a cura di
ezio godoli
Antonio Sant’Elia e l’architettura del suo tempo Atti del convegno internazionale
La serie di pubblicazioni scientifiche Ricerche | architettura, design, territorio ha l’obiettivo di diffondere i risultati delle ricerche e dei progetti realizzati dal Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università degli Studi di Firenze in ambito nazionale e internazionale. Ogni volume è soggetto ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata al Comitato Scientifico Editoriale del Dipartimento di Architettura. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, per favorire non solo la diffusione ma anche una valutazione aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze promuove e sostiene questa collana per offrire un contributo alla ricerca internazionale sul progetto sia sul piano teorico-critico che operativo. The Research | architecture, design, and territory series of scientific publications has the purpose of disseminating the results of national and international research and project carried out by the Department of Architecture of the University of Florence (DIDA). The volumes are subject to a qualitative process of acceptance and evaluation based on peer review, which is entrusted to the Scientific Publications Committee of the Department of Architecture (DIDA). Furthermore, all publications are available on an open-access basis on the Internet, which not only favors their diffusion, but also fosters an effective evaluation from the entire international scientific community. The Department of Architecture of the University of Florence promotes and supports this series in order to offer a useful contribution to international research on architectural design, both at the theoretico-critical and operative levels.
ricerche | architettura design territorio
ricerche | architettura design territorio
Coordinatore | Scientific coordinator Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy Comitato scientifico | Editorial board Elisabetta Benelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Marta Berni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Stefano Bertocci | Università degli Studi di Firenze, Italy; Antonio Borri | Università di Perugia, Italy; Molly Bourne | Syracuse University, USA; Andrea Campioli | Politecnico di Milano, Italy; Miquel Casals Casanova | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Marguerite Crawford | University of California at Berkeley, USA; Rosa De Marco | ENSA Paris-LaVillette, France; Fabrizio Gai | Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Italy; Javier Gallego Roja | Universidad de Granada, Spain; Giulio Giovannoni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Robert Levy| Ben-Gurion University of the Negev, Israel; Fabio Lucchesi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Pietro Matracchi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy; Camilla Mileto | Universidad Politecnica de Valencia, Spain | Bernhard Mueller | Leibniz Institut Ecological and Regional Development, Dresden, Germany; Libby Porter | Monash University in Melbourne, Australia; Rosa Povedano Ferré | Universitat de Barcelona, Spain; Pablo RodriguezNavarro | Universidad Politecnica de Valencia, Spain; Luisa Rovero | Università degli Studi di Firenze, Italy; José-Carlos Salcedo Hernàndez | Universidad de Extremadura, Spain; Marco Tanganelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Maria Chiara Torricelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Ulisse Tramonti | Università degli Studi di Firenze, Italy; Andrea Vallicelli | Università di Pescara, Italy; Corinna Vasič | Università degli Studi di Firenze, Italy; Joan Lluis Zamora i Mestre | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Mariella Zoppi | Università degli Studi di Firenze, Italy
a cura di
ezio godoli
Antonio Sant’Elia e l’architettura del suo tempo Atti del convegno internazionale
Il volume è l’esito di un progetto di ricerca condotto dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. La pubblicazione è stata oggetto di una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata dal Comitato Scientifico del Dipartimento DIDA con il sistema di blind review. Tutte le pubblicazioni del Dipartimento di Architettura DIDA sono open access sul web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Il convegno internazionale si è tenuto a Firenze, ex Palazzina Reale della Stazione di Santa Maria Novella, il 2-3 dicembre 2016. Enti patrocinatori: Accademia Nazionale di San Luca, Roma; Comune di Como; Dipartimento di architettura, Università di Firenze; Fondazione Architetti, Firenze; Fondazione Michelucci, Fiesole; Fondazione Primo Conti, Fiesole; Gabinetto scientifico-letterario G.P.Vieusseux, Firenze; Kunsthistorisches Institut in Florenz — Max-Planck-Institut; Museo Novecento, Firenze; Ordine degli architetti, Firenze. Con la collaborazione della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Como, Lecco, Monza Brianza, Pavia, Sondrio, Varese / Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Comitato scientifico: Renato Barilli, Gunter Berghaus, Enrico Crispolti, Esther Da Costa Meyer, Pablo Echaurren, Milva Giacomelli, Ezio Godoli, Fulvio Irace, Alberto Longatti, Juan Agustín Mancebo Roca, Gloria Manghetti, Fabio Mangone, Francesco Moschini, Claudia Salaris, Ettore Sessa, Ulisse Tramonti, Guido Zucconi.
in copertina Sant’Elia, Autoritratto, 1910-11, matita nera su carta, 211 x 90 mm (coll. privata).
progetto grafico
didacommunicationlab Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Susanna Cerri Sara Caramaschi
didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2018 ISBN 9788833380384
Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset
indice
Sant'Elia: una parabola breve
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Sant’Elia, il futuro di corsa Alberto Longatti
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La collezione degli eredi di Antonio Sant’Elia Maria Letizia Casati
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Cimiteri di guerra. L’ultima opera di Antonio Sant’Elia Stefano Zagnoni
49
Le città del Futurismo e Sant'Elia
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Milano a inizio Novecento: paesaggi, progetti, architetture negli anni di Sant’Elia Ornella Selvafolta
67
È il 1912 e il Futurismo si affaccia burrascosamente e conquista Firenze Giovanna Uzzani
85
La città nuova e le sue architetture
97
La città nuova, le case a gradoni e le preoccupazioni d’ igiene dell’urbanistica europea tra XIX e XX secolo Ezio Godoli
99
Sant’Elia: una atlantide di cemento Mauro Cozzi
117
Antonio Sant’Elia e l’elasticità della nuova città Lisa Hanstein
131
Sant'Elia relazioni e confronti
143
Un passaggio attraverso il Secessionismo Renato Barilli
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Gli influssi dell’architettura sacra indiana nel progetto di Antonio Sant’Elia e Italo Paternoster per il cimitero di Monza (1912) Lorenzo Mingardi
149
6
antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
Il concorso per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona 1913-1915 Ulisse Tramonti
163
Antonio Sant’Elia e Angiolo Mazzoni: tangenze e divergenze di due percorsi Milva Giacomelli
175
Antonio Sant’Elia e l’architettura visionaria degli anni 1910 Fabio Mangone
193
“Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali”: i disegni di Antonio Sant’Elia e l’architettura religiosa (1912-1914) Massimiliano Savorra
211
Echi e fortuna di Sant'Elia
229
Sullam e Torres, esponenti di una pre-avanguardia veneziana? Guido Zucconi
231
Antonio Sant’Elia e il “primo futurismo” visti dalla cultura degli “archi e delle colonne” in occasione delle prime “celebrazioni santeliane” (1930-1931) 243 Ferruccio Canali Alfio Fallica e la variabile déco del futurismo catanese Ettore Sessa
261
La “dichiarazione” di Francesco Fichera del 1915 per un’architettura del “futuro” e il manifesto di Sant’Elia Eliana Mauro
281
Visioni futuriste e utopie urbane. Antonio Sant’Elia e il manifesto l’architettura futurista nelle Storie dell’architettura Monica Manicone
297
Back to the future. Attualità del manifesto dell’architettura futurista di Antonio Sant’Elia Lina Malfona
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a cura di
ezio godoli
Antonio Sant’Elia e l’architettura del suo tempo Atti del convegno internazionale
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
titolo saggio • nome cognome
Sant'Elia, una parabola breve
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sant’elia, il futuro di corsa
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Antonio Sant’Elia, Studio per facciata di un monumento, 1909-10 matita nera su carta, 276 x 180 mm, inedito (coll. privata)
Alberto Longatti
Come cresce nel passato il futuro/così nel futuro il passato scompare (Anna Achmatova).
Di lui hanno parlato molti, pochi per conoscenza diretta. Marinetti, in primo luogo, che da vivo lo ebbe in grande simpatia e da morto cercò di elevarlo al rango di eroe in guerra e profeta in architettura. Tre persone in particolare lo ricordarono non tanto per elogiarlo quanto per descriverlo com’era, come si comportava, come pensava. Da persona, con la sua inquieta indole nativa, prima che da artista visionario. Luigi Russolo, che non a caso gli fu idealmente accanto quando le sue spoglie vennero inumate definitivamente in un famedio del Cimitero Maggiore di Como il 23 ottobre 1921, ebbe modo di evocarne la figura nelle ore in cui elaborava le tavole della Città Nuova, “quei meravigliosi disegni che nel silenzio notturno (la sua giornata era presa dal lavoro per le necessità della vita) egli con tenace assiduità andava compiendo”. Ed era in quei momenti di intensa vitalità che lo rappresenta più vero: Era un tormentato, incontentabile nei piccoli schizzi nei quali cercava la soluzione d’assieme dei suoi progetti. Numerosissimi erano questi schizzi e diversissime le soluzioni cercate e trovate. Purtroppo per noi, molti di questi piccoli schizzi egli stracciava subito […] La rapidità del suo modo di lavorare il progetto definitivo era sbalorditiva e dipendeva dalla giustezza visiva del suo occhio che gli permetteva di trovare la proporzione, la metà, un terzo, una quinta parte senza prendere le misure1.
Uno dei suoi amici più fidati, lo scultore Gerolamo Fontana, lo descrisse nel suo ambiente domestico in pieno clima bohémien: lo vedo ancora curvo sul tavolo di lavoro nella camera d’affitto in via San Raffaele: disegni sulle pareti sul pavimento sul letto, scarpe cravatte barattoli sigarette pipe, cassetti aperti, tutto a soqquadro, la fotografia della madre sul comodino. Lavorava preferibilmente di notte, ma nei momenti di frenesia creativa sgobbava senza interruzione2.
Ma più di ogni altro il suo ritratto venne inciso, proprio con la stessa precisione delle sue puntesecche, dall’artista/scrittore Anselmo Bucci, che gli fu vicino durante la guerra in trincea a Dosso Casina e accompagnò l’avventura dei Volontari Ciclisti con una miriade di disegni presi dal vero.
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
Alto snello e rosso come un gallo; rossa la gota secca e rossa la chioma pigiata; la fronte altissima bianca saldata al profilo aggressivo, a sperone, da uccello da preda o da sagittario; e sotto ciglia sagginate, due terribili occhi marrone che diventavano neri o rossi, pieni di stupefazione di indignazione d’ira di disprezzo di entusiasmo; di tutte le esagerazioni ed esasperazioni; e soprattutto di bramosia: poiché bramavano tutto, quegli occhi, le cose massime, le donne, la gloria, la potenza, e le minime, il mio fucile perché era pulito o la coperta a scacchi del vicino3. pagina a fronte A. Sant’Elia, Edificio monumentale con torri, 1909 pastello arancio su carta a quadretti, 140 x 110 mm (Pinacoteca Civica, Como) A. Sant’Elia, Autoritratto, 1910-11 matita nera su carta, 211 x 90 mm (coll. privata)
Bucci coglie nel segno quando ricorda le ire improvvise del giovane, la sua suscettibilità, la sua fretta: “Voleva subito il Carso, la gloria. Voleva le donne. […] L’arbitrio gli sembrava legge, il privilegio, diritto”. E nei momenti di tranquillità, sbottava a confidare quello che gli ribolliva dentro: “Finita la guerra, voglio disegnare! Voglio disegnare e vedrai! A gradinate farò le case: a gradinate, a giardini sospesi, palazzi vie e città. Ho già fatto qualcosa, ma è meno che niente! E stazioni per aeroplani, stazioni per ferrovie, stazioni in aria e sottoterra, vedrai… e farò stadi, hangar, officine, bagni, centrali elettriche, vedrai…”4. Le fotografie lo mostrano dapprima con un volto liscio e lentigginoso da ragazzo: con l’andar degli anni, scava nelle guance due buchi che lo rendono ansioso, avido, un po’ grifagno; e sopra lascia sventolare, selvaggia, una selva di capelli color di fiamma. “Un fauno quasi onnipotente, ma sorvegliato dalla morte”, come lo definì Bucci ricostruendone l’immagine nei giorni delle prime scaramucce con il nemico, ed è così che lui stesso si vide, si raffigurò in un autoritratto inquietante per l’albagìa, la volontà di potenza che lo anima, lo sospinge in avanti verso future conquiste. Nel ricostruirne i tratti biografici, si è generalmente insistito sul lato positivo del suo carattere, la generosità, la disponibilità a lavorare con altri senza prevaricazioni, la sincerità. Ma non si è tenuto conto di questo sottofondo oscuro, che lo rendeva comunque sicuro delle proprie scelte, di un orientamento verso risultati assai alti della ricerca professionale, di un dominio delle personali risorse umane e di un’abilità congenita al disegno, alla progettazione veloce e quasi priva di correzioni quando giungeva a definire l’idea che l’aveva ispirata, con un’originalità che arrivava a imporsi come una sfida. È l’atteggiamento che lo conduce ad attraversare con disinvolta prontezza il necessario periodo di formazione, pratica nell’incarico al canale Villoresi e presso l’ufficio tecnico comunale, di applicazione al tavolo di disegno per conto di architetti milanesi, poi di studio all’Accademia di Brera non senza la malsopportazione di doversi applicare ad astruse regole vitruviane che lo costringevano a rinunciare alla libertà inventiva. Quella libertà che non si sottraeva invece all’obbligo di esercitarsi in tavole di copia dal vero con una densità di tratteggi chiaroscurali tale da consentire volumi e rilievi scultorei, dimo-
strando la diligenza da buon allievo: e che amava trasformare i modelli dell’architettura secessionista proposti dall’insegnamento accademico in illustrazioni fiabesche di luoghi lontani e inaccessibili, un Oriente da Mille e una notte, particolari di templi egizi, indiani, cinesi mescolati con le lunghe scalinate alla Hoppe o con le figurette alate alla Schöntal proposte dal repertorio architettonico della scuola di Otto Wagner. Nel frattempo non badava troppo ad adeguarsi ai precetti di una corretta progettazione, ignorando con una spallucciata i voti scarsi in prospettiva che per lui era costantemente inchiodata ad un’enfatizzazione dell’immagine, con punti di fuga ribassati che amplificano la monumentalità degli edifici. Gli basta un corredo non troppo nutrito di nozioni tecniche per partecipare con l’amico Italo Paternoster, un monzese conosciuto a Brera, al concorso per il nuovo cimitero di Monza. Siamo negli anni 1911-12. Quel compito gli consentì di indulgere a non poche realizzazioni decorative di gusto funerario e “maledettista”, con un’impronta stilistica Art Nouveau e richiami al repertorio simbolico di Klimt e Franz von Stuck, serpenti e ghirigori floreali. Sullo sfondo di una siffatta ricerca in un’area figurativa che non disdegna modelli celebri5 sembra rispecchiarsi l’unico autoritratto d’autore sdegnoso e supponente. Dalla sua matita, senza l’orientamento ad un utilizzo particolare, escono targhe e vignette, firme ornamentali, mascheroni e figurette femminili irrigidite in una positura da cariatidi. Tutto ciò si presta anche ad una ta-
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
A. Sant’Elia, Edificio monumentale con cupola inchiostro nero, tempera bianca, acquerello blu su carta velina, 207 x 121 mm (Pinacoteca Civica, Como)
sant’elia, il futuro di corsa • alberto longatti
vola in cui l’apparato decorativo, accentuato fino a raggiungere un effetto caricaturale, viene applicato alla fronte di un improbabile edificio d’abitazione dove donne dai ventri enfiati e serpenti aggrovigliati penzolano come trofei di un museo di fantasmi satanici. E vien fatto di paragonarli alle illustrazioni grottesche di Antonio Rubino al suo esordio, quando non era ancora approdato alla più rassicurante produzione grafica destinata agli adolescenti6. Nell’ambito della formazione culturale di Sant’Elia i rilievi sui quali ci siamo soffermati servono soprattutto a constatare quanto la fretta di giungere a maturazione, scavalcando i suggerimenti provenienti da fonti diverse dalla realtà esterna di una Milano in piena espansione, stimolata dalle esigenze della civiltà industriale, abbia prodotto ben presto il rifiuto di quanto poteva essere ritenuto superfluo o addirittura fuorviante. L’eccezionalità della scelta di campo non è data da una necessità che è comprensibilmente adeguata alle modifiche economiche e sociali del contesto in cui vive e lavora, ma dall’esiguità del tempo in cui si è prodotta (con una pausa conclusiva di cui daremo conto in seguito) nell’arco di pochi anni e per giunta in un giovane uomo cresciuto con le risorse di un autodidatta più che attraverso studi approfonditi e adeguate esperienze professionali. Il fatto che si sia prodotta presto in lui la volontà di scartare modelli imposti dalle mode o regole di una trattatistica giudicata vetusta, inadeguata ad affrontare la scalata del nuovo, non è dimostrata solo dai disegni che ci sono rimasti, ma dai suoi pochissimi scritti, o meglio, dalle sue idee rivelate in testi compilati con l’aiuto di autori più esperti di lui nell’esprimersi in una lingua priva di solecismi o addirittura abili nel renderla persuasiva. Così è facile cogliere fra le perentorie asserzioni del Manifesto dell’architettura e ancora prima nel testo pubblicato dal catalogo di Nuove Tendenze, ancorché vergato da mani diverse7, il rifiuto delle discipline tradizionali e dell’assuefazione della copia dall’antico: il “rimbecillire sulle regole di Vitruvio, del Vignola e del Sansovino” ed anche il “rubacchiamento da fotografie della Cina, della Persia e del Giappone”. Un netto ripudio che fa il paio con l’accantonamento dell’influsso dalla scuola dominante in quegli anni, quindi ricorrendo all’imitazione di fotografie e disegni pubblicati da “riviste tedesche”, come scrive nella relazione accompagnatoria della prova d’esame all’Accademia d’Arte di Bologna aggiungendo un “purtroppo” che è in fondo l’amara confessione di aver partecipato, sia pure controvoglia, a quell’abuso di citazioni, sfogliando le pagine dei cataloghi della Wagnerschule. Dalle considerazioni contenute nel testo del documento bolognese, solo oggi ritrovato, con la sincerità e la fretta di un esaminando che non teme di rivelare incertezze lessicali, è significativo che quando deve cercare spunti per inquadrare aspetti della sua prova d’esame il giovane frughi nella memoria per estrarre brandelli di esempi tratti da una realtà ammirata e studiata a lungo, come le guglie e i contrafforti del duomo di Milano, il portale della basilica di San Fedele a Como, ed anche le due pile giganti di legno progettate dall’in-
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
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A. Sant’Elia, Facciata di un edificio d’abitazione matita nera, inchiostro nero e oro, pastello grigio su carta, 795 x 775 mm (Pinacoteca Civica, Como)
pagina a fronte A. Sant’Elia, Casamento con ascensori esterni, passaggio coperto, su tre piani stradali, 1914 inchiostro nero e matita nera su carta, 525 x 515 (Pinacoteca Civica, Como)
gegnere Eugenio Linati nel 1899 all’ingresso dell’Esposizione Voltiana o il doppio campanile della basilica di Sant’Abbondio, orgoglio del patrimonio culturale lariano che in lui hanno consolidato la predilezione per le torri binate, ornamento abituale dei monumenti secessionisti. Dalla prova d’esame Sant’Elia esce nel 1912 con sicuri propositi di rinnovamento. Continuerà a lavorare per conto terzi, con il suo diploma in tasca di “professore di disegno architettonico”, ma ormai è convinto dell’ammonimento di Adolf Loos che “l’ornamento è un delitto”, un eccesso inutile, una manifestazione di estetismo che deturpa o appesantisce la severa armonia delle costruzioni, librate nello spazio con la libertà di strutture agili e snelle sorrette dai duttili materiali moderni cemento armato e ferro. Per lui, che coglie tutte le sollecitazioni a risolvere i problemi e soddisfare le esigenze della civiltà industriale, in una Milano dove le applicazioni dell’energia elettrica stanno creano nuove
sant’elia, il futuro di corsa • alberto longatti
opportunità di lavoro, il 1913 è l’anno della preparazione. Discute e si esercita nell’edilizia abitativa e industriale, progetta case ma guarda più in là, pensa agli addensamenti, agli agglomerati urbani. Tutto ciò che lo circonda gli serve per amplificare le sue conoscenze, le mostre e le fiere internazionali, i programmi dell’amministrazione pubblica e i piani regolatori, i concorsi, le notizie e le fotografie pubblicate da riviste specializzate d’arte e di costruzioni, le anticipazioni sul presente e sul futuro delle metropoli di grandi paesi: in particolare, lo colpiscono le immagini dei pionieri dei “grattanuvole” statunitensi come Sullivan e Corbett, in alcuni casi riprodotte da periodici italiani8. Di notte, nel chiuso del suo studio in via San Raffaele o sui tavoli degli studi di architetti presso i quali lavorava nelle ore diurne, tracciava intanto febbrilmente schizzi di nude strutture architettoniche che nel 1930 vennero frettolosamente indicate quali “dinamismi architettonici” da un giovane schedatore che con l’architettura non aveva certo familiarità9. La fase di preparazione degli organismi architettonici
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
A. Sant’Elia, Diga e centrale idroelettrica, 1913 matita nera, inchiostro nero e matita arancio su carta, 258 x 125 (Pinacoteca Civica, Como)
sant’elia, il futuro di corsa • alberto longatti
di nuovo conio, con le prove di scheletri strutturali da rivestire, sbocca in una serie articolata di fabbricati che s’inseriscono nell’insieme urbano, case strade opifici ponti gallerie centrali elettriche, particolarmente interessanti queste ultime perché rispecchiano le prime realizzazioni di centrali idroelettriche in Valtellina, come d’altronde spicca con evidenza la ripresa schematizzata dal vero dell’hangar di Crescenzago eretto per ricoverare il dirigibile “Città di Milano 2” dell’ingegnere Forlanini. Solo che la copia della colossale aerorimessa offre il destro per profilare altri stabili del genere con alte pareti di cemento e grigliati metallici, mentre le centrali elettriche si liberano del tutto da mascherature di edifici d’abitazione o di finti castelli, come era d’uso nell’architettura eclettica, rivelandosi per quel che sono, mere apparecchiature tecnico/industriali, magari ricorrendo all’espediente di rovesciare all’esterno anche i macchinari d’ingegneria idroelettrica normalmente confinati all’interno, turbine generatori o altro. La tipologia così variegata viene talora racchiusa in riquadri che la rendono simile a veri e propri cataloghi, oppure si dispiega in una collana di sommari bozzetti allungata all’infinito in varianti minimali. Alla fine del 1913 il campionario è pronto per essere esposto e prestarsi a confronti con quanto esiste sul mercato immobiliare. Infatti l’occasione giunge nel marzo 1914 con la prima collettiva dell’Associazione Lombarda Architetti organizzata da Giovanni Rocco nel palazzo della Permanente a Milano. Un’occasione propizia, nella quale si può apparire accanto a esponenti di primo piano, da D’Aronco a Sommaruga e Stacchini, dal trentenne Marcello Piacentini a esponenti comunque affermati come Cesare Mazzocchi e Giovanni Broglio, autore dei quartieri operai. Nello sparuto drappello dei giovani, lui, sconosciuto esordiente, apparve subito il più promettente all’occhio esperto dell’architetto Giulio Ulisse Arata, abilissimo disegnatore che sapeva mescolare finemente in una sua personale interpretazione dell’Art Nouveau classicismo e modernismo. Arata lo lodò senza riserve recensendo la mostra alla Permanente sulle pagine di un autorevole periodico10. L’articolo prendeva in considerazione la capacità sorprendente del pressoché ignoto outsider in campo architettonico di definire in piena sintonia con la sua finalità operativa ogni progetto, anche se in “un piccolo schizzo” non ancora pienamente definito, evitando di perdersi in fuorvianti orpelli decorativi. Anni dopo Arata dichiarò di aver espresso il suo giudizio condividendo “una certa comunità di idee in un periodo di lunga amicizia durante il quale, insieme con altri artisti, fondammo il gruppo milanese delle Nuove Tendenze”, quindi proprio nei primi mesi del 1914; e di mantenere vivo nel ricordo la stima per il valore di un’ideazione architettonica “tipica pel modo personale con cui sono adeguati i vari elementi costruttivi, per i volumi serrati in vigorosi giochi prospettici e per l’impeto con cui è composta”11. Un’approvazione legata ancora a quei progetti del marzo 1914 in cui aveva ammirato l’origi-
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
pagina a fronte A. Sant’Elia, Struttura libera e schizzo di un edificio industriale, 1913 matita nera e inchiostro nero su carta, 275 x 195 (Pinacoteca Civica, Como)
nalità della concezione, senza peraltro far caso ad uno di quei disegni in piccolo formato che rivelava di scorcio sullo sfondo, oltre alla sagoma di un imponente edificio d’abitazione definito nella didascalia “grattacielo”, una strada solcata da linee parallele su due livelli sommariamente delineati, con qualche macchia d’inchiostro lasciata disinvoltamente in vista. L’imprecisione del bozzetto ha probabilmente deviato l’attenzione su ciò che realmente raffigura l’insieme dell’immagine, non solo genericamente “un grattacielo” ma un angolo metropolitano congestionato dal traffico. Ed ancora, forse un commento più preciso avrebbe meritato il disegno di “una chiesa” che non inalberava alle sommità di torrioni/campanili alcun simbolo sacro ma sagome di statue in atteggiamenti trionfali, segno di una concezione deliberatamente laicale; né bastava chiamare un altro bellissimo prospetto anonimamente “una stazione” perché stavolta era stato l’autore a denominarlo in una scritta siglata “Nuova stazione di Milano”, aggiungendo alle due solite torri frontali alcuni massicci corpi di fabbricato traforati da gallerie e sormontati da superfici parzialmente oblique d’incerta funzione. Un complesso edificato che lascia immaginare movimenti di masse di viaggiatori, arrivi e partenze con deflussi nell’antistante piazzale, che l’autore ha riempito con ampi tratteggi a matita e segni ondulati di penna per movimentarne lo spazio. Un altro motivo ambientale che lascia supporre fra una e l’altra di tali inquadrature dei luoghi abitati non isolate esercitazioni di insediamenti architettonici ma parti del piano complessivo di una megalopoli, magari della stessa Milano di domani. Nella successiva mostra di Nuove Tendenze, più di ogni altra opera esposta, suscitò subito un grande interesse non soltanto fra gli operatori del settore e gli intenditori quel piano così organicamente interconnesso, una catena di visioni frontali in cui domina la concentrazione e viene negata la frammentazione quantomeno in quartieri. La Città Nuova santeliana, in seguito ribattezzata Città Futurista, ha il possente respiro di un meccanismo in continuo movimento, una girandola illuminata e spinta dalla sola energia elettrica. Una sensazione dinamica provocata dai tracciati dei mezzi di comunicazione visibili nelle tavole più elaborate, rifinite per essere poste in mostra da una doppia esecuzione, a matita su carta da disegno e a inchiostro su carta da lucido sovrapposta, ma peraltro già singolarmente evidenziate negli schizzi e negli abbozzi da un segno sempre scattante, debordante dai contorni delle figurazioni spesso volutamente indeterminate con linee sospese e dirette verso l’infinito, come se l’autore non volesse soffermarsi, la matita gli bruciasse nelle mani rivelando una percezione del tempo in rapida consumazione. Le case della Città Nuova discendono da un modello unico nel quale gli ascensori ap-
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A. Sant’Elia, Studi per la stazione ferroviaria di Milano e una centrale elettrica, 1914 matita nera e arancio su carta, 220 x 205 mm (coll. privata)
pagina a fronte A. Sant’Elia, Stazione di treni ed aerei con funicolari e ascensori, 1914 matita nera su carta, 510 x 415 mm (Pinacoteca Civica, Como)
pesi di lato alle facciate principali servono per condurre gli abitanti degli appartamenti ad una collocazione che dovrebbe garantire loro una relativa indipendenza, grazie alla costruzione a balze degli edifici tutti uguali, allineati e disposti a semicerchio, come in un anfiteatro che s’affaccia sul traffico incessante in strade sovrapposte. Percorsi viari che giustificano la loro sovrapposizione separando veicoli, per lo più su rotaia, dai pedoni che dispongono per procedere di comodi nastri rotanti. Tutto è strettamente coordinato, gli utenti di un ingranaggio così scorrevole arrivano dal cielo a bordo di aerei, scendono al suolo e proseguono in direzioni varie, entrando nella rete urbana. Fa da perno del sistema rotante la stazione multiuso, ferroviaria e aerea, assumendo le sembianze di un Moloch che si irradia dovunque, cuore pulsante del colossale insediamento urbano. I piani dell’urbanesimo allora più in voga, la Garden City dell’inglese Howard e la Citè Industrielle di Tony Garnier, ambedue impostate su nuclei abitati autonomi, vengono decisamente respinti. Non più villette borghesi con il relativo recinto verde ma un coacervo di palazzi interconnessi da ponti e passaggi coperti, strade dove corrono veicoli di ogni specie su cui si affacciano i grattacieli, un “abisso”, come lo definisce il Manifesto, sul quale si scatena il “tumulto” del traffico, rischiarato da lampioni su pilastri nei quali riemerge ancora la fascinazione delle svettanti torri secessioniste12. L’inquietante panoramica ha
come ottimistico risvolto la constatazione che ad ogni abitante è consentito di vivere senza differenze di classe, al riparo dei privilegi di potenti, come predica il socialismo rivoluzionario nella versione idealmente pacifista ed equalizzante alla quale Sant’Elia fermamente credeva. Ed è proprio questo il significato profondo della Città Nuova, dove il tempo corrisponde allo spazio e tutti lo consumano in fretta13 nell’ansia di progredire, di vivere godendo delle risorse di un tecnicismo sempre più avanzato, che voleva regalare ai suoi simili un microco-
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smo dominato da un ordine supremo e dalle regole di una giustizia sociale destinata a restare un sogno irrealizzabile. Quel proponimento di palingenesi comunitaria entusiasmò anche Margherita Sarfatti, allora socialista e collaboratrice dell’Avanti, sollecita visitatrice (e acquirente di alcuni disegni) della mostra allestita nelle sale della Famiglia Artistica milanese in via Agnello, due mesi dopo la collettiva degli architetti lombardi, dal sodalizio di artisti che aveva scelto l’etichetta di Nuove Tendenze. Alla sua fondazione aveva partecipato anche Giulio Ulisse Arata, consapevole del fatto che i suoi componenti, di formazione diversa fra loro, avevano comunque un intento avanguardistico di superamento ma non di disprezzo per gli altri operatori dell’arte, ovvero stavano in una posizione moderata riconoscibile con l’appellativo “futuristi di destra”. Nel momento di partecipare alla mostra che costituiva un biglietto da visita del nuovo movimento l’architetto piacentino tuttavia non confermò la sua presenza, segnalando la disapprovazione per un atteggiamento che a suo parere non rispettava le premesse, la linea di tendenza prestabilita insieme e annunciata attraverso giornali e riviste. È proprio il balzo in avanti che Sant’Elia decide di attuare all’interno del movimento, a provocare la rottura con Arata: il tema da trattare infatti per lui non è più l’architettura singola ma il complesso urbano aggiornato, distanziandosi nettamente dagli insegnamenti tradizionalisti degli istituti professionali. E per accentuare il distacco occorreva accompagnare le tavole perfezionate da una stesura accurata, come si addice a un concorso pubblico, con una relazione esplicativa che non si limitasse a descrivere i criteri dell’architettura depurata da incrostazioni decorative, ma puntasse energicamente a “buttar per aria monumenti, marciapiedi, porticati, gradinate, a sprofondare le strade e le piazze, ad innalzare il livello della città, a rimaneggiare la crosta del mondo”. Una rivoluzione, un taglio con il passato, in nome del “nuovissimo mondo meccanico che abbiamo creato” da demiurghi del futuro, “noi, materialmente e spiritualmente artificiali”, per citare passi del testo pubblicato in catalogo, dal linguaggio accentuato da una terminologia retorica di derivazione futurista. Quando la sfida santeliana, abbandonando senza preavviso il sodalizio di Nuove Tendenze, trova rifugio e rilancio nella compagine capitanata da Marinetti (col sostegno e l’approvazione di Boccioni, che rinuncia senza protestare ad un suo documento programmatorio sull’architettura, già compilato)14, Arata non ha più motivi per tacere il suo dissenso e fa partire il siluro contro il manifesto L’architettura futurista divulgato nel luglio 1914, ritenendolo “vuoto nel suo contenuto intrinseco, mediocre nel suo dilettantismo verbale” senza peraltro insistere nel condannare le dissonanze di uno scritto proteiforme, palesemente frutto della verbosità letteraria di diversi interpreti delle idee di Sant’Elia. Di qui il rimprovero diretto al giovane
sant’elia, il futuro di corsa • alberto longatti
comasco per la presunzione di sottrarsi allo studio accademico e “all’uso scientifico dei materiali”, per il suo voler proporsi spavaldamente “di armonizzare con libertà e grande audacia l’ambiente con l’uomo” per ridursi invece a congegnare pretestuose macchine architettoniche capaci semmai, e qui l’accusa si appesantisce, “di immagazzinare l’umanità come si fa col grano in un silos”. Presunti difetti che erano già contenuti nella presentazione di Nuove Tendenze, anche se ora si pretendono provocati unicamente dal ciclone futurista, che avrebbe trascinato all’estremismo concetti e prove di un giovane il quale resta pur sempre per Arata, malgrado l’errore della sua “apostasia” ovvero del cambiamento di squadra, “forte d’ingegno, gagliarda tempra d’artista”15. La stroncatura dell’ex sostenitore non dovette riuscire indifferente al giovane comasco, che non replicò ritornando a lavorare per un anno nella città natia, anche dietro la sollecitazione pressante della madre rimasta vedova, sottraendosi all’invito dei futuristi e persino di alcuni compagni di Nuove Tendenze (fra cui il coordinatore Leonardo Dudreville) di partecipare ai moti interventisti per l’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale e preferendo invece schierarsi con i sostenitori della linea neutralista. Anzi, fece di più, s’iscrisse al partito socialista e accettò di presentarsi alle elezioni amministrative a Como in luglio venendo eletto nella lista del PSI di linea rivoluzionaria, partecipando poi ai lavori del consiglio comunale ed eseguendo alcuni incarichi progettuali affidatigli dalla giunta, oltre ad altri commissionati da privati cittadini. Ma quell’ambizioso progetto urbano, rimasto fermo alla mostra di Nuove Tendenze, che soddisfaceva per lui ideali di natura sociale e politica oltre che artistica, non venne da lui mai rinnegato malgrado non volesse farsene vanto e non l’arricchisse con nuovi disegni. Sant’Elia, fra i primi richiamati, fece il suo battesimo alle armi fra i Volontari Ciclisti assieme ai futuristi, poi lontano da loro in prima linea. Sul Carso si fece valere per lo sprezzo del pericolo, l’altruismo, l’esuberanza. Non volle sottrarsi all’azzardo, preferendo stare in trincea con tutti gli altri, soprattutto con i soldati al suo seguito. Cercò di giocare con la morte fino all’ultimo, persino quando lo incaricarono di progettare e costruire il cimitero della sua Brigata e indicò fra le tombe quella destinata in primo luogo al comandante. Non sapeva che su quella avrebbero dovuto trascrivere il suo nome. Cadde correndo, capelli al vento, contro il nemico, verso il suo destino.
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Note 1 L. Russolo, “Ricordo di Sant’Elia”, La Martinella (Milano), vol. 12, 1958, fasc. X, pp. 336-337. 2 G. Fontana, “Sant’Elia maestro comacino”, La Provincia di Como, 19 agosto 1951, ora in AA.VV., Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como, Cinisello Balsamo, Silvana, 2013, p. 205. 3 A. Bucci, Pane e luna, Urbino, Istituto d’Arte, 1977, vol. II, p 23. 4 Id., “Scapigliatura 1906”, La Lettura (Milano), 1941, ora in D. Bellini, Con Boccioni a Dosso Casina, Rovereto, Nicolodi, 2006, pp. 174-175. 5 Sant’Elia disegnò anche illustrazioni di passi dell’Inferno dantesco, conservate da Gero Fontana che in seguito le cestinò, probabilmente ritenendole non degne dell’ideatore della Città Nuova. 6 A. Rubino, Versi e disegni, Milano, Selga, 1911. La concomitanza della datazione rende probabile, anche se il volume uscì in un’edizione ridotta a sole cinquecento copie, che abbia stimolato la curiosità di Sant’Elia. 7 È ben noto che la ricercatezza e talora la ridondanza della fraseologia è dovuta principalmente all’intervento di Mario Buggelli ed anche alla successiva revisione dello scritto operata da Ugo Nebbia per il catalogo, mentre nel Manifesto è tangibile l’adattamento compiuto da Marinetti alle esigenze propagandistiche del documento. 8 Notevole interesse, come si è avuto modo di segnalare in più occasioni precedenti, suscitò il 23 febbraio 1913 il sorprendente disegno di H.G. Corbett rappresentante La circolazione futura e i grattanuvole a New York apparso sull’Illustrazione italiana nel quale l’innovativa compresenza di percorsi stradali a più livelli per veicoli e pedoni nonché di ferrovie sotterranee non era in sintonia con gli alti edifici soprastanti, concepiti come una sorta di torri o campanili pseudogotici. 9 Filippo Tommaso Marinetti nel settembre 1930 a Como decise di commemorare Sant’Elia incaricando di catalogare i disegni conservati dai famigliari un giovane futurista al suo seguito, Michele Leskovic, nome d’arte Escodamè, di professione poeta. Il Leskovic suddivise con diligenza i 95 disegni della collezione comasca in varie categorie e quando dovette dare un titolo identificativo a un gruppo di disegni d’incerta destinazione pensò bene di attribuire loro una tematica d’impronta futurista, il “dinamismo”: li considerò oggetti in movimento, astrazioni. Si trattava invece di elementi strutturali da inserire in organismi architettonici complessi. La mostra All’origine del progetto alla Pinacoteca civica di Como, allestita dal 25 novembre 2016 al 26 febbraio 2017, ne ha dato conto con una adeguata ricerca esemplificativa. 10 G. U. Arata, “La prima mostra d’architettura promossa dall’Associazione degli architetti Lombardi”, Vita d’Arte (Milano), 1914, marzo, pp. 66-72. 11 Id., Costruzioni e progetti con alcune note sull’architettura contemporanea, Milano, Hoepli, 1942, pp. XVIIXIX. 12 Fra disegni e tavole esposti nella mostra di Nuove Tendenze Sant’Elia inserì un disegno del 1912, posticipando la data al 1914 con una sovrapposizione in matita, perché aveva considerato in esso la sussistenza dello stile secessionista poco significativa mentre poteva essere interessante il soggetto, la “torre faro” così denominata da Escodamè ed oggi corretta nella più esatta definizione di “torre lanterna” nel catalogo della collezione della Pinacoteca civica comasca. Il caso, e forse la dicitura “Como” accanto alla data, ha fatto sì che il disegno venisse scelto da Marinetti nel 1930 come modello per il Monumento ai Caduti della città lariana e poi realizzato dai fratelli Attilio e Giuseppe Terragni nel 1931-33. Il disegno, di stampo sobriamente hoffmanniano, aveva subìto l’influenza della visita che Sant’Elia fece con alcuni amici alla mostra del padiglione austriaco, progettato appunto da Hoffmann, nell’Expo di Roma del 1911. 13 Questa concezione dello spazio/tempo, evidenziata come se fosse un’allegoria nella stazione multimediale, viene associata al relativismo einsteiniano nell’ardita ipotesi di un filosofo canadese. Cfr. S. Kwinter, Architectures of Time. Toward a Theory of the Event in Modernist Culture, Cambridge (Massachussetts) — London, The Mit Press, 2002. 14 Lo scritto di Boccioni, anteriore al Manifesto di Sant’Elia ma probabilmente non di molto, venne ritrovato fra le carte di Marinetti nel 1972. Vedi Z. Birolli, Boccioni, altri inediti e apparati critici, Milano, Feltrinelli, 1972. 15 G. U. Arata, “L’architettura futurista”, Pagine d’Arte (Milano), 1914, 30 agosto, pp. 1-3.
la collezione degli eredi di antonio sant’elia
Maria Letizia Casati
Nel contesto di un convegno dedicato alla figura di Sant’Elia, ho ritenuto significativo proporre una relazione rivolta all’analisi di quella parte del patrimonio grafico dell’architetto che è rimasta nell’ambito della sua famiglia. Ai nostri giorni tale realtà corrisponde essenzialmente alla collezione che fa capo ad Anna e Gianfranca Sant’Elia, che ne sono custodi sensibili e attente alla valorizzazione. Ad esse va il mio sentito ringraziamento per avere consentito con estrema liberalità l’accesso alle opere, la riproduzione delle stesse e la loro pubblicazione1. Anna e Gianfranca sono nipoti in linea diretta di Guido, fratello dell’architetto2, e ricevettero i disegni nel 1971, anno della morte della prozia Giuseppina, sorella di Guido e di Antonio, e titolare sino a quel momento della proprietà dei fogli, dopo la morte della madre3. Guido ebbe due figli, un maschio e una femmina4. Giuseppina Sant’Elia5 assegnò alle figlie del nipote, nato nell’anno della morte di Antonio da cui ereditò il nome, il nucleo principale, e ai figli della nipote un foglio ciascuno6. La raccolta originaria da cui proviene la collezione corrisponde al patrimonio grafico prodotto e riunito dallo stesso architetto e da lui dato in custodia ai propri cari nel 1915, prima della partenza per la guerra, da cui non avrebbe fatto ritorno7. Per comprendere le ragioni della consistenza e della composizione della collezione attuale, è utile ripercorrere sinteticamente le vicende che hanno accompagnato il nucleo originario per circa sei decenni. Già nel giugno del 1915, prima di essere trasferito da Milano a Como, il nucleo subisce la perdita dei dodici fogli che rimangono nello studio di via San Raffaele, occupato dal 1913 da Sant’Elia, che evidentemente li cede al pittore Carlo Prada, quale forma di risarcimento per l’affitto del locale. Questa serie, di notevole interesse perché annovera numerose varianti del progetto di un edificio urbano d’angolo, fu con evidenza oculatamente selezionata dall'amico pittore ed è attualmente dispersa8. Nel 1917, rimangono all’ingegnere Luigi Angelini di Bergamo, che aveva conosciuto Sant’Elia al tempo degli studi milanesi, i tre disegni scelti per illustrare l’articolo richiestogli e pubblicato sulla rivista Emporium, in ricordo dell’amico scomparso da pochi mesi9.
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Antonio Sant’Elia, Studio di un edificio d’angolo (già coll. Carlo Prada, ubicazione sconosciuta)
pagina a fronte Lettera inviata da Antonio Sant’Elia alla sorella nel 1916 (collezione Anna e Gianfranca Sant’Elia, d’ora in avanti AGS) Sant’Elia, progetto di un albergo pianta del piano terreno, particolare (inv. AGS2)
Nel 1930 la raccolta è oggetto della selezione compiuta da Michele Leskovic in funzione delle esposizioni promosse da Filippo Tommaso Marinetti, che si tengono a Como, Milano e Roma10. La cernita delinea il primo dei due nuclei più consistenti che lasceranno la collezione. Comprende le tavole esposte alle mostre del 1914 e altri disegni graficamente più risolti. Non comprende i disegni della formazione. Già nello stesso anno, tra la mostra di Milano e quella di Roma, alcune tavole di questo nucleo diventano di proprietà privata, dell’avvocato Carlo Emanuele Accetti11. Negli anni successivi si verificano altre piccole cessioni, come ad esempio i fogli passati in alcune collezioni milanesi, tra cui i due disegni divenuti di proprietà di Gianemilio Monti12. Nel 1943, 88 disegni, il residuo di quelli esposti alle mostre del 1930, vengono acquistati da una cordata di mecenati comaschi guidata dall’artista Manlio Rho e dall’industriale Gianni Stecchini, che l’anno successivo ne fanno dono al Museo Civico di Como13. Nel 1962 è lo stesso Museo Civico ad acquistare dalla sorella dell’architetto un secondo nucleo di 65 disegni, selezionato da Luciano Caramel e Alberto Longatti, in vista della mostra monografica che il Comune di Como si appresta ad organizzare presso Villa Olmo14. È il caso di sottolineare come il trasferimento di due grossi nuclei dalla raccolta posseduta dalla famiglia alle collezioni civiche di Como sia stato possibile grazie all’attuarsi di una virtuosa convergenza di intenti tra privato e pubblico. Sul primo fronte vanno annoverate sia la straordinaria mobilitazione cittadina, verificatasi durante la seconda guer-
ra mondiale, finalizzata ad evitare la dispersione di un patrimonio a cui veniva riconosciuta, con lungimiranza, la capacità di contribuire all’immagine identitaria del capoluogo lariano; sia la disponibilità della famiglia, che ha consapevolmente corrisposto all’obiettivo con la cessione, in ben due occasioni, di una parte del patrimonio familiare con modalità diverse da quelle che avrebbero garantito una maggiore resa economica, con altri criteri e verso altri acquirenti. Sull’altro fronte va reso onore all’ente pubblico di avere investito, con l’acquisizione del secondo nucleo, in un bene culturale foriero di un non immediato e facile riscontro d’immagine, sebbene dalle potenzialità estremamente ricche, per conseguire le quali però è richiesto un investimento continuo e la creazione di un apparato di gestione idoneo. La costituzione della raccolta più consistente e significativa della produzione grafica dell’architetto in mano civica ha infatti contestualmente comportato la ricaduta di gran parte della responsabilità della tutela e della valorizzazione dell’opera e quindi della figura dell’architetto sull’ente pubblico. Spetta dunque ora ad esso l’onere di promuoverne lo studio, ricostituendo innanzi tutto, anche solo virtualmente, il corpus dei disegni (monitorando le collocazioni note, rintracciando i disegni dispersi, acquisendo quelli sconosciuti che progressivamente riemergono dal mercato antiquario) e riunendo tutte le informazioni di base deducibili da essi e dalla documentazione difficilmente reperibile, per metterli a disposizione degli studiosi. Si inserisce dunque in tale processo, dopo la revisione critica dei disegni della collezione civica comasca coordinata dalla scrivente15 e la realizzazione di un sito online dedicato all’architetto16, la rivisitazione della collezione di Anna e Gianfranca Sant’Elia, che, sebbene non si componga di disegni inediti, merita tuttavia di essere ancora sottoposta a una nuova indagine sistematica, per mettere in luce aspetti conoscitivi sinora ignorati17.
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
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Timbro dello studio di via San Raffaele 3 a Milano Filigrana Johannisthal
pagina a fronte A. Sant’Elia, studio della facciata di una chiesa, 1913 (AGS34)
In ragione delle vicende che hanno determinato la sua formazione, la collezione attuale non presenta i caratteri di un gruppo sistematico, ma neppure quelli di un gruppo riunito dal caso, presenta piuttosto l’aspetto di un resto, una rimanenza di un insieme originario dall’alto valore significante. Ciò che emerge ad un primo esame sono infatti in negativo i criteri adottati da terzi nella selezione dei fogli asportati, che, come è facile immaginare, hanno seguito la logica della scelta dei disegni più completi e affascinanti, scartando quelli più problematici e apparentemente marginali, anche se appartenenti alla stessa tematica. Tuttavia l’apparente marginalità del nucleo, anziché rappresentare una debolezza, ne costituisce all’inverso la forza. Infatti, in virtù della provenienza certa e della continuità della permanenza nelle mani della famiglia, la raccolta riveste una grande importanza, essenzialmente per tre ragioni. Attesta in primo luogo l’autenticità proprio dei disegni più problematici, che diventano paradigmatici, cioè termini di paragone per altri fogli dello stesso tipo dalla provenienza incerta. In secondo luogo consente di conoscere con maggiore cognizione la complessità dei temi progettuali affrontati dall’architetto, sui quali forse avrebbe voluto continuare a ragionare. Permette infine di indagare lo sviluppo del pensiero creativo dell’artista, grazie alla conservazione degli schizzi marginali, che rappresentano delle connessioni imprescindibili nel processo mentale della progettazione, per sua stessa natura di carattere eminentemente analogico, cioè non lineare-evolutivo e meccanicistico, ma diramato e con continui ricorsi. È opinione condivisa dalla critica che l’interesse scientifico per Sant’Elia e per le raccolte dei suoi disegni riceva un corretto inquadramento a partire dalla metà degli anni 1950 in seguito alla pubblicazione degli articoli di Reyner Banham18. In occasione della ricorrenza del cinquantenario del primo Manifesto del Futurismo, lo studio degli artisti che
vi avevano fatto parte vede infatti anche una nuova modalità di approccio all’opera di Sant’Elia. Alla mostra sul Futurismo, allestita in Palazzo Barberini a Roma nel 1959, viene esposto per la prima volta un consistente numero di disegni della collezione della famiglia, che allora includeva ancora il secondo nucleo di fogli, che di lì a breve sarebbe stato acquisito dal Museo di Como19. Erano dunque maturi i tempi per la ricostruzione integrale del catalogo e per una mostra monografica, che sarebbe stata realizzata nel 1962 a Como con la curatela di Luciano Caramel e Alberto Longatti, ai quali va riconosciuto il merito di avere compiuto il lavoro scientifico di base per la comprensione dell’opera dell’architetto comasco, la messa a punto cioè delle principali tematiche attorno alle quali aggregare i disegni, della loro scansione cronologica e dell’attribuzione di un titolo identificativo di ciascun foglio20. I due studiosi apportano poi alcuni aggiustamenti nel catalogo generale del 198721, ma sostanzialmente i dati connotativi da loro attribuiti serviranno da base di riferimento per tutti gli studi e le
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
Tavola della prova d’esame sostenuta da Sant’Elia all’Accademia di Bologna per il conseguimento del diploma di Professore in Disegno Architettonico, 1912 (collezione privata)
la collezione degli eredi di antonio sant’elia • maria letizia casati
mostre posteriori al 1962, tra le quali vanno segnalate, per l’ampio spazio riservato ai disegni della collezione di cui si tratta, le esposizioni curate da Guido Ballo a Milano nel 1982 e nel 1989 e la mostra itinerante americana del 198622. Attualmente la collezione di Anna e Gianfranca Sant’Elia si compone di 64 fogli e di un piccolo nucleo di documenti, tra cui alcuni scritti relativi alla corrispondenza dell’architetto con la famiglia, interessanti per ricavare sia informazioni storiche, sia per conoscere la sua grafia privata. Si citano, a titolo di esempio, la cartolina postale inviata alla madre nell’agosto del 1915 e la lettera inviata alla sorella nel 1916, che presentano una grafia veloce e non controllata, utile base di confronto per verificare sui fogli di lavoro le annotazioni rapide di mano dell’artista23. I temi progettuali documentati nella collezione e la quantità di fogli riferibile a ciascuno di essi sono così sintetizzabili: planimetria di un villino (1); planimetrie dei piani terreno e primo di un albergo (2); studi di palazzo (18); pannelli decorativi (3); studi per monumenti funerari (8); studi per edifici di culto (10); studi per stazione (4); studi per strutture singole (2 torri, 1 ponte); studi per edifici industriali (6); studi per centrale elettrica (3); studi per casamento (4) e due schizzi con ritratti. Tra questi temi progettuali si impongono, per la consistenza numerica dei fogli, gli studi per un palazzo, per i monumenti funerari, per gli edifici di culto, e, per l’interesse del tema, gli studi per la stazione, per la centrale elettrica e per il casamento della città nuova. Prima di affrontare l’analisi di alcuni temi progettuali, meritano un accenno alcuni dati tecnici. Per quanto riguarda le iscrizioni, va detto che la raccolta non include fogli firmati e datati e pochi presentano iscrizioni di mano dell’architetto, riscontrabili quasi esclusivamente sulle planimetrie, per indicare le destinazioni d’uso dei locali, o su alcuni schizzi funzionali alla realizzazione degli esecutivi che recano indicazioni dimensionali, come le misure del cordolo e della stele sullo studio della tomba Caprotti. In base alla grafia presente sugli scritti privati, l’annotazione “scrivere avvocato” sul verso di un foglio potrebbe essergli attribuita. Il fatto che la raccolta si presenti a fogli sciolti agevola la lettura e la registrazione di altri dati significativi che andrebbero archiviati in un database, in cui far confluire, come si è accennato, analoghe informazioni deducibili dai fogli di altre collezioni, per poter così dedurre osservazioni comparative. L’interpretazione di alcuni di essi va ancora sciolta, come quella relativa a una numerazione a inchiostro seppia, composta da due lettere e da due cifre (SE?), riferibile probabilmente a una selezione per mostra operata prima delle esposizioni del 1930. La numerazione, scritta a mano a inchiostro rosso, e il timbro, a inchiostro viola con il nome e gli estremi cronologici dell’architetto, si devono alla famiglia e furono apposti negli anni precedenti all’ingresso del primo nucleo di disegni al Museo di Como nel 1944,
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A. Sant’Elia, studi per edifici di culto (AGS40) Filigrana EXTRA STRONG Filigrana Linen ZRC Extra Strong
entrambi sono infatti presenti sui fogli di proprietà civica provenienti dalla raccolta familiare. Il timbro dello studio di via San Raffaele a Milano costituisce un utile marcatore cronologico, anche se non puntuale poiché corrisponde a un arco di tempo che va dal 1913 alla metà del 1915. Le etichette e i numeri presenti sul verso di molti fogli sono stati apposti in occasione delle selezioni condotte per le esposizioni e trovano corrispondenza con i numeri di scheda nei cataloghi delle mostre. Per quanto riguarda i supporti, la maggior parte dei disegni è realizzata su fogli rettangolari di dimensione standard, di circa cm 28x21, di carta di qualità modesta. Sebbene oggetto di numerosi tagli, si ha tuttavia motivo di supporre che anche i fogli in carta da lucido fossero usati nelle dimensioni standard di cm 28x21. Non si può invece estendere tale deduzione ai supporti in cartoncino, poiché le attuali dimensioni, frutto di numerosi ritagli, non consentono di risalire virtualmente al formato originale. Numerosi schizzi sono su fogli con dentelli, provenienti da blocchetti. Il lavoro di ideazione veniva dunque condotto su formati di dimensioni contenute. Un discreto numero di disegni è invece su carta di buona qualità, caratterizzata dalla presenza della filigrana, di cui si riconoscono tre marchi. Il nome in filigrana Johannisthal è presente su un foglio da blocchetto che reca sul recto lo schizzo della facciata di una chiesa, e sul verso il timbro dello studio milanese di via san Raffaele, in base al quale la datazione non può essere collocata in data anteriore al 191324. La recente comparsa sul mercato antiquario di una tavola della prova d’esame per il conseguimento del diploma di Professore in Disegno Architettonico25, sostenuta presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna nei mesi di ottobre e novembre del 1912, il riconoscimento nel Fondo Luigi Saccenti di Bologna di un’altra tavola della stessa prova d’esame e il rinvenimento di due foto d’epoca di altre due tavole disperse (o andate distrutte)26 consentono, oltre alla possibilità di confermare il riconoscimento degli schizzi preparatori conservati in alcune collezioni pubbliche e private27, di collocare nella corretta sequenza l’accurato schizzo del-
la collezione degli eredi di antonio sant’elia • maria letizia casati
la collezione di famiglia. La relazione esplicativa della prova d’esame, di cui l’Accademia bolognese conserva la minuta, descrive dettagliatamente il progetto elaborato, avente per tema la facciata del transetto di una grande chiesa metropolitana. Secondo quanto scrive lo stesso architetto: “La porta della mia cattedrale è ispirata a quella della chiesa di S. Fedele a Como”28. Egli prosegue descrivendo le varie parti della facciata e il significato simbolico del ricco corredo scultoreo, che trova perfetta corrispondenza nelle tavole rinvenute: Due piloni con due figure simboliche chiudono questo ingresso e nella strombatura di detta porta vi son delineate delle figure ploranti stilizzate […] Sopra la porta vi è un gran pilone con tre cavalieri messi come in uno stato di difesa della religione e sullo sfondo di questo vi è una vetrata a colori vivaci che si estende pure ai due corti laterali. In queste vetrate son segnate delle figure stilizzate di angeli. I quattro grandi piloni che servono di contrafforti portano 4 figure simboliche che dovrebbero significare il trionfo della fede e nella parte inferiore di essi vi sono delle figure che vorrebbero significare lo spirito del male messo a sostegno, anzi calpestate dallo spirito del bene29.
Nello schizzo della raccolta degli eredi l’apparato scultoreo risulta notevolmente ridotto per lasciare spazio a una più complessa articolazione architettonica. Il portale infatti si fonde con il retrostante pilone reggente le statue dei cavalieri, qui ridotte ad una sola in posizione assiale. Il pilastro assume una dimensione imponente e la fusione dà origine a un avancorpo, che acquista un’importanza paritetica e complementare al corpo retrostante. Il foglio si pone pertanto quale traitd’union tra i progetti per gli edifici di culto elaborati nel 1912 e quelli successivi al 1913, nei quali l’avancorpo diventa un elemento cardine nella connotazione dell’edificio, come risulta ad esempio negli studi presenti su un cartoncino della stessa collezione30. Il secondo tipo di filigrana si sviluppa sul bordo di due disegni un tempo appartenenti al medesimo foglio e in stretta relazione tra loro, perché riferibili allo stesso progetto, quello di un edificio dalla concezione estremamente originale, il cui ingresso, fortemente incassato, si colloca tra due corpi edilizi composti da strutture verticali accostate e gradualmente rientranti. Il disegno è databile, per confronto con alcuni schizzi datati delle collezioni civiche di Como, al 191331. Il terzo tipo di filigrana appartiene alla carta utilizzata nello Studio Cantoni, per i telegrammi, le lettere, i fogli d’appunti. Due sono le occasioni note in cui Sant’Elia intrattenne rapporti di collaborazione con lo Studio Cantoni: nel 1912 per la seconda fase del Concorso per la Stazione Centrale di Milano e tra il 1913 e il 1914 per la partecipazione alla preparazione delle tavole al primo e al secondo grado del Concorso per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona. Sui fogli dello studio Cantoni esegue diversi schizzi, tra cui un buon numero è dedicato al tema dello studio di un Palazzo, come risulta senza equivoci dall’iscrizione presente sulla trabeazione di uno di essi32. Questo schizzo costituisce già il punto di arrivo di una serie di elaborazio-
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A. Sant’Elia, studio di edificio, schizzo prospettico (inv. AGS54)
ni, la cui origine potrebbe essere individuata in un piccolo pensiero, che presenta una struttura edilizia composta da un corpo centrale monumentale, fiancheggiato da ali laterali33. L’iscrizione a caratteri capitali induce ad avanzare l’ipotesi che gli schizzi siano associabili al progetto di un palazzo governativo, tema che si era imposto nei decenni a cavallo tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo sia a livello nazionale, in quanto con l’unità d’Italia numerose realtà urbane periferiche furono destinate ad assumere un ruolo di governo del territorio, come capoluoghi di provincia ad esempio, sia a livello internazionale, con la creazione delle capitali degli stati nazionali in seguito all’indipendenza conquistata nel corso del secolo XIX34. Il tema progettuale dei palazzi governativi si colloca in un ambito fortemente ideologico, in cui l’esigenza di autorappresentazione delle istituzioni attraverso l’architettura travalica il legame con la storia architettonica naziona-
A. Sant’Elia, studio di Palazzo (inv. AGS18) A. Sant’Elia, pensiero di Palazzo (inv. AGS8) A. Sant’Elia, pensiero di Palazzo, particolare (inv. AGS5) Il foglio reca l’impronta del timbro dello studio di via San Raffaele a Milano
le per cercare il riferimento a modelli tipologici e formali ritenuti universalmente riconoscibili quali sedi di gestione del potere35. Lo schizzo su un altro foglio, recante l’impronta del timbro dello studio di via san Raffaele, mostra la variante del pensiero progettuale che risulterà vincente: nel corpo centrale è inserita una grande arcata, che rompe la compattezza del blocco edilizio36. Altri fogli documentano lo studio di alcuni dettagli architettonici, ad esempio dei piedritti che inquadrano l’arcata: colonne o pilastri posti su un alto basamento. Il lavoro compiuto su due fogli in carta da lucido, che sviluppano la stessa tematica, attesta, oltre a una metodologia operativa che prevedeva l’avvio del lavoro con gli strumenti del disegno e il proseguimento a mano libera, la ricerca grafica per il corretto posizionamento dell’arco e il conseguimento della composizione risolutiva, che comporta l’inserimento di una fascia finestrata in corrispondenza dei capitelli dei piedritti, le cui altezze risultano equi-
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A. Sant’Elia, studio di Palazzo (inv. AGS11) A. Sant’Elia, studio di Palazzo (inv. AGS13) A. Sant’Elia, studio di Palazzo (inv. AGS19) A. Sant’Elia, studi di dettagli architettonici (inv. AGS20) A. Sant’Elia, casa a gradoni (Pinacoteca Civica, Como)
valenti a quella dell’apertura finestrata37. La simmetria insita nella composizione consente di sviluppare solamente la parte sinistra dello studio. La stessa soluzione è ripetuta in altri disegni, alcuni dei quali appartenenti alla collezione civica di Como, in cui l’arco è scandito a sua volta da due pilastri e una travatura, posta in corrispondenza dell’altezza del basamento della facciata38. Gli studi di palazzo furono collegati in passato al progetto della Cassa di Risparmio di Verona e certamente essi ne costituiscono un presupposto per l’impianto monumentale e il carattere rappresentativo, tuttavia il linguaggio di matrice classicista impedisce di vedervi un legame consequenziale, come già è stato rilevato. Sarebbe interessante poter verificare la sussistenza di relazioni tra tali schizzi con altri bandi dell’epoca, aspetto che consentirebbe di aprire un nuovo capitolo su eventuali altre collaborazioni professionali intrattenute da Sant’Elia39. Per quanto riguarda il progetto dell’istituto bancario veronese, l’équipe in cui opera Sant’Elia cerca di adeguare i prospetti, come richiesto dal bando40, al contesto medievale della piazza, spostando ad esempio la monumentalità agli angoli, come si vede nel disegno della facciata su piazza delle Erbe delle collezioni civiche comasche, e abbandonando i principi dell’assialità e della simmetria, sebbene questa, scomparsa dai prospetti,
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si ripresenti nella pianta del corpo edilizio, che all’interno dell’isolato, è destinato alla banca vera e propria41. In ogni caso la fascia finestrata alternata a elementi decorativi della banca veronese deriva certamente dagli studi di dettaglio per palazzo42, che si spingono fino alla definizione dei corpi illuminanti a parete, schizzati su un altro foglio. Sebbene il lessico usato nei progetti sin qui illustrati sia abbastanza distante da quello degli edifici della Città Nuova, tuttavia tracce di queste esperienze progettuali sono riscontrabili nel successivo processo creativo. L’arco parabolico, con cui è definita una delle due soluzioni della galleria generata dall’accostamento di due case a gradoni, risulta infatti scandito in tre parti da due piedritti strutturali ed è innalzato su un alto basamento. La memoria dell’iscrizione sommitale a caratteri capitali, che sulla trabeazione del palazzo esplicitava la destinazione funzionale dell’edificio, è sulla casa a gradoni tradotta in forma aggiornata nel messaggio pubblicitario. L’analisi dei disegni della ex collezione Prada, di cui si è fatto cenno, contribuirebbe a mettere in luce altre significative fasi di mediazione tra gli studi della formazione e gli edifici della Città Nuova, in particolare meriterebbe un’analisi dettagliata l’iter progettuale rivolto alla soluzione d’angolo di un edificio, tema che surclassa per importanza la definizione dei prospetti singolarmente considerati, e che vede nell’uso dello schizzo prospettico il mezzo tecnico più idoneo a sviluppare il pensiero ideativo43. Il secondo tema, che, per quantità, riunisce un numero consistente di fogli della raccolta, è quello riguardante il monumento funerario. La tomba per Gerardo Caprotti, realizzata nel Cimitero di Monza alla fine del 1914 dopo un lungo percorso progettuale, parte dall’idea di un busto su basamento44, che si tramuta in un totem recante l’effige a bassorilievo del defunto, affiancato alla base da due volumi semicilindrici45, successivamente fusi con la parte inferiore del totem in un basamento unico, che consente alla parte superiore di dilatarsi e diventare una stele46. Il progetto del monumento risulta alla fine composto, nella metà anteriore da volumi essenziali che richiamano gli elementi classici dell’arte funeraria: la stele, aggiornata dalle due lampade laterali, l’urnetta alla sua base, la sepoltura ipogea suggerita dalla grata, e nell’altra metà, libera, dall’elemento simbolico-naturale della fiamma, rappresentato dal cipresso47. Su quest’ultimo foglio in alto a sinistra è tracciato anche a matita un pensiero raffigurante una composizione plastica più ardita e originale, memore tuttavia, nei volumi cilindrici posti a sorreggere l’urna sommitale, di modelli dell’antichità classica48. Registra una composizione volumetrica totalmente inversa un altro studio per un monumento funebre (forse per il padre Luigi, deceduto agli inizi del 1914): in esso infatti la stele è incassata tra due elementi verticali che la sovrastano in altezza49. È evidente il richiamo in questa organizzazione volumetrica ad altri elaborati, tra i quali in particolare si vuole ricor-
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pagina a fronte A. Sant’Elia, primo pensiero per il monumento funerario Caprotti (AGS25r) A. Sant’Elia, studio per il monumento funerario Caprotti, dic.1913 (AGS30) A. Sant’Elia, studio per il Monumento funerario Caprotti, 1914 (AGS29) A. Sant’Elia, studio prossimo alla soluzione finale del monumento funerario Caprotti, 1914 (inv. AGS28) A. Sant’Elia, studio per monumento funebre (a Luigi Sant’Elia?), 1914 (inv. AGS32) A. Sant’Elia, pensiero per l’interno di un edificio di culto a pianta centrale con cupola (inv. AGS36a) A. Sant’Elia, pensiero della pianta e della nicchia angolare per un edificio di culto con cupola (inv. AGS42) A. Sant’Elia, studio per una centrale elettrica (inv. AGS57) A. Sant’Elia, centrale elettrica (collezione privata)
dare il disegno policromo delle collezioni civiche di Como raffigurante un Monumento con lanterne, che rivela così di possedere già in origine una connotazione memoriale, recepita e valorizzata molti anni dopo, negli anni 1930, quando fu scelto quale modello per realizzare il Monumento ai Caduti della città di Como50. Tra gli schizzi riuniti sotto la classificazione di “edifici di culto” senz’altro appaiono molto problematiche le due varianti dell’interno di una struttura a pianta centrale51, collegabili a un foglio con lo schizzo di una pianta poligonale in cui è inscritto un cerchio, allusivo alla cupola, e gli studi di una nicchia angolare52. Per quanto molto sommari, gli schizzi appaiono la rielaborazione aggiornata e innovativa di una tipologia dell’edilizia sacra, cara al mondo tardo-rinascimentale e barocco, che a sua volta riprendeva in forma rinnovata tipologie tardo antiche. Due notazioni possono contribuire a gettare una luce sullo studio di questi fogli. La prima riguarda il fatto che nel 1915 Giulio Ulisse Arata, vincitore del Concorso per la chiesa di San Vitale a Salsomaggiore53, per il quale Sant’Elia elaborò numerosi studi senza tuttavia parteciparvi, presentò in secondo grado i disegni di un edificio a pianta centrale con ampie cappelle lungo gli assi perpendicolari e nicchie lungo gli assi diagonali54. La seconda è che Sant’Elia ebbe dal novembre del 1915 al maggio 1916 una lunga licenza premio, si trovava dunque lontano dal fronte, presumibilmente attivo tra Milano e Como e nelle condizioni di riprendere contatti e qualche attività. I due fatti, apparentemente casuali, inducono a ipotizzare una relazione, anche solo tematica, tra il progetto presentato nella primavera del 1915 dall’architetto piacentino e la ricerca documentata dagli schizzi del comasco, che mostrano, a confronto con gli elaboratici grafici del primo, di spingersi verso un rinnovamento più radicale di quella particolare tipologia architettonica. Un significativo contributo alla comprensione dell’elaborazione progettuale relativa al tema delle centrali elettriche è fornito da un foglio su cui, a inchiostro seppia, sono tracciate la veduta prospettica, la sezione e la veduta frontale del pensiero iniziale di una centrale, mentre al centro è tracciata a matita ed è evidenziata ad acquerello verde la soluzione formale conferita alle torri, in risposta al problema statico posto dalla collocazione su un pendio55. Tale forma caratterizza i pilastri di una delle tavole più note delle centrali, appartenuta alla collezione della famiglia, passata poi nella collezione Accetti56. La stessa evoluzione avranno nell’arco di quegli anni le ciminiere dei grandi transatlantici, per analoghe questioni di stabilità statica. Una tappa del processo di elaborazione del casamento per la Città Nuova è documentato da un foglio disegnato a inchiostro rosso57. Circondata dagli studi di dettaglio è al centro una struttura composta da due corpi edilizi paralleli, introdotti da due torri, collega-
ti da una passerella aerea, e posti a due differenti piani urbani, al secondo del quale si accede tramite una scalinata. La soluzione è memore di precedenti pensieri progettuali, anche degli anni della formazione, ma si proietta decisamente verso il casamento raggiungibile a diversi livelli di percorrenza. Ancora a proposito del casamento per la Città Nuova, un piccolo foglio reca il dettaglio della sezione sul recto, e sul verso, a rovescio, la sommità di una casa a gradoni58. Quest’ultimo
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A. Sant’Elia, studi per un edificio della Città Nuova (inv. AGS62) A. Sant’Elia, studi di edifici per la Città Nuova, recto e verso di un foglio della collezione (inv. AGS61ab) accostati a recto e verso del foglio della collezione Walker di New York (la cui carta è volutamente brunita nella riproduzione per differenziarli)
frammento costituisce il completamento del disegno presente sul verso di un foglio della collezione Kenneth Walker di New York, sul cui recto è tracciata la sezione completa della casa a gradoni59, resa prospetticamente nell’insieme su un foglio delle collezioni civiche comasche60. Infine in relazione al tema della stazione ferroviaria, costantemente al centro degli interessi e dell’attività progettuale dell’architetto, gli studi planimetrico e prospettico di un ingresso con pensilina61 sono cronologicamente ancora prossimi alle soluzioni predisposte per il concorso del 1912 per la stazione Centrale di Milano, certamente influenzate dal progetto di Saarinen per la stazione di Helsinki, al quale il nostro si avvicina anche per la soluzione di imbrigliare in quattro pilastrini angolari una torre, dettaglio documentato su un altro foglio. Il tema della pensilina monumentale, quale elemento di connessione tra lo spazio urbano esterno e quello interno, caratterizzerà a lungo il progetto della stazione. L’elemento che differenzia il prospetto laterale del medesimo tipo di edificio schizzato su un foglio della raccolta62 da quello delle collezioni civiche comasche è infatti la torre con pensilina, che, grazie alla dilatazione della base, consente anche una maggiore connessione con il corpo edilizio vero e proprio. Il tema della torre reggente gigantesche pensiline sospese torna in un altro foglio63, da porre in relazione con le soluzioni elaborate nel 1913, qui esemplificate da un disegno dei Musei.
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A. Sant’Elia, studio di Case a gradinata (Pinacoteca Civica, Como) A. Sant’Elia, pianta e studio prospettico della pensilina d’ingresso di una stazione ferroviaria (inv. AGS44) A. Sant’Elia, studi di torri con pensiline (inv. AGS47) A. Sant’Elia, studio di passaggio sopraelevato (inv. AGS48) A. Sant’Elia, schizzo di stazione per treni e aerei (Pinacoteca Civica, Como).
Il confronto tra il noto disegno della stazione di Milano della collezione Monti64 e uno studio per la stazione di treni e aerei delle collezioni civiche comasche mostra invece come, ad un certo punto, pur nella continuità formale della struttura edilizia, l’ingresso monumentalizzato dalla pensilina scompaia. Prende il suo posto il tema del passaggio sopraelevato di collegamento, esemplificato dallo schizzo qui riprodotto, in cui l’accesso a metà percorso è sormontato da una copertura sorretta da tralicci metallici65. L’ingresso monumentale con grandi pensiline, a poco meno di due anni dal progetto per il concorso della stazione di Milano, non è più necessario perché a questo punto la concezione spaziale urbana maturata da Sant’Elia è completamente evoluta, i livelli di percorrenza si sono stratificati, gli interscambi tra un mezzo e l’altro avvengono nel sottosuolo e la concezione di una città composta da presenze monumentali isolate è stata superata da quella di un’edificazione continua e plurifunzionale.
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Abbreviazioni Ashton-Ballo 1986: D. Ashton, G. Ballo, Antonio Sant’Elia, catalogo della mostra itinerante negli USA curato da G. Negri e C. Panicali, Milano, Mondadori, 1986 Ballo 1982: G. Ballo, Boccioni a Milano, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, dicembre 1982 - marzo 1983), Milano, Mazzotta, 1982 Ballo 1989: G. Ballo, Sant’Elia e l’ambiente futurista, catalogo della mostra, Milano, Accademia di Brera, Sala Napoleonica, maggio - luglio 1989, Milano, Mazzotta, 1989 Borghi-Raffaghello 2009: R. Borghi, S. Raffaghello, A+B+C/F=Futurismo. 100 anni di parole in libertà, catalogo della mostra, Alessandria, Palazzo del Monferrato, 14 giugno-26 luglio 2009, Alessandria, Edizioni Gli Alberi, 2009 Caramel-Longatti 1962: L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia, catalogo della mostra, Como, Villa Olmo, settembre 1962, Como, Tip. Editrice C.Nani, 1962 Caramel-Longatti 1987: L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia. L’opera completa, Milano, Mondadori, 1987 Caramel-Longatti 1988: L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia. The complete works, New York, Rizzoli, 1988 Caramel-Longatti 1991: Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata, catalogo della mostra a cura di L. Caramel e A. Longatti, Venezia, Ca’ Pesaro, 7 settembre - 17 novembre 1991, Venezia, Marsilio, 1991 Caramel-Longatti-Casati 2013: Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como, a cura di L. Caramel, A. Longatti, M.L. Casati, Milano, Silvana, 2013 Drudi Gambillo-Fiori 1962: M. Drudi Gambillo, T. Fiori, Archivi del Futurismo, Roma, De Luca, 1962, vol. II Salaris 1990: C. Salaris, Antonio Sant’Elia — Carlo Erba. Tra Futurismo e Nuove Tendenze, catalogo della mostra, Roma, Galleria Giulia, 15 maggio - 15 giugno 1990, Roma, Edizioni Il Campo, 1990 Note Desidero ringraziare Ezio Godoli per l’invito a partecipare al convegno di studi dedicato all’architetto comasco. Guido nacque a Como nel 1886 e vi morì nel 1944. Sposò Carolina Bonoldi. 3 Luigi Sant’Elia (Como, 1845) morì il 19 gennaio del 1914. L’architetto elaborò il progetto di un monumento funebre per il padre. La madre, Cristina Panzillo (Capua, 1848) morì a Como nel 1922. 4 Il figlio di Guido, Antonio, nacque nel 1916 e mori nel 1955. Sposò Anselma Cavedoni, da cui ebbe due figlie, Anna e Gianfranca. La figlia di Guido, Gianna, nacque nel 1918 e morì ne 1997. Sposò Giovanni Giamminola, da cui ebbe sette figli: Battista, Vittoria, Giancarlo, Carla, Alberto, Giuseppe e Marco. 5 Giuseppina era la maggiore dei tre fratelli Sant’Elia, nacque a Como nel 1884. Sposò Giovanni Broglia e non ebbe figli. La raccolta dei disegni è indicata fino al 1971, anno della morte di Giuseppina, con il doppio cognome Broglia Sant’Elia. 6 I disegni ereditati dai figli della nipote sono noti sotto il nome di Giamminola. 7 Antonio Sant’Elia aveva aderito, come altri Futuristi, al Corpo Nazionale Volontari Ciclisti, un corpo volontario riconosciuto con la legge n. 49 del 16/02/1908, che raccoglieva i civili possessori di un mezzo di trasporto, pronti ad intervenire per la patria. Questi ricevevano un’istruzione militare e, in caso di mobilitazione, erano chiamati in servizio attivo con il proprio mezzo. Con l’ingresso dell’Italia nella I guerra mondiale gli aderenti al Corpo furono infatti arruolati. In una lettera inviata all’amico Gerolamo Fontana, pubblicata da Alberto Longatti (A. Longatti, Disegni di Sant’Elia, Lecco 1984, p. 49), Antonio scrive in proposito: “Io al primo giugno son chiamato sotto le armi”. Dopo un breve periodo di addestramento a Gallarate, fu assegnato alla terza compagnia, ottavo plotone, con Boccioni, Bucci, Buggelli, Erba, Funi, Sironi, Piatti e Marinetti, e alla fine di luglio inviato al fronte. In questi termini non si può sostenere, come è stato spesso scritto, che si fosse arruolato volontario alla guerra. Lo stesso Sant’Elia in una cartolina postale, inviata alla famiglia in data 30 giugno 1916, precisa: “Non è vero che sono partito volontario” (coll. Accetti, pubblicata in Ashton-Ballo 1986, p. 127). 8 I disegni appartenuti alla collezione di Carlo Prada sono schedati ai nn. 221, 222, 223, 224, 225, 22, 231, 232, 233, 348, 351, 353 in Caramel-Longatti 1987, pp. 244-247, 249, 250, 316-31. 9 L. Angelini, “L’architetto Antonio Sant’Elia”, Emporium, febbraio 1917, pp. 155-159. Si veda anche: M.L. Casati, “La collezione civica dei disegni di Antonio Sant’Elia. Costituzione e nuovo ordinamento”, in Caramel-Longatti-Casati 2013, p. 17, note 51 e 52. 10 Casati, op.cit., pp. 11-13. 11 Anche in questo caso si trattò probabilmente di una forma di risarcimento per prestazioni professionali ricevute dalla famiglia. Passano a Carlo Emanuele Accetti almeno 17 fogli tra i più completi, molti policromi, riferibili al 1914. Continuamente richiesti per le esposizioni, sono tra i disegni più noti dell’architetto. Si veda anche: Casati, op.cit., pp. 16-17, nota 50. 1 2
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I disegni della collezione Monti sono schedati ai nn. 252, 288 in Caramel-Longatti 1987, pp. 260, 281. Casati, op.cit., p. 14. Ivi, pp. 15-16. 15 Si veda il catalogo in Caramel-Longatti-Casati 2013, pp. 27-195. 16 Soggetti promotori della realizzazione del sito-web furono nel 2012 il Comune di Como e il Rotary Club Como, che hanno potuto contare sui contributi finanziari di altre istituzioni, quali la Fondazione Comasca, la Fondazione del Credito Valtellinese, l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Como, la Camera di Commercio di Como. 17 Nel corso dell’attuale revisione, curata dalla scrivente, i disegni della collezione Anna e Gianfranca Sant’Elia sono stati inventariati (il numero è preceduto dalla sigla AGS), sono stati variati alcuni titoli e alcune attribuzioni cronologiche. Nelle citazioni bibliografiche principali, riportate anche in questo testo, sono stati trascritti il titolo e la datazione attribuita negli studi precedenti, ritenendoli utili termini di comparazione. Ringrazio per l’aggiornamento bibliografico Carlotta Rossi, che già aveva compiuto tale lavoro per i disegni della collezione civica di Como e mi aveva validamente coadiuvato nello stilare le altre voci del catalogo. 18 R. Banham, “Sant’Elia”, The Architectural Review, 701, 1955, maggio, pp. 292-301; Id., “Il problema di Sant’Elia”, L’Architettura. Cronache e storia, 1, 1955, novembre-dicembre, p. 477; Id., “Poetica di Sant’Elia e ideologia futurista”, Architettura. Cronache e storia, 2, 1957, n.15, p. 626; Id., “Futurism and Modern Architecture”, Journal of the Royal Institute of British Architects, 64, 1957, febbraio, pp. 129-138. Anche: M. Calvesi, “Il Futurista Sant’Elia”, La Casa, 1959, p. 6. Sulla visione di Sant’Elia nei due decenni anteriori alla Seconda guerra mondiale si veda: E. Godoli, “Marinetti e la celebrazione futurista di Sant’Elia. La costruzione del mito Sant’Elia”, in Antonio Sant’Elia. Manifesto dell’architettura futurista. Considerazioni sul centenario, a cura di F. Purini, L. Malfona, M. Manicone, Roma 2015, pp. 33-41. 19 Il Futurismo. Mostra commemorativa del cinquantenario del primo Manifesto Futurista, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Barberini, giugno-settembre 1959), saggi di G. Castelfranco e J. Recupero, Roma 1959. Il volume che accompagna la mostra non contiene un vero e proprio catalogo dei disegni, ma un semplice elenco. I disegni della famiglia, che compaiono in mostra per la prima volta, sono indicati dalla dicitura generica di “studio” e non recano alcuna datazione attribuita. Le immagini dei disegni esposti alla mostra del 1959 vengono pubblicate nel secondo volume dedicato agli Archivi del Futurismo nel 1962. Drudi Gambillo-Fiori 1962, vol. II, pp. 441-488. 20 Caramel-Longatti 1962. 21 Caramel-Longatti 1987. 22 Ballo 1982; Ashton-Ballo 1986; Ballo 1989. 23 I due documenti sono riprodotti in Borghi-Raffaghello 2009. 24 Inv. AGS34. Il Futurismo. Mostra commemorativa …, cit., p. 86, n. 151; Drudi Gambillo-Fiori 1962, p. 464, n. 110; Caramel-Longatti 1962, p. 107, n. 279; Caramel-Longatti 1987, p. 317, n. 350; Caramel-Longatti 1988, p. 277, n. 350; Salaris 1990, n. 22; Caramel-Longatti 1991, p. 271, n.358; Borghi-Raffaghello 2009, p. 130, n. 23. La datazione al 1915, attribuita da Caramel e Longatti, dubitativamente nel 1962 e confermata nel 1991, è stata ripresa nelle altre pubblicazioni. 25 La tavola è pubblicata sul Catalogo d’asta del 2 novembre 2013 della Porro Art Consulting & C., Opere d’arte moderna e contemporanea, alla scheda n. 5, pp. 10-11. L’esame all’Accademia di Belle Arti di Bologna impegna Sant’Elia dal 21 ottobre all’8 novembre 1912, periodo in cui sostiene dapprima una prova di ammissione e successivamente la prova d’esame vera e propria, suddivisa in quattro fasi (elaborazione del tema scelto il 28 ottobre, sviluppo di una parte del progetto dal 29 ottobre al 5 novembre, prova scritta il 6 novembre, prova orale l’8 novembre). S. Zamboni, “Un esame di Antonio Sant’Elia”, in L’Accademia di Bologna. Figure del Novecento, catalogo della mostra, Bologna, Accademia di Belle Arti, 5 settembre-10 novembre 1988, a cura di A. Baccilieri, S. Evangelisti, con la collaborazione di F. Farneti, D. Trento, Bologna, Nuova Alfa, 1988, pp. 229-232. 26 Il Fondo Luigi Saccenti (1885/1972), che testimonia l’attività svolta dall’architetto bolognese a partire dalla formazione all’Accademia di Belle Arti, dove fu assistente di Edoardo Collamarini, suo principale maestro, fino ai progetti della maturità, rivolti principalmente all’edilizia residenziale e all’arredamento, è conservato presso l’Ordine degli Architetti, Paesaggisti e Conservatori di Bologna, che lo acquisì nel 1995. La presenza nel fondo di una delle tavole della prova sostenuta da Sant’Elia rivela l’interesse e l’apprezzamento di Luigi Saccenti nei confronti dell’artista comasco, conosciuto alla stessa sessione d’esami. Le tavole d’esame di Sant’Elia, di cui aveva potuto disporre grazie all’attività professionale svolta presso l’Accademia in qualità di professore di Architettura, diversamente da quelle degli altri candidati destinate periodicamente al macero, furono, secondo la testimonianza di alcuni professori, intelaiate ed esposte dal 1923 al 1936 in un’aula dell’Accademia che ospitava i corsi del biennio di Architettura. La tavola del fondo Saccenti e le foto d’epoca di altre due tavole della prova d’esame di Antonio Sant’Elia sono state pubblicate in N. Boschiero, La città utopica. Antonio Sant’Elia, Tullio Crali, Quirino De Giorgio, Angiolo Mazzoni, Adalberto Libera, catalogo della mostra (Rovereto, Casa d’Arte futurista Depero, 30 aprile-2 settembre 2016), Rovereto, Mart, 2016, pp. 21, 26. 27 Gli schizzi preparatori sono presenti nelle collezioni dei Musei Civici di Como, del Museo Civico di Cremona, nella collezione di Enrico Tarantini di Milano. 12 13 14
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La relazione esplicativa della prova d’esame, la cui minuta è ancora conservata nell’Archivio dell’Accademia bolognese, è di estremo interesse per conoscere il pensiero e capire la maturazione del percorso formativo di Sant’Elia. É stata trascritta da Silla Zamboni, in Zamboni, op.cit., pp. 229-232. Prima della frase citata, Sant’Elia scrive: “la cattedrale, tema da me svolto. Per fare una cosa veramente nuova senza cadere nel ridicolo, in uno spazio di tempo così breve, è estremamente difficile anzi direi impossibile. Quindi cercai di applicare a una cosa passata un soffio di modernità. Infatti la struttura della cattedrale è gotica anzi ricorda in modo speciale il Duomo di Milano coi suoi contrafforti, naturalmente cercai di svolgerla con un sentimento nuovo anzi direi personale. Sin da quando cominciai i miei studi mi sentii attratto verso l’arte medievale e più specialmente verso il periodo gotico e quello bizzantino [sic]. Il primo per le sue grandi masse che ricordano montagne di ghiacciai, il secondo ha per me una grande attrattiva per i particolari suggestivamente pittorici delle forme musive e delle vetrate. Quindi se io ho fatto una cosa nuova non è ispirata, come purtroppo taluni fanno a delle riviste tedesche ma basata su elementi statici e decorativi da me studiati con cura e con amore“. 29 Zamboni, op.cit., pp. 229-232. 30 Inv. AGS40. Caramel-Longatti 1962, p. 71, n. 29, (Cinque studi per un edificio cimiteriale? 1912?); Ballo 1982, n. 274; Ashton-Ballo 1986, n. 8; Caramel-Longatti 1987, p. 265, n. 259 (Schizzi per una chiesa, 1914?); Caramel-Longatti 1991, pp. 264, 265, n. 349 (Studi per la Città nuova, 1914-1915?); A. Cansadori, D. Gagetti, L’altra arte. La pittura degli architetti, Milano, Galleria Consadori, 12 aprile-5 maggio 2007, Milano 2007. 31 Inv. AGS54. Drudi Gambillo-Fiori 1962, p. 44, n. 23; Ballo 1982, n. 291; Ashton-Ballo 1986, n. 28; Caramel-Longatti 1987, p. 258, n. 248; Caramel-Longatti 1991, pp. 218-219, n. 251 (fronte di edificio monumentale, 1914?); Borghi-Raffaghello 2009, p. 143, n. 15. 32 Inv. AGS18. Caramel-Longatti 1962, p. 87, n. 141 (Studio per il progetto della nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona, 1913-1914); Ballo 1982, n. 277; Longatti, Disegni…, cit., p. 29; Ashton-Ballo 1986, p. 88, n. 55; Caramel-Longatti 1987, p. 216, n. 168 (Studio per palazzo, 1913-1914); Ballo 1989, p. 131, n. 43; Caramel-Longatti 1991, pp. 184-185, n. 170 (Studio di palazzo, 1913-1914). 33 Inv. AGS8. Caramel-Longatti 1962, p. 88, n. 149, (Studio per il progetto della nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona?, 1913-1914); Ashton-Ballo 1986, p. 81; Caramel-Longatti 1987, p. 222, n. 181 (Studio per palazzo, 1913-1914); Caramel-Longatti 1991, p. 191, n. 183 (Studio di palazzo, 1913-1914). 34 È significativo che la seconda parte del secondo volume del Manuale dell’architetto, compilato nei primi decenni del Novecento dall’ingegnere Daniele Donghi, sulla traccia del Baukunde des Architekten, e pubblicato dal 1906 al 1935 da Utet a Torino, sia interamente dedicata ai temi progettuali degli edifici amministrativi (palazzi municipali, del governo, per ministeri e ambasciate, palazzi per il Parlamento, edifici giudiziari). D. Donghi, Manuale dell’Architetto, Torino, Utet, 1906-1935, 2 voll., tomi 9. 35 Si veda in proposito: S. Schiffini, S. Zuffi (a cura di), La storia d’Italia nei palazzi del governo, Milano, Mondadori-Electa, 2002. 36 Inv. AGS5. Caramel-Longatti 1962, p. 89, n. 153 (Studio per il progetto della nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona?, 1913-1914); Caramel-Longatti 1987, p. 223, n. 182 (Studio per palazzo, 1913-1914); Caramel-Longatti 1991, p. 191, n. 184 (Studio di palazzo, 1913-1914). 37 Inv. nn. AGS11, AGS13. Il Futurismo. Mostra commemorativa …, cit., p. 83, n. 100; Caramel-Longatti 1962, pp. 88-89, nn. 149, 156 (Studio per il progetto della nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona, 19131914); Ballo 1982, cit., nn. 276, 279; Ashton-Ballo 1986, pp. 79, 86, nn. 46, 53; Caramel-Longatti 1987, pp. 220-221, nn. 177, 179 (Studio per palazzo, 1913-1914); Ballo 1989, p. 131 n. 38; Caramel-Longatti 1991, pp. 188-189, nn. 179, 181 (Studio di palazzo, 1913-1914); Borghi-Raffaghello 2009, pp. 126-127. 38 Inv. AGS19. Il Futurismo. Mostra commemorativa …, cit., p. 89, n. 185; Caramel-Longatti 1962, p. 87, n. 142, (Studio per il progetto della nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona, 1913-1914); Ashton-Ballo 1986, p. 82, n. 49; Caramel-Longatti 1987, p. 216, n. 169 (Studio per palazzo, 1913-1914); Ballo 1989, p. 131, n. 41; Borghi-Raffaghello 2009, p. 135, n. 7. 39 È noto ad esempio che Giulio Ulisse Arata abbia partecipato a numerosi bandi per palazzi istituzionali: nel 1889 per il Palazzo del Parlamento a Roma, nel 1895 per il Palazzo del Parlamento di Buenos Aires, nel 1913 per il Palazzo del Governo di Montevideo. Quest’ultimo progetto fu esposto nel 1914 alla prima mostra di architettura organizzata dagli Architetti Lombardi a Milano, in cui espose anche Sant’Elia. F. Mangone, Giulio Ulisse Arata. Opera completa, Napoli, Electa Napoli, 1993. Tangenze tra Arata e Sant’Elia, in particolare nell’ambito del filone “ipereclettico”, sono trattate da Fabio Mangone in questo stesso convegno. 40 Il concorso internazionale per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona in piazza delle Erbe venne bandito il 15 giugno 1913, con la prescrizione ai concorrenti di non creare dissonanze con gli edifici adiacenti, inserendosi armonicamente nel composito ambiente urbano senza alterarne la fisionomia. Lo studio dell’architetto Arrigo Cantoni partecipò con un’equipe di collaboratori scelti nell’ambito di competenze diverse, fra i quali Antonio Sant’Elia, i pittori Leonardo Dudreville e Luigi Pellini, l’architetto Tancredi Motta. Secondo la testimonianza di Luigi Pellini, registrata da Schmidt-Thomsen, Sant’Elia ebbe un ruolo preminente nel lavoro ideativo: J.P. Schmidt-Thomsen, Floreale und Futuristische Architektur: Das Werk von Antonio Sant’Elia, Berlin,TU Berlin, 1967, pp. 130-131. Il progetto dello studio Cantoni, presentato con il motto “Costruire”, si classificò tra i cinque finalisti: 28
la collezione degli eredi di antonio sant’elia • maria letizia casati
ma la giuria non ritenne nessun lavoro soddisfacente e con verbale del 16 aprile invitò gli autori ad una seconda prova più aderente alle condizioni del bando. Sant’Elia e Cantoni ripresentarono il progetto con modifiche senza però ottenere miglior successo. Nel dicembre 1914 fu infatti proclamato vincitore il progetto dell’architetto G.B. Milani. Caramel-Longatti 1987, pp. 208-215. Si veda anche l’analisi di E. da Costa Meyer, The work of Antonio Sant’Elia: retreat into the future, New Haven-London, Yale University Press, 1995, pp. 79-83. 41 Nella collezione dei Musei Civici di Como si conservano, pervenute e donate nel 1962 dall’Istituto di Credito veronese, le tavole dei quattro prospetti, di due sezioni, di due vedute prospettiche (un interno e un esterno), del particolare di una facciata e otto planimetrie dal sottosuolo al tetto. Il confronto tra i prospetti e le piante, in particolare con quella del piano terreno, rivelano che non esiste una perfetta corrispondenza tra i primi e le seconde. Le piante conservate sono dunque quelle realizzate per il progetto modificato, presentato dallo Studio Cantoni nel secondo grado di concorso.Le piante sono state pubblicate in Caramel, Longatti, Casati 2013, pp. 172-176. 42 Inv. AGS20. Caramel-Longatti 1962, p. 89, n. 157 (Studio per la decorazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona?, 1913-1914); Ashton-Ballo 1986, p. 39, n. 6; Caramel-Longatti 1987, p. 225, n. 186 (Studio per decorazione esterna di edificio, 1913-1914); Ballo 1989, p. 129, n. 6; Caramel-Longatti 1991, pp. 192-193, n. 188 (Studio di decorazione esterna di edificio, 1913-1914). 43 Sant’Elia sviluppa secondo questa impostazione il progetto per la nuova Sede dei Commessi di Como, accostato spesso al progetto di Raimondo D’Aronco per la Banca Cooperativa Cattolica a Udine del 1907. Si veda, ancora in ambito italiano, l’interessante progetto di Giulio Ulisse Arata per l’edificio di Porta Tenaglia in via Legnano a Milano del 1923, mai realizzato; Mangone, op.cit., p. 123. Il tema dell’edificio d’angolo, affrontato in numerosi progetti dei primi decenni del Novecento, nasce nell’ambito della pianificazione della città ottocentesca, che ha determinato anche fenomeni degenerativi. La concentrazione del maggiore valore fondiario sull’angolo rispetto al resto dell’isolato ha portato alcune municipalità ad approvare il tracciamento di un fitto reticolo di strade, senza una precisa gerarchia di percorsi e reali obiettivi di collegamento, al solo servizio del mercato immobiliare, come è avvenuto per Milano. Sulle problematiche strutturali della città in cui opera Sant’Elia: M.L. Casati, “Alle origini della ricerca di Antonio Sant’Elia sulla Città Nuova”, in 1914/2014 Cent’anni di architettura futurista, a cura di A. Nastri, G. Vespere, Napoli 2015, pp. 20-31. 44 Inv. AGS25a. Il cartoncino reca sul verso un altro studio per lo stesso monumento, del tutto simile a quello schizzato su un foglio datato 8 dicembre 1913, di proprietà Giamminola (Caramel-Longatti 1987, p. 242, n. 219); Caramel-Longatti 1962, p. 92, n. 177 (Monumento funerario Caprotti nel cimitero di Monza. Studio, 1913); Caramel-Longatti 1987, p. 242, n. 219 (Studio per il monumento funerario Caprotti, 1913); Caramel-Longatti 1988, p. 206, n. 219; Caramel-Longatti 1991, p. 203, n. 222 (Monumento funerario Caprotti nel cimitero di Monza. Studio, 1914). 45 Inv. AGS30. Drudi Gambillo-Fiori 1962, p. 475, n. 162; Caramel-Longatti 1962, p. 90, n. 165 (Studio per il monumento funerario Caprotti. Studio, 1913); Ballo 1982, p. 302, n. 286; Ashton-Ballo 1986, p. 73, n. 40; Caramel-Longatti 1987, p. 235, n. 205 (Studio per il monumento funerario Caprotti, 1914); Caramel-Longatti 1988, p. 199, n. 205; Ballo 1989, p. 130, n. 27; Caramel-Longatti 1991, pp. 198-201, n. 207 (Monumento funerario Caprotti nel cimitero di Monza. Studio, 1914). 46 Inv. AGS29. Caramel-Longatti 1962, p. 91, n. 168, fig. 77 (Studi per il monumento funerario Caprotti, 1913); Ballo 1982, n. 285; Caramel-Longatti 1987, p. 237, n. 2008 (Studi per il monumento Caprotti, 1914); Caramel-Longatti 1988, p. 201, n. 208; Ballo 1989, p. 130, n. 26; Caramel-Longatti 1991, pp. 200, 201, n. 210 (Monumento funerario Caprotti nel cimitero di Monza. Studi, 1914); Borghi-Raffaghello 2009, p. 139, n. 19. 47 Inv. AGS28. Il Futurismo.Mostra commemorativa …, cit., p. 88, n. 166; Caramel-Longatti 1962, p. 91, n. 171 (Due studi per il monumento funerario Caprotti, 1913); Ballo 1982, n. 289; Ashton-Ballo 1986, p. 75, n. 42; Caramel-Longatti 1987, p. 233, n. 200 (Due studi per il monumento Caprotti, 1914); Caramel-Longatti 1988, p. 197, n. 200; Ballo 1989, p. 130, n. 28; Salaris 1990, n. 11; Caramel-Longatti 1991, p. 198, n. 202 (Monumento funerario Caprotti nel cimitero di Monza. Due studi, 1914); Borghi-Raffaghello 2009, p. 131, n. 5. 48 Si fa riferimento al Sepolcro di Eurisace a Roma, della fine del I secolo a.C. 49 Inv. AGS32. Caramel-Longatti 1962, p. 91, n. 169, fig. 78 (Studio per il monumento funerario Caprotti. Studio, 1913); R. Bossaglia, Antonio Sant’Elia, in Mostra del Liberty Italiano, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Permanente, dicembre 1972 - febbraio 1973), Milano, Arti Grafiche Crespi, 1972, p. III, n. 15 e 93; Ballo 1982, n. 288; Ashton-Ballo 1986, n. 77 (Studio per la tomba di Luigi Sant’Elia); Caramel-Longatti 1987, p. 238, n. 210 (Studio per il monumento funerario Caprotti, 1914); Caramel-Longatti 1988, p. 202, n. 210; Ballo 1989, p. 132, n. 47; Caramel-Longatti 1991, pp. 201-202, n. 212 (Monumento funerario Caprotti nel cimitero di Monza. Studio, 1914). 50 Sul Monumento ai Caduti di Como si veda da ultimo: S. Larotonda, N. Nessi, Antonio Sant’Elia. Visione e regole. L’incontro tra Futurismo e Razionalismo nel Monumento ai Caduti di Como, Como, Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti Conservatori della Provincia di Como, 2016. 51 Inv. AGS36ab. Caramel-Longatti 1962, p. 108, n. 283 (Studi architettonici, s.d.); Caramel-Longatti 1987, p. 267, n. 263 (Schizzo per un interno, 1914); Caramel-Longatti 1991, p. 268, n. 353a, 353b (Studi per la Città nuova, 1914-1915); Borghi-Raffaghello 2009, p. 141, n. 21.
