barbara bergamo
Comporre l’infranto Ri-scrittura della Stazione Leopolda in Livorno
tesi | architettura design territorio
Il presente volume è la sintesi della tesi di laurea a cui è stata attribuita la dignità di pubblicazione. “Per la qualità del progetto, per la capacità di evocare suggestioni e memorie anche grazie il mezzo grafico dell’acquaforte che richiama antichi sapori della rappresentazione”. Commissione: Proff. F. Capanni, M. G. Eccheli, F. Fabbrizzi, M. Sala, A. Cucurnia, M. C. A. Bevilacqua, L. Barontini
Ringraziamenti Elogio della gentilezza…di chi era già sul treno e ha teso la mano per farmi salire, mi ha ceduto il posto al finestrino ed ha proseguito il viaggio insieme a me, indicando talvolta lontane città invisibili. Ai rari incontri con l ’Architettura. Ai viaggiatori erranti che vagando per strade familiari si risvegliano in vicoli sconosciuti, a chi è saltato a bordo dopo, oppure è sceso prima, restando indissolubilmente parte del racconto.
in copertina Barbara Bergamo, “Teatrino Shakespeariano”, tecnica: ceramolle, acquaforte, acquatina, dimensione matrice 500x500mm, tipo di carta Hahnemühle, dimensione foglio 70x70cm, inciso nell’anno 2018, stampato nell’anno 2019 all’Ateler l’Armadillo 51r, Firenze.
a pagina 5 | 6 Giovanni Battista Piranesi, “Carceri d’invenzione”, Frontespizio. Acquaforte lastra di rame mm 545x410. Giovanni Battista Piranesi, “Carceri d’invenzione”. Acquaforte lastra di rame mm 545x410.
progetto grafico
didacommunicationlab Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Susanna Cerri Gianluca Buoncore
didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2020 ISBN 978-88-3338-119-0
Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset
barbara bergamo
Comporre l’infranto Ri-scrittura della Stazione Leopolda in Livorno
pagina precedente Martin Scorsese, Hugo Cabret, 2011.
La Stazione “Se una notte d’inverno un viaggiatore”
I binari entrano in città accolti dalle lunghe braccia e dalla HALL delle ottocentesche stazioni. La HALL traguarda l’abitato da alte arcate chiuse da portali in vetro, in legno e in prezioso ottone. Lì si consumano gli arrivi e le partenze di genti che intrecciano per pochi istanti le loro vite. L’intrigante e “spaesante” spazio - le cui misure sembrano dettate dalla stessa dimensione della città di appartenenza - è una piazza coperta e recinta da spessi muri quasi sempre rivestiti da lastre di marmo, interrotte da vani che introducono agli essenziali servizi di un viaggiatore. Attraversato da un fiume di persone, il grande vuoto era un tempo dominato dall’esagerato OROLOGIO: l’icona più riconoscibile tra tutti gli orologi ancor oggi dispersi(ultimi superstiti) su facciate e su binari, accanto ai nuovi display. Ai bambini, l’OROLOGIO delle stazioni appariva ancor più dilatato di quello in cui - nella voluta citazione di Martin Scorsese del film SAFETY LAST degli anni ’20 - il giovane HUGO si trova appeso a una smisurata lancetta. HUGO è l’orfano che abita e si nasconde negli anfratti della stazione di Montparnasse: è il ragazzo che - nella sorprendente narrazione del geniale regista che coniuga la realtà dilatata della stazione ottocentesca ad una fiaba del futuro… - ama i misteriosi congegni, e ripara gli innumerevoli orologi della stazione di Parigi. Gli Orologi erano, allora, sempre grandissimi, anche nelle piccole e fumose stazioni di provincia: quelle costruite, con gli stessi e identici elementi identitari, in fregio ai binari, e raccontate nel 1979 da Italo Calvino nel suo “Se una notte d’inverno un viaggiatore”: “Le stazioni si somigliano tutte; poco importa se le luci non riescono a rischiarare più in là del loro alone sbavato, tanto questo è un ambiente che tu conosci a memoria, con l’odore di treno che resta anche dopo che tutti i treni sono partiti, l’odore speciale delle stazioni dopo che è partito l’ultimo treno. Le luci della stazione e le frasi che stai leggendo, sembra abbiano il compito di dissolvere più che di indicare le cose affioranti da un velo di buio e di nebbia. Io sono sbarcato in questa stazione stasera per la prima volta in vita mia e già mi sembra di averci passato una vita, entrando e uscendo da questo bar, passando dall’odore della pensilina all’odore di segatura bagnata dei gabinetti, tutto mescolato in un unico odore che è quello dell’attesa …”. La melanconia di quell’attesa, consumata in tanti versi letterari, si tramuta oggi in un solitario e insieme frenetico desiderio di consumo. La VELOCITA’, in uno SPAZIO/TEMPO sempre più accartocciato, “di là della storia e del mito, ovvero - per dirla alla Fëdor Dostoevskij - nel tempo della malattia” che esige il superamento delle grandi “stazioni di testa”, in favore di nuove “stazioni passanti”, ma, soprattutto, esige la loro trasformazione in macchine con un altissimo livello di comodità tecnologica. In quei “non luoghi”, organizzati come aeroporti, il viaggiatore - ricorda Marc Augè - si sente rassicurato dal franchising, ovvero dalla ripetizione di negozi a lui familiari(sciliget: Intimissimi /Armani Jeans/ ZARA”/Moleskin etc.), di ristoranti, fast-food e dagli stessi simboli e stessi colori che si ritrovano in tutte le parti del pianeta. Gli spazi “sprecati” delle stazioni, delle loro enormi estensioni - sono oggi consumati da mille negozi.
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pagina precedente Vittorio De Sica, Stazione Termini, 1953.
Il VUOTO sorprendente, ad esempio, della galleria nella STAZIONE TERMINI, coperta da una struttura ondulata che permetteva alla luce zenitale di costruire poetiche atmosfere dilatate all’infinito, sopravvive solamente nelle scene di tanti film del neo-realismo: nelle sequenze in bianco e nero di Vittorio De Sica, in cui la struggente storia d’amore di una ricca straniera con uno squattrinato professore universitario si consuma interamente dentro la stazione di ROMA. Ma, se l’alta marea del consumo sembra cancellare parte dei caratteri di questi luoghi, è il loro stesso ABBANDONO a disvelare una sorprendente capacità di GENERARE PROGETTO: il vuoto della hall, le innumerevoli stanze, i binari dismessi che occupano vaste aree di terra nel bel mezzo della città, si rivelano disponibili a divenire ALTRO… a mutarsi in luoghi particolarmente intriganti e attrattivi: Musei, come nella parigina GARE D’ORSAY, giardini d’inverno a Madrid, lussuosi alberghi come CRAWFORD HOTEL…il percorso sopraelevato della HIGH LINE a New York…) LA “ LEOPOLDA” DI LIVORNO è una silenziosa presenza tra la TERRA e il MARE: tra le antiche MURA LEOPOLDINE e la caotica area del PORTO. La Stazione SAN MARCO(dai livornesi chiamata “la Leopolda”), era deputata al trasporto di uomini e merci che venivano e partivano dal mare. Costruita nella prima metà dell’ottocento per disegno del granducato di TOSCANA, quasi subito abbandonata( 1911) in favore della nuova stazione di transito costruita a est della città. Oggi “la Leopolda” è una enorme ROVINA in attesa di un suo risarcimento, in attesa di un NUOVO INIZIO. Il progetto di tesi di Barbara nel prevedere una sua possibile destinazione ad Alta Scuola di Progettazione legata alla Nautica, compie una prima azione di SOTTRAZIONE di tutti quegli elementi casuali aggiunti nel corso degli anni e, sorprendentemente, ri-trova spazi in grado di accogliere anche quelle funzioni che possono sopravvivere aldilà l’orario della Scuola( bar, ristorante, piccolo auditorium….). La seconda azione è lo SCAVO di parte della corte un tempo invasa dai binari; nel mettere alla luce il piano interrato, lo scavo diviene una vasca d’acqua atta a ospitare la costruzioni di nuove imbarcazioni. Infine TRE NUOVI PARALLELEPIPEDI, spazi di luce e di ombra, svolgono anche un sostanziale ruolo strutturale. Sono esagerate sculture di bianco cemento che sostengono una vasta copertura cassettonata di miessiana memoria. Lo staccarsi della nuova copertura dalla possente muratura ottocentesca inventa, nel buio della notte, una lamina di luce artificiale; di giorno, nel coprire la grande corte, permette alla luce naturale di disegnare, quasi meridiana, lo scorrere delle ore e delle stagioni…. I TRE PARALLELEPIPEDI al loro interno si trasformano: in TORRE LABIRINTICA DI LIBRI, memore dei racconti di un Borges; in TEATRINO di sapore shakespeariano e in GIARDINO SEGRETO che profuma di aromi. Con rara maestria Barbara, snobbando le mode dei “rendering”, restituisce tutti i disegni di progetto attraverso l’antica tecnica dell’INCISIONE, sprofondando i segni in nerissime ombre, in memorie Piranesiane. E l’ASSENZA della vecchia stazione è PRESENZA di un NUOVO INIZIO. Maria Grazia Eccheli Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
Progressus ad originem e regressus ad futurum
pagina precedente Barbara Bergamo, “Liburnia”, Matrice di zinco, 500x500mm.
