Firenze Architettura 2006-1

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Il frammento

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firenze architettura

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ISSN 1826-0772

architettura FIRENZE

Periodico semestrale Anno X n.1 Euro 10 Spedizione in abbonamento postale 70% Firenze copertina p67ISSN3

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Il frammento


In copertina: Frammento di capitello della chiesa di San Pier Scheraggio inglobato nella facciata degli Uffizi in via della Ninna foto Massimo Battista

Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura viale Gramsci, 42 Firenze tel. 055/20007222 fax. 055/20007236 Anno X n. 1 - 1° semestre 2006 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 ISSN 1826-0772

In vendita presso le librerie:

Direttore - Marco Bini Coordinamento comitato scientifico e redazione - Maria Grazia Eccheli Comitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Paolo Zermani Capo redattore - Fabrizio Rossi Prodi, Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Giorgio Verdiani, Claudio Zanirato Info-grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Gioi Gonnella tel. 055/20007222 E-mail: progeditor@prog.arch.unifi.it.

Libreria Alfani via Degli Alfani, 84r Firenze Libreria LEF via Ricasoli, 105/107 Firenze

Proprietà Università degli Studi di Firenze Progetto Grafico e Realizzazione - Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare febbraio 2006

Libreria CLUVA Santa Croce, 191 Venezia

*consultabile su Internet http://www.unifi.it/unifi/progarch/fa/fa-home.htm

copertina p67ISSN3

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architettura FIRENZE

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editoriale

Il frammento come realtà operante Franco Purini

percorsi

La dimora dello sguardo Giovanni Chiaramonte

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progetti e architetture

Paolo Zermani Cappella della Madonna a Noceto Silvia Catarsi

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Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola Frammenti di una genesi

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Adolfo Natalini (Ri)composizione urbana: Adolfo Natalini a Zwolle Fabrizio Arrigoni

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Loris Macci e Alberto Breschi Frammenti di una narrazione Fabio Fabbrizzi

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Ulisse Tramonti con Cristiano Biserni e Alessandro Lucchi Elementi sottratti alla storia Fabio Fabbrizzi

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Flaviano Maria Lorusso e Alfredo Vacca Ri-generazioni Flaviano Maria Lorusso

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Alvaro Siza Vieira e Roberto Collovà Piazza Alicia e Chiesa Madre a Salemi Roberto Collovà

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Francesco Venezia Il trasporto di un frammento

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Gregotti Associati International Headquarter Pirelli a Milano Vittorio Gregotti

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Frammenti della Firenze romana Marco Bini

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Permanenze dei tracciati antichi come substrato del tessuto urbano attuale Gian Luigi Maffei

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il frammento in architettura

ricerche

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Frammento: racconto per architetti Maria Teresa Bartoli

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Frantumi di spazio Roberto Berardi

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La Colonna del Filarete sul Canal Grande. La lezione di Aldo Rossi e l’uso del frammento Tomaso Monestiroli

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Il Giardino dei Passi Perduti: Peter Eisenman vs Carlo Scarpa Michelangelo Pivetta

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Il Tempio di Gerusalemme: dallo spazio sacro alla sua negazione Luca Mazzinghi

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La poetica del frammento nella musica del Novecento Giancarlo Cardini

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Frammento Fotogramma Montaggio: a partire da un saggio di Roland Barthes Giuseppe Panella

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eredità del passato

Hotel Minerva a Firenze: Edordo Detti e Carlo Scarpa 1958-61 Francesca Mugnai

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eventi

Ricordare, mettere in opera, mostrare Francesco Collotti, Giacomo Pirazzoli

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Ein wunderbares Palimpsest. Scolii ai Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer Fabrizio Arrigoni

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Sulla ricostruzione del Teatro del Mondo di Aldo Rossi Francesco Saverio Fera

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Tomaso Monestiroli, Francesco Collotti, Fabrizio Arrigoni, Claudio Zanirato, Michele Dantini, Giacomo Pirazzoli, Francesca Mugnai

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riflessi

letture a cura di:


Il frammento come realtà operante Franco Purini

Ci sono momenti nell’esistenza in cui il tempo e l’estensione sono più profondi, e il sentimento dell’esistenza è immensamente aumentato. Charles Baudelaire

Nonostante la predilezione che dimostrano nei suoi confronti molti tra gli architetti più inclini alla ricerca nonché e all’indagine introspettiva la nozione di frammento è piuttosto difficile da definire. In essa confluiscono infatti atmosfere letterarie, motivi figurativi, tematiche concettuali, risonanze esoteriche, in una ambigua e ibrida combinazione di elementi razionali, di diversioni allusive di valori metaforici e di illuminazioni improvvise. Configurandosi come uno dei più frequentati e complessi crocevia problematici la nozione di frammento si rivela per questa sua stessa costituzione come il luogo di accumulazione e insieme di decantazione di una pluralità di orientamenti teorici, di attitudini analitiche e di pratiche compositive. Inverato in architettura soprattutto nella rovina e nella sfera di contenuti da questa attivata, il frammento pone in prima istanza la questione fondamentale della relazione tra la parte e l’intero e, successivamente, l’altra non meno importante del rapporto tra l’intero e il tutto. La parte non è infatti un frammento, o non lo è completamente fino a che non contiene virtualmente l’intero. Ma anche l’inclusione ideale dell’intero in una parte non basterebbe a fare di questa un frammento se la parte stessa non recasse il segno sacralizzante di una violenza, le stimmate di un trauma attraverso il quale essa accede e un livello semanti-

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co più alto di quello che normalmente occupa nella compagine costruttiva quando questa è intatta. In una parola, solo se un’architettura costruita rappresenta se stessa in negativo, contraddicendo il proprio essere, una costruzione viene colta veramente nella sua identità concreta, elevandosi così a quel piano del significato appena evocato, un significato intriso di una intenzionalità. In tale livello si rivela pienamente l’identità tettonica del manufatto in quanto identità diminuita, identità resa mancante da un’azione volontaria di distruzione. L’assenza della pienezza letteraria è dunque la premessa perché esista una riconoscibilità e una coerenza dell’azione costruttiva, che è sempre compresa per mezzo del suo contrario. Da questo punto di vista il frammento è il luogo di un’ontologia del costruire come un processo asintotico di un compimento costantemente differito, un compimento che non può darsi fino in fondo perché davanti a sé trova sempre gli ostacoli di un eccesso di precisione tecnica e un sovraccarico di alternative percepibili e precisione tecnica e sovraccarico di alternative che gettano in una crisi insolubile la pretesa razionalità unificante del costruire. Nel delimitare nel modo teoricamente più proprio lo spazio discorsivo del costruire come spazio di fatto inattingibile nella sua completezza, il frammento si presenta come una realtà duale. Per un verso esso può testimoniare una integrità perduta, che pone il problema della sua ricostituzione o della sua accettazione, per l’altro il frammento può provenire da una costruzione mai terminata, nel qual caso può esprimere il desiderio che l’edificio di

era parte venga ultimato o lasciato in una condizione di non finito. I percorsi fin qui accennati, disposti peraltro secondo un disegno labirintico, che è già di per sé fonte di un grande piacere mentale non indenne da venature di preoccupata attesa,- percorsi pensati per l’edificio ma validi anche per la città- portano al problema della distinzione tra l’intero e il tutto. Ciò che è intero parla di se stesso come corpo, come qualcosa di riconoscibile in quanto integro, e albertianamente necessario a se stesso nelle sue parti, almeno fino a un certo punto; ciò che si configura come un tutto è sicuramente un intero, ma un intero che incorpora una componente cosmica contenendo, per così dire, una moltitudine di configurazioni alternative. Tra l’intero e il tutto interviene quindi uno scarto logico in qualche modo incolmabile, una differenza sostanziale che non può essere compensata se non tramite un nutrito seguito di approssimazioni. Tuttavia, se è vero che il frammento ha in se l’intero è anche vero l’opposto, e cioè che l’intero si propone come grande frammento, come un’unità la quale ospita la violenza di una calcolata asportazione chirurgica. L’intero è inoltre in grado di produrre frammenti, ma questi frammenti rimandano solo a ciò da cui provengono; il tutto non può dar luogo a frammenti ma solo ad altre totalità. Per questo il frammento è ciò che è colmo di una interezza potenziale che aspira alla totalità come trascendimento di sé. Alla tensione evocativa dell’unitarietà espressa dal frammento si associano, quasi per un’assonanza logica, i temi


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1 Franco Purini Nodo disegno dalla serie Frammenti (1988) Pagine successive: 2 Franco Purini Modanatura Intermedia disegno dalla serie Frammenti (1988) 3 Franco Purini Modanatura Primaria disegno dalla serie Frammenti (1988) 4 Franco Purini Scorrimenti Verticali disegno dalla serie Frammenti (1988) 5 Franco Purini Quadrati disegno dalla serie Frammenti (1988)

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dell’unità e dell’unicità. Ciò che è unitario nel senso di completo come oggetto può non altrettanto rientrare nella categoria dell’unità in quanto attributo di una organicità strutturale: quando ciò avviene l’oggetto dotato di unità è a volte anche unico, nel senso che esso rientra nel genere dei manufatti eccezionali e irripetibili. Rispetto al frammento di uno dei tanti templi greci un resto del Partenone racchiude in più, il segno di una discendenza speciale che ne moltiplica già straordinario magnetismo, quel corrispondersi gravitazionale di tettonica, e diplomatica e di diverse estraneità al luogo che aveva affascinato il giovane Le Corbusier del Voyage en Orient. Si è già detto che il frammento, che non ha molto a che vedere con gli oggetti che provengono dal mondo della frattalità matematica, non è una parte. L’ala di un edificio può essere idealmente separata dal resto del manufatto, e per questo è una sua parte, ma non basta che lo sia fisicamente per diventare un frammento. Perché ciò si verifichi occorre che la linea di distacco che la al-

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lontana dal corpo dell’edificio si carichi di contenuti specifici, rivolti al campo semantico proprio dell’interruzione violenta e irreversibile della continuità. Ma se la parte non è di per sé un frammento non lo è neanche la componente o l’elemento. I pezzi che Aldo Rossi utilizza nella sua poetica e logica ars combinatoria non sono frammenti, ma entità autonome capaci di stabilire connessioni con altre entità analoghe, in maniera analoga ai moduli tipologico-formali durandiani. Continuando con questa veloce rassegna di distinzioni, c’è da ricordare che il frammento non si identifica neanche con ciò che viene colto velocemente nella contemporanea view from the road, quell’esperienza cinetica, resa possibile dall’automobile, una esperienza soprattutto visiva ma in senso più ampio globalmente sensoriale, articolata in sequenze di inquadrature autonome ma non facilmente isolabili, rese coerenti nella loro della memoria. Le singole inquadrature che si intercettano attraversando la città sono senz’altro frammentarie, ma non si possono con-

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siderare propriamente come frammenti nel senso dell’esito di sezionamenti prodotti da una consapevole volontà analitica. La stessa cosa si può dire per i materiali parziali e interrotti che si adoperano in quella modalità del comporre che è ispirata alla trasposizione nell’architettura delle tecniche del montaggio cinematografico. Al frastuono che si accompagna alle due ultime pseudo forme di frammento, forme immerse nel flusso delle metropoli, si oppone il silenzio che contraddistingue il frammento in quanto segno di una integrità corporea perduta o ancora da conquistare, un’integrità che, sia quando la si voglia ritrovare sia quando si desideri che essa venga conseguita per la prima volta, la propria endemica e fondativa transitorietà. In una accelerazione eraclitea il frammento intercetta nell’istante l’eternità. La diffusa predilezione per il frammento, alla quale si è fatto cenno all’inizio di questa nota ha più di una motivazione. La prima è di natura estetizzante, e si risolve in un gusto per il prelievo di


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dettagli precisi, isolati con opportuni rituali. Si preferisce il frammento perché si scopre che a causa di una sopravvenuta sazietà, non si vuole o non si è più capaci di misurarsi con un intero testo. Di questo si selezionano allora solo alcuni brani, in una ricerca spesso estenuata di un accento particolare, di una liberazione unica, di una sensazione irripetibile. Ma si può essere per il frammento anche perché si ritiene impossibile, inutile e forse frutto di superbia avere a che fare con qualcosa di intero. Si pensa in questo caso al frammento non per passati eccessi interpretati che hanno provocato una sorta di assuefazione ma per una scelta di relativismo e di un moralistico ridimensionamento di ambizioni conoscitive. La vera motivazione si riconosce nel fatto che il frammento interiorizza sempre una temporalità. Una temporalità drammatizzata che racconta, come nella pittura di paesaggio costellata di rovine o nelle incisioni piranesiane, la sconfitta delle ambizioni umane decretate dal tempo che lentamente disfa ogni risultato delle azioni costruttive,

facendolo rientrare con meditata pietas nel comprensivo grembo della natura. Presente oltre che nella pittura e nell’architettura nella letteratura -da Francesco Petrarca a Joaquim du Bellay- questa componente reca in sé un che di definitivo e rammemorante, prestandosi a considerazioni, profonde quanto gratificanti, sulle cose ultime. Tuttavia la temporalità non agisce solo come un fattore di degradazione entropica dell’integrità. Il frammento non è soltanto l’effetto della caducità genetica dell’architettura. Esso è anche l’esito di una concentrazione tematica che solo il trascorrere dei decenni e dei secoli è in grado di produrre. In questo senso il frammento non è soltanto un’importante sintesi del manufatto originario che gioca sulla magica sparizione di questo, ma anche un accumulatore concettuale e iconico che densifica e accelera i contenuti di un edificio. La quarta motivazione discende da un fenomeno al quale è soggetto ciascun manufatto umano appartenente alla sfera dell’arte. Un’opera attraversa nella sua esistenza, a volte

molto lunga, più di un ciclo del proprio significato. I suoi valori durano per un certo periodo alla fine del quale essi, spesso improvvisamente, subiscono una caduta verticale quasi annullandosi, in una sosta di stato afasico. Occorre allora che tali valori, pervenuti al loro momento critico, sono integralmente riformulati. All’interno di questo fenomeno il frammento è il nucleo tematico del quale è possibile muovere per ricostruire il sistema dei contenuti dell’opera, contenuti ovviamente messi in condizione di confrontarsi con un contesto problematico diverso da quello originario. La quinta motivazione della predilezione per il frammento, la più importante per gli architetti, considera il frammento stesso l’esito di un incidente analitico, come nelle crudeli operazioni di Gordon Matta Clark. Si tratta di produrre non tanto una situazione critica quanto una vera e propria catastrofe, anche se circoscritta, un collasso tettonico e architettonico che dia luogo a un residuo significativo, intermedio tra interezza residuale e dissoluzione completa.

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classico, Donato Bramante intercettava la potente domanda che i resti romani emanavano perché fossero fatti rivivere; allo stesso modo John Soane, facendo rappresentare il suo progetto da Joseph Michael Gandy come un insieme di ruderi, lo situava in una catena di antecedenze e di successioni con il risultato di storicizzarlo prima ancora che esso fosse realizzato; nella sua proposta per l’Acropoli di Atene Karl Friedrich Schinkel plasmava l’antico e il nuovo in una coerente immagine in cui tutto si corrispondeva; lo stesso Peter Eisenman, portando al punto di fusione elementi barocchi e memorie razionaliste scopre per il frammento il ruolo di catalizzatore alchemico chiamato a fare precipitare la composizione in un paradossale caos immobile.

L’incidente analitico è un fatto violento. Si tratta di una violenza necessaria perché, causando la perdita delle connessioni che legano le parti, nonché l’integrità delle stesse, è in grado di liberare le valenze imprigionate nell’assetto sistematico dell’edificio. Solo l’imprevedibilità della frattura prodotta dall’incidente analitico può rendere veramente visibile quella rete prima segreta di ostilità e di contraddizioni interne al manufatto che la ricopre come un cretto. All’intero di ogni edificio è in effetti in attesa un’orditura conflittuale che destruttura l’unita dell’oggetto architettonico. Il frammento, che è l’esito dell’incidente analitico e che rivela il disordine implicito di un’architettura, è l’entità minima nella quale sono presenti embrionalmente sia il principio tettonico sia quello plastico che essa contiene. In termini più semplici il frammento mette assieme indirizzi costruttivi e segni decorativi in una formulazione la più ridotta possibile, un’enunciazione che assume quindi il carattere di una concentrazione assoluta di articolazioni primarie. Proiettato su questo scenario il frammento, che è quindi più il prodotto di una precisa volontà, che non del tempo, si carica di valenze teorico-formali. Oltre quelle già esposte queste valenze riguardano un carattere primario delle attività costruttiva, ovvero il suo essere sempre la prosecuzione di qualcosa di precedente, il suo consistere in sostanza in una forma di riscrittura di un testo già composto. Il frammento è il simbolo più alto di questa essenza intrinsecamente continua del costruire. Interrogando a Roma, nei primi anni del cinquecento, i frammenti del sistema

Come ha scritto Vittorio Gregotti nel suo “Diciassette lettere sull’architettura”, il frammento è uno strumento attraverso il quale è possibile individuare, per tratti discontinui, il tramite tra noi e le cose. Seguendo questa indicazione il frammento sarebbe allora una realtà operante che scaturisce da un’interruzione premeditata della linearità del tempo. Solo per mezzo di un preliminare azzeramento di ogni avvicendamento naturale di fatti e di fenomeni il mistero del costruire può infatti rinnovarsi. A partire da una ideale anastilosi che vede la ricomposizione di resti architettonici, di principi, di memorie e di azioni costruttive - come è possibile constatare nelle opere di architetti come Dimitris Pikionis, Carlo Scarpa, Giorgio Grassi, Rafael Moneo, Juan Navarro Baldeweg, Francesco Venezia - il costruire può farsi luogo di una narrazio-

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6-7-8 Franco Purini Immagini edificio per uffici “Kubo” a Ravenna, 1997 9 - 10 Franco Purini e Laura Thermes Immagini relative alla Fermata dell’autobus a Poggioreale (TP), 1987

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Pagine successive: 11 - 12 - 13 - 14 - 15 Franco Purini Progetti per edifici lamellari, 1968

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ne erratica e poetica tessuta di valenze enigmatiche e, parallelamente, di intenzionalità ermeneutiche. Non tanto per il suo alone letterario di matrice prevalentemente romantica, ma per la seduzione visiva sprigionata dalle rovine con la sua potenzialità consolatoria in merito al tempo che tutto distrugge, quanto per la sua dimensione logica un carattere che gli deriva dalla simulazione concettuale della scomparsa della firmitas e della utilitas e della conseguente sopravvivenza della sola venustas, ciò che istituisce la figura del rudere - il frammento è forse il protago-

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nista più autentico di un pensiero dell’unità. Lungi dal risolversi in quel pittoresco caratterizzato dell’accumulo disordinato di elementi che è tipico delle architetture frammentarie, esso innesca infatti una reazione a catena di scelte compositive il cui risultato finale è un edificio intero che sa contenere le sue parti come alternative interne alle sue condizioni reali, alternative, sospese tra finitezza e infinità.


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La dimora dello sguardo Giovanni Chiaramonte

Prologo berlinese Io sono fotografo: sono quindi un uomo la cui identità è scrivere con la luce grazie ad una macchina; un uomo il cui compito è rappresentare il mondo, e il modo in cui l’uomo abita il mondo, attraverso un’immagine sindonicamente impressa dall’energia primigenia della natura stessa che la scienza, la tecnica, l’industria in secoli di elaborazione e di evoluzione mi consentono oggi di utilizzare in piena libertà creativa. Lo strumento della mia arte mi ha fatto così diventare testimone e complice del Moderno, perché la scrittura della luce che è la fotografia è stata resa possibile soltanto a partire dalla messa a punto dell’obbiettivo e del metodo scientifico fatti da Galileo. L’obbiettivo è infatti lo strumento che, confermando attraverso la visione l’ipotesi di Copernico e facendo scoprire la posizione fisica della terra e dell’uomo nello spazio e nel tempo dell’universo, ha aperto alla modernità la via della conoscenza e del dominio sulla natura. La mia visione dell’architettura scaturisce dalle ragioni del Razionalismo milanese, il quale ha insegnato a progettare e a costruire secondo l’interpretazione italiana del Moderno, in cui la forma come dato della storia diviene momento costitutivo dell’invenzione del nuovo. Una interpretazione polemicamente contestata nel corso del dibattito critico, come fa ancora recentemente Oriol Bohigas, il quale afferma di non credere “in un’ideologia architettonica mediterranea, e, ove questa possa essere individuata, si tratta comunque di un’ideologia reazionaria… Ogni qualvolta si faccia un riferimento al Mediterraneo si fa un riferimento antimo-

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derno, perché la modernità non è mediterranea, ma centroeuropea: i mediterranei hanno semplicemente imitato l’architettura moderna elaborandone una propria variante, essenzialmente climatologia, adatta alla struttura geologica e ambientale tipica di certe zone, ma nel momento in cui la mediterraneità ha assunto connotazioni ideologiche, queste sono state assolutamente antimoderne, o, riferendomi agli ultimi anni, postmoderne”. Io invece ho considerato la mia fotografia come opera del Moderno, secondo la declinazione iconica del Realismo, la quale, per quanto mi riguarda, è l’esperienza e la rappresentazione dell’infinito nel non determinato e nel non determinabile che è l’esistenza del mondo e dell’uomo nel suo essere evento, avvenimento, storia. Posso indicare col nome di realismo infinito, perché l’atto in cui l’immagine viene alla luce si genera in questa esperienza e con questa modalità di visione. Il realismo infinito è l’accoglienza dell’oggetto da parte del soggetto, e la comprensione dell’Altro da parte dell’io in una relazione che lascia entrambi nella loro irriducibile differenza e identità, ed è la trascrizione di ciò che è dato nel mondo davanti agli occhi e dentro gli occhi dell’uomo in immagine che lo rappresenta. Io credo che solo nella referenzialità dell’immagine al Reale come dato, si riesca ad evitare alla cultura del Moderno la riduzione a Ismo, la caduta in quel pensiero negativo, distruttore e iconoclasta, in azione nel secolo breve in maniera così tragica da far scrivere ad Alain Finkielkraut: “il Moderno è colui a cui il passato pesa. Il Sopravvissuto è

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1 Giovanni Chiaramonte Fondazione berlinese, Berlino 2003 2 Giovanni Chiaramonte Pantheon, Roma 1990 Pagine successive: 3 Giovanni Chiaramonte Monolite, Gela 1996 4 Giovanni Chiaramonte Geometria, Atene 1990 5 Giovanni Chiaramonte Archeologia, Tivoli 1990

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colui a cui il passato manca”. Nella mia esistenza il passato non è mai stato giudicato e rifiutato come un peso, ma accolto con la gioia e con la responsabilità dell’erede di un dono ed il tempo che passa è stato vissuto come una novità senza fine, perché il passato non è mai venuto meno nell’atto creativo del presente. La frase di Finkielkraut indica forse il giusto significato di una provocatoria affermazione di Aldo Rossi da me sempre condivisa: “io non sono un postmoderno, perché non sono mai stato un moderno”. Il riconoscimento attribuito alla mia fotografia dal mondo dell’architettura viene quindi nel segno dell’opera dell’uomo intesa come dono della memoria e del ricordo, compresa come vocazione singolare dell’io e vissuta come libertà della persona nella risposta alla chiamata di un altro che indica un altrove sconosciuto da raggiungere, un percorso imprevedibile e inatteso da perseguire lungo il cammino della conoscenza e della creazione. Un altro che nella mia esistenza ha avuto il nome

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dell’architetto Pierluigi Nicolin il quale, nella primavera del 1983, mi chiese di collaborare alla rivista “Lotus International”, dopo aver visto allo Studio Marconi di Milano Giardini e paesaggi, un’opera in due sezioni: una in bianconero dedicata ai giardini in Sicilia nelle perdute campagne dell’infanzia, un’altra a colori tracciata nei viaggi della giovinezza attraverso le figure del paesaggio italiano. Certo una piccola opera, maturata però in otto anni di lavoro nella scelta di praticare la fotografia come arte del contemporaneo e come immagine di vita contemplativa, nella genealogia che da Alfred Stieglitz e Paul Strand porta a Minor White, escludendo qualsiasi declinazione professionale o commerciale. Dopo un primo servizio su Piazza della Vittoria a Brescia di Marcello Piacentini, mi ritrovai a Berlino, pieno di dubbi rispetto all’incarico di dare immagine significativa e ragione formale al nuovo aspetto che stava assumendo la città tedesca, grazie ai progetti dell’IBA, diretta da Josef Kleius.

Vittorio Magnano Lampugnani e Marco De Michelis mi aiutarono nel corso delle riprese e, nell’onda di accese discussioni sulla condizione umana tra Moderno e Postmoderno, mi suggerirono di visitare quanto rimaneva ancora in piedi di Karl F. Schinkel. Così, dopo i cantieri di Aldo Rossi, Rob Krier, Oswald M. Ungers sovrastati dall’angelo di Tiergarten, attraverso le rovine di Anhalter Bahnhof e il vuoto di Potsdammer Platz solcato dall’avveniristica metropolitana magnetica che terminava con la stazione di Andreas Brandt, mi sono inoltrato sino a Glienicke. Qui mi sono inaspettatamente trovato dentro la scena sublime del paesaggio italiano innalzata con marmi e busti di imperatori romani esiliati sulle acque dell’Havel dal lontano Mediterraneo. Nel cuore del Nord dove era sorta la parabola del Moderno, in una rinnovata e paradossale unità di tempo e luogo propria della drammaturgia occidentale, tra le costruzioni del passato e del presente che mettevano in posa davanti all’obiettivo figu-


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re di città diverse e segnate da destini opposti, eppure chiamate con l’identico nome di Berlino, ho compreso che la mia visione poteva restituire un’immagine attendibile dell’edificazione in corso, soltanto a partire dalle tracce delle demolizioni e delle cancellazioni inferte al corpo e al suolo vivo della città dagli ismi del Moderno, nelle ideologie dei partiti politici, delle guerre tra opposti imperialismi e, più semplicemente, in quelle delle pianificazioni urbanistiche dell’architettura. Paesaggio Importante nella maturazione della mia coscienza civile sono state le immagini e le riflessioni dell’architetto, poi regista, Alberto Lattuada nel volumetto Occhio Quadrato, esordio del Neorealismo, e le vicende di Giuseppe Pagano nel prendere atto che lui, architetto, “si procurerà forse un giorno il pane quotidiano come illustratore fotografico, quando Interlandi, Pensabene, Ojetti e Dalla Porta avranno partita vinta contro l’architettura moderna e soffocheranno

le arti ufficiali italiane nel sudario delle care memorie e delle false tradizioni”, e quando, nel giorno della sua cattura da parte della banda nazifascista Kock confessa: “Io cerco i segni veri, i più sicuri:/ quel sorriso dell’amico che torna,/ la mano tesa di chi pesa il bene/ nello sguardo dell’uomo che si affida,/ la forza vera che vince e perdona/ come il vento che scorda la sua forza./ Sia questo amore il premio a tanto sangue”. Decisiva nella messa a fuoco della mia visione è stata l’opera di Paul Strand, il vero iniziatore del moderno in fotografia: nel suo rifiuto della Nuova Trinità creata dall’idolatria e dall’ideologia del Novecento, “la Macchina come Dio, l’Empirismo Materialista come Figlio, la Scienza come Spirito Santo”, egli comprende che “il fotografo ha unito le vie dei veri ricercatori della conoscenza, la via intuitiva ed estetica, la via concettuale e scientifica. Nello stabilire il controllo intellettuale su una macchina, il fotografo ha svelato il muro distruttivo e fittizio di antagonismo eretto tra queste due vie”. Ed anche

questo americano di New York deve percorrere, con l’amico Cesare Zavattini, le vie del paesaggio italiano, per realizzare a Luzzara il suo volume più celebre, Un Paese, ispirato dalla trama poetica di Edgar Lee Masters nell’Antologia di Spoon River. Il senso della mia opera è emerso lentamente, nel comprendere il modo e il nome in cui la labirintica complessità del paesaggio italiano dona forma ad ogni sguardo che lo guarda. I termini paese e paesaggio derivano dalla radice indoeuropea pak, che ha il duplice significato di seppellire e piantare, e la forma della penisola italiana è stata plasmata, come noi oggi la vediamo, secondo un’evoluzione antropologica in cui il gesto dello scavare il perimetro geometrico della tomba in cui si seppellisce il cadavere precede di quasi mezzo milione di anni il gesto del piantare il seme di un vegetale. Al tumulo, forma artificiale eretta nel visibile della natura originaria, e all’albero, piantato con ordine nel caos dell’esterno, corrispondono nella natura invisibile del

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mondo interiore le immagini della memoria e del ricordo come elementi di quella dimensione in cui si costituisce l’identità dell’uomo come persona. Nello sguardo trascendente dell’uomo attraverso l’inerte e ostile materia della natura, la coscienza crea, proietta e plasma nell’esterno un’immagine nuova e viva del mondo. E, nella mia esperienza, l’immagine è propriamente la coscienza che l’uomo ha di non poter coincidere con la realtà della natura data, neppure con quella realtà che lui stesso è, nella consapevolezza della propria vita come di una dimensione irriducibile alla morte. L’atto creativo del fotografare passa così attraverso l’atto del ricordo. Mosso dalla volontà cosciente e consapevole dell’io, l’atto del ricordo è infatti una rievocazione personale messa in opera nel dinamismo della libertà: esso permette di affrontare la realtà nella totalità dei suoi aspetti e, quindi, nella totalità dei sentimenti, dei pensieri, delle decisioni che essa suscita nel cuore dell’uomo. L’atto del ricordo pone l’io di fronte al dramma della libertà, alla scelta tra il male e il bene, e dona la possibilità di volgere all’edificazione della vita e non alla desolazione e alla distruzione della morte, il fluire delle azioni. Come testimonia il giardino esoterico di Bomarzo il ricordo è decisione d’amore e di misericordia, rischio di fede e di speranza che riporta il cuore dal dolore per un evento ormai trascorso, morto e definitivamente chiuso in se stesso, all’apertura di una nuova vita in una diversa forma, espressione del presente. Il movimento del cuore innescato dal ricordo, attraverso il dato obbiettivo della memo-

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ria, consente agli occhi di vedere oltre il confine euclideo dell’apparenza e di guardare, nell’uomo e nel mondo alla verità del destino mettendo finalmente a fuoco un immagine compiuta e definitiva della realtà: un’immagine visibilmente viva e profonda come l’infinito e l’eternità che si rispecchiano in essa. Un’immagine che scaturendo dal cuore più profondo della libertà della persona, si illumina dall’interno come il fondamento stesso dell’identità dell’uomo. L’immagine allora genera, comprende e accomuna in un unico piano spazio temporale il suo creatore, il soggetto rappresentato e colui che la guarderà nel corso del tempo. In una tomba etrusca del centro Italia, alla porta reale che permette di scendere nella dimora sotterranea dei morti corrisponde, in asse ottico perfetto, la porta virtuale di un affresco che fa risalire lo sguardo alla superficie, verso la dimora dei vivi sotto il cielo. In questo doppio movimento della visione che, nel mistero dell’immagine, unisce natura e cultura, io penso sia sorta la concezione del mondo come dato reale e la conseguente dimensione speculare e mimetica della rappresentazione: in quell’incessante approfondimento teorico che, lungo i secoli e le diverse civiltà succedutesi sulla penisola, ha portato all’invenzione della prospettiva a Firenze e all’invenzione dell’obiettivo a Venezia. In questa trama della storia vive e si compie l’opera della mia fotografia.

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6 Giovanni Chiaramonte Mura greche, Gela 1996 7 Giovanni Chiaramonte Milano 1998 8 Giovanni Chiaramonte Antico e nuovo ponte, Merida 1994 9 Giovanni Chiaramonte La donna e il pesce, Barcellona 1996


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10 Giovanni Chiaramonte San Pietro, Milano 1987 11 Giovanni Chiaramonte La favola di Venezia, Venezia 2002

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Paolo Zermani

Cappella della Madonna a Noceto Silvia Catarsi

A poca distanza dall’antica via Francigena, in un’area a margine del centro urbano di Noceto, sorge la Cappella della Madonna, di Paolo Zermani. “Il luogo è complesso”, ci dice l’autore “…quasi in campagna, ma stretto dalla condizione periferica: la strada, la cascina restaurata, un distributore di benzina, alcuni condomini”.1 In questo contesto ambientale, segnato dalla promiscuità e dalla proliferazione edilizia, spicca il solido microcosmo della piccola Cappella a cielo aperto, uno spazio cruciforme, delimitato da quattro blocchi murari a sé stanti ed orientati verso il fulcro dell’impianto architettonico: la statua della Madonna, scolpita da Paolo Borghi. Il vuoto che separa i quattro corpi, genera punti di vista obbligati, che guidano l’osservatore attraverso una precisa sequenza d’immagini. Dall’interno si vedono “la casa rurale, la strada, il paesaggio agrario preappenninico”.2 All’esterno, la luce si addensa sull’immagine della Madonna, mettendo a nudo la sacralità della costruzione. Sopra la testa l’assenza di gravità, una porzione di cielo inquadrata nei lembi della croce, celebra il senso cristiano di questo spazio. L’impiego del laterizio in un’unica monocroma tessitura, conferisce unità compositiva alla Cappella e trova nell’artigianalità della messa in opera, un radicato legame con la tradizione costruttiva del luogo. L’opera è permanentemente accessibile ed il perfetto equilibrio dinamico tra interno ed esterno la vincola all’ambiente circostante. Ciò che sta fuori entra dentro e viceversa, secondo un temporaneo ordine ristabilito delle cose. Lo stretto diaframma col quale l’autore cerca di cogliere l’emozione di un tempora-

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neo senso d’infinito, si traduce in quest’opera, come in altri suoi progetti, in una machine à observer,3 un delicato congegno di equilibri tra l’interno e l’esterno dell’architettura, capace di tracciare precisi allineamenti tra frammenti di paesaggio costruito e naturale, carichi di potenziale evocativo. Questa condizione di stabile e solidale appartenenza al luogo della costruzione sacra, afferma la propria atemporalità nella presenza della frammentata cortina in laterizio, sedimento d’argilla di difficile datazione. Quale sede di un’intima pratica quotidiana, la sua esistenza si accomuna a quella di molteplici atti di devozione cristiana, che in un disseminarsi di costruzioni sacre, descrivono la topografia di un orizzonte spirituale: “Ciò che è fortemente radicato alla nostra civiltà è tuttavia l’intatto valore simbolico della chiesa, intesa come edificio, nella costruzione del paesaggio, anche quando l’anima è sembrata cercare altra temporanea dimora”.4 La scelta della croce interrotta al centro appartiene ad un linguaggio espressivo che manifesta nella forma, l’emblematica vocazione a cui aspira l’architettura di Paolo Zermani. Lo stesso lessico connota altri progetti come il museo dell’Acropoli di Atene, rappresentato in un rocchio di colonna e la Cappellamonumento per Berlino, immaginata come un brano di muro. Opere in cui l’autore aderisce agli schemi di un’architettura parlata, dove l’immagine, tuttavia, non appare nella sua compiutezza, ma come frammento di una totalità non ricomponibile, come segno di un precario equilibrio con il contesto. L’intelligibilità della forma si esprime nel segno archetipo della pianta a croce

Progetto: Paolo Zermani con: Giuseppe Rossi 1999 Collaboratori: Giovanna Maini Foto: Mauro Davoli





Cattedrale di Fidenza, Parma. I Pellegrini sulla strada per Roma (XII sec.)

greca, che evoca nella doppia valenza del sacro e del pagano, il simbolo della cristianità e gli antichi criteri d’ordine territoriale. La matrice classica di questo spazio architettonico trova espressione nel suo modello centrico, oltre che in un rinnovato rapporto con il paesaggio. Al progressivo proiettarsi dello spazio costruito sulla natura - che si perpetua senza soluzione di continuità nei grandi diaframmi a fornice dell’eredità rinascimentale - risponde la coscienza di una mutata realtà contemporanea, con cui è possibile dialogare solo approntando un nuovo ordine di misure. È evidente, quindi, che il lascito umanista della nostra tradizione, non può più essere letto secondo una panteistica fusione di natura e architettura da affidare alle grandi aperture prospettiche. “Non esiste più un ultimo orizzonte in senso leopardiano, inteso come confine estremo che l’occhio consente di vedere, ma solo un ultimo orizzonte da intendersi come giunto dopo il penultimo in senso temporale, al quale ne succederà rapidamente un altro e poi un altro ancora, con sconvolgente rapacità, fino a restringere sempre più la prospettiva che l’occhio può osservare”.5 L’architettura, nella Cappella di Noceto, si contrae come a testimoniare il suo contemporaneo disagio, quasi ad implodere, per cercare in questa imprevista fonte d’energia, un possibile scambio con il mondo esterno. La profumata ginestra dell’ultimo canto leopardiano, preda della furia devastatrice del Vesuvio, rinasce con continua tenacia sulla lava del vulcano. Allo stesso modo, denunciando la caparbietà di esistere in un luogo ostile, nella consapevolezza della propria fragile temporaneità, l’architettura della piccola Cappella progettata da Zermani affiora su di una superficie invasa dal frastuono edilizio, per cercare nella coscienza del vero la propria rinnovata identità.

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Paolo Zermani, Identità dell’Architettura (Parte seconda), pag. 16, Officina Edizioni, Roma, 2002 2 Ibidem, pag. 16 3 Il termine è stato tratto dalla Comunicazione tenuta alla Facoltà di Architettura di Firenze, Gennaio 1999, tenuta dall’Arch. Fabio Capanni e riportata nel testo Paolo Zermani Architetture 1983-2003, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, 2003 4 Paolo Zermani, Identità dell’Architettura, pag. 61, Officina Edizioni, Roma, 1995 5 Paolo Zermani, Identità dell’Architettura (Parte seconda), pag. VII, Officina Edizioni, Roma, 2002

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Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola

Frammenti di una genesi

Il luogo La città non sembra possedere tracce di quell’atto d’interpretazione e trasformazione del luogo che costituisce la tipica caratteristica di ogni fondazione romana, quasi sempre decisiva, nel mondo veneto, per il successivo destino storico della città. Legnago, in realtà, coincide con la “storia naturale” del suo principale antagonista: un fiume alla cui leggendaria labilità di corso si deve quella diversificazione di tracciato a scala territoriale che, nell’età tardo-antica, ha creato le condizioni della sua esistenza. Da allora, la forma della città sembra coincidere con l’ininterrotta declinazione - da parte della signoria scaligera prima e veneziana poi - della ragion d’essere della città come luogo favorevole al guado del fiume. Il risultato fu una città doppia come interprete della doppia natura - via e confine, ad un tempo - del fiume e di cui la versione scaligera della doppia rocca posta sulle due rive costituì una sorta di archetipo. Di fatto, una declinazione sub specie militari che si snoda ininterrotta dal X al XX secolo, a cui ha corrisposto una sorprendente fissità nel tempo della sua immagine. Conseguenze Il fiume mantenne sempre tale ambiguo carattere per la città: motivazione del suo sorgere dapprima, divenne causa della distruzione delle mura urbane alla fine dell’ottocento ed in seguito, ancora per motivi strategici, anche delle distruzioni dell’ultima guerra. Ma il fiume fu solo testimone della ricostruzione post bellica della città che, cancellando tutte le memorie della sua

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origine, costituì una continuazione dei caratteri della città ottocentesca, contribuendo in tal modo ad appiattirne l’immagine sul presente. Il progetto delle piazze Il progetto, collocandosi all’interno di tali contraddizioni, vuol essere innanzitutto un affrancamento dalla città ottocentesca, dal suo carattere agnostico e meramente “tecnico” di considerare la città. Ad una accademica piazza astrattamente regolare, il progetto contrappone la riconsiderazione di quella processualità storica di elaborazione del luogo che vi aveva instaurato tre piazze usando, a loro definizione, argini del fiume, lacerti della rocca e ri-costruzioni, in stretta aderenza alla morfologia degli isolati circostanti. Per questo il disegno delle pavimentazioni, nella loro differenziale complementarità, viene usato ad evocare le storiche differenziazioni che avevano distinto gli spazi liberi del luogo. Un’evocazione della diversità e della complessità morfologica delle tre piazze tra loro comunicanti e del loro individuale carattere come traduzioni di precise destinazioni: la piazza civile antistante allo scomparso municipio, la piazza religiosa come sagrato del Duomo, e infine la piazza dei grani su cui si affacciava l’edificio della Borsa. Il restauro del torrione Il cardine che univa i tre spazi era dato dal Torrione del Soccorso, l’unico sopravissuto dei quattro che definivano la rocca veneziana e che la “riduzione” urbanistica, amputandone ogni elemento indice dell’originaria giacitura, ha come svuotato di senso.

Progetto: Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola con: Michelangelo Pivetta 2003 Primo Stralcio: 2004 - 2005 Ufficio Tecnico: Gianni Zerbinati Giacomo Masiero Collaboratori: Elisabetta Magnani Andrea Bartoloni Plastico: Stefano Storari



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Pagine precedenti: 1 Il Duomo e il Torrione visti dall’argine del fiume 2 L’accesso al Torrione 3 Il sagrato del Duomo 4 Pianimetria: le tre piazze 5-6 La piazza della chiesa Pagine successive: 7 - 8 - 9 - 10 L’acqua a segnare un possibile fossato

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Obiettivo del progetto è la restituzione del torrione alla piazza, ipotizzando ad uso espositivo il grande salone indiviso posto al suo piano superiore che conserva, sia all’interno che all’esterno, le stigmate di molteplici usi da parte della città. Allo scopo di rendere possibile la sua agibilità, il progetto - nel costruire la scala di accesso ed i servizi - restituisce (seguendo l’editio princeps di un rilievo quattrocentesco di Marin Sanudo) i due frammenti ortogonali delle mura della cinta originaria che traevano origine dal torrione, togliendolo così dall’abbandono attuale ma soprattutto, col ricomporne i caratteri sintattici originari, rendendone leggibile la sua virtualità di frammento genetico della città intera.

