Firenze Architettura 1998-2

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Dipartimento di Progettazione dell’Architettura

Direttore Carlo Chiappi

Sezione Architettura e Città Professori Ordinari Gian Carlo Leoncilli Massi Loris Macci Piero Paoli Professori Associati Giancarlo Bertolozzi Andrea Del Bono Alessandro Gioli Marco Jodice Maria Gabriella Pinagli Mario Preti Ulisse Tramonti Ricercatori Alberto Baratelli Antonella Cortesi Renzo Marzocchi Enrico Novelli Valeria Orgera

Sezione Architettura e Contesto Professori Ordinari Roberto Maestro Adolfo Natalini Professori Associati Giancarlo Cataldi Carlo Chiappi Stefano Chieffi Benedetto Di Cristina Gian Luigi Maffei Guido Spezza Virginia Stefanelli Paolo Vaccaro Giorgio Villa Ricercatori Carlo Canepari Gianni Cavallina Pierfilippo Checchi Piero Degl’Innocenti Maurizio De Marco Serena De Siervo Grazia Gobbi Sica Carlo Mocenni

Sezione Architettura e Disegno Professori Ordinari Emma Mandelli Professori Associati Marco Bini Roberto Corazzi Domenico Taddei Ricercatori Maria Teresa Bartoli Alessandro Bellini Gilberto Campani Marco Cardini Carmela Crescenzi Marco Jaff Enrico Puliti Michela Rossi Marco Vannucchi

Sezione Architettura e Innovazione Professori Ordinari Antonio D’Auria Giuliano Maggiora Professori Associati Roberto Berardi Alberto Breschi Remo Buti Giulio Mezzetti Ricercatori Lorenzino Cremonini Paolo Iannone Flaviano Maria Lorusso Pierluigi Marcaccini Marino Moretti Vittorio Pannocchia Marco Tamino

Altri docenti Professori Ordinari Aurelio Cortesi Maria Grazia Eccheli Rosario Vernuccio Paolo Zermani Professori Associati Paolo Galli Bruno Gemignani Mauro Mugnai Fabrizio Rossi Prodi Assistenti Ordinari Vinicio Somigli

Personale Tecnico Coordinatore Tecnico Giovanni Pratesi Funzionari Tecnici Giovanna Balzanetti Massimo Battista Enzo Crestini Mauro Giannini Paolo Puccetti Assistente Tecnico Edmondo Lisi Operatori Tecnici Franco Bovo Laura Maria Velatta

Personale Amministrativo Funzionario Amministrativo Manola Lucchesi Assistente Contabile Carletta Scano Assistente Amministrativo Debora Cambi Gioi Gonnella Operatore Amministrativo Grazia Poli


ARCH IITETTURA TETTURA

FIRENZE

2. 98 quaderni Periodico semestrale del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura via Cavour, 82 Firenze tel.055/2757721 fax. 055/2757720 http://www.unifi.it/unifi/progarch/ Anno II n.2 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 Prezzo di un numero Lire 12.000 Abb. annuo Lire 20.000

DIRETTORE

Sommario

Carlo Chiappi

DIRETTORE RESPONSABILE Marino Moretti

COMITATO SCIENTIFICO Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Marco Casamonti, Carlo Chiappi, Marino Moretti, Paolo Vaccaro

COMITATO EDITORIALE Eugenio Martera, Enrico Puliti

Gian Carlo LEONCILLI MASSI Presentazione

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Laura ANDREINI La permanenza del concetto di proporzione dal Rinascimento al moderno attraverso il modello del palazzo fiorentino

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REDAZIONE Laura Andreini, Andrea Ricci, Daniele Spoletini

Matteo Cosimo CRESTI Biomorfismo e Architettura

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INFO-GRAFICA E FOTOGRAFIA

Fabio FABBRIZZI Note al progetto di ampliamento del sistema museale degli Uffizi a Firenze

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Marco NAVARRA Il disegno strabico di Palladio, (una tecnica per dimenticare)

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Massimo Battista

DTP Laura Maria Velatta

COORDINATORE TECNICO Gianni Pratesi

COLLABORATORI Massimo Bianchini, Roberto Corona

COPERTINA Eugenio Martera, Laura Maria Velatta

SEGRETERIA DI REDAZIONE

Giacomo PIRAZZOLI Congettura sulle rare e inattese figurazioni attorno alle quali sembrano essersi soffermati alcuni maestri dell’arte del comporre e del costruire: Le Corbusier a La Tourette 38

E AMMINISTRAZIONE

Andrea RICCI Forma del progetto: forma dello scrivere architettonico

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Questo numero è stato curato da Daniele Spoletini

Daniele SPOLETINI Metamorfosi dell’idea

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Allegati: programma dottorato “Le figure del comporre”

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tel. 055/2757792 E_mail: progarch@prog.arch.unifi.it.

PROPRIETÀ UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONE Centro Editoriale del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Firenze Finito di stampare nel Novembre 1998 da Arti Grafiche Giorgi & Gambi, viale Corsica, 41r Firenze


nel prossimo numero di FIRENZE

ARCHI T E T T U R A FIRENZE

ARCHITETTURA :

DOSSIER ARCHITETTURA E AMBIENTE: RILIEVO E DOCUMENTAZIONE

1. 99 d o s s i e r

Scritti e interventi di: Maria Teresa BARTOLI, Alessandro BELLINI, Marco BINI, Gilberto CAMPANI, Marco CARDINI, Carmela CRESCENZI, Roberto CORAZZI, Marco JAFF, Emma MANDELLI, Enrico PULITI, Michela ROSSI, Domenico TADDEI, Marco VANNUCCHI

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Firenze Architettura (Quaderni) offre al lettore in questo numero un incontro d'amore con il comporre. Pur coi pesanti ritardi che sottolinea Gian Carlo Leoncilli, si affaccia all'orizzonte una schiera di futuri docenti animati dal desiderio di reagire alle dipendenze e agli ismi che la nostra cultura architettonica ha dissipato senza limite da alcuni decenni. Le loro tesi (dottorato VIII e IX ciclo) sembrano rivelare in nuce una felicità conquistata nei ruoli, secondo il duplice criterio di una lettura devota e di un'interpretazione personale, autobiografica, dei messaggi della Storia. Certo, gli autori presentano esiti ancora quasi-sigillati, su cui dobbiamo per ora sospendere il giudizio (almeno fino alla reintegrazione dei temi indagati nel contesto reale). Ma a voler cogliere il "tono" e l'intensità di tali esplorazioni, risulta affatto raggiunto l'obiettivo programmato di attingere il massimo di coincidenza tra l'insegnamento dei maestri e la prassi professionale, tra lettura e stesura, tra diversità e individualità della composizione architettonica. In effetti tutto ciò non ha niente di paragonabile alla prostrazione silenziosa, senza seguito o senza ritorno, che ben conosciamo. Qui la vocazione alla ricerca è fonte di una precisa allusione al sé; è cioè quella di approfittare pienamente, di ritrovare e rinnovare due abbracci, due storie: una invocata, fatta di seduzioni, d'incantesimi ed innamoramenti; l'altra vissuta e raccontata. Si annuncia la fattibilità di una mediazione tra il Comporre, con le sue regole, ed una prosa individuale con procedimenti e delimitazioni proprie, predicata come "normalità" a venire e profetizzata quale aspirazione ad una lingua comune. Vi è la tensione verso un identificarsi di destino e linguaggio, forse espressione di un momento di affermazione e magari di un'ascesi che si vuole raggiungere. Certo negli stacchi, tra un autore e l'altro, vi sono ancora grandi vuoti da colmare. Esiste la perpetua traducibilità delle metafore, che è senza fine. Ma vive comunque un microcosmo poetico che viene introdotto dal "come" e vuole sempre più affidarsi alla potenza evocativa del tratto e dello schizzo, senza concedere o subire una perdita. E' la conseguenza di un muoversi in direzione di un centro che, se in superficie può apparire fragile, cerca invece valori metastorici ed eterni; dunque accenti forti, o comunque nitidamente scanditi che si contrappongono al carattere ormai logoro di alcune pratiche. Se le situazioni si rovesciano è perché non sono agite sul piano della provocazione, bensì su quello che anima il senso, dove la ricerca non è più una sorta di “annebbiamento", tutt'altro: agisce da soggetto e trasforma la distorsione del tempo in un movimento di va e vieni; apre, per così dire, la porta del linguaggio affrancandolo da quei codici vuoti che ne immobilizzano a priori il risultato formale. Così le Figure sono accolte come segni di una defezione acquisita che cattura, provoca ripercussioni. Deposte sulla carta, esse sembrano prendere rilievo a seconda che risulti visibile individuare un qualcosa che è stato sentito o provato. Ciò che le distanzia dai Frammenti di Roland Barthes, in fondo, è che queste non si fermano; cioè che il loro ruolo attivo non consiste soltanto in ciò che esse articolano, ma anche in ciò che esprimono. Quello che le unisce invece è il fatto che ciascuno può riempire questo codice anche con la propria storia. Starà al lettore attento ora impadronirsene e mettervi del suo. (Marino Moretti)


P R E S E N T A Z I O N E

GIAN CARLO LEONCILLI MASSI Questo Dottorato è lo strumento e il luogo per la ricostruzione teorica e quindi l’insegnamento del mestiere architettonico. La ricerca ha quindi un fine concreto nella formazione del ricercatore universitario e del futuro docente, attraverso il recupero, il ripensamento e lo sviluppo delle questioni capitali del comporre architettonico. La convinzione della necessità di dover ritrovare il carattere intellettuale della creazione architettonica in ogni fase del processo di progetto fino ai suoi esiti costruttivi, impone all’esperienza del dottorato di prendere posizione in relazione ai temi dell’attuale crisi dell’antico mestiere progettuale compositivo, sulla babele linguistica del professionismo corrente e certo sulla possibilità di tornare a costruire, e disegnare, correttamente. I cardini del comporre, l’ideazione, il processo di progetto e la capacità stessa di formare il corpo docente: tutto ciò è ancora più necessario se si pensa che Firenze, per il Dottorato parte con molti anni di ritardo. Gli altri, sicuramente con molte questioni discutibili, sono più avanti di noi, con una presenza disciplinare importante alla quale si unisce tutta una organizzazione di segreteria e di pubblicistica molto efficienti che sono di stimolo allo svolgimento della ricerca stessa, quest’ultima seguita da relatori e da controrelatori che insieme ai dottorandi e ai servizi sopracitati costruiscono una struttura di relazioni scientifiche che a noi manca totalmente e che è questione non più eludibile. Il punto di approdo ultimo degli altri Dottorati nazionali è la ricerca fortemente tematica. Il Dottorato deve diventare una futura scuola di specializzazione progettuale, momento di formazione del futuro corpo docente: è quindi necessaria una ricerca fortemente legata all’azione del progetto, anzi, il progetto come ricerca, dove anche la storia, come storia compositiva, viene rifondata. Questi sono anche gli obiettivi del nostro Dottorato che non a caso pone come sua ricerca tematica quella delle figure del comporre. Cominciando con grandissimo ritardo, dentro una scuola che non funziona, siamo anche orfani di un ambito teorico disciplinare antecedente ai temi stessi della

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figurazione a questa pregiudiziali e che giustificano la ricerca stessa. La disciplina del Comporre, entro i termini di norma e licenza, va ridefinita, riconquistata, rinnovata, se non si vuole che le poetiche personali progettuali evitino il confronto entro la strategia tematica del Dottorato e così continui la prevalente incomunicabilità attuale o comunque la difficoltà ad approfondire tutti insieme la strategia posta dalle figure del comporre.

… Si assume Firenze e la sua storia progettuale come luogo unico per qualsiasi considerazione di pensiero progettuale e di realizzazione. Progettare a Firenze storica è sempre stata condizione particolare essendo la città, nel suo sviluppo pre-moderno, città unica. Iniziare a riscrivere, per grandi caposaldi generali, per temi, la storia delle occasioni progettuali di disegno urbano e di architettura realizzate o meno nello sviluppo di Firenze pre-metropolitana. I temi progettuali emergenti, il ruolo dell’architettura in quelle parti ancora individuabili come “città” la cui memoria pre-o-umanistica, accanto a quella settecentesca, o al limite del moderno, garantisce all’architettura ancora un ruolo che segna l’immagine urbana. Questo nella convinzione che ciò che viene tramandato nel moderno e nel contemporaneo, o affermato in generale nell’insegnamento e nella prassi professionale di “Firenze città”, non soddisfa né il desiderio e la volontà di instaurare nuovi modi di conoscere progettualmente la città stessa da parte dell’azione del Dottorato nel tempo, né la necessità di attrezzarsi efficacemente per iniziare un confronto con ciò che è “esterno” a Firenze nella attuale tradizione e dibattito culturale.

A)

Le Figure del Comporre. Tradizione, insegnamento, applicazione della Composizione Architettonica.

Sarà privilegiato il confronto con i Dottorandi attraverso lezioni e seminari, tra “Questioni compositive generali” e “temi particolari”. Ciò con lo scopo di “recuperare il disegno architettonico nei suoi valori e forme compositive e progettuali”, e il disegno che fu il pensiero di Libera, Quaroni, Scarpa, Michelucci. Tale recupero dovrà partire dai disegni dei “maestri” antichi patrimonio di cui Firenze è ricchissima. Per le “Questioni generali” e “Temi particolari”, su cui elaborare le lezioni preliminari e le analisi personali dei Dottorandi, si rimanda al programma generale del Dottorato.

B)

Letture compositive. Temi progettuali individuati nel confronto tra “Norma” e “Licenza”.

Confronto tra storia progetto, la storia dei compositori: un modo diverso di fare storia progettuale. Ruolo dell’insegnamento della storia nel fare compositivo: “Anticamente moderni…” (P. Aretino, G. Romano) e “Trasformare la modernità in

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tradizione …” (Q. Principe). “La scatola degli arnesi”, storici, compositivi, progettuali, nel senso della manipolazione e metamorfosi degli stessi fuori dalla filologia e dallo storicismo. Le letture compositive cercheranno di realizzare gli obiettivi indicati attraverso lo studio e l’analisi che i Dottorandi singolarmente eseguiranno su personalità o maestri antichi o della nostra attuale tradizione culturale. Quindi o i pre-moderni, Sangallo, Peruzzi, Palladio, ad esempio, o i settecenteschi e Schinkel, oppure l’antimoderno a Vienna. Per la tradizione moderna e contemporanea personaggi come ad esempio: Michelucci, Gamberini, Terragni, Libera, Quaroni, Muratori, Ridolfi, Scarpa, Albini, Gardella, Rogers, Samonà.

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DOTTORATO DI RICERCA IN COMPOSIZIONE ARCHITETTONICA “LE FIGURE DEL COMPORRE” (IX ciclo)

dottore

Laura Andreini coordinatore

Prof. Gian Carlo Leoncilli Massi relatore

Prof. Antonio D’Auria

LA PERMANENZA DEL CONCETTO DI PROPORZIONE DAL RINASCIMENTO AL MODERNO ATTRAVERSO IL MODELLO DEL PALAZZO FIORENTINO

“Il Donghi, nelle lezioni tenute per il corso di composizione architettonica alla Regia Scuola di Ingegneria e Architettura di Padova, fornisce, meglio ancora che nel suo monumentale ‘Manuale’, le regole da seguire per la compilazione di un completo progetto di architettura e ne enumera sinteticamente i principi teorici. […] Tra i principi fondamentali dell’estetica che l’allievo architetto dovrà tenere presenti figurano l’armonia, la varietà, la simmetria, la semplicità e soprattutto la proporzione”1.

Appunto la proporzione come principio immutabile che, a cinquecento anni dalle formulazioni albertiane, costituisce il riferimento primo del comporre in architettura, regola d’insegnamento, fattore di ispirazione e controllo del progetto. Quelle stesse proporzioni, che per Viollet-le Duc dipendono dalle “regole della geometria”, costituiscono forse l’elemento che manifesta in modo più evidente la “con1

tinuità del classico” e la permanenza di quel sistema di valori che sotterraneamente, come è stato più volte evidenziato nel corso di questo studio, convivono con l’adesione al moderno e la ricerca di razionalità che caratterizza le esperienze degli anni Venti e Trenta in Italia. È addirittura il medievalista Camillo Boito a sostenere, in periodo di pieno Eclettismo, attraverso, la concreta e diretta coincidenza tra proporzioni e classicismo. Nel definire le regole di un apparato metodologico volto al riconoscimento del concetto di stile organizzato sulla distinzione tra organismo e simbolismo, a sua volta distinto in geometrico e ornamentale, Boito, pur con accenti negativi, non può far altro che riconoscere come

2 1 -Prospetto del Palagio di Parte Guelfa, in via delle Terme, Firenze di Filippo Brunelleschi. 2 -Piazza Pio II a Pienza, progetto del Rossellino. 3 -Palazzo Strozzi a Firenze, Giuliano da San Gallo (disegno), Simone del Pollaiolo detto il Cronaca (esecuzione), Benedetto da Maiano (modello), 1489.

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“nel geometrico hanno luogo quelle norme di rapporti aritmetici, quelle proporzioni tra le masse e i particolari che, senza badare alla pedanteria dei moduli vignoleschi, pure si riscontrano nei vari stili di sapor classico; e hanno luogo ancora quei larghi riscontri e ordinamenti geometrici, quegli


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sviluppi e quasi a dire pululamenti di solidi regolari, quelle combinazioni ora gentili ed evidenti, ora intralciate e confuse da figure da compasso, che formano la veste, sovente anzi l’essenza degli stili europei del medioevo”2.

Geometria e proporzioni, nelle diverse applicazioni che caratterizzano l’uso della sezione aurea o determinati rapporti definiti dinamici, o ancora nella ricerca di sistemi compositivi organizzati secondo moduli o misure particolari, costituiscono in definitiva l’elemento rilevatore della classicità e della ricerca di razionalità, accomunando, all’interno di uno stesso “modo di comporre” secondo regole definite appunto norme conformative, epoche e culture distanti sia cronologicamente che geograficamente. Ciò significa, in ultima analisi, che l’assunto storiografico tendente a riconoscere nel moderno un’opposizione e una cesura totale nei confronti del passato costituisce, a fronte del concreto uso della geometria e delle proporzioni che caratterizza, ad esempio, tutta l’opera corbuseriana, un falso storico ormai unanimamente riconosciuto. Ma se geometria e proporzioni rappresentano il segnale di una evidente continuità del classico che lega “sotterraneamente” Rinascimento e Moderno, attraverso la parentesi eclettica e periodi di completa inattualità del classicismo, basti pensare alla propaganda antiaccademica delle avanguardie, con questo studio si è tentato di ricostruire non il fine, più o meno evidente, quanto il mezzo attraverso il 1

quale questo processo di immedesimazione e permanenza ha potuto manifestare i suoi effetti nel tempo e nello spazio. È il palazzo, come modello astratto, sintesi formale e rappresentazione ideale di un rigoroso e razionale metodo compositivo, a riassumere il valore dei contenuti teorici e metodologici dell’Umanesimo. È il palazzo come tipologia distributiva, come ipotesi formale e principalmente come atteggiamento progettuale, a divenire tramite e custode di leggi e rapporti proporzionali codificati, attraverso “la ragione” nel classico. In particolare è il palazzo fiorentino, nella formulazione perfetta e assoluta di Palazzo Strozzi, a costituire la sintesi di un procedimento metodologico talmente determinato da risultare indipendente dal contesto, anzi, come abbiamo visto, talmente immodificabile da imporre alterazioni al sito che si conforma, si plasma, si amplia, in modo da non imporre variazioni tra il modello reale e il modello teorico. È il palazzo nella sua formulazione quattro-cinquecentesca ad assumere il ruolo di elemento di collegamento, di sintesi ed espressione di categorie compositive invarianti, ad esprimere, nello schema geometrico-distributivo, la sintesi di un sistema di rapporti proporzionali che trasportano l’uso e la consuetudine delle norme conformative e dei rapporti aurei nel tempo, fino al moderno. È il palazzo

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fiorentino con la sua fortuna stilistica a permettere la continuità del metodo compositivo classico e consentirne l’involontaria perpetuazione che sopravvive, nel nostro Paese (come più volte sottolineato nel corso della ricerca) attra-

1 -Palazzo Medici: prospetto e pianta del nucleo originario di Michelozzo. 2 -Palazzo Piccolomini a Pienza del Rossellino 3 -Palazzo Trocchi a Roma, G. Koch, 1887.

