a cura di
stefano bertocci fauzia farneti
L’architettura dipinta: storia, conservazione e rappresentazione digitale Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca
ricerche | architettura design territorio
ricerche | architettura design territorio
Coordinatore | Scientific coordinator Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy Comitato scientifico | Editorial board Elisabetta Benelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Marta Berni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Stefano Bertocci | Università degli Studi di Firenze, Italy; Antonio Borri | Università di Perugia, Italy; Molly Bourne | Syracuse University, USA; Andrea Campioli | Politecnico di Milano, Italy; Miquel Casals Casanova | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Marguerite Crawford | University of California at Berkeley, USA; Rosa De Marco | ENSA Paris-LaVillette, France; Fabrizio Gai | Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Italy; Javier Gallego Roja | Universidad de Granada, Spain; Giulio Giovannoni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Robert Levy| Ben-Gurion University of the Negev, Israel; Fabio Lucchesi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Pietro Matracchi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy; Camilla Mileto | Universidad Politecnica de Valencia, Spain | Bernhard Mueller | Leibniz Institut Ecological and Regional Development, Dresden, Germany; Libby Porter | Monash University in Melbourne, Australia; Rosa Povedano Ferré | Universitat de Barcelona, Spain; Pablo RodriguezNavarro | Universidad Politecnica de Valencia, Spain; Luisa Rovero | Università degli Studi di Firenze, Italy; José-Carlos Salcedo Hernàndez | Universidad de Extremadura, Spain; Marco Tanganelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Maria Chiara Torricelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Ulisse Tramonti | Università degli Studi di Firenze, Italy; Andrea Vallicelli | Università di Pescara, Italy; Corinna Vasič | Università degli Studi di Firenze, Italy; Joan Lluis Zamora i Mestre | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Mariella Zoppi | Università degli Studi di Firenze, Italy
a cura di
stefano bertocci fauzia farneti
L’architettura dipinta: storia, conservazione e rappresentazione digitale Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca
Il volume è l’esito di un progetto di ricerca condotto dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. La pubblicazione è stata oggetto di una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata dal Comitato Scientifico del Dipartimento DIDA con il sistema di blind review. Tutte le pubblicazioni del Dipartimento di Architettura DIDA sono open access sul web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale.
in copertina Convito di Giove e Giunone, camera di Giove, Palazzo Ducale, Sassuolo)
progetto grafico
didacommunicationlab Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Susanna Cerri Federica Giulivo
didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2020 ISBN 978-88-3338-103-9
Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset
indice
Discorso di presentazione del convegno (Firenze, 8 novembre 2018) Anna Maria Matteucci Cappella Strozzi: tra effetti illusionistici spaziali e messaggio cristiano Antonio Idda
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Presentazione 19 Diego Lumare L’architettura dipinta: storia, conservazione e rappresentazione digitale Bramante, Castiglione Olona e la nascita dell’architettura dipinta lombarda Andrea Spiriti Dipinti di legno. Le tarsie prospettiche del coro di Santa Maria alla Scala in San Fedele a Milano Michela Rossi, Michele Russo
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“Di sotto in su”. Analisi geometrica di alcuni esempi di prospettive in lombardia Giampiero Mele
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Girolamo Curti e la quadratura a Bologna Marinella Pigozzi
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Quadraturisti bolognesi e quadraturisti bresciani nel palazzo ducale di Sassuolo: incontri ravvicinati Anna Maria Matteucci “…amplum, pulcherrimae structurae, et undique pictum a Sebastiani Ricci et Ferdinando Bibbiena…”. Annotazioni dal cantiere di restauro dell’Oratorio del Serraglio a San Secondo Parmense Cristian Prati Le stanze-giardino e le prospettive illusorie di Vincenzo Martinelli a Bologna Giuseppe Amoruso, Andrea Manti
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l’architettura dipinta: storia, conservazione e rappresentazione digitale • s. bertocci, f. farneti
Proposta per un aggiornamento del catalogo di Francesco Natali quadraturista Anna Còccioli Mastroviti Il palazzo di città e di campagna dei Pavesi a Pontremoli e i Natali pittori di architettura Fauzia Farneti Le quadrature di palazzo Pavesi a Pontremoli: il contributo del rilievo digitale per la comprensione del processo creativo delle decorazioni di una dimora barocca Stefano Bertocci, Monica Bercigli Accademia delle Scienze di Torino: la sala, oggi denominata “dei Mappamondi”, realizzata a fine Settecento (1786-1787) da Giovannino Galliari (1746-1818) Rita Binaghi Ancora sui percorsi dei Galliari. Il salone d’onore del castello di Piea in provincia di Asti: un significativo esempio di architettura dipinta Maria Vittoria Cattaneo
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Un capitolo di quadraturismo settecentesco lombardo nel Piemonte orientale: i Giovannini tra Novara e Vercelli 163 Marina Dell’Omo I Baroffio da Mendrisio tra Varese e il Canton Ticino Laura Facchin
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Tipologie prospettiche per le ‘quadrature’ di Tommaso Sandrini Filippo Piazza