È così che l’ unione tra il passato e il futuro è nell’idea stessa della città che la percorre, come la memoria percorre la vita di una persona e che sempre per concretarsi deve conformare ma anche conformarsi nella realtà. E questa conformazione permane nei suoi fatti unici, nei suoi monumenti, nell’idea che di essi abbiamo. (Aldo Rossi)
Liburnia: storia di un porto e la sua città
Livorno diventa città all’inizio del 1600 per volere dei Medici, è l’unica, tra le città toscane, ad essere “di fondazione”, la pianta è stata disegnata dall’architetto Bernardo Buontalenti nel 1576, sotto l’incarico di Francesco I, la cui volontà era di realizzare un modello urbano che doveva non solo accogliere ma anche sollecitare gli interessi economici e le nuove richieste sociali di una realtà in continua espansione. La storia di Livorno è indissolubilmente legata alla morfologia del territorio, un’insenatura dalla forma di “porto naturale” e un’ampia pianura costituita da roccia arenaria chiamata “panchina”, grazie alla quale, quest’area non subì i mutamenti che invece interessarono il vicino Sinus Pisanus, che accogliendo la foce dell’Arno, scomparve lentamente durante i secoli nei detriti accumulati dal fiume, lasciando il posto ad una vasta area lagunare e paludosa. Il villaggio di Livorno nacque come aggregazione spontanea di case attorno ad una antica Torre Romana, e durante tutto il medioevo non svolse una funzione rilevante e autonoma rispetto al Porto Pisano, rimase infatti privo di mura fino alla fine del XIV secolo. Le più antiche testimonianze architettoniche sono il Mastio della Contessa Matilde e la Quadratura dei Pisani, un piccolo fortilizio costruito nel 1377 più a
protezione del porto che del villaggio. Durante il successivo dominio genovese furono ampliate le mura e il porto, è attribuito ad Antonio da Sangallo il Vecchio il progetto per una grande fortezza bastionata che incorporasse il Mastio e la Quadratura, e che, grazie alla sua estensione, offrisse anche rifugio alla popolazione in caso di pericolo. Quando la Signoria Fiorentina entrò in possesso dell’area nel 1530 iniziarono i veri mutamenti morfologici della città; questi ebbero inizio dall’ampliamento del porto, predominava l’idea di Livorno come importante scalo marittimo, “novello emporio toscano”. In un primo momento l’incarico fu affidato a Bartolomeo Ammannati, il suo progetto prevedeva due moli ortogonali che si congiungevano alla torre del fanale, ma il progetto non fu mai realizzato, venne invece rafforzata la fortificazione delle vecchie mura e realizzato il canale dei Navicelli che risolveva definitivamente il problema del collegamento tra Pisa e Livorno. Il progetto di Bernardo Buontalenti testimonia la priorità data da Francesco I alla costruzione della città, aumentando le possibilità ricettive dell’abitato e dotandolo di un valido sistema di fortificazione. Il progetto buontalentiano prevedeva una città per 12.000 abitanti, a pian-
ta pentagonale,1 orientata verso il santuario di Montenero, 4 bastioni in corrispondenza di 4 vertici mentre il quinto coincidente con il vecchio nucleo della Fortezza Vecchia. Due assi ortogonali si incontravano al centro del pentagono, evidenziando gli assi viari principali, e dettando la regola della maglia ortogonale secondo cui era strutturato lo spazio urbano. Le strade avevano tutte la stessa dimensione, senza gerarchie. Lo schema pentagonale apparteneva alla tradizione delle fortificazioni nella seconda metà del cinquecento e ricalcava il modello pitagorico del pentagono, collegato alla nozione di sezione aurea e considerato già nel rinascimento “proporzione divina”.2 Il perimetro della nuova città, lungo quattro chilometri, era circondato da un ampio fossato comunicante con il mare. Nelle mura si aprivano quattro porte: Porta a Mare, Porta a Pisa, Porta dei Navicelli e Porta Nuova. La fine del secolo fu caratterizzata dal potenziamento dell’assetto difensivo, vennero rafforzate le fortificazioni verso sudest e progettata una nuova fortezza; Don Giovanni de’Medici, esperto ingegnere militare, che si “dilettava anche in architettura”, insieme all’ingegne-
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pagina precedente Barbara Bergamo, “Liburnia”, tecnica: ceramolle, acquaforte, acquatinta, dimensione matrice 500x500mm, tipo di carta Hahnemühle, dimensione foglio 70x70cm, inciso nell’anno 2018, stampato nell’anno 2019 all’Ateler l’Armadillo 51r, Firenze.
re Claudio Cogorano disegnò la Fortezza Nuova. L’aspetto fortificatorio della città buontalentiana venne messo in discussione soprattutto in riferimento all’eccessiva lunghezza delle cortine tra i baluardi che venne corretta con l’inserimento di “falsebrache”. Livorno era ormai il principale porto commerciale di “deposito” e di “commissione” di tutto il bacino del Mediterraneo, uno dei più trafficati scali, enorme magazzino e centro economico, città cosmopolita per eccellenza era animata da mercanti di qualsivoglia nazione. Richiamate da particolari statuti, come le ben note “Leggi Livornine”,3 dalle agevolazioni sull’acquisto di alloggi e dalla nuova Riforma Doganale, si stabilirono a Livorno le prime colonie straniere formate da mercanti Spagnoli, Portoghesi, Greci ed Ebrei. Era diventato necessario ridimensionare il porto, Cosimo II “…ordinò che il secondo molo giungesse alla Sassaia, e di qui, ad angolo retto, partisse il terzo per proseguire parallelo al primo. In sette anni lo compì, come oggi si vede, ed ebbe nome Molo Cosimo. Questo Porto Mediceo fu annoverato tra le migliori e più solide opere del suo genere”.4 Furono successivamente costruiti due nuovi quartieri, La Venezia,5 ad opera
di Giovan Battista Santi, e il quartiere S.Marco. Nel settecento, quando il governo del Granducato passò ai Lorena, che regnarono in due epoche, distinte dalla rivoluzione Francese, l’immagine di città-fortezza si dissolse.
La pianta pentagonale era molto usata per le fortificazioni, il riferimento più citato è sicuramente quello della fortezza da Basso a Firenze disegnata da Antonio da Sangallo il Giovane, ma contemporaneamente venivano redatti anche altri progetti come le cittadelle di Torino ed Anversa disegnate da Francesco Tagliapietra, detto Paciotto. Questa forma geometrica diventò il modello di tante architetture militari, oltre ad essere legata a vari simbolismi, aveva la forma perfetta per resistere allo “scantonamento” degli angoli, l’angolo ottuso aumentava infatti la possibilità di difesa. 2 Luca Pacioli, frate matematico, nel “De Divina Proportione”, opera completata nel 1498, definì la sezione aurea “proporzione divina”, approfondendo lo studio di teologia, filosofia, musica e architettura in relazione al rapporto aureo. 3 Con le “Leggi Livornine” si garantivano la cancellazione dei debiti contratti con stranieri, l’esenzione di tasse e l’annullamento di condanne penali. Nel 1593 il cosidetto “privilegio” venne ampliato diventando la “Costituzione Livornina”. La “Livornina” era indirizzata a ebrei e mercanti di qualsivoglia nazione che fossero venuti ad abitare a Livorno e a Pisa, questa recitava: “Il Serenissimo Gran Duca… a tutti Voi Mercanti di qualsi1
voglia Nazione, Levantini, Ponentini, Spagnuoli, Portughesi, Grechi, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani, dicendo ad ognuno di essi salute… per il suo desiderio di accrescere l’animo a forestieri di venire a frequentare lor traffichi, merchantie nella sua diletta Città di Pisa e Porto e scalo di Livorno con habitarvi, sperandone habbia a resultare utile a tutta Italia, nostri sudditi e massime a poveri…” 4 Ugo Cannessa, 1947-1997 Mezzo secolo per il Porto e la Città, 50 anni di storia della Compagnia Portuale, Un porto e una città immagini e documenti del lavoro portuale, le radici. 5 I riferimenti per il nuovo quartiere non provenivano solo da Venezia ma anche da alcune città olandesi costruite nei primi decenni del 1600, l’incarico fu affidato a Giovanni Battista Santi, Provveditore all’Arsenale di Pisa, che nel 1629 realizzò una sorta di isola percorsa da canali, con ponti e scale, utilizzando maestranze veneziane per risolvere i problemi tecnici. Il nome celebrativo di questo quartiere doveva esse “Isola Ferdinanda”, assunse invece rapidamente la denominazione di Venezia Nuova.
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pagina precedente Luca Barontini, Mura medicee, Fotografie.
