la vanità, ma resta il tormento della vita. 11
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Vorrei che sulla tomba fosse scritto il mio vero nome, Giuliano Guareschi. Montagna era solo il marito gentile di una ragazza che a vent’anni aveva avuto un bambino da un aspirante giornalista poco più grande di lei e con cui si incontrava per amore dall’età di sedici anni: Giovannino Guareschi, lo scrittore di Peppone e Don Camillo.
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Trenta righe
Sydney, 23 luglio 1968. Il cielo d’inverno è trasparente, ma il vento spinge nuvole nere sulla città. “Fra un po’ piove”, penso. E continuo a sfogliare le carte. È giorno di chiusura, le ore sono contate. La tipografia aspetta. Arriva Zadro, il giornalista anziano. Nel 1947 faceva parte del gruppo che ha rimesso al mondo «La Fiamma», settimanale per gli italiani d’Australia con alle spalle una storia lunga un secolo. L’hanno fondato i missionari cappuccini. Oggi è un quotidiano. Quel mattino mette sul tavolo dieci foglietti. Zadro passa la notte ad ascoltare in cuffia le informazioni che arrivano da Roma, perché la Rai – ancora nel ’68 – considerava l’Australia periferia dell’Africa, sulla quale erano puntate le antenne di chissà quale impero perduto. Bisognava rubare voci che tremavano lontano. Niente di speciale, briciole di informazioni. Le novità non c’erano mai: un po’ di politica, il delitto passionale. Sport e scandali veniali. Gli intrighi sociali si lavavano in casa. Gli italiani “di fuori” non dovevano sapere quali ombre e quali mani agitavano i palazzi della madre patria. Quel mattino, il mio cuore si è fermato davanti al titolo scritto in fretta da Zadro con la biro: “Guareschi”, seguito da cinque righe. Era morto la notte, al mare. Anch’io mi fermo, mentre un sospiro mi trema sulle labbra. Leggo e rileggo cercando di non cambiare espressione. Gli 13
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altri che pigiano i tasti nella stessa stanza non si accorgono della commozione che mi sgrana gli occhi. Mormoro qualcosa rileggendo l’appunto per l’articolo da scrivere: “Morto…” Sillabo la notizia, sorpreso, disperato: una parola ha portato via mio padre. Nessuno sospetta il dolore che allaga il mio cuore. In quel momento entra il direttore, Evasio Costanzo. Gli passo il foglietto. “Roba tua”, risponde. “Vieni da Parma, scrivi trenta righe. Affettuose, mi raccomando. Quando ancora non lavoravi con noi, Guareschi ci ha permesso di pubblicare a puntate il libro di Don Camillo. Gli italo-australiani lo hanno incontrato sulle nostre pagine prima che uscisse il film.” Raccomanda di essere affettuoso. Scuoto la testa. Sono le trenta righe più difficili della mia vita. Non riesco a pensare. Non mi rassegno ad accettare che l’inseguimento cominciato da ragazzo possa essere finito con le poche parole di una nota interna su un pezzo di carta. Ho voglia di prendere il telefono, dire qualcosa a qualcuno. Solo mia moglie sa il segreto che mi ostino a seppellire in un silenzioso dolore. Il tempo lo aveva rattrappito, cancellato mai. Mi guardo attorno. Gli altri scrivono e i tavoli sono talmente vicini che mi pare impossibile – se telefono – non udire le mie parole. Per anni ho represso il desiderio di far sapere chi sono davvero. Ed ecco la notizia che rimescola le carte. Sento che non è ancora il momento di raccontare l’altra verità. Scendo in strada e da una cabina chiamo casa. “Si è fatto vivo qualcuno dall’Italia?” Lo so che è un’illusione. Nessuno ha mai chiamato per dirmi di mio padre. Perché mai qualcuno dovrebbe farlo ora, per avvertirmi che ha smesso di respirare? “Perché me lo chiedi?” Sento la meraviglia di Giancarla, mia moglie. Le spiego, e la telefonata diventa strana. Giancarla resta in silenzio, io non parlo. Abbiamo immaginato tante volte, fra 14
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di noi, come “il figlio australiano” dovesse ripresentarsi al padre nell’apologia di un ritorno: l’automobile grande, gli articoli dei giornali, le onorificenze di Sydney e i collari dell’ambasciata italiana. Di colpo i sogni sono finiti. La voce di Giancarla è un sussurro tagliato da una frattura: “Vai al funerale?” “A cosa serve? Resto.” Quando era vivo ci siamo incontrati di nascosto, adesso che non c’è più sono stanco di giocare con i segreti. La notizia della scomparsa di Giovannino Guareschi chiude il sipario di una pantomima incominciata tanti anni prima, il 20 agosto 1933, in un borgo della vecchia Parma: ombre umide di piccole case lontane dalla Bassa di Peppone e don Camillo, distanti dalla villa che mio padre fece costruire dopo i suoi trionfi. A lui piaceva l’erba sulla porta di