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verso la nozione di gusto e la pratica del “facciatismo”, all’Eclettismo e allo storicismo di fine Ottocento.


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“Sarà infatti l’immagine di un’architettura desunta dalla fenomenologia artistica del XVI secolo a informare di se la prevalenza delle realizzazioni postunitarie contribuendo in maniera determinante a definire una nuova fisionomia di quelle che saranno le città capitali del nuovo regno e comunque della più diffusa architettura borghese degli stessi anni. Tutto ciò contribuendo in maniera decisiva alla determinazione di un nuovo stile per un nuovo stato, ma d’altro canto, nulla incidendo nella sostanziale trasformazione delle diverse metodologie di progetto, rimanendo queste, al contrario, ancorate ai prototipi affermatisi fin dai primi decenni del secolo”3.

È proprio la condizione di assoluta incomparabilità tra la razionale impostazione 1

matematico-proporzionale del metodo compositivo rinascimentale e l’estetizzante adesione formalistica al Neorinascimento, espressa dalla cultura ottocentesca, a confermare l’ipotesi secondo cui, non esistendo continuità metodologica di tradizione classica, il contributo e l’uso di regole e norme geometriche utilizzate tanto nella cultura umanistica, quanto come fondamento delle principali opere del razionalismo, può essersi manifestato soltanto attraverso il perpetuarsi di un riferimento comune, e questo è, appunto, il palazzo. Forse il maggior contributo della ricerca consiste proprio nell’aver individuato una sorta di legge ciclica (che potrebbe anche essere facilmente rappresentata graficamente), di ripetitività comportamentale, vichianamente interpretata sulla lettura e l’analisi compositiva della tipologia del palazzo relativamente all’utilizzo, più o meno consapevole, delle norme conformative. Si tratta di una ciclicità individuata a posteriori dall’osservazione del ruolo assunto dal modificarsi del concetto di proporzione dal periodo Classico al Rinascimento, e da quest’ultimo al Moderno. Per questa via non è difficile riconoscere, anche in estrema sintesi, il valore mistico-irrazionale che le proporzioni assumono nel Medioevo e confrontarle con la misura, il numero, la scientificità e la ricerca di perfezione, del Rinascimento, dove il termine proporzione raggiunge un risultato universale che nel Barocco arriva alla determinazione di fattori sensoriali e percettivi quali la luce, la profondità, la prospettiva, alterando la consuetudine della metrica rinascimentale a cui si aggiunge, oltre la ragione, il valore dell’illusione. Ma il razionale metodo rinascimentale, fondato sullo studio della matematica, del numero, della geometria, delle proporzioni auree, ritorna d’autorità nella metodologia compositiva e progettuale del Moderno. Ritorna cioè nel nuovo seco-

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lo, dopo la parentesi ottocentesca, la metrica universale che regola pianta e alzato, quella metrica che nel Rinascimento e ancor più nel Barocco ha permesso il controllo spaziale dell’edificio nella sua globalità, che considera la facciata

1 -Palazzo Massimo alle Colonne, Roma del Peruzzi. 2 -Palazzo Baldassini, Roma del Sangallo. 3 -Casa del Fascio a Como, Giuseppe Terragni, 1932-1936.

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come una parte e non l’esclusivo interesse dell’espressione artistica, ritorna in ultima analisi, dopo l’eclettismo, la tridimensionalità dell’architettura. Ritornano ancora, attraverso la consuetudine del palazzo, gli assi, la massa, l’atrio, la cor-


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te e con questi le regole, i rapporti numerici, la simmetria, le proporzioni, il cui contributo viene insegnato e riproposto, forse mnemonicamente, dalle Accademie nelle quali si formano culturalmente i protagonisti del Moderno in Italia. Ma non è certamente in ossequio al perdurare di un gusto neorinascimentale che le proporzioni divengono uno dei perni della poetica corbuseriana e razionalista, quanto la loro intrinseca precisione, la loro purezza, il loro rigore, che appaiono, finito il conformismo ottocentesco, come i contenuti fondamentali di una stagione completamente nuova. Secondo questa chiave interpretativa, l’edificio della casa del Fascio di Giuseppe Terragni, che simmetricamente a palazzo Strozzi costituisce uno dei testi esemplifi1

cativi di questo studio, si presenta come il manifesto di un’epoca ad un tempo rivoluzionaria e conservatrice, nel senso della conservazione e della riproposizione di condizioni logico-compositive legate a criteri di proporzionamento e misurazione delle parti che derivano dalla “metrica” rinascimentale. La costruzione identifica cioè i contenuti e le caratteristiche del linguaggio del Moderno servendo nuove e più complesse funzioni, ma la presenza del cortile interno e la successione strada, atrio, corte, la differenziazione dei piani dovuta alla presenza, seppur ridotta, di un basamento, la struttura simmetrica dell’impianto generale, la sua massa volumetrica dettata da precise proporzioni che regolano altezza e larghezza, ne individuano

1 -Palazzo di un edificio in piazza Beccaria a Firenze, del Poggi. 2 -Edificio per uffici Gualinao di Levi Montalcini e Pagano. 3 -Palazzo postale in via Marmorata, Roma di De Renzi e Libera.

l’appartenenza ad un preciso modello derivato dal palazzo rinascimentale e più precisamente dalle geometrie pure del palazzo fiorentino. Il modello tipologico permane allora, non più nell’adesione linguistica e nella riproposizione dello stile, quanto nella scrittura delle regole compositive generali come scrive Peter Eisenman illustrando un saggio su la Maison Domino di Le Corbusier “prodotto dell’architettura moderna stessa che, si può dimostrare non è necessariamente moderna o modernista, ma piuttosto un fenomeno di tardo Umanesimo”4.

La casa del Fascio, costituisce, in ultima analisi, la compenetrazione simultanea di una poetica moderna di derivazione corbusiana e di una struttura mentale dichiaratamente legata alle condizioni razionali proprie della cultura dell’Umanesimo; tale compenetrazione esprime una concreta consequenzialità tra cultura antropometrica di derivazione rinascimentale, secondo cui le proporzioni dell’architettura per aspirare alla perfezione devono ripetere quelle del corpo umano modellato ad immagine e somiglianza di Dio, e l’invenzione di uno strumento di misura, il Modulor, fondato sul riconoscimento del valore numerico che tripartisce secondo rapporti aurei la posizione del piede, del plesso solare, della testa e delle dita di una mano con il braccio alzato, nello spazio. Non vi è dubbio cioè, anche se la trattazione del Modulor risale ad una omonima pubblicazione del 1948, posteriore alla scomparsa di Terragni e ben oltre dieci anni dalla realizzazione della casa del Fascio, che quelle stesse motivazioni intellettuali che portarono alla sua formulazione teorica, tratte dalla attenta lettura di una consapevo2

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le “lezione della storia” che caratterizza in modo singolare la figura di Le Corbu-


sier, aveva certamente impressionato la mente creatrice dello stesso Terragni condizionandone efficacemente l’operare. La ripresa del modello tipologico del palazzo rinascimentale individua comunque, oltre il riconoscimento di un’attenzione tutta corbusiana per la reinterpretazione e lo studio dei monumenti del passato, la permanenza di comportamenti progettuali che caratterizzano una metodologia operativa iniziata durante il primo decennio del Novecento e ancora viva nel dopoguerra. La revisione delle posizioni espresse dalle avanguardie storiche, prodotta, nel nome di un rinnovato interesse

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per la tradizione, attraverso le architetture di Gardella, di Albini, di Ridolfi, testimonia la vitalità del “palazzo” come riferimento ed espressione di una ricercata “continuità” con il passato. Negli edifici civili, quali la casa Ina a Parma o la Rinascente a Roma in piazza Fiume, la permanenza di consuetudini compositive derivate direttamente dalla storia, ma anche da un ritrovato senso della città, del luogo, del monumento, individuano una discendenza diretta dal modello palazzo rinascimentale. La permanenza di tale modello non è dettata da una adesione più o meno “realistica” alla nozione di stile, nella aderenza compiuta al tipo, o dal monumentalismo espresso dalle lesene, dal cornicione e dai marcapiani della Rinascente, quanto, piuttosto, dalla costruzione di una nuova e importante presenza nella città che viene a configurarsi come parte integrante dell’identità urbana assumendo, rispetto al contesto, quello stesso valore di emergenza che caratterizzava l’edilizia signorile del Quattrocento. In questo senso l’edificio de La Rinascente di Albini può essere considerato come l’ultimo dei palazzi; tuttavia se analizziamo la recente realizzazione dell’hôtel di Aldo Rossi “Il Palazzo” a Fukuoka, è possibile riconoscere nell’attualità, secondo una volontà che il nome dell’edificio lascia intuire, una costruzione che manifesta se stessa nella centralità e nella massa dell’involucro architettonico, nell’esaltazione del fronte, nel valore di emergenza e nella riproposizione di regole proporzionali che appaiono immutabili se considerate nella loro applicazione astratta. Tali regole pur dimostrando la “continuità” della metrica classica esprimono ancor oggi, attraverso il modello del palazzo, una pertinente attualità aprendo forse nuove possibilità, nuove applicazioni e nuovi stimoli per il futuro.

note: 1 C. Barucci, Strumenti e cultura del progetto. Manualistica e letteratura tecnica in Italia 1860-1920, Roma, Officina edizioni, 1984, pag. 134-135. 2 C. Boito, Sullo stile futuro, in “Il nuovo e l’antico in architettura, (a cura di M. A. Crippa), Milano, Jaca Book, 1989, pag. X-XI. 3 C. Barucci, op. cit., pag 126-127. 4 P. Eisenman, La Maison Domino e il segno autoreferenziale, in “Sulle tracce di Le Corbusier”, (a cura di C. Palazzolo e R. Vio), Venezia, Arsenale editrice, 1989, pag 23.

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DOTTORATO DI RICERCA IN COMPOSIZIONE ARCHITETTONICA “LE FIGURE DEL COMPORRE” (IX ciclo)

dottore

Matteo Cosimo Cresti coordinatore

Prof. Gian Carlo Leoncilli Massi relatore

Prof. Paolo Zermani

BIOMORFISMO E ARCHITETTURA

“Sarebbe cosa naturalissima per l’uomo che tenta tutto, che realizza tutto, copiare le forme interessanti e gli interni di organi e di calici di fiori, non solo, ma anche continuare a costruire le numerose e più raffinate forme estetiche ed artistiche della natura, inventare forme del genere e forme concave nella esistente infinità delle variazioni, per fare ingresso come convivente in simbiosi in queste gigantesche plastiche concave, che non potrebbero essere meno artistiche di una chiocciola degli oceani … e non meno funzionali malgrado la più ibrida fantasticheria.” Hermann Finsterlin

L’analisi degli aspetti del biomorfismo in architettura prende in esame quella casistica di progetti e realizzazioni in cui l’orchestrazione delle valenze espressive delle componenti, la modellazione degli spazi e la morfologia strutturale, riflettono principi desunti dal mondo organico, senza limitarsi alla semplice replica di analogie superficiali, ma implicando un effettivo arricchimento linguistico rispetto alla consuetudinaria sintassi architettonica. Nell’impegno di indagare con metodo entro l’ambito di queste architetture (spesso etichettate -non senza equivoci- quali esempi di architettura ‘organica’, ‘simbolista’, ‘vitalistica’ ecc. quando non addirittura ‘movimentata’ o ‘fantastica’), si è resa necessaria l’assunzione del concetto di biomorfismo quale categoria critica di lettura di opere in cui le morfologie biologiche si coniugano con le ipotesi progettuali; ovvero di quei momenti del processo compositivo nei quali viene instaurato una sorta di mutualismo fra l’ambito architettonico e quello naturale: nel primo caso, entro l’astratta rigidità dei canoni e delle ‘proporzioni’, si può contemplare la digressione, la deformazione in senso organico, nel secondo si individuano modelli razionalmente fruibili, forme traducibili in archetipi di consistente valore simbolico che integrano l’immagine dell’architettura, la quale “si fa strumento di comunicazione -come osserva François Burkhardt- attraverso il riconoscimento del senso dato alle forme”. La ricerca ha dunque preso in esame gli aspetti di questo approccio compositivo

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(ad esempio nel disegno di carattere biomorfico dell’impianto planimetrico quale alternativa a soluzioni impostate sulla geometria euclidea, oppure, riguardo alla struttura portante, l’utilizzo di pilastri arborescenti o di strutture di ispirazione osteologica; o, ancora, per quanto concerne ‘l’involucro’ dell’architettura, si analizzano i casi in cui i volumi, in opzione al riferimento poligonale o prismatico, sono modellati con forme analoghe a gusci o carapaci, ecc.), e sistemando tali materiali, la stessa ricerca ha ipotizzato la possibilità di un metodo -comunque non prescrittivo- applicabile a nuove esperienze progettuali. La perdurante presenza di questi caratteri biomorfici che emergono, seppure con continuità, attraverso esperienze stilistiche differenti e si manifestano tramite un considerevole repertorio di trasformazioni, dimostra che l’esprimersi per figure compositive correlate con le forme della natura non è appannaggio esclusivo di un ristretto numero di progettisti, né di stilismi circoscritti. L’analisi non mira difatti alla riscoperta di personalità minori o di episodi formali trascurati, ma mette in evidenza il rilevante contributo fornito alla tematica in oggetto da riconosciuti maestri dell’architettura moderna e contemporanea. La ricerca degli episodi similari è stata avviata e compiuta nella perfetta consapevolezza che ognuno di essi appartiene a momenti storici e culturali fra loro inconfrontabili, ma anche nella convinzione che in qualsiasi momento storico e culturale è sempre risultata evidente anche la necessità, sovrastorica, di fare riferimento alla natura come modello autorevole e garante. A riprova di ciò, difatti, è possibile individuare una antologia di meditate interpretazioni di archetipi, sperimentate da taluni protagonisti della tradizione moderna (si pensi ai pilastri arborescenti di Gaudí, di Horta, di Michelucci, di Portoghesi, di Calatrava,…). La ricerca ha dunque seguito il tracciato di immagini che ricollega, in lunga sequenza, le architetture progettate e realizzate attestanti la necessità e la volontà di ispirarsi al mondo organico per tentare un rinnovamento del linguaggio formale architettonico. L’analisi di questi episodi architettonici non è però finalizzata all’imposizione di norme prescrittive o di modelli da imitare pedissequamente. Da una ricognizione del fenomeno del biomorfismo in architettura non si delinea un compendio di regole né tantomeno una manualistica, giacché i materiali raccolti rifiutano la catalogazione entro rigidi inventari, ma si pongono soprattutto quale oggetto di riflessione, quali incentivi per una ricerca alternativa circa la declinazione della forma. Il biomorfismo, inteso come sublimazione linguistica e trasposizione in ambito architettonico di forme naturali potrà forse rivelarsi un criterio perseguibile per restituire all’architettura il suo ruolo comunicativo, indispensabile per ripristinare quell’insieme di rapporti che la correlano alla natura. Tale esigenza diviene sempre più perentoria, soprattutto nell’attuale condizione in cui l’ambiente urbano (che ha da tempo perduto il suo carattere di tessuto omogeneo) si espande in disordinate conurbazioni; tanto che i trascorsi equilibri tra la dominante natura e la puntiforme ed artificiale città sono pressoché sovvertiti, ed il paesaggio odierno ridotto a scampoli insignificanti, lacerato ed incalzato dall’accelerato moltipli-

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carsi di massificate manifestazioni edilizie di sempre minor pregio, appare paradossalmente circoscritto in piccole, isolate unità. Le potenzialità insite nell’applicazione degli aspetti biomorfici all’architettura indurrebbero a credere che un arricchimento espressivo del lessico compositivo, attuato tramite una messa in ordine dei significati simbolici, ed una maggiore sensibilità per i valori plastici (allusivi della sintonia con la natura e capaci di suscitare nuovi legami con il paesaggio costruito), possa condurre a quell’integrazione fra “uomo, natura e architettura” che, come scriveva Giovanni Michelucci, “sono termini inseparabili. L’architettura che non ha in sé, nella sua struttura, nella sua forma e nel suo spazio il senso della natura, è arida di sollecitazioni culturali e umane”. Beninteso, l’utilizzo esclusivo di figure compositive di carattere biomorfico non deve dare l’illusoria garanzia di un risultato estetico, né può essere considerato criterio da applicare universalmente ed univocamente, escludendo qualsiasi altra scelta linguistica; ma sembra, piuttosto, di poter individuare, nelle possibilità di interazione con altre e diverse forme di pensiero progettuale e le relative espressioni formali, un plausibile paradigma di ricerca per ampliare gli orizzonti della cultura del progettare, soprattutto nel difficile rapporto che quest’ultima deve intessere con l’inderogabile questione dell’identità del ‘paesaggio’ sia naturale che costruito.

Possibili declinazioni di figure compositive biomorfiche: una proposta progettuale per Firenze

Talune delle figure compositive, individuate nel corso della ricognizione sul tema del biomorfismo, possono confluire in una ipotesi metaprogettuale rivolta alla riqualificazione di un circoscritto frammento del territorio fiorentino: la porzione del parco delle Cascine, frontestante l’Arno, ove il viale Lincoln si congiunge con il Lungarno Vespucci. Tale area, per quanto limitata, è in grado di rivelare connessioni di coefficienti di scala ben più ampia, in quanto punto di contatto fra la città di Firenze, il suo più importante parco urbano ed il fiume. La proposta progettuale mira prevalentemente a restituire consistenza e coerenza all’immagine architettonica di un definito segmento del Lungarno fiorentino, e precisamente nel punto in cui il tessuto urbano (segnato da direttrici viarie che ricalcano la traccia della cinta muraria) si giustappone al perimetro del grande parco cittadino; e dove la ‘corposità’ materica della spalletta murata cede repentinamente il passo (dopo la sola ‘cesura’ rappresentata dal Ponte alla Vittoria) ai terrapieni dell’argine delle Cascine. Nonostante talune recenti disposizioni di normativa urbanistica sanciscano il divieto di costruire manufatti edilizi a ridosso di fiumi e corsi d’acqua, inibendo di fatto la possibilità di formulare ipotesi architettoniche che, verosimilmente, si inserirebbero nella continuità della storia architettonica fiorentina, il paradigma della proposta progettuale coincide specificatamente con la sottolineatura delle in-

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terrelazioni che si verrebbero a stabilire fra un possibile organismo architettonico, situato in una simile privilegiata posizione, e le componenti naturalistiche dell’area in oggetto. Planimetricamente l’intervento si configura -svincolato da rigorismi geometricicome una serie di segmenti concatenati, nella cui disposizione è facile leggere una diretta derivazione dalle straordinarie ipotesi fortificatorie di Michelangelo, le quali, proprio in prossimità dell’Arno, avrebbero dovuto inverarsi nelle loro più emozionanti forme. Questa sagoma dal perimetro frastagliato, paragonabile al profilo di una corazza animale, marca volutamente, quale elemento di transizione, il passaggio dal segno lineare della spalletta alla forma, più casuale, dell’argine, e, al tempo stesso, definisce una serie di direttrici visuali variamente orientate. Sui terrapieni definiti da tale impianto planimetrico troverebbero posto un parterre (utilizzabile per esposizioni all’aperto) ed alcuni padiglioni, auspicabilmente adibiti a strutture museali ed espositive. I padiglioni sono concepiti come ampi volumi definiti da pareti in cristallo e punteggiati, al loro interno, unicamente da pilastri arborescenti che sorreggono, con minimo ingombro a livello planimetrico, coperture a sezione ogivale. Nei profili delle coperture, variamente modellate, si riflettono memorie di alcuni ragguardevoli episodi di elaborazione formale -desunti dalla storia dell’architettura contemporanea-, ora tesi ad una espressività di tipo quasi gestuale (come la grande forma alata del terminal aeroportuale di Saarinen a Idlewild), ora impostati su una articolazione dinamica dei volumi (come le volte conchiliari della Sydney Opera House di Utzon), ora indirizzati verso una plasticità intrisa di senso naturalistico, come la dilatata ‘foglia’ che Michelucci immaginò quale copertura per la Chiesa di San Francesco a Guri. Sempre all’opera di Giovanni Michelucci, ovvero alla Chiesa dell’Autostrada, si ricollega il ricercato contrasto fra le consistenti masse murarie del basamento ed il disegno curvilineo delle soprastanti coperture, che si ipotizzano rivestite in rame ossidato, quasi a ricercare una ideale mimetizzazione col colore delle chiome degli alberi circostanti, così come la trasparenza delle pareti in cristallo dei padiglioni si rapporta all’acqua del fiume. Un brano di città, la cui ubicazione è, a livello urbanistico, densa di significato, ma che di fatto risulta svilito da una mancata valorizzazione di tale significato e da una indeterminatezza funzionale e formale, potrebbe in tal modo assurgere al ruolo di punto nodale del sistema urbano, configurandosi non più come una mera demarcazione appena segnata da pochi ed insufficienti elementi costruiti, ma come una articolata successione di spazi e di strutture; ovvero come un eloquen-

Didascalie:

te ‘segno’ architettonico, i cui caratteri formali denunciano la ricerca di una auspi-

pp. 14,15 -Analisi di figure compositive biomorfiche pp. 16,17 -Ipotesi progettuale per un centro espositivo sull’argine delle Cascine: schizzi di studio pp. 18,19 -Ipotesi progettuale per un centro espositivo sull’argine delle Cascine: planimetria e prospetto sul fiume pp. 20,21 -Ipotesi progettuale per un centro espositivo sull’argine delle Cascine: veduta d’insieme

cabile mediazione fra natura ed artificio.