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Adolfo Natalini

(Ri)composizione urbana: Adolfo Natalini a Zwolle Fabrizio Arrigoni

antefatto Si possono descrivere due vaste strategie nelle ipotesi contemporanee di trasformazione urbana, le cui radici, per entrambe, affondano nel processo di decadimento della totalità, dell’organicità-integrità propria del progetto classico. Comune la consapevolezza di lavorare nella faglia di una crisi, nello spacco di una continuità venuta meno; divergenti le strade tentate a seguito di questo riconosciuto turning point. Abbiamo dunque, da un lato, una ipostatizzazione del frammento, del pezzo divenuto incoerente, rissoso, indocile alla norma ad esso estranea. Qui la tecnica messa in azione è quella dell’analessi, dell’addizione incessante, della sommatoria meccanica, lontana da ogni ipotesi di superiore conciliazione o sintesi pacificatoria. Tale milieu determina una veduta pointillista scandita da monadi irrelate sostenute da reti tecnicofunzionali aformali al di qua di ogni preoccupazione di equilibrio. Unico punto di contatto, unico orizzonte, ciò che con grande anticipo Guy Debord annotava: “Toute la vie des sociétés dans lesquelles règnent les conditions modernes de production s’annonce comme une immense accumulation de spectacles. Tout ce qui était directement vécu s’est éloigné dans une représentation.” Assai distante il percorso della seconda via. Qui le rovine della storia, i suoi relitti, i suoi resti, hanno da essere ritessuti, aggregati e condensati in inediti cristalli di senso. Il precedente, la matrice di origine, potrebbe essere la polisemia del palinsesto, della pagina continuamente riscritta, metamorfata nel tempo lungo. La figura che traduce questa vocazione può essere la catacresi, l’azione, cioè,

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di ri-semantizzazione. “Occorre che ogni membro dell’edificio si armonizzi con gli altri per contribuire alla buona riuscita dell’intera opera e alla sua leggiadria, di modo che non si esaurisca in una sola parte tutto l’impulso alla bellezza, trascurando affatto le altre parti, bensì tutte quante si accordino tra loro in modo da apparire come un sol corpo, intero e bene articolato, anziché frammenti estranei e disparati.” Trascolorando, con l’Alberti, tra il corpus della casa ed il corpus della città, la fatica del disegno consiste nel radunare le dissimili membra al fine di costruire la loro plausibile connessione. Com-porre è principalmente inteso quale modus, misura, che mette in relazione, che ritma le parti tra loro, legandole in accordo (ordo). Oltre ogni apologia dell’eterogeneo disperso, oltre ogni eutopia, la prassi traduce il geroglifico, il rebus, nel gergo di una communitas. fotografie L’immagine, colta da oriente, mostra un villaggio inciso dalle acque dell’Ijssel; la densa, compatta, massa del borgo è controllata dai profili prodigiosi delle fabbriche religiose; si intuisce una gerarchia, una messa in ordine ed una messa in scala, ma tale composto serba la complessità e le contraddizioni delle addizioni pre-rinascimentali non risolvendosi nell’autorità dell’angolo retto o nella disciplina prospettica del colpo d’occhio risolutore. O forse, più correttamente, dovremmo sottolineare come la città consolidata non sia mai stato immediato dominio della totalità sui singoli elementi, quanto scontro-incontro di scelte e di morfologie, distinte ma non irriducibili tra loro, e dunque,

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Het Eiland, Zwolle Olanda Progetto: Natalini Architetti con: Roy Gelders Architecten Amsterdam 1996-2001 Committente: Ing. Vastgoed, Den Haag Foto: Pietro Savorelli


1 Il lungo canale con la torre Pelser 2 Joan Blau veduta della cittĂ di Zwolle, 1649

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con certezza, più vicina ad essere interpretata come una struttura dotata di una sua unità nella molteplicità (Goethe): come un campo, un sistema, le cui variazioni si danno comunque nel cavo di una cornice trattenente (le memorie, le tecniche, le lingue condivise…). La fotografia successiva insiste da occidente e segue la precedente di diversi anni. La guerra e l’igiene hanno reso meno fitto quell’intrigo, secondo ideologie del diradamento e del rinnovo: numerose sostituzioni hanno ridotto le geometrie imprevedibili di infiniti lotti minuti in regolari impianti monofunzionali, di grande dimensione. L’intero quartiere detto dell’Isola – Het Eiland – compreso tra il filo della cinta muraria lungo il canale, l’abside della chiesa dei Broederen ed il vecchio tracciato del fiume Aa si presenta ora come uno slargo anonimo offerto alla sosta meccanizzata; di quella vita, nella sua grazia popolare prossima al Jourdaan di Amsterdam e con precisione anticipata in tante visioni terse di Vermeer, ter Borch, de Hooch, non rimangono che i documenti di archivio. vicenda Nel 1996 Wico Mees richiede una consulenza ad Adolfo Natalini riguardo la possibilità di una rifondazione del quartiere dell’Isola a Zwolle. La precedente proposta elaborata dall’architetto Roy Gelders tra il 1994 ed il 1996 non ha ricevuto esito favorevole da parte della Sovrintendenza nonché dall’associazione “Amici della città”. Il nuovo piano – committente la ING Vastgoed di Den Haag – è redatto tra il 1996 ed il 1998. Esso mantiene gli indici funzionali precedentemente determinati – con destinazione commerciale al piano terra e primo e residenza ai livelli superiori con giardini pensili – articolando la planimetria secondo tre blocchi mistilinei tali da garantire lo sviluppo su due piani di un parcheggio interrato. Il fronte lungo l’Ijssel distribuisce una sequenza di case terra-tetto al cui termine è sistemata una casa in aggetto su mensole – battezzata la casa medievale – eco del passaggio di guardia delle antiche mura. A lungo i fogli preparatori hanno testimoniato la volontà di ricostruire la Roo Haen (la casa del Gallo rosso) quale quinta per la sistemazione di alcune sculture di Philip Vingboons. Essa avrebbe poi dovuto costituire il punto di fuga per chi arrivava dal centro città lungo la via di mezzo; seppure tale ipotesi sia stata fatta cadere, l’antica fab-

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brica è divenuta l’ossatura, il prototipo, su cui organizzare parte dei nuovi edifici. Il 10 novembre del 1999 segna l’apertura del cantiere, sul finire del 2001 i primi locali sono terminati, nell’aprile del 2002 il quartiere è stato ufficialmente inaugurato. componere “Attraversato il ponte ho guardato con attenzione la muratura severa delle case e del fianco della chiesa, poi mi sono avviato sulla sinistra del parcheggio. Alla bellezza del lungofiume e delle mura rispondeva la devastante banalità del parcheggio e del terrain vague dove s’era acquattato un centro commerciale fatto di incongrui edifici bassi di cemento…” (a.n., 1997). Lo stralcio del diario tratteggia in nuce il tema di questo intervento: si tratta di raccogliere legalità diverse – provandone la consonanza ed il mutuo colloquio – recuperando il branosbrano dentro una forma urbis appropriata e memorabile – in guisa di un racconto o di una raffigurazione. Un’architettura che soggetta la parola, il lemma, alla legge della sintassi, alla frase corretta, compiuta e comprensibile – ed in questo trovando un limite saldo al movimento incerto, aleatorio, del dis-cursus. Tracciare la giusta disposizione delle parti – collocatio – e serrare il singolo in un insieme di scala superiore – consensus membrorum – è il Motive der Composition di questo agire, dove l’unità non è immanente ma fattore costitutivo del fare. Prassi gettata, radicalmente in situazione, mai sciolta dal vincolo in cui essa accade e di cui essa è evento tra i molti (differenza tra la nappe blanche astratto-idealista e la scena ingombra, non concettualizzabile in via anticipe, allestita secondo l’occasione dal lavorio realista…). Le opzioni si mostrano dunque come una sorta di ripresa-distorsione delle tracce di antica fondazione: slittamenti ed accidenti che chiudono le prospettive in direzione di fuochi determinati – il ponte, la torre, l’abside…– salvando al contempo una percezione dello spazio quale intervallo privo di interruzioni pur nella sua non omogeneità (ed in questo si può avvertire la ripresa del concetto di Platzwand del Sitte). Per dimensione delle sezioni e loro articolazione reciproca la maglia urbana si configura come un grande interno a cielo, il cui desiderio profondo sembra quello di rendersi invisibile, dissolvendosi nel disegno generale, nello scheletro di ciò che lo circonda e precede. Il sogno di queste architetture,

3 Sopralluogo, 11 novembre 1996 4 Schizzo della “casa gotica” verso la Broerenkerk 5 Sulla piazza, 10 settembre 1998 6 I volumi prospicienti la piazzetta centrale


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7-8-9 I resti delle sculture di Philip Vingboons per la casa del Gallo Rosso (Roo Haen) 10 Le case e la ricostruzione della Roo Haen: studi

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nate come tessere dentro un costrutto logico, attende infatti la cancellazione – nella durata a-venire – delle inevitabili linee di sutura, assicurando cioè il passaggio dall’attuale mosaico all’affresco con sapienza dipinto. occorrenze A rigore è opportuno rubricare questo intervento all’interno di quella esperienza olandese che lo studio fiorentino ha maturato negli ultimi quattordici anni e che ha prodotto almeno quindici tra proposte e realizzazioni (dalla inaugurale ricostruzione della Waagstraat a Groningen sino al progetto per l’area delle Lange Stallen a Breda).1 Tuttavia è forse lecito anche un richiamo più lontano. Si vuol far cenno al progetto per il Römerberg di Francoforte redatto nel 1979.2 Un tracciato tecnico preesistente come fondazione, lacerti ed ombre di edifici come una promessa che ancora muove, che dà da pensare, ed infine la città (urbs) avvertita come un destino scelto, come adesione attiva e non appartenenza passiva o coazione all’identico sono i tre cardini su cui ruota l’analogia. Ciò che il confronto permette di valutare è il passaggio da un uso della memoria sospeso tra la didattica e lo spaesamento – e quindi ancora strumento per una terapia dello choc – ad un suo impiego dentro una attività professionale matura, il transito cioè da una scrittura concettuale ad una scienza del concreto per dirla con Jean Clear. Il tentativo, in definitiva, di non indugiare sul fascino potente della rovina ma di costruire con sollecitudine a partire da essa

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In my beginning is my end. In succession Houses rise and fall, crumble, are extended, Are removed, destroyed, restored, or in their place Is an open field, or a factory, or a by-pass. Old stone to new building, old timber to new fires, Old fires to ashes, and ashes to the earth … T. S. Eliot

1 Su questi temi cfr.: “Olanda: il territorio ipermoderno, la città supertradizionale”, in Lotus, n. 96, giugno, 1989, pp. 86-93; A. Natalini, Album olandese, Aión Edizioni, Firenze, 2003; Id., “Album olandese”, sta in Aión, n.3, Città, 2003, pp. 100-123; “Natalini Architetti”, numero monografico di Costruire in laterizio, n. 97, gennaio-febbraio, 2004; per una collocazione di questa storia in una visione più generale vedi Hans Ibelings, Unmodern architecture. Contemporary Traditionalism in the Netherlands, Nai Publishers, Rotterdam, 2004. 2 Cfr. Adolfo Natalini/Superstudio, Note in margine al Römerberg Project, 1979, I quaderni bianchi, n. 10, Firenze, 1979; Superstudio 1966-1982, Storie figure architettura, Electa, Firenze, 1982, pp. 99-102.

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11 Le case sul canale 12 Planimetria e vista sul canale 13 Le casebottega affacciate sul Torbeckegracht


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Loris Macci e Alberto Breschi

Frammenti di una narrazione Fabio Fabbrizzi

Il luogo è un’ampia pausa tra la parte bassa e polverosa del Cairo e la sua parte alta, arida, ocra e rocciosa. Qui, il Nilo si slarga nei rami del suo delta, mentre la sua piana verde e feconda, si stempera nello spazio sconfinato del deserto. La luce abita i recessi di ogni ambito, amalgama i toni della materia naturale, ma inesorabilmente scandisce le forme nitide dell’uomo. Stretta tra la morsa straniante di una città in avanzamento, circondata da forti tracciati di collegamento, l’area oggetto del Concorso Internazionale per la progettazione del nuovo Grande Museo Egizio, che sorgerà nelle vicinanze delle piramidi di Giza, si mostra come una sorta di tassello nel generale intarsio del paesaggio. Come se la sua vocazione urbana e territoriale, fosse sospesa su un’attesa, incarnando lo spazio anomalo di una soglia, dilatata ad accogliere le tracce di un’invocata, quanto necessaria progettualità. Poi lo sguardo viene catturato dalle geometrie assolute delle piramidi, ritagliate contro la lastra metallica del cielo, come masse assolate, poste a probabile misura di un vuoto sconfinato. E in questo vuoto, nell’assenza di regola, di rigore e d’intelligibilità, il deserto, che ne incarna la sua dimensione fisica, contiene la rappresentazione di una trascendenza. Così come la città e la piana, traducono la rappresentazione di un’immanenza. Nel semplificato ed istintivo sentimento arcaico, il deserto viene celebrato come il luogo dei misteri vitali, come il fisicizzarsi del passaggio tra la vita e i suoi arcani, primo fra tutti la morte. La storia dell’antico Egitto, ci parla dell’esistenza di una tensione, radicata e presente nella loro visione della vita.

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Una presenza fortissima, tanto che tutto l’umano passaggio terreno, può essere inteso, come una sorta di pellegrinaggio verso la morte, considerando la via, il cammino, come il simbolo originario del loro essere civiltà, al pari dell’idea dello spazio nella cultura occidentale, o del corpo nel mondo greco. Solo così è spiegabile la forza delle piramidi: come luogo di passaggio, di transizione tra la dimensione certa del quotidiano e l’incertezza della vita oltre la vita. Alle soglie dell’Ottocento, durante la Campagna d’Egitto, davanti alle piramidi, un ambizioso Napoleone, prima di essere il Generale che parla ai suoi soldati, appare come l’occidentale che si misura con la storia del mondo e fermerà il flusso di questa storia, scegliendo, anche se inconsapevolmente, di darle una scansione: “Soldati! Di lassù quaranta secoli vi guardano!”, introducendo un prima e un poi, frammentando l’idea di una generale continuità. Fino a questa presa di coscienza, l’arte e quindi anche l’architettura, ha basato la sua forza sul fatto che la sua valutazione e il suo giudizio, venivano espressi in base ad un tempo presente, anche se i meccanismi formativi attingevano nel passato. Si studiava e giudicava un’opera confrontandola con i fatti e le produzioni del presente e non viceversa. Con la “scoperta” dell’Egitto, insieme con Winckelmann prima, questo criterio vira bruscamente, e il passato -un passato di volta in volta collocato in un tempo ben preciso- diviene il modello per il nuovo giudizio. Si valuta ovvero, in nome di un tempo arbitrario e prestabilito come riferimento a priori, con la conseguenza che il tempo del presente, almeno per l’arte, pare non avere più valore, e l’arte inevita-

Grande Museo Egizio Giza – Cairo (Egitto) Progetto: Loris Macci (cg) e Alberto Breschi con: Tommaso Brilli Matteo Calza Marco Chellini Jacopo Maria Giagnoni Nicola Santini Francesco Stolzuoli Pier Paolo Taddei 2002


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bilmente, pare essere solo qualcosa che i canoni di un passato, mitizzato e irraggiungibile, hanno potuto produrre. Su questi presupposti si arresta l’essenza stessa dell’arte e nel contemporaneo, anche l’architettura, non può avere più la coesione di una “grande narrazione”, ma solo la scomposizione in una frammentarietà, che rimanda all’idea di una perduta unitarietà. Con quale forma e con quale linguaggi, l’uomo contemporaneo può confrontarsi allora, con il senso di una tale perduta totalità? Quale forma avrebbe potuto dialogare oggi, con l’assoluto geometrico e mistico delle piramidi? Nessuna, e Loris Macci e Alberto Breschi - con i loro collaboratori - progettisti di questa proposta, lo sanno bene, scegliendo di compiere un itinerario insolito per degli architetti, decidendo quasi di annullare ogni loro desiderio formale, per ascoltare e poi cercare di tradurre, il canto forte, ma a tratti solitario, del luogo. Tra i contrasti dell’intorno, tra il fertile e l’arido, tra la città e il vuoto, tra l’assoluto e il quotidiano, si ritaglia l’ambito del monumento, forgiato dall’energia artistica di un’umanità che attraverso l’arte, la bellezza, la perfezione e la geometria, dà corpo all’inconoscibile. Il confronto diretto con le piramidi risulta impossibile a priori. Allora scendere, scavare, de-comporre, frammentare ed emergere a tratti, pare l’unica intelligente possibilità per abitare il luogo dell’intervento. Quindi non una forma chiara ed imposta, ma la trasfigurazione di una spazialità fatta di accezioni differenti, testimonianza, se non attraverso una poetica del frammento, dell’impossibilità di relazione formale tra presente e passato. Scaturisce quindi l’idea di una sorta d’immenso parco-piastra che contiene oltre al Museo vero e proprio, anche i suoi servizi e i singoli parchi tematici. Una grande distesa d’acqua che forma una geometria irregolare, diviene la figura prioritaria dell’intera composizione, all’interno della quale senza regola apparente, fuoriescono e affondano, emergenze e concavità, torri e pozzi di dimensioni diverse ma di forma regolare, rettangola o quadrata, a traduzione della duplice lettura dell’insieme, segnata dal predominante carattere naturalistico dell’esterno e dal carattere tipicamente ipogeo dell’interno. Frammenti di una nuova narrazione, inedita, rispettosa e per certi versi dialogica, ma “incerta” nella propria strutturazione, si confrontano con quella “certa”, allestita dalla monumentalità dell’archi-

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tettura storica dell’intorno, percepibile come sfondo al campo visivo. Il lago, che solo dopo del tempo, viene compreso essere la copertura di un “sotto”, mette a dimora uno spesso tappeto di verdi giacinti d’acqua, pianta non autoctona, ma squillante nella propria tonalità vellutata, ideale contrasto con l’ocra del terreno circostante e simbolo al contempo di una contemporaneità globalizzata che è sovrapposizione e sintesi di altre culture e altre eredità. I diversi “oggetti” pensati in blocchi squadrati di pietra calcarea, formati da spesse pareti senza aperture visibili dall’esterno, si alternano ad elementi più nitidi in vetro opalino e in metallo lucente, mentre si indovina una spazialità generale che si annuncia ricca di allusioni. L’ingresso si rivela a poco a poco, attraverso movimenti di rampe, increspature del suolo, piani inclinati e gradoni che attirano verso una ricchezza interna, suggerita e indovinata. L’interno con il suo vuoto, non è qui costruzione, ma sottrazione pura e scavo letterale. Il potere del frammento risiede tutto nella propria carica allusiva, nella propria capacità di raccontare altro da se, e lo spazio scavato, per esempio racconta di un criterio museografico che non ricalca il comune tentativo di riproporre la condizione necessaria che ha reso possibile il manifestarsi dell’opera, ma la ricerca di un continuum sbilanciato nella prevalente dimensione orizzontale, che diviene spazio fluido agerarchico. Nella totale godibilità dello spazio interno, il criterio dell’esposizione appare essere quello dell’esperienza di uno scavo archeologico, nel quale, in logica successione appaiono obelischi, portali, statue, colonne, graffiti e reperti, apprezzabili da molti punti di vista diversi, secondo un percorso personale. Nello schiacciamento tra il piano di calpestio e la copertura, lo sguardo viene catturato in profondità, dalle improvvise cavità e aperture, sottolineate dagli squarci di luce. Nella totale fluidità, galleggiano “isole tematiche” incrociate a “periodi storicizzati”, e le torri e i patii, prima visti emergere dall’acqua che vela la copertura della piastra interrata, vengono capiti nella loro ragione di contenitori funzionali, destinati ad ospitare i diversi frammenti archeologici. Dall’estrema semplicità di connessione tra il piano libero e le isole archeologiche, deriva la suggestiva impostazione strutturale del piano piastra, caratterizzata da una insolita e efficacissima “foresta” di liberi e diradati piloni, in modo che

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Pagine precedenti: 1 Inserimento della proposta nel contesto 2 Modello del parco-piastra museale 3 Schemi distributivi e funzionali 4 La vasca con i “frammenti” emergenti Pagine successive: 5 Sezione su un “pozzo” 6 I nuovi “frammenti” e le piramidi 7 Lo spazio interno proiettato sul paesaggio 8 Sezione della parte espositiva

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strutture ed impianti, non intacchino la potenziale variabilità dell’interno. Pur nella messa in atto di sensazioni evocative, come quelle per esempio legate alla luce e all’ombra, dosata dai patii occupati da attuali “giardini di delizie” e dalle aperture in copertura delle torri, il Museo contiene un’anima tecnologica per il suo controllo artificiale. Specifici sistemi di oscuramento progressivo a controllo elettronico, consentono la regolazione della luce naturale e di quella artificiale attraverso eliometri a fotocellule e sensori a infrarossi che rilevando la condizione del cielo, la trasmettono ai sistemi elettronici che regolano l’oscuramento. Un dosaggio luminso differenziato per ogni area museale, che costituisce un sistema programmabile in base alle diverse esigenze espositive, del tipo di opere e del tipo di suggestione che ogni singolo allestimento richiede. L’uso della materia impiegata in questa proposta, rappresenta anch’esso un itinerario di frammenti. Oltre al colore dorato della pietra calcarea, sono presenti intrusioni di altre materie, come i graniti, ofidi, basalti, porfidi e legni, a sottolineare, come spazi nello spazio, architetture nell’architettura, aree e percorsi funzionali, arredi ed elementi strutturali. La sorprendente purezza dello spazio interno, viene poi riverberata, riflessa e resa vibratile, dall’inserimento di lastre vetrate verticali, che contengono nel loro sottile e diafano spessore, le informazioni medianiche di una personalizzabile presa di conoscenza delle ricchezze contenute nel Museo, attraverso scritte, testi, approfondimenti, proiezioni, comandate

da ogni singolo visitatore e collegate in rete a tutti i musei egizi esistenti. Lo schiacciante spazio dell’interno, viene all’improvviso “risucchiato” all’esterno, in verticale, a catturare durante il giorno l’arco del sole, permettendo al visitatore di fruire d’osservazioni inusuali, scendendo poi nelle cavità a riscoprire i reperti del passato, in un rapporto personale e coinvolgente, quasi fossero i risultati di un personale percorso di scavo. Stessa sensazione di schiacciamento e di successiva dilatazione, che in orizzontale, al termine della visita, si registra quando la vista spazia in un’unica immensa apertura ininterrotta sulla pianura ad est, a cogliere inaspettati i tre profili delle Piramidi di Giza. Questa lunga asola, proietta il visitatore, l’uomo contemporaneo, ancora una volta nella sfida perenne, semplice ma arcana, dell’unione tra la terra e il cielo, sottolineando la linea di confine tra certo e incerto, tra immanente e trascendente. Traduce, nella percezione di una porzione frammentata di cielo, la rappresentazione dell’invito, al contempo simbolico e tangibile, a trascendere i propri limiti umani, rivolgendosi alle infinite, multiformi e personali dimensioni, della spiritualità. Frammento di frammenti e a sua volta custode di frammenti, la formalizzazione di questo Museo, appare come una “testimonianza”, a ricordarci che, l’architettura, quando è architettura -e in questo caso lo è innegabilmente- anche in questo nostro tempo scomposto e frammentato, altro non esprime, se non l’emblematica narrazione di un’emozione.

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Ulisse Tramonti con Cristiano Biserni e Alessandro Lucchi

Elementi sottratti alla storia Fabio Fabbrizzi

Caduta la forza delle “grandi narrazioni”, l’ultima delle quali faceva ancora intravedere i propri capitoli nella generosa utopia della modernità, siamo ormai spettatori inermi di una, molte volte annunciata, alcune volte opposta, ma oramai inevitabile, distruzione dell’unità della forma spaziale. L’atto ideativo attraverso il quale si dava forma alla scrittura architettonica, insieme alle modalità formative di quella stessa forma, appaiono processi secondari se non del tutto ininfluenti nella vasta e straniante complessità del momento attuale. Così come la chiarezza della relazione tra principio, forma e scrittura, si è confusa nella dissolvenza di soglie multiple, che se da un lato hanno innescato relazioni e reciprocità inaspettate, stemperando asperità e durezze tipiche di ogni ragionamento forte, hanno reso nulli, perché superati e non posti all’interno di un’ottica interpretativa, antichi valori di tradizione. Da qualche decennio è compito della parte più sensibile della cultura architettonica, utilizzare questa dissolvenza, ormai sentita come dato di fatto, per allestire percorsi progettuali che tendono ad una probabile ricomposizione dell’infranto. Ricomposizione che non significa la ricostituzione di una semplificata corrispondenza fra valori di configurazione e quelli di spazio, quanto una riconcentrazione dell’attenzione sulla struttura del processo di progetto; riportando cioè eguale attenzione sia al risultato che al percorso, alla forma e alla scrittura, ben consci che in composizione, i modi della formatività, sono già essi stessi progetto. I paesaggi, le città, i luoghi in genere, sono spesso ormai lontani da una loro

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iniziale riconoscibilità di carattere; essi vivono di facce sovrapposte, scene mutanti che indicano la presenza di tracce, di lacerti e di scomposizioni come resoconti di passato e ipotesi di futuro, nella cui variabilità, i tipi, i temi e le figure, annunciano per frammenti, paradigmi di infinite possibilità diverse. In questa coesistenza, ogni progetto è un lungo, diverso, irripetibile itinerario di scelte che danno, o più semplicemente aggiungono, senso ai sensi del luogo. Spesso in questo campo, abbiamo assistito a tendenze diverse, figlie della stessa fragile complessità dei tempi e che hanno proposto come limiti estremi di un loro vastissimo campo di definizione, ora la sterile riproposizione di schegge del passato, ora la visione di una rinnovata quanto vacua fede per il futuro, proponendo in entrambi casi, modalità anticompositive nell’essenza. Ricomporre l’infranto, significa oggi scegliere, cercando di dare un senso ai luoghi, ma questa scelta, difficilmente porta con se la rigenerazione della stessa idea di progetto, quella cioè di un fare, che assegna come espressione di disciplinarietà, il medesimo prezioso valore, sia allo scopo, ovvero alla ricerca della forma, che allo stesso processo creativo. Un fare che il lavoro progettuale di Ulisse Tramonti conosce e ben utilizza, lavorando in molti casi all’interno di una vera e propria poetica del frammento. La ridefinizione urbana di Piazza Guido da Montefeltro a Forlì, proposta classificatasi al secondo posto dell’omonimo concorso di idee, porta scelta dopo scelta, alla riproposizione di una chiarificatrice unità, che le infinite condizioni della storia avevano

Ridefinizione urbana di piazza Guido da Montefeltro a Forlì Progetto: Ulisse Tramonti con: Cristiano Biserni Alessandro Lucchi 2003


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scomposto e trasformato. La piazza, in realtà poco più di un vuoto urbano, delimitato da architetture che depauperate del loro senso originario, offrono alla scena urbana il semplice ruolo di “oggetti” diversi, attraverso la proposta del gruppo coordinato da Tramonti, diviene un’insieme relazionato tra “soggetti”, ancora diversi, ma legittimati da un sapiente disegno di ricalibro urbano che li connette tra loro. Ma le “parole” per raccontare la nuova unità sono parole che non appartengono alla retorica di un tentativo forte, non forzano la struttura del luogo, non impongono eccentriche digressioni spaziali, personalismi esasperati o segni alla moda, ma ascoltano le tracce presenti, i frammenti ora delicati ora imponenti dell’esistente e allestiscono un itinerario formale che è insieme forma e scrittura. Il frammento tende alla realizzazione di un’unità, scritta già nelle modalità realizzative. È aspirazione, è transitorietà, ma è anche desiderio, traccia, memoria; lacerto scomposto che tende per natura, ad una sua auspicata ricomposizione. Ma il frammento è anche sospensione, è subliminale presenza di “altro” e nella poetica del frammento intrapresa da Tramonti, esiste la filigrana di una presenza ulteriore, la sostanza figurale di un paradigma solo intravisto, ma fondativo e fondamentale. In questo progetto, il suo lavorare sulla ricerca di unità, rappresenta la sospensione del giudizio, la perdita della memoria e contemporaneamente l’istantanea rammemorazione degli eventi, nella quale i pochi e agili segni del nuovo apparato compositivo, tengono intatti i frammenti del luogo. Il sistema delle chiese e dei chiostri, dei palazzi, degli spazi aperti, degli orti, nonché delle strutture industriali ottocentesche e delle forti presenze fisiche ed evocative della precedente sistemazione di Maurizio Sacripanti, risalente ai primi anni ’80 e secondo le indicazioni del bando da mantenere e integrare nella nuova proposta, aprono alla contemporaneità i molti itinerari mnemonici che custodiscono e disvelano. Uno degli obiettivi principali del progetto è rappresentato dalla ricostituzione di una trama urbana continua che possa restituire i ruoli di polarità, ai vari edifici monumentali presenti nell’area. In pratica tutto l’intervento si struttura attorno agli obiettivi di trasformare la Piazza in una sorta di filtro tra i nuovi parcheggi interrati e le funzioni poste in superficie, riorganizzate secondo un

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nuovo disegno che contiene sia gli spazi pedonali che gli accessi ai parcheggi, insieme al tema delle visuali e della percezione dello spazio, attraverso la realizzazione dell’episodio della quinta urbana che ripristini l’antico disegno urbano post-soppressione conventuale. Dalla lettura delle cartografie storiche e dal ritrovamento di preziosi documenti, i momenti salienti della narrazione progettuale proposta dai progettisti, prevedono la ricostruzione del fronte strada sulla via Theodoli, delimitato dalle due piazze-sagrato prospicienti le chiese di San Domenico e di Sant’Agostino, restituite alla loro spazialità urbana originaria. La possibilità di coinvolgere il complesso conventuale di Sant’Agostino nel sistema museale di San Domenico, permette di ridefinire l’attuale piazza Dante Alighieri attraverso la riproposizione della memoria della chiesa demolita, lasciando affiorare le fondamenta dell’antico impianto, inatteso quanto efficace frammento archeologico, che nella propria imponente parzialità, apre itinerari allusivi e percettivi di sicuro riverbero. Il nuovo spazio-sagrato, così restituito alla città, viene delimitato verso il Palazzo Vescovile da un muro, vera e propria quinta urbana, che interpreta la consistenza muraria del demolito edificio direzionale della “Società Anonima Bonavita”. La Piazza Guido da Montefeltro diviene così nelle intenzioni progettuali, uno snodo di connessioni verticali e orizzontali, tra i parcheggi interrati e i percorsi in superficie, delineandosi come vero epicentro urbano dal quale si diramano percorsi sia fisici che visuali, di relazione tra centro e periferia. Il fulcro di questo nuovo ordine viene rimarcato dalla riproposizione della memoria della preesistente ciminiera, attuale incrocio tra l’asse principale “centro storicoparco urbano” e l’asse “Sant’AgostinoSan Domenico”. L’asse principale, che corre parallelamente all’attuale fianco della cosiddetta “Barcaccia”, ovvero la preesistente piastra -opera di Sacripanti- che copre parzialmente il parcheggio, viene connotato da un muro posto a parziale schermatura di quest’ultimo e si struttura come una sorta di vera e propria promenade dinamica in quota, che vertebra come episodio accomunante, le diversità dell’intero intervento. La direzione della promenade è incrociata da vari percorsi di intersezione, che a scala urbana connettono le polarità del futuro Campus Universitario, della Rocca di Ravaldino, del centro

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antico e del parco urbano. Connettivo dell’intera proposta, appare l’uso di una naturalità artificiata, basata sulla realizzazione di un sistema di aree verdi i cui trattamenti di superficie variano dalle porzioni pavimentate in pietra, dalle aree a verde, a quelle formate da segmentati gradoni anch’essi a verde, il tutto secondo un disegno di sezione molto articolato, basato su terrapieni inclinati e piani verdi rialzati. Il valore del lavorare sul frammento, assume all’interno di questo lavoro, una sorta di triplice valenza. Ovvero si lavora all’interno di una ricomposizione complessiva, per cui i frammenti rappresentano il materiale di partenza, ma sono appartenenti ancora alla categoria del frammento, anche quelli proposti come elementi formanti il disegno generale. Sono tagli, quinte, brani, allusioni, temi accennati e mai interi, compiuti definiti; sono pezzi affioranti all’interno di una generalià che non si mostra nella propria compiutezza e finitezza, ma apre il fianco ad una complessità che immette nel proprio spessore compositivo, la cifra preziosa di altre valenze ad altre interpretazioni. E per fare tutto questo, si ricorre alla dimensione tradizionale del comporre, fatta di temi visibili narrati attraverso procedimenti canonici di giustapposizioni, di assialità, di polarità, attraverso cioè l’affermazione di regole e delle loro immediate trasgressioni, impostando attraverso un ragionamento progettuale che è anche esso stesso fatto di frammenti, la forza di una configurazione intelligibilmente classica. Ed è questa ambiguità bellissima, straniante a tratti, ma preziosissima, il vero nucleo essenziale della proposta, perché innesca a sua volta percorsi interpretativi fatti essi stessi ancora di itinerari frammentati, alludendo ad una estensione che la loro compresenza in apparenza scomposta, può donare alla complessità di un atto progettuale. E lavorare sul frammento significa altresì tentare una possibilità aperta a varie letture, come se nella simultanea percezione delle stratificazioni e delle latenze, si andasse a negare la forza di una teoria precisa. Il frammento annoda i fili delle diverse sospensioni, ma tende altre ambiguità. Mostra cose e ne sottende altre, orienta e confonde, lasciando alla capacità ermeneutica di ognuno, la possibilità di immettere oltre la dimensione certa e trasmissibile, anche la personale e poetica astrazione del sogno.

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Pagine precedenti: 1 Piazza Dante Alighieri con le fondamenta dell’antico impianto della Chiesa di Sant’Agostino 2 Veduta generale del progetto 3 Planivolumetrico generale 4 Sistemazioni a verde 5 L’esedra di testa 6 Il nuovo percorso di fianco alla “barcaccia” di Sacripanti 7 La struttura a piastra della preesistente “barcaccia”, il nuovo percorso pedonale e la memoria della ciminiera 8 Testa della nuova spina di collegamento tra le piazze Guido da Montefeltro e Dante Alighieri

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Flaviano Maria Lorusso e Alfredo Vacca

Ri-generazioni Flaviano Maria Lorusso

Frammenti Se la bellezza non è mai nei particolari, ma nell’insieme (Musil), tuttavia è un frammento ad esserne, assai spesso, l’insospettato e segreto gene, l’inattesa scaturigine, o il palese congegno intimo. È così che il frammento, sorprendente paradosso, origina od apre universi interi -concettuali, strutturali, formali- finalmente chiariti e compiuti, organicamente conclusi. Il cui splendore consiste tutto nell’esemplarità paradigmatica, nella sintetica perspicuità veritativa della sineddoche. La stele di Rosetta –scheggia materica ed immateriale ad un tempo di pietra e di segni- dischiude finalmente l’immenso universo precluso d’una lingua-civiltà da sempre senza voce. Una statua dell’isola di Pasqua emana, residua impronta monolitica, l’ultima, unica eco, impassibile e muta eppure così eloquentemente identitaria, d’una intera umanità perduta. Ed esigui residui sopravvissuti al tempo ed alle storie, i frammenti d’un’ode di Saffo o d’Alceo ricostruiscono tuttavia l’intero incanto d’edifici lirici quasi del tutto dissolti. O perfino, a conferma di imprevedibile agente di straordinarie metamorfosi, l’impura intrusione di un frammento informe permette alla natura prima e a Mikimoto poi, di creare la sferica, pura bellezza d’una perla. Oggetto d’ammirazione e rêveries ma anche leva metaforica o pretesto per poeti, artisti ed architetti, il frammento aggancia il presente ad una narrazione solo fratta, ma non perduta, la cui eco ancora persistente riverbera ragioni, suggestioni o moniti, o infine suggerimenti per avanzamenti della mente e del cuore: sorta di imprevedibile, in-

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congruo specchio in cui ri-conoscere il senso diacronico delle cose, il loro destino: inatteso volano metaforizzatore e biologico di misure e processi e linguaggi affatto nuovi, di nuove imprevedibili nominazioni, di inediti orizzonti di conforme bellezza. Fotografia, cinema e strip da fumetto irrompono perentoriamente, in reciproca contaminazione, con un’estetica della parte, della porzione, dell’inquadratura: figura ritagliata, circoscritta, spesso volutamente così ravvicinata da rinviarne un ulteriore ritaglio, che non diminuisce, ma si fa anzi, sorprendente ossimoro, ancor più efficacemente eloquente dell’intero di riferimento, della sua più compiuta verità significativa. Estetica veritativa del blow-up, dispositivo più potentemente perspicace che apre alla profondità celata di mondi imprevisti ed impercepiti: il frammento visivo come solo disvelatore, e assai più acutamente, dell’interezza della scena e del senso, del racconto cui rimanda, per ricostruirne l’edificio unitario e compiuto. Duchamp separa frammenti banali dal reale per rappresentarne la potenziale realtà parallela di rappresentazione concettuale, simbolico-estetica, dell’intero contesto di appartenenza. Così la Pop-Art: Lichtestein, Rauschemberg, Oldenburg, Rosenquist fanno della ri-creazione in artifici figurativi di frazioni e brani di realtà -concreta o immaginaria- il campo di indagine e di espressione della loro opera, con Wharol che ne monumentalizza i cascami consumistici e pubblicitari. Fino ad Hockney, che giunge a spezzettare in molteplici frammenti le stesse istantanee-frammento di foto Polaroid, per scrutarne l’anima. Sorta di “introspezione frammentata” che

Progetto di riqualificazione urbana con nuova sistemazione di piazza Plebiscito ed area ex Mercato Coperto a Gioia del Colle Progetto: Flaviano Maria Lorusso Alfredo Vacca 2004 Collaboratori: Francesco Deriu,Giovanna Ferri, Alessio Gai, Rocco Mancino



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Pagina precedente: 1 Il sistema della Piazza e del nuovo Auditorium-Galleria Espositiva. Veduta zenitale del plastico 2 Auditorium-Galleria Espositiva: sezioni longitudinali 3 Auditorium-Galleria Espositiva: pianta piano primo 4 Prospetti sulla Piazza: stato di fatto e progetto Pagine successive: 5 Auditorium-Galleria Espositiva: vista interna al piano della hall 6 Auditorium-Galleria Espositiva: vista interna al piano interrato

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trova esito nelle strisciate della loro ricomposizione in nuove realtà unitarie, ma d’altra natura: fratti mosaici più conclusi dell’originale in quanto portatori del valore aggiunto, dell’incremento illuminatore, sintesicamente visionario, dell’interpretazione. Fino ancora all’ipertrofia del segno-insegna della banalità architettonica della Las Vegas venturiana; e fino alla monumentalità metropolitana del fuori scala delle nuove dis-misure conformi o del dettaglioframmento espanso all’interezza della composizione, o almeno alla sua denotazione dominante. Attraverso i dispositivi processuali del completamento, dell’inclusione, del riverbero, dell’innesco, della ipertrofizzazione, i frammenti architettonici divengono pre-testi o ancoraggi o reagenti compositivi per unitarie rifigurazioni ricomponitrici o addirittura per inedite, progressive enunciazioni urbano-architettoniche e linguistiche e per metaforici processi scritturali attualizzati. Perenne ritrattamento di materia esistente (Nouvel), il cuore del progetto inevitabilmente con-sta in un processo analogico di archeologia del futuro (Ziggurat), che assume le parti incomplete del presente, quale sistema di preesistenze-persistenze e di lacune in conti-

nuo divenire, ad imprescindibile, appropriato e più fecondo sistema referenziale di regolazione e misurazione del suo compimento adattativo ed evolutivo in nuove presenze. La realtà urbana, per sua originaria sostanza, e quella contemporanea in particolare, costituisce il campo naturale di produzione perenne, e sempre più accelerata e quantitativamente rilevante, di scorie, residui, discontinuità, di lacerti, di avanzi di spazio, funzioni, strutture, specularmente conseguente alle dinamiche di ristrutturazione, sostituzione ed acquisizione inerenti alla propria intrinseca biologia vitale. Paesaggio urbano che, allontanandosi dalla sopravvissuta unità e compiutezza del suo cuore storico, si configura progressivamente, procedendo verso l’estremo sfrangiamento dei suoi limiti, come incalzante galassia di pezzi, sorta di informe big bang edilizio che la moltiplicazione-deflagrazione delle funzioni, dei materiali, delle tecniche, dei linguaggi -sia specifici che delle sovrastrutture ambientali tutte- sospinge a definitivo labirinto. Dissoluzione della storica unità morfologica ed estetica, che tuttavia genera, per contrappunto o assonanza, i due orizzonti critico-formali, le due radicalità estetiche della ri-


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cerca architettonica contemporanea: rispettivamente, il monolitismo e il decostruttivismo. Cifre progettuali opposte d’una stessa emergenza resistenziale, se non addirittura d’un’utopia palingenetica, che perseguono, per centralizzazione o vaporizzazione (Baudelaire), la sublimazione del frammento in una sua referenzialità matrice - concettuale, processuale e linguisticacome possibile principio ri-generatore di testo e scrittura, di forma e racconto d’architettura e d’urbanità di attualizzata autenticità. Vettori di ri-composizione dell’an-estetica scomposizione e discontinuità dell’informe labirinto urbano verso una pur possibile, latente sua rimessa in disegno, sotto forma di sua definitiva, inclusiva metaforizzazione linguistica, oppure, all’opposto, di contenimento, regolazione e misurazione secondo un sistema miliare di riferimento per sintetiche, puntuali, minimaliste unità catalizzatrici di densità eticoestetica. Ovvero, l’iper effrazione-rifrazione morfologica della scena urbana e dell’ipercomunicazione ordinate, in spazio e simbolo, dalla primaria densità archetipica del Cubo, dalla pura assolutezza e, ad un tempo, dall’imprevedibile, feconda relatività adattativa d’una sempre rinnovata boîte à miracle.