casa. Io sono nato in un posto diverso: Borgo Schizzati. Mio padre abitava in Borgo del Gesso, soffitta larga tre passi, portone di fianco alla vetrina di una macelleria senza sfarzo, che vendeva carne di cavallo: due quarti appesi alla parete e avvolti in lenzuola bianche, per difenderli dagli attacchi delle mosche. Quando è venuto al mondo (è il suo racconto) l’evento era stato salutato dai comizianti socialisti raccolti nella piazza di Fontanelle, un paese che non è proprio paese e non fa neppure comune; solo una frazione con tradizioni sindacali radicate nelle rivolte contadine. Nella casa di fronte era da poco arrivato un altro bambino, figlio della fornaia, cugina dei miei nonni. L’avevano battezzato Pietro. Nell’oscurità di una campagna lontana dalle luci della città, cominciava per Pietro Bianchi l’avventura di critico cinematografico, talmente bravo da incantare Milano e Venezia, se il suo nome è stato onorato con il premio assegnato dalla critica. La notizia che mio padre aveva aperto gli occhi ha faticato, quel giorno, ad attraversare la piazza e a infilare la porta di casa Bianchi. Sul palco i comizianti invitavano allo sciopero. 15
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E la gente si agitava, troppo spaventata per cogliere la felicità della nascita di un altro bambino. Nelle piazze di quell’Italia contadina risuonavano ovunque imprecazioni simili alle voci che animavano il paese raccolto, quel mattino, sotto l’argine. Nel frastuono era impossibile immaginare come il destino di due cugini si sarebbe legato a una comune passione: scrivere. Mio padre aveva suo padre che girava i paesi con un proiettore e tanti film: ombre proiettate su lenzuola sistemate nelle aie di paese, dalla primavera alla prima nebbia. Pietrino Bianchi ha cominciato ad amare il cinema così. Se lui è venuto al mondo nel teatro rumoroso che in fondo ha sempre accompagnato la sua fantasia di scrittore, la mia nascita è stata accolta in modo diverso: come uno scherzo imprevisto e penoso del destino. La vita al «Corriere Emiliano», il quotidiano dove Guareschi lavorava (cioè la vecchia «Gazzetta di Parma», alla quale il fascismo aveva cambiato nome) si dimostrava interessante e carica di promesse. Costava fatica lavorare a un giornale e, per alleggerire gli affanni, in redazione e in tipografia gli scherzi erano all’ordine del giorno. Spesso si inventavano notizie per il piacere di fare una risata. Fra le notizie brevi del 20 agosto 1933, nella rubrica “Una culla” il «Corriere Emiliano» faceva sapere, in modo canzonatorio, ma forse davvero troppo pesante: “La casa del nostro carissimo amico e compagno di lavoro dottor Nino Guareschi è stata allietata dalla nascita di un superbo maschietto che fa onore ai genitori. Gli hanno imposto il nome augurale di Primo. Speriamo che per Nino Guareschi sia il primo di una serie lunga e felice”. Ho ricopiato queste poche righe da uno dei tanti libri che accompagnano le ricorrenti linee d’ombra della mia malinconia: Giovannino Guareschi, una storia italiana di Alessandro Gnocchi. Gnocchi apre pieghe che sembrano minori nell’economia di una vita; ma ogni biografia lo richiede, proprio perché “le voci marginali di qualunque storia rivelano realtà a volte sconvol16
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genti”. Lo scrive Musil nell’Uomo senza qualità. Per lungo tempo mi sono sentito senza qualità, sotto la maschera che copriva la mia vera storia. E tutto iniziò proprio con il “gioco” goliardico di quell’articolo: il mio mondo piccolo, in una piccola città. Nato la mezzanotte del 20 agosto, il giornale già lo annunciava: com’era possibile? Fra le voci raccolte, spuntano le confidenze dei compagni di lavoro del «Corriere Emiliano». Quel giorno mio padre era nervoso. A qualcuno ha spiegato perché. Scapolo e squattrinato, stava per mettere al mondo un bambino. E mentre annunciava quella prossima nascita, la crudeltà ironica di amici da sempre fedeli è esplosa in una risata. “Dai, non prendertela. Succede a questa età…” Sulle carte dell’anagrafe mi chiamo Giuliano Alberto Michele. Tre nomi, un solo cognome, quello di mia madre: Carta. Il nome del padre era brevissimo, ma pesante come una condanna: N.N., etichetta che, nella tradizione delle donne sedotte e abbandonate di un’altra Italia, indicava il figlio del peccato. N.N. l’ho ricevuto come una scomoda eredità. Poi mia madre Luisa si è sposata e, per regalo di un cortese patrigno, ho guadagnato l’altro cognome: Montagna. Nessuno faceva più domande, ma il cambiamento non è stato semplice. Tante amarezze fra le scartoffie del Comune e della scuola. Mancava sempre qualcosa. Eppure non me ne sono quasi accorto, anche se non sapevo spiegarmi le facce lunghe che mi circondavano, quando la burocrazia faceva ripartire da zero ogni speranza. Ai bambini non si racconta mai. È stato solo l’inizio della mia ricerca. Di quel periodo è rimasto come segno un piccolo, muto testimone materiale. Quando ero ragazzo, e ancora ignoravo i retroscena della mia vita, non capivo una certa mania di mia madre: la sorprendevo ogni tanto lisciare con le mani, quasi fosse un bambino, il primo corredo che mi aveva vestito. “Guarda com’è bello…”, ripeteva. 17