Il Granduca di Toscana Leopoldo II di Lorena con un motu proprio, nel luglio 1834, approvava l’ampliamento della zona del porto franco. L’iniziativa granducale rispondeva a due principali esigenze, accogliere le richieste pressanti del ceto dei commercianti e rafforzare il controllo daziario per combattere il fenomeno del contrabbando. L’estensione del porto franco era considerato l’unico strumento capace di dare una spinta propulsiva all’economia cittadina, a discapito dello sviluppo dell’industria locale. Il benefitio libero, quel particolare regime fiscale che aveva determinato il rigoglioso sviluppo del porto di Livorno nei secoli passati, consisteva nell’alleggerimento dei dazi di deposito. Grazie a queste misure Livorno era diventata uno scalo importante nella rete dei traffici marittimi nel Mediterraneo, mantenendo questo ruolo fino all’abrogazione delle franchigie nell’età napoleonica, periodo tra i più difficili per l’economia livornese. Dopo il ritorno dei Lorena nel 1814, nonostante il ripristino del porto franco, la città stentava a riprendere un soddisfacente livello di scambi commerciali; fuori della vecchia cinta muraria cominciava ad affermarsi una certa attività industriale e nuove possibilità si aprivano al commercio marittimo grazie all’introduzione della navigazione a vapore che
Il circuito lorenese e il beneficio libero
abbreviava i tempi di viaggio e aumentava il tonnellaggio delle navi, consentendo il collegamento diretto tra i paesi senza dover ricorrere a lunghe soste nei lazzaretti o nei magazzini dei porti franchi. Il forte incremento demografico, che aveva visto la popolazione di Livorno triplicare nell’arco di un secolo, aveva provocato la crescita degli insediamenti oltre il perimetro delle vecchie mura medicee. Alessandro Manetti scriveva: “Livorno presentava l’aspetto singolare di due popolazioni quasi pari in numero, divise, impedite nelle loro industrie da una linea doganale, attive ad eludere in tanta frequenza di giornalieri rapporti e vicinanza di fabbriche l’attenzione delle guardie destinate a vigilarla”.6 Era necessaria una nuova cinta muraria che includesse i nuovi sobborghi e arginasse il fenomeno del contrabbando. Furono l’ingegnere Alessandro Manetti e l’architetto Carlo Reishammer a dare forma al progetto, questo prevedeva un nuovo cerchio di mura che svolgesse esclusivamente la funzione di limite doganale. Un progetto alternativo fu presentato da Pasquale Poccianti, prevedeva la costruzione di un canale navigabile al posto del muro, ma questa soluzione non venne accol-
ta, probabilmente per i costi più elevati che avrebbe comportato l’esproprio di una maggiore quantità di terreni. Per delimitare la nuova area urbana Alessandro Manetti pensò di erigere un semplice muro che, mantenendo una distanza massima di 900 metri dalla linea di rispetto delle antiche mura, la via delle Spianate, si collegava alle fortificazioni preesistenti del Forte di San Pietro a nord, e seguendo un andamento circolare, terminava a sud all’altezza dell’attuale via della Bassata, per ricongiungersi in fine al Lazzaretto di S. Rocco. Il muro di recinzione, rivestito in pietra, aveva una lunghezza di poco più di otto chilometri e un’altezza di circa otto metri, terminava in alto con una cresta dentellata in cotto per impedire ai contrabbandieri di far passare le merci con le funi. Il tracciato si estendeva intorno alla città includendo i sobborghi nati oltre le mura medicee e una vasta zona di territori di campagna compresi intorno all’antico nucleo urbano. L’espansione della città si estendeva lungo le due principali direttive di uscita, a est, verso Pisa e Firenze, dove era ubicata la maggior parte delle attività manifatturiere, e a sud verso Piombino e Grosseto, intorno al convento dei Cappuccini, zona più salubre in cui molti ricchi abitanti di città avevano costruito le proprie residenze di campa-
gna. Tutta questa area venne inclusa nella nuova cinta muraria mentre il settecentesco quartiere di S. Jacopo, ritenuto troppo distante, venne lasciato fuori. Tale trasformazione urbanistica prevedeva la progettazione di nuove strade, piazze e chiese, una nuova rete di collegamenti tra l’antico nucleo e i nuovi quartieri che, a distanza di qualche anno, provocò il graduale abbattimento delle vecchie mura medicee, ormai prive di funzione e considerate una delle cause di insalubrità degli alloggi del centro sorti a ridosso dei bastioni. Le cinque vie d’accesso alla città erano suddivise in barriere doganali, la Barriera fiorentina e la Barriera maremmana, poste lungo le arterie principali del traffico commerciale terrestre e aperte giorno e notte, e porte che collegavano alla campagna e ai sobborghi più distanti, la porta S. Marco, la porta S. Leopoldo e la porta a Mare. A queste si aggiungeva una barriera doganale lungo il canale dei Navicelli, la Dogana d’acqua, che controllava il traffico delle imbarcazioni fluviali. 6 Alessandro Manetti, Delle opere eseguite per l’ingrandimento della città e porto-franco di Livorno dall’anno 1835 all’anno 1842, Le Monnier, Firenze, 1844.
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Le strade ferrate e la Stazione San Marco
pagina precedente Luca Barontini, La Stazione San Marco, Fotografie.
Il Granducato intuì precocemente l’importanza della ferrovia per lo sviluppo del territorio; le strade ferrate che già percorrevano le terre di Gran Bretagna, Francia, Germania, Austria e Belgio, si affacciavano finalmente al confine della penisola italica, impazienti e scalpitanti, complici di una modernizzazione ormai imminente. Erano trascorsi dieci anni dal primo tentativo fallito del 1825, colpa di tempi troppo acerbi, conoscenze tecniche insufficienti e scarse risorse economiche; le notizie dai paesi più all’avanguardia arrivavano numerose, vennero quindi presentate le prime proposte. L’ingegnere Alessandro Manetti, incaricato già della costruzione delle nuove mura, studiò l’esempio austriaco, il quale prevedeva il coinvolgimento diretto dello stato. In un primo momento il governo toscano sembrò orientato a realizzare e gestire lui stesso l’impresa, vinse però il liberalismo, e se da una parte si ottenne l’infelice primato di più alto tasso di speculazione, dall’altra il risultato fu sorprendente: nel 1850 il territorio toscano era il più denso di strade ferrate. Tra la borghesia imprenditoriale inglese e la corte granducale esistevano già rapporti economici e legami culturali, pertanto fu naturale il coinvolgimento dei due maggiori protagonisti dell’ingegneria ferroviaria inglese:
Robert Stephenson, figlio dell’ideatore della ferrovia Londra - Birmingham, e Kingdom Brunel. Tale contributo fu determinante e sancì l’inizio di importanti collaborazioni di tecnici ed imprese britanniche nella realizzazione delle prime linee ferroviarie nel Granducato Toscano. Fu Stephenson a suggerire al sovrano il percorso passante per Pisa, consentendo un uso ambivalente della ferrovia per merci e popolazione. Il progetto leopoldino individuò cinque grandi Stazioni: Livorno, Pisa, Pontedera, Empoli e Firenze, più altre sei di secondaria importanza. Un vasto mercato di tessuti univa i territori interni della toscana con Pisa e Livorno, e non solo, questa fermata era anche deposito di grani e farine provenienti dai mulini dell’entroterra. Nel gennaio del 1844 si aprì il tracciato Livorno - Pisa, il convoglio ferroviario terminava il percorso proprio nel cuore della Livorno industriale, punto strategico in prossimità del porto e del varco doganale lungo le mura leopoldine, la città aveva la sua stazione ferroviaria: la stazione S.Marco. Il corpo di fabbrica della stazione ripeteva lo schema consueto della stazione di testa della prima metà dell’ottocento: un organismo con pianta ad U, a due piani, con le facciate a sud e ad ovest rivestite da un bugnato poco sporgente, ed elegantemente incorni-
ciate da uno zoccolo in basso e da un cornicione con mensole e modanature sulla sommità; il lato ad est semplicemente intonacato, quello a nord quasi completamente aperto così da permettere il transito dei treni. La stazione era orientata secondo un asse nordsud, i treni si fermavano appena fuori le mura, l’ingresso alla città avveniva varcando la Porta S.Marco. Rivolta ad occidente, in direzione del mare, la facciata principale era caratterizzata da un edificio più alto, rifinito da una pensilina in ferro e adibito a biglietteria. Archi a tutto sesto connotano tutte le aperture, il rapporto pieno e vuoto vede il prevalere del pieno all’esterno mentre all’interno le arcate si susseguono con ritmo più incalzante. La stazione, finita di costruire nel 1844, venne dotata, solo in un secondo momento, di una suggestiva tettoia chiaramente esibita in facciata. La grande volta in vetro e ghisa,7 progettata dall’Ing. Pozzi nel 1887 e realizzata due anni dopo, rispecchiava il modello di tettoia più diffuso in quegli anni, da nord a sud e anche nelle isole, se ne trovano svariati esempi. La volta era a sesto ribassato, un agile struttura, con centine a traliccio appoggiate sulle paraste del fabbricato, copriva l’area adibita al servizio viaggiatori; questa tipologia si adattava sia alle stazioni di testa che di transito, ge-
neralmente, come anche in questo caso, le luci erano di trenta metri, adatte quindi a coprire sia i quattro binari che i marciapiedi. Negli anni ’40 del 1900 la tettoia fu smontata per necessità belliche, la struttura muraria, invece, sfuggì alla distruzione della guerra. Dopo il 1911 entrò in funzione una nuova stazione ferroviaria di transito, ad est della città: la Stazione Centrale venne costruita tra il 1909 e il 1910, in stile umbertino, posta davanti ad ordinati giardini collegati con un’ampia strada al centro della città. La Stazione S. Marco perse gradualmente la sua funzione di collegamento passeggeri, in un primo momento fu destinata a parco ferroviario e transito merci, poi diventò sede degli uffici delle ferrovie statali e in parte utilizzata ad uso abitativo, infine fu abbandonata.
