gianluca buoncore
Lux cavat lapidem Centro di ricerca archeologica per la religione etrusca
tesi | architettura design territorio
Il presente volume è la sintesi della tesi di laurea, selezionata come miglior tesi in Progettazione Architettonica all'interno del DIDA - Dipartimento di Architettura, per partecipare ad Archiprix International 2017. Ringraziamenti Ringrazio il Prof. Fabio Capanni per questi anni di studio e formazione continua.
in copertina Eduardo Chillida, Homenaje a Luca Pacioli, 1986, particolare. Rielaborazione Gianluca Buoncore
progetto grafico
didacommunicationlab Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2023 ISBN 978-88-3338-204-3
Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset
gianluca buoncore
Lux cavat lapidem Centro di ricerca archeologica per la religione etrusca
Presentazione
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Antony Gormley, Membrane, 1986. Museum Voorlinden, Wassenaar. Foto Rob Oo, 2022. Rielaborazione Gianluca Buoncore
L’area meridionale della Toscana, compresa tra il Monte Amiata e il fiume Fiora deve il suo aspetto principale al tufo che ne ha determinato l’aspetto, costruendo un importantissimo patrimonio archeologico, centri storici di impianto medievale ed un paesaggio naturale ricco e caratteristico. Emerge un sistema fortemente caratterizzato dall'impronta dei popoli etruschi che per primi hanno interagito con questo territorio, spinti da una connotazione religiosa che mirava a stabilire contatti tra cielo e terra, lasciando segni profondi scavati nel tufo. Il lavoro svolto da Gianluca Buoncore ha preso avvio dall’analisi storica dell’area di progetto e dei territori limitrofi, per capirne l’evoluzione dei sistemi insediativi, caratterizzati da nuclei urbani compatti arroccati su alti speroni tufacei segnati dai corsi d’acqua. Il progetto sviluppato trova dialogo con le preesistenze e i sistemi territoriali fortemente caratterizzati dall’azione antropica dell’uomo, lavorando sulla reinterpretazione di spazialità urbane e architettoniche fatte di vuoti scavati, di tracce e segni nel terreno. Sottende a tutto il lavoro la consapevolezza che la storia è ancora in grado di alimentare il progetto di architettura. La conoscenza delle rovine e la comprensione della tradizione permettono di trovare forme, misure e linguaggi in grado di stabilire continuità tra presente e passato. La configurazione e la scelta dell’area di intervento implicano un lavoro in prossimità delle rovine dove si stabilisce un contatto visivo, una continuità di intervento sul paesaggio secondo modelli insediativi e spaziali che interagiscono con il sistema delle preesistenze archeologiche e paesaggistiche fatte di vie cave, necropoli, alture tufacee e corsi d’acqua che modellano il territorio.
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Tu vedi un blocco, pensa all’immagine: l’immagine è dentro basta soltanto spogliarla. (Michelangelo Buonarroti)
Come il paesaggio archeologico è composto di stratificazioni, così il progetto di Buoncore stratifica il materiale costruttivo per offrire l’immagine di un’architettura che nasce dalla terra e dalla terra è composta. Lavorando per sottrazione, le masse tufacee vengono tagliate e scavate per ricavarne strade, spazi di lavoro e ambienti di vita. Allo stesso modo la luce assunta a materiale da costruzione, modella i volumi che configurano il progetto per stabilire quella connessione sacrale tra terra, cielo e inferi tipicamente etrusca. Il progetto, in accordo con le finalità della Tesi di Laurea del Corso di Laurea a Ciclo Unico, è il risultato di un lavoro interdisciplinare dove aspetti progettuali e costruttivo-tecnologici collaborano per definire un percorso completo e maturo all’interno del quale il paesaggio archeologico entra a far parte del progetto medesimo, inteso da Buoncore come proseguimento di una narrazione già scritta, in armonia con le regole del luogo.
Fabio Capanni Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
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Il Sacro
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Yves Klein, Anthropométrie "Le buffle" (ANT 93), 1960-61. Collezione privata. Fonte widewalls.ch Rielaborazione Gianluca Buoncore
Nell’infanzia del tempo l’arte fu preghiera. Ora non siamo più capaci nemmeno di pregare. 1 (Claudio Parmiggiani)
Tra i quarantamila e i diecimila anni fa l’uomo primitivo ripete ossessivamente una figura sulle pareti delle grotte nelle quali trova riparo. Dipinge bufali, bisonti, mammut, cavalli. Andre Leroi-Gourhan2 nel suo libro Le religioni della preistoria del 1964 mette in evidenza il ricorrere di alcuni animali, dei segni, quello più pieno e quello più sottile, che si affiancano per sostenere la presenza di una spiritualità duale, fatta di maschile e femminile e di un terzo. Il punto centrale però, è che quella figurazione è un modo di mettere in figura il sensibile, una concezione che sensibile non è, bensì spirituale. L’arte parietale dell’uomo primitivo è caratterizzata da tre costanti: vi è sempre l’animale; l’uomo che dipinge è in relazione con l’animale; la relazione stabilita è sempre l’uccisione. L’arte del Paleolitico Superiore è l’arte dell’uomo cacciatore, dunque l’uccisione diviene il mezzo attraverso cui l’uomo si mantiene in vita. Colui che rappresenta l’animale ha un’unica esperienza sensibile diretta con lo stesso, ed è la sua uccisione. Nel 2005 Emilio Villa3 scrive il libro L’arte dell’uomo primordiale nel quale mette in relazione l’arte figurativa con l’esperienza del sacrificio originario, intendendo come sacrificio proprio l’arte dell’uccidere. Villa parla del sacrificio non in senso storico, non il sacrifi-
cio come rito, ma un atto pre-religioso, un atto sacrificale che è precedente alla dimensione tra sacro e profano. L’iniziativa dell’uomo primordiale, a giudicare dalle sue concrete manifestazioni, non si rileva proprio come difensiva, ma anzi del tutto offensiva4 L’uccidere è l’esperienza assoluta del primo vivente, è ciò che sta a fondamento di questa esperienza, è il principio: uccidere come ferire, entrare, penetrare. L’uccidere, come il ferire, l’entrare o il penetrare, lo sviscerare, l’espellere, è l’atto primario della fecondità ed appare così legato poiché uccidendo, vivo. Per l’uomo primitivo è impossibile vivere senza uccidere. Il sacrificio genera la vita, è causa di vita, il sacrificio fa la vita, e la vita (la purezza) è causa del sacrificio5 L’arte parietale dunque nasce non come espressione religiosa, ma in connessione a questa esperienza primaria dell’uomo: uccidere per avere vita. Uccidere significa separare: l’uccisione è una negazione che separa, che esclude l’altro dalla condizione dell’esistente. Non è un caso che in latino uccidere si dica obcaedo, ovvero ‘taglio’, ‘spezzo’. L’uccisore è colui che più di ogni altro ha bisogno dell’ucciso, perché in que-