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Era bello, sì, ma quante volte glielo avevo sentito dire! Finché una sera, alzando gli occhi dal quaderno dei compiti, ho chiesto tanto per farle piacere: “Dove l’hai comprato?”, “Te l’hanno regalato?”, “Chi?” “Un signore molto importante per me, e anche per te. Un giorno te ne dirò il nome.” Un amico della «Gazzetta» aveva consegnato il pacco a mia madre, pochi giorni dopo la nascita. Una zia raccontava che mia madre aveva pianto, mentre il giovane signore le parlava sottovoce in un angolo della stanza. Più tardi ho saputo chi era quel signore: Alessandro Minardi, un giornalista che non avrebbe più lasciato mio padre fino all’ultimo «Candido» dell’editore Rizzoli, in piazza Carlo Erba, a Milano. Mia madre non mi aveva detto tutto. L’ho saputo solo anni dopo. Quando sono nato avevo una cugina grande, Mina Nardi, di tredici anni. Quel giorno in casa c’era anche lei e ricorda di aver visto il commesso di un negozio consegnare a mia madre lo scatolone con un corredino da neonato e, più tardi, arrivare Guareschi con la sua Topolino “per controllare”. Si è affacciato, e ha chiesto se avevano portato il suo regalo. Mina lo conosceva bene. Aveva tredici anni e accompagnava mia madre, all’epoca non ancora maggiorenne, agli incontri segreti nel solaio di Borgo del Gesso. Lo ricorda come un grande stanzone diviso in due da una tenda; poi la libreria, la scrivania fatta da un’asse che ne incrociava altre due, libri e giornali accatastati dovunque. Mina andava dietro la tenda ad aspettare la cugina e ascoltava. Una volta sentì la voce di Guareschi che supplicava: “Non devi sposarti. Aspetta, vieni a Milano. Là aggiusteremo tutto”. Quando, al ritorno, Luisa le chiese se aveva sentito, Mina non poté negare. I suoi ricordi per me sembravano non finire mai. “Guareschi veniva a Parma, e dormiva all’Albergo Buton, 18
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un simbolo a quei tempi per i viaggiatori che potevano spendere. Quasi in piazza. Luisa gli scriveva dei bigliettini che lasciava al portiere, poi tornava a prendere la risposta. A volte li portava mia sorella Tina. Tina era molto curiosa e, se si fosse trovata nella soffitta, avrebbe sicuramente anche sbirciato tra i buchi della tenda. Consegnava i messaggi al portiere e si sedeva ad aspettare. Voleva vederlo”. In casa si parlava spesso di Guareschi. Tanto. Di lui le piacevano, a lei piccina, gli occhi e gli enormi baffi. Guareschi leggeva. Chiedeva al portiere un foglio per la risposta. “Ecco, salutami Luisa.” E si affrettava verso la piazza. I messaggi a volte la riempivano di gioia, a volte la facevano piangere. “Ascoltavo le confidenze di Luisa – ricorda ancora Mina – mentre ne parlava con la sua amica del cuore. Lavoravano assieme alla fabbrica di scarpe. Poi l’altra ragazza si è sposata e non l’abbiamo più vista. Luisa mi ha raccontato che anche lei ha avuto un bambino. È cresciuto ed è diventato lo scrittore Alberto Bevilacqua.” Mina è convinta che mia madre volesse “solo dare un cognome al bambino, subito, a tutti i costi: e ha sposato la prima brava persona che le girava attorno”. La verità nascosta nelle abitudini di una famiglia normale mi ha raggiunto, fra reticenze e silenzi, solo molti anni fa, quando stavo per diventare uomo. Dietro il mio N.N. c’era un nome. La domanda non smetteva di battere. “Chi è?” Lo sguardo del nonno sfiorava il giornale che stavo sfogliando. Leggevo tantissimo. Adoravo i settimanali. “Un giorno lo saprai, ma qualche volta già parli di lui.” “Di lui?” Ripassavo a memoria i volti di chi girava attorno alla nostra casa. Impossibile immaginarlo. Ercolino era il nonno materno, l’unico nonno che ha ac19