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52 Inv. AGS42. Caramel-Longatti 1962, p. 108, n. 287 (Studi architettonici? nd); Caramel-Longatti 1987, p. 265, n. 259 (Schizzi per una chiesa, 1914?); Caramel-Longatti 1991, p. 271, n. 357 (Studi per la Città nuova, 1914-1915?). 53 Il concorso per la chiesa di Salsomaggiore viene bandito il primo febbraio 1914 con termine il 30 giugno. Giulio Ulisse Arata partecipa con due progetti indicati dai motti “Pax” e “Utopia”. In ottobre la commissione emette un giudizio sospensivo su sei progetti prescelti e li invita a presentarsi per un secondo grado del concorso, con scadenza il 3 marzo 1915. Il 6 giugno viene proclamato vincitore il progetto di Giulio Ulisse Arata; Mangone, op. cit., p. 176. 54 I disegni di Giulio Ulisse Arata per la chiesa di San Vitale a Salsomaggiore sono conservati presso l’Archivio di Stato di Piacenza, Fondo Mappe Stampe e Disegni. 55 Inv. AGS57. Drudi Gambillo-Fiori 1962, p. 479, n. 185; Caramel-Longatti 1962, p. 96, n. 205 (Studio per centrale elettrica, 1913-1914); Ashton-Ballo 1986, p. 59, n. 26; Caramel-Longatti 1987, p. 207, n. 153 (Studio per centrale elettrica, 1913-1914); Caramel-Longatti 1988, p. 171, n. 153; Ballo 1989, p. 130, n. 15; Salaris 1990, n. 9; Caramel-Longatti 1991, p. 177, n. 155 (Studio di centrale elettrica, 1913-1914). 56 Il foglio, già della collezione Sant’Elia e poi della collezione Accetti, è passato nel 2008 in asta Porro a Milano. 57 Inv. AGS62. Drudi Gambillo-Fiori 1962, p. 557, n. 23; Caramel-Longatti 1962, p. 102, n. 243 (Studi per una casa a gradinata con ascensori esterni, 1914); Ashton-Ballo 1986, p. 100, n. 67; Caramel-Longatti 1987, p. 293, n. 308 (Schizzi per una casa a gradinata, 1914); Caramel-Longatti 1988, p. 225, n. 308; Ballo 1989, p. 130, n. 18; Caramel-Longatti 1991, p. 244, n. 300 (Casa a gradinata con ascensori esterni. Studi, 1914); A. Coppa, L. Tenconi, Grattanuvole. Un secolo di grattacieli a Milano, Santarcangelo di Romagna 2015, p. 86 (Studio per grattacielo, 1914 ca.). 58 Inv. AGS61ab. Drudi Gambillo-Fiori 1962, p. 480, n. 291; Caramel-Longatti 1962, p. 102, n. 249 (Recto: Studio per una casa a gradinata con ascensori esterni, Verso: Particolare di una casa a gradinata con ascensori esteri, 1914); Ballo 1982, n. 299; Ashton-Ballo 1986, p. 101, n. 68; Caramel-Longatti 1987, p. 297, n. 315 (Recto: Studio per una casa a gradinata con ascensori esterni, 1914); Caramel-Longatti 1988, p. 259, n. 315; Ballo 1989, p. 133, n. 60; Caramel-Longatti 1991, p. 234, n. 307a/b (Recto: Casa a gradinata con ascensori esterni, studio. Verso: Studio architettonico, 1914). 59 Caramel-Longatti 1987, p. 298, n. 317. 60 Caramel, Longatti, Casati, op.cit., p. 134, n. 127. 61 Inv. AGS44. Caramel-Longatti 1962, p. 108, n. 287 (Studi per una stazione? 1913-1914?); Caramel-Longatti 1987, p. 284, n. 294 (Schizzi architettonici, 1914); Caramel-Longatti 1991, pp. 236, 237, n. 286 (Studi di stazione ferroviaria, 1914); Borghi-Raffaghello 2009, p. 141, n. 17. 62 Inv. AGS45. Caramel-Longatti 1962, p. 77, n. 64, (Studio per un edificio monumentale. Stazione? 19121913); Caramel-Longatti 1987, p. 285, n. 296 (Stazione, veduta laterale, 1914); Caramel-Longatti 1991, p. 238, n. 288a/b (a Studi di stazione ferroviaria, veduta laterale, 1914; b Schizzo architettonico); Borghi-Raffaghello 2009, p. 142, n. 29. 63 Inv. AGS47. Caramel-Longatti 1962, p. 77, n. 65, (Studi architettonici? 1912-1913); Caramel-Longatti 1987, p. 286, n. 298 (Studi architettonici, 1913); Caramel-Longatti 1991, p. 235, n. 281 (Studi architettonici, 1914); Borghi-Raffaghello 2009, p. 133, n. 8; Coppa, Tenconi, op.cit., p. 82 (Studio per grattacielo, 1914 ca.). 64 Caramel-Longatti 1987, p. 281, n. 288. 65 Inv. AGS48. U. Apollonio, L. Mariani, Antonio Sant’Elia, Milano, Il Balcone, 1958, pp. 122-123; Il Futurismo Mostra commemorativa…, cit., p. 90, n. 199; Drudi Gambillo-Fiori 1962, p. 478, n. 179; Caramel-Longatti 1962, p. 97, n. 213 (Studio per un ponte con scale laterali, veduta dall’alto, 1913-1914); Ashton-Ballo 1986, p. 103, n. 70; Caramel-Longatti 1987, p. 206, n. 151 (Veduta dall’alto di un ponte con scale laterali, 1913-1914); Caramel-Longatti 1988, p. 170, n. 151; Ballo 1989, p. 133, n. 62; Salaris 1990, n. 8; Caramel-Longatti 1991, pp. 174, 175, n. 153 (Veduta dall’alto di un ponte con scale laterali, 1913-1914); Borghi-Raffaghello 2009, p. 130, n. 4.
cimiteri di guerra. l’ultima opera di antonio sant’elia
Stefano Zagnoni
Tra i cimiteri di guerra degli opposti fronti È da più parti attestato che nei giorni precedenti la sua morte in battaglia Antonio Sant’Elia stava intensamente dedicandosi al progetto e all’avvio dei lavori per il recinto cimiteriale del suo reparto, la Brigata Arezzo, all’interno di un vasto luogo di sepoltura militare posto immediatamente a sud-est del nucleo storico di Monfalcone; del recinto, quasi per intero ultimato, non resta tuttavia traccia a seguito della soppressione dell’intera area cimiteriale negli anni 1930. La ricostruzione della vicenda resta pertanto affidata a fonti documentali che sono decisamente carenti per quanto riguarda la fase ideativa, mentre consentono di ricavare un’idea abbastanza precisa dell’opera realizzata. Si tratta di un piccolo episodio calato dentro l’immane tragedia della prima guerra mondiale e tra le migliaia di cimiteri di guerra italiani. Il fatto che l’incarico sia conferito a un architetto, per di più noto per le sue proposte avveniristiche, è comunque una circostanza quanto meno rara. A differenza di quanto avviene negli imperi centrali, si può infatti affermare che durante il conflitto la cultura artistica e architettonica italiana non ha dedicato una particolare attenzione al tema delle sepolture di guerra, né il Ministero della guerra e il Comando supremo dell’esercito l’hanno sollecitata. L’iniziativa resta di conseguenza in primo luogo affidata ai comandi d’armata e ai reparti operanti sul terreno. Nel settore del fronte di nostro interesse, poco dopo l’inizio delle ostilità, il comando della Terza armata chiede così che nei cimiteri comunali venga assegnata un’area per la tumulazione dei militari e che essa sia suddivisa in due parti, una per gli ufficiali e una per i militari di truppa1. La disposizione si rivela ben presto insufficiente e, oltre alle molte sepolture improvvisate a ridosso delle linee del fronte, un gran numero di cimiteri esclusivamente militari è allestito ad opera del genio civile o militare o, ancora, dei singoli reparti. In alcuni casi i cimiteri sono improntati a criteri di ordine e uniformità, più spesso l’assenza di una prefigurazione progettuale si traduce in un disordine che le iniziative spontanee con cui i commilitoni rendono omaggio ai caduti non fanno che accentuare.
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Antonio Sant’Elia, studio di monumento s.d., matita, 22,5 x 33 cm (collezione privata, Piacenza — cortesia Alberto Longatti)
pagina a fronte A. Sant’Elia, studio di monumento s.d., matita, 23 x 32 cm (collezione privata Piacenza) A. Sant’Elia, studio di monumento s.d., matita, 23 x 32 cm (collezione privata, Piacenza)
Il Comando supremo emana alcune direttive, ma esse sono essenzialmente rivolte ad affrontare impellenti problemi di polizia mortuaria. Solo sul finire del 1916 l’Intendenza generale dell’esercito istituisce, ad esempio, un servizio per l’identificazione e la registrazione dei caduti, ma nulla stabilisce per l’assetto e la configurazione delle aree cimiteriali2. Oltre ad essere tardive, tali disposizioni trovano per di più scarsa applicazione o sono disattese. Tanto che il Regio commissario di Monfalcone, Stefano Pernigotti, nel lamentare il totale stato di caos, si fa volontaristicamente carico di procedere al censimento dei caduti nei diciassette cimiteri e luoghi di sepoltura presenti nel territorio di sua pertinenza, li elenca in una dettagliata relazione e giunge a proporre un sistema per l’identificazione dei caduti e ad elaborare uno schema per l’organizzazione dei cimiteri militari3. La situazione è radicalmente diversa negli imperi centrali. Qui la cultura artistica e architettonica, con il fattivo interessamento e supporto delle autorità militari,rivolge fin dal primo anno di guerra un’attenzione al tema che si esplica attraverso monografie, articoli sulla stampa periodica, mostre e concorsi. Pochi esempi sono sufficienti a dar conto dello scarto. L’architetto del paesaggio Willy Lange (1864-1941) pubblica nel 1915 il libro Deutsche Heldenhaine4(bosco tedesco degli eroi), dove riprende e sviluppa un argomento già caro all’idealismo ottocentesco: la natura intesa come luogo del sacro e della rigenerazione,
secondo una linea di pensiero che sarà ripresa nel dopoguerra. E Lange dà pure indicazioni sulla forma dei luoghi di sepoltura, le specie vegetali da preferire ecc. Un numero della rivista Die Kunst del 1916 propone un lungo commento ad una mostra itinerante su tombe e monumenti di guerra organizzata dalla Galleria statale d’arte di Mannheim e l’ampio apparato iconografico illustra, tra vari altri, progetti di Otto Bartning e Bruno Paul, nonché un monumento commemorativo di Paul Bonatz5. Il libro del 1916-1917 del Deutscher Werkbund è l’esempio probabilmente più noto ed emblematico: pubblicato in collaborazione con le autorità militari e interamente dedicato al tema nelle sue diverse accezioni (cimiteri militari al fronte e in patria, tombe di guerra, memoriali ecc.), offre una corposa testimonianza di quanto interesse vi riservi l’influente associazione tedesca6. Il volume illustra duecento progetti tra i quali, per citare soltanto alcuni degli architetti di maggior spicco, quelli di Bruno Paul, Peter Behrens e Theodor Fischer, così come non manca, in chiusura, una rassegna di monumenti funerari del passato, dal dolmen ad esempi tardo-ottocenteschi. In ambito austriaco, già sul finire del 1914, un’istituzione governativa per la promozione dell’artigianato, il K.K.Gewerbeförderungs Amt, e la Kunstgewerbeschule (Scuola di arti applicate) di Vienna danno vita ad un’iniziativa volta a raccogliere e pubblicare le proposte elaborate da docenti ed allievi della scuola nell’ambito degli insegnamenti di architettura, scultura e grafica7. La ricerca progettuale si applica, anche qui, alle diverse tipologie di monumenti funerari di guerra; nella sezione dedicata all’architettura, le proposte più numerose sono quelle di Josef Hoffmann e dei suoi allievi, seguite da quelle di Oskar Strnad e allievi. Heinrich Tessenow non presenta propri progetti, ma ve ne sono alcuni elaborati all’interno dell’insegnamento da lui tenuto in quegli anni. Sul piano operativo, ed in analogia a quanto fatto qualche mese prima in Germania, nel novembre 1915 il Ministero della guerra istituisce l’imperialregio Kriegsgräber-Abteilung (Dipartimento delle tombe di guerra). È altresì redatto un regolamento che contiene puntuali
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A. Sant’Elia, monumento per il recinto cimiteriale della Brigata Arezzo a Monfalcone vista prospettica, s.d., riproduzione fotografica (Il Territorio, n.6, novembre 1996, ed. Centro Culturale Pubblico Polivalente)
cimiteri di guerra. l’ultima opera di antonio sant’elia • stefano zagnoni
disposizioni inerenti l’erezione e la manutenzione dei cimiteri e che, tra le altre cose, prescrive la stesura di mappe di tutti i luoghi di sepoltura8. Sebbene le realizzazioni sul fronte italiano non siano per qualità e quantità confrontabili con quelle della straordinaria esperienza messa in atto nella Galizia occidentale9, i caratteri che le informano non sono dissimili. In particolare, ed al contrario dell’impostazione seguita nell’immediato dopoguerra dall’impero britannico, la precisione delle direttive impartite ed il proverbiale ordine che regnava nell’impero mitteleuropeo non sono associati alla propensione a pervenire ad esiti in qualche modo unitari. Tra i diversi approcci, ve n’è comunque uno maggiormente orientato ad una definizione in senso architettonico del tema. Si tratta di una vasta e non omogenea serie di esempi riconducibili ad una sorta di ‘classicismo post-Secessione’ che, nell’attuare una rivisitazione della tradizione, tende ad andare oltre la ordinaria riproposizione di stilemi ricorrenti dell’arte funeraria. Se è in generale possibile stabilire connessioni con indirizzi di ricerca sviluppati all’interno della Wagnerschule, in alcuni casi il collegamento è diretto qualora si considerino, ad esempio, le decine di cimiteri progettati in Galizia da due allievi della scuola, Hans Mayr e Gustav Rossmann. Ma pure non lontano da Monfalcone, nel Carso di Comeno, si possono ancora vedere monumenti cimiteriali che ricercano un’espressione originale a partire dalla reinterpretazione di tipologie e strategie compositive consolidate. Antonio Sant’Elia non poteva evidentemente essere al corrente di quanto si andava facendo sul fronte avverso. Ciò non di meno, gli scarni elementi a disposizione sul processo ideativo del suo ultimo progetto lasciano intravedere un’impostazione non dissimile. Il recinto cimiteriale della Brigata Arezzo L’area cimiteriale nella quale è eretto il recinto inizia a prendere forma già nel corso del 1915, a meno di un chilometro di distanza dalla linea del fronte, che all’epoca avvolge i lati est e nord del martoriato centro abitato. Attenendosi ai riassunti storici delle brigate di fanteria10, la Brigata Arezzo lascia la zona del Brenta, a nord del massiccio del Grappa, il 12 settembre1916; dopo due tappe nei pressi di Palmanova e di Cervignano giunge, in data non precisata, a Monfalcone ed il 27 settembre è schierata in linea sulle prime alture del Carso, tra le quote 85 e 121, su posizioni da poco conquistate e di qualche centinaia di metri ad est delle precedenti. Qui il sottotenente Sant’Elia trova la morte il 10 ottobre mentre guida l’assalto del suo plotone all’antistante caposaldo nemico di quota 77. Anche assumendo che il comandante della brigata — l’allora colonnello Napoleone Fochetti11 — gli abbia affidato l’incarico subito dopo l’arrivo a Monfalcone, Sant’Elia ha per-
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pagina a fronte Monumento all’interno del recinto della Brigata Arezzo s.d. (Consorzio Culturale del Monfalconese — fototeca, Monfalcone, collezione Droandi, Arezzo)
tanto, nella migliore delle ipotesi, potuto dedicarvisi per una ventina di giorni. D’altro canto, è nota la velocità con cui abbozzava le sue idee, così come è risaputo che i cimiteri di guerra erano solitamente allestiti con grande celerità. L’esistenza del progetto trova in primo luogo riscontro nelle testimonianze dei commilitoni. Filippo Tommaso Marinetti divulga tempestivamente la notizia della morte pubblicando due lettere datate 14 ottobre 1916 ed in quella del sottotenente Antonio Giovesi leggiamo tra l’altro: “Poi, la sigaretta tra le labbra, continuava a tracciar linee, ad abbozzare progetti per il nuovo cimitero della nostra Brigata, quel santo luogo che doveva ospitarlo fatalmente fra i primi”12. Con una lettera inviata alla Famiglia Artistica di Milano, e pubblicata il 27 ottobre, Nino Dabbusi, che si firma “Tenente Nino Dabbusi capomastro”, si accredita come colui che sta seguendo la costruzione del recinto. Dopo essersi qualificato come superiore diretto di Sant’Elia, ed in quanto tale colui che ha impartito l’ordine di attacco in cui ha trovato la morte, Dabbusi scrive: “E così l’amico caro, collega in armi e in arte, trovò onorevole sepoltura nel piccolo cimitero della Brigata in Monfalcone — cimitero che egli stesso aveva ideato per ordine superiore e che io ho in parte già costruito e che mi auguro di condurre a termine — siccome pegno d’onore verso la memoria del Caduto, perpetuando nella pietra la ultima sua geniale costruzione”13. Nonostante per la critica Sant’Elia resti un talento che ha potuto esprimersi pressoché esclusivamente con “dei progetti sulla carta”, come scrive Margherita Sarfatti in un commosso necrologio che non è per altro di circostanza nell’esprimere le proprie opinioni sulla sua ‘città futurista’14, altri richiami all’opera si ritrovano anche in seguito sulla stampa locale e nazionale. Non di meno, l’unico elaborato grafico finora noto, giunto a noi solo in riproduzione fotografica e più volte pubblicato a partire dal 196215, è una vista prospettica del monumento commemorativo eretto all’interno del recinto. Al febbrile impegno progettuale testimoniato dai compagni d’armi sono tuttavia probabilmente riconducibili altri tre schizzi rinvenuti anni or sono da un collezionista e cultore d’arte in una bancarella antiquaria16. Nel disegno in cui la concezione si discosta maggiormente dall’opera costruita l’associazione è resa verosimile dal bassorilievo con figure di soldati che è rappresentato sul fianco dello schizzo prospettico. Pochi segni decisi delineano una sorta di sacello che, in forma semplificata, presenta elementi ricorrenti del fare di Sant’Elia: innalzati su un podio, due corpi laterali con la testata in blocchi litici arrotondati sormontano e racchiudono un vano arretrato definito da un portale trilitico.
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Recinto della Brigata Arezzo, foto del K.u.k. Kriegspressequartier 3 novembre 1917 (Consorzio Culturale del Monfalconese — fototeca, Monfalcone)
pagina a fronte Recinto della Brigata Arezzo, 1917 (Consorzio Culturale del Monfalconese — fototeca Monfalcone)
Gli altri due abbozzi, nei quali la dicitura ‘A. Sant’Elia’ apposta in basso a destra è un’annotazione di origine non meglio precisabile e non una firma autografa, lasciano invece trasparire una riflessione progettuale decisamente più tribolata e rappresentano con analoghe modalità due soluzioni radicalmente diverse. In entrambe la prospettiva fornisce una visualizzazione di getto dell’insieme, l’alzato pare utilizzato come strumento di verifica o per sondare variazioni sul tema e le incongruenze tra le due viste, od all’interno della stessa vista, evidenziano ripensamenti e confronti tra diverse opzioni. La soluzione più insolita, se pensata per un cimitero militare, è quella che delinea una imponente fontana. Il criterio della composizione di volumi elementari attraverso principi d’ordine geometrici che informa anche le altre ipotesi si fa qui particolarmente stringente e condizionante: un impianto centrale a quattro assi di simmetria, e a questo fine con configurazione in pianta basata sul quadrato, inteso per dare forma ad un monumento con quattro fronti tra loro identici. Al centro svetta il parallelepipedo dal quale fuoriesce, su ogni lato, il getto d’acqua e al quale è, più in basso, addossato un primo gruppo di cilindri; ancora più sotto, l’intersezione di altri quattro cilindri di maggior diametro individuano un volume digradante che nella vista prospettica si conclude con quattro vasche poste in asse ed altrettanti parallelepipedi disposti sulle diagonali. Nell’astratta rigidità dell’impianto geometrico, un inserimento figurativo è abbozzato all’interno dei riquadri inseriti in questi parallelepipedi d’angolo e un ulteriore elemento non
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meglio identificabile è accennato in aggetto dallo spigolo di quello in primo piano. Nella vista frontale questi stessi parallelepipedi, che una cancellatura lascia intravedere in precedenza disegnati in modo più congruente con la vista prospettica, sono notevolmente ridimensionati tanto in altezza come in pianta, facendo sì che il loro ingombro non vada più a sovrapporsi al nucleo centrale. Il basso piedistallo su cui è posta la fontana nello schizzo prospettico è inoltre sostituito da un’ulteriore vasca che riprende l’impianto del nucleo centrale, venendo a più che raddoppiare l’ampiezza della base del complesso. Il terzo disegno tratteggia invece una tomba-altare monumentale. Nella vista prospettica, due setti, slanciati e arrotondati alle estremità propongono la soluzione a torri binate ricorrente in vari progetti tanto di Sant’Elia quanto della scuola viennese. Tali setti sono posti su un blocco parallelepipedo che sul fianco va a digradare in un piano inclinato e racchiudono una grande lapide ai cui piedi è collocato un blocco, verosimilmente un altare, posto al termine di tre scalinate convergenti. Il tutto è ulteriormente innalzato su un’alta piattaforma alla quale si accede da una gradinata posta sul lato anteriore, alludendo pertanto ad un’opera pensata con un unico fronte principale. Tale piattaforma non è rappresentata nel prospetto, dove agli snelli pilastri della prospettiva sono sovrimposti due parallelepipedi più massicci; uno dei fianchi laterali è ancora risolto a piano inclinato, nell’altro resta invece non definita la scelta tra gradonatura e piano inclinato. In luogo del blocco assimilabile ad un altare, ai piedi della lapide compare poi un volume
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Distaccamento (austro-ungarico) per le tombe di guerra. "Schizzo del grande cimitero militare italiano a Monfalcone — Strada verso Trieste", ottobre 1918, matita nera e rossa, 50 x 117 cm (Österreichischen Staatarchiv — Kriegsarchiv, VL KGräber Italien, Gradiska F-Z, b. 25, f. Monfalcone FHKB 17/2, Vienna) Distaccamento (austro-ungarico) per le tombe di guerra "Schizzo del grande cimitero militare italiano a Monfalcone…", particolare del recinto della brigata Arezzo (Österreichischen Staatarchiv — Kriegsarchiv, VL KGräber Italien, Gradiska F-Z,, b. 25, f. Monfalcone FHKB 17/2, Vienna) Veduta dell’area cimiteriale (intitolata ad “Enrico Toti”) dopo il riordino effettuato al termine del conflitto con il recinto della Brigata Arezzo (a sinistra) s.d., cartolina illustrata (Consorzio Culturale del Monfalconese — fototeca, Monfalcone)
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con copertura sinusoidale che parrebbe, pure qui, sovrapposto ad una precedente ipotesi: potrebbe rappresentare un sarcofago e, se così fosse, troverebbe un qualche riscontro l’aneddoto più volte citato secondo il quale San’Elia avrebbe burlescamente “ecceduto per zelo preparando a piè dell’altare nell’ultima dimora dei valorosi dell’Arezzo, anche la tomba del comandante di Brigata”17. Il gigantismo di tali prefigurazioni è comprensibilmente destinato ad andare incontro ad una drastica riduzione benché, attraverso la consueta adozione di un punto di vista ribassato, l’impressione di grandiosità permanga anche nella rappresentazione prospettica sostanzialmente coincidente con l’opera realizzata. La composizione di volumi diviene qui esplicita reinterpretazione di un altare. Il nucleo centrale è composto da un piccolo ‘altare a blocco’ addossato ad un ‘retroaltare’ dove un riquadro contenente il nome della brigata è inserito tra due pilastri che riprendono la soluzione a torri binate e sbilanciano l’insieme verso l’alto. Contrariamente ai precedenti studi, non si erge tuttavia in splendido isolamento, ma è racchiuso tra due bracci curvi che delimitano un podio sollevato da terra di alcuni gradini. La ‘mensa’ risulta schiacciata dal ‘retroaltare’, ma non è del resto qui che si celebra il sacrificio, bensì sulle pendici del Carso verso cui il monumento è rivolto. Nell’essenzialità dei volumi elementari sono poi inseriti due elementi simbolici di immediata comprensione: le convenzionali decorazioni a ghirlanda e le croci scavate in negativo alla sommità dei pilastri. La differenza più vistosa tra schizzo e opera realizzata risiede nella qualità materica: laddove la vista prospettica indica chiaramente una costruzione in conci di pietra a vista, una foto d’epoca ce la mostra rifinita a intonaco su di una muratura verosimilmente in pietrame se non anche in laterizio. A seguito della rotta di Caporetto, le truppe italiane abbandonano Monfalcone il 27 ottobre 1917. Pochi giorni dopo, il 3 novembre, il servizio stampa dell’esercito austro-ungarico fotografa il recinto ed è a questa, e a qualche altra immagine d’epoca, che resta affidata una visione d’insieme del recinto. L’ingresso avveniva attraverso un portale che riprendeva lo schema a pilastri binati laterali e con in sommità la croce scavata in negativo, motivo che si ritrova pure nei pilastrini posti agli angoli del recinto e che è quindi assunto quale elemento caratterizzante ed unificante. In ottemperanza al regolamento sulle tombe di guerra di cui si è detto, l’apposito distaccamento dell’esercito austro-ungarico attua altresì la mappatura ed il rilevo di massima di tutti i luoghi di sepoltura del monfalconese. L’area cimiteriale di nostro interesse è la più estesa ed è individuata attraverso codici alfanumerici corrispondenti ai principali recinti che la compongono e per ciascuno dei quali è redatta una pianta schematica18. Un’altra pianta, di maggior dettaglio e datata ottobre 1918, rappresenta invece l’intero cimitero19.
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Da questi rilievi si evince che il recinto aveva un impianto a croce latina, con il braccio trasversale poco pronunciato, il monumento collocato all’incrocio degli assi ed una porzione del ramo lungo del braccio longitudinale ancora incompiuta. La rappresentazione avvalora altresì l’ipotesi che fosse rispettata la distinzione tra le sepolture per i soldati semplici, con croci allineate in file contrapposte nei due rami del braccio longitudinale, e quelle per gli ufficiali, con pietre tombali disposte nel ‘transetto’20. In tutta evidenza, i caratteri dell’opera mal si conciliano con l’immagine dell’“architetto futurista comacino che iniziò nel 1914 la rivoluzione mondiale dell’architettura”21 che si intende pressoché univocamente avvalorare nel periodo tra le due guerre mondiali. Il fatto che il ‘sacro recinto’ sia in quegli anni più volte ricordato come l’ultima geniale creazione dell’‘eroe’ valorosamente caduto per la patria, ma senza approfondirne e divulgarne la conoscenza, non è quindi forse solo da attribuirsi alla scarsità di documentazione. Con tutte le cautele che l’incompletezza e la verifica delle fonti impongono, l’opera può, per contro, giungere a conferma di una ricerca progettuale che va sì oltre ogni nozione precostituita di stile, ma attraverso un percorso non lineare. A fronte del forte condizionamento imposto dalle circostanze e dalle attese del comandante di brigata, queste ultime per altro concordanti con la prassi consolidata di inquadrare le sepolture militari in schiere ordinate e rispettose delle gerarchie, può così accadere che l’impeto visionario dell’architetto e la sua grande capacità di assimilare e reinterpretare i più svariati riferimenti si concentrino su una rigorosa applicazione di principi di assialità e simmetria, ovvero facendo ricorso a quell’“arte di disporre le forme degli edifici secondo criteri prestabiliti” altrimenti stigmatizzata nel celebre manifesto L’architettura futurista. Tra gli aspetti che restano da chiarire vi è pure la eventuale partecipazione all’opera dell’illustratore Mario Bazzi (1891-1954). Nel pieno della campagna di mitizzazione della figura e dell’opera di Sant’Elia, è Marinetti a citarlo come co-autore del recinto cimiteriale22 ed in conseguenza di ciò anche Gianni Biondillo, nel suo recente romanzo incentrato sulla figura di Sant’Elia, ‘arruola’ l’artista di cui si hanno poche informazioni nello stesso reggimento dell’architetto e lo descrive come collaboratore attivo alla realizzazione23. Sant’Elia aveva già nell’anteguerra incontrato Bazzi nell’ambito dell’ambiente artistico milanese24. Una serie di disegni dal fronte con indicazione di luogo e data forniscono altresì alcune informazioni su dove Bazzi prestava servizio nel 1916-1725: nell’agosto 1916 è a Monte Zebio, dove è schierata anche la brigata Arezzo, a settembre-ottobre 1916 è a Monfalcone, ma in posizioni diverse da quelle in cui è dislocata la brigata Arezzo, e lo stesso dicasi per un altro disegno del marzo 1917. Per contro, un altro disegno privo di riferimenti ritrae due fanti che hanno sull’elmetto il numero del reggimento
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di Sant’Elia e, in seguito, Bazzi realizza un quadro a olio raffigurante Sant’Elia morto attorniato dai commilitoni26. Si può pertanto ragionevolmente assumere che Bazzi conoscesse Sant’Elia e che abbia reso omaggio alla sua salma, ma non si sono trovati riscontri certi della sua effettiva appartenenza alla brigata Arezzo, né, tanto meno, della sua partecipazione al progetto. L’area cimiteriale nel dopoguerra Nell’immediato dopoguerra il cimitero è, al pari di tutti quelli che vengono mantenuti a seguito di una prima operazione di concentrazione, oggetto di una sistemazione provvisoria a cura dell’Ufficio Centrale per la Cura e Onoranze delle Salme dei Caduti in guerra (Coscg) istituito nel 1919. Già alla fine del 1920 il Coscg affida poi al comune di Monfalcone la manutenzione e la custodia dei cimiteri di guerra presenti nel suo territorio27 e la delega è formalizzata attraverso convenzioni periodicamente rinnovate28. Il recinto della Brigata Arezzo si intravede così in immagini d’epoca che mostrano l’area cimiteriale risistemata e delimitata da una recinzione. A partire dal 1927 il podestà inizia però a chiedere la soppressione dei due principali cimiteri militari collocati nel centro abitato perché ostacolavano l’opera di ricostruzione e le ipotesi di sviluppo29. Nel nostro caso, la presenza del cimitero si frapponeva alle previsioni di piano regolatore che contemplavano l’urbanizzazione dell’area e l’apertura di un nuovo asse viario di attraversamento. La vicenda si trascina ancora per alcuni anni fino a che, nel 1934, si arriva alla soppressione del cimitero30 e alla traslazione delle salme che vi erano ancora custodite nel ‘Cimitero degli invitti’ sul colle Sant’Elia del vicino comune di Fogliano Redipuglia. Contestualmente, procedono speditamente le procedure per l’apertura del nuovo asse viario31 e per la destinazione di parte dell’area ad uso scolastico: nel settembre 1934 il Comune cede a titolo gratuito alla Provincia di Trieste il terreno occorrente alla costruzione di un istituto tecnico32 ed il progetto dell’edificio, tuttora esistente e sede di un liceo scientifico, è approvato l’anno successivo. La restante parte dell’area resta invece inedificata ed è oggi destinata a parcheggio.
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Abbreviazioni ASCM Archivio Storico Comunale, Monfalcone AST Archivio di Stato, Trieste CCM Consorzio Culturale Monfalconese, Ronchi dei Legionari MCRBo Museo Civico del Risorgimento, Bologna ÖSA-KA Österreichischen Staatarchiv — Kriegsarchiv, Vienna Note 1 AST, Commissariato civile di Monfalcone, b. 17, f. “Sistemazione dei cimiteri — norme di massima”.Lettera del Comando della Terza armata al Commissario civile di Cervignano, “Tumulazione dei militari defunti nei presidi”, 29 giugno 1915. 2 AST, Commissariato civile di Monfalcone, b. 17, f. “Tumulazioni — identificazione e registrazione delle salme dei militari”. Serie di circolari inviate dall’Intendenza generale a tutti i comandi territoriali e trasmesse dal Comando supremo — Segretariato generale per gli affari civili alle autorità civili delle zone di guerra. 3 AST, Prefettura di Monfalcone, b. 27, f. Cimiteri. Pernigotti, “Relazione circa i Cimiteri di Monfalcone. Identificazione e registrazione di salme di militari”, con “Schema di sistemazione dei cimiteri militari di Monfalcone” ed allegato “Elenco di tutti i cimiteri e delle Tombe identificate e riconosciute al 31 luglio 1917”, 18 settembre 1917. Per i cimiteri di guerra del monfalconese cfr. in part. M. Mantini, “Cimiteri di guerra”, in M. Mantini, S. Stok, I tracciati delle trincee sul fronte dell’Isonzo, III. Le alture di Monfalcone: parte 2, Udine, Gaspari, 2010, pp. 80-89. Per una documentazione fotografica d’epoca cfr. in part. S. Stok (a cura di), Monfalcone: paesaggi della Grande Guerra — Tržič: krajine prve Svetovne Vojne, Monfalcone, Comune di Monfalcone, 2015, passim. 4 W. Lange, Deutsche Heldenhaine, Leipzig, Weber, 1915. 5 W. F. Storck, “Kriegergrabmal und Kriegerdenkmal — Randbemerkungen zur Wanderausstellung der Städtischen Kunsthalle in Mannheim”, Die Kunst, 1916, n. 34, pp. 357-380. 6 DW, Kriegergräber im Felde und Daheim. Jahrbuch des Deutschen Werkbundes 1916/17, München, F. Bruckmann, 1917. 7 K.K. Gewerbeförderungs — Amt (a cura di), Soldatengräber und Kriegsdenkmale, Wien, Anton Schroll, 1915. 8 Cfr. in particolare S. Wedrac, “Die Toten — ihre Friedhöfe und Denkmäler”, in M. Rauchensteiner (a cura di), Waffentreue. Die 12. Isonzoschlacht 1917, Wien, Fassbaender, 2007, pp. 103-114. 9 Cfr. per es. O. Dudy, Cmentarze I Wojny Światowej w Galicji Zachodniej, Varsavia, Ośrodek Ochrony Zabytkowego Krajobrazu, 1995; P. Pencakowski, “Monumenti dimenticati agli ‘eroi di nessuno’. I cimiteri austriaci di guerra nella Galizia occidentale”, in G. Fait (a cura di), Sui campi di Galizia (1914-1917). Gli italiani d’Austria e il fronte orientale: uomini, popoli, culture nella guerra europea, Rovereto, Museo storico italiano della guerra, 1997, pp. 461-479. 10 Ministero della guerra, Stato maggiore centrale, Ufficio storico, Brigate di fanteria: riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, Vol. 4: Brigate: Lombardia, Napoli, Toscana, Roma, Torino, Venezia, Verona, Friuli, Salerno, Basilicata, Messina, Sassari, Liguria, Arezzo, Avellino, Roma, Libreria dello Stato, 1926, pp. 293-315. 11 In seguito promosso generale, Fochetti è figura di levatura non comune nei quadri di comando dell’esercito italiano e tra i suoi ufficiali di ordinanza c’erano, all’epoca, lo scrittore Bonaventura Tecchi e Cipriano Facchinetti, noto esponente politico di parte repubblicana e giornalista, cui è pure attribuita l’epigrafe posta sulla tomba di Sant’Elia. Il conferimento dell’incarico a Sant’Elia è con buona probabilità dipendente anche da ciò. 12 A. Cotronei, A. Giovesi, La morte gloriosa del futurista Sant’Elia, Milano, Direzione del Movimento Futurista, 1916. 13 Red., “L’arch. Sant’Elia è sepolto nel cimitero da lui ideato!”, La Provincia di Como, 27 ottobre 1916. 14 M. Sarfatti, “Sant’Elia e la sua opera”, Gli Avvenimenti, 29 ottobre 1916 15 L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia. Catalogo della mostra permanente, Como, Cesare Nani, 1962, fig. 115. 16 L’unica informazione fornita dal venditore è stata la provenienza dei disegni da Bergamo, circostanza che potrebbe rimandare a Luigi Angelini. Dal sondaggio condotto nell’archivio del poliedrico ingegnere bergamasco, che aveva conosciuto Sant’Elia e scritto in sua memoria citando anche il progetto del recinto (cfr. in part. L. Angelini, “Necrologio. L’architetto Antonio Sant’Elia”, Emporium, 1917, n. 266, pp. 155-159), non è però emerso alcun riscontro circa il possesso di altri disegni di Sant’Elia oltre i tre prestati in occasione della mostra del 1962 (cfr. nota 15). Un sentito ringraziamento è dovuto ad Alberto Longatti, che ha reso possibile l’individuazione dei disegni e ha espresso la sua autorevole opinione a favore della loro autenticità. 17 C. Vaccari, “Antonio Sant’Elia”, Il Gagliardetto, 23 ottobre 1921. 18 ÖSA-KA, VL KGräber Italien (Gradiska F-Z), b. 25, f. Monfalcone FHKB 17. 19 ÖSA-KA, VL KGräber Italien (Gradiska F-Z), b. 25, f. Monfalcone FHKB 17/2. 20 Tra queste ultime vi era anche la tomba che accoglieva le spoglie di Sant’Elia prima della traslazione a Como nel 1921.
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F. T. Marinetti, “Sant’Elia e la nuova architettura”, Vecchio e nuovo, 9, 1931, n. 1, p. 17. F. T. Marinetti, “La rivoluzione di un architetto futurista”, Il giornale della domenica, 7-8 dicembre 1930; Id., “Sant’Elia e la nuova architettura”, cit., p. 18. 23 G. Biondillo, Come sugli alberi le foglie, Milano, Guanda, 2016, pp. 226-229. 24 L. Sansone, I futuristi del Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti, Milano, Mazzotta, 2010, p. 13, nota 10. 25 MCRBo, fondo Mario Bazzi. 26 Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como, a cura di L. Caramel, A. Longatti, M. L. Casati, Cinisello Balsamo, Silvana, 2013, p. 221. 27 ASCM, b. 944 fascicoli separati. Circolare del Commissario civile di Monfalcone ai sindaci dei comuni del distretto, 22 novembre 1920. 28 ASCM, b. 344 f. 5. Convenzioni tra il Coscg e il Municipio di Monfalcone “per la manutenzione e la custodia provvisorie” dei cimiteri militari, 18 ottobre 1924 e 9 aprile 1928. 29 ASCM, b. 344 f. 5. Lettera del podestà di Monfalcone al Ministero della guerra, 27 agosto 1927. 30 ASCM, b. 344 f. 5. Lettera del Coscg al Comune di Monfalcone, 22 gennaio 1934. Si annuncia la soppressione del cimitero a fine luglio 1934. 31 ASCM, b. 208, f. Deliberazioni approvate 22.9-1934. 32 ASCM, b. 208, f. Deliberazioni approvate 6.10-1934. 21
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titolo saggio • nome cognome
Le cittĂ del Futurismo e Sant'Elia
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milano a inizio novecento: paesaggi, progetti, architetture negli anni di sant’elia* •
M. Stroppa, veduta dall’alto del “Corso d’Italia”, esteso per 30 km dal Duomo di Milano (in primo piano) fino al Ticino, secondo il progetto dell’ingegnere E. Belloni, 1908 (da Le Case Popolari e le città giardino, 1, 1909-1910)
Ornella Selvafolta
Nel 1906, quando Sant’Elia concludeva la formazione scolastica a Como e stava per iniziare l’esperienza milanese, si apriva l’Esposizione internazionale del Sempione, la prima in Italia ad essere “veramente internazionale”, fortemente voluta dalla classe dirigente e in perfetta sintonia con lo “spirito imprenditoriale e progressivo”1 della città. In quell’anno essa contava circa 550.000 abitanti, disponeva di un’“area fabbricata” di quasi 11.000.000 mq e vantava un movimento annuo di 95 milioni di passeggeri sui mezzi di trasporto pubblico2. Ma, si osservava, erano dati provvisori e destinati ad essere presto superati: proprio per questo significativi di una nuova modernità urbana per una Milano che ha indubbiamente costituito un terreno favorevole alle espressioni delle avanguardie, ivi comprese le ‘visioni’ di Sant’Elia3. L’esposizione era nata per celebrare l’apertura del tunnel ferroviario del Sempione tra Italia e Svizzera che, con i suoi 20 chilometri di percorso dentro le montagne, accorciava sensibilmente le distanze tra le capitali europee e inseriva Milano nella rete delle comunicazioni internazionali. Sulle pagine del Corriere della Sera Ugo Ojetti osservava che l’avvenimento segnava il “principio di un’epoca nuova”, poiché non si “commemorava una data storica”, non si festeggiava un “anniversario di cento, di cinquecento, di mille anni fa”, ma si celebrava “un fatto […] compiuto sotto i nostri occhi”4. In altri termini si celebrava l’attualità e il futuro in un paese troppo incline alla glorificazione del proprio passato e si prendeva coscienza degli “inarrestabili” cambiamenti che erano ormai all’origine di “un mondo diverso”5. Tali osservazioni coglievano, forse più di altre, il significato moderno dell’esposizione contribuendo a un clima di effettivo entusiasmo, grazie a cui la città poteva sia suggellare la propria supremazia economica sul piano nazionale, sia proporsi come parte attiva dello scenario europeo. E non bisogna dimenticare come in questa ‘apoteosi moderna’ contasse anche l’eccezionalità del traforo alpino: un cantiere complesso, frutto degli sforzi congiunti di due paesi diversi, condotto in luoghi di eccezionale difficoltà6. Dopo otto anni di lavori, di scavi sotto massi di roccia spessi fino a 2 km, i treni potevano viaggiare senza incontrare ostacoli, dimostrando come le geografie più impervie non si opponessero all’espandersi delle comunicazioni e come l’intero territorio fosse disponibile alla trasformazione e al progetto. Era questo
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Mario Stroppa [Marius], International Exhibition of Milan 1906 Manifesto per l’Esposizione Internazionale del Sempione, Milano, G. Ricordi, 1906 (archivio privato, Milano)
il “mondo diverso” evocato da Ojetti e non estraneo alle elaborazioni di Sant’Elia e degli altri artisti futuristi: un paesaggio amplificato, rapido ed efficiente, quasi una ‘realtà aumentata’ dalle connessioni, dai flussi e dal moltiplicarsi dei percorsi. Principalmente dedicata al settore dei trasporti e delle infrastrutture, via terra, acqua e aria, l’esposizione presentava tutti “i nuovi mezzi meccanici di locomozione” da cui la “civiltà moderna” aveva tratto l’“impronta distintiva” e, nell’insieme, magnificava l’idea del dinamismo contro il “colosso immobile” delle Alpi, della velocità contro la lentezza, della continuità contro le fratture paesaggistiche, del contrarsi dello spazio fisico e temporale contro l’ampliarsi delle distanze tra uomini, merci e idee7. Queste ad altre considerazioni affioravano costantemente dalla pubblicistica dell’epoca e da una forma di letteratura urbana affascinata dalle dinamiche di una modernizzazione per la quale ogni moto di espansione doveva considerarsi positivo e ogni fenomeno acquistava valore in rapporto al futuro8. Non si può non citare, a titolo di esempio, Mario Morasso, giornalista e scrittore, cronista di corse automobilistiche, a sua volta impegnato a descrivere l’esposizione, che nel 1905, in quello che è forse il suo più importante contributo teorico La nuova arma. (La macchina), aveva già riflettuto sul progresso tecnologico e sulla trasformazione dei paradigmi artistici legando direttamente il processo creativo a quello produttivo-industriale e preconizzando più di un tema della poetica futurista9.
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Un ‘anticipo’ della città futura poteva intanto essere la ferrovia a “trazione elettrica monofase” che collegava le due sedi espositive, situate l’una al Parco Sempione e l’altra nell’ex piazza d’Armi, con un percorso sopraelevato di 7 metri rispetto al piano stradale. Ogni tre minuti i treni trasportavano 270 persone da un luogo all’altro e compivano un tragitto di poco più di un chilometro alla velocità, allora considerevole, di 40 km all’ora. La “ferrovia elettrica” materializzava un’idea avveniristica, ma in fondo praticabile, della circolazione urbana che offriva ai milanesi anche un campo inedito di esperienze percettive: poiché la città vista dall’alto, velocemente e senza barriere era quasi un’“altra esposizione”, sottolineavano i contemporanei mettendo in risalto la condizione moderna di chi poteva cogliere immagini fugaci e in movimento del paesaggio cittadino e considerare lo spettacolo a più livelli delle strade, delle costruzioni, del traffico10. Difficile pensare che Sant’Elia non l’abbia vista o non ne abbia almeno avuto sentore, così come è difficile pensare che queste ed altre situazioni non abbiano agito, pur se inconsciamente, sulla sua sensibilità e immaginazione. Un anno prima dell’esposizione, tra l’altro, gli ingegneri Leopoldo Candiani e Carlo Castiglioni avevano ripreso un progetto di metropolitana sotterranea (risalente al 1903) rielaborandolo in rapporto al più generale problema del riordino ferroviario cittadino in seguito all’aumento del traffico su rotaia e alla nazionalizzazione della rete11. Documentati sugli esempi di Boston, New York, Parigi, Londra, Berlino, i progettisti avevano ipotizzato un percorso che attraversava la città da est a ovest studiando le sezioni dei tunnel, le tipologie delle fermate, gli imbocchi e le uscite, gli arredi e le segnalazioni, ovvero estendendo in profondità la rete di strade, incroci, diramazioni e connessioni che già animava il paesaggio di superficie e, in fondo, anticipando quanto una decina di anni dopo scriverà Boccioni a proposito di un futuro “ambiente architettonico” sviluppato “in tutti i sensi: dai luminosi sotterranei dei grandi magazzini dai diversi piani di tunnel delle ferrovie metropolitane alla salita gigantesca dei grattanuvole americani”12. Ma tornando all’Esposizione, almeno un accenno meritano le architetture dei padiglioni, nonostante fossero per lo più assenti quelle asserzioni di modernità che avevano percorso l’architettura europea tra Otto e Novecento e che a Torino, nel 1902, avevano costituito un obbligo programmatico dell’Esposizione Internazionale di Arti Decorative Moderne 13. A Milano non esisteva alcun piano architettonico complessivo, considerando piuttosto la diversità tipologica delle mostre, l’eterogeneità dei linguaggi, dei materiali e degli stili, altrettanti elementi di attrazione. Non sappiamo cosa Sant’Elia abbia visto, né da cosa sia stato incuriosito. Forse aveva apprezzato la mostra austriaca allestita dell’architetto Ludwig Baumann, pensata, coerentemente con il tema principale dell’Esposizione, come un “centro ferroviario” per una grande città,
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pagina a fronte M. Stroppa, la ferrovia elettrica sopraelevata all’Esposizione (da Milano e l’Esposizione Internazionale del Sempione, 1906. Cronaca illustrata dell'Esposizione, a cura di E. A. Marescotti, Milano, Ed. Ximenes, 1906)
completo di stazione per i viaggiatori con tutte le dotazioni di servizi e comfort, alloggi per il personale direttivo e uffici di promozione turistica, strutture per l’arrivo e la partenza dei treni, per la manutenzione, riparazione e deposito di vetture e locomotive. Nel linguaggio semplificato e decoroso, nel rispetto delle funzioni di utilità e rappresentanza, il padiglione spiccava nel panorama piuttosto ridondante e disarmonico dell’esposizione ed era considerato un frutto virtuoso della Wagnerschule e del suo consistente pensiero architettonico: “bello, logico, pratico, con equilibrato senso del moderno”, dichiarava l’ingegnere Ugo Monneret de Villard14. Certo, in un’ottica pre-futurista poteva essere interessante l’entrata a doppio tunnel ferroviario che trasformava l’architettura stessa nel paesaggio delle infrastrutture; oppure il padiglione-macchina allestito dal municipio di Sampierdarena e disegnato dall’architettò Gino Coppedè15. Plasmato come un gigantesco congegno di lamiera brunita e imbullonata, da cui fuoriuscivano ruote dentate e bracci di gru evocanti le industrie navali e meccaniche, il padiglione era un ‘racconto totale’ che dava forma macchinista al pensiero di Sampierdarena come città produttiva in un contesto di sostanziale convergenza tra istituzioni, capitale e lavoro. La sua architettura, francamente bizzarra, era considerata “nuova, ardimentosa, meravigliosamente armonica”, oppure “orribile e mostruosa”16, certamente efficace nell’immediatezza visiva e già in linea con un’idea di comunicazione basata su segni diretti e tempi veloci di sensazioni e reazioni. Del tutto diverso era il padiglione del Municipio di Milano la cui architettura neomanierista, memore della sede del Comune nel restaurato Palazzo Marino, non presentava alcun tratto innovativo, ma ambiva piuttosto a una facies autorevole e consacrata dalla storia per esaltare la modernità dei contenuti17. Accanto ai documenti sulla vita municipale, accanto alle pubblicazioni, ai bilanci e ai rilievi statistici, si esibivano “vecchie e nuove carte topografiche complete dei piani di ampliamento”, mappe della viabilità e dei trasporti, planimetrie con i tracciati degli impianti tecnici a rete; fotografie e progetti di case operaie e di bagni popolari, di scuole e mercati18. Si davano cioè le coordinate di una Milano dinamica e socialmente attiva, legata più all’utilità che alla rappresentazione, più all’efficienza che alla ricchezza, più alla funzionalità che alla monumentalità fine a se stessa: di per sé non lontana da aspirazioni futuriste. Al di là della retorica d’occasione, il Comune che si autorappresentava all’Esposizione del 1906, era di fatto un’istituzione operosa, positivamente avviata verso la produzione e la gestione diretta dei servizi e delle attrezzature urbane, a metà strada fra l’imprenditorialità e l’assistenzialismo. Almeno un inciso merita perciò una questione tra le più rilevanti nei processi di trasformazione delle città italiane, ovvero la legge del 1903 sull’“as-
sunzione diretta da parte dei comuni” dei pubblici servizi19. Dove rientravano viabilità e trasporti, fognatura e acqua potabile, gas e elettricità, mercati e macelli, case popolari, istruzione e assistenza. Nella relazione al Parlamento Giovanni Giolitti aveva fatto riferimento alle sollecitazioni moderne che l’avevano originata, sottolineando il dovere di dare una risposta “efficace alla crescente intensificazione della vita urbana, legata non soltanto al progressivo ingrandimento delle città, ma anche alla moltiplicazione dei bisogni collettivi”20. La città era quindi percepita come un luogo di vita ‘intensificata’ ed epicentro del progresso, entro un orizzonte culturale che ne considerava la crescita un destino ineluttabile, anzi, auspicabile del progresso. È bene per altro sottolineare come la centralità del municipio nei processi di modernizzazione abbia costituito anche il terreno per nuovi spazi di progetto con numerose possibilità di interazione tra amministrazione, economia e cultura tecnica. Per ampiezza e qualità di interventi il Comune di Milano fece da battistrada in diversi settori, mentre la città nel suo insieme, nonostante le contraddizioni e le crisi invariabilmente prodotte dai processi di cambiamento, si proponeva come un campo preferenziale di applicazioni moderne21. A partire dal sempre magnificato spirito imprenditoriale, dalla proverbiale operosità milanese (a volte talmente insistita da rasentare lo stereotipo), testimoniata nel primo decennio del Novecento dal rilevante numero di attività produttive, ma soprattutto dal loro livello di innovazione, di espansione e di avanzamento tecnologico. Compartimenti industriali come
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Gino Coppedè, Il padiglione della Città di Sampierdarena (da L’Edilizia Moderna, 16, aprile 1907)
pagina a fronte M. Stroppa, veduta a volo d’uccello delle Officine Meccaniche Ernesto Breda a Sesto San Giovanni. 1910 ca. (archivio privato, Milano)
il chimico, metalmeccanico o elettrotecnico, avevano raggiunto dimensioni inedite e richiedevano aree vaste e passibili di sviluppo, connessioni alle reti dei trasporti, dell’energia e dei servizi, relazioni con i territori dell’approvvigionamento e del consumo, in zone suburbane che seguivano le direttrici di sempre più vasti ambiti territoriali. A inizio Novecento da nord a sud attorno a Milano si erano insediati complessi di notevole ampiezza (dalla Pirelli alla Breda, dalla Marelli alla Falck, dalle Acciaierie Redaelli alle Officine Meccaniche) che rispecchiavano nuovi programmi, quantità e processi22: luoghi già indicati come “città-fabbrica” dai contemporanei, dotati di uno “strano fascino” e di “una strana monumentalità”23, per la dilatazione spaziale e territoriale, le planimetrie articolate secondo i procedimenti meccanici e i flussi dei movimenti, le dotazioni tecniche e la morfologia costruttiva in una sorta di incontaminata corrispondenza tra il progetto e la logica produttiva. Solo una visione dall’alto poteva rendere conto di questi aspetti ed è significativo che in quegli anni si delinei una specifica iconografia industriale per la quale deve essere ricordato l’artista e illustratore Mario Stroppa, meglio conosciuto come “Marius”, tra i più interessanti interpreti della modernità metropolitana e delle sue visioni progettuali24. I suoi
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panorami industriali esaltavano la vasta articolazione degli spazi, le tipologie a shed, i volumi bassi e allungati, da cui emergevano i più distinti contrassegni produttivi: ciminiere e torri dell’acqua, gasometri e montacarichi, gru e carri ponte, altoforni e nuvole di fumo. Ovvero quelle presenze che Marinetti in La grande Milano tradizionale e futurista ricorderà come la “burbera poesia fragorosa della Grande Industria Metallurgica […] Sconfinato vocione scarlatto degli altoforni […] turbinosa rissa dei torni e delle ruote […] tumultuante irradiarsi di rotaie a guizzi lunghissimi […] locomotori di trebbiatrici, vagoni, aratri, mitragliatrici, siluri aeroplani navi mercantili rotaie rotaie”25. La nuova dimensione capitalistica dell’industria era anche alla base di strategie di sviluppo territoriale strettamente legate alla localizzazione degli stabilimenti come, ad esempio, nel 1908 il progetto per il “Quartiere Industriale Nord Milano”, elaborato dall’ingegnere Evaristo Stefini per “una società di industriali” e finanzieri (tra i quali Ernesto Breda, Piero Pirelli, Ettore Conti, Carlo Feltrinelli, le banche Pisa e Commerciale Italiana) e pensato come un “polmone di espansione” per la città che “straripa e dilaga nel vasto piano lombardo”26. Si trattava sostanzialmente di un’operazione immobiliare ad ampio raggio, considerata “degna di un’impresa americana”, che prevedeva abitazioni per ceti medi e operai, strutture di servizio sedi di industrie, sviluppata attorno a un ampio viale di collegamento tra Milano e Sesto San Giovanni, su un’area di 5 milioni di mq. La presenza di zone e tipologie edilizie diverse in basa a una scala qualitativa che decresceva mano a mano che ci si allontanava dalla città (costruzioni basse e a villini, complessi di case popolari e operaie, stabilimenti industriali), riprendeva il modello del “suburbio in parte arioso e tranquillo in parte industriale, così come si trova in parecchie città tedesche e in qua-
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M. Stroppa, veduta a volo d’uccello degli stabilimenti Pirelli & C. alla Bicocca, 1910 ca. (archivio privato, Milano)
pagina a fronte M. Stroppa, rappresentazione del viale tra Milano e Sesto San Giovanni per il progetto “Quartiere Industriale Nord Milano” dell’ingegnere E. Stefini, 1908 (archivio privato, Milano)
si tutte le inglesi e americane”27. Il contrassegno specifico e la “spina dorsale” dell’insediamento era tuttavia il viale rettilineo largo 60 metri e lungo 5 km che partiva da Milano dirigendosi verso nord, inframmezzato da fasce verdi e suddiviso in corsie a seconda dei tipi di traffico: carri, cavalli, pedoni, biciclette, omnibus, tram elettrici direttissimi e automobili28. Marius lo eleggeva a emblema del progetto, raffigurandolo sulla Rivista mensile del Touring Club Italiano e su Le case popolari e le città giardino29, in prospettiva infinita, attorniato da costruzioni e ciminiere, disposto su vari livelli, attraversato da sovrappassi e passerelle, con le arterie centrali simili a “piste”, destinate a “veicoli velocissimi”. Non sfuggirà l’‘inclinazione futurista’ di una rappresentazione in cui le comunicazioni e l’interscambio erano le caratteristiche determinanti di una città e di un territorio concepiti come paesaggi vettoriali, segnati dalla rapidità dei percorsi e dalla modernità dei mezzi di trasporto. “La strada è un viadotto […] è corrente e rotaia […] è la pista”, aveva scritto Mario Morasso30 e a tale concetto sembrava conformarsi il progetto per il “Corso d’Italia” redatto nel 1908 dall’ingegnere Emilio Belloni, a sua volta illustrato da Marius e pubblicato dalla rivista Le case popolari e le città Giardino31. Uno smisurato rettifilo lungo trenta chilometri avrebbe congiunto piazza del Duomo al Ticino come “un’arteria aorta” che avrebbe pulsato “all’unisono” col ritmo concitato della città moderna, avrebbe “socializzato” la vista della Madonnina e avrebbe fatto viaggiare 25.000 persone ogni ora in ciascun senso. Il tipo e l’entità delle demolizioni che la realizzazione avrebbe comportato non erano considerati ostacoli degni di nota: via le strade anguste e tortuose “sgradite ai pas-
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seggeri o agli abitanti”, via i monumenti e la storia in nome della “china inarrestabile del progresso”, mentre la campagna sarebbe stata “colonizzata” da costruzioni concepite con criteri più salubri e insieme più redditizi, passando dalle “vaste case d’affitto” a un tessuto più diradato fino ai villini unifamiliari immersi nel verde proporzionatamente alla diminuzione dei prezzi dei terreni32. Come il viale del Quartiere Industriale Nord Milano, anche il Corso d’Italia era suddiviso in settori a seconda del traffico e dei veicoli: tram omnibus, tram diretti in sede abbassata (“in partenza ogni tre minuti come una saetta”), motocicli e biciclette (“che fileranno per decine di chilometri quasi al volo”) e automobili. Ai lati erano previsti gli alloggiamenti per il “traffico” dei condotti tecnici, come “posta pneumatica, telefono, telegrafo e orologi, acqua e gas, calore e freddo, elettricità, aspirazione della polvere e altro che oggi appena si immagina”33. Nella sua mancanza di ragionevolezza, e nella sua inopinata fascinazione per un futuro sov-
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Veduta di Milano verso il Duomo con la ciminiera della centrale termoelettrica di via Santa Radegonda s.d. [1882-1890 ca.], Edizioni Brogi (Civico Archivio Fotografico, Milano)
vertitore di tradizioni e cultura, il progetto del Corso d’Italia aveva però sottolineato la nuova importanza dei flussi dinamici e dell’energia, tra i quali, come è noto, l’elettrico fu tra i più pervasivi. A Milano poteva contare su solidissime basi produttive e tecnico-scientifiche, poiché qui nel 1883 era stata attivata la prima centrale termoelettrica dell’Europa continentale, sistema Edison, in via di Santa Redegonda accanto alla piazza del Duomo34. Dal suo studio di via San Raffaele, Sant’Elia poteva vedere la ciminiera alta 52 metri stagliarsi contro le cuspidi della cattedrale, trovando, forse anche in questo scorcio urbano, l’idea di una città nuova che avrebbe opposto i segni della modernità tecnologica a quelli del passato monumentale. Dalla finestra del suo appartamento di via Adige, Boccioni poteva invece vedere la più moderna centrale termoelettrica di piazza Trento, attivata dal Comune di Milano nel 1905, dopo due anni da che aveva intrapreso la strada della produzione e gestione dell’energia per provvedere ai bisogni della città e superare il monopolio privato35. Non uno stabilimento, bensì una ‘cittadella elettrica municipale’ di circa 11.000 mq per alimen-
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Veduta della centrale termoelettrica comunale di piazza Trento (1905) dallo scalo merci di Porta Romana. Milano (Archivio storico fotografico Aem, Fondazione Aem — Gruppo A2A)
tare una “rete primaria ad anello” lunga circa 12 chilometri: presenza nuova di una periferia urbana percepita come soggetto artistico da parte di un pittore moderno come Boccioni che, significativamente, la inseriva nel famoso dipinto Officine a Porta Romana (del 1907) tra le strade percorse da operai, le case in costruzione, gli stabilimenti e le ciminiere36. Nel 1910 la centrale di piazza Trento aveva molto allargato il proprio raggio d’azione, poiché non era soltanto il polo generatore dell’energia cittadina, ma anche il punto di confluenza e distribuzione dell’elettricità prodotta negli impianti costruiti dal Municipio in Valtellina e condotta a Milano da una linea ad alta tensione lunga più di 150 chilometri. La possibilità del trasporto a distanze sempre più rilevanti aveva infatti aperto una nuova dimensione territoriale e paesaggistica dell’energia che aveva inglobato i luoghi delle altitudini e aveva richiesto interventi complessi tra opere di presa e bacini di raccolta delle acque, regolamentazione dei flussi esistenti e creazione di nuovi, canalizzazioni, imbrigliamenti e diramazioni, sbancamenti e riempimenti di terra, perforazione delle rocce, gallerie naturali e artificiali, edifici e dighe che avevano insita la facoltà di riscrivere geografie intere37. Alla loro grandezza materiale e culturale gli artisti non furono insensibili, intravvedendo la
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natura del futuro nel paesaggio profondamente modificato dalla tecnica. Boccioni trovava “infinitamente sublime lo sconvolgere che fa l’uomo sotto la spinta della ricerca e della creazione, l’aprire strade, colmare laghi, sommergere isole, lanciare dighe, livellare, squarciare, forare, sfondare, innalzare per questa divina inquietudine che ci spara nel futuro”38. Mentre nei suoi disegni idroelettrici Sant’Elia componeva in immagini sublimi natura e artificio, versanti obliqui e condotte in discesa, speroni di rocce e contrafforti, scarpate e rinforzi di pietre, caverne e gallerie, ponti e voragini, picchi e torri. Erano disegni elaborati negli stessi anni della “città nuova”, quasi fossero la base energetica delle sue strade, grattacieli e stazioni: nel “caleidoscopico apparire e riapparire di forme”, nel “moltiplicarsi delle macchine”, nell’“accrescersi quotidiano dei bisogni imposti dalla rapidità delle comunicazioni, dall’aggiornamento degli uomini, dall’igiene e da cento altri fenomeni della vita moderna”39. Costruzioni, macchine, infrastrutture, igiene: non sfuggirà come tali ambiti rispecchiassero i campi di un sapere che aveva nel Politecnico di Milano il suo centro di elezione e che includevano il disegno e le costruzioni, l’architettura e i materiali, l’idraulica e l’ingegneria stradale, l’elettrotecnica e la meccanica40. Le intersezioni possono essere molteplici: dallo spiccato interesse che il progetto politecnico dimostra per la risoluzione di ogni problema legato alla mobilità e ai trasporti, all’attenzione per il cantiere quale processo dinamico del costruire, in spiccata assonanza con la celebrazione da parte di Marinetti dell’ échafaudage come simbolo per eccellenza della nostra “brûlante passion pour le devenir des choses”41; dalla filosofia “meccanicistica” che spesso permea il progetto tecnico fino all’aspirazione a fondare, presso il laboratorio di elettrotecnica del Politecnico, grazie all’insigne professore Riccardo Arnò, una Società per la Protezione delle Macchine presieduta dallo stesso Marinetti42; dall’idea del paesaggio costruito come strumento di civiltà e progresso proprio della tradizione dell’ingegneria civile, alla trasfigurazione mitica dell’atto di trasformazione della natura per la creazione di paesaggi artificiali. Vi è insomma una disponibilità teorica e pratica all’innovazione da parte della cultura politecnica che ha fortemente inciso sui programmi cittadini e sulla percezione della loro modernità. Architetti e ingegneri furono spesso attivi come progettisti e costruttori nei servizi di utilità pubblica, quelli già orgogliosamente esibiti all’Esposizione del 1906 cui spettava il compito di stabilire non solo una rete tecnica, ma anche una ‘rete culturale’ di relazioni tra la collettività e l’individuo che andava ben oltre l’allacciamento materiale degli edifici alla fognatura, all’acquedotto, al gas o all’elettricità. Alla base stava un’idea di città come organismo, formata da parti interconnesse e solidali tra le quali sussistevano correlazio-
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ni complesse di tipo meccanico e biologico, in una sorta di ‘totalità ambientale’ che di per sé sarà imprescindibile anche dal pensiero della Città nuova. Nella sfera dell’igiene, particolarmente pregnante nelle strategie municipali e alla quale Sant’Elia non era certo disinteressato43, era emblematica la rete dell’acqua potabile: da subito organizzata come impresa pubblica in virtù del carattere di vitale necessità, del significato sociale, dell’impegno realizzativo e della valenza simbolica44. Alla fine del primo decennio del Novecento la città aveva all’attivo una serie di impianti per l’estrazione dell’acqua dal sottosuolo, degni dei migliori manuali di igiene urbana, progettati dall’ingegnere Francesco Minorini e contrassegnati da soluzioni costruttive aggiornate, novità tipologica, moderne tecnologie, razionalità, rendimento. Da una potenzialità di 350 litri si era passati a 2200 litri al secondo, grazie alla costruzione di pozzi artesiani, canalizzazioni sotterranee e “stazioni” per il sollevamento e il pompaggio dell’acqua, dove agivano pompe centrifughe, compressori, motori a gas, motori diesel, motori elettrici45. Anche i “bagni […] per le rapide cure del corpo” che Marinetti annoverava tra le componente della città “meccanizzata e democratica”46, a inizio Novecento, si presentavano decisamente rinnovati in attrezzature dove l’igiene si alleava allo sport e a un sano modo di vivere sotto l’egida della tecnologia. Tra i più interessanti il “nuovo bagno municipale al Ponte della Gabelle”, progettato dall’ingegnere Giuseppe Codara e dall’architetto Pasquale Tettamanzi, dotato di una “piscina natatoria” all’aperto di 1600 mq e numerosi camerini privati, di una solida struttura in cemento armato e di sofisticati sistemi di riempimento, svuotamento, depurazione delle acque47. Dalle descrizioni dell’epoca si trae l’impressione di un grande congegno a natura “industriale”, sia per il corredo di macchinari, sia per il pensiero di efficienza che sottostava a un progetto integrato di spazi e attrezzature secondo una logica razionalizzatrice di sforzi, effetti, produttività. Grazie a tali dispositivi e tale approccio le applicazioni dell’igiene e del confort avevano profondamente modificato il progetto edilizio ed erano diventate parte integrante del costruire, soggetto a un’‘intensificazione meccanica’ che fu senz’altro portatrice di miglioramenti, nonostante gli esiti linguistici, anche se dignitosi e corretti, fossero spesso visivamente ‘attardati’ rispetto alle componenti innovatrici della tecnica. Così, mentre per Sant’Elia i marchi più visibili dell’abitare moderno saranno il crescere in altezza e le ‘piste verticali’ degli ascensori, le “vaste case d’affitto” costruite nel primo decennio del secolo non esibivano alcun condotto all’esterno e tuttavia comprendevano negli spessori costruttivi i numerosi circuiti e movimenti di un nuovo agio ambientale che controllava il freddo e il caldo, la luce e l’ombra, che immetteva sostanze vitali ed espelleva quelle dannose. E se raramente gli edifici esibivano gli scheletri in cemento armato che nel Manifesto
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Pasquale Tettamanzi (arch.) e Giuseppe Codara (ing.), nuovi Bagni Municipali al Ponte delle Gabelle, Milano, 1910 (da L’Edilizia Moderna, 19, luglio 1910)
si auspicavano limpidi nella loro essenza di gabbia strutturale, è certo che in quegli anni l’impiego del materiale fu in costante aumento. Giocava a suo favore una migliore affidabilità statica, maggiore resistenza al fuoco, economia, riduzione delle masse murarie, rapidità di cantiere e una sorta di vocazione imprenditoriale testimoniata anche dal fiorire di brevetti e sistemi48. Secondo l’ingegnere Arturo Danusso, tra i più interessanti e colti tecnici del primo Novecento, il materiale possedeva “nervi d’acciaio” e “braccia snelle” e, nel 1906, pubblicava sulla rivista Il cemento la chiesa di Saint-Jean de Montmartre a Parigi di Anatole de Baudot considerandola un esempio di ricerca tecnica ‑ espressiva particolarmente degna d’attenzione e un possibile esempio per le realizzazioni contemporanee. Nello stesso anno L’Edilizia Moderna illustrava “Casa Lancia al Bocchetto” a Milano dell’ingegnere Achille Manfredini, sottolineando che si trattava di una “maison de commerce” dove il cemento armato aveva consentito una pianta aperta e flessibile e un volume costituito “più da vuoti che da pieni”: di per sé una gabbia “antiestetica”, “fortunatamente” nascosta sotto un denso e variato apparato ornamentale49. Secondo Boccioni un “errore bestiale” e, secondo il Manifesto di Sant’Elia, causa dell’“aspetto grottesco” di molte “costruzioni alla moda”50. E tuttavia anche queste critiche erano un segno di come le ossature in cemento armato fossero ormai entrate nell’orizzonte edilizio: non tutte tenute nascoste o occultate dalla decorazione. Nelle case popolari, ad esempio, dove costituivano un valore aggiunto della costruzione
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e dove si erano sperimentati brevetti e sistemi alla ricerca delle soluzioni migliori; nei grandi “dock” costruiti alla Ghisolfa; nei serbatoi dell’acqua potabile; negli hangar e negli stabilimenti cinematografici di Luca Comerio; nella sede della Kodak; nella tipografia del Corriere della Sera; nel garage Fiat: edifici progettati e realizzati da ingegneri e architetti politecnici, di diversa qualità architettonica, ma di non trascurabile rilievo51. La loro modernità non risiedeva tanto nel linguaggio, quanto nella capacità di aderire ai programmi e alla logica dei bisogni e nell’inclinazione a confrontarsi con una dimensione produttiva, pratica e ‘prestazionale’ dell’architettura. Aspetti di per sé non necessariamente positivi e neppure esenti da limiti culturali e metodologici, ma presenti nella Milano di inizio secolo nei settori portanti dell’industria e delle infrastrutture, delle costruzioni e delle macchine, delle attrezzature urbane e dell’energia che costituivano una sorta di struttura profonda della città, determinante per i processi di trasformazione e, anche, per le elaborazioni artistiche delle avanguardie.
Note * Il testo sviluppa temi già affrontati da chi scrive per la mostra e il catalogo Antonio Sant’Elia (1888-1916) il futuro delle città, a cura di A. Coppa, M. Mimmo, V. Minosi, Triennale di Milano, 25 novembre 2016 - 8 gennaio 2017, Milano, Skira 2016. 1 Citazioni da: Il Comitato Generale, Il programma ufficiale dell’Esposizione, Milano 1906, p. 2. Tra le principali pubblicazioni dell’epoca vedi Milano e l’Esposizione Internazionale del Sempione 1906. Cronaca illustrata dell’Esposizione, a cura di E.A.Marescotti e Ed. Ximenes, Milano, Fratelli Treves, 1906; L’Esposizione illustrata di Milano del 1906. Giornale Ufficiale del Comitato Esecutivo, Milano, Sonzogno, 1906; L’Esposizione di Milano 1906, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1906. 2 Dati da: A. G. Bianchi, “Dalle vecchie Esposizioni alla nuova”, La lettura, 6, 1906, n.5, p. 394. 3 Per ogni riferimento specifico a Sant’Elia rimando a: L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia. L’opera completa, Milano, Modadori, 1987; L. Caramel, A. Longatti, M.L. Casati, Antonio Sant’Elia. La Collezione Civica di Como, Cinisello Balsamo, Silvana, 2013. 4 U. Ojetti, “Verso l’avvenire”, Corriere della Sera, 29 aprile1906, riportato in “Un articolo di Ugo Ojetti”, in Milano e l’Esposizione Internazionale…, cit., p. 214. 5 Ibid. 6 La bibliografia è amplissima: vedi i numerosi articoli sui lavori del tunnel nelle pubblicazioni della nota 2 e il contributo recente (in tedesco, francese e italiano) di S. Haas, Th.Köppel, Simplon. 100 Jahre Simplontunnel, Zürich, AS Verlag, 2006. 7 Citazioni da Esposizione di Milano 1906…, cit., p. 4. 8 Vedi R. Tessari, Il mito della macchina, Milano, Mursia, 1973; E. Raimondi, Le poetiche della modernità in Italia, Milano, Garzanti, 1990. 9 M. Morasso, La nuova arma (la macchina), Torino, Fratelli Bocca, 1905, ried. M. Morasso, La nuova arma (la macchina), a cura di C. Ossola, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1994. Su Morasso vedi A. T. Ossani, Mario Morasso, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1983; Dizionario del Futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze, Vallecchi-Mart, 2001, pp. 756-758 e M.Morasso, Scritti modernisti e imperialisti, a cura di P. Pieri, [Ravenna], Allori, 2007. 10 Vedi “La ferrovia dell’Esposizione”, L’Esposizione illustrata…, cit. p. 72. Per gli aspetti tecnici: “Esposizione di Milano 1906. Il viadotto dalla Piazza d’Armi al Parco”, Il Monitore Tecnico, 11, 1905, n. 5, pp. 82-83; “La ferrovia elettrica dell’Esposizione”, L’Industria, 20, 1906, n. 16, pp. 252-256. 11 L. Candiani, C. Castiglioni, Disanima e proposte dei provvedimenti per la sistemazione del servizio ferroviario di Milano, Milano, 1903; Id., “Richiamo alla questione ferroviaria milanese”, Atti del Collegio degli Ingegneri e Architetti in Milano, 38, 1905, n. 1, pp. 35-84.
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U. Boccioni, Architettura futurista. Manifesto, 1914, ora in E. Godoli, Il futurismo, Bari, Laterza, 1983, p. 187. Anche di grattacieli si era discusso a Milano e una vasta eco ebbe il progetto del 1910 dell’ingegnere Achille Manfredini per un edificio di 14 piani, bocciato dalla Commissione igienico-edilizia: vedi “In difesa dei gratta nuvole”, Corriere della Sera, 6 novembre 1910. Sul tema più generale del grattacielo a Milano, vedi Grattanuvole un secolo di grattacieli a Milano, a cura di A. Coppa, L.Tenconi, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2015. 13 Torino 1902. Le arti decorative internazionali del nuovo secolo, a cura di R. Bossaglia, E. Godoli, M. Rosci, Milano, Fabbri, 1994. 14 U. Monneret, “Esposizione di Milano 1906. Il padiglione austriaco”, Il Monitore Tecnico, 13, 10 febbraio 1907, n. 4, pp. 70-71. 15 Vedi “Esposizione Internazionale del 1906 in Milano. L’ingresso alla Mostra del Sempione e la Mostra Retrospettiva dei Trasporti”, L’Edilizia Moderna, 15, 1906, n. 6, pp. 34-35; “Il Padiglione di Sampierdarena”, L’Esposizione illustrata di Milano, cit., p. 162; “Il Padiglione della città di Sampierdarena. Architetto Gino Coppedè”, L’Edilizia Moderna, 16, 1907, n. 4, pp. 28-29. 16 “Il Padiglione di Sampierdarena”, cit., p. 162. 17 Vedi “Il Padiglione della città di Milano”, in Milano e l’Esposizione Internazionale del Sempione 1906, cit., pp. 306, 395-397; “Il Padiglione della città di Milano”, L’Esposizione di Milano 1906, cit. pp. 43-46. 18 Citazioni ivi, p. 45. 19 Vedi legge n.103 del 29 marzo 1903: “Sulla municipalizzazione dei pubblici servizi. (Racc. Uff. n. 103)”, Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, 3 aprile 1903, n. 78, pp. 1381-1387. Tra i numerosi contributi vedi O. Gaspari, L’Italia dei municipi. Il movimento comunale in età liberale (1879-1906), Roma, Donzelli, 1998. 20 Cit. in G. Palliggiano, “L’evoluzione legislativa della gestione dei servizi pubblici locali dalla legge Giolitti al Testo unico degli enti locali”, in La riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, Atti del Convegno, Vallo della Lucania, 26 giugno 2009, http://www.eticapa.it/eticapa/wp-content/uploads/2014/09/LA-RIFORMA-DEI-SERVIZI-PUBBLICI-LOCALI-DI-RILEVANZA-ECONOMICA.pdf, ultimo accesso 27 marzo 2017. 21 In questo quadro Sant’Elia si muoveva anche in riferimento alla collaborazione con l’Ufficio Tecnico del Comune di Milano. Per le attività municipali a inizio secolo, vedi F. Nasi, 1899-1926. Da Mussi a Mangiagalli. Storia dell’Amministrazione Comunale, Milano, Ufficio stampa del Comune di Milano, 1969; L. Tinelli, “L’attività del Comune di Milano dal 1901 al 1909”, in Storia amministrativa delle province lombarde, a cura di G. Miglio, Milano, Giuffré, 1970, pp. 123-186. 22 Rimando agli studi sulla localizzazione delle industrie milanesi al 1914 di A. Negri e O. Selvafolta, per la mostra Boccioni a Milano, a cura di G. Ballo, Milano, Palazzo Reale, dicembre 1982 - marzo 1983, nel catalogo omonimo, Milano, Mazzotta, 1982, vedi pp.77-80, 81-86, 186-192. 23 A. Biagi, “Una città industriale. Le Officine Meccaniche di Milano”, La Lettura, 6, 1906, n. 12, supplemento, p. 2. 24 Vedi C. Corradini, Marius. Mario Stroppa 1880-1964, Cremona, Claudio Madoglio, 2001; E. Bondioni, L. Roncai, Mario Stroppa grafico scenografo pittore architetto urbanista, Cremona, Tip. Trezzi, 2014. Rimando a miei precedenti contributi e soprattutto, in ordine di tempo, a “L’immagine del paesaggio tecnologico nella Lombardia del primo Novecento”, in Lombardia, il territorio, l’ambiente, il paesaggio, a cura di C. Pirovano, Milano 1984, vol. V, pp. 69-128, 285-291. 25 F.T. Marinetti, La grande Milano tradizionale e futurista, Milano, Mondadori, 1969, p. 10. Il testo è stato scritto a Venezia tra l’ottobre 1943 e l’agosto 1944, ma è basato su appunti e osservazioni di inizio secolo. 26 P. Nurra, “Un nuovo grande quartiere a Milano nella zona compresa tra Milano e Sesto San Giovanni”, Le case popolari e le città giardino, 1, 1909-1910, n. 6, p. 163. Vedi anche L.V. Bertarelli, “Città che nasce”, Rivista mensile del Touring Club Italiano,14, 1908, n. 8, pp. 345-351. L’insediamento è stato in parte realizzato lungo l’odierno asse viale Zara — viale Fulvio Testi. Per l’industrializzazione dell’area nord Milano e in particolare di Sesto San Giovanni, con riferimenti al Quartiere Nord, vedi V. Varini, L’opera condivisa. La città delle fabbriche. Sesto San Giovanni 1903-1952. L’industria, Milano, F. Angeli, 2006. 27 Bertarelli, op. cit., p. 348. 28 Ivi, p. 350. 29 Nurra, op. cit., p. 163. 30 Morasso, La nuova arma, cit., pp. 8, 10. 31 E. Belloni, “Il Corso d’Italia a Milano”, Le case popolari e la città giardino, 1, 1909-1910, n. 4, pp. 110-118. 32 Ivi, p. 115. 33 Ibid. 34 Determinante fu il ruolo del Politecnico di Milano e in particolare di Giuseppe Colombo: vedi A. P. Morando, “L’elettricità a Milano. L’istituzione elettrotecnica italiana Carlo Erba”, in Milano scientifica 1875-1924, a cura di E. Canadelli e P. Zocchi, vol.I, La rete del grande Politecnico, Milano, Sironi, 2002, pp. 75-92. 35 Per la produzione di elettricità da parte del Comune di Milano e gli sviluppi della successiva AEM (Azienda Elettrica Municipale, dal 1910), vedi C. Pavese, Un fiume di luce. Cento anni di storia dell’AEM, Milano, Rizzoli, 2011. 12
milano a inizio novecento • ornella selvafolta
Officine a Porta Romana, olio su tela 1907, Collezione d’arte di Gallerie d’Italia, Milano. Sull’artista vedi il più recente contributo Umberto Boccioni (1882-1916.) Genio e memoria, a cura di F. Rossi, catalogo della mostra, Milano, Palazzo Reale, 25 marzo-3 luglio 2016, Milano, Electa, 2016. Per Boccioni a Milano vedi A. Negri, “La Milano di Boccioni. Topografia della città che sale”, Art e Dossier, 30, gennaio 2015, n. 317, pp. 34-41. 37 Per gli aspetti territoriali e architettonici degli impianti idroelettrici di questo periodo, compresi quelli del Municipio di Milano in Valtellina, vedi O. Selvafolta, “La costruzione del paesaggio idroelettrico nelle regioni settentrionali”, in Paesaggi elettrici. Territori architetture culture, a cura di R. Pavia, Venezia, Marsilio, 1998, pp. 41-71. 38 U. Boccioni, Pittura e scultura futurista (Dinamismo plastico), 1914, ora in Umberto Boccioni. Gli scritti editi e inediti, a cura di Z. Birolli, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 84. 39 A. Sant’Elia, L’architettura futurista. Manifesto (1914), ora in Godoli, Il futurismo, cit., p. 184. 40 Nella bibliografia sulla storia del Politecnico di Milano, vedi il contributo più recente: 150 anni di cultura politecnica da Milano a Lecco. Architettura industria territorio, a cura di A.C.Buratti, O.Selvafolta, Milano, Politecnico di Milano / Il Sole 24 ore, 2013. 41 F. T. Marinetti, Le Futurisme. Textes annotés et préfacés par G. Lista. Lausanne, L’Age d’Homme, 1980, p. 135. 42 Marinetti, La grande Milano…, cit., p. 167; vedi anche “Per una società di protezione delle macchine. Manifesto futurista”, Ricostruzione futurista dell’universo, a cura di E. Crispolti, Torino, Museo Civico, 1980, pp. 170-171. 43 Vedi in questo stesso volume il saggio di E. Godoli, “La “Città nuova”, le case a gradoni e le preoccupazioni d’igiene dell’urbanistica europea tra XIX e XX secolo”. 44 C. Colombo, “La costruzione della rete dell’acqua potabile a Milano nel primo decennio del Novecento”, in Costruire in Lombardia. Rete e infrastrutture territoriali, a cura di O. Selvafolta, A. Castellano, Milano, Electa, 1984, pp. 119-146. 45 Dati e citazione da G. Baselli, “Il servizio dell’acqua potabile”, Milano, 45, 1929, maggio, pp. 276-280. Vedi inoltre F. Minorini, “Di alcuni impianti per l’acqua potabile della città di Milano”, Il Politecnico. Giornale dell’Ingegnere Architetto Civile e Industriale, 55, 1907, gennaio, febbraio, marzo, pp. 28-33, 102-104, 150-155. 46 F.T. Marinetti, Contro Firenze e Roma piaghe purulente della nostra Penisola (1910), ora in Id., Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Milano, Mondadori, 1983, p. 286. 47 G. Codara, “Nuovo bagno municipale di Milano al Ponte delle Gabelle”, L’Edilizia Moderna, 18, 1910, n.7, pp. 54-59; Id., “Nuovo bagno municipale di Milano al Ponte della Gabella”, Il Politecnico. Giornale dell’Ingegnere Architetto Civile e Industriale, 59, 1911, n. 12, pp. 353-374. 48 O. Selvafolta, “Ingegneri, cemento imprese a Milano tra Otto e Novecento”, Rassegna, 14, 1992, n. 49, pp. 26-35. 49 Vedi A. Danusso, “La logica e l’estetica delle costruzioni in calcestruzzo armato”, Il cemento, 3, 1906, n. 10, pp. 250-251 e A. de Baudot, L’Architecture et le ciment armé, Paris, Office général d’éditions artistiques, 1905; “Casa Lancia”, L’Edilizia Moderna, 15, 1906, n. 12, p. 69; “Un nuovo edificio nel centro di Milano”, Il Monitore tecnico, 13, 1907, n. 5, pp. 92-96. 50 U. Boccioni, Architettura futurista. Manifesto (1914), ora in Godoli, Il futurismo, cit., p. 187; Sant’Elia, L’architettura futurista, cit., p. 184. 51 C. Colombo, “L’introduzione del cemento armato a Milano tra Otto e Novecento”, Il modo di costruire. a cura di M. Casciato, S. Mornati, C. P. Scavizzi, Roma, Edilstampa, 1990, pp. 421-432. 36
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Max Klinger davanti a Villa Romana, Firenze, 1905 (Archivio Villa Romana, courtesy Villa Romana Florenz)
Giovanna Uzzani
La vicenda del Futurismo fiorentino ha talvolta alimentato l’idea di un genius loci con imbarazzanti tentazioni antimoderniste e insofferenze per la leadership marinettiana. È alla ricerca di una specificità del Futurismo fiorentino in relazione alla città che interessa qui condurre la ricognizione, per approfondire l’originalità degli esiti e ipotizzare il ruolo autonomo e vitale di Firenze, ovvero della sua comunità di artisti, collezionisti, intellettuali, in quella breve quanto esplosiva stagione artistica che dal debutto del secolo giunge alle soglie della guerra1. L’immagine di Firenze che affiora consultando gli album di viaggio dei viaggiatori stranieri al debutto del secolo è quella di una nuova Atene, laddove le tracce del passato, il pittoresco, il rustico, la dolcezza dei colli, hanno disegnato nel tempo il paesaggio sull’immagine delle predelle dei Primitivi trecenteschi. Ci si immagina Joseph Pennell e la moglie Elizabeth, lui illustratore di Philadelphia, lei scrittrice, agli inizi del secolo, a cavalcioni di una suggestiva bicicletta a tre ruote, fatta giungere dall’Inghilterra; eccoli percorrere vie urbane e strade bianche, preferendo i tempi lenti dell’esercizio grafico a quelli più rapidi dello scatto fotografico. Nascono così le vedute di Fiesole, di Firenze vista tra le quinte di cipressi di Vincigliata, gli scorci di Villa Palmieri, dove Boccaccio aveva ambientato il Decamerone, le immagini pittoresche del centro storico2. Nel frattempo il romanzo del grand tour si aggiorna: così Vernon Lee, vestale del Genius loci3, esalta l’ebbrezza del viaggio in motorcar, quando la pienezza della realtà si manifesta con tale forza da “impedire la noia e garantire la frenesia”, lasciando emergere la “pura essenza del luogo”4. All’affacciarsi del secolo Firenze conferma il proprio ruolo di magnete irresistibile. Lo scrittore inglese Edward Forster, nel celebre A room with a view, del 1908, racconta di un’idea della città come diffusa nell’immaginario collettivo anglosassone, e narra di “viaggiatori sentimentali”. Difatti scrittori, artisti, musicisti, collezionisti scelgono la città come meta elettiva e aprono i loro cenacoli cosmopoliti: si affacciano in questo contesto gli istituti di cultura stranieri, che tanta parte avrebbero avuto a Firenze nel corso del secolo. È la colonia degli anglo-fiorentini a confermarsi la più folta di presenze: non stupisce che il giovane scenografo inglese Gordon Craig giunga a Firenze a disegnare le scene di Rosmersholm di Ibsen,
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per il Teatro della Pergola, nel dicembre del 1906. Fra i pochi a comprendere la potenza emotiva che emana la scena è Enrico Corradini, il quale ne scrive: “Il palcoscenico appariva trasformato, veramente trasfigurato[…]. La scena è la rappresentazione di uno stato d’animo”5. Trasferitosi a Firenze nel 1907, Craig lavora su una proposta rivoluzionaria di scenografia, fondata sull’invenzione degli screens, le “mille scene in una”, con un continuo slittamento di luci, immagini astratte, stati d’animo, evocazioni. Alternando i soggiorni fiorentini con gli impegni al Teatro d’Arte di Mosca, nel 1908 Craig fonda a Firenze la rivista The Mask, dedicata al teatro; matura intanto l’idea di fondare a Firenze una scuola. E così nel 1913 veniva inaugurata la Gordon Craig School for the Art of the Theatre, nell’Arena Goldoni, in via dei Serragli, dotata di un proprio atelier de menuiserie, di una tipografia, di uno studio fotografico: esperienza unica, nella quale si intrecciano i rapporti tra teatranti e artigiani fiorentini, apprezzati da Craig quali eccellenti depositari del magistero rinascimentale. L’avventura fiorentina di Craig venne troncata dalla guerra. Ma mentre si chiude la parentesi dell’Arena Goldoni, nel 1917 nasce un nuovo importante istituto inglese, il British Institute of Florence, primo degli istituti britannici a operare fuori dal Regno Unito, vivo tramite tra l’ambiente culturale cittadino e la società dell’arte, della poesia e degli studi6. Parallelamente si afferma la presenza tedesca: nel 1905 il simbolista tedesco Max Klinger acquista Villa Romana, villino neoclassico tra Porta Romana e San Gaggio, con un ettaro di terra, il frutteto, cipressi boeckliniani e alti corridoi di alloro, con il proposito di creare una versione tedesca del modello francese di Villa Medici, e offrire a giovani artisti di cultura germanica una sede per studiare a Firenze. Nello stesso anno, Klinger fonda il Premio Villa Romana, il più antico premio tedesco conferito ad artisti, finalizzato a realizzare in città un centro di produzione artistica indipendente. Sin dalla prima edizione del Premio, i vincitori figurano tra le punte europee: così vi giungono l’austriaco Gustav Klimt e il belga Van de Velde, cui fanno seguito gli espressionisti Max Beckmann, Ernst Barlach, Käthe Kollwitz, Max Pechstein. Queste presenze avrebbero presto attratto artisti come Celestino Celestini, allora docente di incisione all’Accademia di Belle Arti di Firenze, o come il giovanissimo Ottone Rosai, in cerca di un espressionismo originale e toscano. Firenze esercita non meno il suo fascino sulla Francia: il 27 aprile del 1908 Julien Luchaire inaugura l’Istituto Francese, filiale dell’Università di Grenoble, bureau di studi e ricerche, ispirato al modello del Gabinetto Vieusseux. La sezione musicale dell’Istituto è diretta da Romain Rolland, collaboratore de La Voce e sostenitore dei firmatari del manifesto Per un nuovo Risorgimento: quel gruppo di giovani, tra i quali Giannotto Bastianel-
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li e Ildebrando Pizzetti, essi pure vociani, intende creare a Firenze una scuola nazionale7. E ci piace ricordare che Dissonanza, la rivista di Bastianelli e Pizzetti, sarebbe uscita nel 1914, proprio nella collana Libreria de La Voce, dichiarando l’intenzione di favorire le manifestazioni più ardite del nuovo linguaggio musicale. Frattanto, nel 1908, dopo la nascita della sede londinese e delle filiali di Berlino e Parigi, si apre a Firenze, nella sede di Palazzo Giugni,il Lyceum Club per artiste e scrittrici, fondato da Constance Smedley e affidato alla presidenza di Beatrice Pandolfini Corsini. Qui si inaugura, il 25 aprile 1910, la memorabile Prima Mostra italiana dell’Impressionismo, voluta da Ardengo Soffici per conto de La Voce: banco di prova per la maturazione delle imminenti ricerche avanguardiste. Fra i protagonisti del sentimental journey che giungono nel primo decennio del Novecento a Firenze troviamo lo storico dell’arte americano Bernard Berenson, che acquista Villa I Tatti dove abita dal 1900 con la moglie Mary, restaura la casa e il giardino, con l’aiuto dell’ architetto Cecil Pinsent e di Geoffrey Scott8, passeggia con in tasca il libro Genius Loci di Vernon Lee, che fa del paesaggio di Vincigliata un luogo letterario ed estetico per eccentrici viaggiatori inglesi e americani. Nella collezione Berenson figura a quella data un paesaggio di Matisse del 1901, acquistato dall’artista nel 1909 e poi esposto nel 1910 al Lyceum a Firenze nella mostra dell’Impressionismo curata da Soffici. Amatissima da Berenson, è la vicina Villa Gamberaia, presso Settignano, col suo affascinante giardino all’italiana9, proprietà della principessa rumena Giovanna Ghyka, che qui intrattiene il proprio raffinato cenobio. Con lei convive la pittrice americana Miss Florence Blood10, che copia i Cézanne della collezione fiorentina di Egisto Fabbri e che è amica stretta di Gertrude e Leo Stein, i collezionisti di Cézanne, Picasso, Matisse che vivono a Parigi e frequentemente sostano in villeggiatura a Fiesole. Pure Egisto Fabbri, rampollo di un ricchissimo imprenditore marittimo americano, con i suoi venticinque Cézanne di collezione, abita poco distante a villa Bagazzano. Fra gli Anglo-americans in Firenze, alla Gattaia, nei pressi di Piazzale Michelangelo, ecco Charles Alexander Loeser, compagno di studi di Berenson, egli pure collezionista di un ricco florilegio di Cézanne, ben noto agli artisti toscani ai quali viene concessa la possibilità di studiarlo. Accanto a queste si aggiunge la collezione cézanniana di Gustavo Sforni, sodale dei vociani, amico e collezionista di Oscar Ghiglia, che durante il soggiorno parigino del 1911 acquisice vari importanti Cézanne come il Ritratto di Monsieur Choquet e Ragazzo col gilet rosso11. Ecco il felice accoppiamento di antico e moderno: i Cézanne vivono in ambienti austeri, masacceschi, fra mobili in noce del Cinquecento. E se a Parigi il magistero di Cézanne entra in corto circuito con il primitivismo dell’arte negra, poi col Cubismo; se lo stesso Cézanne viene apprezzato a Londra nella mostra di Roger Fry The Post Impressionism, nel 1911, come
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fondamento imprescindibile, l’interesse per il maestro di Aix si alimenta a Firenze attraverso le preziose collezioni fiorentine e le presenze degli artisti stranieri che abbiamo ricordato. A pieno titolo entra in indice Ardengo Soffici, che già da tempo aveva avviato una lettura di Cézanne quale campione di modernità. Ebbene: massima parte di quanto in Italia si conobbe e capì in merito all’avanguardia e alla cosiddetta “pittura pura” si deve ai testi di Soffici, pittore e scrittore toscano, che a Parigi aveva vissuto il suo “salto vitale” dal 1900 al 190712. È grazie alla sua carismatica personalità e ai suoi contributi incisivi e dirompenti su La Voce e Lacerba, che Firenze esercitò la funzione di magnete nell’età delle avanguardie. È utile richiamare la stagione sofficiana a Parigi e le frequentazioni del giovanotto con i coetanei Picasso, Jacob, Apollinaire. Nel Salon d’Automne del 1907 Soffici espone sette tele dedicate alla Toscana rurale: paesaggi e figure di contadini affini al Picasso contemporaneo, il quale, reduce dal soggiorno nello sperduto villaggio catalano di Gósol, aveva tratto dipinti ispirati al mondo contadino. È lo stesso autunno 1907 in cui Parigi celebra Cézanne. Lo stesso 1907 delle Demoiselles d’Avignon, che il nostro Soffici è tra i pochissimi a vedere nello studio di Picasso. Natale del 1907: Soffici torna a Poggio a Caiano e avvia una lettura di Cézanne ideale continuatore del sacro spirito di Giotto, Masaccio, Paolo Uccello13. Tra i ricordi parigini tradotti al Poggio spiccano alcuni disegni di Gósol, dono prezioso dell’amico Picasso: dunque a quella data la Toscana di Soffici, come la Provenza di Cézanne o la Gósol di Picasso. Nella Firenze di questi anni, si sviluppa frattanto l’attività della casa editrice di Attilio Vallecchi, che si apre a giovani artisti, scrittori, intellettuali. Nel margine di pochi anni la casa editrice dà alla luce ben tre testate di successo — Leonardo, La Voce, Lacerba —, oltre alla collana di volumi intitolata Libreria della Voce. In particolare, è nel dicembre 1908 che si avvia il corso de La Voce, palestra letteraria ma prima di tutto rivista di idee. È Soffici a disegnarne la testata e a divenirne uno dei più assidui collaboratori. I suoi contributi si susseguono, incisivi e dirompenti: dopo il testo dedicato a Paul Cézanne ecco L’impressionismo e la pittura italiana, quattro articoli pubblicati nella primavera 1909, al tempo del primo manifesto marinettiano; quindi il saggio su Medardo Rosso, poi su Henry Rousseau il Doganiere14. E non vi è dubbio che questi scritti smaglianti, il piglio satirico, la generosità mentale di cui quelle pagine sono colme, rappresentino una ventata di promesse. È dunque Soffici, con la propria lettura di Cézanne, a superare le inclinazioni simboliste, consentendo il rinnovamento della cultura toscana e facendo sì che questa non rimanga lingua morta nel contesto europeo.
