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redazione
fondatore / founder Giulio G. Rizzo
direttore / director Gabriele Corsani
comitato scientifico / scientific committee Paolo Bürgi, Vittoria Calzolari, Christine Dalnoky, Guido Ferrara, Roberto Gambino, Jean-Paul Métailié, Giulio G. Rizzo, Mariella Zoppi
comitato di redazione / editorial board Debora Agostini, Michele Ercolini, Laura Ferrari, Elisa Maino, Emanuela Morelli, Gabriele Paolinelli, Emma Salizzoni, Antonella Valentini
progetto grafico / graphic design / editing Laura Ferrari
scrivere alla redazione rivista.drpp@unifi.it
editore / publisher Firenze University Press Borgo degli Albizi 28 50122 Firenze e-press@unifi.it
Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio rivista elettronica semestrale del Dottorato di Ricerca in Progettazione Paesistica Facoltà di Architettura – Università degli Studi di Firenze registrazione presso il Tribunale di Firenze n. 5307 del 10 novembre 2003 ISSN 1724-6768
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Ri-Vista ricerche per la progettazione del paesaggio
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Paesaggi della biodiversità
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indice
I
Paesaggi della biodiversità -
1
Editoriale Antonella Valentini
tra parole e saggi 5
Paesaggio e biodiversità Gioia Gibelli
23
Quale paesaggio per la biodiversità? Concezioni di paesaggio nelle Strategie Nazionali per la Biodiversità in Europa Bianca Maria Seardo
31
“Native only”. Un dibattito millenario pro e contro l’uso di vegetazione esotica nel progetto di paesaggio, alla luce del rapporto tra biodiversità e diversità paesistica Claudia Cassatella
41
Mettere in gioco i servizi ecosistemici: limiti e opportunità di nuovi scenari sociali ed economici Riccardo Santolini, Elisa Morri, Rocco Scolozzi
lo (s)guardo estraneo 57
Hotspot. Estetica e biodiversità Fabrizio Desideri
65
Gli stati e le dinamiche dei processi insediativi e infrastrutturali di trasformazione dei suoli in Italia Bernardino Romano, Francesco Zullo, Manuele Cargini, Doriana Febo, Cristina Iezzi, Mauro Mazzola, Paolo Rollo
79
Progetto di connessione tra rurale ed urbano nei territori fragili. I paesaggi periurbani Carlo Peraboni
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II
paesaggi della biodiversità
paesaggi in gioco 89
Manifesto “Paesaggio zero per la biodiversità” Ippolito Ostellino
99
Un approccio paesaggistico nelle politiche di tutela della natura: verso il Piano di Azione per la tutela della biodiversità della Regione Toscana Leonardo Lombardi, Paolo Matina, Andrea Casadio, Antonio Pollutri
107
Paesaggi rurali sardi tra diversità biologiche e mixité urbana. Adriano Dessi
libri 115
G.G. Rizzo, Il giardino privato di Roberto Burle Marx, Il Sítio. Sessant’anni dalla fondazione. Cent’anni dalla nascita di Roberto Burle Marx, Roma, Gangemi, 2009 Gabriele Corsani
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editoriale
1
Editoriale A cura di Antonella Valentini.
Diversità. Il termine suscita sentimenti contrapposti. Da un lato rifiuto – il timore del diverso, di ciò che non si conosce, che nella società contemporanea, sempre più multietnica, si trasforma talvolta, purtroppo, in fatto di cronaca, in questi anni difficili per la popolazione tutta, la cui esasperazione crescente non facilita l’integrazione – dall’altro attrazione – la diversità, di vario genere e non solo relativa alle specie vegetali e animali, compreso l’uomo, come valore da salvaguardare. A questo proposito, mi sono recentemente imbattuta, scoprendo però che è quasi un decennio che questa definizione è in uso, nella bibliodiversità: “la diversità culturale applicata al mondo del libro”, che fa riferimento alla tanto necessaria quanto minacciata produzione editoriale a disposizione del lettore, della quale gli editori indipendenti si stanno facendo garanti, 1 in quanto reali difensori della libertà di espressione e dunque della diversificazione dell’offerta culturale . La diversità dunque può indurre sia espressioni di diffidenza, se non addirittura di opposizione, in quanto esperita come sinonimo di alterità ed estraneità, ma soprattutto antonimo di identità, sia desideri di appropriazione in quanto percepita come ricchezza, valore aggiunto, specialmente da un punto di vista etico. A questo significato etico può essere ricondotta, ad esempio, proprio la diversità biologica, in quanto espressione di responsabilità nei confronti della natura e delle generazioni future, come osserva Fabrizio Desideri, il quale si addentra poi nell’esplorare il valore intrinsecamente estetico della biodiversità. Questa duplicità di atteggiamento ha contraddistinto l’approccio alla diversità, come all’interno del dibattito sull’uso della vegetazione autoctona o esotica nel progetto di paesaggio, tema sul quale Claudia Cassatella riflette in questa sede. Per altro è interessante la citazione di Francesco Remotti con cui l’autrice apre il proprio contributo e che ruota proprio intorno al concetto di alterità/identità per ricordarci come: “…l’alterità è presente non solo ai margini […] ma nel nocciolo stesso dell’identità”. La ricerca della identità è un obiettivo ricorrente (fino all’esasperazione, talvolta) nella pratica della progettazione del paesaggio, spesso inquadrato all’interno di un dibattito più generale che riguarda i temi della conservazione/valorizzazione dei caratteri locali in contrapposizione alla tendente semplificazione del paesaggio, aspetto questo che spesso deriva anche dall’introduzione di elementi estranei (diversi per il contesto locale, seppure omologati a scala globale). Diversità ed identità coesistono e possono non confliggere. Proprio su questi due termini si fonda uno degli impegni presi dai paesi europei con la Convenzione Europea del Paesaggio: “riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro 2 identità” . Diversità/Paesaggio. Questa è una relazione ancora da esplorare – in questo numero ne danno un contributo in particolare Claudia Cassatella, Gioia Gibelli e Bianca Maria Seardo – in quanto la diversità paesistica è un concetto sicuramente meno noto rispetto a quello della diversità biologica.
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2
paesaggi della biodiversità
Il termine biodiversità, infatti, seppure abbastanza giovane, risalendo alla metà degli anni Ottanta, è ampiamente utilizzato nel vocabolario comune grazie alla vasta risonanza mondiale seguita alla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 (durante la quale è stata firmata la Convenzione sulla Diversità Biologica) e alla sempre più crescente consapevolezza acquisita dalla popolazione sulla importanza fondamentale di questo concetto ai fini del mantenimento di un elevato livello di qualità di vita in generale. La diversità paesistica è relativa alla complessità e alla articolazione del paesaggio e coinvolge le sue tre fondamentali componenti, naturale, culturale e visuale. E’ quindi un concetto composito, che fa riferimento a più aspetti, così come lo è la stessa idea di paesaggio – e pensiamo a quanta fatica è stata fatta per arrivare ad una definizione di paesaggio che non lo relegasse ad una mera dimensione estetica – e presuppone una attenzione paritaria a tutti e tre questi caratteri: una perdita di diversità paesistica comporta una omologazione delle qualità naturali, culturali e visuali che contraddistinguono un territorio. Pertanto la biodiversità, come misura della varietà di specie animali e vegetali in un dato ambiente e delle relazioni ecologiche che li uniscono, è in rapporto biunivoco con il paesaggio. Scrive Gioia Gibelli: “… la biodiversità contribuisce a formare i paesaggi ma, contemporaneamente, le variazioni dei paesaggi incidono sulla biodiversità in un processo co-evolutivo che è proprio dei paesaggi e delle loro componenti”. Paesaggio/Biodiversità. Comprendere la relazione tra biodiversità e paesaggio è cruciale, come ci illustra la Gibelli, per impostare modalità di governo del territorio e per definire politiche di trasformazione improntate alla sostenibilità ambientale, economica e sociale. Questa relazione non è sempre scontata, come ci evidenzia Bianca Maria Seardo, dalla cui ricognizione sulle Strategie Nazionali per la Biodiversità in Europa emerge come raramente queste siano considerate strumenti per coordinare e orientare le politiche insediative. E non è solo una questione di nicchia, che riguarda cioè poche specie a rischio di estinzione ma, come ci ricorda Ippolito Ostellino - nel suo saggio che illustra i temi della II Biennale Paesaggio zero incentrata proprio sull’argomento clou dell’anno 2010, ed in particolare la biodiversità nel territorio dei parchi del Po e della Collina torinesi - la tematica della conservazione del patrimonio naturale di biodiversità è di natura assai più vasta. Vi sono motivazioni di ordine etico, economico, scientifico e culturale per preservare la biodiversità. Le principali pressioni che hanno effetti di riduzione della biodiversità riguardano la frammentazione e il degrado degli habitat (es. dispersione insediativa, intensificazione dello sfruttamento agricolo, calamità naturali), i cambiamenti climatici e il mancato riconoscimento del valore dei servizi offerti dagli ecosistemi. Proprio su questi temi si concentrano gli articoli dei ricercatori del Politecnico di Milano e delle Università di Cagliari, L’Aquila e Urbino. Carlo Peraboni riflette sul tema del progetto dei territori periurbani biocomplessi; Adriano Dessì sul rapporto biodiversità-paesaggi rurali-paesaggi urbani, a partire da una riflessione sul contesto sardo; Bernardino Romano e colleghi sulle dinamiche di trasformazione dei suoli in Italia derivanti dai processi insediativi e infrastrutturali che hanno importanti ripercussioni sulla funzionalità e qualità degli ecosistemi e della biodiversità; Santolini-Morri-Scolozzi sul concetto di “servizio ecosistemico”. La perdita di biodiversità, infatti, comporta anche un calo dei servizi ecosistemici che la natura offre, quali la produzione di cibo o materie prime, il mantenimento della fertilità del suolo o della qualità delle acque, etc. “Questi processi e funzioni forniscono beni insostituibili, diretti o indiretti, agli abitanti di un territorio, che,
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editoriale
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attraverso le loro attività, se compatibili, concorrono a mantenere la funzionalità e la qualità ecologica del proprio paesaggio…”. La valutazione del Millennium Ecosystem Assessment voluta dal Segretario generale delle Nazioni Unite ha rilevato come la maggior parte di questi servizi ecosistemi sia in calo sia in Europa che nel mondo intero e pertanto i capi di stato e di governo della Comunità Europea nel 2001 hanno deciso di arrestare il deterioramento della diversità biologica “entro il 2010 e oltre”. Per L’Italia il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del Mare, in collaborazione con alcuni partner del mondo scientifico istituzionale, hanno predisposto in forma schematica la Strategia Nazionale per la Biodiversità, recentemente approvata (ottobre 2010), su cui informa il già citato articolo di Bianca Maria Seardo. Del Piano di azione per la tutela della biodiversità in Toscana trattano invece Lombardi-Matina-Casadio-Pollutri. Concludiamo la riflessione sul tema e sui contributi contenuti in questo numero della rivista, sperando in un valore universale di quell’atteggiamento che Gabriele Corsani attribuisce a Giulio G. Rizzo: “l’attitudine a accogliere e interpretare con estraneità incantata manifestazioni così autorevoli del diverso, cui è consentito allora di farsi dispensatrici di sempre rinnovate esperienze artistiche e intellettuali.” Nello specifico, l’oggetto di interesse è Roberto Burle Marx ed il suo Sitio, luogo perfetto anche per riflettere sui concetti di paesaggio, diversità biologica, diversità paesistica.
* Architetto. Dottore di ricerca in Progettazione Paesistica e docente a contratto presso l’Università di Firenze.
Testo definito dalla redazione nel mese di dicembre 2011. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
1
Il termine bibliodiversità fu coniato da alcuni editori cileni quando fu creato il gruppo “Editores independientes de Chile” alla fine degli anni ’90. Tra le dichiarazioni, quelle di Dakar (2003), di Guadalajara (2005) e, soprattutto, la “Dichiarazione internazionale degli editori indipendenti, per la tutela e la promozione della bibliodiversità”, redatta nel corso di un incontro, patrocinato dall’Unesco, dell’associazione degli editori indipendenti quella di Parigi (2007). 2 CEP, art. 5, lett. a). Il corsivo è nostro.
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Paesaggi della biodiversità
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tra parole e saggi
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Landscape and biodiversity
Paesaggio e Biodiversità Gioia Gibelli*
abstract L’importanza della biodiversità nei confronti della sostenibilità è universalmente riconosciuta, a partire dalla Conferenza delle Nazioni Unite di Rio del 1992 sull’ambiente e lo sviluppo. Meno noti sono i contributi della biodiversità alla formazione dei paesaggi e, viceversa, l’importanza dei caratteri del paesaggio per la conservazione della biodiversità e delle risorse in generale. Biodiversità e varietà dei paesaggi, concorrono insieme nello scambio di informazioni tra popolazioni e nella modifica della percezione dei luoghi, incidendo sulle scelte fino a orientare i comportamenti degli individui e delle comunità. La diversità entra quindi nei processi cognitivi e culturali della popolazione umana. La comprensione dei legami tra i diversi livelli di biodiversità e il paesaggio, è cruciale ai fini di impostare modalità di governo del territorio finalizzati ad una sostenibilità ambientale, economica e sociale, fondata sulle risorse reali che paesaggi di qualità possono conservare e riprodurre.
abstract Coming from the United Nations Organization Conference in Rio (1992), about environment and development, the biodiversity value in front of sustainability is universally recognised. On the contrary, the biodiversity influences on the landscapes construction are not so clear, as well as the landscapes features importance toward biodiversity and resources conservation. But Biodiversity and landscape heterogeneity together, contribute to the information exchange inside the populations and to the local perception. So they affect our choices, being able to orient the personal behaviours and the communities ones. Therefore diversity is involved into cognitive and cultural processes of the human population. The understanding of the links between landscape and the different biodiversity levels, is critical in order to arrange effective governance tools, oriented on an environmental, economic and social sustainability, based on the real resources that the high quality landscapes can conserve and reproduce.
parole chiave Paesaggio, biodiversità, trasformazioni, adattamento
Key words Landscape, biodiversity, Transformations, adaptation
vulnerabilità,
vulnerability.
* Siep-Iale Ass. Italiana di Ecologia del Paesaggio
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Cosa c’entra la biodiversità con il paesaggio? Problema tutto italiano. O meglio, soprattutto italiano. In altre parti d’Europa la questione non si pone. La tradizione paesaggistica d’oltralpe da sempre considera la natura, le componenti ambientali e, di conseguenza, la biodiversità come elementi fondanti e fondamentali del paesaggio.La cultura paesaggistica italiana, invece, di radici letterarie e pittoriche, stenta a riconoscere al paesaggio connotazioni ulteriori rispetto a quelle estetiche e culturali. L’evoluzione dell’idea di paesaggio, del resto, almeno fino all’inizio del secolo scorso, è stata fortemente legata all’evoluzione del giardino, che, probabilmente, costituisce la prima opera cosciente 1 di costruzione del paesaggio . La paesaggistica italiana si evolve dal giardino all’italiana che rappresenta quanto di più artefatto si possa pensare in uno spazio aperto. Dove anche gli elementi vegetali, che non sempre rappresentano la maggioranza degli elementi del giardino, sono piegati e forgiati in posizioni e forme del tutto avulse da quanto la natura vorrebbe e produrrebbe. Nel giardino all’italiana è l’artificio a dominare la scena. La natura come strumento da governare e piegare. Tutto l’opposto del giardino all’inglese che, pur nella sua artificialità, copia la natura in disegni adattativi alla morfologia e ai caratteri dei luoghi. Da ambienti e culture diversi, derivano impostazioni e disegni differenti che hanno prodotto concezioni molto diverse del paesaggio. Uno sforzo intenso per integrare le culture e le concezioni, è stato operato con la Convenzione 2 Europea del Paesaggio (CEP) , la quale suggerisce
Paesaggio e Biodiversità
una definizione comune di paesaggio, importante riferimento concettuale e operativo. Il termine "paesaggio" viene definito come “una zona o un territorio, quale viene percepito dagli abitanti del luogo o dai visitatori, il cui aspetto e carattere derivano dall'azione di fattori naturali e/o culturali (ossia antropici). Tale definizione tiene conto dell'idea che i paesaggi evolvono col tempo, per l'effetto di forze naturali e per l'azione degli esseri umani. Sottolinea ugualmente l'idea che il paesaggio forma un tutto, i cui elementi naturali e culturali vengono considerati simultaneamente.” 3 ”Dunque il paesaggio è il risultato finale dell'intreccio tra le componenti ambientali, tra cui la biodiversità, e i processi cognitivi; questi ultimi, fortemente variegati dalle diverse percezioni di ognuno. I rapporti stretti tra paesaggio e biodiversità sono piuttosto chiari nelle culture nord-europee, mentre lo sono di meno i rapporti tra paesaggio e valori 4 estetico-culturali. A questo proposito, M. Antrop (2006), riteneva opportuno specificare che “La convenzione richiama inoltre l’importanza dell’estetica, dei valori scenici e non solo le funzioni economiche, ecologiche e di utilità”, sottolineando l’importanza dei valori culturali, che devono essere considerati al pari di quelli ecologici ed economici e delle risorse naturali in genere, i quali sono dati per scontati. Al contrario in Italia, riferendosi ai medesimi contenuti della Convenzione, in genere è necessario sottolineare come novità il richiamo ai valori ecologici ed economici, spesso trascurati nelle teorie e nella prassi (Gibelli, 2008). Questo “gap” culturale, è in buona parte alla base del fatto che, in Italia, di norma, nei processi di governace territoriale e di progettazione delle trasformazioni, venga attribuito un peso
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scarsissimo al paesaggio, il quale, in genere, entra al termine dei processi come “coronamento” finale con lo scopo di migliorare la qualità estetica dell’oggetto trattato. Purtroppo l’attribuzione prioritaria dei valori estetico culturali al paesaggio, lo relega nelle categorie della futilità. Oltremodo in un paese in cui la cultura difficilmente viene trattata come condizione fondante della civiltà e dello sviluppo. Invece, la consapevolezza dell’interdipendenza tra risorse naturali e paesaggio, sottolinea il ruolo fondamentale che il paesaggio ha anche nei confronti della sostenibilità, concetto richiamato più volte dalla CEP, ponendolo come potenziale protagonista di Piani e programmi, di cui dovrebbe essere punto di partenza della conoscenza e punto di arrivo degli obiettivi di qualità degli strumenti programmatici, ai fini di garantire adeguati livelli di qualità ambientale e della vita delle popolazioni umane. Natura e cultura intervengono, dunque, in modo paritetico nell’evoluzione dei paesaggi, compresi quelli culturali, in cui le componenti naturali alla base degli ecosistemi e delle risorse (rocce, acque, suoli, vegetazione, ecc) e i processi (la fotosintesi, gli animali si spostano, l’acqua cade dal cielo e si infiltra nel terreno, ecc.) costituiscono, anche se impercettibili, la matrice primaria dalla quale ogni paesaggio può evolvere. Il paesaggio è anche ciò che non si vede. Le condizioni climatiche e geomorfologiche che, insieme allo sviluppo della vegetazione, danno origine ai suoli e questi, nel tempo, sostengono le successioni vegetazionali e gli ecosistemi in una serie di processi invisibili, mantengono in vita i paesaggi naturali e non. L’antropizzazione è
tra parole e saggi
avvenuta per gradi, attraverso interazioni sempre più frequenti, intense ed estensive con i paesaggi naturali e le risorse in esse conservate. Fino ad un certo punto l’uomo si è adattato ai paesaggi, utilizzando le risorse da essi messe a disposizione, tra cui la biodiversità nelle sue diverse accezioni. Val la pena di sottolineare che la biodiversità non costituisce solo ed esclusivamente risorse tangibili, ma è sempre stata, per l’uomo, un’incredibile stimolo per i processi inventivi in diversi settori. Ad esempio, la grande diversità di paesaggi e, di conseguenza, delle risorse in essi allocate, è stata sicuramente alla base dello straordinario sviluppo delle civiltà del bacino Mediterraneo. Le comunicazioni, a cui tradizionalmente si attribuisce tale merito, da sole, non avrebbero prodotto alcunché. Ogni comunicazione, infatti, per essere efficace, necessita anche di informazioni o materiali da trasportare. In ogni forma di comunicazione, infatti, ci sono dei contenuti che devono essere trasmessi, dei mezzi che permettono i flussi dei messaggi, dei riceventi che accolgono i messaggi (Prette e De Giorgis, 2001). E’ necessario rendersi conto di come avviene la comunicazione per capire come interpretiamo il mondo che ci circonda che, attraverso l’interpretazione di tutti noi, diventa paesaggio. Per le antiche civiltà mediterranee, buona parte dei contenuti scambiati erano materie prime (minerali, legnami, vegetali, ecc.) affatto diverse, provenienti dalla varietà di paesaggi evoluti intorno al Mediterraneo. Dunque è stata la grande biodiversità a tutti i livelli, espressa dai paesaggi Mediterranei, a costituire le informazioni da scambiare, le quali hanno poi rappresentato altrettanti stimoli per le popolazioni per le quali ogni “novità” ha costituito un potenziale serbatoio di invenzioni. Invenzioni che hanno portato, tra
7
l’altro, alla costruzione dei paesaggi culturali di oggi.
educativo, culturale, ricreativo ed estetico della biodiversità.
Nell’ultimo secolo, attraverso il controllo di energie di trasformazione sempre più potenti, si è invertito il rapporto. Ora è l’uomo che adatta i paesaggi a sé e alle proprie esigenze, limitando fortemente le potenzialità inventive derivabili dalla biodiversità e aumentando in modo esponenziale l’energia necessaria a mantenere in vita paesaggi che, perdendo biodiversità, hanno perso molti dei meccanismi spontanei di autoregolazione che sono propri della complessità del paesaggio. In questo contesto culturale, il legame biodiversità/paesaggio è intuitivamente comprensibile.
La biodiversità, in sostanza, sta a indicare una misura della varietà di specie animali e vegetali in un dato ambiente, intesa come risultato dei processi evolutivi, ma rappresenta nel contempo il serbatoio da cui attinge l'evoluzione per attuare tutte quelle piccole modificazioni genetiche e morfologiche, che in tempi sufficientemente lunghi originano nuove specie viventi. La biodiversità è quindi contemporaneamente causa ed effetto della biodiversità stessa. Si tratta in altre parole di fenomeni di feed-back (retroazione), comuni nei sistemi biologici, in cui gli effetti di un processo influenzano le cause dello stesso. (Alessi, Bulgarini, 2010). Inoltre, possiamo affermare che la biodiversità contribuisce a formare i paesaggi ma, contemporaneamente, le variazioni dei paesaggi incidono sulla biodiversità in un processo coevolutivo che è proprio di paesaggi e delle loro componenti.
Alcuni approfondimenti si rendono però utili per le ricadute applicative e gestionali che se ne possono trarre. A questo fine è necessario definire la biodiversità che, come il paesaggio, è un’entità molto più articolata e complessa di ciò che sembra. Il termine biodiversità compare ufficialmente per la prima volta nella seconda metà degli anni ’80, usato da Walter G. Rosen nel Forum sulla BioDiversity organizzato a Washington dalla National Academy of Science e dalla Smithsonian Institution. Un paio di anni prima, Mark A. Wilcox aveva usato il termine Biological Diversity per indicare la varietà di forme viventi, il ruolo ecologico che esse hanno e la diversità genetica che contengono. (Alessi, Bulgarini, 2010) La Conferenza delle Nazioni Unite di Rio del 1992 sull’ambiente e lo sviluppo, ha sancito a livello internazionale l’importanza della biodiversità. In tale occasione, venne approvata la Convenzione sulla Diversità Biologica, sottoscritta da 168 Paesi, tra cui l’Italia. Nel testo si affermano i valori ecologico, genetico, sociale, economico, scientifico,
La biodiversità si manifesta attraverso diversi livelli di organizzazione. La tabella che segue, sintetizza i diversi livelli di biodiversità, evidenziando quelli maggiormente legati alla scala del paesaggio e ai suoi elementi strutturali.
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Paesaggio e Biodiversità
Livello di biodiversità
Livello di scala a cui agisce
Elemento strutturale del paesaggio recettore degli effetti della diversità
Diversità genetica: dovuta alle diverse forme di ciascun gene presente nel DNA degli individui.
Individuo
Diversità degli organismi (interspecifica): espressa dalle variazioni individuali di comportamento, morfologia e fisiologia di ogni individuo.
Home range dell’individuo. riguarda le interazioni che le diversità individuali determinano sugli elementi costitutivi del paesaggio
in genere “patch”5
Diversità specifica: ovvero la variabilità di forme viventi, riconoscibile come specie distinte grazie alla loro capacità di non essere inter-feconde.
Elementi costitutivi del paesaggio
Patch
Diversità delle popolazioni: indicata dalle variazioni delle caratteristiche quali-quantitative e spaziali delle popolazioni animali e vegetali.6
Elementi costitutivi del paesaggio, Unità di paesaggio. In rif. Alla pop. Umana, Paesaggio e Sistemi di paesaggi
Patch e mosaico ambientale
Diversità delle comunità: legata alle variazioni in termini di struttura e composizione, delle relazioni ecologiche tra popolazioni e specie animali e vegetali che condividono un ecosistema. Diversità culturali per le popolazioni umane7.
Elementi costitutivi del paesaggio, Unità di paesaggio. In rif. Alla pop. Umana, Paesaggio
Patch e mosaico ambientale
Diversità degli ecosistemi: determinata dalla variabilità dell’interdipendenza tra le comunità, le componenti abiotiche dell’ecosistema e il suo stato
Elementi costitutivi del paesaggio e loro aggregazioni
Mosaico paesistico
Diversità tra contesti ecologici terrestri e acquatici: ovvero la diversità degli ecosistemi di questi due macro-sistemi ecologici
Paesaggio, attraverso i Processi condizionanti la sua formazione
Mosaico paesistico
Diversità biogeografiche: determinata dalla variabilità della storia evolutiva delle forme viventi di una regione in relazione alla storia geologica, geografica, evolutiva e climatica della regione stessa.
Paesaggio e sistemi di paesaggio, attraverso i Processi condizionanti la loro formazione
Tipizzazione dei paesaggi
Tipi di paesaggio
Tipi di paesaggio
Tabella 1: Le relazioni tra i livelli di biodiversità (tratti da Alessi, Bulgarini, 2011, modificati), sono associati al livello di scala a cui ogni livello di biodiversità agisce e agli elementi strutturali del paesaggio che “raccolgono” gli effetti della biodiversità.
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tra parole e saggi
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Dalla tabella 1, risulta chiaro come i diversi livelli di biodiversità incidano nella formazione dei paesaggi, a diverse scale, dalle più dettagliate, alle scale più vaste. Interessante è anche analizzare come al passare di scala, cambino le modalità con cui i livelli di biodiversità agiscono nella formazione dei paesaggi e come i patterns di paesaggio incidano sulla biodiversità, instaurando relazioni tutt’altro che semplici e dirette. A partire dai livelli più bassi, la biodiversità connota i singoli elementi che costituiscono il paesaggio che, in tabella, vengono indicati come “patches”. Si pensi ad una macchia boscata, ma anche più semplicemente ad un prato o ad una piccola pozza d’acqua. Salendo di livello e arrivando alla scala del paesaggio, in termini di Unità di paesaggio o di mosaico, troviamo gli elementi più immediatamente riconoscibili, di cui ci sono alcuni aspetti sui quali è utile soffermarsi. Si tratta dei rapporti tra diversità paesistica, contrasto, frammentazione e biodiversità, e sui rapporti tra forma e processi, trattati nei paragrafi successivi. Salendo ulteriormente di livello, troviamo i processi la cui funzione non è propriamente costruttiva, ma condizionante. Ossia la costruzione fisico-biologica del paesaggio avviene ai livelli più bassi, mentre gli ultimi due livelli operano sull’evoluzione dei paesaggi in termini di agenti condizionanti e regolatori.
Biodiversità e diversità del paesaggio Figura 1 – L’immagine a rappresenta un mosaico paesistico omogeneo in cui le uniche relazioni tra elementi diverse sono in corrispondenza del reticolo idrografico. Le frecce indicano le interazioni tra elementi diversi. L’immagine b rappresenta un mosaico caratterizzato da interazioni varie e numerose, basate sui tipi di elementi diversi e sulle loro disposizioni, che aggiungono anche valore percettivo al paesaggio (tratto da Gibelli, 2003, modificato)
Un esempio significativo per la comprensione dell’importanza dei rapporti esistenti tra elementi diversi, loro distribuzione e forma nella costruzione e percezione del paesaggio, è fornito dal ruolo dei sistemi di siepi all’interno dei paesaggi rurali di pianura e di fondovalle. Un agro ecosistema infatti, non solo corrisponde al classico “bel paesaggio” tradizionale, ma, in genere, costituisce anche un sistema funzionale in cui la presenza della rete di siepi, elementi diversificati dalla matrice 8 paesistica, ma con essa complementari, contribuisce in modo significativo alla diminuzione della vulnerabilità dei sistemi paesistici.
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In Figura 1a, abbiamo un esempio di paesaggio agrario "banalizzato", ossia caratterizzato dalla prevalenza assoluta di un unico elemento, il campo coltivato, e dall’assenza di elementi diversificati che ne aumentino ricchezza, funzioni e stimoli percettivi. Questa situazione viene descritta in ecologia come “banalizzazione o semplificazione ecosistemica”, dal momento che l’ecosistema risultante, proprio per l’assenza di varietà di elementi e forme, presenta interazioni ecosistemiche limitate, una monofunzionalita' spinta legata ad un’alta specializzazione delle tessere paesistiche. Il sistema risultante è fortemente dipendente da input energetici esterni in termini di combustibili per il funzionamento dei macchinari agricoli e di apporti chimici ai campi: Il sistema garantisce un'alta produttività, quindi una notevole efficienza, ma un'interruzione dei flussi energetici, accompagnata ad un limitato numero di strategie di sopravvivenza. La monofunzionalità, porta rapidamente al collasso del sistema, qualora vengano meno le attuali condizioni per il suo mantenimento o, quanto meno, ne abbassa notevolmente la capacità di autoriequilibrio a fronte di variazioni provenienti dall’esterno. Parallelamente, l’omogeneità risultante, è povera di stimoli percettivi, visivamente banale. In sostanza si tratta di un paesaggio, anche esteticamente, di valore limitato.La Figura 1b, riguarda invece un paesaggio eterogeneo, quindi maggiormente complesso da un punto di vista ecosistemico, caratterizzato dalle relazioni che intervengono tra i campi e la rete di siepi, e dalle funzioni che l’assetto diversificato induce. In particolare, le configurazioni a rete delle siepi, mostrano elevate potenzialità per la biodiversità. Si precisa che, in genere, è più efficace una rete che unisce più macchie di dimensioni diversificate, tra di loro
Paesaggio e Biodiversità
connesse, piuttosto che una rete costituita da soli corridoi anche a fascia. I due paesaggi, si presentano visivamente in modo molto diverso, ma sono anche molto diversi i processi invisibili che sostengono tali patterns. Anche la produttività agricola è diversa, minore nel secondo caso, perché minori sono la specializzazione e l'efficienza, ma la presenza del reticolo di siepi e fasce boscate permette una maggiore complessità ecosistemica, che si traduce nella presenza di habitat variati, minore erosione di suolo e minori apporti energetici esterni, miglioramento del microclima e dell’assetto idrologico, una maggiore biodiversita’ florofaunistica e agricola, in definitiva una spiccata multifunzionalità del paesaggio. Le strategie di sopravvivenza del sistema sono affidate ad un maggior numero di risorse, in quanto è maggiore il numero di relazioni: la vulnerabilità è minore e il sistema è dotato di una maggiore capacità di auto9 riequilibrio, o autopoiesi . Un sistema autopoietico, presenta una capacità di adattamento al mutare di condizioni preesistenti, grazie ai propri meccanismi di auto-regolazione.
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Figura 2. Sopra: foto di paesaggio agrario del tipo di quello idi Figura 1a. Sotto, foto di paesaggio rurale del tipo 1b, in cui le funzioni paesistiche in senso tradizionale si aggiungono alle funzioni ecologiche. I patterns e il tipo di percezione che questi determinano, influiscono sulle scelte dei fruitori possibili.
La tabella che segue sintetizza i rapporti esistenti tra il sistema ecologico e gli aspetti cognitivi propri del paesaggio, in riferimento ai paesaggi schematici riportati in Figura 1.
tra parole e saggi
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Ecosistemi
Percezione umana, cultura e scelte
Complessità ecosistemica dovuta a interazioni tra elementi diversi (compresi quelli antropici compatibili), interdipendenze, processi in atto Multifunzionalità, bassa specializzazione delle tessere paesistiche, presenza di ecotoni, molteplicità delle strategie di sopravvivenza Bio diversità
Diversità e variabilità del paesaggio, stimoli visivi e senso di appartenenza
Bassa erosione di suolo dovuta a vento e ruscellamento
Minore degrado e migliore estetica e apprezzamento
Effetti sul microclima
Salute umana, economico
La maggior parte dell’energia richiesta proviene dall’interno del sistema di ecosistemi
Scala spaziale legata alla scala temporale, nessuna trasformazione improvvisa: identità e senso di appartenenza
Bassa vulnerabilità del sistema di ecosistemi
Alti valori e apprezzamento del sistema di ecosistemi10
Abbondanza di risorse diverse e ricchezza del paesaggio, basso contrasto Valori, salute, benessere
benessere
e
percezione
risparmio
Bassa vulnerabilità del paesaggio
Tabella 2 - A sinistra gli aspetti ecologici del mosaico di Figura 1b. A destra gli aspetti cognitivi
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Aumento della vulnerabilità
Ricchezza
Figura 3. Rappresentazione del legame tra le alterazioni del paesaggio determinate dalla banalizzazione ecosistemica, e l’aumento di vulnerabilità rispetto alla perdita di biodiversità, fino al rischio di rottura della catena alimentare (Da Schreiber, 1980, modificato). All’immagine originaria, è stata aggiunta una quarta fase, rappresentante gli effetti dell’intensificazione insediativa che porta alla formazione della città, nella quale la perdita di informazione determinata dalla perdita della diversità originaria è pressoché totale. Il nuovo equilibrio urbano si basa sull’informazione scambiata da elementi e popolazioni nuove e nuove fonti energetiche. La mancanza dei vari tipi di diversità anche nel paesaggio urbano, è causa di aumento della vulnerabilità della città.
Paesaggio e Biodiversità
Quanto espresso finora in termini di legami tra paesaggio, elementi e funzioni degli elementi che lo compongono, non si applica solo alle reti di siepi, che sono state usate come esempio. Esistono legami imprescindibili tra gli aspetti strutturali del paesaggio, le funzioni proprie degli elementi e le funzioni paesistiche che assetti diversi determinano. Tutto ciò è fortemente legato alla biodiversità in termini quantitativi e qualitativi. L’immagine che segue, tratta da una ricerca di Leopold del 1933 (Silbernagel, 2003), spiega in modo semplice, ma significativo, gli stretti rapporti tra mosaico paesistico e biodiversità. Nelle due immagini A e B, i tipi di elementi e le quantità sono i medesimi, cambiano solo forme e distribuzione: questi danno origine a due paesaggi indubbiamente diversi. A è più specializzato, gli elementi hanno meno interazioni, l’agroecosistema è semplificato, è presente un solo nucleo di galliformi (rappresentati con il tratteggio magenta). In B, la diversificata distribuzione dei medesimi elementi origina un mosaico più complesso, idoneo alla presenza di 6 nuclei di galliformi. Ecco che la biodiversità si pone come indicatore della complessità del Paesaggio la quale, a sua volta, è legata alla sua resilienza, quindi alle probabilità che il paesaggio ha di rispondere positivamente a eventi perturbanti sia naturali che antropici. Figura 4. Diversità di mosaico paesistico e biodiversità (adattato da Leopold, 1933)
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tra parole e saggi
Le interdipendenze tra diversità paesistica e diversità biologica fanno sì che anche la diversità del paesaggio possa essere utilizzata, in prima approssimazione, per stimare le potenzialità di diversità di specie e comunità, attraverso l’impiego di indicatori spaziali. E’ importante sottolineare però che alcuni indici (es. Shannon) se applicati al caso A e al caso B di Figura 4, darebbero il medesimo risultato, nonostante il grado di complessità sia assai diverso. Per una valutazione di questo genere, è pertanto necessario munirsi d indicatori in grado di cogliere non solo la presenza/assenza di determinati elementi, ma anche le loro configurazioni e congruità con la struttura geomorfologica e con il loro contesto. Per misurare tali situazioni, nell’ambito di uno studio sul paesaggio delle Frange urbane della Prov. di Milano, si è definito un metodo che coinvolge più indicatori, testato su cinque aree campione (Gibelli, Santolini, 2003). Il risultato su una delle aree campione è sintetizzato in Figura 5, che riporta uno dei transetti utilizzati per analizzare le interazioni tra città e campagna e verificarne le influenze reciproche, tra cui gli eventuali benefici degli ambienti rurali su una città di piccole dimensioni (23.000 abitanti). I transetti sono finalizzati a mettere in luce le variazioni del gradiente ambientale. Su un unico transetto si sono effettuati rilievi vari, al fine dell’impiego di indicatori diversi, in grado di mettere in evidenza le interazioni tra struttura e funzioni, tra cui l’assetto morfologico, la struttura territoriale, la Biopotenzialità territoriale (Btc), i parametri descrittori della comunità ornitica (ricchezza di specie, S, e abbondanza relativa, pi).
La comunità ornitica, in particolare, è stata scelta perché gli Uccelli rappresentano una componente non secondaria negli ecosistemi terrestri giocando un ruolo determinante nel trasferimento dell'energia attraverso le catene alimentari. Inoltre, numerosi Autori hanno evidenziato, in vari ecosistemi, le strette correlazioni che esistono fra la struttura del mosaico ambientale, quella della vegetazione e le caratteristiche della comunità, mostrando una notevole sensibilità alle variazioni degli ambienti in cui vivono (Santolini, 2003). La comunità ornitica costituisce quindi, in questo caso, l’indicatore di biodiversità da correlare con gli indicatori dell’Unità di paesaggio. Senza entrare nel dettaglio dei risultati, preme mettere in risalto il fatto che attraverso i dati analitici integrati, si è potuto individuare quali tipi di configurazioni del paesaggio, e quali tipologie di interventi sulla struttura dei margini urbani, siano più idonei a sostenere la biodiversità, ai fini di ottenere un paesaggio di frangia più sostenibile, in grado di migliorare sia il paesaggio urbano limitrofo che la campagna, lavorando in particolare sulla diversità paesistica (eterogeneità). Ecco che la biodiversità, nelle manifestazioni, negli strumenti di dovrebbe passare da “oggetto dei alcuni, a importante strumento per della qualità del paesaggio.
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Secondo D. Rapport, W. Whitford, M. Hilden, (1997), uno dei quattro fattori più rovinosi che affliggono in genere gli ecosistemi è la destrutturazione fisica, cioè la frammentazione, la perdita di matrice, la creazione di barriere, la riduzione della dimensione delle macchie che non riescono più a essere vitali. Ciò è vero sia per i sistemi naturali che per quelli antropici. L’interruzione delle dinamiche paesistiche naturali, causate dalla iperstrutturazione del territorio, determinano gravi alterazioni nelle possibilità di automantenimento dei paesaggi. Le fig. 6 e 7, riportano le dinamiche che hanno portato alla destrutturazione del paesaggio agroforestale preesistente.
sue varie governance, desideri” di valutazione
Biodiversità e frammentazione del paesaggio Ma un’eterogeneità troppo elevata genera una destrutturazione del paesaggio, un caos uniforme, negativo sia per la biodiversità, che per la percezione e vivibilità del paesaggio.
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Paesaggio e Biodiversità
Figura 5. A lato. Transetto per il rilevamento del gradiente ambientale città-campagna a Magenta (Gibelli, Santolini, 2003)
3b 3 3a 2
2 1
1 1900
1954
Figura 6. A sinistra le patches di paesaggio agroforestale nel comune di Gallarate, formatesi in seguito alla realizzazione della SS 33 e della ferrovia. A destra, l’aumento della frammentazione causata dalla realizzazione dell’Autostrada A8: le patches diventano 4. (Tratte da Gibelli, 2005, modificate).
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3d
3e 3d
3c
3b1
3b 3b2
3a1
1a
3a 3a2
2a
1b
2b
1a
2c 2000
1b
1980
Figura 7a b. Nel 1980, l’aumento di frammentazione ha portato ad un numero massimo di patches di dimensioni sempre più piccole: il paesaggio è al massimo della sua vulnerabilità. Infatti nel 2000 assistiamo ad una riduzione drastica delle patches forestali e alla separazione netta tra nord e sud, per via delle dinamiche insediative che hanno seguito l’infrastrutturazione. Il paesaggio agroforestale sta scomparendo.
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Paesaggio e Biodiversità
Un paesaggio frammentato viene, spesso, percepito negativamente dall’uomo, che ne legge la confusione, la diversità di elementi eterogenei, la difficoltà di riconoscere i luoghi, ecc. rendendo oltremodo difficile l’orientamento, la decodifica dell’identità dei luoghi con un aumento dello stress e del senso di disagio (cfr. Figura. 8). In realtà, “l’incoerenza” formale, il contrasto, la banalizzazione, la mancanza di caratterizzazione e di riconoscibilità di un ambito paesistico, sono spesso l’aspetto esteriore di altrettanti problemi derivanti proprio dalla mancanza o carenza di organizzazione del territorio, radicata nella perdita di relazioni dovuta alla frammentazione. Il “contrasto” è una delle dimensioni dei sistemi paesistici e (come nelle fotografie) è alto se gli elementi (unità ecosistemiche) adiacenti del paesaggio considerato, sono strutturalmente e funzionalmente molto diversi l’uno dall’altro e il tratto di transizione tra loro è breve o addirittura assente, è basso se gli elementi adiacenti sono relativamente simili l’un l’altro e se la transizione tra gli elementi è dolce. Ad esempio un capannone in un campo, non costituisce solo un detrattore visivo che contrasta in termini di forme, dimensioni e colori con l’ambito agricolo, ma si pone anche come elemento senza possibilità di relazioni funzionali con il suo contesto. Ossia, tra ambito agricolo e capannone si genera un’incompatibilità reciproca dovuta all’impossibilità di instaurare sinergie. Il grado di contrasto del paesaggio può diventare un indicatore di vulnerabilità in quanto un mosaico ricco di elementi tra loro incompatibili, dà origine ad un paesaggio carente di interazioni da un punto di vista ecosistemico e difficile da interpretare, riconoscere, vivere da un punto di vista percettivo.
Figura 8a. Frammenti urbani
Figura 8b. Frammentazione infrastrutturale
L’aumento di contrasto è uno dei primi risultati dell’intensificazione delle attività antropiche come l’agricoltura intensiva, la gestione forestale a scopi unicamente produttivi, la suburbanizzazione del
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paesaggio rurale. Più queste attività sono specializzate, più il contrasto aumenta. Un aumento di contrasto si accompagna generalmente ad una perdita della qualità paesaggistica in senso tradizionale, ma anche ad una diminuzione delle possibilità di interazione degli ecosistemi, che ne limita la capacità di autoregolazione. Il contrasto sempre più accentuato tra paesaggio antropico e naturale, prodotto dalle modifiche delle attività umane, è acutizzato da certe modalità gestionali che vedono una netta separazione tra i due tipi di paesaggio. Per esempio, l'eliminazione progressiva di ciò che è naturale dalle aree occupate dall'uomo e la cronica carenza di spazi verdi nelle città, l'eliminazione di elementi naturali dalla campagna, la canalizzazione e cementificazione dei corsi d'acqua contribuiscono ad aumentare il contrasto, nonché la possibilità di fruizione del paesaggio da parte di più popolazioni, incidendo quindi anche sulla biodiversità. Pertanto, il numero delle tessere specializzate, spesso tendenti alla monofunzionalità, che compongono un mosaico ambientale è, da alcuni autori, considerato un indicatore di vulnerabilità (Forman, 1995). Contemporaneamente, le ricerche sulle relazioni tra paesaggio e biodiversità hanno evidenziato come una serie di alterazioni del paesaggio incidano in modo determinante sulla biodiversità, al punto che da molti autori alcuni indici e modelli di biodiversità vengono indicati come efficaci segnali di dinamiche paesistiche. In particolare è noto come l’aumento dell’urbanizzazione diffusa, della frammentazione, la riduzione dimensionale delle patches naturali e l’intensificazione d’uso dei suoli modifichino i caratteri del paesaggio, e incidano negativamente sulla biodiversità, oltre che sui comportamenti umani.
tra parole e saggi
Gli effetti della frammentazione sulla biodiversità, sono noti da tempo. La scomparsa di habitat e la frammentazione sono state riconosciute in tutto il mondo come una questione chiave in rapporto alla conservazione della diversità biologica (IUCN 1980). Addirittura il processo di frammentazione degli ambienti naturali è ormai internazionalmente riconosciuto come la causa prima della perdita di biodiversità. Tant’è che si è trovato nel paradigma delle reti ecologiche la risposta operativa a tale problema. Reti ecologiche che, sempre di più, acquisiscono le molteplici funzioni di riqualificazione del paesaggio e di erogazione dei servizi ecosistemici, ulteriori a quelle di conservazione della biodiversità per le quali sono nate. Da un punto di vista dinamico, il processo di frammentazione può svilupparsi secondo le seguenti fasi desunte e modificate da Bennet (2004): a) scomparsa, riduzione di superficie e modifica della forma di determinate tipologie ecosistemiche; b) progressivo isolamento e riorganizzazione spaziale dei frammenti ambientali residui; c) aumento dell’effetto margine e diminuzione della core area; d) incremento delle antropogeniche.
superfici
di
tipologie
Le cause primarie delle alterazioni sopra elencate, sono le infrastrutture lineari e l’urbanizzazione diffusa o sprawl urbano. Relativamente agli effetti delle prime sulla biodiversità, la letteratura è ormai molto ricca. Restano da approfondire gli effetti della frammentazione sul paesaggio causati dallo sprawl.