sto atto di negazione sta la sua stessa vita. L’atto figurativo allora, diventa lo strumento ultimo attraverso il quale l’uomo cerca di mantenere quella relazione vitale instaurata con il negato, non stabilendo un concetto di rinascita o di reiterazione dell’atto uccisorio a scopi propiziatori, ma per mantenere la connessione, il rapporto, di ciò che viene escluso. Il primitivo vive la negazione come atto puramente escludente, ma anche per chi vive la negazione come atto puramente escludente, l’escluso è essenziale, perché se non ci fosse non si potrebbe compiere nessun atto di negazione. La figurazione risponde al bisogno di tenere in relazione ciò che si scioglie dalla relazione, perché senza non è possibile alcun vivere. In questo senso l’arte figurativa primordiale è religiosa, in senso etimologico, cioè secondo il senso di rěligo, che vuol dire ‘sciogliere e tenere insieme’, è il vincolo di ciò che si scioglie; rĕligāre propriamente vuol dire questo, la religione è il vincolare ciò che si è sciolto. In questo senso la figurazione primordiale è religiosa, è
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pagina precedente Bisonte di Altamira, Paleolitico Superiore, Spagna. library.artstor.org/asset/ HARTILL_12319094. © Alec and/or Marlene Hartill a destra Uomo morto e bisonte, Grotta di Lascaux, Francia, Paleolitico Superiore. Artstor, library.artstor.org/asset/ ARTSTOR_103_41822000092575. University of California, San Diego L’animale colpito grondante sangue e l’uomo, un cadavere, formano un contesto unico. L’uomo appare con una testa di uccello e, per intensificare l’ideogramma un uccello è stato posto al suo fianco
un reiterare, un mantenere, un ricordare, un riaccordarsi esattamente con ciò che si è escluso perché è essenziale l’escluso all’atto dell’esclusione. Nel momento in cui emerge la necessità di affermare l’altro, questa necessità emerge sciolta ab origine dall’atto negativo. Vi è solo l’affermato che non viene visto in relazione con l’atto del negare, ma mitizzato, trasformato in Dio, assolutamente innegabile. Intendendo con la mitizzazione dell’animale il suo progressivo sciogliersi dall’atto uccisorio, fin tanto da renderlo innegabile, la figurazione rappresenta l’inizio della divinizzazione. Nel rapporto di esclusione che si instaura tra uccisore ed ucciso, la presenza del secondo emerge sciolta dall’atto escludente. In questo processo, l’ucciso si divinizza ed è in questo passaggio che emerge la dimensione del sacro e della religione arcaica come religione del sacrificio nel senso etimologico del ‘fare sacro’. È criminale uccidere la vittima poiché essa è sacra… ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse.6
La morte dei nemici viene trasformata in sacrificio e il sangue della vittima bagna e colora la pietra sacrificale che diventa altare, totem che è memoria di un sacrificio originale, il medesimo sacrificio attraverso cui l’uomo primitivo scopre la dimensione divina. La presenza di un totem sacralizza lo spazio trasformandolo in témenos, radura sacra. Tra totem e totem, nell’orizzonte del cielo viene posta l’architrave: nasce il templum.7 Il tempio non è altro che lo spazio sacralizzato attraverso un atto uccisorio. Tèmno, il tagliare, il separare, il dividere, è la chiave di volta per connettere l’esperienza sensibile dell’uccidere da parte dell’uomo primitivo trasportata in figurazione su una parete rupestre e la creazione dello spazio sacro, del tempio. Per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo: gli spazi consacrati hanno una forma, quelli profani sono amorfi. Il reale è solo ciò che è stato consa-
crato. Si tratta di una esperienza primordiale che si produce costruendo un ‘qui’ e un ‘altrove’, una lotta contro il caos che l’uomo compie qualificando lo spazio. La recinzione, la delimitazione dona ordine, permette un orientamento, stabilisce un dentro e un fuori, il sé e l’altro, l’ordine e il disordine. Viene generato un mondo consacrato che è analogo al kosmos e che permette la comunicazione con gli dei.
Claudio Parmiggiani, Una fede in niente ma totale André Leroi-Gourhan (Parigi, 25 agosto 1911 – Parigi, 19 febbraio 1986) è stato un etnologo, archeologo e antropologo francese, oltre ad essere ricercatore di prima classe del CNRS, professore ordinario di etnologia e preistoria in varie università, tra cui quella di Lione, di Parigi. 3 Emilio Villa (Affori, 21 settembre 1914 – Rieti, 14 gennaio 2003) è stato artista, poeta, biblista, intellettuale, fondatore di riviste e iniziative culturali, promotore di talenti artistici e convinto assertore dell’intrinseco valore dell’avanguardia. 4 Emilio Villa, L’arte dell’uomo primordiale. 5 Emilio Villa, L’arte dell’uomo primordiale. 6 René Girard, La violenza e il sacro. 7 Roberto Masiero, Estetica dell’architettura. 8 Adrian Snodgrass, Architettura, tempo, eternità. 1
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La forma architettonica incorpora un sacrificio. La costruzione dell’edificio è un rituale in cui le parti discrete dell’unità, sparse e frammentate nelle diverse manifestazioni, sono riunificate.8
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La Disciplina
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Alberto Giacometti, Three Men Walking, 1948, Metropolitan Museum of Art, New York. Foto Joe Josephs, 2014. Rielaborazione Gianluca Buoncore
Il sentimento di essere una creatura, il sentimento della creatura che naufraga nella propria nullità, che scompare al cospetto di ciò che la sovrasta.1 (Rudolf Otto)
Gli Etruschi possedevano una scienza sacra, la Disciplina, detenuta dai Lucumoni e tutta la società viveva conformata ad una speciale attitudine verso la sfera del sacro. Il grande tesoro etrusco era proprio la Disciplina, insieme di conoscenze e credenze sulla vita e sulla morte e sul rapporto tra uomo, divino e natura. Quella etrusca in Italia è stata l’ultima grande civiltà erede dell’antico mondo mediterraneo, l’ultima a trasmettere il culto dell’età del bronzo, incentrato su una grande dea, la Madre Terra e sul suo corpo. Il culto della terra significò penetrare fisicamente in essa per cercarvi potere e conoscenza. La parola latina sacer che possiamo tradurre con sacro, comprendeva anche l’accezione di rito sacro, culto segreto, misteri. Sacer non indicava solo una qualità divina ma anche una potente energia creatrice o distruttrice presente nei fenomeni sacri. I templi etruschi, costruiti secondo la Etrusca Disciplina, perseguivano diverse finalità: stabilire un orientamento corretto con il sole per far sì che l’energia creatrice fluisse in modo fecondo tra terra e cielo. Ricreare un ponte tra Terra, Cielo e Inferi era il compito cosmico assegnato all’uomo. Orientare un tempio voleva dire creare un reale scorrimento di energia sacra: tentativo concreto di connettersi con una