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Per questo Soffici sprezzante attacca il Marinetti del Manifesto Futurista — La Voce, aprile 1909. In effetti Soffici aveva scoperto i divisionisti sino dalla mostra fiorentina Festa dell’arte e dei Fiori, nell’ormai lontano 1896. Non può dunque apprezzare come innovativi, nel 1909, artisti che continuano quella maniera, pur altissima15. La via di Soffici è già saldamente intrapresa, entro un sistema di cui Cézanne è il rude e severo iniziatore. La risposta è appunto, nel 1910, la citata Prima Mostra italiana dell’Impressionismo, curata da Soffici per La Voce, disattesa peraltro dai milanesi. Si arriva al 1911. Nella primavera Soffici torna a Parigi, aggiorna le sue conoscenze sulla più recente produzione cubista disponibile presso la galleria Kahnweiler. Osserva in Picasso e Braque la diffrazione della forma, l’esplorazione della continuità spaziale attraverso la moltiplicazione delle fonti luminose, l’uso arbitrario del chiaroscuro. Nella stessa primavera 1911, Soffici conclude il dipinto I mendicanti, a cui avrebbero fatto seguito Le bagnanti e altri lavori. Contorni segnati potentemente in nero, ricerca spietata di puri valori formali, assenza del colore, prospettiva appiattita in unico piano orizzontale. Il cartone sarebbe presto entrato nella collezione Carrà, che lo teneva appeso nel suo studio in un posto d’onore. L’opera si propone come originale lettura dell’arcaismo picassiano, un poco Demoiselles d’Avignon, un poco sinopia per affresco trecentesco16. È del 22 giugno 1911 su La Voce, la celebre stroncatura di Soffici — “Arte libera e pittura futurista” —, che determina l’incursione milanese in città, la rissa alle Giubbe Rosse, quindi la formale riconciliazione. Ed è del 24 agosto 1911, sempre su La Voce il contributo sofficiano “Braque e Picasso”, pubblicato da Prezzolini senza fotografie, con perplessità17. Qui Soffici apprezza il ricorso picassiano “alle arti primitive e barbare, le quali traggono tutta la loro potenza dall’osservazione di ciò che Berenson, chiamerebbe valori tattili”. Appaiono in questo testo alcune fra le parole più lucide tra quante sin qui scritte: “i piani, le masse, i contorni delle cose possono essere considerati come elementi pittorici, trasformabili, spostabili, deformabili, in vista di un’armonia puramente artistica, dove il vero riviva liberato da ogni logica e solo quale geroglifico che serve a scrivere una realtà lirica”. È in gioco il concetto stesso di autonomia dell’opera, intesa come sistema di segni convenzionali, linguaggio puro, e in tal senso reale. Boccioni frattanto, egli pure reduce da Parigi, supera le ascendenze divisioniste, accogliendo spunti cubisti ed espressionisti. Matura nel frattempo la consapevolezza critica di Soffici, allenata nell’incandescente biennio di Lacerba — dal gennaio del 1913 al maggio del 1915 — il quindicinale stampato in caratteri rosso mattone e poi neri, che prende il nome dal poemetto trecentesco di Cecco d’Ascoli, e sposa la causa futurista. La nuova rivista è in primo luogo una creatura di Soffici, il foglio a cui egli affida la sua poetica già matura. È qui che compaiono i contributi critici sofficiani
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sugli esiti cubisti e futuristi, gli aforismi e le spigolature, le esilaranti metafore in forma di apologo, il vagabondare svagato, facendo opinione, nella rubrica Chicchi del grappolo18. Frattanto a Roma, il 21 febbraio 1913, parallelamente alla serata futurista del Teatro Costanzi. al Ridotto esce la mostra presentata da Soffici. Qui sono esposti quadri di Balla, Boccioni, Carrà, Russolo, Severini, Soffici. Appena tre giorni prima dell’inaugurazione, Boccioni aveva inviato a Soffici un caloroso invito a partecipare all’iniziativa, fiorentini e milanesi assieme, lasciando alle spalle rancori e incomprensioni19. Da questo momento Lacerba esprime l’avventura futurista, e dopo la Grande serata futurista del 12 dicembre 1913, dedica un intero numero all’evento, riportando il resoconto pittoresco della zuffa scatenatasi fra platea, palchi e scena20. Parallelamente avviene — nel novembre1913 — la I Esposizione di Pittura Futurista nella Saletta Gonnelli, in Via Cavour al 48. Fondata quarant’anni prima dai Gonnelli, la libreria antiquaria riserva una Saletta alle ricerche artistiche contemporanee. Qui Ferrante Gonnelli inaugura la citata mostra di pittura futurista, con opere di Soffici e dei milanesi. La mostra conosce un successo straordinario: ogni giorno “la bottega si affollava di una calca di curiosi di ogni tipo, cultura e ceto”21. Frattanto la Saletta si anima con le serate futuriste, cui partecipano i musicisti Silvio Mix e Felice Boghen, in improvvisazioni musicali, rimaste alla storia22. E mentre dilaga la voga delle serate musicali futuriste, anche le abitazioni di quei giovani divengono teatri di eventi. È Primo Conti a raccontare delle serate a casa di Giannotto Bastianelli, fondatore con Pizzetti della rivista musicale di spirito futurista Dissonanze: “Ricordo una stanza con alte pareti, con appesi quadri di Soffici e Magnelli. Bastianelli alternava le sue musiche scalpitanti ai brani più inconsueti di Frescobaldi e Beethoven, suonando a due pianoforti con Matteo Marangoni, sovrintendente ai musei fiorentini e pianista di eccezionale valore”23. In queste circostanze avviene l’esordio di Ottone Rosai futurista: è del 1913 Dinamismo del Bar San Marco, che evoca il bar di via Cavour, dove si raccolgono artisti e scrittori lacerbiani. La frammentazione delle forme esprime l’ammirazione del giovane per lo stile del maestro Soffici, pur con tavolozza più brillante e più chiara. Dello stesso anno è Scomposizione di una strada: iconografia urbana, nella quale il tema del movimento è risolto attraverso la compenetrazione e scomposizione dei volumi, che rendono l’opera rosaiana uno dei tentativi più radicali di applicazione della poetica futurista alla toscanità. Nascono nel catalogo di Soffici nature morte ad olio e collage, ammiccanti nelle iconografie ai modi francesi di Picasso e Braque, ma interpretati con iconografie vernacolari toscane. L’appellativo di trofeino, nei titoli, si riferisce infatti alla parola usata nel dialetto toscano per indicare le insegne dei negozi, dipinte, secondo Soffici, in modi squisitamen-
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te nostrali per forma e contenuto. Tavoli e fruttiere diventano aereo supporto di tazze e bottiglie, appoggiati secondo una logica puramente compositiva. Così pure una fetta di cocomero, una tazza, un semplice bicchiere, escono dalla quotidianità e si riscattano, isolati sul piano, in astratta purezza. È del marzo-aprile 1914 l’importante Esposizione di scultura futurista di Boccioni, presso la Galleria Gonnelli, della quale Lacerba pubblica il testo introduttivo firmato da Boccioni. La mostra lascia un seguito nella biografia del giovanissimo Primo Conti che aiuta ad allestire la mostra e che poi accompagna Boccioni all’Accademia a prendere appunti dai Prigioni di Michelangelo24. A distanza di pochi mesi, nell’ agosto del 1914, Lacerba pubblica il manifesto L’architettura futurista firmato da Antonio Sant’Elia il quale, grazie ai contatti con Boccioni e con i milanesi, viene invitato dalla rivista. Risale a questo tempo l’intenzione lacerbiana di raccogliere il corpus dei manifesti futuristi, tanto che, nel corso del 1914, esce la prima raccolta dei Manifesti del Futurismo. Frattanto, nella rivista fiorentina, entrano nelle pagine le parolibere di Soffici e Rosai, affiancate da racconti brevi anche in vernacolo, in polemica con la letteratura dei benpensanti. Parallelamente, fra 1914 e 1915, nasce una produzione sofficiana di collage e papier collé che spiccano à plat con lirico risalto. Il colore pare spesso, ruvido, la materia ridondante. Sono collage nei quali ricorrono i rimandi alla rivista fiorentina, come si vede nella Composizione del 1913, nella quale Soffici inserisce l’esplicito richiamo a Lacerba. Corrisponde da Parigi il toscano Gino Severini, con il collage oggi conservato presso il Museo di Saint Etienne, che sceglie un numero speciale di Lacerba, quello del 1 novembre 1913. SimilmentePicasso, dipinge due garbati omaggi a Lacerba e all’amico fiorentino. Nell’arena di Lacerba si assiste così alla nascita di una vera e propria critica futurista, di cui lo stesso Soffici diviene alfiere, come si vede nella rubrica Giornale di bordo, pubblicata regolarmente su Lacerba dal 1913, quindi raccolta e edita nella collana Libreria della Voce, nel 1915. È la futurista scrittura della simultaneità. Ossia simultaneità tra impressione ed espressione, prosa immaginosa, tarsie linguistiche, analogie visive, icasticità del frammento. Nella pittura così come nella pagina, irrompe una ricerca volta alla trasgressione. I riconoscimenti manifestati a Soffici e le conferme della rilevanza della sua pagina critica non mancano. Renato Serra nello stesso 1914 annota: “Soffici non è né un’opera, né un genere: è un dono”, capace di “posare le parole come il pittore i colori”25. E laddove Giuseppe Ungaretti, nelle pagine in lingua francese Doctrine de Lacerba, addita in Soffici e in Lacerba i poli del ciclo futurista, un Eugenio Montale ventiduenne, nel suo Quaderno genovese, annota nel 1917: “Il mio Soffici è davvero uno dei pochi — forse l’unico — che sappia oggi parlare d’arte con pulizia e leggerezza di tocco; e con coscienza”26.
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È appartenuta a Giuseppe De Robertis, neo-direttore de La Voce dal 1914, una tra le più note carte incollate di Soffici, quella Composizione con Almanacco purgativo nella quale i caratteri tipografici rimandano a quel sapido calendario di “novelle, poesie, aneddoti veri e falsi, sfottiture […], necrologi di uomini viventi e altre buffonate intelligenti”27, che Lacerba pubblica in occasione della I Esposizione di pittura futurista di Lacerba, del 1913. Così Soffici nel 1915, nei suoi Chimismi lirici, traduce sulla pagina la suggestione delle pubblicità affisse sui tranvai fiorentini e spezza il verso con eccentrici richiami al rimedio Antagra Bisleri o all’acqua minerale Nocera Umbra28; e analogamente con la tempera e collage su cartone intitolata Caffè Apollo. È infatti Apollo il nome di un noto caffè chantant fiorentino, oltre che il titolo dell’omonima poesia pubblicata da Soffici su La Voce il 30 dicembre del 1914, poi inserita in Chimismi lirici. Si tratta di un collage con una donna burattino, appoggiata su volantini, frammenti de La Voce, brani di una locandina del Don Pasquale di Donizetti, stralci di un quotidiano francese, che incalzano in uno “strimpellare di immagini”, citando il testo della poesia omonima: insomma il teatrino della vita, tra campagnolo e metropolitano29. Così Soffici a Carrà, 6 giugno 1913: “Hai riflettuto che l’affiche è il fresco dei nostri giorni e che la nuova estetica deve tener conto delle trovate per esempio di Cappiello?”. Soffici istituisce così un paragone tra la pittura murale del Tre e Quattrocento, con i suoi fini didascalici, e la moderna pubblicità, cogliendo l’eco del canto di Apollinaire30. Come già intesi da Picasso e dai francesi, i papier collé decretano l’autonomia della parola, governano in senso espressivo il contrasto tra i registri della comunicazione e lasciano che la poesia si ritrovi nella suggestiva confusione prodotta dalla giustapposizione e frammentazione dei messaggi, dalla cronaca alla pubblicità, in una sorta di “music hall visivo”31. Nella crescente esasperazione della scena politica, alle soglie della guerra, le posizioni si radicalizzano, e fiorentini e milanesi si discostano. Si infittiscono i richiami drammatici al corso degli eventi, su Lacerba come nelle carte incollate. Presto, la partenza al fronte, per Soffici, per Sant’Elia, come per una intera generazione. Nei suoi ricordi di gioventù, in chiusa, Soffici fa coincidere l’entrata in guerra con “la fine di un mondo”, fatto di libertà di pensiero e di ricerca, quando “l’arte e la poesia non trovavano altro freno se non in se stesse; cioè nelle necessità di carattere estetico inerenti alla forma, allo stile, alla perfetta rispondenza dell’opera col sentimento”32. Ed è certo questo il tratto che accomuna gli interpreti, questo il tratto che accomuna pure la ricerca del giovane architetto Sant’Elia.
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Note 1 Vedi E. Crispolti, “Il Futurismo toscano e il Futurismo in Toscana. Considerazioni preliminari”, e M. Pratesi, “Approfondimenti sul futurismo in Toscana”, in Il Futurismo attraverso la Toscana, catalogo della mostra, a cura di E. Crispolti, Livorno, Villa Mimbelli, gennaio-aprile 2000, Cinisello Balsamo, Silvana, 2000. 2 Da tali escursioni prende forma il corpus di vedute eseguite da Pennell nelle primavere del 1901 e 1902, per il libro di Maurice Hewlett, The road in Tuscany, Londra, nell’edizione inglese Macmillan. Le vedute vennero donate agli Uffizi dallo stesso autore subito dopo la pubblicazione. 3 V. Lee, Genius loci, Leipzig, B.Tauchnitz, 1906, scritto a Maiano, Firenze, nel novembre 1898, e dedicato “To the cypressus of Vincigliata and the oakwoods of Abbey Leix”. 4 V. Lee, The golden keys and other essays on the Genius loci, London, John Lane, 1925. Ho consultato il libro della Lee alla biblioteca I Tatti, in un esemplare che riporta la dedica in inchiostro a mano libera “To the hospitable Berensons from Vernon Lee”. 5 G. Craig, Il mio teatro, a cura di F. Marotti, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 49 e sgg. 6 Ospitato inizialmente nei locali della Loggia Rucellai in Via della Vigna Nuova, poi in Via de’ Conti, nel 1923 l’istituto si trasferì in Palazzo Antinori, in Via Tornabuoni, dove rimase per vari decenni. 7 F. Nicolodi, “Scambi tra la cultura musicale francese e italiana a Firenze nel primo Novecento”, in La cultura francese in Italia all’inizio del XX secolo. L’Istituto francese di Firenze, atti del convegno per il centenario 19072007 (Firenze, Istituto Francese, 2007), a cura di M. Bossi, M. Lombardi, R. Müller, Firenze, Olschki, 2010, p. 123. Vedi inoltre la corrispondenza di Luchaire con Papini e Prezzolini, nell’Archivio Papini, Fondazione Primo Conti. 8 È ai Tatti che Berenson, dal 1901 al 1916, lavora alla raccolta The Study and Criticism of Italian Art, e agli studi dedicati alla pittura senese e al Sassetta, destinati al Burlington Magazine. 9 E. Wharton, Italian Villas and their Gardens, with pictures by Maxfield Parrish, London, John Lane, 1904. Il volume è dedicato a Vernon Lee. 10 Florence Blood, nota nei salotti intellettuali tra Parigi e Firenze, amica di Gertrude Stein, frequentò Egisto Fabbri e l’eccentrica principessa Ghyka, alla Gamberaia; Berenson la considerava una pittrice mediocre, ma capace di copiare i Cézanne di Fabbri “tanto bene che ne rimasi meravigliato”, in B. Berenson, Tramonto e crepuscolo. Ultimi diari 1947-58, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 55. 11 Vedi a riguardo G. Uzzani, “Pittura francese nelle collezioni italiane”, in I francesi e l’Italia, a cura di C. Bertelli, Milano, Scheiwiller, 1994, pp. 175-184; inoltre Cézanne a Firenze, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi 2007), a cura di F. Bardazzi, Milano, Mondadori Electa, 2007. 12 Vedi G. Uzzani, “Genesi di una critica d’avanguardia. Longhi prosatore plastico e futuristi. Elzeviri”, in Schegge futuriste. Studi e ricerche, a cura di M. Cozzi e A. Sanna, Firenze, Olschki, 2012, pp. 33-48. 13 A. Soffici, Fine di un mondo. Autobiografia d’artista italiano nel quadro del suo tempo, Firenze, Vallecchi, 1952, pp. 415-18; inoltre M. Pratesi, G. Uzzani, Arte italiana del Novecento. La Toscana, Venezia, Marsilio, 1991, p. 103. 14 I contributi sofficiani si susseguono: nel giugno 1908, Vita d’Arte pubblica il testo “Paul Cézanne”, illustrato da fotografie, scelte da Denis nell’archivio del mercante parigino Druet. Escono poi su La Voce i quattro saggi “L’impressionismo e la pittura italiana”, tra aprile e maggio 1909; quindi il saggio su Medardo Rosso, poi sul Doganiere. 15 Vedi Pratesi, Approfondimenti sul futurismo …, cit., pp. 18-25 e in particolare p. 21; appare qui il rimando a J. Golding, Storia del cubismo, Londra 1959, trad. it. Torino, Einaudi, 1982, p. 37 e a M. M. Lamberti, “18701915: i mutamenti del mercato e le ricerche degli artisti”, in Storia dell’arte italiana, Il Novecento, Torino, Einaudi, 1982, p. 135. 16 A. Soffici,“Cubismo e oltre”, Lacerba, 1, 1913, n. 2, pp. 10-11. 17 G. Prezzolini-A. Soffici, Carteggio I, 1917-18, a cura di M. Richter, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1977, pp. 185-186. 18 Vedi i contributi sofficiani su Lacerba: Soffici,“Cubismo e oltre”, cit.; Id.,“Teoria del movimento nella plastica futurista”, 1, 1913, n. 8, pp. 77-78; G. Papini, A. Soffici,“‘Lacerba’ il Futurismo e ‘Lacerba’”, 2, 1914, n. 24, p. 305, pp. 323-325; G. Palazzeschi, G. Papini, A. Soffici, “Futurismo e Marinettismo”, 3, 1914, n. 7, p. 49; A. Soffici, “Adampetonismo”, 3, 1915, n. 17, p. 126. 19 Vedi U. Boccioni, Gli scritti editi e inediti, a cura di Z. Birolli, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 367; inoltre P. Barocchi, Testimonianze e polemiche figurative in Italia. Dal Divisionismo al Novecento, Firenze — Messina, G. D’Anna, 1974, p. 336. 20 “Grande serata futurista”, Lacerba, 1, 1913, n. 24, p. 1. 21 Soffici, Fine di un mondo, cit., p. 319.
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22 Vedi M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma, Lerici, 1969. Vedi la ricca bibliografia che Daniele Lombardi ha dedicato al Futurismo musicale: tra i vari studi D. Lombardi, Il suono veloce, futurismo e futurismi in musica, Milano, LIM, 1996; inoltre Nuova Enciclopedia del Futurismo musicale, Milano, Mudima, 2009. 23 P. Conti, La gola del merlo, Firenze, Sansoni, 1983, p. 78. 24 Ivi, p. 46. 25 G. Luti, “Centralità di Ardengo Soffici”, in Id., Cronache dei fatti di Toscana, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 160176. 26 In Pratesi, Approfondimenti sul futurismo in Toscana, cit., p. 21, si riporta il commento montaliano, tratto da E. Montale, “Quaderno genovese”, in Id., Il secondo mestiere. Arte. Musica. Società, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1996, p. 1294. 27 Vedi l’annuncio dell’Almanacco Purgativo, in Lacerba, 1, 1913, n. 23, p. 265. 28 D. Vanden Berghe, “L’autocommento inedito di Soffici a Simultaneità e Chimismi lirici”, in Omaggio a Soffici nel 35°Anniversario Dalla Scomparsa, Quaderni sofficiani (Prato), 1999, n. 5, pp. 75-86. 29 Ardengo Soffici, catalogo della mostra a cura di L. Cavallo, Milano, Palazzo della Permanente, settembre-ottobre 1992, Milano, Mazzotta, 1992, p. 103. 30 C. Poggi, In Defiance of Painting: Cubism, Futurism, and the Invention of Collage, New Haven-London, Yale University Press, 1992; inoltre P. Karmel, “Il papier collé: un music hall visivo”, in Il Cubismo rivoluzione e tradizione, catalogo della mostra, Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 2004, a cura di M. McCully e M. Raeburn, Ferrara, Ferrara Arte, 2004, pp. 48-49. 31 Vedi M.G. Messina, “Parigi, una metropoli al vaglio di poeti e pittori”, in Metropolis. La città nell’immaginario delle avanguardie 1910-1920, catalogo della mostra, Torino, GAM — Galleria Civica D’arte Moderna e Contemporanea, febbraio-giugno 2006, Torino, Fondazione Torino Musei, 2006, pp. 212-227. 32 Soffici, Fine di un mondo…, cit., p. 464.
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La cittĂ nuova e le sue architetture
la città nuova, le case a gradoni e le preoccupazioni d’igiene dell’urbanistica europea tra xix e xx secolo •
HenriJules Borie, progetto di Aérodômes, veduta a volo d’uccello (da H.-J.Borie, Aérodômes. Essai sur un nouveau mode de maisons d’habitation applicable Aux Quartiers les plus mouvementés des grandes Villes…, Parigi 1865)
Ezio Godoli
Le case a gradoni, una tipologia per l’igiene nella metropoli Dei disegni della Città nuova di Antonio Sant’Elia si sono spesso ricercati fonti d’ispirazione — più o meno probabili — nelle visioni della New York del futuro disegnate tra il 1901 e il 1911 da Louis Biedermann, Harvey Wiley Corbett, Harry M. Pettit e Richard Rummel, pubblicate nei repertori King’s Views of New York dell’editore Moses King e in diversi periodici1, oppure in fantasie architettoniche europee come alcune composizioni arcaicizzanti delle Architektur Skizzen del tedesco Hermann Billing o la città del futuro del belga Paul Hamesse, probabilmente ispirata da precedenti statunitensi2. Questa consuetudine storiografica ha finito con il confinare la metropoli immaginata da Sant’Elia nella sfera dell’architettura visionaria, incoraggiando anche giudizi riduttivi come quello di Carlo Ludovico Ragghianti che vi ha visto un mero esercizio scenografico3. Si è così trascurato di considerare se in essa si potessero trovare agganci con problematiche che erano centrali nel pensiero urbanistico tra la seconda metà del XIX secolo e la prima guerra mondiale e che puntavano al miglioramento delle condizioni igieniche delle città e alla razionale organizzazione del sistema della circolazione. Recentemente due contributi di Maria Letizia Casati e di Jean-Louis Cohen hanno opportunamente invitato a sottrarre la Città nuova all’appartenenza esclusiva alla sfera dell’immaginario futuribile per collegarla alla realtà della crescita di Milano4 e alle problematiche dominanti nel dibattito urbanistico dei primi anni del secolo scorso5. Dalla metà del XIX secolo la questione di come porre rimedio alle condizioni di insalubrità delle grandi città, estirpandone i focolai di malattie endemiche e epidemiche, e di come progettare una edilizia cittadina rispondente a criteri di igiene, è stato centrale nella teoria e nella pratica urbanistica in Europa e ha avuto una particolare rilevanza in Italia. In seguito alle epidemie di colera delle estati del 1884 e del 1885, è stata promulgata la Legge pel risanamento della città di Napoli del 1885 che ha segnato una data fondamentale per la nascita dell’urbanistica in Italia, in quanto strumento legislativo che ha consentito di finanziare l’attuazione di piani di sventramento e di piani regolatori in altre città6. La legge di Napoli e quella successiva di Tutela dell’igiene e della sanità pubblica del 1888 hanno contribuito a sancire l’egemonia
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pagina a fronte H.-J. Borie, progetto di Aérodômes, sezioni che illustrano il sistema di illuminazione e soleggia mento delle strade (da H.-J.Borie, op.cit.)
degli ingegneri sanitari e degli igienisti nella gestione delle questioni urbane7. Nonostante il loro ruolo sia stato notevolmente ridimensionato nel 1899 e siano state poste notevoli limitazioni alle loro facoltà operative8, fino alla vigilia della prima guerra mondiale i sostenitori di quella che è stata definita l’“utopia igienista” hanno continuato ad esercitare la loro egemonia culturale nell’elaborazione teorica delle linee guida per il risanamento e per la crescita delle città, con particolare attenzione ai quartieri operai, attraverso riviste e pubblicazioni di carattere manualistico destinate agli ingegneri e agli architetti. Nel 1900, anno in cui si apre nel mese di aprile a Napoli l’Esposizione d’Igiene, a Torino inizia le pubblicazioni L’ingegnere igienista, diretta da Luigi Pagliani e Carlo Losio, che nel 1904 si fonderà con l’altra rivista torinese L’Ingegneria sanitaria, che usciva dal 1890 ed era diretta dall’ingegnere Francesco Corradini, dando vita alla Rivista di ingegneria sanitaria. Diretta da Pagliani e Losio uscirà dal 1905 al 1910 e quindi proseguirà le pubblicazioni dal 1911 al 1921 con il titolo Rivista di ingegneria sanitaria e di edilizia moderna. Questi periodici non si occupano soltanto dei grandi interventi alla scala territoriale (acquedotti e bonifiche) o urbana (rinnovamento delle reti fognarie e piani di risanamento), ma anche di tutti i settori dell’edilizia di particolare rilevanza sociale: ospedali e sanatori per la cura della tubercolosi, scuole e asili infantili, teatri e sale per spettacoli, macelli e stabilimenti per la produzione di generi alimentari. Con articoli, notiziari e recensioni, forniscono un ampio panorama internazionale di realizzazioni pilota e diffondono una notevole quantità di informazioni e aggiornamenti tecnici ricavati da pubblicazioni e riviste scientifiche europee (principalmente francesi, tedesche e inglesi) e americane. In linea con l’orientamento socialista che permea queste riviste, gli alloggi economici per la classe operaia e per i ceti impiegatizi sono uno dei temi privilegiati e i tipi di insediamenti proposti come ottimali hanno come modello la città giardino. Sulla base delle statistiche che indicano livelli di mortalità più alti nelle città che nelle campagne, nei quartieri più densamente popolati che in quelli di edilizia estensiva, le città giardino inglesi o le Siedlungen tedesche sembrano fornire la soluzione per dare alle periferie urbane una qualità di igiene ambientale che si approssima a quella della campagna. Già nel 1907, nell’autorevole Nuova Antologia, Riccardo Badoglio illustra le idee esposte da Ebenezer Howard in Garden Cities of To-Morrow (1902) e si diffonde sulla costruzione di Letchworth, iniziata nel 1903, concludendo il lungo articolo intitolato “Una città ideale” con l’auspicio che anche in Italia si sviluppi il movimento per le città giardino, presentate come “terza soluzione” rispetto all’alternativa “vita di città o vita di campagna”, “nella quale tutti i vantaggi della più energica e attiva vita di città possono trovarsi perfettamente combinati con tutte le bellezze e le delizie della campagna”9. Un’in-
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tensa attività di promozione dell’idea di città giardino è svolta da Alessandro Schiavi che nel 1911 pubblica il libro Le case a buon mercato e le città giardino10. A confermare come l’ideologia igienista sia dominante provvede una serie volumi di taglio manualistico sulle case popolari, pubblicati nei primi quindici anni del XX secolo, di cui sono autori Luigi Pagliani, Antonio Pedrini, Gaetano Mariani, Mauro Amoruso, Marco Aurelio Boldi, Effren Magrini e Icilio Casali11. A Milano nel 1912 l’editore Vallardi completa la pubblicazione in due volumi del Trattato di igiene e di sanità pubblica di Luigi Pagliani (1847-1932), che, ampliando notevolmente un testo di dispense del 189112, porta a compimento questo che è stato giustamente definito “il primo manuale di urbanistica prodotto dalla cultura italiana”13. L’onda lunga dell’ideologia igienista, con i suoi precetti ispirati al buonsenso costruttivo (orientamenti nord-sud degli edifici residenziali, studio attento delle condizioni di soleggiamento e di aerazione, disegno delle finestre che consenta una abbondante illuminazione solare e un agevole ricambio d’aria, critica dei cortili interni chiusi su tutti i lati, distanziamento degli immobili dalla strada e creazione di una fascia verde di separazione, ecc.), continuerà ad esercitare la sua influenza dopo la prima guerra mondiale sulla architettura funzionalista fino agli anni 1930. Sant’Elia non poteva non essere ricettivo degli stimoli dell’ingegneria sanitaria, che era una cultura dominante negli anni della sua formazione, e la sua attenzione alla questione dell’i-
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giene urbana emerge chiaramente dall’adozione negli immobili della Città nuova della tipologia a gradoni. Fin da quella che è stata molto probabilmente la sua prima applicazione ottocentesca alla scala di grandi quartieri della metropoli moderna, il progetto del 1865 per Aérodomes di Henri-Jules Borie, la tipologia della casa d’abitazioni a gradoni è stata presentata come una soluzione del duplice problema di garantire la salubrità dei nuovi quartieri residenziali e di dare un ordine razionale al sistema della circolazione, idealmente collegata alla grande operazione di risanamento avviata dal piano Haussmann per Parigi. I principali mali delle grandi città, “ammassi di edifici pubblici e privati, che violano tutte le regole dell’igiene”, cui Borie intende porre rimedio sono le impurità, la polvere e l’umidità dell’aria, la scarsa esposizione delle strade alla luce solare, il rumore e i pericoli del traffico per i pedoni14. Gli aérodomes occupano isolati di pianta rettangolare stretta e allungata ed hanno tutti un’altezza di 40 metri. Dei quattro tipi descritti dall’autore, tre presentano all’altezza di 20 metri un arretramento costituito da una terrazza larga 10 metri che conferisce all’immobile la sua configurazione a gradoni, risultante dalla sovrapposizione di un “gradin supérieur” a un “gradin inférieur”, costituiti ciascuno di cinque piani, oltre al pianterreno. Il quarto tipo presenta invece gli arretramenti di due terrazze, all’altezza di 20 e di 30 metri, ed è quindi formato da tre gradoni. I tipi 1 e 2 al livello del pianterreno sono attraversati in senso longitudinale da grandi passages che incrociano altre gallerie trasversali. L’unica differenza tra i due è rappresentata dai restringimenti nel secondo della larghezza delle terrazze in corrispondenza dei lucernai che danno luce alle gallerie sottostanti. I tipi 3 e 4 sono invece organizzati attorno a grandi corti interne, con coperture vetrate, attraversate da vie carrozzabili, concepite come grandi jardins d’hiver destinati a riunioni e esposizioni pubbliche o ad attività commerciali nel tipo 3, all’uso esclusivo come piazza nel tipo 4. Anche verso le corti interne gli edifici dispongono di terrazze praticabili che fanno da pendant a quelle esterne. Nella relazione che accompagna il progetto Borie si diffonde sui vantaggi igienici, per quanto riguarda il ricambio dell’aria e l’esposizione ai raggi solari, della sezione dei boulevard svasata verso l’alto rispetto a quella tradizionale con quinte edilizie complanari e parallele. Ampio spazio è pure dedicato all’illustrazione del sistema della circolazione ed ai vantaggi che esso comporta per i pedoni, ai quali sono riservati i passages commerciali e le terrazze, presentate nella grande veduta prospettica come affollate vie pedonali collegate da ponti che scavalcano i boulevard mettendo in comunicazione tra loro i diversi aérodomes. All’interno degli immobili i collegamenti verticali sono assicurati dai vani delle scale principali, dotati di chambres mobiles, cioè grandi ascensori dalla capienza di quaranta persone. Dall’opuscolo emerge una netta separazione tra la circolazione pedo-
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nale e quella veicolare che si svolge principalmente nei grandi boulevard e nelle vie interne al livello del suolo. Verso la fine del XIX secolo, la costruzione a gradoni comincia ad essere associata a progetti di sanatori per la cura della tubercolosi, che affidava all’elioterapia una funzione fondamentale. A questo modello si è conformato il belga Paul Hankar nel tubercolosario ideato nel 1897, un progetto che però non sembra avere avuto alcuna pubblicità15, diversamente dal progetto di un sanatorio modello per la cura della tubercolosi messo a punto dal dottor David Sarason, in collaborazione con l’architetto Justin Bahr, e presentato nel 1907 al XIV Internationaler Kongress für Hygiene und Demographie di Berlino. La relazione era significativamente intitolata: Eine neues Bausystem für Krankenanstalten und Wöhnhauser. Marie-Jeanne Dumont prima16, François Loyer e Héléne Guéné17 poi, hanno sostenuto che proprio questo modello sanatoriale possa avere ispirato gli studi di Henri Sauvage per immobili a gradoni, che si ritiene siano stati elaborati nel biennio 1908-1909, anche se il solo disegno datato è quello del 15 ottobre 1909 che rappresenta una via fiancheggiata da case operaie. Dal 1903, anno della fondazione a Parigi della Société anonyme des logements hygiéniques à bon marché, di cui Frantz Jourdain era amministratore delegato, Sauvage, che ne era l’architetto, si era distinto per l’impegno nella progettazione di immobili igienici e economici destinati agli operai: nell’agosto dello stesso anno aveva infatti depositato la richiesta di licenza edilizia per la casa in rue Trétaigne n.7, realizzazione esemplare per la modernità dell’impiego dell’ossatura di cemento armato e dei tamponamenti di laterizio a vista, per la dotazione di servizi (ristorante igienico, spaccio cooperativo, stabilimento di bagni e docce, università popolare, circolo per celibi) e per gli ingegnosi accorgimenti destinati a consentire una rapida e impeccabile pulizia degli alloggi18. Tra le innovazioni figurava anche la copertura che, grazie al sistema di costruzione in cemento armato, era una terrazza giardino funzionante, oltre che come luogo d’incontro, come spazio ventilato e soleggiato di vita all’aria aperta. La preoccupazione di assicurare condizioni igieniche alle abitazioni ha ispirato anche il progetto di una via di maisons ouvrières a gradoni dell’ottobre del 1909, una alternativa alla rue corridor che intende assicurare soleggiamento e aerazione migliori agli alloggi e alle strade. Per evitare il rischio di plagi, Sauvage e il suo socio Charles Sarazin avevano depositato il 13 gennaio 1912 il brevetto di un “système de construction” a gradoni e nel giugno dello stesso anno avevano costituito la Société anonyme des maisons à gradins, che costruirà la casa della rue Vavin (1912-13)19. Nel progetto di concorso per abitazioni operaie a buon mercato nell’avenue Emile Zola (1913), che prevede di adibire a galleria coperta, probabilmente un passage commerciale, lo spazio compreso tra le case a gradoni che si affacciano su strade parallele, è anticipata una soluzione presente in alcuni studi per la Città nuova di Sant’Elia. Nel com-
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H.-J. Borie, seconda versione del progetto di Aérodômes pubblicata nel 1867 (da H.-J.Borie, Aérodômes. Nouveau mode de maisons d’habitation à 10 et 11 étages aux façades retraitées et terrasses à diverses hauteurs…, Parigi 1867)
pagina a fronte Paul Hankar, progetto di un sanatorio per la cura della tubercolosi a Kraainem, Belgio (da F.Loyer, Paul Hankar. La naissance de l’Art Nouveau, Bruxelles 1986)
plesso di HBM (abitazioni a buon mercato) tra la rue des Amiraux e la rue Hermann Lachapelle (1922-30) nel XVIII arrondissement di Parigi, i cui primi studi risalgono al 1913, Sauvage destinerà questo spazio centrale a piscina, dopo avere preso in considerazione in un lungo e tormentato iter progettuale altre soluzioni: sala cinematografica, teatro per l’educazione del popolo, ristorante economico, cooperativa di consumo, ecc. Gli studi per case a gradoni dell’architetto francese precedono quelli di Sant’Elia, con i quali presentano indubbiamente diverse analogie ma anche sostanziali differenze per quanto concerne il rapporto tra gli immobili e il sistema della circolazione pedonale e meccanizzata. Diversamente da quanto ha arguito René Jullian20 con una interpretazione forzata di una testimonianza di Leonardo Dudreville raccolta da J. P. Schmidt-Thomsen21, appare poco probabile che Sant’Elia potesse conoscere i progetti di Sauvage. Diversi suoi
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disegni per case a gradoni (tra cui anche quella di rue Vavin) erano stati esposti al Salon d’Automne aperto il 15 novembre 191322 ed erano stati segnalati come particolarmente interessanti in una recensione apparsa nella rivista La Construction Moderne23, ma nessuno era stato riprodotto nel catalogo e nel periodico. Prima del 20 maggio 1914, data d’inaugurazione della mostra di Nuove Tendenze nella quale sono stati esposti per la prima volta i disegni di Sant’Elia per la Città Nuova, alla casa in rue Vavin era stato dedicato un articolo corredato da foto nel numero del 21 marzo 1914 della rivista francese di diffusione internazionale L’Illustration24, ma la prima esauriente pubblicazione di quest’edificio, con piante e dettagli dell’ossatura in cemento armato, in un periodico importante come La Construction Moderne, risale al settembre 191425. Accantonando la ipotesi di una influenza diretta, le analogie tra i progetti dei due architetti possono trovare una spiegazione nella loro attenzione alle problematiche dell’ingegneria sanitaria e nella comune intuizione che la costruzione a gradoni, proposta per favorire la cura elioterapica della tubercolosi, avrebbe consentito di favorire il ricambio d’aria, contrastando l’inquinamento atmosferico, e di sostituire arterie bene esposte all’azione purificatrice dei raggi solari alle strade della metropoli moderna, oscuri crepacci tra le pareti dei grattacieli. Il sanatorio concepito da Sarason non era ignoto in Italia: il più esauriente manuale sulla costruzione degli ospedali edito dalla Hoepli, quello di Carlo Maurizio Belli del 1913, ne ha riprodotto la sezione con questo commento: la sua “caratteristica consiste in ciò che ogni piano dal lato di mezzogiorno occupa una superficie minore di quella del piano sottostante e lo spazio libero è disposto come una veranda. Questo tipo detto “padiglione-terrazza”, non è stato accolto favorevolmente e nella discussione al Congresso int. d’Igiene di Berlino (1907)
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Sezioni del sanatorio modello messo a punto dal dottor David Sarason con la collaborazione dell’architetto Justin Bahr (da Beton und Eisen, 7, 1908) Sezioni di una strada e di un immobile a gradoni allegate al brevetto per un “sistema di costruzione” depositato il 23 gennaio 1912 da Henri Sauvage e Charles Sarazin (da F.Loyer e H.Guéné, Henri Sauvage. Les immeubles à gradins / Setback buildings, Bruxelles — Liegi 1987)
fu severamente criticato da Rubner ed altri igienisti”26. Nonostante le riserve espresse da Max Rubner, la costruzione a gradoni incontrerà una notevole fortuna nell’architettura dei sanatori per tubercolotici. A rilanciarla provvederà nel 1912 il dottor Oskar Bernhard: l’elioterapia richiede edifici di forma particolare. Ogni raggio di luce che ci invia il cielo deve poter essere sfruttato. Una clinica solare deve essere il più possibile costruita al riparo dal vento con una facciata completamente rivolta a sud preferibilmente su un pendio.[…]E impiantando una simile clinica su un pendio si ottiene prima di tutto un’insolazione più intensa e in secondo luogo si favorisce la disposizione delle gallerie di cura e dei balconi che devono essere collocati in maniera da non privarsi a vicenda della luce. Il che implica una disposizione a gradoni[…]27.
A questa impostazione si conformerà il progetto per l’ampliamento della clinica del dottor Bernhard a St.Moritz, databile attorno al 191728. Con l’intensificarsi della costruzione di sanatori per la cura della tubercolosi, conseguente alla recrudescenza della malattia dopo la prima guerra mondiale, il tipo a gradoni avrà una larga diffusione. Nel libro Terrassen Typ, repertorio di architetture caratterizzate da una significativa presenza di terrazze che in molti casi conferiscono agli edifici una conformazione a gradoni pubblicato nel 1929 dall’architetto Richard Döcker29, quasi la metà delle pagine del volume sono illustrate da fotografie e disegni di ospedali e una cinquantina sono quelle dedicate ad un’opera dell’autore, il Krankenhaus di Waiblingen (1926-1929) presso Stoccarda, città dove l’architetto aveva il proprio studio e dove si trova la maggiore concentrazione di sue realizzazioni. Gli esempi di edilizia ospedaliera proposti, tutti databili attorno alla metà
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degli anni 1920, perseguono condizioni igieniche ottimali puntando sul binomio “Luft und Sonne” e in questo svolge un ruolo fondamentale la presenza di terrazze che si sviluppano lungo l’intero fronte edilizio. Queste talvolta sono sovrapposte anziché arretrate l’una rispetto all’altra in modo da conferire alla costruzione la configurazione a gradoni prediletta da Döcker, che la ha adottata in diversi progetti per ospedali. Nella sezione del libro dedicata agli alberghi e agli immobili per uffici figura anche un’illustrazione, tratta dal volume di Ludwig Hilberseimer Internationale neue Baukunst (1928), della Città nuova di Sant’Elia che stava attraversando un periodo di effimera notorietà in Germania in seguito alla presentazione di due suoi disegni, Gestaffeltes Hochhaus e Zentralbanhof mit Flughafen, nella Internationale Plan und Modellausstellung Neuer Baukunst allestita nell’ambito della Werkbund-Ausstellung die Wohnung al Weissenhof di Stoccarda (23 luglio - 31 ottobre 1927)30. La Città lineare rivisitata: dal ruralismo all’ideologia metropolitana futurista Equivocando sulle intenzioni e sugli interessi specifici di Sant’Elia, che non ambiva a proporsi come urbanista ma perseguiva la prefigurazione di una architettura alla scala della metropoli moderna, gli è stata rimproverata “la mancanza di collegamenti dei settori e degli edifici singoli a una struttura urbana definita”31, quasi che questa carenza impedisse la comprensione dell’impianto urbanistico cui facevano riferimento le costruzioni immaginate. Eppure un’analisi comparata dei disegni consente di avanzare ipotesi plausibili sullo schema generale della Città nuova e di corroborare la tesi che, non solo per la scelta della tipologia a gradoni, in essa si riflettano orientamenti presenti nell’urbanistica degli anni in cui è stata elaborata. Un dato che emerge con chiarezza dall’esame dei disegni è che la metropoli santeliana sia un organismo a sviluppo lineare la cui spina dorsale è rappresentata da un sistema integrato di trasporti, forse costituito da una serie di arterie principali parallele incrociate da traverse che determinano isolati rettangolari stretti e allungati. Il contributo più originale della Città nuova è ravvisabile nella complessità e nella clarté cartesiana dell’organizzazione del traffico pedonale e meccanizzato, in orizzontale, in verticale ed anche su linee inclinate, che non ha precedenti in studi del sistema della circolazione, come per esempio la Rue future di Eugène Hénard, indicati come possibili fonti di ispirazione di Sant’Elia. Il risultato è una “organica architettura stradale” enfaticamente celebrata da Theo van Doesburg che, nel 1927, vi ravvisa indicazioni profetiche che solo ora vengono comprese nel loro giusto valore e in confronto i poveri progetti urbanistici di Le Corbusier-Saugnier scompaiono: L’architettura stradale […] è stata progettata in modo completamente organico — prosegue il fondatore di De Stijl — partendo da una corretta nozione dell’evoluzione di tutte le “funzioni stradali”. Il traffico interno ed esterno (ascensore, treno, tram, aeroplano) è talmente integrato
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H. Sauvage — Ch. Sarazin, progetto di concorso per case operaie nell’avenue Émile Zola a Parigi, 1913 (da J.-B.Minnaert, Henri Sauvage ou l’exercice du renouvellement, Paris 2002) Pagina con sezioni di sanatori del libro di Richard Döcker Terrassen Typ, Stuttgart 1929
pagina a fronte Il Corso d’Italia a Milano ideato dall’ingegnere Emilio Belloni, il tratto che parte da piazza del Duomo in un disegno di M. Stroppa (da Le case popolari e la città giardino, 1, s.d. ma 1909, n.4)
che qualsiasi trasformazione della città appare possibile. In questa possibilità di ampliamento o di trasformazione del traffico e della città in proporzione equilibrata, si nasconde il grande vero valore di questi progetti che sono nati prima ancora che si pensasse ad un aumento così continuo del traffico32.
Che le infrastrutture della circolazione fossero chiamate a svolgere un ruolo fondamentale nell’orientare lo sviluppo della metropoli moderna era un convincimento diffuso, e, con lo sviluppo delle tranvie a trazione elettrica, il problema di realizzare una circolazione rapida e a buon mercato per espandere le città offrendo condizioni di vita igienicamente migliori nelle fasce urbane più periferiche era ampiamente dibattuto, anche nella stampa non specializzata. L’idea di fare della linea tranviaria l’elemento orientatore dello sviluppo urbano aveva trovato applicazione anche in due progetti per Milano, che prevedevano un’espansione di tipo lineare verso la campagna, lungo due diverse direttrici. Nel quarto dei dodici fascicoli pubblicati tra il 1909 e il 1911 della rivista Le case popolari e la città giardino, Emilio Belloni aveva riproposto un progetto (secondo la sua testimonianza già lanciato nel luglio del 1907 nel giornale Il Sole) di un Corso Italia della lunghezza di 31 chilometri che, partendo da piazza del Duomo, avrebbe dovuto raggiungere il fiume Ticino, costituendo l’“arteria aorta, per la comunicazione con la periferia e con aree senza limiti da offrirsi al rapido e continuo sviluppo della città”, per “realizzare il sogno di ogni modesta famiglia, lavorare in città e vivere in campagna in una casetta propria con un po’ di giardino”33. Nella copertina del fascicolo dell’agosto 1908 della Rivista mensile del Touring era stato pubblicato un disegno di Mario Stroppa (Marius) che illustrava il progetto concepito dall’ingegnere Evaristo Stefini di un nuovo quartiere alla cui realizzazione era interessata la S.A.Q.I.N.M. (Società Anonima Quartiere Industriale Nord-Mi-
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lano). Lodando questo tentativo di “porre argine all’asfissiante concentrazione di Milano, portandone l’espansione in aree più ampie, meno costose e più salubri, associando il verde alle abitazioni”, Luigi Vittorio Bertarelli accenna a “un principio di esecuzione già avviata”: il primo atto generativo data da tempo: da quando una Associazione potente concentrò nelle proprie mani una striscia di terreno larga circa un chilometro, che da Sesto San Giovanni, paese a sei chilometri circa in linea retta da Milano, giunge al limite esterno del piano regolatore di Milano, cioè lunga cinque chilometri34.
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Copertina della Rivista mensile del Touring (14, 1908, n. 8) con un disegno di Mario Stroppa che illustra il progetto del nuovo quartiere S.A.Q.I.N.M (Società Anonima Quartiere Industriale NordMilano) tra Milano e Monza ideato dall’ingegnere Evaristo Stefini Pianta del nuovo quartiere S.A.Q.I.N.M. (da Le case popolari e la città giardino, 1, s.d. ma 1910, n.6)
Al centro del viale largo sessanta metri e lungo sei chilometri, “spina dorsale” della nuova espansione, sono previste due “vere piste di velocità” larghe 10.80 metri, riservate una alle automobili e l’altra ai tram veloci, alle quali si aggiungono due strade larghe 8 m per il “carreggio ordinario e per i tram di servizio omnibus”, due piste larghe 1.60 m per la “dea bicicletta”, due viali alberati di 6.60 m (uno ad uso di galoppatoio e l’altro riservato ai pedoni) e infine due marciapiedi larghi 3 m35. Nel sesto fascicolo della rivista Le case popolari e la città giardino il direttore Pietro Nuzza ripropone come di prossima attuazione questo progetto “degno d’una impresa Americana” e sottolinea che ai lati del grande vialone è prevista una zona della larghezza di 170 m. “destinata interamente alle costruzioni basse ed alle Ville con giardini in modo che l’area coperta non potrà essere più di un terzo della totale; nella Zona successiva sorgeranno Case Popolari ed Economiche per operai ed impiegati; e più in là stabilimenti industriali ed Officine”36. Il piano regolatore “che esce dai soliti motivi” è presentato come conforme “ai criteri modernissimi delle nuove città liete di luce, di sole e di verde, preziosi alleati dell’igiene” e il “problema delle comunicazioni” è “risolto in modo favorevole alla rapidità ed economia”37. Nei quartieri a sviluppo lineare di Belloni e Stefini le linee tramviarie veloci correvano sotto il livello del suolo in trincee a cielo aperto, come in una delle linee della Stadtbahn di Vienna progettate da Wagner. Sconcerta che negli articoli dedicati a questi due progetti non compaia alcun cenno a Arturo Soria y Mata e alla Ciudad Lineal di Madrid, il cui cantiere era stato aperto il 16 luglio 1894: i due progetti per Milano aderivano pienamente alla parola d’ordine di Soria y Mata “Ruralizar la vida urbana, urbanizar el campo”. All’attenzione Sant’Elia non potevano essere sfuggiti i due progetti divulgati da una rivista che
Antonio Sant’Elia, progetto di concorso per ‘Il Villino moderno’, 1911 (da Le case popolari e la città giardino, 1, s.d. ma 1911, n.10-11)
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nel penultimo fascicolo ha pubblicato il suo progetto presentato al concorso “Il Villino moderno”38. I disegni della Città nuova si prestano infatti ad essere letti come una alternativa ai piani di Belloni e della S.A.Q.I.N.M., certo in notevole anticipo sulla dinamica della crescita delle grandi città italiane, sullo sviluppo tecnologico dell’industria delle costruzioni e sulle capacità di finanziamento delle amministrazioni pubbliche e del capitale privato. È una alternativa che ribalta i postulati ideologici della città lineare, sostituendo al suo ruralismo un’ideologia metropolitana di inequivocabile matrice futurista. Alla ruralizzazione della vita urbana perseguita dai progetti di nuovi quartieri a sviluppo lineare per Milano è opposta l’espansione verso la campagna della metropoli, come una struttura architettonica compatta, virtualmente aperta a una crescita senza limiti, che incorpora organicamente in sé un complesso sistema di circolazione veicolare e pedonale e che dimostra, con le sue grandi arterie dalla sezione svasata, la possibilità di garantire ricambio d’aria e buona esposizione ai raggi solari, cioè condizioni ottimali di igiene ambientale, senza dover ricorrere necessariamente alla dissoluzione della città rappresentata dalla dispersione nel verde di case unifamiliari o a schiera. Non è senza significato che in Gran Bretagna la riscoperta di Sant’Elia ad opera di Reyner Banham si collochi nell’arco cronologico compreso tra l’inizio della polemica, animata dal 1953 nella rivista The Architectural Review dagli articoli di James Maude Richards e Gordon Cullen, sugli esiti fallimentari per quanto concerneva l’ambiente architettonico della prima fase della costruzione delle new towns39, idealmente collegate al modello della città giardino di Howard, e la messa a punto verso la metà degli anni 1960 di un nuovo modello di città di fondazione, la expanding town a scala regionale, che aveva nel sistema dei trasporti il fondamentale elemento strutturante della forma urbana. L’esempio più rappresentativo era il corridor urbanizzato del South Hampshire Study destinato a fondere in una unica area metropolitana Porthsmouth e Southampton 40. Certo è una coincidenza illuminante che la rivista più impegnata in una critica radicale del prairie planning delle new towns di prima generazione, The Architectural Review, ospiti tra il 1955 e il 1956 i primi due articoli di Banham su Sant’Elia41. Il primo e più importante ha come scopo dichiarato rivendicare un ruolo di primo piano tra i patriarchi nell’albero genealogico del Movimento Moderno all’architetto comasco, al quale vengono ascritti come titoli di merito “the anti-monumentalism twenty years before Mumford, the house/machine equation eight years before Le Corbusier”, sottolineando che la Città nuova “exhibits a completely integrated structural conception” e che il suo autore “was among the very first to combine a complete acceptance of the machine-world with an ability to realize and symbolize that acceptance in terms of powerful and simple geometrical forms”, concludendo che: “The ac-
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ceptance is more complete than Le Corbusier’s, the forms more powerful than those of Gropius”42. Spingendosi oltre Banham attualizza il valore pedagogico delle intuizioni e profezie di Sant’Elia attribuendogli la concezione del “mechanistic brutalism nearly forty years before Hunstanton” e rinvenendo nei punti 7 e 8 del proclama che chiude il manifesto L’architettura futurista “a philosophy astonishingly close to that of Buckminster Fuller”43. Nelle conclusioni non manca di sottolineare la prossimità della Città nuova agli orientamenti che stanno emergendo nel filone della progettazione megastrutturale che ha come spina dorsale il sistema delle comunicazioni: Sant’Elia is basing his whole design on a recognition of the fact that in the mechanized city one must circulate or perish. He seems to have foreseen the technological cities of Fifties […] and having seen all this he tried, and may yet prove to have succeeded, to give this concept of the city a comprehensible architectural form, which should enhance its character and facilitate its essential functions44.
Circa trent’anni dopo l’intuizione di van Doesburg di quello che era il più importante contributo specifico dei disegni della Città nuova, Banham riafferma dunque l’attualità del loro insegnamento.
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Note 1 La visione di Manhattan nel futuro di Corbett apparsa nella copertina del New York Tribune del 16 gennaio 1910 e ripresa nel 1913 da Scientific American e dall’ Illustrazione italiana potrebbe avere suggerito a Sant’Elia l’idea dell’organizzazione del traffico su più livelli (“La circolazione futura e i gratta nuvole a New York”, L’illustrazione italiana, 40, 31.8.1913, n. 35, p. 211). Nel mese di marzo il settimanale italiano aveva pubblicato uno spaccato prospettico del Grand Central Terminal di New York inaugurato il mese precedente: La più grande stazione del mondo inaugurata a New York, ivi, 40, 2.3.1913, n. 9, p. 211). 2 Vedi G. Lista, “L’architettura come utopia”, in Futurismo 1909-2009. Velocità+arte+azione, catalogo della mostra a cura di G. Lista e A. Masoero, Milano, Palazzo Reale, 6 febbraio - 7 giugno 2009, Milano, Skira, 2009, p. 375; il disegno di Hamesse è stato pubblicato da F. Borsi, H. Wieser, Bruxelles Capitale de l’Art Nouveau, Roma, Casa editrice Carlo Colombo — Bruxelles, Marc Vokaer éditeur, 1971, p. 204. ³ Vedi C.L. Ragghianti, “Sant’Elia. Il Bibbiena del Duemila”, Critica d’Arte, 10, 1963, n. 56, p. 21. 4 Vedi M.L.Casati, “Alle origini della ricerca di Antonio Sant’Elia sulla Città Nuova”, in 1914/2014 Cent’anni di architettura futurista, a cura di A.Nastri, G.Vespere, Napoli, Clean edizioni, 2015, pp. 20-31. 5 J.-L.Cohen, “Molto dopo — e prima Sant’Elia”, in Antonio Sant’Elia Manifesto dell’architettura futurista. Considerazioni sul centenario, a cura di F.Purini, L.Malfona, M.Manicone, Roma, Gangemi editore, 2015, pp. 105-112. 6 È qui opportuno richiamare la distinzione tra piani regolatori formulata nel 1902 da Antonio Pedrini: “Un piano regolatore di una città, in generale riflette o l’abitato presente o il futuro. Se si tratta di correggere, di aggiustare in modo celere e per ragioni igieniche, egli è un piano di sventramento; se tende a scopi sanitari ed edilizi a lunga scadenza (25 anni) egli è un piano regolatore. […] Se poi è un piano che trattasse dell’aggiustamento e della coordinazione dell’abitato futuro, egli è un piano di ampliamento” (La casa dell’avvenire. Vade-mecum dei costruttori, dei proprietari di case e degli inquilini. Raccolta ordinata di principi d’ingegneria sanitaria domestica ed urbana per la costruzione di case igieniche civili, operaie e rustiche e per la loro manutenzione dell’ing. Antonio Pedrini, Milano, Ulrico Hoepli editore-libraio della Real Casa, 1902, 19102, p. 22). 7 Sull’argomento si rinvia a G.Zucconi, La città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli urbanisti (1885-1942), Milano, Jaca Book, 1989, 19992 e a C.Giovannini, Risanare le città. L’utopia igienista di fine Ottocento, Milano, Franco Angeli, 1996. 8 Vedi C.Giovannini, op.cit., pp. 21-29. 9 R.Badoglio, “Una città ideale”, Nuova Antologia di lettere, scienze ed arti, vol.132, serie V, 1/12/1907, pp. 481494. 10 A.Schiavi, Le case a buon mercato e le città giardino, Bologna, N.Zanichelli, 1911; rist. Milano, Franco Angeli, 1985, con introduzione di P.Somma. Su Schiavi e sulla ricezione dell’idea di città giardino in Italia vedi O. Selvafolta, “Temi e luoghi della città-giardino in Italia nei primi decenni del Novecento”, Ciudades, 6, 20002001, pp. 75-89; S.Bianciardi, Alessandro Schiavi. La casa e la città, Manduria — Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 2005. 11 L.Pagliani, Le abitazioni igieniche ed economiche per le classi meno abbienti nel secolo XIX, Torino, Tip. e Lit. Camilla e Bertolero, 1902; A.Pedrini, La casa dell’avvenire: vade-mecum dei costruttori, dei proprietari di case e degli inquilini: raccolta ordinata di principi d’ingegneria sanitaria domestica ed urbana per la costruzione di case igieniche civili, operaie e rustiche e per la loro manutenzione…, Milano, Ulrico Hoepli, 1902; G.Mariani, Case operaie a Milano, in Italia, all’estero, Milano, Artigianelli, s.d.[1902]; M.Amoruso, Case e città operaie studio tecnico economico, Roma, Roux e Viarengo, 1903; M.A.Boldi, Case popolari riabilitazione edilizia, completa degli antichi, già proscritti, falansteri?, Roma, Tipo-lit. del Genio civile, 1906; E.Magrini, Le abitazioni popolari (case operaie), Milano, U.Hoepli, 1910; M.A.Boldi, Le case popolari monografia completa, tecnico economico sociale, Milano, U.Hoepli, 1910. 12 [L.Pagliani], Raccolta di appunti e disegni riguardanti l’ingegneria sanitaria, Roma, Tip.Spellani, 1891. 13 G.Zucconi, op.cit., p. 44. 14 H.-J.Borie, Aérodomes. Essai sur un nouveau mode de maisons d’habitation applicable Aux Quartiers les plus mouvementés des grandes Villes…, Parigi, Typographie Morris et Compagnie, 1865 ; una versione con varianti del progetto è stata pubblicata due anni dopo : Aérodômes. Nouveau mode de maisons d’habitation de dix à onze étages aux façades retraitées et terrasses à hauteurs diverses applicables aux quartiers les plus mouvementés des grandes villes, Paris, Hennuyer & Fils, 1867. 15 Vedi F.Loyer, Paul Hankar. La naissance de l’Art Nouveau, Bruxelles, Archives d’Architecture Moderne, 1986, pp. 422-423. 16 “Il dottor Savoire aveva mostrato agli architetti, nel 1902, — scrive Marie-Jeanne Dumont — dei progetti tedeschi di sanatori così descritti: “la sovrapposizione dei diversi piani è tale che l’edificio presenta un profilo scalato in modo da formare, davanti alle finestre frontali di ogni piano, delle ampie terrazze accessibili all’aria e al sole”. È evidente che si tratta di un edificio a gradoni. Nel 1907, questo nuovo tipo di ospedale è ancora oggetto di una comunicazione al Congresso internazionale di igiene e di demografia a Berlino. È circa in questo periodo, sembra, che Sauvage fa i suoi primi progetti a gradoni” (vedi M.-J.Dumont, La fondation Rothschild et les premières habitations à bon marché de Paris. 1900-1925, Paris, Ministère de l’Urbanisme, du Logement et des Transports, Direction de l’Architecture, Sous-Direction à la Recherche architecturale, 1984, p. 87).
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Loyer e Guéné sono tornati sull’argomento trattando più estesamente della conferenza del dottor Savoire rivolta agli architetti e sul sanatorio di Sarason, sottolineando opportunamente che il tipo costruttivo era stato proposto per applicazioni nel settore dell’edilizia ospedaliera ed anche residenziale (vedi F. Loyer, H. Guéné, Henri Sauvage — Les immeubles à gradins, Set Back Buildings, Bruxelles, Mardaga, 1987, pp. 30-36). 18 Sull’importanza, ancora non adeguatamente riconosciuta dalla storiografia dell’architettura contemporanea, della casa in rue Trétaigne vedi: F.Borsi, E.Godoli, Paris 1900, Bruxelles, Marc Vokaer Editeur, 1976, pp. 200, 209; F. Loyer, H. Guéné, op.cit., pp. 7-12; J. B. Minnaert, Henri Sauvage ou l’exercice du renouvellement, Paris, Editions Norma, 2002, pp. 93-99. 19 Per gli studi di maisons à gradins di Sauvage e per la fortuna che questo modello ha incontrato in Francia si rinvia a J. B. Minnaert, op.cit., pp. 161-221. 20 R. Jullian, “Sauvage et Sant’Elia: le problème des maisons à gradins”, Bulletin de la Société de l’Histoire de l’Art Française, 1978, pp. 294-295. 21 La testimonianza di Dudreville è stata raccolta da J. P. Schmidt-Thomsen, Floreale und futuristiche Architektur. Das Werk von Antonio Sant’Elia, Dissertation Fakultät der Technischen Universität Berlin 1967, p. 160. 22 Questo è l’elenco dei disegni esposti da Sauvage : “Maisons à gradins. Schéma des constructions à gradins. Aspect des rues nouvelles. Aspect de rue. a) Maisons ouvrières à gradins ; b) Maison de rapport, 26, rue Vavin. Trois croquis perspectifs. Trois immeubles de rapport”. (vedi Salon d’Automne 1913 — 11e Exposition — Catalogue, Paris 1913, p. 227). 23 A. Gaillardin, “L’architecture au Salon d’Automne”, La Construction Moderne, 30 novembre 1913, pp. 97-99. 24 F. Honoré, “La maison à gradins”, L’Illustration, 21 marzo 1914, n. 3708, pp. 220-221. 25 “Maison à gradins, rue Vavin, à Paris”, La Construction Moderne, 20-27 settembre 1914, pp. 577-580, tavv. 125-127. Precedentemente nella stessa rivista era apparso un breve articolo “Maisons à gradins” (15 marzo 1914, p. 288) privo però d’illustrazioni. 26 C.M.Belli, Costruzione degli ospedali-ospizi e stabilimenti affini, Milano, Ulrico Hoepli, 1913, pp. 115-116. 27 O.Bernhard, Heliotherapie im Hochgebirge, mit besonderer Berücksichtigung der Behandlung der chirurgischen Tuberkulose, Stuttgart, F.Enke 1912; cit. in D.Del Curto, Il sanatorio alpino. Architetture per la cura della tubercolosi dall’Europa alla Valtellina, Roma, Aracne editrice, 2010, p. 97. 28 Vedi O.Bernhard, Sonnenlichtbehandlung in der Chirurgie, Stuttgart, F.Enke, 1917. 29 R.Döcker, Terrassen Typ Krankenhaus Erholungsheim Hotel Bürohaus Einfamilienhaus Siedlungshaus Miethaus und die Stadt, Stuttgart, Akademischer Verlag Dr. Fritz Wedekind & Co., 1929. 30 Vedi Werkbund-Ausstellung Die Wohnung Stuttgart 1927. 2. Juli-9.Okt. Amtlicher Katalog, Stuttgart, “Industrie” Verlags und Druckerei Gesellschaft, 1927, p. 107 (rist. Stuttgart, Stuttgarter Gesellschaft für Kunst und Denkmalpflege, 1998). Il manifesto L’Architettura Futurista è stato tradotto in tedesco solo nel 1966; vedi W.Lippmann, “La (s) fortuna critica di Sant’Elia in ambito germanico. La difficile diffusione del Futurismo italiano oltralpe”, Il manifesto dell’architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità, atti della giornata di studio alla Camera di Commercio di Grosseto a cura di M.Giacomelli, E.Godoli, A.Pelosi, 18 luglio 2014, Mantova, Universitas Studiorum, 2014, pp. 159-180. 31 C.L.Ragghianti, op.cit., p. 15. 32 Th.Van Doesburg, “Architectuurvernieuwingen in het buitenland”, Het Bouwbedrijf, 4, 1927, n. 9; trad.it. in A. Mariotti, “L’avanguardia italiana secondo van Doesburg”, Casabella, 37, 1973, n. 380-381, pp. 78-79. 33 E. Belloni, “Il Corso d’Italia a Milano”, Le case popolari e la città giardino, 1, s.d. [1909], n. 4, pp. 110, 115. 34 L.V.Bertarelli, “Città che nasce”, Rivista mensile del Touring Club Italiano, 14, 1908, agosto, p. 348. 35 Ivi, p. 351. 36 P.Nuzza, “Un nuovo grande quartiere a Milano nella zona compresa tra Milano e Sesto San Giovanni”, ivi, 1, s.d. [1910], n. 6, p. 163. 37 Ibid. 38 “Il Villino Moderno. Raccolta dei Progetti al Concorso ‘Il Villino Moderno’ indetto dal Comitato Promotore della Mostra Temporanea in Milano”, ivi, 1, s.d.[1911], n. 10-11, p. 259. 39 Vedi Ll.Rodwin, The British New Town Policy, Cambridge, Harvard University Press, 1956; trad.it., Le città nuove inglesi, Padova, Marsilio editori, 1964, pp. 131-135. 40 Su questa svolta nella concezione delle new towns vedi L.Marsoni, “Venti anni di new towns: rilettura di un intervento parametrico”, Zodiac a review of contemporary architecture, 1968, n. 18, pp. 189-200; M.Biasia, “Metropoli e regione urbana nella ricerca geografica inglese”, ivi, pp. 201-219; G.Gaetani, “Traffico e spazio urbano: note su alcuni contributi britannici”, ivi, pp. 220-228. 41 R.Banham, “Sant’Elia”, The Architectural Review, vol. 117, 1955, n.701, pp. 295-301; Id., “Footnotes to Sant’Elia”, ivi, vol. 119, 1956, n. 713, pp. 343-344; Id., Theory and Design in the First Machine Age, New York-Washington, Praeger Publisher, 1960; trad. it. Architettura della prima età della macchina, Bologna, Calderini, 1970. 42 R.Banham, “Sant’Elia”, cit., pp. 297, 301. 43 Ivi, p. 297. 44 Ivi, p. 301. 17
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A. Sant’Elia, Casa a gradinata con ascensori esterni, 1914 (Pinacoteca Civica, Como, A. 344)
Con questo titolo rubato da un libro celebre di Reyner Banham, autore notoriamente appassionato di futurismi, vorrei discutere intorno alle tecniche edilizie che sembrano dar corpo alla fantastica città di Sant’Elia, ma anche alludere ad altri connotati che emergono dagli schizzi e dai disegni; a quell’aura metafisica che promana da stabilimenti e grandi edifici residenziali, restituiti all’alba di un tempo nuovo, in un silenzio alternativo al chiasso futurista, a certi passi dello stesso manifesto, come più volte è stato osservato; alternativo alle “folle agitate dal lavoro e dalla sommossa” o alle “automobili che sembrano correre sulla mitraglia”, sostituite tutt’al più da rotaie pronte ad accogliere convogli che passeranno filanti in silenzio. In una sospensione quasi archeologica buona a far risaltare l’evidenza, la tassativa monumentalità delle fabbriche che il ventiseienne architetto propone, intonandole alle ambizioni e allo spirito del tempo. Che non è, beninteso, il gigantismo grottesco di Cabiria, come ingenerosamente scrisse Ragghianti1, ma piuttosto una trasversale ambizione al far grande e al monumentale, dalla quale difficilmente l’architettura di allora, costruita o disegnata che fosse, poteva sottrarsi. Ma prima il dato di una nuova firmitas, per così dire, ovvero della tecnica costruttiva che dopo millenni veniva rivoluzionando l’arte di edificare, introducendo prestazioni e modalità essenziali per immaginare una città nuova. E con questa epocale mutazione, anche una inedita contiguità tra Politecnici e Accademie, tra ingegneri e professori di disegno architettonico, in una disputa che non poteva non coinvolgere l’avanguardia futurista di per sé votata a tale mutazione copernicana; non poteva non intercettare l’immaginario di un giovane e ambizioso capomastro edile diplomato all’Istituto “Castellini” di Como, appartenente alla generazione di Nervi e di tanti altri futuri maestri del Movimento Moderno. Voglio dire che anche prima della frequentazione della Scuola di Architettura a Brera (ben provvista di libri e riviste) o del diploma ottenuto dall’Accademia di Bologna, può aver influito su Sant’Elia, un profilo tecnico concreto, una fattiva chiarezza d’approccio, peraltro richiesta dal lavoro col quale nel frattempo si manteneva e che poteva emergere da riviste come il Monitore tecnico o Edilizia Moderna o come Il cemento. Rivista tecnica dei materiali da costruzione.
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Il ponte sulla Magra presso Caprigliola, realizzato dalla SACC su progetto di Attilio Muggia (da Illustrazione Italiana, 1908)
pagina a fronte Pubblicità della Società Sander e C. (da Annuario della edilizia moderna. Guida industriale, commerciale e professionale dei principali centri d’Italia, Milano, s.e., 1913-14)
In quest’ultima, ad esempio, mi pare di un certo interesse, quanto scrive nel 1908, il trentenne Arturo Danusso, in un articolo che si intitola Il cemento armato nella costruzione moderna2, nel quale rispetto al panorama degli anni di Giolitti e alle escrescenze architettoniche milanesi, romane o genovesi, le idee si svolgono con chiarezza, con una modernità quasi profetica. Scrive Danusso: “Il cammino delle costruzioni in cemento armato sulla via del progresso è continuo e incessante. Ben pochi ormai […] si ostinano a negare questo progresso […] e quello che poco tempo addietro pareva stranamente audace, è diventato oggi realtà, la più consueta e naturale”. Affrontando prima il rapporto tra genio costruttivo pratico e induzione scientifica — dietro le parole di Danusso traspare la sua collaborazione con l’ingegnere Giovanni Porcheddu e con il concessionario “maestro” Hennebique — si pronuncia a favore della concretezza della costruzione, dal momento che “la teoria da sola non può nulla nel campo costruttivo”. Il giovane ingegnere incentra quindi il discorso su “un altro lato della questione che è rimasto nell’ombra in questi tempi di fervore industriale”. Quasi costantemente accade che: Il progettista edotto dei sistemi antichi, più che del nuovo, rediga secondo quelli i suoi disegni e conceda poi di fronte all’economia, l’applicazione del cemento armato avendo cura di ricoprirlo e mascherarlo per modo che l’edificio rimanga sempre nell’aspetto esterno quale egli lo aveva prima ideato. Dopo che la storia dell’architettura ci ha insegnato costantemente che il rifiorimento dell’arte si ebbe sempre e soltanto quando la forma fu sincera nelle sue espressioni rispetto all’organismo costruttivo, non si può immaginare strazio maggiore nell’arte di fab-
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Il ponte Risorgimento a Roma in una cartolina pubblicitaria della Società Porcheddu Antonio Sant’Elia, Ponte coperto (Pinacoteca Civica, Como, A. 335)
bricare. Quello che noi osserviamo non è più che una maschera: le parti che sembrano portanti appiccicate; altre parti stranamente grosse e di aspetto resistente si riconoscono invece per vuote e sospese […]. È necessario mantenere spiccatamente nelle forme il carattere della nuova costruzione: assimilandola troppo alle opere in muratura si incorrerà nel pericolo di presentare come assurdi e quindi come sconci estetici, tutte le novazioni staticamente ardite che il calcestruzzo armato permette e alle quali d’altra parte non bisogna rinunciare, se si vuole essere veramente moderni.
Tra le assennate e aggiornate argomentazioni del giovane ingegnere nella rivista milanese e la realtà del costruito italiano e non solo italiano, in questo 1908, esistono ancora scarse corrispondenze. Anche nell’attività di Porcheddu o di Daniele Donghi, a meno di strutture prettamente industriali, le ossature cementizie sono nascoste e ancora domina una sorta di neobarocco cementizio, come è stato osservato3. Anche là dove l’impalcato cementizio si offre evidente, come nel ponte sulla Magra progettato da Attilio Muggia sul modello di similari manufatti del concessionario Hennebique, ma qui trattato ‘alla martellina’ per configurarlo alla stregua di una improbabile struttura lapidea e proprio nel 1908, presentato in gran pompa anche sulla Illustrazione italiana4. D’altronde largamente anche in Italia, si costruiva col calcestruzzo armato. Porcheddu era attivo ben oltre l’area torinese e genovese e, sempre sotto l’egida del “sistema Hennebique” (cui faceva riscontro il successo del “Monierbau” in area tedesca od anche spagnola e, tra molti altri, rimaneva attivo il brevetto Cottacin in quella francese), proprio
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nel 1908, si costituiva la Società SACC di Attilio Muggia e Leone Poggi, attiva prevalentemente nel centro Italia, coi capitali della più solida aristocrazia fiorentina5. Nell’area romana, accanto ai già sofisticati Cementi retinati Gabellini, con un cantiere sul Tevere, applicati da tempo, anche a barche barconi6, si affermava la neonata genovese Ferrobeton, destinata ad espandersi in più zone del Paese e nelle colonie e che insieme alla Porcheddu e alla SACC, potrà trovare larghissime occasioni nella ricostruzione di Reggio e Messina che subito s’annuncia fondamentale per il progresso di questa tecnica costruttiva e per quelle sperimentazioni antisismiche già avviate dopo il terremoto del 1905 nella Calabria centrale tirrenica7. Incentrando poi il discorso sull’area milanese (per la quale non si può che rimandare alla relazione di Ornella Selvafolta in questo stesso convegno e a molti altri suoi importanti lavori), basta osservare che Milano era la città più ricca di opere e di riviste tecniche che appunto commentavano e pubblicizzavano tali sistemi costruttivi con imprese come quelle dei Fratelli Vender, dell’Ing. Leonardi (dal 1908, Società italiana costruzioni e cementi armati), la Bianchi, Steiner & c., la Castiglioni, la Bölliger, la Bonomi, la Società Italiana Chini, la Odorico. La quale ultima tra molti lavori, aveva realizzato a Tunisi un silos da grano che per un difetto della fondazione, si era clamorosamente inclinato, rimanendo tuttavia integro nella sua struttura: le fotografie di questo incidente del 1906, avevano fatto il giro del mondo reclamizzando indirettamente l’affidabile monoliticità di quel sistema. Cose note si può osservare8. Gli studi hanno infatti svelato non solo la diffusione dei brevetti Hennebique e fatto intravedere la presenza di procedure costruttive autonome in Europa e negli Stati Uniti, anche nell’ambito della prefabbricazione delle residenze9 o di manufatti industriali. Presenti, più di quanto si è normalmente registrato anche nella brulicante industriosità italiana, specie in elementi realizzati a piè d’opera, come capriate, tettoie o parti di serbatoi e di silos; o come nel caso dei cementi retinati e dei natanti della romana Gabellini. A Torino dove precocemente si era prefabbricato col calcestruzzo10, a Milano, ma anche a Bologna e a Firenze con la SACC o appunto a Roma, l’inventiva compensava la piccola scala delle iniziative e si depositavano e si applicavano brevetti in questo senso. Dal 1908 al 1914, svariati casi di spicco si erano presentati sulla scena edilizia nazionale. Dalle molteplici soluzioni che si erano dibattute e si stavano dibattendo per la ricostruzione di Reggio e Messina, alla freccia clamorosamente ribassata del ponte risorgimento a Roma che con i suoi cento metri di luce11, per una decade manterrà il primato. Una forma slanciata che ritroviamo nei disegni di Sant’Elia, a meno naturalmente dei finti bugnati e delle mensole esornate che, nel clima patriottardo e celebrativo del 1911, erano sembrati opportuni per ambientare la moderna creatura di Hennebique e di Porcheddu. D’altronde c’era an-
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A. Sant’Elia, Casamento a gradoni, 1914, sezione (Pinacoteca Civica, Como, A. 347)
pagina a fronte I silos granari di Castellammare di Stabia costruiti dalla Ferrobeton (1911), in una immagine della metà degli anni venti, dopo il completamento della seconda batteria
che un’altra Italia, quella degli altiforni di Portoferraio (i primi nazionali al coke) e della Savigliano con le sue ardite carpenterie metalliche, quella di una batteria di silos a Castellammare di Stabia realizzati dalla Ferrobeton coi progetti dell’ingegner Mario Viscardini12 nel 1911 e poi ripetuti in quello e in altri porti della penisola, che non avevano bisogno di attributi e guarnizioni. Se forse poco potevano conoscersi i disegni di Tony Garnier e l’enfasi con la quale si ritraevano le acciaierie in primo piano e la diga sullo sfondo, a prefigurare il secolo che da poco s’era aperto, col 1914, vari ‘rumori’ venivano dal Werkbund e risuonavano nell’ambiente parigino (la lecorbusiana proposta Domino), un
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ambiente cui deve riferirsi — credo — il manifesto di Boccioni, ‘oscurato’ da Marinetti per non inimicare al movimento tutta la corporazione degli architetti e degli ingegneri, nel quale il pittore e scultore calabrese, poteva lodare la bellezza di un ferro chirurgico, di una nave, di una stazione, e il “magnifico sviluppo della meccanica”, preconizzando perfino spunti da streamlining americano. Del resto anche un anziano come Boito nella Nuova Antologia, quasi per testamento, poteva osservare che “la bellezza deve uscire naturalmente dall’organismo della cosa” senza aggiungere nulla che non sia necessario e, con spunti albertiani, che “deve somigliare alla bellezza del corpo umano, il quale tanto è più bello quanto più mostra evidenti al di fuori le sue qualità sostanziali, forza,agilità, durevolezza, salute”13. Sull’onda di un radicale approccio alla verità del costruito che contemporaneamente sostiene le proposte di un Le Corbusier, di un Gropius o di altri coetanei, possono riconoscersi nei disegni di Sant’Elia, dati tecnici e implicazioni non generiche. Se è vero che nella figura dell’architetto coesistono — come ancora Boito aveva osservato — tre diverse persone e cioè il disegnatore, l’ingegnere che fa i calcoli e il capomastro che costruisce, in questo caso agisce solo la prima di queste tre persone. Diversamente da quanto talvolta è stato osservato, penso si debba distinguere tra l’uno e l’altro disegno, tra lo schizzo innervato dalla forza del tecnigrafo e dal-
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G. Coppedè, disegno di progetto per il taglio del Colle di San Benigno tra Genova e Sampierdarena, c. 1907, fotografia d’epoca F. Barsotti (Centro di documentazione per la Storia, l’Arte e l’Immagine, DOCSAI, archivio fotografico, Genova) Teodoro De Anasagasti y Algan disegni di edifici monumentali da Architettura ed arti decorative in Italia e all’estero, Milano, Roberto Martinenghi, s.d.
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la “prospettiva del verme”14, tra lo scaturire di una prima idea formale (alla stregua, che so, di certi disegni di Mendelsohn, solo molto teoricamente connessi alle possibilità dei conglomerati cementizi) e una implementazione un poco più convinta. Oltre a quelli pubblicati a corredo del manifesto e scelti non casualmente, non sono molti i disegni che svelano una più fattiva concretezza e, come nella serie delle case a gradoni, l’avvio di una messa a punto progressiva, mirata al singolo edificio, secondo un procedere tipico del progetto che, dal generale al particolare, via via s’approssima al cantiere. Qui si intravede appena l’avvio di un tal processo. Afferma d’altronde Mario Chiattone, “pensavamo ad una architettura positiva realizzabile”15. Le linee orizzontali talvolta accennate negli schizzi e nettamente visibili nella tavole più definite, alludono ad un sistema costruttivo necessario per l’erezione di quelle enormi pareti in calcestruzzo, ad una prefabbricazione inevitabile praticamente, stanti i sistemi costruttivi e le tecnologie disponibili nel primo decennio del secolo, quando però a piè d’opera si realizzavano elementi piani o tridimensionali, come per i serbatoi o i silos, destinati ad essere montati in quota, o come nella realizzazione di natanti, anche di cospicuo tonnellaggio. Che Sant’Elia potesse aver pensato ad un sistema costruttivo industrialmente adatto a quelle sue creature, viene ipotizzato da Alberto Sartoris alla fine del suo ‘encomio’ del 193016: “Poteva benissimo aver pensato a lastre di cemento per chiudere la sue architetture”, scrive l’architetto e critico torinese, in risposta ad una osservazione di Robert van t’Hoff che aveva attribuito ad un artificio grafico, la ricorrente presenza di linee orizzontali. Sartoris pensa, credo, a lastre piane come quelle usate da Simon Boussiron nella stazione merci di Bercy nel 1910, alle lastre di amianto che Wilhelm Franck aveva brevettato in Germania, ai pannelli di Max Mannesmann, più che a liquide monogettate in calcestruzzo come quelle inventate da Edison17. Ovvero a tutta una serie di soluzioni da tempo presenti anche nella manualistica italiana18, diverse dalle linee che segnano l’intonaco delle case in Neustiftgasse e perfezionano l’elegante, economico impaginato wagneriano. Il fatto è che l’industrializzazione edilizia, che pure si affaccia promettente agli esordi del conglomerato cementizio armato, quasi come suo logico corollario, non troverà sviluppo in Italia, fungendo l’edilizia nel successivo ventennio da scolmatore di una disoccupazione endemica, con cantieri poco evoluti e popolatissimi di maestranze; confermandosi “la piccola tecnica”, per dirla con Poretti, anche nel Piano Fanfani e nella ricostruzione del secondo dopoguerra. E di conseguenza un tema poco praticato se non inevaso, con pochi studi retrospettivamente attenti a questa fase aurorale della prefabbricazione cementizia, almeno fino agli anni 1960 e dunque di fatto irriconosciuta, anche negli spunti che si sarebbero potuti riscontrare in “un costruttore estremamente abile — stando ancora a Sartoris — e precoce come Sant’Elia”. Si deve comunque osservare che l’occasione nella quale vengono mostrati i disegni della Cit-
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Gli altiforni di Portoferraio della Società Elba, in un album pubblicato dalla Società Nazionale Officine Savigliano nel 1914
tà Nuova, non era certamente adatta a puntualizzare tecniche costruttive, ad indugiare sulla costruibile economia di quei nostrali grattanuvole, sulla interna distribuzione o addirittura, come vorrebbe la faziosa rilettura Ragghianti, sulla considerazione che le passerelle di collegamento tra le torri degli ascensori e le residenze sarebbero state “diseconomiche”, servendo pochi appartamenti19. Se poteva forse avere un senso alludere ad una industria coinvolta nel fabbricare la città del futuro, sarebbe stato fuor di luogo scendere nei dettagli di quella utopia. Specie da parte di un impiegato della Società del canale Villoresi e poi dell’Ufficio tecnico del Comune di Milano, interessato a mostrarsi in panni diversi da quelli di un costruttore pratico del quotidiano. Tanto per mettere nel conto qualche cosa di diverso dall’immagine di “Nova York” riciclata dalla Illustrazione Italiana, e frequentemente proposta a supporto dell’immaginario urbano futurista, o il parimenti abusato classicismo etnico del padiglione ungherese all’Esposizione di Torino del 1911, la scala di tale dibattito la si trova in due articoli del Touring Club Italiano, una rivista che in quel momento stampa tra la 120 e le 160 mila copie, del giugno e del dicembre dello stesso 1914. Due articoli sulle città del passato e quelle dell’avvenire, dove sull’onda delle “anticipations” e del Risveglio del dormiente di H. George Wells, si ipotizza una metropoli
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solcata non solo dalle ferrovie o dal telegrafo, ma anche dalle nuove strade automobilistiche, da una fitta rete di fili telefonici, di tubi pneumatici per i pacchi […] insomma da un tessuto simile al sistema nervoso del corpo umano [per il quale] la stessa architettura dovrà corrispondere ai nuovi bisogni e alle nuove concezioni artistiche20.