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compagnato la mia vita, perché i genitori del padre putativo non hanno mai voluto vedermi: figlio della colpa senza saperlo; ma loro sapevano. “Ne parlo?”, insistevo. “A quale proposito?” Volevo sapere, ma ritornava il silenzio. Il nome restava nelle pieghe di una volontà negata, di una memoria che non possedevo. Finalmente un giorno Ercolino me l’ha detto, e la rivelazione mi ha stordito. Certo! Conoscevo bene quel nome. Ero giovane, e fui eccitato all’idea di essere figlio di un uomo importante, anche se lontano ancora, a quel tempo, dal successo di Don Camillo. Eppure amareggiato: perché mi aveva buttato via così? Il tormento mi impediva di conservare il segreto con le persone care. La vita me lo ha insegnato in Australia: non è consigliabile aprire a tutti il libro che ogni persona nasconde in fondo al suo cuore. La meraviglia è stata scoprire – una confidenza per volta – che lo sapevano in tanti. Lo sapevano anche i miei veri nonni paterni, che abitavano a Marore, poco lontano dal mio borgo: campagna a due passi dalla città. Il tempo, un foglio alla volta, mi ha riconsegnato dalla voce di Mina questa strana storia, che è la mia storia. Io non potevo ricordarla: ero troppo piccolo. Mina mi portava a prendere aria sullo stradone, il viale degli ippocastani che allora era all’interno della città, in ore strane, me ne rendo conto adesso. A volte uscivo di casa al mattino presto, a volte quando suonava mezzogiorno. E sempre a sederci sulla stessa panchina. La madre di mio padre (il sogno inseguito di mio padre) si chiamava Flaminia Maghenzani e faceva la maestra in città. Scendeva dalla corriera di Marore a metà del viale e camminava verso la scuola. “Sorrideva da lontano. Si chinava su di te: ‘Posso prenderlo in braccio?’ Infilava le dita fra i riccioli biondi. ‘Vien voglia di mangiarlo…’ Tu ti spaventavi a quelle parole, e la maestra scoppiava a ridere. ‘Sto scherzando, sciocchino!’ Un mattino ha chiesto la tua foto.” 20
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Dopo una settimana Luisa gliel’ha portata. Mi aveva accompagnato dal fotografo. Non volevo star fermo. E lei mi sgridava. Mina aveva detto a mia madre: “A me sembra troppo ben vestito”; ma Luisa le aveva risposto che “alle maestre piacciono così”. Ho scoperto questa nonna leggendo il «Corrierino delle famiglie». Nell’Australia lontana. Ho scritto a mia madre: “L’hai conosciuta?” Mi ha risposto: “L’hai conosciuta anche tu”, senza aggiungere altro. Sono tornato al funerale di mia madre due anni fa. In quell’occasione Mina mi ha chiesto: “Chissà dove avrà messo la foto. Quella foto tua di allora, troppo ben vestito, che conservo forte tra i ricordi”. Il pensiero mi tormentava. Ho ripreso il libro di mio padre, sperando di sapere qualcosa di più di lei. Nel racconto Diploma della signora maestra, protagonista è la medaglia d’oro che il Ministero dell’Educazione ha spedito alla nonna, con l’elogio di un diploma per i suoi quarant’anni di insegnamento. Solo che il diploma è arrivato quando la nonna era già morta. E mio padre si è arrabbiato nel suo modo: un po’ furioso, un po’ commosso. “Mi hai insegnato a vivere e a morire, ma io sono il tuo peggior scolaro. Io adesso sono il tuo Franti, quello che faceva piangere la madre… stai tranquilla, signora maestra, non ti preoccupare per me… metterò il diploma in cornice e lo appenderò al muro al quale è appoggiato il mio tavolo di lavoro. E ogni tanto lo guarderò. Finché avrò negli occhi un po’ di quella luce che tu mi hai dato approfittando di un giorno di vacanza.” È tutto ciò che so della nonna, che accarezzava con tenerezza il suo segreto sul viale di Marore. A volte mi guardo allo specchio, e mi piace pensare che forse un po’ di quella luce è arrivata anche a me. 21
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Incontri clandestini
Dopo il primo incontro con mio padre, in quella Milano bollente, ne sono seguiti altri a Parma, nella casa di un vecchio signore, Giancarlo Minuti, piccolo, elegante. Suonava la chitarra e raccontava storie divertenti. Malgrado fosse più maturo di mio padre, erano diventati amici nella città ancora spensierata di prima della guerra. “Che cosa mai poteva legarli?” mi chiedevo. Forse a Giovannino piacevano i racconti di quel tipo, che aveva vissuto a Parigi, proprietario di un ristorante famoso, con la nostalgia di Parma ed era tornato assieme alla sorella. Dopo l’emigrazione e il lavoro duro, pensava di poter finalmente godere i suoi risparmi in una vita agiata. Invece la sua generosità rasentava la scelleratezza. Non aveva fiuto per gli affari e non conosceva la parsimonia. Svanita in poco tempo la ricchezza, ha incominciato a cercarla di nuovo dove poteva e dove trovava: maître negli alberghi di Salso, gestore di ristoranti e caffè. Però l’abitudine all’accoglienza degli amici non è mai cambiata. Mio padre veniva da Milano e lui apriva le bottiglie che aveva tenuto da parte. Minuti “sapeva”, Giovannino gliene aveva parlato. E un giorno, mentre mio padre gli raccontava di un nostro incontro, forse con l’impaccio degli appuntamenti clandestini, Minuti gli ha detto: “Perché non vi vedete a casa mia?” Nella sua casa viveva la nipote Giancarla, ancora una bambina. Sarebbe diventata mia moglie. Con l’eccitazione della 57