A Sud, in piazza, un monolite È secondo i su descritti intenti e processi che un lacerto edilizio -metà porzione di un edificio rimasto incompiuto-, sopravvissuto al suo inopinato errore di nascita, nei primi anni settanta, nel cuore d’una cittadina pugliese si fa agente imprevisto ed altrettanto inopinato di ri-generazione, fisica e simbolica, d’un luogo comunitario cruciale, la sua piazza principale. Sistema urbanoarchitettonico ottocentesco originariamente unitario e compiuto, tipico baricentro civico post unitario, violato e deformato da una dissennata ed incolta volontà demolitrice che, incapace di leggerne e riconoscerne i valori sedimentati di documento nodale della memoria storica collettiva locale, ne sfigura la sostanza funzionale, simbolica ed estetica complessiva, attraverso la manomissione geometrica della piazza e la cancellazione del vecchio Mercato Coperto prospiciente, tipico riverbero locale della modernizzazione urbana dell’epoca. Una lesione in forma di vuoto di risulta e di assenza, aggravata dall’edificazione, per giunta parziale, di un manufatto edilizio di cinica insipienza architettonica. Il progetto preliminare di riqualificazione dell’intero sistema nasce proprio

dall’interruzione suddetta, rivelatasi infine una fortunata risorsa, in quanto opportunità ancora di un qualificato risarcimento: il completo rifacimento della Piazza Plebiscito, in termini di ripristino geometrico, di ripavimentazione e di illuminazione, e la trasformazione e completamento del volume e dell’area residua compresi nel sedime dell’ex Mercato Coperto in Auditorium e Galleria Espositiva ne costituiscono gli esiti operativi. È nell’interpretazione come sofisticato puzzle processuale di rielaborazione dei materiali -fisici, funzionali e formali- ereditati ed analiticamente esaminati, e di innesto di quelli nuovi richiesti e offerti dalla contemporaneità, che si collocano il fondamento culturale, la scelta di campo metodologica e la regola compositiva in premessa all’elaborazione progettuale. Che, giustamente contestualizzata, realizza, ad un tempo, una profonda comprensione ed acquisizione dei dati, dei valori e delle connotazioni più essenziali delle matrici costitutive dell’identità del luogo investito -anche nel caso di loro riduzione a sole tracce, a scarni sedimi-, e una loro vitale attualizzazione evolutiva a mezzo dell’immissione dei nuovi bisogni e delle loro forme più congruenti. Ne scaturisce la sintesi delle due valenze in gioco

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come griglia matrice che innerva ed informa conseguenzialmente l’intervento: il nuovo impianto volumetrico si fa coniugazione tra le due coordinate, la storia ed il presente, rappresentate dalla ripresa morfologica del vecchio impianto planimetrico del Mercato e dall’assimilazione altimetrica del manufatto parziale esistente. Il frammento edilizio, non demolito ma assunto anzi come risorsa di fatto, innesca e guida dunque la metamorfosi richiesta, ispirandone la regolazione e l’evoluzione per completamento ed inclusione. Ne scaturisce un nuovo volume che compone finalmente in unità architettonica, assorbendola al suo interno con voluto contrappunto fisico, funzionale e formale, la compresenza dualistica del manufatto esistente, riciclato, e del vuoto contiguo, in parte solidificato nel

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nuovo manufatto dell’Auditorium-Galleria Espositiva. Connotandosi morfologicamente come un prisma rettangolare di m 41,30x18x14 di altezza, di estrema semplicità morfologica esterna, per assonanza agli edifici circostanti e per racchiudere la sorpresa dell’articolata complessità interna, si presenta come un monolite dal forte impatto materico, intagliato da aperture di diversa ampiezza e tipologia sui fronti laterali e in copertura, destinati all’areazione, alla captazione della luce e alla comunicazione visiva tra interno ed esterno. Chiavi dell’idea formale ne sono il voluto effetto neoarcaico di potente massa muraria affidato alle grandi lastre di carparo pugliese del rivestimento e la ripresa analogica dello spazio esterno per l’affaccio e lo stare all’aperto di tipica pertinenza degli alloggi del Sud, at-

traverso l’ipertrofia, la ridondanza del frammento-dettaglio del lungo balcone continuo che percorre al secondo piano l’intera facciata, divenendone il segno/insegna: come i balconi preziosamente elaborati, spesso unico fuoco di pregiata connotazione architettonica dei palazzi storici pugliesi. Ma per aggiungere anche una fruizione complementare alla caffetteria-book shop, di cui diviene espansione all’esterno, sorta di hall all’aperto: pensato pertanto come elemento di accentuato design, il balcone offre una lunga panchina per la seduta, sempre in carparo. Un traforo frangisole inscritto nella massa muraria incide a piano terra la facciata sud per relazionare la Piazza con l’atrio di ingresso e l’accesso alla sala Auditorium, ma in modo filtrato, schermato, ad inversa percettibilità a seconda del gior-


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no e della notte, e per non interrompere l’effetto monolitico d’insieme e contrapporsi all’unica, grande apertura trasparente che proietta all’esterno lo spazio douplex della caffetteria, a reciproca compenetrazione visiva con la Piazza. Un altro, lungo sedile in carparo arreda alla base esterna il marciapiede, a fronteggiare la Piazza. Al suo interno, il nuovo blocco dell’Auditorium con soprastante Galleria Espositiva è concepito come un monolito esso stesso, scavato al suo interno dalla sala e a forma direttamente sagomata dall’andamento inclinato della cavea stessa, che ne inclina anche il soffitto determinando la particolare spazialità della Galleria, sorta di piazza panoramica a leggera pendenza, illuminata diffusamente dalla copertura opalescente ed affacciata sul vuoto interno

e sulla caffetteria di fronte. Manufatto dalla massa muraria compatta ed introversa, geometricamente configurata per ampie sfaccettature, in voluto contrappunto alla razionale, smaterializzata ariosità della griglia del puro telaio cementizio, ora scarnificato alla sua essenza e totalmente aperto, del blocco originario. Una intercapedine di vuoto per l’intera altezza di quattro piani crea lo spazio baricentrico di cerniera e distacco dei due blocchi, permettendo la loro reciproca individuazione e commento e la distribuzione della luce del lucernario sino al piano interrato -spazio unitario di imposta dell’intero sistema soprastante-, integrandola a quella della grande parete vetrata sul fronte retrostante. Auditorium per 302 persone, Galleria espositiva, due salette conferenze, caffetteria-book shop, uffici

con sala riunioni e servizi costituiscono la dotazione funzionale del nuovo edificio. A rigenerazione del valore d’uso e simbolico d’una attrezzatura civica di attualizzata referenza collettiva nonché del valore urbano di recuperata e più degna quinta architettonica del cuore rappresentativo della città. Esito finalmente rovescio d’una frattura, in grado di germinare, dall’informe, frammentario residuo di sé depositato dalla risacca degli eventi e del tempo, l’inattesa rimessa in forma d’una ritrovata, adeguata e compiuta interezza.

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Alvaro Siza Vieira e Roberto Collovà

Piazza Alicia e Chiesa Madre a Salemi Roberto Collovà

Dal 1982 a Salemi, in Sicilia, è in corso una lenta operazione di recupero del Centro Storico, condotta in un difficile clima politico-amministrativo. Essa riguarda la Piazza centrale in cima alla collina su cui è insediata la città di origine araba. Sulla Piazza si affacciano il Castello svevo, la Chiesa Madre, ricostruita e ampliata (XVII sec.) sull’originario nucleo normanno, un Palazzetto (XVIII sec.), schiere di abitazioni a due-tre livelli. I progetti della Chiesa e della Piazza sono separati solo amministrativamente. Nei fatti fanno parte di un unico Progetto urbano, a cui dovrebbe seguire la realizzazione del “Progetto per il recupero e la riconversione ambientale del quartiere Piano Cascio”, a valle della Chiesa Madre dietro l’abside. Questi progetti, insieme al “Piano per il quartiere del Carmine” con il suo “Teatro all’Aperto” realizzato già nel 1997, costituiscono la prima trasformazione urbana alla scala della città dopo quelle attuate dagli ordini religiosi dal XIII al XVI sec. Il Progetto Urbano oltre ad avere un’estensione dimensionale pari al Centro Storico, ha per oggetto una grande estensione di livelli di intervento che affrontano questioni ricorrenti in tutta la città storica: da quelle puntuali a quelle che ordinano, attraverso soluzioni tipiche, la struttura, gli spazi e le superfici della città. È per questa ragione che il progetto è difficilmente descrivibile con pochi disegni: esso è costituito da tanti piccoli progetti. La Strada, che risale a tornanti dalla “Piazza bassa” fuori le mura alla “Piazza alta” della Chiesa, è costituita da sette punti che affrontano com-

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plessi e tipici problemi di rapporto con altre vie e spazi urbani. Ci sono inoltre altri progetti specifici come quello dei tipi di soglie, quello dell’illuminazione, con tre tipi di lampade e quello delle decorazioni esterne che lascia frammenti dell’ordine classico in posizioni didascaliche sulla nuova facciata della Chiesa Madre. Il progetto principale consiste nella reciproca trasformazione della Piazza e della Chiesa: il cambiamento di forma della Piazza origina dall’intenzione di riconvertire gli effetti negativi del terremoto in elementi di relativa rifondazione della città scegliendo di ricostruire la Chiesa solo per sottrazione. La collocazione degli elementi di spoglio della Chiesa, in posizioni esterne nello spazio laico, lungo le due direttrici del colonnato, proietta nella città l’ordine del nuovo spazio, una volta interno; mentre lo spazio della Piazza civica si estende ora dentro il recinto della Chiesa e trova il suo nuovo sfondo nella sezione del transetto e nell’ombra dell’abside. Ci sono poi i progetti dei nuovi luoghi urbani di appoggio alla Piazza, come la Pergola-passaggio,collegamento tra lo spazio centrale della Piazza e il quartiere retrostante del Piano Cascio, e il Passaggio tra il recinto della Chiesa e il Patio, con i nuovi servizi e i piccoli negozi, dietro l’abside, ottenuto dallo svuotamento delle abitazioni una volta addossate ad essa. Infine c’è il progetto di recupero degli spazi interni (i magazzini sottostanti il livello della Chiesa e addossati al suo fianco e la sacrestia e altri locali di servizio), realizzato attraverso consolidamenti strutturali e profondi tagli nelle

Piazza Alicia, strade e aree adiacenti, e ricostruzione della Chiesa Madre nel Centro Storico di Salemi, Italia Progetto: Alvaro Siza Vieira Roberto Collovà 1984 - 1997 Collaboratori: Oreste Marrone Viviana Trapani Ettore Tocco Giambruno Ruggeri Francesca Tramonte Giuseppe Malventano Alessandro D’amico Pierangelo Traballi Angela Argento Marco Ciaccio Alba Lo Sardo Ketti Muscarella Renato Viviano Foto: Roberto Collovà


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murature, che producono, anche con l’introduzione di una nuova scala, una radicale trasformazione tipologica.1

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da: R. Collovà, A. Siza Vieira, Recupero nel centro storico di Salemi, in Catalogo Premio Medaglia d’Oro all’Architettura Italiana della Triennale di Milano, pp. 92-97, The Plan–Art & Architecture Editions, Milano 2003

Pagine precedenti: 1 Piazza Alicia e Chiesa Madre 2 Piazza Alicia, abaco delle soglie 3 Strada, Piazza Alicia e Chiesa Madre 4 Piazza Alicia 5 Chiesa Madre, ambienti alle spalle dell’abside 6 Chiesa Madre, collegamento Chiesa-corte pubblica 7 Progetto Chiesa Madre, Piazza Alicia, strade e spazi adiacenti. Planimetria delle pavimentazioni Pagine successive: 8-9 Chiesa Madre, continuità pavimentazione Piazza-Chiesa 10 Chiesa Madre, pianta a quota 125 11 Assonometrie: progetto, situazione al 1982 12 - 13 - 14 Chiesa Madre, trasformazione dei magazzini al livello della strada a valle, foto interni 15 -16 Strada laterale e nuova pergola 17 Chiesa Madre, trasformazione dei magazzini al livello della strada a valle, planimetria

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Francesco Venezia

Il trasporto di un frammento

Ho spesso riflettuto sul senso dell’architettura di spolio, riportandola nel vasto ambito delle relazioni fra cava ed edificio e delle trasformazioni ad esse connesse. Laddove alle masse della pietra che dormono un sonno mortale nella terra vanno sostituiti edifici o parti di edifici ridotti dal tempo a geografia, animati per sempre da relazioni già trasferite dall’ordine delle cose naturali a quello dell’architettura. “...je déterminai au plus haut point l’opération de transformer une carrière et une foret en édifice, en équilibres magnifiques!...” Così nelle parole di Eupalinos di Paul Valéry. Così nelle cave dei templi di Selinunte a Cusa i rocchi giganteschi, appena cavati alla luce dalla notte solida, e fermi per sempre nel lento viaggio di trasferimento verso i cantieri sul mare. Un evento imprevedibile ce li ha resi, appena cavati, già materiale di spolio, definiti per un programma mai messo in atto e pronti a collaborare a un programma nuovo non ancora determinato, che li accolga “come già sono”, frammenti di un edificio virtuale indecifrabile. Indecifrabilità da un lato, strutturazione dall’altro – il materiale di spolio resterà

sempre in un nuovo edificio come una cifra misteriosa a lato dentro il corpo di versi scritti in una lingua familiare. Al di là delle ragioni pratiche, sono queste le attrattive dell’architettura di spolio: un sistema in cui l’ordine delle cose naturali è già trasformato in quello dell’architettura – e in una qualche misura alla natura è ritornato – entra in gioco in un’opera nascente insieme a un sistema in cui un’analoga trasformazione inizia ad attuarsi per la prima volta. Nella contaminazione tra quanto vi è di indecifrabile e per sempre muto, e quanto vi è di disponibile ad assumere infinite forme di struttura si gioca la “durata” stessa dell’edificio, il tempo che riusciamo a distendere tra il fossile e il vivente. Trasferimento di relazioni – trasferimento. Il fascino di un frammento approdato in un luogo come su di un arenile al ritiro dell’onda. Oppure la stessa relazione, ancorché non realizzata per parti vere, semplicemente rappresenta come “gioco delle parti”, metaforicamente... In tal senso l’architettura nasce frequentemente di spolio. (1981)

1 Teatrino all’aperto a Salemi, veduta verso l’abitato 2-3 Schizzi di studio Pagine successive: 4-5 Vedute verso la valle

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6 Il letto di blocchi della facciata smontata in attesa sul sito del nuovo edificio. Sullo sfondo il prospetto di progetto 7 Pianta del primo livello e prospetto interno 8 Particolare del riposo

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9 Particolare della facciata principale: in primo piano, la rampa di accesso al secondo livello 10 Studio della rampa e del passaggio pensile 11 Dettaglio del Museo di Gibellina

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Gregotti Associati International

Headquarter Pirelli a Milano Vittorio Gregotti

Il progetto per la trasformazione delle aree degli stabilimenti Pirelli nel nord est dell’area di Milano risale al biennio 1985-86 e sarà probabilmente terminato, a distanza di venti anni, nel 2006. In questi venti anni si sono consolidate alcune mutazioni strutturali nel campo del lavoro, della sua natura ed organizzazione, in quello delle trasformazioni territoriali ed urbane e delle loro concezioni e, più da vicino al nostro lavoro, nelle vocazioni, metodi e concezioni della nostra stessa disciplina. Per quanto riguarda le trasformazioni urbane e territoriali l’occasione di ristrutturazione che avrebbero potuto offrire i progetti per le aree dismesse è sovente stata vanificata da una assenza volontaria di strategia territoriale, a sua volta connessa all’ideologia della deregolazione ed alle spinte, in larga parte dell’Europa, tese a favorire la formazione di una città dispersa (assai più che diffusa), priva di gerarchie e deprivata del senso stesso della prossimità, oltre che distruttiva dell’indebolito spazio agricolo. Nel caso specifico delle aree Bicocca la sua elezione a polo dell’area nord est di Milano è stata tutta dettata dalla volontà interna di utilizzare al meglio la scelta di una voluta e forte mescolanza funzionale e sociale nonché la presenza volontaria di servizi rari in grado di promuovere nuove e continue interrelazioni necessarie tra l’area specifica ed il resto del territorio. La sostanziale mancanza di convergenza sul tema della città costruita che caratterizza il nostro tempo obbliga ad uno sforzo sproporzionato di unità progettuale dal piano di attuazione sino alle architetture al fine di mettere in

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atto una parte significativa di città dotata di chiarezza, semplicità, organicità ed ordine, capace di offrire le proprie strutture all’immaginazione sociale senza passare attraverso la caricatura della finta stratificazione e della varietà artificiale, affrontando la difficile condizione del tempo breve della sua fabbricazione, e l’idea di una forte unità intenzionale quale eredità storica della tradizione del grande disegno urbano. Per quanto riguarda la concezione dell’edificio specifico della sede centrale delle attività del gruppo Pirelli (poi trasformata in sede della sua società immobiliare che fu a capo delle trasformazioni stesse dell’area), esso fu immaginato, già nel progetto del 1986, come l’allegoria stessa della mutazione dei contenuti di lavoro e del passaggio dell’area da recinto di produzione a parte di città, come un edificio che ingloba senza distruggerla, facendone il cuore delle sue attività collettive e pubbliche, il simbolo della precedente condizione produttiva: la torre di raffreddamento del precedente impianto industriale. Sono almeno una settantina di anni che si scrive e si discute con diverse tesi sui vantaggi di liberazione dalla fatica del lavoro ripetitivo offerti dalle forme dell’automazione e dai problemi posti nello stesso tempo dalla progressiva trasformazione della natura del lavoro che essa implica; anche se per questo non deve essere svalutata l’importanza centrale della costruzione dei beni materiali, come ha scritto di recente Luciano Gallino a proposito della decadenza dell’industria italiana. Questo processo peraltro include ogni tipo di lavoro, sia meccanico o terziario, di organizzazione dello stato e anche delle professioni,

Progetto: Gregotti Associati International Augusto Cagnardi Vittorio Gregotti Michele Reginaldi con: Cristina Calligaris, Simona Franzino - Associati Giuseppe Agata Giannoccari Audrey Cadona Claudio Calabrese Ludovica Costa Carlotta Garretti 1986-2004 Committente: Pirelli & C. Real Estate Project mangement: Pirelli & C. Real Estate Project management spa


1 Veduta dell’ex torre di raffreddamento al centro della corte interna foto Mimmo Jodice 2 HQ- Pirelli, Sezione Prospettica Pagine successive: 3 Veduta del fronte ovest foto Donato Di Bello 4-5-6 Pianta Piano Terreno Pianta Piano Primo Pianta Piano Tipo

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con tutti i rischi di esclusione che questo comporta. Le ipotesi sono molte: lavorare meno e lavorare tutti, tassare i benefici dell’automazione a favore di lavori nel campo della solidarietà, procedere verso lavori sempre più diffusamente creativi o semplicemente, come sostiene il gruppo tedesco “Krisis”, distruggere la nozione stessa di lavoro. Anche se personalmente credo si debba piuttosto tentare di trasformare il lavoro in una parte integrante e non separata della nostra vita, non vi è dubbio che nell’ultimo secolo la questione del lavoro abbia occupato un posto fondamentale e particolarmente accelerato nel rinnovamento delle città, del territorio e delle architetture, proponendo sovente contraddizioni irrisolte. Se per esempio il tema del rapporto casa-lavoro ha posto problemi al trasporto urbano, altrettanti ne porrebbe la loro coincidenza promessa dai sistemi informatici di comunicazione a distanza a causa della perdita ulteriore di ogni concerto comunitario di interessi e di proposte. Nei paesi cosiddetti avanzati l’aumento di importanza quantitativa e mediatica dei servizi ha comunque posto nuovi temi alla tipologia stessa del luogo di lavoro, temi che vanno molto al di là delle diverse concezioni efficientiste di layout, che mettono a confronto livelli e funzioni diverse ed interagenti all’interno del mondo stesso delle organizzazioni di servizio, che presuppongono un flusso di comunicazioni fisiche oltre che mediatiche tra esterno ed interno e che dovrebbero muovere alla ricerca di un’articolazione delle stesse possibilità di azioni interne ai sistemi organizzati capace anche di render conto ed elevare a coscienza i fenomeni di trasformazione e le loro contraddizioni. L’edificio cerca anche di rappresentare questo stato di mutazioni, proponendo un’alternativa all’organizzazione spaziale tradizionale dalle grandi concentrazioni terziarie. Appoggiato su una costruzione di due piani fuori terra (un basamento che contiene i parcheggi pertinenziali ed il portico d’ingresso principale), l’insieme si presenta all’esterno come un cubo di 50m di lato e composto di tre ali destinate ad uffici e da una fronte vetrata verso il giardino della quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi. Il volume cubico racchiude la torre di raffreddamento, creando un grande vuoto a tutta altezza, la hall centrale,

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Pagine precedenti: 7 Veduta della corte interna con l’ex torre di raffreddamento e la grande vetrata appesa foto Toni Nicolini 8 Le passerelle di accesso alle sale riunioni nell’ex torre di raffreddamento foto Toni Nicolini

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9 La sala riunioni all’ultimo piano della torre foto Mimmo Jodice 10 La sala riunioni nell’ex torre di raffreddamento foto Toni Nicolini 11 Veduta dell’auditorium al piano terreno dell’ex torre di raffreddamento foto Mimmo Jodice 12 L’auditorium al piano terreno dell’ex torre di raffreddamento foto Toni Nicolini


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che si configura come corte interna di distribuzione e collegamento tra spazi dalle differenti funzioni e caratteristiche. Una nuova struttura progettata all’interno della torre di raffreddamento e ideata per seguirne la superficie parabolica con una serie di aste rettilinee in acciaio, sostiene quattro nuovi impalcati interni, posizionati nei punti di snodo della nuova struttura portante, destinati ad ospitare funzioni particolari come sale riunioni e centri di accoglienza e centri di calcolo, collegati, alle ali del nuovo edificio, attraverso passerelle aeree. A piano terra, alla quota della corte interna di distribuzione e accessibile direttamente da essa, il volume della torre di raffreddamento contiene una sala conferenze da circa 350 posti. La copertura dell’edificio della hall è in vetrocemento secondo un reticolo regolare di 3mx3m. Tutto il nuovo edificato è rivestito in lastre di grès porcellanato colore grigio scuro mentre i serramenti, a nastro continuo, sono in alluminio colore naturale così come il brise-soleil previsti lungo le fronti est e sud e come gli elementi di giunto orizzontale tra le lastre. Al piano interrato, che si sviluppa sotto il basamento e sotto le ali del nuovo edificio in modo da non interferire con le fondazioni del camino, trovano spazio, oltre ad una quota di parcheggi pertinenziali, i locali tecnici, ed i servizi di ingresso ed accoglienza. Naturalmente l’insieme volumetrico dell’edificio con la sua cripticità e la sua apertura gioca un ruolo essenziale nel sistema urbano complessivo dell’area Bicocca, situato all’angolo del passaggio verso l’esistente parco di Bresso e come nuova presenza nel-

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l’area del recinto che contiene le principali sedi di direzione del gruppo. Si può dire di tutto questo che si tratta di una descrizione critica di una condizione generale di trasformazione per mezzo di un’opera che risponde in ogni modo a scopi precisi e ne prende al tempo stesso le distanze? E dall’interno della nostra pratica artistica di un inglobamento dei monumenti della propria tradizione sino ad una forma di surrealismo urbano? Naturalmente alle spalle di tutto questo sta anche, ne sono ben conscio, la tradizione del montaggio come strumento compositivo ma anche come negazione della sintesi in quanto principio di configurazione. L’inserimento nell’opera di materiali non elaborati dalla soggettività dell’artista nega forse l’idea stessa di organicità. Non è più l’armonia a costruirsi come totalità ma la relazione (e la contraddittorietà) degli elementi che la compongono. Siamo dunque dentro l’ipotesi “politica” di una parte rilevante della tradizione oppositiva delle avanguardie ma, nello stesso tempo, guardiamo storicamente ad essa? Difficile rispondere in modo diretto da parte degli autori; in ogni modo tutti questi sono certamente materiali importanti del processo di formazione dell’opera architettonica. Se questa architettura non sarà dimenticata o distrutta, essa certamente verrà guardata con interpretazioni diverse da quelle che qui ho cercato di spiegare. Tuttavia anche se le intenzionalità originali saranno dimenticate, esse resteranno confitte nell’opera; ne sono parte costitutiva, come le materie, le ragioni, le tecniche e le forme con cui essa è stata costruita.

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13 Planimetria generale dell’area Bicocca, la Sede della Pirelli R.E. (in rosso) SLP 14.077 mq parcheggio 6.824 mq altezza 50 m piano fuori terra: basamento 2, edificio 11 piani interrati: basamento1, edificio 1 auditorium: 366 posti 14 Veduta da Sud. In primo piano un ingranaggio dei macchinari delle vecchie fabbriche Pirelli foto Toni Nicolini 15 Veduta dell’angolo Sud-Est foto Donato Di Bello

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Frammenti della Firenze romana Marco Bini

Comincia, si può dire dal 1881, allorquando l’amministrazione comunale fiorentina delibera l’inizio dell’intervento di risanamento con l’abbattimento delle botteghe e delle baracche in piazza del Mercato Vecchio,1 la grande operazione di rilievo archeologico urbano avvenuto in occasione del ‘rinnovamento’ che doveva sconvolgere l’antico cuore della città, trasformandone radicalmente, nell’arco di un decennio, la struttura urbana, in uno stravolgimento di destinazioni che giustificano l’ambigua iscrizione, appositamente coniata e impressa sul grande arco visibile nell’attuale piazza della Repubblica: “a vita nuova restituito”. A seguito dell’approvazione del “Piano municipale di riordino” avvenuta alla fine del 1886,2 la Giunta comunale, il 23 marzo dei 1888, delibera di nominare una “Commissione Storico Archeologica Comunale” con l’incarico di far eseguire gli studi e le ricerche necessarie su tutto ciò che esisteva o che fosse venuto alla luce durante le demolizioni del centro. Alla commissione veniva affiancato l’architetto Corinto Corinti,3 destinato ad occuparsi con una certa continuità delle demolizioni del centro antico, certamente uno dei maggiori interessati a ciò che stava nel sottosuolo fiorentino, avendo intuito le possibilità uniche che un’operazione di tale vastità, per quanto devastatrice, avrebbe offerto al suo specifico campo di studi. Al Corinti e ai suoi diretti collaboratori dell’Ufficio tecnico speciale si devono infatti la grande quantità di materiali4 (rilievi, documentazione fotografica relazioni, rapporti, ecc.) solo in parte noti fino a pochi anni fa, oltre ad un’impor-

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tantissima, anche se spesso elusa, opera di sorveglianza sugli scavi che doveva permettere di recuperare molti dei reperti che formeranno successivamente l’apposita sezione del nuovo Museo Archeologico e del Museo di San Marco. Il primo resoconto dei lavori svolti appare in una lettera inviata dal Corinti l’8 marzo 1891 al sindaco Torrigiani; lettera in cui l’architetto illustra la sua attività (iniziata il 16 dicembre 1889) ed in particolare il modo di operare, le scoperte fatte, i disegni eseguiti. Come già accennato l’operazione Mercato Vecchio apriva agli archeologi possibilità di studio sino ad allora impensabili: “Senza le demolizioni e gli sterri per la rinnovazione del Centro di Firenze, non avremmo avuto i documenti autentici con cui ricostruire le prime pagine della storia della capitale della Toscana” scrive infatti il Dilani, soprintendente archeologico per la Toscana, con una sorta di riverente gratitudine ai demolitori, nel presentare al pubblico quelle che definisce le “reliquie monumentali... testimoni irrefragabili dell’antico splendore di Firenze” rimontate ed esposte nel grande e nel piccolo cortile del Museo, “cola come in una delle sale interne”.5 Avanzi dei templi di Giove e di Iside, ruderi delle Terme e del Campidoglio, della porta settentrionale della città con un pezzo di strada romana, di una casa repubblicana con tutte le modifiche da essa subite nella decadenza, dovrebbero mostrare nelle intenzioni dell’archeologo, la ricchezza di questi edifici, non certo al contrario rileggibili nel caotico assemblaggio di frammenti, spesso casualmente accostati, “dando vita - come scrive Marco Dezzi

1 Veduta aerea di piazza della Signoria. Come in una radiografia, i resti delle strutture murarie rinvenute durante gli scavi archeologici effettuati fra la seconda metà degli anni settanta e la prima degli anni ottanta del secolo scorso, emergono al di sopra della pavimentazione in pietra della piazza. Pagine successive: 2 Autorità, operai e tecnici in una fotografia del 10 dicembre 1893 che documenta un particolare momento della vita dello scavo dell’antico centro di Firenze. (Soprintendenza Archeologica per la Toscana, in seguito S.B.A.T., Archivio fotografico, Centro di Firenze) 3 Appunti di rilievo di alcuni muri delle terme romane in prossimità del Campidoglio, redatti da Corinto Corinti. (S.B.A.T., Archivio Disegni, Fondo Corinti, cartella 19, dis. 2) 4 Pianta dei ruderi dell’antica porta della città, detta ‘del Duomo’ o ‘del Vescovo’, e dell’adiacente strada romana, redatta nel 1895 dall’architetto Lucarini, per essere allegata ai rapporti settimanali che il Corinti regolarmente eseguiva. (S.B.A.T., Archivio Disegni, Fondo Corinti, cartella 58, dis. 13)



Bardeschi - a delle singolari edicole architettoniche, paradossali ricostruzioni dell’antica Firenze.... dall’esito delirante tendente involontariamente al comico urbano”.6 Quello che fortunatamente ancor oggi rimane è una documentazione grafica dei rilevamenti effettuati dal Corinti, più volte utilizzati in particolare dagli archeologi, che, pur non interessando nella sua completezza l’antico centro, costituiscono pur sempre fonte inesauribile di notizie molto più precise ed attendibili di quelle fornite dalle famose “cartoline” pubblicate dal Corinti stesso pochissimi anni prima della sua morte e che risentono di tutta una serie di interpretazioni, ripensamenti od abbellimenti che ne snaturano quasi completamente il significato documentario originale.7 Proprio per questa ragione il Corinti orientò i suoi sforzi, attraverso la testimonianza dei ritrovamenti, verso la ricostruzione grafica dell’impianto della città romana e medievale in un tentativo di sintesi e di rappresentazione del disegno urbano che, superando il limite del singolo episodio architettonico, si indirizzava verso la rilevazione analitica e critica di interi isolati. In questa ottica “le operazioni di misurazione diretta risultarono decisamente molto lunghe e laboriose, e non sempre si riusciva a tener dietro alle demolizioni”: ciò che veniva alla luce la mattina, spesso alla sera era già scomparso”. Per questa ragione il Corinti stesso si fece promotore di pressanti richieste presso l’amministrazione comunale in modo da avere a disposizione uno strumento nato da pochi decenni: una macchina fotografica con la quale poter fissare rapidamente le immagini degli edifici da demolire e in demolizione. Nella frenetica attività costruttiva che vedeva rapidamente sostituire gli antichi e logori edifici con la nuova edilizia borghese, per il moltiplicarsi delle iniziative, il controllo sembrava spesso sfuggire di mano alla stessa amministrazione. Dagli ultimi scritti del Corinti emerge infatti il rammarico di uno studioso e di un tecnico che molto di più avrebbe voluto fare per salvaguardare un patrimonio del quale oggi resta traccia solamente nei suoi disegni.8 Come per altre colonie romane anche Florentia, all’incrocio tra il cardo maximo ed il decumano maximo, ebbe il

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Foro, il Tempio Capitolino e altri edifici pubblici. Come affermato da Guglielmo Maetzke,9 molti sono i problemi che la topografia di Firenze romana proponeva agli studiosi di fine ottocento tanto che solo le esplorazioni del sottosuolo eseguite dal dopoguerra ad oggi hanno permesso di chiarire, almeno parzialmente, la forma urbana.10 Oggi non rimangono molte testimonianze visibili di come un tempo fosse organizzata Florentia; la memoria del passato romano la rileggiamo solo nella toponomastica stradale o nell’andamento di alcune vie, mentre resti sporadici di muri o fondazioni si possono vedere solamente nelle cantine di alcuni palazzi o di edifici monumentali quali il Battistero e la Cattedrale. Dai documenti grafici elaborati dal Corinti si evincono comunque molte informazioni sulla struttura della città e delle sue fabbriche. Dalle ricostruzioni storico archeologiche è emerso che subito dopo la fondazione della città vennero edificate le quattro porte, in asse con cardo e decumanus, precedenti di qualche decennio alla fondazione delle mura che, edificate verso il 30 a.C., si svilupparono secondo un perimetro di circa 1800 metri, sopra una superficie di circa 20 ettari. Delle porte è nota soprattutto quella settentrionale, chiamata nel medioevo Porta contra Aquilonem, o Episcopi. Le fondazioni di tale porta vennero in luce durante gli scavi del 1895, presso la demolita ala del Palazzo Arcivescovile. Gli appunti metrici, ma in particolare la ricostruzione in scala allegata al rapporto settimanale n. 58 ci mostrano che essa doveva avere un solo fornice di 12 piedi, circa 3,60 metri.11 Ai lati della porta i rilievi mostrano due torri troncoconiche in laterizio oltre le quali si snodava la cortina muraria, costruita in mattoni di grandi dimensioni.12 Fra i molti disegni che il Corinti esegue, alcuni ci danno informazioni anche se frammentarie del Foro, posto all’incrocio della Via Cardinale col Decumano, ai piedi del podio da cui si elevava il Tempio Capitolino. I rilievi dei frammenti di lastricato stradale rinvenuto, ci mettono in evidenza un luogo che, in una prima fase, doveva essere aperto anche al passaggio di carri; il lastricato della Via Cardinale risultò, infatti, profondamente inciso dalle loro ruote. La documentazione di rilievo grafico a disposizione per la conoscenza esten-

siva del Foro non è comunque molta; con i dati a disposizione degli archeologi non è stato possibile indicare una cronologia esatta delle sue varie fasi. Risulta più o meno inalterato durante i primi decenni dell’impero, perché è a questa epoca che si riferiscono i lastrici con il segno dei passaggio dei carri. Un edificio termale fu scoperto, documentato e rilevato dal Corinti durante le demolizioni del 1892 e degli anni seguenti, in prossimità del Campidoglio. 13 Copriva un’area di circa 2400 mq e venne costruito in una delle insulae cittadine che, fino al periodo Repubblicano, era stata occupata da abitazioni, trasformate all’inizio dell’Impero in edifici più spaziosi, ma che molto presto cedettero il posto all’edificio termale, nel periodo in cui, sotto l’impulso di iniziative e di finanziamenti governativi, la città si ampliò e si arricchì di nuovi monumenti.14 Quello che oggi ci rimane dell’antico cuore di Firenze non è altro, purtroppo, che una consistente documentazione grafica di rilievo, un coacervo di frammenti per mezzo dei quali è possibile ricostruire idealmente l’immagine della città scomparsa, certamente con maggior precisione ed attendibilità di quanto abbia fatto lo stesso Corinti quando, ormai vecchio, pochi anni prima della sua morte, pubblicò le sue cartoline della Firenze romana e medievale. Questi grafici per decenni lasciati chiusi in un armadio quasi a voler nascondere al mondo le testimonianze di uno scempio, oggi hanno moltissimi meriti fra cui quello di garantire la conservazione di frammenti della memoria di quanto scomparso e permetterci di tentare una costruzione attendibile e misurabile dell’immagine dell’antico centro di Firenze che artisti e scrittori, coevi allo sventramento, avevano raffigurato con tutti i lirismi e le trasfigurazioni tipici dell’arte letteraria e pittorica. Analoghi avvenimenti hanno interessato il ritrovamento delle inaspettate terme romane emerse dagli scavi effettuati in piazza della Signoria dal 1974 che mi hanno visto, giovane laureato, impegnato in operazioni di rilievo e documentazione di ciò che quotidianamente veniva alla luce, certamente non assillato da incombenti demolizioni come accadde al Corinti. Ritornando con la mente ai giorni dei rilievi dell’area interessata dagli scavi in piazza della Signoria, la memoria dei


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luoghi nascosti dal tempo riaffiora, ripercorrendo le tappe della escavazione che attenti rilievi ed elaborazioni grafiche documentano, mostrando un’area una volta completamente occupata da case, torri, chiese e strade, demolite fra il XIII ed il XIV secolo per la realizzazione della piazza15 così come oggi la vediamo, se si esclude l’inserzione della vasca del Nettuno che l’Ammannati iniziò nel 1594, la statua equestre di Cosimo I del 1594 e la pavimentazione a lastre di pietra realizzata negli ultimi anni del XVIII secolo andando a sostituire quella originaria in cotto.16 Al di sotto del manto superficiale del lastricato di pietra, un inaspettato complesso termale di epoca romana risalente al II secolo,17 emerse in tutta la sua complessità. I resti di questo edificio furono trovati per la massima parte conservati in altezza sino a contatto col lastrico attuale, regolarmente scapitozzati e livellati per permettere la pavimentazione della piazza, segno evidente della loro esistenza anche al di sopra del livello della piazza in epoca medievale e del loro essere inglobati nelle strutture murarie di case e torri medievali. I disegni di rilievo documentano un salone a pianta presumibilmente rettangolare il cui lato meridionale misura 28 metri ed una vasca semicircolare di undici metri di diametro, un frigidarium, che vi si addossa; ambedue i vani risultarono lastricati in marmo come in marmo dovevano essere i rivestimenti delle pareti. Nello spessore della muratura dell’esedra, di circa tre piedi, dalla parte interna, si trovavano cinque nicchie, tre rettangolari e due semicircolari, predisposte per collocarvi delle statue, di cui però non sono state trovate tracce. L’esame delle murature del salone indusse l’archeologo a pensare che questo fosse a ciclo aperto, mentre la vasca, ad un livello inferiore di tre gradini rispetto al precedente, poteva concludersi in alto con un grande catino.18 Al lato del grande arco, che doveva dividere il salone dalla vasca a emiciclo, si apriva una porta che conduceva ad un ambiente quadrangolare riscaldato e da questo ad un altro, sempre riscaldato; ce lo testimoniano le canalizzazioni per l’aria calda e le sospensurae rinvenute, direttamente collegate con le gallerie del forno a cui si accedeva da un’ampia scala. Potendo ipotizzare e in parte constatare una disposizione simmetrica degli ambienti lungo un’as-

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se longitudinale con andamento nordsud che attraversa il frigidarium e la vasca semicircolare, è possibile immaginare una distribuzione degli ambienti tale da far pensare ad una lunghezza dell’intero complesso che si aggira intorno ai 60-70 metri per una larghezza di 40-50 metri.19 Gli scavi hanno messo in luce, ed i rilievi grafici oggi ce lo attestano, una serie di strutture edilizie che testimoniano il lungo periodo di vita che ebbe il complesso termale, esso stesso nato su un insediamento precedente sempre di epoca romana modificato a seguito di importanti mutamenti urbanistici. L’impianto romano delle terme non doveva aver subito sostanziali rifacimenti e restauri, per lo meno da quanto mostravano le strutture in elevato pervenuteci; il pavimento marmoreo del grande salone mostrava ancora infatti larghi tratti dove le lastre, spesso riutilizzate da strutture romane precedenti, erano ben conservate nella loro originaria disposizione a file parallele. Ripercorrendo i disegni di rilievo è possibile scendere idealmente nelle gallerie di servizio che correvano sotto il frigidarium per accedere ai forni che riscaldavano l’intero complesso. Un grande arco a tutto sesto in conci di pietra, del tutto simile a quelli poi realizzati in epoca medievale, a cui si arrivava percorrendo una scala che dal livello della piazza scendeva di circa cinque metri, dava accesso ad un ambiente voltato a botte con pareti laterali in pietra a filaretto su cui si impostava la volta a botte, leggermente ribassata. Gli scavi successivi hanno portato alla luce l’intera galleria utilizzata per il rifornimento di legame per i vicini forni.20 A poco più di quattro metri sotto il livello della piazza, infatti correva un’altra galleria su cui si apriva la bocca di un forno, realizzato sia nella parte ad arco a tutto sesto che nelle spalle in elementi di laterizio. L’aria riscaldata dal forno, passando da una stretto cunicolo, veniva convogliata verso gli ambienti attraverso tubuli e sospensurae in modo da riscaldare tepidario e calidario. Il complesso cessò la sua funzione ed iniziò un periodo durante il quale l’utilizzazione della struttura termale venne meno; ci è testimoniato dall’accumulo di circa 30 centimetri di terreno sopra il piano del grande salone e di altri ambienti, all’interno del quale gli archeologi hanno rinvenuto scarse testimonianze che documentano l’ab-

bandono già dal V secolo, periodo in cui la città già doveva essersi ridotta di estensione. Buche di palo rinvenute sul piano di calpestio romano fanno pensare alla presenza di baracche o tende provvisorie a dimostrazione del fatto che le aree più periferiche della città erano state “degradate” a luoghi suburbani. Solo qualche tempo più tardi i fiorentini costruirono sul luogo dove sorgevano le terme, molte torri i cui resti furono allora rinvenuti e documentati col rilievo. Le loro fondazioni imponenti talvolta utilizzavano le strutture romane ancora superstiti, talaltra si impostavano direttamente sul grande pavimento a lastre di marmo della sala grande delle terme. I rilievi da me eseguiti, documentano gli scavi del 1974 diretti da Gugliemo Maetzke allora Soprintendente alle Antichità di Firenze. I lavori, successivamente ripresi nel 1983-89 sotto la guida di Francesco Nicosia e Giuliano De Marinis, hanno riportato alla luce molte parti dell’edificio termale romano ma soprattutto una grande quantità di ambienti che testimoniano della vita e della topografia romana e medievale della zona.21 Data l’importanza dei ritrovamenti più di un progetto per rendere visibili i reperti era stato tentato al fine di restituire alla città una parte della Firenze che per secoli era stata dimenticata al di sotto della pavimentazione della piazza; il dislivello esistente fra la superficie della piazza ed i livelli di vita più bassi avrebbe permesso non solo una visibilità dei resti ma anche la realizzazione di un museo sotterraneo con accesso dai margini della piazza che non avrebbe sostanzialmente alterato l’immagine attuale del luogo. Ragioni economiche e politiche non hanno reso possibile l’attuazione di questi progetti e quei frammenti del passato e quella memoria “sono di nuovo sigillati sotto le pietre e di quanto è stato trovato resta solo la memoria archeologica”.22 La documentazione grafica del sito rappresenta oggi, proprio per questa ragione, un patrimonio cui la nostra memoria collettiva non può rinunciare. Il disegno fissa infatti immagini che, riviste, richiamano alla memoria luoghi, spazi, tecnologie, materiali, colori, funzioni, eventi e sensazioni. Chi osserva oggi questi disegni certamente non rivivere le situazioni, così come sono state vissute dall’estensore del rilievo né rivede oggettivamente


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5 Cartolina redatta dal Corinti nel 1928, riproduce i resti delle terme Capitoline ed una ipotesi di organizzazione spaziale del grande ambiente. 6 Disegno allegato al rapporto settimanale n° 23 riproducente una torre medievale posta in chiasso degli Adimari, sovrapposta ad un pavimento romano a mosaico. (S.B.A.T., Archivio Disegni, Fondo Corinti, cartella 46, dis. 7) 7 Cortile, detto del Milani, nel Museo Archeologico fiorentino. L’archeologo, per conservarne la memoria, fece assemblare i numerosi frammenti della Firenze romana, aggregati per monumento in pseudo edicole.

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8 Piazza della Signoria. La foto mostra le fistulae del calidarium delle terme romane. (S.B.A.T., Archivio Fotografico, inv. 28003) 9 - 10 Piazza della Signoria. Le foto mostrano la consistenza delle terme romane e come le creste delle murature in elevato sfiorino il livello della pavimentazione attuale della piazza. (S.B.A.T., Archivio Fotografico, inv. 29007, 29083) 11 Pianta di una prima fase degli scavi del 197475 con evidenziate le strutture murarie romane rispetto a quelle medievali. (S.B.A.T., Archivio Disegni, inv. 2717) 12 Pianta finale degli scavi del 1974-75. Ben visibile il pavimento romano a lastre di marmo sormontato dalla fondazione di alcune torri medievali. (S.B.A.T., Archivio Disegni, inv. 2718) 13 La veduta assonometria della zona di scavo mostra lo stratificarsi dei manufatti e degli interventi: dal complesso termale alle torri medievali alla fondazione del monumento equestre a Cosimo I al tracciato del rognone ottocentesco. (S.B.A.T., Archivio Disegni, inv. 2725)

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Pagine Successive: 14 Le numerose sezioni evidenziano le diversitĂ morfologiche dei vari corpi di fabbrica unitamente alle diversitĂ di materiali e tecniche costruttive. (S.B.A.T., Archivio Disegni, inv. 2719-24)

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le antiche strutture edilizie. Scrive Marcel Proust a proposito della percezione di ciò che ci circonda: “Gli è che le cose appena son percepite da noi, diventano in noi qualcosa d’immateriale, della stessa natura delle nostre inquietudini o sensazioni di quel tempo, e si mescolano indissolubilmente ad esse. Un certo nome letto un giorno in un libro contiene nelle sue sillabe il vento rapido e il sole splendente di quando lo leggevamo”.23 Ciò nonostante molte informazioni possono trarsi da una attenta analisi del documento cartaceo su cui il rilevatore ha tentato di riprodurre, se pure in maniera frammentaria, una realtà che solo lui ha visto e toccato con mano. I disegni, nel loro fermare il tempo ad un istante preciso delle trasformazioni urbane ed edilizie, raccontano del passato delle cose filtrato attraverso la sensi-

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bilità, le conoscenze, l’attenzione dell’esecutore che pur volendo documentare con precisione l’evento, non può che trasmetterci una immagine parziale che pur sempre rappresenta un frammento di memoria. Il rilievo archeologico, attraverso la sua restituzione grafica, documentando manufatti ed eventi, è indispensabile strumento per evocare forme oggi non più visibili, funzioni ed accadimenti lontani nel tempo, per permetterci, per frammenti, di ricostruire idealmente qualcosa che non esiste più.