Biodiversità e urbanizzazione diffusa Gli effetti dell’urbanizzazione diffusa sulla biodiversità non sono immediatamente evidenti. Lo sprawl, come è noto, determina cambiamenti radicali nei paesaggi interessati, anche in assenza di trasformazioni ingenti del territorio. Ciò nonostante, l’urbanizzazione diffusa è considerata uno dei fattori primari per la perdita di biodiversità a livello mondiale, sia per gli effetti diretti (consumo di suolo), che indiretti. Infatti tale modalità insediativa accresce significativamente il depauperamento delle risorse in varie parti del globo a causa del maggior consumo di combustibile, di materiali derivanti da risorse primarie, ecc. e determina effetti importanti sui trasporti, aumentando notevolmente la rete stradale minore e l’utilizzo dell’auto privata (Liu et al, 2003). Nella figura che segue, sono riportati i grafici esemplificativi che confrontano la dimensione delle famiglie con le stanze per famiglia, misurati in tre paesi significativi, tra cui l’Italia.
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una crescita di unità abitative (barra nera) nettamente più alta della crescita demografica (barra bianca).
Figura 9. Il numero di componenti per famiglia tende a diminuire con l’aumento delle stanze per famiglia. Ciò significa che è in atto un processo di scala globale, di aumento dello spazio abitativo pro-capite (tratto da Liu et al, 2003, modificato)
Si noti come la variazione demografica legata alle famiglie non sia più proporzionale alla crescita delle unità abitative. In particolare, l’Italia risulta avere una media di tre stanze pro-capite, standard addirittura più alto di quello della Nuova Zelanda. Si precisa che i dati sono del 2002 e che, come è noto, nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un’impennata nella crescita immobiliare. Nel grafico successivo, che riporta i risultati di un’indagine estesa a circa 200 paesi, è stata messa a confronto la crescita demografica con la crescita in percentuale delle unità abitative in diversi scenari di crescita. Gli “HC” sono gli “hot spots” per la biodiversità, mente i NHC sono i “not hot spots”. I paesi a rischio per la biodiversità (HC), mostrano
Figura 10. Sopra: i due istogrammi rappresentano le variazioni unità abitative rispetto alla crescita demografica in due scenari. Sotto, a sinistra gli scenari di crescita in HC (a sinistra) e NHC (a destra) (tratto da Liu et al, 2003, modificato).
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Le curve riportano anche simulazioni riguardo alla crescita delle unità abitative nel prossimo futuro. La curva a sinistra in basso, identificata con il rombo, è la più inclinata, ed esprime la realtà misurata dal 1985 al 2000, con la proiezione dal 2000 al 2015 ipotizzando uno stesso tasso di crescita. Quella sotto, col quadratino, è la simulazione con tasso di crescita invariato del 1985. Le varie proiezioni sono impressionanti. Secondo questi dati, non è l’incremento demografico la causa della perdita di biodiversità, ma il consumo di suolo. Dunque il vero fattore critico per la biodiversità e il paesaggio sono gli stili di vita legati alle diversità di popolazioni e comunità (cfr Tabella 1, nota). Aspetto che riporta ai legami importanti tra natura e cultura e, di conseguenza, all’importanza del paradigma del paesaggio nei confronti della sostenibilità. Ma questa riflessione ci impone anche di considerare il significato delle scale in rapporto al paesaggio e alla biodiversità. Infatti, a scala locale, l’impatto sul paesaggio e sulla biodiversità di una piccola casa con giardino è sicuramente minore di quello di un grande edificio. Ma la diffusione del modello insediativo “casa+giardino”, in funzione dello stesso numero di persone allocate nel grande edificio, determina un impatto molto maggiore di quello del grande edificio. Il tema dell’urbanizzazione diffusa, è un esempio di come la somma dei fenomeni a scala locale produca, nel tempo, ai livelli superiori di scala, effetti estremamente problematici e imprevedibili se non si tiene conto dei rapporti gerarchici che intercorrono tra le scale. Ecco perché la scala del paesaggio riveste un ruolo tanto importante, anche
Paesaggio e Biodiversità
nei confronti della gestione di fenomeni molto più settoriali e di dimensioni limitate. La destrutturazione del paesaggio, prodotta dall’urbanizzazione diffusa e dall’infrastrutturazione, provoca effetti ulteriori e complessi sulla biodiversità. L’entità del fenomeno, dipende da numerose ulteriori variabili, riferibili ad altrettanti aspetti strutturali del paesaggio tra cui il contesto paesistico-ambientale di riferimento, le tipologie ambientali interessate, l’estensione e configurazione degli habitat residui, il grado di connessione tra questi, la distanza da altre tipologie ambientali, il tempo intercorso dall’inizio del processo (Battisti, 2004).
mantenere una idonea capacità di resilienza del sistema alla scala vasta, che significa una buona capacità di risposta ai disturbi e ai cambiamenti anche di lungo termine. Ciò è ottenibile attraverso insiemi di habitat diversificati e interagenti, in grado di ridurre la vulnerabilità del sistema paesisticoambientale. Pertanto, per conservare la biodiversità propria di un territorio occorre lavorare a diverse scale e con un approccio integrato.
•
assicurare mosaici di paesaggio opportunamente gestiti, includenti anche aree protette, in grado di ospitare tutte le diverse comunità naturali potenziali del territorio considerato,
•
assicurare il mantenimento o il recupero delle popolazioni minime vitali di tutte le specie native, all’interno delle loro comunità naturali;
•
assicurare il mantenimento e/o il recupero dei processi ecologici ed evolutivi che incentivano o supportano la biodiversità;
Altro aspetto troppo spesso trascurato è la dimensione tempo. Infatti la velocità con cui avvengono le trasformazioni, incide sia sulla biodiversità che sulla vulnerabilità del paesaggio. Le attività antropiche incidono notevolmente sulle dinamiche temporali, accelerando alcuni processi. Ad esempio, le trasformazioni territoriali che l’attuale tecnologia consente, possono avvenire in tempi ridottissimi rispetto a quelli propri dei sistemi naturali, dei ritmi biologici e, pertanto, della capacità di adattamento delle specie, ivi compresa quella umana. Contemporaneamente assistiamo al rallentamento, o addirittura al blocco di alcune dinamiche, principalmente a causa della frammentazione, di una gestione che tende a cristallizzare gli assetti territoriali e a conservare gli ecosistemi a livelli successionali predeterminati. Si pensi per esempio al governo del bosco, in particolare ceduo, il cui effetto è quello di mantenere stabilmente l’ecosistema in una fase giovanile senza permetterne l’evoluzione a livelli di organizzazione più complessi11, e senza permettere il verificarsi delle novità che sono alla base dell’evoluzione.
•
assicurare la conservazione di insiemi di habitat naturaliformi sufficientemente ampi da
La variabile tempo può costituire la discriminante tra una trasformazione compatibile e una non
Per cui possiamo affermare che esiste un rapporto diretto tra i processi di destrutturazione del paesaggio e la perdita di biodiversità. Una strategia di conservazione o promozione della biodiversità in un territorio dovrebbe perseguire i seguenti obiettivi (da Noss, 1992, modificati):
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compatibile dal punto di vista ecologico e della biodiversità, ma gioca anche un ruolo importantissimo nella possibilità delle popolazioni umane di adattarsi, ad esempio, alla città che cambia e ad un paesaggio urbano che perde rapidamente la propria identità. Gli effetti sugli equilibri ambientali e culturali sono tanto più gravi, quanto più è alta la velocità di trasformazione, dato che non si dà al sistema paesistico il tempo per autoriorganizzarsi in risposta alle alterazioni avvenute. Quanto sinteticamente esposto in termini di vulnerabilità del paesaggio, scale spaziali, velocità di trasformazione e tempi di adattamento, tra l’altro, ricopre un’importanza notevole in riferimento agli effetti dei cambiamenti climatici, con i quali gli strumenti di governo del territorio debbono iniziare a confrontarsi. Allo stato attuale, due sono i principali approcci per cercare di diminuire i rischi derivanti dai cambiamenti: la riduzione dei gas serra e l'attuazione di strategie di adattamento, basate sulla riduzione della vulnerabilità dei sistemi. Le due strategie sono, peraltro, attuabili a scale diverse: la prima attiene alla scala ampissima delle politiche nazionali e sovranazionali e a quella dei comportamenti individuali. La seconda invece attiene alle scale intermedie, alle quali si attuano le politiche di governo del territorio, che corrisponde, quindi, alle possibilità offerte dalla Pianificazione e dagli strumenti di governance territoriale in genere. E' evidente che i risultati si potranno ottenere solo attraverso il lavoro a tutte le scale e che ognuno, per la sua parte di competenza, dovrà concorrere alla costruzione di nuovi equilibri ambientali. L’esplorazione del significato di vulnerabilità dei sistemi paesistici, pare essere uno dei settori
chiave per l’individuazione di strategie e criteri adattativi validi. A questo proposito, vale la pena di ricordare che uno dei 10 messaggi dell'EEA (European Environmental Agency) per il 2010, è intitolato “Global change and biodiversity”, e riporta il seguente “KEY message”: “La varietà della vita sottende al nostro benessere sociale ed economico e sempre di più rappresenterà una risorsa indispensabile nella battaglia contro i cambiamenti climatici. In ogni caso il nostro sistema di consumo e produttivo sta deprivando gli ecosistemi e la loro capacità di reagire ai cambiamenti climatici e di erogare i servizi di cui noi abbiamo bisogno. Più noi capiamo come i cambiamenti climatici impattano sulla biodiversità, più diventa chiaro che noi non possiamo gestire i due aspetti separatamente. La loro interdipendenza richiede che essi vengano trattati insieme.”
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Sviluppare una struttura per le politiche territoriali che riconosca l'interdipendenza dei cambiamenti climatici, della biodiversità e dei servizi ecosistemici. Tale struttura dovrebbe facilitare l'interazione settoriale, al fine di stimolare il sostegno a ulteriori ricerche in cui l'agricoltura, la silvicoltura, l'imprenditoria e altro siano tutte coinvolte. Usare questa struttura intersettoriale per disegnare e implementare azioni concrete basate sugli ecosistemi. Gli esempi includono la difesa costiera soft, il mantenimento e la riproposizone di aree esondabili, interventi di ri-vegetazione e infrastrutture verdi.”
Il messaggio conclude fornendo indicazioni generali, ma precise sull'approccio da utilizzare: “E' ormai essenziale che il richiamo sull'interdipendenza tra cambiamenti climatici e protezione della biodiversità siano tradotti in azioni concrete a tutti i livelli: globale, nazionale e regionale. Massimizzare le sinergie nei due campi, richiede tre tipi di azioni (EU WG, 2009; The Nature Conservancy, 2009): Mantenere e recuperare la biodiversità e gli ecosistemi che sottendono alla resilienza e alla capacità di mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici. Ciò include la costruzione della rete ecologica.
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Paesaggio e Biodiversità
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Riferimenti iconografici Tutte le immagini sono di Gioia Gibelli.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di settembre 2011 © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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E’ evidente che l’uomo, da sempre, ha modificato il paesaggio. Ma la costruzione del recinto intorno allo spazio coltivato e, successivamente la volontà di impreziosire l’hortus conclusus attraverso scenografie e ordini spaziali, costituisce il territorio dove l’uomo esercita la sua capacità di creare paesaggio (Turri, 2003). 2 La CEP è stata presentata a Firenze nel 2000 e ratificata dallo Stato italiano con la legge n. 14 del 9 gennaio 2006. 3 Le parti in corsivo del presente testo sono stralci del testo della Convenzione o della relazione esplicativa. 4 M. Antrop, Universitè de Gand, Belgio, ha collaborato alla stesura della CEP. 5 La patch è in genere l’elemento sul quale si verificano gli effetti dovuti alle diversità di comportamento dei singoli individui nel mondo naturale. Per quanto riguarda l’uomo, gli stili di vita, come si vedrà più avanti, sono i maggiori responsabili delle modifiche al paesaggio e, da queste, alla biodiversità. Gli stili di vita non possono essere attribuiti a diversità di specie, ma ai comportamenti dei singoli individui, delle popolazioni e delle comunità umane. Gli elementi recettori, in questo caso, variano enormemente di scala, in quanto gli effetti possono ricadere su interi biomi. Questo aspetto tocca alcune delle questioni dirompenti degli effetti umani sull’equilibrio del globo: la frattura della scala spaziotemporale e la standardizzazione e omologazione di comportamenti e paesaggi determinata dai processi di globalizzazione. 6 La diversità delle popolazioni e delle comunità incide sui comportamenti sociali. Per quanto riguarda la popolazione umana, corrisponde al livello di diversità connesso alla formazione degli stili di vita, i quali, come vedremo, hanno implicazioni enormi sia sulla formazione dei paesaggi che sulla conservazione della biodiversità. 7 La diversità delle comunità, per quanto riguarda la popolazione umana, ha influito sui rapporti con le altre specie, animali e vegetali, in particolare nei processi di addomesticamento e, di conseguenza nella formazione dei paesaggi agricoli. 8 Il “grado di vulnerabilità” del paesaggio, può essere definito come la probabilità che quel paesaggio sparisca o
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sopravviva: più un paesaggio è adattabile a nuove condizioni, meno è vulnerabile e maggiore è la sua resilienza. Più è sensibile alle alterazioni, più è vulnerabile e minore è la sua resilienza. La resilienza è la capacità degli ecosistemi e dei sistemi ambientali di rispondere ad un dato evento e ritornare in uno stato di equilibrio che non è mai uguale allo stato precedente. Ferrara e Faruggia (2007), definiscono la resilienza, come la “possibilità che un sistema ha di reagire ad un impatto o a un danno, determinata dalle sue capacità di elasticità e di recupero rispetto alla causa o al possibile danno”. 9 Il termine Autopoiesi è stato coniato da H. Maturana a partire dalla parola greca auto, ovvero se stesso, e poiesis, ossia creazione (1985). In pratica un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente sé stesso ed al proprio interno si sostiene e si riproduce. L’autopoiesi è, pertanto, legata alla probabilità di un sistema a riorganizzarsi anche di fronte a cambiamenti esterni imprevedibili. 10 Affinché tali aspetti vengano effettivamente riconosciuti come valori, è necessaria la consapevolezza delle popolazioni locali del patrimonio che hanno in dotazione. Ciò, generalmente, implica un percorso culturale anche lungo, previsto dalla CEP, e che appare indispensabile nell’ottica di conservare le risorse per le generazioni future. 11 I boschi cedui presentano una ricchezza di specie sia vegetali che animali e una biodiversità inferiori ai boschi naturali, proprio in quanto il taglio ripetuto tende a rompere periodicamente le catene funzionali che devono continuamente ricostituirsi, con una perdita progressiva di energia e componenti. Ciò pregiudica le potenzialità del sistema nel tempo. La frequenza con cui i tagli avvengono, l’intensità e l’estensione delle aree interessate, incidono fortemente sulla potenzialità ecologica del bosco.
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Paesaggi della biodiversità
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Tra parole e saggi
Quale paesaggio per la biodiversità? Concezioni di paesaggio nelle Strategie Nazionali per la Biodiversità in Europa1
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Which landscape for biodiversity? Landscape conceptions within National Biodiversity Strategies throughout Europe
Bianca Maria Seardo*
abstract Sebbene risultati di complesse interazioni coevolutive, paesaggio e biodiversità sono spesso oggetto di politiche distinte, a volte poco coordinate. Attraverso una ricognizione delle concezioni di paesaggio più o meno implicite nelle Strategie e nei Piani Nazionali per la Biodiversità dei Paesi dell'Unione Europea, si cercherà di fornire alcuni primi elementi per rispondere alla questione: in che modo la concezione di paesaggio introdotta con la Convenzione Europea può considerarsi realmente assimilata nelle politiche per la biodiversità, contribuendo a ridefinirne gli approcci conservazionistici?
abstract Although outcomes of complex coevolutionary interactions, landscape and biodiversity are often addressed by separated policies. Which role is played by the new concept of landscape introduced by the European Landscape Convention in reshaping biodiversity and nature conservation approaches within policies? Some answers are suggested in the following pages, moving from the analysis of the National Biodiversity and Action Plans of the EU Member States.
Parole chiave paesaggio, biodiversità, multifunzionalità, politiche
Key-words landscape, biodiversity, multifunctionality, policies
* dottoranda in Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale, DiTer - Politecnico di Torino
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Quale paesaggio per la biodiversità? Concezioni di paesaggio nelle Strategie per la Biodiversità in Europa
Diversità biologica e assetto del paesaggio sono il prodotto dinamico di complesse interazioni coevolutive (Jones-Walters L., 2008). Negli avanzamenti teorici sull'idea di paesaggio, così come nei nuovi paradigmi della cultura conservazionista, i due concetti sono accomunati da approcci sempre più convergenti, almeno su due livelli: da un lato prevale la spinta ad uscire dalla concezione “insulare”, riferita solamente ad oggetti o aree di particolare valore, per adottare una visione “reticolare”, rivolta ai sistemi diramati sull'interezza del territorio; dall'altro, l'approccio conservativo dichiara di voler abbandonare l'opposizione a priori a qualsiasi forma di sviluppo, “cedendo sempre più all'idea che la conservazione costituisca la faccia emergente dell'innovazione per la società contemporanea” (Gambino, 1997). Allo stesso modo, per le politiche paesaggistiche vale l'obiettivo di assicurare salvaguardia attiva e trasformazioni consone, attraverso la pianificazione e la gestione dei paesaggi (Convenzione Europea del Paesaggio - CEP, art.5, comma b). Visti però come oggetti di politiche, norme e competenze istituzionali, paesaggio e biodiversità possono andare incontro a situazioni di “conflitto”. In Italia, ad esempio, il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio sancisce la priorità del piano 2 paesaggistico sui piani del parco intervenendo, nell'opinione di molti, a complicare un panorama giuridico-amministrativo già segnato da “dissennati divorzi” (Settis, 2010) fra, paesaggio, ambiente, territorio, beni ambientali. Ne è conseguenza, fra le altre, l'illegittimità costituzionale delle leggi istitutive di alcune aree protette regionali, come il Parco Fluviale piemontese Gesso e Stura, parte della cui legge istitutiva (L.R. 3/2007) dichiarata illegittima poiché prevedeva che l'efficacia del piano d'area del parco valesse “...anche per la
tutela del paesaggio” (art.12, comma 2): ne deriverebbe, secondo il Governo, che ha presentato ricorso, la violazione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di paesaggio, così come ai sensi del Codice (art.145, comma 3). Paesaggio e biodiversità sono spesso oggetto di politiche distinte: emblematica è la separazione delle competenze a livello europeo, dove all'Unione spetta la definizione di politiche in materia 3 ambientale (segnate, ad esempio dall'emanazione della Direttiva Habitat per l’istituzione della rete di aree protette Natura2000), mentre il Consiglio d'Europa orienta le politiche paesaggistiche di Stati, Regioni e Enti locali, attraverso la Convenzione Europea del Paesaggio e i diversi stimoli alla sua attuazione. Stanti queste osservazioni, sembra dunque lecito domandarsi quale rapporto sussista fra concezione di paesaggio da un lato e di conservazione della biodiversità, dall'altro, all'interno e fra i Paesi Membri dell'Unione. Sebbene ventitré Stati Membri su ventisette abbiano ratificato la Convenzione sul 4 paesaggio del Consiglio d'Europa , non sembra infatti per nulla scontato che le politiche settoriali di indirizzo alla biodiversità aderiscano alla concezione di paesaggio sottoscritta con essa. Lo scopo di questo breve saggio è presentare alcune considerazioni sul “rapporto non ovvio” fra paesaggio e biodiversità, a partire dalle principali novità concettuali introdotte con la Convenzione Europea e verificandone il grado di assimilazione all'interno delle Strategie e dei Piani Nazionali per 5 la Biodiversità dei ventisette Stati Membri. Dal 1992 ben centosessantotto Paesi a livello mondiale hanno infatti firmato la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) che, oltre a fissare princîpi ed obiettivi e a fornire una definizione comune di “biodiversità”, impegna gli Stati firmatari nella
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stesura di strategie nazionali e piani d'azione tematici per la sua stessa attuazione. Tutti gli Stati Membri UE hanno firmato la CBD, Cipro e Grecia non hanno ancora predisposto le proprie Strategie, Malta sta elaborando i primi documenti, undici Stati hanno completato il processo di elaborazione, altri undici hanno già provveduto all'aggiornamento dei primi Piani, due lo stanno svolgendo (tabella 1). Per l'Italia, la Strategia è stata predisposta in forma di schema dal Ministero dell’ Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, attraverso la discussione in specifici tavoli tematici, e successivamente approvata dalla Conferenza Permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome, nell'ottobre 20106. In particolare, si metterà in luce se nelle politiche per la biodiversità degli Stati europei emergono: a) l'adesione ad una visione multidimensionale del paesaggio, che oltre alle componenti ecosistemiche (su cui più classicamente si concentrano le politiche di conservazione) consideri anche i valori identitari, storico-culturali, estetici...come suggerito dall'art.1 della Convenzione7 e dal concetto di multifunzionalità recentemente definito e variamente approfondito dalla landscape research (vedi, ad esempio, Brandt et al., 2000; Hassan et al., 2005). I Piani Nazionali per la Biodiversità propugnano strategie per una conservazione della natura integrata con gli altri valori paesaggistici? b) l'estensione dell'attenzione da poche e selezionate “parti”, all'intero territorio, come stabilito anche dalla CEP (che “...si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita
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Tabella 1 Quadro delle adesioni alla Convenzione Europea del Paesaggio e alla Convenzione sulla Diversità Biologica e stato di elaborazione delle Strategie per la biodiversità dei Paesi dellUnione Europea (agg. 27.04.2011)
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quotidiana, sia i paesaggi degradati”, art.2)8. Allo stesso modo, se le aree protette non possono essere le uniche destinatarie delle politiche di conservazione della biodiversità, quali sono i paesaggi “beyond the boundaries” chiamati in causa a questo scopo? La lettura trasversale delle Strategie Nazionali per la Biodiversità in ambito UE (effettuata su di una cinquantina di documenti, fra Strategie e Piani d'Azione) restituisce un panorama complesso di risposte a questi interrogativi. Si cerca qui di darne una sintesi ragionata ed articolata come segue. In primo luogo, emerge un’adesione a diversa intensità, fra gli Stati, al concetto di paesaggio introdotto dalla Convenzione Europea. In alcuni casi, la concezione di paesaggio sottesa alle politiche per la biodiversità è strettamente basata sulle teorie dell'ecologia del paesaggio (paesaggio come scala di osservazione dei fenomeni biologici) e della biologia della conservazione (che focalizza l'attenzione sulle componenti “naturali”); in altri Stati si fa strada invece una concezione multidimensionale (più affine, quindi, a quella propugnata dal Consiglio d'Europa), mentre in pochi altri, la dimensione paesistica è completamente esclusa, in favore di un approccio prettamente biologico al tema della salvaguardia delle specie e degli habitat; quest'ultimo dato è particolarmente interessante se si considera che riguarda anche Paesi firmatari della CEP. In merito al secondo quesito posto in incipit, si nota invece una certa volontà di porre l'accento sull'inscindibilità del rapporto fra presenza umana e biodiversità, caratteristica del vecchio continente: tutti i Paesi concorrono in questo senso ad individuare come luoghi prioritari per la tutela attiva della biodiversità non solo specifici ambienti di valore naturalistico, ma anche paesaggi dalla
significativa “impronta” umana.
Scala di paesaggio, paesaggio bio-culturale, “assenza” di paesaggio In ecologia, la nozione di paesaggio è strettamente legata ad una idea di “scala spaziale” attraverso cui comprendere fenomeni e dinamiche specifici degli ecosistemi: Forman definisce “paesaggio” quel “mosaico formato da un raggruppamento di ecosistemi che si ripetono nello spazio con forma similare, in un range chilometrico, con dei confini identificabili. Specifico livello dell’organizzazione biologica della vita” (1995). Alla scala di paesaggio si manifestano infatti particolari strutture e processi non rilevabili ad altri livelli di analisi, come reti ecotonali, connettività fra ecosistemi, tipi di porosità della matrice paesistica, dinamica di paesaggio, strategie di metastabilità (Ingegnoli, 1999). A questo proposito, al paesaggio è spesso attribuito anche uno specifico fattore di scala (tabella 2) che lo distingue da altri livelli di osservazione. In biologia della conservazione, ad esempio, l'effettiva comprensione delle dinamiche di popolazione all'interno di specie che coprono lunghe rotte di migrazione, richiede una visione dei 9 fenomeni alla scala di paesaggio . Per la rilevanza che assume nella comprensione e nella gestione della biodiversità e dei processi ecologici, la concezione di paesaggio come “scala” imprime quasi totalmente di sé alcune delle Strategie per la Biodiversità degli Stati europei. Procedendo ad un'analisi in chiave ecosistemica dei rispettivi paesaggi nazionali, Bulgaria, Polonia, Paesi Bassi e Slovacchia individuano le principali aree di rilevanza ecologica che, messe a sistema 10 con le aree protette esistenti , sono votate a
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Quale paesaggio per la biodiversità? Concezioni di paesaggio nelle Strategie per la Biodiversità in Europa
costituire i capisaldi delle reti ecologiche nazionali.
Tabella 2 Sistemi ecologici classificati per scale gerarchiche, in base al cambiamento dei loro principali caratteri (Fonte Zonneveld, 1995 modificato)
Il piano Nazionale per la Conservazione della Biodiversità in Bulgaria si rifà esplicitamente alle teorie dell'ecologia del paesaggio: “[si fa riferimento ai]...princîpi della biologia della conservazione...per definire zone buffer e per connettere e coordinare le riserve naturali alla scala di paesaggio”. Le politiche per la biodiversità sono indirizzate soprattutto alle aree protette e ai territori limitrofi, o di funzionalità ecologica: “la rete ecologica si basa sul complesso delle aree più importanti per la conservazione della natura e degli ecosistemi: siti appartenenti al patrimonio mondiale dell'umanità, riserve di biosfera (Programma UNESCO Man and Biosphere), riserve naturali, parchi nazionali, siti individuati dal Programma Corine Biotope...”. Altri Paesi con approccio simile individuano puntualmente i criteri per la selezione delle aree prioritarie su cui concentrare la salvaguardia della
diversità biologica a livello di ecosistemi, habitat, 11 specie e risorse genetiche . Anche l'Italia, rielaborando la concezione “olistica” di paesaggio, sposata con la ratifica della Convenzione Europea e assimilata nella legislazione nazionale con il Codice, focalizza la propria Strategia per la Biodiversità sulla concezione “scalare” del paesaggio. Durante i lavori preparatori della strategia, il tavolo tecnico sul tema “biodiversità e governo del territorio” delinea un ruolo centrale per la pianificazione di area vasta nell'applicazione dell'approccio ecosistemico: si riconosce la limitatezza della conservazione “per isole protette”, su cui ancora si basano le leggi italiane, e si accusa l'inadeguatezza di un sistema normativo in cui lo sviluppo delle reti ecologiche è lasciato all'iniziativa di sensibilità isolate e disomogenee sul territorio nazionale (seppure attive al punto tale da far registrare una pianificazione quasi coprente del territorio nazionale, dal punto di vista delle connessioni ambientali: Padoa Schioppa et al., 2010). Il principale tema di lavoro per gli anni a venire è infatti individuato nella territorializzazione delle reti ecologiche agevolato dall'apporto di due tipi distinti e non “interscambiabili” di esperti: biologi e naturalisti, per l'individuazione di obiettivi specifici e per l'indicazione della struttura ambientale ad essi più funzionale, e pianificatori, in grado di rendere efficace il progetto alla luce delle più ampie problematiche socio-economiche e territoriali. Un obiettivo concreto consiste nell'individuazione “di una rete ecologica a scala di paesaggio che sia di base per lo sviluppo delle città, la pianificazione e la progettazione”. La principale proposta operativa è infatti colmare al più presto la distanza tra pianificazione territoriale e approccio ecosistemico, esistente sia a livello normativo, sia a livello
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pratico; si indica inoltre, come priorità, l'approvazione di una nuova legge quadro nazionale sull' “Uso, trasformazione e tutela del territorio”, di forte stampo ambientale. Un'altra “famiglia” di Paesi sposa con maggiore convinzione la concezione di conservazione della biodiversità più interdipendente dalla matrice paesaggistica come luogo di valori insieme bioculturali. In Austria, ad esempio, si coglie il rapporto sinergico fra biodiversità (genetica), paesaggio e sviluppo economico: il mantenimento di alcune razze locali di animali domestici è infatti incentivato poiché, oltre a perpetrare risorse genetiche uniche, il loro allevamento ha ripercussioni indirette sulla conservazione dei caratteri tipici dei paesaggi rurali e forestali, in cui avviene il pascolo, e sul turismo (richiamato proprio dalla peculiarità del sistema socio-economico e dal palinsesto paesaggistico generati dall'allevamento di razze locali). Ancora in questo Paese, sono formulati indirizzi specifici per “l’adeguata considerazione delle interazioni funzionali ed estetiche fra habitat contigui”, per la protezione del paesaggio integrata all’attività estrattiva e, infine, per la minimizzazione “degli impatti delle linee energetiche, dei trasmettitori e dei mulini a vento sul paesaggio”. Nella Repubblica Ceca si stabilisce la valorizzazione e la reintroduzione di componenti paesaggistiche funzionali alla biodiversità, ma anche a “protezione dei caratteri specifici del paesaggio, degli assetti scenici e dei loro elementi, come alberi isolati o 12 organizzati in filari, specchi e corsi d'acqua....” ; inoltre si indica la necessità di coordinare le politiche per la biodiversità con il programma nazionale per la riqualificazione dei siti produttivi ed estrattivi, dei siti militari e delle aree agricole abbandonate. Agli interventi di ripristino di questi
Tra parole e saggi
ambiti si chiede, oltre alla ri-creazione di habitat, anche di ricomporre il “carattere originario” del paesaggio: a questo scopo, alle semplici azioni di replacement (che garantisce il rapido ripopolamento biologico dei siti da riqualificare), si preferisce l'approccio fornito dalla restoration ecology che, invece, tiene in considerazione altri aspetti, quali: il valore ecologico delle specie introdotte, i rischi di diffusione di specie invasive, la concordanza scenica degli esiti di intervento con il paesaggio esistente o con l'immagine “storica” che si vuole ricostruire.
Figura 1. Quella di paesaggio come “scala di osservazione dei fenomeni”, è una delle concezioni più diffuse nelle Strategie Nazionali per la Biodiversità.
Il Piano Nazionale del Regno Unito mostra un approccio al paesaggio che dà maggiore attenzione al ruolo storico dell'uomo nella diversificazione delle specie animali e vegetali, attraverso le pratiche tradizionali di sfruttamento agricolo del
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territorio. Da un lato si invita ad impiegare in maniera sempre più diffusa le teorie e le 13 metodologie di indagine dell'historical ecology nelle analisi paesaggistiche, dall'altro si sottolinea il lavoro già avviato sui paesaggi rurali (quasi l'80% della superficie nazionale) dai Farming and Wildlife 14 Advisory Groups per la diffusione, fra gli operatori agricoli, di modalità di gestione ambientalmente compatibili dei terreni e in continuità con i caratteri paesaggistici storici. Oltre ai paesaggi culturali, il Regno Unito affronta il tema di quelli di particolare valore fruitivo, nei quali si registrano i più alti livelli di disturbi ai processi biologici. Per la gestione dei flussi turistici viene affidato un ruolo chiave alla pianificazione territoriale; nella recente nota n.2 delle Planning Policy Guidance si suggerisce una politica attenta a due livelli: da un lato sono da incentivare nuovi modelli di fruizione (come le “conservation holidays”) mentre dall'altro si richiede che gli stessi piani di sviluppo territoriale integrino le indicazioni delle politiche per il turismo. In Estonia, una delle principali dinamiche ad incidere sugli orientamenti delle politiche in materia di habitat e paesaggio è la rapida frammentazione dovuta alla riprivatizzazione delle terre e allo sviluppo del settore privato, che introducono sostanziali cambiamenti nell’uso dei suoli e nella loro gestione. A scala nazionale si cerca quindi, anche attraverso la Strategia per la biodiversità, di proporre una politica paesistica unitaria, mirata sia a conservare habitat e singole componenti naturali (ad esempio istituendo zone di protezione attorno ai corsi e agli specchi d’acqua), sia a mantenere la diversità paesistica nazionale, soprattutto ricercando l'appoggio delle politiche agricole già esistenti, di aiuto nel ripristino e nella creazione di macchie boscate, aree umide, dune, alvei fluviali
abbandonati, fasce incolte ai margini dei campi, ma anche di elementi di valore più spiccatamente culturale come muri in pietra a secco, alberate e siepi. Infine, dal 2009, in Finlandia è possibile istituire parchi nazionali urbani “per proteggere e mantenere la bellezza di paesaggi culturali o naturali, la biodiversità, le caratteristiche storiche o altri valori sociali e ricreativi connessi all'ambiente urbano”, mentre, in Germania, si richiede che gli Eingriffsregelungen che disciplinano le azioni di compensazione ambientale per gli interventi di nuova edificazione, siano arricchiti di indirizzi di carattere non più solo ambientale, ma anche paesaggistico, di aiuto alla “preservazione del carattere estetico del paesaggio”.
“Nuovi” paesaggi per la biodiversità La CBD contiene un forte impulso ad estendere l'attenzione dalle aree protette ad una vasta gamma di ambienti, come parallelamente stabilito dalla CEP per quanto riguarda i paesaggi: “[la presente Convenzione...riguarda] spazi naturali, rurali, urbani e periurbani […] paesaggi terrestri, le acque interne e marine […] i paesaggi che possono essere considerati eccezionali […] della vita quotidiana e i paesaggi degradati” (art.2). La Convenzione per la Biodiversità indica a sua volta gli ambienti prioritari per lo sviluppo di programmi tematici: aree agricole, zone aride e sub-umide, foreste, montagne, acque interne, ambienti marini 15 e costieri, isole , mentre solo all'articolo 8 (dedicato alla conservazione in situ) dà particolare rilievo alle aree protette (come ai territori ad esse limitrofi) e agli ecosistemi “degradati”.
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Quale paesaggio per la biodiversità? Concezioni di paesaggio nelle Strategie per la Biodiversità in Europa
Le Parti sono chiamate a specificare nelle rispettive Strategie Nazionali obiettivi e misure per lo sviluppo della biodiversità in questi ambienti. Dalla lettura trasversale delle Strategie nazionali, emerge la necessità dei vari Paesi di articolarne maggiormente l'elenco, allargando l'attenzione da un lato a quelli che caratterizzano i singoli contesti 16 (territorializzando la visione nazionali dovutamente “generalizzante” delineata dalla CBD) e dall'altro comprendendo i paesaggi, in quanto risultato formale delle dinamiche coevolutive millenarie fra uomo e ambiente. A seguito del confronto fra le Strategie, la varietà delle tipologie di paesaggi richiamate può essere sistematizzata nelle seguenti macro-tipologie: paesaggi della geodiversità, aree di wilderness, ambienti artici, paesaggio urbano e costruito, paesaggi aperti, paesaggi delle infrastrutture di trasporto, paesaggi produttivi. Inoltre, in alcuni casi i Piani d'azione richiamano un'attenzione ai “paesaggi esterni alle aree protette”, distinti non tanto per una particolare caratterizzazione paesaggistica, quanto proprio per il fatto di non essere riconosciuti da istituti di tutela particolari; in altri casi ancora, si fa menzione specifica a paesaggi unici, come quello del Mar Nero, del Mar Baltico e dell'arcipelago vulcanico delle Azzorre. L'attenzione a questi paesaggi ricorre in modo differente da Paese a Paese; la loro individuazione, rispetto agli ambienti indicati dalla CBD, è legata sia all'effettiva diversità di ecosistemi che caratterizza ogni Paese a seconda della regione biogeografica di appartenenza, sia alla sensibilità di ciascuno Stato Membro nel voler mettere in evidenza le proprie specificità. Attraverso la propria Strategia, il Portogallo mette in luce la rilevanza del patrimonio dei paesaggi 17 della geodiversità di cui dispone ; la Regione
Autonoma delle Azzorre ha istituito i Monumenti Naturali Regionali di Interesse Geologico ed ha creato un database del patrimonio speleologico delle Azzorre (IPEA – Inventory of Speleology Heritage of Azores). La dimensione paesaggistica delle componenti geologiche, geomorfologiche e paleontologiche è oggetto di gestione integrata con le istanze naturalistiche, attraverso i Piani dei Parchi Naturali e dei Paesaggi protetti. Infine, anche per paesaggi delle attività estrattive sono elaborati Piani di Recupero Ambientale e Paesaggistico. Francia, Germania, Lettonia, Lituania e Regno Unito dedicano una parte specifica delle proprie Strategie al paesaggio urbano. L’approccio è però diverso a seconda dei contesti nazionali: quello prevalente si fonda su una visione dualistica dell'ambiente urbano, diviso fra spazi costruiti e spazi aperti, mentre in altri casi prevale l'idea di un “sistema” urbano, per il quale perseguire un'idea di sostenibilità complessa, che investa anche i settori dell'edilizia, dei trasporti, delle reti energetiche. Nel primo caso, in Lettonia si sceglie di concentrare le risorse sul monitoraggio delle specie invasive 18 all'interno degli ecosistemi urbani , partecipando, ad esempio, alla rete dell’European Network on Invasive Alien Species e creando inventari delle risorse genetiche custodite nei parchi urbani e nei giardini botanici. Questi luoghi costituiscono allo stesso tempo “oasi di biodiversità”, così come elementi insostituibili del paesaggio urbano: ospitano flora autoctona da impiegare per i ripopolamenti in natura e per l'arredo urbano, fungono da rifugio a specie adattate a questi particolari habitat e strutturano l'immagine storicamente consolidata di molte città lettoni. In Germania, si prevede una maggiore attenzione agli spazi aperti all'interno degli urbane
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Landschaften, da preservare dal consumo di suolo (con incentivi alla densificazione edilizia) e in cui individuare microhabitat urbani da gestire adeguatamente, mentre si prevede l'obbligo dell'apporto di specialisti in conservazione della natura durante la redazione di progetti infrastrutturali. A livello federale, viene inoltre sviluppato un progetto di monitoraggio e di intervento sulle cosiddette undissected low-traffic areas, ossia la mappatura nazionale delle aree non ancora frammentate da grosse arterie di traffico (con flussi superiori a mille veicoli/giorno) sulle quali intervenire prioritariamente per la difesa e la riqualificazione dei corridoi ecologici.
Figura 2. Le Strategie Nazionali per la Biodiversità si concentrano sulla complessità di specie, habitat, ma anche di paesaggi europei.
Come già accennato, pochi Stati colgono l’occasione di utilizzare Strategie e Piani per la Biodiversità come strumento per coordinare ed orientare le politiche insediative verso la sostenibilità nei confronti di specie ed ecosistemi.
Tra parole e saggi
La Francia è infatti l’unico Paese che dedica un piano d’azione specifico all’ambiente urbano (“Plan d’action urbanisme”), concentrato sulla riforma del diritto urbanistico e degli strumenti finanziari a supporto di uno sviluppo territoriale più sostenibile; sono proposte misure per un consumo più oculato del suolo (una fra tutte il coefficient fiscal de densité) che hanno già conosciuto approvazione giuridica con la Grenelle II del 2010 (a sua volta all’origine della riscrittura del Codice urbanistico); si prevede la realizzazione di Ecoquartiers ed EcoCités, l’elaborazione di un piano d’azione specifico per la multifunzionalità degli ecosistemi in ambito urbano e la loro connessione con le matrici ambientali alla scala metropolitana e regionale. In ultima analisi, è da registrare come alcuni Paesi scelgano di non integrare la dimensione paesaggistica nelle proprie Strategie per la Biodiversità. È interessante notare come questo approccio si riscontri in Stati firmatari della CEP, 19 come nel caso dell'Irlanda che, nel testo della Strategia, non impiega mai il termine landscape; il punto di vista adottato in questo caso è strettamente settoriale; ad esempio, nel valutare l'opportunità di introduzione di siepi in ambito i0 agricolo , si suggerisce solamente il criterio della loro funzionalità per la fauna selvatica.
Conclusioni Nell'ambito di una ricognizione sulle concezioni di paesaggio diffuse in contesto conservazionistico, Borrini-Feyerabend et al. (2008) riconducono la pluralità delle posizioni vagliate a due filoni prevalenti: da un lato una visione di paesaggio in cui biodiversità e funzioni ecologiche coesistono con il supporto sia delle funzioni vitali dell'uomo (ri-
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produzione di risorse) sia delle sue aspirazioni spirituali e culturali; dall'altro, il paesaggio interpretato come “scala vasta” alla quale le politiche di gestione del territorio si appellano per rispondere alle esigenze sociali e biologiche, quando questi non possono essere soddisfatti contemporaneamente sullo stesso “sito”, destinando pertanto porzioni diverse di territorio a funzioni differenti (emblematicamente con la costituzione di aree protette, per quanto attiene alla conservazione dei valori biologici). In quest'ottica, dalla lettura dei documenti delle Strategie e dai Piani per la Biodiversità, i Paesi Membri dell'Unione Europea sembrano oscillare fra l'una e l'altra concezione, spesso ancora indecisi sull'opportunità di assecondare uno sviluppo multifunzionale del paesaggio, che cerchi, indubbiamente con sforzi di maggiore entità, di coniugare obiettivi di conservazione dei processi biologici, domanda di ricreazione e turismo in ambiti naturali, bellezza dei contesti di vita quotidiani, mantenimento e riproduzione degli assetti strutturali storici dei territori e, perché no, sviluppo economico. Se entrambe le posizioni (che, come si può intuire, corrispondono ad altrettante vere e proprie alternative di sviluppo, non solo “paesaggistico”) appaiono lecite, la concezione “per parti separate” nasconde forse più insidie, nel momento in cui venga assunta come unica prospettiva possibile e non come alternativa quando la prima risulti impraticabile: lo stato di “assedio” da parte di fenomeni di degrado e decontestualizzanti, che sembra caratterizzare la biodiversità delle aree protette e i beni paesaggistici all'inizio del terzo millennio, non è forse frutto di una visione del paesaggio per “parti” monofunzionali e, in definitiva, ciò che si vuole superare?
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Quale paesaggio per la biodiversità? Concezioni di paesaggio nelle Strategie per la Biodiversità in Europa
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Riferimenti iconografici Figura 1: Bianca M. Seardo, 2010 Figura 2: Bianca M. Seardo, 2011
Testo acquisito dalla redazione nel mese di aprile 2011. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Il presente saggio costituisce una prima sintesi dei risultati di una ricerca inedita, sviluppata nel contesto della tesi di Dottorato in Pianificazione Territoriale e Sviluppo Locale (tutor Prof. A. Peano, Arch. C. Cassatella). 2 Come ribadito da alcune sentenze della Corte Costituzionale, intervenute a risolvere situazioni specifiche, come quella ligure: “È inibito alle Regioni introdurre disposizioni che alterino l’ordine di priorità tra gli strumenti di pianificazione paesaggistica (e
segnatamente tra il piano paesaggistico e il piano del parco), [...] poiché la tutela […] apprestata dallo Stato, nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente, viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano nelle materie di loro competenza” (C. Cost., 29 ottobre 2009, n. 272) 3 artt. 3 e 174 del Trattato che istituisce la Comunità Europea 4 Situazione al 26 aprile 2011 (www.conventions.coe.int) 5
Di seguito denominati “Piani” o “Strategie”.