Non è irrilevante osservare che l’autore dei due articoli, in una rivista aggiornata ma appunto diffusa, dove Mario Chiattone collabora come grafico, è Alessandro Schiavi. Personaggio di rilievo, come si sa, sociologo, socialista, funzionario della Società Umanitaria e poi direttore dell’Istituto Case popolari e assessore al Comune di Milano, ha da poco licenziato per Zanichelli Le case a buon mercato e le città giardino. Utile precisare anche, visto che lo Schiavi è generalmente poco ricordato in connessione con Sant’Elia, che in conclusione del secondo dei due articoli, si auspica che possa essere “tradotto nella realtà il postulato di uno degli espositori del gruppo Nuove tendenze”, prefigurandosi rapporti e contiguità ideologiche di un certo interesse21. A parziale correttivo di queste “anticipations”, bisogna d’altronde osservare che lo spirito del tempo non cospirava soltanto verso avveniristiche tensioni industriali, verso il tumulto di officine appese alle nuvole, di violente lune elettriche che incendiano i cantieri o verso locomotive che scalpitano. Una modernità un po’ da parvenu, inclinava di frequente anche al paradosso, al gigantesco, ad un’ansia monumentale quasi fisiologica. Se il richiamo a Cabiria, escogitato da Ragghianti, è irricevibile nei confronti di Sant’Elia, è tuttavia calzante per ritrarre quegli anni. Accanto ai grossi calibri della Duilio o della Giulio Cesare, moderna dreadnought della marina da guerra italiana, riprodotta in legno e gesso ad affiancare un altrettanto improbabile cantiere mediceo, la Mostra di Marina e di igiene marinara di Genova, allestita sulla spianata del Bisagno nella primavera del 1914, offriva in abbondanza prove di queste smanie. Di una monumentalità che dal gigantismo baracconesco delle mostre, anelava verso la stabilità della pietra, del mattone, del cemento. Penso a Sommaruga, per esempio, al mausoleo Faccanoni con l’ambiguità delle sue misure, o all’hotel Campo dei Fiori; a certi progetti di Giulio Ulisse Arata, che era peraltro partecipe del gruppo Nuove Tendenze, come la chiesa parrocchiale di Salsomaggiore cui ora lavora; penso allo stupefacente “masso erratico del mausoleo Sordi” o al “colossale conglomerato geologico scagliato da una mano titanica” del sarcofago Usigli di Aldo Andreani. Ovvero vengono in mente le più usuali escrescenze architettoniche della Nuova Borsa nel cuore pulsante della Genova degli affari che complice Porcheddu, nasconde nelle sue viscere tecnologie da primato col salone delle grida più grande d’Italia; escrescenze e incrostazioni di più condomini genovesi, milanesi (murati o solo proposti come il grattanuvole di Manfredini del 1909) o la monumentalità “arcirimbombantissima” di qualche ministero romano. Insomma un’ansia di visibilità, un rebo-
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ante neoeclettismo tipico del paesaggio giolittiano ma anche dell’Inghilterra edoardiana o di città come Buenos Aires; una misura qua e là riscontrabile nella Wagnerschule, in Emile Hoppe naturalmente, in Josef Fanta della stazione ferroviaria di Vinohradya Praga od anche, forse con più attinenza alla grafica santeliana, nei disegni del giovane Teodoro De Anasagasti y Algán, che svolge ora il suo pensionato tra Milano e Roma22. Anche se Antonio Sant’Elia, dall’Istituto tecnico comasco, a Brera, a Bologna, agli impieghi milanesi, aveva maturato un profilo più tecnico-costruttivo di quanto solitamente si considera (aveva studiato meno latino di altri muratori, per dirla con Loos), non poteva sottrarsi alla misura tassativa e monumentale che quel tempo attendeva e che la Città nuova doveva a suo modo offrire. Ritornando all’Atlantide del titolo e al senso di ieratica monumentalità cui accennavo, si può dire che questi anni prevedevano la contaminazione tra arcaismi e modernità, tra la fierezza per la misura di Roma e l’orgoglio dei grossi calibri della Giulio Cesare. Le triremi che galleggiavano nei laghi finti di qualche esposizione, coesistevano con le dighe possenti e con la meraviglia di gigantesche turbine. Alle avanzate tecnologie metallurgiche della Savigliano applicate alla prima acciaieria italiana al carbon coke, faceva riscontro lo stile medievale del Palazzo dei Merli, eseguito per Pilade Del Buono azionista della Società Elba, posto di fronte agli impianti siderurgici dalla parte opposta della darsena di Portoferraio23. In Italia La città nuova non poteva essere quella delle residenze operaie improntate ad un ridente carattere mediterraneo della città industriale di Tony Garnier, se pure si poteva condividere l’emozione per le attrezzature del porto o per il paesaggio della acciaieria. Manfredi Nicoletti, in una istruttoria su Sant’Elia tra le più equilibrate e credibili, fa appunto sbaluginare non solo Piranesi ma qualche suggestione ancora più arcaica, mastabe egizie o piramidi Maya24 che in questi anni emergevano all’attenzione. Tra molti primitivi da sempre non estranei alle avanguardie, queste forme elementari e potenti, appartengono alla sensibilità del primo decennio del Novecento, quasi come antidoto alla inconsistente leggerezza dell’Art Nouveau. In un epocale bisogno di far grande, danno impulso alle masse che Sant’Elia pensa opportune per la sua città, ad una ipotesi di massima per così dire, che solo in pochi casi aspira a qualche maggior definizione progettuale, ad un’idea di costruibilità, senza autorizzarci a trarre conclusioni impreviste e men che meno ad avanzare critiche sul fascinoso non finito di quei disegni.
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Note 1 C.L. Ragghianti, “Sant’Elia.Il Bibbiena del duemila”, Critica d’arte, 10, 1963, n. 56, p. 10. 2 A. Danusso, “Costruzioni in cemento. Il cemento armato nella costruzione moderna”, Il cemento. Rivista tecnica dei materiali da costruzione, 5, 1908, n. 2, pp. 29-31. 3 G. Zucconi, “L’avènement du béton armé en Italie”, in Attilio Muggia. Una storia per gli ingegneri, a cura di M.B. Bettazzi e P. Lipparini, Bologna, Editrice Compositori, 2010, p. 20. 4 Illustrazione Italiana, 35, 1908, n. 45, p. 443; La Nazione, 25 ottobre 1908; Touring Club Italiano, 14, n. 6, p. 288. 5 Per questa società, la sua storia e le sue carte, vedasi: L’archivio Bianchini, ingegnere e impresario. Un capitolo della storia del cemento armato in Toscana, a cura di G. Carapelli, Firenze, Mandragora, 2006 e G. Predari, G. Mochi, “La società Anonima per le Costruzioni Cementizie”, in Attlio Muggia…, cit., pp. 101-109. 6 A tacere della barca di Lambot realizzata come è noto nel 1848, si può osservare che ben prima dei brevetti e delle celebri realizzazioni di Nervi, l’impresa di Carlo Gabellini era impegnata nella costruzione di questi natanti. Già nel 1898 si era realizzato uno scafo di 7,60 metri e nel 1906 si era varato il Liguria da 150 tonnellate di stazza. Tra il 1907 e il 1908 la Marina Militare commissiona alla Gabellini, barconi da cento tonnellate a doppia parete. Sul Lago d’Iseo naviga un traghetto di 40 metri di lunghezza e si fanno cassoni galleggianti per moli e per ponti, anche da parte della SAAC di Muggia. Tra le tante sperimentazioni di questi anni, anche quella di una impresa parigina che ha realizzato una carrozzeria di automobile, con una amalgama di cemento e di sughero su rete metallica. Per un ragguaglio su Gabellini e su un settore che con la guerra avrà un certo sviluppo, vedi A. Danusso,“Navi in cemento armato”, Il Cemento. Rivista tecnica dei materiali da costruzione, XV, ottobre 1918, n. 10, p. 85. Più in generale: L.Ghilardi, Navi in cemento armato, Genova, Tipolitografia del Commercio, 1919; Cantieri romani del Novecento. Maestranze, materiali, imprese, architetti nei primi anni del cemento armato, a cura di G. Muratore, Roma, Archivio Guido Izzi, 1995. 7 Oltre a T. Iori, Il cemento armato in Italia dalle origini alla seconda guerra mondiale, Roma, Edilstampa, 2001, pp. 86-93 e passim, vedi C. Barucci, “Modelli e progetti di edilizia antisismica”, in Daniele Donghi. I molti aspetti di un ingegnere totale, a cura di G. Mazzi e G. Zucconi, Venezia, Marsilio, 2006, pp. 263-276. Tutte le maggiori imprese edilizie nazionali, dalla Porcheddu alla SACC (Muggia invia in zona il suo allievo Gino Zani) alla Ferrobeton sono coinvolte nella ricostruzione di Reggio e Messina. A proposito poi di quanto segue su Milano, si deve osservare che a Messina si realizzerà un “Quartiere Lombardo” e che la Società Cooperativa Lombarda, già nel 1909, bandisce un concorso per l’individuazione dei sistemi più opportuni per la ricostruzione delle città colpite dal sisma il quale suscita largo dibattito. 8 G. Delhmeau, L’invention du béton armé. Hennebique 1890-1914, Paris, Norma Editions, 1999; Iori, op.cit., pp. 74 e sgg; V. Fontana, “Il cemento armato. Innovazione e sperimentazione nell’età giolittiana”, in Daniele Donghi…, cit., pp. 357-367. 9 V. Chiaia, Prefabbricazione. Case unifamiliari prefabbricate di tutto il mondo, Bari, Leonardo da Vinci, 1963. 10 A. Dameri, “Il cemento armato e lo stile nuovo …Ecco lo stile nuovo come nasce! Non da arzigogoli senza senso; ma da razionali innovazioni!”, in Architettura dell’Eclettismo. Studi storici,rilievo e restauro, teoria e prassi dell’architettura, atti del 10° convegno di architettura dell’Eclettismo, Jesi, 25-26 giugno 2007, a cura di L. Mozzoni e S. Santini, Napoli, Liguori, 2012, pp. 207-240. Di specifico interesse il fatto che già nel 1899, in un padiglione della Esposizione di Torino dell’anno precedente, si allestisce il cantiere per preparare i pezzi, in stile gotico veneziano, da inviare a Parigi per L’Esposizione del 1900; ivi, pp. 220-222. 11 Il ponte suscita largo dibattito, per l’innovativo sistema “Compressol” adottato nelle fondazioni, per i brevetti dello stesso Porcheddu depositati nell’occasione, ma anche per le erronee previsioni di crollo avanzate da ingegneri tedeschi che daranno modo a Silvio Canevazzi, professore di Meccanica applicata alle costruzioni presso la facoltà di Ingegneria di Bologna e direttore di quella medesima Scuola d’Applicazione, di discutere e perfezionare le sue teorie sulla elasticità. 12 Per i silos da grano e da sale,da 200 mila quintali, e per altre realizzazioni, vedi Ferrobeton. Impresa generale di costruzioni Roma 1908-1933, Milano, Archeotipografica, s.d.; R. Parisi, Fabbriche d’Italia. L’architettura industriale dall’Unità alla fine del secolo breve, Milano, F.Angeli, 2011, p. 147. 13 Boito muore nello stesso 1914. Traggo da Fontana, op. cit., p. 366. Per quanto segue, sempre di C. Boito, cfr.“Rassegna artistica”, Nuova Antologia, 19, 1872, febbraio, pp. 415-416. 14 Su questa prospettiva forzata dal basso — “worm’s-eye view” — che Sant’Elia avrebbe appreso a Brera dal docente di Disegno e di Geometria proiettiva,Giuseppe Mentessi, vedi F. Irace, “Le archivisioni di Sant’Elia”, Il Sole 24 ore, 27 novembre 2016. Vedi anche P.Portoghesi, “Il linguaggio di Sant’Elia”, Controspazio, 3, 1971, n. 4-5, p. 27. 15 Chiattone, ventiduenne pittore e grafico, figlio di un tipografo primo collezionista di Boccioni, nel convincimento di un lavoro concreto e realizzabile fa trasparire con qualche immediatezza, le riserve con le quali Sant’Elia frequentava il gruppo dei futuristi. Vedi G. Veronesi, “Disegni di Mario Chiattone 1914-1917”, Comunità, 1962, n. 98, p. 47; L’opera di Mario Chiattone architetto. Mostra dei disegni d’architettura donati al Gabinetto disegni e stampe da Pia Chiattone, Pisa, 23 gennaio - 10 febbraio 1965, con testo critico di G.Veronesi, Pisa, Industrie grafiche V. Lischi, 1965, p. 5. 16 A. Sartoris, L’architetto Antonio Sant’Elia, Milano 1930. Per il volumetto tirato in sole 500 copie numerate e fuori commercio, si veda Alberto Sartoris, Sant’Elia e l’architettura futurista, Milano, Sapiens Ed., 1993.
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17 Oltre a Chiaia, op.cit., vedi E. Frateili, Storia breve della prefabbricazione, Istituto di Architettura e Urbanistica di Trieste, 1966. 18 Ad esempio la seconda edizione del manuale di C. Formenti, La pratica del fabbricare, Milano, Hoepli, 1909, documenta i sistemi Hennebique, Monier, Matrai, Cularow, Walzer-Gerard ecc., ed anche il “métal déployé” inventato dal signor Golding di Chicago, nel quale lamine di ferro fustellate e stirate in modo da formare un traliccio uniforme, armano lastre e pareti in calcestruzzo. Formenti accenna anche a travi e ad altri elementi gettati fuori d’opera e trasportati nei cantieri. 19 Ragghianti, op. cit., p. 15 e p. 18. Ma su questi pensieri e sulla tesi di una alterità dell’opera di Sant’Elia rispetto al Futurismo vedi E. Godoli, “Puntualizzazioni sull’opera di Sant’Elia e sul manifesto dell’architettura futurista”, in Il manifesto dell’architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità, atti della giornata di studio, Grosseto, 18 luglio 2014, a cura di M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi, Mantova, Universitas Studiorum, 2014. 20 A. Schiavi, “Città del passato e città dell’avvenire”, Touring club italiano, 20, 1914, n. 12, pp. 807-813. 21 Ivi, p. 813. 22 Due disegni del giovane spagnolo sono pubblicati nel primo volumetto di Architettura e arti decorative in Italia e all’estero, un fascicolo stampato a Milano da Roberto Martinenghi, s.d. (ma sicuramente posteriore al 1914), alle pp. 70 e 73. 23 M. Cozzi, “Coppedè all’isola d’Elba”, in Adolfo Coppedè agli esordi dell’Elba contemporanea, catalogo della mostra, Portoferraio, Villa San Martino / Galleria Demidoff, 13 luglio - 15 ottobre 2011, a cura di L. Brancaccio, Livorno, Sillabe, 2011, pp. 18-39. Le avveniristiche attrezzature delle acciaierie, compaiono nei cataloghi della Società Nazionale Officine Savigliano, Types des constructions métalliques, s.l., 1914. 24 M. Nicoletti, L’architettura liberty in Italia, Bari, Laterza, 1978, p. 381.
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Lisa Hanstein
Dinamico nel reagire ai cambiamenti della vita circostante, il Futurismo non solo accolse in modo entusiasta la trasformazione delle metropoli, ma alcuni futuristi si fecero proclamatori di una sensibilità nuova. Questa nuova sensibilità era il prodotto, tra le altre cose, del ritmo più veloce della vita moderna, vissuta nelle grandi città. Già nel loro primo manifesto, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla e Gino Severini insistono su come la vita pulsante della metropoli abbia effetto sui suoi abitanti: È vitale soltanto quell'arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda. Come i nostri antenati trassero materia d’arte dall’atmosfera religiosa che incombeva sulle anime loro, così noi dobbiamo ispirarci ai tangibili ed ai miracoli della vita contemporanea […] E possiamo noi rimanere insensibili alla frenetica attività delle grandi capitali, alla psicologia nuovissima del nottambulismo, alle figure febbrili del viveur, della cocotte, dell’apache e dell’alcolizzato?1.
Così anche Antonio Sant’Elia auspica da principio — prima nel suo cosiddetto Messaggio, pubblicato nel catalogo della Prima esposizione d’arte del gruppo Nuove Tendenze a Milano nel 1914, e poco dopo nel suo manifesto dell’Architettura futurista — un’architettura nuova “che abbia la sua ragione d’essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna, e la sua rispondenza come valore estetico nella nostra sensibilità”2. Con questo contributo vorrei aggiungere una nota agli studi su Sant’Elia analizzando il suo interesse per i “miracoli della vita contemporanea”3 e per le “condizioni speciali della vita moderna”4, inclusi alcuni fenomeni occulti molto popolari all’inizio del secolo. Per fare ciò è utile dare prima uno sguardo all’impatto dell’occultismo, già percepibile nelle prime idee di architettura futurista pubblicate in riviste sicuramente note a Sant’Elia, per poi considerare alcuni contributi sulla città futura della rivista fiorentina L’Italia Futurista, nota per aver dato ampio spazio ad argomenti esoterici5, che potrebbero essere osservati in rapporto al pensiero di Sant’Elia. Concludendo, si proporrà l’ipotesi che il contesto occultista abbia influenzato la produzione santeliana6.
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pagina a fronte M. Carli, “Vulganizziamo le grandi città!” L’Italia Futurista, 1, 1916, 6, p. 2 E. von Haynau, Che colpa ne ho io? Quel salotto era stranamente vitalizzato. Ecco tutto illustrazione per B. Corra, Sam Dunn è morto. Romanzo sintetico futurista, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1917, tra p. 32 e p. 33
La rivista come trampolino per nuove visioni Contrariamente all’idea molto diffusa che l’architettura sia diventata uno dei temi trattati dal Futurismo solamente a seguito del lancio del manifesto dell’Architettura futurista di Sant’Elia7, le prime riflessioni teoriche sull’architettura futurista vennero già elaborate da Umberto Boccioni ed Enrico Prampolini8. Fu meno incisivo il manifesto L’Architettura futurista9, scritto da Boccioni nel 1914, rispetto ad alcuni dei suoi contributi sulla scultura, che fornirono invece un impulso importante per lo sviluppo dell’architettura in ambito futurista. Particolarmente determinanti, in questo senso, furono il Manifesto tecnico della scultura futurista (11.4.1912) e gli articoli “Fondamento plastico della scultura e pittura futuriste” (15.3.1913) e “La scultura futurista” (1.7.1913) pubblicati da Boccioni nella rivista fiorentina Lacerba10. Le idee boccioniane si ritrovano tra l’altro nell’articolo “Anche l’architettura futurista… E che è?” di Prampolini, pubblicato nel quotidiano Il piccolo Giornale d’Italia (29-30.1.1914), che può essere considerato un “primo Manifesto futurista sull’architettura”11. Non fu solo l’importanza che Boccioni diede nei suoi scritti all’architettura oppure la sua definizione di un’“architettura spiralica”12 a riecheggiare negli studi di alcuni architetti futuristi. Nel suo articolo “Fondamento plastico della scultura e pittura futuriste” (15.3.1913), Boccioni sottolineò che “bisogna modellare l’atmosfera” e mise in luce l’importanza delle “nuove certezze” fornite “dalla scienza”, la quale porterebbe, secondo l’artista, a “una ultra-sensibilità sorta con le nuovissime condizioni di vita createci dalle scoperte scientifiche”13, aspetti che emergono anche nel manifesto di Sant’Elia. Che agli occhi di Boccioni le “scoperte scientifiche” si mischiassero con fenomeni dell’occultismo e che quest’idea fosse condivisa da altri artisti e futuristi è stato ormai messo bene in evidenza dagli studi14. Le considerazioni svolte da Boccioni a proposito di una “nuovissima sensibilità”, determinata dai progressi scientifici, sono applicate nelle sue parole anche a manifestazioni di “architettura meccanica, vita notturna, vita delle pietre e dei cristalli, occultismo, magnetismo, velocità ecc”15. Osservazioni che all’epoca furono riprese anche dalla rivista fiorentina L’Italia Futurista, che nasce a Firenze nel giugno 1916 dopo la chiusura di Lacerba, attirando “l’attenzione di tutti gli audaci verso quella zona meno scandagliata della nostra realtà che comprende i fenomeni del medianismo, dello psichismo, della rabdomanzia, della divinazione, della telepatia […]”16. Non vorrei riprendere qui la ben nota discussione sulla notevole importanza assunta dalle riviste nella discussione e nella diffusione delle novità entro il Futurismo17, e credo che sia sufficiente sottolineare due aspetti: primo, le riviste e i quotidiani dell’epoca costituirono delle fondamentali sedi di discussione e degli importanti trampolini di lancio per le nuove idee; secondo, già da que-
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sta veloce panoramica sulle dinamiche di formazione dell’architettura futurista, vediamo che il mito creato da Marinetti su Sant’Elia quale unico architetto futurista non sia sostenibile18. Alla luce del ruolo fondamentale delle riviste sorprende il fatto di non trovare alcuna reazione diretta, espressa sotto forma di articolo o contributo presso Lacerba, al lancio del manifesto santeliano. Molto probabilmente, fu così anche a causa dello scoppio immediatamente successivo della Prima Guerra mondiale, la quale avrebbe costituito uno degli argomenti principali dei successivi numeri della rivista. Una gran parte dei contenuti di L’Italia Futurista fu dedicata alla guerra, ma apparentemente vi era un certo interesse anche per l’architetto comasco da parte dei collaboratori della rivista19. Già dal terzo numero di L’Italia Futurista viene aggiunto in testata un riferimento a l’architettura futurista. Quest’interesse per l’architettura riecheggia anche in alcune visoni metropolitane, ideate da Mario Carli, Rosa Rosà, Primo Conti e Volt (Vincenzo Fani Ciotti), presentate brevemente di seguito. La città futura evocata in L’Italia Futurista Molto diverse l’una dall’altra, queste visioni di una città nuova ed elastica sono collegate dalla concezione santeliana di un’architettura “nuova come è nuovo il nostro stato d’animo”. La proposta di Mario Carli per esempio, così come espressa nel suo articolo “Vulganizziamo le grandi città!”20, può risultare alquanto sconcertante al giorno d’oggi, a causa della sua
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pagina a fronte P. Conti, “Il Somaro e l’architettura” L’Italia Futurista, 3, 1918, 38, p. 1
descrizione entusiasta della guerra; tuttavia, essa illustra alla perfezione come anche la guerra venisse considerata un aspetto della vita moderna, capace di rinnovare lo stato d’animo umano21. Infatti, secondo la visione di Carli, dopo le esperienze vissute in una dinamica e pericolosa atmosfera come quella del fronte, le città possono sembrare solo monotone e troppo comode. L’autore esprime quindi il desiderio di veder sorgere delle città simili a vulcani e le vuole “veder vivere di vita magica e camaleontica, sprofondarsi e rinascere, cambiar forma e riflessi nelle diverse ore del giorno e della notte, contenere tutti gli istinti i capricci le fantasticherie e le ferocie di una immensa macchina pensante e robusta”22. Si potrebbe dire che nella sua visione delle città come “vulcani pericolosi” e come “infernalmente rumoristiche” — in cui inoltre viene attribuita alle macchine la capacità di pensare — Carli non solo ricordi, ma vada anche oltre la famosa frase santeliana “Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile a un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca”23. L’autrice e artista austriaca Rosa Rosà (Edyth von Haynau) descrive la città come un’entità agile e dinamica, ma si concentra maggiormente sulle energie invisibili emanate dai suoi abitanti. In “Moltitudine”24, l’autrice crea una visione della città come un “centro di tentacoli diramati nella lontananza” che dimostra da vicino una “convulsione compressa e irradiazione di vitalità nell’atmosfera. In ondate quasi visibili, l’emanazione dei cervelli, la coscienza dei valori, le passioni acute galleggiano nello spazio”. Rosà visualizza con le sue parole le energie invisibili scoperte (ossia: ipotizzate) all’epoca dalla scienza e dallo spiritismo. “Il cuore della città durante il giorno” si presenta secondo Rosà come un “centro ciclonico che aspira e risoffia lontano milioni di atomi vivi in un vortice incessante. Lavoro. Non si mangia non si dorme non si ama. Intelligenza pura […] Non c’è posto per i deboli. Cervelli prolungati in una gigantesca ragnatela di fili elettrici”. Rosà condivise quindi l’interesse di alcuni pittori futuristi — come Balla, Boccioni, Romani e Ginna — e cercò di visualizzare le nuove scoperte e le energie invisibili sia nei suoi scritti che nelle sue opere grafiche, come per esempio nella sua illustrazione Che colpa ne ho io? Quel salotto era stranamente vitalizzato. Ecco tutto per il romanzo sintetico futurista di Bruno Corra Sam Dunn è morto25. Completamente diversa si presenta invece l’idea del giovane pittore Primo Conti nel suo scritto “Il Somaro e l’architettura”26 dove sostiene che “[l]e nostre città italiane sono oggi come donne magnifiche, deturpate e impoverite da un amante che non le ha sapute capire, e che non capirà mai se non riuscirà ad acutizzare le sue forze istintive”. Proseguen-
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pagina a fronte Volt, “Del Funambolismo obbligatorio o Aboliamo i piani delle case” L’Italia Futurista, 3, 1918, 37, p. 3
do, anche Conti si sofferma sull’importanza di rispettare i cambiamenti legati alla nuova realtà, poiché: “Tutte le costruzioni dell’epoche antiche hanno trovato riscontro nella vita e nelle opere spirituali di chi le aveva create, proprio perché nate da un’istintiva necessità del loro terreno con la loro vita”. Con ciò riprende il pensiero ricordato inizialmente di Sant’Elia che un’architettura nuova “abbia la sua ragione d’essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna”. Conti propone inoltre di “creare un’architettura istintiva” con la quale “il futurismo varerà la perpetua evoluzione della sua vita nel calore di una giovinezza infinita e della salute più florida”. Con l’idea della giovinezza infinita, Conti si trova vicino a Marinetti, che sognò l’“uomo moltiplicato” che “non conoscerà la tragedia della vecchiaia!”27. Nel suo contributo “Del Funambolismo obbligatorio o Aboliamo i piani delle case”28, Volt introduce invece una “futura architettura in libertà”. L’autore spiega che “l’abolizione dei piani delle case non è infatti suggerita solamente dal culto della Asimmetria — primo canone della architettura futurista — ma da ragioni ponderate e validissime di igiene e di morale”. Con ciò Volt evoca l’immagine molto dinamica ed elastica di una città nella quale “Molle gigantesche lanceranno le dame a 50 m. di altezza, deponendole poi incolumi fra le braccia dei rispettivi cavalieri. Si intende che nella casa futura le scale non avranno più ragione di esistere. I toboga e le montagne russe le sostituiranno vantaggiosamente. Il funambolismo quotidiano ed obbligatorio infonderà salute ed allegria agli uomini dell’avvenire”. Con queste proposte, Volt porta all’estremo l’idea santeliana espressa nel suo manifesto, di disfarsi delle scale inutili, sostituirle con ascensori e introdurre delle “passerelle metalliche”e “velocissimi tapis roulants”29 per la congiunzione dei diversi piani del traffico. Volt sostiene inoltre che il “funambolismo”, che nella sua idea di architettura in libertà è “obbligatorio”, non solo farà bene alla salute degli abitanti, ma migliorerà anche la loro morale. La vicinanza delle visioni di una città nuova, elastica e continuamente in movimento, di Carli, Rosà, Conti e Volt a quella di Sant’Elia potrebbe costituire un argomento a favore per l’ipotesi, espressa da Giacinto Cerviere, di un possibile interessamento dell’architetto comasco ad aspetti spiritici, dato il profondo interesse dei collaboratori di L’Italia Futurista per i fenomeni occulti. Le visioni presentate prima sono apparentemente accomunate dall’interesse per i fenomeni della vita moderna e per la “nuova sensibilità”, descritta da Boccioni nel già menzionato articolo in Lacerba, che fu fondamentale anche per Sant’Elia30. Vediamo quindi quali furono le ragioni che determinarono lo sviluppo di questo nuovo “stato d’animo”, strettamente legato alla nascita della metropoli moderna.
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La nuova sensibilità degli abitanti delle metropoli Agli inizi del XX secolo l’esperienza sensoriale dell’uomo moderno si rinnova: la scoperta delle energie invisibili e delle forze della natura, infatti, rivela la limitatezza della percezione sensoriale umana. Scoperte come i raggi Röntgen e la radioattività suggeriscono l’immagine di uno spazio riempito di onde e di linee di varia natura. In concomitanza con l’esplorazione di questi fenomeni, per la prima volta, l’indagine dell’anima umana diviene un nuovo ramo di ricerca. Il Positivismo fino a quel momento dominante perde di significato e viene messo in discussione, alla luce del nuovo ruolo rivestito dall’inconscio rispetto alla supremazia della ragione31. I futuristi abbracciavano con grande entusiasmo il progresso ambientale della nuova epoca e la mutata percezione di Spazio e Tempo32. Inoltre, a differenza degli altri avanguardisti, i futuristi avevano ben chiaro il loro scopo, ossia quello di creare un nuovo mondo reale futuristico33, senza per altro mettere in dubbio il fatto di possedere le capacità necessarie per realizzarlo. Nel loro manifesto La pittura futurista — Manifesto Tecnico del 1910 mettono in relazione la loro aumentata capacità percettiva con le potenzialità dei raggi Röntgen: Chi può credere ancora all’opacità dei corpi, mentre la nostra acuita e moltiplicata sensibilità ci fa intuire le oscure manifestazioni dei fenomeni medianici? Perché si deve continuare a creare senza tener conto della nostra potenza visiva che può dare risultati analoghi a quelli dei raggi X?34.
Questa aumentata capacità strettamente collegata ai cambiamenti dello stile di vita, e sentita più che altro nelle metropoli, è ciò che permette agli artisti di creare opere innovative. Nel quinto punto del suo manifesto, Sant’Elia riprende quasi testualmente la pretesa dei pittori futuristi citata inizialmente, nel campo dell’architettura: come gli antichi trassero l’ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi — materialmente e spiritualmente artificiali — dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico che abbiamo creato, di cui l’architettura deve essere la più bella espressione, la sintesi più completa, l’integrazione artistica più efficace35.
E in effetti l’uomo moderno vive nelle grandi città, con le loro gigantesche costruzioni, il traffico crescente, le irrequiete masse di persone e non da ultimo il nuovo tipo di umanità, esposta senza tregua agli stimoli esterni, che ne cambiano la percezione e la sensibilità. L’architetto futurista Virgilio Marchi proclamò nel 1921 che “[l]a città futurista renderà i cervelli più elastici e attivi […]”36. Ma già nel 1903 Georg Simmel aveva definito “il tipo delle individualità metropolitane”, che si differenzia molto dall’uomo di campagna e che sembra confermare le osservazioni futuristiche: “la sua base psicologica”, scrive Simmel, “è l‘intensificazione della vita nervo-
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sa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori”37. Come si debba immaginare questa stimolazione ci viene spiegato ancora da Simmel: L’uomo è un essere che si distingue, il che significa che la sua coscienza viene stimolata dalla differenza fra l’impressione del momento e quella che procede; le impressione che perdurano, che si differenziano poco, o che si succedono e si alternano con una regolarità abitudinaria, consumano per così dire meno coscienza che non l’accumularsi veloce di immagini cangianti, o il contrasto brusco che si avverte entro ciò che si abbraccia in uno sguardo, o ancora il carattere inatteso di impressioni che si impongono all’attenzione38.
In modo molto concreto, egli attribuisce questo effetto alla metropoli, in quanto: crea proprio queste ultime condizioni psicologiche — ad ogni attraversamento della strada, nel ritmo e nella varietà della vita economica, professionale, sociale — essa crea già nelle fondamenta sensorie della vita psichica, nella quantità di coscienza che si richiede a causa della nostra organizzazione come esseri che distinguono, un profondo contrasto con la città di provincia e con la vita di campagna, con il ritmo più lento, più abitudinario e inalterato dell’immagine sensorio-spirituale della vita che queste comportano39.
Anche Sant’Elia cerca di trasmettere questa nuova sensibilità attraverso i suoi studi architettonici dal momento che, a differenza di altri “giovani architetti italiani”, egli tiene conto del “caleidoscopico apparire e riapparire di forme, il moltiplicarsi delle macchine, l’accrescersi quotidiano dei bisogni imposti dalla rapidità delle comunicazioni, dall’agglomeramento degli uomini, dall’igiene e da cento altri fenomeni della vita moderna”40. Nonostante le reti di comunicazione e di trasporto perfettamente progettate da Sant’Elia, rimane prioritaria la sua idea di elastica trasformabilità della struttura cittadina. Infatti, nelle costruzioni dinamiche di una città nuova, Sant’Elia giunge a una fusione tra aeroporti e stazioni; inoltre, le strade previste su più livelli permettono una pressoché sconfinata crescita delle città, del loro numero di abitanti e del traffico. Le mutate condizioni ambientali nelle metropoli dell’era industriale hanno avuto sicuramente un impatto produttivo sul pensiero e sull’azione degli artisti futuristi. Inoltre, si è ipotizzato un collegamento diretto tra l’accrescimento delle città con una sensibilità o predisposizione per lo spiritismo, considerando l’industrializzazione e l’urbanizzazione come causa di fenomeni d’estraniazione che avrebbero favorito un interesse per fenomeni paranormali41. Sant’Elia — un architetto-medium? Appare in tal senso molto interessante l’approccio di Giacinto Cerviere, che traccia una linea diretta dal contesto pre e post-avanguardistica, con il comune interesse per l’occulto, alla produzione sia teorica che progettuale di Sant’Elia42. Già nel suo libro Antonio Sant’Elia. La mia prospettiva interiore del 2004, Cerviere allude a un possibile interessamento di Sant’E-
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lia per i fenomeni occulti43. Un’ipotesi che si sarebbe consolidata dieci anni dopo nel suo articolo “Antonio Sant’Elia. Fluidi, architettura e Futurismo esoterico”44, nel quale Cerviere colloca Sant’Elia nell’ambiente esoterico futurista, sottolineando, tra l’altro, non solo l’uso delle parole “spiritualità” e “spirito” nel manifesto dell’Architettura futurista di Sant’Elia, ma anche il passato simbolista dell’architetto e il suo interesse nel visualizzare fluidi visibili e invisibili. Cerviere cita il settimo punto del Manifesto: “Per architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito”45. Ritengo però azzardato una parificazione dell’al di là con il “mondo dello spirito” evocato nel manifesto santeliano. Il concetto di Sant’Elia di una “nuova sensibilità” si concentra per lo più sulla necessità di rinnovare lo spirito, cioè le proprie idee, e di rendere queste più elastiche, per poter rappresentare una realtà moderna e mutata anche nell’architettura proiettandole nel mondo reale. Con ciò anche Sant’Elia, com’è stato scritto da Claudia Lamberti relativamente a Marchi, ha proposto “un intervento radicale di ricostruzione dello scenario metropolitano, consono all’intensa attività nervosa e alla mentalità innovatrice dell’uomo futurista”46. Esaminando i contenuti del Messaggio e del Manifesto santeliani assieme ad un progetto realizzato da Sant’Elia nel 1912 per il Nuovo Cimitero di Monza, si potrebbe essere tentati di classificare anche il disegno per il cimitero tra gli esperimenti di quei futuristi che subirono il fascino delle nuove tendenze esoteriche e cercarono di rappresentare le forze invisibili all’interno della loro arte, come, per esempio, fece anche Rosa Rosà, tuttavia il progetto per il Nuovo Cimitero di Monza sembra costituire un’eccezione all’interno dell’opera complessiva di Sant’Elia. Sant’Elia era senz’altro consapevole dell’attrazione per l’India da parte dei Viennesi47, il che potrebbe essere un indicatore a favore dell’ipotesi che anche l’architetto comasco sentisse la fascinazione della teosofia e dello spiritismo ad essa collegato, come tanti studiosi e artisti nella Vienna intorno al 190048. È plausibile ritenere che un artista di quest’epoca, così ricca di scoperte sorprendenti, possa aver nutrito un interesse verso i fenomeni paranormali. In più era amico del pittore Romolo Romani49, che recepì le idee di Boccioni e fu influenzato dalle tendenze occulte e spiritistiche circolanti a Milano50, e trasferì le sue esperienze nelle sue opere. Tuttavia, nel caso di Sant’Elia, mi sentirei di avanzare maggiori dubbi. Facendo parte del gruppo futurista, sicuramente avrà avvertito il potenziale di queste scoperte, ma non ritengo che egli credesse davvero — come altri futuristi — in un rinnovamento vero e proprio delle capacità sensoriali secondo un’evoluzione spiritistica che permetterebbe agli “architetti-medium” di vedere oltre la realtà visibile51.
antonio sant’elia e l’elasticità della nuova città • lisa hanstein
Note 1 U. Boccioni et al., Manifesto dei pittori futuristi, 11 febbraio1910. 2 A. Sant’Elia, L’Architettura futurista, 1 luglio 1914. Sant’Elia, testo senza titolo del catalogo della mostra di Nuove Tendenze, Milano 1914, altrimenti noto come il Messaggio, ripubblicato in Il manifesto dell’architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità, atti della giornata di studi (Grosseto, 18 luglio 2014), a cura di M. Giacomelli, E. Godoli e A. Pelosi, Mantova, Universitas Studiorum, 2014, pp. 9-12. Per un approfondimento sul contenuto dei testi santeliani si rimanda a E. Godoli, “Puntualizzazioni sull’opera di Antonio Sant’Elia e sul Manifesto dell’architettura futurista“, ivi, pp. 21-46: 22-29. 3 Boccioni et al., op. cit. 4 Sant’Elia, L’Architettura…, cit. 5 Sull’importanza dell’occultismo si vedano,per il gruppo in generale, S. Cigliana, Futurismo esoterico. Contributi per una storia dell’irrazionalismo italiano tra Otto e Novecento, Critica e letteratura n. 33, Napoli, Liguori, 2002, pp. 269-296, e, per il contributo femminile in particolare, V. Mosco, Donna e futurismo, fra virilismo e riscatto, Firenze, Centro editoriale toscano, 2009, pp. 87-133. 6 La teoria è avanzata da G. Cerviere, “Antonio Sant’Elia. Fluidi, architettura e Futurismo esoterico”, Cameracronica Magazine, 6, 2014, pp. 11-14: 12. 7 Il manifesto fu pubblicato il 1° luglio 1914 dalla rivista fiorentina Lacerba. 8 La controversia sugli sviluppi dell’architettura futurista è messa a fuoco da E. Godoli, “Architettura”, Il dizionario del futurismo, Firenze, Mart — Vallecchi, 2002, a cura di E. Godoli, vol.1, pp. 41-53: 41-44. 9 Il manifesto, per l’appunto, rimase inedito fino al 1972; vedi E. Godoli, “Die Grossstadtimaginationen der Futuristen und ihre Bezüge zu den internationalen Avantgarden”, in Futurismus. Kunst, Technik, Geschwindigkeit und Innovation zu Beginn des 20. Jahrhunderts, Kultur und Technik n. 32, a cura di I. Chytraeus-Auerbach e G. Maag, Berlin, LIT Verlag, 2016, pp. 115-129, 117. 10 U. Boccioni, “Fondamento plastico della scultura e pittura futuriste”, Lacerba 1, 1913, 6, pp. 139-140. Boccioni, “La scultura futurista”, Lacerba, 1, 1913, 13, pp. 51-52, 51. L’articolo “La scultura futurista” era talmente importante che fu ripubblicato, con pochi cambiamenti, in L’Italia Futurista, 1, 1916, 6, p. 2. 11 Come sostiene,tra gli altri, Godoli, “Architettura”, cit., p. 41. 12 Citato da Boccioni, “La scultura futurista”, cit., p. 140. 13 Boccioni, “Fondamento…”, cit., p. 51. 14 Dopo le prime osservazioni di C. Baumgarth, Geschichte des Futurismus, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1966, p. 132, M. Calvesi, “Penetrazione e magia nella pittura di Balla”, Arte moderna 5, 1967, 40, pp. 121-160 e G. Celant, “Futurismo esoterico”, Il Verri 33/34, 1970, pp. 108-117, furono soprattutto la mostra Okkultismus und Avantgarde. Von Munch bis Mondrian 1900-1915 (Frankfurt 1995) e il relativo catalogo a cura di V. Loers ad aprire la strada agli studi successivi. In Italia si distinguono le pubblicazioni di Cigliana, op. cit. e F. Galluzzi,“Biologia degli spiriti. Implicazioni del dinamismo futurista”, Letteratura & arte. Rivista annuale, 12, 2014, pp. 99-131. Per una bibliografia più completa rimando a L. Hanstein, Der Geist der Moderne. Die verborgene Seite des italienischen Futurismus, Frankfurt 2015, pp. 9-17 e pp. 29-38. Non è da trascurare il fatto che l’interesse dei futuristi verso i fenomeni non spiegabili si basasse sulla convinzione che l’occultismo costituisse una nuova scienza, “occulta” solo in quanto non ancora dimostrabile con metodi empirici. Della stessa convinzione erano anche numerosi scienziati di alto livello: Priska Pytlik nomina,per esempio, William Crookes, Albert von Schrenck-Notzing, Max Dessoir, Cesare Lombroso, Charles Richet, Henri Bergson, Pierre e Marie Curie e Camille Flammarion, vedi P. Pytlik, Okkultismus und Moderne. Ein kulturhistorisches Phänomen und seine Bedeutung für die Literatur um 1900, Paderborn, Schöningh, 2005, pp. 71-72. 15 Boccioni, “Fondamento…”, cit., p. 51. 16 Citato dal manifesto La scienza futurista (antitedesca-avventurosa-capricciosa-sicurezzofoba-ebbra d’ignoto), firmato da Bruno Corra, Arnaldo Ginanni, Remo Chiti, Emilio Settimelli, Mario Carli, Oscar Mara e Nannetti, pubblicato in L’Italia futurista, 1, 1916, 2, p. 1. 17 Si rimanda a C. Salaris, Storia del futurismo. Libri giornali manifesti, Roma, Editori Riuniti, 1992, per una breve panoramica; per le riviste fiorentine vedi Firenze futurista 1909-1920, atti del convegno di studi (Firenze, 15-16 maggio 2009), Firenze, Polistampa, 2010, a cura di G. Manghetti. 18 Come ha sottolineato anche Godoli, “Puntualizzazioni…”, cit, pp. 39-42. Ciononostante, questo mito venne rinforzato, a più di dieci anni dalla morte dell’architetto comasco, attraverso la fondazione di nuove riviste quali La città futurista, Sant’Elia e La città nuova. Sin dai titoli, è chiaro come le riviste celebrino l’architetto Sant’Elia e i suoi progetti per una città nuova. 19 L’interesse viene confermato dalla presenza di ben tre articoli e otto annunci presso le pagine di L’Italia Futurista. Come dimostrato durante il convegno,per una tale ricerca risulta molto utile l’archivio online Pro Firenze Futurista (http://futurismus.khi.fi.it), ideato dalla biblioteca del Kunsthistorisches Institut in Florenz — Max-Planck-Institut in collaborazione con la Biblioteca Marucelliana, la Fondazione Primo Conti, il Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux e la Fondazione Longhi, che offre, fra l’altro, la possibilità di effettuare una ricerca di persone. 20 Citato qui e in seguito da M. Carli, “Vulganizziamo le grandi città!”, L’Italia Futurista, 1, 1916, 6, p. 2. L’articolo porta la dedica“A Umberto Boccioni”. 21 Vedi anche Godoli, “Die Grossstadtimaginationen…”, cit., p. 123.
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
Carli, op. cit. Sant'Elia, L’Architettura…, cit. Citato qui e in seguito da R. Rosà, “Moltitudine”, L’Italia Futurista, 2, 1917, 9, p. 3. 25 L’immagine si trova tra le pp. 32-33 in B. Corra, Sam Dunn è morto. Romanzo sintetico futurista, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1917. 26 Dedicato “a Marinetti per le nostre città future”, citato qui e in seguito da P. Conti, “Il Somaro e l’architettura”, L’Italia Futurista, 3, 1918, 38, p. 1. 27 Vedi F. T. Marinetti, “L’uomo moltiplicato e il Regno della macchina” (1910), nuova edizione Teoria e invenzione futurista, a cura di Luciano de Maria, Verona, Mondadori, 1968, pp. 256-257. Marinetti, seguendo Lamarck, descrive nello stesso testo l’evoluzione come una possibile trasformazione dell’uomo collegata alla dottrina dello spiritismo. 28 Citato qui e in seguito da Volt, “Del Funambolismo obbligatorio o Aboliamo i piani delle case”, L’Italia Futurista, 3, 1918, 37, p. 3. 29 Sant'Elia, L’Architettura…, cit. 30 Sant’Elia proclamò, a questo proposito, che l’architettura “[…] deve essere nuova come sono nuovi il nostro stato d’animo e le contingenze del nostro momento storico”, vedi Sant'Elia, Messaggio…, cit., p. 14.e Sant'Elia, L’Architettura…, cit. 31 Pytlik op. cit., p. 11. 32 H. Schmidt-Bergmann, Futurismus. Geschichte, Ästhetik, Dokumente (Rowohlts Enzyklopädie n. 535), Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1993, p. 197. 33 Ivi, p. 19. 34 Boccioni et al., op. cit. 35 Sant'Elia, L’Architettura…, cit. 36 V. Marchi,“Scenografi a futurista”, Cronache d’attualità, 5, 1921, agosto-settembre-ottobre,pp. 94-99: 98. Vedi anche Hanstein, “Lichterglanz und Klangkulisse futuristischer Großstadtvisionen”, in Großstadt. Motor der Künste in der Moderne, a cura di Burcu Dogramaci, Berlin, Gebr. Mann, 2010, pp. 113-126 e Godoli, “Die Grossstadtimaginationen…”, cit., p. 124, dove è tracciata una linea risalente all’archetipo del Luna Park. 37 G. Simmel, “Die Großstädte und das Geistesleben” (1903), nuova traduzione, Le metropoli e la vita dello spirito, a cura di P. Jedlowski, Roma, Armando Editore, [1995], pp. 35-57: p. 36. Una descrizione molto simile si può ritrovare anche nello scritto di T. Van Doesburg, “Kunst — en Architectuurvernieuwing in Italie. Stad en Woning”, Het Bouwbedrijf, 6, 1929, 13. Vedi anche Godoli, “Die Grossstadtimaginationen…”, cit., pp. 115-116. 38 Simmel op. cit., p. 36. Simmel descrive un uomo moderno elettrico, veloce e stimolato dalle metropoli — simile a quello futurista. La percezione della città come caratterizzata da una sovrabbondanza di stimoli esterni viene esaminata anche da Hubertus Kohle in rapporto all’Espressionismo tedesco, riferendosi allo studio di Simmel del 1903, vedi H. Kohle, “‘Die beeindruckende Geometrie metallener Bücken und rauchbelaubter Fabriken’. Stadtwahrnehmung in der futuristischen Malerei Italiens und im deutschen Expressionismus”, Die europäische Stadt im 20. Jahrhundert (Industrielle Welt n. 67), a cura di F. Lenger e K. Tenfelde, Köln, Böhlau Verlag, 2006, pp. 265-280: 277. 39 Simmel, op. cit., p. 36. 40 Sant'Elia, L’Architettura…, cit. 41 F. Luttenberger, “Friedrich Zollner, der Spiritismus und der vierdimensionale Raum”, Zeitschrift für Parapsychologie und Grenzgebiete der Psychologie, 19, 1977, pp. 195-214: 212. 42 Cerviere, “Antonio Sant’Elia. Fluidi…”, cit., p. 12. 43 Cerviere, Antonio Sant’Elia. La mia prospettiva interiore (Mosaico; 34), Melfi 2004. 44 Cerviere, “Antonio Sant’Elia. Fluidi…”, cit. 45 Vedi Sant'Elia, L’Architettura…, cit. 46 C. Lamberti, Vienna, Berlino, Utopia 1860-1930. Saggi di storia dell’architettura contemporanea (Quaderni di ingegneria), Pisa, Il Campano, 2014, p. 79. 47 Per un approfondimento, si consiglia il contributo di Lorenzo Mingardi pubblicato in questo volume. 48 Astrid Kury dimostra che la cosiddetta moda dell’India era spesso collegata all’entusiasmo per la dottrina teosofica, la quale ebbe origine, secondo Kury, dagli studi sul Buddismo. I testi del buddismo furono tradotti anche a Vienna, vedi A. Kury, Heiligenscheine eines elektrischen Jahrhundertendes sehen anders aus… “Okkultismus und die Kunst der Wiener Moderne” (Studien zur Moderne; 9), Wien, Passagen-Verlag, 2000, p. 98. Relativamente all’importanza dello spiritismo sull’arte moderna a Vienna, si rimanda a un altro testo della stessa autrice: A. Kury, “Spiritismus — die neue Religion.Wissenschafts und Gesellschaftskritik um 1900 und ihre Auswirkungen auf die zeitgenössische Malerei”, Zwischen Orientierung und Krise. Zum Umgang mit Wissen in der Moderne (Studien zur Moderne; 2), a cura di S. Rinofner-Kreidl, Wien-Köln-Weimar, Böhlau Verlag, 1998, pp. 381-433: 390. 49 Vedi L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia, Como, Tip. Editrice C.Nani, 1962, pp. 17-18. 50 Vedi S. Evangelisti, “Geometrien der Psyche im Werk Romolo Romanis”, in Okkultismus und Avantgarde. Von Munch bis Mondrian. 1900-1915 (catalogo della mostra a Frankfurt a.M. 1995), a cura di V. Loers, Ostfildern, Edition Tertium, 1995, pp. 81-91: 82. 51 Cerviere, “Antonio Sant’Elia. Fluidi…”, cit., p. 12. 22 23 24
titolo saggio • nome cognome
Sant'Elia: relazioni e confronti
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un passaggio attraverso il secessionismo
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Renato Barilli
E. Hoppe, studio, Roma, 22.3.1902 (da Wagnerschule 1902, Lipsia 1903)
Devo ammettere, subito in apertura, che il titolo dato a questa mia comunicazione, è addirittura reticente o diminutivo. Nel caso di Sant’Elia, altro che “passaggio” attraverso il clima del Secessionismo viennese, tra Otto Wagner e i suoi degni eredi e continuatori, meglio parlare di un imprinting che il nostro giovane architetto ne riceve, di cui poi rielabora i tratti portanti dandone infine una geniale interpretazione in proprio, che costituirà lo specifico del suo apporto, e anche il contributo più originale del Futurismo alla causa della migliore architettura del nuovo secolo, tale da distinguerne la marcia da quella poi confluente nel Movimento moderno, allo stesso modo che anche nelle altre arti visive l’apporto del Futurismo, energetico, vitalista, resterà sempre alternativo rispetto alla marcia degli assertori della supremazia dell’angolo retto, da Mondrian in su. Intanto, c’è da prendere atto di una ben nota discrasia a livello sociale e politico. L’Italia ancora in fieri era allergica alla Triplice Intesa, reputava contro natura la nostra alleanza con gli Imperi centrali, Austria e Germania. Avremmo ben più preferito convolare a giuste nozze con la Francia, ma a livello architettonico subivamo il fascino, l’impatto delle misure statiche, pesanti, immobiliste che venivano appunto dal clima secessionista, non avendo occhi per le soluzioni più snelle ed elastiche di un Hector Guimard o di un Victor Horta. E il giovane Sant’Elia non faceva certo eccezione a questa usanza. Se guardiamo i suoi schizzi giovanili, li vediamo improntati all’ossequio della tipologia proveniente dal modelli viennesi: scalinate maestose, pareti dominate da ritmi ortogonali, ma pronte a ospitare pesanti motivi ornamentali nei tratti rimasti a nudo, e in alto, slancio verticale di guglie, cupole, pinnacoli. Ma su questa morfologia obbligata non tardano a intervenire varianti geniali intese a imporre un criterio già tendenzialmente futurista di sintesi, di condensazione. Tipico in tal senso quanto accade alle gradinate maestose, che vengono semplificate in piani inclinati, una delle invenzioni più tipiche e caratterizzanti del linguaggio di Sant’Elia, nel suo procedere senza indugi verso una maturità da conseguire a breve giro, nella oscura presunzione che gli sia concesso ben poco tempo di attività. Non sapremmo assolutamente da dove gli potesse venire quella sua adozione di piani inclinati se non appunto da una semplificazione delle gradinate ricevute dall’iniziale imprinting. Quel motivo re-
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Emil Hoppe, studio, Roma, 21.2.1902 (da Wagnerschule 1902, Lipsia 1903)
sterà uno degli elementi di irrimediabile distanza da Gropius e dai suoi precetti, del tutto avversi a qualsivoglia infrazione rispetto al dominio dell’angolo retto e dei suoi derivati. Portando poi lo sguardo verso l’alto, magari Sant’Elia si libera dalla soggezione a un motivo così canonico e tradizionale come la cupola, ma certo non rinuncia mai a sentire il bisogno che ci sia un elemento svettante, disponibile anche a essere reinterpretato come una antenna, come un faro trasmittente, secondo il novissimo codice dell’elettromagnetismo che costituisce una delle glorie della temperie futurista aver scoperto e adottato. Ancora, sempre dal repertorio secessionista, piace al Nostro riprendere schemi che prevedano interruzioni delle pareti, loro alleggerimenti in edicole, in spazi vuoti posti a costituire un’alterativa a uno stile diversamente troppo pieno e immobile. Una variazio-
un passaggio attraverso il secessionismo • renato barilli
ne, rispetto all’eredità austriaca, sta anche nella destinazione degli edifici, non più eretti per ospitare funzioni politiche o amministrative, ma per fornire le sedi opportune ai luoghi della mobilità e della produzione di risorse energetiche. Ovvero, modelli preferiti della progettazione del Nostro, che ahimé non ebbe quasi mai la possibilità di passare al costruito, sono stati le stazioni ferroviarie e le centrali idroelettriche. Forse il suo capolavoro assoluto è stato il progetto con cui ha concorso al bando per la Stazione centrale di Milano, non per nulla vinto da un architetto del tutto ligio all’insegnamento wagneriano, lo Stacchini, e certo ne è venuta una produzione rispettabile, conforme agli anni prebellici in cui era stata concepita, anche se poi sarebbe apparsa attardata, insostenibilmente pesante e fuori moda quando fu eseguita, ma ormai all’alba degli anni 1930. Quale immagine di progresso, di avvenirismo si sarebbe conquistata Milano, se invece a vincere fosse stato il progetto aerodinamico ed elettromorfo concepito dal giovane architetto, dove fra l’alto le pareti inclinate conoscevano la variante dell’acciambellarsi al suolo passando a una morfologia circolare, ma sempre nel segno di una totale ripulsa delle griglie squadrate care al Movimento moderno in arrivo. Forse un’altra delle provenienze dal clima alla Wagner si può cogliere in una pesante stratificazione degli edifici, che inoltrano i loro basamenti nel sottosuolo, concependo delle poderose arcate come ingressi per piste di scorrimento a più livelli, pronte a ospitare i binari di treni e altri mezzi di trasporto metropolitani. Nulla di questo sarà nella progettazione di Gropius e compagni, con quell’asciutto elevarsi di perfetti cubi o parallelepipedi, piatti tanto in basso, senza radici, quanto in alto. La prima sede del Bauhaus si presentava come un oggetto perfetto, chiuso in sé, catafratto, tale da ammettere anche una rotazione sulle sei facce, equipollenti tra loro. Il che certo non si può dire per l’immaginario futurista del Nostro, ben deciso a sfruttare un vettore di verticalità accentuata, rivolto a pescare nelle profondità del sottosuolo così come a slanciarsi in alto, alla “conquista delle stelle”. Purtroppo, scomparendo nel 1916, Sant’Elia non ha avuto modo di misurarsi con l’avvento del Movimento moderno e del clima Bauhaus, ma tutto lascia pensare che non vi si sarebbe assolutamente associato, o diversamente avrebbe dovuto rivedere tutti i cardini di questa sua impostazione di base. Avesse potuto entrare in dialogo o in competizione con un coetaneo quale Piero Portaluppi (1888-1967), che fu invece diligente applicatore del metodo “moderno”, fino a esiti parossistici, ma di indubbia coerenza, li avrebbe contestati, proprio per l’imporsi smodato e oltranzista della misura in definitiva statica, priva di varianti del motivo quadrato. E invece avrebbe incoraggiato gli arditi progetti di un Virgilio Marchi, ritrovando in lui la stessa propensione a spezzare le pretese di piatta imposizione euclidea, care appunto a quanti seguissero le norme del “moderno”, e invece una ampia voluttà nel praticare arcate, cavità, orbite. Da questi nostri due alfieri, saltando a piedi pari il Movimento moderno e tut-
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
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Karl Ernstberger, studio, 15.3.1908 (da Der Architekt, 16, 1910, p. 48)
ti i suoi rigidi geometrismi, si giunge al postmoderno, un vocabolo molto equivoco, quasi sempre dubbio e ambiguo se riferito a molti aspetti delle arti, che però ritrova una sua efficacia in ambito architettonico, con cui si possono designare proprio gli eredi delle soluzioni eterodosse suggerite dai nostri futuristi: un Aldo Rossi, che non manca in genere di sovrastare i suoi edifici con qualche motivo, se non a cupola, almeno a piramide; un Massimo Scolari, che sembra pure lui impegnato a disegnare delle centrali idroelettriche, con un pizzico di estrosità fantascientifica. Ma soprattutto dobbiamo portarci a considerare le attuali archistar, dalla appena scomparsa Zaha Hadid, impavida nel praticare superfici flesse, in totale fuga dalla pretesa supremazia dell’angolo retto. E Santiago Calatrava, nel cui biomorfismo echeggia un ritorno, se non proprio di Sant’Elia, almeno di Virgilio Marchi. Forse nell’anno centenario dal Manifesto del Futurismo marinettiano, 2009, avremmo dovuto porre l’accento con maggiore risolutezza su questa linea di rinnovata attualità del nostro movimento, e in ambito architettonico a condurre i giochi si impone prima di tutto Sant’Elia.
gli influssi dell’architettura sacra indiana nel progetto di antonio sant’elia e italo paternoster per il cimitero di monza (1912) Lorenzo Mingardi
A seguito del continuo inurbamento, nel 1898 l’amministrazione comunale di Monza decide di ampliare lo storico cimitero di San Gregorio e emana il bando di un concorso vinto dall’architetto Giuseppe Odoni con un progetto che però non verrà mai realizzato. Dopo una impasse di circa dieci anni — in seguito alle sedute consiliari del 24 febbraio e del 27 aprile 19111 — l’amministrazione comunale sceglie di dismettere l’antico cimitero e di costruirne uno nuovo in una vasta area a est della città storica. Il 15 febbraio 1912 il Comune bandisce un concorso nazionale e nomina membri della commissione giudicatrice gli architetti Guido Cirilli, Giacomo Monti e Gaetano Moretti. Al concorso partecipano, tra gli altri, Giuseppe Bergomi, Emilio Franchi Maggi, Enrico Mariani, Mario Perlasca, Luigi Polo, Arturo Prati. Vi prendono parte anche Ulisse Stacchini e Antonio Sant’Elia con Italo Paternoster, suo compagno di studi all’Accademia di Brera. Non viene però scelta alcuna proposta: il 19 ottobre 1912 la commissione dichiara che nessun progetto è adatto per la costruzione del nuovo cimitero e propone di indire un concorso di secondo grado, limitato ai quattro migliori progetti presentati2. L’anno successivo, dopo un acceso dibattito tra i membri della giuria e la Giunta, inizialmente contraria a una nuova gara3, è bandito il nuovo concorso, vinto da Ulisse Stacchini. L’istituto del concorso per la costruzione di edifici cimiteriali era una prassi ormai consolidata negli anni a cavallo del 1900: tra i più noti ricordiamo gli esempi di Bergamo del 1897 e Mantova del 1903. Agli architetti dell’epoca l’architettura funeraria offriva una maggior libertà da vincoli funzionali rispetto ad altri progetti di opere pubbliche. In Italia una delle prime costruzioni cimiteriali in cui la fantasia dell’architetto supera il programma funzionale è senza dubbio il mausoleo Crespi di Gaetano Moretti a Crespi d’Adda, progettato nel 1896 e inaugurato nel 1908: l’imponenza della costruzione assume un’importanza tale da annullare con la sua immagine quella del camposanto a cui fornisce una quinta scenografica. Nel mausoleo Crespi emerge come novità l’introduzione in ambito funerario, più analogica che letterale, di una commistione di modelli egizi e orientali: su un basamento piramidale di ispirazione egizia si sviluppa una sorta di shikara Pida-Deul, elemento a torre tipi-
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
Antonio Sant’Elia, Italo Paternoster, progetto di concorso per il cimitero di Monza, prospetto principale, 1912 (da Concorsi di Architettura in Italia, Milano, Bestetti & Tumminelli, 1912, p. 74)
co dell’architettura sacra di stile Nagara, caratteristica dell’India settentrionale. Modelli vagamente indiani, ma anche indonesiani e assiro-babilonesi, vengono spesso evocati nei progetti di architetti di area lombarda, soprattutto nelle fantasie architettoniche, spesso più vicine a scenografie che a vere e proprie architetture4. L’inclinazione ad un gigantismo di ascendenza esotica intravede possibilità di realizzazione proprio nel filone delle costruzioni funerarie, attraverso plastici accostamenti di imponenti volumi integrati da una minuta definizione scultorea delle superfici, e il contributo apportato dalle suggestioni orientali a questa tipologia risulta notevole. Lo dimostrano ad esempio gli spunti orientalisti nelle proposte di Giuseppe Sommaruga per l’ossario di Palestro, progettato e costruito tra il 1891 e il 1893, e per i camposanti di Bergamo (1897) e di Mantova (1903), mai realizzati. Il mausoleo di Moretti si impone come riferimento per i progetti di cimiteri nei concorsi pubblici, innanzitutto per ciò che riguarda la scala; la trasposizione del modello non sarà tuttavia solo dimensionale, ma anche tipologica. L’impianto planimetrico del corpo centrale, che si staglia in altezza, con ampie scalee di accesso, collegate a corpi laterali più bassi — ingressi laterali, uffici o abitazione del custode — mediante strutture porticate o muri con nicchie e aperture, viene riproposto nella maggior parte dei progetti presentati al concorso di Monza. Gli architetti che partecipano alla competizione per la costruzione del cimitero, com-
gli influssi dell’architettura sacra indiana • lorenzo mingardi
A. Sant’Elia, I. Paternoster, progetto di concorso per il cimitero di Monza, particolare della facciata, 1912 (da Concorsi di Architettura in Italia, cit., p. 72) A. Sant’Elia, I. Paternoster, progetto di concorso per il cimitero di Monza, sala autopsia, prospetto posteriore, 1912 (da Concorsi di Architettura in Italia, cit., p. 72)
preso il vincitore Stacchini, si allineano a quello che era il modello più diffuso in Italia per la progettazione di un camposanto: seguendo il solco tracciato dal capostipite Mausoleo Crespi, puntano su un gigantismo che rivela vaghe influenze orientaliste. Si discostano dalla linea battuta dagli altri progettisti, mostrando riferimenti orientali più espliciti, il progetto di Sant’Elia e Paternoster, denominato Crisantemo, e quello di Enrico Mariani. La proposta di Sant’Elia e Paternoster non è inserita nella rosa dei quattro finalisti. Nella relazione della Commissione giudicatrice conservata presso l’Archivio Storico del Comune di Monza, la giuria definisce la proposta “di simpatica originalità, quantunque potesse essere ispirata a forme orientali”5. Che questo appunto venisse avanzato da una giuria presieduta da Gaetano Moretti sorprende perché anch’egli aveva palesato un’inclinazione orientalista, sia nel mausoleo Crespi che successivamente nella centrale di Trezzo d’Adda, dove si possono scorgere trasfigurazioni di motivi islamici.
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pagina a fronte A. Sant’Elia, I. Paternoster, progetto di concorso per il cimitero di Monza, veduta prospettica 1912 matita nera, pastello grigio, inchiostri nero, blu e oro su cartoncino, 770 x 885 mm (Pinacoteca Civica, Como, inv. A221)
I notevoli influssi orientali che il progetto di Sant’Elia e Paternoster senza dubbio mostra vanno ricercati innanzitutto nella formazione dell’architetto comasco. È noto che lo studio degli album che raccolgono i progetti di Otto Wagner e dei suoi allievi costituiscono per lui un punto di riferimento imprescindibile. Nella Vienna di fine XIX - inizio XX secolo, la presenza di componenti di gusto riferibili all’Oriente — Bisanzio, l’India e l’Islam — è un fenomeno diffuso che investe tutte le arti figurative. Sappiamo che Sant’Elia aveva possibilità di consultare il volume Wagnerschule 19026 che raccoglieva un centinaio di disegni di diversi studenti: lo conferma la stretta vicinanza di alcuni suoi schizzi del 1911-1912 per edifici monumentali ai disegni di Otto Schönthal e Alois Bastl pubblicati in quell’annuario. La conoscenza di Sant’Elia dell’architettura viennese risale probabilmente al 1909, quando nell’autunno si iscrive all’Accademia di Brera. Con Camillo Boito come direttore della scuola e Gaetano Moretti come capo del dipartimento di architettura, l’Accademia di Brera guardava all’Europa: dal 1901 la biblioteca si era abbonata a Der Architekt, rendendo quindi accessibile agli studenti milanesi la conoscenza dei recenti sviluppi dell’architettura mitteleuropea7. Numerose sono le assonanze tra i progetti disegnati dagli allievi di Wagner e la soluzione adottata per il cimitero di Monza: tra i tanti, si può citare la chiesa pubblicata sull’annuario Wagnerschule 1902, Hundsturmer Friedhof di Karl Dorfmeister, di cui Sant’Elia riprende i piloni angolari. Un’ulteriore fonte di ispirazione viennese possono essere stati i disegni per un memoriale di guerra e per il columbarium del cimitero di Vienna pubblicati nel 1908 da Emmanuel Josef Margold, allievo di Joseph Hoffmann alla Kunstgewerbeschule di Vienna, che ha ripetutamente tratto ispirazione dal Palais Stoclet del suo maestro nella reiterazione del tema delle cornici8. Nel progetto di Sant’Elia e Paternoster riferimenti a Margold possono essere colti nei parapetti a gradoni con cornici delle scale d’accesso alla chiesa situata nel corpo centrale9. Gli stessi gradoni con cornici di Monza li ritroviamo in un disegno autografo di Sant’Elia probabilmente relativo all’esame sostenuto dall’architetto comasco tra l’ottobre e il novembre 1912 all’Accademia di Belle Arti di Bologna per conseguire il titolo di professore di disegno architettonico10. Il repertorio decorativo che caratterizza la tavola è comune sia al progetto del cimitero che al tema svolto come ex-tempore da Sant’Elia di una Facciata con portale di un transetto di grande chiesa metropolitana di una città capitale per l’esame bolognese. È difficile stabilire se il disegno sia precedente all’ottobre 1912, ma data la scarsità di tempo a disposizione per la prova di valutazione all’Accademia, è probabile che Sant’Elia abbia riutilizzato per il progetto della chiesa un particolare tratto da una delle tavole del corpus dei disegni relativo al concorso monzese di pochi mesi antecedente11.
Nella soluzione di Sant’Elia per il cimitero, gli influssi viennesi si intrecciano con elementi derivati dai progetti di architetti italiani che, nella loro formazione, avevano abbondantemente attinto alla medesima fonte. L’attenzione per l’architettura austriaca era infatti condivisa in Italia e in altri paesi da molti progettisti: Der Architekt e gli albi della Wagnerschule figuravano non solo nella biblioteca di Sant’Elia, ma anche in quelle di altri architetti italiani del suo tempo: come ricorda Ezio Godoli, non solo in Italia, ma “in tutta Europa, dalla Spagna all’impero russo, dalla regione scandinava all’impero ottomano, l’influenza di Wagner e della sua scuola è stato rilevante e sufficientemente documentata dalla storiografia”12. Il principale trait d’union tra le opere di architetti tra loro diversi come Sant’Elia, lo stesso Moretti, Giuseppe Sommaruga, Giulio Ulisse Arata e Silvio Gambini, è rappresentato proprio da una tendenza al gigantismo derivata dal filone più visionario della Wagnerschule. Tra le opere che più di altre sembrano aver influenzato il progetto del cimitero di Monza di Sant’Elia e Paternoster possiamo ricordare per l’impianto compositivo il Mausoleo Faccanoni di Sar-
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A. Sant’Elia, I. Paternoster, progetto di concorso per il cimitero di Monza, planimetria generale, 1912 (da Concorsi di Architettura in Italia, cit., 1912, p. 75)
pagina successiva A. Sant’Elia, I. Paternoster, progetto di concorso per il cimitero di Monza, pianta 1912 (da Concorsi di Architettura in Italia, cit., p. 75) A. Sant’Elia, I. Paternoster, progetto di concorso per il cimitero di Monza, crematorio, facciata 1912 (da Concorsi di Architettura in Italia, cit., 1912, p. 73)
nico, realizzato da Sommaruga nel 1907 e il disegno dello stesso architetto per un padiglione privato per esposizioni (1903), che sebbene rimasto sulla carta era noto attraverso l’albo del 1908 L’architettura di Giuseppe Sommaruga prefato da Ugo Monneret de Villard13. Accertato che i disegni della scuola viennese siano stati un punto di riferimento fondamentale per il progetto presentato a Monza, occorre comprendere se gli influssi orientalisti siano stati mediati esclusivamente dalla conoscenza dei modelli della Wagnerschule, oppure se la fantasia dell’architetto sia stata stimolata anche da altre fonti direttamente riferibili all’architettura sacra indiana. Se, come ha scritto Daniele Riva, si tratti di “un orientalismo che ha “sciacquato i propri panni” nel Danubio, ovverosia letto attraverso la lente deformante della lezione decorativa secessionista”14, oppure se alcune delle pub-
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blicazioni sull’architettura indiana che Sant’Elia poteva consultare a Milano abbiano avuto dei riflessi visibili nei disegni per il cimitero. Il più importante testo sull’architettura indiana pubblicato in quegli anni in Italia è Architettura Indiana (1912), edito da Leon Preiss Editore. Occorre tuttavia precisare che tanto questo volume quanto quelli inglesi e francesi15 posseduti dalle biblioteche di Brera e del Politecnico, sono sintetici resoconti sulla civiltà artistica indiana illustrati con vedute fotografiche di insieme: sono privi di descrizioni critiche sui singoli monumenti e di rilievi quotati o di dettagli costruttivi o decorativi. I primi testi rigorosi sull’architettura indiana in Italia, in particolare sui templi hindu, compariranno soltanto a partire dagli anni 1950 grazie al contributo della statunitense Stella Kramrisch16. Una fonte non editoriale che con ogni probabilità suggestiona Sant’Elia nel progetto per il cimitero è il lavoro del milanese diplomato in architettura all’Accademia di Brera Edoardo Baroncini, come ricordato da Fabio Mangone17, uno dei pochi architetti italiani in questi anni a recepire l’architettura indiana attraverso riferimenti diretti: sono noti i suoi acquerelli relativi ai monumenti visitati a Benares, a Mont Abu, in Ellora, esposti a Milano nel 1914 alla Prima Mostra dell’Associazione degli Architetti Lombardi18, alla quale partecipa, tra gli altri, anche Sant’Elia19. Nonostante gli acquerelli di Baroncini siano presentati in pubblico dopo il concorso monzese, è plausibile che il giovane Sant’Elia li conosca già nel 191220 e che questi disegni, caratterizzati da “sottolineature delle masse e dalla messa in evidenza di interminabili scalee”21, possano aver influenzato alcune soluzioni del cimitero. Sia le riproduzioni fotografiche dei monumenti indiani nei testi che circolavano a Milano sia le “impressioni” di Edoardo Baroncini agiscono sull’immaginario di Sant’Elia, che le rielabora ibridandole: il progetto di Monza appare come una sommatoria di elementi dell’architettura indiana non riprodotti filologicamente. Possiamo rintracciare delle assonanze con alcuni templi pubblicati nel libro Architettura indiana, in particolare il tempio Kandariya Mahadeva nella regione del Khajuraho e quello di Brameshvara a Bhubaneshvar per la soluzione degli shikara angolari che nella reinterpretazione di Sant’Elia si innestano agli angoli dello stupa centrale. La particolarità degli shikara indiani è l’esuberanza scultorea delle superfici, che Sant’Elia rielabora in torrioni a cuspide arrotondata. Come nei templi indiani, i volumi massicci del corpo principale del cimitero sono ravvivati da intarsi decorativi, dal taglio delle finestre e dall’audacia degli incastri tra i volumi. Ai piedi dei torrioni, troviamo delle forme che sembrano richiamare l’amalaka, modello ad anello circolare ricorrente nell’architettura indiana; tuttavia, se nello shikara indiano l’amalaka collega i due elementi sommitali della torre, il chapra e il kalasha, nel progetto di Monza Sant’Elia lo utilizza in maniera originale come collegamento tra gli shikara e i basamenti.
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La Pinacoteca Civica di Palazzo Volpi di Como conserva alcuni schizzi di Sant’Elia riguardanti ipotesi progettuali del cimitero non sviluppate. In una prima soluzione dell’ottobre del 1911 possiamo osservare che inizialmente la citazione indiana è più evidente rispetto ai disegni presentati al concorso: qui è lo shikara a determinare lo sviluppo volumetrico del corpo centrale, shikara che è reinterpretazione della tipologia Rekha-Deul di un tempio Nagara le cui dimensioni schiacciano i piccoli stupa che lo contornano. In un altro schizzo di progetto, sempre del 1911, inequivocabilmente ispirato al progetto di diploma di Alois Bastl per il palazzo delle Associazioni delle scienze occulte a Parigi (1903), lo stupa è evocato come cupola di una costruzione a pianta centrale cui fanno da corona una serie di colonne dalla forma fallica. Se per quanto riguarda lo sviluppo dei volumi esterni l’influsso dell’architettura indiana è assodato, più problematico è stabilire se vi siano delle similitudini anche nello sviluppo planimetrico. L’interno dei templi indiani è caratterizzato da una notevole semplicità di pianta: il regolare allinearsi e comporsi di quadrati uguali determina un rigoroso reticolo (denominato mandala), che è all’origine di tutti i templi dell’hinduismo. Il quadrato centrale corrisponde al garbha-griha, ed è la sede di Brahma, nella religione hinduista l’archetipo del creatore; sopra questa cella si eleva sempre lo shikara. Nella pianta del progetto di Sant’Elia e Paternoster sono inscrivibili nella forma del quadrato sia il corpo principale sia le campate dei volumi di collegamento tra questo e i corpi esterni; ma questa figura geometrica è destituita della valenza simbolica che essa ha nelle architetture dell’India. D’altra parte, nell’architettura italiana del tempo, all’infedeltà delle trascrizioni dei templi indiani, corrisponde una conoscenza della mistica spirituale hinduista altrettanto vaga: di fronte alle immagini dei templi l’impressione degli architetti europei del periodo era quella di trovarsi di fronte a una ricchezza di forme difficili da interpretare. Il maggior difetto che la commissione del concorso del 1912 rileva nel progetto di Sant’Elia è che “la composizione artistica non è secondata da altrettanta valentia nella pur indispensabile parte tecnica; anzi la poca, e talvolta la nessuna, corrispondenza fra gli alzati, sezioni e piante costituisce una grave manchevolezza di serietà che la commissione non può fare a meno di deplorare”22. In realtà si tratta di un lavoro articolato, a dispetto delle critiche di approssimazione e di imperizia tecnica avanzate dalla giuria. Perché Sant’Elia e Paternoster non si limitano solo a inventare lo scenografico corpo principale, ma studiano i colombari, il forno crematorio e altri edifici di servizio, dislocati nell’ampia planimetria del complesso, fornendo piante, prospetti e sezioni. Degli undici disegni presentati dai due architetti al concorso, si conserva in originale, presso la Pinacoteca Civica di Como, solo la veduta prospettica; le tavole, perdute, sono documentate nel catalogo I concorsi di architettura in Italia,
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A. Sant’Elia, I. Paternoster, progetto di concorso per il cimitero di Monza, crematorio, colombari, 1912 (da Concorsi di Architettura in Italia, cit., 1912, p. 73) A. Sant’Elia, I. Paternoster, progetto di concorso per il cimitero di Monza, crematorio, sezione, 1912 (da Concorsi di Architettura in Italia, cit., p. 73) pagina a fronte A. Sant’Elia, facciata con portale di un transetto di grande chiesa metropolitana di una città capitale, particolare, 1912 (da K. Bossi Porro, a cura di, Porro & C. Art Consulting. Opere d’arte moderna e contemporanea, catalogo della mostra, Milano, 2013, p. 9)
pubblicato da Bestetti & Tumminelli nel 1912, e riguardano le piante d’insieme e la planimetria del luogo. Bene documentati sono inoltre il colombario, la cappella funeraria, un edificio sormontato da una cupola, il forno crematorio e il famedio. Queste costruzioni proposte da Sant’Elia e Paternoster non hanno la stessa carica immaginativa del corpo centrale; nel forno crematorio, ad esempio, possiamo leggere una riproposizione di modelli viennesi, con particolare riferimento a Hoffmann per le campiture delle superfici scompartite da cornici. Per la formazione degli architetti italiani del tempo, il contributo viennese è di notevole importanza soprattutto per quanto attiene al disegno architettonico. Elaborati fino ad allora ritenuti prettamente tecnici — come sezioni, prospetti e piante — sono presentati attraverso raffinate soluzioni, che trasformano il disegno tecnico in opera di arte grafica23. A ciò concorrono le campiture colorate sulle quali si staglia il profilo della costruzione, ma anche le eleganti scritte eseguite con caratteri appositamente disegnati. Nella prospettiva del progetto di Monza, l’antinaturalismo viennese è evidente, oltre che per le scelte cromatiche, anche nella riduzione a forme geometriche degli elementi del paesaggio naturale con masse arboree stilizzate che ricordano l’opera grafica di Gustav Klimt24. Nell’estate del 1910 Sant’Elia aveva visitato la Biennale di Venezia dove era stata allestita la personale di Klimt; l’anno successivo, era stato alla Mostra di Belle arti all’Esposizione Internazionale di Roma, dove erano esposti il Ritratto di Margaret Stonborough-Wittgen-
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stein e Der Kuss25. I disegni piatti e astratti di Klimt hanno un’influenza sul giovane architetto comasco. Nel padiglione tedesco della stessa esposizione romana del 1911, aveva potuto ammirare le opere di Franz von Stuck26: le piccole figure contratte e dall’espressione disperata dell’Inferno del pittore monacense, citate nel 1912 nelle decorazioni della facciata del progetto di concorso per la stazione centrale di Milano, possono avere ispirato anche il gruppo di figure attorno a un cavallo, in primo piano nella prospettiva del cimitero di Monza. Le tavole di Sant’Elia e Paternoster si distinguono dagli elaborati presentati dagli altri archi-
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tetti al concorso per la modernità del loro gusto grafico. Nella tavola prospettica del progetto colpisce il tono fiabesco e irreale: i volumi si ergono scenograficamente sotto un cielo minaccioso e denso di nubi. Non a caso, i disegni per il cimitero di Monza hanno goduto di una notevole fortuna; ad esempio, il disegno intitolato Visione di Silvio Gambini, del 31 dicembre 1913, è una trascrizione con poche varianti della proposta del progetto di Sant’Elia e Paternoster, anche dal punto di vista grafico27. Alla luce di quanto indagato, si deve riconoscere che la presenza di elementi dell’architettura indiana nel progetto di Sant’Elia per Monza è evidente, ma circoscritta all’esteriorità delle forme: ricorrente, se guardiamo alla costanza e alla frequenza dei richiami; epidermica, se cerchiamo in quei richiami, peraltro spesso stemperati con altri riferimenti stilistici, una consapevolezza della valenza simbolica delle forme. La conoscenza dei modelli orientali è infatti mediata: Sant’Elia, accostandosi a un indirizzo che si va diffondendo nell’esotismo dell’inizio del XX secolo, non intende operare una riproposizione filologica dell’architettura indiana — né del resto gli erano accessibili strumenti di conoscenza che lo consentissero —, ma le si accosta tramite le suggestioni ricavate dalla consultazione di pubblicazioni fotografiche o attraverso la mediazione delle fantasie architettoniche dei suoi contemporanei che avevano attinto alle medesime fonti. Gli elementi orientalisti riscontrabili nel progetto sono quindi libere rielaborazioni che si inseriscono in maniera originale all’interno di una miscela di elementi eterogenei, nella quale non può essere relegato in secondo piano l’influsso della Wagnerschule e dei progetti di altri architetti italiani dalle sporadiche frequentazioni orientaliste. Note 1 M. A. Crippa, F. Zanzottera, “Dall’antico sistema cimiteriale al nuovo Cimitero Urbano di Monza”, in L’architettura della memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città 1750-1939, a cura di M. Giuffré, F. Mangone, S. Pace, O. Selvafolta, Milano, Skira, 2007, p. 229. 2 Ibid. 3 F. Zanzottera, “Il cimitero Urbano di Monza e il monumento funebre di Michele ed Arturo Scotti”, Rivista dell’istituto per la storia dell’arte lombarda, 5, 2014, n. 13, p. 100. 4 Per approfondimenti sulle tangenze tra gli architetti lombardi e i modelli orientalisti si veda in particolare, F. Mangone, “L’orientalismo nell’architettura milanese dei primi decenni del Novecento”, in L’orientalismo nell’architettura italiana tra Ottocento e Novecento, atti del convegno a cura di M. A. Giusti e E. Godoli, Viareggio, 23-25 ottobre 1997, Firenze, Maschietto & Musolino, 1999, pp. 65-74. 5 G. Cirilli, G. Monti, G. Moretti, Relazione della Commissione giudicatrice, Comune di Monza, 1912, p. 7. Archivio Storico Comune di Monza, Concorsi per il progetto di cimitero in località Cassotto (20 febbraio 1911 10 aprile 1930), segn. Sezione seconda, 1419/1, n. corda 5571. 6 E. Godoli, Il Futurismo, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 12. 7 I. Boyd White, “Antonio Sant’Elia: un wagnersculer in absentia”, in Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata, catalogo della mostra a cura di G. Romanelli, L. Caramel, A. Longatti, Museo d’Arte Moderna di Cà Pesaro, Venezia, 7 settembre-17 novembre 1991, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 72-87. 8 Tra i primi a scorgere assonanze tra l’opera di Sant’Elia e quella di Margold, in una recensione a una mostra milanese del 1914 l’architetto Giulio Ulisse Arata rileva in alcuni disegni dell’architetto comasco la ripresa delle “forme un po’ fredde di un Margold” e l’influenza della “scuola austriaca wagneriana”. Cfr. G. U. Arata, “La prima mostra di Architettura promossa dall’Associazione degli Architetti Lombardi”, Vita d’Arte, 7, 1914, n. 75, pp. 70-71.
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Godoli, op.cit., p. 16. Recentemente ritrovata in una collezione privata, la tavola è stata esposta nella mostra curata da Alessandra Coppa, Maria Mimmo e Valentina Minosi Antonio Sant’Elia (1888-1916). Il futuro delle città (Triennale di Milano, dal 25 novembre 2016 all’8 gennaio 2017). 11 Per approfondimenti circa la prova d’esame all’Accademia di Belle Arti di Bologna si rimanda a: S. Zamboni, “Un esame di Antonio Sant’Elia (1912)”, in L’Accademia di Bologna. Figure del Novecento, a cura di A. Baccilieri e S. Evangelisti, Bologna, Nuova Alfa Editore, 1988, pp. 229-231. 12 E. Godoli, “Puntualizzazioni sull’opera di Antonio Sant’Elia e sul Manifesto dell’architettura futurista”, in Il Manifesto dell’Architettura Futurista di Sant’Elia e la sua eredità, atti del convegno a cura di M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi, Grosseto, 18 luglio 2014, Mantova, Universitas Studiorum, 2014, p. 29. 13 L’architettura di Giuseppe Sommaruga, Milano, Preiss e Bestetti, 1908. 14 D. Riva, “L’opera di Maciachini e l’architettura delle edicole”, in Il Monumentale di Milano: Il primo Cimitero della Libertà: 1866-1992, a cura di M. Petrantoni, Milano, Electa, 1992, p. 111. 15 L’elenco dei testi più significativi è riportato in Mangone, op.cit., p. 66, nota 9: H. Lepel Griffin, Famous monument of India illustreted, Londra, The Autotype Company, 1886; A.J. Gayet, L’art arabe, Parigi, Ancienne maison Quantin, s.d. [1893]; A.J. Gayet, L’art persan, Parigi, Ancienne maison Quantin, 1895; L. Cloquet, L’art monumental des Egyptiens et des Assirien, 1896; M. Maindron, L’art indien, Parigi, Société française d’éditions d’art, 1898; J. Ferguson, History of Indian and eastern architecture, Londra, John Murray, 1899; G. Le Bon, Les Civilisations de l’Inde, Parigi, Flammarion, 1900; H. Saladin, Manuel d’art Musulman, Parigi, A.Picard, 1907; C.H.W. Johns, Ancient Assyria, Cambridge, University Press, 1912; F.Benoit, L’Architecture. L’orient medieval et moderne, Parigi, H.Laurens, 1912. 16 A. Volwahsen, Architettura indiana, Milano, Istituto Editoriale italiano, 1969, p. 43. 17 Mangone, op.cit., p. 67. 18 “Edoardo Baroncini […] pochi anni fa visitò l’India portando in patria dall’oriente dorato, una larga messe di studi, di ispirazioni geniali che, esposti in una mostra d’architettura a Milano formarono l’ammirazione del pubblico colto e degli artisti che vedevano nel vagare inquieto di questi studi, elementi di future armonie”; G. U. Arata, “Un artista morto per la patria. Edoardo Baroncini”, Pagine d’Arte, 3, 1915, n. 13, p. 106. 19 “Il più geniale di tutti i giovani, il più impetuoso, e anche il più logicamente fantastico, l’unico che sa vedere, nei suoi schizzi, l’architettura un po’ al di là delle forme consuete è Antonio Sant’Elia: non però il Sant’Elia del cimitero di Monza dove con elegante artificio sa accoppiare la rigidezza degli egiziani colle forme architettoniche fantasticamente disordinate degli indiane, ma il Sant’Elia di altri piccoli studi”; G.U. Arata, “Prima mostra di Architettura promossa dall’Associazione degli architetti Lombardi”. Vita d’Arte, 7, 1914, n. 3, p. 70. 20 “Edoardo Baroncini […] è un architetto che parla, che tien conferenze […] di fervorosa entusiasta spiegazione dell’architettura indiana”; R. Giolli, “Impressioni d’architettura indiana”, Vita d’Arte, 7, 1914, n. 76, p. 92. 21 Mangone, op.cit., p. 67. 22 Cirilli, Monti, Moretti, op.cit. 23 Per approfondimenti sull’opera grafica degli allievi di Otto Wagner si veda in particolare, L. Grueff, Disegni della Wagnerschule, Firenze, Cantini, 1989. 24 L. Caramel, “Antonio Sant’Elia e l’architettura del suo tempo”, in Antonio Sant’Elia. Catalogo della mostra permanente, a cura di L. Caramel, A. Longatti, Como, Tipografia editrice Cesare Nani, 1962, p. 17; L. Caramel, “Antonio Sant’Elia tra città reale e “città nuova””, in Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata, cit., p. 38. 25 Boyd White, op.cit., p. 82. 26 Ibid. 27 Per approfondimenti sull’opera di Silvio Gambini, M. Giacomelli, Silvio Gambini dal liberty al futurismo, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di architettura. Dottorato di ricerca in storia dell’architettura e dell’urbanistica, XI ciclo, Tutor Giovanni Fanelli, 1999. 9
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A.Cantoni — A.Sant’Elia, progetto per la nuova sede della cassa di Risparmio di Verona, 1913-14 particolare prospettico dell’ingresso principale, interno, disegno di Leonardo Dudreville (Pinacoteca Civica, Como, A304)
Ulisse Tramonti
La Commissione Superiore di Belle Arti, a sezioni riunite, nella seduta del 22 giugno 1917 deliberava a maggioranza un definitivo parere negativo per il progetto vincitore del concorso per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona, motivando che la piazza delle Erbe, per le sua caratteristiche artistiche e ambientali, non poteva “senza grave pregiudizio dell’arte e della storia, essere sottoposta a trasformazioni”1. Il giudizio ministeriale sanciva definitivamente l’intangibilità della storica piazza veronese, ponendo una pietra tombale sulla contrastata e annosa questione riferita all’introduzione di nuovi edifici sulla stessa piazza, che avrebbero certamente danneggiato un consolidato equilibrio ambientale “un quadro tra i più belli che il divino caso abbia creato”2. A Verona già dal 1887 il problema del controllo igienico dell’edilizia storica, acuitosi dopo le gravi conseguenze dell’epidemia scoppiata a Napoli nel 1885, aveva interessato il Ghetto ebraico ed in particolare l’isolato compreso tra le vie Mazzini, Portici e la Camera di Commercio, in parte prospettante su piazza delle Erbe. I risultati dell’indagine municipale furono prevedibilmente disastrosi e fecero pensare ad un intervento di totale demolizione e quindi di una nuova edificazione, velocemente esaudito da un progetto dell’architetto milanese Giovanni Giachi, che prevedeva un isolato comprensivo di abitazioni, uffici, attività commerciali ed infine di un politeama3. Questo progetto, promosso fin dal 1898 da un comitato cittadino, presieduto dall’avvocato Carlo Massarani Prosperini, aveva ricevuto, oltre al sostegno dei risultati di un referendum, indetto dal quotidiano L’Adige che aveva sollecitato gran parte della cittadinanza ad esprimere un parere favorevole4, l’ancor più autorevole parere di Camillo Boito, che era stato anni prima il protagonista assoluto degli interventi di restauro dei maggiori edifici storici veronesi5. Al partito dei “Demolitori” si opponeva quello dei “Conservatori”, capeggiato animosamente dal pittore Angelo Dall’Oca Bianca, che dalle pagine della veneziana Gazzetta degli Artisti, invocando una solidarietà internazionale, avversava qualsiasi tipo di intervento. Molte furono le adesioni autorevoli a questo appello come quella di Pompeo Gherardo Molmenti, storico e deputato del Regno, che già nel 1887 aveva animato una strenua difesa degli edifici storici veneziani in un saggio pubblicato nella Nuova Antologia delle Scienze6. Per la questione
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Arrigo Cantoni — Antonio Sant’Elia, progetto per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona, 1913-14 prospettiva del primo progetto (A.Carisp. Vr, Vi, Bl, An)
pagina a fronte A. Sant’Elia, progetto per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona studio, 1913 (Pinacoteca Civica, Como, A306)
Verona, Molmenti aveva invece aperto il 14 marzo 1902 un’ interpellanza parlamentare il cui testo, riportato sul quotidiano veronese L’Arena, rivelava un’accorata difesa non solo dei monumenti che affacciavano sulla piazza delle Erbe, non senza segnalare note di biasimo per il boitiano restauro della Domus Mercatorum, ma anche per quell’edilizia minore che donava all’ambiente suggestive e pittoresche note di colore. Le preoccupazioni del parlamentare erano tutte per la costruzione del nuovo complesso edilizio, che prevedeva un politeama, “una delle solite gabbie crivellate di buchi, sormontate da cornicioni posticci con mensole sproporzionate incrostate da orridi stucchi bianchi”7. Poco tempo dopo il Ministero della Pubblica Istruzione, deciso a risolvere la ormai controversa questione, inviò a Verona una commissione composta dall’architetto Manfredo Manfredi, da Giulio Cantalamessa, membro del Consiglio Superiore delle Belle Arti, e da Ettore Tito, insegnante presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia, che giudicò eccessivi gli allarmismi municipali riferiti al problema igienico e che quindi decretò inutile l’abbattimento dell’isolato, vincolandolo ad un Decreto di Monumentalità esteso a tutti gli edifici della piazza8. La questione, apparentemente chiusa, fu riaperta qualche anno dopo dalla locale Cassa di Risparmio, che il 15 giugno 1913 pubblicò un bando di concorso internazionale per il progetto della sua nuova sede sull’area del Ghetto compresa proprio tra via Mazzini, via Portici, piazza delle Erbe, in tangenza con la Domus Mercatorum.
il concorso per la nuova sede della cassa di risparmio di verona • ulisse tramonti
Le richieste del bando, spesso contraddittorie e caratterizzate da poco coraggio propositivo, sembravano fin dall’inizio presagire un inevitabile risultato negativo: si imponevano la conservazione dei limiti dell’isolato esistente e l’uso dei materiali locali sia per le nuove parti costruite che per quelle decorative, mentre nessuna prescrizione veniva indicata per lo stile del fabbricato, a cui si chiedeva solo un’armonizzazione e una fusione con il carattere ambientale della Piazza delle Erbe. Le evidenti indecisioni del bando resero ambiguo anche il rinnovato contrasto tra i contendenti: Dall’Oca Bianca, con lo slancio di sempre, ma anche con una malcelata voglia di compromessi, riuscì ad ottenere in nome della “conservazione” le adesioni degli architetti Gaetano Moretti, Giulio Ulisse Arata e con meno convinzione quelle di Ernesto Basile e Cesare Bazzani9. Il fronte opposto ebbe invece il supporto entusiastico del gruppo futurista milanese, che, come riportò L’Adige, vide Marinetti, Carrà, Boccioni e Russolo brindare alla coraggiosa e prevista demolizione delle “catapecchie di Piazza Erbe” come una vera e propria vittoria del Futurismo10. Nonostante la pubblicizzazione di un bando costruito su richieste non esaurientemente precisate, il concorso ottenne una folta presenza di partecipanti, suddivisi in quarantasette gruppi secondo gli elenchi pubblicati da l’Adige, mentre dagli archivi della Cassa di Risparmio di Verona ne risultavano solo quarantadue: uno scarto dovuto probabilmente a progetti presentati dopo la scadenza del bando e presentati fuori concorso11.