1 Archivio Storico del Comune di Firenze (in seguito A.S.C.F.), Atti del Consiglio Comunale, seduta del 2 dicembre 1881, anno 1881. 2 Cfr. S. Fei, Nascita e sviluppo di Firenze città borghese, G e G, Firenze 1971, pp. 106-122; S. Fei, Firenze 1881-1889, la grande operazione urbanistica, Officina, Roma 1977, pp. 23 e segg.; C. Cre-

sti, S. Fei, Le vicende del risanamento di Mercato Vecchio a Firenze, in “Storia Urbana”, I, n. 2, aprile 1977, pp. 99-126; G. Orefice, Rilievi e memorie dell’antico centro di Firenze, 1885-1895, Alinea, Firenze 1986 (In appendice Repertorio dei Disegni, a cura di M. Bini); M. Bini, Corinto Corinti e i rilievi della Firenze romana, in “Ikhnos, Analisi grafica e storia della rappresentazione”, Lombardi editore, Siracusa, 2004, pp. 157-184. 3 A.S.C.F., Delibera della Giunta Municipale, seduta dei 23 marzo 1888; cfr. inoltre Commissione Storico Artistica Comunale, Studi storici sul centro di Firenze, Firenze 1889, pp. 11-15. Sul Corinti ed i suoi rapporti col Milani vedi M. Bini, Il ruolo del Milani nella rilevazione dell’antico centro di Firenze, in: “Studi e materiali”, vol. V, 1982, pp. 52-60; G. KANNES, voce Corinto Corinti, in: “Dizionario Biografico degli Italiani”, XXIX, Roma 1983. 4 M. Bini, Repertorio dei Disegni, in G. Orefice, Rilievi e memorie, cit. 5 L. A. Milani, Museo topografico dell’Etruria, Firenze-Roma 1898, p. 113. 6 M. Dezzi Bardeschi (a cura di), Il Monumento e il suo doppio: Firenze, Firenze 1981, p. 105. 7 I rilievi del Corinti sono, oggi a noi noti soprattutto attraverso le famose Cartoline, in numero di 100, che non soltanto ci mostrano ciò che veniva alla luce durante gli scavi, ma anche le ipotesi ricostruttive degli edifici.


8 Estromesso dai lavori della Commissione perché probabilmente giudicato un elemento ostacolante al progetto di demolizione del centro, il Corinti continuò a lavorare ai suoi disegni fino alla morte. 9 Cfr. G. Maetzke, Osservazioni sulle recenti ricerche nel sottosuolo di Firenze, da “Atti e memorie dell’Accademia Fiorentina di scienze morali La Colombaria”, vol. XVI, anni 1947-1950. 10 Molte delle scoperte fatte, furono dovute o a lavori pubblici occasionali, o a seguito di eventi traumatici per la città, come dopo la seconda guerra mondiale per la zona attorno a Ponte Vecchio. Il fatto è che, ovunque, la facies romana è risultata sconvolta dalle fondazione di torri e di edifici cronologicamente posteriori. 11 Così spiega il Corinti in una delle sue cartoline descrivendo l’edificio: “Antica Fiorentia. Epoca Imperiale. Porta ad Aquilonem. Ricostruzione in base agli avanzi scoperti durante gli scavi eseguiti nel 1892 nel fare il nuovo fognone e nel 1893 per collocare il tubo del gas. La porta aveva un antiporto ed era fiancheggiata da due torri rotonde. Le mura e le torri erano di laterizio. Un avanzo della torre sinistra ed alcuni mattoni delle mura, dei pietrami di rivestimento ed ornato della porta ed antiporta si conservano al Museo Archeologico”. C. Camarlinghi (a cura di), Firenze antica nei disegni di Corinto Corinti, in “L’Universo”, LVI, n°6 novembre-dicembre, 1976, Cartolina n. 5.

12 I mattoni misuravano centimetri 43x30x6. Nel Medioevo questa porta venne ricostruita e vi vennero incorporati elementi architettonici provenienti da vicini edifici romani semidistrutti: in questa occasione furono aperte due posterulae pedonali larghe 55 centimetri mentre il fornice centrale fu leggermente ristretto. Cfr. G. Maetzke, Florentia, cit., p. 54; M. Lopes Pegna, Firenze dalle origini al Medioevo, Firenze 1954, p. 92. 13 Cfr. C. Camarlinghi (a cura di), Firenze antica…, cit., cartolina n. 87. 14 Dopo le modifiche tecnico-estetiche apportate, all’edificio in epoca adrianea, queste terme non subirono altri mutamenti e restarono in uso per tutta l’età imperiale, anche se nuovi edifici vennero ad affiancarsi ad esso. 15 Cfr. G. Fanelli, Firenze, Architettura e città, Vallecchi, Firenze, 1974, p.94 ss.; G.Pampaloni, Firenze al Tempo di Dante. Documenti sull’urbanistica fiorentina, Roma 1973; K. Frey, Die Loggia dei Lanzi, Berlino 1885, p. 40 ss. 16 F.Gurrieri, Restauro e città, Contributi alla cultura del restauro e della conservazione della città, Alinea, Firenze, 1993, p. 110 17 Cfr. G. Maetzke, Gli scavi di Piazza della Signoria a Firenze, in “Prospettiva”, 3, ottobre 1975, pp. 64-66 18 Cfr. G. Maetzke, op. cit., p 65 19 Cfr. G. Maetzke, ibidem. 20 Cfr. G. De Marinis, M. Becattini, Firenze ritrovata,

in “Archeologia viva”, XIII, n°48, novembre-dicembre 1994, pp. 42-57 21 In questi anni solo due dei disegni che costituiscono il corpus dei rilievi del 1974 sono stati pubblicati, fra l’altro in piccolo formato; il primo, una pianta parziale dello scavo non ancora ultimato, è pubblicato in G. Maetzke, op. cit., p 64; il secondo, un’assonometria cavaliere militare dell’intera area scavata, è stato recentemente pubblicato sia in F.Gurrieri, op. cit., p. 107, che in G. De Marinis, M. Becattini, op. cit., p. 56. 22 Cfr. G. De Marinis, M. Becattini, op. cit., p. 57. 23 M.Proust, Il tempo ritrovato, (1927), Einaudi, Torino, 1978, p.216.

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Permanenze dei tracciati antichi come substrato del tessuto urbano attuale Gian Luigi Maffei

La strutturazione delle città di antica fondazione è determinata nella morfologia attuale dalle matrici originarie molto più del pensabile: vogliamo utilizzare come esempi di “frammenti” alcuni casi, emersi durante lo svolgimento degli studi a suo tempo portati avanti sullo sviluppo urbano di Firenze (cfr. G. L. Maffei, La casa fiorentina nella storia della città, Venezia 1990), per significare come siano permanenti nel tessuto edilizio i tracciati viari, i limiti di proprietà e le configurazioni geometriche primitive tanto da poter essere leggibili e comprensibili nella morfologia attuale e di esserne la ragione formativa. Borgo Pinti e il tracciato del “cardo maximus” Il primo impianto pianificato sul luogo di Firenze, che pensiamo potesse essere un insediamento castrense di presidio militare, era posto in un’area delimitata a sud dal corso dell’Arno, ad ovest dal Mugnone ed ad est da un’area paludosa che aveva il suo maggiore compluvio nel torrente Affrico; questa zona era inoltre collegata con la prosecuzione diretta del percorso di crinale derivato da Fiesole e che formava qui come una specie di promontorio di poco più alto rispetto alle paludi circostanti. Al momento dell’organizzazione centuriale del territorio e prima dell’insediamento coloniale le principali relazioni tra il primo impianto e il territorio circostante erano le percorrenze formative e quelle di connessione del medesimo con la viabilità territoriale: ad est la via Aretina come asse generatore, a sud la via del guado dell’Arno verso Roma e a nord la via Cassia pedecollinare con i diverticoli di connessione con l’impianto ca-

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strense (di cui parleremo nel secondo esempio). Gli assi principali dell’impianto centuriale sono costituiti dall’attuale Borgo Pinti e da un tracciato vicino all’asse delle due odierne vie Guelfa e Alfani, che risultano essere rispettivamente il cardo e il decumano massimo della deduzione fiorentina. Il percorso di Borgo Pinti è comunque l’asse determinante ai fini dell’organizzazione della suddivisione centuriale in quanto sotteso da due punti di traguardo, tra loro prospicienti e in diretta corrispondenza territoriale, posti l’uno nel luogo dell’attuale Forte di Belvedere e l’altro nella sella del colle di Fiesole. Nel suo tracciato incontra il luogo dell’Anfiteatro e la sovrapposizione di questo conferma l’anteriorità di formazione del percorso stesso rispetto alla costruzione dell’edificio speciale. L’anfiteatro si dispone con l’asse longitudinale derivato dalla mediazione tra la direzione propria del tessuto edilizio esistente a nord, organizzato secondo il percorso formativo proveniente da Arezzo, e la direzione dell’aggregato posto verso il fiume. L’asse trasversale dell’edificio si dispone nella bisettrice di queste due direzioni e tangente al corso del torrente che scorreva lungo l’attuale via de’ Benci. Il disegno così descritto viene confermato dalla continuità degli assi dei percorsi delle attuali piazza Peruzzi, via de’ Bentaccorti e via Torta: questa linea avvolgente è proposta come percorrenza interna al primo fornice dell’edificio antico e lo stesso spessore dell’edificio è derivato dagli allineamenti catastali odierni in quanto dichiarano la loro profondità disponendosi curvilinei fino alla cavea interna e da qui poi prevalgono invece le direzioni ortogo-

1 Il tracciato di Borgo Pinti in relazione con l’organizzazione della parte est del territorio esterno al primo impianto castrense della Firenze romana 2 Borgo Pinti come “cardo massimo” in relazione all’ipotizzata ricostruzione della Firenze romana di epoca imperiale Pagine successive: 3 Ricostruzione grafica delle percorrenze e degli scarti che determinano l’edificazione dei tessuti edili dell’area di Rifredi 4 Foto area dell’area di Rifredi del 1935 5-6 Ricostruzione dei “frammenti” dei tracciati antichi di lottizzazione agricola ed edilizia ancora leggibili nel tessuto fondiario dell’area di Peretola e di Brozzi


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nali derivate dai percorsi tagliati, in epoca medioevale, della via dell’Anguillara e di borgo de’ Greci. Lo scarto della fortezza da Basso e il ponte a Rifredi La strutturazione territoriale della parte pedecollinare a nord del sito dove era localizzato il “castrum” romano, originaria matrice morfologica di Firenze, era incentrata sull’asse territoriale della Cassia in direzione est-ovest: proveniendo da Pontassieve correva ai piedi del sistema collinare di Fiesole, nella sede oggi ribattuta in gran parte dai tracciati urbani del viale Righi, del viale Volta e della via Vittorio Emanuele, fino al ponte a Rifredi in direzione Pistoia. La Cassia infatti prosegue dopo il ponte in direzione dei borghi di Quinto e di Sesto per raggiungere poi il territorio pratese.

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Il luogo del ponte è confermato anche dalla coincidenza in questo punto con l’altro asse viario che, proveniente dalla antica porta a Faenza del perimetro murario del 1303, si connette al ponte con la via Cassia: il tracciato di questo asse, confermato dall’attuale via del Romito e via Corridoni, ha una origine ancora più antica in quanto è la linea di connessione tra il ponte stesso, e quindi con la via Cassia, con il luogo della porta pretoria nord “ad Aquilonem”, del circuito di mura proprie della fase urbana dello sviluppo urbano fiorentino di passaggio tra “castrum” e “colonia”, per mezzo dell’allineamento della via Faenza e via V. Zanetti, tracciati quindi antecedenti addirittura alla lottizzazione centuriata della piana di Firenze. Questa strada viene declassata, nel suo valore di percorso uscente da una

porta urbana, al momento della costruzione della fortezza di San Giovanni o da Basso nel 1534, voluta da Alessandro de’ Medici e costruita su disegno di Antonio da Sangallo il Giovane, in quanto la fortezza ingloba la porta medioevale e perimetra una vasta area quadrangolare con un sistema difensivo aggiornato alle nuove tecniche belliche: l’annullamento della ragione strutturale del percorso non lo cancella dal tessuto, ma assumono maggiore importanza in sua sostituzione i percorsi di scarto della fortezza e specificatamente i tracciati stradali oggi confermati dal viale Belfiore e dal viale Strozzi. La pianificazione urbanistica dell’area del Romito, compresa tra via Vittorio Emanuele e il tracciato ferroviario, prevista nel piano regolatore del 1915-24, è condizionata dalla presenza di questi


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percorsi: l’asse principale nord-sud del nuovo impianto, formato dalla via V. Guasti, via V. Gianni e via Tavanti, viene tracciato in maniera da confermarsi come bisettrice dell’angolo formato dalle direzioni delle preesistenze. Anche il disegno dei tessuti edilizi, realizzati dal 1925 fino al 1939, genera una serie di isolati molto più regolari nella parte ad est dell’asse principale nordsud che non ad ovest in quanto la presenza della via Milanesi, originaria connessione territoriale tra il viale Strozzi (nel suo prolungamento ad est quale scarto della Fortezza) e la via T. Alderotti (pedemontana del compluvio formato dal torrente Terzolle), non permette di realizzare un tessuto ordinato di isolati paritetici come nel resto dell’area.

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I tessuti edilizi di Brozzi e Campi Bisenzio: permanenze strutturali delle corti rurali Nella piana ad ovest di Firenze la maggior parte dei tracciati catastali, molti allineamenti e la geometria complessiva del disegno territoriale sono da riferirsi alla pianificazione centuriata eseguita dai romani al momento della deduzione coloniale della pianura fiorentina: il dimensionamento dei lotti, i ricorrenti segni tra loro ortogonali confermano la permanenza del “sostrato” che ne è stata l’antica struttura d’impianto. A conferma di questi “frammenti” di antiche permanenze si può mettere in rilievo la strutturazione delle parti antiche degli insediamenti di Brozzi e di Campi B.: insediamenti conformati da tessuti lineari di corti agricole ancora


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leggibili nel catasto attuale, specie nel loro dimensionamento ripetuto e costante di misura ricorrente di metri 17,70X35,50 corrispondente alla metà di un “actus quadratus”. Infatti se le misure più ricorrenti nella parcellizzazione dei terreni agricoli sono riconducibili a quelle dello “jugero” (di metri 35,40X71,00) o alle dimensioni dei sottomultipli quali lo “actus quadratus” (di metri 35,40X35,40) o il “clima” (di metri 17,70X17,70) quando si edifica la residenza rurale a “domus” si utilizza invece un recinto di fronte di solito dimezzato rispetto a quello del lotto per l’utilizzazione agricola. Al suo interno si dislocano i vani residenziali, composti da più cellule aggregate, spesso con loggia distributrice frontale e sviluppati anche su due piani, tutti comunque di-

sposti così da rivolgere il fronte interno in maniera isorientata, disposti lungo uno e/o più lati del perimetro lasciando il resto della superficie per l’orto e per il ricovero degli animali domestici. La dislocazione della parte costruita originaria genera le “varianti sincroniche” che condizionano, all’interno del processo tipologico, il successivo sviluppo edilizio che arriverà a conformare la strutturazione attuale così varia e diversificata: con una lettura attenta, andando a ritroso per fasi in successione con la “riprogettazione” del processo formativo pertinente, possiamo ricostruire una attendibile strutturazione di “sostrato” che ci rende conto di quanto siano ripetute e costanti le norme e i comportamenti propri del costruito in esame. Un tessuto di edifici che si af-

facciano tutti su percorsi che si presentano ortogonali al percorso principale, via di Brozzi, di consistenza monocellulare e senza doppio affaccio: sono percorsi d’impianto edilizio che non hanno sfondo e che al massimo danno accesso ai campi retrostanti, spesso con collegamenti a baionetta tra elementi tra loro ortogonali. Le confinazioni interne inoltre identificano una continuità di allineamento non riscontrabile nel resto dell’aggregato e con una significativa differenziazione tra il tessuto a nord e quello a sud del percorso principale in quanto l’impianto isorientato dell’edilizia interna al recinto ha dato origine a mutazioni diacroniche anche molto differenziate.

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Frammento: racconto per architetti Maria Teresa Bartoli

Questo scritto, di genere “atipico”, poco assimilabile al saggio scientifico, ha pur tuttavia un intento didascalico: esso cerca di trasmettere, attraverso la forma sintetica del racconto, un punto di vista sull’architettura come uno dei più nobili percorsi della faticosa ricerca umana. Il racconto nasce da uno strenuo lavoro che una nutrita e valorosa schiera di persone ha compiuto insieme al suo autore, misurando, disegnando e studiando il Palazzo Vecchio di Firenze. Penso che ad esso si attagli la citazione che traggo da Jorge Luis Borges, (“Storia del guerriero e della prigioniera”): … Molte congetture è dato applicare all’atto di Droctulf; la mia è la più spiccia; se non è vera come fatto, lo sarà come simbolo. Sperava ancora che dalla sua antica, sperimentata capacità creativa sarebbe nata un’accettabile soluzione. Il suo animo e la sua mente erano tesi dolorosamente. Il vecchio Architetto aveva la gola chiusa e gli occhi pieni di lacrime. La sera avanzava velocemente. Nella scarsa luce seguente al tramonto, mentre l’Arno incupiva, mosso in brevi crespe dal vento proveniente dal mare, sotto un cielo carico di nuvole pesanti, ben pochi passanti rompevano la sua solitudine. Una volta, orgoglioso dei successi della sua arte, non sfuggiva la folla delle strade maggiori, anzi, ne cercava il saluto rispettoso. Ora, fermo sul ponte, si rallegrava che l’accorciarsi delle giornate e la pioggia recente avessero trattenuto nelle case le persone, permettendogli di riflettere all’aperto, di fronte alla sua città, sugli ultimi eventi. Aveva capito che non c’era rimedio. Guardava verso Ovest, dove il

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chiarore dell’ultimo sole, in fondo al fiume, indugiava un po’ più a lungo. Forse era la debolezza della vecchiaia che gli impediva di scacciare l’amarezza e insieme le lacrime; di scuotere con orgoglio le spalle e pensare ad un altro progetto. O forse questa volta troppo grande era la sciagura. Proprio perché era molto vecchio, questa volta la posta giocata era stata altissima, perché per l’architetto la vecchiaia è spesso sapienza e il suo progetto, lui lo sapeva bene, questa volta era stato eccezionale, davvero un’opera somma, quale solo l’esperienza di chi ha coltivato un’arte tutta la vita poteva concepire. Conosceva bene la precarietà del successo degli artefici legati al potere della committenza. Il veloce avvicendarsi delle alterne fortune, il repentino cambiamento del gusto, tutto questo l’aveva intravisto nella vita propria e in quella di molti colleghi. La sua personale bravura lo aveva posto sempre al di sopra di questi incerti; ma era troppo saggio per non sapere che in tutto ciò anche la fortuna aveva la sua parte. Era stato sempre cauto nel rallegrarsi delle vicende della sua carriera e pensava che la consueta prudenza lo avrebbe protetto, facendogli capire in tempo quando il pericolo si fosse presentato. Ora, per la prima, volta, aveva fallito: non era riuscito a vedere tempestivamente il formarsi di una opinione contraria, dalla quale bisognava proteggere l’idea concepita. Non era riuscito a farlo, ed ora vedeva stravolto un disegno che gli stava dentro il cuore come può starci un figlio non ancora maggiorenne, ma di cui si è già intimamente orgogliosi come di un degno erede. Gli avevano imposto delle modifiche che

1 Il palazzo come una fortezza: le alte mura munite, la torre, la cella campanaria nella vista dal piazzale degli Uffizi foto Massimo Battista Pagine successive: 2 La carta pisana (1270 circa): l’immagine del bacino del Mediterraneo per il navigante 3 Dalla Gerusalemme celeste un’idea per Firenze 4 Un leone dalla porta del Battistero 5 Studio grafico di testa di leone 6 Il profilo delle mura di Firenze



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gli pesavano come una pietra al collo. Ricordava le tante volte che aveva raccontato l’ idea ai collaboratori. Essa era talmente intensa, ricca, coerente, che tutti quelli che gli volevano bene lo avevano ascoltato partecipi, con espressione di adesione convinta. In qualcuno, più ambizioso degli altri, aveva anche intravisto accennarsi sulla bocca la tristezza dell’invidia, subito rintuzzata. Ripensò con angoscia alla gloria del giorno in cui aveva descritto ai Priori la sostanza dell’opera che voleva fare, l’entusiasmo che era riuscito a comunicare, la sottigliezza con cui aveva saputo costruire la sua perfetta esposizione. Tutti si erano congratulati con lui; sembravano completamente convinti, senza ombra di dubbio. Avevano capito quale macchina perfetta aveva saputo pensare. Ma la vittoria era stata effimera. Subito era stato dato inizio al cantiere. La fatica era stata immane, per la sua vecchiaia. Istruire chi doveva seguire per suo conto i lavori di perimetrazione della fabbrica per lo scavo in terra aveva richiesto giorni e giorni di lavoro a tavolino, con i libri dell’Abaco in mano, a spiegare … . In quelle cifre, in quelle griglie, in quegli schemi stava tutta la portentosa magia dell’opera, qualcosa di intimamente, naturalmente vitale, ma non di facile accesso per la conoscenza. Ricordava quando aveva cominciato a occuparsi del disegno della città, molti anni prima. Certo, sapeva di abaco, conosceva le regole antiche della geometria, aveva esperienza di come la materia prende la forma, per via di togliere o per via di costruire; ma soprattutto quello che lui conosceva meglio degli altri era il modo di fare della forma un oggetto dotato di significato. Quello era stato il segreto del suo successo. L’aveva conquistato negli anni, con la maturità, con la riflessione, e seguendo un istinto fortissimo, coltivato colloquiando, fin da giovane, coi maestri d’arte e con gli artigiani che eseguivano le loro istruzioni, con i re e gli uomini di scienza delle corti, con gli abati e i loro segretari, e cercando di capire i motivi profondi della loro approvazione o del loro scontento, quando e perché ciò che faceva piaceva di più o di meno. Nella città che l’aveva accolto con fiducia, quando aveva cominciato a occuparsene su invito di Carlo di Francia, i rappresentanti della Repubblica lo avevano indirizzato al grande Abate. A volte nelle sue stanze dalle alte bifore, altre

volte sotto le vaste arcate ancora in costruzione della chiesa, avevano parlato e confrontato idee ed esperienze. L’Abate era un uomo di grande cultura, e conosceva la Città come nessun altro. Aveva una memoria prodigiosa, dedicata in buona parte alle vicende murarie dei luoghi, di cui sapeva tutto, il quando, il come, ad opera di chi, e con quali soldi. Era evidente che il suo convento era stato dietro a quasi tutte le operazioni, e lui di tutte conosceva la storia. Ma aveva anche un sentimento della Città particolare, credeva in un ideale di città e con tutte le sue forze voleva che questa le somigliasse; metteva la sua scienza a servizio di questo desiderio fortissimo e con passione descriveva i luoghi e le loro ragioni. Così gli aveva spiegato che nella Città era operativo una sorta di diagramma, noto soltanto ad alcuni maestri d’abaco e ad alcuni uomini di governo che avevano le conoscenze necessarie per capirlo. Tutta l’attività del secolo era stata rivolta a delimitare, con una sorta di ampio cerchio di fabbriche di grande rilevanza, il centro antico della Città: a questo scopo era stato definito un programma di operazioni complesse, che aveva coinvolto molte iniziative. Una per una, erano quelle adottate da tante altre città, ma qui erano state messe a servizio di un’ idea eccezionale. Così, anche l’altezza imposta alle torri era stata decisa per dare efficacia ad una prassi innovativa di localizzazione di strutture sul terreno. Si trattava di collocare segnali in terra traguardando da due punti elevati di posizione nota e visibili l’uno dall’altro. Da questi, guardando attraverso mire poste su squadre di angoli noti, potevano essere collocati punti in modo da formare tracciati significativi.. “Misurare per l’aria”, così veniva chiamata questa tecnica, affascinante, molto simile a quello che aveva visto fare sulle navi quando era venuto di Francia a Pisa. L’idea dell’Abate era semplice nella sostanza, complessa nella realizzazione. Era nata in lui dai contatti con tanti personaggi, tra i quali menzionava volentieri il Maestro Templare, un insolito uomo di pensiero e di azione con il quale aveva scambiato, in varie occasioni, esperienze di viaggio. Con la pazienza e l’umiltà di chi ha imparato la relatività dei saperi alle circostanze e agli scopi e la stoltezza della presunzione quando puoi aver bisogno dell’aiuto dell’ignorante, egli aveva spiegato all’Abate (e così bene che questi poteva a sua volta rispiegarlo) come fosse possibile ado-

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7 Un’idea di architettura dalla serie di Fibonacci, organizzazione planimetrica dell’idea e sviluppo architettonico 8 Rotazione della fabbrica intorno alla torre

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perare le conoscenze astronomiche per operazioni molto terrene, in cui aveva visto potersi ottenere straordinari vantaggi. Gli aveva mostrato delle carte usate per navigare, realizzate in una maniera apparentemente stravagante, ma formidabili, una volta spiegate nelle loro ragioni. Gli aveva detto che il metodo con cui erano state fatte avrebbe potuto essere applicato anche in terra, che c’erano luoghi in cui questo già veniva fatto per tracciare strutture di città. L’idea della rosa dei venti di sedici punte, che faceva da riferimento delle carte dei naviganti, era pian piano divenuta, nella testa dell’Abate, una stella zodiacale di dodici punte, da mettere in atto nella città come era in atto nel cielo. L’astronomo sa che, se anche nessun dodecagono è visibilmente tracciato nel cielo, esso organizza tutta la distribuzione di milioni di stelle, che diventano riconoscibili, descrivibili, possibili oggetti di studio grazie al dodecagono invisibile che le sostiene. Così l’Abate aveva pensato che, se la sua idea della Città era una Gerusalemme celeste e il cielo il suo modello, una stella dodecagonale doveva divenire la sua struttura nascosta, da realizzare sistemando una serie di riferimenti nella piana a Nord del Fiume, intorno alla città millenaria, come elementi che segnalassero le punte della stella; e perché questi elementi segnalassero adeguatamente il significato a loro attribuito di colonne portanti del disegno urbano, dovevano appartenere non a edifici privati, ma a oggetti notevoli della forma urbana, con un ruolo intenso per la città: chiese, monasteri, torri di difesa, palazzi civici ecc. Queste sarebbero state le costellazioni e le stelle maggiori della Gerusalemme sul Fiume. L’Architetto risentì dentro di sé la tristezza dell’Abate che sommessamente accennava a questa idea, lo scontento dell’uomo di pensiero che misurava la distanza tra il proprio progetto e la capacità di realizzarlo e forse si dispiaceva anche di aver pensato così alto, essendo inadeguato a mettere in atto il suo concetto. C’era stato un arco di anni durante i quali un gruppo di governanti, illuminati, gli aveva dato fiducia ed egli aveva potuto indirizzare la sua azione secondo l’Idea, ma l’alternarsi del potere, l’avvicendamento di generazioni e culture, l’avevano portata in secondo piano. Tutte le decisioni erano state semplificate dall’ignoranza dei nuovi potenti, ignari delle complessità delle strutture della vita sociale e portati

a semplificare tutte le decisioni, rese all’apparenza più aderenti all’urgenza dei problemi, a scapito della lungimiranza, della sistematicità e della razionalità rigorosa. Così si era lamentato il vecchio Abate, consumato dal rimpianto. Il pensiero audace di essere invece lui in grado di farlo era venuto all’Architetto mentre stava occupandosi del disegno di un emblema. Non era cosa impegnativa, anzi, era per lui qualcosa di molto rilassante, un divertimento. Il tema era il profilo di un leone, di una ovvietà che solo un’idea originale poteva riscattare dalla noia, e, cercando questa idea, era andato nel Battistero, perché voleva ridisegnare le teste di leone formate nel bronzo della porta. Ora non aveva più ben chiaro come fosse venuta l’intuizione, in un fermento di emozioni, rapidi pensieri, successioni travolgenti di immagini; sapeva che, seguendo il suo metodo geometrico di disegno (qualcosa che aveva imparato a fare quando era giovane e dal quale non si era più staccato), ridisegnando quelle sagome di teste leonine chiuse nella loro cornice circolare, aveva trovato un modo per inscrivere in esse un cerchio e di formarle con una stilizzazione dalla regola esplicita e semplice. Stava già occupandosi del disegno della Città e la sua mente era stata attraversata da una ancora informe suggestione che come quell’emblema, destinato, secondo il costume di quegli anni, ad essere impresso sul sigillo di un ricco committente, aveva lo scopo più o meno dichiarato di portargli fortuna, così avrebbe potuto essere adatto anche ad una città e portarle fortuna. Quando sul tavolo del suo laboratorio aveva detto al suo aiuto di ingrandirgli il disegno schizzato e gli aveva spiegato la regola per farlo, quella molla interiore che aveva imparato a riconoscere come l’istinto più consapevole della sua coscienza professionale gli aveva di nuovo suggerito la Città come tema di applicazione. Aveva cercato di liberarsi di quelle suggestioni stravaganti, ma infine si era arreso alla loro insistenza, e aveva deciso di studiarle nell’ipotesi che gli arrivassero dalla parte migliore della sua testa. Durante le settimane di lavoro febbrile, quasi di delirio, era passato dalle prove ansiose e incerte agli studi più convinti e metodici, alla ricerca serena e consapevole della forma compiuta. Infine la testa infine aveva cessato di dolergli, la pressione alle tempie si era allentata e il cuore non era più stato in tumulto. Il


suo battito regolare gli aveva comunicato che la soluzione era finalmente buona. Tutto era divenuto come un sogno: quando aveva portato la sua idea all’Abate, gli occhi del vecchio, di solito un po’ offuscati dalla vecchiaia, si erano fatti trasparenti come l’acqua di una fonte, durante la sua spiegazione; si era poi abbuiato, poi arrabbiato, poi rasserenato. Era divenuto radioso. Commosso, lo aveva abbracciato col suo modo asciutto e un po’ rigido, e gli aveva detto: il mio pezzo di cielo, difeso dal leone di David! questo si può fare, si può… ma bisogna studiarlo bene!. Molte riunioni erano seguite, e l’Architetto aveva avuto per la sua bottega prima alcuni dei Priori della Repubblica, poi maestri di Abaco e astronomi dai quali molto aveva imparato, addentrandosi nei segreti delle loro conoscenze, nei loro strumenti, nelle loro tabelle. Altri uomini di scienza avevano partecipato, ognuno portando il proprio contributo al piano che veniva delineandosi, grandioso, complesso come il suo autore, in partenza, non aveva neppure sospettato. Sotto la guida impetuosa dell’Abate, ogni problema veniva sciolto e risolto; con metodo scolastico la sequenza delle operazioni per condurlo a buon fine era stata descritta con accurata precisione e di ognuna era definito lo svolgimento. L’Abate aveva trovato quasi miracoloso che l’antico Battistero per forma e posizione fosse così adatto a divenire il perno di tutta la costruzione. Del circuito murario sarebbero state tracciate prima le tre porte urbane maggiori, a Nord, poi, realizzando opportunamente alcune stazioni interne, sarebbero venute tutte le altre. L’Architetto ricordò il lungo periodo di travaglio, tra lui e l’Abate, quando fu messa in discussione la posizione delle ultime stazioni, necessarie per la parte Sud delle mura, lungo le colline di là del Fiume. Quando portò all’Abate l’ipotesi di una stazione nello spiazzo sopra l’antico teatro romano, più o meno su una delle torri già esistenti, e gli mostrò il rapporto visivo che poteva nascere tra quella torre e le porte urbane a Sud, fu proprio il vecchio frate, con la sua ardita saggezza, a suggerigli l’idea che quella torre poteva divenire il fulcro di un palazzo, il nuovo palazzo civico di cui da tanto si parlava, ma la cui collocazione non veniva mai decisa. Il disegno del Palazzo era stato tracciato a porte e finestre chiuse, nel buio della sua camera da letto, disponendo e contando fili, inseguendo terne e cop-

pie di numeri e studiando figure, lavoro mentale per il quale ormai da decenni non aveva più bisogno della carta, ma solo della solitudine e della concentrazione, della grande calma interiore che veniva nel suo animo quando si disponeva a questa fase del lavoro. Quando, stabilite le circostanze fondamentali, era passato al tracciato disegnato sulle carte e l’aveva sottoposto ai primi commenti, in tre, lui, l’Abate, e il frate dell’Abbaco (uomo gentile e timido, ma capace di una eccezionale padronanza del calcolo), guardando la figura, leggendo le sue prime proposte di misure, quasi insieme e senza poter più dire chi per primo l’aveva nominata erano giunti alla serie del Pisano, il Fibonacci, come la giusta soluzione: ma forse il merito era stato proprio del modesto frate, che aveva messo la soluzione in bocca a loro, tanto più importanti di lui, proprio perché avesse maggiore possibilità di essere scelta. L’Abate aveva tenuto i rapporti con le autorità locali; lui, l’Architetto, una volta che Carlo di Francia, essendo in Città, era andato nella sua bottega per un disegno che gli premeva assai e gli aveva chiesto come andassero i suoi rapporti con i primi cittadini, ebbe la possibilità di accennargli il suo progetto, mostrando quanto fosse “francese” nello spirito. Aveva imparato da tempo quali sono le corde da toccare nel cuore e nella testa dei potenti e aveva trovato subito le parole giuste. Carlo era stato entusiasta e sicuramente aveva espresso questa opinione nella opportuna sede. L’Architetto era stato chiamato a descrivere il suo piano. La preparazione della presentazione era stata lunga ed accurata, l’Abate l’aveva seguito con sofferta partecipazione. Per tre mattine era tornato nella grande aula della chiesa in cui il Consiglio si era riunito, tre mattine di febbre e di lucida ragione insieme, sempre con il dubbio di avere ben spiegato e avere tolto ogni obbiezione, spiando negli occhi degli Ufficiali di maggior rango l’affiorare del sentimento ostile o della simpatia. Non poteva dire di non aver visto affiorare nelle espressioni di alcuni una ostilità malevola, sguardi freddi e chiusi. Il successo, quando si era manifestato, aveva fatto sorgere in lui, anche contro la sua volontà, un senso quasi di pericolosa superbia, di cui si era dispiaciuto, perché sapeva quanto fosse avventata, ma che non poteva reprimere del tutto. Ora era giunta la punizione, ed era rivolta non tanto a lui, quanto al-

l’opera, che non aveva colpa. Le cose erano andate così: fin dall’inizio, la stessa grandezza dell’opera proposta aveva provocato il nascere di una corrente contraria. Dapprima, questa aveva provato a esprimere un dissenso aperto, negando l’opportunità dell’opera, poi il merito della proposta, adducendo a motivo ora il costo eccessivo, ora le scelte particolari; di fronte al consenso generale, il partito del dissenso, formato dai conservatori più retrivi, che si sentivano in generale minacciati dalle forme del nuovo potere economico, avevano scelto una diversa strategia di attacco. Erano state messe in giro voci che il nuovo Palazzo civico avrebbe portato sfortuna alla città. Chiacchiere senza testa, ma capaci di una presa incredibile sulla grande massa, sempre in cerca di ragioni misteriose e magiche per le vicende alterne della vita. Si era detto che il Palazzo sarebbe sorto sopra le rovine di quelle avide famiglie che avevano accumulato ricchezze sulle miserie del popolo, che la malvagità e la malevolenza chiuse nelle fondazioni avrebbero generato lutti e tristezza. Queste voci avevano attecchito, come sempre la maldicenza riesce a fare, e il partito dei contrari aveva cominciato ad allargarsi. Già cominciava a farsi strada l’idea che bisognava costruire il Palazzo altrove e più modestamente. Si profilava il rischio che, una volta rinunciato all’idea del Palazzo, venisse messo in discussione tutto il piano. Forse, l’altro partito aveva una diversa proposta da introdurre e cercava di sgombrare il campo per quella, non avendo abbastanza forza per sostenere il confronto. Quando, in occasione di alcune riunioni di famiglie importanti, erano stati chiamati in città gli astrologhi e era stato diffuso il loro parere contrario, accompagnato dalle esemplificazioni di tragedie legate a fondazioni incautamente realizzate, i Priori avevano cominciato a preoccuparsi, e si era deciso di provvedere, per contrastare sul nascere il tentativo di ostacolare il piano. L’Architetto era stato chiamato e gli avevano chiesto senza mezzi termini di trovare una soluzione che conservasse tutti i pregi del suo disegno, ma spuntasse le frecce del nemico: doveva essere pubblicamente dimostrato che il nuovo Palazzo non avrebbe avuto le fondamenta dove potevano annidarsi le potenze maligne del nemico. I tempi erano bui, la forza delle credenze legate all’ignoranza della superstizione era insidiosa ed era saggio non sfidarla, cir-

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colavano molti racconti su tante cose accadute, che dimostravano che su quegli argomenti la gente era portata ad andare per le spicce e poco la logica poteva su di esse: troppo spesso erano sostenuti con le ragioni vuoi della fede, vuoi della consuetudine, e controbatterli era impresa disperata e pericolosa. Bisognava solo troncare velocemente quei discorsi, rendendoli vani, perché era impossibile dimostrarli falsi. L’Architetto era stato pregato di spostare il Palazzo. Quando gli avevano posto la richiesta, gli erano tremate le ginocchia ed era rimasto senza parole, ammutolito. Per i suoi interlocutori si trattava solo di aggirare un problema che per vie dirette era insolubile; per lui si trattava di ben altro: era come mettere il dito sulla pelle viva di una ferita tenuta nascosta da un bel vestito. Da sempre si veniva interrogando sul rapporto tra forma e simbolo, e cercava nell’eloquenza dei retori, nelle letture variamente autorevoli di cogliere la spiegazione di una differenza che a lui architetto era chiara, ma sulla quale gli sembrava ci fosse grande confusione. Quando aveva cercato di fare simile al profilo del leone il circuito murario, aveva avuto presente la grande forza allusiva del simbolo che aiuta l’intuizione di un fine, accompagna e rafforza una volontà, ma non è indispensabile, né sufficiente. In questo per lui stava la differenza di qualità tra le architetture: alcune raggiungono lo scopo senza produrre emozione; altre danno anche emozione e in genere è la forza del simbolo a fare la differenza. Ma il simbolo non ha una esistenza propria, non è una potenza capace di produrre azioni: è la condivisione umana che produce il potere del simbolo. Se non condivido l’idea del leone come immagine di forza e di regalità, se non riconosco in lui una rappresentazione di Cristo, la sua figura è impotente a produrre in me qualsiasi effetto. È la cultura condivisa che dà potere simbolico alle cose. Eppure, nelle prediche che aveva ascoltato, nelle sapienti dispute cui aveva assistito, l’opinione prevalente andava in altra direzione: si attribuiva alle figure simboliche un potere, una capacità di azione legata a forze oscure, a prescindere dalla consapevolezza umana. Queste credenze rischiavano di portare l’architettura fuori dall’ambito della cristallina razionalità che per lui era la sua vera sede. Ma non poteva, non osava toccare questo punto con nessuno. Neanche con l’Abate. Aveva fatto un accenno,

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9 - 10 - 11 La torre nel sottotetto, con le mensole che reggono la rotazione 12 Pianta del piano terra 13 Pianta del sottotetto, in rosso la proiezione della torre dalla quota del ballatoio in su Pagine successive: 14 Palazzo Vecchio, l’ortofotopiano

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una volta, al valore di chiarezza che il simbolo produce nella lettura delle forme figurate; la risposta era stata secca: “non importa che si legga, importa che ci sia”. Sembrava una cosa da niente, ma la sua riflessione di una vita gli diceva che il discrimine tra queste due posizioni poteva essere un abisso, e non conveniva addentrarsi. Per vicende riferite sapeva che dentro l’abisso ci potevano essere inimicizia, persecuzioni, prigione, tormenti, anche morte. Ora l’abisso era spalancato: per richiuderlo poteva bastare spostare il Palazzo. L’abisso sarebbe rimasto dove era, ma si sarebbe potuto ignorarlo; si addormentava la bestia, non si uccideva. Quando, dopo assidui sopralluoghi, mille misurazioni e faticati studi geometrici nella sua bottega, nella solitudine della sua stanza, aveva raggiunto la necessaria calma interiore per ragionare sul problema, aveva capito in che modo poteva procedere. Era possibile salvare il più. E il più era la posizione della torre. L’Architetto amava quel punto della carta dove era andata a posarsi la sua torre, e pensava di amarla dello stesso amore che il poeta ha per le parole in rima con le quali riesce a dare evidenza, con eleganza, ad un pensiero alto ed eccezionale. Aveva intravisto che poteva essere sufficiente una piccola rotazione intorno a quella torre per portare il Palazzo fuori della portata d’azione delle sotterranee potenze nemiche. Per contro, la perdita…: sarebbe svanita la meraviglia degli allineamenti, i fronti diretti su tre delle porte maggiori, e miracolosamente paralleli due ai lati della futura piazza, disegnata sulla prosecuzione della via proveniente dal Battistero, il terzo alla direzione della chiesa antica, di cui si doveva demolire una navata, per fargli posto. Conservando immutato il disegno, per non sciuparne il sofisticato congegno metrico, quella armonia complessiva, il rimando dalle mura della Città al Palazzo, da questo alla sua Piazza e alla sua Strada erano perduti. Eppure quelli erano stati tra i primi obbiettivi ricercato, le ragioni che avevano iniziato a modellare la forma. Rinunciare ad essi era una pena difficile da sopportare. La notte dell’Architetto fu lunga e il sonno scarso e agitato. Nel dormiveglia rivedeva lo scavo appena terminato, le rovine degli edifici demoliti, i fili tesi sui picchetti che avevano descritto l’impronta a terra della sua opera; rivedeva le ombre apparse dietro le assi di legno del recinto, gli occhi maligni in-