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novità per i racconti che ascoltava, in un angolo della stanza, è stata un testimone silenzioso, ma attentissimo. E proprio da lei un giorno, dai suoi ricordi narrati della bambina che era stata, ho ascoltato i pezzi mancanti della mia vita. A restituirne la trama. Avevo dieci anni, la prima volta che Giuliano è entrato in casa mia, nel primo incontro segreto col padre. Mi incuriosivano i preparativi della nonna sempre così partecipe dell’evento: crostate di marmellata che cuocevano nel forno, granatine di ghiaccio e amarena. La nonna rideva, guardando Giuliano. Magro, biondo, terribilmente introverso: sempre silenzioso. I suoi occhi non perdevano un solo attimo l’ospite venuto da Milano. Rideva delle battute che Nino distribuiva con allegria, per le quali tutti pendevamo dalle sue labbra. Poi se ne andavano: prima usciva Giuliano, poi il padre. Ascoltavo i commenti dei nonni, un po’ indecifrabili per una bambina. Capivo che parlavano per allusioni, temendo che la mia innocenza potesse tradirli: magari una chiacchiera, mentre giocavo con le amiche. Intanto gli anni diventavano duri. Giuliano aveva interrotto gli studi per lavorare dove capitava, fino a quando è venuto il posto alla Barilla. Un giorno torno da scuola e trovo due giornalisti che stanno parlando col nonno: “È vero, signor Minuti, ciò che si dice in città? che Guareschi ha un figlio illegittimo? Lei dovrebbe saperlo e sapere chi è. Così amici come siete…” Quel mattino ammirai insospettabili qualità di recitazione del nonno. “È la prima volta che lo sento. Provate a domandarlo a lui. Se è come voi dite, lui di sicuro lo sa. A me purtroppo non ne ha mai parlato.” Ma la politica cercava uno scoop contro Guareschi, e i giornalisti non si sono arresi. Sono andati dalla madre di Giuliano, 58
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prima che potessimo avvisarla. Il nonno era agitato: “Devo andarle a parlare…”. Al suo ritorno sorrideva. “Gran donna…”, raccontava a mia nonna: “Ha tenuto la bocca chiusa”. Io mi incuriosii: perché lo aveva fatto? Per non mettere nei guai un uomo che aveva amato e che adesso ogni tanto può incontrare il suo Giuliano, mi venne da rispondere. E per non mettere in piazza l’uomo che l’aveva sposata e che aveva riconosciuto il bambino. “Povera donna” il nonno si amareggiava, “ha incontrato l’uomo giusto nel momento sbagliato…” Gli anni passavano anche per me bambina. Incominciavo a guardare Giuliano con altri occhi. E mi chiedevo: se il padre non fosse ricco e famoso, la ricerca di Giuliano sarebbe stata la stessa? Quando l’ho conosciuto meglio, ho capito quell’angoscia dell’identità cancellata, di come un figlio abbandonato passi la vita a cercare gli occhi dei genitori. Guardavo padre e figlio seduta su uno sgabello nascosto nell’angolo del salotto. La nonna entrava e usciva con le crostate e i bicchieri del vino bianco. Lo sgabello foderato di pelle è il solo pezzo di casa che avevo fatto arrivare in Australia, quando tutti se n’erano andati. Un reperto traballante, ma anche l’ultimo cimelio di un’infanzia perduta. Il giorno in cui ho deciso di liberarmene, perché non c’era più posto per quel pezzo di legno nella nuova casa australiana, l’ho fatto piangendo. Mi stavo separando da un pezzo importante della mia vita. Lo sgabello sul quale ascoltavo, leggevo e spesso piangevo, come tutti gli adolescenti; ma anche lo sgabello che era stato un testimone muto di questa storia che è diventata la mia storia. Quando la porta si chiudeva e restavano soli, nonno e nonna discutevano. La nonna insisteva: “Deve riconoscerlo”. Il nonno rispondeva che esiste una responsabilità anche verso noi stessi, il rispetto per i nostri sentimenti. Quando una storia finisce, finisce. E la vita deve continuare, così come abbiamo desidera59