realtà non ordinaria che era reale, necessaria e funzionale al loro rapporto con il mondo e la vita. L’allineamento dei luoghi sacri nel vasto territorio tosco-laziale dava origine a una serie di triangolazioni e intersecazioni il cui scopo era la sacralizzazione del territorio e dell’ambiente umano. Nei luoghi di culto d’altura si veneravano gli dei celesti, presso ipogeii e necropoli il culto degli dei ctonii. Il tipo di ritualità si basava sulla manipolazione dei quattro elementi naturali al fine di entrare in contatto con l’energia vitale, il sacer appunto. L’acqua è un elemento riscontrabile in diversi luoghi di culto. Tutte le religioni attestano l’universale potere dell’acqua, un’energia vitale ritenuta sacra: le vasche battesimali della cristianità, le piscine dei tempi hindu, i pozzi sacri della Sardegna protostorica, quelli egizi e maya. Nella concezione del sacer l’acqua era considerata uno dei suoi principali catalizzatori, così le opere megalitiche erano scavate con nicchie o canalizzazioni al fine di raccogliere o far fluire il potere del sacer: Occorre arare, arare dentro l’anima per renderla fertile.2
del cielo, della terra e degli inferi. Opere megalitiche sono sparse in tutta l’area al confine tra la Toscana e il Lazio. Cerchi di pietre, vie cave, solchi nel terreno, rappresentano l’opera di popolazioni antiche, addirittura antecedenti agli etruschi, per stabilire un rapporto e un contatto diretto con la terra. Non lontano da Pitigliano si trovano i resti di un insediamento megalitico conosciuto come Poggio Buco. Una dozzina di megaliti tagliati e sbozzati formano un disegno d’insieme che richiama figure simboliche come il labirinto, il meandro, la spirale che a loro volta ricordano parti anatomiche in relazione alla fecondità femminile. Le pietre sono ricoperte di fori, cavità e nicchie, alcune naturali altre artificiali e disposte in fila che servivano per la raccolta e la canalizzazione dell’acqua a scopo rituale. Ma il sito di Poggio Buco non è la sola testimonianza rimasta. Ad un paio di chilometri dal monte Tellere, sopra una collina che si affaccia sul fiume Fiora, si trova l’unico cerchio di pietre con funzione astronomica rinvenuto in Italia in integro stato di conservazione. Il nome del sito è molto eloquente: Poggio Rota, esplicito riferimento alla
Gli Etruschi furono gli ultimi esponenti delle civiltà megalitiche, ancora legati all’antico culto tirrenico, rivolto agli dei
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Fotografia del cerchio di pietre di Poggio Rota. Foto Gianluca Buoncore, 2015 Planimetria del cerchio di pietre di Poggio Rota. Elaborazione Gianluca Buoncore
forma rotondeggiante dell’impianto. Il cerchio è formato da dieci pietre megalitiche, cinque delle quali alte circa tre metri, le altre, un po’ più esterne al cerchio, alte la metà. Ogni masso è separato da una fenditura verticale, attraverso la quale si ha una visuale della vallata sottostante, del fiume e dei monti all’orizzonte. L’intera struttura è orientata in modo che la linea solstiziale attraversi il centro del monumento, medesima orientazione del cerchio di Poggio Buco. Vincent Scully3 nei suoi studi sui templi antichi ha dimostrato come la maggior parte dei templi venissero orientati in direzione di un monte o della sella tra due cime montane. La sella accoglie il sole al momento del tramonto o lo fa nascere all’alba, quasi nascesse dalla terra stessa. Il sole, entrando
e uscendo da questo utero terrestre compie l’archetipa ‘congiunzione degli opposti’. La fondazione degli insediamenti etruschi, di qualsiasi tipologia, era legata ad aspetti funzionali e a riti religiosi che permettevano la sacralizzazione del territorio. Gli insediamenti, piuttosto che essere costruiti in modo monumentale appoggiati e sovrastanti il territorio, cercavano un rapporto diretto e avvolgente con la terra. Tutto si basava sul principio di un’occupazione diffusa che si fondeva con il territorio poiché vivo e spazio sacro contenente forme divine da rispettare e con le quali entrare in armonia. Gli etruschi realizzarono opere ed edifici sacri seguendo i tradizionali precetti dell’orientazione sacra: il nord era considerato la dimora degli dei celesti, il
sud della Grande Dea della Terra e degli Inferi, l’ovest la sede del mondo funebre, dell’aldilà e del Fato, l’est la terra del sole nascente e delle forze che davano impulso alla vita. Le vie cave di Pitigliano per esempio coprono tutte le direzioni possibili, disposte a raggiera verso un unico centro. L’impulso che spinse a costruire i cerchi di pietre, i monoliti allineati, i templi rivolti ai solstizi, fu l’intento di conoscere la via dell’ovest, lì dove il sole scompariva, lì dove si espande il grande mistero dell’esistenza, il ciclico ricorrere di vita, morte e rinascita.
Rudolf Otto, Il sacro. Claudio Parmiggiani, Una fede in niente ma totale. 3 Vincent Scully (New Haven, 21 agosto 1920) Storico dell’architettura statunitense. 1
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L'area
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Pinuccio Sciola, Pietre sonore. Foto Aurelio Candido, 2008
Poi il mostro si calmò, divenne amico degli Etruschi, donò fertilità ai campi, creò intorno al lago uno splendido paesaggio ricco di foreste popolate di animali e trasfigurò in Voltumna, il Mutevole, il dio di Velzna, il Principe degli Dei Etruschi.1 (Ennio Pecchioni)
La parte meridionale della Toscana, la Maremma collinare compresa tra il Monte Amiata e il corso del fiume Fiora, è comunemente denominata la Toscana dei tufi. Da sempre fu terra di frontiera: tra le roccaforti etrusche di Volsini e Vulci e Roma, tra lo stato Bizantino e quello Longobardo, tra Stato Pontificio e Granducato di Toscana. Questa sua condizione la rese bacino di etnie e culture diverse, spesso in lotta per il controllo dell’area. Vennero erette fortezze, castelli e torri e fin dal periodo etrusco l’area fu caratterizzata dalle imponenti roccaforti abbarbicate su rupi di tufo. È stato proprio il tufo a conferire l’aspetto principale a questo territorio fin dal passato andando a costituire un importantissimo patrimonio archeologico, centri storici di impianto medievale ed un paesaggio naturale ricco e caratteristico. L’antica attività vulcanica dei centri eruttivi individuati nei Monti Cimini, nei laghi di Vico, di Bracciano e di Bolsena, ha dato origine ai ripiani tufacei che si distendono tra Pitigliano e Sorano fino al Lazio e all’Umbria. Da questa attività eruttiva si è formato un paesaggio prevalentemente pianeggiante e ondulato, con improvvise incisioni in corrispondenza dei corsi d’acqua. Il fiume Fiora e i suoi affluenti sono dunque, insieme all’attività vulcanica, gli autori materiali di questo paesaggio.