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A.Cantoni — A.Sant’Elia, progetto per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona sezione C-D, 1913-14 (Pinacoteca Civica, Como, A303)
pagina a fronte A.Cantoni — A.Sant’Elia, progetto per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona prospetto su via Mazzini, 191314 (Pinacoteca Civica, Como, A299)
La commissione giudicatrice, costituita il 9 febbraio 1914, era formata da cinque componenti, di cui uno solo architetto, nella figura seppure autorevole di Edoardo Collamarini12. Tutti i progetti, presentati in forma anonima e contrassegnati da un motto, furono esposti al pubblico a partire dal 12 marzo 1914 e per il tempo di un mese, nella scuola Industriale di via Cappuccini. Dalla relazione di chiusura dei lavori, stilata il 16 aprile 1914, si evince la mancata individuazione di un progetto vincitore, in quanto nessuno degli elaborati esaminati aveva soddisfatto l’inserimento armonioso del nuovo progetto nel composito ambiente urbano della piazza13. Per non vanificare totalmente il concorso i commissari decisero di selezionare cinque progetti ritenuti i migliori, da inviare ad un secondo grado di concorso, il cui espletamento, con decorrenza dal successivo primo giugno, doveva concludersi in cinque mesi. Il giudizio definitivo avrebbe avuto validità solo con le approvazioni delle Autorità Municipali e soprattutto di quelle Governative, poiché ritenute le uniche competenti a concedere, tenuto presente il Decreto di Monumentalità che vincolava la piazza delle Erbe, l’esecuzione del progetto14. La stampa locale pubblicò con dovizia le descrizioni dei progetti, ma pochi sono i nomi dei progettisti identificabili e abbinabili alle tavole presentate, ricerca ancora più diffici-
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le dovuta all’immediata restituzione degli elaborati grafici dopo l’espletamento del concorso e alla sparizione dai fondi della Biblioteca Civica Veronese, dove risultavano regolarmente schedati, degli opuscoli illustrativi di alcuni progetti del concorso15. Grazie a L’Arena del 1819 marzo 1914 conosciamo l’elenco completo dei progetti, contrassegnati dal motto e dalla rispettiva collocazione espositiva nelle singole sale, da cui si possono individuare alcuni autori, come il già conosciuto progettista del Politeama, Giovanni Giachi (Ars et scientia), Luigi Angelini (Rolando), Rudolf Perco (fuori concorso), Aldo e Arrigo Andreani (Arte è adorazione); si sa inoltre della presenza di Ulisse Stacchini, reduce dalla vittoria per il concorso della Stazione Centrale di Milano, senza però poterne individuare gli elaborati grafici. I cinque progetti prescelti per il secondo grado di concorso corrispondevano ai motti Cangrande, riferibile all’architetto Giovan Battista Milani, Rinnovarsi o morire a Giovanni Greppi e all’infaticabile professionista veronese Ettore Fagiuoli, Costruire ad Arrigo Cantoni ed Antonio Sant’Elia, ed infine Hiette e Adige, di autori non identificati. L’inutilità di un secondo grado, come aveva ben profetizzato Giulio Ulisse Arata su Pagine d’Arte fu evidente poiché i progetti, soprattutto i migliori, già improntati da un’idea forte, risultarono pressoché immodificati rispetto alla prima stesura, mantenendo inalterate le loro fisionomie16.
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A.Cantoni — A.Sant’Elia, progetto per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona prospetto su piazza delle Erbe, 191314 (Pinacoteca Civica, Como, A298)
pagina a fronte A.Cantoni — A.Sant’Elia, progetto per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona sezione A-B, 1913-14 (Pinacoteca Civica, Como, A302)
La commissione divisa tra i progetti Costruire e Rinnovarsi o morire, scelse il progetto Cangrande di Giovan Battista Milani, ritenuto l’unico progetto “meritevole di innalzarsi sulla Piazza delle Erbe, fuso in armonia con il carattere di questa”17. Queste decisioni finali furono contestate da più parti, con articoli apparsi su organi di stampa locali e nazionali18 e dalle pagine di Emporium, ancora una volta per voce di Arata, che argomentò una vera e propria controrelazione dove liquidava il progetto Cangrande per la sua eccessiva frammentarietà e il progetto Rinnovarsi o Morire come una composizione che stava fra l’accademismo un po’ scolastico e la timida innovazione modernista, chiaramente ispirato all’architettura del Seicento e di cui però non possedeva “quel carattere aristocratico che forma l’elemento principalissimo di questo meraviglioso secolo”19. Arata, che nella sua intensa attività di critico era aperto alle contemporanee tendenze architettoniche più avanzate20, sosteneva che il progetto “più modernamente pensato” o ancora meglio caratterizzato “da una modernità che persuade”, fosse quello contrassegnato dal motto Costruire, opera corale di Cantoni, che si era avvalso per l’ideazione generale e per la decorazione di Sant’Elia, per gli elaborati tecnici di Tancredi Motta, per i quadri prospettici acquerellati di Leonardo Dudreville. Anche dalla pagine de l’Adige, un non meglio identificato recensore riteneva che il progetto Costruire rappresentasse “lo sforzo maggiormente riuscito per conseguire lo scopo” poiché “di carat-
il concorso per la nuova sede della cassa di risparmio di verona • ulisse tramonti
tere strettamente personale, non pesante, equilibrato, elegante e nello stesso tempo sobrio e distinto in ogni suo colore”21. Quella modernità individuata da Arata nel progetto Costruire, declinata nella sapiente composizione delle masse e nella genialità della distribuzione della decorazione sulle diverse facciate, come “vibrante rievocazione sintetica di un periodo storico”, era stata interpretata negativamente dalla commissione giudicatrice come una volontà di infondere “nella gaiezza del popolo di Verona qualche tristezza di rigida e nordica anima” per mezzo di “violente forme straniere”22. Il progetto Cantoni viveva in realtà delle ideazioni del giovane Sant’Elia, dove le variazioni grafiche e gli stilemi propri dei modelli secessionisti di riferimento, si producevano in un esercizio decorativo di gusto orientaleggiante, mirante ad un effetto complessivo di forte suggestione favolistica23. Nel 1912 Sant’Elia aveva approfondito lo studio dei progetti della Wagnerschule, come già aveva dimostrato sempre su incarico di Cantoni, nella redazione degli elaborati di progetto per il Concorso della Nuova Stazione Centrale di Milano, che si riferivano direttamente a Otto Wagner ed in particolare ai progetti per il Kaiser Franz Joseph Stadt Museum sul Karlplatz di Vienna24; tavole in cui il giovane architetto era andato oltre il suo ruolo di decoratore, tanto da indurre lo stesso Cantoni a non presentarle, preferendo un altro ben più rassicurante progetto di ispirazione francese, presentato con l’architetto Paolo Vietti Violi. Per il
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A.Cantoni — A.Sant’Elia, progetto per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona prospetto su via Mazzini, 191314 (Pinacoteca Civica, Como, A384)
pagina a fronte A.Cantoni — A.Sant’Elia, progetto per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona pianta del piano terra, 191314, disegno di T.Motta (Pinacoteca Civica, Como, A377)
il concorso per la nuova sede della cassa di risparmio di verona • ulisse tramonti
progetto veronese Sant’Elia, con più gradi di libertà progettuale, non si preoccupò di sovrapposizioni e dissonanze decorative e ricorse a tutte le sue risorse di indubbia abilità grafica e progettuale25. Non tanto alla Secessione quanto ad un certo gusto viennese, riconducibile alla grafica di soggetto medievale di Josef Urban, di Heinrich Lefler e di altri membri della Hagenbund, si riferiscono le decorazioni pittoriche26. Il progetto nel suo complesso, come aveva ben intuito Arata trovava ispirazione nel pittoresco e fantastico medioevo: Le sue masse sono composte con eleganza, i particolari originali e studiati con raro gusto, ogni elemento decorativo studiato con sobrietà. Non sarà per alcuni questo progetto, ossequiente allo spirito della nostra razza; ma tuttavia un’opera che dal romantico medioevo ha saputo trarre un’ispirazione nuova e geniale con un insieme personale chiaro e pieno di luce, anche se nella decorazione si affaccia qua e là qualche spunto venuto d’oltralpe27.
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pagina a fronte A.Cantoni — A.Sant’Elia, progetto per la nuova sede della Cassa di Risparmio di Verona particolare prospettico dell’ingresso principale, esterno, 191314, disegno di L.Dudreville (Pinacoteca Civica, Como, A383)
Dai numerosi schizzi di studio eseguiti per la banca di Verona presso lo studio Cantoni, certamente più liberi e concepiti come fantasie architettoniche derivate come già detto dallo studio dei progetti della Wagnerschule e dall’enfasi monumentale delle fantasie fantarcheologiche di Emil Hoppe è possibile scorgere la genesi di un metodo di rappresentazione che diverrà una costante dei disegni dell’“altro” Sant’Elia e cioè il delinearsi di un montaggio paratattico di puri volumi autonomi, caratterizzato da forti scorci prospettici derivante dall’assunzione di punti di vista ravvicinati28. Alla partecipazione “sottomessa” al concorso veronese corrispose simultaneamente una reazione contraria che porterà il giovane architetto ad ideare un’architettura coerente con l’evoluzione urbanistica della modernità, libera non solo da riferimenti secessionisti ma caratterizzata da una vera e propria decantazione di ogni memoria storica29.
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Note 1 Comunicazione alla Regia Soprintendenza di Verona del 6 luglio 1917, n. 1366; vedi L. Camerlengo, Gli architetti veronesi e Antonio Avena, in P. Marini (a cura di). Medioevo ideale e medioevo reale nella cultura urbana. Antonio Avena e la Verona del primo Novecento, Verona, Cierre Edizioni, 2003, pp. 225-227. 2 Vedi A. Dall’Oca Bianca, “In cosa consiste la bellezza di Piazza delle Erbe”, Gazzetta di Venezia, 30 marzo 1902. 3 Vedi M. Vecchiato, “Sventriamo Verona: la tutela del centro storico e il ruolo della Regia Soprintendenza”, in Id. (a cura di), Verona nel Novecento. Opere pubbliche, interventi urbanistici, architettura residenziale dall’inizio del secolo al Ventennio (1900-1940). Verona, La Grafica Editrice, 1998, pp. 63-105. 4 Vedi “Relazione al Comitato generale Promotore e riproduzione degli schizzi del progettista arch. Cav. Giovanni Giachi, Verona 1898”, L’Arena, 18-19 marzo 1901. 5 Vedi P. Brugnoli, A. Sandrini (a cura di), L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, Verona, Banca Popolare di Verona, 1994, pp. 195-259; A. Grimoldi, Restauri a Verona: cultura e pubblico. 1866-1940, ivi, pp. 121-193. I principali interventi di Camillo Boito, dedicati agli edifici storici veronesi riguardarono la loggia del Consiglio, il Mercato Vecchio, il Palazzo del Capitano, la Domus Mercatorum, la Gran Guardia, il palazzo Guastavezza e la Pescheria. 6 La Gazzetta degli Artisti del 30 marzo 1902 dà notizia di articoli contro l’intervento progettuale proposto, pubblicati in Les croniques des Arts, Berliner Tageblatt e Journal de Débats; vedi M. Favilla; Delendae Venetiae. La città e le sue trasformazioni dal XIX al XX secolo, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2006. 7 L’interpellanza è riportata nell’Arena, 19-20 marzo 1902. 8 La commissione criticò il progetto dal punto di vista architettonico, mettendo anche in evidenza l’inosservanza del regolamento di igiene municipale, a tale proposito vedi M. Mulazzani, “Il Novecento da Sant’Elia a Carlo Scarpa”, in Brugnoli, Sandrini, op.cit., pp. 247-353. Il veto è motivato dalla legge di tutela dei beni di interesse storico artistico, n. 364 del 20 giugno 1909. Il vincolo del Decreto di Monumentalità non era totale, ma imponeva solo di subordinare le eventuali modifiche al parere dell’autorità centrale. 9 Vedi “Sessantacinque artisti veronesi e Dall’Oca Bianca contro lo sventramento del Ghetto”, Verona Fedele, 26 giugno 1913; L’Adige (Verona), 7 luglio 1913. 10 Vedi “I futuristi di Milano plaudono alla demolizione del Ghetto”, L’Adige, 15 luglio 1913; “Gli artisti veronesi e il Progetto della Cassa di Risparmio, per l’abbattimento del Ghetto”, Verona Fedele, 5 luglio 1913. 11 Vedi Camerlengo, op.cit., p. 383. 12 La commissione era composta oltre che da Collamarini, da Ettore Calderara, presidente del Consiglio di amministrazione della Cassa di Risparmio, Giuseppe Biadego, storico locale, il pittore Pieretto Bianco e l’ing. Giovanni Bordiga. 13 Vedi L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia, L’opera completa, Milano, Mondadori, 1987, p. 203. 14 Il bando di concorso fu pubblicato il 15 giugno 1913, in seguito alla delibera del Consiglio di Amministrazione del 23 giugno 1911. Le clausole per l’approvazione definitiva relativa all’esecuzione del progetto erano contenute nell’art. 20 del Bando di concorso, ora depositato presso l’Archivio della Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona. 15 Vedi Camerlengo, op.cit., p. 230. 16 Vedi G. U. Arata, “L’esito del concorso per la sistemazione della Piazza delle Erbe di Verona”, Pagine d’arte, 3, 1915, n. 1, pp. 161-162. 17 Vedi L. Priuli Bon, “Il verdetto della Commissione per un palazzo in Piazza delle Erbe”, Verona Fedele, 2 gennaio 1915. 18 Ibid. 19 “Ne parlarono con entusiasmo tutti, dal foglio quotidiano alla grande rivista, da Matilde Serao a Enrico Corradini, dal grecista Fraccaroli al poeta Barbarani”, G. U. Arata, “La piazza delle Erbe di Verona e la sua sistemazione”, Emporium, 41, 1915, n. 243, pp. 192-199. 20 Vedi F. Mangone, Giulio Ulisse Arata. L’opera completa, Napoli, Electa, 1997. 21 Vedi L’Adige, 20 marzo 1914. 22 Vedi Verbale stilato dalla Commissione giudicatrice nella seduta del 16 aprile 1914, Archivio Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona. 23 Vedi Caramel, Longatti, op.cit., p. 29. 24 Vedi E. Godoli, Il Futurismo, Bari 1983, pp. 14-20. 25 Vedi Caramel, Longatti, op. cit., p. 31. 26 Vedi Godoli, op.cit., p. 16. 27 Vedi Arata, “La piazza delle Erbe di Verona…”, cit., p. 196. 28 Vedi L. Caramel, A. Longatti, M. L. Casati, Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como, Milano, Silvana Editoriale, 2013; vedi inoltre Godoli, op.cit., p. 17 e P. Portoghesi, “Il linguaggio di Sant’Elia”, Controspazio, 3, 1971, n. 4-5, p. 27. 29 Vedi Godoli, op. cit., p. 17.
antonio sant’elia e angiolo mazzoni: tangenze e
divergenze di due percorsi
Milva Giacomelli
Nonostante la differenza d’età di sei anni, Antonio Sant’Elia è nato a Como nel 1888 e Angiolo Mazzoni a Bologna nel 1894, i due architetti, accomunati da una formazione tecnico-scientifica e dal conseguimento dell’abilitazione di professore di disegno architettonico all’Accademia di Belle Arti di Bologna1, dimostrano di muoversi verso una dimensione culturale internazionale, con un’attenzione particolare per l’area absburgica e i paesi di lingua tedesca, che resterà percepibile anche nelle opere della maturità di Mazzoni. L’orientamento verso l’architettura della Vienna della Secessione, maturato grazie alla consultazione degli albi della Wagnerschule2, è comune ai disegni giovanili dei due architetti. Per ambedue è stata determinate la visita al padiglione austriaco progettato da Josef Hoffmann per l’Esposizione internazionale di Roma del 1911, in cui erano esposte le opere di Gustav Klimt. Il giovane Mazzoni così rievoca l’incontro con questo padiglione che, dagli anni 1910, è stato un modello di riferimento per diverse architetture italiane: “Venne il 1911. A Valle Giulia fu inaugurata l’esposizione internazionale di Belle Arti. Tutte le nazioni principali costruirono il loro padiglione. Quello dell’Austria era di Giuseppe Hoffmann. Mi rivelò come dovesse essere l’architettura: costruzione divenuta poesia. Semplicità era esaltata in quest’opera hoffmanniana”3. Sant’Elia e Mazzoni non solo avvertono la fascinazione del padiglione austriaco di Hoffmann, ma hanno anche modo di avere una visione più ampia degli orientamenti dell’architettura viennese nella mostra della Società degli architetti austriaci, allestita nel Palazzo delle belle arti e curata da Emil Hoppe, Marcel Kammerer e Otto Schönthal. Accanto a numerose opere dei curatori della mostra, figuravano architetture di Hoffmann, Otto Wagner, Wunibald Deininger, Karl Dorfmeister, Koloman Moser e altri; oggetti di arte applicata della Wiener Werkstätte disegnati da Hoffmann, Berthold Loeffler, Michael Powolny, Otto Prutscher, e in particolare da Emanuel Josef Margold che, con Hoffmann, ha costituito per Sant’Elia una importante fonte di ispirazione4. Lo stesso Giulio Ulisse Arata nella recensione critica dei disegni di Sant’Elia esposti alla Prima mostra di architettura promossa dall’Associazione degli architetti lombardi a Milano nel 1914 non aveva mancato di notare che in alcuni studi il “giovane e genialissimo artista […] imita le forme un po’ fredde di un
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
pagina a fronte Antonio Sant’Elia, progetto per la nuova Sede della Società dei Commessi di Como, 1914 (da L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia. L’opera completa, Milano 1987, p. 243).
Margold o si lascia influenzare dalla scuola austriaca wagneriana”5. Tra i progetti santeliani le cui matrici formali appartengono a questa divulgazione di stilemi hoffmanniani, improntata a effetti di ridondante opulenza, che ha il suo più significativo interprete in Margold , merita di essere ricordato quello per la nuova Sede della Società dei Commessi di Como (1914). La maggior parte dei disegni di Mazzoni eseguiti nel periodo degli studi alla Scuola di applicazione per ingegneri (1915-17, 1919) di Roma evidenzia nella grafica, nell’impianto prospettico e nel trattamento di alcuni dettagli costruttivi la conoscenza degli albi della Wagnerschule. L’attenzione per la cerchia di Wagner è per esempio attestata dalla prospettiva Ingresso di un centro ricreativo in riva al mare (1915), una rivisitazione di quello progettato da Josef Maria Olbrich per l’esposizione della Künstlerkolonie di Darmstadt del 1901. L’interesse di Mazzoni per l’architettura mitteleuropea era stato del resto colto, sia pure in modo approssimativo, da Gustavo Giovannoni, Giovanni Battista Milani e Vincenzo Fasolo i quali, in riferimento al suo primo progetto Villa sulla riva di un lago (1916), gli avevano chiesto: “Lei ha studiato a Monaco di Baviera”6. Tra le citazioni di palais Stoclet (1906-11) che improntano questo progetto scolastico, la più appariscente è la colonna di tipo dorico che figura in primo piano: l’objet trouvé che Hoffmann aveva collocato al centro della vasca nel parco della residenza di Bruxelles. Al progetto del 1916 fa seguito nel 1919 una nuova versione, dove etimi hoffmanniani si fondono con echi di Leopold Bauer, il cui disegno per una casa a Brno (1901), pubblicato su Der Architekt (X, 1904, tav. 49), non era certo passato inosservato a Mazzoni. Oltre a palais Stoclet, il progetto per il Rathaus di Ortelsburg (1916-18)7 ha suscitato in Mazzoni un interesse di lunga durata: dal progetto per un Battistero (1919) al palazzo postelegrafonico di Gorizia (1927-32), del quale Mazzoni ha esplicitamente ammesso il modello di ispirazione: “Mi fu imposto di dare all’edificio forme architettoniche venete ed io mi ispirai al palazzo municipale di Orstelsburg di Hoffmann”8. La duplice personalità di Mazzoni, architetto-designer di edifici per il Ministero delle Comunicazioni, attento a esercitare un controllo globale sull’opera senza trascurare il più minuto dettaglio, è pienamente in linea con una concezione del progetto imperante negli anni dell’Art Nouveau. Ancora nel 1933 Mazzoni esprimerà il proprio apprezzamento per Hoffmann, riconoscendogli di avere “nel 1906 […] già realizzato opere prettamente moderne, anche se lievemente turbate da reminiscenze dei floreali triangoletti della scuola decorativa viennese dell’epoca, e dei geometrici decorativismi del Wagner” e sottolineandone così l’attualità dell’insegnamento: “Rivestì le sue strutture geometriche della Casa Stock [sic!] di Bruxelles di lastre di marmo di Svezia […] iniziò l’arte di rivestire in marmo una opera archi-
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pagina a fronte Angiolo Mazzoni, ingresso di un centro ricreativo in riva al mare, 1915 (da Angiolo Mazzoni (18941979) Architetto nell’Italia tra le due guerre, catalogo della mostra, Bologna, Galleria Comunale d’arte moderna, 20 ottobre 1984-3 gennaio 1985, Casalecchio di Reno 1984, fig. 2)
tettonica lasciando la libera visione della struttura e della bellezza geometricamente pure della sua concezione”9. Mentre nei disegni scolastici palais Stoclet è una fonte da cui trarre elementi architettonici, per esempio nella prospettiva d’angolo di una casa d’abitazione con negozi (1919), dove il piano terra e il primo sono trattati con bow-windows che ricordano quelli della facciata verso il giardino della dimora di Bruxelles, negli edifici ferroviari e postelegrafonici realizzati per il Ministero delle Comunicazioni è un modello che rimane sullo sfondo come evocazione allusiva, in un dialogo con Hoffmann che si svolge più sul piano dei principi che su quello delle forme. La ricezione della lezione di Hoffmann, e più in generale dell’arte polimaterica viennese, ha una particolare evidenza nell’uso dei materiali, che fa delle architetture ferroviarie di Mazzoni documenti esemplari dello sfruttamento delle potenzialità espressive derivanti dall’accostamento di materie diverse per qualità tattili e cromatiche. Tra le linee di ricerca progettuali ancorate a ipotesi di realizzazione, l’attenzione per i temi del villino economico nella città giardino e soprattutto della stazione ferroviaria costituiscono punti di tangenza dell’iter progettuale di Sant’Elia e Mazzoni. Il progetto di Sant’Elia, che ha ottenuto un diploma d’onore nel concorso del 1910 per un ‘villino moderno’10, ripropone i consumati espedienti della concezione pittoresca del villino, divulgata dai repertori di modelli pubblicati in Italia nei primi anni del 1900: mossi assemblaggi di volumi dai tetti a falde inclinate memori degli chalet di montagna, torrette e tessiture murarie dai grezzi conci di pietra. Gli stessi caratteri architettonici, unitamente all’organizzazione degli spazi interni, distribuiti e dimensionati secondo i principi dell’igiene, del comfort e dell’economia, improntano i villini unifamiliari e bifamiliari del quartiere giardino ideato da Mazzoni nella zona di San Domenico a Bologna per la sua tesi di laurea, Studio di sistemazione edilizia di tre zone di Bologna, discussa all’esame di licenza il 26 novembre 191911. Da questa linea non si discostano il primo edificio costruito da Sant’Elia la villa Elisi (1912) a Le Colme di San Maurizio (Como) e le mazzoniane “casette pittoresche e movimentate”12 per i ferrovieri (1927-28) lungo le linee altoatesine dalle “rustiche forme ambientali”13, costruite in piccole località lungo la val d’Isarco, sulla linea Verona-Brennero (tratto Bolzano-Brennero), la val Pusteria sulla linea Fortezza-San Candido e la val Venosta sulla linea Bolzano-Malles. Per la seconda partecipazione al ‘Concorso per il progetto della facciata della nuova stazione viaggiatori di Milano al Trotter’, bandito nel 1911 con scadenza fissata al 30 giugno 1912, con lo studio di Arrigo Cantoni, che già aveva conseguito il primo premio nel concorso del 1906 senza peraltro esito esecutivo, Sant’Elia studia un monumentale organismo di ferro e vetro sostenuto da strutture litiche14. Questo progetto segna l’inizio per
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A. Mazzoni, villa sulla riva di un lago, 1919 (da Centro di Studi per la Storia dell’Architettura, Archivio Gustavo Giovannoni, Roma)
l’architetto comasco di un’attenzione per l’architettura ferroviaria, che diventerà uno dei temi dominanti, insieme a quelli della stazione d’aeroplani e treni, della centrale elettrica, dei ponti e viadotti e degli edifici industriali, nei disegni per la Città nuova, elaborati a partire dal 1913. I temi legati alla trasformazione urbana e al rinnovamento della viabilità stradale, resa necessaria dalla crescita del traffico, sono particolarmente recepiti da San’Elia, che fin dal 1907 lavorava come disegnatore edile per l’ufficio tecnico del comune di Milano. Proprio a Milano, tra il 1912 e il 1913, si discutevano i problemi della circolazione stradale, delle aree per edifici da abitazione e — come si apprende da L’Illustrazione Italiana — “si parlava di ferrovie sotterranee; di una Metropolitana, come l’hanno già iniziata a Napoli, e di altre novità, comprese le case di venticinque piani, ossia i ‘grattacielo’ all’americana. Siamo però lontanissimi ancora da quanto succede a Nova York — lamentava l’articolista — dove il “grattacielo” capace di ospitare fino a 10000 persone hanno spinto a proporzioni allarmanti l’ingombro della circolazione delle vie”15, come mostrava la visione della futura circolazione di Manhattan di H. Wiley Corbett16, ripresa dal settimanale Scientific American che l’aveva pubblicata con l’emblematico titolo “The Elevated Sidewalk: How
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it Will Solve City Transportation Problems”17. Oltre ai marciapiedi rialzati ed elevati (passerelle aeree) riservati ai pedoni, la ripartizione della circolazione prevista da Corbett contemplava la strada destinata ai trasporti rapidi (tram, automobili, vetture, cavalli) e il sottosuolo adibito ai trasporti pesanti e collettivi velocissimi (ferrovie sotterranee e metropolitana). La costruzione di marciapiedi elevati al livello dei secondi piani degli edifici avrebbe comportato una trasformazione radicale delle abitudini di vita degli abitanti della città e incrementato il valore degli edifici. Il progetto di Sant’Elia per la facciata della nuova stazione centrale di Milano non è stato presentato da Arrigo Cantoni al concorso, al quale ha invece partecipato con Paolo Vietti Violi. Cantoni, evidentemente, aveva preferito proseguire la proficua collaborazione con l’architetto ossolano, che vantava una formazione all’École Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi (1905), iniziata proprio nel 1911 con la vittoria al concorso internazionale per il nuovo ippodromo di San Siro a Milano18. Al fabbricato viaggiatori santeliano ispirato alla serie dei progetti per il Kaiser Franz Joseph-Stadtmuseum sulla Karlplatz di Wagner, dai quali sono ripresi i temi della passerella aerea e della cupola con due corone (una di tamburo e l’altra di coronamento), Cantoni preferisce quello Beaux-Arts di Vietti Violi, che peraltro si ricollegava alla personale interpretazione del Rundbogenstil del progetto premiato nel concorso del 1906. Per comprendere l’apporto di Sant’Elia rispetto al panorama dei progetti premiati e non premiati (storicistici, Beaux-Arts, tardo-Liberty)19 e all’architettura ferroviaria costruita in quegli anni è significativo ricordare i punti chiave del programma del concorso del 1911. Confermata la tipologia di stazione di testa e la libertà dello stile architettonico del programma del 1906, quello del 1911 si distingueva per l’eliminazione dell’albergo, per l’aggiunta “alle testate delle gallerie dei treni, di un’altra testata trasversale per smistare la folla in arrivo e in partenza”, per la previsione di una “galleria parallela di fronte alla facciata per coprire l’accesso delle vetture” e di una vasta pensilina per la sosta della tramvia20. Quindi due “tettoie” avrebbero costituito la “parte avanzata” della facciata principale del fabbricato viaggiatori. Solo nella santeliana facciata del fabbricato viaggiatori verso piazza Andrea Doria le due “tettoie” di ferro e vetro — la galleria destinata alle vetture voltata a botte ribassata (in sezione una sorta di viadotto) coronata al centro da una svettante cupola e la passerella aerea per la tramvia concepita come un viadotto dotato di pilone — sono esibite a denunciare il carattere utilitaristico dell’architettura ferroviaria. Nel progetto Cantoni-Vietti Violi, diversamente, la “tettoia” delle vetture è configurata come un imponente padiglione caratterizzato da due testate coronate da cupola collegate a una galleria trasversale voltata. L’unico riferimento all’architettura ferroviaria, segnatamente alla Gare d’Orléans di Parigi inaugurata nel 1900, è nella teoria degli spazi cupolati che si succedono a quelli voltati dando luogo, grazie alla copertura di vetro, a quei mirabili effetti e giochi di luce che Victor Laloux
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A. Mazzoni, prospettiva d’angolo di una casa d’abitazione con negozi, 1919 (da A. Forti, Angiolo Mazzoni architetto tra fascismo e libertà, Firenze 1978, fig. 19)
pagina a fronte A. Sant’Elia, progetto per il concorso per la nuova facciata della stazione centrale di Milano, 1912 (da L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia. L’opera completa, Milano 1987, p. 157)
aveva magistralmente impresso alla navata e alle halls delle partenze e degli arrivi; pure la decorazione parietale è ripresa sfacciatamente dalla navata e dall’hotel della stazione parigina. A prescindere dai riferimenti stilistici wagneriani, nel progetto santeliano è già iniziata quella ricerca di un’architettura più sincera, il cui potenziale, qualche anno più tardi, sarà colto con penetrante intelligenza da Arata proprio in “un piccolo schizzo riassun-
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tivo di una stazione” che mostrava “quale deve essere la vera funzione dell’architettura, quali i suoi scopi costruttivi, quale la sua utilità pratica”21. Un altro dato che merita di essere segnalato è il tema della trasparenza della monumentale galleria destinata alle vetture, forse memoria storica di quella ottocentesca in cui transitavano i treni (la più grande d’Italia a quel tempo), che lascia intravedere le strutture di ferro, pervenendo così a esiti di esaltazione del dato tecnologico come matrice dell’immagine dell’architettura ferroviaria, anticipatrice della “sensibilità meccanica” del Messaggio di Sant’Elia, poi del Manifesto L’Architettura futurista. Già nel 1915, Mazzoni aveva letto con interesse il Manifesto dell’11 luglio 1914 ma giudicava “scenografiche composizioni di carattere decorativo le affascinanti tavole architettoniche di Sant’Elia”, ritenute “contrastanti” rispetto ai principi in esso proclamati22. Questo giudizio non trasparirà mai dai suoi scritti del periodo della breve militanza nel movimento futurista (maggio 1933-dicembre 34), ma comparirà solo nella Testimonianza rilasciata nell’aprile 1975 a L’Architettura. Cronache e Storia, dove dichiara che il suo giudizio non si discostava da quello espresso da Bruno Zevi nell’editoriale “La profezia di Umberto Boccioni”23: “Se Marinetti avesse divulgato il manifesto di Boccioni, forse avremmo avuto una architettura futurista, e non soltanto visioni architettoniche e scenografiche. […] Niente macchinismo alla Sant’Elia, niente stazioni somiglianti a navate di cattedrali, sull’orlo di precipizi”24. Nei suoi scritti futuristi, Mazzoni non si esimerà dall’affermare ciò che non condivideva delle istanze santeliane. Fin dalla sua lettera di adesione al movimento marinettiano pubblicata nel 1933 sulle pagine di Futurismo25 in forma di manifesto articolato in 9 punti, una sorta di saluto de-
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A. Sant’Elia, La centrale elettrica, Como 25 febbraio 1914 (da Casabella Continuità, n. 206, luglio-agosto 1955, tav. fuori testo)
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vozionale all’“Eroe Mito Perfezione” Sant’Elia, Mazzoni coglie l’occasione per affrontare un tema a lui particolarmente caro: i materiali nelle costruzioni futuriste, debbono essere “sempre […] naturali e veri e […] mai sostituiti da materiali artificiali o falsi” egli afferma26, contraddicendo il punto 1 del proclama del manifesto di Sant’Elia in cui è esaltata “l’architettura del cemento armato, del ferro, del vetro, del cartone, della fibra tessile e di tutti quei surrogati al legno, alla pietra e al mattone che permettono di ottenere il massimo della elasticità e della leggerezza”. Su questo punto Mazzoni tornerà nuovamente nel novembre 1933 nel suo “Commento al Manifesto di Sant’Elia”: “pienamente d’accordo fino alla parola “vetro”. Per il resto dobbiamo preoccuparci del risorto amore per le materie nobili e naturali. Cartone no. Fibra tessile forse. Niente surrogati: cose belle ci vogliono”27. Significativo notare che l’unico punto del Manifesto non menzionato nel “Commento…” è: “IO COMBATTO E DISPREZZO: […] 5. L’uso dei materiali massicci, voluminosi, duraturi, antiquati, costosi”, ossia materiali come i marmi e le pietre, con cui Mazzoni riveste le sue architetture ferroviarie e postelegrafoniche. E saranno proprio i marmi e le pietre, insieme ai “cristalli, metalli, terracotta, […] ceramiche, porcellane, linoleum, materiali greificati”, a rivestire gli “abitati rifornitori a ossatura di ferro vetro cemento armato” della città unica a linee continue, illustrata nel Manifesto Futurista dell’Architettura Aerea, che Mazzoni firma nel 1934 con Filippo Tommaso Marinetti e Mino Somenzi28. Nella serie di articoli concernenti “I marmi e le pietre d’Italia”29, Mazzoni, oltre a proclamare il “dovere di largamente impiegare nelle nuove costruzioni i marmi e le pietre d’Italia”, metterà in discussione quel fondamentale carattere di “transitorietà” dell’architettura futurista (punto 8 del proclama del manifesto santeliano): “l’uso dei marmi e delle pietre, togliendo agli edifici qualsiasi carattere di transitorietà infonderà negli architetti il concetto di una maggiore responsabilità artistica”30. I caratteri fondamentali di “transitorietà e caducità”, interpolazioni di Marinetti al manifesto di Sant’Elia31, secondo l’architetto bolognese avrebbero dovuto essere così interpretati: “Non caducità e transitorietà materiale e cioè che il monumento o la casa costruiti oggi debban domani crollare o riuscire di stonatura all’ambiente: ma caducità e transitorietà motivati dal desiderio, che deve essere una nostra seconda natura, di cercare sempre nuove forme, di tentare sempre nuove creazioni”32. Mazzoni nelle sue note di commento, incentrate sulle “conclusioni” del manifesto L’Architettura futurista con il precipuo scopo di “aggiornarle come ritengo sia necessario”33, non condivide diversi altri punti, come la condanna di “Tutta l’architettura classica, solenne, ieratica, scenografica, decorativa, monumentale […]”, poiché l’architettura presenta tutti questi caratteri “a seconda delle necessità spirituali o materiali cui dovrà sottostare l’architetto creando le nuove costruzioni”, egli afferma osservando incidentalmente che “L’architettura di […] Sant’Elia è monumentale per eccellenza, ma quale lirismo, quale
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pagina a fronte A. Sant’Elia, studio di stazione ferroviaria, 1913-14 (da Il Manifesto dell’Architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità, atti della giornata di studi, Grosseto, 18 luglio 2014, a cura di M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi, Mantova 2014, p. 54)
emozione promanano da essa!”34. Si dissocia inoltre dal punto in cui è censurata “L’imbalsamazione, la ricostruzione dei monumenti e dei palazzi antichi” perché, educato alla scuola di Gustavo Giovannoni, Mazzoni considera “I monumenti antichi, le opere architettoniche antiche […] patrimonio sacro della nostra razza. […] I monumenti e le costruzioni antiche debbono essere vive espressioni artistiche e politiche, debbono anche oggi risultare utili, praticamente e spiritualmente”35. Anche il dichiarato disprezzo per “Le linee perpendicolari e orizzontali, le forme cubiche e piramidali che sono statiche, gravi, opprimenti, e assolutamente fuori dalla nostra nuovissima sensibilità” è rifiutato da Mazzoni in quanto: “I materiali e i mezzi costruttivi di oggi: ferro e cemento armato favoriscono la linea retta perpendicolare e orizzontale che è, pertanto, la forma essenziale dell’architettura moderna”36. Sullo stesso punto anche Guido Fiorini, che dal gennaio 1933 aveva aderito ufficialmente al movimento marinettiano, esprime nell’ottobre 1934 il proprio dissenso sulle pagine di Stile Futurista, dichiarando la propria convinzione della “coesistenza”, della “eguale importanza, nell’architettura vivente, delle linee perpendicolari ed orizzontali e delle linee oblique ed ellittiche”37. Con un’affermazione rivelatrice dell’ascendente che sta esercitando su di lui Le Corbusier, Fiorini conclude: “Le forme cubiche e piramidali m’interessano in architettura come tutte le forme dei solidi geometrici elementari. (E d’altra parte non sono le piramidi costituite da linee oblique? Ed i suoi edifici [di Sant’Elia, N.d.A.] con facciate inclinate non sono forse elementi di piramidi?)”38. Che Sant’Elia avesse un “atteggiamento stranissimo” nei confronti delle linee perpendicolari e orizzontali e delle forme cubiche e piramidali, non era sfuggito neppure ad Alberto Sartoris: “Insorse contro di esse tacciandole di pericolose perché statiche, opprimenti, pesanti e gravi, allorché erano, in certo qual modo, alla base stessa delle sue teorie”39. Sartoris stesso spiega la contraddizione in cui sarebbe caduto l’architetto comasco: Avendo proclamato il disprezzo assoluto dei materiali massicci, voluminosi, duraturi, antiquati e costosi, credette, un tempo che tali materiali fossero il prodotto della verticale e dell’orizzontale. Cadde così, inconsapevolmente, in un ragionamento contrario alla propria personalità. Infatti, mediante la compenetrazione dei piani, il dinamismo e la potenza emotiva possono nascere tanto dalle linee oblique ed ellittiche quanto dalle verticali o dalle orizzontali. […] Nonostante le suaccennate riserve, l’importanza del contributo di Sant’Elia precursore rimane press’a poco inalterata40.
Sulla supremazia delle dinamiche linee oblique ed ellittiche, le quali “hanno una potenza emotiva mille volte superiore a quella delle perpendicolari e delle orizzontali, che non vi può essere un’architettura dinamicamente integratrice all’infuori di esse”, Mazzoni non è del tutto concorde: “Questo non è più assolutamente vero; può essere vero”41.
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Del manifesto del 1914 Mazzoni condivide invece il radicale antistoricismo; l’affermazione di un’architettura perfettamente contestualizzata nel suo tempo storico, ispirata al “nuovissimo mondo meccanico” e armonizzatrice tra ambiente e collettività; la condanna dell’influenza della “pseudo-architettura d’avanguardia austriaca, ungherese, tedesca e americana” sull’architettura italiana, che deve essere compresa e superata “restando integralmente noi stessi”; l’uso e la disposizione originale del materiale “greggio o nudo o violentemente colorato” quale unico “valore decorativo” dell’architettura futurista. Nella compagine degli architetti futuristi (Virgilio Marchi, Fillia, G. Fiorini, ecc.), l’architetto e ingegnere del Ministero delle Comunicazioni è stato l’unico nell’Italia dei primi anni 1930 a realizzare manufatti edilizi e arredi destinati alla collettività restituiti attraverso il filtro della poetica santeliana. L’edificio più rappresentativo della sua breve militanza futurista è quello della Centrale termica e della cabina degli apparati centrali (1932-34) della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a Firenze, nel quale l’esibizione degli elementi costruttivi, delle macchine e dell’apparato degli impianti partecipe dell’estetica della neue Sachlichkeit (particolarmente evidente nelle due vedute prospettiche del primo progetto, 1932 ca.) si coniuga con la poetica dell’arte meccanica delle centrali elettriche, termoelettriche e degli edifici industriali di Sant’Elia, dando vita a un complesso dinamico che evoca l’immagine di un vagone trainato da una locomotiva. Il dato costruttivo è esaltato dal tema del movimento
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A. Mazzoni, centrale termica e cabina degli apparati centrali, 193234, Firenze, veduta generale, foto d’epoca (Firenze, archivio privato)
pagina a fronte A. Mazzoni, palazzo postelegrafonico di Pola, 1930-35 (da A. Forti, Angiolo Mazzoni architetto tra fascismo e libertà, Firenze 1978, fig. 48)
che, innescato dalla cerniera configurata come volume turrito e collegante la cabina alla testata est della centrale termica, pervade l’intero complesso architettonico, raggiungendo il suo apice nell’aerea “scala spiralica di ferro che a una data altezza — aveva osservato Marinetti — si muta in passerella orizzontale per raggiungere la prima bocca di fumo e da quella le altre. Si forma così una elegante passeggiata metallica nel vuoto, che agilizza tutto l’edificio e richiama per la sua vaporosità atmosferica certe volubili ed elastiche musiche di Debussy”42. Il tema del movimento è un altro punto di tangenza tra i due architetti, ma mentre nella Città nuova è raffigurato principalmente dalla rete dei trasporti di una moderna metropoli integrata nelle strutture architettoniche, in Mazzoni, che costruiva edifici ferroviari e postelegrafonici, è introiettato nell’impianto del manufatto edilizio. Mazzoni sembra, dunque, recepire quel dinamismo impresso da Sant’Elia nei suo studi di volumi del 1913, denominati appunto dagli studiosi “dinamismi architettonici”, e nei progetti per edifici industriali. Un esempio magistrale di questa poetica del dinamismo è l’episodio del palazzo postale di Pola (1930-35): su un lotto triangolare angusto sorge l’edificio con pianta a V, composto da un corpo cilindrico turrito — la cerniera — al quale sono agganciati due volumi parallelepipedi. Come nella centrale termica e cabina
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degli apparati centrali, Mazzoni compone ogni facciata con lo scopo di denunciare la diversa destinazione funzionale dei singoli corpi di fabbrica, imprimendo un carattere scultoreo in particolare al fronte d’ingresso. Al ricercato effetto di dinamismo concorrono tutti gli elementi della composizione architettonica che sembrano influenzarsi reciprocamente: dalla pensilina semicircolare di notevole spessore e aggetto alle scale semicircolari con il gradino più alto prolungantesi lungo la parete in forma di panchina che si salda al monumento ai caduti sul quale svettano tre fasci littori. All’interno il volume turrito-cerniera ospita la hall d’ingresso e la scala elicoidale, che si snoda lungo il volume circolare rivestito integralmente di minute tessere di vetro rosso rubino con riflessi cangianti. Alle architetture meccaniche santeliane s’ispirano altre opere mazzoniane, per esempio lo slancio ascensionale delle scale gettate come archi rampanti dei palazzi postelegrafonici di Latina (1930-32) e di Sabaudia (1933-34). Inoltre i temi dei rivestimenti polimaterici43 e del colore nell’architettura rappresenta il punto di tangenza più significativo con Sant’Elia. Oltre ai marmi e alle pietre, la ceramica colorata, le minute tessere di vetro colorato, il vetrocemento, i mattoni di vetro colorato di Murano44, l’anticorodal, il linoleum45, le leghe46, il rame sono i materiali privilegiati da Mazzoni nelle sue architetture ferroviarie e postelegrafoniche:
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A. Mazzoni, palazzo postelegrafonico di Latina, 193032 (da Futurismo, n. 16, 25 dicembre 1932, p. 4)
i saggi più riusciti di quel superamento del “calvinismo nordico” dell’architettura razionale italiana e del Futurismo, perseguito dall’architetto e ingegnere del Ministero delle comunicazioni mediante l’innesto di una vivace policromia risultante dall’accostamento di tutti questi materiali diversi. Ancora a Mazzoni spetta il primato nell’aver utilizzato il colore negli edifici pubblici, a partire dalla Colonia Marina Rosa Maltoni Mussolini per i figli dei postelegrafonici e ferrovieri a Calambrone (Tirrenia, 1925-33), integralmente tinteggiata di un colore appariscente celebrato da Marinetti: Il grande valore architettonico lirico d’un tono di colore genialmente indovinato appare nella Colonia Marina di Calambrone. Da lontano nel verde intenso della pineta, splende, plastico e volumetrico, l’arancione caldo degli edifici scolastici che sporgono i parallelepipedi delle loro lunghe balconate. Non meno piacevole è il cinabro dei finestroni. Identico al primo è l’arancione dei due serbatoi d’acqua cilindrici, ognuno stretto spiralicamente da una scala di cemento grigio piombo47.
La predilezione per il colore arancione, che mostra leggero e gioioso il lato dinamico della vita, utilizzato copiosamente da Sant’Elia per gli sfondi della maggior parte delle sue visioni architettoniche o per campire le superfici delle sue costruzioni — probabilmente mutuato dai cieli color arancione della Wagnerschule — rappresenta un ulteriore fil rouge con Mazzoni.
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Note 1 Sant’Elia ottiene il diploma di professore di disegno architettonico all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 1912 e Mazzoni nel 1922. 2 Lo studio degli album che raccolgono i progetti di O. Wagner e dei suoi allievi ha costituito un momento fondamentale nella formazione di Sant’Elia. È noto che egli possedeva il volume Wagnerschule 1902 (Leipzig, Baumgärtners Buchhandlung, 1903) e che M. Chiattone, con cui condivideva lo studio professionale, aveva gli album Wagnerschule 1902-03 und 1903-04 (Leipzig, Baumgärtners Buchhandlung, 1905). 3 A. Mazzoni, Appunti sulla mia formazione e sul mio lavoro di architetto e di ingegnere, 9 settembre 1976, Archivio del ‘900 del MART di Rovereto, fondo Angiolo Mazzoni (d’ora in avanti MART), Maz. S21, p. 2. 4 Cfr. F. Tentori, “Le origini Liberty di Antonio Sant’Elia”, L’Architettura Cronache e Storia, I, n. 2, 1955, pp. 206208; E. Godoli, Il futurismo, Roma-Bari Laterza,1983, pp. 12-20; I. Boyd White, “Antonio Sant’Elia: un Wagnerschüler in absentia”, in Antonio Sant’Elia l’architettura disegnata, catalogo della mostra (Venezia, Museo d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, 7 settembre - 17 novembre 1991), Venezia, Marsilio, 1991, pp. 73-87. 5 G. U. Arata, “La Prima Mostra di Architettura promossa dall’Associazione degli Architetti Lombardi”, Vita d’Arte, 1914, n. 75, pp. 70-71. 6 A. Mazzoni, Appunti sulla mia formazione e sul mio lavoro di architetto e di ingegnere, 9 settembre 1976, MART, Maz. S21, p. 3. 7 D. Frey, “Josef Hoffmann”, Der Architekt, 23, 1920, pp. 65-67. 8 Cfr. Mazzoni, Appunti…, cit., p. 6. 9 A. Mazzoni, “I nuovi materiali”, Sant’Elia, 3, 1934, n. 63, p. 1. 10 Il concorso era stato bandito dalla Cooperativa ‘Milanino’ allo scopo di realizzare una città giardino nella zona compresa fra Cusano Milanino e Cinisello Balsamo (Milano); vedi Il villino moderno. Raccolta di progetti per il concorso omonimo, dicembre 1910-gennaio 1911, Tipografia degli operai, Milano s.d. [1911] e Le Case Popolari e le Città Giardino, 1, s.d.[1911], n.10-11, p. 55. 11 Cfr. A. Mazzoni, Studio di sistemazione edilizia di tre zone di Bologna, Bologna, “La Tipografica” Comi & C., s.d.[1922]. 12 Le case per ferrovieri situate a Chiusa, Varna, Campo di Trens (linea Verona-Brennero), Vandoies e Casteldarne (linea Fortezza-San Candido) sono state pubblicate in Architettura e Arti Decorative, 9, 1929, fasc. II-III, pp. 139-142. 13 Mazzoni, Appunti…, cit., p. 4. 14 La collaborazione con Arrigo Cantoni proseguirà con il progetto di concorso per la Cassa di Risparmio di Verona (1913) e con il progetto per la nuova Sede della Società dei Commessi di Como (1914). 15 “La circolazione futura e i gratta nuvole a Nova York”, L’Illustrazione Italiana, 40, 1913, n. 35, p. 211. Le meraviglie dell’ingegneria moderna americana erano segnalate dal giornale italiano, il 2 marzo 1913: un articolo su “La più grande stazione del mondo. Inaugurata a New York” (inaugurata il 1 febbraio) mostrava lo spaccato assonometrico tentacolare della Grand Central Station, opera di Whitney Warren e Charles Delevan Wetmore, nel quale si vedevano i tre tunnel per treni scavati nel sottosuolo. 16 Nella visione di Corbett, pubblicata già nel 1910, è prefigurata con dovizia di dettagli la futura circolazione di Manhattan: “Ordinary vehicles on the street level. Passenger cars in subway. Freight cars in deeper subways. Moving sidewalk at second story of buildings. Pedestrian sidewalks at higher levels, connected by bridges. Buildings receding further from the stoop line at each story, affording room for sidewalks and free access of light to all levels” (“Costly street widenings, as Manhattan crowds increase, might be obviated by planning this kind of a thoroughfare”, New York Tribune, January 16, 1910). 17 “The Elevated Sidewalk: How it Will Solve City Transportation Problems”, Scientific American, 69, 26 July 1913. 18 Precedentemente, nel 1910, Vietti Violi aveva realizzato in collaborazione con Cantoni la casa Cantoni-Pisa a Milano. 19 Tra i premiati figuravano Ulisse Stacchini (primo premio), Giuseppe Pantaleoni Boni — Luigi Radaelli (secondo premio), Mario Dovara — Giuseppe Laveni — Aldo Avati (terzo premio), Giovanni Greppi (terzo premio); tra i non premiati Arrigo Cantoni — Paolo Vietti Violi, Tobia Gordini-Pedretti, Prati, vedi Concorsi di Architettura in Italia, Milano, Bestetti & Tumminelli, 1912. 20 La Stazione Centrale di Milano. Mostra del cinquantenario. Ferrovie dello Stato-Comune di Milano, catalogo della mostra (Stazione centrale di Milano, 11 dicembre 1981-20 marzo 1982), a cura di P. Saporito, Milano, Di Baio, 1981, pp. s.n. 21 Arata, op. cit. 22 “Testimonianza di Angiolo Mazzoni”, L’Architettura. Cronache e Storia, 20, 1975, n. 234, p. 786. 23 Ibid. 24 B. Zevi, “La profezia di Umberto Boccioni”, L’Architettura. Cronache e Storia, 19, 1974, n. 222, p. 704. 25 Cfr. “L’adesione di Mazzoni e la risposta di Marinetti”, Futurismo, 2, 1933, n. 36, p.1. 26 A. Mazzoni, “Architettura futurista”, ivi, p.6. 27 Id., “Commento al Manifesto di Sant’Elia”, Sant’Elia, 1, 1933, n. 3, p.1. 28 F. T. Marinetti, A. Mazzoni, M. Somenzi, “Manifesto futurista dell’architettura aerea”, Gazzetta del Popolo, 27 gennaio 1934; rist. in Sant’Elia, 2, 1934, n. 3, p. 2 bis.
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Cfr. A. Mazzoni, “I marmi e le pietre d’Italia”, Sant’Elia, 3, 1934, n. 65, p. 1; Id., “Fra i marmi e le pietre d’Italia”, ivi, 3, 1934, n. 66, p. 1; Id., “Pietre e marmi d’Italia. Il ‘Nero di Col di Lana’”, ivi, 3, 1934, n. 70, p. 1; Id., “Tra i marmi e le pietre d’Italia. Ancora il ‘Nero di Col di Lana’”, Sant’Elia, 3, 1934, n. 71, p. 2; Id., “Varietà di pietre e di marmi siciliani. Il Rosso di Alcamo”, Artecrazia, 3, 1934, n.74, p. 2. 30 A. Mazzoni, “I marmi e le pietre d’Italia”, Sant’Elia, 3, 1934, n. 65, p. 1. 31 Vedi E. Godoli, “Puntualizzazioni sull’opera di Antonio Sant’Elia e sul Manifesto dell’architettura futurista”, in Il Manifesto dell’Architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità, atti della giornata di studi (Grosseto, 18 luglio 2014), a cura di M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi, Mantova, Universitas Studiorum, 2014, pp. 21-46. 32 A. Mazzoni, “Commento al Manifesto di Sant’Elia”, Sant’Elia, 1, 1933, n. 3, p.1. 33 Ibid. 34 Ibid. 35 Ibid. 36 Ibid. 37 G. Fiorini, “L’influenza mondiale di Antonio Sant’Elia”, Stile Futurista, 1, 1934, n. 4, pp. 18-23. 38 Ivi, p. 23. 39 A. Sartoris, Antonio Sant’Elia, Milano, Off. grafiche Esperia, 1930, p. 24. 40 Ibid. 41 Ibid. 42 Cfr. F. T. Marinetti, “L’architetto Angiolo Mazzoni”, Gazzetta del Popolo, 19 agosto 1933, rist. in Futurismo, III, n. 51-52, 3 settembre 1933, p. 4. 43 A. Mazzoni, “Polimaterico”, Futurismo, 2, 1933, n. 51-52, p. 6. 44 Cfr. M. Giacomelli, “L’opera di Napoleone Martinuzzi nelle architetture di Angiolo Mazzoni”, Convegno di Studi Napoleone Martinuzzi: dalla scultura al vetro, atti del convegno (Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 5 giugno 2013), Saggi e Memorie di Storia dell’Arte, (2013), 2015, n. 37, pp. 142-159, p. 221. 45 A. Mazzoni, “Il linoleum elemento di bellezza decorativa”, Sant’Elia, 2, 1934, n. 3, p. 4. 46 Id., “Una nuova lega leggera. Bronzalluminio”, Sant’Elia, 3, 1934, n. 72, p. 1. 47 Marinetti, “L’architetto Angiolo Mazzoni”, cit. 29
antonio sant’elia e l’architettura visionaria degli anni 1910
Fabio Mangone
Come anticipato nel catalogo della Mostra alla Triennale di Milano1, questo convegno fiorentino su Sant’Elia scaturisce anche dall’intento di sottrarre la sua figura all’aura di profeta isolato nella sua eccezionalità. Nei fatti, la storiografia dell’ultimo mezzo secolo, pur avendo preso le distanze dalla mitografia fascista, nella quale Sant’Elia — conteso tra razionalisti e futuristi — doveva accreditare nel mito del geniale eroe un improbabile primato dell’architettura nazionale2, solo di rado e solo parzialmente si è sforzata di collocare il percorso e la traiettoria di Sant’Elia nell’ambito di un più generale contesto di riferimento. Da un lato, si situava la difficoltà di delineare nella sua specificità il più ampio panorama della cultura architettonica degli anni 1910 in cui si iscrive la ricerca di Sant’Elia in tutte le sue apparenti contraddizioni: un filone che — nonostante alcuni significativi spunti interpretativi offerti negli anni 1980 sia da Rossana Bossaglia3, sia da Daniele Riva ed Eleonora Bairati4 — non riusciva ad emergere di netto, sia perché in parte compresso tra due fasi dall’immagine storiografica molto più nitida quali il liberty per un verso e il barocchetto-déco per l’altro, sia perché in larga parte costituto da architetture disegnate piuttosto che da costruzioni. Dall’altro, incidevano sia una certa refratterietà degli studiosi del Futurismo (pur se con alcune eccezioni importanti, come nel caso di Ezio Godoli) ad accogliere contaminazioni interpretative che legassero la figura di Sant’Elia a fenomeni meno immediatamente interpretabili come avanguardia, sia a un certo grado di autoreferenzialità dei più accreditati e ricorrenti interpreti di Sant’Elia, del tutto impermeabili ai pur notevoli spunti provenienti dagli studi più generali sull’architettura italiana ed europea di quel periodo. Un tentativo di iscrivere l’opera di Sant’Elia in un più vasto contesto della cultura architettonica, più europeo che italiano, si manifestava con la mostra veneziana del 1991, Antonio Sant’Elia l’architettura disegnata5: la produzione del comasco venne accostata a lavori rimasti su carta di un Sauvage, di un de Klerk, di un Poelzig, e soprattutto di un Mendelsohn, tuttavia limitandosi soltanto a registrare l’esistenza in parte dell’Europa — a cavallo della guerra — di una certa tensione a considerare la fantasia architettonica, sinteticamente studiata nelle complessive volumetrie prima ancora che in pianta, come momento importante di spe-
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antonio sant’elia e l’architettura del suo tempo
pagina a fronte Bruno Schimtz, monumento alla Battaglia delle Nazioni a Lipsia, 1897-1913 Gaetano Moretti, mausoleo nel Cimitero di Trezzo d’Adda S. Gambini, Visione, 1913 ispirata al Progetto di cupola per un palazzo di giustizia di Fritz Schumaker del 1889
rimentazione e di ricerca, senza nemmeno tentare di individuare e segnalare eventuali affinità, possibili sfere di influenza, ed ipotetiche interferenze. L’accostamento a schizzi architettonici, come soprattutto quelli delle fabbriche di Mendelsohn, che pure manifestavano una qualche facile analogia, eludeva il non semplice problema dell’eventuale rapporto della ricerca di Sant’Elia, e più in generale del filone visionario dell’architettura italiana degli anni 1910, con le linee dell’espressionismo tedesco. Tuttora resta di fatto difficile delineare in maniera convincente, al di là di certe parziali ma immediate somiglianze formali sia nei modi della rappresentazione e sia nella ricorrenza di alcune ricerche plastiche e volumetriche, un significativo rapporto tra i percorsi dell’espressionismo, soprattutto tedesco, e la linea dell’architettura visionaria italiana: non soltanto perché quest’ultima si fonda essenzialmente sulla rielaborazione fantastica di plurimi spunti eclettici, ma perché sarebbe arduo individuare in essa uno spessore concettuale altrettanto ricco e significativo. In questa chiave Rossana Bossaglia aveva escluso che la si potesse interpretare nei termini di una sorta di “espressionismo reazionario”6 proprio per l’impossibilità di riconoscervi “un’adeguata teorizzazione della sua problematica e dei suoi fini”. Bisognerebbe tener conto poi delle insidie celate dalla semplicistica omologia riscontrabile nel disegno fantastico come momento autonomo di sperimentazione progettuale: dietro la propensione dei modernisti e degli espressionisti mitteleuropei a questo tipo di strumento espressivo, come hanno ben documentato studi recenti, si situa una precisa consapevolezza dei nuovi temi posti dalla psicologia e dalla psicanalisi7. Al massimo, nel filone italiano si può rintracciare una generica attitudine ad esprimere valori “spirituali”, secondo una terminologia della critica dell’epoca: questa circostanza spiega la insistita ricerca su certi temi, già prima della guerra, quali quello dell’architettura sacra, monumentale ed eroica8. Se dunque risulta difficile delineare in termini convincenti un’omologia tra i due fenomeni coevi, bisogna considerare che essi comunque hanno un influente retroterra comune, incidente tanto sul filone visionario italiano, tanto sull’espressionismo tedesco: la straordinaria stagione teutonica all’insegna della monumentomania, compresa tra guerra franco-tedesca del 1870-71 e la prima guerra mondiale, della quale sono testimonianze straordinarie certe opere colossali di Bruno Schimtz, come Kyffhäuser (1889-96) o il Monumento alla Battaglia delle nazioni a Lipsia (1897-1913). Come ha acutamente notato Wolfgang Pehnt9, questi monumenti guglielmini anticipano certi temi espressionisti nella capacità di coniugare i temi archetipici dell’antro cupo e della torre in elevazione; agiscono in maniera significativa anche sulla cultura italiana, ma con interpretazioni più immediatamente “stilistiche” e formali, agevolate dalla circolazione delle immagi-
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ni. Nel suo disinvolto storicismo, ma con la capacità di fondere in insiemi coerenti architettura e scultura, e di esaltare le potenzialità monumentali in un approccio spregiudicatamente eclettico, questa linea pur se idealmente legata a una temperie culturale mitteleuropea di fine ottocento, agli occhi degli architetti italiani era sentita come viva e operante ancora nel secondo decennio del novecento, anche perché molti di questi colossali memorial concepiti molto prima del volger del secolo avevano spesso subito lunghissimi processi costruttivi, per andare talora ad ultimarsi solo nei primi anni 1910, come accadeva non soltanto al nazionalissimo Vittoriano, ma anche al Monumento alla Battaglia delle Nazioni di Lipsia, la cui inaugurazione nel 1913 era accompagnato da una vasta circolazione di immagini sulla stampa periodica non soltanto specializzata. Ancorché pubblicato nel 1896, non perdeva di attualità nei primi decenni del nuovo secolo il volume Skizzen di Otto Rieth10, che riconduceva a fantastiche visioni grafiche questa passione monumentale. Tanto più che la rivista di Darmstadt, Deutsche Kunst and Decoration, dal 1898 avrebbe assicurato ampio spazio alle ineffabili visioni architettoniche, monumentali e paesistiche di Rieth. Tanto la concretezza dei solenni memorial tedeschi, quanto la virtualità degli schizzi immaginifici di Rieth risultano influenti sia direttamente, sia indirettamente perché condizionano significativamente esperienze a cui la cultura italiana dell’architettura visionaria degli anni 1910 guarda con grande interesse. Esse costituiscono un’imprescindibile retroterra per quegli adepti della Wagnerschule più sensibili a questi temi, per architetti come Hoppe, Kammerer, Schönthal, i cui lavori erano peraltro pubblicati su quell’album11 1902 posseduto da Chiattone e da sempre correttamente riconosciuto importante fonte di ispirazione visiva per Sant’Elia12. A proposito di questi allievi della Wagnerschule giustamente Ezio Godoli parla opportunamente di fantasie fanta-archeologiche13. In questa direzione, certe innegabili affi-
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pagina a fronte Otto Rieth, studio architettonico, 1888, pubblicato in Skizzen, 1896 Otto Schöntal, studio di insieme monumentale, pubblicato nell’album Wagnerschule 1902 Carl Weichardt, ricostruzione di Villa Iovis a Capri, 1899
nità nel tratto, nei modi della rappresentazione prospettica, inducono a non trascurare il ruolo quali fonti di ispirazione per i giovani allievi della Scuola viennese assunto da certe ricostruzioni, a loro modo filologiche e puntuali, di monumenti romani da parte di architetti-archeologi di solida formazione classica ma dotati di una certa attitudine visionaria. Si pensi, tra gli altri, al tedesco Carl Weichardt i cui studi sui templi di Pompei, e soprattutto su villa Iovis a Capri, vengono pubblicati in grandi volumi, editi a Lipsia a inizio secolo, con edizioni in lingua tedesca, francese e inglese14. I volumi su Villa Iovis, molto diffusi in Italia e soprattutto negli ambienti delle Accademie, dovevano essere ben noti ai giovani architetti italiani, e allo stesso Sant’Elia come dimostrano con assoluta evidenza alcuni schizzi di architettura monumentale15, che con rimandi ora più immediati, talora più filtrati rielaborano lo “Schloss” tiberiano a Capri idealmente ricostruito con potenza immaginifica da Weichardt. Tornando alla Wagnerschule, va detto che al di là degli album, molte riviste accorsate pubblicavano visioni ideali monumentali dei giovani viennesi, nelle quali i termini di un passato immaginato si confondevano con la visione di un futuro immaginario. Una serie di indizi, tuttavia, inducono a non concentrarsi solo sulle riviste dell’area tedesca e austriaca, quali Der Architekt che sappiamo non mancava nelle biblioteche di Arata, Coppedè, Gambini, e di altri protagonisti della linea visionaria italiana, ma anche ad esempio le britanniche, quali ad esempio Academy architecture, pure molto consultate. Da un ampio retroterra europeo di immagini si origina dunque la linea visionaria dell’architettura italiana che, avviata in sordina ad inizio del secolo, si sviluppa con coerenza durante gli anni 1910, senza risentire negativamente — come avviene per altre ricerche artistiche e architettoniche — della parentesi bellica, uscendone anzi rafforzata proprio per la rinnovata attualità dei temi sacri e celebrativi16. Si tratta di un filone dotato di una spiccata tendenza alla monumentalità, ottenuta attraverso complessi montaggi di elementi plastici, consistenti in masse dotate di una ben evidente materialità piuttosto che di incorporei volumi. Detti montaggi tendono a composizioni piramidali o tronco-piramidali, esagerando gli effetti di sublime mediante prospettive fortemente scorciate dal basso, secondo una diffusa modalità di rappresentazione che è patrimonio anche degli insegnamenti accademici, soprattutto in area lombarda ed emiliana. Alla tecnica del montaggio si lega la insistita ricerca di effetti plastici complessivi, ottenuti in genere rifuggendo le composizioni scatolari (in certa misura la ricerca di un Mario Chiattone costituisce un’eccezione) e non di rado integrando nelle generale composizione architettonica figurazioni scultoree, anche di notevole dimensione. Infine, una speciale attenzione è riservata ai paesaggi montani, a ricercare corrispondenze ideali tra i piani inclinati del-
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le monumentali composizioni architettoniche, e i ripidi pendii alpini, i quali spesso vengono assunti come scenari ideali di queste visioni: al proposito val la pena di ricordare come, nel tema dell’esame di licenza bolognese del 1912, Sant’Elia avesse dichiarato di sentirsi attratto dal gotico “per le sue grandi masse che ricordano montagne di ghiacciai”17. Più in generale, questa linea visionaria più che utopica, dotata di una spiccata propensione al fantastico, si manifesta soprattutto in studi grafici sintetici: molto spesso slegati da specifiche esigenze professionali o da precise richieste di committenza, individuano nel disegno il luogo privilegiato di sperimentazione, ove fantasticare su temi e tipi architettonici posti oltre la banalità della routine, e ove far valere l’abilità grafica e la potenza immaginifica come indispensabile strumento per la ricerca architettonica. Queste posizioni, tese anche a rivendicare la deliberata artisticità del prodotto architettonico, sono fortemente legate alla polemica sugli itinera formativi, e alla richiesta del riconoscimento legale del titolo di architetto: ricordiamo incidentalmente che proprio nell’ambito di queste rivendicazioni si iscrive la prima mostra degli architetti lombardi, tenuta a Milano nel 1914, e recensita da Arata18, che costituisce per Sant’Elia la prima occasione di entrare a contatto con il pubblico e di venire menzionato su riviste specializzate, e segnalato come il “più logicamente fantastico”. Sebbene, come si è detto, questa linea si manifesti principalmente nell’ambito del disegno
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Giulio Ulisse Arata, palazzo Berri-Meregalli, 1911-13
pagina a fronte Piero Berzolla, progetto di Albergo, 1919 ca.
visionario, ove ve ne sia occasione entra anche nella pratica costruttiva concreta, trasformando temi altrimenti banali in occasioni straordinarie di esaltazione dell’individualismo espressivo e per cosi dire di “volontà d’arte”. Valga l’esempio di alcune singolarissime costruzioni civili, soprattutto residenziali, di intonazione ipereclettica, e soprattutto fantasticamente neomedievale: queste condividono con i progetti visionari una certa la tensione a segni concitati, ad un rinnovato senso del sublime, a privilegiare possenti effetti di massa, a valorizzare le prospettive scorciate dal basso, a complicati montaggi di volumi e di masse, come mostrano tra le altre alcune notissime opere di Mancini, di Coppedè, di Arata, di Andreani e di tante altri. Opere, come dice Alfredo Melani a proposito del palazzo Berri-Meregalli a Milano, poste al di là della “glaciale melanconia delle cose comuni”19. A proposito di individualismo, val qui la pena di ricordare che la critica dell’epoca parlò di “stile Coppedè”20 e di “stile Arata”21. Un importante aspetto in cui la concretezza dell’operare si misura con la linea visionaria sta nell’attitudine a considerare il singolo e pur eclatante edificio come elemento costituivo e come caposaldo di un più generale contesto, urbanistico o paesistico, teso a valoriz-
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zare dei punti nodali del tessuto urbano, ovvero degli elementi lirici del paesaggio. Per questi aspetti resta tutto da valutare il rapporto eventuale con il coevo dibattito sulla tutela paesistica per un verso, e con le nuove ipotesi di lettura formalistica dello spazio urbano. Futuri studi potranno ad esempio valutare, almeno per quanto attiene all’area lombarda, il ruolo di Ugo Monneret de Villard, che oltre ad essere uno dei primi interpreti di Sommaruga22, un docente di Brera, l’autore di una centrale idroelettrica che si iscrive bene in questo filone, lo storico dell’arte che introduce nuove suggestioni ben accolte in quella linea del fantastico dove spesso si confondono i termini di medioevo e di orientalismo, è altresì in quest’ambito colui che introduce le teorie di Camillo Sitte23, con la traduzione italiana de L’arte di costruire le città. La tendenza a prediligere configurazioni possenti, plastiche e massive, come commenti lirici del paesaggio, in certa misura si può anche ricondurre all’influenza di Sommaruga, soprattutto quello del Grand Hotel Tre Croci, la cui eco si avverte nelle scuole, emiliane e lombarde in specie, dove peraltro si lavora nel culto del disegno come luogo di sperimentazione, nella possibilità che consente fantasticare su tempi di ampia scala e rilevante impegno simbolico certamente. Proprio per la più moderna attenzione al potenziale paesistico, una par-
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Aldo Zacchi, progetto scolastico di funicolare, 1913-14
pagina a fronte P. Berzolla, progetto di Funicolare alpina, 1919 ca.
ticolare centralità assumono alcuni temi, ben differenti funzionalmente ma idealmente affini nell’immagine complessiva di aggettivazione architettonica moderna dei paesaggi tradizionali, quali per un verso ad esempio la centrale elettrica — molto presente negli studi di Sant’Elia — e per l’altro la funicolare. Pur se alla ricerca di nuovi temi edilizi da esprimere, questa linea non disdegna affatto le tipologie tradizionali, interpretandole in senso monumentale: non solo quando si tratta di far assurgere a “palazzo” un’altrimenti banale casa per appartamenti — come nel caso poniamo del palazzo Berri Meregalli di Arata — ma anche quando si tratta di un enfatico palazzo pubblico, sviluppando certi spunti insiti anche in alcuni emblematiche sedi di Roma capitale, come soprattutto il palazzo di Giustizia di Calderini (al quale rimandano alcuni schizzi24 dello stesso Sant’Elia). Dal Mancini del progetto concorsuale per la sede le Tribunale della Pace a L’Aja, all’Andreani della Camera di Commercio di Mantova, accade che anche il palazzo pubblico possa perdere la sua rassicurante e aurea mediocritas, per ammantarsi di un che di fantastico e di visionario. In ogni caso, le tipologie più coe-
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renti con questa tensione sono quelle della tomba, del cimitero, del tempio, della chiesa e del complesso religioso e, dopo la guerra, del sacrario: temi in cui si può far valere non soltanto la ricerca di un’architettura deliberatamente artistica, ma anche l’ambizione ad esprimere valori spirituali. Ne sortiscono progetti magniloquenti elaborati tanto nelle aule dei corsi accademici, come occasione di sperimentazione e di verifica, quanto sui tavoli di architetti desiderosi di mettere tra parentesi la routine professionale per abbandonarsi alla visione, ovvero di dedicarsi a occasioni professionali, ivi compresi i concorsi, ove è richiesto di dar forma a questa tensione ideale. È interessante peraltro notare il metodo di lavoro, allorché sono sopravvissuti e noti i bozzetti e gli schizzi relativi a questi lavori, come nel caso di Arata o di Sant’Elia: la “composizione” in termini letterari consiste nel “montare” elementi dotati di una propria fisionomia plastica, ovvero nello studiare effetti prospettici generali che precedono di gran lunga ogni considerazione sulla distribuzione interna, e non di rado ne prescindono.
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pagina a fronte Giuseppe Mancini, progetto per il palazzo della Pace all’Aja, 1907
Come è stato più volte notato, questa visionaria architettura italiana è nei riferimenti storicistici adottati abbastanza onnivora: sono rari i casi in cui — come in parte della produzione di Chiattone e di Sant’Elia — vengono ridimensionate o trasfigurate del tutto le citazioni storicistiche più esplicite; per il resto va detto che la maggior parte degli architetti tende ad accogliere in nuove e spregiudicate composizioni non soltanto elementi dell’architettura tradizionale (il colonnato, la scalea, la cupola) e tipi monumentali (il cippo, la piramide, il tholos), ma anche suggestioni eterogenee di mondi artistici remoti, che spaziano dall’antichità romana al barocco, dal cosiddetto “assiro-babilonese” al “bizantino”: quel “bizantino” rivivificato dalla Secessione scelto da Sant’Elia per la sua prova d’esame all’Accademia di Bologna25. La presenza della storia non configura soltanto sopravvivenze di antiquate memorie accademiche, ma anche sperimentazione sul campo di stimoli provenienti da ricerche volte a sondare campi nuovi ed affascinanti. Valga fra tutti il caso degli studi di Arata sull’architettura arabo-normanna in Sicilia26 e delle relative influenze sul suo ineffabile stile, quale si manifesta ad esempio nel palazzo Berri-Meregalli. Ancora, si pensi alle suggestioni di matrice indiana pure accolte in questa linea, e soprattutto in area lombarda27, come mostra il notissimo progetto per il Cimitero di Monza. L’interesse dei tecnici per l’architettura indiana, nelle sue forme plastiche e monumentali, in certa misura precede alcune interessanti iniziative culturali che segneranno l’anteguerra: nel 1912 l’editore milanese Leon Preiss, pubblica una curiosa raccolta fotografica28 con 75 tavole dedicate a edifici indiani, soprattutto templi e palazzi a Benares, Chitor, Khajuraho, Dehli, Burwa Sagor, Gwailor; nel 1914, di ritorno dall’Asia, l’architetto Edoardo Baroncini tiene a Milano un ciclo di conferenze sull’architettura indiana, illustrandole con propri disegni, incentrati su prospettive scorciate dal basso e sottolineature monumentali affini ai lavori degli allievi della Wagnerschule o degli architetti visionari italiani. Proprio su Vita d’arte ne da notizia, nel febbraio 1914, illustrando alcune “impressioni”, Raffaello Giolli29, in concomitanza con la prima mostra degli architetti lombardi, nella quale esponevano tanto Baroncini quanto Sant’Elia (in qualche misura influenzato dal collega)30. Già nei primi anni del secolo, con la edicola Origgi nel Monumentale di Milano, d’altronde Giuseppe Pantaleone Boni individuava nel cosiddetto stile indiano una valida alternativa all’egizio, come ieratica forma adeguata ad esprimere i valori connessi all’architettura funeraria. Pur se all’interno di un più vasto e un composito pot-pourri lo stesso Gino Coppedè ne sentiva il fascino in certi studi per il Cimitero di Staglieno,senza però limitare le potenzialità di questa suggestiva fonte all’architettura funebre, come mostra tra gli altri il progetto per l’Esposizione Genovese di Marina, del 1914. Ed è questo il quadro generale entro cui si situa l’ineffabile atmosfera della proposta santeliana per il Cimitero di Monza.
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Come accennato sopra, questa linea, dotata di una precisa fisionomia e già robusta prima del conflitto, non entra affatto in crisi con la guerra, tanto che a fine anni 1910 e nei primissimi anni 1920 giunge in certa misura al culmine. L’ansia di esprimere con l’architettura valori trascendentali si consolida con l’esperienza bellica, e anzi la vittoriosa fine della guerra offre in gran copia occasioni per lavorare su temi edilizi particolarmente congeniali allo spirito di cui è pregna: chiese, soprattutto nella rinnovata versione del Tempio votivo, e ancor di più i monumenti ai Caduti e ancor di più i sacrari31. Non di meno, quella certa attitudine al segno paesistico, ad un architettura sostanziata da piani obliqui ed intesa come commento lirico e monumentale a paesaggi montani, si coniuga perfettamente con la sacralizzazione dei paesaggi alpini che erano stati teatro di guerra, e poi diventano gli scenari monumentali e “nazionali” per eccellenza: come tali entrano a pieno titolo nella didattica accademica, come mostrano alcuni straordinari lavori degli allevi di Giuseppe Mancini a Parma, quali ad esempio Piero Berzolla, Mario Monguidi, Paride Pozzi. Anche in questo caso si potrebbe aprire una vasta gamma di facili analogie e di profonde differenze con le linee espressioniste, e soprattutto con le ricerche fantastiche e utopiche di Bruno Taut sul tema dell’architettura alpina.
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Giulio Ulisse Arata, schizzi di studio per il progetto del Cimitero di Mantova, 1917 ca. Mario Palanti, progetto di Tempio Votivo alla Pace Universale, 1916
Bisogna però riconoscere che, pur se ampiamente interessata alla ricerca di effetti scenografici tanto nella composizione urbana quanto nella progettazione paesistica, la linea visionaria dell’architettura italiana degli anni 1910 non sembra del tutto priva di contenuti costruttivi. A modo suo, e forse con un certo grado di ingenuità, si preoccupa spesso di esprimere in termini formali il sistema statico: non per caso contrafforti e archi rampanti, non meno che l’arcone soprattutto ribassato, sul modello di quello del Grand Hotel Tre Croci di Sommaruga (ripreso in tante occasioni concrete dal quartiere Coppedè a Roma al palazzo Mannajuolo a Napoli, e in tanti lavori scolastici) sono elementi essenziali del suo linguaggio, come si vede anche nel caso di Sant’Elia. Proprio la ricerca di forme in qualche misura coerenti con un sistema costruttivo e magari da esso derivate permette ad Arata di individuare in Sant’Elia il “più logicamente fantastico”32 tra gli ar-
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chitetti che esponevano alla mostra della Famiglia Artistica nel febbraio 1914. Ma particolarmente acuto e significativo appare il giudizio retrospettivo di Arata formulato nel 1941: “Mirava […] a dare all’architettura una espressione più scientifica che plastica e i suoi disegni tradiscono questo sforzo; ma in realtà era un temperamento romantico che faceva l’architettura da poeta”33. E in ogni caso, come mostrano ad esempio i disegni di Aldo Avati dei primissimi anni 1920, pubblicati come raccolte di “fantasie” e di “visioni”34, sotto questo punto di vista l’eredità di Sant’Elia non è recepita soltanto in chiave futuristica e avanguardistica, ma anche in chiave ancora ipereclettica e storicistica. Tornando agli intrecci tra questa linea espressiva e alcune esperienze artistiche di punta di quegli anni, va detto che è abbastanza complicato stabilire in che misura questa linea visionaria possa collegarsi all’esperienza di Nuove Tendenze35, che pure media tra la propensione al fantastico e il desiderio di una prospettiva più realistica rispetto al Futurismo. Un tema che evidentemente e in misura variamente significativa riguarda le figure di architetti legati all’esperienza di Nuove Tendenze, come Arata, Sant’Elia, e Chiattone. Il rapporto tra esercizio professionale, elaborazione fantastica, produzione di grafici per le mostre e per le pubblicazioni (come le raccolte di tavole che Arata, Mancini, Coppedè, Palanti ed altri dedicano alla propria produzione) meriterebbe considerazioni più approfondite rispetto a quanto fatto sino ad adesso. Molti dei disegni di Sant’Elia per solito interpretati come visioni fantastiche vanno invece ricondotti a occasioni progettuali concrete, come dimostra in questo stesso volume Massimiliano Savorra a proposito dei studi chiesastici di Sant’Elia. Lo stesso può dirsi per alcuni lavori di Mario Chiattone: valga il caso dei grafici36 per un palazzo della Moda, datati Bologna 1912, la cui perfetta corrispondenza con altri custoditi nel lascito dell’architetto bolognese Eugenio Valzania37, e riferiti ad un ambito urbano preciso, lascia intendere che possa trattarsi di un’occasione professionale concreta affrontata probabilmente in collaborazione, piuttosto che di un mero “esercizio di stile”. La locuzione “nuove tendenze” viene ripresa nel 1923 su Architettura e Arti decorative da Paolo Mezzanotte38 per commentare il progetto di Arata per palazzo Körner, un grattacielo ipereclettico per molti aspetti legato all’esperienza dell’architettura fantastica e visionaria degli anni 1910. A proposito di questo lavoro, mentre era in corso un articolato dibattito, Mussolini, congratulandosi in un telegramma con Arata per aver portato sempre più in alto “la divisa dei costruttori”39 riprendeva gran parte dei concetti e finanche le parole pubblicate sul Popolo d’Italia nel gennaio 1915, nell’ambito del dibattito sulle visioni di Sant’Elia40, esprimendo senza riserve di essere a favore dei grattacieli, soprattutto a Milano, “dal punto di vista panoramico la città più piatta d’Italia”, e dichiarandosi pronto a prenotare un appartamento all’ultimo piano. Anche di qui forse scaturisce l’illusione che questa linea titanica e ciclopica possa
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Giulio Ulisse Arata, schizzi di studio per il progetto del Cimitero di Mantova, 1917 ca., dettaglio Mario Monguidi, progetto di Santuario alpino, 1920 ca. Paride Pozzi, progetto di Monumento alpino, 1920 ca.
pagina a fronte Aldo Avati visione architettonica, 1922
trovare concrete occasione nel nuovo clima di regime, come sembra a Mario Palanti allorché nel 1923-24 concepisce per Roma la smisurata Mole Littoria. Di fatto l’architettura di regime prenderà ben altre strade: semmai, nel Ventennio, qualche traccia di questa tendenza al fantastico e al gigantismo sopravviverà in certa singolare edilizia residenziale borghese, come esemplifica al massimo livello di significato palazzo Fidia di Andreani.
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Note 1 M. Mimmo, V. Minosi, “Celebrare Sant’Elia”, in Sant’Elia Il futuro delle città, catalogo della mostra (Milano, 25 novembre 2016 - 8 gennaio 2017), a cura di A. Coppa, M. Mimmo, V. Minosi, Milano, Skira, 2016. 2 F. Mangone, “Antonio Sant’Elia e il Manifesto dell’architettura futurista”, in 1914/2014. Cent’anni di architettura futurista, a cura di A. Nastri e G. Vespere, Napoli, Clean, 2015, pp. 14-19. ³ R. Bossaglia, “Dopo il Liberty: considerazioni sull’eclettismo di ritorno e il filone dell’architettura fantastica in Italia”, in Studi in onore di Giulio Carlo Argan, Roma, Multigrafica, 1984, II, pp. 209-216. 4 E. Bairati, D. Riva, Il liberty in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1985. 5 Antonio Sant’Elia: l’architettura disegnata, catalogo della mostra (Venezia, 7 settembre - 17 novembre 1991), Venezia, Marsilio, 1991. 6 Bossaglia, op. cit. 7 W. Pehnt, “Per una genealogia delle forme espressioniste”, in Espressionismo e Nuova oggettività, catalogo della mostra, Milano, 4 novembre - 11 dicembre 1994, a cura di M. De Michelis, V. Magnago Lampugnani, M. Pogacnnik, R. Schneider, Milano, Electa, 1994, pp. 12-24. 8 F. Mangone, “La morte e l’eroe: archiscultura monumentale in Italia, 1890-1922”, La nuova città, 1995, n. 9, pp. 53-68. 9 Pehnt, op. cit. 10 O. Rieth, Skizzen. Architektonische und decorative Studien und Entwürfe, Lipsia, Baumgärtner, 1896. 11 Wagnerschule 1902, Vienna, Reissers Söhne, s.d. (1903) 12 L. Caramel, “Antonio Sant’Elia e l’architettura del suo tempo”, in Antonio Sant’Elia, catalogo della mostra permanente, a cura di L. Caramel e A. Longatti, Como, Villa Comunale Dell’Olmo, 1962, pp. 19-20; E. Godoli, Il futurismo, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 6. 13 Godoli, op. cit., p. 13. 14 C. F. W. Weichardt, Das Schloss des Tiberius und andere Romerbauten auf Capri, Lipsia, K. F. Koehler, s.d. [1900?]; Lipsia, Einhorn, 19092; Id., Tiberius Villa and Other Roman Building on the Isle of Capri, traduzione di H. Brett, Lipsia, Koheler, s.d.; Id., Le palais de Tibere et autres edifices romains de Capri, traduzione di J. A. Simon, Parigi, Schleicher freres, s.d. [1901?]. 15 Mi riferisco ad esempio agli studi volumetrici, di cui alle scheda nn. 237, 240, 241 del catalogo Antonio Sant’Elia l’architettura disegnata, cit., pp. 212-215. 16 Mangone, “La morte …”, cit. 17 S. Zamboni, “Un esame di Antonio Sant’Elia (1912)”, in L’accademia di Bologna figure del Novecento, catalogo della mostra, Bologna, 5 settembre - 10 novembre 1988, Bologna, Nuova Alfa editoriale, 1988, pp. 229-237, p. 230. 18 G. U. Arata, “La prima mostra di architettura promossa dall’associazione degli architetti lombardi”, Vita d’Arte, 7, 1914, n. 3, pp. 66-72. 19 A. Melani, “Architettura ‘ars regina’”, Vita d’Arte, 7, 1914, n. 2, pp. 47-48. 20 R. Bossaglia, M. Cozzi, I Coppedè, Genova, Sagep, 1982. 21 F. Mangone, Giulio Ulisse Arata. Opera completa, Napoli, Electa-Napoli, 1993, pp. 58-92. 22 U. Monneret de Villard, L’architettura di Sommaruga, Preiss & Bestetti, s. d. 23 G. Zucconi, “Monneret, Sitte e l’arte di costruire le città”, in L’eredità di Monneret de Villard, atti del Convegno a cura di M. G. Sandri, 27-29 novembre 2002, Firenze, All’insegna del Giglio, 2004, pp. 99-104. 24 Mi riferisco alle soluzioni decorative nell’intradosso dell’arcone negli studi di cui alle schede 171-179, pubbl. in Sant’Elia. L’architettura disegnata, cit., pp. 184-188. 25 Zamboni, op. cit. 26 G. U. Arata, L’architettura arabo-normanna e il rinascimento in Sicilia, Milano, Bestetti & Tumminelli, 1912. 27 F. Mangone, “L’orientalismo nell’architettura milanese dei primi decenni del Novecento”, in L’Orientalismo nell’architettura italiana tra Ottocento e Novecento, atti del Convegno a cura di M. A. Giusti ed E. Godoli, Viareggio, 23-25 ottobre 1997, Firenze, Maschietto & Musolino, 1999, pp. 65-74. 28 Architettura indiana, Milano, Leon Preiss, 1912. 29 R.Giolli, “Impressioni d’architettura indiana”,Vita d’arte, 7, 1914, n. 76, pp. 92-93. 30 Come è stato notato (T. Kirk, The Architetture of Modern Italy, vol II: Visions of utopia, New York, Princeton architectural Press, 2005, pp. 46-48), Sant’Elia ricopia una soluzione delle pensiline del progetto di Ippodromo esposto da Baroncini nel 1914 in un foglio contenente studi rispettivamente per una stazione idroelettrica e per una stazione, di cui alla scheda n. 280, pubbl. in Sant’Elia. L’architettura disegnata, cit., p. 235. 31 M. Savorra, “Da ossari a sacrari. Il monumento al Fante e le retoriche della Grande Guerra”, in Pietre ignee cadute dal cielo. I monumenti della Grande Guerra, a cura di M. Carraro e M. Savorra, fascicolo monografico di Ateneo veneto, 202, 2015, pp. 33-68. 32 Arata, “La prima mostra…”, cit. 33 G. U. Arata, Costruzioni e progetti, Milano, Hoepli, 1942, p. XVIII.
antonio sant’elia e l’architettura visionaria degli anni 1910 • fabio mangone
Fantasie di architettura. Schizzi e prospettive di Aldo Avati, Torino, Crudo 1920; A. Avati, Visioni di architettura, Torino, Crudo, 1922. F. Mangone, “Nuove Tendenze”, Il Dizionario del Futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze, Vallecchi — Mart, 2001, vol. II, pp. 801-803. 36 I grafici, custoditi al Gabinetto delle Stampe di Pisa, sono pubblicati con le sigle D.2.1, D.2.2, D.2.3 in P. G. Gerosa, Mario Chiattone. Un itinerario architettonico fra Milano e Lugano, Milano, Electa, 1985, pp. 116-117. 37 I disegni, custoditi nella collezione Palmieri-Parmeggiani, sono pubblicati in Norma e arbitrio. Architetti e ingegneri a Bologna 1850-1950, catalogo della mostra a cura di G. Gresleri e P. G. Massaretti, Bologna, 20 maggio - 14 ottobre 2001, Venezia, Marsilio, 2001, in copertina, nonché a p. 179. 38 P. Mezzanotte, “Nuove tendenze nell’architettura milanese. Il Palazzo Körner”, Architettura e arti decorative, 2, aprile 1923, n. 8, pp. 305-311. 39 “Mentre prenoto un appartamento all’ultimo piano mi auguro che voi possiate vincere le opposizioni del filisteismo murario che a Milano, città senza panorami, ha meno che altrove ragione di essere. Sempre più in alto la divisa potente dei costruttori moderni invece di continuare a deturpare i sobborghi milanesi con quella distesa di conigliere che umiliano gli uomini”; Archivio Centrale dello Stato, Roma, Segreteria particolare del Duce, n. 529609 40 L’intervento sul Popolo d’Italia del 4 gennaio 1915 è citato e messo in relazione con il dibattito su Sant’Elia in A. Cederna, Mussolini urbanista, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 16. 34
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“sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali”: i disegni di antonio sant’elia e l’architettura religiosa (1912-1914)
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Antonio Sant’Elia, facciata con portale di un transetto di grande chiesa metropolitana di una città capitale, oro, inchiostro seppia su carta, 290 x 169 mm (Pinacoteca Civica, Como, inv. A230)
Massimiliano Savorra
Antonio Sant’Elia, come è noto, tratteggia con la penna e la matita, con l’inchiostro e l’acquerello, hangar, centrali elettriche, stabilimenti industriali, palazzi, grattacieli, stazioni, e soprattutto abbozza su numerosi fogli e foglietti edifici “monumentali” e chiese1. Affronta dunque, a più riprese e in tempi diversi, il tema dell’architettura sacra. Eppure, le letture dell’opera di Sant’Elia condotte sinora hanno per lo più attribuito un ruolo accessorio ed eccentrico alla ricerca di una moderna architettura religiosa, essenziale invece per comprendere tanto la complessità dell’originale “titanismo”2, fenomeno tipico degli anni 1910, quanto il bisogno di riferimenti cosmopoliti, anche nella costruzione della dell’immagine visionaria e dei caratteri, da alcuni definiti “scenografici”, della Città nuova3. Infatti, se i disegni dell’architetto comasco — che hanno “une puissance étonnante et une séduction troublante”4 — vanno sicuramente contestualizzati nell’ambito del dibattito italiano, oltre che europeo, e nel clima culturale milanese delle grandi trasformazioni5, di certo il lavoro di Sant’Elia andrebbe messo in riferimento anche alla questione di una moderna arte cristiana, affrontata nel primo ventennio del Novecento negli ambienti degli intellettuali cattolici, e non solo, in relazione al fenomeno dell’“eclissi del sacro”6. Va ricordato, a questo proposito, che il tema del rinnovamento dell’architettura e dell’arte religiosa, come emergeva anche dal dibattito su riviste quali Arte Cristiana e Civiltà Cattolica, era ampiamente affrontato sia dalle gerarchie ecclesiastiche, consapevoli dell’impasse in cui si era venuta a trovare l’edilizia sacra, sia da alcuni autorevoli architetti. Come scriveva nel 1915 Giulio Ulisse Arata in un articolo intitolato “Rifacciamo la strada”, era necessario far “scaturire i germi della nuova arte”7. Sollecitando peraltro il sentimento religioso cristiano ispirato all’arte medievale, egli affermava: L’iconografia che invade oggi le chiese, e che trasforma queste in altrettanti magazzini di immagini, è troppo scelta dal repertorio comune e troppo estranea all’ascetismo religioso perché possa lasciare un’impronta duratura. L’opera d’arte deve essere parte integrante di una religione vitale, non un accessorio agli usi del culto […] oggi bisognerebbe ricominciare da capo e iniziare il nostro futuro sviluppo dalle origini: senza però imitarne le forme con cieco rispetto d’archeologo;
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A. Sant’Elia, facciata con portale di un transetto di grande chiesa metropolitana di una città capitale, matita e tempera su carta, 750 x 500 mm (Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Bologna, archivio Luigi Saccenti) A. Sant’Elia, facciata con portale di un transetto di grande chiesa metropolitana di una città capitale, matita, inchiostro e acquerello su carta applicata su tela, 825 x 660 mm, firmato in basso a destra (collezione privata) pagina a fronte Portale posteriore a cuspide della basilica di San Fedele a Como (immagine tratta da: https:// it.wikipedia.org/ wiki/Basilica_ di_San_Fedele_ (Como)#/media/ File:Como,_san_ fedele,_retro_01. JPG)
ma con analisi ingegnosa cavare dall’antichità, soltanto gli elementi progressivi, lo slancio, l’audacia e l’ispirazione rinnovatrice […] Portiamo pure nei futuri edifici religiosi le innovazioni moderne indispensabili alle nostre abitudini, disponiamo pure i meccanismi secondo il nostro temperamento, escludiamo anche, se occorre, tutto quello che sa troppo di claustrale e di disciplinato alle regole ferree che paralizzano la freschezza e lo spirito giovanile, ma manteniamone saldo il carattere vitale e vigoroso il metodo che ne determina il sentimento8.