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to che potesse essere. Nino era poco più di un ragazzo. Come avrebbe potuto andare a Milano con una moglie bambina e un figlio appena nato? La nonna non si arrendeva. Dal canto suo Luisa non avrebbe mai accettato di dare al figlio un cognome, senza essersi sposata. Ogni volta che Nino e il ragazzo tornavano, guardavo Giuliano. Non staccava gli occhi da lui. Beveva ogni sua parola: “Per imparare…”. Quando ci incontravamo per strada, anche noi facevamo i carbonari. Un po’ lontani dagli altri per non lasciar trapelare i discorsi. “Farò il giornalista come mio padre.” Giuliano non aveva dubbi. Forse mi ha incantato così. Neppure aveva dubbi quando guardava suo padre. E l’impossibilità di dire quella certezza, e quel bisogno, sarebbe stato l’altro rovello della sua vita. C’è anche un piccolo ricordo di Nino che mi riguarda. Quando si girava verso di me, sorrideva intimidendomi con una parola che i nonni hanno dovuto spiegarmi: “la nostra piccola Pasionaria”. Ho poi scoperto che usava quel nomignolo per le altre bambine della sua vita. Un giorno Giuliano ci venne a salutare: andava in Australia. Dell’Australia sapevo solo ciò che raccontavano i libri di scuola. I canguri, le pecore, la lana. Giuliano mi scriveva. Una volta gli ho risposto: “Va bene”, e sono partita. Lasciavo tante cose: le risate nel passeggio con le amiche, l’opera al loggione, gli affetti, le amicizie… Quel viaggio tagliava ogni cosa. Era il ragazzo del quale pensavo di essere innamorata. Giuliano, non Clotilde, era ormai il destino, per me. Una sera mi aveva detto: “Domani ti regalo l’anello”. “Meglio la bicicletta” ho risposto. “Serve di più”. Autoironia affettuosa imparata insieme. Venuta forse da lontano. 60
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Minardi, l’amico
Quando Alessandro Minardi, amico e braccio destro di mio padre (più di un braccio destro) ha bussato alla mia porta di Borgo Felino, non ero in casa. Quella mattina a Milano, e poi ogni volta nella casa del nonno di Giancarla, mio padre aveva continuato a ripetere: “Qualsiasi cosa ti serva, scrivi a Minardi. E lui mi farà avere le lettere”. Ogni tanto Minardi mi mandava un assegno circolare. Solo un assegno, neanche una riga. Quel mattino non mi ha trovato. “Era venuto a comunicarti una cosa importante”, riferì mia madre. Qualche giorno prima lui e Nino erano andati a trovare Pietro Barilla. La Barilla dava lavoro a mezza Parma. “Gli hanno chiesto di assumere Giuliano. Non ha detto di no. Ti vuole parlare. Presentati domani mattina nel suo ufficio.” Alessandro Minardi ha concluso la carriera di direttore al «Candido» dopo il ritiro di mio padre. Si erano conosciuti poco più che ragazzi attorno ai tavoli del Caffè Centrale, e dividevano un appartamento all’ultimo piano di Borgo del Naviglio: un pezzaccio di casa che entrambi cercavano di rendere vivibile con secchi di calce e due scope. La loro vicina di casa, Ninni Borghesi, oggi novantenne, ricorda il tono delle loro voci e i loro inconfondibili grossi baffoni, prima che Giovannino si trasferisse in Borgo del Gesso. 61
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Incominciava la primavera, si allargavano i tavoli in via Cavour. Li frequentavano gli intellettuali parmensi. C’era un prete che si chiamava don Drei, modernista sul filo dell’eresia. A mezzogiorno arrivavano Pietro Bianchi, Cesare Zavattini, Attilio Bertolucci. Per loro era solo una tappa verso la piazza, dove Otello distribuiva gelati a un altro tipo di cultura. Quella del professor Oreste Macrì, esperto di letteratura spagnola, dell’editore Ugo Guandalini emigrato da Modena a Parma, dove si era accorciato il nome: Ugo Guanda. All’ora dell’aperitivo arrivava dalla vecchia pretura il dottor Ugo Betti: la magistratura era l’alibi che gli permetteva di scrivere commedie. Minardi li ascoltava con ammirazione. A volte cercava di mettere in pratica i loro sogni. Bertolucci era tornato da una gita a Venezia col padre e il fratello – viaggio inaugurale della nuova auto Lamba – con sottobraccio un libro francese: La recherche di Marcel Proust. Nessuno in Italia avrebbe pensato di tradurre una storia “dove non succedeva niente”, divisa in volumi con tante pagine. “Perché non lo facciamo noi?” La proposta scuote Minardi. La pigrizia di Bertolucci e Bianchi: hanno scritto e riscritto una lunga lettera all’editore Gallimard. Da Parigi arrivò la risposta: “Chiediamo scusa, ma avete dimenticato di precisare indirizzo e ragione sociale della vostra casa editrice”. Minardi sorrideva quando me lo ha raccontato: “Non potevamo precisarla. Non esisteva. Eravamo solo tre ragazzi, vent’anni appena passati”. “Nino” scriveva, disegnava, inventava racconti, mentre Minardi maturava una straordinaria qualità di organizzatore. Gli piaceva disegnare i giornali. Aveva il genio dell’impaginazione, gusto raffinatissimo nella scelta dei caratteri tipografici. Il giornale più elegante del dopoguerra era il «Corriere del Mattino», poi diventato «Corriere Lombardo», quotidiano della sera. Minardi ne era redattore capo assieme a un giovane dall’aria lunare: Dino Buzzati. 62