È all’interno delle vallate, caratterizzate da pareti a picco con colori che sfumano nel grigio scuro, nel giallo e nel rosso, che si trovano numerosi centri archeologici, chiese romaniche e le città del tufo. I centri abitati sono concentrati in nuclei compatti di antica origine, situati su speroni tufacei in prossimità della confluenza di corsi d’acqua. La morfologia del sito costituì per lungo tempo il sistema migliore di difesa contro gli attacchi esterni. Tra le profonde forre vulcaniche e i poggi rupestri svettano ancora nel loro scenario antico i centri etruschi e medievali di Pitigliano, Sorano e Sovana, disposte su alte rupi di giallastro tufo, scavate da ipogei etruschi, colombari e cantine medievali. Sulla sponda opposta del Fiora, in una vallata caratterizzata dal bianco travertino, è situata Saturnia, una delle più antiche località della storia italica. Il tufo è l’elemento caratterizzante di questa parte di Toscana che prende forma di gole, rupi, balze e altipiani. Le civiltà preistoriche inizialmente lavorarono questo materiale scavando e plasmando la roccia per ricavare ripari ipogei e grotte. Gli etruschi scavarono strade e collocarono i loro luoghi sacri all’interno di alte pareti. Poco dopo il tufo venne lavorato in blocchi per la costruzione di edifici. Vi è dunque una conti-
nuità materica e visiva tra lo sperone roccioso e l’edifico che da esso si innalza, come se la parete tufacea diventasse architettura dai riflessi dorati. 1
Ennio Pecchioni, Etruschi. Il vincolo dell’unità sacrale.
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La città
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René Magritte, Le Château des Pyrénées, 1959. The Israel Museum, Gerusalemme. © ADAGP, Paris Rielaborazione Gianluca Buoncore
Sion, tu unica città, misteriosa dimora costruita nel cielo, ora gioisco di te, ora mi struggo di nostalgia, sono triste, ti anelo. Non potendo con la carne, ti percorro spesso con il cuore, ma subito ricado, perché sono carne terrena e terra carnale1 (Bernard di Cluny)
Sovana fu a lungo luogo di abbandono e di miseria, luogo di rovine e di silenzio, rispetto ad un passato florido e prospero. Solo Plinio il Vecchio, scrittore del primo secolo di età cristiana, citò Sovana nei suoi scritti, parlandone come una delle romane colonie. Certamente gli insediamenti di Sovana sono ben più lontani rispetto all’epoca etrusca. Tracce di popolazioni preistoriche sono state rinvenute grazie al ritrovamento di oggetti bronzei e ad una necropoli della facies di Rinaldone, una civiltà risalente all’eneolitico. Tutta la vallata del fiume Fiora è ricchissima di tracce preistoriche e protostoriche. Non esistono tuttavia ritrovamenti di centri abitati, e questo fa supporre che si trattasse di popolazioni nomadi. Durante la media e tarda età del bronzo, un aumento della popolazione portò allo stanziamento delle popolazioni con la conseguente costruzione di villaggi di capanne o di grotte artificiali scavate nel tufo. L’incentivarsi dei traffici commerciali durante l’età del ferro indusse a preferire stanziamenti in luoghi di pianura molto più facilmente attraversabili. È a partire dal VII secolo che popoli della cultura villanoviana si stabilirono in queste zone con un’organizzazione politica di tipo tribale. Lo schema insediativo della fase arcaica era organizzato con l’acropoli posta sullo sperone tufa-
ceo, la necropoli distribuita sulle balze prodotte dell’incisione dei corsi d’acqua Folonia e Calesine, i terreni agricoli sui pianori e un tessuto connettivo organizzato in vie cavoni, percorsi lungo le valli fluviali. L’atto fondativo di una nuova città seguiva rigidi rituali religiosi: il disegno e l’orientamento della città era la trasposizione del cielo, in essa vi era una costruzione cosmica nella quale si manifestava l’ordine universale composto da un centro – mundus – e i limiti. Nel periodo Ellenistico Sovana presentava due accessi principali, due lati fortificati e altri due con alte pareti tufacee. La fortificazione era fortemente legata alla morfologia del luogo seguendo il contorno altimetrico. Con la promulgazione della Lex Iulia del 90 a.C., Sovana entrò a far parte dei territori romani. Una strada collegava la città ad est con il Lago di Bolsena, ad ovest con Marsiliana. In epoca Ellenistica un tratto di strada si congiungeva con la via Clodia, giungendo fino a Saturnia e Tuscania, mentre percorsi costeggianti il Fiora la connettevano all’Aurelia. Dopo la caduta dell’impero romano nel 476 d.C., Sovana mantenne l’autonomia politica che unita alla sicurezza militare, alla forte diffusione del cristianesimo, fece di Sovana un nucleo perfetto per stabilirvi la diocesi. Papa
Giovanni I (523-526) la scelse come sede diocesana e poco tempo dopo, Sovana ottenne lo status di città: Proprie civitas non dicitur nisi quae episcopalis honore decoratur.2 Agli inizi del VI secolo, nel suo maggior periodo di floridezza, Sovana fu conquistata dai longobardi. Questi aprirono un collegamento tra la Tuscia e l’Austria attraverso un vecchio tracciato viario, la via Francigena che dal nord introdusse nel territorio le influenze dell’architettura romanica. Con la donazione dell’imperatore Ludovico il Pio nell’ 817 la Tuscia passava nelle mani della Chiesa, mentre il potere della famiglia Aldobrandeschi continuava a crescere. Ludovico II conferì ulteriore potere alla famiglia che desiderava maggiore autonomia rispetto al marchesato lucenese. Nell’ 862 Sovana passava al conte Ildebrando, con i castelli, i distretti, e le giurisdizioni di Pitigliano, Orbetello, Marsiliana, Sorano e Vitozza. Nel secolo XI alle fortune di Sovana contribuì l’elezione al soglio pontificio di Ildebrando da Sovana, papa Gregorio VII, il quale fece di tutto per favorirne i progetti di espansione e
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Sovana, piazza col palazzo di Signoria e la chiesa di Santa Maria (Tav. VII). Sovana, panorama dall'altro della rocca (Tav. VI). In Ranuccio Bianchi Bandinelli, "Sovana. Topografia ed arte: contributo alla conoscenza dell'architettura etrusca", 1929 a destra
Analisi dell’area urbana: in rosso le tre vie principali; in viola gli edifici religiosi; in verde gli edifici pubblici. Elaborazione Gianluca Buoncore
il potere della famiglia aldobrandesca. Il X e l’XI secolo furono secoli di potenza e splendore durante i quali la città ottenne una sistemazione urbanistica difensiva e rappresentativa che ancora oggi permane nel suo impianto. All’interno delle mura lo sviluppo era avvenuto longitudinalmente su tre direttrici che seguivano la via del pianoro: via di Mezzo, via di Sotto e via di Sopra e le mura avevano incorporato parti delle preesistenze etrusche e romane. Agli estremi dell’abitato vennero costruiti gli edifici di maggior carattere rappresentativo. Ad est la Cattedrale, ad ovest il castello comitale con la Rocca. Quest’ultima sorge sulla strozzatura formata dai torrenti sottostanti, edificata su preesistenti fortilizi etruschi e romani e, fin dall’anno 1000, chiudeva il borgo come l’elemento car-
dine nel sistema difensivo, sviluppata con un corpo ad L su tre piani dal quale emerge la torre unita ad un secondo corpo rettangolare. Opposta alla rocca sorge la cattedrale su un impianto del IX secolo di tipo basilicale con cupola protetta da un tamburo ottagonale. Questa ha la peculiarità di essere l’unica chiesa romanica della Toscana con schema a tre navate con quella centrale coperta con volte costolonate. L’area dove è situato il Duomo si ritiene sia stata quella dove sorgeva l’originale acropoli etrusca e dove già in epoca protostorica si era sviluppato un nucleo abitativo. Dello stesso periodo è il Palazzo Pretorio, costruito su resti estrusco-romani, e la contigua Loggia del Capitano. Nella piazza del Pretorio, nucleo dell’intero centro abitato, si affacciano l’archivio e la chiesa di Santa
Maria, che ha perduto la facciata e l’ingresso originari, inglobati dalla costruzione del palazzo Bourbon del Monte. Nella piazza del Pretorio, si trovano le dirute mura della chiesa di San Mamiliano, tra gli edifici più antichi di Sovana. La chiesa fu eretta sui resti di un precedente tempio etrusco, del quale restano blocchi di tufo squadrati che a loro volta sostengono tratti di mura romane ad opus reticulatum. È facile riscontrare la tendenza alla stratificazione degli edifici, attraverso il riutilizzo di preesistenti siti e materiali costruttivi.