In tal senso, i disegni di Sant’Elia, elaborati tra il 1912 e il 1914, possono essere ricondotti a questa idea concreta, formulata da Arata, di architettura sacra moderna, ma ancorata alle tradizioni e al “carattere vitale e vigoroso” del passato. Come è noto, la prima occasione ufficiale in cui Sant’Elia affronta il tema dell’architettura religiosa è quella della prova del 1912, all’Accademia di Belle Arti Bologna, per superare l’esame di licenza. Tra i temi proposti, il giovane Antonio sceglie di realizzare la “Facciata con portale di un transetto di grande chiesa metropolitana di una città capitale”. Nel catalogo della mostra Figure del Novecento, apparso nel 1988, Silla Zamboni pubblicò la Re-
“sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali” • massimiliano savorra
lazione esplicativa conservata nell’archivio storico dell’Accademia Clementina9. Per quanto riguarda gli elaborati grafici relativi alla prova accademica, erano già stati individuati il disegno A230, realizzato a inchiostro oro e seppia su carta, e lo studio per una facciata della collezione Tarentini (già appartenuti allo scultore Gerolamo Fontana, amico di Sant’Elia). A questi disegni furono accostati altresì lo studio a inchiostro seppia su carta conservato presso il Museo civico di Cremona, e il disegno A23310 datato 21 novembre 1912 (già collezione Giuseppina Broglia Sant’Elia)11. Anche il disegno del Fondo Saccenti conservato presso l’Ordine degli architetti di Bologna, come ha osservato di recente Giuliano Gresleri12, va sicuramente fatto risalire a quella prova; inoltre, sempre nel fondo Saccenti sono conservate due piccole riproduzioni fotografiche di altre due tavole, pubblicate nel catalogo della mostra tenutasi nel 2016 alla Casa d’Arte Futurista Depero13. Le tavole finali furono invece mandate al macero o disperse, almeno così si è sempre creduto. Nel 2013 erano invece apparsi sul mercato antiquario i disegni finali che Sant’Elia elaborò per quell’occasione14: due tavole — carta applicata su tela — di grandi dimensioni (825x660
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pagina a fronte Leopold Bauer, progetto per il Tempio della Pace per il concorso per il palazzo della Pace all’Aia, 1906 (da F. Servaes, “Leopold Bauer”, Moderne Bauformen. Monatsheftefür Architektur, 6, 1907, tav. 4)
e 1020x940 mm), come prescritto dagli standard accademici, che corrispondono alla descrizione data dall’architetto comasco nella sua Relazione. Scriveva, infatti, Sant’Elia: “io cercai di applicare ad una cosa passata un soffio di modernità. Infatti, la struttura della cattedrale è gotica” resa con “un sentimento nuovo anzi direi personale […] La porta della mia cattedrale è ispirata a quella della chiesa di S. Fedele in Como”15. Sant’Elia si riferisce al portale posteriore a cuspide della basilica di San Fedele, caratterizzato da rilievi scultorei romanici, e dal contrasto cromatico tra la pietra grigia dei muri e la pietra più chiara della decorazione16. Peraltro, ritroveremo la forma del portale cosiddetto “del drago” — un architrave a timpano sormontato da una serie di archetti pensili, con lastre a bassorilievo collocate sui montanti che raffigurano animali fantastici, insieme ai tradizionali santi e angeli — in numerosi schizzi di Sant’Elia. Ma ritorniamo alla descrizione: Due piloni con due […] figure simboliche chiudono questo ingresso e nella strombatura di detta porta vi son delineate delle figure ploranti stilizzate, sullo sfondo vi è un catinello decorativo in ferro battuto dal quale traspare una vetrata con […] teste di santi […] sopra la porta vi è un gran pilone con tre cavalieri messi come in uno stato di difesa della religione e sullo sfondo di questo vi è una vetrata a colori vivaci che si estende pure ai due corti laterali. In queste vetrate son segnate delle figure stilizzate di angeli. I quattro grandi piloni che servono di contrafforti […] portano […] 4 figure simboliche che dovrebbero significare il trionfo della fede […] e nella parte inferiore di essi vi sono delle figure che vorrebbero significare lo spirito del male messo a sostegno, anzi calpestato [dal trionfo della fede].
Scrive ancora Sant’Elia: Ecco il motivo principale del tema ch’io ho svolto: ho cercato di eliminare il più possibile […] specialmente nella parte superiore quella decorazione inutile che non si potrebbe vedere data la grande altezza dell’edificio. Pur serbandomi nella parte inferiore di mettere quella decorazione appropriata a una cosa così solenne quale è una cattedrale17.
È evidente come la descrizione del giovane comasco, in sintonia con quanto Arata avrebbe formulato compiutamente su Arte Cristiana, corrisponda alla tavola che per comodità chiameremo “Prospetto prova 1912”, alla quale possiamo accostare una serie di disegni, da considerare preparatori, come lo studio della collezione Francesco Buttiglione18, che andrebbe retrodatato, e gli studi inventariati con i numeri A367 e A369, oltre al disegno A232, raffigurante studi preliminari, già datato 1912. Ma al di là delle analisi filologiche sul “Prospetto prova 1912”, che porterebbero a riconsiderare altresì le datazioni dei fogli A365, A366, A370, per comprendere ulteriormente l’idea di Sant’Elia concernente l’architettura religiosa è bene andare al “fatidico” 191419. Infatti, l’occasione concreta di studiare un nuovo modello di chiesa gli è offerta dal con-
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corso per la parrocchiale di Salsomaggiore. A questo punto occorrono alcune precisazioni. La partecipazione di Sant’Elia al concorso fu segnalata da un necrologio apparso sul quotidiano La Sera il 19 ottobre 1916 e confermata oralmente da Arata20. Non abbiamo altri elementi che confermino la sua partecipazione. Dagli archivi storici della parrocchiale non sono emersi elementi che attestino un suo diretto coinvolgimento: oltre 250 architetti chiedono infor-
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mazioni circa il bando, ma nella documentazione non compare traccia di Sant’Elia21. Tuttavia, appare il nome dell’amico Italo Paternoster, che come sappiamo, lo aveva già coinvolto nel concorso per il cimitero di Monza del 1912. Possiamo dunque ritenere che anche in questa occasione Sant’Elia collabori con Paternoster? Del resto, nello stesso periodo l’architetto comasco offriva allo studio Cantoni la sua collaborazione anche per il concorso della Cassa di Risparmio di Verona. Rispondere a tale interrogativo, alla presenza di sole prove indiziarie, non è semplice, né automatico. Ma ripercorrere la vicenda del concorso per la parrocchiale di Salsomaggiore, permette, oltre che di contestualizzare ulteriormente l’idea di architettura religiosa del comasco, anche di prendere in esame i suoi disegni, stabilendo connessioni, individuando manipolazioni e precisando datazioni, per poter, forse, confermare la sua partecipazione, sebbene come collaboratore di Paternoster22. Il concorso per costruire una nuova chiesa al posto di quella esistente venne bandito il 1° febbraio 1914 con consegna 30 giugno. Si chiedeva agli architetti e agli ingegneri “un’opera fuori del comune e tale da poter segnare un passo avanti nell’architettura ecclesiastica”23. Nel bando si faceva riferimento a caratteri propri, sinceramente religiosi. La chiesa doveva essere costruita in uno stile basilicale ma con una “manifestazione nuova, piacevole, decorosa, monumentale”. Al primo grado vennero presentati cinquanta progetti siglati con aulici slogan24; di questi — intrecciando i dati desumibili dai documenti lacunosi conservati nell’Archivio storico della parrocchiale e le informazioni provenienti da altre fonti archivistiche e a stampa — è possibile scioglierne trenta e di alcuni individuare le immagini corrispondenti25. Se il progetto di Giuseppe Bergomi — definito dalla commissione “pieno di serafica dolcezza e di agreste semplicità”26 — si caratterizzava per la originale facciata27, quelli di Guido Zucchini e del gruppo Cesa Bianchi-Griffini interpretavano il tema della torre campanaria in facciata con impalcati stilistici influenzati dalle lezioni accademiche bolognesi e braidensi sull’architettura di ispirazione medievale. Le proposte in gara oscillavano tra la riproduzione stanca di uno “stile schiettamente lombardo” di Cecilio Arpesani, le “alte prove di ingegno e di estro” di Giulio Ulisse Arata e le singolari soluzioni di Mario Oppi libere “dalle forme dell’arte tradizionale”, come si legge nella relazione finale del concorso28. In alcuni di questi progetti il divario tra storia e futuro, tra forme del passato e sentimento nuovo non risulta particolarmente evidente, tanto che è difficile etichettare i disegni di Arata contrassegnati con il motto Utopia solo come “fantastici”. Va ricordato che l’autore del palazzo Berri Meregalli — come ha avuto modo di chiarire Fabio Mangone — partecipò con due proposte, contrassegnate dai motti “Utopia” e “Pax”. Più aderente alle richieste del bando, quest’ultima venne scelta dalla commissione come la più adeguata, ottenendo poi la vittoria nel secondo grado del concorso29.
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pagina precedente Giuseppe Bergomi, proposta per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, prospetto principale, 1914 (da E.Collamarini, “L’esito del concorso per il progetto della chiesa parrocchiale di Salsomaggiore”, Arte Cristiana, 4, 15 aprile 1915) Guido Zucchini, proposta per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, prospetto principale, 1914 (da E.Collamarini, op.cit.) Giulio Ulisse Arata, proposta per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, prospettiva, 1914 (da “Il progetto di Arata per la chiesa di Salsomaggiore”, Arte Cristiana, 8, 15 agosto 1915) G. U. Arata, proposta per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, prospettiva di una variante, 1914 (da “Il progetto di Arata per la chiesa di Salsomaggiore”, cit.)
Comunque, tra i nomi individuati, non compare quello di Paternoster, né tanto meno quello di Sant’Elia. Dunque, la questione è ancora aperta: possiamo ipotizzare che i due rientrino tra i restanti partecipanti ancora anonimi, oppure che non abbiano consegnato le tavole entro i termini richiesti. Ma se supponiamo che i due si siano effettivamente cimentati nel progetto, è necessario allora capire quali possano essere gli studi elaborati per tale occasione concorsuale e il progetto finale che intendevano sottoporre al vaglio della commissione30. Nel catalogo dell’opera completa di Sant’Elia, apparso nel 1987, una serie di fogli è stata messa in relazione al concorso, tra cui quello contrassegnato nel 2013 come A35831. Riteniamo che quest’ultimo possa essere accostato ai disegni A361 e A362, i quali, a uno sguardo attento, risultano studi del medesimo organismo architettonico. In seguito32, è stata presa in considerazione l’ipotesi che il disegno più calzante potesse essere quello recentemente inventariato come A319 (definito “edificio monumentale” e già collegato al concorso)33, anche perché la data posta sul foglio, 20 febbraio 1914, potrebbe confermare tale ipotesi. Va ricordato che il concorso fu bandito il 1° febbraio. Effettivamente, in questo progetto è possibile riconoscere alcune formule compositive previste dal bando. Il regolamento dava, infatti, chiare indicazioni: in primo luogo, oltre al carattere monumentale, come richiesto dall’articolo 3, la torre-campanile doveva sorgere sull’asse longitudinale ed emergere dalla fronte (indicazione rispettata anche nei progetti di altri partecipanti). Inoltre, il santuario doveva essere elevato per far luogo, come recitava il bando, a “una cripta sana, arieggiata, con comodi accessi sia dall’esterno, sia dall’interno”34. Così il disegno denominato nel 1991 “Fronte di edifici monumentali”35, conservato al Museo civico di Cremona, può essere considerato uno studio di prospetto, accostabile al disegno A31936. Inoltre, lo “Studio per un edificio monumentale” datato 1913-14 nel volume curato da Caramel e Longatti37 e trafugato dopo l’Esposizione Permanente di Villa Olmo a Como nel 1969, va sicuramente messo in relazione al foglio A32038. Le indicazioni dell’articolo 3 del bando chiedevano che l’organismo della nuova costruzione ricordasse, senza ripeterli, anche gli stili del primo risorgimento cristiano (ossia basilicale, romanico e lombardo), tuttavia, si diceva, era fondamentale ottenere “una manifestazione nuova, piacevole, decorosa, monumentale”39. Ma forse allora è utile ritornare a quanto il giovane Antonio scriveva in occasione della prova di Bologna, non solo per ritrovare analogie e parallelismi con il “Prospetto prova 1912”, ma anche per chiarire genealogie e riferimenti, oltre che temi compositivi e scultorei ricorrenti. Scriveva Sant’Elia:
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G. U. Arata, proposta per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, studio di prospetto della variante a pianta centrale, 1914 (da F. Mangone, Giulio Ulisse Arata…, cit., p. 72) G. U. Arata, proposta per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, studio di prospetto della variante a pianta centrale (da: F. Mangone, Giulio Ulisse Arata…, cit., p. 74)
pagina precedente G. U. Arata, proposta per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, studio di prospetto (da F. Mangone, Giulio Ulisse Arata. Opera completa, Napoli 1993, p. 69)
A. Sant’Elia, edificio di culto monumentale con scalinata e statue, 1914 (?) [possibile studio per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, 1914], matita nera, inchiostro seppia, acquerelli azzurro, marrone, giallo e arancio, pastelli azzurro e giallo su cartone su cartone 320 x 230 mm (Pinacoteca civica, Como, inv. A61) A. Sant’Elia, edificio monumentale, 1914 [possibile studio per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, 1914], matita nera, pastelli grigio, rosso, azzurro e arancio su carta, 208 x 206 mm, datato in alto a destra, Milano 20 febbraio 1914 (Pinacoteca Civica, Como, inv. A319)
Sin da quando cominciai i miei studi mi sentii sempre attratto verso l’arte medioevale e più specialmente verso il periodo gotico o quello bizzantino [sic!]. Il primo per le sue grandi masse che ricordano [montagne di ghiaccio] il secondo ha per me una grande attrattiva per i particolari suggestivamente pittorici delle […] forme musive e delle vetrate40.
In tal senso, notiamo nei disegni di Sant’Elia, i poderosi contrafforti, la ieraticità delle masse, l’assenza di riferimenti religiosi immediati e convenzionali, affidati piuttosto alle figure scultoree dei cavalieri a difesa della fede, che appaiono ripetersi nei suoi schizzi e che rientrano nel suo vocabolario espressivo. Tra il febbraio e il giugno del 1914, Sant’Elia elabora una serie di disegni sulla medesima carta41 — A320, A 358, A 359, A 360, A 363 — che possono essere studi preparatori del disegno A319, probabile progetto da sottoporre al vaglio della giuria del concorso. Va rammentato che il 15 marzo 1914 viene annunciato il gruppo Nuove Tendenze, sulla rivista Pagine d’Arte 42, così come alcune tavole della Città nuova recano le date di febbraio e
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A. Sant’Elia, studi per edificio monumentale, 1913-14 [possibili studi per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, 1914], matita nera su carta, 284 x 210 mm (Pinacoteca Civica, Como, inv. A320) A. Sant’Elia, edificio monumentale [possibile studio per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, 1914], inchiostro nero e seppia, matita nera e arancio su carta, 300 x 199 mm (collezione privata, già collezione Chiara Angelini Spini, Bergamo; da Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata, catalogo della mostra, Venezia 1991, p. 213) A. Sant’Elia, edificio monumentale [possibile studio per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, 1914], inchiostro nero, matita nera, azzurra, rossa, gialla, arancio su carta, 300 x 199, datato in basso a destra, Como 21 febbraio 1914 (collezione privata, già collezione Chiara Angelini Spini, Bergamo; da Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata, cit., p. 213)
“sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali” • massimiliano savorra
marzo 1914. Va ricordato, inoltre, che in questo periodo Sant’Elia stava collaborando con lo studio Cantoni per il concorso della sede della Cassa di Risparmio di Verona, con scadenza a marzo, mentre la mostra delle Nuove Tendenze si sarebbe inaugurata il 20 maggio 1914. Sicché, in questo periodo cruciale, caratterizzato da un’attività febbrile e senza sosta, Sant’Elia elabora numerosi disegni di chiese: tra cui alcuni studi in fieri (A359, A361, A362) — anche questi forse elaborati per l’occasione progettuale concreta di Salsomaggiore — probabilmente destinati a essere mostrati in una esposizione pubblica. Tale produzione grafica si caratterizzava per la sua concretezza, coerente con le esigenze di rinnovamento dell’architettura sacra, e non tanto per il carattere fantastico o utopistico. Per quanto riguarda i riferimenti formali43, al di là delle ormai riconosciute influenze provenienti dall’orbita della Wagnerschule (per l’architettura ecclesiastica si vedano ad esempio i disegni di Max Hans Joli per una Pfarrkirche, editi su Der Architekt nell’aprile 1903) o delle analogie con la Pauluskirche, costruita a Ulm da Theodor Fischer (come è noto, la chiesa di Fischer fu pubblicata nel 1912 sul Jahrbuch der Deutsches Werkbund), alcune suggestioni potrebbero derivare anche da altri esempi nordici, come la chiesa di Grundtvig a Copenhagen di Peder Vilhelm Jensen-Klingt. Naturalmente è azzardato individuare una sola, monodirezionata linea di influenza, sebbene risulti assai significativo — e non solo per le sculture dei cavalieri con la lancia a difesa dell’ordine e della fede — l’accostamento tra i disegni di Sant’Elia e il progetto per il “Tempio della Pace” presentato da Leopold Bauer al concorso del palazzo della Pace all’Aia nel 1906 e pubblicato nel 1907 in Moderne Bauformen44. Del resto, le figure dei cavalieri — che ritroviamo anche nel progetto di Giuseppe Mancini elaborato per la medesima occasione concorsuale olandese45 — facevano parte del comune immaginario tanto dei giovani studenti delle accademie46, quanto dei futuristi come Umberto Boccioni47. Ma al di là dei debiti formali, è importante tornare al disegno A319 per accostarlo ai due disegni in passato appartenenti alla collezione di Chiara Angelini Spini di Bergamo (uno dei due datato Como, 21 febbraio 1914)48. La torre-campanile, i due ingressi separati (quello principale e quello per la cripta sottostante), l’accentuata verticalità, le ricorrenti figure dei cavalieri a difesa della fede (assai evidenti nel foglio A366), così come altri elementi, potrebbero portare ad affermare che anche il celeberrimo disegno A323, della torre-faro — per alcuni una centralina elettrica, per altri un “Monumento con lanterne”, denominato da Escodamé nel 1930 “Monumento con fari” — sia in realtà uno studio elaborato per un edificio religioso49. Il disegno per la cosiddetta torre-farro è realizzato sulla medesima carta del foglio A319, con le medesime tecniche grafiche, ed è datato 21 febbraio 1914 (come da tempo la critica ha acclarato benché sia stato di recente retrodatato, senza convincenti motivazioni)50. Dunque
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A. Sant’Elia, studio monumentale, 1914 (?) [possibile studio per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, 1914], inchiostro seppia, matite nera, rossa, arancio, azzurra su carta, 204 x 280 mm (Museo Civico, Cremona; da Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata, cit., p. 220) A. Sant’Elia, monumento con lanterne, 1912 o 1914 (?) [possibile studio per il concorso per la chiesa di Salsomaggiore, 1914], matita nera, pastelli rosso, arancio e grigio, acquerello verde su carta, 305 x 165 mm, datato in basso a destra, Como 21 febbraio 1914 (Pinacoteca Civica, Como, inv. A323)
elaborato il giorno dopo rispetto a quello identificato come progetto per Salsomaggiore e nello stesso giorno di quello appartenente alla Collezione Angelini Spini. Come è noto, il disegno della torre-faro, architettura con incerta destinazione, fu individuato, anni dopo la morte di Sant’Elia, da Marinetti quale modello per realizzare a scala ridotta il monumento ai caduti di Como, suscitando non poche polemiche e soprattutto contribuendo al consolidamento del mito del comasco51. L’ipotesi di uno studio per un edificio religioso potrebbe essere confermata anche dall’analisi di un disegno conservato presso il Museo civico di Cremona52, nel quale Sant’Elia
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prefigura, isolandola dal contesto, una torre posta sulla tribuna di una chiesa e culminante con le figure scultoree dei cavalieri a difesa della fede. Inoltre, sappiamo che, proprio in questo periodo, il giovane architetto, quando non frequentava quello di Cantoni, lavorava nello studio di Mario Chiattone in corso Concordia 10 a Milano: “Mario era sotto la finestra, e Sant’Elia un paio di metri più in là”, ricordava il pittore Amaldi53. Non a caso ritroviamo alcune analogie nelle tavole che i due amici dovevano esporre a Nuove Tendenze54. In particolare, Chiattone, che prediligeva cattedrali immaginarie, come scriveva Giulia Veronesi, nella tavola denominata D35 si cimenta con il tema dell’edificio elevato, dotato di una cripta e di una torre in facciata, che ci portano a ipotizzare, visto il contesto e il momento in cui viene prodotto un’occasione concreta all’origine del progetto. Così, se da tempo gli storici dell’architettura e dell’arte si interrogano sulla destinazione d’uso del cosiddetto “monumento con lanterne”, è pur vero che un esame accurato del disegno, al di là delle ipotesi che possono essere formulate per le evidenti analogie compositive con altri elaborati grafici, suscita alcune domande sui modi di Sant’Elia di pensare l’architettura, e non solo quella ecclesiale. A valle delle osservazioni sui disegni della collezione Angelini Spini, a questo punto si potrebbero aprire altre possibilità interpretative: Sant’Elia ragiona sulla pianta longitudinale e su un organismo a pianta centrale culminante nella torre? Nel disegno A323 ha isolato l’elemento turrito per perfezionare i dettagli compositivi del prospetto di una chiesa a pianta longitudinale? Immagina una cattedrale a pianta centrale, come analogamente stava facendo Arata? Oppure elabora forme tridimensionali senza una destinazione precisa in sintonia con gli straordinari disegni della Città nuova? La veduta prospettica dal basso della collezione Angelini Spini è eccezionale da questo punto di vista, proprio in quanto mediazione tra le due alternative, sulla scorta di una lunga tradizione di studi sulle tipologie architettoniche ecclesiastiche. Va sottolineato come il giovane progettista non elabori esclusivamente visioni utopistiche, ma dimostri di essere architetto autentico, che si cimenta con i problemi concreti dati dalle richieste della committenza (nel caso specifico gli articoli di un bando) e con la volontà di sperimentare nuove soluzioni. La ricerca di inedite articolazioni spaziali per l’architettura religiosa, insieme al gioco delle composizioni di masse e volumi, conferma — come abbiano cercato fin qui di dimostrare — quanto la presunta “visione futurista” di Sant’Elia, scenografica e, secondo alcuni, priva di solidi legami con la realtà, sia da considerare come il frutto di una operazione di manipolazione “retorica” da parte dei seguaci di Marinetti, e come i proclami e i manifesti — più o meno autografi — vadano letti come l’espressione dell’adesione a una poetica solo in parte condivisa più che come un vero e incondizionato atto di fede. In fondo, i tanti disegni elaborati per chiese sono forse la testimonianza di come Sant’Elia si sentisse ancora un “uomo delle cattedrali”55.
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Note 1 Per un’analisi aggiornata dei disegni di Sant’Elia si veda il recente Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como, a cura di L. Caramel, A. Longatti, M. L. Casati, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2013. Ringrazio la dottoressa Maria Letizia Casati, conservatore museale presso i Musei Civici di Como, per la notevole disponibilità e per avermi permesso di visionare i disegni di Sant’Elia. 2 G. Zucconi, “Gli anni dieci tra riscoperte regionali e aperture internazionali”, in Storia dell’architettura italiana. Il primo Novecento, a cura di G. Ciucci e G. Muratore, Milano, Electa, 2004; in particolare si veda il paragrafo Milano e il “titanismo”, pp. 49-54. 3 Vedi C. L. Ragghianti, “Sant’Elia. Il Bibbiena del Duemila”, La Critica d’Arte, 10, 1963, n. 56, pp. 1-22; C. de Seta, Architetti italiani del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 9, 31. 4 J.-L. Cohen, “Molto dopo — e prima Sant’Elia”, in Antonio Sant’Elia. Manifesto dell’architettura futurista. Considerazioni sul centenario, a cura di F. Purini, L. Malfona, M. Manicone, Roma, Gangemi Editore, 2015, p. 105. 5 Cfr. E. Godoli, “Puntualizzazioni sull’opera di Antonio Sant’Elia e sul Manifesto dell’architettura futurista”, in Il manifesto dell’architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità, atti della giornata di studi (Grosseto, 18 luglio 2014), a cura di M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi, Mantova, Universitas Studiorium, 2014, pp. 21-46; F. mangone, “Antonio Sant’Elia e il Manifesto dell’architettura futurista”, in 1914/2014 Cent’anni di architettura futurista, a cura di A. Nastri, G. Vespere, Napoli, Clean, 2015, pp. 14-19; O. Selvafolta, “La Milano di Sant’Elia: città del presente, città del futuro”, in Antonio Sant’Elia. Il futuro delle città, a cura di A. Coppa, M. Mimmo, V. Minosi, Milano, Skira-Triennale di Milano, 2016, pp. 43-55. 6 G. Zucconi, “Architettura e arti cristiane, 1913-1924”, in Architettura dell’Eclettismo. Il rapporto con le arti nel XX secolo, atti del convegno (Jesi 20-21 giugno 2005), a cura di L. Mozzoni, S. Santini, Napoli, Liguori Editori, 2008, pp. 229-244. 7 G. U. Arata, “Rifacciamo la strada”, Arte Cristiana, 3, 1915, n. 6, p. 176. 8 Ivi, p. 178. 9 S. Zamboni, “Un esame di Antonio Sant’Elia (1912)”, in L’Accademia di Bologna. Figure del Novecento, catalogo della mostra, a cura di A. Baccilieri e S. Evangelisti, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1988, pp. 229-232. 10 I disegni contrassegnati, soltanto in anni recenti, dalla lettera A fanno parte della collezione civica di Como e sono conservati presso la Pinacoteca della città lariana (Musei civici di Como). Vedi Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como…, cit. 11 L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia. L’opera completa. The Complete Works, Milano, Mondadori, 1987, p. 160-161; Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como…, cit., p. 53. 12 Il disegno “Facciata con portale di un transetto di grande chiesa metropolitana di una città capitale”, 1912, matita e tempera su carta, cm 75 x 50, è conservato presso l’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Bologna, Archivio Luigi Saccenti. Vedi G. Gresleri, “Sant’Elia a Bologna: la ‘folgorazione’”, M.B. Bettazzi et al., Carte e pensieri per costruire la città. Eccellenze dell’Archivio Storico dell’Università di Bologna, catalogo delle mostre, Bologna, Clueb, 2016, pp. 11-14. 13 Vedi La città utopica. Antonio Sant’Elia, Tullio Crali, Quirino De Giorgio, Angiolo Mazzoni, Adalberto Libera. Dalla metropoli futurista all’EUR42, catalogo della mostra, a cura di N. Boschiero, Rovereto TN, Casa d’Arte Futurista Depero/MART, 2016, p. 26. 14 Va ricordato che gli esami all’Accademia bolognese si tennero dal 21 ottobre all’8 novembre 1912. Vi fu una prima prova di ammissione, dal 21 al 23 ottobre, che consisteva in un ex tempore con un tema scelto fra tre proposti. Superata tale prova, l’esame vero e proprio si svolgeva in quattro fasi (ex tempore di un nuovo tema scelto fra quattro, sviluppo di una parte del progetto, prova scritta e prova orale). Nella prova di ammissione Sant’Elia scelse il tema “Facciata di un famedio per cimitero di una città di media grandezza”. Vedi Caramel, Longatti, op.cit., p. 331. Uno dei due disegni di Sant’Elia andati all’asta, lo “sviluppo di una parte del progetto”, risente della prova di concorso, tenutasi nello stesso anno, per il concorso del cimitero di Monza al quale il comasco partecipò con l’amico Italo Paternoster. I disegni in vendita all’asta milanese del 28 novembre 2013 furono riprodotti nel catalogo 74 della Porro Art Consulting & C. Ringrazio la signora Kimiko Bossi per avermi fornito le immagini in alta definizione dei disegni. 15 Zamboni, op. cit., p. 230. 16 La chiesa appariva in F. De Dartein, Étude sur l’architecture lombarde et sur les origines de l’architecture romano-byzantine, Paris, Dunod,1865-1882, pl. 84, pl. 85, una pubblicazione ben nota agli studenti dell’Accademia di Brera. 17 Zamboni, op. cit., p. 231. 18 Caramel, Longatti, op.cit., p. 318 [qui datato 1915]. 19 F. Mangone, Giulio Ulisse Arata. Opera completa, Napoli, Electa Napoli, 1993, p. 34. 20 Caramel, Longatti, op.cit., p. 261 21 Si veda l’elenco degli architetti che richiedono la documentazione per la partecipazione al concorso conservato presso l’Archivio storico della parrocchia di Salsomaggiore (d’ora in poi ASPS). Desidero ringraziare Francesca Zancarini per il fondamentale aiuto nelle ricerche.
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Non esistono allo stato informazioni dettagliate circa la biografia di Italo Paternoster o Paternostro, come appare in I concorsi di architettura in Italia, Milano, Bestetti e Tumminelli, 1912 in cui si riproducono le tavole (71-75) presentate al concorso per il cimitero di Monza. 23 E. Collamarini, “L’esito del concorso per il progetto della chiesa parrocchiale di Salsomaggiore”, Arte Cristiana, 3, 1915, n. 4, p. 102. 24 L’elenco dei 50 progetti identificati dai motti, con i giudizi della commissione, è in ASPS, Relazione sul concorso per il progetto di nuova chiesa parrocchiale a Salsomaggiore; opuscolo a stampa, datato 18 ottobre 1914. 25 I motti e gli autori sono: In hoc signo (Guido Caraffa, Roma), Salire (Carlo Bonalini, Bellinzona), Salve (Vincenzo Bolletti, Cosenza), Fides Alma (Cecilio Arpesani, Milano), Ultra (Selene Scuri, Bergamo), Salus in Ecclesia (Alfonso Fiorentini, Rimini), iXRv (Mario Faravelli, Torino), Lupa (Emanuele Caniggia, Roma), Concordia (Guido Zucchini, Bologna), INRI (Remo Bertini, Bologna), Armonia (Oriolo Frezzotti, Roma), In fide alma soave (A. Banterli, Verona), Labor omnia vincit (Giuseppe Conti, Milano), Ad Majorem Dei Gloriam (Francesco Notari, Siena), A.B.4 (Cremonesi, Roma), Doseologia (Mario Gai, Roma), Tu es Petrus (Pietro Zampa, Perugia), Petite Source (Mario Berardi, Brescia), A5 (Provino Valle, Udine), Foederis Arca (Enrico Mariani, Milano), Unicuique Suum (Vincenzo Pritelli, Pesaro), Spes ultima Dea (Giovanni De Min, Venezia), In hoc signo vinces (Raffaele Riccio, Napoli), In Pontibus acquarum salus (Alberto Savi, Lodi), INRI (Mario Oppi), In hoc signo (Giuseppe Bergomi, Pavia), Spem alere (Adolfo Bacchiera), Pax e Utopia (Giulio Ulisse Arata, Milano), AMDG (Paolo Cesa Bianchi — Alberto Griffini, Milano). ASPS, Elenco dei progetti; ricevute di consegna (con città di provenienza). Inoltre sono noti i progetti elaborati da Tancredi Venturini (vedi “Il progetto Venturini al concorso per la chiesa di Salsomaggiore”, Arte Cristiana, 3, 1915, n. 6, pp. 179-180) e da Mario Gay (vedi “Progetto di nuova chiesa a Salsomaggiore”, L’architettura Italiana, 1915-16, p. 82, tavv. 33-34). 26 Collamarini, op. cit., p. 106. Sebbene descriva i progetti premiati, l’articolo è accompagnato solo dalle illustrazioni di quelli di Bergomi, Zucchini, e Cesa-Bianchi Griffini, mentre non vi compaiono quelli di Mariani, Bacchieri e Arata. 27 Alcune tavole del concorso di secondo grado sono pubblicate nell’opuscolo S. G. Locati, Giuseppe Bergomi, Dall’Annuario della R. Università di Pavia, anno accademico 1934-35. 28 Le immagini del progetto di Oppi sono note, in quanto pubblicate in “Progetto di nuova Chiesa Parrocchiale a Salsomaggiore”, L’Architettura Italiana, 1914-15, pp. 116-118. 29 Vedi ASPS, Relazione della Commissione giudicatrice del Concorso di secondo grado per il progetto di nuova Chiesa Parrocchiale in Salsomaggiore, opuscolo a stampa, datato 5 giugno 1915. Al secondo grado parteciparono i progetti Foederis arca, Spem alere, Pax, In hoc signo, Concordia (il progetto AMDG di Cesa Bianchi-Griffini non fu presentato). In entrambi i gradi, la commissione era formata da Giannino Ferrini, Giuseppe Mancini, Giuseppe Boni, Camillo Guidotti, Edoardo Collamarini (presidente). Guido Zucchini in questa nuova tornata partecipò con Giovanni Costa. 30 Sorprende che ancora oggi si perseveri nell’attribuire a Sant’Elia le tavole del progetto contrassegnato con il motto “Utopia”, elaborate da Arata. Pubblicando i numerosi studi e le proposte alternative dell’architetto piacentino, Fabio Mangone ha chiarito la vicenda in Giulio Ulisse Arata…, cit., pp. 69-75, 156-157. 31 Vedi Caramel, Longatti, op.cit., p. 262; Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como…, cit., p. 182. 32 Vedi Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como…, cit., p. 179. 33 Caramel, Longatti, op.cit., p. 255. 34 ASPS, Concorso per il progetto di nuova Chiesa Parrocchiale di Salsomaggiore in prov. di Parma, Bando, art. 5. 35 Vedi Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata, catalogo della mostra, Venezia, Marsilio,1991, scheda n. 247, p. 237. 36 Il disegno conservato al Museo civico di Cremona è associabile peraltro ad alcuni disegni, evidenti studi di facciate, che furono trafugati nel 1969 all’Esposizione permanente di Villa Olmo di Como. Vedi Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata…, cit., schede nn. 248-249, pp. 217-218. 37 Vedi Caramel, Longatti, op.cit., p. 252. 38 Vedi Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como…, cit., p. 178. 39 ASPS, Concorso per il progetto di nuova Chiesa Parrocchiale di Salsomaggiore in prov. di Parma, Bando, art. 3. 40 Zamboni, op. cit., p. 230. 41 Manca ancora uno studio attento delle carte e delle filigrane, utile per capire meglio le strategie di utilizzo dei fogli nelle diverse fasi elaborative, dalla preparazione dei fogli in rapporto alla loro funzione, fino alla scelta degli strumenti grafici, alla datazione e ai modi di reimpiego e manipolazione delle carte. Va sottolineato, infatti, che le datazioni di alcuni fogli, apposte probabilmente in fasi successive, sollevano dubbi e andrebbero sottoposte a ulteriori verifiche. Ringrazio Mauro Mussolin per il confronto e lo scambio di idee. Un primo tentativo, seppur parziale, è stato condotto tra la data del convegno e la presente pubblicazione. Si veda il contributo in questo volume di Maria Letizia Casati, che ha colto i miei suggerimenti, oltre che su datazioni e identificazioni, anche sulla necessità di uno studio approfondito delle carte e delle filigrane. 42 Fabio Mangone ha ben illustrato le vicende del gruppo nella voce “Nuove Tendenze” in Dizionario del futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze, Vallecchi — Mart, 2001, ad vocem. 22
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43 Vedi I. Boyd White, “Antonio Sant’Elia: un Wagnerschüler in abstentia”, in Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata…, cit., pp. 73-87. 44 Vedi F. Servaes, “Leopold Bauer”, Moderne Bauformen. Monatshefte für Architektur, 6, 1907, pp-1-25 (in particolare si vedano le tavole 3 e 4). Si ricorda che il palazzo fu inaugurato il 28 agosto 1913. 45 Vedi H. De Haan, I. Haagsma, Architects in Competition. International Architectural Competitions of the last 200 years, London, Thames and Hudson, 1988, p. 109. Va ricordato che Mancini era membro della commissione giudicatrice del concorso di Salsomaggiore. 46 In particolare si vedano le tavole di Licurgo Baldacci presentate al Pensionato artistico nazionale nel 1910 e pubblicate in I concorsi di architettura in Italia, Milano, Bestetti e Tumminelli, 1912. 47 Vedi Umberto Boccioni (1882-1916). Genio e Memoria, catalogo della mostra, a cura di F. Rossi, Palazzo Reale di Milano, Milano, Electa, 2016, pp. 91-92. Si veda anche il disegno Visione 1913 di Silvio Gambini, pubblicato nel saggio di Fabio Mangone, in questo volume. 48 I disegni furono pubblicati in Caramel, Longatti, op.cit., pp. 250-251 e in Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata…, cit., schede 237 e 239, p. 212. Non è stato possibile visionare tali disegni, in quanto sono ignoti gli attuali proprietari. Ringrazio i fratelli Leonardo, Luigi e Piervaleriano Angelini per la disponibilità e per le informazioni fornite. 49 Già Esther Costa Meyer ricordava come qualcuno — senza specificare chi — lo avesse indicato come edificio religioso, per l’esattezza una cattedrale: “The drawing in question, picked by Marinetti and Prampolini, consisted of a relatively small building of uncertain function. It has been called both a cathedral and electric plant. Terragni himself, perhaps mistaking Sant’Elia’s extended lines for high-voltage wires, took it for a “centrale elettrica””; E. da Costa Meyer, The work of Antonio Sant’Elia. Retreat into the Future, New Haven-London, Yale University Press, 1995, p. 199. 49 Già Esther Costa Meyer ricordava come qualcuno — senza specificare chi — lo avesse indicato come edificio religioso, per l’esattezza una cattedrale: “The drawing in question, picked by Marinetti and Prampolini, consisted of a relatively small building of uncertain function. It has been called both a cathedral and electric plant. Terragni himself, perhaps mistaking Sant’Elia’s extended lines for high-voltage wires, took it for a “centrale elettrica””; E. da Costa Meyer, The work of Antonio Sant’Elia. Retreat into the Future, New Haven-London, Yale University Press, 1995, p. 199. 50 Vedi Antonio Sant’Elia. La collezione civica di Como…, cit., p. 45. Mentre nel catalogo della mostra tenutasi alla Triennale di Milano dal 25 novembre 2016 all’8 gennaio 2017 il disegno è nuovamente datato 1914; vedi M. Mimmo, V. Minosi, “Celebrare Sant’Elia”, in Antonio Sant’Elia. Il futuro delle città, catalogo della mostra a cura di A. Coppa, M. Mimmo e V. Minosi, Milano, Palazzo della Triennale, 25 novembre 2016 - 8 gennaio 2017, Milano, Triennale di Milano — Electa, 2016, p. 24 (la didascalia di p. 25 riporta invece 1912). 51 Rispondendo a una lettera polemica dell’avvocato Alberto Andina, lo scultore Gerolamo Fontana, nel 1959, sosteneva che il disegno rappresentasse una torre-lanterna e non uno “studio di massima per uno stabilimento industriale” con la torre “destinata a pure tecniche”. Vedi “Il monumento per Sant’Elia: una torre lanterna”, La Provincia di Como, 20 maggio 1959. Ringrazio Stefano Zagnoni per avermi fornito il ritaglio del giornale. Sulla torre-faro quale monumento ai caduti di Como esiste ormai una vasta letteratura, si rimanda tuttavia alla scheda di Ellen Shapiro contenuta in Giuseppe Terragni. Opera completa, a cura di G. Ciucci, Milano, Electa, 1996, pp. 356-365. 52 Vedi Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata…, cit., scheda 255, p. 221. 53 G. Veronesi, L’opera di Mario Chiattone Architetto, Università di Pisa — Istituto di storia dell’arte, Gabinetto disegni e stampe, Pisa 1965, p. 10. 54 P. G. Gerosa, Mario Chiattone. Un itinerario architettonico fra Milano e Lugano, Milano, Electa,1985, p. 41. 55 Come è noto, la celeberrima frase “Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali” è contenuta nel tanto discusso manifesto, riprodotto da ultimo in A. Sant’Elia, L’architettura futurista. Manifesto, Milano, 11 luglio 1914; da ultimo in Il manifesto dell’architettura futurista di Santo’Elia e la sua eredità, atti della giornata di studi (Grosseto, 18 luglio 2014), a cura di M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi, Mantova, Universitas Studiorium, 2014, p. 16.
titolo saggio • nome cognome
Echi e fortuna di Sant'Elia
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sullam e torres, esponenti di una pre-avanguardia veneziana?
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Guido Costante Sullam, palazzo con negozi in Bacino Orseolo, Venezia, 1908, fronte principale (foto dell'autore)
Guido Zucconi
A metà strada tra Vienna e Bisanzio A molti (e non soltanto ai futuristi), Venezia appare come la negazione di qualsiasi spinta modernista: all’inizio del Novecento, la città sembrava oppressa dal suo ingombrante passato, incapace di sottrarsi ad un rapporto di stretta convivenza con la tradizione. Com’è noto, nel 1910, Marinetti le dedica un feroce volantino-manifesto, dal titolo paradossale Venise futuriste, arrivando a definirla come “piaga purulenta del passatismo”1. Prima del 1926, quando un intero padiglione le sarà dedicato, l’avanguardia futurista si terrà scrupolosamente alla larga da qualsiasi manifestazione che potesse condurli sulle rive della laguna. Ma Venezia rappresenta realmente un presidio dell’anti-avanguardia? In realtà, il ventennio compreso tra il 1895 e il 1915 è caratterizzato da una stagione intellettuale e artistica di grande vivacità, con crescenti aperture verso il mondo esterno. A dispetto dei tanti profeti di sventura, l’ex città dei dogi sta allora assumendo un profilo moderno e dinamico, anche se questo dato non ne intacca l’immagine tradizionale. Per quanto “invisibile” il mutamento avviene su più fronti, non soltanto su quello economico, ma anche su quello culturale; quasi come se vi si riflettessero i lusinghieri risultati ottenuti a livello marittimo, commerciale e industriale2. Anche grazie ai crescenti flussi legati al turismo, Venezia si trova sempre più al centro dell’attenzione internazionale, scrollandosi di dosso quel torpore provinciale che l’aveva per lungo tempo segnata; soprattutto nel campo delle arti e dell’architettura, dove la città sembra volere e potere rivendicare un ruolo da protagonista. La volontà di aprirsi a contesti più ampi si espliciterà anche con la nascita di nuove istituzioni “a lunga gittata” come l’Esposizione biennale d’arte: nel corso degli anni 1990, da nazionale il suo profilo diventa internazionale. Accanto vi è l’iniziativa parallela di dare vita a una Galleria internazionale, collocata negli spazi di Ca’ Pesaro, che aprirà i battenti a partire dal luglio 1908, conquistandosi subito la reputazione di “solo luogo in Italia […] libero da influenze e soggezioni di sorta”3. A partire dal 1916, anche Fortunato Depero inizierà ad elaborare una requisitoria “Antibiennale” citando soprattutto le esclusioni di “artisti non graditi” a cominciare da lui stesso4. L’ au-
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Venise avant et après le Futurisme, vignetta di André Warnod apparsa (come parte di Venise futuriste) in Comoedia (Paris), 17 giugno 1910
tore del pamphlet muove ai responsabili l’accusa di avere sistematicamente censurato e l’opera sua e dei futuristi in generale, prima e dopo la fatidica data del 1916. Per questa ed altre ragioni espresse in 84 punti, l’artista roveretano intende dimostrare la necessità di “rompere” definitivamente con le Biennali. Tuttavia, nonostante gli strali lanciati dagli artisti di avanguardia, le Biennali internazionali d’arte rivelano — anche prima del 1914 — un atteggiamento di apertura verso il mondo esterno, soprattutto verso l’Austria, la Germania, il Belgio e, in misura minore, la Francia. Per quanto riguarda le arti figurative, i suoi riflessi sulla produzione locale sono stati analizzati, assai meno l’architettura che meriterebbe un’indagine più approfondita a partire dai progetti per i padiglioni nazionali. C’è da domandarsi se, in quel contesto esecrato da Marinetti, sia andato creandosi anche
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per l’architettura una spazio di sperimentazione che confini con il mondo della avanguardia; o, per meglio dire, una sorta di “pre-avanguardia”, aperta al nuovo gusto cosmopolita e influenzata dai migliori esempi provenienti dalle capitali europee. Di questo rinnovato clima di apertura sono testimoni le opere di Guido Costante Sullam e di Giuseppe Torres, in parte legate a pulsioni, stimoli e contraddizioni tipici di un quadro internazionale in movimento. Più anziani di Sant’Elia, i due architetti veneziani si affacciano alla vita professionale nel primo decennio del Novecento: nei loro progetti, come vedremo si riflettono analoghe tendenze artistiche, manifestatesi un po’ dovunque soprattutto tra il 1905 e il 1914. Nato nel 1873, Sullam affronta in quel periodo una serie di temi progettuali che vanno dalle piccole unità residenziali al palazzo per uffici, dal cimitero alle componenti di arredo. Pur ad una scala diversa, tutti registreranno, attorno al 1905-1906, significative trasformazioni nel linguaggio; prima e dopo questo “gradiente” cronologico-stilistico, Sullam oscilla tra il “neo-bizantino rielaborato” della casa Hayez a Santa Maria Mater Domini ai villini Art Nouveau del Lido. Su tutto spicca il progetto per il Cimitero ebraico al Lido: intelligente riflesso di tendenze innovative, coniugate con un certo gusto per la monumentalità il quale ben riflette i mutamenti del gusto internazionale. Un analogo percorso, stilistico e cronologico, è seguito da Giuseppe Torres nato nel 1872: la sua cosiddetta “Casa bizantina” precede di pochissimi anni alcuni progetti ispirati alla Secessione viennese 5. Nel corso della sua attività professionale, alternerà il tema della residenza con quello legato alla dimensione del sacro, impegnandosi in progetti di edifici religiosi, di monumenti ai caduti, di cimiteri e di tombe di famiglia: nel far questo, Torres impiegherà diversi registri espressivi mescolando richiami alla tradizione con riferimenti al nuovo gusto internazionale. Torres e Sullam hanno entrambi frequentato, quasi negli stessi anni, l’Accademia di Belle arti di Venezia: il primo sotto la guida di quel Giacomo Franco, intellettualmente molto vicino a Boito; l’altro dopo gli studi di ingegneria civile, si avvierà lungo la linea di un apprendimento ancora segnata dalla sua eredità. A rafforzare questo indirizzo didattico deve avere contribuito anche Antonio Dall’Acqua Giusti, docente presso l’Accademia di Storia dell’arte e appassionato studioso di repertori locali6. Un suo giovane allievo — Raffaele Cattaneo — scrive nel 1888 un libro tra i più raffinati sull’architettura alto-medievale e bizantina: Architettura in Italia dal secolo VI al Mille7. Il percorso indicato da Boito e dai suoi epigoni, spinge a ritrovare nel passato gli elementi alla base di una nuova architettura. Ponendosi sulla sua scia, sia Sullam che Torres hanno assunto come punto di partenza i caratteri tipici dell’edilizia veneziana, legati soprattutto a quel poco che resta dell’architettura civile d’impronta romanico-bizantina. Nonostante i rari
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pagina a fronte Giuseppe Torres, Casa del Poeta, prospettiva del fronte (da L’Architettura Italiana, 1906)
frammenti e lacerti cui ispirarsi, quel tipo di tradizione è indicato come punto di partenza ancora all’inizio del Novecento; specie sul fronte della casa, come dimostrano i molti esempi disseminati soprattutto al Lido. Il concetto di genius loci ispira una serie di realizzazione in questo ambito. Attorno al 1905, se Torres realizza la propria abitazione in rio del Gaffaro (la cosiddetta “Casa bizantina”), Sullam si cimenta con il disegno di casa Levi (detta “Casa Hayez” in omaggio ai natali veneziani del pittore). Disegnati con estrema cura, questi due edifici costituiscono l’esito più riuscito di un percorso “archeologico” giocato in chiave locale. Soltanto in apparenza sembrano evocare il senso di una tradizione che continua: si tratta infatti di due operazioni tutt’altro che filologiche, ove si mescolano rimandi al bizantino con richiami alla pittura del primo Cinquecento. Alle tradizionali polifore bizantine, Torres e Sullam abbinano camini tronco-conici di sapore belliniano, alle dentellature in pietra di ascendenza tardo-gotica accostano una composizione della facciata che rammenta anche il proto-rinascimentale palazzo Dario e la tardo-gotica Ca’ d’oro (si veda la successione di polifora, finestrella quadrata e monofora della Casa bizantina). Tutti e due gli edifici si richiamano certamente al passato: tuttavia, l’uno e l’altro aprono la strada a forme di libertà compositive e commissioni stilistiche, quasi a volere trasgredire nel nome della tradizione. Per entrambi, il riferimento a Bisanzio o al vernacolo fornisce in realtà un grimaldello per scardinare vecchi ordini e per introdurre componenti internazionali nella pianta del localismo: la policromia e l’uso delle dorature hanno offerto un terreno per ibridare la tradizione locale con elementi à la page. Il tema della casa tra “genius loci” e Art Nouveau Da analoghi intrecci nascono opere complesse e difficili da catalogare, rispetto alle sommarie definizioni che la storiografia ha formulato una quarantina d’anni fa. Dentro o fuori le gabbie del Liberty e dei suoi “archivi”, le performance di Sullam e Torres non possono essere banalmente ridotte a tappe di una marcia di avvicinamento alla “architettura moderna”8. Secondo questo tipo di lettura, il periodo precedente è interpretato come semplice “sala d’attesa”, mentre la fase che segue al periodo aureo è vista spesso come “involutiva”. Con questo criterio è stata vagliata l’architettura non solo di Ernesto Basile e di Raimondo D’Aronco, ma anche dei due architetti veneziani; specie Torres che, dopo il 1919, dedicherà tempo ed energie al Sacrario del Lido da molti giudicato come clamoroso e definitivo arretramento rispetto ad una presunta linea evolutiva. In realtà, spazio e tempo congiurano contro l’idea di una progressione espressiva che,
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dagli esordi “eclettici”, conduca a forme proto-moderne o addirittura moderne. Se è vero che Sullam e Torres tenderanno a rarefare il riferimento storicista e a semplificare la composizione dei fronti, questo però avverrà secondo una successione tutt’altro che rettilinea; legata al mutare delle premesse tematiche, cambia la facies stilistica calibrata sul sito e sulla distanza da possibili confronti con la città storica. Per entrambi il Lido di Venezia rappresenta il luogo deputato alla sperimentazione. A questo Torres aggiunge come possibili sfondi anche luoghi indeterminati, associabili ad un vago modello di “casa mediterranea”: è il caso de “la casa del silenzio” e “la casa del poeta”, due prototipi disegnati per una rivista nel 19089. In questi due esempi residenziali, il processo di semplificazione espressiva troverà la sua piena consacrazione. Nelle due ville di Torres c’è un’atmosfera metafisica che ci ricorda i sepolcreti böckliniani: la prevalenza dei pieni sui vuoti è sottolineata da un gioco potente di masse contrapposte, ma addolcita da fasce decorative che corrono sulle grandi superfici. In questi due progetti si mescolano repertori alla moda con motivi cosmopoliti: lungo questa direttrice, vi rientrano anche echi e spunti dell’Art Nouveau franco-brussellese, oltre che di Wagner e della Secessione, conosciuta soprattutto attraverso l’opera di Josef Maria Olbrich.
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Léon Sneyers, padiglione del Belgio alla Esposizione Biennale d’arte presso i Giardini, Venezia, 1907, fotografia del fronte principale (da IX Esposizione internazionale d’arte della città di Venezia, a cura di Carlo Ferrari, Venezia 1910)
Lungo i due progetti, non distanti dal padiglione della Secession viennese, e nelle ville palermitane di Basile, passa il sottile crinale compreso tra riferimenti antagonistici: classicismo e modernismo, orientalismo e localismo. Sullam imboccherà la via del floreale con il villino “Mon Plaisir”, in seguito considerato la massima espressione del genere in ambito veneziano. Tuttavia egli ritornerà, poco dopo, al vernacolare e allo “stile montanino” nel disegno delle stazioni lungo la ferrovia per l’Altopiano di Asiago. Ancor più dopo il 1910, il tema della casa rappresenterà il terreno più adatto per verificare nuovi assetti espressivi, specie se collocato nelle propaggini insulari di Venezia. Si vedano le “cento ville CIGA” che Torres progetta per il Lido (1914), e le quasi contemporanee proposte per la ricostruzione di Messina (1911-15). Qui domina, un elemento “viennese” che, ripetuto su tutti i fronti, ne diventa un tratto distintivo: si tratta di una modanatura bicroma che circonda porte e finestre, in senso sia orizzontale che verticale.
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Centralità delle arti decorative Dal mondo delle arti applicate proviene un impulso decisivo all’esplorazione di nuovi territori espressivi. Come molti loro coetanei, anche Sullam e Torres sono tra coloro che il gusto e le tendenze del proprio tempo hanno indotto a cimentarsi sempre di più con le cosiddette “arti minori” che non rientravano nel tradizionale campo di interessi dell’architetto Beaux Arts. Entrambi mostrano una spiccata attenzione per le componenti di arredo, soprattutto lignee; da un lato si segnala l’eccellenza di Sullam come designer di mobili, dall’altro Torres esprime un gusto particolare per il dettaglio metallico e per la minuteria concepita ad hoc, maniglie, chiavistelli, serrature spiccano come componenti non secondarie del progetto. Questo genere di opere sta a dimostrare che, anche in riva alla laguna, viene realizzandosi all’inizio del Novecento una felice congiunzione tra la versatilità artistica (tipica della tradizione accademica) e la rinnovata sensibilità nei confronti delle arti applicate, specie nella fascia haute-de-gamme. Proprio allora, l’artigianato di lusso offre anche a Venezia importanti occasioni di verifica e di sperimentazione progettuale: ben inteso, questo principio potrebbe valere per molti che si sono formati nelle capitali del gusto di inizio secolo, all’ombra di grandi committenti come Lalique, Tiffany o Wiener Werkstaette. Anche se nel Triveneto non esiste nulla di tutto questo, persiste tuttavia una radicata tradizione artigianale che ora è in cerca di nuovi indirizzi espressivi. Si vedano soprattutto i campi del vetro soffiato e dell’ebanisteria, ove spiccano figure di rilievo come quelle di Michelangelo Guggenheim e di Antonio Salviati. Su queste basi, anche in laguna, cresce la speranza di dare vita ad una scuola superiore di arti applicate. Torres e Sullam condividono l’auspicio per un riavvicinamento dell’architettura alle arti decorative, in un solido rapporto con le pratiche e le tecniche legate al lavoro manuale. Soprattutto il secondo dedicherà le migliori energie a questo obiettivo; per conto dell’Umanitaria di Milano, nel 1903, compierà un tour per le principali scuole di arte applicate in Austria e Germania, in compagnia di Mazzucotelli e di Quarti10. Dopo avere partecipato all’Esposizione di Roma del 1911, Sullam giocherà una funzione fondamentale a Monza in iniziative quasi interamente consacrate alle “arti applicate”; dal 1921, a lui è affidata la direzione dei corsi nella neo-costituita Università delle arti decorative che alimenterà le esposizioni di arti decorative tenutesi, con cadenza biennale, presso la stessa Villa Reale11. C’è un chiaro nesso con Venezia, le cui “biennali d’arte” avrebbero dovuto tenersi ad anni alternati rispetto alle mostre di “arti minori”, proposte ma mai decollate in riva laguna.. Alle prime edizioni di Monza, Sullam parteciperà da protagonista dimostrando un crescente interesse per le arti applicate. Presso l’Accademia di Venezia, anche grazie al peso attribuitogli da Pietro Selvatico, da questo settore prende il via una tradizione di studi poi ripresa da Boito e, attraverso l’insegnamen-
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pagina a fronte Giorgio Wenter Marini, studi per Padiglione trentino alla Fiera campionaria di Milano, 1921 (Fondo Giuseppe Torres, Archivio Progetti, Università IUAV di Venezia)
to di Giacomo Franco, giunta fino agli inizi del nuovo secolo. Sullo sfondo, gli iniziali riferimenti alle Arts and Crafts inglesi hanno trovato sbocco in una serie di esperimenti didattici che hanno coinvolto sia l’insegnamento teorico che quello pratico; non a caso, le scuole di arti e mestieri di Padova e di Venezia saranno le prime in Italia. Anche a questa scala si registra un rimando iniziale al “genius loci” nel quale si manifesta una ricerca di radicamento espressivo che, pur con molte libertà, ha trovato significativa applicazione nella Casa bizantina e nella Casa Hayez: analogamente, nel disegno degli oggetti d’arte, si comincia da un riferimento storico, poi reinterpretato fino a trasformarsi in fattore di poetica personale. Sullam e Torres attingeranno ad un’ ampia gamma di rimandi, che vanno dal veneto-bizantino al neo-moresco per poi approdare, in qualche caso, ad un minimalismo mediterraneo di sapore razionalista. Tra nuove suggestioni e radicate tradizioni artistiche si va creando un circolo virtuoso che avvicina molti architetti del Triveneto a chi proviene da una formazione mittel-europea e gravita in aree vicine: trentini, giuliani e triestini, formatisi nelle scuole dell’imperial-regio governo, come Giorgio Wenter Marini e Max Fabiani, per citarne soltanto alcuni. Dentro e fuori le biennali internazionali d’arte Anche a Venezia, alla vena neo-medievalista, vera o presunta, andranno a sommarsi le suggestioni che provengono da Vienna e da Bruxelles: se da un lato pesa il genius loci, dall’altro ci sono figure e modelli di tipo universale i quali attingono ad un repertorio internazionale. Anche le riviste illustrate contribuiscono a creare un gusto che si colloca al di sopra dei luoghi e delle parti. Da questi incroci nascono cifre stilistiche personali, ricche di rimandi agli stili del passato e di caute aperture alla novitas modernista. Tradizione e Secession viennese forniscono ulteriori apporti per esplorare nuove frontiere del linguaggio e per elaborare una versione lagunare dell’Art Nouveau. In queste originali combinazioni entra anche la componente orientalista intesa sia come riferimento esotico, sia come espressione delle proprie radici. Se da un lato il bizantino appare congruo con la propria identità, dall’altro si fa ricorso un repertorio di origine disparata (araba, indiana, khmer). A Sullam e Torres dovremmo accostare un terzo architetto, Giovanni Sardi, purtroppo scomparso in età prematura dopo avere progettato quello straordinario montaggio di riferimenti arabi, bizantini e Art Nouveau che passa sotto il nome di Hotel Excelsior. E poi ancora, Giuseppe Berti, Giovanni Sicher, e tutti coloro che sono collocabili in un’area a metà strada tra ricerca del nuovo e fedeltà alla tradizione.
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Pur in misura diversa, tutti appaiono sospesi tra le lusinghe del passato e la sirena del cosmopolitismo; più che parlare di lotta tra modernisti e tradizionalisti, sarebbe saggio distinguere tra fasi e indirizzi diversi a seconda del tempo, del luogo e della committenza, in cui gli architetti veneziani si trovano ad operare; dare il via a studi di tipo comparativo che prendessero in considerazione anche ciò che non è immediatamente visibile come le relazioni sottintese, e comunque non esplicite, con l’ambiente internazionale a partire dalle prime Biennali. Torres vi partecipa come progettista del padiglione centrale mentre, nel caso di Sullam, non vi è evidenza di rapporti diretti. Tuttavia emergono indubbi legami con l’architettura dei primi padiglioni nazionali, costruiti nell’area dei giardini: in particolare con quello del Belgio, realizzato su disegno di Lèon Sneyers, e con quello ungherese, opera di Geza Maroti. Altri incontri, diretti e indiretti con figure di spicco d’oltre confine, sono resi possibili da un contesto internazionale che ormai si incardina stabilmente attorno alle esposizioni biennali: l’influenza di Josef Maria Olbrich su Sullam è ben visibile in tutti i progetti successivi al 1903 dopo che egli ha compiuto un lungo viaggio di ricognizione nelle scuole di arti applicate di Germania e Austra-Ungheria. Dal canto suo, Torres rivela legami con il modo britannico che fa capo a Ruskin e ai suoi se-
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guaci: soprattutto con Alexander Robertson e, probabilmente, con Robert de la Sizeranne12. Su questo terreno ritroviamo analogie con Wenter Marini, architetto, pittore, designer attratto dalla Secessione viennese di cui riporta in Italia echi e riflessi negli anni della Grande guerra13: nel piacentiniano Cinema Corso, a cui collabora in modo determinante, e nella “villa di vacanze” disegnata nel 1918. Parlare di “eclettismo storicista”, come è avvenuto nel caso suo e dei due veneziani, offrirebbe un’altra scorciatoia critica che non aiuta a comprenderne la figura e l’opera. Meglio sarebbe individuare una rotta interpretativa che permetta di collocare l’architetto trentino nel suo tempo e alla luce di una serie di incontri che nella città lagunare appaiono particolarmente frequenti, pur con le limitazioni dovute alla guerra in corso. Apparentemente lontane dal tema al centro di questa serie di contributi, le due figure di Sullam e Torres ci consentono di gettare luce su uno dei suoi obiettivi principali: stabilire nessi tra la produzione di Sant’Elia e le tendenze dominanti nell’architettura italiana del primo Novecento. In un contesto sempre più rivolto al mondo, come quello dell’Italia giolittiana, trova dunque posto anche un milieu architettonico, fino a quel momento provinciale, come quello di Venezia e del Veneto. In quest’area manca del tutto una dimensione metropolitana o comunque legata ad una grande città in espansione come Milano. A est del Mincio, non sembrano sussistere le condizioni propizie per quello “scatto” (se non utopico, per lo meno dimensionale) che caratterizza i progetti futuribili di Sant’Elia. Inutile sarebbe perciò la ricerca di analogie con i suoi formidabili exploit linguistici. Nelle regioni nord-orientali d’Italia mancano anche riferimenti e suggestioni iconografiche che a Milano hanno contribuito non solo all’immaginario futurista, ma anche a quel salto di scala che caratterizza l’architettura della Città futura. Non vi sono le visioni titaniche né di impianti idro-elettrici né di grandi stabilimenti fumanti: qui, a differenza della Lombardia, le centrali saranno oggetto di grandi realizzazioni, soltanto a partire dagli anni 1920. Sotto la regia della SADE, queste interesseranno soprattutto la fascia che comprende le Prealpi e il pedemonte veneto. L’industria, quando verrà, avrà dimensioni e caratteri molto diversi, con la sola eccezione di Porto Marghera. Nelle regioni nord-orientali, dobbiamo quindi riferirci ad una scala di progetto ben più modesta, dove emerge una timida nozione di avanguardia che coinvolge altri temi e altri generi di immagini. Le Biennali internazionali d’arte, la presenza di critici e di artisti da paesi più evoluti creano il terreno propizio per un processo di rinnovamento estetico che toccherà le personalità più attente e più sensibili all’innovazione. Indotta da un’apertura verso modelli stranieri, specie belgi e austro-tedeschi, prendono corpo nuove forme di “trasgressione” stilistica. Non soltanto il Lido, ma anche alcune
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porzioni centrali della città offriranno un terreno propizio alla sperimentazione spesso calibrata su nuovi temi quali il Grand Hotel e il villino suburbano. In questi casi, la tradizione non rappresenta che il punto di partenza: una sorta di auto-legittimazione che fissa l’inizio di una traiettoria da collocarsi ai margini o addirittura al di là della norma. Anche i progetti di Sullam e Torres, come abbiamo visto, esprimono la chiara intenzione di uscire da canoni prestabiliti, per esplorare nuove strade. Più che assegnare il marchio della “avanguardia” o escogitare termini ambigui come “pre-avanguardia”, sembrerebbe più utile seguire il cammino individuale e collettivo di chi ha voluto sperimentare forme inedite di architettura.
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Note 1 Il volantino Venezia futurista/Venise futuriste, appare nelle versioni italiana e francese il 27 aprile 1910, con vignette di André Warnod. A lanciarlo sugli ignari turisti dalla Torre dell’Orologio sono Marinetti, Boccioni, Bonzagni, Carrà, Russolo, Mazza e Palazzeschi: stampato in 200.000 copie, il testo è poi pubblicato sulla rivista Comoedia il 17 giugno 1910). Sarà poi ristampato, versione ampliata, nel maggio di quell’anno con il titolo Contro Venezia passatista. Nell’agosto 1910, Teatro La Fenice, Marinetti organizza una serata futurista leggendo un Discorso futurista ai Veneziani, ove si propone di guarire una città “purulente e paralitica”. 2 Si veda in proposito, Giovanni Bordiga nel risveglio culturale di Venezia tra fine Ottocento e inizio Novecento, a cura di G. Zucconi, Venezia, Ateneo Veneto, 2014. 3 Si veda N. Stringa, L’arte decorativa alle mostre di Ca’ Pesaro Venezia, p. 256, in Gli anni di Ca’ Pesaro (19081920), catalogo della mostra (Venezia, 1987; Trento, 1988) a cura di G. Romanelli, Milano, Mazzotta, 1987. 4 La prima stesura della “requisitoria” è contenuta nel piccolo catalogo che compare in occasione della mostra tenutasi a Roma 1916. Variamente ampliato e rielaborato, lo scritto sarà pubblicato nel 1954 in una miscellanea intitolata Antibiennale di F.Depero. Museo preliminare Depero a Rovereto di Lionello Fiumi. Lettera dell’avvocato Carlo Accetti, Rovereto, Arti Grafiche Manfrini, 1955. 5 Sulla figura e l’opera di Torres, si veda il mio contributo, La ricerca paziente di un moderno passatista, in Giuseppe Torres. Il restauro del castello di Spilimbergo (1911-1912), a cura di C. Furlan e G. Zucconi, Udine, Quaderni della Fondazione Ado Furlan, 2017, pp. 13-23. 6 Nel 1873, era stato l’autore di una ‘Relazione storica per l’Esposizione di Vienna del 1873’, pubblicata con il titolo La Galleria dell’Accademia di Venezia., Venezia, Visentini, 1873. Poco o nulla esiste sulla sua attività di docente presso l’Accademia. 7 Ripubblicato nel 1923, il volume — sottotitolato Ricerche storicico-critiche di Raffaele Cattaneo — è stato oggetto di una recente riedizione (Quinto di Treviso, Nabu, Press, 2012) 8 Si veda in proposito G. Romanelli, “L’architetto Torres e il Liberty”, in Situazione degli studi sul Liberty, Atti del Convegno internazionale a cura di R. Bossaglia, C. Cresti, V. Savi (Salsomaggiore Terme, ottobre 1974), Firenze, Clusf, 1976. Dello stesso autore, si veda anche “Nuova edilizia veneziana all’inizio del XX secolo”, Rassegna di Architettura, 1985, n. 22, pp.10-23. 9 I progetti sono pubblicati in L’architettura italiana, 1908, n. 12, fascicolo in buona parte dedicato all’opera di Giuseppe Torres: circa quaranta pagine (da p. 49 a p.89) su un totale di cento. Nata a Torino nel 1906, la rivista è diretta da Giuseppe Lavini, pittore, letterato e critico d’arte. 10 Si veda la relazione stilata per conto della “Umanitaria” di Milano, oggi conservata presso il Fondo Sullam. 11 La “Mostra internazionale di arte decorativa” era organizzata nell’ambito della Università (poi Istituto Superiore di Industrie Artistiche), inizialmente concepita come esposizione dei migliori esempi prodotti dagli allievi dello stesso Istituto. Nella Villa Reale di Monza si tennero le prime quattro edizioni (1923, 1925, 1927, 1930) prima del definitivo passaggio a manifestazione triennale e al trasferimento nel palazzo di Giovanni Muzio al parco Sempione di Milano 12 Traduttore e promotore dell’opera di Ruskin in Francia, tiene una conferenza intitolata Ruskin at Venice a Palazzo Ducale nell’estate del 1905, davanti ai partecipanti al Congrès international d’histoire de l’art. 13 Nato a Rovereto nel 1890, Wenter Marini termina i suoi studi in Austria alla vigilia del conflitto prima di trasferirsi a Roma presso lo studio di Marcello Piacentini.
antonio sant’elia e il “primo futurismo” visti dalla cultura degli “archi e delle colonne” in occasione delle prime “celebrazioni santeliane” (1930-1931) Ferruccio Canali
Con la nomina di Marinetti ad Accademico d’Italia (1929), la fase culturalmente ‘alternativa’ e sovversiva del Futurismo poteva dirsi conclusa e ormai anche l’Avanguardia più irriverente d’Italia veniva inserita nell’alveo della Cultura accademica. Il processo non era inaspettato, anche se la stampa fingeva di cogliere la novità del nascente “Secondo Futurismo”, e quindi le figure dei ‘Grandi futuristi della ‘prima ora’ — come Boccioni e Sant’Elia — entravano a pieno titolo nel gotha del grandi Artisti di quella che veniva ormai considerata da tutti la “prima vera Avanguardia italiana”. Ci avevano già pensato nel corso degli anni 1920 (sia per il loro rapporto con Marinetti, sia per episodi singoli) in particolare Ugo Ojetti, che non aveva mancato del proprio appoggio i “futuristi” Lorenzo Viani e Domenico Rambelli per il Monumento ai Caduti di Viareggio (1927)1; ci pensava addirittura il vecchio Corrado Ricci con il suo scritto sulla Nuova Antologia del 1933 “Dal Giottismo al Futurismo”, pieno di distinguo, ma anche di inedite aperture2. Nella pur scarna “Architettura futurista” la figura di Sant’Elia si stagliava per la carica innovativa dei suoi disegni se pur non certo per le sue realizzazioni; ma ormai ogni Architettura moderna, come faceva intendere anche Ugo Ojetti, da quelle riflessioni sembrava dover passare nonostante la carica di antipassatismo e di sostanziale ‘romanticismo’ insita nei “Manifesti futuristi”. Probabilmente è vero che “prima della Seconda Guerra Mondiale, è possibile affermare che la fortuna di Sant’Elia non sfonda oltre certi limiti nel dibattito critico internazionale”3. Ma è anche vero che non furono solo Futuristi e Razionalisti ad occuparsi di Sant’Elia, la cui figura, come “precursore” della Modernità, come “isolato” e/o come “pazzo”, finiva per suggestionare trasversalmente i vari pensieri architettonici, come si trattasse di un vero e proprio fil rouge della Modernità, dall’Avanguardia alla “Cultura degli Archi e delle Colonne” (cioè di quei ‘Tradizionalisti’ attenti però verso le innovazioni della Modernità: ed erano Marcello Piacentini, Ugo Ojetti, Corrado Ricci, Ettore Cozzani, Margherita Sarfatti, Gustavo Giovannoni, Roberto Papini … e tutti i loro allievi, amici e collaboratori). Il “Secondo Futurismo” avrebbe sperimentato come ‘fare architettura’ fosse un’altra cosa … Perché quella carsica, simpatetica, consonanza? Le battaglie ‘anti-accademiche’ (contro lo
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“stanco Accademismo delle Accademie”) e campi di interesse comuni non erano certo mancati ad individuare una sorta di ‘sensibilità condivisa’ che a partire dalla valutazione proprio dei disegni di Sant’Elia si dipanava poi per rivoli diversi. La vicenda della Stazione di Firenze, orchestrata da Piacentini ma con Marinetti nella stessa commissione in cui sedeva anche Cesare Bazzani, stava a dimostrarlo e la capacità tutta piacentiniana di mediazione, tra promesse e slanci, era stata in grado non solo di tacitare Bazzani, ma soprattutto di ‘irregimentare’ Marinetti (dopo l’iniziale appoggio dell’influentissimo Ugo Ojetti al primo progetto di Angiolo Mazzoni4, poi anch’egli ‘futurista pentito’). Il problema dello ‘sdoganamento’ del Futurismo, e della sua ‘piena accademizzazione’, dopo l’entrata di Marinetti nell’Accademia d’Italia, restava nell’iniziale avversità del Movimento nei confronti della Tradizione e nell’antipassatismo. Ma ormai all’antipassatismo e ad un rapporto sempre più libero guardavano tutti, per cui la dirompenza finiva per mitigarsi nel ‘come’, più che nell’assunto. Già dalla fine degli anni 1920 era però ormai chiaro come il Futurismo non fosse più un corpus unicum e che in ‘certi Futurismi’ (dal “Futurismo” ai “Futurismi”) il rapporto con la Tradizione si venasse di declinazioni sempre più articolate, come nel caso di quel ‘Futurismo folcklorico e rurale’ che, a base antiurbana, cercava nelle espressioni ‘minori’ (che fossero abitazioni o musiche o canti o tessuti …) una nuova fonte di ispirazione, come insegnavano Depero, Balilla Pratella e Beltramelli. E lo studio dell’Architettura rurale, come anche delle “Arti minori” era stata prerogativa, fin dai primi del secolo, anche di tutta la ‘linea vernacolare’ e della ‘Scuola romana’ di Giovannoni e, con tangenze inaspettate, aveva partecipato al dibattito anche Ojetti già nel 1911 con “Arte paesana e arte nazionale” dalle pagine del Corriere della Sera, ma poi nel 1921-1922 nel Museo di Lima egli aveva sintetizzato una visione pittorica di un’Italia rurale e laboriosa, pur senza i Futuristi. Ancora, al rombo delle nuove macchine, al “Mito mussoliniano dell’aereo” che aveva trovato in D’Annunzio il proprio primo poetico aviatore (con Marinetti che rendeva omaggio al Vate a Gardone ancora poco prima della sua morte), si mescolava il canto dei bambini; e proprio l’Arte infantile veniva a costituire un ennesimo campo nel quale la ricerca futurista e le riflessioni critiche ad esempio di Corrado Ricci (fin dal 1887) potevano trovare un campo di azione comune. In quella sotterranea linea di entente cordiale segreto e carsico fatta più di aspirazioni moderne che di questioni ‘stilistiche’, uno stupito Ojetti avrebbe registrato l’ennesimo, ma ormai inaspettato attacco ‘graffiante’ di Marinetti contro di lui, in una delle sue “Lettere” dalle pagine di Futurismo5 (ma nel 1933 ce n’era anche per Piacentini da Pegaso …);
antonio sant’elia e il “primo futurismo” • ferruccio canali
il canto del cigno antiaccademico di Marinetti dopo l’accesso futurista nell’Accademia, cui sarebbero seguite scaramucce. Spesso fondandosi proprio sul ‘mito condiviso’ di Sant’Elia, il cui mentore principale restava — oltre a Marinetti ma forse ancor più di lui — chi aveva colto le novità del Novecento italiano, Margherita Sarfatti. Visioni incrociate Nel 1935 usciva, per i tipi dell’editoriale Domus, il volume Dopo Sant’Elia, cui partecipavano, tra gli altri, Giuseppe Pagano, Lionello Venturi e, soprattutto Giulio Carlo Argan: i Critici dell’Avanguardia e del Razionalismo celebravano ufficialmente, dal loro interno, paternità, valori, relazioni in un momento in cui si cercava di inserire sotto la dicitura “fascista” ogni visione della Modernità e, soprattutto, molti puntavano agli ‘apparentamenti’ tra il Futurismo, che contava una storia più che ventennale, e i ‘giovani’ del Razionalismo. L’operazione era però non priva di notevoli difficoltà — mentre verso quegli apparentamenti, più o meno interessati, la “Cultura degli Archi e delle Colonne” rimaneva piuttosto estranea — fornendo, delle vari manifestazioni artistiche “moderne”, giudizi più generali. La cosa non è di poco conto perché segnava un netto divario tra le primogenitura e le paternità dai Moderni stessi riferite a Sant’Elia e, invece, la valutazione che in generale si forniva del Futurismo — pressoché in ambito unicamente pittorico — da parte dei Critici che quella Modernità non condividevano e che, anzi, come Ugo Ojetti o come Corrado Ricci, ne erano stati bersaglio. Spesso nei confronti di Sant’Elia si poneva un silenzio ‘assordante’ verso uno dei “Padri del Movimento” che se vedeva in prima fila proprio le reticenze verso i suoi disegni (ed era stranamente il caso di Piacentini), d’altra parte interessava in misura minore Umberto Boccioni, al quale veniva riconosciuta una indubitabile ‘qualità artistica’. Ma il Futurismo ‘era Pittura’ e dunque a Sant’Elia — la conoscenza dei cui disegni era ben più diffusa e apprezzata di quanto fino ad oggi la Storiografia non abbia pensato, avendo trascurato proprio la “Cultura degli Archi e delle Colonne” — che era architetto “solitario” e la cui opera era stata stroncata dalla Guerra in giovane età senza aver prodotto o pubblicato quasi nulla, vedeva la sua fortuna postuma legata unicamente all’intraprendenza di altri — Marinetti e la Sarfatti in primis — oltre alla ricezione da parte degli intendenti. Era la ‘creazione di un mito’ che peraltro non pochi, pur sommessamente, già negli anni 1930 vedevano bilicarsi nella ‘necessità’ a suo tempo sperimentata da Sant’Elia di essere Futurista senza possibile alternativa; e comunque di non essere rimasto estraneo alle sirene del Liberty6. La polemica — per questa mancanza di architettonicità concreta da parte dei Futuristi (che, oltretutto, non venivano sentiti neppure come “Pittori” quanto, piuttosto, come fautori di
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“Arte decorativa”) — si appuntava piuttosto contro i giovani Razionalisti che, invece, dell’Architettura avevano fatto il loro fulcro7. Semplicemente, la Critica degli “Archi e delle Colonne” non riconosceva al Futurismo — che pure si mostrava molto utile nelle polemiche contro il Razionalismo8 — un operativo valore architettonico. E lo testimoniava ab origine Roberto Papini nel 1932, riferendosi addirittura al 1914, ma estendendo sostanzialmente il discorso anche al periodo successivo: diciassette anni or sono io stampavo, nell’agosto del 1914, sulla rivista “Emporium” l’elogio dell’architetto tedesco Ernesto Wille … e aggiungevo “in un periodo in cui la Scienza delle Costruzioni ha inventato nuovi procedimenti ed applicato nuovi materiali, l’Architettura, invece di prenderne al volo i risultati e creare nuove forme con l’applicazione logica e sincera di quei procedimenti e di quei materiali, s’è compiaciuta di vestirsi di falsità, di mascherarsi coi costumi e con le forme dei secoli scorsi … Evidentemente della rigatteria architettonica ne abbiamo abbastanza … L’unico consenso che io ebbi allora a queste parole dal campo degli architetti fu quello di Marcello Piacentini”9.
I manifesti dell’architettura di Boccioni e di Sant’Elia erano dello stesso anno, il 1914; ma in quel loro rifiuto della Tradizione da parte dei Futuristi non poteva che individuarsi un totale scollamento con ciò che Papini, pur aperto alla Modernità, intendeva. E la loro sarebbe comunque restata, almeno all’apparenza (o perlomeno nella lettura della “Cultura degli Archi e delle Colonne”), solo pura utopia.
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Una critica incombente: Ugo Ojetti, i Futuristi e Sant’Elia e un’entente cordiale di poco momento (1930-1931) Una sorta di complesso rapporto psicologico sembrava legare gli esponenti dell’Avanguardia, Critici o Artisti (Pittori, Scultori o Architetti) a Ugo Ojetti, il cui nome veniva chiamato in causa ogni qual volta si intendesse sottolineare la propria ‘diversità artistica’ e spesso proprio nel nome di Sant’Elia10. E non che Ojetti fosse il più bieco dei Conservatori; semplicemente era Critico dalla penna appuntita, dall’intelligenza viva, dalla Cultura solida, dalla conoscenza artistica e storica inossidabile; e, soprattutto, era aperto e lettore attento della Modernità. Proprio per questo appariva, sempre e comunque, il principale nemico da combattere. Anche perché Ojetti non sembrava scalfito dalla invettive, ma, anzi, intavolava con le sue “Lettere a …” o con i suoi articoli sul Corriere della Sera, discussioni nel merito. La serie di quelle invettive ad personam anti-passatiste era cominciata da parte degli stessi Futuristi molto presto, e sicuramente per mettersi in mostra avevano, i giovani futuristi più volte attaccato Ojetti, ‘mostro sacro’ della Critica italiana già ai primi del Novecento11. Una nuova stagione sembrava aprirsi però con le “Celebrazioni santeliane” a Como, Milano e Roma del 1930 — dopo la nomina di Marinetti ad Accademico d’Italia del 1929 — tanto da profilare un nuovo orizzonte. Dopo l’Esposizione di Torino del 1928 Marinetti si era attivato per la costituzione di un Comitato per le celebrazioni per Sant’Elia previste appunto a Como, Milano e Roma nel 1930. Tra i Curatori dell’iniziativa si sarebbero posti oltre allo stesso Marinetti, anche Prampolini, Fillia ed Escodamè, ma Marinetti si rivolgeva anche ad Ojetti, ufficialmente senza successo. L’‘avvicinamento’ arrivava con la proposta da parte marinettiana a Ojetti, di partecipare o perlomeno appoggiare lo svolgimento di quelle manifestazioni, dalle pagine della Gazzetta del Popolo di Torino12. Non sappiamo della risposta del Critico fiorentino, ma, evidentemente, una sorta di entente cordiale dovette instaurarsi, anche perché per quanto riguardava la sede milanese veniva individuata la “Galleria Pesaro” di Milano, che era ‘luogo ojettiano’ per eccellenza (anche se non esclusivo). Ma soprattutto era ‘tempio’ di Margherita Sarfatti. Alla tragica ma eroica morte di Sant’Elia in Guerra colpito in fronte da una pallottola — eroismo ben adatto alla celebrazione rispetto alla miserevole caduta da cavallo nelle retrovie di Boccioni — Margherita Sarfatti, il cui figlio era stato amico di Sant’Elia ed aveva avuto una sorte simile, si faceva carico della celebrazione del “Cenacolo milanese” (“Nuove Tendenze”, pur con scia di polemiche13) che attorno alle suggestioni avanguardistiche aveva ruotato verso il 1914. L’attivismo della Sarfatti in quella promozione santeliana era quasi smanioso14; e anche la Galleria Pesaro a Milano ne veniva coinvolta. La stampa nazionale recensiva, dunque, le tre Mostre di Como, Milano e Roma del 1930
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dedicate a Sant’Elia con il massimo del battage pubblicitario; ma come si fosse posta la ‘Critica ufficiale’ lo sappiamo spesso solo per li rami. Sulla terza pagina del Corriere della Sera (il pulpito critico di Ojetti per eccellenza, che ne aveva ‘inventato’ il ‘taglio’ artistico fin dai primi del Novecento), compariva, seppur anonima — ovvero Redazionale — una recensione positiva della Mostra milanese, piena di sottintesi: Antonio Sant’Elia, nato a Como nel 1888, morì in guerra nel 1916. La sua passione, il suo studio costante, fu l’Architettura, nella quale precorse i tempi, vagheggiando una “Città futura” le cui forme architettoniche aderissero alla vita moderna, n’esprimessero lo spirito, ne assecondassero i bisogni. Questi ideali lo portarono tra i Futuristi, nel cui nome egli lanciò quel “Manifesto dell’Architettura”, che oggi in alcune parti può sembrare una profezia … Colpito alla fronte [in Guerra] non ha lasciato delle sue ardite concezioni che un fascio di disegni e molte fertili idee. Questi disegni, che si videro pochi giorni fa in una Mostra commemorativa ordinata nella città natale di Sant’Elia, sono oggi raccolti a Milano nella Galleria Pesaro, dov’essi figurano accanto ad alcuni saggi di 22 pittori futuristi: ed è facile constatare quanto dell’odierno razionalismo vi fosse anticipato. Sant’Elia ripudiava la decorazione: “la decorazione come qualcosa di sovrapposto all’architettura è un assurdo. Soltanto dall’uso e dalla disposizione originale del materiale greggio o nudo o violentemente colorato dipende il valore decorativo dell’architettura futurista”. Ma le nude costruzioni ch’egli innalzava sulla carta figuravano in virtù del suo ardore lirico, un’intensità stilistica singolare. Grattacieli a gradinate con fasci d’ascensori esterni, o officine e gasometri e stazioni ferroviarie e stazioni d’aeroplani, i suoi fantastici edifici volevano essere l’espressione più viva dei nostri tempi dinamici e scandivano lo spazio con grandi movimenti di masse o s’innalzavano nel cielo con vertiginosi e audaci slanci ascensionali. Questo fervore d’ispirazione, che caratterizza l’architettura di Sant’Elia, fu messo ieri sera in evidenza da Marinetti, il quale, commentando con un appassionato discorso la mostra dell’artista scomparso, rilevò come le tendenze razionaliste non siano esenti da una certa freddezza e da una eccessiva prevalenza del problema costruttivo sul problema stilistico, mentre l’architetto futurista sapeva dare alle strutture che egli ideava il palpito del suo lirismo e l’accento della sua personalità15.
L’estensore del pezzo restava anonimo, ma sembrava ritrovare nell’opera di Sant’Elia proprio quegli assunti che costituivano la base dell’Estetica di Ojetti (“fervore d’ispirazione … palpito del lirismo e accento della personalità”), come se si fosse compiuta una sorta di tacita alleanza tra Futurismo e ‘Ojettismo’ contro il Razionalismo, allora ‘nemico’ ben più pericoloso, pervasivo, internazionale e caratterizzato da “una certa freddezza e da una eccessiva prevalenza del problema costruttivo sul problema stilistico” rispetto alle ben poche Architetture futuriste; mentre la proposta di Sant’Elia appariva in toto italiana e, anzi l’esempio dell’Architetto comasco, era in grado di porsi secondo Marinetti “come rinnovatore dell’architettura mondiale”. Che potesse essere proprio Ojetti l’estensore volutamente rimasto anonimo di quelle considerazioni (il Critico mai avrebbe potuto figu-
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rare, per ovvie ragioni di opportunità dopo le sue acerrime battaglie e dopo gli attacchi diretti dei ‘Primi Futuristi’)? Del resto, per Marinetti non era un buon momento nei confronti dell’Avanguardia, dopo le chiusure di Pier Maria Bardi l’anno dopo, nel 1931, rispetto ad un fronte comune tra Futuristi e Razionalisti: “il “MIAR” non ne vuol sapere degli ‘architetti’ futuristi”16. Invece Ojetti riconosceva ai Futuristi che delle loro invenzioni [pittoriche] si giovano da anni gli stranieri; e [specie avviene] che i fabbricanti italiani di sete o di tappeti, o di porcellane o di tarsìe non facciano capo a loro o, se mai, imitino da opere francesi o germaniche o austriache i disegni che i Futuristi italiani hanno inventato in Italia17.
Era un deciso riconoscimento di valore. Ma ci sono anche altri passaggi, sempre riferiti a quello stretto torno di tempo, che indirizzerebbero verso un ‘sotterraneo’ coinvolgimento ojettiano in quelle “Celebrazioni santeliane” del 1930. Sembrerebbe dimostrarlo, di lì a poco, la nota stizzita/amareggiata di Ojetti, dalle pagine di Futurismo18 del 1932, nei confronti di Marinetti, che aveva rotto quell’entente. E il nodo tornava, ancora una volta, al “Manifesto” di Sant’Elia. Interessante il confronto fra la minura preparatoria di quella nota e poi quanto pubblicato. Nella minuta, datata “14 ottobre 1932”, Ojetti arrivava subito al dunque: che c’entra, caro Marinetti, il Futurismo? Quando mai il Futurismo ha negato la continuità della cultura e della civiltà italiana, che sarebbe come negare l’esistenza stessa, presente e attiva, d’una civiltà [ma cancellato l’incisivo “della civiltà”] e d’una coscienza italiana? Nel fatto artistico, ricordo quante volte, a voce e in iscritto, tu hai, per esempio contro il “Cubismo statico” dei Francesi, vantato la forza dinamica e il movimento e l’impeto del Futurismo italiano. Nel fatto politico, basta la condotta dei Futuristi nella Guerra e nel Fascismo per evitare di credere, se non si è un avversario vostro o cieco o in malafede, che il Futurismo abbia mai voluto essere fuori della civiltà [cancellato “e della coscienza”] nazionale19.
Dunque l’apertura di credito e la sostanziale stima era totale, da parte di Ojetti, perlomeno dal punto di vista “nazionale … artistico … e politico”. Infatti, se non altro bastava la ‘coscienza storica’: io amo il tempo in cui vivo e ho passato la mia vita di scrittore a osservarlo, scrutarlo, descriverlo e ho piena fede nell’avvenire. Ma, nel presente e nell’avvenire, io, romano, voglio essere italiano, non per cortesia del destino, ma, da come penso a come scrivo, per deliberata conoscenza e coscienza. E, come posso, mi oppongo a chi si lascia cullare e addormentare da teorie straniere e, per noi, innaturali.
L’entente, paradossalmente, si sarebbe potuta realizzare proprio su questo ‘fondo’ di “Italianità”. Per quanto riguardava la Tradizione, infatti:
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lasciamo da parte la parola “tradizione” che sa ormai di formulario scolastico e d’accademico; e diciamo “coscienza”, nella mia “Lettera a Giuseppe Bottai”, pubblicata nel “Pègaso” d’ottobre, ho allineato alcune esplicite parole di Benito Mussolini che anche su questo punto, a chi voglia non solo ascoltarlo ma anche intenderlo, insegna la strada20.
Ma ormai le ‘consonanze’ parevano numerose: quanto alle ragioni che, a un dato momento della nostra cultura, mossero te e il Futurismo ad agire, tu stesso, leggendo la mia lettera a Michele Barbi, hai veduto che le ho vedute chiaramente e puntualmente dichiarate nelle frasi da te citate21.
E dunque il riferimento esplicito al “Manifesto” di Sant’Elia e Boccioni: e nel 1915 non hai tu con Boccioni, Sant’Elia e Sironi, lanciato un “Manifesto” intitolato l’“Orgoglio italiano”, esaltando il genio creatore del popolo italiano, la pazienza, il metodo, il lirismo, la nobiltà morale della nazione italiana?
Cancellata, forse perché ‘inopportuna’ la nota conclusiva: “È per questo che allora come adesso stimo te, Boccioni … [forse Sironi] ti stimo per la tua fede e ti voglio bene”22. Ma che ci dovesse essere una sorta di accordo sotterraneo — più siglato che tacito — tra Ojetti e Marinetti in quel frangente sembrerebbe dimostrarlo anche la polemica di quattordici anni dopo tra lo stesso Ojetti e il suo ‘ex protetto’ Giò Ponti, del quale, singolarmente, prendeva le difese Marinetti proprio nel nome di Sant’Elia. Nel 1944, quando ormai Ojetti era prossimo al declino, Marinetti rincuorava Giò Ponti che pure nei decenni precedenti da Ojetti stesso era stato celebrato, omaggiato e favorito (addirittura era stato il Critico fiorentino a suggerire a Ponti, e a compiere buoni uffici presso i vari Editori, per la nascita di Domus), rispetto agli attacchi dello stesso Critico. E uno dei nodi del contendere era stato nuovamente Sant’Elia: grazie per il bellissimo numero di “Stile”, efficacissimo nella difesa dell’Arte moderna italiana … Ammiro le tue eleganti armi polemiche rinforzate da una praticità indiscutibile. Il mio collega d’Accademia [d’Italia] Ugo Ojetti, tuo contraddittore, è ossessionato dal bisogno di condannare la standardizzazione degli edifici, la quale può essere una esigenza economica, ma non riguarda il valore estetico del funzionalismo portato a grande Arte mediante varietà, policromia, originalità e, più o meno misterioso, lirismo poetico. Il tuo contraddittore dimentica di aver esaltato il genio profetico dell’architetto Antonio Sant’Elia, padre dell’Arte moderna mondiale, veramente profetico nell’invocare ascensionalità, grandiosità, ricchezza di trovate, policromia, asimmetria, obliquità, nell’utilizzazione armoniosa di tutti i materiali23.
Quando Ugo Ojetti avesse con chiarezza “esaltato il genio profetico dell’architetto Antonio Sant’Elia” al momento non è dato saperlo; uno spoglio archivistico e bibliografico orienta24, piuttosto, verso quell’articolo anonimo del Corriere del 1930. Del resto, che nulla di ufficiale vi fosse stato in merito a quell’entente durata un paio d’an-
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ni nel nome di Sant’Elia, non meraviglia: una volta rotta la ‘tregua’, le polemiche tra Ojetti e Marinetti erano riprese. Così, sulle pagine di Futurismo, dove si era venuta a delineare una sorta di parallelismo tra l’Avanguardia italiana e quella sovietica, Marinetti, per difendersi dall’accusa di promuovere un’Arte derivata dall’Estero (che era la maggior critica che veniva rivolta al Razionalismo), si ritagliava il ruolo di padre dell’Avanguardia mondiale: Questa estetica che io portai con innumerevoli conferenze clamorose e applauditissime in tutto il mondo e particolarmente diciannove anni fa nella Russia dello Zar, si propagò dovunque. Si chiama oggi anche “Futurismo bolscevico” ma è nettamente Futurismo italiano creato da Boccioni, Balla, Sant’Elia, Russolo, Severini, Prampolini, Depero, Dottori ecc.25.
E Sant’Elia, ovviamente, era uno dei ‘cardini’ della difesa marinettiana, che riprendeva vigore nel novembre del 193726. Ettore Cozzani e le attenzioni de L’Eroica (1931): la “vera Architettura futurista … e la solitudine abbacinata di visioni di Sant’Elia” Proprio il ‘caso Sant’Elia’ permetteva a Ettore Cozzani, attraverso le pagine della sua L’Eroica, di rivendicare una primogenitura d’attenzione e, dunque. una ‘carica d’Avanguardia’ che faceva sfumare le opposizioni tra i Moderni e la “Cultura degli Archi e delle Colonne” in una sorta di mix simpatetico. Pur fino ad oggi dimenticato dalla Critica, nel 1931, in apertura del numero doppio 149-150 del gennaio-febbraio, Cozzani — anche se in terza persona facendo riferimento ad una ‘fantomatica’ Redazione — pubblicava una sorta di editoriale nel quale si puntualizzava, all’indomani delle Celebrazioni santeliane di Milano e di Roma, il discorso sull’Architetto, rivendicando una “primogenitura” di attenzione, addirittura da riferirsi al 1916, che ora risultava particolarmente utile: ognuno desidera prendere, nella vita del pensiero e dell’arte, una posizione netta: e se ha precorso i tempi, è logico che voglia apparire uno spirito esperto e nuovo e non un rimorchiato. L’“Eroica” è sempre stata all’avanguardia di tutti i movimenti moderni veramente sani e logici ed è orgogliosa di questo; ma se lo proclama e anche soltanto ricorda, è perché desidera che il suo costante rispetto per la tradizione e la sua continua difesa delle opere degli artisti odierni più equilibrati e sereni, non sia confusa con l’opacità e la pigrizia dei conservatori a tutti i costi … Oggi Marinetti esalta Pascoli tra i futuristi più veri27.