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A diciotto anni dalla Convenzione sulla Diversità Biologica, la Strategia italiana è stata presentata nell'ambito della X° Conferenza delle Parti (Cop-10 CBD), anche conosciuta come vertice di Nagoya, svoltasi in Giappone nell' ottobre 2010. 7 E, in seguito, dalla prima stesura del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004: “Il piano paesaggistico ha contenuto descrittivo, prescrittivo e propositivo. La sua elaborazione si articola nelle seguenti fasi: a) ricognizione dell’intero territorio, attraverso l’analisi delle caratteristiche storiche, naturali, estetiche e delle loro interrelazioni e la conseguente definizione dei valori paesaggistici da tutelare, recuperare, riqualificare e valorizzare” (art.143, comma 3). 8 Ricordiamo anche opinioni in disaccordo con l'attribuzione di valore paesaggistico all'intero territorio, fra cui quella di Carpentieri (2007). 9 Per una panoramica sull'utilizzo del concetto di “scala di paesaggio” in biologia della conservazione, cfr. Laven, 2005. 10 Con categorie di protezione differenti nei singoli Stati: parchi nazionali e riserve naturali, siti e riserve di biosfera appartenenti al patrimonio mondiale, Siti di Interesse Comunitario, biocorridoi, landscape areas, siti inclusi nel Corine Biotope programme, monumenti naturali, monumenti paesaggistici... 11 Fra cui: significatività a livello nazionale ed internazionale, unicità, rappresentatività, rarità, rilevanza all'interno delle reti ecologiche, rilevanza economica (nel caso di specie). Per le risorse genetiche, la priorità è
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rivolta alle varietà più antiche non ancora interessate da programmi di tutela ex-situ, alle varietà locali di cereali, verdure ed ortaggi minacciate da specie alloctone e alle razze animali anche di interesse economico. 12 La Repubblica Ceca è l'unico Stato Membro a menzionare la CEP all'interno della propria Strategia per la Biodiversità: fra gli obiettivi di una buona politica per la natura, vi è quello di “rispondere pienamente ai compiti contratti con la firma della Convenzione Europea del Paesaggio”. 13 Come metodo scientifico applicato allo studio degli ecosistemi, sviluppato inizalmente proprio in ambito britannico, principalmente ad opera di Oliver Rackham. 14 Gruppi che fanno capo alla Fondazione omonima, creata nel 1969 da una rappresentanza di agricoltori. Oggi essa opera su tutto il territorio di Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, attraverso commissioni locali a base volontaria che offrono assistenza agli operatori agricoli. 15 Per l'esattezza, l'articolazione degli ambienti non è presente nel testo della Convenzione, ma è stata stabilita successivamente dalla Conferenza delle Parti. 16 La diversità paesistica del vecchio continente è indicata da molti autori come un fondamento dell'identità europea (Gambino, 2004; Wascher, 2000). 17 Grazie alla particolare posizione a cavallo fra due regioni biogeografiche (subregione Atlantica e regione Mediterranea) la “biophysical diversity” è ciò che maggiormente caratterizza il Portogallo sotto il profilo ambientale e paesaggistico. 18 In generale, gli studi di ecologia vegetale segnalano che l’abbondanza di specie invasive diminuisce lungo il gradiente città-campagna, indicando il ruolo dell’ambiente urbano a supporto dei processi di diffusione di queste specie (Kowarik, 1995). 19 Il coordinamento dell'attuazione del Piano Nazionale per la Biodiversità è però in capo al Department of Arts and Heritage! 20 La cui rimozione da parte dei proprietari comporta sanzioni economiche.
Tra parole e saggi
“Native only”. Un dibattito millenario pro e contro l’uso di vegetazione esotica nel progetto di paesaggio, alla luce del rapporto tra biodiversità e diversità paesistica
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"Native only". A millennial debate for and against the use of exotic vegetation in landscape project, in the light of the relationship between biodiversity and landscape diversity
Claudia Cassatella*
abstract La percezione sociale della crescente omologazione del paesaggio e della perdita di biodiversità ha portato ad una richiesta di maggior naturalità da parte del progetto di paesaggio, con particolare riguardo alla componente vegetale. Talvolta ciò si traduce in regolamenti del verde “native only”. Allo stesso tempo, cresce l’attenzione alla “diversità” in tutte le sue forme. Il contributo si appunta sulle motivazioni addotte nella letteratura scientifica pro e contro l’uso di vegetazione esotica o autoctona, rivelando gli sfondi culturali di riferimento. I numerosi paradossi frutto dell’atteggiamento più restrittivo portano a concludere che le specie appropriate derivano da una definizione progettuale, non data da regole astratte.
abstract The social perception of the increasing uniformity of the landscape and of the loss of biodiversity has led to a demand for greater naturalness by the landscape project. Sometimes this results in "native only" policies and urban regulations. At the same time, "diversity" (in all its forms) is a success concept, and the appreciation of the "different" that is in our own landscape, such as species not native but sometimes “rooted”, is increasing. The article concerns the reasons for and against the use of native/exotic vegetation, and discusses the cultural backgrounds, as well as scientific reference models. The many paradoxes, which result from the more restrictive attitude, lead to conclude that the appropriate species is a definition, not given by abstract rules.
parole chiave diversità paesistica, ecologia e ideologia.
key-words landscape diversity, exotics and native, ecology and ideology.
* Dipartimento Torino.
esotismo
Interateneo
e
Territorio,
autoctonia,
Politecnico
di
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“Lo scandalo dell’inutile e dell’improprio ha già abbondantemente inquinato il paesaggio italiano. (…) E’ il boom degli alberi bastardi, degli incroci villani, del giardinaggio da supermercato, il trionfo della parodia” Luigi Malerba, “Campagna e dintorni”, in Città e dintorni, Milano, Mondadori, 2001, p. 113 “(d) Infine, ci si può spingere a riconoscere non solo l’esistenza dell’alterità (b), non solo la sua inevitabilità (c), ma anche il suo essere ‘interno’ all’identità, alla sua genesi, alla sua formazione. L’alterità è presente non solo ai margini, al di là dei confini, ma nel nocciolo stesso dell’identità. Si ammette allora che l’alterità è coessenziale non semplicemente perché è inevitabile (poiché non se ne può fare a meno), ma perché l’identità (ciò che ‘noi’ crediamo essere la nostra identità, ciò in cui maggiormente ci identifichiamo) è fatta anche di alterità. Si riconosce, in questo modo, che costruire l’identità non comporta soltanto un ridurre, un tagliar via la molteplicità, un emarginare l’alterità; significa anche un far ricorso, un utilizzare, un introdurre, un incorporare dunque (che lo si voglia o no, che lo si dica o meno) l’alterità nei processi formativi e metabolici dell’identità” F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma/Bari, 1996, p. 63
L’attualità del dibattito Il dibattito sull’introduzione e l’uso delle piante esotiche è antico quanto i viaggi dell’uomo e delle piante. Se i polemisti latini consideravano la moda dei cipressi un segno di esibizione da arricchiti, già i re babilonesi si vantavano di aver introdotto nei loro giardini piante mai viste né possedute da altri (con chiaro riferimento metonimico ai possedimenti di terre). Tale dibattito ha subito un cambiamento e un’intensificazione rilevante a partire dalla
“Native only”. Un dibattito millenario pro e contro l’uso di vegetazione esotica nel progetto di paesaggio, alla luce del rapporto tra biodiversità e diversità paesistica
nascita dell’ecologia, e ancor più dalla nascita dell’ecologismo. La consapevolezza diffusa dei problemi ambientali, la crescente attenzione alle trasformazioni del paesaggio, il cambiamento del gusto in direzione di un desiderio di naturalità e, potremmo dire, naturalezza, hanno trovato uno slogan nella parola autoctonia. I termini autoctonia e locale, biodiversità e diversità paesistica hanno preso spazio nella letteratura scientifica, nella cultura progettuale e nella sensibilità collettiva. Segnali arrivano, ad esempio, dal mercato florovivaistico, con la crescita della domanda di piante ornamentali autoctone (o meglio “tipiche”), e dei vivai specializzati. La stessa Royal Horticultural Society, che nei secoli passati ha contribuito all’introduzione di specie da tutto il globo, oggi dichiara che le sue azioni sono orientate alla protezione della biodiversità, sia nella gestione dei giardini sia nella commercializzazione di piante1. Il dibattito, che fino alla metà del XX secolo era limitato agli ambiti del giardino, del parco e della forestazione, si è allargato a tutti gli ambiti su cui oggi si esercitano la progettazione ambientale e la progettazione paesistica: verde urbano, recupero ambientale, riqualificazione del paesaggio agrario a fini ecologici e ricreativi, e così via. Fino a trovare un importante approdo nei Piani e Regolamenti del verde, in liste di piante consigliate, o persino di specie vietate2. Dal giardino al paesaggio, il ruolo delle specie esotiche può essere diverso, ma non è affatto facile fare distinzioni, come osserveremo attraverso i tentativi di alcuni autori. Indubbiamente, la parola d’ordine autoctonia si avvantaggia del fatto che appare generalizzabile senza errori. Affronteremo la questione della diversità biologica e paesistica, che oggi è il tema centrale del
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dibattito; riassumeremo le argomentazioni pro e contro l’uso di piante autoctone ed esotiche, e metteremo in luce la polarizzazione del dibattito intorno ai concetti di identità, locale e globale, e i rischi di confusione tra motivazioni ecologiche ed ideologiche. Nell’uso corrente le espressioni “specie autoctona” e, ancor di più, “specie locale”, possono significare cose molto diverse: per i botanici una specie locale è ecotipica, per il pubblico è semplicemente una specie presente tradizionalmente. I progettisti e i vivaisti si riferiscono in genere alle specie presenti in loco (quale che sia la provenienza), talora alle specie che “c’erano anticamente” (in un periodo di cui si ha documentazione, o privilegiato per motivi sentimentali). Senza contare che gli elenchi floristici presi in considerazione possono variare da quelli regionali a quelli nazionali3. Perciò, prima di affrontare il discorso, anteponiamo una definizione scientifica di specie esotica, tratta dal recente studio Flora alloctona e invasiva d’Italia (Celesti- Grapow et al., 2010): “Specie vegetali alloctone (sinonimi: introdotte, non-indigene, esotiche, xenofite): specie vegetali introdotte dall’uomo, deliberatamente o accidentalmente, al di fuori dei loro ambiti di dispersione naturale.” I rischi di perdita della diversità: biodiversità alla diversità paesistica
dalla
I due fattori più potenti del dibattito sulla vegetazione autoctona/esotica sono, da un lato, la biodiversità – ossia la perdita di habitat e i rischi delle invasioni-, dall’altro la diversità paesistica - i rischi di omologazione dell’ambiente e del paesaggio. Il problema viene generalmente posto in questi termini: nell’ambiente naturale il trasferimento di
Tra parole e saggi
specie “altera gli equilibri” locali, sottrae spazio alle specie preesistenti, ne determina la scomparsa. Pare infatti accertato che, dopo la perdita di habitat, l’invasione di specie esotiche sia la seconda causa di perdita di biodiversità; ma anche che le specie esotiche penetrano laddove il sistema locale è già disturbato, e che il supposto “equilibrio” degli ecosistemi è in realtà uno stato dinamico (almeno secondo le teorie dell’ecologia del caos). Un’altra delle conseguenze paventate è il cosiddetto inquinamento genetico, ossia diffusione di ibridi con specie o varietà esotiche, tendenzialmente più plastici. Nel paesaggio antropico la preferenza accordata dall’uomo a specie ornamentali o economiche di provenienza esotica può determinare trasformazioni profonde dell’ambiente e dell’immagine dei luoghi (più o meno corrispondenti tra loro, perché il ruolo paesistico delle piante dipende anche da fattori percettivi e di altro genere). Si lamenta e si teme dunque la scomparsa di paesaggi vegetali naturali e tradizionali e la creazione di paesaggi molto simili in luoghi diversi, addirittura in continenti diversi, che annullano le specificità locali: nel paesaggio suburbano delle abitazioni unifamiliari sembra di incontrare ovunque le stesse specie promosse dal mercato florovivaistico, nei viali di diverse città l’arredo vegetale si affida alle poche specie resistenti alle condizioni urbane. In questo caso si parla di inquinamento verde, espressione ambigua, sinonimo di inquinamento genetico, ma usata anche in modo più generico per parlare in senso spregiativo della presenza esotica incongrua o aggressiva nel paesaggio4. Questa impressione diffusa è difficile da valutare in termini oggettivi. I dati sulla flora italiana indicano il 13,4% di piante alloctone (Celesti-Grapow, 2010)
Stresa, oggi e in una cartolina d’epoca. La vegetazione esotica è esibita come prova della mitezza del clima. I giardini contengono vere e proprie collezioni botaniche e i boschi sono ormai, secondo i botanici, “laurizzati” per la presenza di vegetazione sempreverde di origine tropicale e subtropicale.
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e l’incremento delle specie cosmopolite, i dati sulla vegetazione la prevalenza di quella sinantropica (2/3 della vegetazione reale), ma, poiché i modelli di analisi e interpretazione del “paesaggio vegetale” sono deboli (Pignatti 1994), è impossibile quantificare i paesaggi vegetali che ne derivano. Sostenere che l’aumento di specie esotiche determina una diminuzione di diversità paesistica appare quindi non dimostrabile e basato su una riduttiva linearità tra paesaggio ed ecosistema. Il concetto di diversità paesistica è recente, figlio della valorizzazione del concetto di “diversità” indotto dalle ricerche sulla diversità biologica, e non è stato ancora adeguatamente formalizzato. Tuttavia, è un termine politicamente efficace5. Nel 1995 è stata firmata una Pan-European Biological and Landscape Diversity Strategy (Consiglio d’Europa 1996), la cui definizione di Landscape Diversity coincide sostanzialmente con la stessa definizione di Landscape che sarà, pochi anni più tardi, alla base della Convenzione Europea del Paesaggio: “the formal expression of the numerous relations existing in a given period between the individual or a society and a topographically defined territory, the appearence of which is the result of the action, over time, of natural and human factors and a combination of both” (ivi: 23). L’aspetto culturale è fondamentale. Un modello valutativo sulla diversità paesistica, che cerca di tener presente anche la dimensione culturale, è stato proposto da Dirk M. Washer et al. (2000) in un lavoro condotto per l’European Centre for Nature Conservation: tra gli indicatori per la caratterizzazione del paesaggio si considerano natural diversity (tra cui la diversità di vegetazione), cultural diversity (ad es. coltivazioni tradizionali),
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visual diversity (dipendente soprattutto dagli usi del suolo e dalla topografia). Il concetto pare più intuitivo che scientifico, e si potrebbero avanzare ragionevoli perplessità sulla 6 possibilità di darne una definizione operativa . Biodiversità e diversità paesistica sono evidentemente due fattori alquanto diversi, entrambi oggettivi e interrelati, ma che conviene tener distinti, visto che nella valutazione della “perdita di paesaggio” o omologazione del paesaggio entrano in gioco anche valori di memoria e fattori estetici.
I cipressi di Bolgheri: di origine esotica, ma protetti come bene paesaggistico. In alcune province toscane i cipressi sono oggetto di protezione per motivi storicoculturali ed identitari.
Ambiti diversi, regole diverse? Il dibattito pro e contro l’uso di specie esotiche è stato per secoli confinato nell’ambito dell’arte dei
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giardini, per poi allargarsi insieme alle sfere di azione del progetto del verde urbano e del progetto paesaggistico, fino alla forestazione urbana, la progettazione ambientale, la pianificazione del verde e del paesaggio. Pur trattandosi di ambiti in cui il ruolo della vegetazione può essere sensibilmente diverso, le indicazioni operative suggerite da manuali, letteratura e associazioni di settore (ad es. la Society for Restoration Ecology o l’Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio) mostra quanto i temi siano fortemente intrecciati. Inoltre, è sorprendente quanto siano ricorrenti non posizioni scientifiche ma opinioni opinioni diffuse, che condizionano la pratica e il paesaggio frutto dell’azione collettiva. Ad esempio, è opinione diffusa che l’uso di specie esotiche, pur ammissibile, non sia opportuno in ogni ambito. Generalmente si ammette nel giardino (in particolare nel giardino storico, anche recuperando varietà esotiche particolari, facenti parte dell’impianto originario7), solo in percentuali nel parco urbano8, mentre si ritiene fuori luogo in interventi di scala più vasta e, soprattutto, nei parchi naturali. Prime indicazioni per articolare il problema per ambiti sono presenti nelle Riflessioni e considerazioni sull’uso di specie esotiche nella forestazione e nell’impianto del verde urbano di Corbetta (1973) (l’autore fu consulente del Comune di Bologna per uno dei primi Regolamenti del verde italiani): a partire dalla considerazione che le introduzioni, in alcuni casi antichissime, talvolta hanno cambiato la fisionomia del paesaggio, e in alcuni casi hanno una validità non solo estetica ma anche ecologica, Corbetta ritiene che nei boschi l’immissione di specie esotiche sia inutile e controproducente, mentre nelle coltivazioni arboree, come in agricoltura, sia tutto ammesso; in contesti di valore ambientale debbano
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essere indicate le specie ammesse e le specie vietate, nel contesto urbano sia tollerabile una percentuale di esotico, del tutto lecita in orti botanici e arboreti, in cui ha valore didattico. Queste argomentazioni esemplificano bene quelle che verranno sostenute nei manuali di progettazione del paesaggio italiani (ad esempio Piani del verde e forestazione urbana di Oneto, 1991, Architettura del paesaggio di Di Fidio 1993, Progettazione ambientale di Blasi e Paolella, 1992). Blasi e Paolella (1992) intitolano significativamente un capitolo del loro manuale “Il verde urbano. L’utilizzazione delle specie autoctone”, indicando come giustificazione della preferenza motivazioni estetiche (l’armonia con l’ambiente naturale), educative, ecologiche (non inquinano il paesaggio vegetale), economiche (minor costo di impianto e manutenzione), ma senza chiusure: “Con ciò non si vuole escludere la possibilità di mettere a dimora, nei giardini e nei parchi attrezzati, specie esotiche, per le quali però si consiglia l’uso di quelle che, per esigenze autoecologiche, risultano più coerenti con le caratteristiche ambientali” (ivi). Un discorso a parte merita l’uso per interventi di ingegneria naturalistica e recupero ambientale. Se è ovvio pensare alle specie autoctone, è anche vero che in suoli da bonificare e ricolonizzare alcune specie esotiche si sono rivelate preziose; inoltre, alcune specie presenti nei contesti rurali sono ormai fonte di cibo per la fauna locale (SER 2002). Quanto a giardini e orti, è curiosa la disinvoltura con cui si ammette l’eccezione, se guardiamo ai casi di invasive sfuggite dagli orti botanici! In conclusione, individuare regole per l’impiego di specie autoctone ed esotiche per scale o tipologie di intervento non è facile, ma soprattutto rischia di creare distinzioni fittizie rispetto alla complessa
Tra parole e saggi
interrelazione degli elementi dell’ecosistema e del paesaggio.
Le argomentazioni pro e contro vegetazione autoctona ed esotica
l’uso
di
Alle argomentazioni necessariamente generalizzanti dei manuali possono facilmente essere opposte eccezioni e contraddizioni. Di seguito, un tentativo di schematizzazione dei temi del dibattito, da cui si evince che il maggior vantaggio delle specie autoctone sta nel fatto che il loro impiego sembra comunque valido, senza eccezioni e senza rischi, mentre le specie esotiche vanno conosciute ad una ad una per verificare l’adattabilità, l’eventuale invasività, eccetera. Le argomentazioni in generale sono riconducibili a: a. la funzionalità della pianta: salute, mantenimento, potenzialità invasiva; b. l’aspetto estetico: rapporto con il contesto paesaggistico (integrazione o emergenza); c. l’aspetto didattico: rispecchiamento della vegetazione originaria o potenziale, o di eventi storici particolari (non escluse le introduzioni); d. questioni ideologiche: l’opportunità o meno di interferire con l’ordine naturale, idee riguardanti l’integrità e l’alterità. Per ciascuna di queste motivazioni, esistono casi che testimoniano a favore e contro l’uso di vegetazione autoctona o esotica. Argomentazioni a favore dell’uso di specie autoctone: a. motivazioni ecologiche: sono adattate al clima e al suolo, quindi sono auto-sufficienti, non richiedono assistenza termica, irrigazione o
pesticidi; in altre parole, si tratta di motivazioni “energetiche” ma anche economiche; inoltre sono più adatte a favorire la presenza di fauna locale, facendo parte di catene alimentari; b. motivazioni estetiche: sono in armonia con il paesaggio circostante; c. motivazioni didattiche: mostrano il tipo di vegetazione della regione, ossia quello che sarebbe presente in assenza di interferenze umane; d. motivazioni ideologiche: rispetto per le leggi della natura, o per le leggi “divine”; rispetto per la tradizione o volontà di rafforzare l’identità locale (ad es. utilizzando piante legate a tradizioni popolari). Il maggior punto di forza delle specie autoctone sembra essere il fatto che ne conosciamo già il comportamento e l’effetto (non si rischiano sorprese né dal punto di vista ecologico né dal punto di vista estetico). Esistono quindi molte buone ragioni per usare specie autoctone, ma esistono anche molte eccezioni. Ad esempio: dal punto di vista ecologico, conosciamo molte esotiche che si trovano altrettanto bene –se non meglio- di specie indigene (fino a naturalizzarsi, diventare infestanti e soppiantare quest’ultime); dal punto di vista paesaggistico, specie introdotte possono far parte del contesto già da tempo fino a esser divenute parte del paesaggio tradizionale; infine, quanto all’“interferenza” dell’uomo, c’è chi ritiene che anch’egli sia parte della natura… Il tema dell’autoctonia si intreccia spesso con quello della difesa della “natura selvaggia”: la natura senza l’uomo. Come se solo ciò che è indigeno fosse naturale, ignorando che le migrazioni spontanee e l’ibridazione fanno parte dei processi naturali che favoriscono la biodiversità, si
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ritiene che l’autoctonia sia la condizione di massima appropriatezza ad un luogo, in quanto risultato della selezione naturale, benchè le teorie neodarwinistiche considerino la casualità il fattore principale della selezione: le specie autoctone non sono le “migliori” concepibili in un determinato luogo (Gould 1997). Argomentazioni contro l’uso di specie esotiche: a. motivazioni ecologiche: hanno bisogno di cure e manutenzione (irrigazione, fertilizzanti, dispendio di energia e denaro); oppure, al contrario, alcune sono invadenti e sfrattano le specie locali; non si integrano nella vegetazione locale e nelle catene alimentari; attirano nuovi parassiti; b. motivazioni estetiche: sono “fuori luogo”; c. motivazioni didattiche: danno un’impressione “sbagliata” del luogo, tanto che non sappiamo più riconoscere le “nostre” piante; d. motivazioni ideologiche: estraneità, contaminazione, perdita di originalità; l’uso di termini quali intrusi, immigrants, pests, e così via in seri saggi scientifici, testimonia il persistere di metafore antropomorfe e politically uncorrect; la presenza esotica è stata anche esplicitamente paragonata a quella degli immigrati (Wolschke-Bulmahn 1997); ma anche senza questi estremi la presenza esotica vissuta come una perdita di identità paesistica. Il carattere di “immoralità” che alcuni avvertono nella presenza delle specie esotiche è probabilmente collegato all’impressione di qualcosa di artificiale, innaturale o contro-natura: il peccato originale delle specie esotiche è quello di essere state introdotte dall’uomo (si ricordi la definizione: introdotte, intenzionalmente o accidentalmente).
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Si possono trovare anche argomentazioni in difesa della vegetazione esotica: a. motivazioni ecologiche: esistono casi in cui specie esotiche sono ormai integrate nell’ecosistema e coevolute con esso; inoltre talvolta sono indicate proprio per funzionalità ecologica, favorendo processi di rinaturalizzazione (tipico il caso di specie ruderali per il recupero di terreni inquinati - ad esempio per fissare l’azoto-, il consolidamento di scarpate, terreni smossi, dune. Cfr. SER 2002); la funzionalità ad economicità è una forte spinta all’uso di determinate specie, ad es. tappeti erbosi per superfici sottoposte ad usura; inoltre alcune specie possono favorire la presenza di fauna, dagli insetti agli uccelli ai piccoli roditori, fornendo cibo in stagioni in cui le piante indigene non hanno fogliame né frutti. b. motivazioni estetiche: l’ornamentalità resta la più forte spinta all’uso di piante esotiche; la poesia delle specie native meno appariscenti fa presa su un’élite, in ogni caso esistono forme e colori (soprattutto stagionali) senza paragoni; quanto al rapporto con il paesaggio circostante, specie introdotte possono far parte del contesto già da tempo fino a esser divenute parte del paesaggio tradizionale9; inoltre, soprattutto nel giardino, oltre al criterio della mimesi con il paesaggio è comprensibile il desiderio di emergenza e distinzione; c. motivazioni didattiche: la vegetazione esotica testimonia viaggi e scoperte, contatti tra popolazioni umane e migrazioni, consente di conoscere la natura di luoghi lontani e la storia di quelli vicini10; d. motivazioni ideologiche: cosmopolitismo, convivenza possibile e meticciato sono valori di riferimento già utilizzati nel progetto di
“Native only”. Un dibattito millenario pro e contro l’uso di vegetazione esotica nel progetto di paesaggio, alla luce del rapporto tra biodiversità e diversità paesistica
giardino, che oggi raccolgono maggior favore11; il ruolo dell’uomo nel paesaggio non è visto da tutti come un’interferenza dannosa, ma anche come “genio costruttore”.
I colori di Liquidambar styraciflua.
Infine, al di là delle argomentazioni scientifiche, esistono motivazioni banali per cui l’architetto paesaggista usa le specie esotiche: a volte perché non sa che sono tali; a volte perché sono quelle che trova sul mercato (spesso infatti sono predilette dai vivaisti per il vigore, la rapidità di crescita, la numerosità dei semi); ma soprattutto perché piacciono e sono proprio quelle che vuole usare - che è forse la ragione più interessante, rimandando alle intenzioni espressive nell’uso della vegetazione. I poli del dibattito: identità / diversità, locale / globale, ecologia / ideologia
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Di Fidio enuncia tra i principi generali che regolano la scelta delle specie in ogni tipo di intervento il rispetto dei “paesaggi naturali tipici locali” (1993: 299), espressione che condensa una serie di temi dati per coincidenti con l’autoctonia: naturalità, tipicità, locale. E’ solo un esempio di una convinzione diffusa, speculare a quella che identifica le piante esotiche con l’artificialità (dovuta all’origine antropica dell’introduzione), l’estraneità (rispetto all’ecosistema e al paesaggio), l’omologazione (prodotta da fenomeni globali come i commerci, le migrazioni, i modelli culturali dominanti). Sembra che il dibattito sia polarizzato tra due estremi, a seconda del punto di osservazione: identità e diversità, locale e globale, ecologia e ideologia. In realtà non è sempre chiaro da che parte stiano le piante indigene e da quale le piante esotiche, infatti le piante esotiche possono entrare a far parte dei sistemi naturali, “naturalizzandosi”, e del paesaggio, tanto da essere considerate piante tradizionali, e persino dar luogo a paesaggi originali. I diversi piani si intersecano, con il rischio di generare confusione. il rischio maggiore è quello di usare argomentazioni ecologiche per veicolare valori di natura diversa o posizioni ideologiche. Si avverte in modo preoccupante, intorno agli anni Novanta, il ricorso agli argomenti ecologici come petizione di autorità, che sottrae le scelte progettuali alla discussione sui valori. Parallelamente, si intensificano gli studi che mettono in luce l’inscindibilità di scienza e ideologia, come la Storia delle idee ecologiche di Worster (1985) e la Storia dell’ecologia di Deléage (1991), o, in ambito disciplinare, il volume Nature and Ideology (Wolschke-Bulmahn 1997)12; nasce
Tra parole e saggi
anche una polemica sull’Oekotypismus (Burkhardt), sull’Écolonialisme (Roger 1997) nel campo del paesaggio. Riguardo al nostro dibattito, gli studi storici hanno buon gioco nel relativizzare talune argomentazioni apparentemente attuali (ad es. Hall 2003). Nello stesso ambiente delle scienze naturali qualcuno avverte il rischio di fraintendimento dei propri studi (già nel 1973, quando nascevano i primi regolamenti del verde, Corbetta notava con stupore sull’Informatore Botanico Italiano la foga con cui gli urbanisti si ergevano a puristi dell’impiego di specie autoctone), altri dedicano una riflessione sugli stessi termini della propria disciplina (cfr. lo studio Pyšek [1995] sulla terminologia relativa alle piante invasive, o quello di Kendle e Rose [2000] sulle politiche native only13). Il dibattito appare minato da quello che Worster ha chiamato la “sacralizzazione dell’ecologia” - se questa sembra un’espressione troppo forte, si tenga presente che lo stesso Papa Giovanni Paolo XXIII ha definito l’ecologia “rispetto per il disegno divino sulla natura”14; ma non si tratta di una preoccupazione solo cattolica: al tema Religion and Ecology è dedicato un numero di Daedalus che riporta gli esiti di conferenze interconfessionali interessate a sviluppare una “Multicultural Environmental Ethics” nella direzione del rispetto della diversità biologica (Tucker e Grimm 2001). Teorie come il bioregionalismo (che propone l’autogestione politica di aree omogenee dal punto di vista naturale, ossia definite in base a criterio biogeografici, con l’espulsione degli elementi alloctoni che le contaminano) mostrano come certe idee circolanti, travestite da idee ecologiche, sono pregne di ideologie passate e pericolose, che è bene rendere apertamente esplicite e discutibili.
Per contribuire alla chiarezza sui termini e gli argomenti del dibattito sulla presenza esotica nel paesaggio, richiamando quanto già analizzato, sottolineiamo i motivi di confusione più frequenti: confusione tra biodiversità e diversità paesistica (riduzione del paesaggio a sistema di ecosistemi, trascurando la complessità culturale in favore di quella biologica); tra specie esotica e specie invasiva; tra natura “naturale” e natura nativa (basata sull’ideale della wilderness); tra specie indigena e specie nazionale15; tra locale, tipico ed ecotipico; incertezza nel riferimento ad un ambito locale (ad esempio scelta degli elenchi floristici, definizione scientifica della seed provenance area o del bacino naturale e culturale di un bosco, fino all’individuazione di unità di paesaggio); uso di metafore ecologiche e di metafore sociogeografiche (ad esempio termini come “immigrati”, “patria”, “radicamento”). Il dibattito tra autoctonia ed esotismo non è solo teorico, ha ricadute pratiche nella diffusione di comportamenti e nell’attività dei progettisti, soprattutto dal momento in cui si traduce in regolamenti e strumenti che limitano la circolazione e l’utilizzo delle piante, e che talvolta conducono ad effetti paradossali: protezione di specie indigene ma non di specie esotiche a rischio di estinzione, ricostruzione di ambienti “originari” con specie reintrodotte, conflitti tra protezione della biodiversità e protezione del paesaggio… La distinzione tra i vari aspetti della questione dovrebbe aiutare a sottrarre il progetto all’aura di indiscutibilità data dal riferimento all’ecologia, per consentire una discussione più aperta (anche al
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confronto con il pubblico destinatario del progetto) sui veri obiettivi progettuali: “arricchimento” del paesaggio, ricostruzione di ambienti del passato o costituzione della vegetazione potenziale, volontà di distinzione o invece rispetto della regola tradizionale, e così via. La regola “native only”, infine, ha un grave limite: essa congela la situazione attuale (mai più potranno esserci speciazioni “naturali”), costringe a considerare ogni prodotto dell’interferenza umana negativo, mentre l’ambiente e il paesaggio sono in continuo mutamento e, soprattutto, i mutamenti climatici ci pongono di fronte a nuove migrazioni: considereremo ogni nuovo arrivo alloctono innaturale, da eliminare?
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“Native only”. Un dibattito millenario pro e contro l’uso di vegetazione esotica nel progetto di paesaggio, alla luce del rapporto tra biodiversità e diversità paesistica
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Riferimenti iconografici Figure 1, 3, 4 : Claudia Cassatella Figura 2: Archivio dell’Autore.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di agosto 2011.
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Cfr. il sito ufficiale www.rhs.org.uk, e la rivista The Garden, che ospita anche interventi sul contributo dei giardini al mantenimento della biodiversità. 2 I primi regolamenti del genere in Italia sono apparsi agli inizi degli anni Settanta, su spinte ecologiste ma anche estetiche. Ad esempio, gli autori del piano regolatore generale di Pavia (1976-78) nel giustificare la presenza di un preciso elenco di piante consigliate e piante escluse nell’impianto di alberature pubbliche e private, richiamano la pratica di piantumazioni “indiscriminate” e la “coniferazione” diffusa (Astengo e Campos Venuti 1983). 3 Ad esempio il manuale di Oneto (1991) propone una lista di piante da impiegare senza specificare l’ambito geografico di riferimento (lombardo, presumibilmente), suggerendo al lettore sprovveduto una valenza apparentemente universale. 4 Ad esempio Blasi e Paolella (1992). Questa accezione è ancor più forte nella letteratura non specialistica e nel senso comune 5 “Landscape diversity is one of the qualities that is widely considered as an established policy issue” (Washer 2000: 21). 6 Sui tentativi di misurare la diversità paesistica, e visuale, attraverso la diversità ecologica, nel contesto degli studi sugli indicatori del paesaggio cfr Cassatella e Peano 2011. 7 Cfr. la Carta italiana dei giardini storici, Firenze 1981. 8
Cfr. alcuni regolamenti del verde; ma anche i suggerimenti dei manuali ottocenteschi, che consigliavano di usare le piante esotiche solo nelle vicinanze del fulcro abitato e di formare le masse con vegetazione indigena. Due esempi tra i tanti possibili: Prato (PRG 2000) consente di utilizzare specie esotiche per il 10%, Bologna
Tra parole e saggi
prevede percentuali diverse per tipi di vegetazione (autoctona, naturalizzata,…). 9 In molti casi abbiamo trovato dichiarazioni di tolleranza o apprezzamento nei confronti di presenze esotiche nel paesaggio da parte di botanici o ecologi. Cfr. ad es. l’opinione di Carlo Blasi, illustre botanico e curatore dell’aggiornamento della Flora d’Italia: “Le piante autoctone? Sì, certo, vanno privilegiate. Ma senza schematismi. Perchè, se dovessimo andare a vedere quali sono, veramente, le specie originarie dei Sette colli, finiremmo per dover non considerare molti alberi che nel corso dei secoli sono entrati a far parte dei nostri panorami. E poi questa contrapposizione tra autoctono ed esotico è spesso molto ideologica, come quella tra naturale e artificiale. La coesistenza è possibile. E credo che Roma, con la sua eccezionale varietà di ambienti, possa permettersi di tutto. (...) Ci sono, ad esempio, ville, parchi e giardini dove prevale l’elemento architettonico, mentre, in altre aree, lascerei più spazio alle piante autoctone, specialmente nelle periferie dove ritroviamo ambienti naturali, come certi boschi di sughera, che ormai è difficile incontrare anche in campagna” (Carlo Blasi, intervista di Luca Villoresi, La Repubblica, 9 Dicembre 2001, edizione di Roma, p.VII). 10 Ad esempio nel regolamento del verde del Comune di Firenze, pur privilegiando l’uso di specie autoctone, si ammette che “La presenza di specie esotiche nella città, come per esempio cedri, calocedri, sequoie, tuje, magnolie, testimonia come Firenze fosse aperta nei secoli passati alla cultura e ai traffici di tutto il mondo”. (Comune di Firenze 1991, Disciplinare attuativo, Art. 5). 11 Basti citare il successo delle teorie e delle opere di Gilles Clément (il brassage planétaire). 12 Cfr. soprattutto il saggio finale di Wiston Spirn sull’uso dell’ecologia come giustificazione progettuale. 13 Kendle e Rose (2000) prendono in esame le caratteristiche utili delle specie esotiche e giungono a proporre un criterio di flessibilità ecologica nella scelta delle specie, che badi alla funzionalità prima che all’origine. Essi analizzano alcune delle proprietà ecologiche, paesaggistiche, eccetera, delle specie esotiche
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(ad esempio prendono in considerazione benefici rispetto ad habitat naturali, rispetto ad animali, ruolo storico ed apprezzamento da parte della gente, ibridazione come fonte di diversità) e, riguardo alle native, cercano di sfatare alcuni luoghi comuni: esse possono essere invasive, non sempre sono le più appropriate, e non necessariamente semi provenienti da luoghi vicini sono ecologicamente simili. 14 durante una celebrazione domenicale, marzo 2001. 15
La confusione tra ecologia e ideologia ha avuto il suo apice durante i regimi nazi-fascisti (generando un vero “sciovinismo vegetale”), ma c’è chi ne vede gli echi e i rischi anche in alcuni movimenti verdi di destra.
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Paesaggi della biodiversità
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Tra parole e saggi
Mettere in gioco i servizi ecosistemici: limiti e opportunità di nuovi scenari sociali ed economici
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Testing the ecosystem services: new social and economic scenarios' limits and opportunities
Riccardo Santolini*, Elisa Morri*, Rocco Scolozzi**
abstract
abstract
Gli ecosistemi forniscono un supporto indispensabile alla qualità di vita di un territorio attraverso beni e funzioni erogati naturalmente dagli ecosistemi (servizi ecosistemici). Questi servizi possono essere valutati in termini economici, considerando il peso economico del Capitale Naturale nella gestione delle risorse e nella pianificazione del territorio (es. piani strategici, piani di sviluppo rurale) e riconoscendo il ruolo di quei territori che posseggono risorse ambientali e che adottano strategie di pianificazione sostenibili. Tale approccio si può tradurre in una perequazione territoriale tra i territori che consumano risorse e quelli che le producono.
Ecosystems are an irreplaceable support for a region’s quality of life, thanks to the goods and services that they provide (ecosystem services). These ecosystem services can be assessed in economic terms, considering the economic weight of natural capital in resources management and in landscape planning (e.g. strategic plans, rural development plans) and recognizing the crucial role of those territories that have natural resources and a sustainable strategic planning. This approach can be translated in a territorial equalization between those territories that consume natural resources and those that produce them.
parole chiave
key-words
Servizi Ecosistemici, Capitale pianificazione territoriale, reti agricoltura.
Naturale, ecologiche,
Ecosystem Services, Natural Capital, landscape planning, ecological networks, agriculture.
* Dipartimento di Scienze della Terra, della Vita e dell’Ambiente (DiSTeVA), Università degli Studi di Urbino, riccardo.santolini@uniurb.it ** Fondazione Edmund Mach, Area Ambiente e Risorse Naturali (S. Michele all’Adige, TN), rocco.scolozzi@iasma.it.
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Introduzione Tutti noi ci siamo lamentati per un treno in ritardo che ci fa saltare la coincidenza o per un servizio telefonico non attivo. L’esclamazione classica è un imprecazione contro i gestori che non fanno funzionare le cose. Nonostante questo, i servizi ci costano, spesso anche più di quanto possa essere la qualità del servizio stesso, e comunque riconosciamo, pagando, l’organizzazione e le persone preposte a far funzionare questi processi tecnici ed amministrativi a supporto della collettività. Quando progettiamo qualcosa come un edificio, un giardino, o sviluppiamo un piano territoriale, almeno nelle buone intenzioni cerchiamo di “far funzionare” i vari elementi che organizziamo, cioè svolgiamo una serie di azioni che, coordinate fra loro, hanno tra gli obiettivi il benessere di chi fruisce di ciò che viene realizzato: benessere di tipo fisico, mentale, intellettuale, ecc. Se ci pensiamo bene, tutte le azioni che servono per creare benessere hanno un costo intellettuale (di mano d’opera, di materiali, ecc.) e, se analizziamo i vari oggetti che devono concorrere a costituire benessere, essi derivano o dipendono come matrice originaria, dalle componenti della Natura. Tralasciando per ora l’origine dei materiali di base ed il bilancio energetico-ambientale che dovrebbe essere eseguito su ogni azione progettuale, consideriamo alcune componenti dell’ecosistema necessarie alla vita. Aria ed acqua sono elementi fondamentali per far funzionare la “macchina” intellettuale e manuale chiamata Uomo. La qualità e la quantità di questi elementi sono strategici per il suo metabolismo di base, tanto che se si altera la qualità di questi elementi, ad esempio inquinando l’aria, aumenta il costo per il recupero della
Mettere in gioco i servizi ecosistemici: limiti e opportunità di nuovi scenari sociali ed economici
funzionalità della macchina stessa. Infatti, è ormai chiaro il rapporto tra le modalità di costruzione e gestione delle città ed i trend delle malattie da stress ed inquinamento urbano (Italian MISA group, 2001; Gibelli et al., 2007), tanto che esiste il rischio di mettere in crisi la possibilità di pagare l’assistenza sanitaria per queste malattie, ipotesi questa non dichiarata ma verosimilmente vicina alla realtà. La mancanza di capacità nella gestione delle risorse (prelievo, utilizzo, restituzione), con la finalità di raggiungere e mantenere un bene comune (es. salubrità ambientale, contenimento dei tempi di resilienza degli ecosistemi), determina una forte distrofia degli ecosistemi stessi (perdita di funzioni). Reimmettere nel sistema ecologico la stessa qualità e quantità di ciò che si è prelevato (es. acqua) oppure sviluppare una gestione degli ecosistemi (es. forestali) ecologicamente corretta (minima resilienza), garantisce la plurifunzionalità dei sistemi che, in caso contrario, manifestano una profonda crisi nella disponibilità di risorse e di funzioni, con forti ripercussioni sui tempi e sui costi di resilienza (di recupero) degli ecosistemi e del territorio mettendo in crisi anche il ben-essere dell’Uomo.