7 La copertura della stazione San Marco è documentata nei cinque volumi curati dall’ing. Fadda, Capo divisione della Rete Mediterranea, “Costruzione ed esercizio delle strade ferrate e delle tranvie”, tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e inizio del Novecento, per la Utet di Torino, grazie a questa pubblicazione sono giunte fino a noi le immagini e la descrizione della stazione.
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Comporre l’infranto
pagina precedente “Ri-scrittura della Stazione Leopolda”, Plastico di studio.
…la nuvola ora si dissolveva su un filo di vento, ora restava sospesa a mezz’aria; e la risposta era in quella nuvola. Non le labili nebbie della memoria né l’asciutta trasparenza, ma il bruciaticcio delle vite bruciate che forma una crosta sulle città, la spugna gonfia di materia vitale che non scorre più, l’ingorgo di passato presente futuro che blocca le esistenze calcificate nell’illusione del movimento: questo trovai al termine del viaggio. (Italo Calvino) Percorrendo via della Cinta Esterna e costeggiando ciò che rimane delle antiche mura lorenesi, si giunge alla ottocentesca stazione di San Marco. Poco più avanti la Porta S.Marco, fiero e maestoso accesso alla città, con il leone che si erge ancora sulla cima, solitario testimone di un passato che nessuno sembra più ricordare. La stazione giace qui silenziosa, dimenticata, avvolta in un liscio bugnato corroso dal tempo, miracolosamente scampata ai bombardamenti che rasero al suolo la città, ma mutilata della sua suggestiva copertura, smontata e rifusa per la costruzione di nuovi cannoni. L’immagine di “come era” vive oramai solo in qualche stampa scolorita e nelle rare fotografie di un’epoca in cui il fervore economico e culturale animava la
Ri-scrittura della Stazione Leopolda
città. In quello che oggi è un non luogo, nel 1844, dopo 4 anni di intensi lavori, viaggiatori, commercianti e merci, partivano ed arrivavano, tra il profumo nero delle locomotive e la polvere aspra della strada in terra battuta. La vita brulicava intorno a quello che era considerato uno dei punti nevralgici della città, ma dopo soli cinquanta anni di intensa attività, il treno cambiò percorso e la linfa vitale smise di scorrere. “Quando l’uso di un edificio si esaurisce e la costruzione diventa una rovina, ritorna a esser percepibile la meraviglia del suo inizio. Si sente bene, avvolta dalle foglie, spiritualmente piena perché non deve più servire”.12 È la manifestazione della forma che permane, in un divenire autonomo, al di là delle funzioni che mutano nel tempo e nella società. Aldo Rossi, ne “L’architettura della città”, sottolineava il concetto di città come totalità in cui tutti gli elementi concorrono a formare l’âme de la cité,13 descriveva la città come un manufatto architettonico “un’opera di ingegneria e di architettura, più o meno grande, più o meno complessa, che cresce nel tempo(…) che permane attraverso le sue trasformazioni e le funzioni, semplici o plurime, a cui essa via via assolve”.
Si interrogava poi sulla individualità dei fatti urbani, caratterizzati da una loro identità e che nella loro natura hanno “qualcosa che li rende molto simili all’opera d’arte: essi sono una costruzione nella materia, e nonostante la materia, di qualcosa di diverso: sono condizionati ma condizionanti”.14 L’ex stazione Leopolda è un fatto urbano, relativamente giovane rispetto all’intera storia della città, ma sicuramente elemento primario in essa, segno architettonico di una volontà collettiva, punto fisso, che memore delle vicende storiche e architettoniche, può e deve assumere oggi il ruolo di “elemento propulsore della dinamica urbana”.15 Nella permanenza c’è qualcosa di affascinante, abitare un monumento antico significa sperimentare in lui una forma del passato che al suo interno assume funzioni diverse, e che attraverso una nuova lettura continua a condizionare inevitabilmente l’intorno urbano. Il racconto evocativo sussurrato dal fischio del Libeccio, che piega le tamerici nelle tele di Fattori e intona l’intermezzo di Mascagni, è la storia di una città che prende il nome da una nave romana, la Liburna, è la storia del suo porto, dei traffici commerciali e il benefitio libero, delle sue leggi livornine, dei pescatori, i “risiatori”, i marinai, gli
ufficiali; mille trame dai molti interpreti, ma che da sempre riconoscono un solo protagonista indiscusso: il mare. Scavando all’interno di un vuoto apparente,16 si riscopre quel legame perduto tra territorio e acqua; si fa spazio l’idea di riconvertire la stazione in una scuola di alta formazione per la progettazione e la costruzione di imbarcazioni. Una sorta di scuola - lavoro, che offre al contempo sia corsi di specializzazione in ingegneria navale e design nautico, sia la possibilità, grazie agli ampi spazi propri di una stazione di testa, di imparare a costruire un’imbarcazione, recuperando l’antica tradizione del mestiere del maestro d’ascia, che oggi stiamo purtroppo perdendo. Ma l’intento prioritario del progetto è restituire l’edificio alla città e all’uso pubblico attraverso le nuove funzioni, vengono quindi individuate due zone differenti, una pubblica, rivolta a tutta la cittadinanza, e una privata, dedicata alla scuola. L’intervento vuole operare una ricucitura, sia tra il vecchio e il nuovo, all’interno dell’edificio stesso, sia tra architettura e abitanti, punta quindi sulla formazione proponendo al contempo una risposta concreta ai bisogni e ai desideri dei cittadini. Il gesto che tracciò una U sul territorio
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ad indicare in maniera profonda un limite, fu compiuto quasi due secoli fa, oggi quel segno si carica di un valore nuovo, diventa la traccia da seguire per fissare un confine che custodisce al suo interno un’occasione; l’antico paramento murario conserva la storia nella memoria del recinto,17 cinge lo spazio tutto intorno, nel tentativo, non di separarlo da qualcosa, ma di comprendere quel vuoto che si è creato, misurarlo e trasformarlo. L’antica facciata rimane limite del progetto ma diventa permeabile: varcata la soglia dell’antico recinto, nella parte della “testa” dell’ex stazione, il progetto, memore della lezione di Michelucci, che nella stazione di Santa Maria Novella disegnò una strada coperta che oltre ad offrire i servizi ai viaggiatori, facesse parte della vita della città, immagina un percorso tra le cucine di strada, una camminata sullo scalandrone tra le arcate riemerse, e su un lungo bancone, ritrovare i sapori del mare e di quelle merci venute da lontano. Sotto la maglia della grande copertura che, tracciando regole geometriche, si stringe e si allarga per permettere alla luce di filtrare, una piazza coperta si impone come spazio urbano diventando il principale punto di aggregazione, un luogo in cui l’atmosfera ricorda le antiche corti interne dei palazzi, dove si sviluppava la vita colletti-
va e il senso di appartenenza. I nuovi corpi di fabbrica che si dispongono attorno a questo luogo di incontro e scambio, sembrano venire dal mare, galleggiando come gozzi alla deriva… l’involucro, nella geometria pura del quadrato, nasconde mondi interiori: un teatro, una biblioteca, un giardino segreto; la vecchia stazione è ormai un corpo cavo abitato da archetipi volumi. All’estremità opposta, la scuola accoglie gli studenti in un ampio salone a doppio volume, che coincide con la vecchia biglietteria; i percorsi verticali e orizzontali collegano i vari ambienti di servizio, amministrazione e segreteria, con le aule, i laboratori, e gli studi dei docenti. Volontà simbolica di ricreare una piccola “città nella città”, una scelta che conserva il ricordo di ciò che si è lasciato fuori, concretizzando il desiderio di ricreare frammenti di quella realtà. Nella memoria un microcosmo semi-ipogeo che è il quartiere La Venezia, spazio urbano originale, articolato nell’intreccio delle vie carrabili con quelle d’acqua, e nella sovrapposizione dei magazzini, negozi e residenze. Così i laboratori sono scavati sotto la vecchia stazione, ad una quota inferiore rispetto al piano terra dove si trovano le aule. Lo scavo dà la possibilità di costruire uno yacht grande fino a 50
metri, all’interno di uno spazio coperto che diventa un vero e proprio hanger. E mentre in un’ala del fabbricato il lavoro è incessante intorno alla carena della barca in costruzione, sull’altro lato le stanze dei docenti si affacciano su una piccola corte segreta, dove le menti possono riposare. A creare continuità tra la scuola e la parte pubblica, in uno spazio che ruota tutto intorno al tema del mare, entra in scena un’imponente cavea di pietra, che ricorda l’Andana degli anelli, il cuore più antico del porto di Livorno. Puoi, infatti, dire che ciò che di solito noi vediamo nero, quando la sua materia è stata rimescolata e l’ordine dei primi principi è stato mutato e certe cose sono state aggiunte e certe tolte, sùbito avviene che appaia di una luminosa bianchezza. Che se le acque del mare fossero composte di semi cerulei, non potrebbero in alcun modo biancheggiare. Infatti, in qualunque modo tu sconvolga semi che siano cerulei, giammai possono passare al colore del marmo. Se poi sono tinti parte di un colore e parte di un altro i semi che fanno l’unico e puro colore del mare, come spesso da diverse forme e da varie figure è prodotta qualche cosa quadrata e di un’unica figura, in tal caso, come nel quadrato scorgiamo che ci sono forme
dissimili, così si dovrebbero scorgere nelle acque del mare o in qualsiasi altro colore unico e puro colori vari e di gran lunga dissimili tra loro. (Lucrezio)
12 Louis Kahn, Silence and Light, conferenza all’Eth di Zurigo il 12 febbraio 1969, in Heinz Ronner e Ralph Bänziger, Luois I. Kahn, Dokumentation Der Arbeitsprozesse, Arbeitsbericht A1, Ethz, Zürich, 1969. 13 Georges Chabot, cit. 14 Aldo Rossi, L’architettura della città, Città Studi Edizione, Torino, 2004. 15 ibidem. 16 “l’edificio trova la sua premessa nello scavo, operazione violenta che ferisce crudelmente la terra violandone il segreto …mentre contiene in nuce la forma dell’edificio futuro, come se lo scavo stesso fosse l’impronta visibile di ciò che sta per nascere”. Franco Purini, Comporre l’architettura. 17 Giovanni Di Domenico, nel libro - L’idea di recinto. Il recinto come essenza e forma primaria dell’architettura - scrive: “Questo processo, che non è temporale, storico, ma a-temporale, logico, avviene ogni qual volta si sia compiuto o si compia un atto(umano, naturale) di architettura, dai primordi a oggi: é il farsi stesso dell’architettura. Ne è il processo primario. Architettura è far recinti; e, separata la parte dal Tutto, ricreare il Tutto, fare dell’architettura un Mondo”.