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DOTTORATO DI RICERCA IN COMPOSIZIONE ARCHITETTONICA “LE FIGURE DEL COMPORRE” (VIII ciclo)

dottore

Fabio Fabbrizzi coordinatore

Prof. Gian Carlo Leoncilli Massi relatore

Prof. Alessandro Gioli

NOTE AL PROGETTO DI AMPLIAMENTO DEL SISTEMA MUSEALE DEGLI UFFIZI A FIRENZE Quasi sempre, nel mio lavoro, sento il bisogno di allontanarmi dalle cose che produco, dai miei progetti, dai miei pensieri, una volta che sono esauriti e trattenuti per sempre in una qualsivoglia rappresentazione, per distillarne con calma, le emozioni, soppesarne le spinte, valutarne i limiti, maturandoli poi in nuovi punti di vista o in nuove conferme. Con il tempo essi si allontanano dalle intenzioni entro le quali sono stati pensati e con le quali sono stati caricati, acquistando una loro critica autonomia ed una irripetibile dimensione comunicativa, anche se sviluppata all’interno di un consolidato procedere personale, ripercorribile e trasmissibile. Così nel riavvicinarmi a questo mio lavoro di Dottorato di Ricerca, composto da una tesi teorica e da un progetto, licenziati entrambi oramai quasi tre anni fa, ho sentito l’esigenza, perché ancora non fatto rimanendo perciò sospeso in una dimensione non decantata e non chiarificata e prima che il tempo frapponga un pur necessario distacco, di ripercorrere le varie tappe dedicate alla stesura del progetto, che nasce come occasione di verifica e di ricaduta compositiva del percorso teorico sviluppato durante la totalità del lavoro.1 Viene qui di seguito presentato infatti, o almeno evidenziato per fasi differenti, quello che è stato il percorso delle varie tappe di figurazione compositiva che hanno strutturato il lavoro progettuale. Un “racconto” in forma di disegno che se non ha la pretesa di esemplificare un percorso tanto particolare e personale come quello compositivo, che per sua natura tende 1 Lavoro che ha affrontato il concetto di “arte del costruire” inteso nel senso dell’ideazione, produzione e gestione del manufatto edilizio. Nel corso della storia infatti, si sono segnati momenti differenti, nei quali la relazione tra ideare e fare non sempre è stata considerata in un corretto rapporto di equilibrio. Infatti uno dei più complessi problemi che la critica e la ricerca architettonica ed estetica si sono poste, è senz’altro quello legato alla molteplicità di aspetti che l’individuazione, la divisione e la scissione del momento ideativo dal momento esecutivo, nella nascita di qualunque architettura, comportano. Un concetto di ideazione e di costruzione che portano con sé una serie di inevitabili riflessioni all’interno dei ben più ampi campi di riflessione della questione del disegno e della questione della tecnica, l’indagine dei cui percorsi risulta essere l’oggetto di questo mio contributo teorico, già edito nel 1997 per i tipi di Alinea, Firenze con il titolo “Tra disegno e costruzione”.

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a fuggire da ogni tentativo di incasellamento entro la rigidità propria di un procedere per fasi, ha la capacità di voler fermare alcuni “momenti” del proprio divenire, soffermandosi a ragionare su quello che dietro ad un disegno compositivo esiste. Un disegno che prima di tutto è un cercare, un disegno che non è il bel disegno esercizio della mano e degli occhi, ma esercizio della mente; un disegno che cerca di cogliere nel suo lavorare attorno all’idea, nel suo cercarla e poi esprimerla, tutta la transitorietà e quindi la complessità presente nella costruzione del progetto. Solo così credo che un progetto maturi, sistematizzandone cioè le tematiche che lo informano, e metabolizzandone i diversi sensi su cui elaborare la sua composizione, che riaffioreranno poi, evoluti e variati, in altri progetti, in altri pensieri.

Svariate sono le matrici compositive e formali che hanno influenzato questa ricerca progettuale. Se da un lato uno degli obiettivi principali è stato quello di lavorare sul concetto dell’interpretazione di una memoria generale, dall’altro la presenza di una


memoria molto più circoscritta e molto più recente non poteva essere sottovalutata. Dalla lettura effettuata, scaturisce l’esigenza di una proposta progettuale che sulla base dei “sensi” estratti e attraverso le figure che questi suggeriscono, si ponga in una situazione di “continuità” con il contesto, inteso nella duplice valenza di evoluzione storica ed evoluzione morfologica. Una continuità che tramandi e contemporaneamente riallacci un senso della storia visto come “sedimentazione” di conoscenze e che manifesti le forme del proprio esprimersi attraverso l’uso di quelle figure hanno il valore di ripetersi come costanti nel processo evolutivo delle trasformazioni urbane. La città ripete se stessa nel proprio trasformarsi, o meglio, ripete attraverso le stesse figure l’idea, il senso, sul quale questo sviluppo si è innescato. Firenze infatti nella propria trasformazione conserva quell’insieme di sensi sui quali è stata fondata, generando figure che quasi sempre appartengono e sono riconducibili alla stessa matrice figurativa. Su queste suggestioni si è strutturato un percorso di “ideazione compositiva” che prende in considerazione l’ipotesi di un intervento che abbracci l’intero isolato degli Uffizi, dalla Loggia dei Lanzi fino allo slargo della via dei Castellani e dall’Arno a Piazza della Signoria. L’idea è quella di proporre un “completamento permanente” a questo isolato, riproponendo la morfologia dell’isolato chiuso sulla quale si è strutturata tutta l’evoluzione urbana, facendo assumere un valore predominante alla “figura madre” del “recinto” Una figura che diventi portatrice di tutte le altre figure estratte, ovvero: il muro, il margine-limite, il percorso ecc. Partendo dal presupposto di considerare la totalità dell’isolato, il progetto si concentra su quella parte attualmente “aperta”, cioè da via della Ninna fin quasi a Piazza dei Giudici. L’intervento tende a “richiudere” da questo lato l’isolato degli Uffizi, riuscendo a contenere quindi al proprio interno degli spazi da articolare. L’intero isolato si strutturerebbe allora sull’articolazione dei due grandi cortili interni; quello del Piazzale degli Uffizi, aperto sulla Piazza della Signoria e quello chiuso tra l’attuale corpo degli Uffizi e le nuove fabbriche dell’intervento. La possibilità di coinvolgere un terzo spazio, quello del cortile coperto a vetri dell’ex Salone delle Poste, conferirebbe il carattere di grande segmento urbano al cui interno, episodi differenti si articolano in successione spaziale. Quindi, una memoria generale legata al senso del luogo e sedimentata nelle preesistenze, nelle reciproche relazioni che esse instaurano e sulla interpretazione della quale sono scaturiti i temi principali di questa figurazione. Ma esiste anche l’interpretazione di quella memoria più recente, ma pur sempre memoria con tutta la carica evocativa che la distingue, perché, pur trattandosi di un qualcosa che non esiste concretamente, ha avuto comunque la forza di gettare nuove valenze sulle considerazioni effettuabili sul luogo. Ci si riferisce ad un idea, ad un progetto che un Maestro dell’architettura italiana ha formulato: Giovanni Michelucci, il quale ha mantenuto con il Museo un rapporto molto stretto fin dal tempo della sua partecipazione alla ristrutturazione delle prime sale della Galleria negli anni ‘50, fino alla fine degli anni ‘80, quando suggerisce alla Direzione del Museo, la soluzione per la Piazza dei Castellani. Egli prevedeva di sovrapporre alla rampa già

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realizzata nel corso degli anni ‘80 una struttura tipo “scalea” inclinata con luoghi di sosta e con la presenza di acqua, collegando così la piazzetta con il ristrutturato vicolo dell’Oro e visivamente con lo spigolo di Palazzo Vecchio. Ma il vero punto di forza di tutto il progetto era senza dubbio rappresentato da quella fantastica costruzione vetrata che si addossa alla facciata del museo2. Ed è su le suggestioni, su la evocata magia, che il progetto prende maggiormente forma. Da qui l’idea di caricare di un senso di scoperta e meraviglia l’interno. Un interno che si scopre a poco a poco per passi e per stadi successivi dove le poche presenze e i pochi segnali rimandano alla presenza di un “sotto” ricco di funzioni e di significati. L’idea prende vigore nel conferire articolazione spaziale, al percorso sotterraneo che collega i tre nuovi cortili che vengono ad individuarsi attraverso un sistema di assi e di allineamenti. Due sono le direttrici fondamentali prese in considerazione per il posizionamento del “muro” sulla via dei Castellani: quella parallela alla strada e quella parallela alla fabbrica degli Uffizi. Particolare attenzione è stata dedicata alla direzione che individua l’antico tracciato della via Lambertesca. Si evince infatti da un attento studio, che il lato inclinato del fabbricato della Loggia degli Stipendiati, risulta essere situato su questo antico tracciato, che prolungato in una ideale direzione, ritrova al di là del Piazzale, il tratto di via rimanente che conserva tutt’oggi lo stesso nome. Nelle varie tappe del processo compositivo, è sempre stata presente l’intenzione di mettere in evidenza questa direttrice, sia nelle ipotesi che hanno previsto organismi architettonici paralleli alla fabbrica, sia in quelli paralleli alla strada; così come nell’ipotesi di una configurazione “mista”, tra strada e Uffizi, dove il cambiamento di direzione del muro, avviene proprio nel punto di intersezione con l’antico tracciato della via. I processi figurativi poi, hanno portato ad orientare la propria attenzione attorno ad una conformazione parallela alla fabbrica, individuando in essa un segno di maggior rilievo, quindi legittimamente più idoneo a generare altre architetture ad esso parallele. Per la definizione dell’elemento “muro”, sono state effettuate molte considerazioni; in tutte le diverse fasi, esso non è mai stato considerato come un mero elemento di facciata, bidimensionalmente inteso, ma con il preciso ruolo di “muro abitato”, dotato di uno spessore fruibile, ricco di funzioni al proprio interno. Un muro che nelle prime ipotesi figu2

“...poi di fronte alla grande facciata immaginai che qualche cosa avrebbe dovuto segnalare, richiamare l’importanza di quel patrimonio di arte e storia posto al di là di quella parete piena. Allora ho pensato subito ad una costruzione magica, una lanterna preziosa, sfaccettata come un cristallo di quarzo, come un diamante: la porta di un mondo fantastico e di favola. Le guglie, le cuspidi delle cornici dei quadri del medioevo mi suggerivano quelle torri cuspidate, di diverse altezze a coronamento della costruzione di vetro appoggiata al parapetto degli Uffizi su Piazza dei Castellani, come in quei paesi fantastici e in quelle case che si vedono dipinti nei quadri del Duecento e del Trecento. Probabilmente di notte, la luce dentro la struttura di vetro ne accentua quel senso di fiaba e di mistero”. Cfr. G. MICHELUCCI, “Gli Uffizi. Progetti per il nuovo museo”. Studi e ricerche. In I Pieghevoli, n° 8.

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rative diviene quasi edificio, portando sulla propria sommità un percorso pedonale, denso di relazioni con la Piazza interna. Legato al tema del muro, viene considerato il tema della “luce”; una attenzione che in tutta la struttura museale riveste un ruolo primario, “estraendo” il proprio valore tematico, direttamente dalla stessa fabbrica vasariana. Infatti, il fronte interno dell’edificio, quello cioè prospettante sul cortile longitudinale, risulta essere dotato di accorgimenti architettonici legati a questo tema. Le aperture presenti sopra al primo ordine del loggiato, hanno una precisa motivazione funzionale; oltre all’alleggerimento costruttivo dello spessore delle volte, con le loro strombature, riescono a far penetrare la luce del sole nello spessore del corpo di fabbrica. In particolare, delle tre aperture presenti per ogni modulo base, quelle laterali illuminano il loggiato,


mentre quella centrale, riesce a gettare la luce fin dentro al centro dell’udienza, attraverso l’apertura posta superiormente all’ingresso del locale. Per consentire al prospetto esterno di presentarsi con una immagine molto “murata”, le aperture sul fronte sono state pensate ridotte al minimo; deriva da ciò un ingresso della luce dall’alto, in alcune ipotesi attraverso una serie di “macchine” che riflettono e indirizzano la luminosità, che poi nei prospetti possono connotarsi come elementi autonomi, scandendone il ritmo longitudinale. Fin dalle prime ipotesi, viene pensata la presenza di un elemento ottagonale, disvelato anch’esso dalla lettura dello stesso edificio vasariano, essendo la figura ottagonale una delle poche emergenze sia a livello planimetrico che volumetrico nella serena serialità compositiva della fabbrica. Sia nelle ipotesi del muro parallelo o meno alla fabbrica, la nuova forma ottagonale si colloca sempre parallelamente alla sequenza delle udienze prospettanti il cortile degli Uffizi, generando un asse nel quale poi vengono “infilati” tutti gli episodi architettonici di questo processo figurativo. Il percorso di questa figurazione compositiva, giunge ad una svolta, quando si ipotizza la proposta di un muro, non più alto molti livelli, ma un muro più contenuto che sottende ad un cortile-trincea, stretto e lungo ad esso parallelo. Prende piede l’idea di un muro concepito anche sulla negazione di se stesso, nel senso che se da un lato -l’esterno- è un muro “muto”, avaro cioè di aperture e pesante nella propria immagine, dall’altro diviene “scavo”, affonda nel terreno sottendendo ad un cortile-trincea longitudinale, sul quale si affacciano funzioni e percorsi. La “profondità” con la quale viene pensato tale cortile, accentua l’incombenza e la verticalità delle masse murarie di Palazzo Vecchio, della fabbrica degli Uffizi e della Magliabechiana che strapiombano sulla Piazza dei Castellani. Il margine mantiene anche in questo caso la caratterizzazione di muro-edificio, chiuso sulla strada e aperto verso l’interno e verso la luce del sole che entra zenitalmente. Solo dopo varie ipotesi viene abbandonata la visione del muro-edificio, per quella forse più possibile nell’economia spaziale del luogo, di muro-percorso, concepito come una struttura brulicante di vita e di passaggi: le scale, le rampe, i collegamenti e le funzioni verrebbero a conferire un carattere “pulsante” di relazioni e di opportunità in una michelucciana visione della città. Avendo abbassato decisamente l’altezza del muro, dalla quota stradale, scaturisce l’idea di un ridisegno dell’attacco a terra della Magliabechiana, come prolungamento del muro che racchiude la piazza. Questo muro supera anche la biblioteca per richiudere verso l’esterno, quello spazio confinante con l’edificio del Museo della Scienza. A questa porzione di muro può addossarsi una rampa di collegamento che immette nel salone posto al primo piano della Magliabechiana. Il muro-percorso cambia di sezione, diviene più stretto e più aperto, altimetricamente e planimetricamente diviso in due parti. Altimetricamente la parte terminale viene ipotizzata coperta, chiusa sulla strada e aperta sulla piazza interna, ospitante un percorso di collegamento che diventando scoperto separa la piazza dalla Magliabechiana e raggiunge nella fabbrica degli Uffizi, il pacchetto dei laboratori.

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1 - COLLEGAMENTO QUOTA STRADALE. 2 - RAMPA INCLINATA DI COLLEGAMENTO QUOTA STRADALE. 3 - CORTILE INTERRATO. 4 - SALA OTTAGONA CON COPERTURA A LANTERNA IN VETRO. 5 - SALA PER ESPOSIZIONI TEMPORANEE. 6 - SALA CONFERENZE. 7 - RAMPA DI COLLEGAMENTO INTERNO.

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8 - COLLEGAMENTI VERTICALI CON IL MUSEO. 9 - PERCORSO ESPOSITIVO. 10 - SALONE DELLE EX POSTE REGIE (QUOTE RIBASSATE). 11 - RAMPA INCLINATA DI COLLEGAMENTO AL MUSEO. 12 - VENDITA LIBRI, MATERIALE ICONOGRAFICO, DOCUMENTAZIONI. 13 - AREA DI SOSTA ATTREZZATURE VARIE. 14 - SERVIZI.

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Molte figure di riferimento, per la composizione di questa architettura, sono state estratte direttamente dalla città; figure come abbiamo detto espressione di sensi spaziali e urbani. Un riferimento ineludibile nel pensare questo edificio lo si trova nel Corridoio Vasariano, soprattutto nella definizione del prospetto interno, con i porticati che sostengono il corridoio vero e proprio. Il muro-percorso si scompone in due parti ben distinte secondo la propria dimensione longitudinale individuata nella direttrice della via Lambertesca, generando una rampa nella parte esterna. Chiari sono i riferimenti figurali alla architettura delle mura urbane. Le figure tipiche di questa architettura sono tutte inscrivibili nella tematica della massa e della murarietà. Un muro che fa dell’esaltazione delle proprie caratteristiche più evidenti -lo spessore, la pesantezza- l’occasione al contempo sia di definizione linguistica che qualitativa, dello spazio che racchiude. La scala stretta tra due muri, il tema della feritoia, quello della strombatura, sono tutti riferimenti al sistema murario fiorentino, così come il tema dell’aggetto del muro viene pensato come occasione per ribadire la forza del tema principale, concependolo in rame, in un forte dialogo di contrasti materici. E’ un percorso figurativo, quello del fronte su via Castellani, che andando di pari passo con le variazioni relative al proprio spessore funzionale, struttura il suo divenire attraverso delle tappe ben riconoscibili: dalla monoliticità del fronte continuo, da subito tripartito nelle proprie componenti sintattiche di basamento, corpo e coronamento, si passa ad una struttura più bassa (il limite del recinto), che dichiara dall’esterno ciò che succede oltre la propria delimitazione, per ricorrere poi ad una configurazione più equilibrata dove la compattezza del muro lascia spazio ad episodi formali che permettono l’introspezione verso punti di tensione architettonica. Tutto il sistema del muro termina verso le preesistenze della fabbrica degli Uffizi attraverso il dialogo che la testa di questo sistema riesce ad instaurare con l’abside della chiesa di S. Piero Scheraggio, attraverso una torre di collegamenti verticali tra la piazza, il percorso e la nuova sala interrata del Museo. Anche lo studio del prospetto interno passa attraverso differenti variazioni; una volta stabilito lo stesso tema -la serie di archi impostati su alti pilastri che sostengono il volume longitudinale del corridoio, l’alto basamento rivestito in pietra forte e la copertura a capanna- vengono variate le reciproche dipendenze tra questi elementi, perseguendo una chiarificazione estrema nel lavorare sulle loro combinazioni elementari, che rimangono pur tuttavia riconoscibili nella loro autonomia all’interno del processo di variazione. Una delle esigenze primarie a livello ideativo di questo percorso progettuale, è stata quella legata alle intenzioni di creare un piccolo teatro, ripristinando una antica funzione, da sempre presente nella fabbrica. Il Salone del Consiglio dei 18 e dei 20 fu trasformato nel 1585 da Bernardo Buontalenti nel Teatro Mediceo. Teatro che fu diviso e parcellizzato a più riprese in epoche successive, fino alla grande divisione orizzontale attuata nel secolo scorso, per ricavare le stanze del primo Parlamento Toscano. Una prima ipotesi prevedeva la collocazione del teatro, parallelamente al muro-recinto, disassato rispetto alle direzioni della sala ottagona che rimanevano legate alla direzione della fabbrica degli Uffizi. La copertura del teatro sulla piazza era occasione per un teatro