Economia, capitali e funzioni ecologiche Purtroppo, l’attuale situazione ha origini lontane legate alla progressiva trasformazione del territorio nel tempo e culminata con gli effetti della rivoluzione industriale. Thomas Malthus e David Ricardo proprio della scarsità di risorse naturali fecero un pilastro della loro teoria economica all’inizio dell’Ottocento, sviluppando il concetto di stadio stazionario, coincidente con il livello di mera
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sussistenza, poiché si aveva la consapevolezza che le risorse naturali fossero scarse e limitate, causando però un freno alla crescita economica. Entrambi non considerarono il ruolo del progresso tecnologico e prese così il sopravvento l’impostazione più ottimistica di Adam Smith riguardo la relazione tra scarsità delle risorse naturali e crescita economica. Tuttavia, anche tra gli economisti classici come John Stuard Mill (1857), che proponeva la visione del “giusto mezzo” divenendo il precursore della fiducia assoluta verso il progresso illimitato, ci fu un atteggiamento critico (in Barbier, 1989): “Se la terra dovesse perdere la gran parte della sua piacevolezza che deriva dalle cose che l’aumento illimitato della ricchezza e della popolazione sarebbe in grado di estirpare da essa, semplicemente allo scopo di sostenere una popolazione più grande, ma non migliore o più felice, allora sinceramente spero, per il bene dei posteri, che questi si accontentino di uno stato stazionario molto prima di dovervi essere costretti”. Parole estremamente attuali ma inapplicate, perché la limitatezza e la vulnerabilità delle risorse naturali veniva sentita come un problema poco rilevante. “Le risorse erano associate al settore produttivo primario la cui importanza relativa diminuiva progressivamente in rapporto al crescente rilievo del settore manifatturiero, il quale poteva svilupparsi grazie ad una risorsa riproducibile come il capitale prodotto dall’uomo” (Musu, 2008). La conseguenza di questa impostazione fu un’eccessiva fiducia verso il progresso tecnologico che impedì di considerare le risorse naturali come limite della crescita. La continuazione della crescita sarebbe stata garantita attraverso l’azione del progresso tecnologico, dalla sostituzione di Capitale
Tra parole e saggi
Naturale esauribile con capitale prodotto dall’uomo riproducibile e non esauribile, e con capitale umano. Questa visione durante il Novecento, e non solo, favorì la realizzazione di grandi scempi per ottenere una “umanizzazione” dell’ambiente (es. grandi bonifiche, grandi opere). Sulla crescita economica si è a lungo giocato una crisi ideologica tra capitalismo e comunismo e comunque mai si è confrontato l’obiettivo della crescita economica con i problemi ambientali e di conservazione delle risorse. Negli anni Sessanta si iniziò un processo di revisione: vennero esaminati punti critici come la fiducia verso il mercato, i prezzi di equilibrio, la capacità del sistema di garantire la massima crescita, si accettarono le principali critiche rivolte alla teoria neoclassica; tuttavia si deve arrivare agli anni Settanta, con la crisi energetica e la pubblicazione de “I limiti dello sviluppo” (Meadows et al., 1972), per evidenziare la scarsità delle risorse naturali, mettere in crisi l’ottimismo neoclassico e il progresso illimitato a causa dell’inquinamento nei grandi centri urbani e nelle zone industriali, nonché la scomparsa di alcune specie chiave. L’ambiente divenne oggetto di studio ed oggetto di discussione nelle politiche economiche e negli ambienti accademici e politici, ed il principio di sostenibilità entrò nelle agende politiche nazionali e internazionali. L'aumento di sensibilità ambientale, legato alla necessità di un ambiente più vivibile, è indicativo di una tendenza ormai incontrovertibile anche se non ovunque applicata. Sviluppo economico e qualità dell'ambiente sono le due facce di una stessa medaglia; esse diventano riferimento fondamentale di un percorso che parte dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull'Ambiente Umano a Stoccolma (1972), caratterizza il rapporto della commissione Brundtland del 1987 e
contamina il Vertice della Terra di Rio de Janeiro del 1992. Metodi e tecniche di contabilità che tengano conto anche dei costi ambientali diventano un paradigma di lavoro importante e sinergico con il concetto della sostenibilità che comincia a permeare obiettivi e priorità dei governi nazionali. Tuttavia, la sostenibilità viene strumentalizzata ovunque con argomenti e azioni che non esprimono i suoi principi forti ed il suo significato vero. L’approccio ai servizi ecosistemici, invece, diventa un elemento strutturale del paradigma dello sviluppo durevole e sostenibile e per chiarirlo ulteriormente, occorre riprendere alcuni concetti legati alla sostituibilità dei capitali ed al trasferimento di lasciti di capitale. Questa generazione deve essere certa di lasciare alla prossima uno stock di capitale non inferiore a quello che possiede ora, intendendo come capitale la possibilità di raggiungere un certo benessere attraverso la creazione di beni e di servizi dai quali dipende il genere umano. Di fatto, secondo questo punto di vista, il livello di risorse e di capacità produttiva dovrebbe essere il medesimo rispetto ad ogni altra generazione, ma il benessere di ognuna può essere diverso in relazione al tipo di uso del proprio stock di risorse. Come definito da Pasek (1992), descrivendo lo standard di Locke, ogni generazione dovrebbe lasciare alle altre “una quantità di risorse sufficiente e di buona qualità”. Tuttavia, l'interpretazione dello stock di risorse ha indotto l'elaborazione di diversi modelli di sviluppo sostenibile (Turner et al., 1996), i più rappresentativi dei quali sono quello cosiddetto debole (SSD) e quello denominato forte (SSF). Per il primo, il Capitale Naturale non necessita di trattamenti particolari dal momento che esso è equiparato alle altre forme di capitale. In sostanza, alle nuove generazioni basta il trasferimento di uno
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stock di “capitale aggregato” non inferiore a quello che esiste ora, assumendo che ogni tipo di capitale presenta una sostituibilità perfetta. Al contrario, la sostenibilità di tipo forte assume che gli elementi dello stock di Capitale Naturale non possono essere sostituiti dal capitale costruito dall'uomo. Infatti, alcune delle funzioni e dei servizi degli ecosistemi sono essenziali per la vita del genere umano in quanto elementi determinanti la sopravvivenza della vita stessa (ad esempio i cicli biogeochimici, il paesaggio, lo spazio vitale). Di conseguenza, gli ecosistemi che generano tali servizi vengono definiti Capitale Naturale critico non sostituibile e perciò bisognoso di varie forme di tutela. La figura 1 (Santolini, 2008) mostra come i capitali sviluppino diversi livelli di interazione formando le varie forme di paesaggio. I capitali dipendono da tempi di resilienza molto diversi tra loro, che esplicitano le ragioni della loro non scambiabilità, e sono caratterizzati dai problemi esposti di seguito. a) Problema dei tempi. Le dinamiche di generazione, crescita e ricostituzione del Capitale Naturale sono notevolmente sempre più lunghe che non per gli altri capitali. b) Problema dello spazio. Il capitale antropico occupa molto meno spazio che il Capitale Naturale, ma incide molto di più sugli equilibri ecologici e sull’espressione di molte funzioni ecologiche/servizi ecosistemici. c) Problema dei costi. I capitali non naturali sono contenuti in ambiti che dipendono da funzioni naturali. Ad esempio, il costo di un’alterazione ad un certo livello di scala si ripercuote a scale superiori incrementando i costi di risanamento. Da queste considerazioni emerge la necessità di valutare con attenzione le soglie di vulnerabilità del sistema territoriale caratterizzato dai diversi
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capitali e da un proprio paesaggio rispetto alle funzioni ecologiche chiave che gli ecosistemi del
Figura 1. Rapporti dinamici tra i Capitali propri dell’Economia ambientale nella formazione del Paesaggio in relazione ai tempi di trasformazione ed ai servizi ecosistemici prodotti.
Capitale Naturale possono esprimere. Fino a che punto è possibile permettersi delle trasformazioni che assumono un peso più o meno forte, cioè che possono arrivare ad una soglia critica della Capacità Portante nel territorio in oggetto? Qual è il limite vero dello Sviluppo Sostenibile e Durevole di un territorio? Lo sviluppo sostenibile e durevole si esprime quindi nella valutazione dei capitali e delle soglie di
Mettere in gioco i servizi ecosistemici: limiti e opportunità di nuovi scenari sociali ed economici
vulnerabilità considerando il principio della non scambiabilità del Capitale Naturale ed in particolare di quello critico, che diventa fattore di stabilità ecosistemica e di sviluppo durable. La valutazione del valore ecologico ed economico delle risorse e delle funzioni ecologiche, nonché la loro riconoscibilità nella pianificazione territoriale e delle risorse, diventa uno strumento opportuno di analisi per non incorrere in finte azioni di conservazione. Troppo spesso, in nome di una finta sostenibilità, le azioni appaiono a salvaguardia dei valori del territorio e del suo corretto sviluppo, quando, di fatto, viene attuata una banalizzazione del sistema ed un uso impattante (turistico, agricolo intensivo, ecc.) della maggior parte degli ecosistemi interessati, spesso nelle aree protette. Considerare nei processi di valutazione e pianificazione il Capitale Naturale per le sue funzioni e non solo come un bene da sfruttare è un processo complesso che implica il superamento del binomio capitale-lavoro, tipico dell’economia classica, in cui non viene considerato il Capitale Naturale e/o si attua l’interscambiabilità dei capitali. “Uno sviluppo economico che non si ponga il problema del rapporto con l’ambiente naturale, non solo rischia di non poter essere mantenuto, ma perde qualità e quindi perde valore” (Musu 2008). Almeno a livello europeo la strada è comunque segnata da una parte delle politiche economiche e territoriali: il primo Forum Mondiale su “Statistica, Conoscenza e Politica” dell’OCSE a Palermo (2004), si fa promotore del “Global Project on Measuring the Progress of Societies”. Su questi temi, all’OCSE si aggiungono Nazioni Unite, Banca Mondiale, Commissione Europea e nella Dichiarazione di Istanbul (2007) si sancisce l'impegno ad andare “oltre il PIL”. Il documento “Non solo PIL. Misurare
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il progresso in un mondo in cambiamento”, COM(2009) 433, Bruxelles, offre alcuni indirizzi operativi sull’integrazione del PIL con indicatori ambientali e sociali e sull'inserimento di questi nella contabilità nazionale. Questo lavoro fu una risposta alla Commissione Europea che nel 2007 aveva avviato un programma di iniziative per l'implementazione e la valutazione delle politiche comunitarie. Infine, è recente la pubblicazione del Rapporto della Commissione Sarkozy con Stiglitz, Sen e Fitoussi (2010) sulla “Misura della Performance Economica e del Progresso Sociale”, in cui si sottolinea l'importanza della misura del benessere della popolazione considerato come un insieme di fattori non solo economici, quali sanità, istruzione, ambiente e relazioni sociali. Le raccomandazioni toccano il consumo di beni e servizi fondamentali. In Italia, l'istituzione di un gruppo di esperti che lavorerà alla formulazione di una definizione condivisa del progresso della società italiana e del relativo set di indicatori, con l'obiettivo di “sviluppare un approccio multidimensionale del benessere equo e sostenibile (Bes), che integri l’indicatore dell’attività economica, il PIL, con altri indicatori, ivi compresi quelli relativi alle diseguaglianze (non solo di reddito) e alla sostenibilità non solo ambientale” (http://www.istat.it/salastampa/comunicati/), è il risultato dell’accordo Cnel-Istat siglato nell'aprile 2011 grazie alla volontà di Enrico Giovannini, unico membro italiano della Commissione Sarkozy. Fino ad ora, la mancanza di adeguati strumenti di valutazione integrata del capitale e del contributo che esso fornisce al reddito ed al benessere economico insieme ad un'analisi del Capitale Naturale ha portato inevitabilmente a valutare in
Tra parole e saggi
modo spesso errato il grado di funzionamento di una economia. Per cui è indispensabile migliorare il sistema di contabilità del “flusso di reddito sostenibile” (inteso come livello di reddito che permette di non svalutare il capitale di risorse), integrandolo con elementi che valutino il deprezzamento del Capitale Naturale (variazioni della quantità) ed il degrado dello stock di Capitale Naturale (variazioni della qualità). Se un'azienda non riesce a risparmiare sufficiente denaro da reinvestire nelle strutture della propria attività (macchinari, edifici ecc. che si sono deprezzati) questa attività, sul lungo periodo, diventerebbe certamente economicamente insostenibile. Perciò il tasso di risparmio annuale di una economia deve essere maggiore o uguale al deprezzamento dello stock di capitale fabbricato dall'uomo e del Capitale Naturale, che deve essere una risorsa pressoché costante e non scambiabile con nessun altro capitale.
I Servizi Ecosistemici Come abbiamo avuto modo di accennare, un sistema è un insieme di elementi che possono svolgere determinate funzioni ovvero possedere una plurifunzionalità che ogni elemento sviluppa autonomamente, ma la cui integrazione fornisce al sistema delle proprietà che derivano non dalla somma delle singole proprietà ma dalla loro integrazione funzionale. Le attività dell’uomo dovrebbero concorrere a mantenere la plurifunzionalità dei sistemi ambientali. Invece, più il sistema è complesso e plurifunzionale, più si tende a semplificarlo, banalizzarlo, renderlo “docile” per meglio “controllarlo” senza sapere che se ne aumenta la perdita di funzioni (distrofia) e la
vulnerabilità. È quello che succede quotidianamente ad esempio nei sistemi fluviali, siano essi piccoli canali o grandi fiumi: l’uomo induce profonde alterazioni nella morfologia degli alvei che portano alla banalizzazione dell’ecosistema e alla perdita di funzioni cui consegue una maggior vulnerabilità dei territori, con il risultato di alterare le naturali funzioni, ad esempio di depurazione delle acque, assorbimento di inquinanti, protezione dall’erosione, e rendere quindi più costose le azioni di recupero. Allo stesso modo l’uso esclusivo di un bene o di una risorsa (es. bosco) per una specifica funzione (es. produzione di legname) porta alla distrofia di quell’ecosistema che perde la maggior parte delle diverse funzioni che si esplicano altrimenti in modo integrato (protezione dall’erosione, sequestro di anidride carbonica, regolazione del ciclo delle acque, ecc). Il paesaggio che ne consegue sarà ecologicamente banale e più vulnerabile con delle ripercussioni anche sulla salute umana. Diversità ecosistemica significa diversità funzionale e quindi qualità ambientale, con beneficio di tutti gli organismi che traggono vantaggio da tali funzioni. Di conseguenza, maggiore è la diversità del sistema, maggiore sarà la sua adattabilità alle variazioni e minore sarà la sua vulnerabilità. Quando una funzione ecosistemica diventa elemento da cui trarre benessere, essa viene chiamata servizio. In questo contesto si inserisce il concetto di Servizio Ecosistemico che, a partire dalla fine degli anni Novanta, con il famoso studio di Costanza et al. (1997) in cui viene offerta una prima stima economica del valore dei servizi ecosistemici a scala globale, ha ottenuto un crescente consenso sia riguardo all’importanza della loro valutazione, sia rispetto all’integrazione nelle decisioni di gestione delle risorse naturali e
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nella pianificazione del territorio. Al riguardo sono stati promossi numerosi progetti nazionali e internazionali: TEEB, EEA/MA 2015, DIVERSITAS, QUEST, RUBICODE, SENSOR (per un inventario si veda il sito www.naturevaluation.org). Per “Servizi Ecosistemici” (SE) si intendono sia i beni (come cibo, acqua, materie prime, materiali da costruzione, risorse genetiche), sia le funzioni ed i processi degli ecosistemi, molti dei quali sono le proprietà emergenti, cioè l’integrazione funzionale tra gli elementi di un ecosistema che concorrono a produrre un processo o a svolgere una funzione: assorbimento degli inquinanti, protezione dall’erosione e dalle inondazioni, regolazione dello scorrimento superficiale della acque e della siccità, mantenimento della qualità delle acque,controllo delle malattie, formazione dei suoli ecc. (MEA, 2005). Questi processi e funzioni forniscono benefici insostituibili, diretti o indiretti, agli abitanti di un territorio, che, attraverso le loro attività, se compatibili, concorrono a mantenere la funzionalità e la qualità ecologica del proprio paesaggio ma non solo: alcuni servizi sono di interesse globale (es. mantenimento della composizione chimica dell’atmosfera), altri dipendono dalla vicinanza di aree abitate (es. funzione di protezione da eventi distruttivi), altre ancora si esplicano solo localmente (es. funzione ricreativa) (Costanza, 2008). A volte i SE sono il risultato di processi ecologici, sociali, culturali e delle loro interazioni e, soprattutto nei paesaggi culturali, alcuni SE sono il risultato di una coevoluzione storica di usi, regole d’uso, norme sociali e processi naturali. Sebbene la definizione dei Servizi Ecosistemici sia ancora oggetto di dibattito, disquisendo tra processi ecologici, funzioni, servizi e benefici, in ogni caso ci si riferisce ad un concetto legato all’utilità della
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funzione ecologica per l’uomo, dipendente dal processo ecologico che è attivo a prescindere dalla presenza di eventuali fruitori. In particolare, si distinguono quattro categorie generali di SE (Tab. 1) relative alla disponibilità e fornitura di risorse (provisioning), alla regolazione o mitigazione di processi ed eventi (regulating), alla disponibilità di ambienti e condizioni di vita (supporting) e alla funzione cognitiva e culturale (cultural). La disponibilità di SE è riconosciuta essere un’imprescindibile base del benessere umano e fattore di riduzione della povertà (MEA, 2005). Nel Millennium Ecosystem Assessment (MEA), in particolare, si rileva che la maggior parte dei SE sono minacciati e con trend negativi per i prossimi cinquant’anni. Nello studio COPI (“Cost of Policy Inaction - The case of not meeting the 2010 biodiversity target”) si evidenziano e valutano le conseguenze economiche della perdita di biodiversità a scala planetaria. Sugli ecosistemi e sulla loro funzionalità agiscono una serie di pressioni (fig. 2), derivanti da fattori correlati alle politiche, allo sviluppo tecnologico e dipendenti anche dalle aspettative e scelte nei consumi. Allo stesso tempo vi è una crescente domanda di SE a causa dell’aumento di popolazione mondiale ma soprattutto per la volontà di mantenere un alto stile di vita da parte di una porzione di popolazione dei paesi ricchi ed economicamente più avanzati. Il campo di azione e di controllo di queste pressioni è in gran parte regionale e locale, da ciò discende la responsabilità tacitamente affidata alla pianificazione territoriale.
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Tabella 1. Classificazione dei Servizi Ecosistemici (da MEA, 2005, p. 28, mod., e de Groot, 2009).
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Tra parole e saggi
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La Valutazione Ecosistemici
Figura 2. Schema concettuale delle relazioni tra servizi ecosistemici, benessere e pressioni. Le interazioni possono avvenire a scale diverse e tra le diverse scale, sia nello spazio (livello locale, regionale, globale), sia nel tempo. Strategie e azioni possono essere applicate in diversi punti dello schema per favorire il benessere umano e conservare gli ecosistemi.
economica
dei
Servizi
Avere una buona dotazione di Servizi Ecosistemici significa avere una maggior “ricchezza” pro-capite in termini di Capitale Naturale, ma anche una minore vulnerabilità e minori tempi di resilienza del sistema ambientale con una sua maggiore salute. Pertanto, il concetto di SE risulta di grande utilità per ricercatori e decisori nel valutare in modo oggettivo il legame che intercorre tra cambiamenti di uso del suolo, in grado di influenzare la diversità biologica (dalle specie agli ecosistemi), e il benessere umano, legato all’erogazione dei SE a scale differenti (locali nel breve periodo, o sovralocali nel medio e lungo periodo). Se la diversità di specie di un ecosistema corrisponde alla complessità delle interazioni tra queste, cioè al numero delle vie lungo le quali l’energia può attraversare una comunità, l’alterazione della biodiversità (determinata da fattori diretti ed indiretti e indotta anche dalle trasformazioni del paesaggio) causa cambiamenti nella stabilità ecosistemica, la riduzione della funzionalità di habitat ed ecosistemi nonché la loro possibile scomparsa. L’alterazione degli ecosistemi determina una modificazione della loro funzionalità e spesso una progressiva distrofia (perdita di funzioni) (Santolini, 2009). Ecosistemi sani possono quindi offrire un contributo molto significativo, proprio perché i loro servizi, che sono risorse non sostituibili con quelle del Capitale antropico e che vengono ora gratuitamente utilizzate dall’uomo, rappresentano un importante valore economico, attualmente generalmente ignorato e che non ha un valore di mercato nell’economia tradizionale, e che però necessita di una valutazione in un’ottica di ecologia economica
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(Morri e Santolini, 2010). L’economia ecologica individua un nuovo approccio per pesare le risorse di un territorio e per riequilibrare i sistemi economici. Dal Capitale viene enucleato il Capitale Naturale che fornisce naturalmente servizi mantenendo la stabilità ecologica dei sistemi. La contabilità ambientale che si basa su criteri “nuovi” (Daily, 1977, 1996) dovrebbe valutare il loro ammontare e specialmente la loro dinamica per supportare strategie di sostenibilità, anche a fronte di variazioni climatiche nel breve, medio e lungo periodo. È importante quindi valutare il Valore Economico Totale (TEV) (Freeman, 1993; Merlo e Croitoru, 2005; Dziegielewska et al., 2010) delle risorse e dei servizi considerati come beni pubblici senza mercato e che quindi non vengono tenuti in considerazione nelle analisi costi-benefici e spesso nelle valutazioni del danno ambientale. Il concetto di Valore Economico Totale costituisce il background metodologico delle valutazioni monetarie dei beni ambientali. Alla sua base c’è l’idea di distinguere fra due grandi categorie di benefici che una risorsa naturale offre: i valori d’uso e i valori di non-uso (fig. 3). I primi sono associati alla fruizione/utilizzazione della risorsa, mentre i secondi includono tutte le valenze non riferibili ad un uso diretto o indiretto. Conoscere il valore economico totale delle risorse e dei beni ambientali è importante per verificare la razionalità delle scelte di sviluppo e per dare un valore alle politiche di tutela dell’ambiente. Spesso la difficoltà nell’assegnare un valore fa diminuire l’attenzione verso i beni ambientali nelle scelte della collettività. Occorre quindi innescare dei meccanismi di riconoscimento economico di questi servizi in modo che vengano pesati nel bilancio economico complessivo mediante un sistema metrico comune che faciliti le analisi. Esistono numerosi tentativi di
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Figura 3. Valore ecosistemico.
economico
totale
di
un
servizio
valutazione delle funzioni ecosistemiche e quindi dei servizi. Tale valore economico deriva dalla somma di valori che trovano riscontro più o meno diretto nel mercato, e di valori che possono essere riportati ad una “formula monetaria” solo con l'uso di tecniche che misurano il "prezzo" implicitamente attribuito alle risorse. Attraverso il Valore Economico Totale è possibile ordinare un’ampia serie di analisi parziali e di connessi metodi di valutazione. La nuova visione economica ricomprende il comparto ambientale, produttore di beni e servizi, di cui se ne deve riconoscere il valore come Capitale Naturale, dal momento che ora esistono metodi discussi ma efficaci di valutazione economico-ambientale (Giupponi et al., 2009). Ogni copertura del suolo, quando non impedisce completamente processi ecosistemici, ha una propria capacità di fornire servizi ecosistemici. Di conseguenza, ogni cambiamento di uso del suolo ha un impatto sull'erogazione di servizi ecosistemici e sulla dotazione del Capitale Naturale di un territorio. A livello italiano esiste una prima stima della Variazione del valore economico dei servizi ecosistemici in Italia dal 1990 al 2000 (Cataldi et al., 2009; Scolozzi et al., 2010; Scolozzi et al.,
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2011) sviluppato su base provinciale mediante l’utilizzo dei dati di Corine Land Cover (figg. 4-5-6). Tale stima si basa su una meta-analisi della letteratura riguardante la valutazione economica dei SE e su una correzione dei valori presenti per gli ecosistemi italiani. Tale calibrazione è stata costruita con un approccio expert-based attraverso il metodo dell’indagine Delphi sviluppato mediante interviste ad esperti (ricercatori e professionisti) che hanno espresso il loro parere circa la potenzialità di ogni tipologia di uso del suolo di erogare uno o più servizi ecosistemici sulla base del contesto territoriale individuato e delle variabili considerate. Tra i fattori di correzione dei valori disponibili in letteratura sono considerati la quota e la distanza da sorgenti di pressione (aree urbanizzate). Il risultato di questa stima rappresenta in modo spazialmente esplicito un primo “censimento” dei Servizi Ecosistemici a livello italiano, su base regionale, che può essere utilizzato come base conoscitiva utile a definire il Capitale Naturale italiano e a supportare strategie di sviluppo o priorità di interventi per il raggiungimento di obiettivi individuati a livello comunitario e/o internazionale e all’interno di strumenti di pianificazione territoriale e di valutazione ambientale (VIA, VAS). L’obiettivo generale è quello di orientare le strategie di gestione e pianificazione territoriale verso una prospettiva ecologica-economica di mantenimento dei servizi ecosistemici, come conservazione del Capitale Naturale del territorio ma anche come “assicurazione” per gli impatti dei cambiamenti in atto. Nonostante i risultati raggiunti siano da considerarsi una prima approssimazione e verosimilmente una significativa sottostima, il metodo è stato sviluppato al fine di comparare scenari sulla base di dati facilmente accessibili.
Tra parole e saggi
Figura 4. Valore totale (2000) dei Servizi Ecosistemici per provincia.
Figura 5. Variazione 1990-2000 del valore totale dei Servizi Ecosistemici.
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Figura 6. Variazione 1990-2000 del servizio “Habitat refugium”.
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Servizi Ecosistemici territoriale
e
pianificazione
Gli attuali strumenti di pianificazione in Europa, pur nelle significative differenze, hanno dei limiti comuni nell’orientarsi a uno sviluppo territoriale in grado di mantenere il proprio Capitale Naturale. In generale, i vari approcci partono da un’analisi dello status delle risorse ambientali, spesso trascurando i processi ecosistemici, le interazioni dinamiche e di controllo dei processi stessi, in particolare le loro relazioni con i fattori economici e sociali. Inoltre la pianificazione di tipo settoriale (es. agricolturaPAC/PSR, infrastrutture-Piano della Mobilità, gestione delle acque-Piano delle acque, ecc.) non è nei fatti coordinata anche in seguito ad una suddivisione di responsabilità tra entità amministrative, per esempio tra i livelli regionali e quelli locali. Queste suddivisioni rendono difficoltoso considerare e gestire gli ecosistemi ed i loro processi in modo integrato, specie nel definire e pesare obiettivi di strategie ambientali tra gli obiettivi di altri settori anche se questo dovrebbe essere oggetto della pianificazione strategica ed ancor prima della Valutazione Ambientale Strategica (VAS). Nelle analisi costi-benefici a fronte di scenari e scelte di gestione territoriale, generalmente i SE non sono considerati, se non riguardo il valore diretto del bene senza considerare gli altri fattori che costituiscono il Valore Economico Totale (VET) ed in particolare il valore indiretto attualmente oggetto di valutazione economica. Purtroppo, le scelte di gestione territoriale sono guidate in misura sempre maggiore da fattori economici esterni di mercato che non considerano il valore economico del Capitale Naturale nella sua completezza (VET). Senza una valutazione
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quantitativa e senza il riconoscimento ai proprietari di suoli del valore del mantenimento delle risorse naturali e dei processi funzionali, i servizi tendono ad essere ignorati nelle decisioni sul territorio. Queste considerazioni nascono anche dalla constatazione che a fronte di ingenti quantità di finanziamenti investiti nei vari settori di governo del territorio che nell’intenzione andrebbero a risolvere le criticità (qualità e quantità) di alcuni Servizi Ecosistemici (es. approvvigionamento idrico, depurazione delle acque, dissesto), i risultati ottenuti in decenni di azioni sul territorio, non mostrano quella efficacia proporzionata al valore della spesa effettuata. È ragionevole pensare che l’impostazione politica e la risoluzione tecnicoamministrativa tutta rivolta a risolvere il problema contingente (l’emergenza), investendo per la gran parte un unico settore operativo, abbia abbondantemente fallito. È necessario pianificare azioni sistemiche integrate, che coinvolgano diverse responsabilità e che possano risolvere in modo definitivo e politicamente meno strumentalizzabile, i problemi del nostro territorio, considerando nella valutazione anche, e finalmente, il valore dei Servizi Ecosistemici.
Un esempio attuale: l’agricoltura Parallelamente ad una visione dell’agricoltura intesa solo come produttrice di sussistenza alimentare e materie prime, si avverte sempre più la necessità - espressa da parte di quella collettività costretta a vivere nelle aree inquinate e densamente popolate - di godere delle potenzialità dei territori rurali intesi come amenità del paesaggio e mantenimento dell’ambiente naturale, soprattutto nelle aree periurbane.
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L’agricoltura assume un molteplice ruolo funzionale, in quanto può contribuire in modo significativo, se adeguatamente gestita e valorizzata, alla qualità ambientale anche urbana (agricoltura di frangia) e di vita della popolazione. Nelle aree di frangia urbana, ad esempio, l’attività agricola deve assumere delle specificità date dal contesto nel quale si inserisce e deve assumere sempre più funzioni “forti” per rimanere vitale ed economicamente sostenibile. In questa visione l’attività produttiva intesa come produzione di materie prime e alimenti diventa una delle tante attività che insistono su uno stesso luogo e il territorio assume un valore plurifunzionale legato anche ad altre attività tra cui il ripristino e la gestione del paesaggio,la conservazione delle risorse ambientali, l’offerta di spazi per l’attività didattica ed il tempo libero. Il territorio rurale si trasforma quindi in sistema rurale costituito da sottosistemi con caratteristiche ed aspetti specifici in cui le attività proprie di produzione convivono con le esigenze della manutenzione del territorio e della salvaguardia e valorizzazione delle risorse naturali. I territori rurali accrescono le loro funzioni nella misura in cui la gestione viene improntata ad una filosofia di sostenibilità ovvero di massimizzazione dell’utilizzazione delle risorse e minimizzazione dei rischi economici, ambientali e paesaggistici. Tutte le funzioni che l’agricoltura assume - culturale, didattica, di riequilibrio ecologico, ricreativa rendono il territorio rurale un soggetto contenitore di una pluralità di servizi per il sistema antropico e delineano la possibilità di mantenere viva l’agricoltura in queste zone anche quando la produzione agricola intesa in senso tradizionale non lo consentirebbe.
Tra parole e saggi
Questi aspetti sono ben attuali e individuano una situazione di grande potenzialità ma che attualmente, purtroppo, è regolata con approcci che rincorrono antichi e ormai superati obiettivi di gestione del territorio. Al contrario, i futuri e nuovi indirizzi comunitari (PAC 2014) sviluppano concetti ben definiti che solo in parte sono attualmente applicabili: a) bene pubblico. A livello europeo, la nuova PAC dopo il 2013 segna una svolta decisa riconoscendo che il mondo agricolo, con il suo lavoro, fornisce anche beni e servizi pubblici nella salvaguardia dell’ambiente (Relazione al parlamento europeo 2010). b) Pluralità delle agricolture. La UE riconosce che il modello agricolo europeo non è un sistema uniforme ma “…rispetto al passato una dimensione è emersa con maggiore vigore: l’importanza territoriale dell’agricoltura, anzi, delle agricolture europee. La PAC deve permetterci di tutelare l’equilibrio dei nostri territori e di mantenere il legame tra territori e prodotti...” ed è un segno di ricchezza dell’Europa sulla quale la PAC deve puntare (Dacian Cioloş, Membro della Commissione europea Responsabile dell’agricoltura e dello sviluppo rurale). I due concetti – “bene pubblico” e “pluralità delle agricolture” - definiscono una radicale svolta culturale e politica e sono il riferimento di base per l’organizzazione degli interventi comunitari e l’assegnazione dei fondi. In questa ottica, i destini dell’agricoltura e della biodiversità sono strettamente intrecciati: promuovere un’agricoltura sostenibile è possibile, se ci si pone l’obiettivo di preservare alcuni degli habitat naturali esistenti, assicurando in tal modo
la disponibilità di servizi ecologici. Il mantenimento e l’incremento dell’agrobiodiversità consentono quindi l’uso migliore delle risorse naturali e portano alla stabilità dell’agroecosistema ed una sua maggiore funzionalità ecologica (Servizi Ecosistemici). Riguardo alla biodiversità, il PSN del MiPAAF considera l’integrazione tra biodiversità e agricoltura uno degli obiettivi centrali da perseguire e riconosce all’agricoltura un ruolo fondamentale sia per la conservazione in azienda delle specie vegetali e razze animali in via d’estinzione sia per la tutela degli habitat ad alta valenza naturale e quindi delle funzioni ecologiche ad essi annessi. Per proteggere e valorizzare le risorse naturali dell’UE e i paesaggi nelle aree rurali, le risorse destinate all’Asse 2 dovrebbero contribuire a tre settori prioritari a livello UE (“COUNCIL DECISION of 20 February 2006 on Community strategic guidelines for rural development, programming period 2007 to 2013”) (2006/144/EC): • biodiversità e conservazione, e sviluppo di agricoltura e selvicoltura ad elevato valore naturalistico e di paesaggi agricoli tradizionali; • ciclo dell’acqua; • cambiamenti climatici. La UE interviene sul 42% del territorio nazionale che è destinato ad attività agricole (ISTAT 2007) e sul 21% della SAU che presenta caratteri di alto valore naturalistico, in termini di biodiversità genetica, di specie e di paesaggio, costituendo anche zone di collegamento tra gli spazi naturali. Queste aree sono definite HNV (High Natural Value) e insieme alle aree SIC e ZPS, tutelate dalla rete Natura 2000, saranno oggetto delle iniziative specializzate di settore e dei relativi finanziamenti europei e nazionali. I due tipi di approccio nella tutela della biodiversità – Natura 2000 e agricoltura HNV – si sostengono a vicenda.
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Se da una parte la Rete europea Natura 2000 protegge una percentuale significativa delle aree destinate alle coltivazioni HNV, dall’altra sostenere le coltivazioni HNV favorisce in maniera indiretta la conservazione degli habitat rurali di Natura 2000, sia all’interno dei siti designati sia in aree agricole più estese. Le aree agricole ad alto valore naturale sono riconosciute come “quelle aree dove l’agricoltura è la principale (normalmente anche la dominante) forma d’uso del suolo e dove l’agricoltura ospita (o è associata) a un’alta diversità di specie e di habitat, oppure ospita specie la cui preservazione costituisce particolare attenzione e impegno in Europa” (Andersen et al. (2003). Queste sono distinte in tre tipologie: • tipo 1: aree con un’elevata proporzione di vegetazione semi-naturale (es. pascoli naturali); • tipo 2: aree con presenza di mosaico di agricoltura a bassa intensità e elementi naturali, semi-naturali e strutturali (es. siepi, muretti a secco, boschetti, filari, piccoli corsi d’acqua, ecc.); • tipo 3: aree agricole che sostengono specie rare o un’elevata ricchezza di specie di interesse europeo o mondiale. In Italia la maggior parte delle Aree Agricole ad Alto Valore Naturale (AVN) si trova nelle terre meno produttive, dove le limitazioni fisiche (suolo, topografia, clima, distanza) ne hanno impedito l’intensificarsi. Generalmente, le HNV possono essere individuate tra le aree semi-naturali dove è prevalentemente praticata una agricoltura estensiva (soprattutto prati permanenti e pascoli), dove sussistono particolari habitat o elementi naturali come siepi, filari, fasce inerbite, piccole formazioni forestali e manufatti (fossi, muretti a
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secco), per cui in paesaggi eterogenei. L’evoluzione nel tempo della Politica Agricola Comunitaria (PAC), ha due estremi: la politica dei mercati ed il pagamento unico (disaccoppiamento = sostegno completamente svincolato dalla produzione). Il pagamento unico (I° pilastro della PAC) è però subordinato ad un requisito: il rispetto della condizionalità. L’imprenditore agricolo riceve i pagamenti diretti se osserva le prescrizioni ambientali della condizionalità. Questo è un passaggio fondamentale! Con la riforma di medio termine (Reg. CE 1782/2003) la condizionalità diventa obbligatoria ed assume il duplice ruolo che svolge oggi: a) impone che la corresponsione dei finanziamenti sia “condizionata” al rispetto di norme già vigenti (Atti) ma ancora disattese (es. Direttiva Nitrati) e di regole agronomiche ordinarie (Standard); b) conferisce all’agricoltura europea una sorta di “marchio” ambientale! Di conseguenza, sulla base di un’analisi ecologicaeconomica è importante identificare “il paesaggio che funzioni” cioè agroecosistemi le cui “funzioni ecosistemiche” supportano la “capacità degli ecosistemi di fornire beni e servizi che soddisfano direttamente o indirettamente i bisogni umani” e sono riconosciuti quindi come un insostituibile supporto al benessere umano (MEA, 2005). Ecosistemi sani possono quindi offrire un contributo molto significativo, proprio perché i loro servizi, che sono risorse non sostituibili con quelle del Capitale antropico e che vengono ora gratuitamente utilizzate dall’uomo, rappresentano un importante valore economico, attualmente generalmente ignorato e che non ha un valore di mercato nell’economia tradizionale, che però necessita di una valutazione in un’ottica di ecologia economica.
Mettere in gioco i servizi ecosistemici: limiti e opportunità di nuovi scenari sociali ed economici
C’è quindi un crescente consenso sull’importanza di incorporare la valutazione di questi SE nei processi decisionali di gestione delle risorse riconoscendo all’agricoltura europea non solo il ruolo produttivo ma anche la responsabilità di conservazione del paesaggio naturale e culturale e delle sue caratteristiche. Tuttavia, mentre in Europa si sperimentano le prime applicazioni del principio “Payment for Ecosystem Services” (PES) e si valutano le aree agricole con significativi valori naturali che mantengono un certo uso dei suoli e determinate modalità di gestione classificandole come High Nature Value (HNV) (IEEP, 2007), in Italia tali criteri sono subordinati in gran parte alle necessità di gestione territoriale di interessi politico elettorali. Anche nelle politiche ambientali si avverte la necessità di riconsiderare i parametri economici legati al trasferimento di lasciti di capitale, e quindi della tutela delle risorse e dei processi ecologici, in cui il Capitale Naturale ed in particolare il Capitale Naturale Critico, possa essere elemento insostituibile e non contrattabile in un’ottica di sviluppo sostenibile forte (Santolini, 2008). Si tratterebbe di supportare decisioni strategiche attraverso la costruzione di scenari di sviluppo territoriale realistici più completi. L’esplicitazione dei SE porterebbe a una migliore comprensione del territorio, dei processi, e probabilmente anche a una più efficace partecipazione.
Il paradigma delle Reti Ecologiche Laddove lo ritengano necessario, nell'ambito delle politiche nazionali di riassetto del territorio e di sviluppo, e segnatamente per rendere ecologicamente più coerente la rete Natura 2000,
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gli Stati membri si impegnano a promuovere la gestione di elementi del paesaggio che rivestono primaria importanza per la fauna e la flora selvatiche (Direttiva 92/43 CEE Habitat, art. 10). Si tratta di quegli elementi che, per la loro struttura lineare e continua (come i corsi d'acqua con le relative sponde, o i sistemi tradizionali di delimitazione dei campi) o il loro ruolo di collegamento (come gli stagni o i boschetti) sono essenziali per la migrazione, la distribuzione geografica e lo scambio genetico di specie selvatiche. Se l’art. 2 della direttiva definisce l’oggetto della conservazione, e cioè la biodiversità, il successivo art. 10 sottolinea che per conservare occorre andare oltre le aree protette attraverso la gestione di un sistema di elementi del paesaggio (Guccione et al., 2008). Quindi lo strumento normativo anche se limitato esiste ed esiste lo strumento che potrebbe individuare in modo organico e territorialmente funzionale la struttura ecologica di un territorio: la Rete Ecologica già abbondantemente applicata in varie forme a livello nazionale (Guccione e Schilleci, 2010). Tuttavia, è necessario superare gli aspetti di carattere speciespecifico e considerare la RE come scenario ecosistemico polivalente (Malcevschi 1999, 2010) e nella sua accezione più innovativa ed efficace legata alla valutazione dei SE (Santolini 2009). La biodiversità di specie di un ecosistema corrisponde alla complessità delle interazioni tra queste, cioè al numero delle vie lungo le quali l’energia può attraversare una comunità; l’alterazione della biodiversità (determinata da fattori diretti ed indiretti e indotta anche dalle trasformazioni del paesaggio) causa cambiamenti nella stabilità ecosistemica, la riduzione della funzionalità di habitat ed ecosistemi nonché la loro
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possibile scomparsa (TEEB, The Economics of Ecosystems and Biodiversity, www.teebweb.org). L’obiettivo principale di una rete ecologica è quello di mantenere spazio per l’evoluzione del sistema ecologico (Santolini, 2003; Battisti, 2004) in cui la biodiversità deve autonomamente progredire senza impedimenti ed il peso delle azioni antropogeniche deve essere commisurato con alti livelli di autopoiesi del sistema, funzionale a mantenere la maggior efficienza dei servizi ecosistemici (Santolini, 2008). Con questi presupposti, la Rete Ecologica acquisisce un valore applicato e funzionale reale. Il progetto di Rete Ecologica diventa quindi uno strumento utile a produrre azioni rivolte ad aumentare la qualità del paesaggio ed a conservare lo Stock di Capitale Naturale di risorse tra cui la biodiversità, purché sia assunto come parte integrante degli strumenti di pianificazione ordinaria, in modo da indirizzare le azioni progettuali anche dei diversi strumenti programmatici di governo del territorio in maniera fortemente coordinata e sinergica, anche degli attuali strumenti di valutazione ambientale (VAS, VIA) (Santolini, 2009). Come già accade per Gran Bretagna e Danimarca, la prospettiva dei SE costituisce un’opportunità per estendere i contenuti dei rapporti ambientali, integrando valutazioni di opportunità economica e ambientale su un piano di comparazione e concertazione La valutazione quali-quantitativa ed economica di processi e benefici attraverso l’approccio legato alla Rete Ecologica ed ai SE può offrire una concretezza e una maggiore efficacia agli strumenti di pianificazione. In questo modo la compensazione e la perequazione potrebbero essere riorientate verso un’ottica ecologica-economica e non economicoterritoriale in cui si potrebbe sviluppare un
maggiore equilibrio non nel disegno territoriale tra tipologie, ma nell’equilibrio ecologico-funzionale del territorio, costruendo uno scenario più democratico in cui l’interesse pubblico diventa un caposaldo imprescindibile nell’elasticità del piano.
Alcune considerazioni La prospettiva dei SE può costituire la base per una revisione dello sviluppo e della pianificazione territoriale più consapevole dei processi, e più orientata verso una sostenibilità concreta, sia ambientale che economica (Santolini, 2010b). Considerare i processi di erogazione e la funzionalità di ciascun ecosistema presente in un dato territorio costituisce un approccio olistico per uno sviluppo integrato che include l’uomo e l’ambiente nel settore socio-economico. Idealmente l’uomo e la qualità dell’abitare sono sempre stati al centro degli obiettivi della pianificazione territoriale, ma di fronte ad analisi di benefici economici e costi ambientali, la scelta è generalmente sbilanciata, a volte per una semplice mancanza di un valore monetario su un piatto della bilancia (il lato del valore ambientale). La considerazione dei valori economici associati a processi ecosistemici potrebbe essere più utile ed efficace rispetto a misure legali di protezione, più facile da comprendere da parte del cittadino e da considerare nelle valutazioni ambientali. Va sottolineato che la valutazione economica dei SE non intende promuovere la “svendita” sul mercato degli ecosistemi e delle loro funzioni, ma attivare un processo di sensibilizzazione e di consapevolezza del loro valore anche economico, sottolineando la differenza tra bene e servizio e la frequente incompatibilità tra uso del bene e
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funzionalità ecologica a supporto di una gestione mirata e ragionevole dei servizi ecosistemici. Le opportunità di applicazione di questi criteri relativi ai SE nella pianificazione e gestione ambientale sono molteplici. La loro valutazione economica in una prospettiva di medio e lungo periodo risulterebbe efficace nel definire priorità per l’identificazione di zone ad Alto Valore Funzionale, perseguendo così un bilanciamento di vantaggi, disponibilità futura (sostenibilità) e valore economico ambientale in un’ottica di perequazione e compensazione territoriale efficace per esempio, tra costa ed entroterra o tra fondovalle e versanti. L’analisi ambientale a supporto della Valutazione ambientale strategica e della pianificazione strategica potrebbe individuare, ai vari livelli di scala (regionale, provinciale, intercomunale), localizzazioni ottimali per gruppi di SE, individuando alcuni distretti o zone più vocate ad una particolare funzione territoriale in cui promuovere misure di conservazione e mantenimento di queste ultime. L’esplicitazione dei SE porterebbe non solo ad una migliore comprensione del territorio e dei suoi processi, ma probabilmente anche ad una più efficace partecipazione. Tuttavia, questi elementi si ricomprendono nella necessità di salvaguardare le invarianti del sistema ambientale e paesaggistico (Capitale Naturale Critico) su cui, peraltro, sarebbe opportuno che si fondassero le nuove proposte di normativa di legge urbanistica quadro per il governo del territorio.
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Figure 4, 5, 6: SCOLOZZI R. ET AL., 2011, Delphi-based change assessment in ecosystem services values to support strategic spatial planning in Italian landscapes. Ecological Indicator (in stampa).
Testo acquisito dalla redazione nel mese di ottobre 2011. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Riferimenti iconografici Figure 1: SANTOLINI R., 2008. Paesaggio e sostenibilità: i servizi ecosistemici come nuova chiave di lettura della qualità del sistema d’area vasta. In: Riconquistare il Paesaggio, la Convenzione Europea del Paesaggio e la conservazione della biodiversità in Italia, MIUR - WWF Italia, p. 235. Figura 2: SANTOLINI R., 2010. Servizi Ecosistemici e sostenibilità. “Ecoscienza”, 3, ARPA, Bologna, p. 22. Figura 3: Mod. da MERLO M. AND CROITORU L., 2005. Valuing Mediterranean Forests-Towards Total Economic Value. Cabi Publishing, p. 18.
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Paesaggi della biodiversità
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Lo (s)guardo estraneo
Hotspot. Estetica e biodiversità
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Hotspot. Aesthetic e biodiversity
Fabrizio Desideri*
abstract
abstract
La connessione tra estetica e biodiversità è accessoria ed estrinseca o necessaria ed interna alla costituzione di entrambi i termini? Il saggio è una riflessione sul valore estetico della biodiversità, a partire da una riconsiderazione della stessa concezione di estetica, non più svincolata dai contenuti e non più astratta dall’ambiente-mondo in cui si esercita. Lo scenario ecosistemico della biodiversità, quale proto-forma di una relazione estetica, può quindi precisarsi come matrice di un apprezzamento che anticipa il giudizio estetico senza per questo configurarlo.
The connection between aesthetic and biodiversity is accessory and extrinsic or necessary and intrinsic? This essay reflects on the aesthetic value of biodiversity, beginning from a new consideration of aesthetics, not jet separated from contents. Ecosystem scenery of biodiversity can be précised as a matrix of an appreciation that forecast the aesthetic judge without configuring it.