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“I Cubi: Teatrino Shakespeariano, Hortus Conclusus, La Torre dei Libri”, Maquette.
“I Cubi: Teatrino Shakespeariano, Hortus Conclusus, La Torre dei Libri”, Maquette.
Innesto possibile
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Il Maestro del gioco I/II I Ascolta, non vibra qui ancora un soffio dell’aria che respirava il passato? Non resiste nell’eco la voce di quelle ammutolite? Come nel volto dell’amata quello di cose mai conosciute? II Vibrano intese segrete. Si impigliano nell’ali dell’Angelo. Sanno comporre l’infranto. Questa debole forza c’è data. Non sperdetela Prometeo, tragedia dell’ascolto (Luigi Nono, Massimo Cacciari)
Come per sciogliere un groviglio di ferri arrugginiti, disfare la trama di una vegetazione che si è riappropriata di uno spazio, certo suo, in un tempo ancor più lontano. Come per liberare il pensiero e riaccendere il dialogo, ridare significato a un vuoto, concretizzarlo nel suo limite fisico trasformandolo in spazio da vivere, in una possibilità tangibile per la città. Ancora una volta si solleva il dilemma tra passato e presente, alla ricerca di un confronto che nasca in primo luogo dall’ascolto perché “chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio”. 18 In una contemporaneità dominata dall’immediatezza dell’immagine e da una attenzione tiranna, nella quiete dell’abbandono, i resti delle antiche costruzioni sono “parole sradicate e mutilate, parole di altri”19, che vanno pesate, misurate, studiate e analizzate in profondità, nell’intento di tradurle e comprenderle, per poter tramandare ogni storia al futuro. Basta una “debole forza” per saltare da un’epoca all’altra e, indagando la pluralità del possibile, proiettarsi nel domani. Come le isole sonore nel Prometeo di Luigi Nono,20 frammenti comunicanti tra loro, suoni in movimento nello spazio e nel tempo, le “parlanti ruine”21 aspettano pazienti una risposta dal presente, intanto, frasi non conclu-
se rimbalzano tra gli archi rimbombando nelle vuote stanze. Il progetto del nuovo, dopo una pausa durata più di cento anni, intercetta il ricordo e con un segno assoluto si innesta sulla la rovina. L’antico, in basso, traccia di un archetipo recinto, definisce il limite con il contesto urbano, mentre il nuovo si apre in un abbraccio che dall’alto offre riparo e protezione, permettendo uno scambio di esperienze. Le voci che si rispondono reciprocamente sono quelle di cori “spezzati”,22 sono le voci del presente che si contrappongono agli echi del passato e si rincorrono tra i pieni e i vuoti di un gioco mutevole. Due epoche diverse immesse in un unico registro compositivo attraverso un esercizio di sovrascrittura che, decifrata la regola, quella logica interna di simmetrie ed euritmie, inserisce il nuovo brano. Il ritmo latente23 nel corpo abbandonato, cadenzato dal respiro delle arcate interne, stabilisce l’ordine del movimento futuro, andamento coerente nella struttura del nuovo che valica l’antico, oltre ai tempi e ai luoghi, in una gemmazione spontanea che, proiettata verso la città, suggerisce molteplici direzioni spaziali. Il modulo scorge nella forma un divenire autonomo, e il vecchio edificio, attraverso l’archetipo della geometria,
sembra ritrovare la dimensione monumentale che aveva perso. Costruire nel nostro paese significa agire su un territorio caratterizzato da una stratificazione di segni, significa rifondare la realtà attraverso un atto critico. È un “costruire sul costruito” pertanto la qualità della relazione tra nuovo e antico non può ridursi ad un’aggiunta o ad un adattamento ma deve necessariamente porsi come una continuazione nel possibile, in un divenire che di fatto non è fluido ne’ costante, “continuare un manufatto implica comunque dare forma a un arresto del tempo, un‘interruzione che si è trasformata in un valore: il problema consiste allora nel collocare la discontinuità in un ordine diverso dell’esistente, facendo sì che anche i vuoti che costellano il suo ciclo vitale lascino una traccia significativa”.24 Pertanto gli interventi proposti non saranno adattamenti formali a posteriori, piuttosto innesti a cui è imposto l’obbligo della riconoscibilità, capaci di conformare l’antico, interpretando le perdite come occasione per coniugare conservazione e innovazione; di fatto, anche in agricoltura, per innesto si intende “l’operazione con cui si fa con-crescere sopra una pianta una par-
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Barbara Bergamo, “Innesto Possibile”, tecnica: ceramolle, acquaforte, acquatinta, dimensione matrice 700x500mm, t tipo di carta Hahnemühle, dimensione foglio 90x70cm, inciso nell’anno 2018, stampato nell’anno 2019 all’Ateler l’Armadillo 51r, Firenze.
te di un altro vegetale della stessa specie o di specie differenti, al fine di formare un nuovo individuo più pregiato o più produttivo o più giovane”. Con il progetto si sviluppa un organismo nuovo, una terza identità generata dalla contaminazione reciproca tra nuovo ed esistente. Nell’architettura italiana si riscontra una modernità anomala, “rappresentata dalla grande capacità di interpretare e incorporare gli stati precedenti attraverso metamorfosi continue”. 25 “Tentativi da parte della cultura progettuale dell’ultimo secolo di agire su questo paesaggio frammentato in maniera ‘edificante’, innestando gemme di grande modernità negli interstizi che separano gli strati precedenti”. 26 L’atto di conservare implica, nell’inevitabile e spesso complicato confronto storico, una scelta tra ciò che deve permanere, in quanto indispensabile a delineare l’identità del manufatto, e ciò che invece deve essere eliminato perché superfluo, addizione senza regola, superfetazione che nasconde e confonde durante la ricerca delle qualità connaturate. L’adozione del concetto di frammento dell’architettura apre alla “possibilità di rappresentare nel segno dell’ordine un presente comunque lacerato” 27 scegliendo di riconsegnare alla collettività una forma che non è stata com-
pletata nella ricerca spasmodica di un totale, forse più facile da accettare, ma che è piuttosto forma dell’incompiuto, espressione del nostro tempo; in fondo “la storia non è altro che una costante interrogazione dei tempi passati in nome dei problemi, delle curiosità e persino delle inquietudini e delle angosce del tempo presente che ci circondano e ci assediano”.28
Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972. 19 Jorge Luis Borges, L’immortale, l’Aleph, Feltrinelli, 2013. 20 Luigi Nono, Prometeo, tragedia dell’ascolto. La frammentarietà come caratteristica fondamentale nella concezione di un’opera in cui i suoni mobili fanno da protagonisti all’interno di una struttura ad arcipelago che rimanda alla topografia lagunare di Venezia. In un’ intervista Luigi Nono diceva “Ciò che mi interessa è la qualità dei suoni(…) tipi di suoni, tipi di arrivo, di partenza come si sente questa specie di ostinato…di una sirena lontanissima che continua, alle volte quando c’è la nebbia ci sono le varie campane che segnano le isole e c’è come un dong.…dong…continuo e si vengono a creare dei campi sonori di una magia senza fine”. 21 Gian Battista Piranesi, cit. 22 riferimento alla policoralità veneziana del XVII dei cori “spezzati” o ”battenti” di Andrea e Giovanni Gabrieli 23 S. Agostino definiva ritmo latente il ritmo insito nell’uomo, che è nei sensi e nella mente, che fa prendere coscienza del proprio corpo e del mondo esterno, la ratio numerorum che permette di rintracciare nel mondo quei movimenti ritmici che generano nell’uomo un inspiegabile piacere. 18
Franco Purini, Comporre l’Architettura, editori Laterza, Bari, 2000. 25 cit. Cino Zucchi, articolo pubblicato il 24 aprile 2014 sulla rivista Domus. Nel 2014 Rem Koolhaas è stato il direttore della Biennale di Architettura, il tema proposto ai padiglioni nazionali era “Absorbing Modernity 1914/2014”, l’invito quello di approfondire i processi che hanno determinato l’attuale aspetto dell’architettura globale, individuando caratteristiche e resistenze che la modernizzazione ha assunto in rapporto alle “identità nazionali”. In questo ambito Cino Zucchi, curatore del padiglione Italia, ha proposto come chiave di lettura quella degli Innesti/Grafting. 26 cit. intervista a Cino Zucchi in occasione della 14. Mostra Internazionale di Architettura. 27 Paolo Zermani, Identità dell’architettura, Officina Edizioni, Roma, 1995. 28 Fernand Braudel, Il Mediterraneo: lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, Newton Compton, 2002. 24
a sinistra Barbara Bergamo, “Pianta livello Acqua”, Matrice di zinco, 700x500mm. a destra Barbara Bergamo, “Pianta livello Acqua”, tecnica: ceramolle, acquaforte, acquatinta, dimensione matrice 700x500mm, tipo di carta Hahnemühle, dimensione foglio 90x70cm, inciso nell’anno 2018, stampato nell’anno 2019 all’Ateler l’Armadillo 51r, Firenze.