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Giuseppe Reina quadraturista milanese 197 Vittoria Orlandi Balzari Giovanni Mariani “il vecchio” e le quadrature di palazzo Visconti a Brignano Gera d’Adda (Bg) Beatrice Bolandrini
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L’architettura dipinta della Scoletta del Carmine a Padova 219 Agostino De Rosa, Andrea Giordano, Cosimo Monteleone, Rachele Angela Bernardello, Mirka Dalla Longa, Emanuela Faresin, Isabella Friso, Giulia Piccinin Architettura reale e illusoria: prospettiva e percezione in una decorazione genovese Cristina Càndito
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indice
Nuove tecnologie di rappresentazione per la comprensione del progetto di architettura dipinta Maria Linda Falcidieno, Massimo Malagugini, Maria Elisabetta Ruggiero, Ruggero Torti
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Questioni di scala e funzione Martina Frank
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Prospettive illusionistiche di Christoph Tausch nell’Europa centro orientale Alberto Sdegno, Veronica Riavis
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L’apparato pittorico della villa Il Pozzino, a Firenze: rilievi e prime restituzioni critiche Paola Puma, Giuseppe Nicastro Geometria e misura nelle sale dei quartieri estivi di palazzo Pitti Barbara Aterini, Sara D’Amico L’oratorio della Misericordia di Vicchio del Mugello: dalla scenografia al quadraturismo Monica Lusoli
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Le decorazioni di Villa Murlo a San Casciano in Val di Pesa Sandra Marraghini
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Jacopo Tintoretto e la rappresentazione digitale dell’architettura dipinta Gianmario Guidarelli, Gabriella Liva
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Per una metodologia di studio delle prospettive architettoniche Leonardo Baglioni, Laura Carlevaris, Marco Fasolo, Matteo Flavio Mancini, Jessica Romor, Marta Salvatore, Graziano Mario Valenti
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Il progetto della finta cupola nella chiesa di Sant’ignazio a Roma Antonio Camassa, Giovanna Spadafora
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L’influenza di Andrea Pozzo nello stato di Minas Gerais, Brasile Maria Cláudia A. Orlando Magnani
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Al servizio della regina Farnese: Quadraturisti piacentini in Spagna Sara Fuentes Lázaro
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L’ultimo quadraturista umbro. Pietro Carattoli (1703-1766) e l’architettura dipinta “sul sito” Paolo Belardi, Valeria Menchetelli
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L’apparato decorativo della Galleria del Cardinale in palazzo San Giacomo a Russi (RA): studi e indagini per la conoscenza e il restauro Marta Porcile
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l’architettura dipinta: storia, conservazione e rappresentazione digitale • s. bertocci, f. farneti
Illusione e prospettiva nell’architettura dipinta di Domenico Chelli María Fernanda García Marino
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Phenomenon of augmented space – physical and virtual space analysis of wall paintings: St. Francis Xavier Jesuit Church in Piotrków Trybunalski, Poland Magdalena Żmudzińska-Nowak, Assunta Pelliccio, Marco Saccucci, Karolina Chodura
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Quadraturismo e grande decorazione barocca nelle chiese e nei palazzi vescovili in Italia meridionale. Restauri e nuove acquisizioni Mimma Pasculli Ferrara
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L’architettura dipinta nelle sale del Palazzo vescovile di Melfi Isabella Di Liddo
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I soffitti a tavolato ligneo di S. Maria degli Angeli a Brindisi. Un esempio di Quadraturismo in Puglia Marianna Saccente
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Il paliotto dell’altare maggiore della chiesa di S. Lucia alla Badia a Siracusa: il carattere illusorio di una prospettiva architettonica scultorea Rita Valenti, Emanuela Maria Paternò
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L’inganno architettonico tra Settecento e Ottocento: frammenti dell’esperienza luso-brasiliana 457 Magno Mello Moraes Una multinazionale della quadratura. Artisti e gesuiti tra Europa, Cina e Brasile Renata Maria De Almeida Martins, Luciano Migliaccio
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titolo libro • nome cognome
titolo saggio • nome cognome
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discorso di presentazione del convegno (firenze, 8 novembre 2018) Anna Maria Matteucci
Professore Emerito dell’Università degli Studi di Bologna, Italia
È un piacere inaugurare oggi un convegno dedicato all’architettura dell’inganno cui partecipa un gruppo così nutrito di specialisti impegnati nel far conoscere pitture inedite di quadratura o nell’illustrare le modalità e le teorie che sono alla base della loro esecuzione. Un panorama d’indagine, dunque, molto vasto: accanto ad artisti italiani figurano pittori attivi nell’Europa centro orientale, in Spagna e persino in Cina ed in Brasile. Bisogna rallegrarsi calorosamente con Fauzia Farneti, Stefano Bertocci e Deanna Lenzi per avere condotto in porto ben tre cataloghi dei precedenti convegni dedicati alla quadratura, vale a dire alla pittura di prospettive, che furono tenuti a Rimini, a Lucca, a Firenze e a Montepulciano. I titoli ovviamente sono diversi, ma del tutto analoghi sono gli intenti mirati a studiare l’architettura dell’inganno. Pressoché costante è il periodo cronologico a cui si riferiscono, vale a dire l’età barocca, momento di massimo trionfo di questo affascinante genere artistico, ma talora si oltrepassa anche la metà