Key-words Aesthetics, biodiversity, ethic value, aesthetic value
Parole chiave Estetica, biodiversità, valore etico, valore estetico
* Università di Firenze
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Quale paesaggio per la biodiversità? Concezioni di paesaggio nelle Strategie per la Biodiversità in Europa
È piuttosto frequente trovare, in scritti di ecologisti e biologi evoluzionisti, osservazioni circa il valore estetico intrinseco della biodiversità. Osservazioni di questo tenore si affiancano spesso all’affermazione secondo la quale la biodiversità costituisce di per sé un valore etico. Di qui l’imperativo e l’urgenza della sua conservazione. Un imperativo che funziona altrettanto spesso da motivo d’ispirazione e da quadro di riferimento per le analisi circa il valore politico-economico della biodiversità e il suo significato strategico per la sopravvivenza stessa della nostra specie. All’interno di questo quadro la biodiversità sarebbe, dunque, un valore estetico in sé nella stessa misura in cui è un valore etico. Altrettanto raramente, però, i pronunciamenti a favore del valore intrinsecamente estetico della biodiversità si sviluppano in una tematizzazione del nesso che lega il campo problematico e concettuale di quest’ultima con quello dell’estetica. Il rischio, così, è che tali affermazioni funzionino per lo più retoricamente, slittando – per uno sguardo più analitico e criticamente avveduto – in una zona d’irriflessa opacità. Si tratta perciò, qui, di avviare una riflessione nel merito. Il primo passo in questa direzione è espresso dalla seguente convinzione. Spetta soprattutto all’immagine teorica di estetica che, consapevolmente o meno, coltiviamo decidere se la connessione tra estetica e biodiversità è una connessione accessoria ed estrinseca ad entrambi i domini concettuali (ai campi di ricerca che intenzionano e ai problemi di cui sono attiva espressione) o, in alternativa, una connessione necessaria ed interna alla costituzione di entrambi. Possiamo, infatti, assumere con qualche tranquillità una formulazione standard del concetto di biodiversità, vista la giovane età del suo conio
(verso la metà degli anni ’80 per merito di Walter G. Rosen che nel settembre 1986 organizzò a Washington il National Forum on Biodiversity), come moneta corrente del dibattito intorno ad evoluzione, ecosistemi e politiche riguardanti la sostenibilità, individuando come nucleo soggiacente alla molteplicità di dimensioni e di declinazioni semantiche che la caratterizzano la ricchezza e varietà delle specie viventi e di ecosistemi sia in senso locale sia in senso globale (MACLAURIN, STERELNY, 2008, p. 174). Questa definizione è del resto in sintonia con quella contenuta nella Convenzione sulla diversità biologica adottata a Nairobi il 22 maggio 1992 e quindi sottoscritta (fino ad oggi) da 192 nazioni, a partire dal Summit mondiale dei Capi di Stato tenutosi a Rio de Janeiro nello stesso anno: «“Biological diversity” – leggiamo qui - means the variability among living organisms from all sources including terrestrial, marine and other aquatic ecosystems and the ecological complexes of which they are part; this includes diversity within species, between species and of ecosystems». Nel presupposto dell’assunzione del concetto standard di biodiversità, l’onere di risolvere il dilemma iniziale (connessione estrinseca o intrinseca) cade, dunque, sul modo in cui concepiamo l’estetica. Per tale ragione ritengo che sia quanto mai opportuno per studiosi di altre discipline e per gli stessi filosofi considerare la necessità di riconcepire radicalmente il senso dell’estetica fin dalla sua prima emergenza nel paesaggio umano come un’attitudine tipica di esso e quindi come un’attitudine a carattere transculturale. Due concezioni correnti e, almeno fino a qualche anno fa, influenti dell’estetica, seppur tra loro teoricamente divergenti, convergono, infatti, nello spingere la sua relazione
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con il campo problematico della biodiversità nello spazio marginale del concettualmente superfluo. Per esigenze di brevità possiamo ricondurre questi due modi di intendere l’estetica ad una teoria psicologico-soggettivistica e ad una teoria ermeneutico-culturalistica di essa. Nel corso dell’ultimo decennio ho sviluppato e articolato in esteso la critica a queste due concezioni dell’estetica in diversi saggi (vedi ad esempio DESIDERI, 2044, 2005, 2007, 2009a, 2009b) e, soprattutto, in un libro recente, La percezione riflessa. Estetica e filosofia della mente (DESIDERI, 2011). Per questo mi limiterò qui a caratterizzare queste due accezioni dell’estetica assai concisamente. Nella prima il senso dell’estetica è inteso per lo più come un complesso di atteggiamenti, di preferenze e di giudizi nei confronti di aspetti e oggetti del mondo, capaci di suscitare emozioni e sentimenti nell’osservatore in virtù delle qualità di cui godono. Per questo motivo il tenore di tali atteggiamenti, preferenze e giudizi è un tenore eminentemente soggettivo-individuale. In gioco, insomma, non vi è una soggettività generica e universale, ma una soggettività individuale che implica sempre la prospettiva della prima persona, muovendo dalla peculiarità delle esperienze che si iscrivono nella corporeità di ognuno. Quell’estetica si configura, così, come una risposta soggettiva ad aspetti del mondo, attenta a qualità formali degli oggetti che popolano un ambiente e alle risonanze emotive che esse suscitano in virtù delle loro potenzialità espressive. Pur intendendo correttamente il complesso degli atteggiamenti estetici nei termini di un’attitudine soggettiva, questa concezione ne fornisce però una versione angusta. Magari assegnando alla dimensione estetica dell’esperienza un ruolo strategico nei processi formativi della persona – la
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modalità ludico-estetica dell’esperienza come infanzia e preparazione di atteggiamenti cognitivamente ed eticamente adulti – e, quindi, concedendo ad essa una funzione residualmente ricreativa, una volta che l’individuo abbia maturato la consapevolezza della cognizione e la capacità di comportarsi eticamente. In questa visione del significato e della funzione dell’attitudine estetica, soprattutto in rapporto a quella cognitiva e a quella etica, il nesso con la biodiversità espressa da un determinato ambiente non pare suscettibile di acquisire un valore sistematico. La diversità del vivente si presenterebbe, in questo caso, come la qualità espressivo-formale di un oggetto estetico al pari di un altro. Il giudizio esteticamente positivo dato nei suoi confronti potrebbe così, al limite, coincidere o risultare analogo a quello formulato nei confronti di una versione puramente pittografica o ingannevolmente artificiale di uno scenario strutturalmente somigliante per le figure, i contorni e i colori che lo popolano. L’istanza della mera apparenza (una biodiversità soltanto apparente e ‘sensazionale’) e quella della riproducibilità tecnica (un hotspot artificialmente riprodotto, addirittura senza curarsi del suo funzionare davvero come ecosistema) risulterebbero qui esteticamente equivalenti, dal punto di vista della risposta che sollecitano (dell’emozione che suscitano), ad uno scenario di biodiversità effettiva. Ciò, naturalmente, in ragione dell’estremo soggettivismo e della riduzione psicologistica che caratterizzano – secondo questa prospettiva – l’attitudine estetica. Oscillando tra un formalismo delle apparenze e un emotivismo o sentimentalismo delle risposte a determinati input percettivi, questa versione dell’estetica, questo modo spesso irriflesso di
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concepire il suo campo concettuale, non potrà dunque mai stringere una connessione per così dire interna con la biodiversità nel suo manifestarsi. Essa potrà quindi concorrere al più a formare, date certe condizioni interne all’osservatore, un oggetto estetico tra i tanti. Nel presupposto che gli oggetti estetici valgono soltanto in quanto occasione di esperienze soggettivamente gratificanti, lo scenario della biodiversità come qualità più che estetica di un ambiente naturale non potrà mai assumere il ruolo privilegiato e costitutivo di un proto-oggetto. A un’estetica puramente e idiosioncraticamente soggettiva quanto agli oggetti su cui si esercita come attitudine, non sarà mai concesso – in altri termini - di oltrepassare la soglia del formalismo e, a parte subjecti, dell’emotivismo. Soltanto abbandonando una versione puramente soggettivistica dell’attitudine estetica nei confronti del mondo e riconcependo radicalmente il campo concettuale che le compete nel senso di una relazione strutturale e quindi di un effettivo commercio percettivo tra una mente embodied e l’ambiente (onorando così la stessa derivazione di “estetica” dal greco aisthesis, sensazione/percezione) il tema della biodiversità può rivelarsi geneticamente costitutivo e assumere una pregnanza più che simbolica: sistematica. A questo scopo è parimenti necessario, però, abbandonare un’identificazione dell’estetica con un’ermeneutica e, nella sua versione ristretta e più tradizionale, con una filosofia dell’arte. Secondo questa concezione dell’estetica d’ispirazione gadameriana, i suoi oggetti privilegiati sono i prodotti dell’arte, della poesia e della letteratura. In pratica gli oggetti estetici sono, anzitutto e propriamente, delle “opere” ovvero delle creazioni artistico-spirituali, che incorporano significati storicamente determinati in quanto espressione di
linguaggi specifici. Dal punto di vista di un’estetica risolta in ermeneutica e dunque in un’attività interpretativa che bypassa il nodo pre-semantico dei vincoli percettivi e dei gradi di libertà interni a essi, il problema della biodiversità non si pone neppure, se non nel panorama della storia dei rapporti umani con la natura o meglio con diverse concezioni e interpretazioni di essa. All’interno di un contesto teorico tendenzialmente storicistico e sicuramente ultra-umanistico quale è quello definito dall’ermeneutica, nel suo nucleo sostanziale il problema della biodiversità risulta piuttosto consegnato all’etica, al principio di responsabilità nei confronti della natura e, di conseguenza, nei confronti delle generazioni future. Si trascura, così, la chance di considerare il terreno dell’esperienza estetica come il grembo fecondo da cui scaturiscono gli stessi atteggiamenti etici, sottraendo al loro carattere normativo quella cesura quasi metafisica – rispetto alla sfera degli impulsi, delle passioni e delle emozioni – che consegna ad un astratto rigore l’imperativo morale. Secondo la prospettiva che ho cercato di disegnare in La percezione riflessa (cfr. in particolare, DESIDERI, 2011, pp. 61-92), all’attitudine estetica va riconosciuto piuttosto il valore meta-funzionale di un primo orientamento nei confronti del mondo che emerge come conseguenza imprevista di processi attenzionali determinatisi nel contesto di un commercio percettivo con l’ambiente. A essere decisivo in quest’idea di esperienza estetica non è, perciò, semplicemente il contenuto soggettivo di una percezione (l’effetto sul soggetto di determinate proprietà sensibili come forma e colore), ma la relazione necessaria che s’instaura con le qualità fenomeniche dell’oggetto (del complesso di oggetti o della scena ambientale) all’origine dello input percettivo (qualità capaci di
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destare l’attenzione). Ciò, nel presupposto che tali qualità siano ontologicamente espressive, anziché meramente formali. Così, infatti, può essere superata la dicotomia, esemplificata nelle prime due concezioni, tra un’estetica come attitudine soggettiva e un’estetica dei contenuti e dei significati. L’esercizio di un’attitudine estetica e l’oggetto della preferenza in cui questa si esemplifica sono qui correlati e co-emergenti in una relazione costitutiva. Non siamo, perciò, di fronte ad una soggettività vuota e astratta che esercita le sue preferenze estetiche in uno spazio ambientale privo di connotati. Siamo di fronte, piuttosto, alla proto-forma di un paesaggio: a uno spazio per così dire fibrato e popolato da attrattori capaci di innescare processi attenzionali. Se dal punto di vista ontogenetico dell’evoluzione dell’individuo l’oggetto proto-estetico si configura in un volto e nella relazione con l’esterno rappresentata e mediata da una scena dialogica tra il bambino e la madre, dal punto di vista filogenetico dell’emergenza specificamente umana dell’estetico la proto-forma di oggetto estetico può ben essere rappresentato dallo hotspot di una scena ambientale selezionata come un habitat vantaggioso in senso evolutivo. Correlativamente a queste due distinte forme di proto-oggetti estetici si palesano, così, due distinte fonti dell’atteggiamento estetico quale sempre si rinnova nel paesaggio umano: in maniera trans-culturale e, dunque, in un’unità di senso che racchiude una pluralismo ed un contestualismo dei significati. Tali fonti sono 1) il bisogno di riconoscimento del familiare (il volto della madre come primo quasioggetto estetico) (DESIDERI, 2011, pp. 58-60) e 2) il desiderio di riconoscere ciò che è altro come affine, anziché come qualcosa di ostile e di estraneo (IVI, p. 88).
E’ dunque nel contesto del bisogno/desiderio di riconoscere l’altro come affine (un contesto esplorativo in cui la nostra vita percettiva si misura con l’ignoto) che la connessione tra l’emergenza filogenetica di un’attitudine estetica e la biodiversità caratteristica di un ecosistema vantaggioso per la sopravvivenza e per lo sviluppo di un mondo umano può rivelarsi come una connessione sistematica e per così dire originariamente costitutiva. Importanti contributi a tale riguardo sono stati dati, negli ultimi decenni, da un approccio all’estetica in chiave evolutiva (vedi BARTALESI, in corso di pubblicazione). Quest’approccio si è diversificato in due linee di ricerca fondamentali e tendenzialmente autonome. La prima riguarda il rapporto di continuità e discontinuità tra il senso estetico sviluppatosi in alcune specie animali nel contesto utilitario della selezione sessuale e il senso estetico specificamente umano caratterizzato dallo svincolo del desiderio dall’ambito sessuale-riproduttivo (su questo problema già affrontato da Darwin in The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex e definito nella VI edizione di The Origins of Species «a very obscure subject» vedi DESIDERI, 2009a e DESIDERI, 2011, pp. 109-114). La seconda, quella che qui ci interessa più da vicino, concerne la questione di come la selezione dell’habitat, decisiva per la sopravvivenza e la riproduzione, sia all’origine, nella specie umana, di determinate preferenze estetiche nei confronti dell’ambiente. L’argomento principale che sostiene questa linea di ricerca, al centro ancora oggi (al pari della prima) di un intenso dibattito tra studiosi di varie discipline (biologi evoluzionisti, psicobiologi, paleoantropologi), è che il piacere o il dispiacere estetico che suscitano in noi determinati paesaggi e scenari naturali non sarebbe altro che il residuo
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evolutivo di pressioni selettive a cui sono stati sottoposti i nostri meccanismi psicologici nella scelta di habitat adattivamente vantaggiosi (vedi per questo argomento RUSO, RENNINGER, ATZWANGER, 2003, pp. 279-282). A questa linea di ricerca un contributo assai rilevante è stato dato dai lavori dell’entomologo e sociobiologo Edward O. Wilson, a partire dal suo celebre e assai influente libro, Biophilia (WILSON, 1984). A Wilson si deve la cosiddetta “biophilia hypothesis” (vedi per questo i saggi raccolti in KELLERT, WILSON, 1993) ovvero l’idea che nell’uomo l’amore per la diversità delle specie viventi («l’affiliazione emozionale degli esseri umani verso altri organismi viventi») è un istinto innato che guida e ispira molti suoi atteggiamenti dall’età preistorica fino ad adesso. Sarebbe appunto questa propensione geneticamente programmata a determinare negli umani “una preferenza estetica istintiva per gli ambienti naturali e per le altre specie” (PENN, 2003, p. 287). Una tesi, questa, già delineata in Biophilia: i costanti sforzi umani di migliorare l’apparenza degli immediati dintorni in cui vivono, rendendo l’habitat «”più vivibile” secondo quelli che sono usualmente chiamati criteri estetici» (WILSON, 1984, p. 108), sono da mettere in relazione con le caratteristiche dell’ambiente all’interno del quale il cervello umano si è originariamente sviluppato. Essere biologicamente predisposti a rispondere in maniera positiva alla varietà del vivente potrebbe così alimentarsi di una veicolazione di tipo estetico stabilizzatasi in schemi di risposta emotiva rispetto alle caratteristiche di determinati scenari naturali: quelle caratteristiche, appunto, proprie dell’habitat in cui la specie umana si è potuta evolvere grazie ad una locomozione bipede e al libero uso delle braccia. È a quest’ultimo riguardo che l’ipotesi della biofilia di
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Wilson si intreccia con la cosiddetta Savannahhypotesis sostenuta in particolare dallo scienziato ecologista Gordon H. Orians (vedi ORIANS, 1980). Secondo tale ipotesi le preferenze estetiche che gli umani manifestano universalmente per determinati tipi di scenari ambientali (paesaggi popolati da arbusti e alberi distanziati e dalla ramificazione non fitta piuttosto che intricatissime foreste, ampie praterie anziché terreni desertici) sarebbero determinate, all’origine, dal fatto che i nostri protoantenati del Pleistocene hanno per così dire mosso i primi passi nel bioma della savana africana, in quanto ecosistema capace di offrire le maggiori chances di adattamento e quindi di sopravvivenza. In questa prospettiva la savana pleistocenica costituirebbe una sorta di paradigma del vantaggio evolutivo offerto dalla biodiversità concentrata in spazi determinati, fungendo quindi anche da protopaesaggio capace di soddisfare criteri estetici. Il sedimentarsi di risposte di carattere emozionalmente positivo date a tratti salienti (e vantaggiosi dal punto di vista adattivo) propri del paesaggio tipico della savana orienterebbe, dunque, in maniera inconscia la maggior parte delle nostre attuali preferenze estetiche, perlomeno nei confronti di ambienti naturali. La savana, così, acquisirebbe anche il valore di una sorta di protooggetto estetico che continua ad esercitare la sua influenza nel gusto dell’uomo moderno. Ogni giudizio estetico intorno ad oggetti, suoni, odori – e ai territori circoscritti in cui questi si presentano assieme – serberebbe per così dire memoria di esperienze ataviche, dove una ricognizione selettiva aveva colto questi oggetti e aspetti di un paesaggio come premesse e occasioni significative per comportamenti futuri. La selezione dell’habitat, grazie alla capacità di marcare lo spazio ambientale con indicatori esteticamente rilevanti, sarebbe però
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avvenuta in vista del fatto che un determinato ambiente si rivelava favorevole alla “ricerca e al rifugio” (il binomio prospect/refuge stabilito da Jay Appleton; vedi APPLETON, 1975), aperto ad un’esplorazione assetata di novità e adatto a fornire informazioni rilevanti in un determinato quadro temporale. A parte il fatto che, negli ultimi anni, la stessa validità dell’ipotesi della savana difesa da Orians è stata contestata da più parti, in particolare con l’argomento che l’evoluzione umana (la separazione degli ominidi dalle scimmie) non si sarebbe sviluppata soltanto in un unico bioma, nemmeno questa ipotesi pare in grado di offrire un solido appiglio per stringere una connessione necessaria tra attitudine estetica e biodiversità. Nella prospettiva di Orians e colleghi è, infatti, il vantaggio evolutivo offerto dalla savana, come paradigma protostorico di una biodiversità vantaggiosa allo sviluppo umano, a influenzare le future scelte estetiche, ad offrirne per così dire la cornice pur flessibile entro la quale potranno svilupparsi e diversificarsi. In altri termini: la ragione funzionale della risposta a un problema adattivo - la selezione dell’habitat come “un aspetto adattivo del comportamento animale” (PENN, 287) – è qui quanto dovrebbe spiegare le nostre preferenze estetiche nei confronti dell’ambiente, ad esempio la preferenza di una spiaggia lambita dal mare e costellata di alberi ombrosi rispetto all’inconsolabile grigiore del cemento proprio di un paesaggio urbano. La nostra risposta affettiva, nel senso di un sentimento estetico di piacere o di dispiacere, non ha qui bisogno di passaggi inferenziali e di mediazioni cognitive di ordine concettuale e riflessivo. Si dà, per così dire, d’istinto, quasi programmaticamente. Il fatto è che l’onda delle emozioni, anche qualora si sia consolidata in schemi di risposta, non basta a
spiegare l’emergenza di un’attitudine estetica, tantomeno a spiegarne la connessione interna con quel rapporto tra complessità e coerenza, tra varietà e unità che configurano lo scenario favorevole al manifestarsi della biodiversità. Perché si stringa questa connessione, l’atteggiamento estetico quale prima forma di orientamento nella trama ingarbugliata delle nostre esperienze non può che presentarsi come gratificante fusione (sintesi densa) tra le risonanze emotive e le discriminazioni cognitive della nostra vita percettiva. Soltanto a patto di essere intesa secondo un profilo irriducibile alla sola dimensione emotiva, la motivazione estetica potrebbe essere pensata in un rapporto di coevoluzione con le necessità di un problem solving adattivo nella scelta di tratti salienti dell’ambiente e con la stessa attrazione per la varietà delle specie viventi in spazi, dove il principio di diversificazione appaia per così dire ‘armonizzato’. In altri termini: la risposta estetica e l’espressione di preferenze di questo tenore possono cessare di essere considerate come mero effetto o traccia di eventi sedimentatisi nella memoria dell’umanità solo a condizione che siano colte nella loro valenza di un’anticipazione cognitiva che agisce all’interno di vincoli percettivi e carica i dispositivi emozionali di futuri schemi di comportamento e d’inedite relazioni con l’ambiente. Più che effetto e memoria del passato, in ultima istanza riducibile ad altre ragioni, l’attitudine estetica può insomma presentarsi sin dal suo emergere come un inaspettato effetto anticipante. E proprio con questa caratteristica può stringere un vincolo espressivo con il principio stesso della biodiversità. A questo proposito, e almeno sotto questo riguardo, sembrano convergere, con il modo qui proposto di concepire e ri-concepire l’estetico, gli
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importanti lavori dello psicologo statunitense Stephen Kaplan (vedi ad esempio KAPLAN, 1987, 1992). A partire da saggi come Aesthetics, affect, and cognition. Environmental Preference from an Evolutionary Perspective, Kaplan sostiene, infatti, la necessità di considerare l’estetica, nel suo senso più ampio, “come una forza centrale nell’esperienza e nel comportamento umano” (KAPLAN, 1987, p. 5). E tale centralità sta proprio nel fatto che le preferenze estetiche si danno come sintesi tra cognizione e affetto, derivando da una dialettica nell’esperienza umana tra il piacere della comprensione (del riconoscere come familiare un ambiente) e l’ansia dell’esplorazione, della ricerca di nuove informazioni e conoscenze. Appunto in relazione con questi caratteri, necessari a definire un orientamento estetico dell’esperienza, Kaplan individua quegli aspetti di un contesto ambientale capaci da fungere da “predittori” dell’esplicitarsi di una futura preferenza estetica, vale a dire: la coerenza, la leggibilità, la complessità e il mistero. Svincolati dal peso paleo-storico della Savannahypothesis queste features ambientali possono funzionare come le affordances di Gibson. Alle caratteristiche per così dire oggettive dell’ambiente con cui s’instaura un commercio percettivo compete, così, un valore quasi causale nei confronti non solo di un’esperienza estetica determinata, ma anche e soprattutto dell’emergere e del continuo rinnovarsi di un’attitudine estetica come prima forma di orientamento nei confronti del mondo (nei miei termini: un orientamento che ha la virtù di anticipare in un senso strutturalmente inestinguibile la forma della cognizione e quella dell’etica). Da questa prospettiva – come rilevato del resto dallo stesso Kaplan – l’estetica ambientale non si rivela come “un caso speciale di estetica ma come riflesso) di una funzione ampia e pervasiva”,
al punto che “alcuni dei più tradizionali domini estetici possono essere derivati di questa funzione più basica” (IVI, p. 25). La tesi di Kaplan può essere condivisa con un distinguo e con un’integrazione. Il motivo della condivisione è offerto senza dubbio dal fatto che anche assumendo il punto di vista di Kaplan possiamo tranquillamente superare la dicotomia tra un’estetica dell’atteggiamento soggettivo e un’estetica dei contenuti e degli oggetti gravidi di significati. Il distinguo riguarda la necessità di ribadire che la scena ambientale deve essere considerata quale correlato oggettivo di una delle due fonti da cui emerge l’attitudine estetica (l’altro correlato – come si è già accennato – è offerto dal volto umano ed in particolare dal volto della madre al quale si risponde con un sorriso). L’integrazione potrebbe, invece, essere offerta proprio dal sostanziare e caratterizzare nel senso di una biodiversità la prima scena ambientale come Urszene di una filogenesi dell’esperienza estetica. Uno scenario di biodiversità quale si configura nella compagine unitaria di un hotspot ecosistemico potrebbe addirittura fungere da affordance nei confronti dello stesso impulso ‘biofiliaco’, magari predisponendo proto-discriminazioni cognitive e prefigurando giudizi. Giudizi a tenore estetico, certamente. Con la precisazione, però, che il concetto di “estetico” non può più essere ridotto in senso formalistico né può essere risucchiato nella sfera del puramente emotivo. Coerenza e leggibilità sarebbero sicuramente confermate e rafforzate nel loro valore non episodico dall’armonizzazione e dalla dialettica tra il principio della varietà e della differenziazione e quello dell’unitarietà espresse da uno scenario localizzato e denso di biodiversità. Così come il carattere aperto dell’ecosistema
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lascerebbe ampi margini all’esplorazione e alla sorpresa. In forza di questa esperienza e di questo commercio percettivo con le qualità espressive della biodiversità la dimensione estetica potrebbe rivelarsi, conclusivamente, come la matrice del comprendere stesso e la molla che innesca emotivamente ogni esplorazione, interrompendo routines dannose e instaurandone altre, fino a sciogliere e a stringere nuovi vincoli estetici con il mondo. Sciogliere e stringere nel medium del percepire: questa è la meta-funzione dell’attitudine estetica. Un’attitudine non più svincolata da contenuti e non più astratta dall’ambiente-mondo in cui si esercita. Così inteso, lo scenario ecosistemico della biodiversità quale proto-forma di una relazione estetica (dal momento che la stessa biodiversità può essere colta soltanto come polo di una relazione) può anche precisarsi come matrice di un apprezzamento che anticipa il giudizio estetico senza per questo configurarlo: un “apprezzamento non giudiziale”, una “nonjudgmental appreciation” (GODLOVITCH, 1998, p. 118). In tale apprezzamento, dove la misura affettiva della risposta è preponderante ma non esclusiva, la biodiversità è come colta nel suo valore in sé: “come se” – avrebbe detto Kant –la natura, sotto questo rispetto, ci venisse incontro. Il nucleo di contemplatività, implicito in ogni esercizio di un’attitudine estetica, proprio nel caso della biodiversità può infine rivelarsi in intima congiunzione con il suo necessario nucleo di operatività e questo già per il fatto che orienta ogni successiva esplorazione. Non solo: anche in virtù di un’esperienza della biodiversità, che a buon diritto può dirsi “estetica” nei termini ora precisati, possiamo quasi sfiorare il senso stesso dell’unità del bios al quale ci sentiamo affiliati. E anche a tale
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proposito l’attitudine estetica, e l’esperienza che la precede e che ne consegue, non possono risolversi o dissolversi nell’estremo ultra-umanismo di un gioco delle interpretazioni.
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Paesaggi della biodiversità
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Gli stati e le dinamiche dei processi insediativi e infrastrutturali di trasformazione dei suoli in Italia
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The states and the dynamics of settlement processes and infrastructure trasformation of soils in Italy
Bernardino Romano, Francesco Zullo, Manuele Cargini, Doriana Febo, Cristina Iezzi, Mauro Mazzola, Paolo Rollo*
abstract L'accelerazione della conversione urbana dei suoli negli ultimi cinquanta anni è un fenomeno innegabile e intuitivamente percepibile, al quale non si riesce però ancora a dare una dimensione attendibile a causa di un cronico deficit di conoscenza ad ogni livello territoriale, dal nazionale al comunale. Una delle maggiori evidenze riguarda lo sfrangiamento dei margini tra città e campagna, tra metropoli e countryside, che è una sfida culturale del tutto persa dall’Italia che ha in realtà rifiutato di giocarla al contrario di quanto è accaduto nei Paesi dell’Europa centrosettentrionale. Il presente lavoro riporta i risultati di un confronto tra la sembianza quali-quantitativa delle aree urbanizzate degli anni ‘50 con la geografia attuale degli insediamenti ormai disponibile per tutte le regioni nei formati numerici. Una serie di elaborazioni statistiche mostra alcuni effetti sulle componenti paesaggistiche da interpretare come segnali di precise tendenze in atto oggi poco attenzionate dagli strumenti di gestione territoriale.
parole chiave Consumo di suolo, evoluzione urbana, politiche urbanistiche.
abstract In the last 50 years urban land conversion had an evident and undeniable acceleration. Nowadays it's not possible giving the reliable measurement of the state due to a chronic lack of knowledge at every territorial level, from the national to the municipal. The major problem is the absence of a clean border between urbanized areas and countryside, unlike other northern European Countries. This paper present the results in progress of the research about urban increasing in Italian regions in the last mid century. Several statistical elaboration show some effect and trends on landscape structure.
key-words Land uptake, urban sprawl, urban policies
* Università degli Studi dell’Aquila - Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile-Architettura, Ambientale Campo di Pile, 67100 L’Aquila
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Introduzione Il 500 % è un tasso molto probabile di incremento della copertura urbanizzata italiana negli ultimi 50 anni, valore che diventa sempre più credibile man mano che procedono le ricerche sulle diverse regioni tese ad accertare questo dato fino ad ora sfuggente e solamente ipotizzato senza robuste basi di misurazione. Non è naturalmente possibile pronunciarsi con approccio emotivo emettendo giudizi di apprezzamento: E’ troppo? E’ poco? E’ preoccupante? E’ normale e fiosiologico? Quel che è vero è che il fenomeno, che comporta contrastanti ed inedite conseguenze, è ancora marginalmente considerato sia nelle sedi scientifiche, sia in quelle della comunicazione e del governo del territorio (Emiliani, 2007; Pileri, 2007; Mercalli, 2009). Solamente da pochissimo tempo è emersa la necessità di costituire dispositivi di monitoraggio della dinamica di trasformazione urbana, ma si è ancora molto lontani da una raccolta di dati sistematica e coerente che permetta di effettuare confronti e valutazioni credibili (Batty, 2008; Lowry, 1990). Gli aspetti che vengono coinvolti direttamente ed indirettamente dalla conversione urbana dei suoli sono complessivamente i seguenti: Sfera economico-energetica: • diseconomie dei trasporti. • sperperi energetici; • riduzione delle produzioni agricole. Sfera idro-geo-pedologica: • destabilizzazione geologica; • irreversibilità d’uso dei suoli; • alterazione degli assetti idraulici ipo ed epigei. Sfera fisico-climatica;
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• accentuazione della riflessione termica e dei cambiamenti climatici; • riduzione della capacità di assorbimento delle emissioni; • effetti sul sequestro del carbonio; • propagazione spaziale dei disturbi fisicochimici. Sfera eco-biologica • erosione fisica e la distruzione degli habitat; • frammentazione ecosistemica; • distrofia dei processi eco-biologici; • penalizzazione dei servizi ecosistemici dell’ambiente; • riduzione della «resilienza» ecologica complessiva. Dall’elenco riportato è facile dedurre la difficoltà di formulazione di giudizi di gravità fondato sui valori evolutivi statistici della trasformazione artificiale dei suoli e, allo stesso modo, di determinazione di livelli-soglia per i quali è in atto qualche tentativo per ora infruttuoso. Considerando l’assortimento tipologico delle categorie che vengono impattate dal consumo di suolo appare fin troppo chiaro che la ricerca di “limiti” oltre i quali gli effetti del fenomeno risultino non più sostenibili, nel senso che attivano processi irreversibili, è di complessità estrema e, in ogni caso, andrebbe riferita alle singole categorie di effetti elencate con valutazioni diverse per metodo e risultati.
Le carenze informative Proiettarsi però verso una fase di stima delle conseguenze della artificializzazione dei suolo è comunque del tutto prematuro, almeno in Italia in
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questo momento storico, in quanto ancora sono molto incerti e geograficamente frammentari i dati sulla sua consistenza effettiva e meno ancora quelli diluiti lungo serie storiche statisticamente significative. Una delle iniziative più recenti in tal senso è quella dell’Osservatorio Nazionale sul Consumo di Suolo (http://www.inu.it/attivita_inu/ONCS_2.html) con un programma di attivazione di basi informative ancora ad uno stadio iniziale e con pochi dati a disposizione. Alcuni aspetti-chiave iniziano ad evidenziarsi grazie a diverse indagini e ricerche condotte negli ultimi anni, come ad esempio la tendenza attuale di dilagamento urbano nelle pianure aperte e interstiziali e la bassa collina, con consistenze sempre maggiori e ritmi apparentemente irrefrenabili (Romano & Paolinelli, 2007; Ferroni & Romano, 2009; Romano & Zullo, 2010; Falcucci e Maiorano, 2008; Berdini, 2009). Altri dati sono messi a disposizione da organismi internazionali come l’European Environmental Agency (EEA, 2006) che ha stimato per l’Italia circa 8000 ettari all’anno di territorio artificializzato tra il 1990 e il 2000. Altre fonti, come ad esempio l’Istat, forniscono una stima differente, ma discrepante nell’ordine di grandezza a causa delle diverse modalità del monitoraggio e della attendibilità complessiva dei dati correlati. A titolo di esempio il dato dichiarato dalla EEA è estratto dalle basi Corine Land Cover (CLC), il ben noto standard europeo di Land Use (APAT, 2005; Sambucini, 2009) derivato da rilevamento satellitare alla scala nominale al 100.000 (http://www.eea.europa.eu/publications/COR0landcover, http://www.centrointerregionalegis.it/script/corine.asp), mentre l’ISTAT deriva le informazioni dal censimento che l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT, 2009) conduce a livello
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nazionale e, in particolare, riferendosi alle aziende operanti nel settore dell’agricoltura. Altri dati, su basi amministrative variegate indicano stime più veritiere del fenomeno in quanto provenienti da fonti cartografiche più accurate dalle precedenti come la cartografia IGM, le carte tecniche regionali, o da carte di uso del suolo redatte con un livello di dettaglio dell’ordine del 1:10.000.
Tabella 1- Test differenziali tra i rilevamenti delle aree urbanizzate estratti dal Corine Land Cover (CLC) e quelli derivati dalle carte Tecniche Regionali (CTR) nel 2000.
La Tab. 1 mostra un test differenziale sulle aree urbanizzate effettuato su alcune regioni italiane tra il rilevamento satellitare Corine Land Cover (CLC) e quello estratto dalle Carte Tecniche Regionali (CTR) con dettagli di scala dell’ordine dell’1:10.000 (molto più attendibile in quanto cattura anche l’edificato sparso e minuto). Come può notarsi sono presenti alti gradi di variabilità e differenze enormi,
anche molto superiori all’80%, che costringono gli operatori tecnico-scientifici ad essere estremamente cauti nell’elaborare diagnosi e quadri problematici. Si pongono molteplici problemi nella lettura e quantificazione delle dimensioni e geografie del suolo urbanizzato su basi e sezioni cronologiche standard per l’intero territorio nazionale, cosa peraltro indispensabile per consentire analisi comparative fondate e la deduzione delle cause multiple poste alla radice. Un esempio è fornito dalla differenza tra superfici “edificate” e “urbanizzate”. Le prime, presenti tradizionalmente in alcune cartografie storiche, testimoniano unicamente un aspetto del fenomeno, non restituendo appieno i caratteri di occupazione e di impermeabilizzazione dei suoli (soil sailing) dovuti agli interventi di artificializzazione degli strati edafici (parcheggi, viabilità interna ai quartieri, aree di stoccaggio e movimentazione merci, sistemazioni varie) anche quando non sono presenti volumi edificati. Al contrario molte basi cartografiche recenti, elaborate tramite telerilevamenti aerei o satellitari, tendono invece ad evidenziare le superfici occupate sia da edifici che da funzioni accessorie e pertinenziali non confrontabili pertanto direttamente con le aree “edificate”. Va aggiunto che solo raramente sono disponibili strati cartografici di epoche anteriori agli anni ’70 manipolabili facilmente con gli strumenti informatici. La ricerca che viene presentata è attualmente ancora in corso di sviluppo e si prefigge di elaborare il quadro nazionale della conversione urbana dei suoli considerando come riferimento temporale omologato il periodo di stesura della copertura cartografica italiana in scala 1:25.000
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predisposta dall’IGMI (Istituto Geografico Militare Italiano) tra il 1949 e il 1962. Si tratta, come noto, della Serie 25V organizzata in 3.545 elementi (tavolette) con dimensioni di 7’30” di longitudine e 5’ di latitudine, nella rappresentazione conforme di Gauss ed inquadrata nel sistema geodetico nazionale (ellissoide internazionale con orientamento a Roma M. Mario - ED40) con reticolato chilometrico nella proiezione conforme Universale Trasversa di Mercatore (dati europei ED50).
Figura 1 – Un dettaglio di rappresentazione di area urbana della cartografia IGM 1:25.000 degli anni ’50.
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Nell’ambito della ricerca è stato messo a punto prima uno strumento tecnico GIS in grado di semiautomatizzare la procedura di estrazione delle superfici urbanizzate dalle cartografie raster (Romano e Zullo, 2010), e poi sono state prodotte e collaudate, con ulteriori dispositivi topologici, le parti corrispondenti alle funzioni urbane (superfici edificate e accessorie) nel loro complesso. Le regioni fino ad oggi studiate sono l’Umbria, l’Abruzzo, il Molise, la Puglia, la Valle d’Aosta, il Lazio,la Liguria e le Marche. In alcune elaborazioni vengono mostrati anche i dati del Friuli Venezia Giulia, dell’Emilia Romagna e della Sardegna derivati però dai SIT regionali disponibili sui geoportali istituzionali (www.sardegnageoportale.it, www.irdat.regione.fvg.it/Consultatore/GISViewer.jsp http://geo.regione.emilia-romagna.it/geocatalogo/). Il dato proveniente dalla ricerca effettuata sulla cartografia 1:25.000 è stato poi confrontato con quello sulle superfici urbanizzate estratte dalle Cartografie Tecniche Regionali generalmente derivate da fotointerpretazioni alla scala nominale 1:10.000 o 1:5.000. In tal senso va ricordato che il rilevamento a base delle mappe IGM è stato effettuato ad un dettaglio dell’1:20.000 pur se poi disegnato alla scala 1:25.000.
I risultati di confronto Le regioni studiate mostrano una ampiezza notevole delle differenze di copertura urbana tra gli anni ’50 e dopo il 2000 e, allo stato attuale della ricerca, non sono ancora del tutto indagati i motivi responsabili di queste variazioni, motivi indubbiamente legati sia alle politiche territoriali storiche dominanti, sia alle caratteristiche climatiche, geografiche, morfologiche e produttive.
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Ulteriori approfondimenti di questo tipo saranno possibili quando il campione disponibile avrà assunto dimensioni maggiori e soprattutto di maggiore estensione latitudinale. Si è comunque sempre in presenza di variazioni quantitativamente ragguardevoli (Tab. 2), con tassi di incremento minimi di circa il 100% nei casi di Umbria, Liguria, Valle d’Aosta e Friuli, ma di oltre il 400% per Molise, Puglia e Abruzzo, con più del 500% per l’Emilia Romagna. Per la Puglia in particolare la copertura urbanizzata attuale è quasi sei volte quella misurata negli anni del dopoguerra. Caso esasperato è certamente quello della Sardegna che ha fatto registrare un incremento di suolo urbanizzato in poco meno di 60 anni pari a più di 11 volte (1154%) quello degli anni ‘50. L’indice ragguagliato di consumo giornaliero di suolo nei periodi considerati rende un’idea ancor più fisicizzabile di quel fenomeno tipicamente “quasi statico” che è la artificializzazione delle superfici naturali: se il Molise ha trasformato i propri suoli al ritmo costante di oltre mezzo ettaro al giorno, il Friuli e l’Abruzzo sfiorano i due ettari, mentre supera i tre ettari giornalieri la Sardegna. I valori più elevati si raggiungono però in Puglia, con una conversione giornaliera superiore ai 5 ettari tra il 1949 e il 2002 con un massimo in Emilia Romagna di quasi 9 ettari giornalieri tra il 1954 e il 2008. Nel complesso delle regioni studiate l’area urbana si è mediamente moltiplicata di quasi 3 volte e mezza con un aumento di quasi 600.000 ettari in circa 50 anni, cioè una superficie artificializzata quasi confrontabile con quella dell’intera regione Friuli Venezia Giulia, ben superiore a quella dell’intera Liguria e quasi il doppio del territorio regionale della Valle d’Aosta. Il consumo giornaliero di suolo è riferito a periodi variabili di rilevamento, ma un valore medio si
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attesta intorno ad un totale di oltre 33 ha/giorno per il quale si deve considerare che i territori delle regioni analizzate costituiscono il 44% dell’intera estensione nazionale. Ipotizzando una estensione di questi valori al 100% del territorio nazionale si otterrebbe una superficie media di conversione giornaliera pari ad oltre 75 ha/g che porta a valutare uno scenario di circa 600.000 ha di superfici impermeabilizzate nell’arco dei prossimi 20 anni, schematicamente rappresentabile con un quadrato di quasi 80 km di lato. La Tab. 3 restituisce una immagine dinamica molto efficace sulla gigantesca dimensione del processo analizzato. Le regioni studiate si attestavano negli anni del secondo dopoguerra su tassi molto contenuti della densità di urbanizzazione: Sardegna, Molise, Abruzzo, Marche e Valle d’Aosta erano al di sotto del 7‰, le altre regioni erano posizionate su tassi compresi tra l’1 e il 2% e solamente il Friuli presentava un massimo del 4%. Tutti i valori cambiano sostanzialmente ordine di grandezza nei 50 anni osservati: il Friuli e l’Emilia Romagna sfiorano il 10%, Umbria, Abruzzo, Molise e Sardegna si collocano intorno al 3%, mentre Puglia, Liguria e Lazio si attestano intorno al 6-7%. La variazione del dato pro capite vede primeggiare la Sardegna: da meno di 49 m2/ab passa dopo il 2000 a 10 volte di più, contro le due volte circa del Friuli, le circa cinque volte di Molise, Puglia, Emilia Romagna e Abruzzo, mentre i livelli più bassi si riscontrano in Umbria e Valle d’Aosta con fattori di incremento inferiori a 2 (anche se queste due regioni, insieme al Friuli, detenevano negli anni ’50 i più alti valori pro capite). Sul totale del territorio indagato, che, come già precisato, costituisce un campione esteso oltre il 44% della intera superficie nazionale, la densità di
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urbanizzazione si è mediamente quasi sestuplicata tra la metà del secolo scorso e i primi anni del
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2000, mentre sono circa quadruplicati i valori pro capite delle aree convertite a funzioni urbane.