a sinistra Barbara Bergamo, “Pianta livello Città”, Matrice di zinco, 700x500mm. a destra Barbara Bergamo, “Pianta livello Città”, tecnica: ceramolle, acquaforte, acquatinta, dimensione matrice 700x500mm, tipo di carta Hahnemühle, dimensione foglio 90x70cm, inciso nell’anno 2018, stampato nell’anno 2019 all’Ateler l’Armadillo 51r, Firenze.
La Grande Copertura enigma del tempo
“C’è un punto all’interno dei tempi del progetto in cui l’edificio in costruzione avrà un aspetto che anticiperà quello che esso assumerà appena prima di diventare rudere”. Comporre l’architettura (Franco Purini)
L’immagine attuale della stazione San Marco è probabilmente molto vicina a quella apparsa agli occhi dei viandanti prima della conclusione dei lavori avvenuta solo nel 1889, con la grande copertura in ferro e vetro, eretta sulle paraste che ancora scandiscono lo spazio interno della stazione. Era espressione dell’epoca, della seconda rivoluzione industriale, quando il ferro passava da semplice componente dell’architettura a protagonista di proposte progettuali avveniristiche che sfruttavano il materiale per le sue qualità di leggerezza, permettendo luci più ampie e allestimento in tempi brevi. Quella tettoia per il servizio viaggiatori messa in opera dopo quaranta anni dal termine dell’edificio, e rismontata dopo altrettanti anni, diventa qui paradigma del cambiamento, memoria di un gesto in procinto di divenire testimonianza tangibile e che invece rimase solo un tentativo. Come essere di fronte a un “non finito” ed il possibile si trovasse già nel reale, il passato diventa sorgente del cambiamento: “forse che la Forma ‘ispirata dal sogno’ non è infine realmente altro che Memoria? È forse in qualche modo, un modello, un qualcosa che è sempre ‘esistito prima’, necessario, e quindi accumulato, messo da parte, e pur tut-
tavia nutrito dall’esperienza che paga lo sforzo d’oscuro ‘inconscio collettivo’?”29 Scomponendo mentalmente le varie fasi di costruzione si propone oggi una interpretazione nuova del tema della copertura, le grosse travi d’acciaio, proiezione della maglia a terra, danno una misura allo spazio, generano volumi nuovi e suggeriscono le scelte accogliendo sotto di se’ le nuove funzioni. La grande copertura cinge la preesistenza dall’alto con un abbraccio che simboleggia una temporanea sospensione nel conflitto tra passato e presente. Sopra la rovina il monolite sembra rimanere sospeso in un’atmosfera d’attesa, a simboleggiare il rispetto per l’antico, lascia un vuoto sotto di sè, una fessura orizzontale, un occhio socchiuso sull’orizzonte, sulla città del futuro. George Simmel sintetizzò l’architettura in equilibrio “la materia meccanica, con la sua staticità, il peso del mondo verso il basso, si oppone alla spiritualità costruttiva che istintivamente cerca una sorta di lievitazione della materia verso l’alto”. Spesso ciò che ci appare leggero, rivela poi il proprio peso insostenibile, la nuova copertura, al contrario, con la sua dichiarata pesantezza, sembra galleggiare lievemente nell’aria, al di sopra
di tutte le cose terrene ma attratta al contempo da esse, “come a dimostrare che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza”. 30
29 Nicola Braghieri, Buoni edifici, meravigliose rovine: Louis Kahn e Il Mestiere Dell’architettura, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2005. 30 Italo Calvino, Lezioni americane, Mondadori Editore, Trento, 2016.
Teatrino shakespeariano
“Poi piovve dentro a l’alta fantasia” (Dante)
La sala è una corte a cielo aperto, un occhio interno aperto verso l’alto, labbra socchiuse e orecchie tese, è il momento dell’attesa, è il teatro dell’ascolto. Un recinto dentro il recinto, una dimensione intima dove materializzare le immagini mentali risvegliando sensazioni depositate nella memoria.
to degli archi a tutto sesto, testimonia la volontà di dialogo attraverso uno studio attento di griglie nascoste.
“O immaginativa che ne rube Talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge perché dintorno suonino mille tube, Chi move te, se ‘l senso non ti porge? Muovete lume che nel ciel s’informa Per sé o per voler che giù lo scorge.” 31 Il luogo della rappresentazione è il palcoscenico shakespeariano, il fronts sceanae ha 3 ingressi ad arco e 3 finestre sovrastanti, un teatro della memoria che ricorda quello di Fudd, sistema di luoghi mnemonici per le cose e per le parole, il luogo ideale dove tutte le tragedie e le commedie possono svolgersi. Metamorfosi di un cigno, iconografica testimonianza del teatro elisabettiano che si spoglia delle seicentesche vesti per tuffarsi nel racconto di una contemporanea ricerca di ordine e regole. L’intervento sceglie un’autonomia formale, il vuoto che lo separa dall’antico simboleggia l’incolmabile distanza tra di essi, ma l’inserimento tutt’altro che casuale, all’interno del ritmo cadenza-
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Dante, Purgatorio XVII, 25.
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a sinistra Barbara Bergamo, “La Grande Copertura”, Matrice di zinco, 500x500mm. a destra Barbara Bergamo, “La Grande Copertura”, tecnica: ceramolle, acquaforte, acquatinta, dimensione matrice 500x500mm, tipo di carta Hahnemühle, dimensione foglio 70x70cm, inciso nell’anno 2018, stampato nell’anno 2019 all’Ateler l’Armadillo 51r, Firenze.
a sinistra Barbara Bergamo, “Teatrino Shakespeariano”, Matrice di zinco, 500x500mm. a destra Barbara Bergamo, “Teatrino Shakespeariano”, tecnica: ceramolle, acquaforte, acquatinta, dimensione matrice 500x500mm, tipo di carta Hahnemühle, dimensione foglio 70x70cm, inciso nell’anno 2018, stampato nell’anno 2019 all’Ateler l’Armadillo 51r, Firenze.
La Torre dei Libri
Questo pensatore osservò che tutti i libri, per diversi che fossero, constavano di elementi eguali: lo spazio, il punto, la virgola, le ventidue lettere dell’alfabeto. Stabilí, inoltre, un fatto che tutti i viaggiatori hanno confermato: non vi sono, nella vasta Biblioteca, due soli libri identici. Da queste premesse incontrovertibili dedusse che la Biblioteca è totale, e che i suoi scaffali registrano tutte le possibili combinazioni dei venticinque simboli ortografici(numero, anche se vastissimo, non infinito) cioè tutto ciò ch’è dato di esprimere, in tutte le lingue. La biblioteca di Babele (Jorge Luis Borges)
“Biblioteca” dal greco bibliothéke, vuol dire, innanzi tutto, “scaffale”, il luogo in cui si depositano i libri, quei piccoli parallelepipedi di carta custodi di saperi antichi e moderni, di formule e poesie, di mondi reali o inventati, che fanno riaffiorare le immagini sedimentate nella memoria e sconfinare le menti oltre il tempo della percezione. Nel disegno della pianta la componente simbolica della geometria è essenziale ed evidente: il cerchio, forma perfetta e divina, simbolo di quella conoscenza assoluta e universale, è inscritto in un quadrato, metafora del finito, della condizione umana e terrena. “Se il quadrato risulta legato all’uomo e alle sue costruzioni: all’architettura, alle strutture armoniche, alla scrittura ecc., il cerchio ha relazioni divine. Un cerchio ha rappresentato e rappresenta ancora l’eternità, non avendo principio né fine”. 32
Salendo e scendendo gli scalini, il punto di vista si sposta verso una mutazione che perde i suoi punti di riferimento, la torre diventa pozzo, abisso segreto, deposito misterioso di fluide ricchezze. Come se l’occhio dell’osservatore, fermo sul bordo di un precipizio, guardasse il mondo attraverso una lente, ora microscopio, ora cannocchiale; esaminasse le pieghe della vita, le esperienze vissute nella propria carne, nel folto intreccio delle tensioni del quotidiano, per poi voltare la testa ed accorgersi che il futuro non è più così lontano, che a volte è necessario tenersi a distanza per inquadrare meglio un particolare, che attraverso quella piccola lente si può scrutare l’infinito.