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Non so se fosse l’amicizia per mio padre, o la simpatia che ci ha subito uniti, ma si è sempre dimostrato affettuoso con me. Per parlare con Guareschi dovevo sempre rivolgermi a lui, che combinava subito l’incontro. Non era solo un tramite. Gli chiedevo. Volevo capire chi era davvero mio padre. I suoi umori, le sue malinconie. A volte me lo faceva incontrare. Lo trovavo un po’ teso, distratto. Sapevo che si stava difendendo da qualcosa. “Forse avrebbe voluto abbracciarti, ma è sempre stato timido…”, mi consolava la mamma. Mentre marciavo in divisa militare, continuavo a scrivere a Minardi chiedendo informazioni su mio padre. Come sopportava il carcere? Lui rispondeva con poche parole, sempre al telefono: “Insomma, non è contento…” Durante una licenza, sono andato a trovare Minardi a Milano nella redazione di «Candido». Mi ha portato nel solito caffè. “Ha ricevuto un torto. Una vigliaccata, una trappola. C’è cascato e non ha voluto opporsi alla sentenza, come avrebbe consentito la legge.” Un mattino è entrato in San Francesco, sulle spalle il vecchio zaino portato a casa dalla prigionia in Germania. “È accusato di due peccati che oggi fanno ridere: un disegno che rappresenta il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, produttore di un barolo famoso, mentre passa in rassegna nelle sale del Quirinale, invece dei suoi corazzieri, delle bottiglie di vino. Poi una lettera falsa, offensiva sugli anni di guerra, pubblicata dal «Candido» del quale era direttore: Alcide De Gasperi incitava gli inglesi a bombardare Roma. Tuo padre è avvilito e amareggiato per come lo trattano. Non chiede aiuto a nessuno. Vuole sapere da te che cosa farai”. Gli racconto l’intenzione di andare in Australia. Minardi accoglie le mie parole in silenzio. “È un peccato lasciare la Barilla dopo sette anni. Pietro ogni tanto scrive a tuo padre e anche a me, ti stima, gli sei sim63
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patico. Quando Giovannino ha letto la parola ‘simpatico’ sembrava contento.” Un’altra volta, nello stesso caffè, Minardi mi parlò di suo figlio. Voleva fare il fotografo. “L’educazione all’eleganza e alle immagini comincia nei sotterranei dei giornali. Poi si comincia a salire.” Voleva farmi capire che fare il giornalista richiede umiltà, e, sottotraccia, che il mio viaggio in Australia era inutile. Gli risposi allargando le braccia: “Credo che andrò, perché alla Barilla non c’è il lavoro che sognavo”. Ho rivisto Minardi l’ultima volta, non molti anni prima della sua scomparsa. Ero tornato a Parma per una vacanza. Mi ha riconosciuto da lontano e mi è venuto incontro con una delle sue risate rumorose, che avevo imparato a conoscere. “Chi non muore si rivede…”, sembrava contento. “Faccio il direttore a Bergamo, e tu?” Ora toccava a me essere allegro: “Siamo colleghi. Dirigo «La Fiamma», in Australia, a Sydney.” “Davvero bello incontrare un ragazzo che ha sfidato il padre e il buonsenso, ma è riuscito a raggiungere il suo sogno.” Volevo sapere della morte di mio padre, ma non ne parlava volentieri. Si è immalinconito. Due o tre parole che non aggiungevano nulla a quanto avevo letto sui giornali. Ci siamo salutati con la promessa di rivederci. Non l’ho più visto. La sua morte è arrivata con due righe dell’Ansa ed è stato un altro colpo al cuore. Alessandro Minardi aveva vissuto il mio dramma di figlio alla ricerca del padre più di in ogni altra persona vicina a Giovannino Guareschi. Di tutte le cose che mi ero promesso di chiedergli, si è portato via le risposte. Non tutte, per la verità. Se pure non avevo partecipato al funerale di mio padre, più tardi ero andato a Roncole a pregare sulla sua tomba. All’uscita del piccolo cimitero avevo incontrato Minardi. Lasciati da parte i convenevoli, gli chiedo subito se mio pa64
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dre si era ricordato di me. Minardi scuote la testa: “È successo all’improvviso”. Chiedo delle mie lettere e risponde di non preoccuparmi: “Le custodisco io, come aveva chiesto Giovannino”. È stata l’ultima volta che abbiamo parlato delle lettere. Minardi è stato il padre putativo in cui mi sono più identificato, portavoce di mio padre, conpagno di amarezze e di speranze. Al mio ritorno ho cercato il figlio, Maurizio Minardi, divenuto di mestiere fotografo, come quel giorno a Parma Alessandro mi aveva detto. Maurizio è simpatico come il padre. Nei cassetti della madre, anche lei scomparsa, aveva trovato biglietti e lettere di mio padre, oltre alle mie: se posso usare la parola, erano “ordini” che mi riguardavano. Che cosa doveva fare, che cosa doveva dirmi. Maurizio me le ha “fotografate” con quattro parole: “Sono importantissime per te”. Ho saputo in seguito da Maurizio, con il quale sono rimasto in amicizia, che le mie lettere erano sparite. Un’altra