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all’aperto. Questa ipotesi viene abbandonata in favore di un’altra che vede il teatro collocarsi in asse alla sala ottagona e perpendicolare alla fabbrica. Tale disposizione viene a creare una unità di volumi infilati dallo stesso asse che intercetta il collegamento interno con la preesistente fabbrica, l’accesso al teatrino, la sala ottagona con la cuspide vetrata e gli ingressi al sistema sul muro di via dei Castellani. L’unità tipo della sala ottagona, tamburo, cuspide vetrata, viene ripetuta in asse con la precedente, quando il percorso sotterraneo attraversa il piazzale degli Uffizi; percorso che viene denunciato all’esterno, segnando anche il nuovo ingresso al museo, dalla presenza della cuspide vetrata, memoria di quella lanterna sfaccettata e brillante di luci, di michelucciana memoria. La sala ottagona viene concepita su una misura “estratta” dalla stessa fabbrica degli Uffizi; venendo iscritta cioè in un quadrato dimensionato sul modulo base dell’udienza, e presenta al secondo livello un tamburo inclinato nel quale si aprono delle aperture fortemente strombate che permettono un maggiore ingresso di luce. Il teatrino viene pensato con la platea inclinata, che raccorda così i diversi livelli ottenuti, quello cioè del seminterrato della fabbrica vasariana e quello del nuovo cortile longitudinale interrato, parallelo a via dei Castellani, sulla cui parete opposta al muropercorso, si aprono l’ingresso della sala ottagona sia le aperture vetrate della nuova sala di esposizione. Per questo fronte e per le cui aperture, la figura di riferimento compositivo è ancora una volta un’opera fiorentina, ovvero la stazione di Santa Maria Novella, con la cascata di vetro, unica deroga al grande tema del muro. I percorsi di collegamento sotterraneo, tra un lato e l’altro del museo, vengono ipotizzati anch’essi come luoghi espositivi minori, delegando ancora una volta alla solidità del muro, il loro tema compositivo. Percorsi ritmati da elementi-nicchia, anch’essi con una forte strombatura che permettono di saggiare lo spessore della massa, di percepire tutta la profondità della struttura in una esaltazione costruttiva di quello che va al di la del semplice motivo di ritmo. Per il coinvolgimento del Salone delle ex Poste Regie, è stato pensato di far vuoto dal sottosuolo e arrivare alla quota del piano terra attraverso un percorso con rampa inclinata che disegna i lati del volume ottenuto. E questo comporre, questo figurare, questo “credere”, si pone come il momento di superamento di una visione fortemente tecnologizzata dei propri spazi, dove la tecnica nella sua accezione di tecnologia, ben presente e partecipe, viene impiegata in maniera ragionata e cosciente, senza mai diventare connotato linguistico principale, lasciando spazio ai “valori preesistenti”, ai “sensi antichi”, di esprimere attraverso un processo interpretativo i valori di cui sono portatori, in una appartenenza alla tradizione che si riscontra nella materialità pensata per certe superfici, nella grana immaginata per certe finiture. Appartenenza alla tradizione che si riscontra in determinati rapporti, nell’uso di certe relazioni, nel recupero e nella variazione di certe figure e di certi temi, presentandosi in tutta la propria valenza progressiva, perché critica nei confronti delle discontinuità violente e trasformanti di certe ricerche architettoniche, delle quali pare essere il merito principale, il forzato desiderio di essere contro, ovvero di discostarsi da tutto quello che è e che è stato.

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DOTTORATO DI RICERCA IN COMPOSIZIONE ARCHITETTONICA “LE FIGURE DEL COMPORRE” (IX ciclo)

dottore

Marco Navarra coordinatore

Prof. Gian Carlo Leoncilli Massi relatore

Prof. Adolfo Natalini

IL DISEGNO STRABICO DI PALLADIO (una tecnica per dimenticare) “L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile.”1 Il Barbaro, nel suo commento del 1567 al trattato vitruviano, affronta la questione del disegno con una certa precisione cercando di chiarire le definizioni date da Vitruvio con un occhio attento agli sviluppi a lui più contemporanei.

La pianta è un moderato uso della sesta, e della regola, dal quale si piglia il disegno delle forme nel piano. Lo in piè, e la imagine dritta della fronte, e figura con modo dipinta, con le ragioni dell’opera, che si deve fare. Il profilo è adombratione della fronte, e de i lati che si scostano, e una rispondenza di tutte le linee al centro della sesta. Nel disponere, e collocare le parti lo Architetto forma nel suo pensiero, e poi disegna tre maniere, overo idee delle opere: una è detta da Greci, ichnografia, cioè descrittione, e disegno della pianta, per dare ad intendere la collocazione delle parti, e la larghezza, e la lunghezza dell’opera. Al che fare ci vuole un moderato uso della sesta, e della regola. L’altra è detta, orthographia, cioè descrittione, e disegno del levato, e dritto, sì per dimostrare l’altezza delle opere, come la maniera. Deve esser lo in piè conforme alla pianta, altrimenti non sarebbe un’istessa cosa quella che nasce, e quella, che cresce: il che è grande errore, e contra la natura delle cose, percioche nelle piante, e ne gli animali si vede quello, che nasce, e quello che cresce esser lo istesso, e niuna parte aggiungersi da poi. La terza idea è il profilo, detto sciografia, al quale grande utilità si prende, perché per la descrittione del profilo si rende conto delle grossezze de i muri, degli sporti, delle ritrattioni d’ogni membro, e in questo l’Architetto come Medico dimostra tutte le parti interiori, e esteriori delle opere, e però in questo ufficio ha bisogno di grandissimo pensamento, e giudicio, e pratica, come à chi, considera gli effetti del profilo è manifesto: perché la elevatione della fronte, e la maestà non dimostra gli sporti, le ritrazioni, le grossezze delle cornici, de i capitelli, de i basamenti, delle scale, e d’altre cose, però è necessario il profilo; e con queste tre maniere di disposizione l’Architetto s’assicura della riuscita dell’opera, e sa più certa la sua intenzione, e l’altrui desiderio di far opera lodata, e degna. Et appresso può fare il conto della spesa, e di molte cose all’opere pertinenti.2

Qui il Barbaro, oltre a precisare meglio alcuni aspetti del Disegno, introduce delle nuove specificazioni: sottolinea l’importanza delle corrispondenze e delle relazioni tra un tipo di disegno ed un altro - l’orthographia con l’icnographia - quasi a prefigurare un lavoro che cresca attraverso un movimento da disegno a disegno;

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definisce più precisamente la sciographia come sectio, cioè una linea che sega i corpi, come il bisturi del medico, ed è capace di svelarne le parti interne.3 Il paragone con le incisioni compiute dai medici sui corpi umani evidenzia la volontà di caratterizzare questo tipo di rappresentazione come strumento di lavoro. Ma l’aspetto più interessante della sciographia che emerge dal commento del Barbaro, però, non è solo questa capacità di restituirci con precisione e misura la descrizione di tutte le parti aggettanti di un edificio ma è soprattutto quella di tenere insieme l’interno con l’esterno. Questo significa avere a disposizione uno strumento che permetta il controllo e la definizione contemporanea di elementi che stanno in spazi diversi. La novità di questo commento mi sembra riposi nel punto di vista tutto interno alla costruzione dell’architettura che favorisce un avanzamento nell’elaborazione degli strumenti e del metodo. Questi diversi tipi di disegno diventano da questo momento in poi strumenti di lavoro per la costruzione razionale della architettura. Per il loro carattere parziale, per il fatto di offrirci una visione precisa dell’oggetto, permettono una scomposizione analitica dell’architettura costruita che si compie attraverso uno smontaggio di parti. In questo senso Raffaello nella lettera a Leone X parlando dei tre tipi di disegno che appartengono all’architetto accentua ancora di più la specificità analitica di ognuno di essi.

E perché, secondo il mio giudicio, molti s’ingannano circa il disegnare gli edificj; che in luogo di far quello che appartiene all’Architetto, fanno quello che appartiene al pittore, dirò qual modo mi pare che s’abbia a tenere, perché si possano intendere tutte le misure giustamente; e perché si sappiano trovare tutti li membri degli edificj senza errore. Il disegno adunque degli edificj si divide in tre parti; delle quali la prima è la pianta, o vogliamo dire disegno piano; la seconda è la parete di fuori, con li suoi ornamenti; la terza è la parete di dentro, pur con li suoi ornamenti. (...)La terza parte di questo disegno è quella che abbiamo chiamata la parete di dentro con li suoi ornamenti: e questa è necessaria non meno, che l’altre due; ed è fatta medesimamente dalla pianta con le linee paralelle,...4

Ma l’eccezionalità del commento del Barbaro deriva anche dalle incisioni, disegnate da Palladio, che lo accompagnano e l’illustrano. Infatti la novità più interessante la troviamo nel disegno che spiega l’orthographia e la sciographia, qui infatti le due rappresentazioni investono le due metà speculari di un tempio e sono accostate senza soluzione di continuità sull’asse di simmetria a ricostruire l’unità dell’oggetto. Questa tavola produce uno spostamento. Libera il disegno dalla mimesi, dall’illustrazione, lo trasforma in uno strumento di analisi e di vivisezione del corpo costruito, uno strumento di astrazione. Tutto ciò è possibile proprio per i limiti insiti in questo tipo di rappresentazione. Infatti già in questa primitiva forma di proiezione ortogonale la riduzione di piani diversi con i loro elementi su un piano astratto che li fa stare insieme determina l’annullamento delle reali profondità aprendo la

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possibilità di altre ricostruzioni. L’intero corpus di disegni palladiani relativi all’antichità, seguiti ai suoi viaggi e ai suoi rilievi, costituisce un materiale prezioso dove questo esercizio di analisi, smontaggio in parti, rimontaggio attraverso l’individuazione di regole, si esprime attraverso il disegno. Piante, sezioni e prospetti, attraverso il loro intreccio, la loro distanza, la loro sovrapposizione, riescono a trasformare, rendendoli visibili, quegli spazi che i muti ruderi tacevano. Ritornando al disegno, qui riprodotto, possiamo notare la presenza di alcuni elementi molto significativi per la nostra riflessione: al centro del disegno la porta e una colonna sono stati rappresentati solo con linee di contorno e appaiono trasparenti; il muro sezionato sulla sinistra è stato rappresentato in modo simile a quello di prospetto sullo sfondo cosicché le colonne dell’ordine maggiore sembrano comporre con quelle interne dell’ordine minore un’unica partitura; sull’asse di simmetria, dalla parte della sezione, la linea che definisce l’architrave della porta trasparente, ad un certo punto, scompare dietro la colonna, che in realtà si trova sul piano di fondo del tempio, proiettandola in primo piano a fianco del colonnato di facciata. Il disegno di Palladio porta alla luce le parti resistenti, cancella quelle inconsistenti, individua i punti in cui gli elementi dell’architettura sono stati composti e quindi sono ancora suscettibili di ricomposizione o sono disponibili ad ulteriori variazioni. Questi disegni di rilievo sono precisi, rigorosi ma non mimetici, non illustrativi, stabiliscono, con il minor numero di segni possibili, il carattere di ciascun elemento, la loro posizione, i loro vincoli le loro regole. Mostrano attraverso delle cancellature o delle reticenze i punti indefiniti dove esiste un margine per la variazione. Registrano, come termometri, i diversi livelli di consistenza delle varie parti: quelle più solide necessarie; quelle più labili meno necessarie. In questa misura della densità della materia precisano regole, vincoli e possibilità portando alla luce le ragioni di necessità che hanno costruito la forma.

Ci sembra che questi disegni rappresentino un ulteriore avanzamento dell’architettura, una precisazione dei suoi strumenti di conoscenza e di progetto. Il lavoro di Palladio sviluppa e potenzia ancora di più questi caratteri. Infatti, l’espediente figurativo di proiettare frontalmente un oggetto tridimensionale su di una superficie bidimensionale, diede a Palladio un distacco critico dall’edificio storico rappresentato. Questo metodo di astrazione fa si che il disegno sia visto come un oggetto valido in se stesso, che, se, reinterpretato tridimensionalmente potrebbe dare dei risultati totalmente diversi dall’oggetto originale.5

Potremmo dire che, paradossalmente, Palladio disegni per dimenticare. Disegna in pianta sezione e prospetto - e mai in prospettiva o comunque tridimensionalmente - per dimenticare la realtà e potenziare l’immaginazione, la capacità di ve-

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dere tra le cose. Un’immaginazione capace, partendo da alcuni dati o condizioni, di rendere fertili piccoli spostamenti. Le proiezioni ortogonali si rivelano, sotto questa luce, lo strumento più potente tra i sistemi di rappresentazione. Esse permettono di conquistare distanza dall’oggetto rappresentato. Come abbiamo visto negli esempi precedenti il disegno indaga le ragioni della costruzione non solo in senso tecnico. Un tale esercizio permette la formazione di una memoria non figurativa, non legata alla forma intesa come a priori da cui dedurre gli altri elementi. A tal proposito è molto chiaro il lavoro che Palladio compie, nel caso delle ville, sul sistema di quattro colonne d’ordine gigante sormontato da un frontone a timpano. Palladio disegna il tempio di Augusto a Pola in un modo assolutamente anomalo le quattro colonne infatti sono quasi invisibili e nella loro trasparenza lasciano vedere con esattezza il prospetto interno.

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Possiamo notare come questa rappresentazione per essere reticente su una dimensione permette di lavorare ad alcune variazioni. Una volta fissato un vocabolario è possibile articolare una sintassi, è possibile lavorare per spostamenti successivi. Proviamo a confrontare un solo disegno con le corrispondenti realizzazioni. Le colonne del portico in un caso si staccano dal muro avanzando, in un altro si fermano sul limite del volume scavando una loggia al suo interno, in un altro ancora aderiscono alla facciata trasformandola in un bassorilievo. In un solo disegno riposano diversi edifici. 4

Mi sembra che questi esempi ben dimostrino le potenzialità del disegno indicato da Alberti.

Lo edificare consiste tutto in disegni e in muramenti. Tutta la forza, e la regola de’ disegni consiste in sapere con buono, e perfetto ordine adattare, e congiungere insieme linee ed angoli; onde la faccia dell’edificio si comprenda e si formi. (...) Né ha il disegno in se istinto di seguitare la materia: ma è tale che noi conosciamo, che il medesimo disegno è in infiniti edificii, pur che noi veggiamo in essi una medesima forma, cioè pur che le parti loro, e il sito, e gli ordini di quelle siano in tutto simili infra loro di linee, e di angoli. Et ci sarà lecito con la mente, e con l’animo terminare intere forme di edificij, separate da ogni materia; il che ci verrà fatto con notare, e terminare con certo ordine i dirizzamenti, e i congiungnimenti delle linee, e de gli angoli; il che così essendo, sarà il disegno una ferma, e gagliarda preordinatione conceputa dallo animo, fatta di linee, e di angoli, e condotta da animo, e da ingegno buono.6

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Con chiarezza e precisione Alberti descrive un disegno affrancato dal terreno e dai tracciati di fondazione, un disegno capace di generare e accogliere le variazioni, un disegno che serva a ‘vedere’, a descrivere e conoscere, su un altro piano, i materiali di costruzione dell’architettura. Da questo momento quegli strumenti che avevano, fino ad allora, inciso il suolo in un punto dello spazio preciso, guadagnano una materia ben più vasta e stratificata - il Tempo - capace di strutturare disegno e costruzione. Alberti, liberando il disegno dalla materia, dalla costruzione puntuale del cantiere, inventa il disegno come strumento di astrazione. E’ questo strumento che permetterà di lavorare sul passato, sulla storia e permetterà di trasformarla in materiale di lavoro dell’architettura. Le fabbriche dell’antichità, quasi prive dello spessore della materia e dei suoi ornamenti, riportate dal tempo ad una sorta di grado zero, offrono, a partire dal Rinascimento, lo stimolo per un esercizio di ricostruzione sempre aperto da cui sarà possibile generare nuove architetture. E’ come se nel caso dell’architettura classica il tempo avesse compiuto un’opera di astrazione, suggerendo un pensiero capace di reinventare - invenio: ritrovare - all’inverso il percorso mentale va alla sua proiezione nello oggetto formato. E’ questo pensiero che ha permesso e permette ancora oggi di pensare e lavorare con il passato. Alberti dunque apre la strada alla conoscibilità dell’architettura, alla costruzione di un pensiero architettonico. Questo è possibile dal momento che sono stati inventati gli strumenti e le condizioni per descrivere, analizzare, classificare, comparare le cose e le parti dell’architettura. Lo strumento specifico capace di sostenere questo processo è il Disegno. In questo senso il disegno messo a punto da Palladio ha la sua forza in quanto attraverso alcune operazioni di astrazione produce un nuovo oggetto che prima non esisteva. Un oggetto capace di rimisurare le cose, “rendere visibile l’invisibile” e far vedere le sviste accanto alle cose ormai troppo conosciute. Disegno come conoscenza del mondo in quanto produzione di nuovi oggetti ‘cavati’ dalle cose, dalla loro descrizione. In questo modo attraverso questi passaggi il disegno è stato come liberato da una funzione semplicemente illustrativa o comunicativa, funzionale alla costruzione, per acquisire un valore autonomo come strumento per pensare l’architettura. Le proiezioni ortogonali, utilizzate intuitivamente da Palladio, trovano una loro sistemazione scientifica alla fine del XIX secolo quando G. Monge ne fornì una precisa codificazione fondata sul concetto di proiezione degli oggetti. Nell’ottocento questo sistema si consolida, diffondendosi con l’avvio della rivoluzione industriale. In realtà la maggiore richiesta di precisione, posta dall’incalzare dell’industrializzazione, non poteva essere soddisfatta che con l’ausilio dell’assonometria ortogonale o obliqua. (...) Una casa i cui muri non siano perfettamente paralleli e che non risulti conforme al

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progetto, rimane non di meno abitabile. Per il mondo della macchina queste inesattezze sono quasi sempre fatali. Sono sufficienti deformazioni di pochi decimi di millimetri per rendere “intollerante” un moto rotatorio o un microscopico difetto di fusione per fare esplodere un cannone. Non è quindi casuale che quel tipo di rappresentazione, che nel 1852 M. H. Meyer chiamò per la prima volta assonometria, abbia la sua origine nel mondo della Mechanica. (...) Non altrimenti si potrebbero misurare con la necessaria precisione 8

i moti delle macchine belliche, gli attriti tra attacco e difesa, le micidiali traiettorie dei proiettili e le insidie sotterranee delle mine: in quella esatta geometria della morte i “perdimenti” della vista si risolvono in separatezza tra dimensioni costanti. Appaiono allora chiare le ragioni che legano le ricerche di Gaspard Monge sulla geometria descrittiva alle tecniche per la fusione dei cannoni e ai segreti balistici.7 A. Choisy rilegge la storia dell’architettura con l’assonometria, più precisamente con gli spaccati assonometrici dove sezione e pianta si rivelano come matrici. Egli applica il disegno sviluppato per l’industria dall’ingegneria meccanica per tornare a vedere le architetture del passato. Il disegno dello Choisy porta alla luce

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sistemi architettonici concepiti come macchine prefabbricate e poi montate (vedi architettura greca). Questo spostamento si rivelerà ancora una volta generatore di fertili sviluppi. Gli occhi di Le Corbusier capiscono subito di cosa si tratta, tant’è che utilizza immediatamente i disegni dello Choisy nei suoi articoli su “l’Esprit Nouveau” che riordinerà in Vers une Architecture. Ancora una volta ci troviamo di fronte un disegno capace di astrazione, capace di far vedere. Le architetture del passato vengono smontate in parti semplici, componibili come fossero macchine. Si apre la possibilità di isolare le parti e di rimontarle. Inizia a prendere corpo una nuova concezione del dettaglio. Il principio di costruzione è l’assemblaggio di parti autonome già definite e complete in se stesse. L’assonometria permette l’organizzazione del montaggio e

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quella dei tempi di esecuzione. La storia dello Choisy non presenta mai un’architettura finita, restaurata, rappresentata nel suo stato originario. L’oggetto raffigurato dall’assonometria, colto in una fase di montaggio, diventa un rudere. Non si intravede però la fine di questo montaggio. Le regole di assemblaggio diventano quasi più importanti del risultato. La cornice assume il valore di un limite parziale piuttosto che un limite conclusivo.8 Le cose continuano o potrebbero continuare al di là di essa cosicché l’unità è connessa più alla regola che alla cornice. La storia dello Choisy azzera ogni sentimento del fruitore ed è schierata dalla parte del costruttore.9 Denuncia con chiarezza la separazione netta tra l’occhio che costruisce e l’occhio che vede l’opera. Ma i disegni di Palladio non fanno già un passo in questa direzione?