Mentre lo spazio all’interno si dilata e libera la percezione sotto una luce che scende a cascata, si aprono nuove prospettive che lo sguardo segue in silenzio: “Di qui passa la scala spirale, che si inabissa e s’innalza nel remoto”.33
Bruno Munari, Il quadrato, Corraini editore, 2005. 33 Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1974. 32
Hortus conclusus
L’albero verdecupo si stria di giallo tenero e s’ingromma. Vibra nell’aria una pietà per l’avide radici, per le tumide cortecce. Son vostre queste piante scarse che si rinnovano all’alito d’Aprile, umide e liete. Per me che vi contemplo da quest’ombra, altro cespo riverdica, e voi siete. Ogni attimo vi porta nuove fronde e il suo sbigottimento avanza ogni altra gioia fugace; viene a impetuose onde la vita a questo estremo angolo d’orto. Crisalide (Eugenio Montale)
Gli archi si srotolano lungo il prospetto interno, come un metronomo scandiscono instancabilmente il ritmo tra pieno e vuoto, quando, d’improvviso, una pausa; l’antico si spezza per svelare la certezza di un attimo. La muratura storica viene tagliata ed isolata come un frammento, lo spazio creato consente l’inserimento del nuovo e simboleggia il tempo che intercorre tra epoche diverse, sottolineandone le differenze. Simbolo del passaggio é la soglia d’entrata, superato quel confine si acquisisce la consapevolezza del limite, metafora e sintesi dell’esistenza umana.
Kublai : - Non so quando hai avuto il tempo di visitare tutti i paesi che mi descrivi. A me sembra che non ti sia mai mosso da questo giardino. (…) Polo: - Forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate(…) ma ogni volta che socchiudiamo gli occhi in mezzo al frastuono e alla calca ci è concesso di ritirarci qui vestiti di chimoni di seta, a considerare quello che stiamo vedendo e vivendo, a tirare le somme, a contemplare di lontano. Le città invisibili (Italo Calvino)
Silenzio. Ricordo odoroso di un paradiso perduto, luogo segreto e protetto, l’ordine meditativo ci conduce nei giardini dello spirito i cui sentieri ci accompagnano nei recessi più intimi. Il muro inclinato, custode della luce, traccia il limite tra “dentro” e “fuori”, su di esso si rincorrono le ombre di una natura che ritrova la sua condizione di originale purezza.
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a sinistra Barbara Bergamo, “La Torre dei Libri”, Matrice di zinco, 500x500mm. a destra Barbara Bergamo, “La Torre dei Libri”, tecnica: ceramolle, acquaforte, acquatinta, dimensione matrice 500x500mm, tipo di carta Hahnemühle, dimensione foglio 70x70cm, inciso nell’anno 2018, stampato nell’anno 2019 all’Ateler l’Armadillo 51r, Firenze.
a sinistra Barbara Bergamo, “Hortus Conclusus”, Matrice di zinco, 700x500mm. a destra Barbara Bergamo, “Hortus Conclusus”, tecnica: ceramolle, acquaforte, acquatinta, dimensione matrice 700x500mm, tipo di carta Hahnemühle, dimensione foglio 90x70cm, inciso nell’anno 2018, stampato nell’anno 2019 all’Ateler l’Armadillo 51r, Firenze.
Carena e controcarena
pagina precedente Barbara Bergamo, “Comporre l’infranto”, Serigrafia, dimensioni telaio serigrafico, 900x800mm, tipo di carta Fabriano, dimensione foglio 70x70cm.
E dopo il tempo della nascita del mondo, e il giorno primigenio del mare e della terra, e il sorgere del sole, molti corpi si aggiunsero dall’esterno, d’ogni intorno s’aggiunsero atomi, che il gran tutto scagliando conglomerò: per essi il mare e le terre poterono crescere, per essi l’edifizio del cielo poté acquistare nuovo spazio e adergere gli alti suoi tetti, lontano dalle terre, e l’aria sollevarsi. (Lucrezio)
Contemperando necessità conservativa e rivisitazione poetica, come in un gioco di sapienti incastri, la preesistenza è in questo punto completamente svuotata nell’intento di creare un universo connotativo in cui un nuovo corpo andrà ad immettersi. La volontà di intrecciare il restauro dell’involucro con la trasformazione puntuale, che il riuso di manufatti con funzioni così diverse comporta, vede nell’innesto dell’auditorium l’esempio più evidente. Una lunga navata alta circa 10 metri accoglie al suo interno un nuovo volume, indipendente, che sembra galleggiare nello spazio, come a voler citare uno di quei barconi usati per secoli dai risi’atori.34 Uno di quei gozzi consegnati ritualmente ai rioni, veri e propri gioielli in legno, frutto del lavoro certosino dei maestri d’ascia ed emblema, oggi, di un modo di navigare antico che sopravvive rafforzando l’identità culturale della città. Il piano terra ospita il foyer, luogo di accoglienza e attesa, spazio introflesso posto sotto l’affascinante e imponente elemento in legno; questo, realizzato con un fasciame compatto di strati incrociati tra loro, rimane sospeso tra le antiche mura, che poste a chiusura ma, al contempo, a debita distanza, sanciscono il distacco tra presente
e passato, per diventare sfondo scenico della cavea. Una struttura narrativa a scatole cinesi: una vecchia stazione dismessa racconta di una imbarcazione che solca i mari della conoscenza, il timoniere dell’auditorium, posto davanti alla quinta scenica di un passato glorioso, guiderà l’equipaggio racchiuso all’interno della carena, tra i flutti di un racconto in divenire. E sopra tutti e tutto, la grande copertura si staglia, conquistando il suo pezzetto di cielo, lascia che sia la vita, la scatola più interna, la più preziosa, a definire il progetto e concludere l’architettura.
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a sinistra Barbara Bergamo, “Carena e Controcarena”, Matrice di zinco, 700x500mm. a destra Barbara Bergamo, “Carena e Controcarena”, tecnica: ceramolle, acquaforte, acquatinta, dimensione matrice 700x500mm, tipo di carta Hahnemühle, dimensione foglio 90x70cm, inciso nell’anno 2018, stampato nell’anno 2019 all’Ateler l’Armadillo 51r, Firenze.
Back to the future
pagina precedente Luca Barontini, Back stage, Fotografie.
“Nell’opera grafica, tra l’oscurità forte dell’ombra ed il bianco intenso della luce vi è lo spazio del mondo, regolato dal ritmo preciso del tempo di morsatura”. 34 Tra i tempi lunghi del progetto architettonico e quelli brevi del disegno si colloca l’esperienza dell’incisione che si palesa in una lenta temporalità del pensiero e del gesto. Per un architetto, costretto nella professione a consumare con voracità l’esercizio del linguaggio del costruire, questa è una contromisura di indiscutibile efficacia, anche quando il disegno si attua posteriormente alla realizzazione dell’architettura. Il tempo e la maniera, quasi meditativa dell’incisione, consente di riscoprire quella sincronia con il cosmo insita in ogni gesto umano e di rileggere, comprendere e analizzare il percorso progettuale. Di fatto, questa fatica, sottende la giustificazione di nutrire una tecnica nata per assecondare l’illusione che l’arte possa andare oltre il tempo. La precarietà temporale dell’inchiostro e della carta hanno da sempre tediato le menti dei pensatori che proprio attraverso il disegno avevano lasciato i loro segni più freschi ed autografi. “L’incisione è una pretesa di infinito durare”. 35 L’incisione infatti tenta di dilatare il naturale disfacimento temporale che il disegno, più di ogni altra forma di espressione, subisce: in virtù della sua concettualità e del suo contribuire alla costruzione di una visione storica. Per rendere “eterno” il segno, gli artisti si avvalsero di questo procedimento calcografico: prima il disegno viene inciso sulla matrice di metallo, in un unico prototipo, poi riportato specularmente sulle stampe, differenti le une dalle altre per modalità di inchiostrazione, pressione del torchio e tipologia di supporto. Un processo replicabile più volte e più volte nel tempo (ancora si ristampano, preziose lastre del Piranesi). Il procedimento calcografico comporta quindi lo sdoppiamento dell’immagine: questo da sempre un equivoco che riguarda la possibilità di considerare come prodotto originale dell’attività incisoria sia la lastra che la stampa. Sicuramente la lastra, nella sua unicità, è il vero prodotto del lavoro dell’artista che, per via del togliere, sottrae al supporto metallico il suo mero ruolo strumentale per assegnare ad esso quello di opera che reca senza mediazione l’autenticità del segno. È altrettanto vero che nei confronti della matrice, la stampa non è semplicemente il suo mero risultato finale, bensì un dittongo frutto di un’attenta e complessa tecnica artigianale. “Specchiarsi, misurarsi e sdoppiarsi” di questi gesti si nutre l’ambigua alchimia tra lastra e stampa: un identico segno trova sul metallo la sua impronta più raccolta e duratura.