del XVIII secolo. Inoltre, sempre alla Farneti e a Bertocci va il merito di aver pubblicato un ricco volume dedicato alla decorazione pittorica delle chiese di Firenze tra il ‘600 e il ‘700, in cui risultano i profili di ben 29 maestri dell’illusionismo, mentre più di 30 sono gli interni affrescati degli edifici studiati. Appaiono così importanti pitture che portano ad altissime volte sapientemente collegate alle pareti, come quelle realizzate, ad esempio, dal prospettico Domenico Stagi in Santa Maria del Carmine. A Fauzia Farneti spetta anche un denso contributo sulla catalogazione dei quadraturisti nel Granducato di Toscana, svolto nell’ambito della vasta ricerca edita dalla Sapienza (2014 e 2016) dal titolo Prospettive architettoniche. Vorrei ricordare ancora la recente collana intitolata Fasto Privato, curata da Mina Gregori e Mara Visonà, che rivela un patrimonio di grande interesse. Nelle vicende riguardanti l’illusionismo prospettico, soprattutto emiliane, pare che i momenti più significativi siano quelli in cui un genere artistico coglie suggerimenti da un altro ad esso similare; per questo è importante non erigere barriere tra architettura, scenografia e quadratura, ma, in uno studio congiunto, coglierne le reciproche influenze. È tuttavia singolare che in alcune recenti pubblicazioni dedicate all’arte barocca non sia presa in
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l’architettura dipinta: storia, conservazione e rappresentazione digitale • s. bertocci, f. farneti
considerazione la grande produzione quadraturistica, eccetto, ovviamente, l’immensa volta del Pozzo nella chiesa di Sant’Ignazio. Dei tanti fenomeni artistici presenti in Italia forse quello della pittura di prospettive è uno dei più ricchi ma, sino a non molto tempo fa, dei meno noti ed apprezzati; si pensi, ad esempio, all’atteggiamento critico di Cesare Brandi e di Roberto Longhi, al quale peraltro appartiene la felice definizione della quadratura come “la capacità di trasformare un tugurio in una reggia”. Volendone definire i termini cronologici si potrebbe scivolare nel tempo oltre i celebri esempi del mondo antico da Roma a Pompei, ma certamente a questi casi non si confà il termine di quadratura. Non voglio peccare di campanilismo nel ritenere che fra i primi quadraturisti, nel senso indicato, ci sia il bolognese Girolamo Curti detto il Dentone (1575-1632) e, del resto, mi pare sia un’idea comunemente accettata. Si ricordi quanto riferito dal Malvasia nei riguardi di opere d’età posteriore Sono insomma più sontuose, non si può negare, le cose moderne, ma più, e forse troppo vaganti e licenziose: hanno maggior vaghezza e brio, ma forse mancano di tanto fondamento e di naturalezza: dilettano, ma non so se erudiscano: allettano, ma non so se ingannino
mentre il Dentone, a suo avviso, “Rappresentò quel ch’è, e che può stare, non ciò che mai si vide, e che non può essere”. Le parole del Malvasia a proposito di queste opere da lui non apprezzate caratterizzeranno invece felicemente quella tendenza che condurrà ad esiti che non possono non definirsi Rococò. Nella Bologna del secondo ‘500, si conoscevano importanti scritti sulla prospettiva e precoci esempi pittorici, basti pensare a quelli del Serlio, del Laureti, di Egnazio Danti, del Tibaldi e del Mascherino. Un humus che indubbiamente dovette stimolare i pittori d’architettura a seguire i loro suggerimenti arricchendoli di nuove proposte in un connubio in cui arte e scienza si andavano intrecciando. Le diverse scoperte geografiche e gli studi astronomici avevano assai ampliato le presunte dimensioni del nostro mondo ed era così sorta, più o meno coscientemente, l’esigenza di dilatare lo spazio dei cieli dipinti, visibili attraverso ben maggiori sfondati. Generalmente nella pittura barocca si va annullando la distanza tra spazio reale e spazio illusionisticamente realizzato; il coinvolgimento dell’osservatore deve generare in lui forti emozioni, si punta quasi su di una sorta di suo ‘trasferimento’ in questo mondo irreale. La diaspora dei tanti quadraturisti bolognesi si deve alla loro originalità, ma anche alla protezione di eminenti personaggi divenuti appassionati committenti; che dire di quella del cardinale Giovanni Carlo de’ Medici ad Angelo Michele Colonna e ad Agostino Mitelli chiamati più volte al Casino di via della Scala (1641-57) sia per prospettive da situare
presentazione • anna maria matteucci
all’aperto sia per dipingerne varie sale che in parte conosciamo grazie ai preziosi disegni derivati dal fiorentino Giuseppe Tonelli? Sono temi che aprono ad un suggestivo rovinismo e ad impostazioni “per angolo”. I saloni da loro affrescati in precedenza per Ferdinando II nell’appartamento estivo di Pitti (1639-41) rimangono però un esito assolutamente insuperabile. Quanto era stato realizzato a Bologna in questo campo richiamò nella città pittori toscani, come appunto il Tonelli, Francesco Pini e Bartolomeo De Santi; questo fertile frescante riconosceva che “quella poca abilità, che mi ritrovo la conosco da quel poco di tempo, che stiedi in Bologna”. Per il diffondersi, non solo in Europa, dei quadraturisti bolognesi fu importante il sostegno dell’Accademia Clementina (fondata nel 1712) che proponeva agli studenti modelli collaudati, oltre ai disegni di Agostino Mitelli, posseduti in gran copia e sovente riprodotti. In un appunto manoscritto ai margini della sua Storia dell’Accademia Clementina, il noto ed infaticabile segretario Giampietro Zanotti così si esprimeva: questa Architettura in prospettiva è quella a cui riguardava la nostra Accademia […] Io stimo l’architettura dell’innalzare le fabbriche sia una Provincia da se; questa facoltà di dipingerla in Prospettiva si perderà, e pur è stata fin ora dote particolar di Bologna.