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travisti a spiare e comprendeva ora il senso di insoliti comportamenti di alcuni dei suoi scavatori. Per respingere quelle immagini tormentose, in prossimità della mattina riuscì ad abbandonare il suo pensiero all’esercizio che gli era consueto, per conciliare il sonno: ridisegnare ad occhi chiusi le pagine del suo taccuino di discepolo, ripercorrere i segni sui quali aveva appreso i segreti della sua arte, e consolidare una volta di più il suo rapporto con quelli, con le figure dell’architettura. Sul suo taccuino, che conservava gelosamente e avrebbe lasciato in eredità al migliore dei suoi collaboratori, aveva raccolto, dopo gli esercizi di copia dei primi anni, i disegni di tutto ciò che aveva visto o pensato di notevole in Architettura. Per dormire, seguiva una sequenza collaudata: sceglieva un elemento architettonico vicino al lavoro che stava facendo (una campata voltata, il suo pilastro, la base di questo, una finestra) e poi, pezzo per pezzo, eseguiva tutte le operazioni necessarie per fornire agli scalpellini le loro misure, con regolo e compasso tracciava nel buio della notte luminose linee mentali che come code di stelle cadenti disegnavano in lenta progressione astrazioni che potevano divenire architetture. Stava mostrando allo scalpellino come doveva ricavare la forma del concio in chiave di un arco a sesto acuto del loggiato di un chiostro e aveva cominciato a spiegargli come quel concio fosse legato alle dimensioni del chiostro intero, attraverso la regola del dimezzamento del quadrato, e gli spiegava che, dato quel concio sul quale erano leggibili le due opposte curvature dell’arco, un buon architetto avrebbe potuto ricavare, conoscendo il lato del chiostro, il numero delle campate, la probabile altezza dei pilastri e la figura generale di quella struttura. Stava ancora misurando il raggio di curvatura dei mezzi archi, quando si era addormentato. Al risveglio, dalle trasparenze della pesante tenda distesa per la notte intravide la luminosità del tempo sereno. Il nuovo giorno offriva un cielo sgombro da nubi, cui la pioggia del giorno prima aveva dato un colore intensamente azzurro. Affacciato alla sua alta finestra, l’Architetto guardò il verde fresco degli orti, quello più scuro delle macchie alberate sul colle, l’argento degli olivi: tutto era dolce, limpido, e rigoroso insieme, una combinazione speciale di forme sobria-

mente modellate, colori accattivanti e rasserenanti, accompagnata, in basso, dal veloce movimento del fiume che, gonfiato dalla pioggia del giorno prima, correva in mezzo al rosso dei tetti. Preparandosi per le azioni quotidiane, con la lentezza di gesti che gli anni gli avevano imposto, lasciò che la memoria del travaglio del giorno passato riaffiorasse alla sua coscienza. Ricordò, in un percorso rovesciato, il concio in chiave dell’arco, la luce dell’arcata che ad esso era strettamente legata, sorrise dell’intimo piacere che questa consapevolezza gli aveva sempre procurato. Ritornò con la mente al Palazzo, vide il rettangolo della torre, con le due direzioni che lo legavano alle mura, vide il rettangolo della grandiosa fabbrica, lo scavo, le rovine, la rotazione, la torre che lui non voleva muovere dal suo posto… Un sospiro profondo lo scosse, ma subito dopo, quasi nello stesso istante, improvvisamente un senso di benessere lo invase, il cuore era in gola, ma non con sofferenza, anzi, quasi con gioia: erano i sintomi, a lui noti da tempo, della soluzione raggiunta, i sintomi dell’invenzione. La pressione alle tempie calava mentre il cuore accelerava i suoi battiti, il sangue fluiva sicuro e costante, la mano diventava ferma, l’occhio limpido e finalmente poteva disegnare. Ora sapeva che cosa voleva fare, che cosa poteva accettare, a cosa poteva dare un senso e quale segno a quel senso. Il segno avrebbe raccontato tutto. La torre e il Palazzo non avrebbero avuto le stesse direzioni, o meglio, le avrebbero avute nella parte di torre visibile da fuori, ma la parte più intima, nascosta dentro il Palazzo, vero cuore della fabbrica, la torre interna avrebbe avuto le direzioni che lui le aveva assegnate nel suo vero progetto. Tutt’a un tratto vedeva la nuova ricchezza di questo disegno, la cui imperfezione non avrebbe parlato a molti, ma coloro per i quali essa avrebbe avuto un senso, avrebbero compreso la relatività del segno come simbolo, la precarietà dell’azione umana, intrappolata nelle pastoie delle ideologie, delle credenze, delle superstizioni. Solo pazienti, tenaci cultori, in tempi più o meno lontani, avrebbero saputo riscoprire le tracce del suo vero pensiero, e capire l’audacia e la coerenza del suo ingegno creativo, e per loro stava costruendo. Non gli importava più il giudizio dei contemporanei mediocri e impaniati, ma intendeva gettare il suo dardo verso territori


lontani, dove esso avrebbe trovato interlocutori affini. Migliaia di anni aveva impiegato l’uomo per intravedere, misurando il cielo, quale regola lo reggesse; l’ottusità umana niente toglieva alla sua perfezione. Anche la sua macchina era bella come un teorema, e lui desiderava che potesse essere letta. Doveva riporre la sua speranza in pochi lettori, più o meno lontani nel tempo, ma per i quali sarebbe stato non impossibile capire il suo giudizio sulle distorte ragioni che aveva distorto il suo Palazzo. Il dettaglio come spia dell’insieme. Come architetto era sempre stato affascinato dalle corrispondenze che potevano nascere tra gli elementi di una costruzione apparentemente lontani e privi di relazione tra loro. Era il suo disegno che costruiva e dava ragione alle relazioni e deduceva le figure le une dalle altre, con logica stringente. Chi sapeva questo, e avesse capito l’eccezionalità dell’opera, si sarebbe chiesto il come e il perché di quegli angoli strani e inusuali, che non potevano certo essere attribuiti alla stravaganza o all’imperizia del loro autore: avrebbe indagato, capito e rivelato il ragionamento sottile, ne avrebbe intuito le dolorose premesse, avrebbe dialogato con lui attraverso le pietre e avrebbe approvato la sua risposta. La vecchiaia, la vicinanza della morte gli davano sempre più la sensazione di appartenere ad un vasto insieme: quel che aveva fatto e faceva non valeva tanto in sé, ma era immerso in un flusso continuo di azioni, e il mondo ideale che secondo lui l’architettura doveva rispecchiare era molto più complesso da definire di quanto in giovinezza aveva ritenuto. Da giovane aveva avuto l’orgoglio delle sue intuizioni; da vecchio l’umiltà del pensiero gli era parsa una conquista più importante. Lui era un frammento, la sua arte era un frammento, la torre sarebbe stata un frammento, ma chi l’avesse studiata avrebbe ricostruito l’integrità dell’insieme, l’integrità del suo pensiero, la coerenza interna dell’idea. Avrebbe anche capito la profondità dell’abisso tra l’idea e la realtà, e avrebbe apprezzato l’umiltà della rinuncia, che riusciva comunque, nel disegno di un grande Architetto, a trasformarsi in segno. Quando l’Architetto scese nella sua bottega, era eretto come negli anni della sua giovinezza, e il suo sguardo brillava come nei giorni delle sue migliori creazioni. Una sfida eccitante lo attendeva: far ruotare su se stessa la torre, a metà della sua altezza.

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Frantumi di spazio Roberto Berardi

Viene veramente dal pozzo del passato questa miriade di frantumi, affiorata a poco a poco nel corso dei secoli: veri frantumi di marmo incisi dallo scalpello, andati perduti in forma di macerie, oppure cotti per produrre calce in tempi in cui il loro senso era inutile. La Forma Urbis Romae, come viene chiamata dagli studiosi, risale molto probabilmente agli anni 203-209 o 203-211 dopo Cristo. Non se ne conosce la destinazione d’uso originaria, non si sa se si sia trattato della prima Forma Urbis in ordine di tempo oppure se si tratti di un aggiornamento di stesure precedenti, per esempio del tempo di Vespasiano, primo costruttore del Templum Pacis, che è stata la sua sede, e che un incendio rovinò. Questo è il frammento che gradualmente riemerge dal tempo dei Severi, opera di topografia scientifica: infatti rappresenta fedelmente la città (e in questo, attraverso i millenni, è sorella minore dei catasti accadici di Nippur e di quelli dell’Egitto Antico)1 a una scala che per noi è di 1:240. Ma poiché non è una semplice pianta topografica, e riporta addirittura il disegno di tutti gli interni dei singoli edifici e delle realizzazioni architettoniche che componevano la città, essa ha anche un valore topologico, di integrazione reciproca degli organismi attraverso i quali la città aveva organizzato il proprio corpo nel tempo, attraverso la medesima cura data alla descrizione degli interni e a quella dei perimetri delle unità costruite. Si tratta dunque di un vero spezzone di cultura romana, che, dalla sua scoperta nel Cinquecento, ha cominciato ad attirare l’attenzione di studiosi e collezionisti e ad essere studiato e conservato.

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La Forma Urbis occupava una parete esterna del Templum Pacis di Roma antica, costruito da Vespasiano tra il 71 e il 75 d.C., sul sito dell’antico Macellum e ricostruito da Settimio Severo dopo un incendio del 192 d.C. L’area faceva parte dei Fori Imperiali, ed era costituita da un complesso templare – il Templum Pacis- tempio e Foro ad un tempo- al quale erano collegate aule in cui veniva celebrata la vittoria sugli Ebrei di Palestina. In una di queste aule aveva avuto sede una biblioteca, poi la sala di udienze del Praefectus Urbis. Porticati e giardini rendevano gradevole la frequentazione di un luogo dove era conservato, come trofeo di vittoria, il candelabro a sette braccia del Tempio di Gerusalemme, e altre spoglie di conquista, oltre a sculture e affreschi depredati da Nerone in Asia Minore e in Grecia., certamente alloggiati nei porticati. Gli storici latini come Ammiano Marcellino, Polemio Silvio, Marcellino Comes e Procopio sono i primi a chiamare forum il recinto templare, che fu collegato monumentalmente ai fori di Traiano, di Cesare e di Augusto dal nuovo foro di Nerva, Forum Transitorium, pensato e inaugurato nel 97 d.C. ma realizzato poi da Domiziano tra l’81 e il 96 d.C. Ci troviamo dunque in un luogo istituito per la glorificazione e l’ammirazione per la grandezza politica di imperatori divinizzati, ed è forse per questo che nella tarda latinità si riconobbe un foro nel temenos di un tempio, dedicato a una divinità tanto estranea alla guerra quanto Roma le era familiare. Sul muro esterno dell’angolo sud occidentale erano state fissate con grappe di bronzo le 150 lastre di marmo bianco che la componevano, occupando una

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1 Insieme alla topografia di Roma, i frammenti di marmo della Forma Urbis. G. B. Piranesi, Pianta di Roma Antica, (17??) da M. Fagiolo, “Roma Antica”, Capone Ed., Lecce, 1991 Pagine successive: 2 Secondo la stessa impaginazione di Piranesi, Topografia di Roma e antichi e nuovi frammenti. A. De Romanis, A. Nibby, Pianta delle vestigia di Roma Antica, (1826) da M. Fagiolo, “Roma Antica”, Capone Ed., Lecce, 1991 3 Ancora una volta, topografia (scientifica) di Roma e frammenti della Forma Urbis. L. Canina, Pianta Topografica di Roma Antica (1850) da M. Fagiolo, “Roma Antica”, Capone Ed., Lecce, 1991

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superficie totale di diciotto metri per tredici metri. Queste dimensioni, rare anche per un mosaico o un affresco, testimoniano della straordinaria importanza di questa composizione, destinata a un pubblico vastissimo, benché espressa in un codice assolutamente scientifico. Le incisioni che rappresentano i muri delle costruzioni erano dipinti di colore rosso; le colonne sono rappresentate con fori puntiformi, le scale con trattini paralleli, gli ingressi con un triangolo. Del totale della Forma Urbis il suolo di Roma non ha restituito ancora che un decimo; e tuttavia questo decimo, unito ai rilievi del XVI-XVIII secolo e agli scavi del XIX e XX secolo permette una lettura di certe aree non scavate e che non lo saranno forse mai.2 La pianta marmorea di Roma costituisce la testimonianza di un sapereil sapere dell’architettura di una cittàche ha saputo esplicarsi in documento-monumento pubblico, rappresentazione di un indirizzo preciso nella conoscenza di uno spazio che ci viene presentato come un’unica architettura. Ma rappresenta anche la perfetta padronanza di una disciplina scientifica, senza la quale quel lavoro colossale sarebbe stato impossibile- la geometria proiettiva. La Forma Urbis, attualmente, viene studiata e custodita dal Comune di Roma, e analizzata con tecniche sofisticate dalla Stanford University, nello Stanford Digital Forma Urbis Romae Project.3 Sono ancora relativamente rari i rilievi completi di città;4 più rare ancora le letture condotte su di essi. Tanto più sorprendente e affascinante l’esame di questo frammento di una realtà urbana così sedimentata nel tempo di un millennio come questa di Roma antica, cresciuta su se stessa e crollata su se stessa durante i numerosi incendi e bradisismi che l’hanno colpita, prima di Nerone ma anche dopo di lui, e trasformata certo attraverso demolizioni di più antichi insediamenti per la costruzione di Fori e Basiliche, circhi, anfiteatri, naumachie, terme e templi, dai tempi di Silla a quelli di Costantino. Gli scavi archeologici hanno spesso potuto liberare dalla terra solo i grandi complessi architettonici, e tuttavia dappertutto, intorno a questi, riaffiorano nella Forma le viae, i clivi, i vici, le strade colonnate, secondo una trama che non è certo quella ortogonale, diventata quasi un paradigma per le città fondate dell’antichità romana. La Forma Urbis,

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invece, nei suoi frammenti, è fittamente segnata da uno sviluppo commerciale pervasivo, in forma di successioni lineari di tabernae e laboratori che a volte occupano un solo lato della via, più spesso tutti e due, incrociandosi con le angolature più varie, quasi a testimoniare di un tessuto anteriore, mai completamente distrutto dalle grandi operazioni urbane cui abbiamo accennato e che hanno dato il suo volto indimenticabile alla Roma imperiale, eccitando, ben prima di Piranesi e molto dopo di lui, un fervere di interpretazioni architettoniche straordinariamente attraenti. Non solo per la dimostrazione di come la fantasia educata dalla realtà possa progettare, sulla base di un passato ritrovato, un ritorno del tempo in forme e organizzazioni di nuova e fresca invenzione, ma anche perché dimostra che le tracce incise nel suolo parlano un linguaggio, esigono un colloquio, cioè un proprio sviluppo nello spazio, pretendono che si immagini una o più delle possibilità che il loro disegno evoca alla nostra osservazione. È così che si spiega come, sia per conoscenza profonda di scavi, documenti e rovine, sia per la suggestione straordinaria di queste, sia fiorita una produzione sempre intesa a restituirci l’immagine di una qualche possibile Roma antica, accompagnata da planimetrie, prospettive e modelli, oppure siano state istituite severe catalogazioni dei frammenti e operazioni scientifiche di ri-costruzione attraverso l’assemblaggio dei pezzi e il confronto con gli scavi.5 Una suggestione che non è possibile trascurare è legata proprio alla natura variegata dell’architettura della città di Roma, quale emerge dalla lettura delle sue rovine e dai rilievi della Forma Urbis (giacché di rilievi, ancorché antichi, si tratta). Una città durata duemila anni non è certo leggibile attraverso una stesura sincronica; ma il fatto che questa sia per la sua maggior parte sepolta, a parte alcuni affioramenti, non permette certo una interpretazione diacronica, bensì delle attribuzioni a epoche, in taluni casi datazioni precise, ma procedendo sempre per frammenti più o meno estesi. Frammenti del corpo urbano, frammenti di epoche scomparse. Certo, è più che verosimile che le tracce della città dei re – che Andrea Carandini6 ha studiato così a fondo- siano in massima parte ritornate a briciole di materia irriconoscibile, miste ad alluvioni e a ceneri, salvo le mura sacrificali dell’VIII sec a.C. -e così quelle della più

antica Repubblica-. È certo però che Roma non ha mai avuto l’ossatura di un castrum, è stata latina, sabina ed etrusca prima di inventare la propria complessità metropolitana; e certo ha costruito molto tardi i templi che noi conosciamo, e così le terme, i fori, i teatri. Forse non così tardi i circhi, se la tradizione del ratto delle Sabine durante i giuochi di Nettuno Equestre risponde a qualche realtà. In mille anni di storia le città cambiano, si sovrappongono a se stesse e alle proprie macerie e ceneri, elaborano lentamente le forme dell’architettura, lentamente le sostituiscono. Così, l’intera città di Roma antica dovrebbe apparire come un insieme di frammenti del tempo: frammenti non solo architettonici, ma veramente di dimensione urbana, emersi in epoche differenti e cioè appartenenti a fasi specifiche di una cultura in mutamento, in una città fattasi gradualmente sempre diversa da se stessa. Senza contare che per noi, a questo millenario processo di costruzione e di trasformazione si coniuga il processo inverso, di abbandono e di distruzione, di saccheggio e di razzia, di depredamento da parte di civiltà diverse, tra cui quella a cui riteniamo di appartenere. Gli scavi, anche attuali, della Domus Aurea ( e gli affreschi della città portuale, la città vista dall’alto), rappresentano ad esempio la riesumazione di un cadavere maledetto, soffocato sotto altri palazzi dei principes successivi, mentre quelli della Roma delle origini sono la progressione verso un punto di inizio, che naturalmente non è accertabile, proprio perché di lì tutto si è trasformato. Come distinguere nello spazio il tempo; come fare dello spazio un materiale del tempo? Ancora della Forma Urbis: affissa alla parte di un’aula del Templum Pacis intorno al 209 dopo Cristo, sfondata per praticarvi un passaggio nel V secolo dopo Cristo, nel sesto secolo, il muro in questione è usato per costruire la parete di fondo della chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Il tempio, ormai in rovina, è abbandonato, probabilmente fino dal IV secolo dell’era cristiana, e con lui i resti, a terra e appesi, della Forma. Saccheggio e degrado per mille anni. Nel 1562 tutto cambia. La chiesa dei santi Cosma e Damiano ha ora un giardino, da cui affiorano i frammenti di marmo. Gli amatori di antichità e i sapienti si affollano per studiarli, ma i frammenti passano in proprietà ai Farnese, diventano preziosi, rivelano l’esi-


stenza di un “monumentum” sconosciuto. Poi l’oblio, il reimpiego nel giardino segreto di via Giulia. Nel 1741-42 il Comune di Roma assume la proprietà della pianta marmorea. Lungo tutto l’Ottocento vengono trovati 496 frammenti, in località diverse; nel corso del Novecento, 49, sempre in località inattese. La Forma Urbis intanto, lasciato Palazzo Farnese per un’altra dispersione, si ricompone in parte nei Musei Capitolini, poi nel Palazzo dei Conservatori, poi nell’Antiquarium del Celio, poi di nuovo ai Musei Capitolini, infine a Palazzo Braschi, poi al Museo della Civiltà Romana all’Eur. Sulla parete dell’aula del Tempio della Pace (aula o porticato) era stata istoriata una rappresentazione di muri, di celle, di esedre, di colonnati, di tipi di edificio infinitamente variati, numerosi come le parole di una lingua. Non si trattava di iscrizioni, nessun letterato avrebbe potuto decifrare il linguaggio in cui era espressa la descrizione; si trattava di un altro codice, peraltro in uso presso i costruttori da tempo immemorabile per far apparire nel reale, attraverso un cantiere, delle realtà descritte e controllate nelle loro dimensioni, nella loro distribuzione, nella loro collocazione e nei modi della loro realizzazione attraverso la materia. Qui non si trattava di un progetto, bensì della presa di conoscenza dell’unità di un’opera -la città di Roma, Roma Aeterna, Aurea Roma- che il tempo aveva accolto nel suo trascorrere e gli uomini edificato durante le loro esistenze. Le scienze elaborate per consentire l’attività progettuale e quella costruttrice servivano, questa volta, per permettere a una forma di ritratto della città di essere percettibile nella sua interezza, come una unità, e nella sua complessità, come opera dei secoli; e nella sua celebratività potenziale, come sede di eroi, di principi, di conquistatori che attraverso i loro atti avevano costruito la storia di un intero mondo. Nemmeno due secoli più tardi, le forze divine della terra si scatenarono: in foro Pacis per dies septem terra mugitum dedit7 e abbatté il Templum. Nel VI secolo, Procopio parla della sua rovina sotto i fulmini, e del sopravvivere qua e là delle antiche opere d’arte che lo avevano ornato. L’osservatore del primo e secondo secolo dopo Cristo, certamente assistito da una guida, poteva, attraverso quei segni incisi nelle lastre, ricostruire brano a brano la parte di città che conosceva, e scoprire con sorpresa il suo

largo respiro costruttivo come le angustie di molte sue parti non illustri. Per raggiungere il Tempio della Pace aveva certamente percorso il Foro di Traiano, sfiorato quello di Augusto, attraversato quello di Nerva, aveva incontrato i giardini del temenos del Templum, intravisto la Basilica Aemilia e la cinta degli Horrea Piperitaria. Poteva ora costruire nella propria mente quello spazio romano che non ammette vuoto se non imprigionato tra i colonnati dei fori, le ellissi degli anfiteatri, i semicerchi dei teatri, i riquadri delle scholae, le lunghissime U degli stadi o dei Circhi. Obbligatoriamente, la sua intelligenza doveva poi riconoscere in tutti i tipi di cilindro, di semicilindro, di cupole emisferiche, di esedre a colonne, di grandi spazi regolari, di sale ipostile, di grandi altari e grandi templi, le tracce che questi lasciano sul suolo e che hanno nome di ichnographia. Povere schegge disperse suscitano intorno a sé, superstiti tra le rovine superstiti, quel dialogo tra realtà e metodi di conoscenza (e di trasmissione della conoscenza) di cui si nutre la nostra cultura, e diventano così non più pietose macerie, ma segni indispensabili di un reale quasi scomparso dalla fisicità. A nostra volta, se esaminiamo ogni esemplare, e poi tutti, della Forma Urbis, ci troviamo confrontati, in genere, con un tessuto minuto, irregolare, fatto di successioni di celle di dimensioni piuttosto modeste che costituiscono il corpo delle vie e si diramano da esse formando vicoli chiusi. Di tanto in tanto, tra queste botteghe, si apre l’ingresso a un’abitazione, completamente arretrata rispetto alla strada. A volte, le abitazioni si schierano l’una accanto all’altra, sempre al dilà della barriera di botteghe. Le abitazioni sono organizzate intorno a un patio quadrangolare circondato da celle e qualche volta sembrano avere un giardino. La pianta delle abitazioni non è molto dettagliata; sono messi in buona evidenza gli ingressi, talvolta a baionetta, e il triclinio aperto sul patio. Sono molto frequenti i casi di doppie serie di celle intorno a un vicolo come l’abbinamento di una serie di celle con un porticato a colonne. La serie di celle con portico a colonne genera una serie vasta di soluzioni architettoniche, dai temenoi dei templi e dei Fori alle caserme, alle palestre e ai grandi depositi alimentari, dell’olio, del grano, delle spezie, fino alle scholae artigiane e alle manifatture. Delle grandi strutture architettoniche, è

rimasto solo qualche frammento: dell’Anfiteatro Flavio, del Circo Massimo, del Ludus Magnus, del teatro di Marcello e forse di quello di Pompeo, della Aedes delle Vestali, il tempio di Diana Cornificia, il Balneum Surae, il Porticus Liviae, il Templum Divi Claudii e numerosi frammenti in cui le serie di celle si combinano in edifici (horrea) tanto di grande quanto di piccola dimensione. La grande ricchezza combinatoria attraverso la quale si esprime la varietà delle architetture romane e l’agilità nella trasformazione dello spazio della città avviene attraverso la combinazione di strutture lineari (vie porticate, portici, esedre a colonne, con strutture “a reticolo” che configurano diverse inclusioni dello spazio aperto, del cielo, dei boschetti e dei giardini, mentre tutte le stereometrie, dal cubo o prisma dei templi, dai cilindri degli anfiteatri e degli stadi si propongono sia in una purezza paradigmatica, sia nel loro incastro reciproco: così le palestre gladiatorie (Ludus Maximus, Matutinus, Dacicus, Gallicus) presentano il tema dell’ellisse inclusa in un cubo perfetto di cellae; il Septizonium la trasformazione in torre di monumenti sovrapposti, con pronai a colonne, le Terme l’organizzazione armonica di spazi a volta e a cupola con il loro perimetro porticato, i loro specchi d’acqua e giardini. Il visitatore del secondo secolo poteva confrontare le sue esperienze dei luoghi con l’immagine, completa e unitaria, della Forma Urbis intatta: noi possiamo invece soltanto studiare le immagini frammentarie, integrandole talvolta con i rilievi archeologici, tentando così di far emergere, soprattutto nella nostra mente, le possibili forme di unità, diversità, diacronia, continuità, innovazione che le nostre indagini evocheranno: Le due esperienze sono irrimediabilmente diverse; la nostra è diversa anche da quelle condotte, nel tempo, dagli studiosi, dal Rinascimento fino al XIX secolo, dove l’interpretaziome degli scavi e dei frammenti conduce a delle riprogettazioni, parziali o totali, della Roma antica ( Da Pirro Ligorio a Etienne Du Perac a Piranesi, Carlo Fontana, Fisher Von Erlach, Luigi Rossini, Luigi Canina: in queste proposte i frammenti della Forma Urbis appaiono spesso come prove d’appoggio). La Forma Urbis Romae di Rodolfo Lanciani rappresenta invece l’apporto di una metodologia scientifica collaudata e dispone, come in una carta delle epoche, i resti di Roma Antica dissepolti e studiati sopra

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la pianta di Roma contemporanea. Palinsesto su palinsesto, una realtà di duemila settecento anni. Lo spazio che ne risulta, per oggettivo che sia, induce comunque a sognare le realtà che descrive, le volumetrie, le sezioni, la figura inafferrabile di quello spazio antico quanto la sua distruzione, le nuove successive distruzioni, le progressive ricostruzioni, i segni di culture tramontate nel tempo, l’agguato delle forze che certamente la insidiano. A Roma, città fondata, ma in un’epoca immemoriale ed evolutasi lentissimamente nel tempo della storia, lo spazio urbano non si organizza come nelle città-colonia che sono state prima di tutto castra,8 e cioè avamposto militare, fortezza popolata da armati, ed offre un amalgama di epoche diversissime, nel quale, da Silla e Giulio Cesare in poi, al “tessuto” arcaico vengono sovrapposti ordinamenti dello spazio di impronta ellenistica, ma di organizzazione precipuamente romana, basati sui grandi Fori, le Basiliche, le Terme, i lunghi colonnati, le sale ipostile, che impongono un ordine inedito, basato sul linguaggio

architettonico di sapore greco-ellenistico e sulla predilezione di entità dimensionali gigantesche, il quale si inserisce, attraverso demolizioni di intere zone, all’interno di una trama preesistente nella quale sembra prevalesse una topologia, e cioè una tradizione nella creazione di luoghi (topòi) e nella combinazione assennata di tali luoghi, anziché la trasformazione del tessuto attraverso grandi interventi comportanti un’elaborazione tipologica e una sintassi costruttiva che, in età repubblicana era stata forse riservata soprattutto all’architettura dei templi. Nei frammenti della Forma Urbis che sono giunti fino a noi, e che fanno oggetto di studio da parte della Stanford University in collaborazione con il Comune di Roma,9 appaiono figure dello spazio urbano che potrebbero essere rivelatrici. Certo, sull’estensione globale della Roma imperiale, queste testimonianze non sono esaurienti; tuttavia qui sappiamo di analizzare un frammento e di cogliere quanto quel frammento smuove nella nostra memoria. Sia nei frammenti marmorei superstiti

di questo straordinario monumento che nei rilievi redatti da architetti quattro-cinquecenteschi, lo spazio commerciale sembra accompagnare, fasciare con la propria successione di tabernae tutte le aree occupate da domus e insulae, gli ingressi alle quali sono inseriti tra di esse, senza una particolare rilevanza dimensionale. Si riprodurrebbe quindi, nel tessuto della città risparmiato dagli incendi, numerosi prima e dopo quello di Nerone, qualcosa come uno schema antichissimo, reperibile ad Ur, per esempio, di uno spazio della strada –spazio di scambio- che occulta ciò che sta al dilà di esso. Le illustrazioni della Forma Urbis accolgono sistemi costruiti affini a queste realtà. Lo spazio commerciale si struttura in serie lineari, talvolta doppie e affrontate, come sei secoli più tardi i souk-s delle città arabomusulmane, che potrebbero trovare un precedente probabile nelle prime città di fondazione araba come Ayn‘Anjar in Libano (714-715 d.C.). Lo schema certamente è di impronta bizantina, ma imtroduce nello schema

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ortogonale ereditato alcuni caratteri specifici dello spazio arabo-musulmano nascente, in quello stesso secolo e nel successivo, in molte fondazioni omeyyadi. È importante però tener presente che non si tratta di trovare influenze dirette di una civiltà su un’altra, ma di cogliere il nascere o il persistere di schemi di organizzazione dello spazio, capaci di attraversare epoche e civiltà e di dar luogo a risultati architettonici assolutamente distinti, in cui lo schema comune è praticamente irriconoscibile per una analisi superficiale.

1 Ad esempio, la carta topografica delle cave e miniere del Uadi Hammâmât, Torino, Museo Egiziano. 2 Per quanto riguarda la descrizione romana antica dell’organizzazione dello spazio, tanto urbano quanto geografico-territoriale, i documenti in nostro possesso sono i frammenti della Forma Urbis Romae, dell’età dei Severi (205-208 d.C.?), l’Itinerarium Antonini Augusti, redatto all’epoca di Caracalla e poi aggiornato, la Cosmographia Ravennate e la Tabula Peutingeriana, del III secolo d. C, che possediamo grazie a una copia medievale. La Tabula era esposta al Campo di Marte, mentre la Forma Urbis era affissa in un’aula presso il tempio della Pace, dove fu prima danneggiata da un incendio, quindi restaurata da Settimio Severo dalla quale fu

successivamente staccata, fatta a pezzi, dispersa. Gli studi condotti dalla Standford University sui frammenti della Forma Urbis vengono pubblicati sul sito Internet: http://formaurbis.Stanford.edu. Il direttore del Stanford Digital Forma Urbis Romae Project è il Prof. Marc Levoy; la responsabile per conto della Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma è la Dott.ssa Laura Ferrea. 4 Ricordo, senza pretesa di completezza, e solo per conoscenza diretta: Venezia (in parte) Lucca, Certaldo, Siena (?), Firenze (in parte), Tunisi, Sfax, Sousse, Hammamet, Kairouan, Sanâa. 5 Vedi soprattutto, per un orientamento generale, Marcello Fagiolo, Roma Antica, Capone Editore, Cavallino di Lecce, 1991. Vedi anche Rodolfo Lanciani, Forma Urbis Romae 1893-1901 e Carettoni, Collini, Cozza, Gatti, La Pianta Marmorea di Roma Antica. Forma Urbis Romae, Roma, 1960. 6 Cfr. Andrea Carandini, La Nascita di Roma, Einaudi, Torino, 2003 7 Marcellinus Comes, Chronica Minora ed Mommsen ii.69, cit. in Samuel Ball Platner, A topographical Dictionary of Ancient Rome, London, 1929 8 D’altra parte, anche una città fondata come Ostia, dove si rintraccia il probabile perimetro del castrum originario, l’organizzazione generale dello spazio non segue norme monumentali, se non in luoghi particolari; il tessuto generale della città è modellato dalla sua natura eminentemente commerciale, portuale e manifatturiera, e vede una rete assolutamente invasiva che dà agli spazi di stockaggio, conservazione, semilavorazione e vendita al dettaglio la configurazione di una architettura lineare che si sviluppa su tutti i margini delle insulae e delle regiones, dalle porte fino ai diversi centri di cui la città è composta. Pompei, a una lettura attenta degli scavi, presenta caratteri molto affini. 3

9 Gli studi condotti dalla Standford University sui frammenti della Forma Urbis vengono pubblicati sul sito Internet: http://formaurbis.Stanford.edu. Il direttore dello Stanford Digital Forma Urbis Romae Project è il Prof. Marc Levoy; la responsabile per conto della Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma è la Dott.ssa Laura Ferrea.

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La Colonna del Filarete sul Canal Grande La lezione di Aldo Rossi e l’uso del frammento Tomaso Monestiroli

Una mattina che passavo per il Canal Grande in vaporetto qualcuno mi indicò improvvisamente la colonna del Filerete e il vicolo del Duca e le povere case costruite su quello che doveva essere l’ambizioso palazzo del signore milanese. Osservo sempre questa colonna e il suo basamento, questa colonna che è un principio e una fine. Questo inserto o relitto del tempo nella sua assoluta purezza formale, mi è sempre parso come un simbolo dell’architettura divorata dalla vita che la circonda. Ho ritrovato la colonna del Filerete, che guardo sempre con attenzione, negli avanzi romani di Budapest, nelle trasformazioni degli anfiteatri, ma soprattutto come un frammento possibile di mille costruzioni.1 In queste poche righe è espresso molto chiaramente il pensiero di Aldo Rossi nei confronti del frammento, inteso come elemento architettonico in grado di essere testimonianza di qualcosa che è stato, e al contempo di essere fonte inesauribile di nuovi progetti, di divenire quindi riferimento. Ciò che distingue un reperto archeologico, da un frammento architettonico è proprio la valenza progettuale di quest’ultimo, la sua capacità di trasmettere un’idea più generale di architettura, che non si limita a testimoniare se stesso, la sua forma, ma che è in grado di trasmettere principi progettuali ancora oggi validi. La riproposizione di un cornicione neoclassico tratto da un disegno del Vignola e realizzato a scala maggiore da Aldo Rossi e Ignazio Gardella come coronamento della torre scenica del Teatro Carlo Felice di Genova è da intendersi in questo senso; oltre ad essere un omaggio alla classicità del pre-

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esistente Teatro realizzato dal Barbino, ed al periodo architettonicamente più significativo della città, è l’elemento architettonico che rende riconoscibile la torre scenica e le attribuisce il ruolo di nuovo punto di riferimento della città. Questa identità ritrovata trasforma la torre scenica da semplice manufatto tecnico a nuova architettura civile. Tuttavia questo procedimento non deve indurre a pensare che sia sufficiente la citazione di un frammento per restituire identità civile ad un edificio. La citazione deve contenere e palesare la ragione profonda del suo essere. Se ciò non fosse sarebbe soltanto una mera copia della forma storica, senza apportare nulla di nuovo al processo di conoscenza. È necessario, invece, procedere alla continua rifondazione dei riferimenti assunti, nell’idea della continuità più volte auspicata da Rogers2 e perseguita da un’importante scuola di pensiero di cui Aldo Rossi era tra i maggiori esponenti. Uno dei primi progetti in cui questo riferimento esplicito alla colonna del Filarete compare è il progetto per la Südliche Friedrichstadt a Berlino del 1981 Si tratta di un grande edificio per abitazioni costruito sul perimetro del lotto, così da ricostituire la compattezza dell’isolato, nel rispetto della tradizione tedesca, senza, tuttavia, negare il rapporto tra la strada e la corte interna. Un grande portale infatti garantisce l’attraversamento dell’intero isolato. È un progetto che riassume in se molte precedenti esperienze di grandi complessi residenziali a partire dal quartiere Gallaratese di Milano, inizio di una lunga ricerca sulla tipologia edilizia contemporanea. Gli angoli dell’edificio

1 La colonna del Filarete sul Canal Grande Foto di Gianni Braghieri Pagine successive: 2 L. Mies van der Rohe Progetto per gli uffici della Bacardi, il pilastro a croce 3 Jacopo Barozzi da Vignola Regola delli cinque ordini dell’architettura, TAV XXXII 4 A. Rossi - I. Gardella Teatro Carlo Felice (Genova), torre scenica 5 A. Rossi Area di Fontivegge, Perugia 6 A. Rossi Edificio residenziale al quartiere Vialba di Milano, veduta dell’angolo 7-8 A. Rossi Sudliche Friedrichstadt a Berlino, disegni di studio


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Berlinese sono sottolineati dalla presenza di una possente colonna in cemento bianco, proprio per dichiarare la totale appartenenza alla città di questo edificio. (...) Le quattro colonne di quel progetto (l’edificio del quartiere Gallaratese) sono qui riassunte in una colonna d’angolo che è diventata come una citazione della colonna veneziana del Filarete. Amo questa colonna per il suo inserimento potente e prepotente in un’edilizia povera anche se questo è dovuto ad una volontà politica e non ad una prefigurata composizione architettonica ma è proprio questa la grandezza, la possibilità e l’autonomia dell’architettura.3 La colonna compare nuovamente nel 1982 nel progetto per l’Area di Fontivegge a Perugia dove segna, in opposizione al cono del teatro, l’ingresso naturale alla nuova piazza. Colonna d’angolo, pronao del Broletto, e cono-atrio del teatro sono gli elementi architettonici che delimitano e definiscono il luogo, rendendolo riconoscibile come luogo pubblico. Ed è la riconoscibilità che Rossi affida alla colonna del Filarete il tema principale di questa citazione. Questo elemento infatti compare indistintamente sia che si tratti di edifici pubblici, sia che si tratti di edifici residenziali, in quanto tutti edifici della città. Si tratta quindi di una citazione “nobile” e non di un semplice formalismo. La colonna d’angolo è uno degli elementi che possono contribuire a dare

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quel carattere civico necessario a trasformare un semplice manufatto in architettura; in architettura della città. È l’esempio dell’unità residenziale in zona Vialba a Milano del 1985 dove come in altri progetti una grande colonna segna l’angolo dell’edificio costituendo al tempo stesso un elemento di riconoscibilità urbana che ha numerosi riscontri nell’edilizia milanese.4 La tradizione è quindi una costante nel lavoro di questo maestro contemporaneo, in ogni progetto è possibile cogliere un legame importante con la storia. Le citazioni non sono semplicemente formali, ma diventano costitutive del progetto e coinvolgono tutti gli elementi dell’architettura. Nel progetto per un edificio residenziale alla Villette sud a Parigi, Rossi reinterpreta il tetto parigino di Mansart suscitando non poche polemiche. Il tetto diventa l’elemento generatore del progetto. Questo tetto, icontestabilmente legato all’immagine di Parigi e in particolare a quella della rue de Rivoli, che si alza fino al punto da formare da solo quasi una casa di metallo, avrebbe anche potuto essere risolto in maniera differente. Ma in questo caso specifico è nato da un’osservazione tipicamente locale. Qui è parte integrante dell’architettura fino a diventare l’elemento dominante del progetto. 5 Anche in questo progetto compare la citazione della colonna del Filarete, anche se qui si trasforma radicalmente divenendo

“abitata” (ospita i locali dell’ufficio postale di quartiere). L’attribuzione di una funzione a questo elemento comporta la necessità di abbandonare il suo essere sostegno, liberando il cilindro anche nella parte superiore. L’indipendenza e l’unicità di questo elemento è comunque garantita dalla differenziazione di materiale con cui è costruito. Questi esempi sono rappresentativi del fare architettura per Aldo Rossi e per una “Scuola”, ancora oggi operante, che crede e ha sempre creduto nell’importanza delle radici del progetto. È un atteggiamento che parte da lontano, dai trattatisti rinascimentali, per i quali l’accurata osservazione e descrizione delle forme dell’antichità e il rilievo, erano gli strumenti grazie ai quali potevano garantire una continuità, altrimenti irripetibile, e al tempo stesso gli permettevano di attuare una trasformazione, unica garanzia di progresso culturale. Quella stessa trasformazione che hanno operato i maestri del MM e che ha consentito loro, il superamento della crisi architettonica dei primi del 900. L’opera di Mies possiede la classicità e l’impressione di questa classicità ha qualcosa a che vedere con la traslatio o metafora / per questo essa ci colpisce più che nelle opere di Schinkel dove la citazione è diretta e Mies discendendo da Schinkel ha capito la necessità della trasposizione e della iperbole. Queste


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grandi colonne di ferro e il basamento di granito che si estende ed è parte della città, come è parte della città il grande spazio interno, costituiscono un punto di riferimento e una trasposizione della città classica.6 Credo che il vero valore del frammento stia nella sua reinterpretazione, nella traslatio appunto, e che grazie a questa profonda operazione di rifondazione, sia possibile proporre un’architettura diversa da quella effimera e fondata solo sul valore dell’immagine come autocelebrazione, che oggi costruisce e domina le nostre città.

1 Aldo Rossi Autobiografia scientifica. Pratiche editrice, Milano 1999, pag. 17 2 per E. N. Rogers la memoria è elemento fondativo dell’essere artista “L’operazione creativa viene influenzata da due azioni della memoria, o meglio nel rapporto dialettico di due tensioni opposte: la prima azione si rivolge al passato, trae alimento cosciente o subcosciente dalle esperienze già consumate per crearne di nuove. È il senso dei ricordi ancestrali (anche senza considerare gli argomenti della psicanalisi) della conservazione, del ripensamento; la rielaborazione per cui le cose già fatte continuano in noi, determinano una tradizione, cioè si portano avanti tramite nostro, si inverano nell’oggi, gli danno stabilità con fondamenta più ampie di quel che avrebbero se nascessero solo da noi. La memoria conferisce alle cose dello spazio la misura del tempo: di tutto quel tempo che è prima di noi. Ma è il tempo di coloro che ci hanno preceduti e in gran parte è il tempo dei morti, riuniti in consorzio per ammonirci di essere vivi, come essi sono stati nel loro momento. Ammonire e ricordare (moneo e memini) hanno la stessa radice semantica e da essa acquista valore la parola monumento ed il concetto simbolico che essa racchiude. Monumento, nel concetto moderno (e già lo era in parte per Palladio), non è soltanto la casa di Dio e del Principe, ma soprattutto la casa dell’uomo e ogni altro organismo edificato che sintetizzi nella sua fattura l’utilità e la bellezza, ai fini di una determinata società. Qui è l’altra azione della memoria, non quella che si muove da noi verso le cose, ma dalle cose a noi e oltre noi. Un artista non è tale se non ha la memoria dell’esperienza altrui e se ad essa non aggiunge i due significati elaborati nella contemplazione e nell’attività”. E. N. Rogers in Gli elementi del fenomeno architettonico, Laterza, Bari 1961. 3 A. Rossi, Tratto dalla relazione di progetto pubblicata in Aldo Rossi – Architettura 1959-1987, Electa Milano, 1987 4 A. Rossi, Ibid. 5 A. Rossi, Ibid. 6 Aldo Rossi I quaderni azzurri, edizione anastatica a cura di Francese Dal Co, Electa, Milano 1999.