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Il controllo delle parti è totale solo sul piano analitico del disegno. La percezione


dell’opera costruita avviene per frammenti di sistemi che si possono sovrapporre, intrecciare o giustapporre. La loro ricostruzione si compie solo attraverso una ricomposizione mentale fatta sulla base della memoria di parti e frammenti dei vari sistemi. L’assonometria rende possibile lo smontaggio della scatola e il suo rimontaggio secondo un’altra organizzazione degli elementi. Il plan libre di Le Corbusier, separando con chiarezza la definizione e la costruzione della struttura da quella dello spazio, costituisce una delle prime teorizzazioni sulle possibilità aperte da questo strumento. Qui sembra maturare la parabola iniziata da Alberti e Palladio: lo sguardo si fa strabico. La storia dello Choisy è fatta di frammenti: una nuova riserva di ruderi alle frontiere del moderno.

Note:

Elenco delle illustrazioni:

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1 -A. Palladio, Tempio Ipetro (da M.P.Vitruvio, I Dieci Libri dell’architettura , tradotti e commentati da D. Barbaro Venezia 1567, ed. anast. Milano 1987). 2,3 -A. Palladio, Tempio di Augusto a Pola (da G. Zorzi, I Disegni delle antichità di Andrea Palladio, Venezia 1959); 4 -A. Palladio, Pianta di Villa Emo (da A. Palladio, I quattro libri dell’architettura, Venezia 1570, ed.anast. Milano 1980); 5 -A. Palladio, Villa Chiericati a Vancimuglio; 6 -A. Palladio, Villa Emo a Fanzolo di Vedelago; 7 -A. Palladio, Villa Barbaro a Maser; 8 -A. Choisy, Tempio di Olimpia (da A. Choisy, Histoire de l’Architecture, Parigi 1897); 9 -T. van Doesburg, Maison particulière (da T. van Doesburg, Scritti di arte e architettura, a cura di S. Polano, Roma 1979; 10 -A. Choisy, Pantheon (da A. Choisy, Histoire de l’Architecture, Parigi 1897); 11 -Le Corbusier, Palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra (da W. Boesiger, Le Corbusier, Oeuvre complète, vol. 1, Zurigo 1965);

Paul Klee, La confessione creatrice, in Teoria della forma e della figurazione, Milano, 1959, p.76 M. P. Vitruvio, I Dieci Libri dell’architettura (tradotti e commentati da D. Barbaro Venezia 1567), ed. anast. Milano 1987, p. 31. Nel passo qui riportato abbiamo trascritto in corsivo il commento del Barbaro e con i caratteri normali la sua traduzione del testo vitruviano. 3 Cfr. M. Brusatin, Storia delle linee, Torino 1993. 4 Raffaello, Lettera a Leone X (versione A), in: Raffaello. Gli scritti, a cura di E. Camesasca, Milano 1994, pp. 296-297. 5 C. Constant, Guida a Palladio, Berlino 1989, p.3. 6 L. B. Alberti, De re aedificatoria, I, I, cit., p. 9. 7 M. Scolari, Considerazioni e aforismi sul disegno, in: Rassegna, 1982, n. 9, IV? p. 79.; cfr. Id., Elementi per una storia dell’axonometria, in: “Casabella”, 1984, n.500, pp.42-49. 8 “I limiti posti dalla cornice assumono allora una natura duplice, ci inviano un messaggio ambivalente. A volte li sentiamo come un confine di un mondo finito, concluso, tutto risolto in quello spazio angusto o immenso. Qualunque sia il mondo presente tra quelle linee, esso non continua al di là. Contiene in sé tutte le sue ragioni e tutta la sua storia. Ma a volte i limiti sembrano solo gli stipiti di una finestra a destra e a sinistra dei quali tutto continua e si completa in una unità ulteriore di cui abbiamo potuto vedere una porzione ritagliata, è vero, ma pur sempre parte di un tutto che si conclude oltre. Magari a nostra insaputa e secondo una strategia che a volte la ristrettezza della finestra ci permette di intuire appena.” R. Pierantoni, Forma Fluens, Torino 1986, pp. 24-25. Su questo tema della cornice sono molto interessanti alcuni quadri di Magritte. 9 Cfr. M. Scolari, Considerazioni e aforismi sul disegno, in: “Rassegna”, 1982, n. 9, IV, p. 80. 2

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DOTTORATO DI RICERCA IN COMPOSIZIONE ARCHITETTONICA “LE FIGURE DEL COMPORRE” (IX ciclo)

dottore

Giacomo Pirazzoli coordinatore

Prof. Gian Carlo Leoncilli Massi relatore

Prof. Paolo Zermani CONGETTURA SULLE RARE E INATTESE FIGURAZIONI ATTORNO ALLE QUALI SEMBRANO ESSERSI SOFFERMATI ALCUNI MAESTRI DELL’ARTE DEL COMPORRE E DEL COSTRUIRE: LE CORBUSIER A LA TOURETTE Il testo che segue contiene, con poche modifiche, il primo capitolo della tesi di dottorato discussa, a fine corso, a Roma-La Sapienza; la scelta di ridurre a traccia i capitoli seguenti ha funzione soprattutto di salvaguardare l’integrità del lavoro, lasciando al contempo intravedere alcuni possibili sviluppi. Durante i tre anni, a lato del programma istituzionale, ho preso parte ai seminari internazionali “Giuseppe Terragni” (Vicenza e Como 1995) e “Andrea Palladio: lo sviluppo di un progetto” (Vicenza 1995); su conforme parere del Collegio Docenti ho potuto condurre esperienza di ricerca “sul campo” a Parigi, nello studio di Christian de Portzamparc, nonché presso la Fondation Le Corbusier. Alcuni dei ragionamenti qui esposti sono inoltre stati illustrati in occasione della conferenza “Poids où lègéreté - quelques conjectures” tenuta al Politecnico Federale di Zurigo su invito di Francesco Collotti.

“ [...] Ciò che affiorava, era tutto dalla parte del vago, del fluttuante, del fugace, dell’incompiuto: alla fine, ho deliberatamente deciso di conservare a questi frammenti informi il loro carattere esitante e perplesso, rinunciando a fingere di organizzarli in un qualcosa che avrebbe avuto, con pieno diritto, l’apparenza (e la seduzione) di un testo, con un inizio, un centro, una fine.”1

Gli scritti di Le Corbusier e quelli su Le Corbusier sono alla base di questo lavoro, insieme alle opere - ovvero testi costruiti - e ai progetti non realizzati. Di tutto ciò, naturalmente, non si cerca di rendere conto in modo diretto, almeno per evitare un improbabile Le Corbusier - ritratto di un artista, semplicemente perché non è questo l’obiettivo istituzionale del Corso di dottorato in Composizione architettonica2 . Piuttosto interessa rendere chiari i capisaldi del ragionamento da sviluppare, perché proprio attraverso questi capisaldi è ordita la trama di riferimenti, rimandi e relazioni che custodisce il vero sale - altresì detto progetto nascosto - della ricerca. Tecnicamente, per poter disporre in modo proficuo di tanta vastità di materiale, per

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di più mettendone in valore le differenze e le peculiarità dovute talvolta sia al contesto temporale sia al vero e proprio carattere intrinseco, è sembrato utile classificare, con metodo apparentemente pedissequo, i materiali medesimi. Il procedimento conoscitivo che precede tale classificazione rimane fondamentale per la sua costruzione, come pure fondamentale risulta, per l’individuazione delle relazioni tra singoli episodi, la disponibilità da parte del lettore al superamento della storia. Con tale assunto, cui si fa riferimento in maniera un poco più esaustiva, si intende per il momento la conoscenza della documentazione di base, data per acquisita e operante, trattandosi di una tesi di livello post-universitario. 1

Sul corpo bibliografico generale dell’opera, sistemato in appendice, è stato dunque operato un primo procedimento di selezione. Gli scarni riferimenti che seguono le indicazioni bibliografiche hanno il compito di introdurre elementi di ragionamento, senza tuttavia rendere troppo preponderante né orientato tale aspetto. Il modo di strutturare le interazioni di questa semplice conoscenza di base costituisce inoltre, in rapporto ai vari livelli ulteriori della ricerca, un progetto di ipertesto.

Documentazione di base.

- “Le Couvent de La Tourette”, Le Corbusier-Oeuvre complète, vol. 6 1952-57 p.42-49; vol. 7 1957-65 p.32-53; La Tourette nella presentazione voluta da Le Corbusier con Boesiger; da sottolineare in particolare la caratteristica enfasi nell’esposizione, come pure il ricordo del padre Couturier, attorno alla cui personalità rinacque l’arte sacra in Francia.

- Le Corbusier, Carnets, vol.3 e 4, Ed. Herscher-Fond. Le Corbusier, Paris 1982; riproduzione dei piccoli quaderni di appunti di Le Corbusier; da notare in particolare la scarsità di disegni dedicati a La Tourette. 2

- The Le Corbusier Archive, New York-London, Garland Publishing; Paris, Fond. Le Corbusier, 1984, vol. 28, dal n.365 al 634; riproduzioni dei disegni relativi a La Tourette provenienti dall’atelier di rue de Sevres, oggi conservati in originale presso la Fond. Le Corbusier.

Di questi primi materiali bisogna almeno rimarcare il diverso livello di elaborazione: così i Carnets rivelano la freschezza delle annotazioni di pugno di Le Corbusier - in verità troppo poche per non pensare che qualcosa sia andato perduto ovvero, come si potrà notare, possono far riflettere, in paragone3 , sulla quantità di energie che al tempo il Maestro dedicava al progetto di Chandigarh. Dei disegni provenienti dallo studio di Le Corbusier è bene segnalare l’interesse delle diverse ipotesi elaborate da Iannis Xenakis, l’ingegnere-musicista che seguiva l’elaborazione di questo progetto per incarico del Maestro. Il ruolo di Xenakis - come è noto una delle figure preminenti nella storia della musica contem3

poranea - è centrale rispetto alla trasfigurazione in termini musicali del pan-de-

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verre, e la sua diretta testimonianza risulta ancora fondamentale per comprendere il clima dell’atelier di Rue de Sevres4 . Per quel che riguarda le pagine dell’Oeuvre Complète dedicate a La Tourette, sarà bene sin da ora rimarcare che lo schizzo riportato a p.33 del vol.7 (1957-65) con la didascalia Plan traditionnel d’un couvent dominicain è il ridisegno di uno schizzo che il Padre Couturier - committente per conto della comunità dei dominicani aveva inviato a Le Corbusier.5

Opere a carattere monografico.

A questi primi materiali di base, se ne accostano altri, di provenienza diversa e che già registrano interessanti passaggi di mano. Si tratta nella fattispecie di testi a carattere monografico su La Tourette, comparsi nel corso degli anni a testimoniare anche l’importanza che questa opera continua a rivestire nella storia dell’architettura di questo secolo. Vale la pena, riproponendo la tecnica classificatoria di cui sopra, per analogia di metodo, disporre anche stavolta i materiali in ordine cronologico di pubblicazione, perché, come forse meglio apparirà, sarà utile anche non dimenticare l’effettiva consistenza dei documenti a stampa sui quali gli storici, come pure alcuni critici, hanno via via potuto lavorare. - Petit, Jean, Un couvent de Le Corbusier, Cahiers Forces Vives - Les Edition de Minuit, 1961; ed. it., Un convento, Ed. di Comunità, Milano 1962. monografia ufficiale, scritta dal curatore ufficiale di alcune edizioni corbuseriane; interessante in particolare la lettera, con i disegni tipologici fatti dall’artefice dell’incarico, il padre Couturier; il tono generale dell’opera è ampiamente celebrativo.

- Henze, Anton, La Tourette. Le Corbusier’s erster Klosterbau, Josef Keller Verlag, Starnberg 1963; ed. franco-inglese Le Corbusier, La Tourette, Bibliothèque des arts, Paris e Lund Humphries, London 1966; prima monografia scientifica, in forma di approfondito saggio, sull’opera da poco terminata. Con un reportage di settantadue fotografie in bianco e nero appositamente eseguite da Bernhard Moosbrugger.

- Isozaki, Arata, “Le Corbusier. Couvent Sainte Marie de la Tourette, Eveux sur l’Arbresle, France 1957-60", G.A., Tokyo, A.D.A. Edita 1971; scritto in lingua giapponese, con reportage fotografico a colori espressamente realizzato da Futagawa.

- Ferro S., Kebbal Ch., Potié Ph., Simonnet C., Le Corbusier: le couvent de la Tourette, ed.Parenthèses, Marseille 1988; lo studio più recente e completo, basato su documenti e fonti d’archivio, contiene anche una bibliografia fino al 1986.

Di questi quattro testi preme in particolare rilevare il lavoro parallelo dei fotografi, importante rispetto alle considerazioni sulla tecnica compositiva corbuseriana. La Tourette è stata dunque fotografata, a distanza di anni, sia da B. Moosbrugger

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- che ne ha eseguito foto per il libro di Petit come per quello di Henze - sia da Futagawa, che ha potuto dedicare attenzione, essendo nel frattempo divenuta tecnica di impiego più corrente, al colore e alla relativa riproduzione a stampa. Molti altri fotografi, come M.Jarnoux (Paris-Match), L.Hervé, J.Caps, R.Burri (Magnum), A.Caillon, Y.Guillemaut, P.Joly e V.Cardot, R.Pichon hanno comunque dedicato scatti di grande qualità a La Tourette; così pure è stato per Alison & Peter Smithson e W.Harries Baker, i quali, come avremo modo di vedere, hanno documentato con foto proprie i rispettivi reportage. Nello specifico le monografie evidenziano differenti tagli e approcci metodologici, essendo quella curata da Petit piuttosto enfatica nel tono eppure contenendo documenti interessanti, quali le due lettere del Padre Couturier - entrambe riprodotte in fac-simile, una completa del già ricordato schizzo - mentre quella di Henze, che affonda le radici in un precedente pregevole lavoro dello stesso autore6 , risulta di respiro diverso, con riferimenti precisi e circostanziati. A Henze - la cui opera si colloca nel genere che la tradizione indica correntemente col termine saggio - si deve la restituzione del contesto culturale, operazione di indubbio valore, a maggior ragione considerando la contemporaneità dell’opera costruita rispetto a quella scritta. Naturalmente il lavoro di Ferro-Kebbal-Potié-Simonnet è il più aggiornato, e deve molto del suo interesse all’aver condotto una puntuale ricerca che dalla fase progettuale nell’atelier di Le Corbusier, passando per i vari ingegneri incaricati dei cal4

coli statici e intersecando la committenza con i relativi - e determinanti - problemi finanziari, giunge fino al cantiere, tracciando la storia della costruzione vera e propria e ponendo le basi scientifiche affinché di questo edificio si possano misurare gli scarti, le innovazioni, gli azzardi. Così, mettendo finalmente sul campo anche i rapporti tra la direzione dei lavori e l’impresa - ovvero le imprese - di costruzioni, si finisce per avere un quadro un poco più esaustivo, e sicuramente non meno eroico.

Saggi o articoli specifici di particolare rilievo.

Proseguendo nell’esercizio classificatorio, sottolineando ancora con previo fervore questa discutibile passione per leggere (ovvero scrivere) i libri cominciando dall’indice, ecco ora un’altra serie di scritti, segnatamente quelli che, pur non avendo il carattere estensivo della monografia, si occupano in modo esclusivo de La Tourette. Si tratta sia di contributi apparsi su riviste, che di veri e propri saggi; essi sono stati selezionati tra i molti in quanto particolarmente interessanti sotto aspetti di volta in volta tesi a suggerire ulteriori possibili strade per la conoscenza. L’ordine di presentazione dei materiali è ancora quello cronologico.

- Smithson, Alison, “Couvent de la Tourette, Eveux-sur-Arbresle, nr. Lyon, France”, Architectural Design, vol. 28 n. 11, nov. 1958;

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sopralluogo in cantiere, con documentazione fotografica, da parte della giovane interprete del new-brutalism; testimonianza di notevole interesse rispetto alla diffusione in area anglosassone dell’opera corbuseriana della maturità.

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- Rossi, Aldo, “Il convento de La Tourette di Le Corbusier”, Casabella n.246, dicembre 1960, pp.4-19; ripubbl. Rossi Aldo, “O Convento de La Tourette de Le Corbusier”, Habitat, Sao Paulo, n.68, juin 1962, pp. 16-18; Aldo Rossi, ventinovenne, coglie l’occasione per gettare uno sguardo sul lavoro di Le Corbusier, facendo il punto sul suo significato complessivo.

- Rowe, Colin, “Dominican Monastery of La Tourette, Eveux-sur-Arbresle, Lyons”, The Architectural Review, n.772, june 1961; trad. ital. in C.Palazzolo, R.Vio (a cura di) Sulle tracce di Le Corbusier, Arsenale ed., Venezia 1989; Rowe conduce il ragionamento con mezzi teorici di notevole interesse, mutuati anche da Trasparenz, il fondamentale saggio scritto a quattro mani con Slutzky.

- Von Moos, S., Le Corbusier - Elemente Einer Synthese, Verlag Huber, Frauenfeld 1968; ed. franc. Le Corbusier - l’architecte et son mythe, Horizons de France, Paris 1971, p.246-249; sono le pagine che l’autore dedica a La Tourette, nell’ambito del suo noto e apprezzato saggio, tuttora testo di riferimento molto importante; hanno il merito indiscusso di cogliere aspetti generali e particolari dell’opera.

- Baker, G.H., Le Corbusier. An analysis of form, London 1984, p.267-298 e 345-347; studio analitico-formale, con largo riferimento, per indicazione dell’Autore, a The formal basis of Modern Architecture, dissertazione dottorale di P.Eisenmann (inedita) discussa nel 1963 presso la University of Cambridge.

- Xenakis, Iannis, “The Monastery of La Tourette”, in The Le Corbusier Archive, New York-London, Garland Publishing - Paris, Fond. Le Corbusier, 1984, vol. 28, pp.IX-XXVIII; trad. it. in H.Allen Brooks (a cura di), Le Corbusier 1887-1965, Electa, Milano 1987, pp. 182-193. Xenakis, affermato compositore di musica contemporanea, descrive la sua esperienza di responsabile del progetto de La Tourette quando lavorava come ingegnere nell’atelier Le Corbusier.

- Kesseler, Thomas, “Einige Bemerkungen zu Phänomenen des Raumes in Kloster

S.te Marie de La Tourette in Eveux”, in Le Corbusier Synthèse des Arts - Aspekte des Spätwerks 1945-1965, Ernst Verlag, Berlin 1986, p.195-220; saggio critico che studia La Tourette indagandone i legami con l’architettura conventuale delle origini, e contiene anche riferimenti ad aspetti simbolici mutuati dalla tradizione; allegate tavole di rilievo.

- Buchanan, Peter, “La Tourette and Le Thoronet”, The Architectural Review, n.1079, January 1987, p. 48-59; Buchanan studia l’influenza che il monastero di Le Thoronet, proposto come modello a Le Corbusier dal Père Couturier, ha avuto nello sviluppo del progetto de La Tourette.

Altri utili materiali.

Attenti a seguire le tracce del lavoro del Maestro, pur non avendo ancora compreso, con Musil, se sia il ricercatore a inseguire la ricerca o se piuttosto non sia

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questo uno dei casi in cui è la ricerca a inseguire il ricercatore, è il momento di introdurre altri testi che, in maniera piuttosto diretta, servono a delineare l’orizzonte delle questioni che ci interessano. Anche in questa sezione si è optato per un decisa riduzione: così, intrecciando classificazione e merito scientifico dei testi, si è cercato di raggiungere qualche risultato almeno dal punto di vista del controllo dei materiali, ma è chiaro che nulla di ciò che momentaneamente viene passato in secondo piano andrà disperso, dato che si provvederà puntualmente, tramite nota, a integrare rispetto agli eventuali rimandi.

- Le Corbusier, Le Voyage d’Orient, ed. Forces Vives, Paris 1965; edizione lue et approuvée par Le Corbusier che compendia il viaggio del 1911.