Col volger del tempo però i dettami accademici risultarono un indubbio freno all’estro e alla ricerca di novità. Così, spesso si volle rinunciare all’inganno proponendo sulle pareti delle sale quadri riportati, vale a dire sigillati da cornici, per distinguere bene lo spazio del vissuto da quello del narrato; si vedano, ad esempio, gli straordinari e precoci esiti del Mirandolese. La morte prematura del Mitelli non ci permette di avanzare ipotesi sulla possibile evoluzione del suo stile dopo il cambiamento di registro avvenuto a Genova in palazzo Balbi (1650). È da sottolineare però la grande originalità del distrutto oratorio di San Gerolamo a Rimini (1653) che la mostra realizzata dalla Farneti ha fatto rivivere. Quanto al suo fedele compagno, che morirà assai più tardi, non si possono esprimere osservazioni molto positive sulla volta da lui affrescata assieme a Giacomo Alboresi nella chiesa bolognese di San Bartolomeo. Se in genere nelle sale nobiliari si preferivano tempere incorniciate, talora Colonna in coppia con Gioacchino Pizzoli ripropone le colonne nelle pareti, ma alternate ad alberi e a giardini; una formula che risulta molto felice, ad esempio, nella cappella Sampieri, nelle sale di palazzo Cospi ed anche nella villa Arnolfini in Lucchesia. Chi però continuerà a rimanere fedele ai colonnati sia nelle pareti sia nei “cieli” furono i due fratelli Ferdinando (palazzo Costa Trettenero a Piacenza) e Francesco Bibiena (villa Della Rosa nel parmense); in seguito, a proposito delle opere della famiglia Bibiena, si parlerà persino di “persecuzione delle colonne”. Si collegano all’architettura dipinta bibienesca gli interessanti elaborati per il grande salone
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di palazzo Czernin, recentemente ricondotti, seppur dubitativamente, ad un artista che si firma “architetto bolognese”, ma che in realtà era nato a Fano: si tratta di Domenico Egidio Rossi (1659-1715), autore di importanti residenze ducali e di teatri. Nei disegni per il magnifico palazzo di Praga l’alto sfondato nel soffitto dell’anticamera viene innalzato con binati di colonne, mentre nelle pareti, sempre con un segno energico, Rossi realizza lunghe prospettive verso una virtuale corte d’onore. Nel volume curato da Sabine Frommel sugli artisti bolognesi attivi all’estero nel XVII secolo i disegni di questo artista sono stati studiati e datati ad un epoca tardo secentesca, ma sono necessari ulteriori accertamenti nella speranza di poter puntualizzare meglio la paternità di queste particolarissime quadrature; è un piacere veder ancora una volta quanto la scuola bolognese si sia affermata oltre i nostri confini. Nel Settecento a Bologna si ha raramente una finta architettura Rococò che invece esplode con grandi successi soprattutto nell’Italia del Nord, si pensi in Lombardia, in Piemonte e anche nelle ville venete; ma certo in Sicilia e nel napoletano si hanno esiti significativi soprattutto da parte di artisti importati come Giovan Battista Natali. Per il rifiorire della quadratura a Bologna bisognerà attendere il ritorno (1770) da San Pietroburgo di Serafino Barozzi che con grande levità travestirà saloni con elementi architettonici in linea con i precoci esiti neoclassici.
cappella strozzi: tra effetti illusionistici spaziali e messaggio cristiano Antonio Idda
Parrocchia di Santa Maria Novella, Firenze
La cappella già dedicata ai Santi Filippo e Giacomo e poi a San Giovanni, fu interamente rinnovata da Filippino Lippi su commissione da Filippo Strozzi il vecchio, uomo di grande ambizione che acquistò dalla famiglia Boni i diritti della cappella, nel 1486 né cedette il patronato. Il contratto con Filippino per la decorazione della cappella fu siglato nel 1487, ma i lavori vennero conclusi solo nel 1502 a causa della committenza, negli stessi anni, della cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva a Roma. Filippino Lippi di ritorno da Roma e impressionato dalle monumentali rovine imperiali e dalle guizzanti decorazioni a grottesche, compose una sofisticata scenografia all’interno della quale il racconto sacro si vivifica nel dialogo con l’antico e nell’originalità di composizione e di dettaglio; lo stile è abbondante, erudito, bizzarro, i riferimenti all’antichità coesistono con il simbolismo cristiano in una visione sincretica estremamente vivace. Il contrappunto con la cappella maggiore, Tornabuoni, è evidente. Giorgio Vasari, a proposito della cappella Strozzi posta a fianco della cappella Tornabuoni scrive …fu tanto bene condotta e con tanta arte e disegno, ch’ella fa meravigliare chiunche la vede per la novità e varietà delle bizzarrie che vi sono,
un giudizio che non possiamo non condividere. Sulle vele della volta, compaiono i 4 patriarchi dell’Antico Testamento: Adamo, Noè, Giacobbe, Abramo, illuminati dalla luce divina, sorretti da nuvole brulicanti di angioletti, ammontati di ampi panneggi e dotati di iscrizione significative. Sulla parete sinistra sono rappresentate due scene della vita si S. Giovanni: in alto il supplizio che il Santo avrebbe subito a Roma sotto l’imperatore Domiziano, venendo immerso in un calderone di olio bollente. S. Giovanni sarebbe sopravvissuto alla prova e sarebbe stato in seguito esiliato a Patmos, dove sarebbe infine morto di morte naturale. La scena si svolge all’interno di una corte, inquadrata da maestose rovine imperiali, i cui fasti sono evocati anche da una sovrabbondanza di anticaglie e trofei militari; l’imperatore è cinto