Ma soprattutto, sottolineava Cozzani/Redattore: l’Italia s’è svegliata a esaltare Antonio Sant’Elia come precursore dell’Architettura moderna; ma ecco che cosa scriveva di lui il nostro Direttore, appena dopo la morte del geniale Artista, ossia 17 anni or sono: siamo rimasti turbati per la morte di Umberto Boccioni, ma più ancora per la caduta di Antonio Sant’Elia. Il Boccioni (ah, com’è morto male; meritava di stramazzare come il suo compagno [Sant’Elia], colpito in fronte e con la faccia rivolta al nemico e l’urlo gioioso della vit-
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toria sulle labbra, sarebbe stata una bella forza dell’Italia nuova, quando fosse giunto — come tutti i Futuristi d’ingegno sano e di spirito sincero giungeranno — all’equilibrio; quel punto in cui essi, accortisi che non si possono sbarbicare dalla nostra umanità in cui si son radicate le eterne immutabili leggi dell’armonia e della misura, torneranno alla tradizione, portandovi l’impeto e il sentore delle pazze corse meridiane nella boscaglia senza strada.
Sant’Elia, con la sua morte, si era evitato tutto ciò, ma era entrato nel mito: Sant’Elia era già una forza gagliarda e feconda. L’Architettura è l’unica arte in cui noi consentiamo la necessità del Futurismo, il Futurismo logico e inspirato che nella Poesia attuò Giovanni Pascoli, e nella Musica Riccardo Wagner, non quello dei pagliacci e dei forsennati che giocano nella borsa letteraria quanto hanno d’ingegno per farsi fortune e rinomanza maggiori del loro merito. L’Architettura segue così da presso le necessità della vita, che s’impronta tutta d’esse e in esse si plasma; e oggi la vita s’è così d’improvviso mutata nelle sue forme esteriori e nei suoi atteggiamenti, nei modi del suo muoversi e stare, che l’Architettura deve tutta tramutarsi dalle radici.
Il contributo delle proposte di Sant’Elia era stato per Cozzani fondamentale: quando si architetta l’edificio con le verghe d’acciaio, e si plasmano i muri, i pavimenti, i soffitti con una materia liquida che s’impietra, e s’aprono voragini di serenità con l’uso esaltato del cristallo e si possono slanciare le costruzioni contro le nuvole e farle quasi pieghevoli ai venti; e si può far correre — per sottili nervature e arterie d’una estrema duttilità per ogni più riposto angolo dell’edificio — la luce, l’acqua e il calore; e si possono abolire le dimensioni cubiche con i pianerottoli girevoli e gli elevatori; e si possono comporre fabbriche in cui l’operaio è chiuso, e pur lavora nell’aria e nel sole; e frigoriferi in cui gli elementi esterni sono esiliati, è certo che deve sorgere un’estetica nuova, la quale s’inspiri non alla mole e compostezza della rupe e della montagna, ma all’ardimento delle membrature d’acciaio e alla foga delle turbine, quando, per esempio, si devono creare edifici in cui si senta che è imprigionata la furia dei cataclismi, e si generano le saette e si imprigiona il freddo e si tramuta in ogni modo ogni sorta di elementi e di sostanze per trarre il tutto dall’uno e sviscerare dall’uno il tutto.
Alla luce di ciò, Cozzani aveva reso noto, e nel 1931 rinverdiva, il proprio esplicito, personale interessamento per la ricerca di Sant’Elia: per questo noi seguivamo col cuore trepidante questo audace navigatore che cercava, in una solitudine abbacinata di visioni, la parola del domani e sentiva davvero l’Arte in un infuturirsi. E lo vediamo disgiunto e discosto dai suoi sodali, che vogliono infrangere il nesso del pensiero creato da millenni e sconvolgere l’esperienza accumulata da millenni nei sensi, e far musica di ciò che in eterno sarà baccano, e poesia di ciò che sarà in eterno vaneggiamento o delirio. Per ciò al caduto, che come il mite e pensoso Renato Serra ebbe il suggello della più vera nobiltà, si volge il nostro omaggio, devoto, riconoscente.
La “solitudine”, l’isolamento di Sant’Elia erano stati celebrati a suo tempo da Cozzani — che vedeva già nel 1916 Sant’Elia “disgiunto e discosto dai suoi sodali, che vogliono infrangere il nesso del pensiero creato” — e veniva dunque riattualizzato quindici anni
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dopo, sottolineando così, in una visione complessiva, l’imprescindibilità del Futurismo (e di Sant’Elia) per la ricerca architettonica contemporanea. L’attualizzazione del testo, nel 1931, era molto importante, ma a suo tempo dove poteva aver visto tutto ciò Cozzani? Sicuramente nelle tavole santeliane della Città Nuova (se si escludono le poche riproduzioni nel “Manifesto” e nel “Catalogo della Mostra” del 1914), per cui quella Mostra del 1914 di “Nuove Tendenze” a Milano doveva aver avuto anche eccelsi visitatori come appunto lo stesso Cozzani; oltre a Margherita Sarfatti. Marcello Piacentini e Gustavo Giovannoni, Direttore di Architettura e Arti Decorative: “In memoria di Antonio Sant’Elia” di Ferdinando Reggiori In alcuni tra i più accreditati, recenti, repertori bibliografici relativi ad Antonio Sant’Elia e alla sua produzione compare, nel “Regesto bibliografico”, il riferimento ad un testo di Marcello Piacentini relativo all’Architetto comasco (“1926. Marcello Piacentini, Sant’Elia, in Rassegna di Architettura [Milano]”28); un testo che però, stando almeno allo stato attuale della ricerca e anche agli indici bibliografici piacentiniani29, risulta inesistente. Che si sia trattato di una ’confusione’ poi trascinatasi nelle varie pubblicazioni successive sembra dimostrarlo, se non altro, il fatto che la rivista Rassegna di Architettura, edita a Milano e diretta da Giovanni Ruocco, ha iniziato le proprie pubblicazioni nel 1929 (“anno I°”) e non nel 1926. L’affaire Piacentini, a meno di nuove, gradite scoperte anche nel mare magnum bibliografico piacentiniano, può però schiarirsi in riferimento alla rivista Architettura e Arti Decorative, anche se, in verità, non chiude affatto — ma semmai alimenta — l’interrogativo sui rapporti, diretti o indiretti, tra Piacentini, Sant’Elia e il Futurismo. Siamo certi di un precoce interessamento di Piacentini — ma con lo pseudonimo di “Civis romanus”: un motivo ci sarà stato! — per il Futurismo e in particolare per “La Scultura nel Futurismo” in un articolo del 1912 su Il Popolo romano30. Poi più nulla fino a che, nel 1931, nella piacentiniana e giovannoniana Architettura e Arti Decorative, compariva di Ferdinando Reggiori “In memoria di Antonio Sant’Elia”, con l’edizione di ben 10 disegni. La pubblicazione, del marzo, voleva connettersi, seppur in ritardo, alle “Celebrazioni santeliane” di Como, Milano e Roma per precisa volontà dei Direttori della rivista (lo stesso Piacentini e Gustavo Giovannoni) poiché N.d.R. essendo stati occupati i fascicoli di gennaio e febbraio della Rivista … questa succinta presentazione di alcuni disegni di Antonio Sant’Elia appare con notevole ritardo, quando alle Mostre di Como, di Milano è seguita quella di Roma, quando molto è già stato scritto e parlato in proposito. Vogliamo tuttavia che anche in “Architettura e Arti decorative” resti traccia delle geniali concezioni dell’Artista precursore, dell’eroico soldato caduto nella nostra Guerra e strappato prematuramente all’architettura italiana31.
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pagina a fronte Edmondo Ciucci “Sant’Elia e noi”, Rassegna di Architettura, 15 maggio 1931, p.161
Se non altro la valutazione — che fosse condivisa con Piacentini? — dell’Architettura di Sant’Elia era chiara, come era chiaro l’apprezzamento per le “geniali concezioni dell’Artista precursore”. Dal canto suo Reggiori si poneva sull’onda critica dello stesso Piacentini (anche se era considerato più ‘vicino’ a Giovannoni): Sant’Elia … è stato davvero un pioniere, anzi il primo di tutti? Noi oggi vediamo ovunque, e certo più fuori di casa nostra, sorgere sul serio costruzioni del genere, e non ci par vero di non considerarle derivazioni di recentissime propagande d’oltralpe. Bisogna invece riattaccarsi al nostro Sant’Elia, non esiste dubbio … e così potremmo ritrovare il giusto seme di quelle divinazioni e riconoscere nell’architetto comasco il vero profeta … Egli fantasticava a modo suo, tentando in veloci disegni e improvvisazioni di dar forma e rilievo al suo concetto base: creare la città futura, la città del nuovo secolo.
L’idea era stata dirompente perché: pensate ch’eravamo nel 1910, nel 1913: l’uomo cominciava appena appena a prender gusto a volare, le più potenti macchine correvano a 60 all’ora, il traffico non faceva ancora venir le vertigini. E Sant’Elia gettava le basi di una città dinamica più di quanto anche oggi si possa prevedere. L’architettura si perdeva in fronzoli, in svolazzi, in sculture di cemento. E Sant’Elia proclama che, col cemento, s’avevano da costruire soltanto grandi moli, nude rigidissime pareti, archi e torri, dove la struttura fosse tutt’uno con l’architettura.
Quindi una valutazione della genesi dei progetti grafici: da prove e riprove, da schizzi e studi, Sant’Elia aveva tratto alcuni suoi principi, alcune figurazioni definitive, che gli furono così care da passarle in rappresentazioni prospettiche più complesse. Ecco intanto i temi suoi preferiti: case a moltissimi piani, fari, torri, stazioni per i più moderni mezzi di trasporto, centrali elettriche, ponti, stazioni radiotelegrafiche, tutto l’organismo vivente e pulsante d’una modernissima vita … Qualche centinaio di schizzi documentano la preparazione per taluni temi che l’architetto stesso è riuscito a concretare e a portare a maggior perfezione: son, codesti, veri progetti prospettici, corredo di massima alla sua più completa concezione32.
L’originalità santeliana era stata spiccata: strade a più piani e torri con batterie d’ascensori e grattacieli n’avevano già costruiti gli Americani: ma, tuttavia, senza cercare di dare a queste fantastiche fabbriche un volto appropriato e aderente, l’unico volto, insomma, che dal programma di partenza sarebbe stato naturale attendersi: prendendo l’invece l’architettura di una comune casa di quattro o cinque piani e ripetendola in altezza, elemento per elemento, ordine per ordine, dieci, quindici volte, oppure senza ripeterla, schiacciandola come fosse roba elastica. Qui sta il gran merito di Sant’Elia: creare la più appropriata architettura dei colossi, cioè lasciar nuda e definitiva quella stessa struttura che è sostanza vitale delle sue costruzioni. In sostanza, per usare un termine da un po’ in qua venuto in voga, ecco la più genuina architettura ‘razionale’.
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Nell’ultima affermazione — della definizione di “razionale” per l’architettura di Sant’Elia — tutto il peso dell’influenza piacentiniana emergeva, laddove il tentativo del Direttore era appunto quello di ‘estendere’ e ritrovare applicato in altri contesti il ‘Principio di razionalità’ che i Razionalisti avocavano a sé considerandolo loro prerogativa; e svuotando così di significato le concezioni “razionaliste” degli stessi Razionalisti. Del resto secondo Reggiori, anche per Sant’Elia, era stato ‘impossibile’ non legarsi ai Futuristi, visto il contesto che lo circondava: è spiegabile come Sant’Elia, proprio al suo tempo, non trovasse credito se non presso i Futuristi, chè i buoni borghesi, se non addirittura i colleghi suoi gli davan del pazzo. Ma egli pazzo non fu certamente … Nei suoi progetti [però] non si pongono limiti, non esistono preoccupazioni per gli sviluppi planimetrici, per le risoluzioni d’insieme, per la pratica attuabilità. Il precursore lascia innanzi tutto libero sfogo alla fantasia, esprime quel che dentro, cuore e passione gli suggeriscono, e rimanda al domani la ragionata coerenza, la serena fusione di tutti gli elementi appena abbozzati … E solo per una tragica stroncatura oggi noi dobbiamo lasciare inappagato questo gran credito che Sant’Elia meritava … Non dubitiamo che, ove il destino non glielo avesse impedito, Sant’Elia si sarebbe proposto anche il tema d’insieme, la pianta insomma della sua fantastica città33.
Il giudizio finale, al di là delle suggestioni, restava pieno di distinguo. E certamente erano gli stessi di Piacentini: anche se talvolta oscure o irrealizzabili, queste sue architetture meritano di restare; e debbono venir calcolate al punto giusto e nella vera luce dello sviluppo del ciclo architettonico moderno. Se proprio questa deve essere l’edilizia che trionferà nel nostro secolo, non bisogna dimenticare che una delle prime pietre angolari fu posta dall’architetto comasco.
“Edilizia” appunto (specialistica); non Architettura. L’eclettica Rassegna di Architettura di Milano: Sant’Elia nella cultura del ‘Novecento architettonico’ milanese ed Edmondo Ciucci (1931) A fare da contrappunto alla romana L’Architettura. Organo del Sindacato Nazionale Architetti e Ingegneri diretta da Marcello Piacentini, si poneva a Milano la rivista Rassegna di Architettura diretta da Giovanni Ruocco: una vera e propria eclettica rassegna, in cui trovavano posto pressoché tutte le tendenze e tutti i linguaggi, ma in cui la decisa preminenza veniva tributata ai “Neoclassici” milanesi di ojettiana memoria (primo tra tutti Giovanni Muzio), a tutti gli Architetti di “Novecento” (o comunque avvicinabili a quella tendenza, da Paolo Mezzanotte ad Ulisse Stacchini che poteva contare addirittura su un numero monografico della rivista per la ‘sua’ stazione Déco), con buona presenza delle architetture di Marcello Piacentini, fino a che non veniva accolto in Redazione, tran-
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sfugo dalla soppressa Architettura e Arti Decorative di Roma, Gustavo Giovannoni. Ma non mancava, ovviamente, anche l’Avanguardia razionalista e moderna… Non a caso, proprio in virtù di quella intelligente apertura di Ruocco, nel 1931 veniva edito sulle pagine della rivista il saggio “Sant’Elia e noi” a firma del “futurista” Edmondo Ciucci34 (anche questo saggio è stato fino ad oggi completamente dimenticato dalla Critica e non compare in nessun repertorio santeliano). Interessato all’attualizzazione del messaggio dell’Architetto comasco, Ciucci intendeva ripetere gli enunciati più tipici ed essenziali, coi quali Sant’Elia accompagnò nel 1914 la sua esposizione di architettura futurista, alla “Famiglia Artistica” di Milano: 1. “il problema dell’architettura futurista non è un problema di rimaneggiamento lineare”; 2. “bisogna trapiantare i problemi del buon gusto dal campo della sagometta, del capitelluccio, del portoncino, in quello più ampio dei grandi aggruppamenti, della vasta disposizione delle piante”. 3. “abbiamo perduto il senso del monumentale, del pesante, dello statico ed abbiamo arricchita la nostra sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del veloce”. Sant’Elia affermava inoltre recisamente di combattere e disprezzare “tutta la pseudo-architettura d’avanguardia austriaca, ungherese, tedesca e americana: tutta l’architettura classica, solenne, ieratica, scenografica, decorativa, monumentale, leggiadra piacevole, l’imbalsamazione, la ricostruzione, la riproduzione dei monumenti e dei palazzi antichi”.
E si trattava della ripresa dei punti 1., 2. e 3. del “Io combatto e disprezzo” del “Manifesto” santeliano del 1914. Poi Ciucci riprendeva ancora Sant’Elia quando affermava “1. che l’architettura futurista è l’architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità; l’architettura del cemento armato, del ferro, del vetro, del cartone, della fibra tessile e di tutti quei surrogati del legno, della pietra e del mattone, che permettono di ottenere il massimo dell’elasticità e della leggerezza. 2. Che l’architettura non è per questo un’arida combinazione di praticità e di utilità, ma rimane arte, cioè sintesi, espressione …”;
e cioè riproponendo i “Proclami” del “Manifesto” dal punto 1. al punto 7. Notava Ciucci come nel leggere questa diana lanciata 17 anni or sono e nel vedere i fantastici progetti della città futura … si rimane attoniti e ammirati dinanzi a tanta forza profetica. Ma è bene sincerarsi con uno sguardo panoramico all’architettura di allora […] dalla Scuola di Otto Wagner e dell’Olbrich […] il classicismo di Lodovico Hoffman e di Peter Behrens e la grandiosità impressionante e austera dei monumenti di Bruno Schmidt […] e l’olandese Berlage […] il finlandese Saarinen […] il Poelzig e Gropius […] ma tutti allora lontani dal raggiungere l’intensa e pura espressione strutturale dei progetti del Sant’Elia […] Né Wright […] non può dirsi che abbia influito su questo poeta tutto vigore e forza, che ha immaginato metropoli vorticose, eppur chiare e ordinate, che ha lanciato ardite idee urbanistiche ora in piena realizzazione, che ha previsto e affrontato tutti i problemi più suggestivi del moderno progresso.
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Edmondo Ciucci “Sant’Elia e noi”, Rassegna di Architettura, cit., p.162.
Il testo di Ciucci è per noi molto interessante anche perché le immagini “sono un estratto dal volume” Sant’Elia e l’Architettura futurista mondiale, opera che non venne mai edita, per varie ragioni (“economiche, per alcune complicazioni sorte con la famiglia”): anche se oggi ne conosciamo il menabò (ora nel fondo Leskovic dell’Archivio della Casa Lyda Borelli di Bologna), l’articolo di Ciucci ne ha rappresentato una sorta di ‘estratto grafico ufficiale’, appunto con le principali tavole grafiche di Sant’Elia. E con questo, un ennesimo tassello veniva posto nella diffusione della conoscenza dell’opera santeliana. Chiudeva la fortuna santeliana del biennio 1930-1931 l’esposizione dei suoi disegni alla Prima Quadriennale d’Arte nazionale, curata da Cipriano Efisio Oppo (altro ‘esponente’ della “Cultura degli Archi e delle Colonne”), in una sala, la “n.18” addirittura dedicata interamente ai “Futuristi”. Nella “sala 13. n.45. Sant’Elia, 24 disegni di architettura futurista”35. E si trattava della prima esposizione non futurista per gli elaborati santeliani36. Chi li aveva voluti? Cipriano Efisio Oppo? O ancora una volta si era trattato di un coup de théâtre della “Gran Dama del Fascismo”, Margherita Sarfatti? Certamente … aveva vinto l’ ‘Accademia’.
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Note 1 Si può vedere F. Canali, “Tra Tradizione, Modernità e Avanguardia. Antonio Beltramelli, Viareggio e l’Avanguardia apuano-futurista toscana”, in Una stagione teatrale [a Viareggio], a cura di A.Serafini, Firenze, Maschietto, 2004, pp. 111-123. 2 C. Ricci, “Dal Giottismo al Futurismo”, Nuova Antologia (Roma), 1470, 1933, 16 giugno, pp. 492-494. 3 M.L. Casati, “I disegni di Antonio Sant’Elia della Pinacoteca Civica di Como. Spunti di riflessione per una migliore leggibilità dell’opera”, in Il Manifesto dell’Architettura futurista e la sua eredità, atti del convegno (Grosseto, 2014), a cura di M.Giacomelli, E.Godoli e A.Pelosi, Mantova, Universitas Studiorum, 2014, p. 49. 4 U. Ojetti, “La nuova stazione di Firenze”, Dedalo, 1932, pp. 244-246: “il progetto che pubblichiamo è dell’architetto Angiolo Mazzoni […] che ha già dato al Ministero delle Comunicazioni edifici semplici, comodi, luminosi, inconfondibilmente italiani, anzi fedeli ai caratteri e ai materiali della regione […] Il Ministero delle Comunicazioni […] può oggi fare da un capo all’altro del Paese una propaganda di buon gusto moderno e italiano […] e di siffatta propaganda questo progetto fiorentino dell’architetto Mazzoni è un ottimo esempio”. Di lì a poco per il Mazzoni, futurista: A. Mazzoni, “L’architettura italiana si chiama ‘Sant’Elia’”, Futurismo, 1933, 23 aprile, p. 6; Id., “Commento al ‘Manifesto’ di Sant’Elia”, Sant’Elia, 1933, 5 novembre, p. 1. Ma prima: F.T. Marinetti e E. Thayaht, “Il progetto della Stazione di Firenze. Una lettera di Marinetti”, Il Regime fascista, 24 luglio 1932. 5 F. T. Marinetti, “Pro e contro il nostro tempo. S.E. Ugo Ojetti risponde a “Futurismo”. Controrisposta di F.T.Marinetti”, Futurismo, 1, 1932, n.7. 6 F. Reggiori,“In memoria di Antonio Sant’Elia”, Architettura e Arti Decorative, 7, 1931, marzo, pp. 325-331. 7 M. Piacentini, “Dove è irragionevole l’Architettura razionale”, Dedalo, 1931, gennaio, pp. 527-537; Ugo Ojetti, “Commenti. Dell’Architettura razionale”, Dedalo, 1931, pp. 951-952. 8 Si pensi solo al tentativo di Roberto Papini di svincolare i giovani Adalberto Libera, Giuseppe Vaccaro, Mario Ridolfi e Giovanni Michelucci dalle ‘sirene’ del Razionalismo per riportarli alla “Tradizione italiana” (R. Papini, “Architetti giovani in Roma”, Dedalo, 1932, pp. 133-163). Probabilmente il Futurismo architettonico — se vi fosse stato — avrebbe contribuito a rispondere a quelle accuse di “Internazionalismo” che venivano rivolte alla Modernità razionalista, ma così nella realtà non era (o non veniva letto). 9 Papini, op. cit., pp. 142-144. 10 G. Terragni, “L’architettura di Sant’Elia invano rosicchiata da Ugo Ojetti”, Origini. Quaderni di segnalazione, 6, 1942, n. 5, pp. 1-2. 11 La polemica era di vecchissima data: già nel 1909, quando Marinetti aveva spedito il proclama futurista in centinaia di copie, come “lettera raccomandata” ai giornali d’Italia, il ““Corriere della Sera” non aveva dedicato neppure una parola all’iniziativa; e si disse poi che la decisione della censura totale andasse attribuita a Ojetti” (in Futurismo: a Bologna il “Manifesto” [che il 5 febbraio 1909 era uscito sulla Gazzetta dell’Emilia], catalogo della mostra, a cura di B. Buscaroli, Bologna, BUP, 2009). Anni dopo, ancora, in previsione della grande Mostra dell’Arte decorativa di Parigi, Marinetti, Prampolini e Depero si erano scagliati contro Ojetti dalle pagine de L’Ambrosiano, accusato di essere soggetto a “incurabile disfattismo senile […] In conseguenza preghiamo il nostro grande e caro amico Mussolini di considerare che il critico d’arte del “Corriere della Sera” essendo un pessimista neutrale della vecchia Italia, uno scettico di mestiere, e un negatore del genio artistico italiano d’oggi non può organizzare una mostra che deve essere e sarà una vittoria decisiva degli artisti italiani d’oggi” in F.T. Marinetti, F. Depero e E. Prampolini, “Non vogliamo essere rappresentati a Parigi da un vecchio”, L’Ambrosiano, 2 ottobre 1923, p. 3. Ojetti aveva annunciato nell’occasione che, se fosse stato indicato come Ordinatore per la parte italiana, avrebbe preso in considerazione “anche le opere dei novatori ad ogni costo [i Futuristi, pur senza nominarli]: novatori che in pochi anni si stancheranno di ballare sopra il solo piede della fantasia e si risolveranno, se non vogliono cadere, a poggiar sulla terra anche l’altro piede, quello della tradizione” in Corriere della Sera, 18 maggio 1923. 12 F. T. Marinetti, “Onoranze nazionali a Sant’Elia. Lettera a Ugo Ojetti”, Gazzetta del Popolo (Torino), 8 settembre 1930. L’indicazione è tratta da L. Caramel e A. Longatti, Antonio Sant’Elia. L’opera completa, Milano, Mondadori, 1987, p. 363, ma il riferimento, ad una prima verifica, si è mostrato errato, forse perché incompleto (edizioni della sera o del pomeriggio?). Quell’indicazione ritorna peraltro anche in Antonio Sant’Elia. L’architettura disegnata, catalogo della mostra (Venezia, 1991), Venezia, Marsilio, 1991, p. 297. Prima o poi sarà necessario un riscontro di tutte le fonti edite nel volume, per individuarne le corrette indicazioni. 13 E. Prampolini, “Il gruppo ‘Nuove Tendenze’ plagiario del Futurismo”, L’Artista Moderno, 13, 1914, giugno, pp. 217-218. 14 M. Sarfatti,“I pittori delle ‘Nuove Tendenze’ alla Famiglia artistica di Milano”, L’Avanti, 17 giugno 1914. Ancora: M. Sarfatti,“Sant’Elia e le sue opere”, Gli Avvenimenti, 29 ottobre 1916; Id.,“Ad Antonio Sant’Elia”, Il Mondo, 44, 28 ottobre 1916; Id.,“Antonio Sant’Elia”, La Fiaccola accesa, 1919, pp. 236-252; Id.,“Ad Antonio Sant’Elia”, Il Gagliardetto (Como), 23 ottobre 1921. E accenni in Id.,“Nell’annuale della fondazione di Roma, la costruttrice”, Il Popolo d’Italia, 20 aprile 1923; Id., Segni, Colori, Luci, Bologna 1925. 15 “Una Mostra dell’architetto futurista Sant’Elia e di 22 pittori futuristi”,Corriere della Sera, 17 ottobre 1930, p. 3. 16 P.M. Bardi, “Architettura di Stato e confusioni futuriste”, L’Ambrosiano, 19 febbraio 1931. La riposta faceva seguito a F.T. Marinetti, “La nuova Architettura. Una lettera di S.E.Marinetti a P.M.Bardi”, L’Ambrosiano, 20 novembre 1930.
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U. Ojetti, “Pittura futurista e Arte decorativa”, Pegaso, 1931, febbraio, pp. 219-220. Marinetti, “Pro e contro il nostro tempo…”, cit. Ugo Ojetti, minuta di “Lettera a Filippo Tommaso Marinetti” del “14 ottobre 1932” (poi in Marinetti, Pro e contro il nostro tempo…, cit.) in Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, fondo “Ugo Ojetti”, coll. Ojetti, 30.10. 20 Il riferimento è a Ugo Ojetti, “Lettera a Giuseppe Bottai sui vantaggi del dire di no”, Pègaso, 10, 1932, pp. 460462. 21 Il riferimento è a Ugo Ojetti, “Lettera a Michele Barbi, pel suo Dante”, Pègaso, 9, 1932, pp. 360-362. 22 Nel Fondo Mino Somenzi depositato a Rovereto presso il Mart-Museo di Arte Moderna e Contemporanea è conservata la lettera con la quale Ojetti chiedeva a Marinetti di poter rispondere a quanto edito sulla rivista Futurismo sempre dalle pagine della stessa testata (Fondo Somenzi, Attività futurista, Corrispondenza di mittenti vari a F.T.Marinetti: Som.I,1, 36-60). 23 Lettera di F.T.Marinetti a Giò Ponti del 7 marzo 1944 da Venezia in Milano, Archivio “Giò Ponti”, cit. in Caramel, Longatti, Antonio Sant’Elia …, cit., p. 359. Si ricordi solo U. Ojetti, “Lettera a Giovanni Ponti sul lusso necessario”, Pègaso, 1933, gennaio, pp. 97-99: “sono contento, caro Ponti, di andare ancora una volta d’accordo con lei”. 24 Compiuto uno spoglio degli articoli ojettiani del Corriere della Sera e consultata la Letteratura disponibile, nulla traspare di quella “esaltazione”: il ‘mare magnum’ ojettiano può sempre riservare sorprese, ma al momento non è stato rintracciato né presso il Fondo Ojetti della Biblioteca Nazionale di Firenze, né nella Letteratura ojettiana nulla di probante. 25 Marinetti, “Pro e contro il nostro tempo…”, cit. 26 Filippo Tommaso Marinetti, “Il pensiero di S.E.Marinetti nell’autarchia letteraria artistica”, Agenzia A.L.A., 20 dicembre 1937: la polemica tra Ojetti e Marinetti toccava nuovamente il proprio acme in riferimento al coinvolgimento di Pablo Picasso e all’aiuto prestato dai Sovietici ai Repubblicani nell’ambito della Guerra di Spagna. Si veda C. Salaris, Artecrazia. L’avanguardia futurista negli anni del Fascismo, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1992, p. 195. 27 E. Cozzani,“Antonio Sant’Elia”, L’Eroica. Rassegna italiana, 1931, n. 149-150, pp. 3-4. 28 In Caramel, Longatti, Antonio Sant’Elia …, cit., p. 362; Sant’Elia e l’ambiente futurista, catalogo della mostra (Milano, 1989), a cura di G. Ballo e G. Negri, Milano, Mazzotta, 1989, p. 144. Poi anche: Antonio Sant’Elia, l’Architettura disegnata, catalogo della mostra (Venezia, 1991), Venezia, Marsilio, 1991, p. 295 (e anche l’edizione tedesca del catalogo della mostra tenutasi a Francoforte, Antonio Sant’Elia. Gezeichnete Architektur, a cura di V. Magnago Lampugnani, Monaco di Baviera, Prestel-Verlag, 1992, p. 219); Antonio Sant’Elia. [I disegni della] Collezione Civica di Como, Catalogo della Mostra, a cura di L. Caramel, A. Longatti e M.L. Casati, Cinisello Balsamo, Silvana, 2013, p. 223. 29 A partire da M. Lupano, Marcello Piacentini, Bari, Laterza, pp. 202-213. 30 Civis romanus (ma Marcello Piacentini), “La Scultura nel Futurismo”, Il Popolo romano (Roma), 6 ottobre 1912. 31 N.d.R, Introduzione a F. Reggiori, “In memoria di Antonio Sant’Elia”, Architettura e Arti Decorative, 7, 1931, marzo, pp. 325-331. 32 Reggiori, op.cit., pp. 326-328 e 331. 33 Ivi, pp. 330-331. 34 E. Ciucci, “Sant’Elia e noi”, Rassegna di Architettura (Milano), 1931, n. 5, pp. 161-167. 35 Prima Quadriennale d’Arte nazionale. Catalogo [della Mostra, Palazzo delle Esposizioni], Roma, 1931, p. 25. Si veda M.Chirico, “Ottantasette artisti, trecentosessantuno opere”, in I Futuristi e le Quadriennali, a cura di A. Sagramora, Milano, Electa, 2008, pp. 48-49 e 66. Inizialmente era stato detto che i progetti di Sant’Elia esposti dovevano essere “cinquanta”, ma poi si era arrivati, appunto, a “24”. 36 Il volantino del Manifesto era stato accompagnato da 6 disegni; il catalogo della Mostra “Nuove Tendenze”, del 1914, riproduceva solo 3 disegni di Sant’Elia rispetto ai 16 esposti: A. Longatti, “Il caso Sant’Elia”, in “Nuove Tendenze”. Milano e l’‘altro’ Futurismo, catalogo della mostra (Milano 1980), Milano, Electa, 1980, pp. 3140. Nel corso dei decenni dopo la morte dell’architetto il nucleo dei suoi elaborati grafici (di proprietà della famiglia e poi passati all’Archivio Comunale di Como) aveva già subito delle “erosioni […] nel 1944 il nucleo di opere selezionate per le Esposizioni futuriste del 1930, assottigliato da qualche piccola, ma significativa perdita, entrava nel Museo”. Anche il Ponte a tre piani, pubblicato nel Manifesto era risultato ben presto “disperso”. Su La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia (“Un precursore: Antonio Sant’Elia”, La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, 11, novembre 1930) il testo era intercalato con 11 immagini di disegni santeliani; la ‘recensione’ delle Mostre del 1930 di Ferdinando Reggiori era illustrata con 10 foto (Reggiori, op.cit., pp. 325-331); e 11 erano le riproduzioni di disegni di Sant’Elia nel saggio di Edmondo Ciucci (op.cit., pp. 161-167) dei quali molti erano gli stessi del contributo di Reggiori (ma questo dipendeva anche dalla disponibilità dei cliché preparati). 17 18
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Nel dinamico, ancorché periferico e innegabilmente circoscritto, ambiente culturale votato al progresso che caratterizza Catania nei tre decenni successivi all’esposizione regionale del 19071 come uno dei poli italiani di elaborazione, o quantomeno di applicazione, di nuove istanze artistiche, Alfio Fallica (Paternò 1898 - Catania 1971)2 è il più enigmatico (anche per un certo tenore silente del suo operare e della sua stessa produzione) fra i giovani progettisti della generazione successiva a quella di Francesco Fichera (Catania 1881 - 1950)3. Questi, già assistente fra i più versatili di Ernesto Basile (e solo in parte suo allievo, anche se inizialmente affine, ma con alquanta originalità, al modernismo di maniera che connota la cosiddetta “Scuola di Basile” a partire dall’inizio del secondo lustro del XX secolo), negli anni 1920 si afferma con decisione nell’ambito della cultura architettonica della Sicilia orientale, mentre la parte occidentale dell’isola si avvia a conoscere il predominio accademico e professionale di Salvatore Caronia Roberti, di poco più giovane di Fichera e anche lui formatosi alla cattedra di Basile. Ma a differenza di Caronia, che proprio all’inizio degli anni 1920 si mostra incline a traghettare la sua maniera basiliana verso formalismi stilistici graditi a Gustavo Giovannoni, Fichera instaura una duratura intesa con Marcello Piacentini, cosicché da un ruolo di preminenza in Italia nell’ambito dell’architettura modernista, sia pure principalmente con la produzione di Basile, la Sicilia diviene tributaria dei due nuovi protagonisti della cultura architettonica nazionale. Catania aveva assunto un profilo di centro di tensioni sociali grazie all’impegno politico di Giuffrida De Felice (fondatore nel 1893 dei Fasci dei Lavoratori e ancora tenuto in gran conto durante il fascismo nonostante l’intramontata fama di socialista “agitatore delle moltitudini”). È, quello catanese, un clima innescato da un concorso di fattori (non ultimo il ruolo di distretto produttivo con un formidabile concentramento di raffinerie di zolfo in un momento in cui la Sicilia detiene ancora una sorta di monopolio in questo settore estrattivo) che avevano portato all’esposizione del 1907. Nonostante il carattere provinciale e ibrido del modernismo adottato in quell’occasione da Luciano Franco (peraltro figura professionale di grandi capacità tecniche e di notevole impegno sociale) per il complesso espositivo (fortemente vo-
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pagina a fronte Alfio Fallica, villino Fegarotti, Roma, 1928, veduta d’insieme (da Domus, 2, 1929, giugno, p. 12)
luto da De Felice), l’evento inocula nella classe egemone catanese una sindrome di modernità, più desiderata che maturata, che appunto si manifesta in una produzione letteraria e pubblicistica davvero eclatante, ancorché di nicchia. Luigi Capuana è per Catania — come Federico De Maria e Francesco Orestano per Palermo e Guglielmo Jannelli per Messina — certo il principale veicolo di istanze culturali partecipi del primo manifestarsi dei futuristi. Se De Maria, in qualità di corrispondente, aveva condiviso nel 1911 con Filippo Tommaso Marinetti l’esperienza di una sorta di propagandismo volontario durante il conflitto in Tripolitania4, primo appuntamento bellicista del Futurismo al cui sostegno pubblicistico partecipa anche Francesco Orestano, Capuana ha un ruolo ben diverso e tale da assumere un certo peso nell’ambito del primo Futurismo, con innegabili ricadute sul contesto cittadino. Infatti, ma solamente fra il 1906 e il 1913, Capuana pubblica le novelle, senza dubbio riferibili ad una sindrome futurista per certi aspetti visionaria, intitolate: Nell’isola degli automi; Nel regno delle scimmie; Volando; La città sotterranea; L’acciaio vivente. Proprio in virtù di questa singolare produzione letteraria (alquanto eterodossa nel panorama italiano dell’età giolittiana) già nel 1909, quando ha pubblicato le prime due novelle di questo ciclo, viene richiesto quale perito nel processo per oscenità intentato in Italia contro il racconto di Marinetti Mafarka il Futurista. Il ruolo di Capuana fu fondamentale per il buon esito del processo a favore di Marinetti e, quindi, per questa prima vittoriosa affermazione pubblica del Futurismo. Il ricorrere di istanze belliciste presso alcuni ambienti della classe egemone di Catania del tardo periodo giolittiano è uno dei riflessi delle propensioni imperialiste che agitano le aspirazioni della locale imprenditoria (esemplare, in questa compagine, il ruolo di Mario Sangiorgi)5 verso un’espansione dell’influenza economica siciliana, pur in considerazione della montante débâcle della Palermo dei Florio (prossima ad un irreversibile declassamento dal ruolo di secondo compartimento marittimo del regno e dal rango di principale polo economico dell’Italia centrale e meridionale), in aree del Mediterraneo non ancora fagocitate dai principali attori del colonialismo della Belle Èpoque; si trattava di vaste regioni ancora sotto la bandiera della Sublime Porta, ma in effetti governate da Istanbul solo nominalmente, in Nord Africa e nei Balcani che destavano appetiti sia come potenziali mercati, sia come territori nei quali convogliare il crescente flusso migratorio (che in realtà in Sicilia si era manifestato pesantemente solo nell’ultimo decennio del XIX secolo), sia per riaffermare il controllo isolano sull’industria estrattiva dello zolfo. Paladino di questo orientamento imperialista locale e nazionale, che troverà nei nascenti ambienti futuristi un imprevedibile sostegno, è Antonino Paternò Castello, marchese di san Giuliano (Cata-
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nia 1852 - Roma 1914), che dal 1905 al 1906 e dal 1910 al 1914 è Ministro degli Esteri del Regno d’Italia e in quanto tale ha un ruolo decisivo sugli esiti della Conferenza di Algeciras del 1906, per poi imbastire, con il suo secondo mandato, tutti i preliminari diplomatici che portano il Regno d’Italia a sfruttare la Crisi di Agadir onde avviare il conflitto con l’Impero Ottomano per occupare la Tripolitania e la Cirenaica (e di conseguenza Rodi e il Dodecanneso); poco prima di morire, quasi a suggellare la sua vocazione bellicista, è il Ministro degli Esteri che apre quelle trattative per un avvicinamento all’Intesa che porteranno al Patto di Londra (1915). Ovviamente la stampa locale dell’epoca non poteva che esaltarne l’operato, assicurandogli involontariamente un ruolo (poi subito rimosso durante il fascismo, vista la sua affiliazione giolittiana e la convinta appartenenza allo schieramento liberale) di referente ideologico bellicista che non poteva non interessare i futuristi. Persino un irriducibile socialista come De Felice ne sostenne l’operato in relazione all’occupazione della Libia. Nonostante il precedente di Capuana e l’eco cittadino di quest’impresa emotivamente intesa, con la particolare angolazione di Giovanni Pascoli, come riscatto della “grande proletaria” (anche in virtù del considerevole e aggressivo attivismo socialista locale), soltanto nel 1921 si registra a Catania la pubblicazione di un Manifesto futurista siciliano, solo parzialmente allineato con le argomentazioni e con i corollari enunciati da Filippo Tommaso Ma-
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pagina a fronte A. Fallica, villino Fegarotti, Roma, 1928, pianta del primo piano con l’atelier (da Domus, cit., p. 13)
rinetti nel suo Manifesto iniziale del Futurismo (Le Figaro, 20 febbraio, 1909) e ancor più marginalmente affine alle problematiche formulate da Antonio Sant’Elia l’11 luglio 1914 con il suo Manifesto dell’Architettura Futurista. Ma precedentemente a questa prima uscita ufficiale del Futurismo a Catania (pubblicata sul fascicolo di luglio del periodico Haschisch), il paroliberista suo promotore Gugliemo Jannelli (Terme Vigliatore 1895 - Castroreale 1950) aveva fondato nel 1915 a Messina il quindicinale La Balza Futurista (in collaborazione con Vann’Antò e con Luciano Nicastro) e nel 1919, sempre nella stessa città, aveva dato vita al Fascio Futurista Siciliano; le sue successive frequentazioni con Fortunato Depero, anche in qualità di committente, e con Giacomo Balla ricadono negli stessi anni in cui si consuma la prima stagione romana di Fallica. Lo stesso Jannelli nel 1916 con Nicastro pubblicava a Firenze, nel fascicolo di dicembre del periodico L’Italia futurista, l’articolo “Il carnevale futurista”, mentre sempre con Nicastro (ma questa volta anche con Vann’Antò, Carrozza e Raciti), a Roma nel numero di maggio del 1920 di Cronache d’attualità pubblica il fondamentale Manifesto futurista per le rappresentazioni classiche del Teatro Greco di Siracusa (6 aprile 1920), proprio nel periodo in cui hanno maggior successo le scenografie di Duilio Cambellotti, appena prima che Fallica diventi uno dei suoi più brillanti collaboratori. Negli anni immediatamente successivi il movimento in Sicilia assume forza e peculiare connotazione anche grazie alle reiterate sortite di Marinetti che, già attivo nell’isola nella tarda Belle Époque, organizza già nel 1921 una prima tournée di grande successo del Teatro della Sorpresa con la compagnia di spettacoli di Rodolfo De Angelis, diventando da allora assiduo frequentatore di Palermo (partecipa, tra l’altro, alle iniziative culturali animate dal cenacolo di Federico De Maria), di Catania e di Taormina (che con Capri condivide il ruolo di “zona franca” per informali simposi d’avanguardia), oltre che di esuberanti e frequentati campeggi sull’Etna con la moglie Benedetta Cappa e con gli intraprendenti gruppi di futuristi della Sicilia orientale, galvanizzati dal pur compassato attivismo intellettuale di Jannelli e dalla enigmatica personalità artistica dell’aeropittore Giulio D’Anna6. Ma è soprattutto a Catania che, sia pure in lieve ritardo rispetto alla compagine isolana di artisti e letterati, il Futurismo si manifesta nell’ambito della cultura del progetto architettonico nella Sicilia degli anni 1920 e 19307; anche se ciò avviene o come componente di compendio ad impalcati progettuali di altra estrazione culturale (quasi un correttivo “attualizzante”) o come visione proiettata verso un domani ritenuto però possibile. Del resto a Catania persino l’incredibile proliferazione di sale cinematografiche e la stessa fioritura dell’industria cinematografica cittadina sono chiari segnali dell’aspirazione collettiva ad un dinamismo inteso anche in senso comportamentale8. Non è un caso,
dunque, che alla Mostra di Architettura Razionale del 1928 Marletta si affidi alle proposte progettuali di due cinematografi per rappresentare la sua idea del moderno; e non è un caso che i relativi elaborati grafici siano, unitamente a quelli di Ottorino Aloisio, fra i più iperbolici del novero di progetti in “quota futurista” presentati alla manifestazione romana. La crisi che caratterizza l’architettura in Sicilia negli anni successivi al primo conflitto mondiale è il risultato della progressiva mancanza di capacità propositiva che affligge la fase tarda del modernismo isolano; un fenomeno che riflette, in fin dei conti, le avverse condizioni socio-economiche che a partire dal secondo decennio del XX secolo declassano l’isola da regione mediterranea emergente, economicamente e socialmente, ad area depressa. Alla perdita di autorevolezza e di attualità della scuola di Ernesto Basile (Palermo 1857-1932), i più dotati fra i suoi allievi (Salvatore Caronia Roberti e Francesco Fichera, fra gli “anziani”, e Salvatore Cardella, Rosario Marletta, Giuseppe Samonà e Giuseppe Spatrisano, fra i più giovani) e alcuni “indipendenti”, formatisi a Roma (tra cui Alfio Fallica, Leonardo Foderà, Giuseppe Marletta, Francesco Fiducia, Ernesto e Gaetano Rapisardi), riconducono ad una più circoscritta dimensione nazionale la vocazione internazionalista della migliore cultura
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del progetto siciliana dei periodi eclettico e modernista9. Sono questi gli anni in cui si registra una nutrita attività di giovani intellettuali siciliani nella capitale. Invero, uno dei fattori determinanti del trasferimento a Roma di giovani futuri architetti siciliani è l’istituzione, nel 1920, della Regia Scuola Superiore di Architettura. Con essa si poneva fine in Italia all’ambigua formula dovuta alla precedente riforma delle Scuole di Applicazione per Ingegneri e Architetti. I nuovi scenari offerti dalla nascita della scuola romana attraggono alcuni giovani, prevalentemente dalla Sicilia orientale. Nel primo decennio del regime fascista il loro impegno nell’ambiente romano finisce per assumere un carattere riconoscibile: sia le poche opere realizzate, sia la partecipazione a grandi concorsi e mostre di architettura suscitano immediato interesse per i periodici specializzati, istituzionali e non. L’attrazione esercitata dall’ambiente culturale romano è comunque un fenomeno che riguarda, in quel momento, anche altri ambiti. Tra gli altri vi si trasferisce, nel 1929 da Catania, Vitaliano Brancati, subito accolto nella redazione de Il Tevere10; è il periodo in cui l’agguerrito foglio di “rivoluzionaria” fede fascista è diretto da Telesio Interlandi, anch’egli siciliano come molti altri affiliati tra i quali figurano Raffaele Savarese, Elio Vittorini e Giuseppe Pensabene11. Come Giuseppe Marletta (Catania 1903-1972), forse il più dotato o quantomeno il più “impegnato” dei giovani architetti e ingegneri protagonisti della svolta della cultura del progetto nella Catania degli anni 1930, Fallica, pur essendo di modeste condizioni economiche (il padre Salvatore e la madre Maria Russo avevano una piccola azienda agricola), compie gli studi universitari a Roma nella appena fondata Scuola Superiore di Architettura (dove si laurea nel 1931) e, con Marletta, è presente nel 1928 all’Esposizione Italiana di Architettura Razionale, distinguendosi come uno dei pochi partecipanti ad avere già costruito in Italia un edificio che, sebbene compromissorio, fu riconosciuto come acerba espressione dei nuovi principi dell’architettura razionale con alquante compatibili concessioni sia ad un Déco immaginifico sia alla codificazione di formulari futuristi. Si trattava del Villino Fegarotti in via Frisi a Roma12. Nonostante il recente trasferimento nella capitale, Fallica si dimostra alquanto permeabile alle nuove istanze funzionaliste che i periodici di architettura italiani della prima metà degli anni 1920 divulgano con parsimonia (anche se, a onor del vero, non necessariamente stigmatizzandone il portato culturale)13 ma che, proprio durante l’edificazione del Villino Fegarotti, si avviano al primo successo istituzionale collettivo di livello internazionale, tuttavia non esente da feroci contestazioni, con l’esposizione di Stoccarda del riorganizzatosi Deutscher Werkbund. In realtà la personale linea di Fallica sembra più prossima ai coevi ibridismi alla Victor Bourgeois che non ai dogmi estetici della più pura ortodossia razionalista che informa gli
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interventi di quasi tutti gli altri progettisti del Weissenhof. Ma Fallica si dimostra anche il più versatile, fra i progettisti siciliani dell’epoca, a sdoganare dai vincoli regionalisti i tardivi esiti di quella oggettività mediterranea felicemente inaugurata nel 1903-1904 da Ernesto Basile con la sua casa-studio di via Siracusa a Palermo, ma poi risoltasi in una discontinua ed esile tendenza irrimediabilmente affetta, nelle opere di pochi suoi epigoni, da localismi compromissori14. I trasferimenti nella capitale riguardano anche altri giovani palermitani: alcuni, come Giuseppe Spatrisano e Leonardo Foderà, proprio per intraprendere gli studi di architettura; altri, già laureati, come Giuseppe Samonà ed Emanuele Mongiovì (divenuto ben presto collaboratore di Alessandro Limongelli), indotti dalle possibilità professionali che offriva la Terza Roma del Ventennio ma anche dal suo rinnovato ambiente culturale e dalla breve stagione di dibattito artistico e architettonico che, anche se effimero e di nicchia, negli anni 1920 lasciava presagire un contesto certamente più stimolante, verso il quale l’élite della gioventù siciliana (della quale personalità culturali come Fegarotti e Samonà sono certamente rappresentative) si sentiva naturalmente proiettata, paradossalmente, proprio in virtù di quelle argomentazioni teoretiche formulate in ambito di esclusivi ambienti culturali siciliani la cui eco conosceva per verticistica appartenenza sociale. In effetti il pensiero filosofico in Sicilia registra una certa vitalità durante il primo decennio del regime; una condizione settoriale in evidente contrasto con la montante deriva della società civile isolana. Ne è principale protagonista, pesantemente osteggiato in ambito accademico da Giovanni Gentile (che nel 1907 proprio a Palermo diventa titolare della Cattedra di Storia della Filosofia), Francesco Orestano (Alia 1873 - Roma 1945), paladino di un’oggettività etica universalistica, in nome del principio del “consenso sociale” e del “buon senso comune”. Da poco tornato da Lipsia per insegnare Filosofia Morale (a partire dal 1903) alla Sapienza, prima di tornare a Palermo per insegnare nella locale Regia Università degli Studi, Orestano instaura un rapporto di intesa intellettuale con Filippo Tommaso Marinetti collaborando alle prime formulazioni embrionali delle tesi futuriste. Il pensiero di Orestano si condenserà nel trattato Il nuovo realismo, dato alle stampe a Milano solamente nel 1939 (ma preceduto nel 1925 dalla sua opera più importante intitolata Nuovi Principi) ad onta della sua azione intellettuale che, soprattutto da Messina (città che all’inizio degli anni 1920 assume il ruolo di fucina di istanze estetiche futuriste), si propaga negli ambienti artistici e intellettuali di Catania. È qui, infatti, che si registrano i più decisi segnali di resistenza alla ripresa spiritualistica di Giovanni Gentile. Si trattava di un clima certo idoneo a consentire l’affermarsi delle istanze oggettivistiche praticate da Marletta e, con alquanti gradi di libertà, da Fallica. Particolarmente emblematica, da questo punto di vista, è la partecipazione alle due mo-
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A. Fallica, villino Fegarotti, Roma, 1928, particolare del pilastro cilindrico sormontato dal cirneco (da Domus, cit., p. 11) A. Fallica, villino Fegarotti, Roma, 1928, veduta del fronte laterale (da Domus, cit., p. 16)
stre romane di Architettura Razionale, del 1928 e del 1931, di Giuseppe Marletta, come componente del gruppo romano del M.I.A.R., e di Giuseppe Pensabene, come componente del cosiddetto gruppo misto del M.I.A.R. Immediatamente stroncata nel mese di agosto da una dura recensione di Marcello Piacentini sulle pagine della rivista Architettura e Arti Decorative15, la prima Esposizione Italiana di Architettura Razionale, inaugurata nel mese di marzo 1928 e ospitata presso il Palazzo delle Esposizioni, raccoglieva i progetti della compagine di architetti, ma più spesso studenti della Scuola Superiore, aderenti ai principi dell’architettura razionale. Anticipata da una campagna di promozione che gli organizzatori consideravano avviata fin dal 1924, con gli articoli di Gaetano Minnucci e poi del Gruppo 7 e di Adalberto Libera, l’esposizione è divisa in dieci sale destinate alle varie città e regioni d’Italia: Veneto (I e II), Isolati (III), Torino (IV), Roma (V, VI, VII e VIII), Gruppo 7 (IX), Milano (X). L’esposizione vide fra i suoi partecipanti Fallica e Marletta, entrambi ancora studenti alla Scuola Superiore di Architettura di Roma. Fallica esponeva nella sala V dedicata a Roma con un consistente nucleo di progetti: il Villino Cutore sull’Etna, un Laboratorio per agrumi a Paternò (Catania), la Villa Fegarotti a Fregene, il Villino Fegarotti a Roma, l’Ingresso dello Stabilimento La Plaja nella spiaggia di Catania, la Trasformazione della casa Cutore e David (s.l.), la Sistemazione del padiglio-
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ne della Camera di Commercio di Roma a Milano, lo Studio personale. Giuseppe Marletta, fra gli espositori delle sale VII e VIII dedicate a Roma, presentava il progetto di un Ipercinema, uno Studio per Cinema16 e un progetto per Appartamenti a pensione in prossimità della spiaggia di Taormina (Capo Mazzarò). Fallica e Marletta sono i dicotomici rappresentanti, nel primo importante appuntamento del nascente movimento moderno italiano, di una pattuglia di progettisti attivi a Catania animati da sincere quanto confuse istanze di rinnovamento dell’architettura. Ma se Fallica persegue una visione edulcorata della modernità, Marletta si fa interprete di un rigorismo etico davvero oltranzista. Su una via intermedia, per certi versi affetta da mera sindrome di aggiornamento e che, con diversa taratura di componenti, connota discontinuamente l’attività degli altri giovani catanesi, come Carmelo Aloisi, Francesco Fiducia, Ignazio Garra, Michelangelo Mancini, Rosario Marletta e Giuseppe Spampinato, si attestano gli esempi di punta della cultura del progetto nella Catania del Ventennio17. Innegabilmente più comunicativo di questa compagine di giovani professionisti culturalmente impegnati, Fallica (che per un decennio instaura sodalizi artistici con Anna Balsamadjeva, Duilio Cambellotti, Eugenio Fegarotti, Carmelo Florio, Maria Marino e Rosario Pulvirenti) stempera i suoi evanescenti sintomi futuristi in una colta e preziosa produzione di allestimenti di mostre nazionali (fra cui la Sala d’Ingresso della Sezione Romana alla III Biennale di Monza del 1927, gli ambienti per la Triennale di Milano del 1930 e l’Esposizione dell’Artigianato di Firenze del 1935 e del 1939), di arredi (fra cui quello per l’autorevole Francesco Sapori a Roma, con Cambellotti) e di padiglioni espositivi, fra cui quello del Lazio alla Fiera di Milano e quello dell’ENAPI (Ente Nazionale Artigianato e Piccole Industrie) alla Fiera di Messina. La casa per il pittore e illustratore Fegarotti (che aveva da poco iniziato la procedura per ottenere la modifica dell’originario cognome Fecarotta) ai Parioli, primo edificio realizzato da uno degli artisti siciliani di nuovi orientamenti trasferitisi a Roma, anche per la montante emarginazione culturale del contesto artistico isolano, rappresentò qualcosa di più di un promettente esordio di un dotato allievo architetto “fuori sede”18. Il giovane committente Giuseppe Eugenio Fegarotti (Catania 1903 - Roma 1973) appartiene a quella stessa classe sociale benestante di commercianti e di imprenditori di Catania della quale fa parte la futura consorte di Fallica (Rachele Sciuto, con la quale si sposa l’11 maggio del 1932) come del resto quel ristretto nucleo di suoi committenti dell’area catanese che fra il 1927 e il 1930 gli commissionano ristrutturazioni di appartamenti con arredamenti completi, tutti caratterizzati da trasfigurazioni astile di consolidate tipologie di mobilia, da commistioni polimateriche e da eterodosse connotazioni cromatiche e strutturazioni volumetriche. Il rapporto di Fallica con Fegarotti, che discende da una stimata dinastia di orafi e argentieri attivi
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A. Fallica, sezione romana: sala d’ingresso, III Biennale di Monza, 1927 rivestimento in cuoio sbalzato della porta di Maria Marino su disegno di A. Fallica (da Emporium, 66, 1927, luglio, p. 21) A. Fallica, Ridotto per signora, IV Triennale di Monza, 1930 mobili in legno ebano, radice di cipresso, marocchino e metalli argentati eseguiti dalla ditta Rigano e Fisco di Catania; fontana in pietra lavica e pietra di Comiso di Carmelo Florio; pannello decorativo di Rosario Pulvirenti (da Architettura e Arti Decorative, 10, 1931, giugno, p. 500)
a Palermo fin dal XVIII secolo (era stato il padre di Eugenio, Ernesto Fecarotta, a trasferirsi a Catania e ad aprirvi una esclusiva gioielleria), comporta per il primo l’avvio di rapporti con il contesto artistico della capitale decisivi per la formazione della sua personalità artistica. Oltre che con Duilio Cambellotti, con il quale inizia un felice sodalizio che si traduce in significative collaborazioni nel campo delle arti applicate (come nel 1925 la realizzazione dei pannelli decorativi per la Sala degli Abitatori della Campagna Romana alla II Biennale delle Arti Decorative di Monza nella Sezione Romana diretta da Cambellotti o della “Sala d’Ingresso” della Sezione Romana alla III Biennale di Monza del 1927)19, Fegarotti lo mette in contatto con alcuni fra i più dotati allievi dello stesso Cambellotti, come lui formatisi a Roma all’Istituto Artistico Industriale oppure all’Accademia di Belle Arti; fra questi avrà un ruolo significativo Rosario Pulvirenti (Aci Sant’Antonio 1899 - Varese 1966) che, dopo una prima preparazione artistica a Catania, trasferendosi a Roma si avvicina al gruppo di Valori plastici (in realtà quasi sul finire di tale esperienza) e quindi approderà al Realismo magico, influenzando non poco i repertori figurali di Fallica. Per i giovani artisti che, anche se con orientamenti non sempre affini (o addirittura non
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compatibili) e con provenienze alquanto diverse, nella Roma della seconda metà degli anni 1920 e dei primi anni del decennio successivo, consumano l’avventura, non di rado da neofiti, di un’esistenza improntata alla volontà di rinnovamento estetico, quantomeno del visibile, la casa-studio di Fegarotti, sia pure per poco meno di un lustro, sarà uno degli occasionali luoghi di incontro (come qualche atelier di via Margutta, come alcune dimore di intellettuali, come la Galleria Roma in via Vittorio Veneto quando dal 1929 è diretta da Pietro Maria Bardi o, ancora, come alcuni locali pubblici, ai cui estremi si collocano il Caffè Greco e l’Osteria del Leoncino). Questo, almeno fino a quando Fegarotti nel 1936 (cioè due anni prima di doversi dimettere dalla Cattedra di Pittura della Regia Accademia di Belle Arti di Roma per non dover aderire al regime fascista) trasferirà il suo studio in via Margutta, rispettando peraltro un cliché destinato ad un sorprendente rilancio nel periodo della Ricostruzione e in quello del Miracolo Economico. Definita da Luigi Piccinato, nel suo articolo su Domus del giugno 1929, “latina già nelle proporzioni, nella impostazione, nella quadratura e nel colore” la casa-studio di via Frisi, progettata da Alfio Fallica nel 1926 e completata nei suoi arredi e apparati figurali all’inizio del 1929, alla data della prima Esposizione Italiana di Architettura Razionale è in realtà uno dei pochi esempi, in seno alla manifestazione romana, del novero delle opere già costruite. Si trattava di poco meno di una decina di edifici in tutta Italia (fra cui il Novocomum), ai quali fa riferimento Giuseppe Pensabene20 in uno dei suoi resoconti su Il Tevere, non privo di denuncia nei confronti del monopolio di mercato di professionisti “tradizionalisti”, considerati opportunisti e di dubbia coerenza fascista. Nel 1927 Fallica, che ha già al suo attivo un brillante esordio artistico — professionale romano, partecipa all’esposizione del Werkbund di Stoccarda, mentre l’anno successivo, oltre a far parte della commissione del concorso per la Mostra del Mare a Roma, cura l’allestimento del padiglione Lazio alla Fiera di Milano. Autore di eleganti soluzioni architettoniche, in bilico fra istanze innovative della tradizione e codificazione normalizzante del formulario razionalista, Fallica ne riporta le contraddittorie tematiche figurali nel gusto per arredi e oggetti d’uso, inimitabili pur nella loro esibita modernità21. Nella casa-studio di Fegarotti — che, nel suo nuovo ambiente di artisti di sedicente avanguardia trasferitisi nella promettente capitale, è uno dei pochi a disporre di consistenti risorse economiche — Fallica intona felicemente la sua vocazione internazionalista al genius loci isolano. Si tratta, però, di un’inedita variante del rarefatto filone “oggettivo” che in Sicilia nasce con la realizzazione della casa-studio di Basile; filone del quale Fichera, all’epoca ritenuto dai giovani catanesi un’ingombrante e imbarazzante presenza, è certamente il più originale interprete, ma con solo poche opera maturate al di fuori della maniera modernista. La ca-
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A. Fallica, progetti per la prima Esposizione italiana di Architettura Razionale, Roma, 1928 Villino Cutore sull’Etna, Laboratorio di agrumi a Paternò, ingresso dello Stabilimento balneare La Plaja a Catania (da M. Cennamo, Materiali per l’analisi dell’architettura moderna — La prima Esposizione Italiana di Architettura Razionale, Napoli 1973, pp. 175, 176)
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sa Fegarotti, anche se improntata ad un impalcato progettuale vincolato a principi di composizione speculare per comparti, appena realizzata si impone nel contesto, ancora di tenore suburbano, per le sue nitide stereometrie e per le dissimulate e al tempo stesso trasfiguranti suggestioni di forme e modi della cultura vernacolare dell’abitare; quest’ultima, invero, esaltata non da citazioni folkloristiche ma da un rarefatto quanto incisivo corredo iconico (in parte di Fegarotti e in parte dello stesso Fallica) di carattere onirico-allegorico ma anche con larvate concessioni ermetizzanti. Persino le due svettanti figure canine in majolica poste sulla sommità dei pilastri-colonne della loggia d’angolo hanno valore di sigle rivelatrici di un’aura mediterranea metastorica22. Scambiate da Piccinato per raffigurazioni del Cane-Lupo esse verosimilmente sono esemplate, con stilizzato dinamismo di vaga reminiscenza futurista, sulla razza del Cirneco dell’Etna, una specie autoctona siciliana dell’area etnea (anche se si direbbe rappresentata in una didramma di Segesta del V secolo a.C., come pure in altri esempi di conio elimo) appartenente alla classe di cane da caccia detto di “tipo primitivo”, alla quale la tradizione popolare assegnava arcane valenze, in continuità con il mito dell’antichità che lo voleva temibile custode di luoghi di culti pre-elladici23. Cifrari figurali di soggetti naturali (animali e vegetali), ma poi anche di contesti paesaggistici (con l’astratta rappresentazione del vulcano Etna riproposta da allora quasi come sigla d’autore) e antropizzati, ricondotti a stilizzazioni improntate sia al gusto per i segni-forza dell’estetica cinetica futurista più comunicativa sia alla vocazione al magico e non di rado al primitivismo di certo Déco astilo, non abbandoneranno i modi progettuali di Fallica in questa breve ma intensa stagione creativa che si consuma in appena poco meno di un lustro. Nella casa, “dipinta tutta di bianco affinché stacchi nettamente sul verde oliva di Villa Glori”24, gli inserti metallici e tutte le aggettivazioni intonano infatti un rapporto contrappuntistico con il tenore protorazionalista che pervade la fabbrica: “la pergola che corona la casa è dipinta tutta di rosso-minio e rosse sono pure le teste dei venti in terracotta majolicata applicate sulle facce della torre, e rosse le due lunghe colonne sul prospetto e quelle lungo la recinzione. I telai metallici dei finestroni che chiudono la veranda sono invece verniciati in verde-azzurro chiaro e danno un senso di fresca ariosità […] sua è la modellazione dei due cani-lupo in majolica bigia e bianca messi a guardia della casa, e quella delle teste e delle maschere. E pure di sua mano sono gli affreschi a chiaroscuro verde Veronese dipinti all’esterno”25. Piccinato, però, non può tuttavia fare a meno di interrogarsi sull’opportunità dell’inserimento dei “modesti timpani delle finestre, retti da sottili tubi di ferro a guisa di colonne” (esili come i pluviali d’angolo, sapientemente staccati dagli spigoli ad accentuare il nitore dei volumi). Sono in realtà citazioni ironiche, già partecipi di certo classicismo immaginario e fiabesco di alcune delle scenografie di Enrico Prampolini (poi riproposto più felicemente nella riforma
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pagina a fronte A. Fallica, Casa Caponetto, via Passo d’Aci, Catania, 1930 veduta dell’ampliamento (foto R. Riggi, 2016) A. Fallica, Casa Caponetto, vano scala (da Domus, 5, 1932, luglio, p. 396)
degli interni della Palazzina Caponetto a Catania), in un contesto dalla compromissoria facies protorazionalista. Vincolata da un modesto nucleo preesistente ma, soprattutto, dalla dipendenza progettuale del giovane Fallica dall’assetto stereometrico del Villino De Grossi a Marino Laziale, realizzato nel 1915 dal suo mentore Duilio Cambellotti, la casa-studio di Fegarotti, oggi parzialmente alterata nella sua configurazione volumetrica, consuma la sua fortuna critica nel giro di pochi anni, per essere immediatamente surclassata da ben altre architetture domestiche italiane diversamente partecipi della cultura razionalista. La criticata articolazione stereometrica dell’organismo progettato da Fallica, risultante dall’aggregazione di un’ala rettangolare con un corpo di fabbrica a L, nel nucleo centrale sovrapponeva, dal piano terreno al secondo piano: la grande hall con le scale; la stanza da lavoro, con servizi e disimpegni; lo studio dell’artista, con una grande vetrata simile a quella della veranda (oggettivi richiami all’architettura industriale e a quella navale, come gli oblò del corpo scala). Fallica, nonostante tutto, dà forma, in questa fabbrica, ad una preziosa testimonianza di transizione (ma non ancora fuori tempo massimo per il coevo panorama italiano) verso il gusto razionalista, con sigle classiciste di sapore surrealista e con inserti di impronta futurista sia figurali (come le pseudo panoplie dipinte sui muri perimetrali del pianterreno) sia architettonici (fra cui assume un valore di segnale centrifugo a livello di contesto ambientale la loggia con solai a settore circolare dinamicamente raccordati con i due pilastri cilindrici sormontati dalle effigi dei Cirnechi). Pur avendo partecipato con convinzione alla prima manifestazione collettiva dei razionalisti italiani, Fallica declina con virtuosismo la sua aspirazione funzionalista ad un immaginario déco improntato a formulari futuristi. Tanto il Villino Cutore quanto il Laboratorio per Agrumi, quanto ancora l’Ingresso allo Stabilimento “La Plaja” propongono una rassicurante concezione del moderno come ventaglio di architetture risultanti dal diverso dosaggio, in relazione all’esigenza della tipologia, di valenze funzionaliste, di istanze rigoriste, di componenti oggettive, di formulari futuristi. Ma sono questi ultimi a prevalere nella caratterizzazione iconica quasi parossistica del progetto per il Villino Fegarotti ai Parioli attraverso la dinamica veduta prospettica dal basso della loggia con i Cirnechi a coronamento. È una visione della poetica futurista come valore aggiunto che Alfio Fallica con il suo intervento del 1930 di riforma della Palazzina Caponetto, in via Passo d’Aci a Catania, riconduce ad una facies magica dell’ideale dell’epoca di “abitare il moderno”. Per gli esterni, nella Palazzina Caponetto viene esaltata in chiave funzionalista, con tanto di strutturazioni elementariste di piani e volumi geometrici, quella “quadratura” che nella versione latina della Palazzina Fegarotti piaceva tanto a Piccinato; per gli interni, diversamente,
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un impalpabile trasporto per l’onirico, che dalle pitture parietali di soggetti stilizzati (naturalistici e paesaggistici oltre che monumentali) contamina arredi, codici figurali (per definizioni in ferro battuto e in stucco) e persino il fluido andamento degli oggettivi componenti metallici della scala, traduce l’aereo immaginario futurista di Fallica a comune denominatore delle strumentazioni formali per i diversi ambienti dell’ultima coerente opera d’arte totale della cultura dell’abitare nella Sicilia degli Anni Ruggenti. I suoi migliori arredi per privati (fra i quali ricordiamo quelli per le case Gullotta e Caponetto, a Catania, quelli per l’appartamento Pugliesi ad Acireale, quelli per il Caffé Etna in via Etnea a Catania e, ancora, gli interni della Gioielleria Fecarotta a Catania), tutti compresi tra la fine degli anni 1920 e i primi anni 1930, registrano il graduale mutare delle forme in senso razionale ma sempre sulla base di un sincretismo Déco dominante. L’avveniristica composizione di soli montanti con i volumi delle sedute e delle spallierebraccioli del divano e delle poltroncine del salotto con stoffa in lana a fasce rossobrune, gialle e azzurre dell’appartamento Pugliesi ad Acireale sopravanzano le istanze di oggettività, riconducendo le valenze funzionaliste di Fallica ad un impalcato compositivo elementarista per contrasti
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pagina a fronte A. Fallica, casa Caponetto vestibolo (foto R. Riggi, 2016)
di chiara matrice futurista. L’ambiente da lui progettato e realizzato per la III Triennale di Milano, in collaborazione con le ditte catanesi Caruso e Rigano & Fusco, con il pittore R. Pulvirenti, lo scultore C. Florio e la scultrice A. Balsamadjieva, costituiscono l’elemento di punta della partecipazione siciliana alle esposizioni d’arte decorativa moderna dell’Italia degli anni 1930. La sua particolare visione del moderno, l’impronta astila non esente però da strumentazioni figurali, il gusto per il polimaterismo e per il fuori scala contrappuntistico, manifestano negli arredi di Alfio Fallica sorprendenti consonanze con le coeve esperienze mitteleuropee di revisione estetizzante del modernismo secessionista ad opera della tarda produzione della Wiener Werkstätte. Il fenomeno Fallica non è un caso isolato nella inquieta Catania dei primi tre decenni del XX secolo; le molteplici manifestazioni cittadine degli anni 1920 di una diffusa volontà di “vivere il moderno” riverberano tensioni culturali che risalgono alla fine del primo decennio del secolo. Gli echi futuristi che informano i progetti presentati da Fallica e da Marletta alla mostra di Roma del 1928 sono testimonianze rivelatrici di un’aspirazione dell’intelligencjia cittadina ad un progresso civile ed estetico che, in realtà, si era innestato non tanto a livello artistico e architettonico quanto sul piano letterario.
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Note 1 Sulla II Esposizione Agricola Siciliana e Mostra Campionaria Nazionale svoltasi a Catania nel 1907 nel complesso progettato da Luciano Franco si vedano E. Pagello, “Catania 1907 — La II Esposizione Agricola Siciliana — Le architetture”, in Alessandro Abate (1867-1953) — Un pittore a Catania tra Otto e Novecento, a cura di L. Paladino, Catania, Biblioteca della Provincia Regionale di Catania, 2007, pp. 43-46; G. Cantone, “La cultura architettonica modernista nelle esposizioni di Catania e Messina”, in Le città dei prodotti — Imprenditoria, architettura e arte nelle grandi esposizioni, a cura di E. Mauro, E. Sessa, Palermo, Grafill, 2009, pp. 199-206. 2 Su Alfio Fallica si vedano: R. Papini, “Le Arti a Monza nel 1927: I — Gli italiani”, Emporium, 66, 1927, n. 391, luglio, pp. 14-32; F. Reggiori, “La Terza Biennale delle Arti Decorative a Monza”, Architettura e Arti Decorative, 7, 1928, fasc. VII, marzo, pp. 311, 317; U. Ortona, “Una villa”, La Casa Bella, 1928, VI, p. 18; L. Piccinato, “Una casa di Alfio Fallica”, Domus, 2, 1929, n. 18, giugno, pp. 11-16; Id., “Un moderno negozio a Catania dell’Arch. Alfio Fallica”, Domus, 4, 1931, n. 47, novembre, pp. 53-55; “Ambienti d’oggi in Italia”, Domus, 4, 1931, n. 48, dicembre, pp. 68-69; P. Marconi, “I recenti sviluppi dell’architettura italiana in rapporto alle loro origini”, Architettura e Arti Decorative, 10, 1931, fasc. XV, p. 813; C.A. Felice, “Qualità dei mobili d’oggi”, Domus, 5, 1932, n. 51, marzo, p. 151; M. Cennamo (a cura di), Materiali per l’analisi dell’architettura moderna — La prima Esposizione Italiana di Architettura Razionale, Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 1973, pp. 111, 211, 239, ill. 36-40; I. De Guttry, M.P. Maino, Il mobile déco italiano, Roma-Bari, Laterza,1988, pp. 148151; A. Rocca, L’Arte del Ventennio a Catania, Catania, Magma, 1988, pp. 99-104; E. Sessa, Ducrot — Mobili e Arti Decorative, Palermo, Novecento, 1989, pp. 47-48, 79; U. Di Cristina, G. Trombino, “Fallica Alfio”, Luigi Sarullo, in Dizionario degli Artisti Siciliani — Architettura, a cura di M.C. Ruggieri Tricoli, Palermo, Novecento, 1993, vol. I, pp. 168-169; E. Sessa, “Le Arti decorative e Industriali tra il 1800 e il 1940”, Nuove Effemeridi, 4, 1991, n. 16, pp. 27-28; G. Bongiovanni, “Fallica Alfio”, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, 1994, vol. 44, pp. 475-476; N.G. Leone, E. Sessa, “Architettura e Urbanistica tra Ottocento e Novecento”, in Storia della Sicilia. Arti figurative e architettura in Sicilia, Roma, Editalia — Edizioni d’Italia — Domenico Sanfilippo Editore, 2000, vol. X, p. 464; P. Barbera, Architettura in Sicilia tra le due guerre, Palermo, Sellerio, 2002, pp. 39, 40, 42,43, 52, 232; E. Mauro, E. Sessa, “Gli architetti siciliani nella Roma del ventennio”, in L’Architettura nelle città italiane del XX secolo — Dagli anni Venti agli anni Ottanta, a cura di V. Franchetti Pardo, Milano, Jaca Book, 2003, pp. 224-2227, 231; I. de Guttry, “Il déco all’italiana in architettura”, in Il Déco in Italia, a cura di F. Benzi, Milano, Mondadori — Electa, 2004, p. 142; A. Antoniutti, “Alfio Fallica (Paternò, Catania 1898 — Catania 1971)”, ivi, p. 351; E. Sessa, “Fallica Alfio”, in Arti Decorative in Sicilia — Dizionario biografico, a cura di in M.C. Di Natale, Novecento, Palermo 2014, vol I, pp. 236-237; Id., “Salvatore Cardella e il Futurismo in Sicilia”, in Il Manifesto dell’Architettura Futurista di Sant’Elia e la sua eredità, a cura di M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi, Mantova, Universitas Studiorum, 2014, pp. 151-152. 3 G.U. Arata, “Un geniale artista siciliano. L’architetto Francesco Fichera”, Rassegna d’Architettura, 1918, giugno, pp. 49-62; M. Piacentini, “Francesco Fichera. Architetto siciliano”, Architettura e Arti Decorative, 9, 10, fasc. II, ottobre 1929, pp. 433-460; Id., Francesco Fichera, Ginevra, Maîtres de l’architecture, 1931; Id., “Recenti opere di Francesco Fichera”, Architettura, 18, 1939, n. 10, ottobre, pp. 589-606; E. Sessa, “Francesco Fichera”, Architetti di Palermo — Periodico di informazione dell’Ordine degli Architetti di Palermo, 2, 1986 — 1987, n. 8, novembre-marzo, pp. 10-11; Francesco Fichera architetto — Mostra dei disegni 1900-1920, Catania, Istituto Dipartimentale di Architettura e Urbanistica, Facoltà di Ingegneria, 30 aprile - 15 maggio, Università di Catania, 1976; A. Rocca, L’arte del ventennio a Catania, Catania, Magma, 1988, pp. 232-234; L. Sarullo, Dizionario degli Artisti Siciliani — Architettura, a cura di M.C. Ruggeri Tricoli, Palermo, Novecento, vol. 1, 1993, ad vocem; E. Pagello, “Idea e prassi in Francesco Fichera sul tema della casa d’abitazione”, in Dispar et Unum 1904-2004. I cento anni del villino Basile, a cura di E. Mauro e E. Sessa, Palermo, Grafill, 2006, pp. 252-255; G. Pagnano, “Francesco Fichera (Catania 1881-1950)”, in Archivi di architetti e ingegneri in Sicilia 1915-1945, a cura di P. Barbera e M. Giuffrè, Palermo, Caracol, 2011, pp. 108-113. 4 Si veda A.M. Ruta, “Federico De Maria, un precursore non riconosciuto”, in Federico de Maria — Passeggiate sentimentali in Tripolitania, Palermo, L’Epos, 2004, pp. 25-35. 5 E. Sessa, “Sangiorgi, Mario (Catania 1860-1916), Imprenditore”, in Arte e Architettura Liberty in Sicilia, a cura di C. Quartarone, E. Mauro, E. Sessa, Palermo, Grafill, 2008, p. 594. 6 Guglielmo Jannelli e Giulio D’Anna instaurano un duraturo sodalizio intellettuale con alcuni fra i più significativi protagonisti del Futurismo, fra cui Giacomo Balla (che, tra l’altro, nel 1927 curerà la grafica pubblicitaria della Libreria D’Anna di Messina) e Fortunato Depero (che progetta la riforma degli interni del Villino Mamertino di Jannelli, espone nel 1927 opere della sua Casa d’Arte Futurista in una personale alla Libreria Principato di Messina, disegna decorazioni d’interni per sedi istituzionali a Caltanissetta, a Ragusa e a Siracusa ed è anche lui autore di lavori di grafica per periodici editi in Sicilia). Non vanno sottovalutati inoltre, ai fini di una più articolata valutazione delle dinamiche di questa compagine siciliana di artisti e letterati, le intermediazioni culturali con esponenti di rilievo del futurismo d’ambito nazionale operate dal poeta palermitano Armando Mazza, dal pittore e scultore, oltre che scrittore, catanese Domenico Maria Lazzaro, dall’aeropoeta Giovanni Gerbino di Ficarra (nel messinese), dalla storica dell’arte Maria Accascina attiva a Palermo (ma na-
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ta a Napoli da famiglia originaria di Mezzojuso). Sono, invece, ancora da valutare le relazioni con gli ambienti delle coeve avanguardie internazionali; fra esse potrebbero essere alquanto indiziarie quelle del drammaturgo messinese Ruggero Vasari e quelle della pittrice catanese Clelia Adele Gloria, una delle personalità più colte e versatili del futurismo siciliano, abile a modularne senza sincretismi la poetica in chiave surreale, fino addirittura a recepire stimoli da alcune delle tendenze interne al Bauhaus nell’ultimo periodo di Weimar. Per una visione d’insieme del fenomeno futurista in Sicilia si veda Fughe e ritorni — Presenze futuriste in Sicilia, catalogo della mostra, Cantieri Culturali della Zisa, Palermo, 27 novembre 1998 - 24 gennaio 1999, a cura di A.M. Ruta, Napoli, Electa Napoli, 1998. 7 E. Crispolti, “Una preminente area meridionale di eventi e “luoghi” del Futurismo italiano”, ivi, pp. 21-24. 8 Si veda S. Gesù, “L’industria del cinema a Catania”, in L’architettura dei cinematografi in Sicilia, a cura di E. Godoli, E. Mauro, A.M. Ruta, E. Sessa, Geraci Siculo, Arianna, 2014, pp. 208-218. 9 Sull’architettura siciliana fra le due guerre si vedano: N. G. Leone, E. Sessa, “Architettura e urbanistica tra Ottocento e Novecento”, in Storia della Sicilia, Roma 2000, vol. VIII, pp. 418-419, 463-467; Barbera, op.cit.; Mauro, Sessa, “Gli architetti siciliani nella Roma del ventennio”, cit., pp. 224-232. 10 A.M. Di Fresco, “Un siciliano a Roma”, Sicilia, 1, 2000, pp. 48-53. 11 Il ruolo di pubblicista di G. Pensabene è particolarmente importante per la fronda giovanile degli antiaccademici di inizio anni Trenta. Il suo più aggressivo e polemico contributo al dibattito sul rinnovamento dell’architettura italiana, non privo di alquante ambiguità, è “Il Libro giallo dell’Architettura Italiana” che viene pubblicato su Il Tevere, nei numeri del 16, 21, 26, 28, 31 dicembre 1932 e del 2, 5, 9 gennaio 1933. 12 Piccinato, “Una casa di Alfio Fallica”, cit. 13 Si veda, R. De Simone, Il razionalismo nell’architettura italiana del primo Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 84-102. 14 Per Casa Basile si veda Sessa, “Il villino Basile: la casa-studio come manifesto della ‘qualità’”, in Dispar et Unum 1904-2004…, cit., pp. 29-60. 15 M. Piacentini, “Prima Internazionale Architettonica”, Architettura e Arti Decorative, 7, 1928, fasc. XII, pp. 544562. 16 Su questi due progetti di cinematografi si veda G. Cantone, “Ipercinema”, in L’architettura dei cinematografi in Sicilia, cit., p. 357. 17 Rocca, op.cit., pp. 57-144. 18 Nell’elenco dell’Ispettorato Edilizio dell’Archivio Capitolino, la licenza edilizia per Casa Fegarotti viene concessa (dietro presentazione di istanza del 6 agosto 1926, prot. n. 29, e approvazione del 3 settembre 1927) a nome di Alessandro Strano; a quella data Fallica non era ancora laureato. 19 R. Papini, “Le arti a Monza nel 1927…”, cit. 20 P. Barbera, “Giuseppe Pensabene (Palermo 1898 - Roma 1968)”, in Archivi di architetti e ingegneri in Sicilia 19151945, cit., pp. 140-141. 21 De Guttry, Maino, op.cit., pp. 148-151. 22 Una prospettiva della loggia è conservata presso l’Archivio La Padula (Roma). Il disegno, presentato alla prima Esposizione Italiana di Architettura Razionale del 1928, è pubblicato da Cennamo, op.cit., fig. 37; lo stesso elaborato grafico, a tempera su carta (cm 100x50), è pubblicato in Il Déco in Italia, cit., p. 142. 23 La razza canina del Cirneco dell’Etna viene riscoperta da Maurizio Migneco, veterinario di Adrano (cittadina dell’area etnea non distante dalla Paternò di Fallica), proprio nel periodo di edificazione di casa Fegarotti; tuttavia, solo nel 1932, con un suo toccante appello in difesa di questa “razza dimenticata” e allora in via di estinzione pubblicato sul periodico «Il Cacciatore Italiano», suscita un tale interesse negli ambienti cinofili nazionali da indurre la giovane imprenditrice catanese Agata Paternò Castello, dei duchi di Carcaci, ad impiantare un allevamento selettivo di cirnechi ed ottenere appena sette anni dopo uno standard ufficiale da parte dell’E.N.C.I. (Ente Nazionale Cinofilia Italiana, istituzione nata nel 1882 come Società per il miglioramento delle razze canine in Italia). Si veda F. Modica, “Agata dei Cirnechi — Come fu salvato il cane più antico del mondo”, Sicilia, 1 (90), 2000, pp. 64-71. 24 Piccinato, “Una casa di Alfio Fallica”, cit., p. 16. 25 Ibid.
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la “dichiarazione” di francesco fichera del 1915 per un’architettura del “futuro” e il manifesto di sant’elia
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F. Fichera, L’Arte di “dopo la guerra”, Roma, settembre 1915 (da L’Architettura Italiana, 11, 1915, n.1, p. 1)
Eliana Mauro
Nel settembre del 1915, qualche mese dopo l’entrata dell’Italia negli schieramenti della prima guerra mondiale, Francesco Fichera (Catania 1881-1950), docente, a partire dal 1914 (prima come Straordinario, poi come Ordinario), di Disegno d’Ornato e Architettura Elementare (presso la Facoltà di Scienze Fisiche, Matematiche e Naturali), inaugura l’anno accademico 1915-1916 della Scuola di Ingegneria dell’Università degli Studi di Catania con una “dichiarazione” sui principi che ritiene informeranno il futuro dell’architettura1. Il discorso, vergato a Roma per l’occasione e poi pronunciato a Catania, avrà grande presa sui giovani studenti e sarà apprezzato da più parti, tant’è che verrà pubblicato diverse volte nello stesso anno: nel numero di ottobre della rivista torinese L’Architettura Italiana, edita da C. Crudo; nel periodico fiorentino Nuova Antologia, n. 264 del 16 dicembre 1915; infine, nel volume annuale di raccolta degli Atti del Collegio degli Architetti e Ingegneri di Catania2. L’articolo pubblicato, dal titolo “L’Arte di dopo la guerra” — un titolo cacofonico e all’apparenza anche sgrammaticato ma che sembra evidenziare, in questo suo allontanarsi dal canone sintattico, una certa simpatia per il rinnovamento in linea con quello che auspicavano i primi futuristi3 —, costituiva una pronuncia d’intenti nell’ambito dei quali soprattutto la guerra, attesa e per i più necessaria, viene vista come traghetto per l’insediamento del nuovo e per l’avanzamento verso il generale futuro dell’umanità: La guerra. Un fenomeno di assestamento da cui l’Europa uscirà riplasmata, con una nuova civiltà ed un nuovo stile. Dal fatto stesso della mancanza di uno stile nelle opere del secolo passato — fenomeno che chiaro emergeva dalle numerose Esposizioni internazionali, — si doveva trarre la logica conseguenza che la civiltà del nostro tempo pur così strepitoso di opere e fecondo di invenzioni — fosse in elaborazione, e ancor lontana da quella maturità che si esprime in uno stile: il volto, il documento eterno della civiltà. Chi vive nel mondo superiore dell’arte — che è la sublimazione dei sentimenti dei popoli, — chi per professare l’arte ha avuto in dote dalla natura un apparecchio di sensibilità e di osservazione: ha segnato ben lungi, nel tempo, la vera vigilia della guerra delle Nazioni4.
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pagina a fronte Francesco Fichera, villino Simili, Catania, 1907-08, veduta (da Rassegna d’arte antica e moderna, 5, 1918, maggiogiugno, p. 55)
Rispetto alle diverse manifestazioni epocali, i futuristi, in particolare, ne attendevano l’azione rinnovatrice: per Marinetti la guerra è “futurismo intensificato”, “imposizione fulminea di coraggio, di energie e d’intelligenza”, “sintesi culminante e perfetta del progresso (velocità aggressiva + semplificazione violenta degli sforzi verso il benessere)” (1914)5. Con la guerra quale snodo storico degli sviluppi europei, anche intesa dai futuristi come “zona di vita intensa” (come la rivoluzione, il naufragio, il terremoto — invocato come agente di azzeramento dell’architettura storica delle città)6, “avremo — scrive Fichera — una nuova civiltà, una nuova Arte, un nuovo Stile: quello stile che abbiamo invano cercato nella pace”7. Si manifesta per Fichera una rivoluzione dello “stile” nella nascita di una nuova coscienza europea che, nell’architettura, è denunciata dall’avvicendamento di materiali e di modalità costruttive moderni: Dalle vampe del forno e della fucina escono temprati gli elementi — cemento e ferro — di questo mezzo miracoloso [il cemento armato], i quali se ne vanno, poi, perpetuamente in concordia, come la polpa e l’osso; ripetendo, nelle travi e nei pilastri, alle sollecitazioni del peso e della tensione, l’azione naturale di resistenza delle ossa e dei muscoli nel corpo umano. E, per conseguenza dello spirito di rinnovamento auspicato dopo la guerra, un nuovo artefice troverà ai suoi piedi il prodotto di un minuto, incessante lavoro di precursione che dovrà costringere in sintesi. Una montagna di ritrovati che la raffinatezza moderna ha chiesto all’industria-la quale glieli ha preparati — debbono essere da lui assunti in bellezza […]. Egli sarà agevolato da un potentissimo mezzo, che non è né tedesco, né francese, né inglese, né russo, né italiano — come le pietre di cui si fecero fin oggi le architetture —, ma universale: un mezzo che egli si troverà in mano, duttile, per foggiare il nuovo stile europeo. Un potentissimo mezzo per cui egli potrà superare le altezze mistiche delle absidi ogive, le ampiezze colossali delle cupole romane: per cui farà più con meno. Il cemento armato8.
In quel mese di settembre del 1915 il pronunciamento di Fichera, a cui si anteponevano fin dal 1911 le prime riviste siciliane futuriste sia nell’area catanese che in quella messinese, è piuttosto eloquente9. Invero, al di là dell’espressione intesa, il suo sentire era in linea con le istanze divulgate da Antonio Sant’Elia nel foglio L’architettura futurista. Manifesto datato 11 luglio 1914 e pubblicato a Milano dalla Direzione del Movimento Futurista: Non si tratta di trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre o di porte, di sostituire colonne, pilastri e mensole con cariatidi, mosconi, rane; non si tratta di lasciare la facciata a mattone nudo, o di intonacarla, o di rivestirla di pietra, né di determinare differenze formali tra l’edificio nuovo e quello vecchio; ma di creare di sana pianta la casa futurista, di costruirla con ogni risorsa della scienza e della tecnica, appagando signorilmente ogni esigenza del nostro costume e del nostro spirito, calpestando quanto è grottesco, pesante, antiestetico con noi (tradizione, stile, estetica, proporzione) determinando nuove forme, nuove linee, una nuova
armonia di profili e di volumi, un’architettura che abbia la sua ragione d’essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna, e la sua rispondenza come valore estetico nella nostra sensibilità […]. Il calcolo sulla resistenza dei materiali, l’uso del cemento armato e del ferro escludono l’“architettura” intesa nel senso classico e tradizionale. I materiali moderni da costruzione e le nostre nozioni scientifiche, non si prestano assolutamente alla disciplina degli stili storici, e sono la causa principale dell’aspetto grottesco delle costruzioni “alla moda” nelle quali si vorrebbe ottenere dalla leggerezza, dalla snellezza superba della poutrelle e dalla fragilità del cemento armato, la curva pesante dell’arco e l’aspetto massiccio del marmo. […] Abbiamo perduto il senso del monumentale, del pesante, dello statico ed abbiamo arricchita la nostra sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero, del veloce. […]Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca10.
Era una dichiarazione già distante dagli esordi progettuali dello stesso Sant’Elia, piuttosto ancora rivolti al rinnovamento architettonico così come lo aveva inteso il modernismo europeo. Ciò è facilmente riscontrabile nei primi progetti di case come quello presentato come studio di una villetta e pubblicato nel 1911, quello modificato premiato con diploma d’onore nel 1911 dall’Unione Cooperativa di Milanino per il concorso di progettazione di un villino “moderno”, o infine come quello per la Villa Elisi realizzato nel 1912 per Romeo Longatti vicino Como11. Tali progetti di villa, o villino, unifamiliare sono sostanzialmente in linea con
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F. Fichera, Padiglione dell’Esposizione Edilizia di Messina, 1914 (da L’Architettura Italiana, 9, 1914, agosto, p. 126)
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F. Fichera, cinema Olympia, Catania, 1913, cartolina (coll. Mauro-Sessa, Palermo)
la “dichiarazione” di francesco fichera del 1915 • eliana mauro
quanto si progettava per quella particolare tipologia e si pubblicava nelle raccolte a tavole sciolte, come quella del 1912 edita da Crudo, Ville e villette moderne. Progetti e schizzi di facciate e piante, dove compaiono, insieme a una villetta a due piani firmata da Fichera, le analoghe case di Salvatore Caronia Roberti e Marcello Piacentini (insieme a tanti altri)12, tutte assimilabili alle case di vacanza che si andavano realizzando, con le medesime modalità, nei diversi centri turistico-balneari d’Italia. Sui comuni intenti d’anteguerra, però, il naturale e individuale percorso che segue ogni addestramento accademico avrebbe mostrato diversi, e spesso formalmente antitetici, i risultati della pratica del rinnovamento. A prescindere dagli articoli apparsi nel 1911 su La Sicile Illustrée, nell’ambito degli eventi collegati all’inaugurazione del monumento a Umberto I a Catania, e su L’Architettura Italiana13, rispettivamente nel giugno e nel dicembre, che gli riconoscevano il merito di avere terminato i lavori del complesso dell’Ospedale dei ciechi di Catania improntato ad un eclettismo neogotico (interrotto dalla morte del padre che ne aveva redatto il progetto e ne stava dirigendo i lavori), si pubblicavano, su L’Architettura Italiana del 1912, il sanatorio Rindone, due elevazioni di volumi a semplice incastro evidenziati da una netta bicromia, e il Villino Simili, entrambi a Catania, rispettivamente nei fascicoli di agosto e ottobre14. Cosicché, soprattutto per merito del Villino Simili, già realizzato e il cui progetto datava al 1907-08, e del padiglione espositivo Fichera era stato già segnalato dalla pubblicistica come uno dei possibili interpreti del proprio tempo e del rinnovamento dell’architettura15, anche se la vera natura dei suoi futuri modi progettuali si sarebbe manifestata nel 1913 con lo Sport Club e il cinema Olympia, entrambi a Catania. Nel Cinema Olympia, che egli presenterà in un pamphlet dal titolo Olympia nel primo dì di primavera in occasione dell’inaugurazione, la libertà e la dissacrale logica con cui vengono utilizzati elementi decorativi tridimensionali (uccelli in volo) o elementi costitutivi della composizione
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architettonica (finestre capovolte con l’arco in basso) sono segnali del fatto che Fichera prova a mettere in atto la propria ricerca di una modalità operativa finalizzata allo scardinamento dei canoni stilistici e decorativi. Nel fascicolo di agosto del 1914 sarebbe stato invece pubblicato il progetto del padiglione per l’Esposizione Edilizia di Messina, una “struttura monolitica in cemento armato” con “un originale partito decorativo di festoni in ferro battuto, sospesi tra palo e palo”16. Insieme allo Sport Club17, queste opere maggiormente illustrano l’auspicata ipotesi del “rinnovamento” per mezzo dell’utilizzo di nuovi materiali (il cemento armato per la costruzione, il ferro per le decorazioni architettoniche)18. È la sua strada verso il rinnovamento; una lunga strada che, nel caso di Fichera, fa i conti con l’attuabilità e la fattibilità del progetto, oltre che con la contestuale necessità di rinnovamento dei codici architettonici e con l’esigenza di riconoscibilità delle proprie origini culturali e di identità architettonica. Con l’articolo che ne illustra l’opera nel numero di maggio-giugno della Rassegna d’arte antica e moderna, Giulio Ulisse Arata19 nel 1918 dà conferma della rinnovata attenzione rivolta a questo allievo di Ernesto Basile20. Dal testo, apparso con il titolo “Un geniale artista siciliano. L’architetto Francesco Fichera”21, si evince che l’interesse di Arata per Fichera scaturisce dalla sua “concezione del nuovo”: Quali siano del resto gli scopi morali di una logica architettura e quale influenza abbia sullo sviluppo progressivo della nostra compagine vitale, Fichera ce lo dimostra in un suo scritto, con un’immagine viva e tangibile, là dove dice che essa può essere rappresentata da uno strumento che è come l’aratro con l’elica: con l’un mezzo si eleva, con l’altro approfondisce: con l’uno interpreta il sentimento della sua epoca con l’altro serve ai bisogni del suo tempo. Noi diremmo di più.