- Le Corbusier (Ch.-E.Jeanneret), Voyage d’Orient - Carnets, Electa-Fond.Le Cor6

busier, Milano-Paris 1987; carnet n.3 p.49 (Simonos Petra, Monte Athos) e carnet n.6 p.7-17 (Certosa di Ema); riproduzione anastatica degli appunti del giovane Jeanneret annotati nel corso del viaggio del 1911.

- Le Corbusier (Ch.-E.Jeanneret), Viaggio in Oriente - edizione di Giuliano Gresleri, Marsilio-Fond.Le Corbusier, Venezia-Paris 1984 in particolare si veda il saggio “Itineraria architectonica: gli antichi miei soli maestri”, pp. 21-109.

- Gresleri, Giuliano, “Partir et revenir. Le voyage d’Italie”, in Le Corbusier et la Méditerranée, Editions Parenthèses-Musées de Marseille, Marseille 1987, p.23-35; il primo viaggio in Italia (1907), con la prima visita alla Certosa di Ema.

- Le Corbusier il viaggio in Toscana (1907), a cura di Giuliano Gresleri, Marsilio, Venezia 1987; ricostruzione puntuale ed ampiamente documentata del primo viaggio in Italia (1907) del giovane Jeanneret.

- Gresleri, Giuliano, “Les leçons du Voyage d’Orient”, in Le Corbusier et la Méditerranée, Editions Parenthèses-Musées de Marseille, Marseille 1987, p.37-49; ricostruzione e approfondimento tematico del Viaggio in Oriente del 1911.

Dopo questo primo capitolo analitico, qui dato in versione pressoché integrale, la ricerca si articola in altri quattro capi: Cap. II° - MEMOIRES D’UN POEME: “Je n’ai pas besoin d’ajouter que l’histoire elle-même m’excite plus encore que le roman à ce jeu des altérations possibles, lesquelles se mélangent fort bien aux falsifications réelles qui se découvrent de temps à autre dans les documents les plus respectables. Et tout ceci met utilement en évidence la naïve et bizarre struc7

ture de notre croyance au “passé” ”7 . A margine di questa affermazione si ragiona

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sulle reali falsificazioni che legano La Tourette ai monasteri dell’Athos, visitati da Le Corbusier nel 1911, e alla Certosa di Ema, vista nel 1907 e rivista nel 1911. Cap.III° - JE COMPOSE ATMOSPHERIQUEMENT 8 : Dopo aver indagato sui monasteri dell’Athos nella descrizione di Choisy, si procede in questo capitolo ad esaminare i rapporti tra la tecnica compositiva dei templi greci - sempre secondo Choisy - e quanto sostenuto da Le Corbusier in Vers une Architecture. Cap.IV° - DESCRIZIONI, TRASCRIZIONI, CONGETTURE: La medesima descrizione - di mano di Choisy - dei tableaux dell’Acropoli è usata dal regista Ejzenstejn per argomentare la sua teoria del montaggio cinematografico; per notevole coincidenza anche Le Corbusier parla - a proposito della composizione dell’Acropoli - di abilità da grande regista. Il ragionamento prosegue enucleando altri contributi (Von Moos, Scully, Rowe e Slutzky etc.) in ordine alla tecnica compositiva sul piano e sullo spazio messa in opera da Le Corbusier, con particolare riferimento a La Tourette. Cap.V° - ALTRE QUESTIONI: Questo capitolo, con lo scopo non dichiarato di evitare le “conclusioni”, tenta di non disperdere, attraverso gli argomenti svolti in precedenza e senza rinunciare al loro carattere di frammenti, il carattere ed il significato definitivamente sovversivo della ricerca corbusiana. “Il modo in cui viene raccontata la storia contemporanea è simile a un grande concerto durante il quale venissero eseguite tutte di seguito le centotrentotto opere di Beethoven suonando però solo le prime otto battute di ciascuna. Se fra dieci anni si desse lo stesso concerto si suonerebbe, di ogni pezzo, solo la prima nota, dunque in tutto centotrentotto note, eseguite come un’unica melodia. E fra vent’anni tutta la musica di Beethoven si riassumerebbe in una sola, lunghissima nota acuta, simile a quella, interminabile e altissima, che il musicista ha udito il giorno in cui è diventato sordo.”

(Milan Kundera, La lenteur, Paris-Milano 1995, pp.96-97) Didascalie:

Note: 1

G. Perec, Penser/Classer, Hachette, Paris 1985; ed.it. Pensare/Classificare, Rizzoli, Milano 1989, p. 136. 2 a proposito della formazione di Le Corbusier rimane peraltro fondamentale Turner, Paul V., The education of Le Corbusier, Harvard Univ.Press, Cambridge Mass., 1971. 3 ritengo doveroso, al di là della curiosa personale ossessione, riflettere almeno per un attimo sul termine paragone, elevato dal genio di Roberto Longhi a strumento di straordinaria importanza scientifica per la storiografia artistica del nostro secolo. 4 Xenakis, Iannis, The Monastery of La Tourette, in “The Le Corbusier Archive”, vol. 28, cit., pp.IX-XXVIII; trad.it. in H.Allen Brooks (a cura di), Le Corbusier 1887-1965, Electa, Milano 1993, pp. 182-193. 5 cfr. Lettre du R.P. Couturier a Le Corbusier, in Petit, Jean, Un couvent de Le Corbusier, Cahiers Forces Vives - Les Edition de Minuit, 1961, pp.22-25; ed.it. Un convento, Ed. di Comunità, Milano 1962. 6 Henze, Anton, Le Corbusier, Berlin 1957. 7 P.Valery, Mémoires d’un poème, in Variété V, Gallimard, Paris 1944, p.85, sottolineato nel volume posseduto da Le Corbusier (FLC 364 perso.). 8 LC, Précisions sur un état présent de l’architecture et de l’urbanisme, Paris, Crès 1930, p. 50.

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1,2,3 -Père Couturier, schizzi tipologici di un monastero dominicano (inviato a Le Corbusier il 28 luglio 1953), in Un couvent de Le Corbusier, a cura di Jean Petit, Les Editions de Minuit, Paris 1961, p.24. 4 -Le Corbusier, primo schizzo per La Tourette, datato 4 maggio 1953. 5 -Le Corbusier, schizzo per La Tourette, 7 maggio 1954. 6 -Ch.E. Jeanneret, schizzo della Certosa di Ema, ottobre 1911, in Le Corbusier, Voyage d’Orient, a cura di Giuliano Gresleri, ElectaFondation Le Corbusier, Milano-Paris 1987, carnet 6, p.11 7 -Ch.E. Jeanneret, schizzo della Certosa di Ema, ottobre 1911, in Le Corbusier, Voyage d’Orient, a cura di Giuliano Gresleri, ElectaFondation Le Corbusier, Milano-Paris 1987, carnet 6, p.7 8 -Ch.E. Jeanneret, schizzo del monastero di Simonos Petra sul Monte Athos, agosto 1911, in Le Corbusier, Voyage d’Orient, a cura di Giuliano Gresleri, Electa-Fondation Le Corbusier, Milano-Paris 1987, carnet 3, p.49.


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DOTTORATO DI RICERCA IN COMPOSIZIONE ARCHITETTONICA “LE FIGURE DEL COMPORRE” (VIII ciclo)

dottore

Andrea Ricci coordinatore

Prof. Gian Carlo Leoncilli Massi relatore

Prof. Giancarlo Bertolozzi

FORMA DEL PROGETTO: forma dello scrivere architettonico Le “responsabilità” della ricerca universitaria sulla materia compositiva, specialmente nell’ambito di un Dottorato strutturato sul tema de “Le Figure del Comporre”, assumono un ruolo ed un peso tanto maggiore quanto più esse vengano valutate nel quadro drammaticamente attuale di una architettura che sembra aver smarrito il nesso fondamentale di albertiana memoria fra il disegno, scaduto ad arte grafica, e la costruzione, degenerata nella gestione burocratica del progetto professionale e nella meccanica applicazione di cliché predeterminati dalle mutevoli esigenze delle mode e del mercato. In una realtà in cui l’eccesso, l’arbitrio e una generalizzata perdita del buon senso assurgono ad unica paradossale “regola” la ricerca universitaria non può in alcun modo sottrarsi al suo ruolo naturale di motore della crescita culturale, in quanto “luogo” deputato a produrre conoscenza, dunque deve diventare un momento insostituibile per rivendicare la centralità e l’autentica dimensione conoscitiva di un “disegno” che torna ad essere forma mentale, forma del pensiero architettonico, cioè attività fortemente astratta che “riabitua a rendere architettonico un pensiero”. Ripercorrere le strade tracciate dall’opera teorica di Leon Battista Alberti nella inequivocabile definizione del carattere intellettuale della creazione architettonica, riappropriarsi del “mestiere” dimenticato del compositore nelle sue finalità operative e conoscitive, nel suo attuarsi attraverso il progetto come costruzione di uno spazio misurato e riconoscibile quindi eseguibile, ritrovare un corretto rapporto con la storia fuori dalle documentate “certezze” dell’analisi filologica o meglio reinventare la storia medesima come lettura compositiva del testo progettuale o dell’opera compiuta, costituiscono altrettanti punti fermi dai quali muove il tentativo di esplorare, e quindi di ricondurre a teoria compositiva, quei processi che segnano “il passaggio dall’idea alla sua rappresentazione visibile” e che nello stesso tempo individuano l’emergere a nuova chiarezza di quella stessa idea inizialmente prefigurata nell’indeterminatezza della precognizione. Nella consapevolezza dell’inevitabile confronto con la “babele” contemporanea, con l’irriducibile molteplicità di dialetti, prodotto del frammentarsi dell’unità clas-

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sica, cosciente di non potere ignorare l’avvenuto distacco “delle parole dalle cose” che rende non più credibile il tradizionale ruolo della forma di rappresentare e/o significare, la ricerca sul tema del progetto diventa, nell’ottica di una totale osmosi se non virtuale omologia tra i concetti del “leggere” (lettura compositiva) e dello “scrivere” (forma del progetto), motivo ulteriore per indagare un’architettura che oggi riflette su se stessa, sul suo interno autocostituirsi attraverso processi di variazionemanipolazione di figure già note in nuove forme, in altre parole analizza la sua forma di scrittura. Parafrasando M. Proust, soltanto alla metafora, alla figura spetta parlare, comporre questa realtà mista, ibrida, plurale e sarà necessariamente un “parlare” per frammenti, costruito sui resti impuri di tramontate unità e proprio per questo capace di mantenere un senso in un mondo che ha irrimediabilmente condannato al declino i grandi sistemi onnicomprensivi. Maturare la consapevolezza che il disegno della concinnitas non potrà più ricomporsi significa accettare tutte le ambiguità del moderno che segneranno la provvisorietà delle certezze compositive, significa riflettere su nuovi valori come l’antigrazioso e il non armonico, significa infine ricercare una ragione diversa dall’antica, un diverso orizzonte di senso. La metamorfosi del concetto classico di composizione in un figurare o comporre per figure dove la forma segna lo spazio della differenza nella logica di un’eraclitea “armonia dei contrari”, non può prescindere da quell’esigenza fondamentale, postulata da L. I. Kahn, di un ordine che comunque deve informare il processo di manipolazione delle forme architettoniche: il prezzo di una rinuncia sarebbe l’irrevocabile condanna all’afasia, poiché l’intelleggibilità di qualunque forma di linguaggio è strettamente connessa alla possibilità di riconoscere le varie parti dell’insieme e soprattutto i ruoli che una certa disposizione sintattica assegna a quelle. La ricerca di un ordine è criterio informatore, quasi una prioritaria condizione mentale, di ogni manipolazione compositiva. Esso non implica, come nel comporre classico, il fine di un’armonica bellezza “dallo stesso ordine nacquero il nano ed Adone”, né può coincidere con un principio di ripetizione e di standardizzazione delle forme. “Il senso d’ordine di un architetto è come quello che il compositore ha per la musica, e non ha nulla a che vedere col contrappunto e l’orchestrazione...”. Contro la mistificazione di una cultura che tenta di sostituire “l’orchestrazione” al nucleo fondativo dell’idea o, come disse Valery, l’arrangiamento alla composizione, in questa “civiltà dell’immagine” dominata dai profeti dell’apparenza dove “la memoria è ricoperta di strati di frantumi... dove è sempre più difficile che una figura fra le tante riesca ad acquistare rilievo” (I. Calvino) s’impone la necessità di riapprendere a “scrivere” architettonicamente un’idea: il disegno è la forma di tale scrivere. Riprendendo i termini della concettualizzazione operata dall’Alberti, esso non può che strutturarsi come somma di operazioni mentali dalla quale il progetto emerge compiuto nella sua eseguibilità. In tale ottica “il piano viene a costituirsi come quel mezzo che realizza, attua la scrittura di un tale spazio con l’istituire un luogo, la pianta, virtualmente analoga al reale ove è possibile calcolare i limiti delle trasformazioni da instaurare come relazione proporzionale, tra tutti gli elementi in gioco” (G.C. Leoncilli). L’apparente paradosso kahniano, che vede nel piano un insieme di spazi, dà la misura reale di come il piano stesso diventi l’elemento generatore di tutto il processo di costruzione dell’architettura in quanto tale. Inevitabilmente ogni possibile discorso sulla materia compositiva è destinato a gravitare intorno al tema dello spazio, quello spazio “limitato” la cui creazione è per A. Riegl compito specifico dell’architettura, essendo quindi il “progetto tecnica rivolta ad appurare, costruire, rappresentare (far apparire)”, il medesimo in termini di totale proporzionalità. Se il disegno nel piano è “ciò che aiuta a costruire e a rendere architettonico un pensiero”, esso “non sarà necessariamente attività artistica, né, tantomeno, prodigio della mano” poiché il fine ultimo della realizzazione impone all’architetto di comporre “forme in ordine”, comprensibili ed eseguibili. Il rapporto tra figura e forma cioè tra la forma del progetto e la forma dell’architettura porta ad identificare la “figurazione compositiva” come la nuova dimensione etica della composizione che traccia la linea di demarcazione fra la riflessione sulla forma dello scrivere architettonico ed il mero confezionamento del prodotto finito. La figurazione è processo conoscitivo e poiché per il compositore la sola maniera di conoscere è quella di rappresentare, essa segna il passaggio dall’idea o tema alla sua rappresentazione visibile. Tale legame si attua attraverso figure compositive il cui sviluppo avrà valore di progetto ove questo non sia inteso come semplice mezzo tecnico per la produzione di un “oggetto” edilizio. I temi spaziali si sviluppano, si trasformano, si metamorfizzano per riproporsi nelle forme delle nostre successive operazioni

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compositive onde chiudere quel ciclo che “partito da un ignoto scarto, da un frammento, produce e continuerà a produrre nuove idee e nuove figure” (G. C. Leoncilli Massi). Il percorso mentale del compositore attraverso i materiali sedimentati nel “luogo storico” è già in un certo senso principio ordinatore delle figure trovate, è dunque criterio di quella scelta che Le Corbusier dice essere “il primo gesto... l’atto criminale o valido...”. Il porsi in atto di un’idea tematica che è già idea di uno spazio ancora non definito, ma riconoscibile come tale, allontana il processo ideativo dell’architettura dalla dimensione specificatamente “creativa” riportandolo all’interno di una nozione “estrattiva” dell’inventare nella storia: l’architettura si rinnova con l’architettura stessa, poiché variare vuol dire creare il diverso. La storia ritrovata come lettura compositiva diventa una trascrizione del testo architettonico finalizzata alla comprensione della forma del progetto: ciò introduce la possibilità di riprogettare il testo di partenza variando i suoi contenuti figurativi, in altri termini permette di costruire le “nuove parole” per nuovi discorsi compositivi. Il rapporto del compositore con la memoria storica non è sintetizzabile nella semplice “citazione” del passato, consiste piuttosto in una paziente opera di decifrazione, un infinito chiamare a leggibilità quell’ordine specifico che permane, costante, al di là delle metamorfosi e delle trasformazioni subite nel tempo dalle forme architettoniche. Come ebbe ad affermare Louis Kahn nel corso di una conferenza “Un antico specchio etrusco uscito dal mare in cui una volta si era specchiato un bel viso, conservava ancora, sotto tutte le incrostazioni, la forza di evocare l’immagine di quella bellezza”. Oggi l’immagine di quella bellezza è inscindibile da tutte quelle incrostazioni che lo scorrere del tempo ha via via sedimentato e che hanno ormai metamorfizzato l’antica presenza in qualcosa di assolutamente nuovo. L’esperienza dell’antico, riletta e filtrata attraverso il moderno e il contemporaneo consente “di tornare a riflettere sull’arte del comporre come concatenazione logica nel campo delle variazioni possibili, sull’aggregazione, trasformazione degli spazi, sulla sintassi di figure e forme”. Soltanto un processo di autonoma riappropriazione può rendere i materiali della memoria nuovamente disponibili per la costruzione del presente in quanto il compositore, come il “vero storico” di F. Nietzsche “deve avere la forza di coniare di nuovo ciò che è noto in qualcosa di mai sentito”. Come nei versi di Orazio le parole già dette riconquistano nuova originalità se ricomposte in inusitate connessioni, così la storia salvaguarda il permanere delle proprie ragioni immutabili soltanto attraverso una continua reinvenzione di se stessa. L’autentica libertà dell’architetto non consiste dunque nella ricerca della novità, dell’avvenimento originale, ma nel tentativo, ripetuto continuamente, “di ritrovare il controllo e la conoscenza di un materiale antico e di ritornare al primato di un gesto fondatore che in questo senso non è più nuovo oggi di quanto non lo sia stato un tempo” (J. Cleair). La variazione compositiva è appunto ciò che consente di riportare l’originalità, la fantasia entro i binari dell’oggettività, della conoscenza, della costruzione dei procedimenti compositivi. Il progetto è il “luogo” di tale metamorfosi, dove la dimensione figurazione insegna a comprendere lo spazio - ciò che Le Corbusier chiama “spazio indicibile” - a renderlo forma riconoscibile in termini di proporzione, misura, perfezione di esecuzione. Il perseguimento di una determinata idea di spazio orienta le scelte, reinventa i bisogni rovesciando lo slogan del funzionalismo per cui una forma deve seguire una funzione. E’ invece “lo spazio [che] determina l’uso... Accontentarsi di gettare un imballaggio di pareti e solai attorno ad un processo... non vuol dire creare qualcosa per le esigenze [degli edifici]... un edificio deve aggiungere qualcosa al processo che esso alloggia, renderlo migliore...” (L. I. Kahn). Il progetto è anche il “luogo” che, attraverso una continua verifica dei limiti o vincoli (siano essi funzione del luogo, della firmitas, dell’utilitas) individua, anzi recinta entro gli argini di una forma definita, il campo del possibile, dell’opportuno, in altre parole ciò di cui è conveniente e legittimo parlare. Qui si intrecciano i molteplici compromessi che necessariamente sottendono il passaggio, dall’astrazione mentale dell’idea di spazio, alla realtà oggettuale dello spazio costruito. Il compromesso, come anche l’atto della scelta comporta sempre l’esclusione di una parte, quindi una “diminuzione” che il segno tracciato sulla carta materializza e sancisce definitivamente nei confronti dell’idea iniziale. In Platone il prezzo di questo contatto con la materia è per il mondo delle idee la riduzione a mera apparenza, in modo analogo la rappresentazione visibile dell’idea (cioè la figurazione) non può che passare attraverso un depotenzionamento della stessa. Leon Battista Alberti ha piena consapevolezza, di questo scarto irridu-