Figura 2 – Variazioni incrementali delle superfici urbanizzate su base comunale tra gli anni ’50 e il primo decennio del 2000
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Tabella 2 – Il risultato analitico della ricerca per il campione di regioni italiane indagato Tabella 3 – Valori di densità di urbanizzazione regionale e pro capite nell’arco di tempo considerato
Soffermando l’attenzione sulle regioni peninsulari esaminate il dato di incremento urbano disegnato su base comunale fa emergere alcune accentuazioni geografiche del fenomeno, che consentono delle prime considerazioni sulle conseguenze paesaggistiche dello stesso. Nelle regioni centro-meridionali la crescita urbana ha inciso prevalentemente sui suoli delle fasce costiere, ma anche in quelli basso-collinari e nelle conche interne dove insistono città capoluogo di provincia da sempre all’inseguimento di status economici confrontabili con quelli rivieraschi. Gli indirizzi politici generalmente applicati da decenni a questo fine sono sempre stati fondati sulla sovradotazione fisica di servizi pubblici e privati e sull’incentivo delle attività edilizie residenziali e produttive, a prescindere spesso dalle reali
vocazioni dei luoghi interessati e dai carichi demografici. Una differenza consistente dalle altre regioni analizzate è verificabile in Emilia Romagna e in Sardegna. Nel primo caso la vivacità del tessuto economico maggiore che non nel centro-meridione ha provocato una omogeneità territoriale più marcata della crescita insediativa, mentre è probabile che nel caso sardo la diffusione geografica dell’incremento urbano sia legata più alle attività turistiche. E’ piuttosto evidente il distacco quantitativo dell’Umbria e in parte delle Marche rispetto alle regioni più meridionali per ragioni in parte storiche, collegate alle forme di conduzione agraria, ai modelli e agli stimoli culturali, alla qualità delle politiche territoriali sul paesaggio, al senso identitario delle popolazioni. Il Lazio mostra nettamente il ruolo ricoperto dalla
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gravitazione sull’area metropolitana romana di un ampio hinterland regionale che vede trasferito su di sé un notevole carico residenziale e di servizi che erode in rapida progressione il paesaggio storico della campagna romana e lambisce ormai i contrafforti dell’Appennino. In relazione ai trend demografici la Fig. 3 mostra la distribuzione, sempre su base comunale, dei valori dell’indice di Incremento Demo-Urbano (DUI). Questo parametro è stato ottenuto come segue: (m2/abit) Dove: ∆urb(01-51)=Differenza tra le superfici urbanizzate nei comuni tra gli anni 50 e gli anni 2000 ∆pop(01-51)=Variazione di popolazione residente nei comuni tra gli anni 50 e gli anni 2000
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Figura 3 – Selezione dei valori positivi dell’indice di incremento demo-urbano Figura 4 – Selezione dell’Indice di contraddizione demo-urbana
Nel caso della Fig. 3 sono stati rappresentati esclusivamente i valori positivi del DUI, ovvero corrispondenti a quei territori comunali nei quali ad una condizione stabile o incrementale delle superfici urbanizzate fa riscontro anche un aumento di popolazione, riportando una classificazione che tiene conto delle superfici
incrementate pro capite (in altre parole la quantità di suolo consumato per abitante acquisito dal comune). Dalla mappa scaturisce una informazione che vede in questa condizione prevalentemente le città medie e grandi (capoluoghi di provincia o regione) e i loro hinterland più prossimi, ma anche le solite fasce costiere e una larga parte della Puglia (dalla Capitanata, alla Terra di Bari e al
Salento) e della fascia centrale dell’Emilia, da Piacenza a Ravenna, per gli effetti trainanti delle economie agricole e industriali, ma anche turistiche. E’ interessante notare forti variazioni dell’indice lungo i 1440 km di costa della Sardegna. Quasi tutte le aree emerse dalla selezione indicata denunciano un valore del DUI al massimo livello
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(oltre 500 m²/abitante di incremento di superficie urbanizzata). Un indice complementare al DUI che è stato esaminato è il DUC (Indice di contraddizione demourbana) ricavato come segue: 2
(m /abit. perso) Dove: ∆urb(01-51)=Differenza tra le superfici urbanizzate nei comuni tra gli anni 50 e gli anni 2000 -∆pop(01-51)=Decremento demografico intervenuto nei comuni tra gli anni 50 e gli anni 2000
Sono stati selezionati i comuni con saldo demografico negativo tra il 1951 e il 2001 ed è stato calcolato l’incremento di suolo artificializzato tra gli anni ’50 e il 2000 verificando poi la quantità di quest’ultimo corrispondente ad ogni abitante perso (Romano, 2001). Il risultato geografico è estremamente articolato (Fig. 4), ma mostra nel complesso una significativa tendenza alla crescita urbana anche in luoghi soggetti a depauperamento demografico importante, con concentrazioni dei valori più alti (oltre 800 m2 di superfici urbanizzate in più per ogni abitante perso) nelle fasce medio-collinari, ma più in particolare nelle aree interne appenniniche e subappenniniche, oltre che nella zona interna della Sardegna. I modelli turistici applicati sulla media montagna basati sulle seconde case di certo sono una causa determinante di questo fatto, ma indubbiamente contano anche le politiche pluridecennali di assistenza economica alle cosiddette “aree marginali”. Non trascurabile è la propensione dei comuni ad incassare tasse ed oneri provenienti dai permessi di costruire e dagli edifici per sostenere i servizi pubblici, ma una
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spinta importante è data anche dalla tendenza, ormai pluridecennale, degli operatori privati a capitalizzare in beni immobili per compensare la ridotta convenienza economica o alti rischi di altre forme di investimento finanziario (Settis, 2010). Gli indicatori elaborati tenendo conto del dato regionale nel suo insieme (Fig. 5) confermano ampiamente una evoluzione enormemente accentuata degli spazi artificiali corrispondenti a densità utilizzative sempre più basse il che, al di là della considerazione che vede la società contemporanea molto più esigente di quella storica in termini di disponibilità di superfici fruitive, dà anche conto di un processo che forse continua ad autosostenersi per inerzia economica anche in mancanza di pressioni reali per il suo verificarsi.
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Figura 5 - Analisi comparativa tra l’incremento delle superfici urbanizzate tra gli anni ’50 e gli anni 2000 e il corrispondente indice di densità abitativa su base regionale (abitanti per ettaro di superficie urbanizzata).
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Un’ulteriore lettura particolarmente efficace per la comprensione degli effetti paesaggistici della proliferazione urbana degli ultimi cinquanta anni è quella effettuata sulla base della geografia dei 37 tipi di Unità Fisiografiche di Paesaggio censiti dall’ISPRA (ISPRA, 2004). Negli anni del secondo dopoguerra gli “altipiani intramontani” detenevano un netto primato del tasso di urbanizzazione, essendo interessati tipologicamente per quasi il 5% da suoli artificializzati, mentre con netto distacco (ben sotto il 2%) comparivano le pianure costiere, aperte e di fondovalle. L’indagine sviluppata con le coperture urbane successive al 2000 mostra decisi ribaltamenti di valore di questo indice: le pianure costiere diventano teste di serie con parti urbanizzate molto oltre il 7%, mentre tutti gli altri tipi di pianure vanno ben oltre il 4 e anche il 5%. Ma, mentre il ruolo degli spazi pianeggianti quali sedi preferenziali di funzioni urbane viene in qualche modo confermato a partire da tendenze già visibili negli anni ’50, è particolarmente interessante verificare l’avanzamento in classifica delle categorie collinari, all’epoca poco o per nulla invase dal costruito. Le unità collinari di ogni tipo manifestano un serio aumento del tasso di urbanizzazione che, dall’originario livello compreso tra zero e 5‰, diviene attualmente molto superiore al 2% e in qualche caso superiore al 4%, cioè concorrenziale con i valori delle pianure. Fermo restando che queste ultime ancora mantengono la loro leadership di spazi preferenziali per la localizzazione edilizia di ogni categoria, non si può trascurare un segnale preciso che, in un paese come l’Italia decisamente povero di pianure facilmente saturabili (circa il 23% del territorio nazionale), indica una tendenza di massiccio “attacco” insediativo alle morfologie collinari, con rilevanti rischi di alterazione di paesaggi agricoli tra i più pregiati d’Europa. Se nell’arco del mezzo secolo considerato le pianure sono state divorate dall’insediamento al ritmo medio di oltre 18 ha al giorno, i paesaggi collinari possono “vantare” una erosione fisica di quasi 6 ha al giorno, ma potrebbe trattarsi solamente del segnale di innesco di un successivo più energico sviluppo. La Fig. 9 mostra una simulazione effettuata su tutto il territorio nazionale attribuendo alle Unità di Paesaggio il tasso di incremento dell’urbanizzazione registrato negli ultimi cinquanta anni nelle regioni studiate (Fig. 6). Emerge una sensibilità nazionale fortemente concentrata in alcune aree che, oltre ad aver subito gli eventi urbani dell’ultimo mezzo secolo, continuano a tutt’oggi a manifestare una elevata predisposizione ad ulteriori incrementi.
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Figura 6 – Differenza del tasso di urbanizzazione delle unità di paesaggio italiane tra gli anni ’50 e dopo il 2000 (dati riferiti al campione di regioni studiato).
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Figura 7 – Entità della variazione del tasso di urbanizzazione sulle tipologie italiane di paesaggio tra gli anni ’50 e dopo il 2000 (dati riferiti al campione di regioni studiato)
Figura 8 – Indice medio di conversione urbana giornaliera del suolo per tipo di paesaggio (mq/giorno) per il campione di regioni studiato.
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Figura 9 – Simulazione estesa alle unità di paesaggio dell’intero territorio nazionale della variazione percentuale di urbanizzazione calcolata sulle regioni campione nell’arco degli ultimi 50 anni.
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Conclusioni Come già dichiarato in altri punti del testo la ricerca in corso si sta sviluppando in due direzioni, una delle quali riguarda necessariamente il completamento della mappatura italiana delle coperture di urbanizzazione negli anni ’50 proseguendo la estrazione numerica delle informazioni dalla cartografia IGM. La seconda direzione attiene invece l’indagine delle varie forme di dipendenza tra il fenomeno della crescita urbana nel periodo e variabili di tipo diverso, di una parte delle quali si è prodotto un esempio nel presente lavoro. I settori di maggior interesse sono naturalmente quelli collegati al disegno di scenari tendenziali capaci di far emergere quadri probabilistici di evoluzione del fenomeno dispersivo dell’urbanizzazione nei prossimi decenni. Sarà interessante verificare le correlazioni, oltre che con aspetti di tipo territoriale e morfologico, anche di carattere economico e fiscale (imposte nette e redditi pro-capite). Le indicazioni che emergeranno dalla ricerca potranno costituire un orizzonte di riferimento comune alla scala nazionale per l’allestimento di dispositivi di impianto e monitoraggio soprattutto degli strumenti urbanistici di coordinamento per stabilizzare le quantità di superfici artificializzate per mezzo di indirizzi e politiche finalizzate a contenere una spinta trasformativa che sembra irrefrenabile e, ormai, anche poco giustificata dalle esigenze reali. Gli indirizzi di governo del territorio auspicabili dovrebbero orientarsi in primo luogo verso l’attuazione sistematica di azioni di recupero e di riconversione funzionale di urbanizzazioni dismesse, il che consentirebbe anche di conseguire
un importante secondo obiettivo come il compattamento delle sagome urbane mediante l’assestamento dei margini.
Figura 10 – Confronti di margine urbano: da destra in alto: Londra e Berlino, da destra in basso: Milano e Napoli (fonte: Google Earth)
Lo sviluppo delle grandi città italiane è così avvenuto con una enorme dispersione nelle aree rurali di un insediamento polverizzato con destinazioni assortite, mai selezionate e sempre meno governate da regole interpretabili, moltiplicando sistematicamente da nord a sud il modello della città “senza urbanistica”. L’ “ecotono” insediativo, in corrispondenza del quale la città finisce ed inizia la campagna, si configura in Italia come un transetto dai confini
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mai netti, con una transizione sfumata tra tessuto consolidato, tessuto non consolidato, tessuto disperso (lineare e polverizzato), sezioni residuali, degradato, aree agricole. Il contesto periurbano è sempre caratterizzato da forme che ne indicano un precario stato di preurbanizzazione. L’insediamento rurale a bassa densità, soprattutto quando però esprime socialmente un indiscutibile stile di vita urbano, è fonte di una vasta gamma di difficoltà organizzative per i servizi e i trasporti, che si aggravano quanto più le densità abitative diminuiscono e i nuclei costruiti sfuggono ad ogni organicità distributiva. Ciò comporta, ed è vero in particolare per le aree italiane centro-meridionali, l’inapplicabilità di modelli di mobilità pubblica del tipo «hub and spoke», per le diseconomie causate dal mancato soddisfacimento delle necessarie soglie di utenza e di distanza. Una organizzazione territoriale di questo tipo condanna inevitabilmente la popolazione residente alla dipendenza dal mezzo privato, con tutte le conseguenze che ne derivano sulla sostenibilità ambientale e sulla qualità della vita. Le ragioni di ciò vanno cercate nelle caratteristiche della pianificazione degli ultimi 50 anni che ha alimentato una convinzione sociale nella quale restano sempre latenti i diritti di edificazione sui terreni di proprietà, con pressioni costanti nel tempo che prima o poi trovano modo di esprimersi appena, per un qualunque motivo, si indebolisce il presidio normativo. Si aggiungano a questo i frequenti condoni edilizi (1985, 1995, 2003) che hanno sempre reso il piano urbanistico molto blando nella percezione comune, per la quale è un esercizio teorico di debole forza
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regolatrice, facilmente aggirabile e privo di effetti sanzionatori (Berdini 2010).
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producono problemi rilevanti sia nel già citato settore civico prestazionale, sia nel mosaico paesaggistico dell’hinterland urbano. Segnali evidenti in tal senso sono già stati percepiti fin dagli anni’60 e ’70, ma solamente di recente se ne va cogliendo la profonda e grave patologia a carico sia della funzionalità che della qualità degli ecosistemi e della biodiversità (Battisti e Romano, 2007).
Ferroni F., Romano B. (eds.) (2009) Ecoregioni, biodiversità e governo del territorio. La pianificazione d'area vasta come strumento di applicazione dell'approccio ecosistemico, Ministero dell'Ambiente, della Tutela del Territorio e del Mare, WWF Italia, Roma
Riferimenti bibliografici
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APAT (2005) La realizzazione in Italia del progetto europeo Corine Land Cover 2000, Rapporti 36/2005 Figura 11- Schemi differenziali, tra l’evoluzione urbana in continuità di aggregato e quella, generalizzata in Italia di tipo metastatico
Questi motivi hanno provocato una anarchia configurativa dei territori italiani, nei quali l’insediamento residenziale è sempre disperso, con impianto caotico ed evolutivamente metastatico (Fig. 11), povero di spazi pubblici e dei servizi relativi e profondamente devastante soprattutto per le trame paesaggistiche agricole e rurali comportando un aumento incontrollato del reticolo viario territoriale. E’ più che evidente, anche analizzando i disegni urbani riprodotti nella Fig. 10 e relativi ad agglomerati europei e italiani, che il «margine» può essere solo frutto di una consapevolezza e una intenzionalità progettuale e gestionale, impossibile da disgiungere da una pianificazione dotata delle necessaria capacità di influenza sugli interventi imprenditoriali e individuali. Si tratta di un concetto verso cui la politica italiana è poco recettiva, ma senza applicare il quale si
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Riferimenti iconografici Figure 1: Cartografia IGM 1:25.000 Figura 2,3,4,5,6,7,8,9,11: Elaborate dagli autori Figura 10: Google Earth
Testo acquisito dalla redazione nel mese di settembre 2011. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Paesaggi della biodiversità
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Progetto di connessione tra rurale ed urbano nei territori fragili. I paesaggi periurbani
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Project connection between rural and urban systems in the weak areas. The peri-urban landscapes
Carlo Peraboni*
abstract Marginalità, fragilità, frammentazione, coerenza, continuità, interazione sono, al tempo stesso, presupposti ed obiettivi che ispirano il progetto degli spazi periurbani. Concetti che trovano nei nuovi strumenti di governo del territorio occasioni per la definizione di progetti di connessione che consentono di ricostituire una immagine dei territori periurbani e di valorizzare la prossimità tra le diverse componenti del paesaggio.
abstract Marginality, fragility, fragmentation, consistency, continuity and interaction are assumptions and objectives underlying the design of the peri-urban areas. These concepts find in the new instruments of land government deals for the definition of projects connection that help to reconstruct an image of the peri-urban areas and to enhance the proximity between the different components of the landscape.
Parole chiave paesaggio periurbano, interazione, biodiversità
Key-words peri-urban landscape, interaction, biodiversity
marginalità,
fragilità,
marginality,
fragility,
* Politecnico di Milano
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Progetto di connessione tra rurale ed urbano nei territori fragili. I paesaggi periurbani
Una premessa Il tema della trasformazione dei territori periurbani richiama una pluralità di questioni che più volte, in questi ultimi anni, hanno sollecitato l’attenzione e il dibattito disciplinare. La questione era spesso riconducibile alla necessità di capire cosa rappresentano questi territori, definiti da alcuni autori come fragili, sostanzialmente estranei ai processi di riconfigurazione e di trasformazione che investivano i centri urbani. Questa lontananza dai luoghi centrali veniva letta attraverso una duplice interpretazione definendo, di volta in volta, territori marginali o sottosviluppati. Marginali, secondo il paradigma della modernizzazione, ovvero territori incapaci di liberare, sotto il peso di una fitta rete di relazioni sociali la creatività individualistica ed imprenditoriale; sottosviluppati, invece, in virtù della loro dipendenza, ovvero subalternità, ad accogliere le funzioni necessarie allo sviluppo delle aree più forti anche in virtù di una possibile divisione spaziale dei luoghi del lavoro (Nùñez, Nùñez, 2009; Osti, 2010). Entrambe le definizioni utilizzate per identificare questi territori subordinano il potenziale riscatto all’esigenza di sciogliere i legami sociali e le tradizioni, sia nelle pratiche sociali che nelle modalità di organizzare le produzioni e i consumi anche alla luce delle esigenze di sostenibilità che il territorio pone. Negli anni passati le soluzioni proposte per ridurre le marginalità territoriali furono l’attivazione interventi di carattere esogeno, funzionali al provocare un mutamento negli stili di vita e all’incrementare i consumi e creare nuove economie di mercato, trascurando completamente il ruolo che queste aree avrebbero potuto avere nella costruzione di una biodiversità urbana capace di coniugare valori ambientali e risorse urbane1.
complessi e rifuggono dall’individuazione aprioristica di modelli di sviluppo da imporre. Il termine fragile contiene in sé una ambivalenza; riferisce di situazioni e di elementi di difficoltà che esistono in questi territori, ma rimanda altresì anche ai rilevanti elementi di valore che li caratterizzano. Gli elementi di difficoltà sono quelli che tutti conosciamo: elementi insediativi dispersi, assenza di un sistema di servizi strutturato e riconoscibile, crescita dispersa e poco ordinata, problemi legati al tradurre in progetti attuabili le strategie di governo del territorio. Accanto a questi elementi di criticità ci sono le virtù della fragilità: patrimoni naturali rilevanti, possibilità di dare vita a processi economici integrati nell’ambiente chiudendo correttamente i cicli ecologici, utilizzo di risorse più equilibrato alla ricerca di produzioni di qualità estranee alla logica di mercati globali. Luoghi in cui è possibile progettare lo sviluppo locale misurato sul lungo periodo ed entro cui sperimentare forme di naturalità capaci di contrastare il progressivo impoverimento biologico che caratterizza gli ambienti urbani più compatti (Carrosio, 2008).
Figura 1. Una tassonomia dei caratteri dei margini urbani per la definizione di criteri di progetto (Orsi, 2009).
L’utilizzo dell’aggettivo fragile, per la descrizione di questi territori, vuole essere il tentativo di superare logiche descrittive che faticano a leggere fenomeni
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In questo senso il progetto di connessione dei territori fragili mira ad un approccio integrato e sostenibile in modo complementare alle risorse proprie del sistema urbano, rivendicando le proprie peculiarità. L’essere caratterizzato da una bassa densità ma al contempo mantenere un rapporto con le risorse ambientali degli spazi aperti permette l’attivazione di strategie tese a contrastare i fenomeni di marginalizzazione attraverso la progettazione di nuove opportunità, dotando tali aree di servizi, connettendole a reti di eccellenza urbana e ad infrastrutture per garantire prestazioni adeguate alle situazioni urbane di
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maggiore 2010).
dimensione
e
importanza
(Peraboni,
Figura 2. Brodoacre City, urbanizza circa quattro miglia quadrate, realizzando una forte ibridazione tra città e natura, tra urbanistica e paesaggistica (Wright F.L., 1934).
Il paesaggio periurbano come componente strutturale dell’ambiente contemporaneo e futuro I paesaggi periurbani costituiscono un elemento strutturale dell’immaginario paesaggistico della
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popolazione italiana in generale e delle regioni sub alpine in particolare. Si caratterizzano per l’articolata presenza di una fitta rete di elementi antropici entro cui si ritrovano rilevanti valori paesistici, spesso caratterizzati da un sistema discontinuo di spazi aperti e da elementi del patrimonio rurale. Sono luoghi entro cui si collocano elementi identitari del paesaggio locale la cui conservazione diviene prioritaria sotto il profilo della gestione del territorio e della tutela della biodiversità. I paesaggi periurbani sono sottoposti a intensi e rapidi processi di trasformazione. Questo è riconducibile ad una molteplicità di fattori: pressioni insediative legate alle trasformazioni antropiche diffuse, localizzazione di impianti tecnologici espulsi dal contesto urbano consolidato, l’addensarsi della rete infrastrutturale. I processi di trasformazione investono i territori con differenti intensità e modalità, ciò nonostante si possono identificare alcune questioni comuni. Alcune sono inerenti alla logica ed al funzionamento del mondo agrario quali ad esempio la concentrazione aziendale e i mutamenti di pratiche agricole, la necessità di rifunzionalizzazione del patrimonio edilizio tradizionale, la differenziazione tra strategie aziendali volte alla produzione intensiva e l’intensificarsi di pratiche produttive estensive. Altre sono dovute ad agenti propri della pratica urbana, quali ad esempio un aumento delle urbanizzazioni frammentate caratterizzate da una bassa intensità, la moltiplicazione delle reti di infrastrutture, l’aumento delle attività e strutture che trovano una miglior efficienza operativa se collocate in ambito periurbano. In generale, tende a ridursi l’immagine di uno spazio rurale chiaramente separato e contrapposto allo spazio urbano e si struttura progressivamente un
composito mosaico di spazi aperti e spazi costruiti, caratterizzati da una identità poco definita, ripetitiva e spesso banale, che gli abitanti faticano a percepire come propria. In questo quadro si impone un’attenzione paesistica all’omogeneizzazione e per certi versi alla banalizzazione del paesaggio rurale tradizionale non meno rilevante diviene il tema della frammentazione degli ecosistemi propri dei territori rurali, compressi tra le edificazioni a carattere agrario, gli ampliamenti di edifici esistenti (case rurali tradizionali, fattorie, ecc.), le costruzioni ausiliarie agricole (capannoni, silos, magazzini, ecc.)2. Le considerazioni sopra esposte sottolineano come nuove questioni investano il tema del progetto degli spazi periurbani, l’intervenire per creare coerenza, continuità all’interno di un tessuto articolato, frammentato e per certi versi destrutturato e ridurre le separazioni, formali e funzionali, esito di un processo di crescita per addizioni separate. I nuovi strumenti di governo del territorio, volti alla definizione di scenari strategici, permetterebbero di lavorare a proposte progettuali capaci di rappresentare occasioni di interazione, di collegamento, di valorizzazione della prossimità tra le diverse componenti del tessuto urbano ed in questo senso la connessione, intesa come una delle regole attraverso cui ricostituire una immagine dei territori periurbani, potrebbe assumerebbe significati molto differenti. Quali scenari si prospettano, quali traiettorie evolutive è possibile immaginare per poter delineare un quadro di riferimento entro cui collocare il progetto di paesaggio.
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Figura 3. Scenari di trasformazione del periurbano (Datar, 2008).
Un recente rapporto di ricerca curato da Martin Vanier e Romain Lajarge e pubblicato da DATAR (2008)3, individua per questi territori alcune strategie evolutive schematicamente riassumibili in cinque differenti scenari: • il primo scenario ipotizza la fine dalle aree suburbane ed il trionfo della sostenibilità. L’aurore osserva che nei prossimi 20 anni, l'espansione urbana cesserà a causa del crescente costo della mobilità, della scarsità di
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energia e dei sempre più stringenti vincoli ambientali. Questo porterà ad una progressivo rallentamento della dispersione delle residenze e delle attività nello spazio. La parte urbanizzata del territorio periurbano sarà densificata e gli elementi ora disposti in modo disperso saranno integrati nel tessuto urbano mentre la parte meno urbanizzata verrà pensata e vissuta come uno spazio agro-rurale, con una sua relativa autonomia funzionale. il secondo scenario ipotizza una evoluzione della periferia che si estende alla ricerca del confort insediativo sfruttando l’abbondanza di energia. Lo scenario ipotizza il fallimento delle teorie legate allo sviluppo sostenibile, elaborate alla fine del ventesimo. Non è la sobria, tantomeno la frugalità, il valore centrale dello sviluppo della prima metà di questo secolo, ma l'abbondanza un nuovo tipo di risorse, prodotte da nuove condizioni tecnologiche, in primo luogo nella produzione e nella gestione dell'energia. Questo comporterebbe che la sub-urbanizzazione possa divenire il modello dominante di organizzazione spaziale dell’era post-carbonio. Le tecnologie di energia rinnovabile, riciclo di risorse e di gestione ambientale consentirebbero la dispersione delle attività, favorendo una dedensificazione e l’utilizzo estensivo dello spazio. L’estensione dell’ibridazione periurbana diverrebbe tale da provocarne una sostanziale perdita di significato. La campagna assumerà l’aspetto prefigurato da Frank Lloyd Wright nella Broadacre City. La dispersione sarà la modalità “normale” di appropriazione del territorio da parte di una società sostanzialmente individualista. il terzo scenario ipotizza una progressiva trasformazione del complesso rapporto tra la
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città e la natura. Il periurbano assumerà un ruolo determinante nel progetto della città per la qualità dei suoi valori che saranno oggetto di tutela. Le aree agricole svolgeranno un ruolo determinante nel mantenimento della qualità ambientale della città. Il territorio periurbano, diviene un patrimonio sociale capace di determinare un aumento complessivo di valore da utilizzare per innescare nuove soluzioni progettuali con ricadute rilevanti in termini di occupazione, servizi commerciali e mobilità. Le aree periurbane divengono il luogo per sperimentare progetti originali funzionali al migliorare la qualità complessiva del territorio. il quarto scenario ipotizza il territorio periurbano quale luogo della interterritorialità o luogo di costruzione di un nuovo limite. Lo spazio periurbano diviene luogo di interazione e di raccordo tra i differenti valori presenti sul territorio occupando lo spazio al di fuori della città trasformando il periurbano come luogo entro cui si depositano e proiettano delle progettualità multiple. In questi territori la domanda non è più lo sprawl suburbano, finalizzato a fornire un’ampia capacità residenziale, l’obiettivo è altre parole progettare "lo spazio tra", che diviene strategico in qualità di luogo di esplicazione delle diverse politiche. il quinto scenario ipotizza lo spazio periurbano come luogo di sperimentazione di politiche postglobalizzazione. Il fenomeno della globalizzazione ha portato e porterà cambiamenti irreversibili nella struttura sociale dei paesi investiti e sui loro territori. Lo spazio periurbano diviene quindi luogo della conservazione dei valori “vitali”, di accumulo e rigenerazione delle preziose risorse rinnovabili ed utilizzabili a fini energetici (acqua, vento,
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Figura 4. Quadro degli interventi con indicazione delle centralità urbane coinvolte dal progetto (NRP - Nene Regional Park, 2007).
biomasse) attraverso il mantenimento di riserve di spazi aperti orientati ad un utilizzo ecologico
e densi di dispositivi tecnologici capaci di assicurare un adeguato metabolismo urbano. Un
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Progetto di connessione tra rurale ed urbano nei territori fragili. I paesaggi periurbani
periurbano iper tecnologico che consente l'esistenza della città compatta attraverso una produzione di beni ecologici. La lettura di questi scenari, interessanti e per certi versi provocatori nella loro volontà di stimolare visioni complesse, evidenzia come in ciascuno di essi si possano rilevare questioni e segni dell’agire contemporaneo; il progetto del territorio periurbano deve guardare con realismo a questi scenari riconoscendovi elementi di progettualità che potrebbero indurre una sostanziale reinterpretazione del ruolo dei territori periurbani e far esplodere una molteplicità contraddizioni per molti versi irrisolte specie con riferimento ai temi del mantenimento e della promozione della biodiversità.
La connessione, un tema per il progetto di territori periurbani biocomplessi La rielaborazione continua del rapporto tra il sistema urbano e lo spazio della produzione agricola, vista anche in chiave prospettica, è un’interessante chiave di lettura dei processi di territorializzazione della società. La lettura dei caratteri paesistici questi territori, definiti luoghi della prossimità, necessita di distinguere due differenti temi che caratterizzano il ruolo del progetto: l’attitudine ad incidere sulle forme del territorio e la capacità di orientare e governare i processi di trasformazione che lo interessano. Le forme, nel paesaggio sono l’esito di una costruzione visibile che interessa gli elementi presenti e riferiti nel territorio (le aziende agricole, i manufatti per l’irrigazione, le strutture funzionali al presidio produttivo...) mentre i processi sono gli
eventi che muovono a partire dagli attori del territorio e si trasmettono nello spazio; sono l’esito del "agire umano", vale a dire, sono combinati complessi di comportamenti umani eterogenei spesso condizionati da condizioni esterne in un determinato momento e in un contesto particolare o addirittura singolare (Poinsot, 2008). Per un lungo periodo la città ha instaurato delle relazioni originali e specifiche con il suo ambiente di riferimento nelle quali, pur nella loro diversificazione, il rapporto urbano rurale tendeva a trovare un punto di equilibrio(Camerlenghi, 2003). Con la modernizzazione l’opposizione città campagna diventa più forte, si assiste cioè ad una specializzazione dello spazio rurale che viene sempre più connotato come spazio agricolo, perdendo così le funzioni di riproduzione ambientale, sociale e culturale. Negli ultimi anni una ritrovata sensibilità relativamente al tema dell’importanza degli spazi naturali, unita al consolidarsi delle politiche di protezione, rendono sempre più evidente la relativa coincidenza tra lo spazio rurale e l’ambito della produzione agricola. Sono i temi della sostenibilità e delle ricadute ambientali che spostano l’attenzione verso un progetto dello spazio rurale capace di prevedere nuove forme di occupazione dello spazio e nuove politiche di governo. La sur-produzione degli anni ‘80 rafforza la critica ad un modello produttivo orientato alla dimensione quantitativa della produzione. La crisi di identità dell’agricoltoreproduttore che segue la riformulazione delle politiche comunitarie provoca una progressiva rottura del legame agricolturafabbisogno alimentare ponendo una domanda di riorientamento dell’uso del territorio. Le politiche di sostegno al greening in agricoltura4, le campagne
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ecologiche di recupero dell’ambiente e delle produzioni di piccola scala, portano ad un movimento di recupero e valorizzazione della cultura e della società locale e alla riorganizzazione delle politiche di sussidio agricolo, volte alla produzione di alimenti ma anche di paesaggio. In questo quadro l’agricoltura diventa una funzione capace di re-interpretare la complessità degli spazi periurbani assicurando una adeguata biodiversità ed al contempo contribuendo a contrastare il processo di marginalizzazione delle aree rurali. Si delinea un nuovo concetto di progetto di paesaggio agricolo biocomplesso5, che supera la visione vincolistica dell’area protetta, tipica del parco naturalistico, per definire una modalità integrata di progetto nella quale gli attori, istituzionali e non, collaborano per la definizione di regole condivise volte alla valorizzazione dei contesti periurbani (Dybas, 2001). E’ in questa logica che si muovono le esperienze più innovative di progetto di connessione nel contesto italiano e internazionale. Tendenzialmente si rilevano due differenti modalità di progettazione degli spazi periurbani: una prima, più legata alla promozione di strumenti di pianificazione, finalizzata all’individuazione di tessere di naturalità rilevante a partire dalle quali intraprendere azioni articolate di progetto di territorio in una logica sostanzialmente orientata in senso top-down, l’altra tesa ad intraprendere forme di partenariato tra i soggetti locali e orientata ad individuare un paniere articolato di azioni di sviluppo rurale in modo integrata agli strumenti della pianificazione istituzionale ed operando in senso bottom-up. La seconda modalità si configura come un aggregazione volontaria che mette in rete i diversi attori locali, istituzionali e non, per avviare azioni di salvaguardia e valorizzazione dei territori
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periurbani orientate alla connessione, spaziale e funzionale. In questo contesto è essenziale verificare che ciascun soggetto agisca coordinandosi con gli altri partner, e si riconosca come parte di un progetto più ampio di riconfigurazione dello spazio perturbano. Connettività non significa necessariamente collegamento fisico e diretto fra i diversi luoghi del progetto, per garantire continuità può essere sufficiente una condizione di prossimità o di connessione visuale; entrambe queste soluzioni permettono l’inclusione e l’integrazione funzionale di uno spazio nel più ampio sistema del progetto degli spazi periurbani. Le iniziative devono inoltre caratterizzarsi per una effettiva “multifunzionalità”; si tratta di una condizione importante per assicurare un contributo tangibile alla produzione di biodiversità ed assicurare l’integrazione fra le funzioni che interagiscono in un determinato ambito territoriale. È l’elemento da assicurare per distribuire i vantaggi generati dal progetto di trasformazione al contesto che le ospita e per certi versi le “subisce”. Assicurare la multifunzionalità rappresenta una inversione di tendenza, una reazione creativa6 rispetto all’approccio tradizionale di governo dell’uso del suolo dell’urbanistica, che tende a comprimere le funzioni entro zone artificiosamente omogenee. Il progetto di connessione deve essere vario e contestuale al contesto, ricco di soluzioni capaci di riconoscere gli habitat e denso di collegamenti; in senso generale capace di fornire un’ampia gamma di servizi alla città e all’ecosistema. E’ evidente che questo ambizioso risultato non può essere raggiunto assemblando e unendo porzioni di superfici marginali, aree intercluse e derelitte aventi come unico elemento distintivo il non essere
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utili per l’edificazione. Né per contro realizzarla rinchiudendola in qualche pur ampio tratto di superficie agricola posta ai margini dell’insediamento urbano. Il progetto, per esplicare la sua efficacia, deve essere integrato con i margini e con i varchi del sistema urbano, riconoscendo la natura e la composizione dei luoghi dell’ibridazione come ambiti privilegiati per la produzione di biodiversità. L’individuazione di questi ambiti è finalizzata al fornire, garantendo un processo sostanzialmente partecipato, coerenza e identità alle iniziative progettuali e a creare le condizioni per un progressivo radicamento delle iniziative nel tempo. E’ una attività orientata a definire un quadro di precondizioni per fare in modo che la nuova ruralità possa trasformarsi da condizione di fragilità a forza di innovazione e cambiamento. Il progetto richiede pertanto un approccio integrato anche relativamente alle competenze e ai saperi da coinvolgere. Occorre prevedere un gruppo di lavoro interdisciplinare e coordinato, capace di far dialogare ingegneri, architetti, esperti del paesaggio, ecologi, esperti di gestione dei parchi, urbanisti…. Sono alcune delle competenze necessarie per la buona riuscita di un progetto così complesso. Ma queste competenze dovranno confrontarsi con i saperi locali che costituiscono un patrimonio di conoscenze fortemente radicate nella cultura e nelle tradizioni regionali e tuttora capaci di incidere in misura rilevante nelle economie locali. (Sassu, Lodde, 2003). Non si tratta di redigere un piano o una vision di area vasta, capace di esprime un’immagine statica, ma un progetto strategico che assuma al proprio interno la dimensione temporale e si confronti con un articolato sistema di obiettivi. Un’immagine che seleziona e orienta le azioni, riducendo le ‘tensioni’
generate nelle comunità locali e che si realizzi attraverso la messa a punto di progetti puntuali che, a loro volta, si riconoscano nel progetto complessivo. Focus di interesse saranno gli spazi multifunzionali, i luoghi dove è presente un maggior numero di funzioni che coesistono e dove maggiori saranno le potenzialità del progetto. La multifunzionalità induce inoltre un uso efficiente del territorio, offrendo rilevanti benefici pubblici e facilitando la costruzione di partnership tra gruppi di utenti e questo porta ad una gestione più efficiente degli spazi e delle attività7. La comprensione di quali possano essere gli elementi funzionali di interesse per il territorio, capaci di operare in modo sinergico con le funzioni già insediate e valorizzando il contenuto innovativo originato dal progetto di connessione, è possibile unicamente attraverso una sistematica interlocuzione con le persone che vivono e utilizzano le strutture urbane e naturalistiche di una zona. Di grande importanza, sia per l’attivazione di questi progetti sia per assicurare la loro stabilità e il loro radicarsi nel tempo, diviene individuare, all’interno dello scenario strategico, ambiti di intervento prioritari entro i quali tutelare e implementare alcuni elementi riconoscibili come identitari, capaci di rappresentare i caratteri strutturali del paesaggio capaci anche di indurre limitazioni allo sviluppo del tessuto insediativo. La tutela di queste aree non deve essere evidentemente interpretata come vincolo, ma come una forma di sospensione temporanea delle trasformazioni insediative, finalizzata al consentire che il territorio prenda coscienza delle proprie potenzialità e attivi le proprie energie, acquistando forza e ri-organizzandosi per invertire il processo di banalizzazione in atto.
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Progetto di connessione tra rurale ed urbano nei territori fragili. I paesaggi periurbani
Non si tratta di apporre un vincolo a tempo indeterminato, ripercorrendo un approccio utilizzato per le bellezze naturali o il paesaggio, per i parchi o ancora di recente peri progetti di cinture verdi, ma di inserire nella pianificazione ordinaria sistemi di valorizzazione, dinamici e attivi, individuati in funzione di specifici obiettivi che vengono verificati periodicamente in relazione al raggiungimento degli obiettivi stessi a scala locale e sovralocale8. I contesti periurbani, forti e consapevoli della loro eterogeneità diventano, reinterpretando il loro carattere di fragilità gli ambiti entro cui sperimentare da subito le soluzioni di nuovo paesaggio complesso, incentrate su forme di rappresentazione identitaria, sviluppate attraverso metodi e pratiche condivise e innovative, funzionali a rafforzare il senso di appartenenza ai luoghi da parte degli abitanti vecchi e nuovi. Progetti volti al riconoscere all’agricoltura multifunzionale un ruolo fondamentale per la ridefinizione del rapporto e culturale e mercantile con la città contemporanea (Ferraresi, 2010) ed al contempo presidio per contrastare la perdita di complessità ambientale. In questo senso l’attività agricola diviene funzione capace di produrre “beni comuni” intesi in termini di produzioni informative interlocali, reti solidali che si interfacciano con le reti globali, relazioni commerciali e finanziarie eco solidali che sviluppano reti locali nel mercato mondiale, sistemi produttivi locali autosostenibili fondati sulla valorizzazione del patrimonio, che si relazionano nel mercato mondiale come agenti attivi di produzione di nuova qualità della ricchezza e come agenti diffusori di nuovi modelli, originali, di produzione e consumo (Magnaghi, 2007). In questa ottica il progetto di connessione tra rurale ed urbano nei territori fragili è il tradursi di
una esigenza, di un bisogno, di una idea per rispondere alla complessità di un territorio in cui il rapporto tra natura, paesaggio, lavoro e cultura è inscindibile e pertanto in questo contesto il progetto di connessione non può prescindere da una ri-costruzione attenta e mirata dei rapporti tra naturalità, ruralità e urbanità in una articolata visione di paesaggi complessi (Dybas 2001).
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di settembre 2011. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte. 1
Eugenio Turri (2008), illustra il processo di industrializzazione legato agli insediamenti petrolchimici nella valle del Po come tentativo riduzione della marginalità dei territori. 2 Francesco Jodice (2004) raccoglie immagini e suggestioni legate alla progressiva modifica del paesaggio della pianura, che ha ormai assunto caratteristiche diverse date dalla compresenza di numerose funzioni sullo stesso territorio: agricole, commerciali, industriali, abitative, ricreative... 3 La DATAR, Délégation interministérielle à l’aménagement du territoire et à l’attractivité régionale è un servizio di pianificazione nazionale attivo dal 1963 che alle dipendenze del Primo Ministro promuove e coordina le politiche territoriali (http://territoires.gouv.fr/) 4 La Commissione è al lavoro per definire l’insieme delle misure ambientali di sostegno all’agricoltura, il tema centrale risulta essere l’inverdimento (greening); il dibattito su questa componente è molto forte ed accesso. C’è ancora grande incertezza su come rendere questa startegia capace di incidere sulla qualità dei territori: si parla genericamente di sostegno a iniziative ambientali che vadano al di là della condizionalità ma al momento
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non esiste un elenco esaustivo delle pratiche agricole che riceveranno il sostegno nell’ambito della componente “verde” dei pagamenti diretti. La Commissione ha attualmente al vaglio le seguenti misure: – mantenimento e difesa della copertura vegetale; promozione della diversificazione produttiva (rotazione delle colture); – incentivazione di pascoli e prati permanenti; – potenziamento del set aside ecologico; – sostegno all’agricoltura biologica. 5 L’American Institute of Biological Sciences definisce la biocomplessità come una categoria interpretativa che, partendo dalla biodiversità, consente di comprendere meglio il nostro ambiente facendo interagire. La National Science Foundation, definisce la biocomplessità come “l’insieme dei fenomeni che nascono da interazioni dinamiche che avvengono all'interno dei sistemi biologici e tra questi sistemi e l'ambiente fisico". 6 Andreas Kipar presentando il progetto Fluidum Landscape Energy alla rassegna Culture_Nature, ricorda “In un’epoca in cui le città appaiono sempre meno codificabili, registrano il ritmo di una smisurata crescita demografica e vedono l’incontrollato consumo di suolo pubblico, questa superficie libera offre l’opportunità di manifestare una reazione creativa e di recupero dell’antico legame tra uomo e suolo.” http://www.culturenature.it/it/architetti/kipar.html 7 Un esempio dell’interazione multifunzionale si ritrova nelle molteplici iniziative intraprese negli ultimi anni: dalla redazione della Carta dell’agricoltura periurbana che riconosce l’esigenza di mantenere un tessuto consolidato di connessione tra la città e la campagna, attraverso il contributo di un’agricoltura sostenibile e fortemente relazionata con il territorio urbano, all’iniziativa 3A. Agricoltura, Alimentazione e Architettura che ha proposto nella cornice delle iniziative del Salone del mobile di Milano tre ambiti di riflessione tematica che hanno come comune denominatore il progetto degli spazi aperti. 8 In questo senso appare utile sottolineare il contributo atteso dalle procedure di valutazione ambientale strategia (VAS) che accompagnano le pianificazioni; il monitoraggio delle iniziative e la capacità di traguardare agli obiettivi previsti potrebbe aprire ad una modalità di valutazione in
itinere capace di suggerire adeguamenti e correzioni di percorso.