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Sovana, resti della Rocca Aldobrandesca, X secolo. Foto Francesco Bini, 2013
I conti Aldobrandeschi tennero saldo il potere sulla città fino al XIV secolo, ma con il loro declino economico e politico, trascinarono con sé le sorti dell’intera città. Nel 1312, quando la città si trovava in condizioni precarie, gli Orsini di Pitigliano subentrarono nel possesso del vastissimo feudo. La grave crisi lasciata dagli Aldobrandeschi mai risolta, la crisi demografica, i conflitti con Orvieto e le innumerevoli epidemie di peste portano Sovana a vivere una grave situazione che si concluse con l’occupazione da parte di Siena nel 1410. Con la sconfitta di Siena da parte di Firenze nel 1557, Sovana, dopo qualche conflitto tra gli Orsini e i Medici, fu incorporata nei possedimenti di quest’ultimi. Ma l’epidemia di malaria, che da sempre affliggeva queste terre, portò le campagne di Sovana ad essere abbandonate. Nel 1690 gli abitanti di Sovana erano solo 120. Il borgo divenne uno dei luoghi più infetti della Maremma, abitata da poche anime disperate, ridotte allo stremo. Sovana era diventata la “cit-
tà di Geremia”. Anche i Lorena tentano un ripopolamento attuando importanti opere urbanistiche tra le quali la pavimentazione della Piazza del Pretorio in mattoni a ricorsi paralleli a spina di pesce tuttora presente, e la demolizione della rocca. La piaga principale per Sovana rimaneva la malaria: Ogni qual volta mi fermo a Sovana, mi ricordo di Famagosta anzi di Magosa, come la chiamano i turchi. Magosa e Sovana hanno la medesima aria bianca: ambedue sono luoghi disfatti. Il silenzio di Magosa è più altero, ma la perdizione di Sovana è forse più irrimediabile.3 Le vedute prospettiche di Sovana realizzate dal Pecci nel 1760 mostrano un villaggio sparuto costituito da poche case, molte delle quali rovinate. Sovana, luogo impervio, diroccato e quasi disabitato divenne meta prediletta nel Romanticismo, per antiquari, artisti, viaggiatori, uomini di cultura, sede di passioni schiette ed idilliache nella sua condizione primitiva tanto ricercata.
Sovana e i suoi territori subirono un rallentamento delle trasformazioni sociali e una regressione rispetto alle lente innovazioni del periodo granducale. Dal 1920 in poi venne avviata la bonifica “integrale” con opere di prosciugamento e disinfestazione. La malaria lentamente venne debellata fino alla totale scomparsa negli anni ‘40. Ma fino agli anni ‘50, Sovana vive una condizione di povertà e degrado estremo, dove l’emigrazione le fa da padrone. Il prolungamento della strada permise di collegare Sovana a S. Martino sul Fiora e, proseguendo, a Saturnia e al Monte Amiata favorendo e incentivando l’attività turistica e archeologica. Nell’area urbana venne ripristinata la via di Sopra col recupero dell’antico tracciato caduto in disuso e restaurate numerose case ed edifici religiosi. 1 2 3
Bernard di Cluny, De vanitate mundi et gloria celesti. Giotto Minucci, La città di Grosseto e i suoi vescovi. Carlo Laurenzi, Le rose di Cannes.
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La necropoli
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Mimmo Paladino, Dormienti, 2008. Villa Pisani, Stra (VE). Foto Fabrizio Pivari, 2008. Rielaborazione Gianluca Buoncore
Da sotto quelle campane quella che giunge è l’eco della mia voce. Quegli occhi di ferro incastonati, porta impenetrabile, altrettante urne, necropoli dello sguardo non sono solo intensamente miei. Sono i miei. (Samuel James Ainsley)
Soltanto nel 1843 gli studi e le scoperte ad opera dall’archeologo inglese Samuel James Ainsley, permisero di conoscere come etrusca questa regione di Maremma, da sempre comunemente creduta come romana. Tutta la valle dei morti era avviluppata da un fitto groviglio di vegetazione che impediva di raggiungere la base dei dirupi sulla cui compattezza tufacea gli architetti dei Rasenna avevano disegnato e realizzato le loro sculture. Nelle forre vulcaniche del territorio suanese il tufo fu scalpellato e rifinito fin dai primi stanziamenti del VII secolo a.C. e questa attività scultorea continuò per tutto l’arco della storia etrusca. Sovana è uno dei maggiori centri rupestri etruschi caratterizzato proprio dalla qualità e quantità di grandi opere ricavate nella nuda roccia senza l’uso di muratura, malta o mattoni. È nel Fosso della Picciolana, dove le alte pareti di tufo giallo contrastano con la ricca vegetazione, che si trova il nucleo maggiore della necropoli suanese, importante per la grande varietà tipologica di tombe. La datazione delle tombe va dal VII-VI secolo a.C. al III-II a.C., età quest’ultima che evidenzia le tipologie più complesse ed evolute. Sul versante settentrionale del torrente Folonia, immersa tra querce e macigni, si trova una necropoli di tombe a semi-dado del III secolo a.C.