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cibile che separa l’ideazione architettonica dalla realizzazione e confessa tale limite in una straordinaria pagina del “De Re Aedificataria”: “Posso dire che spesso ho formato nel mio spirito idee di edifici che mi hanno dato un piacere meraviglioso; poi quando li ho tradotti in linee ho trovato nelle parti che più mi piacevano molti errori, che esigevano una netta correzione”. L’ideazione non si confonde dunque con la materia, come testimoniano le distinzioni di Alberti fra “lineamenta” e “structura”, comunque deve confrontarsi con essa per diventare spazio costruito attraverso il progetto; il compositore “va e viene dalla materia all’idea, dalla mente al modello e scambia ogni istante ciò che vuole per ciò che può e ciò che può per ciò che ottiene”. Soltanto alla fine di un tal moto ciclico di rimandi e verifiche, attraverso la lunga sequenza di trasformazioni, cancellazioni e ritrascrizioni, l’idea appare, si rivela nella pienezza del suo essere di spazio eseguibile quando percorre a ritroso il suo costruirsi nel progetto per illuminare con nuova chiarezza conoscitiva l’iniziale precognizione. Lo strutturarsi del processo figurativo attraverso il progressivo disvelamento del tema, si ritrova come forma del progetto nel momento in cui la forma ormai definitiva dell’idea di spazio apre la strada ad una duplice possibilità: da un lato la gestione professionale del progetto finalizzata al risultato, dall’altro una risalita verso la teoria disciplinare che dia la misura delle differenze tra idee e forma. La scelta di “rimanere dietro la macchina” per continuare a smontare e rimontare le scene, per comprendere i processi che si celano dietro al prodotto finito, acquista una sua particolare validità all’interno di una dimensione “didattica” che deve diventare spunto di ricerca sulla materia del progetto. Proprio tale dimensione, pur nel rischio reale di forzare gli esiti della ricerca verso sistematizzazioni o teoriche consequenzialità non volute e non compatibili - non può infatti esistere “un codice di regole” per il bel comporre - con la natura stessa della materia compositiva che tende a rifuggire ogni tentativo di coglierla fuori dal suo divenire o di comprenderla fuori dal suo autocostituirsi come processo operativo, è funzionale a staccare la questione del progetto dalla gestione professionale dello stesso, riportandola a teoria cioè nei termini di problematiche eminentemente conoscitive. Il progetto sviluppato all’interno del Dottorato non poteva essere finalizzato al confezionamento di un oggetto architettonico compiuto secondo una logica che appartiene legittimamente al solo professionismo, dal momento che la presenza del prodotto finale, o anche la sola volontà di ottenerlo, tenderebbero a lasciare inevitabilmente in ombra i modi, i meccanismi, i processi di produzione, cioè l’obbiettivo primario della ricerca. “La forma del progetto” e la “lettura compositiva”, strutturando il comporre come “attività ermeneutica” di continua esplicitazione del testo architettonico, offrono la reale possibilità di riprogettare ciò che il processo di variazione-invenzione ha trasformato del tema iniziale: poiché nessuna ritrascrizione del testo di partenza può quindi essere conclusiva. Soltanto nell’ottica della “Forma del Progetto” l’incompiutezza, la scelta di mettere continuamente in discussione il risultato, non scade in quel “congelamento” dell’immagine tipico del “non finito” dell’“artista”, si riempie invece di nuovo significato inteso come più acuta capacità di indagine e di conoscenza del progetto. “Ciò che è definitivo ci inganna, ciò che è fatto per essere guardato cambia aspetto... proprio quando sono ancora mobili, irrisolte, ancora in balia di un istante, le operazioni dell’intelletto sono suscettibili di venire utilizzate, cioè prima che siano denominate divertimento o legge, teorema o cosa d’arte, e prima che si allontanino, nel loro compimento, dalla loro fisionomia originaria” (P. Valery). Come per l’opera di Gadda o di Ezra Pound che reinventano la lingua facendola scontrare con i molteplici dialetti di una “totalità diventata ormai plurima”, anche per il progetto di architettura la non linearità del racconto, l’impossibilità teorica di risolverlo in modo univoco, l’incapacità di trovare una conclusione definitiva, sono la conseguenza diretta dello scontro nel “polipaio” di una scrittura progettuale che deve aderire all’intreccio inestricabile di “ordine e caos”, che deve operare nel “guazzabuglio del presente”. L’incompiutezza e la metamorfosi che ne costituisce il necessario complemento, segnano la difficoltà, forse l’impossibilità, di muoversi attraverso la realtà “plurale” e di smuoverne le infinite contraddizioni; se dunque nelle elaborazioni progettuali ogni frammento sembra sovrapporsi agli altri fin quasi a confondersi in un insieme di segni apparentemente indeterminato, se i contorni dei singoli elementi sembrano attenuarsi in un universo indistinto e isopotenziale, certamente tutto ciò marca i limiti della condizione moderna, l’irrevocabilità della perdita di una lingua onnicomprensiva e l’impossibilità di conciliare il moltepli-

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ce, ma in tale mutevole divenire è anche possibile vedere l’emergere delle figure, il loro trasformarsi in nuove forme, il nascere di nuovi ordini, di ragioni diverse dall’antica unità. Contrariamente al letterato che può riuscire a comporre le infinite differenze nell’ordine superiore della poesia, l’architetto deve confrontarsi con una diversa dimensione delle cose: i bisogni, la costruibilità, l’abitabilità, la convenienza, il buon senso costituiscono altrettanti vincoli che non possono essere ignorati e limitano necessariamente il suo agire progettuale. La mancanza del confezionamento del prodotto può essere la “frode verbosa” che si nasconde dietro “l’architettese”, dietro le immagini vuote, ma sapientemente curate, del “creativo” sedicente architetto, può essere mera “menzogna” se non si attua come scelta precisa e coerente di un orientamento verso lo studio e la ricerca sul tema del progetto, se essa non diventa strumentale alla riconquista autenticamente creativa di un ordine che, pur diverso dal classico, assuma questo come termine di confronto, rileggendolo in nuovi contesti per trovare e comprendere il nostro presente. In questa sede la scelta dell’incompiutezza coincide con il rifiuto di continuare a produrre un progetto virtualmente equivalente ad una seconda tesi di laurea, ma si deve anche leggere come necessità di riportare tutto a teoria, alla “forma del progetto”, una volta che l’idea sia emersa esplicitata e chiarita nel processo di variazione delle figure in forme e sia quindi resa disponibile a successive nuove interrogazioni. Pur scartando l’ambiguità dell’immagine finale la teoria della “forma del progetto” non oltrepassa quei limiti disciplinari che impongono al linguaggio architettonico di “parlare” in termini di obiettività, chiarezza, necessità a pena di scadere nel sofisma o nell’artificio di un atto fine a se stesso. Tutto ciò si colloca dunque all’interno di una ricostruibile dimensione etica dello studioso che, diversamente dal professionista-architetto, torna sui propri passi per comprendere meglio la sua forma di scrittura; in una civiltà come la nostra fondata sul culto e sul consumo dell’immagine, diventa essenziale riabituarsi a quell’esercizio del pensiero architettonico che, in quanto attività ermeneutica, costituisce certamente il nostro fine di dottorandi in composizione e forse, nel tempo, potrà anche contribuire alla creazione di un professionismo meno becero.

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IL PROGETTO: IL GIARDINO DI S. MARCO COME NUOVA POLIS UNIVERSITARIA Il progetto nasce e si sviluppa dal luogo storico, inteso come consapevolezza delle leggi di esistenza e trasformazione delle figure in forme spaziali. Gli eventi architettonici fisicamente riscontrabili nella città attuale non possono, se non in parte, dar ragione di quel complesso di idee, di programmi, di progetti che individua tale “luogo storico” e la cui reale portata è da ricercare in una storia parallela di occasioni e realtà possibili. Considerare una tale lettura non come una fase preventiva di acquisizione dati attraverso le diverse fonti documentarie, bensì come atto progettuale in senso proprio, significa vedere la realtà con gli “occhi” del compositore, significa da un lato rifiutare la storia come mera successione temporale o filologica coerenza, dall’altro assumerne autonomamente quei materiali che, ritrascritti o ritrovati come variazione di figure già possedute, la memoria porta al discorso compositivo nel senso del retorico inventare. Il disegno architettonico è la forma di questa lettura compositiva del luogo, o meglio la forma del farsi del progetto nel luogo; attraverso di esso il compositore, cui non interessa la restituzione retinica della realtà fisica poiché l’architettura ne crea una artificiale, riflette sulla storia, sulla città, sul progetto. Il racconto progettuale che il programma di ricerca tenta di esplicitare con gli strumenti propri del linguaggio architettonico muove dal vasto orizzonte figurativo di una Firenze sognata dove le metafore di architettura disegnate nelle trame del Battistero o di San Miniato si confondono con le complesse geometrie dei Giardini Medicei, dove prende una sua compiutezza quella storia che J. Burckhardt definisce come “catena di splendide composizioni”. Rifondare un nuovo giardino di San Marco come polis universitaria, in una parte di città che ancora manifesta tracce sedimentate del grande progetto umanistico, diventa motivo per cercare i lacerti di logiche e unità perdute, per riallacciare le trame di una continuità violentemente interrotta, senza dimenticare le ambiguità e le contraddizioni del moderno. Nello scenario di un’area scandita dagli ampi spazi liberi dei giardini o dei recinti conventuali, si afferma tra il XV e XVI secolo l’umanistico tentativo di imporre una ratio all’espansione della città. I programmi di sviluppo per via dei Servi, incernierata sull’asse della cupola brunelleschiana, l’intenzione di creare un foro all’antica di fronte alla chiesa dell’Annunziata e infine i grandiosi progetti per palazzi e giardini medicei di Leonardo e Giuliano da Sangallo non solo si costituiscono come affermazione formalmente significativa in sé, ma si compongono in un’idea di piano che avrebbe conferito a tutta l’area quella forma compiuta implicita nella trecentesca realizzazione delle mura: una sorta di rifondazione razionale che, eccettuati pochi elementi isolati, soltanto nei microcosmi dei giardini riesce a prendere corpo e realizzarsi almeno in parte. Il progetto dunque non può che risolversi nel tema centrale del giardino, un giardino che diventa dimensione figurativa del tutto legando fra loro i frammenti superstiti dell’ordo umanistico e celando nello stesso tempo sotto i suoi percorsi la macchina di una necessaria utilitas architettonica. L’impianto cruciforme dei percorsi ripete uno schema archetipo di una fondazione urbana, inventando dentro la città storica, un’altra città ideale, dove il giardino può attuare, oggi senza più alcuna illusione di umanistica unità, il sogno di un ordine e di un controllo dello spazio, inattingibile sul piano storico della città, se non per singoli frammenti come il microcosmo conventuale di San Marco oppure il vicino ospedale di Santa Maria Nuova, archetipo figurativo del progetto per l’Ospedale Maggiore di Milano a opera del Filarete. Gli esiti progettuali di questa ricerca trovano tutti la loro ragione di essere come parte integrante di un sistema di eventi significativi cui rapportarsi in una continuità ideale, segnata però dalla consapevolezza che il disegno unitario di Brunelleschi e Alberti, d Leonardo e Sangallo non potrà più ricomporsi.

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DOTTORATO DI RICERCA IN COMPOSIZIONE ARCHITETTONICA “LE FIGURE DEL COMPORRE” (VIII ciclo)

dottore

Daniele Spoletini coordinatore

Prof. Gian Carlo Leoncilli Massi relatori

Prof. Alberto Breschi, Prof. Roberto Berardi

METAMORFOSI DELL’ IDEA

La costruzione del processo di progetto come edificio teorico strutturato e dotato di forma trasmissibile, l’individuazione dei suoi limiti operativi concreti rispetto alla didattica universitaria oltre che al mondo professionale, le motivazioni disciplinari e culturali che hanno supportato i contenuti della ricerca di Dottorato su “Le figure del comporre”, sono le questioni centrali della nostra riflessione e l’oggetto di queste righe. La ricerca, che muove dal riconoscimento della crisi fortissima in cui versa il concetto stesso di composizione architettonica sino ad essersi quasi estinto nel mestiere e nell’ambito universitario, si basa sugli studi condotti da Gian Carlo Leoncilli Massi a Roma e Venezia sino circa alla metà degli anni ottanta e a Firenze successivamente. Questa città ha suscitato una sorta di “ritorno all’ordine” rispetto alla ricerca compositiva veneziana di quegli anni, a causa della perdita di efficacia nell’analisi e nel progetto di alcune posizioni teoriche che, introdotte in un ambito accademico sostanzialmente paralizzato negli studi, si sono viste prive di quel confronto e di quello stimolante conflitto fra studiosi che le reggeva, quindi di una possibile validità operativa e didattica. Questioni di grande fascino intellettuale e di delicatissimo equilibrio come quella relliana della “vertigine della mescolanza”, passano a Firenze per autorizzazioni a procedere in ogni direzione purché sia, con un automatico conferimento di “poetica” ad esperimenti mediocri e senza fondamento disciplinare. Allora e nonostante tutto è Firenze, che ha elaborato e oggi frettolosamente dimenticato i fondamenti del comporre architettonico e del mestiere stesso con Leon Battista Alberti, il luogo in cui è possibile ritrovare quell’ordine tutto mentale di costruzione del progetto che va dall’Umanesimo sino a Terragni, a Schinkel, a Mies. “Lo spazio della memoria” da rioccupare può perciò essere soltanto questo tracciato mentale preciso e netto dove gli strumenti antichissimi del comporre come l’idea, la sua variazione e metamorfosi continua si calano nelle enormi difficoltà contemporanee dell’insegnamento, della produzione teorica degli elementi di un metodo, trasfigurandosi e certo spesso soccombendo nei confronti di discipline quantificabili in termini di rendimento scientifico o di interesse economico.

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Oggi questo voler difendere la materia compositiva è diventata quasi ambizione d’archeologi. Non c’è un vincolo esterno che ne stimoli lo studio e i finanziamenti dello Stato che arrivano nella sede d’Ateneo vengono gestiti come delle regalie. Appare quindi una sorta di “rifugiato” lo studioso della composizione architettonica all’interno dell’università così come oggi è concepita. Con ciò è costretto ad ammettere l’elitarismo della sua materia di studio in quanto frammento fra i più delicati di una perduta disciplina unitaria. Inattualità dei temi di studio, inefficacia degli strumenti teorici di lettura del reale, scissione forzata tra ricerca e attività professionale, sono tutti momenti di uno stato di crisi paradossalmente permanente trasformatosi in una normalità dove è difficoltoso distinguere chi studia da chi invece gestisce fondi dipartimentali, chi tenta di mettere insieme l’esperienza concreta con l’insegnamento da chi non insegna né lavora da anni. Ci sembra, o c’inganniamo, che a fronte delle questioni ora riassunte non possa più funzionare l’attuale organizzazione degli studi universitari d’architettura e, in diretta conseguenza, che il ricercatore in composizione architettonica sia pressoché inutile in una facoltà che vuole insegnare tutto e il contrario di tutto. E’ auspicabile una razionalizzazione delle energie e dei compiti, quindi delle aspettative, in modo che sia possibile formare con diversi corsi di lauree brevi un tecnicooperatore dell’edilizia e del territorio, mentre la formazione dell’architetto-docente e dell’architetto-costruttore venga svolta in istituti universitari, anche privati, che sia possibile programmare in quanto a numero d’iscritti e priorità delle materie d’insegnamento. Sarà quindi necessario, ancorché impopolare, esplicitare chiaramente che nel primo caso si forma un professionista in diretto collegamento con le imprese e con le Pubbliche Amministrazioni, nel secondo uno studioso di livello eccellente, un insegnante d’architettura, un possibile architetto. GLI STRUMENTI DEL COMPORRE. Insegnare a comporre, così come insegnare a poetare, è cosa difficilissima e può realizzarsi solo componendo e mostrando i risultati di tale attività. Gli elementi teorici della composizione sono però stati studiati da secoli e continuamente affinati, esplicitamente sino all’Ottocento, più sporadicamente e indirettamente nel nostro secolo, quindi quelli che sono i concetti basilari di questo corpus teorico, ovvero l’idea, la pianta, le proporzioni, l’ornamento, la retorica, possono sicuramente essere oggetto di trattazione e di studio. Così la necessità di dover ordinare in teoria il progetto svolto prima per la ricerca di Dottorato e poi per la Triennale di Milano, mi ha consentito di ritrovare quella serie, oggi non lineare e spesso contraddittoria, di atti mentali che hanno come oggetto il passaggio dall’idea alla sua rappresentazione visibile. Esiste da sempre per il compositore architetto il problema teorico della ricerca dell’idea e successivamente della sua esplicitazione in forma per mezzo della variazione, similmente alla creazione musicale e a quella poetica, e Leon Battista Alberti bene lo esprime nella lettera dell’ottobre del 1470 a Ludovico Gonzaga, inerente l’incarico per la costruzione del Sant’Andrea a Mantova, dove dice: “... Pensai e congetturai questo qual io vi mando. Questo sarà più capace più eterno più degno

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più lieto. Costerà molto meno. Questa forma de tempio se nomina apud veteres Etruscum sacrum. Sel ve piaserà darò modo de rectarlo in proportione...”. Il pensai et congettai, come passaggio dalla precognizione intuitiva dell’idea alla sua chiara e precisa individuazione e nominazione, apud veteres Etruscum sacrum, produce un primo disegno o schema astratto del tempio proposto dall’Alberti e spedito al prestigioso committente. E’ un momento delicatissimo della “vita delle forme” architettoniche, sospese ancora a metà strada tra quella che Quaroni chiamava razionalità profonda e la concretezza dell’averle già nominate, analizzate e fermate sulla carta in forma disegnata o scritta. Non vi è in questo frangente grande accoglienza per improvvise ispirazioni e seppure d’altro canto sia impossibile parlare di una lucidità assoluta che faccia derivare logicamente un pensiero da un altro, l’atto creativo albertiano al quale facciamo tutt’oggi riferimento è essenzialmente anti istintivo, rigoroso e prettamente architettonico. Al suo interno è già configurata l’idea come idea dello spazio del tempio di Sant’Andrea e una volta stabilita la sua conformità rispetto al piacere del Principe, sel ve piaserà, l’architetto avrà cura di proporzionare ciò che ha pensato, darò modo de rectarlo in proportione. Per un umanista la ricerca attenta e costante del rapporto di consonanza fra l’edificio immaginato e la legge di costruzione generale del creato si attua per mezzo del proporzionamento, che assoggetta le diverse sostanze del racconto al raggiungimento della più assoluta armonia e regola con la venustas le spinte centrigughe di firmitas e utilitas. Il luogo di giacitura degli oggetti proporzionati è il piano e la sua dimensione sensibile è manifestata per mezzo del disegno architettonico dei tre piani orizzontale, verticale esterno e verticale interno concepiti unitariamente e in rapporto numerico fra loro. L’aridità grafica dei tracciati albertiani, palladiani o peruzziani, specchio di una massima concentrazione sull’idea non solo sostanzia la differenza fra il disegnare dell’architetto da quello del pittore, ma costituisce una lezione atemporale di etica compositiva. Se è innegabile la distanza che segna il nostro rapporto con le opere del passato, questa non risiede che nelle forme e nel legame che le stringeva al loro significato, mentre la necessità dell’architettura e dell’ordine mentale che nel corso della storia le ha prodotte ai fini della creazione di spazi e luoghi costringe al futuro come la tempesta del Paradiso spinge al volo di spalle l’angelo benjaminiano. Così il tempo è questione determinante ma che non si pone mai come coincidenza fra costruzione del nuovo e progresso tecnico-edilizio o stilistico, semmai come ossessione intorno all’inadeguatezza e all’intercambiabilità contemporanea dei segni, delle forme, delle immagini, tutte presenti indistintamente alla nostra memoria in una rumorosa “archeologia del presente”. I pezzi infranti della concinnitas albertiana possono puntellare oggi questa inadeguatezza radunandosi intorno al concetto di figurazione. Con essa il comporre architettonico tiene insieme quelle idee di spazio oggi praticabili e concepibili come figure senza voler pretendere di farsi ancora una volta discorso compiuto e significante se non all’interno della continua costruzione della tecnica compositiva stessa. L’idea precognizzata è figura, non potendo essere chiarezza assoluta e nominabi-