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di alloro mentre intorno figurano i soldati, riccamente abbigliati, e i carnefici dall’apparenza brutale. In basso campeggia la risurrezione della giovane Drusiana durante la sua processione funebre con lo stupore e la sorpresa dei portantini e degli officianti. Sula parete destra, compaiono due scene della vita si S. Filippo: in alto la crocifissione del Santo, il paesaggio è scabro, circondato da muraglie e colonnati crollati e invasi dalla vegetazione; il Santo viene issato a forza dagli aguzzini su un legno mentre a terra sono rimaste le zappe e le vanghe della buca. Assistono alla scena due militi riccamente abbigliati, che hanno le sembianze di Filippo Strozzi e di suo figlio Lorenzo. In basso l’artista mostra il miracolo del Santo; secondo la legenda Aurea, mentre il Santo sta predicando in Scizia è costretto a recarsi al tempio di Marte per sacrificare al dio, durante il rito il diavolo sbuca alla base dell’altare in forma di drago uccidendo con il suo alito pestilenziale il figlio dell’officiante; il Santo lo sconfigge in nome di Cristo resuscitando poi il ragazzo. La parete di fondo è animata da una ricca e complessa architettura dipinta, densa di citazioni bibliche in riferimento alla salvezza, dominata dalla vetrata gotica che si imposta al limite dell’arcosolio sepolcrale, posto dietro l’altare realizzato da Benedetto da Maiano fra il 1490 e il 1495, e dalla macchina architettonica dipinta che aggetta dalla parete con le sue due colonne impostate su alti piedistalli che vengono ad inquadrare l’arcosolio e l’altare. Finge una edicola riproponendo un motivo proprio delle pitture parietali del terzo stile pompeiano. È evidente un attento studio delle proporzioni degli elementi architettonici; infatti queste colonne virtuali con l’architrave hanno l’altezza che eguaglia quella dei finti pilastri angolari e quella del fusto della colonnina angolare reale della cappella gotica fino all’imposta del capitello. Il pittore affida il collegamento fra gli elementi architettonici dipinti ai capitelli e al brano di trabeazione dorati dei pilastri, dai quali si affaccia il capitello litico gotico, elementi che trovano continuità nelle cornici virtuali, che percorrono la parete di fondo, e si raccordano alla finta trabeazione del costrutto architettonico virtuale dipinto nei colori dell’architettura reale. Diversamente l’architrave che chiude in alto le scene laterali non si raccorda organicamente a queste membrature, ma è pensata come su di un piano arretrato, interferente con esse. È questo, se vogliamo, uno degli esempi ante litteram a Firenze di quadraturismo.
presentazione Diego Lumare
Arcidiocesi di Firenze
Nel presentare il quarto volume di raccolta degli atti del convegno, inaugurato nel prestigioso spazio dipinto della cappella Strozzi in Santa Maria Novella e poi svolto in una sala dell’attiguo ex convento della chiesa domenicana, colgo l’occasione per ricordare gli importanti contributi che hanno caratterizzato i tre giorni della manifestazione. Il quadro degli studi sul genere pittorico del quadraturismo assume un aspetto di particolare importanza, sia per la continuità che lega questa iniziativa alle precedenti, sia per l’originalità degli scritti che gli studiosi hanno presentato. Il risultato permette di spaziare in un vasto panorama artistico internazionale e nazionale che, come sempre auspicato da Anna Maria Matteucci, contribuisce, tappa dopo tappa, ad approfondire i temi portanti della grande rivoluzione barocca della decorazione a “quadratura” che, a partire dal I° convegno internazionale tenutosi a Rimini nel 2002, trovano in questa occasione fiorentina ulteriore conferma. Negli interventi degli studiosi emerge una attenta e puntuale caratterizzazione geografica, artistica e documentale, con Andrea Spiriti che indaga sulla nascita del quadraturismo in Lombardia attraverso lo studio dell’opera del Bramante a Castiglione Olona, territorio interessato da altri pregevoli e interdisciplinari interventi di Michela Rossi, Michele Russo, Giampiero Mele, Vittoria Orlandi Balzari, Beatrice Bolandrini e Laura Facchin. Anche il Piemonte svela il suo aspetto artistico e formale con la relazione di Maria Vittoria Cattaneo che ha studiato l’opera dei Galliari nel castello di Piea in provincia di Asti; Rita Binaghi illustra un intervento di Giovannino Galliari nel palazzo dell’Accademia delle Scienze di Torino, cosi come Marina Dell’Omo indaga i Giovannini tra Novara e Vercelli. Molto bene rappresentata è anche l’Emilia – Romagna, terra dei Bibbiena, con i saggi di Marinella Pigozzi, Cristian Prati, Andrea Manti che indagano episodi inediti a Bologna e Anna Maria Matteucci che approfondisce il rapporto fra quadraturisti bolognesi e quadraturisti bresciani nel palazzo ducale di Sassuolo. Giuseppe Amoruso illustra le annotazioni di cantiere di Sebastiano Ricci e Ferdinando Bibbiena nell’oratorio del Serraglio a San Secondo Pavese mentre Anna Còccioli Mastroviti propone un significativo aggiornamento del catalogo di Francesco Natali. Nell’ampia campagna ravennate Marta Porcile ha studiato l’apparato
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decorativo della Galleria del Cardinale in palazzo San Giacomo a Russi, svelando un episodio di quadratura inedito e in avanzato stato di fatiscenza. Gli altri interventi spaziano dal Veneto alla Liguria con il saggio Agostino De Rosa, Andrea Giordano, Cosimo Monteleone, Rachele Angela Bernardello, Mirka Dalla Longa, Emanuela Faresin, Isabella Friso, Giulia Piccinin sull’architettura dipinta della Scoletta del Carmine a Padova e Cristina Càndito che ha illustrato una decorazione genovese. Anche la Toscana trova i suoi importanti riferimenti artistici nei saggi di Fauzia Farneti sul palazzo di città e di campagna dei Pavesi a Pontremoli dove operano i piacentini Natali e di Monica Lusoli che studia la decorazione a quadratura dell’oratorio della Misericordia di Vicchio del Mugello. Particolare attenzione meritano i contributi sul disegno e la prospettiva di Barbara Aterini, Sara D’Amico, Stefano Bertocci, Monica Bercigli, Paola Puma e Giuseppe Nicastro. In questo breve tratteggio non poteva mancare Roma e i riferimenti alla tradizione pozziana come nel saggio di Antonio Camassa e Giovanna Spadafora sulla finta cupola nella chiesa di Sant’ignazio a Roma. L’Italia meridionale svela i suoi apparati decorativi a quadrature negli scritti di Mimma Pasculli Ferrara con nuove acquisizioni sulla grande decorazione