L’originale macigno, scolpito in forma di semi-dado o cubo, conteneva una camera ipogea alla quale si accedeva attraverso un breve dromos, mentre la sommità era utilizzata come cippo funerario. Si ritiene che questa tipologia funeraria richiamasse le forme della casa etrusca stilizzata, tant’è che sulla facciata principale vi era una finta porta, simbolo del passaggio dalla vita alla morte. In direzione sud del fosso sono presenti tombe a camera del VII secolo, che denotano la continuità di utilizzo di queste aree sacre. In località Valle Bona si trovano le pendici del monte Rosello, costellato da ingressi di alcune tombe a camera. Tra queste, una tomba su una verticale ed irraggiungibile parete di tufo risalente al IV secolo. Le pareti sono tutte scolpite a cellette, i così detti colombari, utilizzate per deporvi le urne cinerarie. Attraversato il fosso del Calesine si giunge ad una necropoli del IV-III secolo a.C. con tombe rupestri di vario tipo. La tomba più importante tra queste è senza dubbio la Tomba del Sileno situata a mezza via sulla parte più alta del poggio. È una tomba pressoché unica senza altre corrispondenze. Si tratta di una struttura cilindrica sulla cui superficie sono scolpite in bassorilievo sei colonne con capitelli. È ipotizzabile che tale struttura sia la sintesi
architettonica di un tempio. Il sepolcro si trova sotto al monumento, a pianta rettangolare, al quale si accede attraverso un corridoio. Nella direzione di San Martino sul Fiora si trova la necropoli di Sopraripa, l’area etrusca più celebre e affascinante. Il monumento più importante è la Tomba della Sirena, posta all’inizio della necropoli su un rialzo roccioso. In un unico masso monolitico è scolpita un’edicola arcaica e possente. La camera sepolcrale, come di consueto, si trova al di sotto del monumento. In località Poggio Grezzano si trova la Tomba Pisa, la più grande tomba a camera di tutta l’area collinare. All’interno del sepolcro si susseguono svariati locali, disposti secondo una pianta irregolare e curvilinea e separati tra loro da alcuni semitramezzi. Anche in questo caso l’accesso alla tomba è preceduto da un dromos. Poco oltre la necropoli di Sopraripa si trova la Tomba Ildebranda, unico modello ancora visibile di tomba a tempio. La realizzazione del monumento avvenne tagliando e scalpellando un’enorme massa rocciosa. Attraverso l’o-
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Analisi dell’area: in rosso i siti della necropoli intorno a Sovana. Elaborazione Gianluca Buoncore in alto
Complesso e sezione della Tomba Ildebranda presso la necropoli di Sovana. In Ranuccio Bianchi Bandinelli, "Sovana. Topografia ed arte: contributo alla conoscenza dell'architettura etrusca", 1929
perazione di sottrazione della materia prese vita la forma di un tradizionale tempio etrusco di età ellenistica. La facciata del tempio è impostata su dodici colonne scanalate, in riferimento alla dodecàpoli etrusca. Sulla platea antistante il tempio sono scavati due corridoi funerari. Quello principale conduce allo spazio ipogeo cruciforme. Il dromos laterale invece immette in una tomba considerata più antica con un soffitto lavorato a cassettoni che riproduce il soffitto di una casa etrusca. Poco più avanti si trova la Tomba Pola che, come l’Ildebranda è stata realizzata scolpendo un masso roccioso. Anche in questo caso, torna il tema del dromos che conduce ad una camera ipogea a pianta cruciforme. Sotto la rupe di Poggio Stanziale si trovano alcune tombe a semi-dado e dei loculi orizzontali di età romana o cristiana. Sotto la parete di tufo spicca un’edicola rialzata sopra una massiccia pedana rocciosa. Il monumento, di età ellenistica, prende il nome di Tomba del Tifone, nome del mostro mitologico scolpito sul frontone. Lateralmen-
te alla tomba, scolpiti nella roccia, una serie di gradini conduce sulla sommità, probabilmente utilizzata per ritualità funebri. Una serie di corridoi interrati sono disposti a schiera e, uno tra questi, sicuramente conduce alla camera sepolcrale. A metà strada tra Sovana e Sorano, in località pian Casale, si trova un sito ricco di tombe arcaiche. Tra i numerosi sepolcri troneggia un megalite scolpito ad arco con un grande leone in rilievo. Lo stile, arcaico dell’effige leonina, elemento atipico dell’arte etrusca e più vicino ai culti orientali, rende difficile la collocazione storica. Le necropoli rappresentano la parte più importante di Sovana come città etrusca, poiché rappresentano e riflettono il sistema sociale, politico e religioso. Partcolare intresse è l'uso delle tipologie di sepoltura per distinguere le varie classi sociali: le tombe gentilizie esposte a est e quelle plebee a ovest.
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Le vie cave
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Lucio Fontana, Concetto spaziale: Attese, 1960. Van Abbemuseum, Eindhoven. Foto Jean Luis Mazieres, 2017. Rielaborazione Gianluca Buoncore
Tutte à fatto stupir le Dee Latine, Ne Virbio men stupor dentro al cor serra Di quel, che vide già ne le Tarquine Valli formarsi un’ huom di pura terra. Ch’ei non credette mai veder tal fine D’una gleba fatal, ch’era sotterra. Il vomero scoprilla, ella si mosse Da se medesma: egli à mirar fermosse. Stupido l’arator le luci intende Ne la gleba fatal, come si move, E vede, ch’ altra forma acquista, e prende, E che in tutto il terren da se rimove. Tal che fatto un garzon, spira, et intende, E disse à l’arator cose alte, e nove. Tage il nomaro, e fu il primo indovino, Ch’ivi insegnò à predir l’altrui destino. (Ovidio)
Il rapporto che gli Etruschi hanno col sottosuolo, con lo scavare, con l’incidere la terra trova chiaro collegamento con la mitologia della loro religione: dall’incisione della terra prende vita Tagete, l’infans che insegnò la religione al popolo Etrusco. L’attività di scavo, di incisione e modellazione della roccia viva, trova in queste aree massima espressione nelle vie cave, il cui taglio rappresentava un’opera di sacralizzazione del territorio attraverso cui generare un collegamento diretto con il sottosuolo, le sorgenti, i boschi e le balze per le sepolture. Il percorso delle vie cave potrebbe essere stato ideato come sofisticato sistema di intervento sul terreno e sul territorio per modificarne la fecondità, legate al culto delle divinità del sottosuolo che essi massimamente veneravano. La presenza abbondante di acque sotterranee è un altro particolare segno che si ritrova nelle zone attraversate dalle vie cave. Il culto delle acque fu per gli Antichi una delle più importanti e diffuse espressioni della sacralità degli elementi naturali. Questa magia delle acque miracolose è un ulteriore elemento in relazione alle vie cave etrusche, che attraverserebbero l’interiorità della terra con lo scopo di rendere fecondo il mondo naturale, prima dimora degli esseri umani, di quelli inferi e di quelli divini. Le vie cave si trovano prevalentemen-
te nella zona meridionale della Toscana, nella valle media del Fiora dove scorre il fiume Lenta, tra Sorano e Pitigliano. Realizzate forse tra il IX e l’VIII secolo a.C. hanno la particolarità di essere incise nei suoli tufacei. Semioscurità, odori intensi, un microclima umido e ricco di vegetazione rendono questi spazi ricchi di un arcaico misticismo. Non è ben definita la funzione di queste “tagliate” ma l’ipotesi più comune è che fossero strade di collegamento, per quanto l’andamento parallelo e labirintico non collimi con la piena fruibilità pratica. Si ipotizza dunque che il vero fine delle vie cave fosse legato a rituali mistico-religiosi. Quasi tutte attraversano o sono situate in prossimità di una necropoli, o partono dai poggi dove erano ubicati gli insediamenti e nei punti più alti di questi percorsi è possibile godere di ampi scorci visuali sul paesaggio. Molte di queste opere presentano alcune similitudini tra loro come la lunghezza del taglio nella roccia e la larghezza, la presenza di scale modellate nel tufo per superare i dislivelli, l’utilizzo di canalette di scolo per le acque piovane. La profondità delle pareti di questi percorsi può raggiungere anche i venticinque metri. Il Cavone rappresenta una delle testimonianze più affascinanti di Sovana etrusca, per il silenzio profondo che vi
regna, per l’atmosfera arcaica che lo permea, per la maestosità delle sue altissime e strette pareti. L’ambiente suggestivo portò nel medioevo a credere che questi luoghi fossero dimora del diavolo e ciò indusse gli abitanti a costellare le pareti di nicchie con effigi di madonne. Il Cavone è una strada straordinaria anche dal punto di vista naturalistico e botanico per le piante tipiche dei luoghi umidi e ombrosi. Il mistero che avvolge le Vie Cave ha portato a ipotizzare queste opere come dei percorsi sacri utilizzati dalla collettività: l’individuo, attraverso il movimento instaura un processo evocatore delle caratteristiche intrinseche dell’ambiente che lo avvolge. Le vie cave etrusche sono un esempio unico ed eccezionale di come un antico culto della Terra si sia spinto fino alla realizzazione di una geografia sacra del territorio rupestre. Questo fu tagliato e scalpellato perfettamente, modellato e ‘sgrezzato’ secondo arte, scienza e spiritualità, così da ritrovarsi in armonia con l’orientazione celeste e con l’ambiente naturale e le sue magiche e segrete ‘forze’.