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lità, in quanto come sosteneva Vico è una piccola favola che lega insieme l’armonico con l’eterogeneo, procede nella narrazione di più storie che forse non potrebbero stare vicine altrimenti, salta la dimensione letterale e tautologica del linguaggio portandolo oltre in quella intermedia della memoria dove gli oggetti, per noi le diverse idee di spazio, si trovano contemporaneamente in uno stato di conflitto e di consonanza fra loro. La figura sottoposta a variazione, verifica del rapporto fra dimensione e figurazione come appropriatezza delle accezioni sensibili degli oggetti rispetto al tema, della rispondenza fra spazi immaginati e bisogni del programma, è forma definita nel disegno piano che si sviluppa sino all’eseguibilità della costruzione. Il disegno concepito come pensiero è strumento che non interessa in quanto tecnica restitutiva a posteriori della formazione dell’oggetto, poiché così coinciderebbe assurdamente con il rilievo metrico di un edificio soltanto immaginato, ma come meccanismo di ragionamento a priori con cui il compositore vede, quindi conosce, analizza, manipola e trasforma i materiali figurali della storia in nuove forme spaziali, in uno sviluppo che è composizione in quanto forma del processo di progetto. E’ certo enorme la forza centrifuga posseduta dalla questione del disegno, soprattutto quando viene vista come problema grafico: l’applicazione sui materiali figurali delle tecniche formaliste contemporanee fa illudere taluni che esse da mezzo diventino scopo e soggetto unico d’insegnamento, oggettivandosi come “risultato” del processo ideativo e grimaldello per scardinare i confini fra ciò che è architettonico e ciò che non lo è. Eppure questo anelito verso la pittura, la scultura, l’elaborazione elettronica di immagini e finanche verso prove di land-art o di opere d’arte cosiddette globali, contrariamente a quanto si pensa consente con la “novità” e l’attivismo che lo contraddistingue di scaricare lo studioso della composizione dalle onnipresenti aspettative di rinnovamento disciplinare e di consentirgli di fare il mestiere con costanza quotidiana. Egli in questo modo valuta gli elementi estetici, funzionali e quantitativi rispetto alla forma mentale e organizzativa del processo compositivo e ne calibra il peso (dimensione-figurazione, proporzionamento, etc.) per fare in modo che valgano quel tanto che consente una maggior precisione possibile nella definizione dell’idea di spazio pensata. Il disegno costituirà l’espressione visibile di questa metamorfosi che parte e ritorna in essa, mostrando le tracce dell’iniziale accumulazione di indizi rivelatori della sua possibile determinazione, le strade sbagliate, i ripensamenti e le difficoltà del compito, sino a quando l’esperienza ed il talento avvertono più chiara la giustezza di una direzione. “L’INFINITO” GADDIANO: METAMORFOSI DI UN’IDEA Non deve apparire scontata la scelta del Dottorato di cimentarsi a distanza di cinquant’anni con il tema della sostituzione di una parte dell’edilizia storica fiorentina, la stecca di via De’ Bardi uscita distrutta dalla guerra e poi ricostruita, e più in generale con la Firenze antica. La plausibilità solo teorica degli interventi studiati, rispetto alle condizioni attuali di gestione del patrimonio urbano, ha consentito di traslarne il valore tutto nel raggiungimento dello scopo di costruzione

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disciplinare e di exemplum didattico ricavato da condizioni al contorno ideali e prefissate. L’importanza di un luogo eccezionale, anche perchè teatro principale della sconfitta dell’architettura moderna a Firenze, ha poi offerto seppure in maniera inconfrontabile per condizioni sociali e contingenti la verifica di una diversità operativa e culturale intorno all’architettura della città fra il presente atteggiamento e la cosiddetta “scuola fiorentina”. Una volta ritenuto più opportuno puntare l’attenzione su contenuti funzionali specialistici e non residenziali, si è intrapresa la strada di concepire una addizione al sistema mediceo-vasariano che lega la piazza della Signoria al giardino di Boboli. Ci siamo avvicinati al tema con un bagaglio di conoscenze già fortemente segnato dai grandi muri fiorentini di ogni epoca, quelli sull’Arno nei pressi di San Niccolò articolati da torri e contrafforti a picco sull’acqua, fatti di pietra da Arnolfo sui crinali di Boboli e di marmo a Santa Maria del Fiore, contrapposti e gemelli oltre il tempo negli absidi vetrati di Santa Maria Novella e della Stazione. Muri che seguono il fiume come quelli medievali di via San Niccolò e muri che si sdoppiano e puntano lo spazio interno degli Uffizi dritto verso l’acqua, che aggregano cellule proporzionate di spazio quattrocentesco negli Innocenti brunelleschiani e fanno nascere il nuovo foro della città, tutto spazio interno come nella Laurenziana terminante nell’irrealizzato ricetto dei libri rari o limite di definizione interno-esterno nel Santo Spirito non costruito. Una Firenze sognata attraverso un sogno figlio di una determinazione ordinata: “... se una Ragione sognasse, dura, eretta, con l’occhio armato e la bocca chiusa, come padrona delle proprie labbra, non sarebbe, quel suo sogno, ciò che noi ora vediamo, questo mondo di forze esatte e di illusioni studiate? Sogno, sogno, ma sogno tutto penetrato di simmetrie, tutto ordini, tutto atti e sequenze!...” come ha scritto Paul Valèry. La metamorfosi di questa ragione delle idee si svolge per mezzo del disegno, che produce e crea la variazione delle mutue relazioni fra le componenti di cui sono formate (essenzialmente il tipo di spazio, cioè il vuoto, poi canonicamente la costruzione, il funzionamento, gli elementi linguistici, etc.). Così un primo blocco di questo processo si è concentrato sulla disposizione in parallelo al fiume di due doppi muri, su via De’ Bardi e sull’Arno, serventi un unico spazio interno, longitudinale terrazzato come un giardino su tre livelli e “disturbato” nella sua continuità dalla disposizione di oggetti funzionali come corpi scale in diverse configurazioni. Le due grandi pareti di differente altezza sorreggenti la continua falda inclinata della copertura sono esse stesse due lunghi corpi di fabbrica che raddoppiano la via e si presentano come edifici fiancheggianti una nuova strada coperta, che inizia e finisce con uno spazio in forma di piccola piazza accolta nell’edificio e posta in continuità con gli spazi compatti presenti intorno alla Torre De’ Mannelli e con lo slargo di Santa Maria Soprarno davanti alla Loggia degli Uffizi. Il rapporto con l’architettura urbana tradizionale, oggetto principale della discussione nel famoso concorso del dopoguerra, ha portato alla sperimentazione di elementi fortemente caratterizzanti gli spazi delle strade fiorentine e i lungarni, come l’ampio tetto che analogamente alle cattedrali conventuali

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del Duecento, oppure ai distrutti Tiratoi dell’Arte della Lana, è insieme unificatore dello spazio interno e chiaro segnale nello sky-line urbano, come le torri sul fiume, le superfici intonacate e le finestrature dell’edilizia residenziale, le logge etc. L’ordine che unifica questi elementi nello stato di variazione raggiunto viene assunto come una specie di nuovo luogo, in cui effettuare la continuazione e l’affinamento delle relazioni trovate e quindi scarti, deviazioni o ripensamenti si impongono sui temi che paiono principali. La capacità di queste figure di connettersi con modalità differenti o di contaminarsi reciprocamente ed in forza di ciò ricrearsi, ha fatto nascere una maggior precisione sulle qualità delle idee di spazio pensate. La citazione medievaleggiante del muro sull’acqua di San Niccolò, valida per se stessa come oggetto, cede il passo all’invenzione del vuoto sul fiume come nuovo forum urbano completato dalla costruzione di un doppio loggiato, come risposta “sangallesca” al frontistante vasariano Lungarno degli Archibusieri. Sotto la linea orizzontale della copertura ora a sbalzo sul telaio loggiato emerge, quasi a rispettare una simmetria ponderale fra le rive dell’Arno, una costruzione muraria piena fondata parzialmente sull’acqua come la loggia trasparente degli Uffizi e orientata ortogonalmente al fiume sulla traccia della piccola Costa del Pozzo discendente dalla collina. Con un ribaltamento dei valori spaziali della loggia vasariana questo elemento concepito come Biblioteca rovescia su via De’ Bardi il diaframma traforato e lo trasforma nel contemporaneo abside vetrato della Stazione incastonato nel muro di pietra forte. Colui che camminasse sulla Costa San Giorgio e si affacciasse in basso verso il fiume vedrebbe quindi questa specie di facciata di vetro stretta fra due alte pareti, come chi percorre via Maitani sbatte letteralmente sui marmi della Cattedrale di Orvieto. Il cambiamento degli equilibri del luogo a partire dalle architetture del luogo stesso pone questa volta come “posteriore” l’individuazione dell’idea di spazio interno, tradizionalmente generatrice di tutta l’organizzazione dell’edificio, assegnando questo valore allo spazio urbano così relazionato. Per una strana coincidenza degli opposti il processo ha portato così a parlare dell’esterno urbano come interno dell’edificio, albertianamente delle sue “stanze” in quanto stanze della città, e dell’interno effettivo di nuovo ciclicamente come strada, via percorribile, suscitando l’innesco di possibili nuove relazioni fra gli elementi trovati come incapacità-impossibilità, nel nostro ambito di studio, di pervenire ad una conclusione definitiva, in quanto la non linearità o addirittura le contraddizioni della narrazione sono la conseguenza del groviglio che lega ogni evento alle sue molteplici cause in un movimento continuo e inestricabile, “infinito” come un testo gaddiano, di cui Calvino disse: “... E’ il ribollente calderone della vita, è la stratificazione infinita della realtà, è il groviglio inestricabile della conoscenza ciò che Gadda vuole rappresentare. Quando questa immagine di complicazione universale che si riflette in ogni minimo oggetto o evento è giunta al parossismo estremo, è inutile chiederci se il romanzo è destinato a restare incompiuto o se potrebbe continuare all’infinito aprendo nuovi vortici all’interno di ogni episodio...”

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“L’architettura è scaduta ad arte grafica per colpa degli architetti... Il miglior disegnatore può essere un cattivo architetto, il miglior architetto può essere un cattivo disegnatore... Ma è orribile se un disegno di architettura mostra di voler essere preso in considerazione già in quanto capolavoro grafico e tra gli architetti ci sono dei veri artisti grafici... Oggi domina il libero interprete. A determinare le forme dell’architettura non è più lo strumento di quell’arte, ma la matita” (A. Loos). “L’architettura nel suo complesso si compone del disegno e della costruzione... La funzione del disegno è dunque di assegnare agli edifici e alle parti che li compongono una posizione appropriata, una esatta proporzione, una disposizione conveniente e un armonioso ordinamento di modo che tutta la forma della costruzione riposi interamente nel disegno stesso... Si potranno progettare mentalmente tali forme nella loro interezza prescindendo affatto dai materiali: basterà disegnare angoli e linee definendoli con esattezza di orientamento e di connessioni. Ciò premesso, il disegno sarà un tracciato preciso, uniforme, concepito nella mente, eseguito per mezzo di linee ed angoli e condotto a compimento da persona dotata di ingegno e di cultura” (L. B. Alberti). “L’esibire modelli colorati, o resi attraenti da pitture indica che l’architetto non intende già rappresentare semplicemente il suo progetto, bensì per ambizione cerca di attrarre con l’esteriorità l’occhio di chi guarda... per riempirlo di meraviglia. Tra l’opera grafica del pittore e quella dell’architetto c’è questa differenza: quella che si sforza di fare risaltare sulla tavola oggetti in rilievo mediante le ombreggiature e il raccorciamento di linee e di angoli; l’architetto invece, evitando le ombreggiature, raffigura i rilievi mediante il disegno in pianta e rappresenta in altri disegni la forma e l’estensione di ciascuna facciata e di ciascun lato servendosi di angoli reali e linee non variabili: come chi vuole che l’opera sua non sia giudicata in base ad illusorie apparenze, bensì valutata esattamente in base a misure controllabili” (L. B. Alberti). La richiesta del Dottorato, i suoi scopi, muovono dalla grande crisi epocale dell’antico mestiere progettuale, crisi a cui la situazione attuale del disegno contribuisce con l’ampio spettro di ambiguità prodotto dalle illusioni e tradimenti del contemporaneo mondo dell’immagine e del consumismo. “Oggi siamo bombardati da una tale quantità di immagini da non sapere più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta di strati di frantumi, di immagini come depositi di spazzatura dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo” (I. Calvino). Nell’odierna babele, ove regna un meticciato linguistico che farebbe sorridere la generazione del primo Rinascimento nella sua polemica contro i “goti” (il Filarete), obiettivo fondamentale del Dottorato è quello di tornare a riflettere sulle tradizioni, sui valori disciplinari sui modi di sviluppo e trasformazione del comporre architettonico, per poter riaffermare quanto il comporre sia sempre stato il nostro particolare modo di progettare. Il ruolo del disegno va ricostruito pure entro gli enigmi che la tempesta del moderno ha generato: l’ars-combinatoria, la concinnitas, sono la memoria di un ordine che può essere ricostruito dentro altre ragioni, entro nuovi orizzonti di senso. “La materia di incertezza una forma effimera... può mutare ciò che vuole in quel che vuole”, (P. Valéry) perseguendo quell’ordine mentale, esattezza, intelligenza della poesia e nello stesso tempo della

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scienza e della filosofia” (I. Calvino). Tornare a costruire correttamente è un altro obiettivo. Fuori dalle ansie retiniche, riscoprire “l’arte del costruire”, quello che il mondo tedesco chiama da sempre Baukunst che è “un costume morale, lo stile severo dell’architetto”, può dare ragione e giustificare con un senso preciso il disegno compositivo-progettuale anche nel campo della esecutività. Qui il disegno può tornare ad essere realtà oggettuale prodotta da un processo ideativo conoscitivo che descrive lo spazio nelle sue fasi di progetto. In tale ottica esso è ciò che aiuta a costruire e a “rendere architettonico un pensiero”: questo è il messaggio inequivocabile degli antichi maestri come dei maestri moderni. Se il disegno è scrittura architettonica di una idea, il suo sviluppo è manipolazione- trasformazione e anche forma del processo di progetto, forma delle relazioni, quindi proprio per questo è composizione: la forma dello scrivere. Il legame tra idea ed esecuzione trova nel disegno compositivo la sua forma, nell’iter progettuale il suo sviluppo generalizzato alla costruzione di uno spazio misurato. Per l’architetto questo particolare modo di disegnare non sarà necessariamente attività artistica né, tantomeno prodigio della mano. La costruzione e l’esecuzione impongono la necessità di disegnare, quindi progettare e comporre, “forme in ordine” (L. Kahn), comprensibili, perché poi siano eseguite. La convinzione della necessità di dover recuperare il carattere intellettuale della creazione architettonica fin nei suoi esiti di arte del costruire, impone all’esperienza del Dottorato di recuperare la possibilità che il disegno torni ad essere “forma mentale” forma del pensiero architettonico, cioè la figura o il tema che si proietta nell’oggetto formato e quindi “idea e forma delle cose” (G. Vasari). Il Dottorato si articolerà in attività seminariali e di laboratorio progettuale per poter conseguire gli obiettivi stabiliti. Tale attività consentirà di precisare il quadro teorico, approfondirlo ed arricchirlo con il contributo di esperienze individuali e collegiali. In relazione a ciò il Dottorato ha previsto un Collegio di Docenti capace di proiettare gli studi compositivi, storici, urbani da un ambito di esperienze strettamente fiorentine, verso esperienze esterne sia di studio che progettuali. I seminari e la didattica si articoleranno negli anni per letture compositive e per progetti. Al fine di poter approfondire la coscienza progettuale della figura del ricercatore in merito alla diversità ed individualità del comporre architettonico, che da sempre segna e distingue il progetto di architettura dal generale progettare, il Dottorato è teso ad esplicitare la dizione “Figure del comporre” entro un campo di esercitazione teorica e progettuale costituito da letture di figure e forme appartenenti alla tradizione disciplinare dell’ars-combinatoria ed individuate nella logica di precise scelte tematiche. Tali analisi della forma che il processo di progetto ha via via assunto in rapporto ai temi, è condizione tradizionale del comporre architettonico, il suo essere “scrittura” o prodotto di “cognizione per comparazione”. Diverse dalle letture storiche filologiche tradizionali tali analisi saranno soltanto storia del progetto, del suo formarsi al di là delle sequenze temporali e dei vincoli della filologia. La storia delle forme, del loro sviluppo e trasformazione sarà un “historia altera” di carattere compositivo progettuale che l’analisi dovrà sviluppare, senza tentazioni letterarie, con l’unico vincolo disciplinare di uso dell’ottica delle Figure del comporre. In generale il Dottorato affronterà tale problema entro quei limiti dove “ars-combinatoria”, o variazione compositiva, è stata disciplinariamente applicata tra le soglie opposte ma complementari di NORMA e LICENZA in relazione ai principi di armonia e di unità sui quali la composizione classica fu fondata, ma anche nei rapporti instaurati tra “concinnitas” e ambiguità e complessità del mondo moderno e contemporaneo. Per norma, si intende la concinnitas albertiana con tutti i suoi sviluppi, le sue trasformazioni e le implicazioni di misura, di regole, di ordine, di equilibrio e di disegno, che l’architetto analizza accanto alla maniera o all’artificio per ridurre il diverso all’identico, la complessità all’unità. All’interno del concetto di licenza, rientrano tutti quei temi di trasgressione, di dissonanza, strettamente comuni alla norma, senza i quali la “varietas”, sempre albertiana, non segnerebbe più nessuna complessità nell’unitarietà della forma. Ma la licenza, nei tempi moderni e contemporanei, non solo è divenuta insanabile contraddizione, contaminazione, ma anche distacco, rottura dell’antica norma, o struggente desiderio della stessa anche nei momenti di inganno, di silenzio dove i relitti, i frammenti di una perduta unità vanno ricomposti verso un ordine ed una misura diversi. La “venustas” della forma compositiva del progetto deve anche oggi mediare e risolvere, trasformandosi, il rapporto con “utilitas” e “firmitas”, entro una forma che all’antica unità sostituisca “l’unità dei distinti” (Goethe). Le analisi o letture progettuali compositive, sia di testi antichi che moderni o contempora-

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nei avranno come obiettivo di fondo da un lato l’approfondimento del pensiero architettonico, dall’altro il ritrovamento di una sua precisa scrittura in termini di forma compositiva, di processo di progetto dove il disegno architettonico dello spazio venga analizzato nei suoi due aspetti di ideazione e di eseguibilità progettuale. Ritornare ai disegni architettonici, alle opere degli antichi maestri significa recuperare il disegno come analisi e progetto, cioè materiale di studio e di riflessione dove sono valori per il disegno stesso, problemi di ordine di misura, di dimensione-figurazione...” di seste negli occhi”. Obiettivo è costruire un pensiero progettuale radicalmente diverso da ciò che la realtà attuale induce a considerare tale nell’ottica di pubblicazioni e riviste, ritenute oggi erroneamente l’unica possibilità di studio architettonico. “Anticamente moderni e modernamente antichi” come Pietro Aretino sottolineava a proposito di Giulio Romano, “la vocazione alla rottura e alla disgregazione” si compie cercando “instancabilmente di trasformare la modernità in tradizione” (Q. Principe) per Hofmannstahl, quanto per Loos o per l’ultimo Terragni, oppure considerando “la forma come argine” (M. Mila) contro “l’orrore dei nuovi barbari”, “come autodisciplina severamente imposta per accettare dignitosamente la condizione umana” (M. Mila). Tali condizioni disciplinari sono valide come possibilità di lettura progettuale attraverso la quale l’esperienza dell’antico, rivissuta attraverso il moderno e il contemporaneo, consentirà di tornare a riflettere sull’arte del comporre come concatenazione logica del campo delle variazioni possibili, sull’aggregazione, trasformazione degli spazi, sulla sintassi delle figure e forme. Per perseguire lo scopo generale di recuperare il disegno architettonico dentro gli obiettivi descritti, il Dottorato, sorta di laboratorio o di scuola di specializzazione in Composizione Architettonica, si articolerà secondo due attività tra loro complementari: di stesura di progetti tematizzati e letture compositive. Non esistendo metodi e comportamenti generali, validi universalmente, l’indicazione da parte del Dottorato stesso di Figure e temi di esercitazione precisi, consentirà il confronto tra i diversi risultati progettuali. L’azione contemporanea delle letture compositive tematiche favorirà la formazione di un pensare architettonico che troverà nella stesura dei progetti stessi il necessario approfondimento e componimento. La definizione di un primo arco di questioni generali in merito alle “Figure del comporre” a livello sia progettuale che di letture, sarà uno dei primi impegni da affrontare e definire. L’antica sequenza retorica di analisi per temi dell’unità della forma di inventio dispositio elocutio si è trasformata, “Le affinità elettive”, preludio all’ambiguità del moderno, sono lì a dimostrarlo. Oggi l’assenza di tale unità, mai dimenticata, il suo desiderio, anche dopo il “punto e a capo” tentato dalle avanguardie, torna a farsi pressante; una diversa unità, segnata da una “ragione diversa”, va ricercata entro quell’orizzonte indicato da Italo Calvino “...Ogni vita è una enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionano di stili dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato...”

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