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Il Giardino dei Passi Perduti: Peter Eisenman vs Carlo Scarpa Michelangelo Pivetta

L’arte, cioè collettivamente pittura, scultura, architettura e musica, è la mediatrice e riconciliatrice di natura e uomo. È dunque il potere di umanizzare la natura, di infondere i pensieri e le passioni dell’uomo in tutto ciò che è l’oggetto della sua contemplazione. S. T. Coleridge

Verona, giugno 2004. Passare il ponte levatoio, varco d’entrata tra le mura medievali che abbracciano languidamente il magnifico cortile di Castelvecchio e percepire con lo sguardo che il prato immutabile, rigoroso e rassicurante (nel quale mai vi si era potuti camminare in quanto area off-limits parte integrante dell’intero lavoro scarpiano) che prima ospitava laconica e totemica un’opera di Mattiacci si era modificato d’improvviso in un’inedita serie di morbidi rilievi tracciati attraverso la frapposizione di piani in cemento e lame di acciaio, ha generato in me, architetto veronese, che dell’immobilità delle forme di quel luogo aveva fatto una sorta di caposaldo culturale della propria formazione, un significativo turbamento psicologico, a stento narrabile con gli schemi tipici del linguaggio dell’architettura. In verità il progetto di Peter Eisenman e le sue vicissitudini, (fatto sapientemente proprio dalla direttrice del Museo Paola Marini), si conosceva già da qualche tempo nelle sue linee principali e si era fin da subito riconosciuto il valore dell’opera senza immaginare però il reale effetto empatico che il progetto avrebbe avuto nella realtà del costruito. Come tutti i progetti di Eisenman anche questo, anzi questo forse ancor più di altri, data la propria natura unica

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di installazione temporanea, si presta a molteplici livelli di interpretazione e conoscenza secondo la profonda convinzione, sempre sostenuta dallo stesso architetto, che “…l’arte vera si deve negare ad una lettura facile ed spontanea…”. Modellando la superficie del prato, Eisenman ha voluto che si trasformasse in una scultura dall’immagine simile a quella di una spaccatura nella crosta terrestre, lasciando liberare all’improvviso un insieme disomogeneo di elementi architettonici e di frammenti di varia natura, scala ed origine materica, come se questi stessi, facenti parte di una sorta di moltiplicazione di livelli del suolo, lì fossero sempre stati, ricoperti dalla terra e dall’erba e che solo lì, grazie ad una specie di evento tellurico, siano potuti risorgere finalmente alla luce. Ciò può instillare volutamente anche il dubbio che ovunque all’interno del cortile, ed anche oltre in tutta la città, sotto qualche centimetro di terra, se ne possano trovare altri; gioco intellettuale, questo, reso ancor più interessante e diretto se si vuole ricordare che il centro storico di Verona è disseminato da una lunga serie di episodi archeologici messi alla luce nel tempo sbrecciando strade e piazze, in modo da rivelare per lunghi tratti una città precedente spesso non coincidente con l’attuale e rivelatrice di un passato che come testo secondario o sub-testo, non suggerisce risposte certe insinuando al contrario in più occasioni nuovi dubbi e perplessità. In realtà Il Giardino dei Passi Perduti è una delle più recenti dimostrazioni, in senso temporale, del procedere di una specie di rivoluzionario dell’architettura

1 Il Giardino dei Passi Perduti, Verona. foto M. Pivetta Pagine successive: 2 Cannaregio Town Square, Venezia (Eisenman Architetcts) 3 Moving Arrows, Eros and other Errors, Romeo + Juliet, Verona (Eisenman Architetcts) 4 Dettaglio del modello in legno (Eisenman Architetcts) 5-6 Il Giardino dei Passi Perduti, Verona foto M. Pivetta 7-8 Renders. (Eisenman Architetcts) 9 Il Giardino dei Passi Perduti, Verona foto M. Pivetta


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che, con una carica teorica continuamente rinnovata per mezzo di una ricerca attenta e di una ricca serie di opere realizzate e non, lascia trasparire una volontà -a tratti “manichea”- di continuo intervento nella dialettica architettonica. Rafael Moneo in un suo recente testo dedicato alla critica di alcuni dei principali esponenti dell’architettura contemporanea ha voluto iniziare il capitolo dedicato all’opera di Peter Eisenman in questo modo: “… Il ruolo svolto da Peter Eisenman nell’architettura dell’ultimo trentennio del novecento è stato cruciale. Vero e proprio catalizzatore della cultura architettonica di questo periodo, con i suoi scritti ha influenzato a tal punto i diversi settori dell’architettura, che le sue idee ed opinioni sono sempre state considerate un ineludibile punto di riferimento, tanto in ambito accademico, quanto in quello professionale…”. Il riconoscimento di Moneo nei confronti dell’attività razionale di Eisenman

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espresso attraverso queste parole sembra inequivocabile. Le tensioni che vengono messe in luce nei suoi progetti rivelano come l’architetto americano sia sempre alla ricerca di stimoli e conferme e come il suo muoversi, oltre ad essere intenso e razionale, sia interamente rivolto verso la stesura di un unico lungo testo architettonico. Ogni nuova operazione eisenmaniana rappresenta quindi un nuovo capitolo nel percorso evolutivo di scoperta tra le fratture di un fare architettura che assorbe tenacemente i tratti più significativi dell’evoluzione del pensiero contemporaneo occidentale. In realtà questo percorso può apparire spesso metamorfico ed anti-lineare e sovrapponendosi alla letteratura, alla filosofia, al cinema, alla musica e soprattutto alle arti figurative ha portato il più delle volte ad un prodotto senza mercato, ponendo l’architettura oltre il confine che la separa da queste arti.

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Se un primo Eisenman formalista-strutturalista è in grado di staccarsi definitivamente dalle derive funzionaliste del movimento moderno prendendo ampiamente le distanze da un’architettura pronunciata in termini figurativi, oggi, e questo progetto veronese ne è una conferma, attraverso l’esteso uso di sofisticate e consolidate formule che assemblano matrici, diagrammi e layers fa dell’estetica formale probabilmente uno dei cardini essenziali. Nel Giardino se da un lato il rapporto con l’opera di Carlo Scarpa sembra un dato tangibile su cui Eisenman si sofferma, dall’altro si potrebbe considerare il fatto che in fondo il luogo ed il tempo in cui egli agisce diventano parametri assolutamente secondari, semplici moventi iniziali, incipit di una lunga sinfonia che nel suo crescendo diventa man mano essa stessa agente contagiante del contesto. La trasposizione planimetrica all’ester-


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no degli spazi scarpiani avviene utilizzando ancora una volta l’interpolazione dei pieni e dei vuoti, in modo che il prato diventi esso stesso contenitore e spazio museale a cielo aperto. L’unione sequenziale dei quattro eventi architettonici, trasfigurazione geometrica delle quattro stanze al piano terra del Museo, permette ad Eisenman, come già accennato, di raccontare per piccoli frammenti alcuni dei progetti che hanno segnato altrettanti momenti fondamentali della propria ricerca architettonica. Se le note proposte per Venezia (Cannaregio) e per Verona (Romeo and Juliet) esprimono in definitiva il culmine di operazioni architettoniche incentrate nella lettura dei luoghi attraverso le tracce che questi lasciano in quanto esso stesso iper-testo, già le residenze per l’IBA di Berlino e la Città della Cultura di Santiago di Campostela mostrano con chiarezza gli esiti del percorso di conversione delle teorie espresse per

mezzo della carta e del legno in realizzazioni concrete. Vi è uno scarto teorico profondo e tangibile nei progetti proposti come citazioni nel Giardino: dallo strutturalismo tautologico, portato anche alle sue più estreme conseguenze, l’installazione veronese ci conduce fino alle prove più recenti (e forse anche più in là) dove il terreno, condizione fisica del luogo, si impone come soggetto attivo e non più passivo dell’architettura fino a divenirne, come nella Città della Cultura di Santiago ed altrove, intimo custode. Tra le morbide fluttuazioni delle colline artificiali, tributo indubbio alle sperimentazioni americane della land art, gli oggetti architettonici prendono forma in un’apparente sorta di segreto caos ipogeo. Le quattro stanze -quasi una vera e propria réverie utopica per dirla come Bachelard- marcate dalle labbra del prato che si piegano per permetterne la vista, compongono il giardino dei fram-

menti di Eisenman nella veste di una biografia scritta con gli elementi dell’arte e dell’architettura, confermandone il chiaro valore rappresentativo e, perché no, didattico di una installazione/mostra sviluppata, viste anche le contingenze del luogo, con carattere fortemente innovatore. Quando le travi in acciaio verniciate di rosso, a richiamare quelle del progetto di Berlino, tracciando il terreno sia nel cortile che all’interno nelle stanze del Museo di Scarpa, svelano i punti di coesione e contrasto tra i due progetti alla ricerca di una sorta di difficilissimo continuum, l’opera di Eisenman palesa probabilmente il limite di un’architettura che posta sempre sul bordo esterno della composizione si assume il rischio di diventare pura icona di se stessa; acrobatico de-collage di un’architettura che pregna di concetti punta dritto verso gli obiettivi propri della comunicazione.

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Il Tempio di Gerusalemme: dallo spazio sacro alla sua negazione Luca Mazzinghi

Il Tempio di Gerusalemme, il luogo vuoto della presenza di Dio “Abiterò in mezzo agli israeliti e sarò il loro Dio”. Con queste parole, il Dio di Israele, YHWH, si rivolge a Mosè (Esodo 29,45) al termine delle istruzioni dategli circa la costruzione della tenda della Dimora che, nel corso del cammino del deserto, dovrà ospitare la presenza di questo stesso Dio. Ma resta vero il fatto che Israele non ha mai pensato allo spazio del Tempio – sia esso la Tenda mobile del deserto, sia esso il Tempio di Gerusalemme – come alla reale abitazione di Dio. Al momento in cui il re Salomone è descritto nell’atto di consacrare il Tempio da lui stesso fatto costruire, Tempio del quale ha preso possesso la nube della gloria di Dio, il narratore gli pone in bocca questa frase emblematica: “Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ti ho costruita” (1Re 8,27). Il Tempio è dunque, per Israele, soltanto il segno di una presenza; il Dio di Israele, infatti, è YHWH, Yahweh, ovvero “colui che c’è”, il Presente; non ha bisogno di un Tempio per manifestarsi in mezzo agli uomini; sono gli israeliti che ne hanno bisogno, non tanto lui. Per questo motivo il Tempio non è un assoluto; Israele è nato senza Tempio; è vissuto nei suoi molti esili senza Tempio e, da duemila anni, da quando il Tempio fu distrutto dalle legioni di Tito, vive senza Tempio. Il cuore della vita di Israele è, infatti, piuttosto la Torah, la legge data a Mosè. Nonostante tutto ciò, il Tempio rimane il luogo della presenza, la sede dove Dio “ha deciso di

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porre il suo nome”, come si esprimono diversi testi biblici. Un breve sguardo alla struttura del Tempio ci permetterà di coglierne meglio il significato. Ricordiamo prima di tutto che parleremo qui del cosiddetto “secondo Tempio”, quello che conosciamo meglio dalle fonti storiche, ovvero il Tempio ricostruito dagli israeliti dopo il ritorno dall’esilio babilonese, a partire dal 520 a.C. circa e completamente restaurato da Erode il Grande, negli anni successivi al 36 a.C., Tempio che verrà distrutto dalle legioni romane nel 70 d.C. Un semplice e fin troppo superficiale esame della topografia del Tempio ci aiuterà a coglierne il significato per la vita e per la fede di Israele. Il Tempio di Gerusalemme all’inizio del I sec. d.C. occupa quasi un quarto della superficie della città; uno spazio sacro all’interno di una città sacra, la cui intera vita ruota attorno al Tempio stesso. Qui per “sacro” dobbiamo intendere una idea tipicamente biblica ed ebraica: sacro è qualcosa che appartiene alla sfera di Dio, il cui contatto, senza le dovute cautele, rende impuro l’uomo e ne minaccia la vita. Se il cortile interno del recinto del Tempio era aperto anche ai non ebrei (il cosiddetto “atrio dei pagani”) non così era per il resto del santuario, il cui accesso era rigorosamente limitato ai membri del popolo santo, cioè agli israeliti, pena la morte. Ma le separazioni relative alla santità del Tempio non terminano qua. Il cortile riservato agli israeliti è a sua volta suddiviso in due parti, la prima delle quali è consentita alle donne, mentre la seconda è loro preclusa. La donna, infatti, non è direttamente ammessa a parteci-

pare al culto e la sua frequente impurità (legata per esempio al parto o più semplicemente al ciclo mestruale) la rende inabile alla presenza nel luogo santo. Neppure gli israeliti maschi e adulti, tuttavia, possono essere ammessi all’interno dell’edificio vero e proprio, dove solo i sacerdoti possono entrare ed esclusivamente per svolgere i riti prescritti, dopo accurati rituali di purificazione. Questa progressiva separazione del sacro dal profano mette in evidenza la santità del Dio di Israele, che non può essere incontrato dagli uomini in modo diretto. Solo al sommo sacerdote, poi, è consentito l’ingresso nella parte più interna del santuario, il “Santo dei Santi”, la cella che più di ogni altra cosa rappresenta la presenza invisibile del Dio di Israele. Ora, questa cella è vuota; nel Tempio salomonico, distrutto dai babilonesi nel 586 a.C., la tradizione biblica vi collocava la celebre “Arca dell’Alleanza” la quale, a sua volta, avrebbe contenuto – probabilmente con ben scarso fondamento storico – le tavole della Legge donate da Dio a Mosè. Il Tempio di Erode, invece, è nel suo interno un santuario vuoto; o meglio, è del tutto vuota la cella del “Santo dei Santi”. È ben nota la testimonianza di Tacito relativa a Pompeo; quando questi nel 63 a.C. prende possesso di Gerusalemme, ha l’occasione di entrare nel Tempio e di penetrare fin nel Santo dei Santi, credendovi di trovare qualche immagine di questo Dio così singolare. Ma, con suo grande disappunto, trova la cella vuota; Tacito, da buon romano, non comprende, come del resto non comprese Pompeo, e scrive che egli si trovò di fronte nulla intus deum effigie, vacuam sedem


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et inania arcana (Historiae, V,9). Il Dio di Israele non ha bisogno di immagini (cfr. già Esodo 20,3ss); il Tempio è il segno di una presenza che è reale nel momento stesso in cui è invisibile. Ulteriore separazione, dunque: la città santa separata dal resto del mondo; il Tempio separato dalla città; il cortile separato dai pagani prima e dalle donne poi; il santuario separato dagli uomini e il Santo dei Santi dai sacerdoti: alla fine Dio stesso è separato con il vuoto dalle immagini sensibili. Al di là degli stili utilizzati dai costruttori del Tempio (che erano basati su modelli fenici all’epoca di Salomone e su modelli ellenistici a quella di Erode), conta dunque la disposizione dello “spazio sacro” che fa del Tempio stesso un segno del Dio invisibile e non rappresentabile, del Dio tre volte santo (cfr. Isaia 6) che richiede una adeguata separazione dal “profano” perché l’uomo possa alla fine sperimentarne la presenza. A scanso di equivoci, ricordiamo che questa presenza non va soltanto intesa come una presenza regale, maestosa e terribile quasi che la sacralità del Tempio nasca da una visione quasi magica di un Dio capace di terrorizzare l’uomo. Il Dio di Israele, infatti, è il Dio “misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore” (cfr. Esodo 34,5). La sua presenza è a favore dell’uomo; tuttavia l’uomo non può accostarsi impunemente a lui. Queste poche note relative alla realtà del Tempio di Gerusalemme ci sono indispensabili per comprendere la portata della polemica che il Nuovo Testamento conduce proprio contro quel Tempio, che ben presto cessò di essere il centro della vita della nuova fede cristiana, benché secondo la stessa testimonianza biblica gli stessi apostoli e persino Paolo lo frequentassero ancora con una certa assiduità (c. vari passi in Atti 1-5). Quali furono le ragioni di questo cambiamento e quali le conseguenze sull’idea di “spazio sacro” per i cristiani? Gesù, il nuovo Tempio di Dio Sono noti, nei Vangeli, i passi nei quali Gesù entra in polemica con il Tempio di Gerusalemme; in particolare emergono quei testi nei quali Gesù scaccia i venditori dal Tempio (Matteo 21,12-13; Marco 11,15-17; Luca 19,45-46; Giovanni 2,13-22), compiendo così un gesto profetico che mira alla purificazione del Tempio stesso considerato da Gesù come “casa di preghiera”. Da

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questo punto di vista, l’azione di Gesù si iscrive in azioni analoghe dei profeti (cfr. Geremia 7) già per i quali il Tempio non poteva essere considerato una garanzia di successo per Israele. La polemica di Gesù contro il Tempio, come quella dei profeti, è volta a restaurarne il vero significato. Più radicali sono invece quei passi nei quali Gesù afferma di voler distruggere il Tempio e di ricostruirlo in tre giorni (cfr. Mt 26,61; Mc 14,58), riferendosi però, come specifica Giovanni, al “tempio” del suo corpo (Gv 2,19); su queste parole si baserà una buona parte del processo giudaico condotto presso il sinedrio. È interessante per noi approfondire proprio questo punto: parlando di se stesso come del “Tempio”, Gesù in qualche modo intende sostituirsi ad esso. Questa almeno è la lettura che gli evangelisti hanno dato delle parole di Gesù anche in un’altra occasione: quando ne descrivono la morte, Matteo, Marco e Luca ricordano che “il velo del Tempio si squarciò in due, dall’alto in basso” (Matteo 27,51; Marco 15,38; Luca 23,45). Il velo del Tempio non è altro che la cortina che separa il Santo dal Santo dei Santi, segno del luogo inaccessibile dove solo il sommo sacerdote può entrare una sola volta all’anno. In questo modo, gli evangelisti vogliono mostrare che con la morte di Gesù il Tempio di Gerusalemme ha perso ormai il suo scopo: l’accesso verso Dio è adesso diretto, senza più mediazioni rituali. Il Tempio ha cioè radicalmente perduto la sua funzione di “spazio sacro”. Per il Vangelo di Giovanni, in particolare, il culto come strumento di mediazione attraverso luoghi e gesti è abolito (cfr. il dialogo con la samaritana in Giovanni 4,1-44) e il vero spazio sacro (cfr. ancora Gv 2,19) è Gesù stesso, come Figlio di Dio e Parola fatta carne che “ha posto la sua tenda in mezzo a noi” (Gv 1,14). Se i cristiani hanno ancora bisogno di luoghi per riunirsi, non hanno più bisogno di uno spazio sacro perché il luogo della presenza di Dio, la manifestazione della sua “gloria”, nel linguaggio giovanneo, è Gesù stesso (cfr. tutto il prologo di Giovanni; Gv 1,1-18). La prospettiva aperta dal vangelo di Giovanni è confermata e ampliata nella Lettera agli Ebrei, uno scritto della seconda generazione cristiana, in seguito attribuito a Paolo. All’inizio del capitolo 8, al cuore della lettera, leggiamo:

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Pagine prededenti: 1 Arco di Tito, bassorilievo raffigurante i soldati romani con il candelabro d’oro a sette bracci sottratto al Tempio di Gerusalemme 2 Alec Garrard ricostruzione del Tempio di Erode 3 E. P. Sanders Area del Tempio erodiano, i cortili e il santuario: Fortezza Antonia (1), Muro portante (2), Strada presso il muro portante (3), Arco di Wilson sulla valle del Tyropeon (4), Arco di Robinson (5), Botteghe (6), Portici (7), Portico reale (8), Porta di uscita (9), Porta d’ingresso (10), Portico di Salomone (11), Monte degli Ulivi (12), Cortile dei gentili (13), Ingresso alla piazza, collegato da un tunnel alla porta d’ingresso (14), Uscita dalla piazza collegata alla porta di uscita (15), Balaustra e gradinate interdette ai gentili (16), Spianata interna e gradini (17), Muro interno (18), Porta Est per israeliti maschi (19), Porte Sud e Nord per israeliti femmine (20), Cortile delle donne (21), Portici interni (22), Muro di separazione tra uomini e donne (23), Seconda porta Est per israeliti maschi(24), Altare per sacrifici (25), Cortile degli israeliti (26), Parapetto di separazione tra sacerdoti e laici (27), Cortile dei sacerdoti (28), Ingresso al santuario (29), Hekal (30), Devir (31), Piani superiori (32)


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“noi abbiamo un sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della maestà dei cieli, ministro del santuario e della vera tenda che il Signore e non un uomo ha costruito” (Eb 8,1-2). Il servizio dei sacerdoti ebrei svolto secondo la Legge mosaico è solo un’ombra della realtà (Eb 8,5). Il capitolo 9, poi, ricorda per filo e per segno la disposizione e la struttura del Tempio di Gerusalemme, per concludere che “Cristo, invece, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mani d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci una redenzione eterna” (Eb 9,11-12). Con queste espressioni, l’autore della lettera agli Ebrei vuole prima di tutto far comprendere ai suoi ascoltatori che tutto ciò che la Scrittura dice del Tempio si compie realmente in Cristo; il Tempio non è stato inutile, ma in Cristo non serve più. È in lui, infatti, che l’umanità ottiene la salvezza ed è soprattutto in lui che gli uomini possono avere accesso diretto a Dio, senza più bisogno della mediazione rituale del Tempio materiale. Nella Gerusalemme celeste descritta dall’Apocalisse, il veggente autore del libro non vede alcun tempio in essa, perché il tempio dei cristiani è l’Agnello, cioè Cristo stesso (cfr. Ap 21,22). È evidente che un tale discorso ha una enorme portata nella valutazione del Tempio cristiano che non può più essere inteso come spazio sacro al modo del Tempio ebraico di Gerusalemme. Ma prima di trarre qualche conclusione su questo argomento è necessario dire ancora qualcosa su un altro aspetto della visione cristiana relativa al Tempio, ovvero quei passi nei quali sono i cristiani stessi ad essere chiamati “Tempio di Dio”. I cristiani, tempio vivente di Dio “Santo è il tempio di Dio che siete voi!” (1Corinzi 3,17); questa frase di Paolo arriva al termine di un testo polemico (1Cor 3,10-17) nel quale Paolo proclama arditamente un fatto nuovo. Per i cristiani, nell’ottica di Paolo, non c’è più bisogno del Tempio perché la presenza di Dio è in loro, attraverso il dono dello Spirito Santo. Se il Tempio di Gerusa-

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lemme, infatti, era il luogo (o almeno il segno) della presenza di Dio, il nuovo luogo della presenza di Dio è adesso l’uomo stesso. La comunità cristiana, pertanto, rivendica per se stessa l’essere il vero Tempio di Dio, che evidentemente non permette di attribuire più alcuna importanza al Tempio materiale. Tutto ciò nasce dalla profonda convinzione che animava la prima comunità cristiana, che cioè ogni credente è animato da quello Spirito che in modo privilegiato si era posato su Gesù (Gv 1,32-33). In altre parole, Dio non “abita” più un luogo materiale – nel quale peraltro non si pensava abitasse realmente – ma “abita” con il suo Spirito l’intimo stesso degli uomini. Se Gesù è il luogo della presenza di Dio lo sono anche i cristiani, nei quali abita lo Spirito (cfr. anche 1Cor 6,19). In altri testi del Nuovo Testamento (1Pietro 2,5 e Romani 12,1) i credenti vengono descritti come “pietre vive” che insieme costituiscono un “edificio spirituale” cioè quel Tempio vivente che è la chiesa. In questa chiesa-tempio vivente il cristiano ritrova i due elementi che caratterizzavano il Tempio di Gerusalemme: la ricerca della presenza di Dio e il perdono dei peccati: tutto ciò avviene nel momento culminante della vita della comunità cristiana, ovvero la celebrazione eucaristica. Qui il cristiano scopre una presenza fonte di perdono che non è legata a uno spazio sacro (tant’è che i primi cristiani non sentono il bisogno di “chiese”), ma alla comunità stessa, abitata dallo Spirito e vero spazio sacro della presenza di Dio. Conclusioni: l’uomo è lo spazio sacro di Dio Già per quanto riguarda il Tempio di Gerusalemme le Scritture ebraiche avevano ben chiaro come il Tempio non doveva correre il rischio di diventare qualcosa che blocca l’esperienza divina dentro schemi precostituiti. Nel capitolo 7 del secondo libro di Samuele, il profeta Natan ricorda a David che non sarà lui a costruire una casa a Dio, bensì Dio a costruire una casa a lui. Inoltre, non di rado la tradizione ebraica vedrà il Tempio come una “tenda”, sulla falsariga della tenda/santuario costruita da Mosè nel deserto: un luogo provvisorio e mobile, non legato a uno spazio prefissato. Ciò che il cristianesimo dirà sul Tempio non è perciò in diretta opposizione all’intera visione ebraica del Tempio stesso, ma sotto molti punti di vista in continuità con essa.

Per il cristianesimo, però, tale provvisorietà del Tempio diviene ancor più evidente e radicale. Non potrà mai essere un Tempio terreno a sostituire il Tempio di Gerusalemme andato distrutto; la vera casa di Dio è in cielo e, sulla terra, il luogo della presenza di Dio è Gesù Cristo, e quindi la comunità dei cristiani, la Chiesa (ancora il testo di Ap 21,22). Quando i cristiani inizieranno a costruire i loro luoghi di culto, le chiese, non penseranno prima di tutto a uno “spazio sacro” nel quale far abitare Dio. Forse le cose cambieranno soltanto con la nascita del culto eucaristico concepito come la presenza dell’ostia consacrata all’interno della chiesa; ma si tratta di una visione senz’altro posteriore. L’edificio-chiesa, che sia esso la basilica del primo cristianesimo, l’edificio romanico o gotico, suggerisce sempre una dimensione di cammino, piuttosto che di staticità e sacralità in senso spaziale. Non c’è tanto spazio sacro quanto piuttosto uno spazio dinamico che invita il cristiano ad andare oltre. Sarà soprattutto con la Controriforma che le chiese acquisteranno una dimensione più statica, intese sempre più come luogo di adorazione, di predicazione, di ascolto e di visione del rito. Ancora oggi sono rare le chiese che invitano i credenti a “camminare” piuttosto che a “fermarsi”. Eppure uno studio dei testi del Nuovo Testamento relativi al Tempio ci mostrano chiaramente come il cristianesimo non concepisce più uno spazio sacro statico, fine a se stesso, una “casa di Dio” che in fondo era già esclusa dalla concezione della Tenda del deserto descritta nel libro dell’Esodo. L’uomo, sia esso l’uomo-Cristo figlio di Dio, sia esso l’essere umano abitato dallo Spirito, è alla fine il vero spazio sacro. Solo in relazione a questa fede l’edificio-chiesa può conservare tutto il suo valore.

Bibliografia essenziale Una prima e semplice introduzione al Tempio di Gerusalemme si può facilmente trovare nel n° 4 (1999) de “Il mondo della Bibbia”; ed. ElleDiCi, Leumann (To), con ulteriore e più ampia bibliografia. Sullo spazio sacro nella Scrittura e nella tradizione cristiana si possono consultare S. Dianich, “Luoghi e spostamenti nell’autocoscienza della chiesa” e B. Rossi, “Dalla visione della sacralità giudaica alla rilettura dello spazio e del sacro nell’autore del quarto vangelo”, entrambi in Vivens Homo 8/2 (1997).


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4 Un soldato israeliano al Muro del Pianto


La poetica del frammento nella musica del Novecento Giancarlo Cardini

Riconsiderando la storia della musica del secolo passato in termini di nuove concezioni formali, si può senz’altro individuare in quella che chiamerei la poetica del frammento una delle direttrici principali del pensiero musicale moderno. Questa poetica si è estrinsecata essenzialmente secondo due modalità, talora connesse tra loro: da un lato si è teso verso un radicale accorciamento delle opere, e dall’altro si è incrementata sempre più la polverizzazione dei nessi costruttivi ereditati dalla tradizione. Per quanto riguarda il primo aspetto, che all’inizio del Novecento si configurò con tutta possibilità anche come reazione all’ipertrofismo delle partiture sinfoniche di Strauss e Mahler, come anche dei drammi musicali wagneriani, un nome si impone su tutti: quello di Anton Webern, il compositore austriaco che rivelò con le sue mirabili opere un nuovo, inusitato mondo sonoro. Come annota Walter Kolneder in un commento all’op.5 per quartetto d’archi, “l’ascoltatore ha appena cominciato a raccapezzarsi nei singoli rapporti tematici e formali, ed ecco che il pezzo è già alla fine. Per la generazione intorno al 1910, l’op.5 di Webern deve aver provocato all’improvviso un effetto di choc”. Le composizioni weberniane di più strenua aforisticità, e di espressionistica, abissale concentrazione espressiva appaiono essere, oltre a questa op.5, le 6 Bagatelle op.9 per quartetto d’archi, i 5 Pezzi op.10 per orchestra, e i Tre piccoli pezzi per violoncello e pianoforte op.11. Sul significato di questa riduzione al minimo del dettato compositivo si pos-

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sono citare questi pensieri di Webern, riferiti all’op.9, e dentro ai quali è possibile rintracciare una prefigurazione della tecnica dodecafonica, allora (1913) ancora di là da venire: “Avevo la sensazione che una volta esaurita l’esposizione dei dodici suoni, anche il pezzo dovesse considerarsi finito. Molto più tardi sono arrivato alla conclusione che tutto questo rientrava nel quadro di un importante sviluppo… In una parola era nata una regola: prima che non siano esposti tutti i dodici suoni, nessuno di essi può venir ripetuto”. Cambiando orizzonte, è possibile trovare in alcune opere di Erik Satie singolari applicazioni di quello che potrei chiamare una sorta di frammentismo musicale, o stile a collage, in cui viene liquidata la tradizionale sintassi classico-romantica basata sul lavorio elaborativi del materiale, per far posto a strategie costruttive poggianti su ripetitività, non-sviluppo, meccanico alternarsi di episodi staticizzati. Si possono citare al proposito alcuni lavori tipici di questo stile, come le “Danses gothiques” per pianoforte, le varie “Musiques d’ameublement” degli anni ’20 (brevissimi pezzi da “ripetere a volontà, ma non di più”, come maliziosamente scriveva Satie), e la partitura sinfonica di “Cinema”, scritta coma accompagnamento musicale di “Entr’acte” (1924), il celebre cortometraggio di René Clair che fungeva come intermezzo del balletto “Relache”. Risulta evidente tra l’altro, nell’alternarsi dei frammenti ossessivamente ripetuti di “Cinema”, una indubbia anticipazione del minimalismo americano (Riley, Reich, Glass, Adams).


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Il culto della brevità e della semplicità, procedente di pari passo, spesso, con un rifiuto dello stile “alto”, ha una storia molto ricca nel Novecento. Ma, mentre per quanto riguarda il teatro (futurista), la poesia e la pittura, il primo Novecento aveva prodotto già opere importanti, per la musica, se si esclude Webern, appartenente peraltro al filone “alto”, si dovrà aspettare fino a Cage per annoverare qualcosa di analogo a quanto già fatto nelle altre arti. All’interno della sterminata produzione cageana spiccano opere esibenti una estrema economia di mezzi: si vedano in particolare, oltre al famoso 4’33’’, apoteosi del silenzio, le “Music for Piano” n.16, 51, 57, 70, 78, degli anni ’50, consistenti ognuna in una sola nota. Anche sul piano teorico, del resto, è significativa l’affermazione del compositore americano secondo cui un singolo suono può essere autosufficiente, rappresentando un avvenimento sonoro

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completo in sé stesso, non bisognoso di sviluppo, né di acquisire significato relazionandosi con altri suoni. Di grande rilievo fu poi, all’inizio degli anni ’60, la nascita del movimento Fluxus. Al suo interno trovò forte applicazione una forma di micro-teatro denominata “event”. Gli “events”, come spiega Michael Kirby nel suo fondamentale libro sull’Happening, “sono pezzi di teatro brevi ed elementari, caratterizzati dalle stesse qualità alogiche dei dettagli degli happening. Per esempio, Gorge Brecht dispone tre bicchieri sul pavimento dell’area scenica e li riempie d’acqua con una brocca: questo costituisce il suo “Three Aqueous Events”. Si può aggiungere che queste azioni performative implicavano spesso aspetti musicali, sia agendo sugli strumenti classici in senso deviato e improprio (in casi estremi, fino alla loro distruzione), sia stimolando umoristicamente oggetti del quotidiano, o ancora redi-

gendo partiture verbali non necessitanti di realizzazione fisica, ma tendenti a una mentalizzazione di qualcosa di sonoro. Sotto l’aspetto ideologico, questa forma alternativa di arte, secondo lo stesso Brecht doveva puntare “su di un abbassamento del criterio alto di valore; questo nuovo tipo di arte-svago occorre che sia semplice, divertente, non pretenziosa, insignificante, e che non richieda particolare abilità nel farla e innumerevoli prove per essere eseguita, ricusando altresì di trasformarsi in merce e di istituzionalizzarsi”. Tra gli esponenti più direttamente musicali di questo tipo di esperienze si possono citare LaMonte Young, Dick Higgins, Takehisa Kosugi e, fra Italia e Spagna, Giuseppe Chiari, Walter Marchetti, Juan Hidalgo, Gianni Emilio Simonetti, Davide Mosconi, Albert Mayr, Daniele Lombardi e lo scrivente. Come ulteriore e fertile applicazione


nella musica del Novecento dell’idea di frammento, menzionerei tutta una serie di opere nelle quali, in luogo del consueto svolgimento formale finalistico e univocamente orientato, valgono altri principi organizzativi, privilegianti la percezione di attimi d’ascolto, spesso non relazionati in senso casuale, e muoventesi in uno spazio-tempo fluido, reversibile, che tale si presenta anche per il fatto che la successione dei frammenti musicali frequentemente non viene determinata dal compositore, delegando questa iniziativa all’interprete. Tra i compositori che hanno maggiormente lavorato in questa direzione, a parte Cage, Boulez e Stockhausen vanno citati per aver individuato per primi, in Europa, una forma musicale non fissata una volta per tutte, bensì mobile, cangiante, in costante divenire. Nel medesimo anno 1957, infatti, videro la luce due composizioni che hanno fatto storia: la Terza Sonata per pianoforte di

Boulez e il Klavierstück n.XI di Stockhausen, entrambe concepite come opere composte di strutture organizzabili in modi vari a seconda delle scelte dell’esecutore, e influenzate per quanto riguarda Boulez, dal “Livre” incompiuto di Mallarmè e da Joyce. Da lì a pochi anni, comunque, Stockhausen coniò la cosiddetta “moment-form”, cioè una forma musicale per attimi d’ascolto, che consenta la possibilità “di seguire questa musica per singoli frammenti. Tale innovazione formale portava con sé una conseguenza inevitabile: e cioè, dal momento che l’ascolto di un’opera poteva essere frammentario, nulla impediva che l’impianto stesso e le singole realizzazioni di un’opera fossero a loro volta frammentari” (Manzoni) Nacquero quindi, simultaneamente a queste enunciazioni teoriche, opere come “Kontakte”, “Carré”, “Momente” e altre. Ovviamente, sono molti i compositori

che si sono avvalsi di questo nuovo modo di strutturare le opere; tra i primi, assieme a Boulez e Stockahausen, o anche prima, vi furono, oltre a Henri Pousser, autore tra le altre cose di “Mobile” per due pianoforti, del 1956-58, gli americani Morton Feldman, con “Intermission 6”, del 1953, per uno o due pianoforti, pezzo a base di frammenti componibili a piacere, e John Cage, con “Winter Music”, del 1957, eseguibile da uno a venti pianisti, e il “Concert” per pianoforte e orchestra del 1957-58, quest’ultimo un gigantesco arsenale di frammenti più o meno lunghi (84 per la precisione) da combinare insieme liberamente, per quanto riguarda la quantità di essi da suonare e la loro successione. Citerei inoltre due lavori interessanti in questa direzione: la “Serenata per un satellite” per 7 strumenti (1969) di Maderna e “Albumblätter”, 13 fogli mobili per pianoforte (1978) di Daniele Lombardi.

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Frammento Fotogramma Montaggio: a partire da un saggio di Roland Barthes Giuseppe Panella

“Quando passiamo dalla combinazione dei fotogrammi alla combinazione delle inquadrature, il metodo e il fenomeno restano gli stessi, compiendo, però, un salto di qualità. La pars (parte) del pezzo di montaggio suscita l’immagine del toto (di un certo tutto), cosicché per la coscienza essa è già l’immagine di un intero quadro. E, procedendo, di una serie di interi quadri, di configurazioni di immagine” Sergej M. Ejzen˘stejn

Effetto Kule˘sov e nascita del montaggio “Nell’agosto del 1919, Lenin firma il decreto di nazionalizzazione dell’industria che passa sotto la direzione del Commissariato del Popolo per l’Istruzione. La maggior parte dei produttori privati […], dei registi e degli attori fuggono all’estero. Si apre una fase di transizione, dove tutto è da riorganizzare. Kulesov ˘ è assunto dal Comitato cinematografico. Gardin, uno dei pochissimi registi della vecchia guardia rimasti, lo mette a capo della sezione addetta a ri-montare i vecchi film per il pubblico sovietico. Poco dopo Kulesov ˘ è nominato direttore anche della sezione dei cinegiornali. “Nel vicolo Maloi Gnesdnikovskij, ˘ dietro un’inferriata, sorge una palazzina a due piani che un tempo apparteneva a Liazanov. […] Fu qui che, dopo la Rivoluzione di ottobre, si stabilì il Comitato Cinematografico”; ed è qui che il regista lavora con Notia Danilova, sua assistente, in una stanza decorata in stile arabo, “che forniva ai miei avversari un’inesauribile fonte di battute sugli studi arabi di Kulesov ˘ ”. Nasce in questo ambiente l’effetto-Kule sov, ˘ quell’esperimento sul montaggio a cui il nome del regista sembra quasi esclusivamente legato. Si tratta di una serie di

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tre brevi sequenze, in cui lo stesso primo piano dell’attore Mozuchin ˘ è collegato, rispettivamente, alle inquadrature di un piatto di minestra, di una donna morta e di un bambino che gioca. Lo spettatore ha di volta in volta l’impressione che cambi l’espressione dell’attore, in realtà identica a se stessa. Su quel volto impassibile “legge” ora la fame, ora il dolore, ora la tenerezza, a seconda del contesto. Risultato dell’esperimento, il riconoscimento e la conferma dell’”enorme potere del montaggio”. In che senso? L’interpretazione del concetto non è ovvia. Potere di alterazione del materiale, per esempio? Come dirà Kulesov ˘ più tardi, e con quali conseguenze? Oppure manipolazione dello spettatore da parte dell’autore? O ancora, potere di controllare la “realtà” attraverso la sua rappresentazione?” (Silvestra Mariniello, Lev Kule˘sov, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 49-50). La domanda è legittima anche perché dell’esperimento che da allora in poi porterà il nome del grande (e troppo facilmente dimenticato) cineasta russo-sovietico non si conosce con precisione la data della sua realizzazione e manca la prova stessa della sua esistenza fisica ricondotta alla narrazione (spesso mutata e modificata nel corso degli anni e dei ricordi) dei testimoni della sua proiezione. Eppure, nonostante tutte queste incertezze e difficoltà, l’“effetto-Kule sov” ˘ rappresenta il mito della cinematografia sovietica e l’atto di nascita di una concezione del montaggio che differenzia il cinema “artistico” europeo da quello narrativo-commerciale americano. Nonostante l’esistenza di un altrettanto po-

Tutte le immagini sono tratte da fotogrammi del film Ivan il terribile di Sergej M. Ejzen˘stejn


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tente mito della storia del cinema (i testi teorici e i film di Sergej Ejzen˘stejn – ai quali si farà costantemente seppur brevemente riferimento in seguito), è all’”effetto-Kulesov” ˘ che bisogna rifarsi per capire che cosa sia veramente la teoria del montaggio e perché sia davvero fondativo della concezione del cinema come arte così come oggi viene ancora studiato e considerato. L’effetto battezzato con il nome del suo (im)probabile “creatore” pone l’accento sulla preminenza della funzione dello spettatore rispetto a quella dell’autore del film (autore multiplo composto

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com’è da soggettista, sceneggiatore, direttore della fotografia, operatore alla macchina, tecnico del suono, direttore della produzione, segretario di edizione e via via enumerando). In un film da lui visto mentre lavorava agli esperimenti sul montaggio che culmineranno nel famoso “effetto”, Kulesov ˘ aveva osservato come il pubblico ridesse esultante vedendo il ritratto dell’ultimo zar Nicola II che era appeso alle pareti della casa di un pope mutarsi in quello di Lenin, un Lenin che sembrava sorridere (anche se nella “vera” fotografia che lo riproduceva il padre della

Rivoluzione Russa non sorrideva affatto). Questo episodio lo avrebbe spinto nella direzione della ricerca del celebre “effetto” di cui ridiscorreva prima. Ma se esso risulterebbe impossibile senza lo sguardo dello spettatore che lo fa esistere (il volto dell’attore Mozuchin ˘ in nelle scene sopra descritte non muta – semmai muterà il suo cognome quando, fuggito in Francia, lo cambierà in quello assai più facilmente pronunciabile di Mosjoukine), la sua realtà resta quella sempre galleggiante e improbabile del frammento. Le tre scene con il volto dell’attore restano lì, sperimental-


mente straordinarie ma narrativamente inerti, in attesa di entrare in un contesto più ampio. L’“effetto-Kulesov” ˘ è di conseguenza assai importante (ben più corposo del “fantasma” cui molta critica recente tenderebbe a ridurlo) ma resta ripiegato su se stesso proprio perché non prevede interazioni successive tra pubblico, regista e attore. Il montaggio dovrà essere qualcosa di più. Se attraverso di esso il regista vorrà investire e far propria completamente la struttura diegetica del film ricomponendola a partire dal proprio punto di vista (che, proprio in quanto tale, non

può coincidere con quello dello spettatore) dovrà essere in grado di condurre quest’ultimo sulle proprie posizioni attraverso la “messa in ordine” dei fotogrammi che ha girato. Il film vivrà nel rapporto tra i punti di vista dello spettatore e quello del regista che intrecciandosi e inseguendosi produrrà l’“effetto di visibilità” voluto. Senza punto di vista non c’è montaggio – ovvero il montaggio non si ridurre ad altro che all’atto fisico del proiettare le immagini girate senza che su di esse si sia intervenuto attraverso l’“estrazione di senso” che esse permettono. Il montaggio, allora,

non è tanto il mettere e rimettere insieme tanti frammenti quante sono le scene girate (è noto che i film non vengono girati seguendo temporalmente la lettura della sceneggiatura ma a seconda della disponibilità delle locations e degli attori) quanto l’attribuire ad essi un senso più profondo che permette allo spettatore di giudicarle adeguatamente giustificate e/o comprensibili. Roland Barthes ha definito questo senso “ottuso” – il termine sembra ovviamente spregiativo ma nell’ottica del semiologo francese non lo è affatto.

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Il senso in più: l’ovvio, l’ottuso, il filmico In un celebre saggio dedicato all’interpretazione del senso “riposto” del cinema, Roland Barthes parte proprio da un fotogramma (che non sembrerebbe particolarmente rilevante) di Ivan il Terribile di Ejzenstejn ˘ (1944). In esso due cortigiani versano sul capo del giovane zar appena incoronato una pioggia d’oro. Questa scena ha, secondo il critico francese, tre livelli di senso: il primo è relativo all’informazione che la scena permette di ricevere (la sua capacità di comunicazione che assomma in uno quello che già c’è ma disperso dentro la scena

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stessa), il secondo riguarda l’assetto simbolico (cioè la significazione contenuta in quella scena e che riguarda la dimensione prodotta nell’ambito di essa dal predominare del tema dell’oro rispetto ad altri possibili aspetti del Potere denotato in tal modo) e, infine, un terzo senso di cui è difficile dire che cosa individui se non la significanza dell’immagine mostrata. È questo terzo senso che interessa a Barthes e che egli distingue da quello palese e ben definito che viene incontro allo spettatore in quanto rivelato dallo stesso Ejzenstejn ˘ a chi guardi con sufficiente attenzione il suo film.