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Via cava il Gradone, Sovana. La via cava, parte del Museo Archeologico all'aperto "Alberto Manzi", presenta una lunghezza di 350 metri e pareti alte fino a 15 metri. Foto Francesco Bini, 2019 sotto
Schema delle vie cave intorno a Sovana. Giovanni Feo, "Il mistero delle vie cave etrusche", 1993
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Il progetto
Lux cavat lapidem
pagina precedente Eduardo Chillida, Homenaje a Luca Pacioli, 1986, particolare. Museo Chillida-Leku, Hernani. Rielaborazione Gianluca Buoncore
Nell’infanzia del tempo l’arte fu preghiera. Poco è rimasto di quella infinita bellezza. Ora non siamo più capaci nemmeno di pregare. Camminiamo come ciechi tra le rovine.1 (Claudio Parmigiani)
La terra, il cielo. L’ombra, la luce. La vita, la morte. La congiunzione degli opposti e il cammino di scoperta. Un gesto sacralizzante, un gesto archetipo e preistorico. Un taglio nella roccia, un'incisione nel terreno, quel gesto violento che genera sacrificio. Frammenti di roccia, resti archeologici di un organismo vivente fossilizzato. Un cerchio di pietre di dimensioni colossali, altari sacri scavati nel grembo della Madre, totem di sangue e ossa e pietra: Com’è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del Cielo.2 Intagliati sul fianco dello sperone roccioso su cui nasce Sovana, rivolti a nord verso la Toscana e il Monte Amiata, altari colossali generano un sistema di strada-piazze, uno spazio dinamico nel cuore della terra. A sud, regno degli dei inferi, le maestose pietre si proiettano dal terreno come ideali terrazze create per arte di levare. A nord, dimora degli dei del cielo, massi isolati si affacciano verso il vuoto, il precipizio verso la valle delle necropoli, limitando lo spazio sacro interno e incorniciando ciò che di sacro vi è all’esterno. Uno spazio stretto tra un qui e un altrove, dove il cielo e la veduta diventano il punto di contatto tra il corpo e l’anima.
Da est a ovest il cammino, dalla nascita della vita verso il sole che muore, il percorso all’interno delle pietre, in una ideale ricerca di verità percorrendo il mistero. Ci si muove tra ciò che non è più, andando verso ciò che non è ancora, passando attraverso un confine fragile e sottile chiamato ‘ora’ che è troppo sfuggente per essere afferrato. Come pietre appena cavate alla luce della notte solida, frammenti di un edificio virtuale indecifrabile, messi in atto al di là del tempo, dal tempo ridotti da edificio a geografia, animati per sempre da relazioni già trasferite dall’ordine delle cose naturali a quello dell’architettura.3 Una scala monumentale intagliata nella roccia conduce, dalla luce all’ombra, nel cuore del progetto. Una strada analoga a quella esterna articola lo spazio distributivo tra le varie pietre. Un grande nastro metallico si snoda tra le pietre mute, separando un sopra e un sotto, una terra da un irrompente cielo. Tra pietra e pietra, scanditi dalla luce trasformata in veduta, gli ingressi ai vari blocchi. Masse compatte, sostanza del tempo infinito, vengono scavate dalla luce, trasfigurazione ideale dell’acqua nel suo lavoro lento e inesorabile.
La terra si apre, si plasma sotto l’azione implacabile della luce che modella lo spazio. Equilibrio, forma, ordine, geometria: la luce umanizza lo spazio e il tempo. L’opposizione tra natura astratta della regola e l’infinita mutevolezza dell’elemento naturale, esplicita l’eterna lotta tra opposti. In questa lotta trasformata in dialogo, luce e spazio reciprocamente si cercano fino a fondersi. La luce diventa la regola, è colei che dona un’anima allo spazio e sotto la cui azione l’architettura esiste. Le masse compatte dei volumi controterra sono sempre scavate dalla luce zenitale che genera pozzi sui quali si affacciano gli ambienti interni. Non vi è nessun rapporto visuale con l’esterno se non con il cielo. Solo nei volumi a nord si aprono tagli e scorci verso il paesaggio che instaurano un rapporto diretto con l’ambiente naturale. Tutti gli interni sono trattati come volumi pieni consumati ed erosi dall’azione della luce: Ritengo che la luce sia fonte di ogni presenza e la materia sia luce consunta.4
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Secondo Platone è possibile vedere il corpo del Sole ma non la sua anima. Negli spazi interni del progetto è possibile vedere l’azione che la luce compie ma non il suo corpo. La luce diventa mistero, mano divina che trasforma una massa inerme di pietra in spazio architettonico. Tutto il progetto è realizzato in calcestruzzo armato con inerti di pietra locale. La monomatericità dell’impianto accresce l’idea di un manufatto realizzato nel cuore della terra, una ideale massa scavata dove è possibile leggere la stratificazione del terreno. Il calcestruzzo posato in gettate di 50 centimetri a maturazione di quello precedente, diventa una mappa dove leggere lo scorrere del tempo. Gli inerti di pietra locale conferiscono unicità alla qualità del calcestruzzo legandolo al
sito e donando gradazioni cromatiche differenti strato dopo strato. Il segno dello scavo, della grotta, dell’arte di creare per sottrazione tipica del modus operandi degli Etruschi diventa la fonte di ispirazione per tutti gli ambienti interni. Ed ecco che gli spazi distributivi si articolano in volumi variamente disposti scanditi da una luce morbida che giunge per riflesso e scandisce lo spazio. I solai si staccano permettendo all’irrompere della luce di penetrare negli interni fin negli spazi più profondi lavorando sui contrasti e accentuando lo scorrere del tempo. Nella regola ferrea che norma e tiene insieme tutti gli edifici, il museo rappresenta una eccezione. La massa di pietra subisce una deformazione interna. Il vuoto interno ruota rispetto al corpo esterno spinto dalla necessità
inarrestabile di rivolgersi verso la montagna sacra. Lo spazio interno è scavato da nicchie dove penetra la luce naturale. L’anima di quello spazio risiede nel muro, un muro scavato, un muro abitato, un muro che diventa esso stesso il museo, null’altro. La luce, invisibile apparizione, scava lo spazio che accoglie le esposizioni investendole di un’aurea sacrale. Nel ritmo delle nicchie che avvolgono e generano il vuoto centrale, si inserisce la grande finestra ritagliata sul paesaggio: la luce diventa visione. L’esterno entra nel ritmo delle esposizioni diventando esso stesso percorso espositivo. Tutto il museo dunque diventa una grande camera oscura dove il Monte Amiata è il punto di fuga di un nuovo orizzonte.