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L’incisione definisce apparentemente il limite proprio del disegno, quel punto oltre il quale perde parte della sua riconoscibilità, del suo senso del suo mistero. Il segno infatti viene congelato come fosse costretto a contrarsi dalla durezza della lastra, durezza che gli toglie fluidità e freschezza, ma che di contro conferisce lui una consapevolezza maggiore e un’accentuata icasticità. Come già anticipato incidere comporta una sottrazione di materia dalla lastra: un procedere in negativo. Tracciare un segno con una punta metallica equivale a scolpire un solco sulla superficie della lastra, o esporre parti di questa all’azione corrosiva dell’acido. Per dirla alla Michelangelo, incidere è in un certo senso scavare per via del levare. Infatti al contrario del disegno, ove si addiziona materia al supporto, sia essa grafite, inchiostro o pigmento, nell’incisione si agisce attraverso azioni traumatiche. Scavi puntuali o lineari conferiscono alla lastra un aspetto simile a quello di un bassorilievo. Incidere è pertanto una tecnica “violenta” e al contempo glacialmente analitica, forza e precisione si incontrano nella solida impronta del gesto scolpito sulla lastra. Questo gesto assicurato con freddezza e precisione è l’atto primario del risultato ultimo dell’immagine, ne determinerà la tonalità del tratto, l’idea di superficie come campo operabile e i contrasti luministici. La tecnica incisoria lascia poi all’artista una gamma di variazioni del segno che spaziano dalla pastosa corposità, ottenuta come stratificazione reticolare, al naturalistico se non impressionistico sfilacciamento delle stesso segno frutto di una meticolosa mediazione. “Questa mediazione continua si esplica attraverso uno stratificarsi di gesti che vanno dal segno-costruzione in senso materico e geometrico, al segno-linea; della traccia schematica di un’orditura incisa come base di riferimento, al segno grafia, elemento di caratterizzazione e differenziazione dei diversi partiti architettonici, infine al segno-ombra che, più dell’informe stesura all’acquatina, conferisce una tenebrosa matericità”. 36 Infine alla schiettezza del segno, all’acquaforte si contrappone il ritmo estenuante del processo calcografico, il cui esito è percepibile solo al termine del procedimento. Come nello sviluppo fotografico esiste in questa antica tecnica un larghissimo margine di imprevedibilità, che solo l’esperienza dell’artista-artigiano può in parte prevedere. Ultimato il disegno sulla lastra, decisamente più istintivo ed artistico, vi è quindi un altro lavoro altrettanto complesso che necessita dell’immaginosa dottrina di un alchimista. L’artigiano, seguendo una ricetta personale, mai uguale a se stessa, assicura alla lastra la necessaria preparazione bituminosa regolata da una complessa scelta degli attimi di precipitazione della polvere. Le variabili nella stampa sono infinite e tutte demandate all’istinto e all’esperienza dell’esecutore che segue un progetto cristallino solo nella sua mente. In primis la maggiore o minore copertura delle varie porzioni della lastra mirano all’individuazione di quelle zone che risulteranno più o meno incise, proteggendole così dall’azione corrosiva dell’acido. Successivamente i numerosi bagni nell’acido, le rapide asciugature e i numerosi tentativi di arrestare la corrosione da una parte per accentuarla in altre zone. “L’artista si trova così in un continuo stato di sospensione, di attesa del risultato finale che si dà come simultanea conclusione di un lavoro su tutti i fronti. Quando alla fine il torchio premeva sulla carta inumidita, togliere il panno di feltro che protegge la lastra di metallo ed il foglio dal torchio, è come togliere il velo di Maya: l’incisione sollevata come una conquista si dà come rivelazione compiuta, nella sua intoccabile completezza, senza possibilità di ripensamenti, o ulteriori interventi e correzioni: o l’accettazione completa del risultato o il ripudio”. 37 Nell’era del digitale in cui si lamenta e teme l’induzione al consumo rapido e distratto, l’incostanza, la transitorietà e l’obsolescenza delle esperienze, affidare la scrittura architettonica alla cura di un artigiano che si misura lentamente con lastre di
metallo e punte metalliche, può apparire provocatorio. In realtà la Tesi “Comporre l‘infranto: Ri-scrittura della stazione leopolda in Livorno“ di Barbara Bergamo tenta un cammino in controtendenza, una visione forse anacronistica ma pregnante del fare arte e architettura: ancora umanistica e rituale. La ricerca di Barbara sotto l’egida di Maria Grazia Eccheli, rappresentante di una cultura architettonica che da sempre ha assegnato al disegno il ruolo di proiettare il progetto oltre i confini fisici della mera realizzazione, misura quindi la vocazione dell’incisione a intercettare distretti linguistici impervi e in qualche modo elitari. A questo ruolo si addice una personalità complessa, come quella di Barbara, che cerca con fatica di coniugare professione con riflessione filosofica, estetica e storica: di tutto ciò alimentando il fine ultimo che è il progetto di architettura. Se quindi l’Architettura è arte dello spazio e come tale si nutre di tutta la storia della produzione figurativa insieme ai risultati oggettivi della ricerca scientifica, il suo obbiettivo consiste nel raggiungere il livello significante e simbolico con il quale ogni periodo storico configura la propria identità. È pertanto evidente che lo spontaneo apprendimento ottenuto dal vorace consumo delle immagini digitali, sempre più ingombranti sui monitor dei computer, non è sufficiente alla costruzione di una qualità, e perciò significante, ai luoghi comuni figurativi ed illustrativi. L’anacronistica “provocazione” di Barbara, di utilizzo nel percorso di tesi degli strumenti grafici manuali a scapito di quelli digitali, è sembrata da subito vincente: la ricerca in oggetto affidata alla lentezza dell’incisione ben si inserisce nella costruzione pedagogica di una efficace metodologia della progettazione. Se come di recente ebbe a scrivere Giorgio Agamben, essere inattuali è l’unica forma possibile di contemporaneità, allora l’anacronismo della tecnica incisoria fa di questo linguaggio qualche cosa di necessario, anzi di inevitabile, e di urgente.
Alessandro Anselmi, “Acquaforte: lo spazio del disegno e l’equilibrio del tempo”, in Architettura Incisa Vol. 2, Gangemi Editore, Roma 2012. Ibidem. 36 Francesco Moschini, “Il multiversum del mondo:segno, grafia, scrittura e architettura”, in Architettura Icisa: Mostra e laboratori di disegno e incisione, Gangemi Editore, Roma 2010. 37 Ibidem. 34 35
Luca Barontini Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
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Bibliografia
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Indice
La Stazione: “Se una notte d’inverno un viaggiatore” Maria Grazia Eccheli
7
Progressus ad originem e regressus ad futurum
11
Liburnia: storia di un porto e la sua città Il circuito lorenese e il beneficio libero Le strade ferrate e La Stazione San Marco
13 17 19
Comporre l’infranto
21
Ri-Scrittura della Stazione Leopolda Innesto possibile La Grande Copertura enigma del tempo Teatrino shakespeariano La Torre dei Libri Hortus conclusus Carena e controcarena
23 31 38 39 44 45 51
Back to the future Luca Barontini
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Finito di stampare per conto di didapress Dipartimento di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Ottobre 2020
“Prendete la pianta di una città e considerate una sua parte: vi salteranno agli occhi, come macchie nere, queste forme emergenti. Anche in questo senso parlo di elementi primari.” (Aldo Rossi, Architettura della città ) La prima delle dieci incisioni raccolte in questo volume, rappresenta una sorta di città ideale, una Livorno che non è mai esistita in maniera così sincronica, ma dalla quale si evincono gli elementi primari della città; uno tra tutti la Stazione San Marco. Fatto urbano relativamente giovane nel suo contesto, ma forte segno architettonico, espressione oggi della volontà collettiva che, seminando in un terreno intriso di storia, vuole generare soluzioni in sintonia con il futuro. Il progetto, scavando tra gli strati sedimentati nel tempo, riflette sulla possibilità concreta di restituire l’edificio ai cittadini. Tentando di ritrovare l’arcaico legame con l’acqua e con l’antico mestiere del maestro d’ascia, propone di riconvertire la stazione Leopolda in una scuola di alta formazione, dedita alla progettazione e la costruzione di imbarcazioni, sfruttando i grandi spazi e la particolare conformazione propria della stazione di testa. Aldo Rossi appuntava nella sua Autobiografia scientifica: “Il progetto insegue questa trama di nessi, di ricordi, di immagini pur sapendo che alla fine dovrà definire questa o quella soluzione; dall’altra parte l’originale, vero o presunto, sarà oggetto oscuro che si identifica nella copia”. Così accade che il progetto corre su due binari paralleli, architettonico e grafico, l’acido nitrico scava nello zinco per far posto all’innesto di un nuovo segno, la poesia della luce e la ricerca dell’archetipo si concretizzano nella materia e si rivelano nella stampa.
Barbara Bergamo è architetto e incisore, lavora tra Firenze e Livorno, ma ha scelto di vivere di fronte al mare. La sua è la biografia visiva di un mondo figurativo che dal liceo artistico di Livorno, la porta a Firenze, all’Accademia di Belle Arti, la facoltà di Architettura, la scuola internazionale di Arti Grafiche il Bisonte, l’atelier L’Armadillo 51r. Da sempre interpreta il disegno come mezzo sperimentale per la conoscenza della vita, forma privilegiata di scrittura e condivisione di una realtà altrimenti privata.
ISBN 978-88-3338-119-0