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Paesaggi della biodiversità
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Paesaggi in gioco
Manifesto “Paesaggio biodiversità”
zero
per
la
The Paesaggio manifesto
Zero
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biodiversity
Ippolito Ostellino *
abstract Con questo saggio introduttivo alla pubblicazione dei lavori della IIa Biennale Paesaggio zero si intende fornire un contributo intorno alle riflessioni sul tema della Biodiversità, e dare riscontro del percorso seguito e dei temi affrontati. Sintesi utile per il raggiungimento degli obiettivi che il Countdown 2010 si era dato, per rilanciarli e proporli nella nuova prospettiva di attuazione del programma. Il saggio è anche occasione per illustrare le attività che l'Ente e l'Osservatorio del Paesaggio hanno svolto, descrivendo casi concreti di contributo al lavoro a favore della Biodiversità, e con questi casi campione fornire una serie di buone pratiche ed esempi da utilizzare o dai quali partire per la costruzione di cantieri ed attività concrete a favore del programma di mantenimento della diversità in particolare biologica.
abstract This is the introductory essay of the Biennal Landscape Paesaggio Zero – second Edition. It aims to enrich the debate about Biodiversity, on thinking it over to achieve a proposal in line with the target of the Countdown 2010. Moreover, the essay explains the activity of the Landscape Observatory (Parco Po is one of the partner), telling practical actions in biodiversity conservation, protection and development. That are, in fact, good practices to assume as examples to achieve in particular target of biological conservation of species.
parole chiave Lasciare più spazio alla Naturalità, Pensare alla natura come ambiente denso di segni, Riconoscere la natura come parte del nostro abitare, Riconoscere alla natura un ruolo progettuale, Affermare l'importanza di conoscere le dinamiche naturali a scala micro, Legare naturalità e progetto economico del territorio: business & biodiversity.
key-words To leave more room for naturalness, To think of nature as a place full of signs, To recognize nature as part of our living, To acknowledge a planning role to the nature, To affirm the importance of nature at the micro scale, To link natural and economic aspects of a specific territory: business & biodiversity
* Direttore Osservatorio del Paesaggio dei parchi del Po e della Collina torinese
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Manifesto Paesaggio zero e Biodiversità Il manifesto Paesaggio zero nel 2008, anno della sua pubblicazione, ha richiamato l'attenzione sulla sequenza di principi che sono stati raccolti in questa collana di espressioni: Alleggerire/ Ritrovare i vuoti/Leggere lo spazio aperto/Riconoscere il proprio paesaggio/ Ridare valore all’utopia concreta/Innovare con responsabilità conoscendo i meccanismi della natura e della materia/Costruire un progetto territoriale e comunicarlo per la sua condivisione con il tessuto sociale ed economico. Il manifesto era partito dall'assunto che una determinata circolarità, descritta da queste affermazioni, poteva rappresentare un percorso per “Riguardare la Natura”: “Il bisogno di ricondurre i contesti dell’abitare di oggi a contesti di maggiore qualità ambientale e vivibilità è una delle condizioni per rendere sostenibili i luoghi del vivere quotidiano. [...] Guardare meglio alle regole ambientali per tentare di ritrovare un dialogo con le dinamiche naturali ed evitare di fermare la capacità di costruire progetti di società, è la necessità a cui si deve guardare, costruendo modelli di sviluppo ispirati al principio dell’innovazione”. Un percorso che doveva saper “Integrare Conservazione e Azione”: “Di qui il passo è breve sul pensare a come il rapporto fra “fare architettura e natura” nella nostra società dello sviluppo si sia evoluto in senso negativo, e come oggi questo rapporto sia messo in forte discussione allorquando il concetto della sostenibilità ambientale ha iniziato a contaminare le azioni del costruire e del progettare. Il Manifesto del Terzo paesaggio ne è l’esempio più limpido, laddove fra le pieghe della continua opera di trasformazione del paesaggio Gilles Clément ha, come un paleontologo, rintracciato nei margini, lungo le
Manifesto “Paesaggio zero per la biodiversità”
strade o lungo i fiumi, quelle zone di abbandono dove si è riscoperta la presenza della diversità della vita, quella parte della vita che il costruire sta relegando a reietta, fino a determinare la perdita della biodiversità, la grave conseguenza della rarefazione pericolosa della ricchezza della vita sulla terra. E’ una tappa che ci riporta nuovamente all’immaginare la presenza di una sotterranea trama di fenomeni e regole naturali che oggi come ieri governano la storia naturale di un territorio che, dentro di sé possiede la dimensione di un Paesaggio Zero, di un insieme di risorse che al tempo T° (Tzero) erano fra loro organizzate senza l’influenza antropica e che hanno poi iniziato una storia di relazioni con la crescita della società umana sulla terra e la nascita di nuovi Paesaggi, i primi, i secondi, i terzi paesaggi”. Dalla necessità di passare dalla tutela passiva a quella attiva la proposta ha guardato alla necessità di individuare “Strade per nuovi vuoti ad alta densità di significato” sostenendo che: “La tesi di Paesaggio zero non cede alla tentazione di fermare la crescita ma invece sottolinea la necessità di determinare ora una pausa e di ripensare a quale equilibrio trovare perché i nuovi pieni, per essere sostenibili, portino in se e siano espressione di un progetto complessivo che riserva contemporaneamente vuoti ed altri spazi. Un paesaggio che afferma il valore del necessario contro il valore dell’ostentazione del fare alla quale opporre, in questo caso, l’opzione zero. […] La riflessione si sposta quindi all’immaginare un’architettura che progetta terre, acque e spazi ispirandosi ad alcuni principi che rimandano e recuperano modelli che contengono in sé l’attenzione ai valori della storia naturale di un territorio alla sua dimensione Zero, senza dimenticarli mai, includendoli nell’atto stesso del
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costruire, del trasferire un’immagine della società e della sua economia sulla “pellicola” del territorio e cercare di recuperare i fondamenti di un approccio progettuale rispettoso dei limiti imposti dalle regole dei fenomeni naturali”. Di qui ci si è mossi per pensare ad un nuovo progetto che guarda al principio della continuità declinato nelle dimensioni spaziale, virtuale, formale e di coerenza territoriale e con queste premesse la Biennale Rarità Naturali ha inteso sviluppare il tema del rapporto con la problematica e la categoria della Biodiversità, divenuta di interesse Internazionale, con il Countdown 2010. Una questione Biodiversità
di
principi
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merito
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A premessa è importante richiamare alcuni concetti di ordine generale, indispensabili per inquadrare adeguatamente il tema biodiversità. Il primo è quello di ricordare che la categoria biodiversità fa riferimento a diverse tipologie come: Diversità alpha: Consiste nel dato numerico (ricchezza di specie). Costituito dalla ricchezza specifica, cioè il numero di specie che caratterizzano una comunità e dall’equiripartizione (o evenness), che esprime il grado di ripartizione delle abbondanze tra le singole specie di una comunità. Diversità beta: (relazioni tra alpha e gamma). Diversità gamma: Riguarda le comunità, grado di cambiamento della diversità specifica tra le comunità distinte presenti in un ecosistema. Diversità delta: (relazioni tra gamma ed epsilon). Diversità ipsilon: Va sviluppata a livello territoriale (unità di habitat). Questa tematica è poi, in secondo luogo, una tematica di carattere fondamentale per l'equilibrio
Paesaggi in gioco
della vita sulla terra. Richard Leakey & Roger Lewin hanno con chiarezza ricordato che: "L'Homo sapiens è sul punto di provocare una delle più gravi crisi biologiche, un'estinzione di massa, la sesta di questo tipo in mezzo miliardo di anni. E noi, Homo sapiens, potremmo anche essere tra i morti viventi." Le estinzioni cui i ricercatori fanno riferimento sono state, è utile ricordarlo: 1. Ordoviciano superiore (circa 444 milioni di anni fa) Glaciazioni con tasso del 85% 2. Tardo Devoniano (circa 375 milioni di anni fa) Impatti asteroidali (?) con tasso del 82%. 3. Permiano- Triassico (circa 251 milioni di anni fa) Impatto meteoritico e vulcanismo con tasso del 96%. 4. Triassico- Giurassico (circa 180 milioni di anni fa) Variazione climatica con tasso del 76%. 5. Cretaceo- Terziario (circa 65 milioni di anni fa) Impatto meteoritico con tasso del 76%. Questo è il contesto nel quale ricondurre il tema evitando quella comune propensione che tende ad associare la conservazione del patrimonio naturale di biodiversità alla salvaguardia dall’estinzione di specie rare, perchè di tali specie si parla nei mezzi di comunicazione di massa, mentre la tematica è di natura ben più vasta (Sandro Pignatti). Infine, è da ricordare un’ultima dimensione del problema: "[…] La questione del paesaggio e la questione ambientale paiono sempre più spesso associate. Molte sfide che la questione ambientale ha gettato sul tappeto riguardano congiuntamente la conservazione della natura e quella del paesaggio. La lotta contro la perdita di biodiversità, ha sempre più allargato i propri obiettivi sulle implicazioni culturali, dunque paesistiche, delle dinamiche evolutive, ponendo al centro dell’attenzione la diversità bio-culturale e le sue
variazioni per effetto della globalizzazione” (Roberto Gambino). È questa una prospettiva che fa dell'argomento un tema di interesse etico e culturale e che ci rinvia per qualche verso anche al pensiero di Edward O. Wilson, che definisce i rapporti che gli esseri umani cercano, anche inconsciamente, di stabilire con la natura come ”biofilia”; una traccia della nostra storia evolutiva ancora reperibile tra le caratteristiche peculiari dell’indole umana, di quando i membri della nostra stessa specie Homo sapiens vivevano nella savana africana in stretto rapporto con la natura (Wilson, 1999). La strategia Regionale del Piemonte Il tema affrontato dalla Biennale ha poi un secondo scenario di riferimento, che vuole essere un elemento di riflessione generale. Le nostre strategie di lotta contro la perdita di biodiversità non possono limitarsi ad azioni puntuali e sporadiche, ma devono collegarsi ad un piano locale generale: ed alla nostra scala è quello del territorio regionale il contesto di riferimento. Per tale ragione il tema posto da rarità naturali è divenuto uno degli esempi di progetto integrato di rilievo regionale, ed è entrato nel quadro delle azioni presentate e incluse nel rapporto sullo Stato dell'Ambiente della Regione Piemonte per il 2010. Nell'ambito del capitolo del Rapporto Regionale alla definizione delle attività nel settore “Natura e Biodiversità”, sotto la voce “La tutela della biodiversità: strumenti e azioni” i temi affrontati sono stati infatti i seguenti: Siti Natura 2000; Aree di Interesse naturalistico; Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità, Paesaggio zero - Rarità naturali; Le zone umide: l’importanza
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di un censimento; La normativa; Il progetto di censimento delle aree umide. Alla successiva voce “Le minacce alla biodiversità: l’importanza delle indagini conoscitive e degli strumenti di analisi” i temi sono stati i seguenti: Le piante esotiche nelle Alpi piemontesi; L’Interreg “Biodiversità: una risorsa da conservare”; Biodiversità della fauna edafica in quota; Farfalle in ambiente alpino: cambiamenti nella composizione di comunità durante gli ultimi 30 anni; La Rete Fenologica forestale del Piemonte. Collocare questa strategia nell'ambito delle azioni regionali ha tuttavia un altro significato: quello di poter sviluppare azioni coordinate generali sui temi sollevati. Ma il tema è anche stato di rilevanza per l'approccio comunicativo e per il significato di coniugazione fra il tema scientifico e quello di intreccio fra i diversi temi ed aspetti, che lo stesso programma della Biennale riassunto in questi atti testimonia. Significativo è richiamare infine che tale attività si colloca in un programma regionale che si muove su due linee: 1. la prima collegata alla redazione del Piano Paesaggistico Regionale che per la prima volta integra con forza il tema della rete ecologica con i programmi di pianificazione; 2. la seconda è connessa invece all'altro persorso legislativo e normativo legato alla redazione della Carta della Rete Ecologica Regionale voluta dalla legislazione in materia di aree protette. Due percorsi che in realtà devono trovare un punto di sovrapposizione e coordinamento e nei quali l'auspicio è che si trovino i contesti per collocare le politiche connesse alla tutela della biodiversità, alle quali partecipino i progetti locali.
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Ad esemplificazione è interessante riportare la matrice degli indicatori di sistema del Ppr. Nell’ambito del processo di Vas sono stati infatti assunti come indicatori di sistema i parametri analizzati per definire gli Ambiti di paesaggio, in quanto strumenti idonei a riprodurre lo scenario di riferimento paesaggistico. I parametri utilizzati per definire gli Ambiti di paesaggio sono assunti nella Vas come indicatori di sistema, ovvero strumenti per costruire lo scenario di riferimento paesaggistico. Con il format proposto, di cui di seguito si riporta uno stralcio, si è cercato di restituire in forma di indici qualitativi il processo concettuale sotteso all’individuazione degli Ambiti, segnalando all’interno delle quattro matrici analizzate quei fattori che per grado di riconoscibilità e di persistenza contribuiscono, in termini più significativi, a definire la caratterizzazione identitaria di ciascun ambito. Dai contenuti di tali parametri appare evidente come la problematica sia correlata e sottesa in un contesto di valori multipli, che solo se letti nella loro integrazione possono fornire lo strumento per gestire l'aspetto relativo della matrice fisico ecosistemica. I progetti locali1 Attraverso le attività dirette al recupero ambientale e della biodiversità e di quelle condotte nel campo della ricerca che delle opere per il recupero di numerose situazioni degradate del territorio, si possono individuare i progetti svolti dal parco del Po torinese quali progetti locali e mirati a specifiche situazioni territoriali. Soprattutto occorre ricordare
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Riportiamo nella seconda parte del saggio, la scheda del programma editata dal rapporto regionale 2010.
Manifesto “Paesaggio zero per la biodiversità”
che nel 2009 l’Ente ha assegnato due borse di studio: i preziosi risultati delle ricerche contribuiscono a dare vita alla Mostra della Biennale e sono da considerarsi indispensabili per poter costruire un quadro degli interventi da attuare e necessitano di una progettualità di ricerca. Studio delle connessioni ecologiche esistenti tra nodi ad alta valenza ambientale nel territorio del Parco del Po torinese e trasposizione cartografica con GIS (Relatore G. Boano, Borsista M. Stassi). Obiettivo dello studio è stato la valutazione dell’attuale funzionalità della rete ecologica del Parco, l’individuazione di ulteriori nodi ad alta valenza ambientale, la determinazione di linee guida per la gestione dell’attuale rete ecologica e per il suo successivo miglioramento con trasposizione cartografica della stessa. Sono state individuate e caratterizzate 96 stazioni differenti all’interno o nei pressi degli attuali confini del Parco, ogni stazione è stata visitata almeno due volte nel periodo tra marzo e ottobre. Sono stati raccolti dati sulla flora per caratterizzare i siti di studio all’interno di un transetto di 50m x 20m, considerando solo le specie con una copertura maggiore del 5%, per ogni sito è stata infine compilata una scheda utilizzando le linee guida del censimento delle zone umide della Provincia di Torino. L’indagine è stata condotta nelle aree umide e negli specchi d’acqua all’interno e in prossimità del territorio del Parco. Indagine conoscitiva dei taxa e habitat riferiti alla Direttiva 92/43/CE nel territorio del Parco del Po (Relatore R. Sindaco, Borsista I. Ellena). Obiettivo dello studio è fornire delle valutazioni sulla distribuzione, densità e uso degli habitat delle specie di anfibi e odonati presenti all’interno del Parco, con particolare attenzione a quelle elencate
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negli allegati della Direttiva 92/43/CE. Si è quindi proceduto ad accertare la presenza delle specie target e caratterizzare gli ambienti nei quali sono presenti attraverso monitoraggio su campo e successiva trasposizione cartografica utilizzando software di analisi GIS. Il monitoraggio è stato effettuato secondo le indicazioni della Societas Herpetologica Italica. Il metodo consiste nell’effettuare mezz’ora di ricerca per almeno tre volte durante la stagione riproduttiva in ogni sito di interesse. Il periodo di campionamento è stato da marzo a ottobre per entrambi i gruppi, localizzano in aree umide e specchi d’acqua all’interno del territorio del Parco e in due siti in prossimità dei suoi confini. Gli altri esempi di progetti locali, descritti per schede, sono: Progetto interreg acqua - progetto ittiofauna. L‘obiettivo del progetto è stato la definizione di procedure e di metodologie standardizzate al fine di migliorare il livello di conoscenza e il monitoraggio dello stato ecologico degli ambienti umidi. Ogni Ente partecipante al progetto (6 parchi regionali piemontesi geograficamente afferenti all’ambiente alpino, Parc regional du Queyras, Parc National du Mercantour, Conseil Superior de La Peche) si è occupato di studiare, approfondire e condividere con i partner aspetti diversi del monitoraggio degli ecosistemi acquatici di riferimento, patrimonio di conoscenze acquisite e le metodologie di indagine messe a punto. Il Parco del Po torinese, in particolare, ha definito un Indice Ittico dei corsi d’acqua, finalizzato ad estrapolare un valore ecologico dell’ambiente fluviale dal punto di vista faunistico - ittiologico. Progetto pelobate – Comune di Carignano. Il progetto consta in un’indagine specifica sulla presenza del Pelobate fuscus insubricus (pelobate
Paesaggi in gioco
fosco italiano)nell’Area Attrezzata del Po morto di Carignano e più in generale alla mappatura degli anfibi presenti. Il progetto si è svolto con 18 uscite serali nei mesi di marzo e aprile (del 2008) applicando il metodo di censimento al canto con idrofono, ricerca visiva con strumenti di illuminazione e retini nelle zone umide del Po morto di Carignano e negli ex bacini di cava di Tetti Faule e Gai. Progetto stop versazione ornitologica e osservatorio faunistico dei vertebrati. Il progetto prevede il monitoraggio ornitologico, faunistico e ambientale lungo il corso del Po mediante procedure di inanellamento scientifico degli uccelli, censimenti e ricerche in campo ambientale lungo l’asta del fiume. Un monitoraggio specifico è stato apprestato del bosco del Gerbasso nella RNS della Lanca di San Michele a Carmagnola, dove è attiva una stazione di inanellamento fissa dal 1997. Competizione tra lo scoiattolo grigio americano e lo scoiattolo europeo. Scopo del progetto è creare una rete di controllo e monitoraggio della distribuzione e della consistenza delle popolazioni di scoiattolo comune e di scoiattolo grigio, costituendo un gruppo di lavoro tra Aree protette, l’Università di Torino e la Regione Piemonte; ulteriore obbiettivo è valutare la vocazionalità dell’ambiente in relazione alle esigenze ecologiche dello scoiattolo, attraverso la stima della produzione energetica dei boschi e valutare la correlazione tra la consistenza delle popolazioni e le variabili ambientali, grazie alle tecniche GIS di analisi cartografica. Scala di risalita pesci - La loggia. Il progetto di realizzazione di una scala di risalita a La Loggia trae origine dalle azioni previste nel protocollo di intesa siglato nel 2003 da Regione Piemonte, Provincia di Torino, Ente Parco del Po ed AEM
Torino, per la realizzazione di una sperimentazione di rilasci idrici delle traverse AEM alla Diga del Pascolo ed a La Loggia, nello specifico per poter superare lo sbarramento di 7 m costituito dalla diga Iride. E’ attualmente in corso la progettazione di una scala di risalita che permetterà all’ittiofauna di superare tale salto artificiale, che causa una frammentazione degli habitat con effetti negativi su tutto l’ecosistema acquatico e impoverimento della diversità specifica e della biomassa. Il progetto Molinello – Moncalieri. L’area denominata del Molinello si estende per una superficie di circa 14 ha su di una fascia in destra idrografica del Po a nord della tangenziale, confinante con ampie zone agricole attraversate da strade poderali che la congiungono con la vicina statale (SS n. 20). Gli interventi previsti nell’ambito del progetto sono: bonifica; riqualificazione dell’area in funzione selvicolturale e di riequilibrio ecosistemico; valorizzazione dell’area tramite interventi di lavorazione del terreno; un’area incolta sarà lasciata prevalentemente ad evoluzione naturale; realizzazione di due zone umide; collocazione di una bacheca informativa e collocazione di un cartello nella piazzola di pesca. Riqualificazione e caratterizzazione ambientale Settimo Torinese. L’area compresa tra la SS 11 (Torino-Chivasso) e la sponda idrografica sinistra del Fiume Po è da tempo un’area soggetta al degrado e ad utilizzi impropri (orti abusivi, zone di abbandono rifiuti). I risultati delle indagini saranno ripresi ed interpretati nel Documento di Analisi di Rischio in fase di elaborazione. Ad oggi i risultati delle indagini di caratterizzazione hanno evidenziato la potenziale contaminazione di tutto il sito e soprattutto la presenza di rifiuti diffusi anche sul suolo, tra i quali pezzi di lastre di eternit (materiale contenente fibre di amianto).
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L’applicazione dell’analisi di rischio sanitaria ambientale specifica consentirà la definizione del grado di contaminazione e l’eventuale riperimetrazione del sito. Progetti nella riserva naturale speciale del Baraccone – Comuni di Cavagnolo e Brusasco. Il Parco del Po Torinese, in virtù di una convenzione con i Comuni di Brusasco e Cavagnolo stipulata nell’aprile del 2001, ha intrapreso un’azione di valorizzazione dei territori compresi nella Riserva Naturale Speciale della Confluenza della Bora Baltea, detta Riserva del Baraccone. La presenza di significative proprietà forestali pubbliche all’interno della Riserva consente di intervenire realizzando economie di scala e perseguendo obiettivi naturalistici molto più difficilmente raggiungibili in altre situazioni, soprattutto di tipo patrimoniale. Percorsi fruitivi – Verolengo. Le aree comunali e demaniali comprese tra il Rio Corno Chiaro e l’alveo del Fiume Po in Comune di Verolengo sono stata oggetto di interventi infrastrutturali realizzati dal Parco del Po Torinese mirati alla fruibilità dell’ambiente naturale attraverso la creazione di percorsi e attrezzature. Progetto hortocampus. Adeguamento dei sistemi di fruizione e recupero dell’agroecosistema dell’area attrezzata Le vallere - Moncalieri Hortocampus è costato 751.596 euro, di cui 493.525,02 finanziati dal Docup 2000-2006 (gruppo di progetto: Arch. G. Beltramo capogruppo Dr. G. Blanchard Dr. M. Bricarello Arch. P. Gallo Arch. M. Stanchi). L’intervento si è posto l’obiettivo di dare una prima attuazione a parte delle previsioni della Scheda progettuale n. 9 del Piano d’Area del Parco fluviale del Po, che mira a garantire, nella proprietà non regionale dell’Area Attrezzata Le Vallere, il permanere delle attività agricole, ed il recupero ambientale e paesaggistico delle sponde del fiume
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Po. Nel loro insieme, gli interventi mirano a costituire un tassello per la ricostruzione della rete ecologica dell’area metropolitana torinese e per l’incremento della sua qualità ambientale, anche attraverso l’incentivazione ed il recupero delle attività agricole che ricadono all’interno di tali aree. In particolare, gli interventi eseguiti e le azioni promosse sono: realizzazione di collegamenti ciclopedonali con percorsi esistenti; separazione fisica dalle aree che ospitano gli impianti da golf mediante la realizzazione di una trama verde a spessore differenziato; promozione di un processo di trasformazione economica e sociale del territorio locale, finalizzato a recuperare e valorizzare, all’interno dell’area di intervento, attività agricole orientate a produzioni orticole di qualità a bassissimo impatto ambientale; tale attività è oggetto di un protocollo d’intesa sottoscritto dall’Ente Parco con Comune di Moncalieri e Coldiretti. La maggiore problematica riscontrata è stato il completamento delle procedure di acquisizione ed esproprio di numerose particelle catastali, necessarie per la realizzazione del Progetto, con un costo economico rilevante e un grosso dispendio di risorse umane in un’intensa opera di interlocuzione con i soggetti privati interessati da tali procedure. I progetti di Area Un secondo ordine di scala di progettualità sono quelle legate a processi territoriali di area vasta, che mirando a contribuire al riordino di un insieme di risorse territoriali, opera su scelte pianificatorie e di sistemazione ma di complessi di beni o di percorsi di connessione. Corona verde: un progetto di scala metropolitana. Un esempio significativo a tale proposito è il
Manifesto “Paesaggio zero per la biodiversità”
progetto CORONA VERDE nel quale l'ente ha svolto sia un ruolo di definizione generale che quello legato alla realizzazione di PROGETTI IN AREA PARCO DOCUP2000-2006. Il progetto interessa un'area di 161.560 ha per una popolazione di 1.760.000 ab e comprende Aree Protette 19.939 ha (12,34% dell'area), oltre a Aree Natura 2000 per 13.684 ha (8,47% dell'area). La prima sua fase di applicazione è stata oggetto di un investimento complessivo 15.000.000 nell'eurodocup 2000-2006 mentre con D.G.R. del 04/08/09, n. 89-12010 nella stessa fase di programmazione la Giunta Regionale del Piemonte ha adottato il Progetto Corona Verde. Programma Operativo Regionale FESR 2007/2013 Asse III: Riqualificazione territoriale Attività III.1.1 Tutela dei beni ambientali e culturali. Il Progetto Sistema della Corona Verde, lanciato nel 1997 con un documento programmatico elaborato da un gruppo di aree protette regionali limitrofe alla città su proposta del Parco fluviale del Po torinese, è stato varato operativamente nel 2001 con la predisposizione dello Studio di Fattibilità, curato da Finpiemonte. Nel 2003, a seguito dello stanziamento di 12.500.000 euro (D.G.R. n. 208927 del 7 aprile 2003) inseriti nel DOCUP 20002006 (Asse 3 Sviluppo locale e valorizzazione del territorio, Misura 3.1 Valorizzazione della programmazione integrata d'area, Linea di intervento 3.1b Sistema della Corona Verde), è stata avviata la prima fase attuativa che ha consentito il finanziamento di 30 interventi promossi da Comuni ed Enti Parco dell'area metropolitana torinese. Al fine di sostenerne l'implementazione e di definire un quadro di riferimento strategico ed un sistema di governance a sostegno dello sviluppo e del consolidamento del Progetto, la Regione Piemonte Settore
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Pianificazione Aree Protette, con Determinazione Dirigenziale n. 110 del 16 marzo 2005, ha affidato al Politecnico di Torino - Dipartimento Interateneo Territorio, l'esecuzione di un programma di ricerca relativo allo sviluppo di un'ipotesi di pianificazione strategica e del relativo sistema di governance per l'attuazione del Sistema della Corona Verde. Riordino attività estrattive dell'area FauleMoncalieri. Mediante l'applicazione del Piano d'Area del territorio protetto sono stati definiti ed avviati i progetti di recupero delle aree estrattive presenti al momento dell'istituzione dell'area protetta. Il sistema delle aree estrattive attualmente operanti nell'area tra Moncalieri e Casalgrasso costituirà nei prossimi anni il principale ambito di trasformazione del paesaggio del Parco del Po torinese: al termine dell'attività estrattiva, infatti, le aree di cava entreranno a far parte del patrimonio pubblico e saranno oggetto di un complesso intervento di riqualificazione teso a costituire un articolato sistema naturalistico e fruitivo lungo oltre 15 Km. Ciò avverrà in virtù dell'attuazione del Piano d'Area del Po (art. 3.10) che impegna le imprese ad avviare nei prossimi anni, contestualmente al proseguimento delle attività di estrazione, interventi di riqualificazione ambientale dei lotti progressivamente dismessi in accordo con le prescrizioni stabilite dall'Ente Parco del Po Al completamento delle opere e ad avvenuta cessione di tutte le aree, pertanto, questa porzione di territorio si configurerà come un grande ambito completamente recuperato dal punto di vista della qualità ambientale. L'Ente Parco del Po intende promuoverne la piena fruizione mediante la predisposizione di un programma unitario di riqualificazione finalizzato a costituire il Parco dei Laghi di cava del Po. Un progetto ambizioso che si propone di mettere a sistema le aree estrattive
Paesaggi in gioco
riqualificate e valorizzare il grande potenziale paesaggistico, ecologico, storico che questa area rappresenta all'interno del sistema di Corona Verde. Il disegno di questo nuovo scenario si fonderà su tre criteri: il primo di carattere storicopaesaggistico, mirato al restauro dell'agromosaico storico e del sistema delle cascine, del reticolo di percorsi e della rete irrigua; il secondo di carattere ecologico, mirato ad accrescere il patrimonio di biodiversità dell'area tramite la ricostituzione della vegetazione ripariale e l'addensamento del reticolo di siepi e filari alberati; il terzo di carattere fruitivo, mirato alla realizzazione di un sistema di accessibilità e di luoghi attrezzati per un articolato ventaglio di attività ricreative. I progetti educazione
di
comunicazione,
fruizione
e
Il marchio turistico territoriale Po Confluenze Nordovest. Con la Marca Turistica del Po ispirata ai luoghi delle confluenze tra i fiumi e il Po, il Parco fluviale del Po torinese e l’ATL Turismo Torino e Provincia hanno proposto un nuovo modo di guardare e di fruire il fiume. Dopo tanti decenni di abbandono i fiumi di tutta Europa stanno tornando in prima pagina per le bellezze e le sensazioni che sanno donare. È per questo motivo che abbiamo proposto una marca come modo per ritrovare un territorio intorno al Po lungo la Provincia di Torino ed a cavallo con quelle di Cuneo e di Vercelli. Il Masterplan dell'area Po dei Laghi rappresenta un’articolazione operativa e progettuale del marchio turistico. Il Territorio del Fiume è di grande fascino ed in esso sono già presenti luoghi di interesse e fruibilità, ma accanto a questi convivono spazi di degrado. Inoltre il fiume è anche spesso di difficile accessibilità. Per questa ragione il
Parco del Po torinese, nell'ambito delle iniziative per programmare l'utilizzo fruitivo e turistico del territorio del Parco del Po torinese e delle attività connesse al marchio turistico e territoriale Po Confluenze Nord Ovest gestito con l'ATL Turismo Torino e Provincia,, ha pensato di realizzare un grande masterplan di progetto del territorio, con il contributo finanziario dell'UNIMIN (rappresentanza dell'Unione Industriale nel settore estrattivo) e della Regione Piemonte, Assessorato alla Cultura e Turismo, partendo dall'area del Po dei Laghi, ovvero quella posta fra Moncalieri e Lombriasco al confine con la Provincia di Cuneo. Si tratta di un territorio nel quale il fiume scorre in un ambiente agricolo e dove, intorno ad esso, sono presenti realtà di recupero ambientale, legate in particolare alle attività estrattive, che stanno concludendo i lavori di riqualificazione, con la prossima cessione a patrimonio pubblico di centinaia di ettari di aree a lago, di boschi e di sponde riqualificate e sentieri fluviali. Questo patrimonio deve essere messo in rete con tutto il territorio circostante, dove sorgono altri beni importanti, culturali e storici, racchiusi fra le grandi emergenze di Stupinigi e Racconigi. Questo è l'obiettivo del Masterplan, individuando le attrezzature e gli spazi che consentano una fruizione integrata delle risorse presenti come: il sistema dei laghi di cava che può essere trasformato in un insieme coordinato di spazi destinati alla fruizione ed al turismo, nelle diverse tipologie (da quello didattico, a quello sportivo, a quello naturalistico, a quello storico cultuale), integrato con le altre risorse territoriali presenti di valenza storico-culturale e con la rete dei beni naturalistici ed ambientali; il sistema dei beni culturali (storici, architettonici, museali, del patrimonio immateriale e delle tradizioni) che rappresenta un insieme di valori che possono
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costituire il più diretto ed efficace veicolo di attrattività del territorio, a patto di inserirli in un piano fruitivo e di conoscenza integrato. A tale sistema è indirizzato in particolare il riconoscimento progettuale al programma del Po dei Laghi, assegnato dalla Direzione Cultura e Turismo, Settore Musei e Patrimonio Culturale. Il Progetto Biennale Paesaggio Zero. Il 2010 è stato dichiarato dall'Onu "Anno internazionale della biodiversità", intendendosi con questo termine, di origine inglese (biodiversity), la varietà di forme viventi (animali, vegetali, habitat, ecc.) presenti in un determinato luogo. Il tema scelto per l'edizione 2010 della biennale è stato pertanto quello della biodiversità nel territorio dei parchi del Po e della Collina torinesi e le rarità naturali in esso presenti. La biennale 2010 si è articolata in quattro differenti eventi: un seminario, una mostra un trekking letterario (in collaborazione con Scuola Holden) ed un laboratorio di narrazione per le scuole. L'evento "Rarità Naturali - Paesaggio zerO" si articola in due momenti principali. Il primo momento, a carattere scientifico, si rivolge in particolar modo a professori, studiosi, tecnici, studenti e borsisti. Questo primo momento è composta da un seminario e da una mostra scientifica. Il secondo momento, a carattere culturale, intende trasmettere il paesaggio del fiume e delle colline torinesi attraverso forme espressive quali la letteratura e la danza. Un programma Paesaggio zero
per
la
Biodiversità
di
La serie di azioni ed esempi raccolti nei paragrafi precedenti, sono porzioni di un unico percorso che il manifesto della Biennale propone per la realtà del territorio indagato dalle indagini sulla Biodiversità
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presentate. Un percorso ispirato alla necessità di uscire da un atteggiamento non organico e costruire un progetto integrato che può essere composto dalle seguenti parole chiave: 1. rete ecologica come rete di paesaggi 2. titolarita' pubblica e regia pubblica per i progetti di biodiversità 3. professionalita' per le culture tecniche 4. ricerca e conoscenza 5. manutenzione e gestione degli interventi nel tempo 6. econo-sostenibilità del progetto: business & biodiversity Parole chiave che nel caso del manifesto di Paesaggio Zero-Rarità Naturali sono così declinabili: - LA RETE ECOLOGICA: IL TELAIO DELLA BIODIVERSITÀ, PROGETTO SOSTENIBILE SE INTERPRETATA COME RETE DI PAESAGGI. Per il raggiungimento del progetto di conservazione della biodiversità è evidente come prioritariamente sia necessario costruire un progetto di Infrastruttura Verde dove le iniziative di costruzione delle rete ecologica siano parte di un Progetto di Paesaggio. Le iniziative di costruzione delle connessioni ecologiche o sono già individuate sulla base dei contesti territoriali dati o rischiano di essere interventi isolati e soprattutto non compresi e condivisi a scala locale. La rete ecologica può esistere se intelaiata con l'Infrastruttura Verde composta dalla Rete Storico-Insediativa e da quella Fruitiva, se connessa ad una Rete di Paesaggi. Il singolo intervento naturale non può ottenere un risultato duraturo se non è parte di un programma correlato con il resto del telaio infrastrutturale. Le diverse azioni di trasformazione devono infatti calarsi su una realtà con un disegno infrastrutturale che indirizzi viabilità, insediamenti, usi produttivi,
Manifesto “Paesaggio zero per la biodiversità”
usi fruitivi. In assenza di ciò il progetto non può essere compreso alla scala locale, o resta la strada di valutarlo a progetti fatti, in sede di VIA, dove al limite si può intervenire, mitigando o compensando: ma non sarebbe meglio evitare guasti dall'origine del pensiero insediativo? Ecco perchè il progetto di paesaggio locale e di infrastruttura verde è il telaio indispensabile per collocare i progetti per la biodiversità. - LA RETE COSTRUITA SU BASI TERRITORIALI A TITOLARITÀ PUBBLICA ED A REGIA PUBBLICA. Troppo spesso il tema della titolarità delle aree dove si ipotizza di effettuare gli interventi è sottovalutata. Occorre costruire invece percorsi amministrativi e di investimento per poter entrare in possesso delle aree demaniali e dei beni pubblici, nelle quali attuare politiche e progetti di rinaturazione e sviluppare progetti in aree strategiche per poter giungere alla loro acquisizione. In questo senso l'urbanistica, le azioni di carattere perequativo e urbanistico, devono essere ricondotte a questo obiettivo, legando trasformazioni dell'urbano e dei diversi tessuti del costruito con i progetti per la biodiversità. Ma altro filone è quello nel quale le politiche di sistema dell'uso del bene pubblico siano costruire, senza cedere troppo semplicisticamente a processi tabellari di cartolarizzazioni di questi beni. E' una condizione essenziale per poter operare: ad esempio nella fascia fluviale la messa a sistema di questi beni e la loro gestione unitaria sarebbe già un grande passo avanti per la costruzione di una fascia di elevata qualità ecologica e biologica del fiume e dei corsi d'acqua in generale. - AVERE CULTURE E PROFESSIONALITÀ. Dotare le aree protette e la struttura regionale delle aree protette di uno staff tecnico che possa affrontare con le competenze necessarie il tema Biodiversità,
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sulla base di un metodo standard condiviso. Il ruolo delle aree protette è cardine nei prossimi impegni che la carta della natura presuppone in applicazione della nuova legge sulle aree protette. E' questo il tema dei saperi e delle competenze, un sapere che troppo spesso non è riconosciuto e sul quale non si investe a sufficienza, anche solo mettendo in rete le conoscenze già esistenti. INVESTIRE IN RICERCA LOCALE E ISTITUZIONALE. Sviluppare progetti di ricerca locali, con borse di studio, stage, ricerche universitarie e attività di diverse in collaborazione con Associazioni e strutture locali, oltre che agire su un piano regionale di coinvolgimento del Museo Regionale di Scienze Naturali. Corsi e borse di studio, campagne di studio e conoscenza, sono indispensabili momenti del gestire con oculatezza ed una nuova occasione per riprendere il concetto di einaudiana memoria: “Conoscere, discutere, decidere”. - INSERIRE LA CULTURA DELLA BIODIVERSITÀ NELLA MANUTENZIONE E GESTIONE. Attuare in tutte le piccole azioni gli elementi base della Biodiversità, nelle manutenzioni ordinarie nelle mille attività quotidiane di gestione, costruendo un patto con le Organizzazioni Agricole, per un progetto Biodiversità e Agricoltura ed aprendo scenari di lavoro che costruiscano modelli di gestione economica, anche fuori dai soliti canoni di monetizzazione, per andare verso la gestione di servizi e di scambio, come anche nel settore della costruzione di fondi finanziari nuovi, aprendo la stagione degli “oneri paesaggistici e della biodiversità” accanto a quelli già noti come “oneri di urbanizzazione”.
Paesaggi in gioco
ECONO-SOSTENIBILITÀ DEL PROGETTO: BUSINESS & BIODIVERSITY. Individuare forme di gestione economica del territorio che garantiscano le risorse e la sostenibilità nel tempo del mantenimento e conservazione degli ambienti e sviluppare una politica delle imprese in tal senso. In merito importanti esempi sono stati già sviluppati come lo studio dal titolo «Economia degli ecosistemi e della biodiversità» (The Economics of Ecosystems and Biodiversity, TEEB), un'iniziativa della Commissione europea e della Germania, in collaborazione con numerosi altri partner. La prima pubblicazione, ovvero la relazione intermedia TEEB del maggio 2008, ha rappresentato un primo tentativo di produrre un quadro quantitativo globale e ha valutato la perdita annuale dei servizi ecosistemici in 50 miliardi di euro. Secondo la relazione, se l'attuale scenario dovesse rimanere immutato il costo in termini di perdita della sola biodiversità terrestre entro il 2050 sarebbe pari al 7% del PIL, con una sostanziale perdita nei servizi forniti dagli ecosistemi marini. La relazione contiene raccomandazioni quali l'adozione di misure per porre termine alle sovvenzioni dannose per l'ambiente e la creazione di «mercati» per i servizi ecosistemici. Da questi esempi dobbiamo partire per un corretto piano di investimenti e per dare forma ad un programma di sostegno alla gestione della biodiversità, un pezzo della nostra economia. Sulla base di queste linee guida locali e secondo questi principi, che crediamo siano esportabili ed applicabili in altri contesti, la biennale Paesaggio zero ritiene di fornire il proprio contributo al tema della biodiversità, rendendolo operativo, denso di progetti e di iniziative di comunicazione, elemento centrale per la crescita della consapevolezza che i
concetti della diversità devono avere nel pensare contemporaneo.
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di Aprile 2011. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
Figura 1. Stralcio matrice indicatori di sistema.
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Paesaggi della biodiversità
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paesaggi in gioco
Un approccio paesaggistico nelle politiche di tutela della natura: verso il Piano di Azione per la tutela della biodiversità della Regione Toscana
Landscape approaches in environmental protection policies: Tuscany Biodiversity Action Plan.
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the the
Leonardo Lombardi*, Paolo Matina**, Andrea Casadio**, Antonio Pollutri***
abstract Nel 2011 la Toscana sarà la prima Regione italiana a completare il processo di costruzione del Piano di Azione per la biodiversità, che si inserirà in modo organico nel più generale Piano Regionale di Azione Ambientale di cui alla L.R. 14/2007. La redazione del piano è il risultato del lavoro di un elevato numero di soggetti: Pubblica Amministrazione, Università, Enti di ricerca toscani, professionisti, associazioni ambientaliste e portatori d'interesse. Il Piano di Azione individua i valori di biodiversità da conservare, le pressioni umane che li minacciano, gli obiettivi di conservazione e le azioni da realizzare. Tra i principali temi del piano emerge la conservazione del paesaggio agricolo tradizionale, la gestione forestale sostenibile, i cambiamenti d'uso del suolo e la diffusione di specie aliene. Gli aspetti qualificanti del processo sono il coinvolgimento ed il contributo delle politiche di settore chiave per la biodiversità (agricoltura, selvicoltura, pianificazione territoriale, aree protette) e l’approccio paesaggistico e d'area vasta.
abstract In 2011 Tuscany will be the first Region in Italy to complete a building process of a Biodiversity Action Plan. We have been designing that plan thanks to the contribution of a great number of person from Tuscan universities and research centres, technicians from public administrations, practitioners and also with the participation of civil society groups such as environmentalists and stakeholders influenced by the plan. The Biodiversity Action Plan selects biodiversity targets, identifies human threats to those values, establishing goals and actions. The plan's main subjects are high natural value and traditional agricultural landscapes, sustainable forest management, changes in land use and land consumption. The qualifying aspects of the process are the engagement and the contribution of policy makers of key areas for biodiversity (such as agriculture, forestry, land use planning, protected areas) and landscape and wide-area approaches.
parole chiave Biodiversità, paesaggio, banca dati naturalistica, Piano di Azione, minacce, partecipazione, azioni di conservazione, reti ecologiche.
key-words Biodiversity, landscape, action plan, sharing groups, stakeholder, naturalistic data base, conservation actions, threats, ecological network.
* NEMO srl Firenze; ** Settore Tutela e Valorizzazione delle Risorse Ambientali, Regione Toscana; *** WWF Italia-Area Conservazione
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L’importanza dell’approccio paesaggistico nelle politiche di conservazione della biodiversità. La biodiversità quale paradigma del paesaggio. Nelle politiche di tutela della biodiversità, come in generale nelle politiche di tutela ambientale, gli strumenti di pianificazione di area vasta, ed in particolare quelli finalizzati alla tutela e conservazione dei paesaggi, sono componenti essenziali e di crescente importanza. Tale assunto, in una regione come la Toscana, la cui ricchezza principale e riconosciuta nel mondo, oltre ai beni artistici, è appunto il suo particolare e pregiato paesaggio, riveste un significato ed un valore del tutto particolare e dal quale ogni azione di governo e di tutela ambientale non può prescindere. La conservazione della biodiversità, allora secondo tale approccio, può essere meglio perseguita mediante la comprensione dei processi naturali e delle trasformazioni umane alla base degli attuali assetti paesistici, tenendo conto altresì della evoluzione storica degli stessi. La diversità alla scala di paesaggio è un obiettivo della conservazione della natura ed è un elemento insito nella stessa definizione di paesaggio quale elemento composto da “… un gruppo di ecosistemi interagenti che si ripetono in modo riconoscibile in un intorno” (Forman e Godron, 1986) e, come indicato dal Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, una “parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni”. La stretta interrelazione tra biodiversità e paesaggio è espressamente richiamata nel preambolo della Convenzione Europea del Paesaggio e costituisce un elemento centrale nell’ambito delle recenti Strategie Nazionale e dell’Unione europea per la
Un approccio paesaggistico nelle politiche di tutela della natura
tutela della biodiversità al 2020, e costituisce un assunto fondante della stessa azione delle istituzioni e della governance toscana. Il mantenimento dei processi naturali e delle attività antropiche che hanno portato alla creazione dei caratteristici e spesso unici paesaggi toscani costituisce il presupposto per la conservazione della biodiversità e degli elementi naturalistici di maggiore interesse conservazionistico della Toscana. Tale elemento è peraltro riconosciuto dalla stessa LR Toscana 56/2000 e succ. modif. che basa la tutela della biodiversità sulla conservazione non solo delle “specie animali selvatiche e delle specie vegetali non coltivate”, ma anche degli “habitat”, delle “altre forme naturali del territorio”, dei “geotopi”1 e delle “aree di collegamento ecologico funzionali”2. Quest’ultimo strumento, elemento centrale delle reti ecologiche, evidenzia l’interesse verso grandi scale, come quella di paesaggio, nella conservazione della biodiversità. La conservazione e il ripristino della connettività ecologica fra gli ambienti naturali è uno degli strumenti che consente di mitigare il loro isolamento e i conseguenti effetti sulle comunità, le popolazioni e gli individui. I «corridoi ecologici», assicurando una continuità fisica tra ecosistemi, hanno come obiettivo principale quello di mantenerne la funzionalità e conservarne i processi ecologici (flussi di materia, di energia, di organismi viventi). Nell’ambito del paesaggio antropizzato molte popolazioni animali e vegetali risultano infatti caratterizzate da metapopolazioni, cioè da popolazioni distribuite in habitat isolati a livello di paesaggio, la cui vitalità dipende dalla quantità di habitat idoneo residuo ancora disponibile e dalla possibilità di connessione tra tali habitat residui. Corridoi ecologici ma soprattutto una elevata permeabilità ecologica del territorio (connettività
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diffusa) costituiscono il presupposto per una ottimale conservazione della biodiversità e dei valori naturalistici di un territorio. La Regione Toscana, partendo da questi presupposti e dalla consapevolezza dell’elevato valore ambientale del suo territorio, ha attivato nel 2008 un processo di redazione del primo Piano di Azione per la tutela della biodiversità a livello nazionale che vede nel Repertorio Naturalistico Toscano una preziosa fonte di dati. In considerazione dell’importanza e della strategicità di tale piano, ad oggi non previsto dalla disciplina regionale, è intendimento della Regione Toscana, prevederne l’inserimento, quale “pezzo” essenziale nel più generale del Piano Regionale di Azione Ambientale di cui alla L.R. 14/2007.