“La significazione e la significanza – e non la comunicazione – sono il mio unico interesse, in questo momento. Occorre dunque determinare, nel modo più economico possibile, il secondo e il terzo senso. Il senso simbolico (l’oro versato, la potenza, la ricchezza, il rito imperiale) mi si impone per una determinazione duplice; è intenzionale (è quello che ha inteso dire l’autore) ed è prelevato in una sorta di lessico generale, comune, quello dei simboli; è un senso che mi cerca, in quanto destinatario del messaggio, soggetto della lettura, un senso che parte da Ejzenstejn ˘


e che viene incontro a me: evidente, senza dubbio (anche l’altro lo è), ma di un’evidenza chiusa, presa in un sistema completo di destinazione. Propongo di chiamare questo segno completo il senso ovvio. […] Quanto all’altro senso, il terzo, quello che è “di troppo”, come un supplemento che la mia intellezione non riesce bene ad assorbire, ostinato e nello stesso tempo sfuggente, liscio e inafferrabile, propongo di chiamarlo il senso ottuso. Questa parola mi viene in mente in modo spontaneo e, sorprendentemente, dispiegando la sua etimologia, indica già una te-

oria del senso supplementare” (Roland Barthes, “Il terzo senso. Note di ricerca su alcuni fotogrammi di Ejzenstejn”, ˘ trad. it. di G. Bottiroli, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Torino, Einaudi, 1985, pp. 44-45). Questo “terzo senso” è quanto viene prodotto dallo sguardo dello spettatore in quanto valore aggiunto al senso presente nel fotogramma. In altre parole (anche se Barthes non va decisamente in questa direzione) il “terzo senso” è quello che permette allo sguardo dello spettatore non tanto di capire (Erklären

per dirla con il linguaggio tipico dello storicismo tedesco) ma di comprendere (Verstehen) il senso compiuto del fotogramma, il suo sdipanarsi quale meccanismo di produzione del senso dal punto di vista diegetico. Sempre Barthes alle pp. 58-59 dello stesso saggio già precedentemente citato: “Insomma il terzo senso struttura altrimenti il film, senza sovvertire la storia (almeno in Ejzen˘stejn); e, forse, è al suo livello e al suo livello soltanto che appare infine il “filmico”. Il filmico è, nel film, ciò che non può essere descritto,

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è la rappresentazione che non può venir rappresentata. Il filmico comincia solo là dove cessano il linguaggio e il metalinguaggio articolati. […] Il terzo senso, che si può situare teoricamente ma non descrivere, appare allora come il passaggio dal linguaggio alla significanza, e l’atto fondatore del filmico stesso. […] Perché il filmico è diverso dal film: il filmico differisce dal film quanto il romanzesco dal romanzo (posso scrivere del romanzesco, senza mai scrivere romanzi). In una certa misura (che è quella dei nostri balbettii teorici) il filmico, paradossalmente, non

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può essere colto nel film “in situazione”, “in movimento”, “al naturale”, ma solamente, ancora, in quell’artefatto maggiore che è il fotogramma”. Il fotogramma, quindi, mostra il frammento costituito dalla scena singola dal di dentro, permette allo spettatore, cioè, di vedere i tanti frammenti che costituiscono il film come se fossero componenti di un insieme più vasto senza andare, però, al di là di essi e di scavalcarli alla ricerca di un insieme che sia più compiuto di essi. Il fotogramma è quell’insieme pur restando una singola

espressione di esso. Dunque: senza fotogramma il film risulterebbe frammentario e incomprensibile (probabilmente solo una serie di immagini “ottuse” ma in senso negativo); senza montaggio dei fotogrammi il senso ovvio verrebbe meno e non si potrebbe parlare di film ma soltanto di cinema (come alle origini probabilmente accadeva nei testi fotografici in movimento dei fratelli Lumière o delle sperimentazioni di Porter che utilizzavano il mezzo cinematografico facendo dei film che avevano certamente un significato ma non un senso). Solo nel rapporto tra ovvio e ottuso, tra


senso esplicito (comunicazione + simbolo) e senso implicito, stratificato nel film è possibile avere il filmico ovvero ciò che rende un film definibile come tale. Sempre Barthes a p.61 sempre dello stesso articolo: “Il fotogramma è allora frammento di un secondo testo, il cui essere non eccede mai il frammento; film e fotogramma si ritrovano in un rapporto di palinsesto, senza che si possa dire che l’uno è il disopra dell’altro o che uno è estratto dall’altro. Infine, il fotogramma elimina la costrizione del tempo filmico; questa

costrizione è forte, e continua a ostacolare quello che si potrebbe chiamare la nascita adulta del film (nato tecnicamente, talora, talora anche esteticamente, il film deve ancora nascere teoricamente). Per i testi scritti, a meno che non siano del tutto convenzionali, legati fino in fondo all’ordine logicotemporale, il tempo di lettura è libero; per il film non lo è, poiché l’immagine non può procedere più in fretta né più lentamente, salvo perdere la sua stessa figura percettiva. Il fotogramma, istituendo una lettura istantanea e nello stesso tempo verticale, si prende gioco

del tempo logico (che è solo un tempo operativo); esso impara a dissociare la costrizione tecnica (la “lavorazione”) dallo specifico filmico, che è il senso “indescrivibile””. In questo modo, seguendo Barthes e leggendo il frammento nel fotogramma, si potrà giungere a una teoria del frammento come costruzione di senso (il “filmico” quindi) all’interno del film inteso come corpo articolato della narrazione cinematografica.

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Hotel Minerva a Firenze: Edoardo Detti e Carlo Scarpa 1958-61 Francesca Mugnai

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo Edoardo Detti è impegnato a più riprese nel riordino dell’Hotel Minerva a Firenze. Forse il più antico della città, l’albergo sorge nel Settecento in adiacenza ai chiostri della Chiesa di Santa Maria Novella dall’accorpamento di diversi edifici di abitazione di epoca medievale la cui originaria scansione è ancora visibile in facciata. In questa delicata operazione di restauro radicale, spinto fino alla costruzione ex novo di alcune parti, l’architetto fiorentino è affiancato dall’amico e maestro1 Carlo Scarpa col quale ha già condiviso un paio di significative esperienze progettuali, come la ricostruzione della Chiesa di San Giovanni a Firenzuola (1956-66) e la sistemazione di alcune sale del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi (1956-58), opere che si misurano entrambe con situazioni storicizzate, la prima a scala urbana, la seconda a scala architettonica. “Diversissimi”, come sottolinea Ragghianti,2 per formazione e sensibilità intellettuale (oltre che umana), per di più impegnati su fronti di ricerca distinti, Detti e Scarpa condividono l’idea che la storia, intesa come sedimento dell’opera e del pensiero umani, sia materia viva da cui far germinare l’attualità. Detti è urbanista, critico analitico e rigoroso, che sente “la necessità di avere le idee chiare, di possedere il più possibile di elementi concreti di giudizio, prima di intervenire”3 e, con metodo razionale, affonda le radici del proprio lavoro nello studio storico e morfologico della città e del paesaggio.4 Scarpa, d’altro canto, guidato da una sensibilità artistica e da una indiscussa tendenza al lirismo, ricorre alla storia come ad un giacimento

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di pietre preziose dal quale estrarre quelle magiche “figure”5 evocative di cui sono incastonate le sue opere. La storia, dunque, che conferisce oggettività all’architettura di Detti, rendendo il suo discorso logico e lineare, offre invece a Scarpa le suggestioni per costruire paesaggi trasfigurati, mondi paralleli alla realtà e di questa interpretazioni, composti mediante un fraseggio discontinuo che “esplora il labile confine fra la forma e il possibile”.6 Si può parlare di prospettive diverse da cui ognuno dei due guarda la stessa cosa. Anche la profonda conoscenza dei fenomeni di trasformazione del territorio, da colto progettista di piani regolatori, qual è Detti, e da uomo impegnato, in politica come nella quotidianità, nella difesa dei caratteri peculiari del paesaggio toscano contro la speculazione edilizia, si incontra con la lieve e poetica concretezza con cui il maestro veneziano legge i luoghi e ne fa emergere, attraverso l’architettura, i nessi più reconditi. “Ogni opera di Scarpa”, osserva Detti, “[…] contiene sempre un ponderato e articolato legame di complementarità con il tessuto urbano. Certe componenti interne della sua invenzione formano un circuito di significati che hanno una chiara connessione con la città; di per sé, anzi, già costituiscono in nuce l’immagine organica di una porzione urbana”.7 Il progetto dell’Hotel Minerva è il frutto di un attento studio filologico8 dell’edificio che, prima dell’intervento, era un coacervo di fabbricati e di superfetazioni. Oltre la cortina muraria che definisce il prospetto sulla piazza - rimasto per vincolo inalterato, se si eccettuano lievi modifiche dovute al riallineamento dei


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1 La piscina panoramica sul tetto circondata dai monumenti fiorentini. Fondo Detti, diapositiva non inventariata 2 Il prospetto del corpo delle camere: studi. Fondo Detti, rotolo n. 415

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piani - si dipana il filo del ragionamento dettiano che espunge brani, ripristina relazioni spaziali interrotte dai ripetuti adeguamenti, mette ordine tra le parti ed infine innesta il nuovo come vitale e coraggioso apporto alle preesistenze. Nel complesso il lotto ha la forma di una elle, con un braccio tangente alla piazza e l’altro che si sviluppa in profondità nell’isolato. In una prima fase di studio vengono esplorate diverse soluzioni planimetriche: tutte contemplano la creazione di una corte interna come rivisitazione della situazione originaria dove un cortile connetteva i due bracci dell’edificio. Alla fine viene scelta la soluzione che più delle altre integra ed unifica le varie parti dando vita ad uno spazio fluido in cui la corte-giardino, situata sul margine settentrionale, non è più soltanto una cerniera interna ma diventa il punto di saldatura ideale tra l’edificio, la piazza e i chiostri di Santa Maria Novella. Collocata in asse con l’ingresso dell’albergo, la corte si offre, per chi entra, come conclusione di una successione di spazi interni visivamente connessi che dalla piazza si protendono verso il piccolo giardino di mano scarpiana, pacifico inserto di verde ed acqua agganciato al muro esterno del vicino chiostro. Tangente al muro, che prima era nascosto da superfetazioni ed ora è ammesso a far parte dell’architettura del Minerva, il percorso di collegamento dalla hall al piccolo spazio aperto rappresenta una volontaria cesura tra l’albergo e il prezioso edificio confinante. Sarebbe riduttivo considerare il cortiletto una debole eco del grandioso complesso claustrale. Piuttosto, lo si può interpretare come uno squarcio nel costruito che, oltre a dare luce agli ambienti circostanti, rivela la natura frammentaria del fabbricato mostrando le diverse parti che lo compongono. A conferma di ciò è il risalto dato alla differenziazione dei corpi che vi si affacciano, distinti per altezza e per trattamento dei prospetti, sorta di compendio della varietà architettonica della città. Al volume completamente vetrato del soggiorno, ad un solo piano, che si protende verso l’esterno, si contrappone il fondale di mattoni, dalla ruvida tessitura disegnata da Scarpa, che nasconde la cucina dell’albergo ed oltre il quale si staglia l’intrico dei vecchi edifici retrostanti. Il lato settentrionale, definito dal corpo del chiostro e contenente al primo piano una saletta da pranzo, si presenta come una candida e soda superfi-

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3 L’ala del primo chiostro di Santa Maria Novella, adibita a saletta ristorante, forma uno dei lati della corte-giardino dell’albergo. Fondo Detti, inv. 6173 4 Prospettiva del chiostro di Santa Maria Novella con i corpi nuovi del Minerva e, accennato, l’ingombro dell’edificio demolito. Fondo Detti, disegno non inventariato 5 Vista del primo chiostro di Santa Maria Novella prima dell’intervento. Dietro il portico i volumi dell’Hotel Minerva: il più alto a sinistra è stato oggetto di modifiche, i più bassi al centro sono stati demoliti. Fondo Detti, inv. 6146 6 Vista del retro dell’albergo durante i lavori di demolizione. Fondo Detti, inv. 6128 7 Planimetria generale della piazza da cui emerge il rapporto dell’albergo con i chiostri di Santa Maria Novella. Fondo Detti, fotografia non inventariata 8 Pianta del piano terra. Fondo Detti, fotografia non inventariata


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9 La sala di rappresentanza al primo piano. Fondo Detti, fotografia non inventariata 10 La saletta da pranzo ricavata nell’ala che separa il primo chiostro dalla corte-giardino. Fondo Detti, fotografia non inventariata 11 Pianta del primo piano. Fondo Detti, fotografia non inventariata 12 Pianta del piano terra. Fondo Detti, fotografia non inventariata 13 Il caminetto della sala di rappresentanza. Fondo Detti, inv. 6176 14 Il caminetto in uno schizzo di Carlo Scarpa. Fondo Detti, rotolo n. 566

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cie ad intonaco appena intaccata da eleganti tagli verticali, parzialmente ricuciti da una lastra di pietra serena e caratterizzati da importanti strombature esterne sui lati corti. Di fronte, il nuovo corpo di fabbrica dell’albergo, che accoglie la sala da pranzo principale al piano terra e le camere nei quattro piani superiori, è composto da fasce chiare verticali di muratura alternate al sistema a pannelli delle finestre ed è coronato da uno scavo nella facciata che, come le logge dei palazzi fiorentini, disegna un’ombra sotto la copertura in laterizio. L’inserimento di questa parte del fabbricato ha richiesto numerose verifiche effettuate mediante la costruzione di viste prospettiche del chiostro e la sovrapposizione del progetto allo stato di fatto. In particolare, è stata valutata scrupolosamente la consistenza del volume, che si voleva emergesse quel tanto da consentire, dai piani più alti, l’affaccio sul chiostro e la vista della chiesa, senza asfissiare le preesistenze. Fin da subito è stata individuata la posizione del gruppo scale e ascensori all’innesto dei due bracci della elle, per una maggiore razionalità nella distribuzione. I lavori di restauro iniziano da qui, ad esercizio ancora aperto. Le

scale, illuminate anche da un lucernario sul tetto, hanno rampe staccate dai muri che variano in lunghezza a seconda delle altezze dei piani e parapetti di legno studiati per ammortizzare le irregolarità dovute ai dislivelli. Non è difficile rintracciare, nel sottile richiamo all’architettura fiorentina, nella ricerca di una misura tra le parti e il tutto e nella volontà di istituire delle precise gerarchie tra i corpi, i criteri di lavoro di Detti9 che, tuttavia, si affida a Scarpa per la traduzione formale di certe intuizioni e per la definizione dei dettagli architettonici e di arredo. Non che Detti sia disinteressato alla cura del dettaglio che, anzi, considera “come definizione ultima della forma architettonica”,10 ma si lascia guidare dalla sapienza del maestro veneziano, al quale talvolta consegna interi frammenti come cammei che impreziosiscono l’opera. È il caso della sala di rappresentanza, un ambiente trapezoidale affacciato sul cortile interno, che Scarpa regolarizza senza che si perda la percezione della forma di partenza - attraverso l’uso di parziali controsoffittature lignee che ritagliano una porzione rettangolare del soffitto. Accanto all’ingresso, nella parte più stretta della sala, è collocato il

caminetto, definito da Scarpa a partire da una idea embrionale di Detti, con la cappa a schermo, intonacata a stucco di calce tirato a ferro e intelaiata da putrelle. Notevole il disegno del pavimento in cotto dell’Impruneta e marmo bianco che reinterpreta la consuetudine dei materiali locali. Questi, del resto, sono largamente impiegati in tutti gli ambienti dell’albergo: dalla scacchiera di serpentino e bianco apuano del pavimento della sala da pranzo, al giallo Siena della hall, al percorso in pietra serena del cortiletto, al rivestimento, sempre in pietra serena, dei pilastri della zona d’ingresso. Un tema di arredo che unifica l’intervento è l’impiego diffuso di controsoffitti lignei, usati per gerarchizzare gli ambienti variandone l’altezza e per alloggiare l’illuminazione. Indicativa, a questo proposito, è la piccola sala da pranzo del primo piano ricavata nel braccio del chiostro, dove la pannellatura di legno che modella il soffitto è punteggiata dalle plafoniere incassate che si confondono con le aperture per la luce naturale. L’Hotel Minerva di Detti e Scarpa oggi non esiste più, soffocato dalle tappezzerie e tradito dagli adeguamenti che sono seguiti. Anche la piscina panora-

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Pagine precedenti: 15 La hall con i pilastri, preesistenti all’intervento, nobilitati dal rivestimento in pietra o in legno. Fondo Detti, inv. 6192 16 Vista delle scale. Fotografia Archivio Detti. Fondo Detti, inv. 6178 17 Le rampe discoste dal muro; il rivestimento lapideo dell’alzata sporge lateralmente rispetto a quello dell’alzata. Fondo Detti, inv. 6175 18 Vista di una parte della sala da pranzo al piano terra. Fondo Detti, inv. 6404 19 La sala da pranzo al piano terra con le vetrate, sulla destra, che guardano la corte-giardino. Fondo Detti, inv. 6417 20 Pianta del piano terra prima dell’intervento con annotazioni di Detti. Fondo Detti, rotolo n. 414 21 Studio del controsoffitto della sala di rappresentanza al primo piano, disegno di Carlo Scarpa. Fondo Detti, rotolo n. 556 22 La piscina sul tetto con Santa Maria Novella sullo sfondo. Fondo Detti, diapositiva non inventariata

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mica sul tetto, nell’ala estrema meridionale del complesso, in origine una sobria vasca rettangolare di muratura, intonacata di rosso mattone e rivestita internamente da piccole tessere bianche, ha perso l’eleganza di un tempo. Rimane la vista della città che, da Santa Maria Novella a Palazzo Vecchio, sfiora la superficie dell’acqua ed offre pareti ideali a questa stanza a cielo aperto. Così volle Detti che suggellò il compimento dell’opera con un tuffo rimasto famoso.

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Afferma a tale proposito E. Detti: “Chi scrive lo ha avuto per oltre venticinque anni come amico e in questa vicinanza ha fruito, insieme con altri più giovani amici, di uno scambio e di un ammaestramento che in particolare si sono concretati nella collaborazione in alcuni lavori di architettura, nei quali occorrerà ritrovare il suo apporto”. Vedi E. Detti, Carlo Scarpa, in “A.M.C.”, n. 50, 1979. 2 C. L. Ragghianti, Edoardo Detti urbanista e architetto, convegno, Palazzo Vecchio, Firenze, 27 aprile 1985, in “Atti dell’Istituto di ricerca territoriale e urbana”, 1985. 3 E. Detti, Urbanistica medievale minore, in “Critica d’arte”, n.4, 1957. 4 Cfr. F. Rossi Prodi, Carattere dell’architettura toscana, Roma, 2003. 5 La definizione è di M. Tafuri che scrive: “Sarà allora forse più corretto parlare - per evitare gli equivoci non di una poetica del “frammento”, per Scarpa, bensì di una poetica fatta di “figure”. Figure, non immagini né spezzoni nostalgici di totalità, sono le

“icone ermetiche” che abbiamo potuto riconoscere nell’architettura scarpina”. Vedi M. Tafuri, Il frammento, la “figura”, il gioco. Carlo Scarpa e la cultura architettonica italiana, in “Carlo Scarpa”, a cura di F. Dal Co e G. Mazzariol, Milano 1984. 6 M. Tafuri, op. cit. 7 E. Detti, Carlo Scarpa, in “A.M.C.”, n. 50, 1979. 8 Racconta E. Luporini: “Non è stato un lavoro di fagocitanti escavatrici o di convulsi inesorabili martelli pneumatici, ma un intelligente disfacimento, manuale, strato per strato, nodo per nodo, condotto con paziente perseveranza e penetrazione veramente radioscopica, di tutti gli accumuli di false strutture e di diaframmi ispessiti, succresciuti in cinque secoli di riordini, di adattamenti […]. Ma la oculatezza di questo procedere per il Detti aveva un suo fine preciso. Quello di ritrovare, rileggere il più a nudo possibile le anchilosate strutture della originaria lottizzazione e del montaggio medievali. In sostanza appunto quell’unico, autentico discorso, del quale voleva rendersi ben conto, che tra la seconda metà del Duecento e i primi decenni del Trecento, nel corso di una intensa quanto perfetta attività di urbanizzazione della zona, aveva creato quella che ancora è l’ossatura stabile della piazza, con i suoi cinque paramenti e spessori, e la razionalissima trama sulla quale fu ordito nel tempo il grandioso sistema della chiesa e dei chiostri” E. Luporini, Un albergo a Firenze, in “Zodiac”, n. 7. 9 F. Rossi Prodi così definisce l’opera di Detti: “Le sue architetture esprimono un metodo e una mente razionale, sono scandite da grandi masse poste in un rapporto dialettico ma pacato da superfici serene e aggettivate dagli elementi della tradizione fiorentina”, vedi F. Rossi Prodi, op. cit. E. Luporini parla invece di: “metodologia dell’autocontrollo, dell’atto onesto dello scartare l’irrelativo, dell’andare cioè incontro al problema senza l’egoismo dell’assoluto creare”, vedi E. Luporini, op. cit. 10 G. F. Di Pietro, Il lavoro di architetto, in “Quaderni di Urbanistica informazioni”, n.1, 1986.


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Ricordare, mettere in opera, mostrare Francesco Collotti, Giacomo Pirazzoli

L’allestimento è un muro che - alla maniera di una vertebra - si insedia nella parte centrale degli spazi scavati nel basamento petroso del Vittoriano degli Italiani. In un’epoca fatta di segni leggeri e virtuali ci sembrava opportuno che nel corpo del monumento sacconiano si realizzasse comunque un muro, fatto fisico solido e costruito del quale si coglie lo spessore nella massa in corrispondenza delle nicchie che custodiscono i documenti o laddove il percorso narrativo esige un traguardo - una finestra - che lasciasse cogliere altre parti della mostra. Sviluppato a stretto contatto tra storici, architetti, grafici, l’allestimento tutt’altro che provvisorio reinterpreta questo spazio di cenotafio dalle volte a botte inesorabilmente ribassate, a simulare una condizione ipogea che continuamente e volutamente confonde le stratigrafie della città antica infrattata sotto al Campidoglio con quelle delle città successive cresciute a lato e sopra. Qui Peter Greenaway volle ambientare e girare il suo “Ventre dell’architetto” simulando una mostra su Etienne Louis Boullée architetto rivoluzionario maestro di solidi corpi cavi conficcati nel terreno o dal terreno emergenti a evocare vita e morte, mettendo in opera luce e ombra, a ricordarci comunque che all’architetto, a differenza che al regista di cinema, non è concesso il privilegio degli effetti speciali. Simili pensieri ci hanno fatto costruire un muro con questo strano OSB, materiale riciclato fatto di scarti di legno, trattato con una scialbatura di minio; il muro, dunque, materialmente quasi un relitto esso stesso, sta al tema della

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mostra come un elemento di separazione. Sul pavimento è un lastricato di lamiere d’acciaio relativamente pesanti, ritrovato selciato capace di radicare ancora di più il muro alla terra: convinti come siamo che ancora una volta nel quotidiano lavoro questo momento ci obbliga a pochi segni abbastanza duri e netti - tutto sommato non eleganti, ma necessari - in ogni caso dotati di quel grado di astrazione che consente loro di sopravvivere prendendo criticamente le distanze da un intorno solo in rari casi condivisibile. Del resto - anche tecnicamente - non ci dispiaceva l’idea di allontanarci dalle pareti misurandone col progetto in qualche modo la differenza: con quel tanto di distacco dal muro/allestimento e dalla pavimentazione che segna le migliori realizzazioni di musei e di mostre del nostro Paese. Chissà poi che nel muto dialogo tra l’elemento verticale - inopportunamente protetto dalla ruggine - scavato dalle teche, e il suo piede orizzontale in nudo metallo corruttibile non sia per caso un altro piccolo pezzo di storia e di astratta figura dell’arte italiana del Novecento, da Burri a Fontana. Nel luogo centrale del Vittoriano, all’intersezione tra il suo asse longitudinale di simmetria e l’asse trasversale individuato dal muro, in un parallelepipedo di metallo e perspex è esposto il testo delle leggi antiebraiche firmate da Mussolini e dal re e che furono l’atto che aprì la strada anche in Italia, dopo l’occupazione nazista, alla Shoah; da questo luogo del cominciamento – lungo l’asse del Vittoriano - si traguarda a mezzo di una finestra aperta lo spazio di Auschwitz. Così origine e destino della drammati-

Dalle leggi antiebraiche alla Shoah, sette anni di storia italiana 1938-1945 Roma, Vittoriano degli Italiani Allestimento Mostra: Francesco Collotti, Giacomo Pirazzoli Mostra a cura: Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC, Milano Ricerca e progetto realizzati in convenzione tra Centro Documentazione Ebraica Contemporanea e Dipartimento di Progettazione dell’Architettura dell’Università degli Studi di Firenze (Rep. 91/04) Responsabile Prof. Francesco Collotti Progetto e Direzione Lavori: Francesco Collotti e Giacomo Pirazzoli 2004-2005 Collaboratori: Fiorenza Piraccini Yoichi Sakasegawa Judith Spruth Curatela storico-scientifica e ricerche documentarie: Alessandra Minerbi con Valeria Galimi Comunicazione, grafica, catalogazione del materiale documentario: Guido Biscione. Copyright fotografie: Marco Vacca


1 Dallo spazio centrale dell’allestimento traguardando in direzione del retablo di Auschwitz 2 Planimetria dell’intervento nel basamento del Vittoriano Pagine successive: 3 La sala di Auschwitz 4-5 Le finestre e il muro 6 Tratto di muro con vetrine 7-8 Studio per campionatura dell’Oriented Strand Board scialbato al minio, modello di studio per il proporzionamento del muro 9 - 10 Schizzi di studio per lo spazio centrale con il pilastro delle leggi e il traguardo verso Auschwitz

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ca vicenda degli ebrei italiani dal 1938 al 1945 sono visivamente collegati. Una sacra rappresentazione in tre atti introduce la realtà dei lager nazisti. Del grande deposito apparentemente ipogeo che sarebbe in seguito divenuto nel programma della mostra lo spazio dedicato ai lager e ad Auschwitz in particolare, ci aveva colpito nel corso del primo sopralluogo l’assoluta terribilità: la rampa per accedervi in discesa, il soffitto coi resti di un antico incendio, le macchine piranesiane destinate alla posa ed alla manutenzione delle statue del Vittoriano, una vecchia cassaforte aperta con la dinamite. Auschwitz è’ l’unica parte della mostra che al carattere scientifico documentale aggiunge il pathos, per dare luogo ad una sequenza al contempo momen-

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to emozionale e presa di coscienza attraverso un linguaggio simbolico. Troppo noti i fatti per doversi ancora indulgere in una descrizione? Troppo tremenda la descrizione per poter essere pronunciata ancora? Tre dunque le stazioni in sequenza guidata e obbligata: una testimonianza video sulla realtà concentrazionaria; quindi, di fronte al centro, in asse con il testo esibito delle leggi del 1938, il retablo con le fotografie delle schede dei deportati usate come foto segnaletiche per individuare i sopravvissuti. A completamento del dramma - terza e ultima stazione - la sequenza ossessiva montata dal girato di “Memoria” con i sopravvissuti che scoprono il braccio tatuato e leggono il proprio numero; alcuni lo urlano nel tedesco burocratico

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dei caporali di giornata. Il senso del retablo è iconostasi, documento/monumento posto a contrappeso del luogo centrale delle leggi antiebraiche, entrambe appunto sull’asse del Vittoriano e ben dentro la storia anche degli Italiani. Nelle prime ipotesi che ci eravamo fatti, le schede avrebbero dovuto essere affisse con un piccolo chiodo sul pannello dando luogo a un continuo relativo oscillare delle immagini che potesse alludere ad una tremenda fragilità dalla vita. Un’idea antica e un po’ archetipica. Non ci dispiace che le foto segnaletiche del retablo mostrino anche sopravvissuti all’Olocausto, a rammemorare che Auschwitz non fu - in assoluto - solo prospettiva senza ritorno.


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Ein wunderbares Palimpsest Scolii ai Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer Fabrizio Arrigoni

Se voglio dare all’uomo una nuova posizione antropologica, devo anche dare una nuova posizione a tutto quanto lo concerne. Collegarlo verso il basso con gli animali, le piante, la natura, così come verso l‘alto con gli angeli e gli spiriti… Joseph Beuys

notizia Sette sculture costituite da 36 solai prefabbricati – sfondati malamente al centro – e 72 muri portanti in c.a. ottenuti come calco di containers metallici (setti ad “L”, secondo il modulo di 2.5 metri) e variamente scanditi da forature rettangolari. In fase di montaggio, come layers che seguono l’erezione, 140 libri e 90 cunei di piombo, dissimili per forma e dimensione. E poi cornici, foglie, pietre, vetri, lasciti di vernice, polvere, plastiche, scritture, segni identificatori di ogni torre (altezza variabile tra i 13 ed i 18 metri): Sefiroth, Melancholia (Stelle cadenti), Ararat, Linee di forza magnetiche, JH e WH (Tiqqùn), Quadri cadenti. Dove: Hangar Bicocca, ex Breda, su viale Sarca, Milano. Dimensioni complessive dell’involucro: 61x180.90x29.76 metri. heimat Al cuore della meditazione visionaria consolidatasi in Palestina tra il III ed il VI secolo risiede la possibilità di un cammino oltremondano. Yoredé Merkavà – Coloro che discendono nella Merkavà – attraversano le sette sfere dei cieli al fine di giungere al cospetto di Colui che vive in eterno, all’estatico suo ascolto e contemplazione; l’ultima sezione di questo pericoloso procedere era stato ritmato, scandito, dal passaggio – di porta in porta – nelle sette

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Stanze, battezzate successivamente Palazzi, al cui vertice, magnificente, splende la Gloria del Santo, Re di tutti i re, Dio cosmocrator in Trono. La letteratura tardo antica degli Hekhalòth appare, a tutta prima, come matrice impressa nel nome dei Sieben Himmelspaläste. Tuttavia, come in molte realizzazioni kieferiane, i simboli subiscono distorsioni, si intersecano con lingue altre, inquinando irrimediabilmente la trasparenza cristallina della scaturigine. E dunque ciò che il mito rendeva visibile come potenza, maestà, ricchezza sublime ora è rappresentazione ambigua di un crollo imminente o scampo di una lenta ed inarrestabile consumazione. “Il luogo della pietra splendente di marmo”– cifra della bellezza piena dell’Hekhal, del SantuarioTempio – è qui ridotto al baluginare – sotto una luce violenta quanto ferma, bianca quanto morta – di pezzi frutto di un’anonima logica seriale, brutalmente impilati. Affianca questo confondersi del discorso mistico una medesima compromissione del segno architettonico. La torre, “forma dell’ambizione umana”, si traduce nel gesto ripetuto della macchina, nel montaggio esibito come sovrapporre elementare, in assenza di téktones ándres – e ricordiamo che la precarietà, l’instabilità, canone di queste costruzioni, non appartiene all’universo della metafora come è prova il crollo di un prototipo approntato a Berjac, nella casa rifugio di a.k.. E tuttavia, proprio nel confronto con le gemelle sperimentazioni prodotte in Francia, si comprende come nel momento in cui massima è la spoliazione, la perdita, si assista – nel gigantesco, accecato, capannone milanese – ad una stupefa-

Tutte le immagini sono disegni tratti dal quaderno di studio di Fabrizio Arrigoni


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cente resurrezione dell’aura. Volontà, emozione, intelletto: l’inesausta Ars combinatoria di Kiefer nell’istante in cui espone queste disiecta membra quale congedo da ogni dimorare fondato e dunque rasserenato, al contempo sembra indicare un estremo, tragico, consistere nella privazione. Architetture involontarie, monche di disegno ed inabili ad ogni prender-possesso ma sovradeterminate nel significato: case dell’epoca del frammezzo, della stagione del non-più e del non-ancora. kawwanà Tra il 1985 ed il 1988 compaiono nell’opera di a.k. i primi riferimenti puntuali al vocabolario della tradizione esoterica ebraica, sino a configurarsi tra i motivi maggiormente svolti nella ricerca successiva. Potremmo – come ipotesi iniziale – riconoscervi il lutto ed il debito per una spiritualità intimamente tessuta con la Kultur tedesca cui i demoni del nazifascismo hanno scatenato forze disastrose. In occasione di Lectures Kiefer testimonia la propria attenzione alla gnosi di Yitzchàq ben Luria di Safed e

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numerosi sono gli artefatti che recano nominazioni proprie del drammatico processo cosmico allestito nel ‘Etz Chayyìm (L’albero della vita). Riguardo al significato profondo di questa attenzione l’ultima parola non può che essere quella dell’autore medesimo (il depotenziato bric à brac marchio del prodotto eclettico tardo moderno qui non alberga). Tuttavia c’è un dato, precipuo della sapienza luriana, che deve essere portato in evidenza e cioè il ruolo giocato dalla creatura nella dottrina del Tiqqùn-Restaurazione. La crisi prodottasi nel disegno divino dalla Sheviràth hakelìm – la rottura dei vasi – stabilisce l’urgenza di un piano di liberazione, di riscatto, di riparazione dell’ordine smarrito, infranto (o mai perfettamente insediatosi). Nella prodigiosa strategia di Luria tale progresso di redenzione, parzialmente inaugurato con la comparsa delle Partsufim – volti della Divinità –, diviene compito attivo, propulsivo, fondamentale dell’azione e della conoscenza umana. Il movimento orientato all’eterna Shabbàth, al ricongiungimento delle scintille innumeri della Shekhinà

alla loro prima radice è dunque anche responsabilità vertiginosa, abissale e diretta, dell’uomo devoto, del suo partecipare, per tramite della preghiera mistica, al compimento del Tiqqùn stesso in un concorso effettivo, costruttivo, che lo affianca, in un destino condiviso quanto paradossale, al suo Artefice. La nostra seconda ipotesi sta nello stabilire un parallelo ed uno slittamento tra questa dimensione fattiva della preghiera e la processualità magica, creatrice, dell’arte. Arte dunque come cura radicale, come catarsi di mondi e di anime, come percorso, al suo fondo, escatologico: in ciò a.k. testimonia la più consapevole e palese risorgenza del progetto romantico. al-k¯l-my¯a Nella letteratura critica attorno ad a.k. numerose sono le argomentazioni addotte circa l’attenzione del nostro alla disciplina alchemica (l’inaugurale figura dell’albero, l’uso del piombo come materia d’elezione, o i libri Für Robert Fludd, 1996, e The Secret Life of Plants, 1997, potrebbero essere alcune delle


tracce più esplicite, riconoscibili); oltre la volontà goethiana di legame spirituale ed interdipendenza tra l’illimite ed il finito, tra il macro ed il micro, tra natura ed individuo, qui interessa segnare come tale magistero si sia da sempre costituito come superamento di qualsivoglia distinzione assiologica tra momento della teoresi e momento del fare, sino alla completa dissoluzione-fusione dei poli in questione. Alchemico può dunque connotare quello spazio – libro, tela, plastica… – all’interno del quale il transito dal celato al visibile, dal nonessere all’essere (πο´ιησις) si dà privo di nomoi ad esso esteriori, antecedenti e trascendenti. In questo coappartener’ si di αρχ η´ ed ’ερνον ´ nell’immanenza del qui ed ora riposa l’originalità-originarietà ed il carattere pro-duttivo dell’arte autentica. sensualità Ferro, piombo, vetro, rami vegetali, piante di pomodoro seccate, olio, emulsione, acrilico, gesso, stucco, graffite, stampa, fotografia, carta, tela, capelli, acquarello, resina sintetica, gomma lac-

ca, iuta, pagine tipografiche, cobalto, cartone, inchiostro, ossido di ferro, carta da parati, sabbia, foglie, unghie (verniciate e non), penna a sfera, argilla, cenere, fango, paglia, pezzi di xilografia, pennarelli esauriti, gouache, scarpe, sale, filo metallico, terraglie, matita, latta, acqua, porcellana, rame, terra, colla, cavo elettrico, girasoli, ceramica, tessuto, semi, piselli, carbone, argento, pelle di serpente, calcina, papaveri, steli di felce, rose, mughetto, viscere animali, isolanti, favo, pastello, sasso, cemento stampato, tondini d’acciaio… Queste le materie radunate per libri, quadri, sculture, istallazioni, mises en scène. Ognuna di esse carica, appesantita, di usi, tecniche, richiami mnemonici, allusioni letterarie. Ma se per un fortuito inciampo della mente abbandoniamo il senso per cadere nei sensi, allora ecco emergere con schiettezza la fisicità possente ed espansiva dell’opera kieferiana tale da non potersi recintare nei confini angusti del medium espressivo, o come virtuosismo di una capacità manipolatoria. Insofferente alla cautela del mestiere, ad ogni

darwinismo disciplinare in esso implicito, il primo sguardo cattura l’ostensione del corpo d’arte, il suo mostrarsi come determinatissimo scontro-incontro di materie manomesse ed offerte nella loro presenza, datità empirica. Materia compresa e come deposito, scorta, di energie e come campo su cui il tempo lascia le proprie tracce rivelandosi, in un sodalizio che li consustanzia (Sulamith, libro, 1990): “Non riconosco la distinzione neoplatonica fra idea e materia. Lo spirito è già nelle cose. Io cerco di estrarre lo spirito dalla materia…” (a.k., 2004) disincanto Ihr großen Städte Steinern auf-gebaut In der Ebene! So sprachlos folgt Der Heimatlose Mit dunkler Stirne dem Wind, Kahlen Bäumen am Hügel. (…) In epoca di svanimenti ed eclissi, di processi specialistico-riduttivi dominati dalla tecnica e dai suoi statuti secolari,

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a.k. è fenomeno inattuale, fuori centro, sconfessione palese di ogni opportunistico spirito del tempo. Rispetto alle logiche riduzioni, ciniche e scintillanti, marcate (new) dada e pop, o al ritegno ed alla laconicità programmata dei multiformi minimalism, i lavori del nostro presentano una furia affabulatoria inattesa quanto stordente, mai trattenuta prudentemente sulla soglia dei grandi récit (piuttosto l’analogia corre alla filosofia narrativa per dirla con Schelling…). Gli afoni, diseredati, Unfruchtbare Landschaften della nostra contemporaneità sono squassati, incisi, sommersi dall’azione di una memoria ed un’ansia che (ri)apre passaggi scandalosi in direzione di lingue ammutolite, dove ancora è udibile lo stupore e la meraviglia abbandonata, annientata; e dunque arte come luogo (l’unico, con probabilità, ancora possibile e pensabile) di combustione e di rigenerazione di storie profane – anche le più atroci – e storie sacre, di autobiografismo e moltitudini, di epifanie lontane e canti di poeti vicini, di terre arate e mappe celesti, di sogno e ragione, di occidente ed oriente, in un continuo trascorrere privo di cesure od esclusioni. wanderung a.k. è allestitore di rovine. Rovine primordiali e rovine di angeli, rovine di cieli e rovine di campi, rovine di civiltà e rovine di culture, rovine di corpi e rovine di anime, rovine di città e rovine di architetture. Ma tale consumo, degrado o lacerazione più che essere annuncio di una sottrazione a differenza zero o richiamo all’immobilità allucinata di un’estrema vanitas è confronto e lavoro concreto sul resto, sullo scarto, sull’avanzo scampato. In questo l’arte di Kiefer è arte della metamorfosi, della trasmutazione incessante del rifiuto accumulato e dell’attesa sua resurrezione. Da qui quel sentore di incompiuto, di instabile, che accompagna l’oeuvre di questo autore: ogni figura è come una condensazione momentanea da subito sul punto di precipitare, disfarsi, per divenire grumo di ulteriori riassestamenti comunque dall’equilibrio incerto con metodo messo in questione (e ciò coinvolge frontalmente anche la prassi medesima del mettere-in-opera, affrontata di sovente come ricombinazione e riassestamento di materiali già formati, in un viaggio continuo di risemantizzazione delle figure e delle allegorie di volta in volta determinate…). Tra l’angelo impotente della nona Tesi

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di filosofia della Storia di Benjamin e l’angelo typus acediae del Dürer, l’angelo kieferiano – nel suo esilio insanabile – è genio con ali di piombo che traduce in una trama gonfia di risonanze improvvise le schegge e i detriti che ne ingombrano il sentiero, ben sapendo che i malcerti risultati ottenuti non possono essere ragione sufficiente a sospendere il cammino intrapreso: “The work in its failure – and it always fails – will still illuminate, however feebly, the greatness and splendour of what it can never accomplish” (a.k. 1990). monumento Molte realizzazioni di a.k. – al di là dei dissimili media – presentano dimensioni imponenti. Tuttavia il carattere monumentale che intravediamo come loro carattere sotterraneo non dipende affatto da ciò; assenti parimenti la lenta decantazione della lingua o l’idioma gravido di autorevolezza o la sospensione attonita, priva di moto. Per monumento intendiamo l’esplicita caduta della cosa nei destini collettivi, il suo respirare dentro una narrazione plurale che non si confina nei recinti psicologici dell’autore, né si collassa sulla neutralità presupposta della disciplina. Anche quando la persona irriducibile sostanzia la scena (per via iconica: autoritratto in Mann im Wald, 1971; per via biologica: lo sperma gettato sui fogli bianchi dei libri in 20 Jahre Einsamkeit, 1991-2000) percepibile, anche se sottesa, è la comunione che rima il singolo ai molti, il prossimo al distante, il presente all’originario. Monumento potrebbe dunque alludere a quella fessura, a quella crepa della superficie, il cui attraversamento rende scorgibile la densità, lo spessore, del reale, il suo costituirsi per strati successivi, sovrapposti, come in una laccatura cinese. La vocazione archeologica del monumento è affanno sull’estraneità raggelante di tale deposito, sulla sua luce muta, sull’opaca resistenza a forgiarsi come trasmissione significante. Parimenti alla sensibilità di molte esperienze antiche, anche in questo caso progresso e ritorno sono riflessi di un identico movimento: “Più vai indietro, più ti rivolgi al futuro. Tutto ciò che resta della storia è una montagna di rifiuti. Il rimanente del passato, che è ciò che ti dà la possibilità di andare avanti, è tutta spazzatura. Più vai avanti, più rifiuti si accumulano.” (a.k., 2004)


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Sulla ricostruzione del Teatro del Mondo di Aldo Rossi Francesco Saverio Fera