ferita. Costituivano il diario della mia lunga speranza, assieme a tre biglietti di mia madre, i soli che non abbia distrutto, a raccontare la mia vita segreta. Anche le speranze, come gli uomini, a volte si affievoliscono fino a morire. “So che per te erano lettere importanti e bellissime, ma sono sparite. Le sto cercando nella soffitta di una casa di montagna. Erano lì quando mia madre era viva. Le custodiva lei. Mi ha sempre detto: ‘Appartengono a Giuliano, quando torna dobbiamo dargliele. Tuo padre voleva così’”. Poi tante telefonate. Maurizio Minardi è sempre gentile. “Nella casa di montagna c’erano mia madre e mia sorella. La settimana prossima vado a cercarle.” E le settimane passano. Ora non è più così forte né la speranza né il bisogno di averle. Sono stampate nella mia memoria. Custode inattaccabile. 65
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Dalla prima, del 1945, quando per rompere il ghiaccio gli chiedevo una copia di Italia Provvisoria. In tutto un centinaio, tra lettere e fotografie. Esprimevo i miei desideri e le mie speranze di giovane solo. Fra tutte le altre, una in particolare ricordo, scritta a due mani, le mie e quelle di Pietro Barilla, che inviava al suo amico Guareschi il primo attestato del mio lavoro nello stabilimento. Nulla si è perduto nell’archivio della mia memoria. Minardi, che non era molto entusiasta della mia avventura australiana e a cui avevo inviato i primi trafiletti dei miei brevi articoli, mi ha risposto dandomi suggerimenti che probabilmente rispecchiavamo l’opinione di mio padre. Una lettera, l’unica, che conferma indirettamente l’esistenza di tutte le altre. Conferma di cui io non ho evidentemente bisogno.
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Giuliano Guareschi Montagna Una vita per mio padre, Giovannino Guareschi
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PRIMA PARTE Mio padre Giovannino Guareschi. Dal Po all’Australia inseguendo un sogno
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Una speranza lunga una vita
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Trenta righe
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Nonno Ercole
39
Lo zio Pino Guareschi
44
Mia madre
48 57
Sono Giuliano
61
Minardi, l’amico
67 69 77
Fernandel
81
Adelaide
86 95
Con Bepi Treviso sotto la Croce del Sud
Zie e zii
Incontri clandestini
Barilla Il viaggio
L’inserimento
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L’ultimo incontro
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La voce di un “padre di carta”
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Ritorno alla base
Il giornale Dedicato a G. G.
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SECONDA PARTE
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Epilogo. La forza del destino
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TERZA PARTE
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Cronache australiane 149
Breve lettera a mio padre
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Prologo
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Gli aborigeni: una nazione e una generazione perdute
166
Turiddu di Darwin
175
Il ghost gum tree di Marcon
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Australian noir
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New Italy. La promessa del paradiso
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L’arcobaleno di Bennelong
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Il piemontese di Sepik River
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Lunghi e alti trasporti australiani.
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Tenerissimo racconto di memorie dai movimenti ironici e dolenti come onde fra due terre disappartenute a entrambe appartenendo fra un’identità bene guadagnata e la sottile linea d’ombra di una paternità difforme tra un padre e un figlio che il DNA riunì per onore anche della madre questo libro composto nel carattere Simoncini Garamond viene stampato in seconda edizione su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni dalla tipografia Sograte di Città di Castello per conto di Diabasis nell’aprile dell’anno duemila nove
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TTIR Topolino Transports Internationaux Routiers
Gian Ruggero Manzoni, La banda della croce Linda Foster, Edmondo Lupieri, Il patto. Un thriller teologico Barbara Gussoni, Bondville Umberto Marongiu, Sette modi e mezzo per morire Marco Truzzi, Caffè Hal, Tel Aviv. Tutto quello che è successo al signor T.B. Vanni Blengino, Ommi! L’America Maria Caterina Jacobelli, Una domenica dopo l’altra Parlami d’Aurelia, in collaborazione con Regione Liguria