Figura 1. Alpi Apuane: Massiccio calcareo del M.te Tambura visto dalle praterie del Passo Sella nel Parco Regionale delle Alpi Apuane, area ricca di habitat di interesse comunitario e rare o endemiche specie di flora e fauna.
paesaggi in gioco
Dalla formazione del Repertorio Naturalistico Toscano al Piano di Azione per la biodiversità: il progetto RENATO La Regione Toscana possiede un ricchissimo patrimonio di biodiversità, costituito da numerose specie animali e vegetali e da un diversificato mosaico di habitat ed ecosistemi naturali e seminaturali. Circa 100 habitat di interesse comunitario o regionale, 914 specie di flora e fauna di elevato valore conservazionistico, rare o endemiche, costituiscono gli "elementi di eccellenza" della nostra biodiversità, in una Regione che ospita ben 3250 specie di flora, 84 specie di mammiferi, 421 specie di uccelli, 19 di anfibi, 22 di rettili, oltre 60 specie di pesci ed un ricchissimo patrimonio di invertebrati spesso di elevato interesse conservazionistico La disponibilità di banche dati naturalistiche e di dati aggiornati sulla presenza e distribuzione di habitat e specie in un determinato territorio costituisce un prezioso supporto per la predisposizione di efficaci politiche ed azioni di conservazione della biodiversità. La Regione Toscana dal 1997, su iniziativa dell’ex ARSIA e del Dipartimento delle Politiche ambientali e territoriali della Regione Toscana, dispone di una apposita banca dati denominata RENATO (Repertorio NAturalistico Toscano). Si tratta di un repertorio naturalistico ottenuto mediante la raccolta, l’approfondimento, la riorganizzazione e rielaborazione delle conoscenze disponibili sulle emergenze faunistiche, floristiche e vegetazionali, di ambito terrestre, presenti sul territorio toscano. Con l’aggiornamento al 2005 della banca dati RENATO (attualmente in corso di aggiornamento al 2010) le liste di attenzione contengono 1091 elementi relativi ad habitat, fitocenosi e specie,
elementi confluiti nei target del presente Piano di Azione. Un dato interessante deriva dall’analisi dei rapporti tra distribuzione di specie/habitat delle liste di attenzione di RENATO e il sistema di Aree Protette. Complessivamente, gli areali delle segnalazioni di specie sono comprese per circa il 23% all’interno delle aree protette (che interessano oltre il 10 % del territorio regionale) e per circa il 31 % all’interno dei SIR (che interessano oltre il 14 % del territorio regionale). Tali valori differiscono tuttavia molto tra i vari gruppi, ed assumono significati diversi; in particolare, i valori medi sopra citati sono in buona parte determinati da quelli dei gruppi più numerosi, come la flora (circa il 40% del numero totale di specie di RENATO) e gli insetti (quasi il 35%), che assumono valori superiori a quelli di tutti gli altri gruppi, ad eccezione di anfibi e rettili. Tale dato dimostra la notevole importanza delle aree protette quali insostituibili forzieri di biodiversità, ma anche la necessità di affrontare le politiche di conservazione della biodiversità mediante approcci di area vasta e di tipo paesaggistico per conservare i valori naturalistici diffusi nel territorio “non protetto” ove sono presenti gran parte degli areali delle specie di maggiore interesse conservazionistico. L’analisi dei dati contenuti nel progetto RENATO ha evidenziato quindi la necessità di attuare una politica di conservazione della biodiversità non legata soltanto al tradizionale sistema di Aree Protette e di Siti Natura 2000 ma in grado di esplicitarsi su tutto il territorio toscano, con un approccio di area vasta, multidisciplinare e multisettoriale, in grado di coinvolgere tutte le politiche di settore, dall’agricoltura alla gestione
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forestale, dalla tutela delle acque al paesaggio e alla pianificazione urbanistica. Su tali premesse è quindi nato il progetto di Piano di Azione regionale per la tutela della biodiversità che ha visto nella Regione Toscana la prima esperienza pilota in Italia.
Figura 2. Coste rocciose calcaree del Monte Argentario, una delle aree di maggiore interesse naturalistico della Toscana.
Il Piano di Azione per la Conservazione della Biodiversità Struttura, contenuti del piano ed individuazione dei target di conservazione Il processo di costruzione del Piano di Azione per la biodiversità in Toscana è iniziato ufficialmente il 5 maggio 2008, a Firenze, con una tavola rotonda tenutasi all’Auditorium del Consiglio Regionale. Con questa iniziativa pubblica sono stati coinvolti
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attivamente i tecnici delle amministrazioni pubbliche e le istituzioni universitarie e della ricerca scientifica regionali, per convogliare nel Piano tutto il potenziale di conoscenza disponibile in Toscana, soprattutto quello non sistematizzato secondo i rigorosi criteri utilizzati in campo scientifico, ma indispensabili ai fini della realizzazione di un prodotto con evidenti ricadute pratiche. Un processo basato quindi sulla conoscenza degli esperti che integra e valorizza quanto già prodotto e accessibile nella banca dati RENATO. In quell'occasione la Regione Toscana ha sottoscritto con il WWF Italia un protocollo d’intesa finalizzato alla predisposizione, in tre anni, di un Piano di Azione regionale per la conservazione della biodiversità coerente con gli obiettivi indicati dagli accordi comunitari ed internazionali. Le società NEMO srl di Firenze e Lynx srl di Roma, costituiscono i referenti tecnici principali del Piano di Azione. Partendo dal quadro delle conoscenze naturalistiche disponibili, reperibili grazie alla banca dati RENATO e ai saperi degli esperti, il primo fondamentale passaggio della costruzione del Piano di Azione è stato quello della scelta dei valori di conservazione (chiamati Target) su cui focalizzare la progettazione degli interventi. La tesi è che attraverso la loro idonea gestione è possibile tutelare una parte importante del patrimonio naturalistico di valore in Toscana. Successivamente l’analisi si è concentrata prima sulla identificazione delle principali attività umane influenti negativamente sui target (pressioni e minacce) e poi sulla definizione di ipotesi di intervento finalizzate a ridurne o controllarne l’impatto. Parallelamente a questa iniziativa a favore della biodiversità terrestre, grazie alla disponibilità di ARPAT Mare che ne mantiene la guida, è stato
Un approccio paesaggistico nelle politiche di tutela della natura
attivato un processo, sincronizzato e parzialmente integrato, di definizione di un Piano di Azione per la biodiversità marina, con analogo approccio e informato dai risultati del progetto BioMaRT.
(università, singoli esperti), ed associazioni ambientaliste. Attualmente il vasto sodalizio conta circa 200 soggetti. Inoltre, al termine di ogni annualità di progetto, si portano a conoscenza del pubblico, in appositi workshop a Firenze, i risultati del lavoro. Il primo anno di lavoro del piano ha prodotto una lista di 15 target di conservazione, di cui 12 di tipo ambientale e 3 target geografici, quest’ultimi individuati in considerazione della loro elevata ricchezza di biodiversità e per la necessità di una loro gestione complessiva:
Figura 3. Isola d'Elba: Cima del M.te Volterraio con i resti del castello e con i tipici arbusteti spinosi delle montagne mediterranee nell'ambito del Parco Nazionale Arcipelago Toscano.
Il processo di costruzione del Piano, tra i suoi scopi, ha quello di coinvolgere sin dalle prime battute gli attori regionali con responsabilità e competenze ritenute fondamentali e/o che potranno assumere un ruolo importante nella sua implementazione. Per questo sono stati realizzati alcuni gruppi di lavoro (tavoli tecnici) partecipati da Enti pubblici e gestori di Aree protette (Province, Enti parco, Agenzie regionali, Corpo forestale dello Stato, ecc.), i diversi uffici regionali (aree protette e biodiversità, agricoltura, foreste, acque, difesa del suolo, paesaggio, urbanistica, ecc.), il mondo scientifico
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1. Ambiti costieri sabbiosi caratterizzati da complete serie anteduna / duna / retroduna e da formazioni dunali degradate. 2. Coste rocciose calcare e silicee. 3. Aree umide costiere ed interne dulcacquicole e salmastre, con mosaici di specchi d’acqua, bozze, habitat elofitici, steppe salmastre e praterie umide. 4. Ambienti fluviali e torrentizi, di alto, medio e basso corso. 5. Agroecosistemi tradizionali ed altre aree agricole di valore naturalistico 6. Ambienti rocciosi montani e collinari, calcarei, silicei od ofiolitici, con pareti verticali, detriti di falda e piattaforme rocciose. 7. Ambienti aperti montani ed alto-collinari, con praterie primarie e secondarie, anche in mosaici con brughiere e torbiere. 8. Macchie basse, stadi di degradazione arbustiva, garighe e prati xerici e temporanei. 9. Foreste di latifoglie mesofile e abetine. 10. Boschi planiziari e palustri delle pianure alluvionali. 11. Foreste e macchie alte a dominanza di sclerofille sempreverdi, latifoglie termofile.
paesaggi in gioco
12. Ambienti ipogei, grotte e cavità artificiali, campi di lava, sorgenti termali e sistemi di falda. 13. Arcipelago Toscano. 14. Alpi Apuane ed Appennino Tosco Emiliano. 15. Monte Argentario. Il lavoro relativo al primo anno di processo di piano si è inoltre arricchito con i contributi relativi ai licheni (Dipartimento di Biologia Vegetale Università Firenze) alle briofite (Dipartimento Scienze Ambientali, Università Siena), alla Biodiversità agraria (ex ARSIA) e alla Biodiversità del Suolo (Associazione Italiana Pedologi).
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sommatoria degli impatti che questi esercita sui vari habitat/specie, ottenendo in questo modo il valore dell’impatto complessivo che ciascun fattore ha in ciascun target. L’analisi delle principali pressioni e minacce effettuata trasversalmente ai diversi target ha consentito di evidenziare i fattori maggiormente significativi e più impattanti sulla biodiversità toscana. Come pressioni sono stati considerati gli impatti presenti o passati e come minacce gli impatti futuri o previsti, applicando la nuova definizione nell’Adopted Reporting frame work dell’Unione Europea e nel recente 2° Report del Ministero dell’Ambiente sullo stato di attuazione della Direttiva Habitat.
Individuazione delle pressioni e minacce Al fine di valutare il grado relativo d’importanza delle numerose pressioni e minacce alla biodiversità, durante la seconda annualità del progetto è stata realizzata l’analisi delle priorità di conservazione per habitat e specie dei target. A livello di habitat sono risultati a maggiore priorità di conservazione quelli legati agli agroecosistemi tradizionali (ad esempio le Biancane del senese), alle aree umide e agli ecosistemi dunali. Relativamente alle specie emergono in particolare i Molluschi (con le due 2 specie a maggiore priorità di conservazione), pesci e uccelli. Il valore di priorità di conservazione di un habitat/specie moltiplicato per l’intensità con cui si esercita su di esso una particolare pressione “n” (valore di priorità di conservazione x intensità), fornisce una misura dell’impatto che un particolare fattore ha su un particolare habitat/specie. Per ogni pressione, relativamente a ciascun target è stata calcolata la % di habitat/specie sulle quali il fattore influisce e per ciascun fattore è stata calcolata la
PRESSIONI/MINACCE PRINCIPALI 1. 2. 3. 4. 5.
Riduzione del pascolo e dei paesaggi agricoli tradizionali Consumo di suolo e frammentazione per urbanizzazione e infrastrutture Specie aliene Inquinamento delle acque e inadeguata gestione idraulica Cambiamenti climatici
ALTRE PRESSIONI/MINACCE O LOCALIZZATE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
Turismo Inadeguata gestione forestale Caccia e pesca Incendi Danni da ungulati Erosione delle coste Attività estrattive e minerarie Invasione di una specie
Figura 4. Agroecosistema tradizionale con praterie pascolate in alto Mugello, nel Sito di Importanza Comunitaria Valle di Firenzuola. Gli agroecosistemi tradizionali costituiscono un importante target di conservazione del piano della biodiversità.
Diffusione di specie aliene, cambiamenti climatici e perdita di paesaggi agricoli tradizionali costituiscono, non solo due importanti pressioni attuali, ma anche importanti minacce alla biodiversità in quanto probabilmente devono ancora manifestare parte dei loro effetti negativi. L’individuazione ed analisi delle principali pressioni ha evidenziato come la gestione del paesaggio con finalità conservative costituisca un elemento indispensabile per perseguire gli obiettivi del piano. La perdita di paesaggi agricoli tradizionali, le modifiche nell’uso del suolo ed i processi di frammentazione rappresentano oggi le principali pressioni sulla biodiversità. Tali pressioni non possono certo essere affrontate solo alla scala locale o di sistemi di Aree protette o di Siti Natura
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2000, ma mediante la realizzazione di politiche di tutela del paesaggio, di azioni in grado di coinvolgere le politiche agricole, forestali e di sviluppo urbanistico. Le trasformazioni socio-economiche avvenute nel secondo dopoguerra sono state caratterizzate anche dalla riduzione delle attività agricole e silvo pastorali montane in numerose aree appenniniche economicamente più depresse e svantaggiate. In numerose aree della Toscana si sono attivati processi di spopolamento dei centri montani e di abbandono delle attività agricole, comprese quelle di sistemazione e manutenzione delle terre coltivate. Ciò sta comportando perdita di habitat, variazioni delle popolazioni di specie legate a questi habitat e significative trasformazioni alla scala di paesaggio. La minaccia alla biodiversità associata a questi fenomeni interessa in particolar modo gli agroecosistemi tradizionali, gli habitat e le specie delle praterie montane, brughiere, prati aridi e garighe ed i tre target geografici con particolare riferimento alle Alpi Apuane e all’Appennino Tosco Emiliano. In aree di pianura alluvionale interne o costiere, ed in aree collinari caratterizzate da produzioni agricole ad alto reddito, il processo opposto di intensificazione delle attività agricole, con colture intensive ad alti livelli di meccanizzazione, di consumo idrico e di uso di fertilizzanti e prodotti fitosanitari, ha prodotto una altrettanto negativa perdita di agroecosistemi tradizionali, a cui si associano fenomeni di trasformazione dell’uso agricolo del suolo per urbanizzazione ed infrastrutture. I processi di consumo e di modifica degli usi del suolo, per urbanizzazione e realizzazione d’infrastrutture, costituiscono infatti un elemento di criticità particolarmente
Un approccio paesaggistico nelle politiche di tutela della natura
significativo nelle pianure alluvionali e nelle aree costiere della Toscana. A livello italiano ed europeo questi due processi complementari d’incremento dell’intensità delle trasformazioni antropiche e di abbandono dell’agricoltura hanno causato una negativa ed estesa omologazione del paesaggio e costituiscono una grave minaccia per la tutela della biodiversità.
Azioni di conservazione La costruzione del Piano di Azione verrà portata a termine nell’ultima parte del 2011. Sarà questo l’anno della scelta e della prioritizzazione degli interventi rivolti direttamente ai Target e di quelli finalizzati al controllo e mitigazione delle pressioni e minacce. Per ogni target saranno quindi stabiliti obiettivi operativi e, per ciascuno di essi, saranno individuate le azioni secondo le seguenti tipologie: • • • • •
Figura 5. Fioritura autunnale della verga d'oro marina Solidago litoralis, specie endemica dei litorali sabbiosi della Toscana settentrionale
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Misure regolamentari ed amministrative Incentivazioni Programmi di monitoraggio e/o di ricerca Programmi didattici Interventi attivi
In quest’anno, fondamentale per la costruzione di un Piano efficace, l’aspetto della condivisione e del coinvolgimento vedrà un ulteriore momento d’enfatizzazione grazie al confronto costruttivo con gli attori del Piano stesso influenzati da esso e/o in grado di determinarne l’effettiva implementazione. Ci saranno momenti ufficiali di discussione su obiettivi ed azioni, aperti alla partecipazione degli interessati, sia da un punto di vista territoriale, che tematico. A questo scopo il Piano di Azione ha realizzato un processo di Analisi degli Stakeholder il cui prodotto finale, d'estrema utilità pratica, è una vera e propria Rubrica degli Stakeholder a cui si è giunti grazie ad un'attività di "reconnaissance" degli attori del Piano che verrà concluso effettivamente solo a chiusura del progetto. Un primo risultato fondamentale del Piano di Azione sarà la sensibilizzazione dei diversi settori della Regione sull’opportunità di organizzare un coordinamento effettivo in fase di programmazione, e poi in fase di gestione, delle politiche settoriali incorporando nel metodo il principio della
paesaggi in gioco
trasversalità dell'azione rivolta alla biodiversità, che non si può esaurire nell'attività di un unico Assessorato ma che implica l’impegno coordinato delle diverse politiche di settore.
IRPET, Il futuro della Toscana tra inerzia e cambiamento. Sintesi di TOSCANA 2030, Regione Toscana, Firenze 2009. IRPET, Urbanizzazione e reti di città in Toscana. Rapporto sul territorio 2010, Regione Toscana, Firenze 2010. Millennium Ecosystem Assessment, Ecosystems and Human Well-being: Biodiversity Synthesis. World Resources Institute, Washington, DC 2005. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Convenzione sulla Diversità Biologica. 4° Rapporto Nazionale, 2009. Ministero dell’Ambiente e della tutela del Territorio e del Mare, Strategia Nazionale per la biodiversità, 2010. Regione Toscana, Piano Regionale di Azione Ambientale (PRAA). Del.C.R. 14 marzo n.32, 2007. Regione Toscana, ARPAT, 2009 – Relazione sullo stato dell’ambiente in Toscana 2009. Sposimo Paolo, Castelli Cristina, (a cura di), La biodiversità in Toscana. Specie e habitat in pericolo. RENATO. Regione Toscana, ARSIA, Museo di Storia Naturale Università degli Studi di Firenze, Firenze 2005.
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Forma naturale del territorio, di superficie o sotterranea, costituita da particolari emergenze geologiche, geomorfologiche e pedologiche, che presenta un rilevante valore ambientale, scientifico e didattico, la cui conservazione è strategica nell’ambito del territorio regionale. 2 Un’area che, per la sua struttura lineare e continua o per il suo ruolo di collegamento, è essenziale per la migrazione, la distribuzione geografica e lo scambio genetico di specie selvatiche.
Riferimenti iconografici Figura 6. Berta maggiore: Pullus di berta maggiore Calonectris diomedea, fotografata a Pianosa. Gli uccelli marini costituiscono una priorità di conservazione nelle isole dell'Arcipelago Toscano.
Figure 1-6. Archivio NEMO srl
Riferimenti bibliografici European Commission, Biodiversity protection — beyond 2010. Priorities and options for future EU Policy. Report from WG B) Block 1 — Biodiversity and Climate Change. European Commission, Brussels 2009. Forman Richard T.T., Godron Michel, Landscape Ecology, J. Wiley and Sons, New York 1986.
Testo acquisito dalla redazione nel mese di maggio 2011. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Paesaggi della biodiversità
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Paesaggi in gioco
Paesaggi rurali sardi tra biologiche e mixité urbana1
diversità
Sardinian rural landscapes biodivesity and urban mixité.
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between
Adriano Dessì*
abstract Studiare il paesaggio rurale consente oggi, in modo forse unico, di coniugare la duplice valenza paesaggistica come fatto sempre culturale (Roger, A., 1996) legato alle consuetudini e agli habitus che si istituiscono tra comunità e territorio e come fatto sempre ecologico ed ecosistemico, inscindibilmente dipendente dalla grande questione contemporanea del rapporto tra biodiversità e azione umana. Infatti, nonostante sia sempre più difficile riconoscere una variabilità delle forme e delle strutture locali del paesaggio, potrebbe oggi apparire necessario riscoprire quelle peculiarità e quelle diversità alla base dei paesaggi rurali storici, che consentono di specializzare e di rendere sostenibili quelle azioni sul territorio altrimenti solo mirate ad una sua evoluzione produttiva.
abstract Today, an insight into rural landscapes offers the peculiar opportunity of matching together a twofold conception of landscape. On the one hand we have the landscape meant as an always cultural fact (Roger A. 1996) – that is, a landscape deeply related to the customs and habitus established between communities and territory. On the other, we have a conception of landscape conceived as an always ecological and ecosystem fact, deeply rotted in the current issue about the relationship between biodiversity and human action. Although a differentiation between local landscapes’ structures and forms is increasingly more difficult to be found, it seems indispensable a rediscovery of those peculiar features that characterize historic rural landscapes in order to make projectual actions on the territory more specific and sustainable, and thus not only targeted to productive purposes.
parole chiave paesaggio rurale, biodiversità, urbanità, sistema, paesaggio storico, architettura.
key-words Rural landscape, biodiversity, urbanity, agrosystems, historic landscape, architecture.
agro-
* Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Cagliari
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Diversità di paesaggio e paesaggi delle diversità. Se infatti si considera il significato più generale di «diversità biologica» non solo come «diversità nell’ambito delle specie», ma anche e soprattutto 2 come variabilità «tra le specie degli ecosistemi» , l’importanza di questi paesaggi è associata all’alternanza che nei territori rurali esiste tra ecosistemi naturali e agro-sistemi storicizzati, in quanto espressioni sia dell’attività di modificazione antropica – alla base del paesaggio culturale - sia della permanenza delle specie naturali e del rafforzamento dei loro habitat. La prima ipotesi che si è sviluppata sulla base anche di studi e ricerche precedentemente condotti in ambito regionale e continentale, è che questa difficoltà di individuare forme invarianti nel paesaggio rurale sardo, sia ancora superabile grazie alla permanenza diffusa di una certa variabilità biologica degli ordinamenti colturali storici, che possiamo individuare e classificare anche da un punto di vista morfologico e delle strutture del paesaggio. La scelta dell’ambito regionale sardo come luogo esplorativo di forme storicizzate del paesaggio rurale è apparso, in tale direzione, particolarmente adatta allo sviluppo di una linea metodologica di ricerca che tentasse di trovare strumenti operativi per la definizione di nuovi modelli insediativi negli ambiti periurbani. Questo perché, sostanzialmente, la Sardegna è ancora una regione a forte permanenza della dimensione rurale. Se si considerano infatti la bassa densità abitativa e insediativa, la debole dotazione di infrastrutture e servizi, il carattere di marginalità rispetto alle grandi direttrici economiche continentali, la presenza dominante di piccoli centri di matrice
Paesaggi rurali sardi tra diversità biologiche e mixité urbana.
rurale e in molti casi ancora legati ad economie agro-pastorali (Kaiser, B., 1990; Blunden, E., 1998), il territorio regionale Sardo mostra ancora un forte carattere di ruralità diffusa. Questa condizione, in gran parte trasferitasi nella contemporaneità, è storicamente radicata nel difficile rapporto tra le comunità sarde e il mare mai visto come reale opportunità di scambi economici e culturali (la Sardegna resta ancora la regione Mediterranea con il più basso rapporto tra sviluppo di linea costiera e portualità), la condizione di modernità imperfetta maturata durante tutto il novecento, dovuta ad improvvise infrastrutturazioni di natura industriale-estrattiva su una regione sostanzialmente priva di una rete di collegamenti efficiente che potesse supportare tali trasformazioni su scala territoriale, e non ultima, la scarsa produttività agricola dei suoli, molto più diffusamente utilizzati per i pascoli. Agro sistemi storici e diversità biologiche in Sardegna Tuttavia l’uso storico del territorio sardo, seppur non estesamente, ha prodotto una diversità elevata di forme paesaggistiche che spesso si sono tradotte in un arricchimento e una diversificazione biologica dei suoli e delle colture. La Sardegna infatti, è caratterizzata da conformazioni geologiche e pedologiche molto variabili in un territorio di dimensioni relativamente contenute: per questo motivo, la diversità paesaggistica e la capacità di trattenere molti brani di paesaggio rurale storico, fanno del caso sardo, luogo denso di interesse disciplinare. Uno dei risultati fondamentali della ricerca è riconducibile proprio a questa proporzionalità esistente tra diversità formali del paesaggio e biodiversità agrarie dei suoli, entrambe esiti di
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pratiche storiche consolidate gestione del paesaggio rurale.
nell’uso
e
nella
1. Diversità del paesaggio rurale della Marmilla, nel centro Sardegna. Alternanza tra saltus, paberile e viddazzone.
Paesaggi in gioco
Se si considera la biodiversità anche come «una risposta adattativa della natura alla continua variazione di ambienti non in equilibrio» (Aru, A., 2009), è interessante far emergere come lo stesso rapporto esistente tra modalità di strutturazione e crescita di un agro sistema e il suo suolo naturale, raggiunga nelle configurazioni storiche del paesaggio, punti di equilibrio che coincidono a forme adattive riconoscibili e ripetute nel tempo. Da un lato infatti, la necessità dell’uomo di governare gli eventi naturali, di convertirli in eventi produttivi dotando il suolo degli accorgimenti tecnici funzionali alla sua redditività, dall’altro la necessità di affinare pratiche tettoniche e conformazioni spaziali di lunga durata, hanno creato l’immagine del paesaggio agrario storico istituendo nuove e diversificate qualità biologiche rispetto agli ecosistemi preesistenti. La stessa grande bipartizione tra openfield e enclosures dei paesaggi storici continentali, che in Sardegna si ripropone con declinazioni e modalità distributive specifiche, oltre a rappresentare una differenziazione formale tra paesaggi, descrive anche le due modalità principali di creazione e arricchimento delle diversità biologiche dei suoli rurali. Il sistema di gestione comunitaria della terra del 3 viddazzone , ad esempio, che regge il paesaggio “a campo aperto” dei grandi fondi di pianura e di collina in Sardegna, basato su una alternanza ciclica dei pascoli e dei coltivi secondo convenzioni socio-economiche ben definite, determina sequenze stagionali d’uso del suolo agrario che consentono un rinnovamento costante delle capacità produttive del suolo. In tale sistema l’alternarsi di coltivi e incolti, di pascoli arborati e seminativi, nonché la connivenza tra colture agricole estensive e flussi pastorali, ha contribuito
alla trasformazione biologica di suoli altrimenti improduttivi e generato un nuovo equilibrio ecosistemico che si è adattato ai ritmi e alle modalità dell’agrosistema prevalente. In questo tipo di paesaggio infatti, la forma “a campo allungato” delle colture cerealicole delle pianure e quella “a puzzle” (Bloch, M., 1956) delle colline, risultano essere quelle più funzionali al rapido svolgimento delle attività di aratura e semina (sono ad esempio quelle che consentono la percorribilità più agevole dei mezzi di lavoro della terra), secondo un principio di razionalizzazione delle attività che si traduce soprattutto in principi di economia spaziale e formale. Il paesaggio rurale sardo è però noto soprattutto nella sua immagine di paesaggio di piccoli e grandi chiusi, soprattutto nel versante centro-settentrionale e in alcuni altipiani meridionali orientali. Questo paesaggio che ha ascendenze culturali molto antiche nell’isola, è il risultato dei tentativi reiterati di normare istituzionalmente e di gestire le secolari contrapposizioni agro-contadine per le quali i proprietari terrieri che avevano beni di stipo stanziale, e dunque sostanzialmente contadini che vivevano nei villaggi, avevano diritto di chiudersi per la protezione dei coltivi dai pascoli, amplificando questo rapporto tra il campo aperto della ruralità al “campo chiuso” del villaggio murato e creando, di fatto, limiti fisici tra due ecosistemi fino ad allora complementari. Le forme in cui si presenta questo paesaggio rurale storico, le cussorgias, i cungiaus o cunzadus (Le Lannou, 1941), il lottu, le tancas, nella seppur netta distinzione in termini di funzione e dimensioni, appunto distintamente agrarie o pastorali, caratterizzano un paesaggio retto sulla stretta interrelazione tra qualità e natura dei suoli e le modalità di chiusura dello spazio agrario. Se da
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un lato infatti i sistemi di chiusura, vegetali o materici, costituiscono di per sé habitat complessi e variegati nei quali la diversità biologica si densifica (Clement, G., 2006), è anche vero che la chiusura determina molto spesso una specializzazione d’uso
2-3. Piccoli chiusi coltivati dell’area degli altipiani centro occidentali della Sardegna. Il recinto murario definisce le diversità colturali e il rapporto tra coltivo e incolto.
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degli appezzamenti dovuta alla qualità stessa della terra e funziona quindi da “misuratore” della diversità colturale del suolo.
4. Terrazzamenti nella valle del Pardu, in Ogliastra. I terrazzi rallentano e drenano le acque aumentando la diversità agricola dei suoli in pendenza.
In Sardegna, questo è oltremodo visibile proprio per il fattore posizionale di questo tipo di paesaggio: le aree in cui il paesaggio “dei chiusi” si
Paesaggi rurali sardi tra diversità biologiche e mixité urbana.
manifesta con più frequenza, nei quali il “solco” disegnato dai recinti si ripete indistintamente negli altipiani di natura vulcanica costituendo vera e propria immagine sintetica del paesaggio rurale, sono quelle nelle quali i suoli hanno necessitato di una azione di spietramento per essere utilizzati dal pascolo e dall’agricoltura, sono quelle nelle quali il trattenimento delle acque superficiali non era garantito dalla natura geologica del suolo e ha trovato in queste opere fuori terra una soluzione ottimale, sono quelle nelle quali l’esposizione diretta agli agenti atmosferici non favoriva le attività rurali (altipiani, versanti, crinali). L’introduzione di questa logica all’interno di un paesaggio rurale come quello sardo, spesso destrutturato e disorganizzato, ma soprattutto inadeguato ad attività rurali significativamente produttive, ha non solo conferito un immagine peculiare e un carattere distintivo della dimensione rurale del paesaggio, ma ha alterato e intensificato quella “biodiversità agraria” altrimenti del tutto inesistente e che oggi si fatica nuovamente ad inseguire.
Diversità biologiche e mixitè urbana. Il paesaggio agrario mediterraneo come strumento di sviluppo sostenibile della città. In tal senso, lo studio di questi ambiti, ma ancor di più le declinazioni regionali del paesaggio agrario, ci induce a riconsiderare le configurazioni strutturali storiche del paesaggio non solo come elementi di valore sociale e culturale, ma anche di permanenza e salvaguardia dell’assetto ecologico dell’habitat umano e quindi di un suo potenziale sviluppo e adattamento territoriale sostenibile. Gli esiti culturali della ricerca, a cavallo tra esperienze e letture fenomenologiche locali e
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l’approfondimento disciplinare specifico, individuano in questa direzione, alcune tendenze di sviluppo dei territori antropizzati, molto presenti soprattutto nei paesi occidentali, che si vertebrano sulla riproposizione delle strutture del paesaggio storicizzate come piattaforme in grado di guidare le nuove colonizzazioni urbane all’interno degli ambiti rurali al fine di prefigurare scenari sostenibili di modelli alternativi per nuove forme di urbanità. Questo non solo perché in generale, come afferma Lucien Kroll, la città non è altro che l’espressione più densa del paesaggio, e dunque ne costituisce parte integrante e fondamentale - nonché l’espressione più critica - ma anche perché esiste un rapporto proporzionale tra le diversità ecosistemiche che caratterizzano il paesaggio produttivo periurbano e la qualità più specifiche degli stessi sistemi urbani. Infatti “(…) la biodiveristà è una nozione che appare immediatamente applicabile all’urbanistica contemporanea (…) e la ricchezza insita nella diversificazione colturale è assai direttamente connessa con la mixitè urbana” (Donadieu, P., 2006). In altre parole la città, cosi come è avvenuto nella storia - il rus in urbe romano appare emblematico in tal senso - ha ancora necessità di essere considerata e progettata come vero organismo di un contesto naturale più ampio dal quale si nutre e ne recepisce alcune strutture fondanti per definire e rigenerare costantemente i suoi caratteri interni. In particolar modo nell’habitat mediterraneo, la promiscuità funzionale ben riconoscibile delle articolate strutture agrarie e degli isolati urbani, hanno da sempre costituito una identità forte del paesaggio, duplicemente espressa dalle relazioni di necessità primaria e dai codici culturali con cui l’uomo costruisce le forme del territorio.
Paesaggi in gioco
Il paesaggio agrario mediterraneo possiede quindi, proprio nella relazione tra urbano e rurale, caratteristiche estremamente variabili, essendo la proiezione di territori in cui l’azione delle differenti civiltà alternativamente dominanti, nel tentativo di sfruttare climi favorevoli, mercati floridi e strutture sociali forti, ha modellato più che in altri luoghi le risorse del suolo, rendendo il paesaggio mediterraneo caratterizzato da un’alta diversità colturale e biologica. Il paesaggio rurale, in tal senso, è diventato una delle espressioni più caratterizzanti della cultura mediterranea. Ed è anzi nell’espressione del rapporto più profondo che l’uomo ha instaurato con la terra che ritroviamo, forse, l’amalgama più forte tra le varie culture mediterranee, una profonda commistione di tecniche, usi, convenzioni, tradizioni che si sono evolute nel tempo come habitus riconoscibile e ascrivibile ad un’unica grande cultura. Questo avviene, ed è fatto singolare, in un paesaggio in cui le colture esogene sono almeno presenti quanto quelle endogene e si sono adattate e integrate perfettamente e anzi, hanno imposto una diversità colturale senza la quale avremmo difficoltà a riconoscere la stessa mediterraneità del paesaggio: ”Prima della conquista araba il paesaggio dell’Italia meridionale e della Sicilia in particolare era ancora quello del I sec. d.C., caratterizzato da una varietà di piante e di paesaggi assai ridotta in tutta la penisola” (Zoppi, M., 1995). Il paesaggio mediterraneo è, per questo motivo, fortemente e variamente produttivo e per questo densamente abitato in un quadro di evoluzioni urbane altamente discontinuo ed eterogeneo. Eppure, se si esclude l’uniformità impressa dai romani, giustificata però da un controllo centrale
esercitato direttamente, le città mediterranee hanno continuato a crescere in modo similare, ad essere ibridi nella loro assoluta singolarità anche quando ad operare erano gli arabi a sud e i grandi poteri dell’età comunale a nord. A questo proposito rientriamo nella questione cruciale della stretta relazione economica che esiste tra lo sviluppo della città e la campagna anche se nel paesaggio mediterraneo appare molto più che l’esito di un semplice rapporto fondato su uno scambio di risorse. La campagna mediterranea, in particolar modo nelle sue forme spaziali più urbane, l’orto chiuso, la corte rurale, il giardino periurbano, è stata per molto tempo lo spazio di produzione, di mercato e di socializzazione per l’uomo e ha sopperito alla già citata povertà di spazio pubblico prettamente urbano. In tutta l’area mediterranea e in particolar modo nella tradizione prima romana e poi araba, esistono dei legami storici tra la città e le forme di agricoltura che le circondano e le approvvigionano. Nel tessuto insediativo arabo, le campagne oltre a costituire fonte di reddito per la città (medina) nella quale gli spazi orticoli erano già usati per il relax e il tempo libero, consentivano la creazione di microclimi in successione, particolarmente adatti a favorire l’inerzia termica delle abitazioni alle alte temperature. Nelle città affacciate sul mare, quando la logica di autosostentamento era secondaria rispetto a quella mercantile, i complessi di orti urbani erano situati all’interno delle mura ma nelle parti periferiche, in modo che fossero protetti ma vicino ai porti per lo smercio dei prodotti e mantenuti attraverso sistemi di irrigazione collettivi (dighe o grandi vasche) o individuali (prevalentemente pozzi domestici). In Spagna e nella Francia mediterranea, i sistemi di huertas costruiti dagli andalusi, hanno vertebrato lo
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5. Rapporto tra le colture periurbane e fronte costruito ad Assemini, nel Cagliaritano.
sviluppo delle città, come Avignone, Narbona, Valencia o Barcellona. Questi spazi, oltre che influenzare la forma delle città, divenivano sede della rete infrastrutturale a sviluppo capillare più complessa delle città stesse, quella legata alla distribuzione e razionalizzazione della risorsa idrica, la cui rete spesso disegnava o quantomeno organizzava – per altro come accadeva presso i romani – il tessuto urbano, unificandolo e rendendolo strutturalmente continuo a quello rurale. Questi stessi spazi erano, grazie alle differenti densità vegetali, luoghi di trattenimento delle acque, luoghi in cui il tasso di umidità era intrinsecamente funzionale al controllo generale del clima urbano, luoghi di estrema ricchezza biologica e quindi portanti del sistema dell’approvvigionamento alimentare urbano. Ed è in particolar modo in queste forme “strutturali” del paesaggio agrario mediterraneo che, con declinazioni differenti, possiamo
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individuare e disvelare quelle strutture interne urbane fondate sull’equilibrio e il connubio storico tra città e territorio che costituiscono un grande potenziale progettuale per lo sviluppo urbano. Proprio in Francia ad esempio, le strutture periurbane del paesaggio agrario che si fondano sulla capacità dei bocages di proteggere i coltivi e di segnare i percorsi di presidio del territorio rurale, e che sono oggi alla base di molte strategie di sviluppo sostenibile del paesaggio, lo sono anche e soprattutto per la città. Questo avviene in parte per una rinnovata attenzione delle amministrazioni locali, ma anche delle politiche agrarie comunitarie, in passato spesso incentrate solo sulla capacità di produrre reddito dei territori agricoli, sull’importanza dei fattori qualitativi espressi da questi stessi territori e per una volontà, tutta urbana, di riproporre gli eco-simboli (Berque, A., 1996) del mondo rurale e qualificare gli spazi dell’abitare. Come ci segnala ancora Pierre Donadieu, a Plouzanè, piccolo borgo periurbano costiero bretone, la volontà degli abitanti, spesso non locali e quindi privi di una memoria storica dei luoghi, di ricostituire un “bocage urbano” in totale continuità con quello rurale, non solo conferisce un forte senso di naturalità allo spazio pubblico, ma realizza una vera e propria rete ecologica che consente ai corridoi ambientali dell’entroterra di comunicare con gli ecosistemi litoranei atlantici: “(…) ricostruendo scarpate e siepi nella città, hanno ripristinato il bocage perduto per ritrovare un armonia con il bocage originario. (…) Un bocage ideale, ma davvero reale, che protegge contro il vento e favorisce la fauna selvaggia, ma soprattutto che gli stessi abitanti hanno piantato sul suolo bretone” (Donadieu, P., 2006). L’esperienza francese mostra come un atteggiamento in primo luogo culturale di
Paesaggi rurali sardi tra diversità biologiche e mixité urbana.
appropriazione dell’habitat, possa esprimere le potenzialità di uno sviluppo sostenibile ed ecocompatibile di un anonimo borgo periurbano rispetto alle diversità biologiche del suo territorio ma anche di una ricerca di una qualità diffusa dello spazio pubblico urbano. Nella Francia meridionale, è invece lo spazio residuale di margine tra il costruito urbano e gli elementi primari naturali (fiumi, rilievi, aree boschive), che vede processi partecipati di “agricivismo” organizzato, costituito da piccoli appezzamenti uguali, che sfruttano la diversità biologica di questi suoli trasformandola in diversità agraria e produttiva. A Carcassonne, nelle frange periurbane interstiziali tra bordi costruiti e fiume, gli spazi pubblici periferici dialogano direttamente con un tessuto di orti organizzato in appezzamenti uguali e con sistemi di gestione comuni, che garantisce la salvaguardia del bordo e della vegetazione ripariale, l’arricchimento biologico di un suolo altrimenti improduttivo e la costituzione di spazi alternativi legati alla residenza basati sul loisir urbano in territori “rururbani”. Analogamente, ma con obbiettivi e programmi urbani differenti, nell’area periurbana Valenziana, il progetto Sociopolis esplora, attraverso un articolato masterplan, la possibilità che i tracciati delle vecchie huertas andaluse, strutture agrarie storiche costituite da un denso tessuto di orti chiusi che sorgevano nelle aree più fertili a ridosso del margine urbano, possano ridefinire un quartiere abitativo nel quale le diversità agricole costituiscano il programma funzionale alla scala urbana. In tale visione, i mercati ortofrutticoli sono i nuovi luoghi della socializzazione, gli spazi pubblici e le attrezzature sportive appaiono intervallati da ampie distese agrarie a carattere produttivo, le terrazze e i luoghi del vivere
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collettivo dei comparti residenziali diventano orti per il loisir urbano. Tra le prime opere di urbanizzazione per la costruzione del quartiere, oltre che a strade, camminamenti pedonali, parcheggi e reti tecnologiche collettive, vi sono i canali irrigui per il mantenimento del tessuto di orti residenziali pubblici e privati che diventa sistema connettore degli spazi di servizio al quartiere. Nel progetto valenziano, la presa di coscienza di un nuovo carattere “rururbano” di queste frange della città, spinge quindi ad una nuova idea stessa di città, che riscopre nelle sue vecchie strutture rurali e nelle sue interne diversità agricole, un codice evolutivo non solo formale, ma anche di natura sociale ed ecologica. Vincent Guallart, architetto coordinatore del masterplan, in tal senso afferma: “la sfida di costruire un nuovo quartiere nel limite tra la città e le huertas di Valenzia ci ha permesso di esplorare questa nuova condizione ibrida, aperta e dinamica del territorio e di proporre un nuovo modello per la costruzione dei margini urbani” (Guallart, V., 2004). La ricerca di un nuovo modello di sviluppo urbano che nasca e rafforzi le strutture del paesaggio esistente, è alla base anche delle interessanti esplorazioni di Andrea Branzi per la fascia agricola fortemente urbanizzata a nord di Milano. Il progetto Agronica infatti, più che un vero masterplan, è costituito da schemi che rappresentano differenti modalità di uso del suolo che si rifanno alle strutture agricole, anche se non più in modo produttivo, e che sono i grado di incorporare e organizzare, attraverso una infrastrutturazione debole, tutte quelle attività urbane dislocabili in un’area periurbana: “Agronica elabora un modello di urbanizzazione debole, che consiste in un sistema che garantisce la sopravvivenza del paesaggio agricolo e naturale, in
Paesaggi in gioco
presenza di servizi urbani evoluti ma non più totalizzanti”. Il concetto che sta alla base di questi modelli è da ricercare proprio nel ruolo strutturale che l’agricoltura può avere nel processo generativo delle nuove aree urbane: diversificazione, rinnovamento ciclico, adattabilità, naturalità, produttività, territorializzazione, sono i nuovi paradigmi che la città contemporanea ha necessità di trasporre dal mondo agricolo affinchè possa vedere un’alternativa sostenibile ai modelli panurbani che hanno contraddistinto l’era moderna.
Ritorno ad una dimensione naturale storica? Il rapporto esistente tra città e territorio rurale storico, che sta alla base dello sviluppo delle civiltà più antiche, è un rapporto strutturale che ha generato e genera tutt’oggi qualità formali specifiche dell’ecosistema antropico. Tuttavia, questo rapporto oggi entra in crisi a causa delle tensioni di trasformazione in senso urbano che attraversano i territori rurali destabilizzando e destrutturando la loro coerenza formale storica e la loro capacità di produrre paesaggi. E’ per questo che l’emergere della necessità di ripristinare il vecchio rapporto con la dimensione naturale, in particolar modo con quella storica a fronte del dissolversi della città nel territorio, ha ricondotto quindi alla possibilità che la campagna possa ancora fare città. Questo ritorno alla naturalità insita nella vita rurale, in realtà, è sempre stato al centro degli interessi culturali della società industriale e oggi assume valori e potenzialità molteplici nello sviluppo di nuovi habitat antropici.
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La questione “urbana” infatti, impone non solo di comprendere le modalità attraverso cui rapportarsi allo spazio naturale, ma anche come la città possa partecipare alla costruzione di paesaggi diversificati e sostenere la diversificazione biologica ed ecosistemica. La costruzione del paesaggio del terzo millennio passa proprio dal riconoscimento di queste diversità. In un secolo in cui le culture locali, le specificità spaziali e la variabilità degli ecosistemi, si sono appiattiti e degenerati in grandi realtà monocolturali ed estensive, la riappropriazione degli interstizi naturali e dei residui del paesaggio rurale possono costituire un nuovo ordine ecologico per la città. La cultura contemporanea sul paesaggio del resto, espressa con forza anche dalla Convenzione Europea del Paesaggio del 2000, oltre che a considerare il paesaggio espressione “estesa” e “totalizzante” del rapporto quotidiano tra uomo e territorio, interpreta e fa propria la necessità delle comunità di ritrovarsi intorno alle differenti realtà ecosistemiche locali, intorno ai cosiddetti “paesaggi della quotidianità”. Tale direzione appare fondante per la ricostruzione di un mosaico paesaggistico multi-ecologico e multifunzionale, nel quale la specializzazione spaziale degli spazi antropici (naturali, sub naturali e urbani), il recupero delle aree degradate e la rifunzionalizzazione territoriale del paesaggio rurale, producono un nuovo equilibrio tra tutela e sostegno delle biodiversità e creazione di nuove qualità urbane. 6. Le diversità agricole diventano programmi per lo spazio pubblico urbano in Flat City, di NL Architects. Da Quaderns Spirals, Barcelona, 1999.
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Testo acquisito dalla redazione nel mese di Ottobre 2011. © Copyright dell’autore. Ne è consentito l’uso purché sia correttamente citata la fonte.
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Contributo mutuato dalla tesi di dottorato dell’autore intitolata “Tipi e strutture del paesaggio rurale in Sardegna”, presentata e discussa presso la sede del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Cagliari nel Febbraio del 2010. 2 Definizione emersa dal Summit internazionale di Rio de Janeiro nel 1992. 3 la pratica del viddazzone è una pratica storica del paesaggio sardo (attestata dalla carta de Logu) che prevede la suddivisione in diverse parti del territorio del villaggio, una o alcune delle quali destinate alla coltivazione (del grano spesso) e le altre al pascolo (paberile). Il sistema prevede che ciclicamente le porzioni debbano essere alternate tra coltivi e pascoli per garantire la fertilità del terreno. La relazione tra villaggio e aree del viddazzone è molto forte tant’è che La Marmora ne parla come un unico sistema.
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