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pagina precedente Necropoli del Crocefisso del Tufo, Orvieto, VI secolo a.C. Fotografia: Artstor, library.artstor.org/asset/SCALA_ ARCHIVES_1039779853. (c) 2006, SCALA, Florence / ART RESOURCE, N.Y. Planimetria parziale: Artstor, library.artstor.org/asset/ ARTSTOR_103_41822003500582. Rielaborazione Gianluca Buoncore a destra Eduardo Chillida, Tindaya Project, interior (cavern in daylight). Da Gobierno de Canarias (ed.), Montaña Tindaya. Eduardo Chillida (exh. cat.), Fuerteventura, 1997, p. 165. Da Antje von Graevenitz, Light rooms in Tindaya Mountain and the Roden Crater: Turrell's realization and Chillida's proposal, in "Sculpture Journal", 2018, Vol.27 (3), p.309-321
Osservare il vuoto che è fatto di luce che lascia; osservare l’infinito che è dentro questo vuoto.5 Da est a ovest, una via processionale scandita dalla luce porta alla biblioteca. Un angolo eroso, scavato, genera una variante, l’ingresso alla biblioteca. Un anello distributivo percorre tutto il piano terra separando un cuore da un corpo. Nelle masse perimetrali nicchie scavate accolgono i libri, piccoli sacelli che si aprono verso la luce del cielo. Sono spazi raccolti, intimi, dove un’atmosfera di silenzio e luce avvolge ogni cosa. Al centro il cuore, il sacrarium. Un cubo vuoto, fatto di pietra e luce. La massa dura e compatta è scavata in quattro tagli che consumano la materia e permettono alla luce di penetrare animando lo spazio.
Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che il sole.6 Nella luce sacrale prendono forma le parole, incise nella pietra, in una lingua sconosciuta ma in grado di parlare all’anima. Come schegge celesti, frammenti di alfabeti bruciano cadendo.7 Vuoto e luce e Dio: la casa dell’anima. Un cubo generato dal vuoto. Una figura stabile, inerte. Le sue facce, orientate in coppie opposte corrispondenti alle direzioni dello spazio, le coordinate spaziali che determinano il mondo terrestre identificate con il polo sostanziale della terra. L’uomo, nella sua forma perfetta si colloca al centro di quel mondo come sua sintesi integrata.8
Tornare al centro dello spazio architettonico equivale simbolicamente al ritorno al centro dell’universo, al proprio centro, un ritiro dalla periferia disintegrata al punto di rigenerazione spirituale; risalire ritualmente l’asse dell’edificio è tornare al centro supremo che ingloba tutti gli stati dell’esistenza e tutti gli stati dell’essere. È il ritorno al regno che, essendo spaziale, è Infinito e, essendo atemporale, è Eterno.9
Claudio Parmiggiani, Una fede in niente ma totale. Genesi 28:17. 3 Francesco Venezia, Scritti brevi. 4 Louis Isadore Kahn. 5 Claudio Parmiggiani, Una fede in niente ma totale. 6 Dante, Convivio III XII 7. 7 Claudio Parmiggiani, Una fede in niente ma totale. 8 Adrian Snodgrass, Architettura, tempo, eternità. 9 Ibidem. 1
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pagine 44-45 Sezioni CC', DD' Sezione EE' e prospetto Disegni originali scala 1:200 pagine 46-47 Vista della strada esterna Vista del foyer pagine 48-49 Vista spazio distributivo delle aule Vista della "cella" residenziale pagine 50-51 Vista del museo Vista della biblioteca. Particolare degli scaffali pagina 53 Vista della biblioteca. Particolare del foyer
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Prima o poi, poi o prima le parole dette le parole scritte, presto o tardi tutte le parole sono destinate a sparire spariscono. Le parole sulla carta, le parole sulle pietre, le parole sui rami spariranno tutte. Se queste parole e non parole sono scritte su materie che presto si decompongono, che durano poco più di un attimo o poco più di un millennio che cosa esse sono? (Emilio Villa)
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Al ‘tempo minore’ ora succede il Grande Tempo, nell’opera si impone il Mistero. La poesia si rivolge all’ombra, alla propria origine. La parola è agonia, rantolo, voragine, vox clamantis nell’immenso vuoto. Infine silenzio, polvere, nulla. Claudio Parmiggiani
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Bibliografia
pagina precedenteYves Klein,
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Indice
Presentazione Fabio Capanni
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Il sacro
9
La Disciplina
13
La città
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La necropoli
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Le vie cave
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Il progetto Lux cavat lapidem
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Bibliografia
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didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze ottobre 2023
Come pietre appena cavate alla luce della notte, frammenti di un edificio virtuale indecifrabile, messi in atto al di là del tempo, dal tempo ridotti da edificio a geografia, animati per sempre da relazioni già trasferite dall’ordine delle cose naturali a quello dell’architettura. Masse compatte, sostanza del tempo infinito, vengono scavate dalla luce, trasfigurazione ideale dell’acqua nel suo lavoro lento e inesorabile. La terra si apre, si plasma sotto l’azione implacabile della luce. Equilibrio, forma, ordine, geometria: la luce umanizza lo spazio e il tempo. La natura astratta della regola e l’infinita mutevolezza dell’elemento naturale. In questa lotta trasformata in dialogo, luce e spazio reciprocamente si cercano fino a fondersi. La luce diventa la regola, dona un’anima allo spazio e sotto la sua azione l’architettura esiste. Gianluca Buoncore Soverato (CZ), 1990. Dottore magistrale in Architettura, studia e si laurea a Firenze nel 2016 con il Prof. Fabio Capanni, con il quale svolge attività di collaboratore dal 2012. Dottorando del XXXVI ciclo presso la stessa università. Svolge attività di ricerca presso il DIDA e riviste scientifiche e internazionali.
ISBN 978-88-3338-204-3