barocca nelle chiese e nei palazzi vescovili, così come Marianna Saccente ci parla dei soffitti a tavolato ligneo di Santa Maria degli Angeli a Brindisi e Isabella Di Liddo illustra l’architettura dipinta nelle sale del Palazzo vescovile di Melfi. Rita Valenti e Emanuela Maria Paternò rivelano il carattere della illusione prospettica rappresentata sul paliotto dell’altare maggiore della chiesa di S. Lucia alla Badia a Siracusa. In questo convegno internazionale non potevano non mancare contributi di studiosi stranieri a testimonianza dell’enorme diffusione nel mondo di questo genere pittorico ed artistico, avvenuto sulla traccia dei pittori bolognesi o di formazione bolognese nei maggiori paesi europei. Su questo argomento meritano particolare attenzione i contributi di Sara Fuentes Lázaro con una pregevole e originale analisi dei Quadraturisti piacentini operanti in Spagna al servizio della regina Farnese e lo studio di Magdalena Żmudzińska-Nowak, Assunta Pelliccio, Marco Saccucci, Karolina Chodura sul fenomeno della dilatazione spaziale e psicologica negli apparati decorativi della chiesa di San Francesco Saverio a Piotrków Trybunalski in Polonia. Su questa traccia di respiro europeo si colloca lo scritto di Alberto Sdegno e Veronica Riavis che analizzano le “Prospettive illusionistiche di Christoph Tausch nell’Europa centro orientale”. Grazie ai gesuiti e ad Andrea Pozzo l’influenza della quadratura ha raggiunto, oltre ai paesi europei, le Americhe centrali e meridionali, con particolare diffusione nel Brasile,
presentazione • diego lumare
fino a raggiungere la lontana Cina. Maria Cláudia A. Orlando Magnani illustra episodi artistici nello stato brasiliano di Minas Gerais che hanno particolare assonanza con i dettami di Andrea Pozzo e del suo trattato. Un quadro dell’enorme fortuna di questo genere pittorico è testimoniato dallo scritto di Renata Maria De Almeida Martins, Luciano Migliaccio che illustrano l’opera di artisti e gesuiti tra Europa, Cina e Brasile. A questo convegno non poteva mancare il contributo dello studioso brasiliano Magno Mello Moraes che ha analizzato la quadratura tra Settecento e Ottocento in funzione dell’esperienza luso-brasiliana. Il convegno è stato arricchito da contributi interdisciplinari su studi particolari di ricerca e analisi dei principi prospettici utilizzati nella “costruzione” dell’architettura dipinta rappresentata dal grande ciclo pittorico della quadratura.
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titolo libro • nome cognome
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Fig. 1 Lorenzo di Pietro il Vecchietta (?), Natura morta, loggia, Palazzo Branda Castiglioni, Castiglione Olona (dopo il restauro 2018) ยง.
bramante, castiglione olona e la nascita dell’architettura dipinta lombarda Andrea Spiriti
Università degli Studi dell’Insubria, Italia
Abstract The ideal city of Castiglione Olona was founded in 1422 and almost completed within 1433 under the patronage of cardinal Branda Castiglioni. It was conceived as it was a microcosm able to represent the European macrocosm. After forty years, Donato of Angelo called il Bramante visited Castiglione Olona. It would be a real impressive paradigm of experiences, especially considering the relationships between architecture and painting and the consequent origin of Lombard illusionistic painting. We can just consider some masterpieces, as the illusive Still Nature painted in the open gallery of Branda Castiglioni palace; the connections between the fresco and the stone funeral monument in the Collegiate church; the double depiction of the 1436 project for the rebuilding of Saint Peter basilica in Vaticano as a Martýrion with a central domed plan in the Baptistery and in the Collegiate church. It would have certainly inspired the real reconstruction design by Bramante from 1506. But we must also consider the painted background in the Baptistery frescoes, though conceived with architectonical limits, the illusive effect of the real window which lights up the painted image of Saint John the Baptist in jail, the perspective architectures. Also in the Corpo di Cristo church we can find interesting suggestions: the references to Constantinople churches, the effective eucharistic symbology, the investigation on the dome structure. For all these reasons Castiglione Olona can be considered an exemplar reference for Bramante. On the other hand, the echo of Bramante’s lesson, can be find in Castiglione in the frescoes painted at the beginning of XVITh century in the oratory of the Madonna della Rosa, in this paper attributed to Giovanni Lampugnani. Keywords Bramante, Castiglione Olona, città ideale, San Pietro in Vaticano, Giovanni Lampugnani
Per quanto oggetto di contributi sempre più raffinati ed agguerriti (epitomi per la pittura in Ceriana 2015; per l’architettura in Adorni, 2017) il ventennale soggiorno di Donato di Angelo detto il Bramante nello Stato di Milano (1478-1499) fatica a distaccarsi da un paradigma corretto ma limitato: quello del grande architetto e in subordine pittore. In realtà, la qualità formativa della precedente stagione urbinate appare epicentrata sulla prospettiva non solo come scienza matematica, ma sul suo ruolo di perno fondamentale fra architettura e pittura. Bramante è architetto e pittore anzitutto in quanto prospettico: in quanto cioè