Scrive ancora Arata: essendo degno allievo di Basile (“che rovistando nell’arte dei secoli aurei trovò i germi di una futura rinascita”), Fichera “porta il profumo della modernità nella pallida e monotona architettura del nostro decadente eclettismo”; “le risorse dei sistemi costruttivi moderni costituiscono (per lui) un mezzo di espressione e uno dei fini diretti della sua arte”22. I progetti ideati fino al 1915, e che appaiono nella rivista, sono numerosi; la produzione annuale di Fichera è di fatto molto elevata. Già nel 1908 (e fino al 1911) si dedica alla realizzazione della Villa Miranda della famiglia Reina dell’Aira e della Villa Simili a Catania, al restauro delle ville Cerami e Calì di Catania. Arreda, nel 1909, due negozi (Alfonzetti e Martinez). Nel 1910, per il calcolo e il disegno delle strutture in cemento armato della casa di salute Rindone a Catania compaiono i primi elaborati dello Studio Hennebique di Parigi (datati febbraio 1910); una collaborazione che continuerà duran-
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te tutto quell’anno e che riguarderà anche le strutture della Villa Scannapieco a Picanello di Catania del 1909-11 (e datati novembre 1910). Del 1911 (e fino al 1913 per la realizzazione) è la villa Majorana che, insieme alla più tarda “casa sulla lava”, aiuta meglio a comprendere, per sistemi analogici, i punti reali di contatto della progettazione di Fichera e della sua idea del rinnovamento dell’architettura con le istanze della modernità. Il biennio del 1912-13 è certo quello più significativo di questo periodo ante guerra della sua attività, considerato che comprende, oltre al Cinema Olympia e allo Sport Club, la villa La Lumia a Canicattì, o ancora il palazzo Zuccarello a Catania dove applica le variabili del prospettivismo. Del 1914 è la redazione di diversi progetti: un grande albergo in città, un kursaal con stabilimento balneare nel lido di Catania de La Plaja e, nella stessa città, una clinica ginecoiatrica e la villa Casavola, il cui progetto viene da lui ripreso nel 1915, anno che si chiude con due cappelle funerarie, di cui una per la famiglia23, e il progetto per un palazzo da pigione ancora per la famiglia. La ripresa dell’attività nel 1919, a guerra finita, vede la redazione del progetto per il Palazzo delle Poste di Catania (che verrà però ultimato solo nel 1929) dove, al di là dell’iperdecorativismo delle facciate, si riconosce nella corte l’avvenuta scelta verso una modernità che nasce nella continuità degli insegnamenti accademici: grande equilibrio e sviluppo di volumi e repertori nel solco dell’Arte Nuova verso il Déco. L’utilizzo dell’elemento a torre, ascendente — come nel caso del Palazzo delle Poste di Siracusa del 1922 — resterà caratteristico del suo operare fino alla fine degli anni 1930, vuoi coperto da semplice cupola estradossata, come nella sua “casa in campagna”, vuoi con semplice belvedere coperto a traliccio (un’“altana in ferro” — “aereo accento sulla frase architettonica”) come nella casa Messina nota come “casa sulla lava” (e lì sopra effettivamente costruita), oppure con tetto ad ombrello, come appunto nel Palazzo delle Poste di Siracusa. L’estrusione di volumi e masse architettoniche compare in altre forme nel nitido e articolato prospetto posteriore dell’Istituto Commerciale di Catania (1926), nel volume massiccio con cupola della cappella gentilizia Fortuna nel cimitero di Catania, o nel gioco forte dei chiaroscuri ancora nella sua “casa in campagna” (1929): “essa sorgerà — scrive Fichera — su un cocuzzolo di lava — strapiombante sulle vigne — sulle cui pendici faticosamente si arrampicano l’agave, la ginestra e l’opunzia (che io mi guarderò bene dal molestare) […] Ho piantato un massello cubico a pareti strapiombanti sul cocuzzolo lavico, e al di sopra di esso ho posto una corona di pilastri cinti e chiusi da una cupola”24 e nel giardino, dove è un sedile circolare intorno ad un grande castagno ai piedi della casa, si sviluppa la scala-belvedere. Nel 1929, dell’esperienza progettuale per la realizzazione della propria casa in città scrive:
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F. Fichera, Sport Club, Catania, 1913 (da L’Architettura Italiana, 9, 1913, novembre, p. 21)
pagina a fronte F. Fichera, Istituto Tecnico Commerciale G. De Felice, Catania, 192629, prospetto posteriore (da L’Architettura Italiana, 26, 1931, marzo, tav. X)
non rumore ma melodia; non tecnicismo ma genialità; non caricatura ma humour. […] Ho messo una finestra, una porta, un incavo, dove mi servivano; ho aperto un terrazzo per godermi il panorama dell’Etna; ho innalzato al di sopra del livello ordinario le finestre dei corridoi per servirmi della parete inferiore adattandovi i mobili; ho aggiustato la irregolarissima area del giardino creando degli sfondi speciali in rapporto ai punti di vista più importanti della casa25.
Dopo la presenza in diversi numeri delle riviste italiane specializzate con singole opere26, è Marcello Piacentini che nel giugno 1930, pubblica su Architettura e Arti Decorative27 il saggio illustrato dal titolo “Francesco Fichera, architetto siciliano” (pp. 433-460), un lavoro monografico teso ad illustrare il profilo dell’architetto attraverso le opere con riprese fotografiche di qualità e angolazioni “moderne”. Nello stesso anno, la rivista Rassegna della Istruzione Artistica pubblicava una scelta di opere dell’architetto con un articolo dal titolo “Architettura d’oggi. Francesco Fichera” a firma di Francesco Sapori28. Un anno dopo, nel marzo 1931, l’apertura della Mostra romana di architettura razionale e l’ostensione della Tavola degli orrori ideata da Pier Maria Bardi, interrompono — come era nelle prevedibili intenzioni degli autori — il programma pubblicistico per le opere di quegli architetti che avevano trovato posto nella Tavola29. Francesco Fichera è tra questi; tre sue opere sono state poste in bella vista: il modello del progetto redatto insieme ad Arturo Dazzi per la partecipazione al concorso per il monumento ai caduti di Palermo del 1924 (che può essere ancora oggi considerata la sua più infelice prova), il Garage Musmeci a Catania del 192430 e il Palazzo delle Poste di Catania terminato nel 1929. L’episodio configura l’antefatto a cui ricondurre parte della successiva pubblicisti-
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ca patrocinata da Piacentini per la rivalutazione dell’opera Fichera a far data dallo stesso anno dell’esposizione. Il saggio di Piacentini del 1930, infatti, sarà subito ripubblicato come testo di accompagnamento del volume monografico del 1931, edito però a Ginevra dalla casa editrice Maestri dell’architettura (con il testo rivisto e accompagnato dalla traduzione in lingua francese). Quale suo sostenitore ed estimatore Piacentini ne aveva già sintetizzato i principi progettuali scrivendo: “Egli ha, quindi, abbandonato la retta per lo spazio”. Più avanti, gli attribuiva forti affinità con i “fermenti spirituali” che avrebbero portato al rinnovamento in Italia: “ricerca di forme sintetiche; chiarezza e potenza di pensiero raccolte in semplicità di forme; impostazione della composizione nella planimetria; espressività attraverso le masse, i rapporti di vuoto e pieno, il chiaroscuro”31. È ancora Piacentini che nel gennaio del 1932, nel prendere la direzione della rivista Architettura (rifondata dalla più antica Architettura e arti decorative), con chiara evidenza fa riferimento all’intenzione di documentare le diverse tendenze che manifestano “il nuovo”: Siamo oramai d’intesa sui nostri desideri. Noi tutti vogliamo un’architettura modernissima, concorde con le aspirazioni politiche, sociali, civili dell’Italia d’oggi, concorde con i sentimenti, i gusti, i sistemi di vita attuali, concorde con i mutati mezzi d’opera, con i nuovi materiali. Le manifestazioni artistiche di queste volontà sono molto diverse: chi, maggiormente ardito e insofferente, si sentirà spinto verso forme più assolute e universali, chi, più riflessivo e nostalgico, farà germogliare il fiore novello dal vecchio ceppo32.
Le conseguenze della polemica sorta nel 1931 sono larvatamente denunciate sia nello stesso numero, con una Nota del Redattore nella rubrica dal titolo Commenti e polemiche dedi-
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F. Fichera, Villa sull’Etna, Nicolosi, Catania, 1929, piante della prima e della seconda elevazione (da La Casa Bella, 9, 1931, giugno, p. 10)
pagina a fronte F. Fichera, La mia casa di campagna, Catania, 1929, prospettiva (da Architettura e Arti Decorative, 9, 1930, giugno, p. 453)
cata ai risultati del concorso per “Il nuovo edificio del R. Istituto Tecnico e del R. Liceo scientifico in Siracusa”, sia nel numero del mese di giugno 1932 dove sarà pubblicato il progetto di Fichera; l’articolo (sempre firmato Nota del Redattore) “Risveglio architettonico in Sicilia” si apre infatti con tre opere di Fichera (la sua casa di campagna e i progetti per l’Istituto Tecnico e Scientifico di Siracusa e per la casa Toscano-Lofò a Catania)33. Il 1931 resterà per Fichera uno spartiacque; un anno in cui egli visse “tragicamente, in un pelago doloroso” come scrive Piacentini; un anno a partire dal quale, e fino almeno al 1935, le sue opere non vedranno esecuzione. Gravato da una non mai immaginata presenza tra gli orrori della Mostra dell’architettura razionale italiana, sarà sempre Piacentini che ne delineerà ancora, nel 1935 prima e nel 1939 poi34, un nuovo profilo, umano e professionale, a scongiurare inutilmente la sorte, che gli toccò per avventura, di rappresentare per tutto il Novecento l’emblema del decorativismo ossessivo con l’arco monumentale ideato nel 1924 insieme allo scultore carrarese Arturo Dazzi, monumentalista per commissione e vocazione35. Nel giugno 1931, sotto la direzione di Gio Ponti, la rivista Domus — che aveva già pubblicato un articolo di Alberto Francini sulla “casa sulla lava” nel 1928 — si era pronunciata a favore di Fichera pubblicando a firma di Eugenio Giovannetti un breve articolo (“Villa sull’Etna”) sulla sua “casa di campagna” il cui esordio è particolarmente significativo del clima creato dal collage degli orrori presente nella mostra:
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F. Fichera, Villa sull’Etna, Nicolosi, Catania, 1929, veduta dell’opera appena realizzata (da La Casa Bella, cit., p. 10)
pagina a fronte F. Fichera, La casa sulla lava, Catania, 1926-27, veduta da sud (da Architettura e Arti Decorative, 9, 1930, giugno, p. 446)
Rendo ben cordialmente quest’omaggio a Francesco Fichera, come un atto di giustizia dovuto al più cavalleresco degli avversari, ad uno schietto poeta della forma, modernissimo malgrado tutto. E sono ben sicuro che il giorno in cui l’architetto e lo storico della settecentesca Catania si decidesse ad abbandonare la potenza leggiadra della forma per l’organicità gioiosa della conformazione, egli saprebbe dare all’architettura razionale cose non meno schiettamente personali di quelle che sa dare ora ad un’architettura tradizionale intesa in perfetto spirito novecentesco36.
Egli credette, come il suo maestro palermitano, di poter essere un anello della catena del rinnovamento, né sapeva se la sua era nuova architettura. Guardando con ammirazione al Rinascimento non poté che utilizzare, ma anche con molta misura, elementi di “stile” che dessero espressività ai bianchi intonaci e ai volumi, squadrati, sferici o variamente ritagliati. Nella pratica, però, rimarrà sempre debitore dell’attrazione che esercita su di lui la tradizione settecentesca della Sicilia orientale, di quel Vaccarini, al quale dedicherà un volume monografico e alla cui casa saprà ispirarsi nel realizzare la sua casa in città. “Questo figlio spirituale del Settecento catanese — conclude Giovanetti su La Casa Bella — ha capricci ciclopici ed è capace di levare masse immani e di farle volteggiare con una giovinezza aerea che sa di mito e di macchina ad un tempo”37. Forse senza averne esattamente coscienza, Giovannetti ascriveva le aspirazioni di Fichera a un’epoca più remota, dove slancio, altezza, velocità e nuovi materiali erano stati gli elementi dominanti dell’invocazione al rinnovamento, quei principi che avevano innervato, prima della grande guerra, le dichiarazioni sulla “nuova architettura”.
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Note 1 Figlio di Filadelfo Fichera (Catania 1850-1909) — docente presso l’Ateneo di Catania e stimato architetto, noto soprattutto per i suoi progetti nel settore dell’Ingegneria sanitaria e per le applicazioni nel campo della rappresentazione e analisi del territorio — Francesco si laurea nel 1904 presso la Regia Scuola di Applicazione per gli Ingegneri di Roma con un progetto di “grande galleria per una metropoli”; nel 1906 si laurea in Architettura a Palermo presso l’Accademia di Belle Arti con Ernesto Basile redigendo un progetto di “tribune per ippodromo”. Rientra a Catania dopo avere collaborato con Basile e nel 1909, per la morte del padre, ne eredita lo studio professionale e si fa carico del completamento delle opere rimaste incomplete, tra cui il complesso neogotico dell’“ospizio e ospedale” dell’Istituto dei Ciechi Ardizzone-Gioeni di Catania inaugurato alla presenza del Re nel 1911. 2 Un estratto della rivista con l’articolo di Fichera stampato a Roma dalla Direzione della Nuova Antologia nel 1915, con dedica autografa a Giulio Ulisse Arata, si trova nella biblioteca di quest’ultimo, oggi conservata nel Fondo Arata presso il Collegio Alberoni di Piacenza (si veda la nota 20). 3 Si allude qui al “paroliberismo”, ben più radicale e ideologicamente caratterizzato, di cui il siciliano Guglielmo Jannelli aveva pubblicato i principi nell’articolo “Vocale — ambiente in libertà” nel numero della rivista La Balza, stampato a Messina il 10 aprile 1915, che faceva seguito al manifesto tecnico della letteratura futurista di Filippo Tommaso Marinetti del 1912 e alla Distruzione della sintassi dello stesso autore del 1913. Più tardi, ancora Jannelli, con Luciano Nicastro (entrambi direttori della rivista insieme a Giovanni Di GiacomoVann’Antò), pubblica in forma di manifesto l’articolo “Il carnevale futurista del mondo”, carnevale futurista del 1916 (firmato futuristi al fronte), L’Italia futurista, 1, 1916, n. 12, p. 1. 4 F. Fichera, “L’Arte di ‘dopo la guerra’”, Roma, settembre 1915, L’Architettura Italiana, 11, 1915, n. 1, pp. 1-2. Una prima analisi dell’articolo si trova in E. Sessa, “Salvatore Cardella e il Futurismo in Sicilia”, in Il Manifesto dell’architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità, a cura di M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi, Mantova, Universitas Studiorum, 2014, pp. 137-158: “Fichera si fa portavoce di una “volontà” di oggettività tettonica intesa come espressione di un “ritmo universale” e comune denominatore fra le singole “evoluzioni nazionali”. Pertanto esalta il valore del cemento armato quale strumento di un nuovo principio dell’ordinamento architettonico. Un ordinamento votato alla assoluta identità di forma e tecnica per il quale il carattere della fabbrica architettonica doveva essere pura espressione di un “organismo costruttivo”. Nel corso di questi ragionamenti, in bilico fra aspirazioni protorazionaliste e richiami alla mitologia tecnicistica del futurismo (quest’ultima certo intonata al timbro interventista dell’articolo), Fichera azzarda una definizione per la possibile filiazione italiana, o forse mediterranea, delle ipotesi di questa riformata cultura del progetto tardo modernista: “la più italica delle architetture” si sarebbe chiamata Architettura del Sole, perché il sole vi penetrerà da ogni dove, per ogni dove, portandovi la gioia della vita” (p. 141). 5 F.T. Marinetti, In quest’anno futurista, Milano, 29 novembre 1914, Milano, Direzione del Movimento futurista, 1914. Si veda anche dello stesso autore la raccolta Guerra, sola igiene del mondo, Milano, Edizioni futuriste di poesia, 1915. 6 F.T. Marinetti, “Parole in libertà”, in Distruzione della sintassi/Immaginazione senza fili/Parole in libertà, Milano, 11 maggio 1913, Milano, Direzione del Movimento futurista, 1913. 7 Fichera, op.cit. 8 Ibid. 9 Si veda, per tutti, Il Dizionario del Futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze, Vallecchi-MART, 2001, 2 voll. 10 A. Sant’Elia, L’architettura futurista. Manifesto, Milano, 11 luglio 1914, Milano Direzione del Movimento futurista, 1914; edito anche in Lacerba, II, 15, 1 agosto 1915. E continua: “La casa di cemento, di vetro, di ferro, senza pittura e senza scultura, ricca soltanto della bellezza congenita alle sue linee e ai suoi rilievi, straordinariamente brutta nella sua meccanica semplicità, alta e larga quanto più è necessario e non quanto è prescritto dalla legge municipale, deve sorgere sull’orlo di un abisso tumultuante: la strada la quale non si stenderà più come un soppedaneo al livello delle portinerie, ma si sprofonderà nella terra per parecchi piani, che accoglieranno il traffico metropolitano e saranno congiunti, per i transiti necessari, da passerelle metalliche e velocissimi tapis roulants”. 11 Si veda F. Tentori, “Le origini liberty di Antonio Sant’Elia”, L’Architettura. Cronache e storia, 2, 1955, luglio-agosto, pp. 206-208. Per i materiali d’archivio pubblicati nello stesso numero della rivista e relativi al fondo della Pinacoteca Civica di Como, si veda M.L. Casati, “I disegni di Antonio Sant’Elia della Pinacoteca Civica di Como. Spunti di riflessione per una migliore leggibilità dell’opera”, in Il manifesto dell’architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità, cit., pp. 47-72. 12 Ville e villette moderne, Torino, C. Crudo & C., 1912, tav. 77. 13 “Ospizio-Ospedale Ardizzoni-Gioeni pei ciechi in Catania (Ingg. Filadelfo Fichera e Francesco Fichera)”, L’Architettura Italiana, 7, 1911, n. 3, dicembre, pp. 29-30, tavv. XI-XII. Nello stesso anno era stato già pubblicato un articolo sull’inaugurazione dell’istituto alla presenza dei sovrani in un numero speciale de La Sicile Illustrée, dal titolo “La Sicilia Illustrata. Fascicolo dedicato alle grandiose feste di Catania”, 9, 1911, n. 6, pp. 20-23. Per un sommario delle opere di Fichera si vedano Francesco Fichera architetto, Mostra dei disegni 1900-1920, a cura di G. Pagnano, Catania, IDAU, 1976; R. Bossaglia, L’art déco, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 99-105; S. Polano,
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Guida all’architettura italiana del Novecento, Milano, Electa, 1991, pp. 534 e sgg., L. Sarullo, Dizionario degli Artisti Siciliani. Architettura, alla voce, a cura di U. Di Cristina e G. Trombino, Palermo, Editrice Novecento, 1993; M. Casciato, “Fichera Francesco”, Dizionario Biografico degli Italiani, Milano, Treccani, 1997, vol. 47, alla voce. 14 “Sanatorio Rindone in Catania (Arch. Francesco Fichera)”, L’Architettura Italiana, 7, 1912, n. 11, pp. 124-127, tav. XLIV; “Villino Simili in Catania (Arch. Francesco Fichera)”, ivi, 8, 1912, n. 1, p. 2, tavv. I-II. 15 Al di là della sua occasione di esordio, sempre considerata alla luce del manufatto progettato dal padre diversi anni prima, un episodio a parte è rappresentato dalla villa “La Ghirlandina” pubblicata nel 1913. La casa a tre piani, con portici, serra, terrazze, con la quale Fichera partecipa al concorso sarà da lui rivisitata e pubblicata per la prima volta ne L’Architettura Italiana del 1913 e quindi riproposta nel 1918 da Giulio Ulisse Arata nelle pagine della Rassegna d’Arte Antica e Moderna. Il progetto era stato redatto in occasione della sua partecipazione al concorso per il Pensionato Artistico Nazionale che prevedeva l’assegnazione di una borsa di studio biennale a Roma. Dei laureati in architettura dell’Accademia di Belle Arti di Palermo concorrono Enrico Calandra (Caltanissetta 1877-Roma 1946), Francesco Fichera e Giovanna Campisi. “I due concorrenti siciliani — intendendo Calandra e Fichera passati al primo turno, scrive Barbara Berta — sono piuttosto omogenei nello stile scelto, entrambi guardano all’architettura di Hoffmann e Olbrich, probabilmente grazie alla lezione di Basile”. La contesa nazionale si svolge infine, su invito, tra Fichera e il fiorentino Giuseppe Boni; i due concorrenti, la cui produzione successiva presenta molti punti di contatto, saranno infatti chiamati allo svolgimento della seconda prova ma infine la borsa di quell’anno non verrà assegnata. Si veda B. Berta, La formazione della figura professionale dell’architetto. Roma 1890-1925, tesi di dottorato, tutor: prof. Vittorio Franchetti Pardo, prof. Maria Luisa Neri, Università degli Studi di Roma Tre, Dipartimento di studi Storico-artistici, Archeologici e sulla Conservazione, Dottorato in Storia e conservazione dell’oggetto d’arte e di architettura, XX ciclo, 2005, pp. 112-113. 16 “Padiglione dell’Esposizione Edilizia di Messina”, L’Architettura Italiana, 9, 1914, n. 11, agosto, pp. 126-127. L’Esposizione Edilizia di Messina conteneva, oltre a sezioni sui nuovi materiali e tecniche costruttive in terreni sismici, anche una sezione dedicata alle case della ricostruzione e una sezione storica sull’urbanistica e l’architettura delle città italiane colpite dal terremoto del 1908. Una descrizione del complesso dell’esposizione si trova in Rassegna Siciliana. Vita e arte, 1, 1914, n. 1 (si stamperà a Catania e si chiuderà nel 1915, con la morte in guerra del suo direttore). 17 Per lo Sport Club si veda: E. Sessa, “Le variabili dell’orientalismo nella cultura architettonica della società siciliana fra eclettismo e déco”, in L’orientalismo nell’architettura italiana tra Ottocento e Novecento, a cura di M.A. Giusti, E. Godoli, Firenze, maschietto&musolino, 1999, pp. 163-176. 18 Fino al 1915, anno della sua “dichiarazione”, Fichera ha quindi al suo attivo una considerevole attività progettuale e numerose opere realizzate, oltre alla partecipazione all’Esposizione di architettura di Lipsia del 1913 (quella per la quale Bruno Taut e Franz Hoffmann avevano realizzato il Padiglione dell’Associazione tedesca delle industrie dell’acciaio). L’Esposizione di Architettura di Lipsia venne recensita da Marcello Piacentini, che la aveva visitata nel corso di un suo viaggio in Germania, pubblicandone le impressioni nell’Annuario d’Architettura del 1914, per conto dell’Associazione Artistica fra i Cultori di Architettura di Roma; cit. in Marcello Piacentini architetto, 1881-1960, a cura di G. Ciucci, S. Lux, F. Purini, Roma, Gangemi Editore, 2012. All’Associazione aveva aderito anche Ernesto Basile nel 1891, al momento della sua istituzione. 19 G.U. Arata, “Un geniale artista siciliano. L’architetto Francesco Fichera”, Rassegna d’arte antica e moderna, 5, 1918, vol. 2, fasc. V-VI, pp. 49-62. La rivista proprio in quegli anni guadagnava Enrico Mauceri, poi direttore del Museo Nazionale di Messina, come corrispondente per la Sicilia. Per notizie sulle opere di G.U. Arata e per quanto conservato nel suo archivio e nella prestigiosa biblioteca si veda: Giulio Ulisse Arata, 1881-1962. Architetture in Emilia Romagna, a cura dell’Ordine degli Architetti delle provincie di Piacenza, Parma, Bologna, Ravenna, Piacenza, Giovanni Marchesi Editore, 1912. 20 Per la vita e le opere di Ernesto Basile si veda, per tutti: E. Sessa, Ernesto Basile. Dall’eclettismo classicista al modernismo, Palermo, Editrice Novecento, 2002. 21 Arata, op.cit. 22 Ivi, pp. 13 e sgg. 23 In una foto della cappella funeraria, intitolata “Ai miei morti”, Fichera aggiunge più tardi di mano propria l’epigrafe “Le ceneri del 1915”, forse un olografico richiamo alle aspirazioni enunciate ne “L’arte di ‘dopo la guerra’”, cit. 24 Rip. da M. Piacentini, “Francesco Fichera, architetto siciliano”, Architettura e Arti Decorative, 9, 1930, fasc. X, pp. 433-460, in part. p. 454. Per le case progettate da Fichera per se stesso si veda R.A. Spina, “‘Da me per me’. Le residenze di città e di campagna di Francesco Fichera”, in Dispar et unum. 1904-2004. I cento anni del Villino Basile, a cura di E. Mauro, E. Sessa, Palermo, Grafill, 2006, pp. 256-262. 25 Ivi, p. 450. 26 Sotto la direzione di Gio Ponti, sulla rivista Domus era apparso l’articolo di A. Franchini, “La ‘casa sulla lava’ architettata da Francesco Fichera” (1, 1928, n. 6, pp. 12-15); nei numeri di gennaio, luglio e novembre 1929 Francesco Fichera era comparso ancora nella rubrica “Pavimenti” (gennaio, p. 32 e luglio, p. 32) con le immagini dei pavimenti a mosaico della Villa Inga nel Lido d’Albaro a Genova, mentre l’intera villa viene pubblicata nel novembre con l’articolo di E. Lancia, “Un giardino in Genova” (pp. 14-15); nel 1930 (ottobre) compare nella rubrica redazionale “Caratteri di architetture contemporanee” con diverse immagini dell’Istituto Tecnico Commerciale di Catania (pp. 19-20).
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Piacentini, “Francesco Fichera, architetto siciliano”, cit. La testata Architettura e Arti Decorative sarà modificata nel gennaio 1932 in Architettura. Rivista del Sindacato Nazionale Fascista Architetti e stampata, sempre a Milano, dai Fratelli Treves invece che da Bestetti e Tumminelli. 28 F. Sapori, “Architettura d’oggi. Francesco Fichera”, Rassegna della Istruzione Artistica, 1930, n. 8, pp. 451460. 29 Oltre a quanto pubblicato da M. Cennamo, Materiali per l’analisi dell’Architettura moderna. La prima esposizione italiana di Architettura Razionale, Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 1973, si veda anche sull’argomento R.A. Spina, Il Tavolo degli Orrori. Architettura in Sicilia tra le due guerre, modernità e tradizione, Catania, Prova d’autore, 2001. 30 “Garage Musmeci in Catania (Arch. Francesco Fichera)”, L’Architettura Italiana, 19, 1924, n. 6, pp. 61-63, tavv. XXI, XXII. 31 M. Piacentini, Francesco Fichera, Ginevra, Maestri dell’architettura, 1931, p. IX. 32 Id., “Il nostro programma”, Architettura, 11, 1932, n.1, p. 1. 33 “Risveglio architettonico in Sicilia”, ivi, 11, 1932, n. 6, pp. 275-288. L’articolo si apre con un cenno polemico rivolto alla mancata realizzazione del progetto di Fichera per il concorso dell’Istituto Tecnico di Siracusa che, a seguito dell’esclusione del progetto vincitore, avrebbe dovuto essere realizzato per aver ricevuto il secondo premio. 34 “Progetto del Palazzo delle Poste e Casa del Littorio a Noto. Arch. Francesco Fichera”, Architettura, 14, 1935, n.12, pp. 668-670; M. Piacentini, “Recenti opere di Francesco Fichera”, ivi, 18, 1939, n. 10, pp. 589-606. 35 Nel 1915 lo stesso Fichera aveva criticato aspramente il Monumento della battaglia delle Nazioni contro Napoleone del 1813, iniziato a Lipsia nel 1897 e terminato appena due anni prima: “uno spaventoso ammassamento di pietre; un tempio cartaginese difeso da otto giganteschi guerrieri” che “più che commemorare la battaglia delle nazioni, la annunziava”. Monumentalità e fuori scala che perseguite poi nel 1924 gli costeranno anni di amarezze. 36 E. Giovannetti, “Villa sull’Etna”, La Casa Bella, 9, 1931, n. 42, pp. 10-15. 37 Ivi, p. 11. 27
visioni futuriste e utopie urbane. antonio sant’elia e il manifesto l’architettura futurista nelle storie dell’architettura Monica Manicone
È opinione consolidata che l’architettura futurista abbia contribuito a porre le basi per l’architettura moderna, ma le interpretazioni degli storici hanno cambiato prospettiva e si sono modificate negli anni. Essa, infatti, ha talvolta ottenuto giudizi limitativi prima di vedersi riconosciuto il suo ruolo fondamentale per la cultura architettonica. Attraverso una rilettura parziale e per sommi capi della storia della critica architettonica è possibile seguire l’alternarsi di tali letture. Inizialmente il Futurismo architettonico non fu inteso come un nodo centrale nelle vicende dell’architettura italiana. Nonostante l’originalità, l’architettura futurista fu considerata incapace di lasciare segni permanenti, tanto più perché ebbe relativamente breve durata: il primo Futurismo si può considerare concluso già tra il 1916 e il 1917 per dissolversi, infine, con la morte di Filippo Tommaso Marinetti (1944) e la conclusione della seconda guerra mondiale (1945). La distanza temporale ravvicinata tra gli eventi e il giudizio storico su questi può essere considerata una causa di malintesi e visioni anche errate, come d’altra parte un motivo ulteriore è la partecipazione di alcuni suoi membri al fascismo e l’affinità di alcuni temi del Futurismo al movimento politico — la rottura violenta con la tradizione, l’elogio della forza, la celebrazione della guerra, l’esaltazione del nazionalismo, l’interventismo. Per alcuni storici il Futurismo in architettura non raggiunse la completezza che ebbero invece altri movimenti anche a causa della morte prematura, a soli ventotto anni, di Antonio Sant’Elia, architetto tra le figure di rilievo del Futurismo. Nel secondo Novecento l’attenzione storiografica di autorevoli autori — Maurizio Calvesi, Luciano Caramel, Alberto Longatti, Luciano Patetta, Virgilio Vercelloni, Ezio Godoli, Luciano De Maria, Mario Verdone, Enrico Crispolti, Claudia Salaris, Giordano Bruno Guerri, per citarne alcuni — per il Futurismo ha richiamato l’interesse artistico-sociale verso di esso, correggendo le interpretazioni riduttive se non errate, come quella che lo vede legato al fascismo, rifiutata da Calvesi e l’altra polemica — la non appartenenza di Sant’Elia al Futurismo — mossa a metà degli anni 1950 da Giovanni Bernasconi e Bruno Zevi e contestata da Calvesi, Longatti, Reyner Banham. La rilettura cominciò tra la fine degli anni 1950 e l’inizio dei 1960, quando, a cinquanta anni dalla fondazione del Futurismo, sulla scia degli Archivi del futurismo raccol-
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ti e ordinati da Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori nel 1958, si susseguirono le iniziative che rilanciarono la ricerca sull’attività futurista. Nel 1926 il Gruppo 7 prendeva le distanze dall’architettura futurista esprimendo la propria posizione critica attraverso le pagine della rivista Rassegna Italiana1. Il Gruppo dichiarò che le esperienze futuriste e le prime cubiste avevano deluso il pubblico che invece si aspettava risultati maggiormente convincenti date le premesse. Inoltre, l’esperienza futurista per i componenti del Gruppo 7 sembrava già lontana e “romantica”. Erano gli anni in cui Marinetti era impegnato nella celebrazione di Sant’Elia, culminata nella mostra a Como del 1930, gli stessi in cui veniva fondato il Miar (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale) e venivano inaugurate la prima (1928) e la seconda (1931) Esposizione italiana di Architettura Razionale. Nel 1934 Le Corbusier, invitato da Pietro Maria Bardi e Massimo Bontempelli a tenere due conferenze al Circolo delle Arti e delle Lettere di Roma, affermò che il cubismo in Francia e contemporaneamente il Futurismo in Italia avevano rappresentato un “grande momento di costruzione spirituale” che determinò una nuova coscienza moderna2. I disegni di Sant’Elia rappresentavano edifici monumentali, stazioni, centrali elettriche, ponti affrontando la sfida di una architettura fondata sulla funzionalità delle strutture, sull’uso di nuovi materiali come il cemento armato, il ferro e il vetro, sulla verticalità degli edifici, sulla velocità e sulla simultaneità e ponendo al centro dell’attenzione la città come spazio privilegiato della modernità. Nel suo scritto per il catalogo della mostra Nuove Tendenze e nel successivo Manifesto dell’architettura futurista, l’architetto comasco dichiarava una rottura con l’architettura tradizionale e con il decorativismo di fine Ottocento — dal Liberty milanese e dalla Wagnerschule che in quegli anni influenzava non solo la cultura architettonica dei paesi appartenenti all’impero asburgico ma di tutta l’Europa — pur confermando alcuni dei principi modernisti. Affermava, attraverso proclami di spiccata forza innovativa, la necessità di inventare la città e la casa futurista esaltando la tecnologia. Un’“architettura del calcolo” e “della semplicità”, quella proposta dal Manifesto, con “l’uso razionale e scientifico del materiale” per una “casa futurista simile a una macchina gigantesca”3 che influenzerà in seguito le altre avanguardie e il Movimento Moderno, anticipando, in qualche modo, la machine à habiter di Le Corbusier. Sant’Elia fu un precursore e, in quanto tale, “accenna e non svolge”, scrisse Giulio Carlo Argan in un saggio inserito nella raccolta Dopo Sant’Elia, pubblicato dall’Editoriale Domus nel 1935. Secondo Argan l’interesse dell’architetto comasco nello svolgimento dell’architettura contemporanea era dovuto al suo contenuto polemico e perciò l’attenzione nei suoi confronti andava rivolta alla teoria piuttosto che ai suoi progetti4. Nel 1936 Antonio Sant’Elia veniva citato nei Pionieri del Movimento Moderno di Nikolaus Pevsner soltanto nelle note. Lo stesso autore molti anni dopo — nella nuova edizio-
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pagina precedente Maria Drudi Gambillo Teresa Fiori, Archivi del futurismo, Roma, De Luca Editore, 1958, copertina
pagina a fronte Quadrante, 1934, n.13, copertina
ne Pelican pubblicata nel 1960 — spiegò che l’omissione era dovuta al fatto che quando aveva scritto il suo libro l’architettura del razionalismo e del funzionalismo erano al loro apogeo in molti paesi e che, mentre non si metteva in discussione il ruolo di Frank Lloyd Wright, Tony Garnier, Peter Behrens, Adolf Loos, Walter Gropius come iniziatori dello stile del secolo, le creazioni di Sant’Elia erano considerate delle opere fantasiose5. Pochi anni dopo, inoltre, scrisse anche che il ruolo dell’Italia era rimasto secondario fino al 1909 sia in architettura sia nella pittura e nella scultura e che a risollevarlo dalla marginalità fu proprio il Futurismo, “uno dei movimenti costitutivi che diedero l’avvio al secolo XX, nel pensiero estetico, nella pittura e nell’architettura. Senza Marinetti, Boccioni, Sant’Elia, non si può definire l’inizio del Novecento. Purtroppo lo scoppio della guerra e la morte prematura di Sant’Elia, nel 1916, impedirono che si costruisse praticamente qualcosa”6. Per Pevsner, quindi, il Futurismo fu anche l’unico contributo originale italiano ai movimenti europei d’avanguardia ma fu spesso “confuso nei risultati” per quanto “dirompente nelle intenzioni”7. Nel 1941 Sigfried Giedion, ricordando in Spazio, tempo, architettura il breve periodo di attività dei futuristi, scrisse che il loro movimento non ebbe la possibilità di accumulare i risultati della ricerca artistica affinché potessero apparire “unificati e pieni di energia in una singola opera importante” come fu ad esempio Guernica per il movimento cubista8. Henry-Russell Hitchcock, ne L’architettura dell’Ottocento e del Novecento, non si soffermò a lungo sul periodo futurista e sostenne che i progetti di Sant’Elia avevano rappresentato una notevole anticipazione della nuova architettura degli anni 19209. In nota, però, riportò che “se l’Espressionismo nell’architettura è un episodio difficile da definire nonostante gli effettivi risultati raggiunti da diversi degli architetti che vi sono stati coinvolti, una valutazione del futurismo è addirittura impossibile in quanto si è trattato di semplici proposte o intuizioni non realizzate. L’architettura moderna italiana a partire dagli anni 1930 non deriva dai progetti di Sant’Elia, molti dei quali solo ora vengono studiati”10. Infine, in un’altra nota, espresse il proprio parere sul legame che poteva intercorrere tra l’opera di Sant’Elia e quella di Le Corbusier ponendo il dubbio sulla possibilità che l’architetto franco-svizzero conoscesse i progetti “del brillante architetto italiano” e dichiarando che la sua estetica risente meno delle particolari forme che compaiono nei disegni di Sant’Elia e più delle aspirazioni futuriste alla velocità e al modernismo macchinistico11. In Italia, invece, Bruno Zevi affermò in Storia dell’architettura moderna che il Futurismo significò un nuovo impulso portando nuove problematiche ma che, pur generando una “violenta scossa psicologica nel letargo dell’architettura italiana”, fu subito superato e abbandonato. Per Zevi il Futurismo aveva avuto il coraggio di mettere in discussione l’autorità degli stili del passato ma, in sostanza, rimase una
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visione “aristocraticamente romantica” — lo stesso aggettivo scelto anni prima dal Gruppo 7 — che cadde nel vuoto di un generale disinteresse12. In particolare, secondo Zevi, gli elementi positivi apportati dal Manifesto non vennero approfonditi e i disegni “scenografici”, non essendo corredati di planimetrie, rimasero su carta13. Il giudizio di Leonardo Benevolo era per certi versi simile a quello di Zevi. Infatti, nella sua celebre Storia dell’architettura moderna, successiva di dieci anni, definì il Manifesto di Sant’Elia come il primo tentativo di trasferire in campo architettonico lo spirito rivoluzionario delle avanguardie ma aggiunse che esso risultava “manchevole e limitato agli enunciati verbali”14. Secondo Benevolo nonostante la cosciente volontà di rottura del Manifesto, le prospettive di Sant’Elia dipendevano dal repertorio art nouveau e l’audacia di queste visioni non riuscì a rompere i canoni prospettici tradizionali, come, al contrario, riuscirono le ricerche di Umberto Boccioni e Giacomo Balla15. È da notare che i disegni di Sant’Elia rappresentavano quasi sempre prospettive e che, in effetti, le visioni urbane degli architetti futuristi non erano corredate da planimetrie, piante e sezioni. La mancanza di tali disegni contribuì alle accuse mosse verso l’architettura futurista di non aver raggiunto risultati sufficientemente significativi. Le metropoli del futuro immaginate da Antonio Sant’Elia e Mario Chiattone, confrontate con le utopie urbane, rimanevano per certi versi incompiute, visioni urbane che non si trasformano in vere e proprie utopie. L’utopia, a differenza di tutte le altre categorie di anticipazione del futuro, si caratterizza per la definizione di un organizzazione sociale. Nel Manifesto non comparivano cenni ad una organizzazione sociale, né tanto meno indicazione di chi fossero gli abitanti della Città Nuova. Per capire a quale ideale di società si rivolgesse l’architettura futurista si deve fare ricorso al Manifesto del Futurismo del 1909. In questo testo Marinetti dichiarava che il Futurismo spingesse ad “inneggiare all’uomo che tiene il volante” e aggiungeva: “canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche”, e più avanti: “perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari”16. Inoltre, a differenza delle utopie urbane — realtà illusorie che esprimono ciò che oggi non è realizzabile ma che potrebbe esserlo un domani — l’incompletezza delle rappresentazioni visionarie futuriste faceva sì che mancasse una spinta realizzativa volta a una possibile concretizzazione dell’utopia attraverso un progetto. I progetti utopici prendono il via da una configurazione spaziale dell’edificato urbano per definirne poi gli elementi che lo costituiscono. Per Reyner Banham le prospettive della Città Nuova rappresenta-
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vano interessanti “disegni architettonici e urbanistici di fantasia”17. Cesare De Seta definì in seguito i disegni architettonici di Sant’Elia come delle “scene urbane senza scala”, prive di quegli elaborati tecnici che avrebbero consentito di parlare di progetto vero e proprio18. Dalle città ideali rinascimentali di Filarete (1460-1465), Francesco di Giorgio Martini (14701480), Fra’ Giocondo (1513), Girolamo Magi (1564), Giorgio Vasari (1598) e dagli studi per la città ideale di Leonardo Da Vinci (1488 circa) alle Saline di Chaux di Claude-Nicolas Ledoux (1771-1793), dalle utopie urbane socialiste ottocentesche che criticavano la nuova società industriale — i villaggi di New Lanark (1817) e New Harmony (1826) di Robert Owen, il Falansterio di Charles Fourier (1822) — a Vittoria, il modello di città di James Buckingham (1849), dalla Ciudad lineal di Arturo Soria y Mata (1882) alla Garden City di Ebenezer Howard (1898 e poi 1902), dalla Cité industrielle di Tony Garnier (1901-1917) fino ad arrivare alle più tarde Broadacre City di Frank Lloyd Wright (1932), alla Città per tre milioni di abitanti (1922) e alla Ville Radieuse (1933) di Le Corbusier, per fare alcuni esempi, le città ideali si configurano attraverso la rappresentazione di piante, sezioni, prospetti, prospettive. La mancanza di piante tra le immagini della Città Nuova si direbbe motivata dalla affermazione futurista secondo la quale ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città — inserita nel Manifesto da Marinetti e Decio Cinti, secondo quanto riportato da Carlo Carrà — una dichiarazione di caducità e transitorietà che riprende le idee di modernità di Charles Baudelaire, Georg Simmel, Friedrich Nietzsche e che vale quasi un rifiuto del tracciato urbano. Un rifiuto di una condizione di permanenza e continuità — se si considera la pianta come l’elemento generatore del progetto, “luogo dove si rappresenta l’identità sociale di una comunità insediata e dove si verifica la “necessità della forma” architettonica in quanto geometria condivisa”19 — ma anche la contestazione dell’ordinaria pratica architettonica. Dirà Argan che l’architettura futurista “è concepita al di fuori di definite esigenze pratiche, in vista di necessità psicologiche: e la maggior attività non è propriamente architettonica, ma essenzialmente scenografica”20. L’aspirazione ideale di Sant’Elia, secondo Argan, escludeva la possibilità della concretezza figurativa e questa aspirazione corrispondeva piuttosto alla aspirazione a una teoria dell’arte piuttosto che a un risultato artistico21. Per Guido Fiorini, invece, la “chiara idea” che guidava Sant’Elia nella visione delle sue architetture aveva reso possibile la mancanza di piante e sezioni in quanto tali disegni diventavano presenze “pleonastiche per la comprensione della disposizione interna, tanto questa traspare evidente dalla forma esteriore dell’edificio. Questi piccoli disegni prospettici sono perfettamente esaurienti”22. Manfredo Tafuri riteneva che buona parte dell’utopismo contemporaneo, il cui compito non assolto era quello di stimolare sperimentalmente la richiesta di una nuova struttura urbana in senso proprio, non era che la “amplificazione retorica del disordine e delle mitologie
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Giulio Carlo Argan e altri, Dopo Sant’Elia, Milano, Editoriale Domus, 1935, copertina
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contemporanee”23. Secondo Tafuri, infatti, il Futurismo italiano “mimava retoricamente un mondo già esistente” che veniva proiettato nel futuro solo a causa della arretratezza tecnologica ed economica del paese che ne rendeva impossibile la realizzazione24. Nel già citato Architettura della prima età della macchina, il britannico Banham affermò che il Manifesto dell’architettura futurista, con qualsiasi metro di giudizio storico lo si guardasse rappresentava un documento di indubbio valore, anche solo per essere stato concepito ai primi del 1914. Esso, infatti, “riunisce le cause remote e le nuove idee emergenti dell’epoca prebellica in una maniera che diverrà generale solo dopo la guerra, e, ciò che più importa, esso assume di fronte a queste cause un atteggiamento dettato da quelle nuove idee”25. Negli anni 1970, su una linea del recupero e della rilettura del Manifesto, Renato De Fusco sostenne che il Futurismo fu il primo vero e proprio movimento d’avanguardia e che ne incarnò tutte le caratteristiche: la rottura col passato, il macchinismo, gli atteggiamenti provocatori e dissacranti. Stando al Manifesto e agli “avvincenti” disegni di Sant’Elia, l’architettura futurista, secondo De Fusco, traduceva in “forme” e “idee architettoniche” le premesse generali del movimento. Allo stesso tempo, però, gli scritti e i disegni dell’architetto comasco valevano soprattutto per la loro storicità26. Per Kenneth Frampton il Futurismo era un “impulso” più che uno “stile” e, per tale motivo, non era subito chiara la forma che un’architettura futurista poteva assumere27, tanto più che gli schizzi di Sant’Elia per la Città Nuova risultavano incoerenti con i principi enunciati negli scritti: “mentre il Messaggio si pronunciava risolutamente contro tutta l’architettura commemorativa e, di conseguenza, contro tutte le forme statiche e piramidali, i disegni di Sant’Elia sono pieni di immagini monumentali di questo genere”28. Scriverà più tardi De Seta che la “breve ma intensa presenza” dei futuristi nella stagione artistica che precede la guerra “avrà effetti nell’architettura italiana, anche se gli esiti matureranno nel tempo e comunque con una risonanza — almeno per quanto riguarda Sant’Elia — di rilievo internazionale”29. In Sant’Elia, secondo De Seta, esisteva una “esplicita e forse inconsapevole ostentazione monumentale: la sua architettura si affaccia pittorescamente sull’orlo di un abisso, quell’abisso che è la nuova città futurista tumultuante di autostrade e rombante di automobili”30. L’inclinazione dell’architetto comasco per il “gigantismo della nuova città” è confermata — continua De Seta — da “tutte le sue immagini architettoniche, piene di fascino, certo, suggestivamente dirompenti rispetto ai modelli dell’urbanistica tardo ottocentesca, ma indissolubilmente legate a un fuori scala di sapore piranesiano” 31. Fortemente critico nei confronti del Futurismo è, invece, William J.R. Curtis. Per lo storico inglese, nonostante il Manifesto, non esistette una architettura futurista “in senso stretto” anche se le idee di Antonio Sant’Elia e alcune sue immagini sopravvissero nei circoli dell’avanguardia in Olanda, Russia, Germania, Francia. Per Curtis, comunque, “l’importanza del Futurismo
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Nikolaus Pevsner, Pioneers of Modern Design, London, Pelican Books, 1960, copertina Reyner Banham, Theory and Design in the first machine age, London, The Architectural Press, 1970, copertina
nella storia dell’architettura moderna è evidente: esso riunì una serie di atteggiamenti progressivi, posizioni anti-tradizionaliste e tendenze verso la forma astratta con la celebrazione di materiali moderni e l’indulgere in analogie meccaniche”32. Facendo un salto temporale e arrivando alle più recenti letture dell’architettura futurista, si può ricordare l’interpretazione di Marco Biraghi nella sua Storia dell’architettura contemporanea. In questo testo vengono messe in evidenza le contraddizioni e i contrasti presenti nelle architetture di Sant’Elia rispetto ai principi enunciati — l’autore sottolinea in particolare come l’idea che l’architettura si debba rispecchiare nelle condizioni della vita moderna costituisca uno dei tratti più caratteristici degli edifici rappresentati da Sant’Elia, edifici che evidentemente non potrebbero sorgere in altro luogo che in una metropoli e non potrebbero essere che realizzati con le tecniche più innovative, situazione però estranea a quella reale in cui si trovava l’Italia di quell’epoca. Biraghi, inoltre, ritorna ancora sulla influenza che hanno avuto la Secessione viennese e Joseph Ma-
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ria Olbrich in particolare, sui disegni santeliani33. È successiva di un anno la Nota di Luciano Patetta sul Manifesto della architettura futurista, pubblicata in occasione del centenario del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti. In questo breve testo l’autore torna su quelli che erano gli interessi iniziali del giovane Sant’Elia — la Secessione viennese, Otto Wagner, Gustav Klimt, i futuristi e i Fauves, Picasso e Braque, Apollinaire e Kandinsky — e sul lascito della sua opera — alcune intuizioni di Sant’Elia troveranno uno sviluppo molto importante nel Movimento Moderno a partire dal Programma del Bauhaus (1919) e nella produzione degli architetti razionalisti34. Di recente sulle influenze della architettura Liberty e su quella di Otto Wagner su Sant’Elia è nuovamente intervenuto anche Ezio Godoli, ricordando quanto sia una ovvietà che i suoi disegni risentissero e fossero condizionati dal gusto dominante di quel tempo e che perciò tale fatto non possa essere usato come prova per confutare l’originalità dell’opera santeliana35. Il Manifesto dell’architettura futurista, secondo Franco Purini, è uno “scritto fondamentale perché al di là della sua carica programmatica, del suo coinvolgente impeto argomentativo e della stringente concatenazione logica dei principi esposti è il modello moderno e contemporaneo di ogni visione avanzata della città”36. Del resto, scrive Jean-Louis Cohen, se le visioni di Sant’Elia “si sono concretizzate in molti progetti, realizzati o meno, a partire dagli anni 1960, non è per la loro forma grafica, bensì per i loro programmi e principi strutturali”37. Confermato il ruolo nodale dell’architettura futurista nella cultura architettonica del Novecento, l’auspicio è che in futuro il Manifesto dell’architettura futurista venga indagato proprio per comprendere a pieno questa influenza e per interrogarsi sulla sua attualità piuttosto che per dimostrare quanto il Futurismo e Sant’Elia fossero legati uno all’altro e in quale misura il movimento futurista avesse un posto di rilievo nella storia dell’architettura. D’altra parte, “l’avanguardia sceglie fin dall’inizio di vivere nella contraddizione, nella opposizione, nel dissenso, anche nella sconfitta […]. Di qui l’asprezza dei contrasti, le rotture insanabili, la rapida crisi nella quale incorrono molte esperienze. Ma […] senza avanguardia, del resto, non sarebbe comprensibile l’opera dei maestri del “movimento moderno””38.
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Note 1 Gruppo 7, “Architettura”, Rassegna italiana, 9, 1926, vol. 18, fasc. 103, pp. 849-854. 2 Le due conferenze, tenute il 9 e l’11 giugno 1934, furono originariamente pubblicate su Quadrante, 1934, n. 13, pp.6-17. Il testo può essere letto in Le Corbusier, L’unica verità dell’architettura, Roma, Castelvecchi, 2015. 3 A. Sant’Elia, L’architettura futurista. Manifesto, Milano, Direzione del Movimento Futurista, 11 luglio 1914. 4 G. C. Argan, “Il pensiero critico di Sant’Elia”, in G. C. Argan, C. Levi, M. Marangoni et al., Dopo Sant’Elia, Milano, Editoriale Domus, 1935, pp. 43-55. 5 N. Pevsner, Pionieri del Movimento Moderno da William Morris a Walter Gropius, Bologna, Calderini, 1960, p. XIV. 6 N. Pevsner, The Sources of Modern Architecture and Design, London, Thames e Hudson, 1968; trad. it. L’architettura moderna e il design. Da William Morris alla Bauhaus, Torino, Einaudi, 1969. 7 Vedi la voce “Futurismo” in N. Pevsner, J. Fleming, H. Honour, Dizionario di architettura, Torino, Einaudi, 1981. 8 S. Giedion, Space, Time and Architecture, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1941; trad. it. Spazio, tempo, architettura, Milano, Hoepli, 1953, p. 435. 9 H.-R. Hitchcock, Architecture: Nineteenth and Twentieth Centuries, London, Penguin Books, 1958; trad. it. L’architettura dell’Ottocento e del Novecento, Torino, Einaudi, 1971, p. 517. 10 Ivi, p.530. 11 Ivi, p. 512. 12 B. Zevi, Storia dell’architettura moderna, Torino, Einaudi, 1950, p. 224. 13 Ibid. 14 L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Bari, Laterza, 1960, vol. II., p. 495. 15 Ivi, p. 498. 16 F.T. Marinetti, “Manifeste du Futurisme”, Le Figaro (Parigi), 20 febbraio 1909. 17 R. Banham, Theory and Design in the First Age Machine, London, Architectural Press, 1960; tra.it. Architettura della prima età della macchina, Bologna, Calderini, 1970, p. 133. 18 C. De Seta, Architetti italiani del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 9 e 31. 19 R. Partenope, “Il disegno e l’artificio”, XY Dimensione del Disegno, 1995, n. 23-24-25, pp. 48-54. 20 G. C. Argan, “Il pensiero critico di Sant’Elia”, in G. C. Argan, C. Levi, M. Marangoni et al., Dopo Sant’Elia, Milano, Editoriale Domus, 1935, pp. 43-55. 21 Ibid. 22 G. Fiorini, “L’influenza mondiale di Antonio Sant’Elia”, Stile futurista, 1, 1934, n.4, p. 18. 23 M. Tafuri, Teorie e storia dell’architettura, Bari, Laterza, 1968, p. 117. 24 Ibid. 25 Banham, op. cit., p. 137. 26 R. De Fusco, Storia dell’architettura contemporanea, Bari, Laterza, 1974, p. 208. 27 K. Frampton, Modern Architecture: a Critical History, London-New York-Toronto, Oxford University Press, 1980; trad.it. Storia dell’architettura moderna, Bologna, Zanichelli, 1993, p. 90. 28 Ivi, p. 94. 29 C. De Seta, L’architettura del Novecento, Torino, Utet, 1981, p. 36. 30 Ivi, p. 38. 31 Ibid. 32 W. J. R. Curtis, Modern Architecture since 1900, London-New York, Phaidon, 1982; tra.it. L’architettura moderna del Novecento, Milano, Mondadori, 1999, pp. 109-111. 33 M. Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea, 1750-1945, Torino, Einaudi, 2008, vol. I, pp. 174-181. 34 A. Sant’Elia, Manifesto dell’architettura futurista. Nota di Luciano Patetta, Bologna, Ogni uomo è Tutti Gli Uomini, 2009. 35 E. Godoli, “Puntualizzazioni sull’opera di Antonio Sant’Elia e sul Manifesto dell’architettura futurista”, in Il Manifesto dell’architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità, a cura di M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi, Mantova, Universitas Studiorum, 2014, p. 30. 36 F. Purini, “Una ricorrenza”, in Antonio Sant’Elia Manifesto dell’architettura futurista Considerazioni sul centenario, a cura di F. Purini, L. Malfona, M. Manicone, Roma, Gangemi Editore, 2015, p. 13. 37 J.-L. Cohen, “Molto dopo — e prima Sant’Elia”, ivi, p. 109. 38 A. Muntoni, Lineamenti di storia dell’architettura contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 117.
back to the future. attualità del manifesto dell’architettura futurista di antonio sant’elia
Lina Malfona
Marty, you’ve gotta come back with me | Marty, devi tornare indietro con me Where? | Ma indietro dove? Back to the future! | Indietro nel futuro! Robert Zemeckis, Back to the Future, 1985
Il Futurismo italiano, movimento d’avanguardia sorto ai primi del Novecento grazie all’impulso di Filippo Tommaso Marinetti — autore del manifesto fondativo, pubblicato su Le Figaro nel 1909 — ha avuto in architettura diverse formulazioni teoriche1 ma L’Architettura Futurista. Manifesto, firmato di Antonio Sant’Elia e datato 11 luglio 1914, ripubblicato sulla rivista Lacerba il 1° agosto dello stesso anno, fu il documento ufficiale del movimento, nonché il primo proclama architettonico autodefinitosi manifesto2. Com’è noto, esso fu anticipato dal Messaggio di Sant’Elia del 20 maggio 1914, scritto che fu sottoposto ai tagli e alle interpolazioni di Marinetti prima di diventare il Manifesto. Il rapporto tra Sant’Elia e Marinetti è stato attentamente indagato da diversi storici, che hanno messo in evidenza quanto sia stato rilevante l’intervento del secondo nella stesura del documento, tanto che a lui sono stati attribuiti alcuni brani sostanziali3. Probabilmente è anche per questo motivo che, se si legge attentamente il Manifesto e si scorrono i disegni di Antonio Sant’Elia per La Città Nuova, disegni che ne accompagnavano la pubblicazione, si riscontra un’intrinseca contraddizione, nonché una certa incoerenza tra i due. Ma a ben vedere, proprio tale sottile incoerenza ha permesso al messaggio santeliano di essere ancora oggi attuale. Direzioni evolutive del Manifesto Doc, webetter back up. We don’t have enough road to get up to 88 (mph) | Doc, devi prendere più rincorsa. Non abbiamo abbastanza strada per arrivare a 88 Roads? Where we’re going we don’t need roads! | Strade? Dove stiamo andando non c’è bisogno di strade! Robert Zemeckis, Back to the Future, 1985
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Richard Buckminster Fuller (illustrazioni da 4DTimelock, 1928)
Lo scritto, firmato dall’architetto comasco a soli 26 anni, appare non solo come un’arma retorica di battaglia politica — come il Manifesto di Marx ed Engels (1848) — ma come un canto di protesta, carico di un “impeto blasfemo” necessario, secondo Bruno Zevi, “a smuovere le acque stagnanti dell’accademismo italiano”4. Nel Messaggio è possibile rintracciare il pensiero di Sant’Elia sull’architettura “nuova”, ancor prima che futurista. Esso esordisce con una considerazione sull’inutilità di effettuare un “rimaneggiamento lineare” dell’architettura, perché si è giunti al punto in cui la rivoluzione della tecnica impone un nuovo ideale di bellezza. Il cambiamento non richiede una “continuità storica”, perché la forza del mutamento che “scardina e rinnova” impone di ricominciare “da capo per forza”. Da questo inequivocabile enunciato, si passa a quella proposta che appare come il nucleo fondativo del manifesto o di quello che si configura, più propriamente, come un progetto-manifesto: “Noi dobbiamo inventare e fabbricare ex novo la città moderna, simile a un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte”. A tale affermazione segue la precisazione delle componenti, dei caratteri e delle funzioni di tale città: ascensori a vista che sostituiscono i corpi scala, case spoglie da decorazioni, uso
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di materiali nuovi, indicazioni sul trattamento di tetti, sotterranei, facciate, stratificazione del suolo. Ciò che trapela è dunque una visione urbana fondata su un preciso progetto e nuovi principi: equivalenza tra forma e struttura; negazione di norme e regolamenti impositivi; responsabile anarchia, arte per l’arte. Ma nonostante Sant’Elia enunciasse in maniera perentoria i principi della nuova architettura, Giulio Carlo Argan riscontrava nel Manifesto l’assenza di un programma figurativo5. A ben vedere, alla fine del proclama futurista, Sant’Elia sembra negare le affermazioni iniziali: egli dice di non voler creare alcuna “abitudine” figurativa, perché in fondo il carattere dell’architettura futurista è “transitorio” e si adatta al tipo di società che di generazione in generazione va delineandosi. La prefigurazione di un programma, dunque, contrasta col fatto che esso non possa essere reiterato, pena il suo fallimento teorico. Da un’architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare perché i caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città.
A questo punto, si potrebbe pensare che la mancata corrispondenza tra i disegni per la Città Nuova e il Manifesto sia un atto premeditato e che derivi dalla precisa volontà di Sant’Elia di non creare alcuna “abitudine plastica e lineare”. Forse Sant’Elia non voleva foggiare uno stile, forse non avrebbe voluto diventare un maestro. E probabilmente proprio questa assenza di legami di saldatura tra il manifesto teorico e l’espressione linguistica dei disegni di Sant’Elia ha permesso al suo insegnamento di generare non uno ma molteplici filoni di ricerca, contribuendo a far nascere non una scuola ma diverse tendenze architettoniche. La trasmissibilità dell’insegnamento, infatti, risiede nella molteplicità di spunti interpretativi che esso riesce a fornire, la cui forza si misura nella distanza critica che tali prodotti assumono rispetto all’insegnamento originario. Come dire, il potere di ispirare va oltre il potere di influenzare. Qual è dunque l’attualità di Sant’Elia? Quale il suo lascito? Se il Futurismo non può pienamente essere inteso come un’utopia, che secondo Karl Mannheim è “visione strutturale della totalità che è e diviene, trascendimento del puro dato, sistema di orientamento teso a rompere i legami dell’ordine esistente per riconquistarli a un più alto e diverso livello”6, tale movimento è certamente in linea con le altre avanguardie che “quanto più sottolineano la consistenza del reale come regno dell’assurdo, si rovesciano oggettivamente in anticipazioni ideologiche, in utopie parziali di piano”, secondo Manfredo Tafuri7. E all’interno dell’avanguardia futurista, Sant’Elia propone la visione utopistica di un’architettura che di epoca in epoca tesse un rapporto con la società da cui è prodotta, di cui esprime bisogni materiali e spirituali. Si tratta della prefigurazione di un’architettura che rispecchia i cambiamenti alle porte, che si caratterizza per la sua “rispondenza”8 estetica alla sensibilità di quella determi-
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Jan Kaplicky progetto di concorso per The Trafalgar Square Grand Buildings, 1985
nata società ma anche un’architettura dal carattere speciale, perché si adatta alle condizioni “speciali”9 che il progresso scientifico — fondato, secondo Thomas Kuhn, su cambiamenti di paradigma — di volta in volta propone. Sant’Elia è cosciente di trovarsi in un periodo di cambiamento epocale, un periodo in cui deve imporsi un’architettura nuova; non per questo, però, è pronto a definirla inequivocabilmente, a identificarla con una forma e quindi a rinunciare al suo carattere mutevole e per questo rivoluzionario. Il giovane architetto comasco anticipa una visione di città che non si è ancora pienamente realizzata, dove non solo le case ma anche il tracciato urbano potrà essere reinventato, sostituito o addirittura negato10. L’immagine futura della città sarà quindi, presumibilmente, quella di un nuovo campo marzio piranesiano, un territorio privo di un tracciato viario, che sarà sostituito prima da quello aereo, poi da quello immateriale delle reti. Siamo giunti dunque al culmine della profezia di Sant’Elia che, mentre disegna una città misurata da infrastrutture e “monumenti supertecnologici”11, teorizza urbanità progressive, mutevoli e cangianti, manifestando ancora una volta quel dissidio intellettuale tra teoria e pratica del progetto che caratterizzerà la sua opera. Il pensiero di Sant’Elia è dunque strutturale, la sua visione priva di pregiudizi di classe, le sue idee universali e futuribili.
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Dalla IV alla V dimensione. Il Manifesto e le tematiche post-futuriste Un momento, Doc, mi stai dicendo che hai costruito una macchina del tempo con una De Lorean? | Are you telling me that you built a time machine… out of a De Lorean? Dovendo trasformare un’automobile in una macchina del tempo perché non usare una bella automobile? | The way I see it, if you’re gonna build a time machine into a car, why not do it with some style? Robert Zemeckis, Back to the Future, 1985
Com’è stato interpretato, metabolizzato e anche distorto l’insegnamento di Sant’Elia? Tra le Avanguardie, il Futurismo è stato probabilmente il movimento più accentuatamente utopistico, provocatorio e rivoluzionario, tanto che non sorprende che i prodotti più arditi della cultura moderna derivino da esso12. Certamente non si può negare che le estetiche del vitalismo degenerarono nella follia della guerra e in posizioni politiche che appoggiarono il regime fascista, tuttavia non è possibile ignorare che movimenti come il Dadaismo e il Surrealismo affondarono le loro radici proprio nel Futurismo. Al fine di valutare le ricadute del pensiero di Sant’Elia sul progetto moderno e contemporaneo, risulta utile evidenziare quali aspetti del Manifesto siano stati approfonditi e quali tendenze della ricerca architettonica siano state ispirate da tale documento, che non è solo un manifesto ma anche un progetto, non privo di ambiguità, contraddizioni e questioni aperte. Di seguito sono esposte due linee della ricerca architettonica per così dire post-futurista: la prima è quella che ha approfondito le tematiche espresse nel manifesto, dando vita a un’idea di architettura dal carattere mobile, temporaneo e legato al mito della macchina13, mentre la seconda è quella che ha interpretato lo spirito dei disegni per la Città Nuova, per dar vita all’utopia della città-infrastruttura. L’immagine urbana più prossima alla profezia santeliana sembra essere quella della città giapponese, i cui edifici sono progettati per una vita media che non superi un quarto di secolo. Ciò deriva dall’antica pratica nipponica di realizzare quartieri per così dire portatili, che possano cioè essere facilmente smontati e ricollocati per le note ragioni di instabilità geologica e i frequenti incendi. Dopo i venticinque anni di età, infatti, i giovani edifici giapponesi vengono demoliti e ricostruiti, e anche i monumenti non sono risparmiati da questa procedura, così che ogni generazione possa fabbricarsi la propria versione temporanea del monumento stesso14. Un primo filone di ricerca può essere identificato, dunque, con l’architettura temporanea, intesa come dispositivo mobile e meccanico, flessibile e ampliabile15. Si pensi al concetto di machine à habiter, teorizzato da Le Corbusier e alle sperimentazioni pionieristiche sulle costruzioni in serie di Richard Buckminster Fuller, che peraltro affronta il tema nel suo manifesto, 4DTimelock (1928)16. Esso fu rilanciato nel periodo bellico con la costruzione di rifugi temporanei17 e negli an-
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pagina a fronte Michael Webb Furniture Manufacturers Association Building in High Wycombe, Regent Street Polytechnic, fourth year, 1957-58
ni 1960 con le sperimentazioni sugli abitacoli e le stazioni spaziali per l’allunaggio18. Si pensi, in particolare, alle architetture delle basi NASA progettate da Jan Kaplicky col suo team londinese Future Systems, sospese tra visione fantascientifica e perfezione dell’ingranaggio meccanico. A tal proposito, è interessante notare come Kaplicky, nel suo libro Confessions, associasse un disegno di Sant’Elia agli ultimi progressi della tecnica, della medicina, dell’ingegneria, dunque a immagini di grandi sale, capannoni industriali e scocche di aerei, in una riflessione sul rapporto tra tradizione e sperimentazione19. Probabilmente tali creazioni non avrebbero mai visto la luce se non fossero state precedute da quelle di un inventore geniale come Buckminster Fuller, tuttavia i disegni di Sant’Elia furono un riferimento per molti architetti inglesi, un riferimento sottaciuto dal momento che il Futurismo era identificato col Fascismo. Reyner Banham, che fu il primo a sottolineare i deficit di una critica sostanzialmente ideologica e marxista nei confronti di Sant’Elia, iniziò a esprimersi in maniera estremamente positiva sull’architetto comasco a partire dalla metà degli anni 1950 e il suo ruolo fu determinante nella diffusione del Manifesto in Gran Bretagna. Come emerge da questa sua dichiarazione, lo storico non riusciva a darsi pace per aver precedentemente sottostimato i manifesti futuristi e la figura di Sant’Elia: “Early in September 1951, I found a bound volume of Futurist Manifestos on a book stall outside of Brera, Milan. I picked it up, I looked at it, put it down again. I must have been mad — or, rather, I should say that I cannot now possibly reconstruct the frame of mind in which I could do such a think”20. Senza dubbio, lo scritto di Banham, Futurism and Modern Architecture21 influenzò il lavoro di Peter Cook e Michael Webb22. Si pensi al progetto di Webb, Furniture Manufacturers Association Building in High Wycomb, nei cui prospetti si intravedono analogie con opere lecorbusiane — il convento de La Tourette è coevo — ed echi santeliani, non dichiarati ma evidenti nello stacco tra i sistemi di collegamento verticale e il corpo dell’edificio. Cook invece dichiara apertamente l’influenza di Sant’Elia sul suo immaginario architettonico: si pensi al suo progetto per lo sviluppo di Piccadilly Circus, un grande nodo di interscambio la cui sezione riecheggia quelle disegnate dall’architetto comasco. L’influenza del Futurismo sui lavori di Archigram è stata dunque non solo concettuale ma anche formale e figurativa, come afferma Cook nel quarto numero della rivista Archigram23. Tuttavia, nel saggio Futurism — and the Future that happens, Cook scrive che nonostante le profezie, peraltro non ancora realizzate, lo sviluppo progettuale delle idee di Sant’Elia era stato pressoché ininfluente sulle generazioni successive e che forse qualche frammento della sua Città Nuova aveva trovato realizzazione solo nella “infernale” città di Chicago.
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As a socialist concerned with revolutionary escape from traditions and conventions, he was able to combine a particularly exciting expressionism (which derived from Otto Wagner and the Vienna School) with predictions of a new life-style which would be effected by light-weight structures, expendable buildings and much else that is now current (though yet to be fully realized) in environmental thinking. […] But in the realization of many of his ideas we find such deviation from intentions that we must question the real validity of using his work as a direct source inspiration for solving today’s problems. […]The multi-level city has emerged slowly through necessity and fear of the danger of the car. So far only Chicago offers something like the image of the Città Nuova while being as much a hell as any other city24. pagina a fronte Archigram, n. 1/1961 disegni di protesta contro l’architettura contemporanea britannica, ispirati al futurismo e all’espressionismo
Tale filone di ricerca ha avuto un punto di massima espressione figurativa negli anni 1970 col movimento Hi-Tech25. Richard Rogers, tra i teorici di questa tendenza, sostiene che un edificio deve farsi espressione della velocità del progredire dei dispositivi meccanici, dei metodi di produzione e degli stili di vita. In quella che può essere considerata una sorta di rievocazione del Messaggio, Rogers costruisce il manifesto della propria architettura e del proprio tempo attraverso queste parole, da confrontare con alcune espressioni tratte dal Manifesto: Purtroppo vediamo esempi di storia presi a prestito, frammentati e applicati a facciate di edifici come carta da parati. Sono assolutamente contrario a usare in questo modo la storia 26. La bellezza nuova del cemento e del ferro viene profanata con la sovrapposizione di carnevalesche incrostazioni decorative27. Siamo nel cuore di una rivoluzione elettronica; i computer e la tecnologia a essi collegata ci stanno mettendo in condizione di esplorare campi finora sconosciuti, dove i mutamenti climatici possono alterare le caratteristiche cromatiche del rivestimento di un edificio: più camaleonte che tempio28. Noi — materialmente e spiritualmente artificiali — dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico che abbiamo creato, di cui l’architettura deve essere la più bella espressione29.
La capacità di prefigurare in maniera visionaria un rinnovato rapporto tra arterie di traffico e architettura è il trait d’union tra i disegni per La Città Nuova di Sant’Elia e le teorie urbane sulla città infrastruttura, diffuse intorno agli anni 1960 in concomitanza con l’avvento delle megastrutture. Ma le prefigurazioni santeliane vanno inquadrate all’interno di un ampio ventaglio di proposte visionarie, maturate durante i primi decenni del novecento, tra cui quelle di Edgar Chambless (Roadtown, 1908), Eugène Hénard (Rue Future, 1910) e Harvey Wiley Corbett (The Elevated Sidewalk: How it Will Solve City Transportation Problems, 1913). Oltre a tali visioni, bisogna far riferimento a una realizzazione, la nuova monumentale stazione di New York City, che fu inaugurata nel 1913 e che prefigurava a una piccola scala la separazione delle vie di traffico proposta dai visionari30.
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Secondo Jean-Louis Cohen, la stazione Grand Central fu un riferimento per Sant’Elia, peraltro già fortemente influenzato dall’immaginario architettonico della città americana: While working on his Città Nuova[…], Sant’Elia designed a central railroad station in the manner of Grand Central, which had received press coverage in 1913. In this project, the trains were bur-
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Peter Cook progetto per lo sviluppo di Piccadilly Circus, 1960 Richard Rogers Kabuki-choTower, Tokio 1987-93
ied deep underground, while the station building (whose roof doubled as an aerodrome) was hemmed in between the two edges of an urban space punctuated with regular blocks reminiscent of Park Avenue. It is, moreover, clear in other drawings leading to Città Nuova that the gangways linking Sant’Elia’s vertical façades with stepped buildings and industrial edifices also exhibited the diffuse mark of American imagery31.
Città lineari con sezioni colossali e macro-edifici assimilabili a micro-città inaugurarono negli anni 1960 la stagione delle megastrutture, definite da Fumihiko Maki32 come sistemi insediativi in cui sono collocate tutte le funzioni della città, e da Banham33 come organismi costruiti su unità modulari, capaci di una grande o illimitata estensione e dotati di una struttura che ospita unità più piccole. Tra le più interessanti infrastrutture lineari a scala urbana e territoriale, occorre citare il Piano per la Baia di Tokyo di Kenzo Tange (1960-61), il piano Pampus per l’ampliamento di Amsterdam di Bakema e Van Den Broek (1965) e i progetti di infrastrutture continue di Paul Rudolph, che rievocano in sezione i disegni di Sant’Elia. Ma che ruolo ha avuto il pensiero dell’architetto futurista in questo dibattito? Nel 1970 Cook spiega come i Futuristi furono i primi ad aver ideato una città che poneva le autostrade, le ferrovie e gli ascensori su livelli separati e gerarchici, prefigurando le ipotesi urbane della seconda metà del ventesimo secolo. “His Città — affermava Cook — combined the hardware of metropolitan existing roads, railways elevators in formal relationships which anticipated the multi-level separation and hierarchism of
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mid-twentieth century urban solutions”34. Inoltre, in un capitolo di Complexity and Contradiction in Architecture, Robert Venturi descriveva l’edificio polifunzionale come un’infrastruttura lineare, che poteva funzionare anche come arteria per il traffico: come un edificio e allo stesso tempo come un ponte, sulla scorta di Ponte Vecchio a Firenze e dei progetti futuristi di Sant’Elia. The multifunctional building in its extreme form becomes the Ponte Vecchio or Chenonceaux, or the Futurist projects of Sant’Elia. Each contains within the whole contrasting scales of movements besides complete functions. Le Corbusier’s Algerian project, which is an apartment house and a highway, and Wright’s late projects for Pittsburgh Point and Bagdad correspond to Kahn’s viaduct architecture and Fumihiko Maki’s “collective forms”. All of these have complex and contradictory hierarchies of scale and movement, structure, and space within a whole. These buildings are buildings and bridges at once35.
In Italia, il tema della città infrastruttura ebbe numerose realizzazioni e molti architetti rimasero intrappolati nel gigantismo delle macrostrutture fino alla fine degli anni 1990. Tale tema fu affrontato — e per certi versi ri-fondato teoricamente — da Vittorio Gregotti, attraverso le sue molteplici sperimentazioni progettuali che partivano da un’ampia teorizzazione sul disegno urbano, il principio insediativo e l’architettura del territorio36. Altri architetti interpretarono tale soggetto in termini più accentuatamente megastrutturali, per dare vita a progetti-manifesto, come il quartiere residenziale Cep alle Barene di San Giuliano a Venezia-Mestre, progettato da Ludovico Quaroni nel 1959, l’Asse Attrezzato dello Studio Asse (1967-70) e il Corviale di Mario Fiorentino, realizzato a Roma nel 1972. Su un fronte più accentuatamente visionario, i gruppi legati all’Architettura Radicale, come Archizoom e Superstudio, ma soprattutto gli architetti del movimento dell’Architettura Disegnata, come Maurizio Sacripanti e Franco Purini sembrano essere stati tra i maggiori interpreti italiani del messaggio di Antonio Sant’Elia. Questi ultimi due architetti, in particolare,concepirono progetti sperimentali di notevole impatto visivo e, allo stesso tempo, talmente circostanziati da essere pronti a un’immediata realizzazione37. Riferimenti figurativi al lavoro dell’architetto futurista traspaiono nelle prospettive di diversi progetti di Sacripanti come il Collegio-albergo a Montebello (1987) e il Museo della Scienza a Roma (1982-83), e anche in certe sue realizzazioni, come la piazza-parcheggio di Forlì, dove la reiterazione dei partiti architettonici ricorda le prospettive infinite dell’architetto comasco. Ma ci sono ancora altri temi che legano il lavoro di due architetti visionari come Sant’Elia e Sacripanti: la simbiosi tra ingegneria e architettura e la continuità dello spazio, temi che pervadono il Padiglione italiano all’expo di Osaka (1970) di Sacripanti, i cui disegni sono stati eseguiti, peraltro, da Purini. Ma a un certo punto, Sacripanti avverte che lo scollamento tra presente e passato diventa fisico nello spazio urbano, fino alla frattura della città in due mondi separati:
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Antonio Sant’Elia, Centrale elettrica, 1914
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E la città, zavorrata dal greve storico, sorpresa dal futuro, artificiosamente si spezza, ammutolisce, si scopre androgina e sterile all’innesto di ogni nuovo, si esaurisce, si “sdoppia”: un sopra e un sotto. Sopra, parallelismi urbanistici dove le strade perduto il racconto non comunicano più; sotto, i canali per persone e cose; sopra, l’anonimo; sotto, l’utile. Così dalla comunicazione magica dello spazio scavato per il pozzo si è passati, senza magia, alla città scavata per i servizi38.
Non condividendo tale frattura, Sacripanti teorizza spazialità continue e avviluppate quando invece Sant’Elia progettava architetture a sviluppo lineare e potenzialmente infinito: se il primo sembrava voler sanare quella frattura, il secondo l’accentua, progettando città articolate su più livelli, sulla scorta di Leonardo. Al di là dell’eredità di Sant’Elia, non si può fare a meno di notare come alcune posizioni teoriche del Manifesto abbiano resistito al recupero da parte degli stessi architetti che ne sono stati influenzati; tra di esse, il meccanicistico rifiuto del passato, quella sorta di gratuita amnesia; l’idolatria del mondo meccanico, eretto a modello; la magniloquenza e il superomismo. Tuttavia, l’indubbio valore dei futuristi come precursori di una nuova era urbana è innegabile e a tal proposito si invita il lettore a considerare questo passo di Banham, che suggerisce di confrontare l’apporto dei futuristi con quello di altri “profeti” precedenti o successivi per comprenderne l’originalità. Qui Banham paragona la Città Nuova a quella città multipiano prefigurata dall’autore di The Time Machine, Herbert George Wells, nel romanzo di fantascienza Quando il dormente si sveglierà, pubblicato per la prima volta in Italia solo nel 1907. In questo modo, egli pone i Futuristi non solo tra i più acuti ma anche tra i più informati e dunque consapevoli visionari del tempo. I can only remind you that nothing is as old-fashioned as an old prophecy. There is a point here; you have to compare the Futurist quality against the quality of other prophets in the decades immediately preceding and immediately following, there you do see a difference. […]I have been re-reading Wells’ The Sleeper Awakes, because it relates to the Città Nuova. Wells’ city, multi-level, with tower blocks like Sant’Elia’s, is a hostile environment, in spite of some abstract practical things like television; whereas Sant’Elia’s, and the Futurist’s environment is one they look forward to with enthusiasm. Maybe that was because they were Italians, maybe because they were naïve, perhaps Edwardian. It does suggest they knew as much and probably more than most of their literary contemporaries about what they were talking about39.
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Paul Rudolph, progetto per il Lower Manhattan Expressway, 1967-1972
pagina a fronte Maurizio Sacripanti progetto per un Collegio-albergo, Montebello (Perugia), 1976 M. Sacripanti progetto di Museo della Scienza, Roma, 1982-83
Ringraziamenti L’autrice esprime la sua gratitudine verso il professor Jean-Louis Cohen, che l’ha accolta presso l’Institute of Fine Arts della New York University, dove nell’anno accademico 2016-2017 ha svolto una fellowship sponsorizzata da una borsa di ricerca Fulbright su questi temi. L’autrice inoltre ringrazia il personale della Avery Library della Columbia University e la Fondazione Echaurren-Salaris per aver reso disponibile il materiale consultato presso questi archivi. Note 1 Si pensi alla serie di scritti: “Anche l’architettura futurista…E che è?” di Enrico Prampolini (Il Piccolo Giornale d’Italia, 29-30 gennaio 1914); Architettura futurista. Manifesto di Umberto Boccioni (1914, inedito, ora in Id., Altri inediti e apparati critici, a cura di Zeno Birolli, Milano, Feltrinelli, 1972, pp. 36-40); “Architettura futurista” di Virgilio Marchi (Dinamo, 1919, n. 5, giugno, riproposto in Roma futurista, 1920, n. 72, 29 febbraio, con il titolo “Manifesto dell’architettura futurista, dinamica, stato d’animo e drammatica”; “Del funambolismo obbligatorio o aboliamo i piani delle case” di Vincenzo Fani Ciotti, in arte Volt, pubblicato in L’Italia futurista, 1918 n. 37, 15 gennaio; dello stesso autore, “La casa futurista. Indipendente-Mobile-Smontabile-Meccanica-Esilarante”, in Roma Futurista, 1920, n. 81-82, 25 aprile-maggio. 2 Prima di Sant’Elia, anche Henry Van De Velde (1903 e 1907), Hans Poelzig (1906), Adolf Loos (1908), Frank Lloyd Wright (1910) e Hermann Muthesius (1911) avevano scritto programmi di architettura. Vedi U. Conrads, Programs and manifestoes on 20th-century architecture, Cambridge, The MIT Press, 1971. 3 Vedi A. Longatti, “Il caso sant’Elia”, in AA. VV. “Nuove Tendenze”, Milano e l’altro Futurismo, catalogo della mostra, Milano, Electa, 1980, pp. 31-40; L. Caramel, A. Longatti, Antonio Sant’Elia: l’opera completa. Milano, Mondatori, 1987; E. Da Costa Meyer, The Work of Antonio Sant’Elia. Retreat into the Future. New Haven, Yale University Press, 1995; C. Salaris, Il mito della città futura, in L. Malfona, M. Manicone, F. Purini (eds.) Antonio Sant’Elia. Manifesto dell’Architettura Futurista. Considerazioni sul centenario, Roma, Gangemi 2015, pp. 81-102.
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B. Zevi, Storia dell’Architettura Moderna, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, pp. 180-181 (I edizione: Einaudi 1950). Vedi G. C. Argan, “Il pensiero critico di Sant’Elia”, in AA. VV., Dopo Sant’Elia. Scritti di Giulio Carlo Argan — Carlo Levi — Matteo Marangoni — Annalena Pacchioni — Giuseppe Pagano — Alessandro Pasquali — Agnoldomenico Pica — Lionello Venturi. Con il manifesto dell’architettura futurista di Antonio Sant’Elia, Milano, Editoriale Domus, 1935, rist. anastatica, Livorno: Belforte Editore Libraio, 1986, pp. 48-49. 6 M. Tafuri, Progetto e Utopia. Architettura e sviluppo capitalistico, Roma-Bari, Laterza, 2007 (I edizione: 1973), p. 52. Vedi K. Mannheim, Ideologia e utopia, Bologna, Il Mulino, 1952. 7 Tafuri, Progetto e Utopia, cit., p. 57. Tafuri riconosce che il tema urbano è al centro delle ricerche futuriste ma parla delle architetture di Antonio Sant’Elia come di “fantasie” ed “esemplificazioni grafiche”, minimizzandole. Vedi M. Tafuri, F. Dal Co, Architettura Contemporanea, Milano, Electa Editrice, 1979, p. 103,105,138. 8 Sant’elia, “L’architettura futurista. Manifesto”, Lacerba, cit. 9 Ibid. 10 Si pensi alla prefigurazione dei nodi di scambio avveniristici treno-aereo, che preconizzano l’idea di centralità urbana, luogo dove si concentrano le funzioni pubbliche più rappresentative della città. 11 Tafuri, Dal Co, op.cit., p. 103; M. Tafuri, “Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico”, Contropiano, n. 2, 1970, pp. 241-281. 12 Sull’eredità del Futurismo vedi: M. Giacomelli, E. Godoli, A. Pelosi (a cura di), Il manifesto dell’architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità, atti della giornata di studio, Camera di Commercio di Grosseto, 18 luglio 2014, Mantova, Universitas Studiorum, 2014. 13 Vedi E. Crispolti, Il mito della macchina e altri temi del Futurismo, Trapani, Editore Celebes, 1971. Si consideri anche la mostra che K.G. Pontus Hulten allestì, nel 1968, presso il Museum of Modern Art di New York, centrata sulla tecnologia dell’arte e della macchina, dal titolo: The Machine: As Seen at the End of the Mechanical Age. 14 Vedi B. Shelton, Learning from the Japanese City. Looking East in Urban Design, London, Routledge, 2012; T. Ito, “Collage and superficiality in Architecture”, in K. Frampton (a cura di), A New Wave of Japanese Architecture, New York, IAUS, Catalogue 10, 1978, pp. 68-69; L. Malfona, “Learning from Japan”, in G. Strappa, A. Amato, A. Camporeale, City as an organism. New visions for urban life (22nd ISUF International Conference, 22-26 September 2015, Rome Italy), Roma, U+D Edition, 2016, vol. 2, pp. 1353-60. 15 Vedi E. Crispolti, Il mito della macchina e altri temi del futurismo, Trapani, Celebes, 1969. 16 R. Buckminsterfuller, 4DTimelock, Corrales, Lama Foundation, 1970. 17 Vedi J.-L. Cohen, Architecture in Uniform, Montréal, CCA Editions, 2011. 18 Vedi D. Nixon, International Space Station. Architecture beyond Earth, London, Circa, 2015; S. Catucci, Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet, 2014. 19 Vedi J. Kaplicky, Confessions. Principles Architecture Process Life, London, Wiley Academy, 2002. In particolare, a pagina 53, Kaplicky associa un disegno di Sant’Elia agli ultimi progressi della tecnica, della medicina, dell’ingegneria, dunque a immagini di grandi sale, capannoni industriali, scocche di aerei, in una riflessione sul rapporto tra il nuovo e l’antico. 20 R. Banham, “Primitives of a Mechanized Art”, The Listener, n. 62, 3 December 1959, rist. in P. Hall (a cura di), A Critic Writes. Essays by Reyner Banham, Berkeley — Los Angeles-London, University of California Press, 1996, p. 39. 21 R. Banham,“Futurism and Modern Architecture”, RIBA Journal, 1957, February. 22 Si guardi al dettaglio del primo numero della rivista Archigram (1961), con i due progetti summenzionati di Michael Webb e Peter Cook. 23 P. Cook, “Zoom and ‘real’ architecture”, editoriale della rivista Archigram, 1964, n. 4. 24 Vedi P. Cook, Futurism — and the future that happened. Experimental Architecture, London, Universe Books, 1970, pp. 16-17. 25 Vedi J.-L. Cohen, The Future of Architecture. Since 1889, New York, Phaidon, 2012, in particolare cap. 33, “The neo-Futurist optimism of high tech”, pp. 438-447. 26 Testo tratto dalla conferenza che Rogers tenne alla Triennale di Nara (1992). Vedi R. Burdett (a cura di), Richard Rogers. Opere e Progetti, Milano, Electa, 1995, p. 23. Vedi anche R. Rogers, A. Power, Cities for a small country, London, Faber &Faber, 2000. 27 Sant’elia, op.cit. 28 Vedi Burdett, op.cit., p. 23. 29 Sant’elia, op.cit. 30 J.-L. Cohen, Scenes of the world to come: European architecture and the American challenge,1893-1960, Paris, Flammarion; Montréal, Canadian Centre for Architecture, 1995, p. 33. La stazione fu pubblicata il primo febbraio 1913 su L’illustrazione italiana, in un articolo dal titolo “La più grande stazione del mondo inaugurata a New York”. 4 5
back to the future • lina malfona
Ivi, pp. 34-35. Vedi F. Maki, Investigation on collective forms, St.Louis, Washington University, 1964; Id., Nurturing Dreams: Collected Essays on Architecture and the City, a cura di M. Mulligan, Cambridge, The MIT Press, 2008. 33 Vedi R. Banham, Megastructure. Urban Future of the recent past, London, Thames and Hudson, 1976. 34 Vedi Cook, Futurism…, cit., pp. 16-17. 35 R. Venturi, Complexity and Contradiction in Architecture, New York, The Museum of Modern Art, 1977, p. 34 (I edizione: 1966). 36 Si fa riferimento ai suoi progetti per la nuova Università di Firenze (1971) e per l’Università della Calabria (197477) e al suo libro Il territorio dell’Architettura (1966). 37 Franco Purini è autore degli Studi di strutture urbane, a cui lavora dal 1966 con Laura Thermes, e del Progetto di strada “costruita” tra Roma e Latina (1967). 38 M. Sacripanti, Città di frontiera, Roma, Bulzoni, 1973, p. 6. 39 Banham, “Futurism and Modern Architecture”, cit., p. 138. 31 32
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titolo saggio • nome cognome
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Finito di stampare da Officine Grafiche Francesco Giannini & Figli s.p.a. | Napoli per conto di didapress Dipartimento di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Luglio 2018
Le forzature che hanno accompagnato la costruzione negli anni 1930 del mito di Sant’Elia pioniere dell’architettura moderna, hanno orientato il successivo dibattito critico, alimentando come reazione una sterile polemica sulla sua appartenenza al Futurismo, condizionata da pregiudizi ideologici e culturali. Ad una storicizzazione tendenziosa che ha inteso confinare la sua produzione nell’area di un tardo Liberty influenzato dalla scuola viennese di Otto Wagner, si è accompagnata una interpretazione riduttiva dei disegni della Città nuova come scenografie ispirate all’immaginario metropolitano statunitense. L’approfondimento delle relazioni tra alcune delle tendenze dominanti nella architettura italiana e europea nei primi anni del XX secolo e l’opera di Sant’Elia, proposto nei saggi che costituiscono questo volume, non intende ridimensionarne l’apporto originale, ma collocarla nel suo tempo ampliandone il campo dei riferimenti culturali. Da queste analisi emerge la capacità dell’architetto comasco di fondere in un crogiuolo spunti derivati dagli albi della Wagnerschule, da Josef Hoffmann e dai suoi migliori allievi, dagli ultimi fuochi dell’orientalismo, dal filone del gigantismo visionario che ha collegato a fonti viennesi e tedesche diversi protagonisti dell’architettura italiana prima della guerra del 1914-1918, per ricavarne soluzioni compositive, ma anche tecnologiche, decisamente innovative. La rilettura dei disegni per la Città nuova, alla luce dei temi dominanti nel dibattito sulla metropoli moderna negli anni in cui si stavano gettando in Italia le fondamenta della disciplina urbanistica e delle proposte elaborate per rimediare ai ‘mali’ della grande città (e in particolare di Milano), consente di sottrarli alla sfera del puro esercizio visionario e di riconsiderarli come risposte praticabili e non prive di efficacia, sebbene in anticipo sui tempi, ad alcune delle esigenze individuate dal dibattito contemporaneo come prioritarie nel perseguire il risanamento igienico, la razionalizzazione, il miglioramento delle condizioni di vita nelle grandi agglomerazioni urbane.
Ezio Godoli, professore ordinario, ha insegnato storia dell’architettura nella Facoltà di architettura dell’Università di Firenze. Tra le sue numerose pubblicazioni dedicate al futurismo si segnalano Guide all’architettura moderna. Il Futurismo (Roma – Bari 1983) e Il futurismo e la grafica (Milano 1988, con G. Fanelli). Ha curato i due volumi degli scritti di Virgilio Marchi (Firenze 1995 e 1997, con M.Giacomelli); il catalogo della mostra La metropoli futurista progetti im-possibili. Disegni e ricostruzioni virtuali (Firenze 1999); Il Dizionario del Futurismo (Firenze 2001, 2 voll.); gli atti del convegno Il Manifesto dell’architettura futurista di Sant’Elia e la sua eredità (Mantova 2014, con M.Giacomelli e A.Pelosi). Ha curato le sezioni di architettura delle mostre sul Futurismo a Kassel e Valencia (1990), Napoli (1996), Livorno (2000), Roma (2001), Dortmund (2002), Mosca (2008).
ISBN 978-88-3338-038-4
ISBN 978-88-3338-038-4
9 788833 380384
€ 35,00