La ricostruzione del Teatro del Mondo è stata voluta da Germano Celant curatore della mostra Arti & Architettura1 nell’ambito delle installazioni temporanee realizzate per la città di Genova. Su richiesta degli eredi di Aldo Rossi, Fausto e Vera Rossi, l’incarico della ricostruzione del teatro è stato affidato a chi scrive queste brevi note sulla vicenda genovese. Nell’assumerci tale onore, ma anche gravoso onere, si è riflettuto su cosa tale operazione comportasse e sul perché potesse essere ancora oggi lecita la sua riproposizione; sapevamo chiaramente quante sarebbero state le critiche più o meno oziose, più o meno costruttive che da tutte le parti ci sarebbero arrivate. Che senso poteva avere questa ricostruzione, per di più in terra ferma? La risposta, forse anche la più semplice, era nei suoi presupposti, nel suo essere edificio nato per viaggiare, ossia, come già osservò Manfredo Tafuri, per tutti e nessun posto: “per il Teatro non esiste alcun luogo dove effettivamente depositarsi: il suo “viaggio” permette gli incontri più avventurosi e casuali resi del tutto surreali dalla ieraticità del suo contegno”.2 Il primo Teatro del Mondo era stato realizzato dalla Biennale di Venezia nel 1979, su iniziativa congiunta di Paolo Portoghesi e Maurizio Scaparro, allora rispettivamente direttori dei settori Architettura e Teatro. In brevissimo tempo divenne non solo l’icona della rinascita della manifestazione veneziana, ma di un nuovo modo di pensare l’architettura, imponendosi sulle pagine delle principali riviste nazionali ed internazionali non solo di architettura; la quantità di scritti su questo piccolo

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edificio forma così oggi una nutrita bibliografia di tale evento straordinario. Il Teatrino, così lo stesso Rossi lo definiva affettuosamente, per le sue peculiarità d’oggetto effimero, per il suo essere contemporaneamente architettura e gioco, costruzione navale e civile, ossia tutto e il contrario di tutto è stato ed è tuttora sicuramente una figura tra le più enigmatiche, e forse proprio in virtù di questo, tra le più amate o odiate, della contemporaneità. La ricostruzione Questa è una delle opere che ha forse avuto la maggior fortuna critica all’interno del corpus progettuale di Aldo Rossi, rendendo così sicuramente più arduo il compito della sua nuova realizzazione: tutti avevano in mente la costruzione primigenia galleggiante nel canale della Giudecca ed molti l’avevano vissuta in prima persona portando con se degli specifici ricordi. Nella mente di ognuno il Teatro aveva dimensioni e colorazioni differenti, qualcuno avrebbe scommesso che la copertura era in lamiera verniciata di azzurro, qualche d’un altro sosteneva che non vi era il balcone d’ingresso o avrebbe messo la mano sul fuoco che tutte le finestre erano delle stesse identiche misure e così via: dubbi che la ricerca e il reperimento dei materiali originali ha permesso di sgomberare. Sembra inverosimile, ma pur esistendo di questo edificio moltissimi disegni, realizzati sia dallo stesso Rossi e sia dai suoi collaboratori, in realtà ci si è presto resi conto che nessuno di questi potesse essere utilizzato per una ricostruzione fedele all’originale, alcuni avrebbero sicuramente potuto

1 Aldo Rossi Lo scheletro del Teatro del Mondo foto Mauro Morriconi Pagine successive: 2 Aldo Rossi Teatro del Mondo a Genova foto Massimo Sordi 3-4 Aldo Rossi Teatro del Mondo: interni foto Massimo Sordi 5-6 Aldo Rossi Teatro del Mondo nella scena genovese foto Massimo Sordi



servire quali basi importanti di partenza, ma non si sarebbero certo potuti considerare un punto di arrivo. Paradossalmente il Teatro è stato realizzato senza elaborati esecutivi, ad eccezione degli strutturali della Ponteggi Dalmine e disegnato quasi direttamente in cantiere durante i sopralluoghi.3 Anche se indicativo di un certo modo di progettare di Rossi, è stata la constatazione dell’assoluta mancanza di elaborati esecutivi e questo è suffragato anche dalla testimonianza di alcuni osservatori privilegiati,4 il che rende ancora più affascinante e straordinario l’evento. Questo è un atteggiamento progettuale poi non così inconsueto nel modo di ideare le sue architetture, dove la fortuna, quando non il caso, potevano (o dovevano?) giocare un ruolo fondamentale per la buona riuscita del progetto, tanto che questo atteggiamento così insolito per un architetto, meriterebbe di essere studiato e approfondito. Consapevoli di tale situazione deficitaria dal punto di vista degli elaborati costruttivi e intenzionati ad eseguire una ricostruzione filologica dell’edificio, ci si è messi alla ricerca di tutti quegli indizi che avrebbero permesso di riformulare in modo fedele la costruzione, così muovendosi su diverse tracce si sono poco a poco, raccolte diverse importanti informazioni, permettendo di rimettere insieme quello che poteva solo apparentemente sembrare un problema di facile risoluzione in virtù della sua fama. Presso l’A.S.A.C.5 della Biennale di Venezia6 è stato rintracciato un faldone della costruzione originale, privo di disegni, ma con l’indicazione del nome dell’ingegnere Mose, che per conto della Ponteggi Dalmine progettò le strutture in tubolari e indicazioni utili per la ricerca del magazzino in cui sono conservati i legni originali del Teatro. Di fondamentale aiuto è stato il rilievo fotografico eseguito da Antonio Martinelli con scatti di grande nitidezza che seguono la costruzione dalla posa del primo tubo7 sul pontone galleggiante “Argentino”, attraverso il montaggio delle parti in tutti suoi dettagli, fino al trasporto del Teatro a Dubrovnik. Oltre a queste foto ci si è anche avvalsi degli scatti di Ambrogio Beretta e Giancarlo Maiocchi di Occhiomagico, realizzati in occasione di un servizio per Casa Vogue. Grazie al ritrovamento dei disegni strutturali, prima in forma di fotocopie presso la Dalmine e in seguito delle copie “rosse” reperite presso l’archivio di Christopher Stead,8 si è iniziato a ipo-

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tizzare graficamente quelle che avrebbero dovuto essere le dimensioni reali dell’edificio realizzato; in breve il progetto di ricostruzione è stato possibile per mezzo di una continua interpolazione di dati, tra disegni delle strutture, foto e rilievo degli elementi originali, conservati tutt’oggi nei magazzini della Syndial a Marghera. Il progetto esecutivo, a cura di Gianni Braghieri e del sottoscritto, formato da circa una ventina di elaborati, tra piante, sezioni, prospetti e dettagli di finiture, è stato disegnato con grande precisione e attenzione, da due studentesse, Silvia Dal Prato e Valentina Graziani,9 della Facoltà di Architettura “Aldo Rossi” dell’Università di Bologna. Il Teatro del Mondo mentre scriviamo è in via di demolizione, il suo destino è nuovamente segnato ritornando, forse per pace di alcuni, tra le nebbie da cui era riapparso grazie all’iniziativa genovese e al concorso dei tanti che in questa operazione hanno creduto e quindi lavorato.10

1 Germano Celant (a cura di), Arti & Architettura 1900/2000. Scultura, pittura, fotografia, design, cinema e architettura: un secolo di progetti creativi, Genova, 2 ottobre 2004 – 13 febbraio 2005. 2 Manfredo Tafuri, L’éphémère est éternel, in Manlio Brusatin, Alberto Prandi (a cura di), Aldo Rossi. Il Teatro del Mondo, CLUVA, Venezia, 1982, p. 148. 3 In alcune foto di Antonio Martinelli si vede Aldo Rossi, in cantiere con la costruzione in discreto stato di avanzamento, che osserva un suo prospetto del Teatro che riporta il tamburo formato da sedici lati. 4 Gianni Braghieri ricorda come questo progetto sia forse l’unico ad essere stato completamente progettato e disegnato unicamente da Aldo Rossi, senza l’ausilio di alcun collaboratore. Questo è anche confermato da Arduino Cantàfora che ricorda come Rossi andasse esso stesso a fare le copie dai lucidi dicendo ai suoi assistenti tra il faceto e l’indispettito che per questo progetto non gli voleva neppure chiedere di fare le copie. 5 A.S.A.C., Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia. 6 Si coglie l’occasione per ringraziare della cortese disponibilità l’Arch. Paolo Cimarosti della Biennale di Venezia senza del quale, il successo dell’operazione sarebbe sicuramente risultato più arduo. 7 Il provino a contatto del fotografo riporta la data del 2 ottobre 1979, data a cui si può fare riferimento per l’inizio della costruzione. 8 Collaboratore di Aldo Rossi dal 1979 al 1983, a lui si devono tra gli altri, molti dei bellissimi disegni del Teatro del Mondo pubblicati in tutte le monografie sull’argomento. 9 Silvia Dal Prato e Velentina Graziani si sono recentemente laureate a pieni voti, discutendo due tesi che ha per una prima parte trattato la ricostruzione del Teatro del Mondo. 10 La ricostruzione è stata possibile per l’impegno di Coopsette s.c.a.r.l. che ne ha interamente finanziato la ricostruzione.


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letture

Carlos Marti Aris Silenzi eloquenti. Borges, Mies Van Der Rohe, Ozu, Rothko, Oteiza Martinotti, Milano, 2002 Il valore del silenzio. In un momento di profonda crisi, come quello che sta attraversando l’architettura contemporanea, dove è lecito realizzare tutto e al contempo il suo contrario, dove l’idea forte è non dover avere una tesi da dimostrare, e la teoria non ha spazio nel progetto perché viene spesso considerata una limitazione al talento artistico, dove l’unica regola considerata valida è quella di ammaliare con immagini avveniristiche e ipertecnologiche, e persino le avanguardie hanno perso ogni forza innovativa diventando “l’effimera esaltazione dell’inedito”, in questo quadro il libro di Carlos Marti Aris rappresenta una voce fuori dal coro, una solida eccezione da cui ri-partire. È un libro di teoria, che analizza un preciso modo di fare architettura, ed enuncia un punto di vista sulla questione del progetto. È un libro che fa scuola, o meglio, come il suo autore, fa parte di una scuola che fonda il suo pensiero sulla necessità di raggiungere la verità artistica, la bellezza, con strumenti e regole validi universalmente, e fondati sulle radici della tradizione, e non sui personalismi o le invenzioni formali legati alla moda del momento. All’inizio degli anni ’30 alcuni artisti, tra cui Borges, Mies van der Rohe, Ozu, Rothko e Oteiza, che sono i protagonisti di questo libro, hanno compreso la necessità di rifondare il pensiero artistico, partendo dal presupposto che “l’innovazione in sé non è più legittimità artistica” e che è necessario il “superamento degli aspetti meramente individuali” per progredire nella conoscenza; anche oggi secondo l’autore, è necessario fermarsi e ridiscutere le basi dell’architettura, iniziando un nuovo percorso culturale, che abbia come radici quelle del “silenzio”. La forza teorica di questo libro è rappresentata proprio dal non essere riferito solo all’architettura, ma a tutti i campi dell’attività artistica. Quello descrittoci da Carlos Marti Aris è un metodo di progetto, una lezione senza tempo, un’eloquente ricerca della verità attraverso il silenzio. Tomaso Monestiroli

Fabrizio F. V. Arrigoni Note su progetto e metropoli Firenze University Press, Firenze, 2004 ISBN 88-8453-217-5 (online) ISBN 88-8453-216-7 (print) Vi è chi è interessato alla dialettica tra teoria dell’architettura e opere nel segno della continuità (tra questi il recensore che scrive), e chi invece ritiene più fecondo - come Fabrizio Arrigoni nelle sue

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Note - indagare le contraddizioni tra pensiero architettonico e costruzione nel corso del ’900, considerandole il patrimonio più prezioso oggi a nostra disposizione per far avanzare la disciplina. Quasi un percorso di presa di coscienza affinché, a partire da tali aporie, sia plausibile immaginare un fare che, “bruciando le navi alle sue spalle”, si consegni integralmente allo spazio pericoloso e privo di certezze della costruzione, unico intervallo dentro cui può compiersi il miracolo che sfuma la miseria del nostro tempo. Costruzione dunque quale redenzione da una drammatica condizione (apparentemente) senza speranza? Per quanti conoscono le singolari tavole di F. A. e quei suoi intriganti - quasi inquietanti – carnet di disegni, non sarà motivo di sorpresa che l’indagine ci conduca in luoghi fascinosi e letterari difficili da abitare, quando non dichiaratamente intransitabili (La metropoli e l’impossibile abitare, piccole case forse contrapposte all’immobile collettivo su verdi campi). Oggetto della ricerca ancora una volta architettura e città o meglio una delle sue varianti novecentiste declinate sotto la cadenza di progetto e metropoli: l’autore ne prende le misure, ne perimetra i contorni, ne traguarda le distanze (strategie per un ritorno a casa) con una narrazione che sembra al contempo attratta e spaventata dal costruire (atto che – sia detto appunto tra parentesi – dovrebbe restare il motivo primo e il fine ultimo del nostro, ancorché malato, mestiere di architetti). Sulla scorta di tanti e così acculturati riferimenti resta allora difficile - “nell’unico interminabile inverno della contemporaneità” - con sguardo ironico o innocente o anche solo con la necessaria serenità disporre l’animo al montar mattoni. Del resto volutamente non facili né solari sono i risultati della ricerca di Arrigoni, arricchiti da un (forse troppo) profondo scavare che porta alla luce per via di affioramento stratigrafico una consapevolezza che vorremmo non aggravasse la già disillusa condizione del fare architettura oggi. Eppure le invasioni di campo di Arrigoni avvengono su terreni che ancora oggi appaiono per il nostro mestiere zona di possibili osmosi con l’indagare di filosofi, pensatori e scrittori che ci hanno illuminato sulla effettiva condizione dell’abitare nel ’900, sul senso del radicamento al luogo come sul totale estraniamento di atopie o irrimediabili eterotopie, ancora poi sulla continua oscillazione tra identità e malintesa globalizzazione (ci sovviene la finta ingenuità archetipa del bimbo di Rilke oppure ancora le arcane figure “degenerate” dell’alchemico Jung). A fronte di tanto sapere di sapere si vorrebbe che ogni tanto l’Autore delle Note su progetto e metropoli spezzasse una lancia anche per quel 50% di stupidità che Heinrich Tessenow (e noi con lui) pensava indispensabile nel nostro mestiere. Con altre parole, ma eguale efficacia, Marco Paolini annovera tra i mali epocali la mancanza d’ignoranza. È di una qualche utilità far qui notare che nelle pagine che ricostruiscono la nozione di frammento ed il suo uso operativo nel progetto, le Note di Arri-


goni interagiscono in modo fecondo con il nucleo tematico attorno al quale questo numero di Firenze Architettura sviluppa la propria indagine. E ripercorrono, col taglio problematico e critico concesso a chi non si riconosce nella tendenza, i pensieri e le figure che Aldo Rossi volle avviare partendo dalla visione dalla colonna di Filarete quale frammento e simbolo di ciò che resta dell’architettura oggi. In questo ambito al progetto è affidato il ruolo di parte anche coerente, ma in attesa di un tutto. Tra le sue provvisorie conclusioni Arrigoni ipotizza che proprio a partire dal frammento è da intravedere in Aldo Rossi non l’ultimo bagliore del perfetto classico, bensì il tragico che si disvela con lucido disincanto. Il frammento non può essere appagante o supplente in quanto necessariamente rimanda a ciò che manca, ed è questo il senso della dichiarata preoccupazione dello stesso Rossi che chiude la riflessione sul destino delle nostre città: “…mi sembra che diventiamo noi tutti dell’arte muraria (ingegneri, architetti, geometri, muratori ecc.) come artefici, più o meno consapevoli, di interventi che non contano nel sistema generale”. Grati ad Arrigoni per aver rimesso in fila questi pensieri, gli auguriamo tuttavia un più leggero costruire. Francesco Collotti

W. G. Sebald Storia naturale della distruzione Adelphi, Milano, 2004 ISBN 88-459-1923-4 Numeri sbiaditi o divelti, rete fatua di sentinelle, pagherei per essere con voi dove non siete più, 9 su un portone, 26 su un cancello, sbarrato il primo, muto atrocemente il secondo che prima cigolava che come da un liuto ne era vinto il cuore, con tetra lima per chi ha conosciuto i viaggi nello spazio e nel tempo con i quali è stata continuamente tessuta la letteratura sebaldiana, questa recente traduzione non desta meraviglia. Stessa è la rete qui gettata tra la parola e l’immagine capace -nel loro mutuo intrecciarsi, sommarsi- di dare origine a risonanze inattese ben oltre l’analogo dell’inchiesta poliziesca, del processo cumulativo del saggio. Azzardo che questo passo dei Passagen-Werk possa funzionare da corollario alla prassi del nostro Lumpensammler: assumere il principio del montaggio nella storia. Erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi ritagliati con nettezza e precisione. Scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento particolare il cristallo dell’accadere totale. Distruzione-decostruzione di cattive

totalità come premessa logica in grado di liberare la singolarità irriducibile dal suo essere ridotta e bloccata, con violenza, nei confini certi e rassicuranti di una Storia lineare, priva di tensioni. Come altro giustificare quel senso di vertigine che sale lentamente in colui che si incammina lungo i percorsi molteplici che la scrittura rivela disgregando al contempo, nel suo perfetto movimento, le sintesi note quanto afone. Luftkrieg und Literatur (2001) deriva da una serie di conferenze tenute nel 1997 da Sebald a Zurigo. Tema di quegli incontri fu il processo di rimozione – nelle memorie individuali quanto nelle espressioni intellettuali- che consentì, in Germania, di sottacere gli esiti della sistematica campagna di area bombing condotta da Sir Arthur Harris. Dal febbraio 1942 al 1945 furono rovesciate su 131 città tedesche -in quattrocentomila incursioni- più di un milione di tonnellate di materiale esplosivo ed incendiario, pressoché “cancellando la stessa esperienza urbana”. L’interrogazione dei modi con cui la catastrofe ha trovato spazio nei (pochissimi) testi successivi –nella maggioranza dei casi attraversati da una “coscienza falsa o dimidiata”- è il filo che cuce il lavoro, cercando di far emergere –in filigrana- il nondetto, il non-scritto, quale seconda vicenda. Le medesime domande potremmo rivolgere alla “cultura del progetto”: qual’è il significato radicale del termine ricostruzione, cosa ha significato -e significa- costruire su necropoli incenerite, quale passato quando la traccia non è che un ammasso informe soggetto a rinaturalizzazione sinistra (a Colonia, a fine conflitto, i passaggi tra i cumuli sono simili a “tranquilli sentieri di campagna incassati fra due sponde”…) e, soprattutto, come si ripristina, in architettura, un senso sull’insensato? sfranti entrambi. Ma: prendici per quello che siamo ora, vi penso opporvi, povere zampette frenetiche sul più bello spiaccicate contro un muro, e s’infervora così ancora una volta a vuoto il mio corpo a corpo col virus dell’oblio. Giovanni Roboni, Quare tristis Fabrizio Arrigoni

A. Capestro (a cura di) Firenze, progetto a margine Alinea, Firenze, 2004 Indagare sulle dinamiche e sugli scenari urbanoterritoriali e sulle nuove tematiche di spazialità indotte dalla contemporaneità su questi, dev’essere un’attività da svolgere costantemente per dare valore ai progetti di valorizzazione. Identificare una metodologia operativa in grado di avviare processi integrati di qualificazione/reinven-

zione urbana applicando strumenti e tecniche ecocompatibili, è il compito che ha coinvolto docenti, ricercatori, cultori della materia e studenti coordinati da Antonio Capestro e Cinzia Palumbo, con la responsabilità scientifica di Piero Paoli. Questo volume costituisce la sintesi di un iter tematico sul Progetto Urbano che, tra ricerca e didattica, già da qualche anno, prende appunti su un panorama di trasformazioni che riguardano architettura, città e territorio rielaborandoli attraverso progetti e riflessioni teoriche. “Firenze, progetto a margine” rappresenta un compendio di esperienze raccolte nell’ambito del Laboratorio di Sintesi in Progettazione Urbana, dei Laboratori di Progettazione Architettonica III e IV (Corso di Laurea quinquennale) del Laboratorio di Architettura IV (Corso di Laurea Specialistica). Il libro, che costituisce il terzo volume di una Collana di Studi sul Disegno Urbano avviata nel 1997 con lo scopo di raccogliere riflessioni, elaborazioni teoriche e progettuali nel campo della Progettazione Urbana, prende l’avvio da un programma di ricerca dal titolo “La sfida della sostenibilità: verso un approccio progettuale per un ambiente urbano eco-compatibile” il cui obiettivo strategico è stato quello di identificare soluzioni programmatiche e progettuali per avviare processi di sviluppo sostenibile e dell’innovazione territoriale da applicare ad aree periferiche. La ricerca è stata supportata da un approfondimento progettuale su un’area periferica, a sud-ovest del territorio fiorentino e al confine con Scandicci, da tempo oggetto di interesse non solo per ipotesi di rifunzionalizzazione ma anche e soprattutto per ipotesi di recupero di un ruolo non limitato alla standardizzata dotazione di servizi abitativi quanto alla reinvenzione di una dimensione e di una qualità urbana articolata su differenti scale e sistemi di interesse. La prima parte del volume introduce il programma di ricerca, illustra i presupposti teorici e gli obiettivi generali da inquadrare nell’ambito di una metodologia d’intervento su aree urbane di margine attraverso strategie e temi di progetto formulati per convertire l’attuale carattere di marginalità dell’area in una rinnovata idea di luogo urbano valutando la sostenibilità delle trasformazioni, la complessità dei valori indotti dalla innovazione territoriale, la reinterpretazione del patrimonio esistente riletto nella sua morfologia, nel suo ruolo rispetto alla pianificazione urbana e territoriale, nelle sue potenzialità e sviluppo delle risorse. La seconda parte presenta l’impianto spaziale caratterizzato da quattro componenti tematiche Natura, Architettura, Infrastruttura, Tecnologia approfondite in scala architettonica nel margine su Via di Scandicci, nel margine su Via Pisana, nell’infrastruttura ecologica su Viale Nenni. La terza parte documenta i risultati progettuali emersi nei Laboratori di Progettazione e in alcune Tesi di Laurea che hanno affrontato lo stesso tema del programma di ricerca durante gli AA.AA. 2002, 2003, 2004. Claudio Zanirato

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Michele Dantini Short poems upon sea and history, 3, 2004, video, 3' 14" Giacomo Pirazzoli Paesaggio, Archeologia, Progetto contemporaneo (a cura di Lisa Ariani e Caterina Bini) Edizioni All’Insegna del Giglio per CNR, Firenze, 2003 Tra una mostra e un libro a proposito del viaggiare Dialogo e-mail in presa diretta tra Michele Dantini, artista, critico d’arte, curatore, in occasione della mostra A green Nothing (Quarter. Centro Produzione Arte, Firenze, dal 7.6 al 19.6. 2005), e Giacomo Pirazzoli, architetto, autore della ricerca Paesaggio, Archeologia, Progetto contemporaneo. GP: Ti ho conosciuto alcuni anni fa storico dell’arte con percorso d’eccellenza – Normalista, poi Dottorato pure alla SNS, poi Professore a contratto; ora mi dici che hai chiuso con la storia – peraltro dopo aver pubblicato testi raffinati e interessanti – per occuparti di contemporaneo, come curatore e come artista. Per me, senza dirti nulla avendoti perso di vista da qualche anno, avevo messo il tuo lavoro “Springtime” nel libro di cui sopra, accanto ai pochi altri artisti citati: Pietrojusti, Cucchi, Serra, Beverly Pepper, Beuys. Che effetto ti ha fatto vederti dentro una ricerca apparentemente così lontana dal tuo attuale specifico? MD: Ma sai, storia dell’arte e tutela del paesaggio sono percorsi vicini almeno dagli anni Settanta, e il tuo libro si apre con una citazione di Settis che è significativa in questo senso, ed è anche un omaggio, e Settis era tra i miei docenti in Normale. Credo però che il riconoscimento del paesaggio naturale, storicizzato e non, come opera d’arte (e perfino come soggetto morale) debba spingere storici dell’arte e dell’architettura a collaborazioni più decisive con ecologisti, antropologi, naturalisti. L’archivio umanistico è in qualche modo limitato. Quanto agli artisti che hai citato, credo che Beuys si muova decisamente in questa direzione. “Come spiegare i quadri a una lepre morta”, una sua performance, reinterpreta il tema cristiano della Pietà con riferimento diretto, immediato, ai compiti dell’arte, della cultura. GP: Beccato! Tuttora “Come spiegare i quadri a una lepre morta” mi interessa molto, anche e proprio perché forza i limiti del pur straordinario “archivio umanistico”, dal quale anch’io – per quel che ne son stato capace – mi sono nutrito. Differentemente, p.e., dall’esperienza dei Radicals, nata anche come reazione all’umanesimo bacchettone, o dallo svacco della “pluridisciplinarità” sublimazione del nulla, mi par di cogliere oggi in alcuni percorsi – che stanno nella tua ricerca artistica – una tensione che somiglia a quello che il mio amico Bruno De Franceschi – compositore e direttore d’orchestra – riconosce come un “mettersi in pericolo”, perché “il logos – quello proprio, disci-

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plinare – da solo non ce la fa più”. Così forse proprio dentro il viaggio o nel percorso sta un pezzo del senso del lavoro che stiamo facendo, e non tanto sotto metafora; da qui l’interesse per il “fare” induttivamente, e i progetti divengono esplorazioni del mondo, e i libri non son più libri, ma testi-immagine, videoclip, documentari, performances. MD: Esiste senz’altro l’esigenza di formulare in modo nuovo l’archivio dell’arte contemporanea, e in generale della cultura: credo sia un’esigenza avvertita da quanti desiderano molto semplicemente che artisti, curatori, scrittori etc. cooperino a ampliare l’area della coscienza, come scrive Ginsberg, a riflettere sui processi storici e sociali in corso, o hanno a cuore le sorti del pianeta. Quindi porti sempre con te, nel tuo lavoro, un’idea di “oltre il limite”, di oltrepassamento: a me piace la parola “vertigine”. Si tratta di giocare con la vertigine, stimolando noi stessi (e poi, se riusciamo, anche le persone, il “pubblico”) a pensare, ad acuire l’attenzione, a non rifiutare l’esperienza dell’inatteso. Esiste una connessione inscindibile tra attenzione e vulnerabilità, vulnerabilità e desiderio, conoscenza e desiderio. Ecco che quanti progettano solo storicisticamente, in nome e quasi per delega di un lessico tradizionale, credo non riescano mai a mettersi o a giungere all’aperto. Credo che non esistano più “linguaggi collettivi” che sia possibile amministrare, e che l’assunzione del “collettivo”, della “collettività” come norma sia sostanzialmente antimoderna. Così, lo ammetto, sono poco sensibile, e in genere poco indulgente, alle tesi di chi interpreta l’arte come percorso identitario, residenza nel già noto: parlerei infatti di etiche della mobilità e dell’esplorazione, non tanto di estetiche. I comportamenti di esploratività e attenzione nascono nel quotidiano e nell’ordinario, a partire dal marciapiede sotto casa. Contrastano i formidabili impedimenti contemporanei al pensiero, alla curiosità, alla leggerezza, all’immaginazione – in definitiva all’inventività delle forme di resistenza. Se vuoi possiamo esemplificare, scendendo in dettaglio e muovendoci più narrativamente. Può aiutare a chiarire il modo in cui entrambi “progettiamo”. GP: Ci provo. In ”Paesaggio, archeologia, progetto contemporaneo” – che ha la forma temporanea e occasionale del libro (anche perché questo potevamo fare col CNR) ma di fatto è un progetto – prendo anche le distanze dalla “visione metrocubica dell’architettura”. Si tratta di una questione del tutto concettuale, perché implica un “grado zero”, riferito comunque all’”archivio umanistico”: se pensi che in Italia oltre il 50% delle mostruosità edificatorie eticamente spaventose che vedi in giro sono state costruite dopo la guerra, lavorando solo sul metrocubico “pieno”, mentre Michelangelo al Campidoglio fa degli edifici quasi attività di risulta rispetto alla conformazione del vuoto della piazza… allora magari quell’altra idea di “presente continuo” di cui scrivo, e che trovo nel tuo lavoro da vertigine guida-

to – quando p.e. vai a ricercare le grandi migrazioni dall’Africa per tentarle quali alterazioni dell’identità dell’oggi – forse torna utile. Per dirla con un salto di pratica violenza, mi piacerebbe “esplorare” le potenzialità del luogo-Quarter spostandone l’ingresso sul lato della piazza, verso la Coop, perché dove sta ora è costretto e accecato dal nuovo edificio che sta nascendo lì davanti (quello sul cui perimetro è ora l’istallazione di Enzo Cucchi, geniale) e corrisponde allo stato di permanente ghettizzazione del mondo dell’arte contemporanea in Italia. Poi, come dicevo a Risaliti, trasferirei per vendita una non modica quantità di pallets della Coha-Hola (in forma di torre, misterioso frammento alla maniera di Kiefer?) dal reparto bevande della Coop a Quarter, per creare un percorso quasi-obbligato ed eticamente irritante tra arte e largo consumo, bollicine comprese. Carsicamente, quasi un riaffiorare della memoria antagonista del già CPA-viale Giannotti ora Quarter, tanto per dire. MD: La domanda è: come conservare? Perché conservare? O se preferisci, con altre parole: come possiamo immaginare connesse, entro una società tollerante e pluralistica, costruzione della sfera pubblica e politiche della memoria? Questo è davvero il “luogo” in cui arte contemporanea e architettura possono incontrarsi. Credo che la vivacità culturale di un paese si misuri almeno in parte attraverso la continuità del dialogo tra cultura accademica e processi storici, “archivio” e innovazione sociale. La tradizione (il “canone”) è permanentemente da “riscrivere”, le conoscenze acquisite da riordinare e gerarchizzare. Al tempo stesso il discorso culturale deve poter mantenere la complessità e la delicatezza che gli sono proprie, e non è detto che i movimenti (o quelle che, in termini paternalistici, sono dette “subculture”) siano in grado di fare ciò. Dubito che questa dialettica di istituzione e società abbia oggi luogo in Italia. È un elemento di consapevolezza da cui partire nel desiderio di progettare un’azione o un’iniziativa culturale, di rilanciare una prospettiva di “modernità”? Ritengo di sì. È probabile che nuovi “luoghi della cultura” possano nascere in laboratori culturali strategicamente situati sul margine culturale - delle città, delle nazioni, di più vaste aree geografiche. Occorre diffondere l’abitudine all’attenzione, alla curiosità, al pensiero interrogativo: l’arte può contribuire a sviluppare nuove forme di consapevolezza in merito a processi storici, sociali, ambientali. Il work-in-progress sui luoghi della diaspora atlantica rinvia a una sorta di archeologia della mobilità extraoccidentale - un’archeologia “altra”, postcoloniale, spesso realizzata attraverso la ricostruzione a più voci di contesti, il lavoro su archivi fotografici familiari. Risponde al desiderio di ricomporre volti e storie, portare lo spettatore occidentale a misurarsi per proprio conto con un’esperienza transculturale, una perdita di territorio familiare e conosciuto. Come credo di averti già detto: una vertigine.


Mario Pisani Architetture di Marcello Piacentini. Le opere maestre CLEAR, Roma, 2004

S. Settis Futuro del ‘classico’ Giulio Einaudi Editore, Torino, 2004 ISBN 88-06-14380-8

“Da tempo sostengo che, come per altri protagonisti della cultura europea del Novecento, da Giovanni Muzio a Joze Plecnick, da Peter Behrens a Dimitri Pikionis, da Theodor Fischer a Josef Hoffmann e Heinrich Tessenow, ai quali sono state dedicate monografie esaustive, è necessario prevedere anche per Marcello Piacentini la messa in cantiere dell’opera omnia”. Con queste parole, nel suo ultimo libro, Mario Pisani rivendica per Marcello Piacentini il riconoscimento del ruolo di traghettatore dallo storicismo al moderno, che larga parte della critica e della cultura architettonica italiana (indimenticabile la struggente testimonianza di E. N. Rogers) gli nega. Le accuse mosse generalmente a Piacentini sono di ambiguità e di antimodernità, per gli anatemi scagliati contro quel razionalismo, speranza dei giovani architetti, da cui egli stesso si faceva tentare, e per il ricorso, considerato opportunistico, a diversi modelli espressivi. Pisani ricompone i variegati pezzi di questa personalità parlandoci della ricerca piacentiniana, condotta nell’ambito della cultura europea e finalizzata all’elaborazione di una nuova architettura, che passa per l’infatuazione per l’art nouveau nella versione austriaca di Olbrich e Hoffmann, si imbatte nel neoclassicismo di Asplund e nel neoromanico di Fischer, riconosce nella scuola di Amsterdam una possibile strada per la modernità, e che conduce infine, anche attraverso la sperimentazione di linguaggi diversi, alla individuazione di un’“altra modernità”, come scrive Sandro Benedetti nella prefazione, allignata nel terreno della tradizione, “terza via” rispetto all’avanguardia e allo storicismo. Alla debita distanza da pregiudizi ideologici, responsabili di una ingiustificata amnesia nei confronti di un architetto che ha, di fatto, costruito la città italiana durante il ventennio fascista incidendo, con la sua opera, sull’immagine stessa della città, Mario Pisani propone una “rivalutazione critica” di Marcello Piacentini volta ad indagare il mero prodotto architettonico e il suo portato culturale. La presentazione delle architetture “maestre”, accompagnata da un pregevole corredo iconografico di disegni e foto d’epoca, in parte inediti, è organizzata in schede che puntualmente riconducono l’opera al clima culturale, ne indicano motivi e fonti d’ispirazione, e sottolineano l’importanza del rapporto con le arti che Piacentini voleva accolte nella propria architettura. Francesca Mugnai

Agli architetti di buona maniera dovrebbe essere nota la capacità dell’antico di generare progetto. Tra le caratteristiche che conferiscono all’architettura italiana una precisa identità nell’esperienza del tempo vi è sicuramente quella presenza di rovine che non solo in modo del tutto particolare marca il rapporto tra vecchio e nuovo, ma che – sotto forma di ineludibile memoria – rende il nuovo debitore nei confronti dell’antico. Alberti per primo, e poi Palladio, e Sanmicheli, fino a Terragni, Muzio, Libera nel Novecento. E ciascuno di questi Maestri perseguendo dell’antico una versione più avanzata, mai la sua copia: nella maggioranza dei casi progetti per frammenti che rimandano a un mondo non più esperibile nel suo intero. Nel suo contributo sulle caratteristiche operanti del classico, sulla sua capacità ancora di far crescere – tra l’altro – progetti di architettura, si interroga Salvatore Settis in un piccolo libro capace di rimettere la giusta distanza tra le cose e di porre domande capaci di generare senso. In primo luogo sulla impossibilità di leggere la nozione di classico come esaltazione di una idealizzata epoca d’oro messa in sicurezza a mezzo di una sorta di sospensione del tempo e dell’aria. Ancora in vita delle forme Focillon aveva messo in guardia dal rischio di congelare il classico idealizzandolo, suggerendo al contrario di cogliere in modo fecondo quel suo essere debole oscillazione dell’ago della bilancia, apparente immobilità esitante, percorsa da quel tremito leggero che ci dice della calda vita che lo attraversa. Dovrebbe dunque interessare agli architetti come ogni epoca – per trovare identità e forza – abbia inventato un’idea diversa di ‘classico’. Per questa via esso verrebbe a far parte di una sorta di energia vitale capace di far lievitare il progetto verso una conoscenza più avanzata senza trascurare le proprie radici. La ricerca di Settis si inserisce dunque in un filone fecondo che ha saputo coniugare la dialettica tra continuità e tradizione con la cultura del progetto, in particolare degli architetti, ma anche di alcuni artisti che nel corso del ‘900 italiano hanno continuato a riflettere sulle origini come materiale da costruzione (Arturo Martini, ma anche Fontana). Ed è questa la distanza tra chi pensa ogni volta di cominciare daccapo e chi – al contrario – si ostina a portare avanti una responsabilità civile che abbiamo temporaneamente in prestito e che appartiene alla lunga durata dell’architettura della città e del paesaggio. Parlare di classico come materia indispensabile per il futuro assume allora un preciso significato di rifondazione della forma che nulla ha a che vedere con un ruolo residuale e accademico. Rammentava qualche anno fa Massimo Cacciari durante una conferenza di letteratura come classico non sia

qualcosa che rimanda al passato, ma un atto di resistenza al presente che contrasta con l’ora, con il modus, cioè con il moderno, con la moda. Per gli architetti un preciso gesto in grado di rimettere in cornice valori o gesti – ancora una volta costruiamo per frammenti? - prima che questi restino fagocitati dalla tirannia del momento. Nella sua ricerca sulle variate declinazioni del classico Settis approfondisce e ridefinisce la parabola che voleva il classico romano essere il compimento dell’arte greca ritrovando sulla questione i giudizi di Vasari, le visioni di Winckelmann (non vi fu arte romana, ma arte greca sotto i romani), le feconde contaminazioni di K. F. Schinkel capace di illuminare il progetto con il perseguimento dell’equilibrio di opposti, oscillante tra “classico greco” (le ville di Potsdam e le residenze dei principi) e “classico romano” (Bauakademie). Ancora una volta Composizione come ricerca dell’appropriatezza? Una questione che già aveva toccato i destini del Palladianesimo in Inghilterra facendo ora vincere la trasmutazione nella campagna inglese di ville venete “alla greca” (il Grange Park di W. Wilkins) oppure di complessi debitori della maniera “alla romana” (Fitzwilliam Museum a Cambridge). E di qui passando per i dubbi sulle contaminazioni di confine che fecero parlare Wickhoff e Riegl di epoca tardo-romana, laddove nelle province dell’impero il classico trascolorava in anticipazione del Medioevo. Da versanti apparentemente distanti sia Loos sia Le Corbusier individueranno poi nel dorico l’essenza stessa di una grecità primordiale e incorrotta, nella quale si congiungevano al massimo grado struttura tettonica e ricerca formale. Per tutte queste ragioni non ci dispiace chiudere il numero della nostra rivista dedicato ai progetti ed alle ricerche che prendono le mosse da una riflessione sul frammento citando - da Settis - la famosa gigantesca colonna dorica proposta da Loos per il Chicago Tribune: fedeltà ad una forma pura proprio laddove il ripudio del decorativismo degli stili “storici” trova compimento nell’esaltazione del dorico come pietra di paragone della modernità. Francesco Collotti

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FIRENZE - DIPARTIMENTO DI PROGETTAZIONE DELL’ARCHITETTURA

1 Franco Purini 2 Giovanni Chiaramonte 3 Paolo Zermani 4 Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola 5 Adolfo Natalini 6 Loris Macci 7 Alberto Breschi 8 Ulisse Tramonti 9 Flaviano Maria Lorusso 10 Marco Bini 11 Gian Luigi Maffei 12 Maria Teresa Bartoli 13 Roberto Berardi 14 Giancarlo Cardini 15 Giuseppe Panella 16 Francesco Venezia 17 Michele Reginaldi, Augusto Cagnardi, Vittorio Gregotti 18 Roberto Collovà 19 Edoardo Detti, Carlo Scarpa

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Direttore - Marco Bini - Sezione Architettura e Città - Gian Carlo Leoncilli Massi, Loris Macci, Piero Paoli, Ulisse Tramonti, Alberto Baratelli, Antonella Cortesi, Andrea Del Bono, Paolo Galli, Bruno Gemignani, Maria Gabriella Pinagli, Mario Preti, Antonio Capestro, Enzo Crestini, Renzo Marzocchi, Andrea Ricci, Claudio Zanirato - Sezione Architettura e Contesto - Adolfo Natalini, Giancarlo Cataldi, Pierfilippo Checchi, Stefano Chieffi, Benedetto Di Cristina, Gian Luigi Maffei, Guido Spezza, Virginia Stefanelli, Fabrizio Arrigoni, Carlo Canepari, Gianni Cavallina, Piero Degl’Innocenti, Grazia Gobbi Sica, Carlo Mocenni, Paolo Puccetti - Sezione Architettura e Disegno - Maria Teresa Bartoli, Marco Bini, Roberto Corazzi, Emma Mandelli, Stefano Bertocci, Marco Cardini, Marco Jaff, Grazia Tucci, Barbara Aterini, Alessandro Bellini, Gilberto Campani, Carmela Crescenzi, Giovanni Pratesi, Enrico Puliti, Paola Puma, Marcello Scalzo, Marco Vannucchi - Sezione Architettura e Innovazione Roberto Berardi, Alberto Breschi, Antonio D’Auria, Marino Moretti, Mauro Mugnai, Laura Andreini, Lorenzino Cremonini, Flaviano Maria Lorusso, Vittorio Pannocchia, Marco Tamino - Sezione I luoghi dell’Architettura - Maria Grazia Eccheli, Fabrizio Rossi Prodi, Paolo Zermani, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Alberto Manfredini, Giacomo Pirazzoli, Elisabetta Agostini, Andrea Volpe - Laboratorio di rilievo - Mauro Giannini - Laboratorio fotografico - Edmondo Lisi - Centro di editoria - Massimo Battista - Centro di documentazione - Laura Maria Velatta - Assistente Tecnico - Franco Bovo - Responsabile gestionale - Manola Lucchesi - Amministrazione contabile - Carletta Scano, Debora Cambi - Segreteria - Gioi Gonnella Segreteria studenti - Grazia Poli


In copertina: Frammento di capitello della chiesa di San Pier Scheraggio inglobato nella facciata degli Uffizi in via della Ninna foto Massimo Battista

Periodico semestrale* del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura viale Gramsci, 42 Firenze tel. 055/20007222 fax. 055/20007236 Anno X n. 1 - 1° semestre 2006 Autorizzazione del Tribunale di Firenze n. 4725 del 25.09.1997 ISSN 1826-0772

In vendita presso le librerie:

Direttore - Marco Bini Coordinamento comitato scientifico e redazione - Maria Grazia Eccheli Comitato scientifico - Maria Teresa Bartoli, Roberto Berardi, Giancarlo Cataldi, Loris Macci, Adolfo Natalini, Paolo Zermani Capo redattore - Fabrizio Rossi Prodi, Redazione - Fabrizio Arrigoni, Valerio Barberis, Fabio Capanni, Francesco Collotti, Fabio Fabbrizzi, Francesca Mugnai, Giorgio Verdiani, Claudio Zanirato Info-grafica e Dtp - Massimo Battista Segretaria di redazione e amministrazione - Gioi Gonnella tel. 055/20007222 E-mail: progeditor@prog.arch.unifi.it.

Libreria Alfani via Degli Alfani, 84r Firenze Libreria LEF via Ricasoli, 105/107 Firenze

Proprietà Università degli Studi di Firenze Progetto Grafico e Realizzazione - Centro di Editoria Dipartimento di Progettazione dell’Architettura Fotolito Saffe, Calenzano (FI) Finito di stampare febbraio 2006

Libreria CLUVA Santa Croce, 191 Venezia

*consultabile su Internet http://www.unifi.it/unifi/progarch/fa/fa-home.htm

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Il frammento

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firenze architettura

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architettura FIRENZE

Periodico semestrale Anno X n.1 Euro 10 Spedizione in abbonamento postale 70% Firenze copertina p67ISSN3

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Il frammento


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