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portatore di un tasso astraente dalla tridimensionalità, allusa perché non fisicamente presente. Questa operazione, ovviamente, non poteva contentarsi in età d’umanesimo alla tecnicità del suo procedere empirico ma doveva rientrare in una visione d’inevitabile platonismo, giocata cioè sul primato ideale del parádeigma sulla praxis, dell’idea iperurania di spazio sulla concretezza degli spazi, semmai dell’attenzione pitagorica all’harmonia mundi sull’apparente caos dell’esistere quotidiano. Platonico dunque nel senso dell’agheométretos medéis eisíto, anzi pitagorico-platonico nel senso ormai inscindibile che, anche grazie al crogiuolo milanese, il termine aveva assunto in contrapposizione ad aristotelico-scettico e ad epicureo-cinico, per quanto relativi e strumentali questi termini avessero finito per essere. La prima città ideale della modernità (Spiriti, 2018), paradigma ineludibile fino al presente, era stata fondata dal cardinale Branda Castiglioni nel 1422, e alla sua morte nel 1443 era sostanzialmente conclusa nel suo significato non certo di “isola Toscana di Lombardia” (affermazione la cui stoltezza non poteva che tradursi in lunga fortuna critica), bensì di microcosmo riassumente, in sintesi originale ed armonica, il macrocosmo europeo, ponendosi quale paradigma (e perciò “ideale” anche nel senso di “esagerata” rispetto alle possibilità di riproduzione) per una nova aetas segnata dal trionfo ecclesiale al quale il presule aveva collaborato in modo non secondario: la fine dello Scisma d’Occidente, il compromesso con l’hussitismo, la sconfitta del conciliarismo, la ricomposizione dello Scisma d’Oriente. Una concordia discors, dunque, basata sull’armoniosa coesistenza dei diversi in una sintesi capace di non mortificarne le originalità: quanto insomma teorizzato dal più stretto ideologo dell’ultimo Branda, il grande Niccolò di Cusa. Sarebbe interessantissimo capire quanto il Bramante conoscesse del Cusano: ma anche l’applicazione castiglionese, con le sue novità anche brusche (bastino i tre straordinari oculi della collegiata, di palazzo Branda e del palazzo dei familiari, con la loro non-equidistanza paradossale del centro dalla circonferenza) è vitale. Certo, la Castiglione conosciuta dal Bramante aveva ormai una stratificazione, l’almeno trentennio dell’età dei nipoti; ma gli interventi pure importanti che erano stati realizzati non avevano inficiato l’immagine, irriducibilmente brandiana, dell’insieme. Conviene dunque cogliere alcuni nodi fondamentali, non a caso pertinenti sia alla pittura sia all’architettura, di quanto nella città ideale possa aver affascinato Donato; la riprova è d’inevitabile citazionismo nella sua produzione. Per comodità, considero in modo unitario la produzione del ventennio brandiano: giacché tale doveva apparire al Bramante, certo poco interessato alle stratificazioni ed ai mutamenti di strategia in effetti presenti; e procedo per nuclei edilizi, per i quali vale la stessa logica storica.
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Primo luogo della città ideale in parallelo alla collegiata, palazzo Branda Castiglioni (Spiriti, 2018, pp. 91-108 e 143-154) è qualificato all’esterno dalla duplicità d’ingresso: uno immediato dalla via del Padre, uno mediato da un cortile di gusto nordico e d’iconografia mariana. Il cortiletto enfatizza la struttura obliqua, probabilmente aggiunta da Alberto Solari di Carona verso il 1436, con la cappella di San Martino e la sovrastante loggetta “per vedere le stelle”. A parte la suggestione di tale struttura, la sua semantica albertiana (e poi ficiniana), la forza visiva del rosone in cotto, segnalo un’idea che sarà bramantesca: quella dell’architettura “obliqua”, della simmetria solo apparente, dell’equilibrio di diversi (si pensi al nesso fra loggia e finestrone): insomma, lo schema di Santa Maria presso San Satiro in Milano. Nella loggetta, poi, un artista che ormai tendiamo a identificare con Lorenzo di Pietro il Vecchietta dipinge, a completare con singolarità il fregio inferiore, una strepitosa Natura morta (fig. 1), di forte carattere quadraturistico: la prima autonoma, dopo la lunga lezione in contesti ampi da Giotto a Tommaso da Modena. Un’anta lignea viene rappresentata aperta verso l’interno, uno stipo che mostra oggetti d’uso comune. La potenza realistica, enfatizzata dal recentissimo restauro, convive con l’illusionismo non ostentato ma fortificato dal raffronto sia col velario ornitologico alla tedesca, sia dalle sovrastanti Virtù effigiate da Paolo Schiavo, e peraltro intervallate da una colonna dipinta in evidente nesso con quelle reali. Per questa sede importa relativamente la probabile discendenza del ciclo da quello perduto di Masolino per palazzo Orsini a Montegiordano in Roma (Delle Foglie, 2011); molto il modello della simulazione tridimensionale, premessa inevitabile sempre per San Satiro. Nella collegiata dei Santi Stefano e Lorenzo (Spiriti, 2018, pp. 75-90 e 119-142) ritengo primaria l’importanza delle prime due pareti a sinistra del presbiterio. Al registro superiore eseguito da Paolo Schiavo verso il 1436 (Lorenzo che dona i beni della Chiesa ai poveri e indica all’imperatore tali poveri come tesori autentici; Lorenzo che converte e battezza il carceriere) corrisponde quello inferiore realizzato dal Vecchietta verso il 1437 (Martirio di San Lorenzo; Sepoltura di San Lorenzo). Ma questo schema in fondo prevedibile – e simmetrico rispetto alle fronteggianti Storie di Santo Stefano – viene complicato, credo dal 1440, con la distruzione del particolare di Lorenzo sulla graticola, sostituito dall’arcosolio con la tomba lapidea di Branda; mentre un frammento della Sepoltura viene cancellato per far posto al tabernacolo eucaristico. La valenza simbolica è chiara: Branda, anche per intercessione dei suoi Patroni, si augura almeno le fiamme purgatoriali, certo della salvezza presente nell’Eucarestia. Un messaggio così importante da modificare con radicalità opere di pochissimi anni prima; ma anche una straordinaria coazione di pittura e scultura, accentuata dal confronto implicito fra il corpo di Branda e quello di Lorenzo. Qui Vecchietta raggiunge un vertice della propria arte: il corpo nudo in prospettiva (ossia l’applicazione scientifica della prospettiva
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Fig. 2 Vecchietta, Martirio di San Lorenzo, presbiterio, Collegiata dei Santi Stefano e Lorenzo, Castiglione Olona. Fig. 3 Vecchietta, Progetto per San Pietro in Vaticano, particolare della Sepoltura di Santo Stefano, presbiterio, Collegiata dei Santi Stefano e Lorenzo, Castiglione Olona.
all’anatomia umana) è una premessa inevitabile –e a quel che mi risulta mai rilevata – al Cristo morto del Mantegna oggi braidense (1475-1478?: Bandera, 2013). Un elemento ancora più importante ci viene dallo sguincio sinistro della monofora destra, dove sempre il Vecchietta effigia, a sfondo della Sepoltura di Santo Stefano, un edificio classico a colonne ioniche (quasi un Colosseo rivisitato), una città murata (intuibile la Colonna Traiana) e un tempio cristiano a pianta centrale cupolata con emicupole laterali e grandi esedre (fig. 2). Colpiscono particolari come la galleria colonnata cieca della cupola o quella che congiunge in basso esedre e pareti, oppure lo pseudotimpano della parete a capanna con arcate cieche salienti. Ho già insistito a più riprese sulla stretta analogia di questa immagine con l’edificio a pianta centrale cupolata (fig. 3) che compare nell’Imago Romae masoliniana sulla controfacciata del Battistero e che la topografia rende certo trattarsi della basilica di San Pietro in Vaticano. Lo straordinario interesse del tema può essere così riassunto: fra il 1435 e il 1437 l’entourage papale di Eugenio IV elabora un progetto di ricostruzione radicale della basilica vaticana, tale da ricondurla all’idea di Martýrion petrino e insieme da affermare il rapporto col cristianesimo orientale che stava portando alla riunificazione delle Chiese (il concilio di Ferrara, o se si preferisce la riconvocazione a Ferrara di quello di Basilea, inizia nel 1438); questo progetto, rimasto tale, è per Bramante una fonte decisiva per la realizzazione dal 1506 della nuova basilica vaticana voluta da Giulio II. Sul primo tema, il contesto è noto: dal 1433 il segretario pontificio Cristoforo Garatoni aveva dato inizio a quella paziente spola diplomatica tra Firenze (sede de facto del papato) e Costantinopoli per tessere la trama dell’unione. Il 17 maggio 1437 papa Eugenio IV invia a Costantinopoli una legazione capeggiata dal cardinale-nipote Francesco Condulmer e della quale fanno parte l’arcivescovo di Porto Antão Martins de Chaves, il vescovo di Digne Pierre de Verceil, l’immancabile Garatoni, ed il brillante prevosto di Magdeburgo, il trentaseienne Niccolò Cusano; e da questo momento ha inizio il moto che terminerà a
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Firenze con l’unione della Chiesa (6 giugno 1439). Dunque è ragionevole pensare che lungo il quarto decennio l’attenzione della curia per il tema unionista si sia tradotto nel progetto per una ricostruzione del tempio vaticano volta appunto ad esaltare le radici comuni della cristianità e il ritrovato dialogo col mondo bizantino. Lo schema edilizio presenta in effetti chiari rimandi alla basilica costantinopolitana, ma anche un’occidentalizzazione come quella del mondo veneto dal quale il pontefice stesso proveniva (San Marco a Venezia, Sant’Antonio a Padova): papa Condulmer diveniva così il ponte naturale fra Occidente e Oriente. Ma il tema per noi più interessante è la percezione che Bramante ha tratto da questi due affreschi. Il primo dato è l’idea stessa che la basilica vaticana potesse essere oggetto di un atto squisitamente umanistico: la riscoperta delle sue radici simboliche nella negazione della sua storia concreta. In altre parole: alla realtà concreta dell’edificio a pianta longitudinale voluto da Costantino e ampliato lungo tutto il medioevo si sovrapponeva la perfezione artificiale ma classicista del Martýrion a pianta centrale; l’acquisita percezione della rottura storica con l’antichità implica la possibilità di una sua resurrezione antica ma moderna, per dirla con Garin. Per il cristianesimo questo implicava anche una unitatis redintegratio che in ultima istanza era la ricomposizione del Corpo Mistico: ecco perché la pianta centrale cupolata, con il suo carico semantico, appariva d’obbligo. Ai nostri fini, appare rilevante un ulteriore passaggio, quello del mezzo tecnico. Posta l’esistenza di un concreto progetto nella curia eugeniana, da tale paradigma derivano gli affreschi castiglionesi, a loro volte fonte dei progetti e della iniziata realizzazione del Bramante. In altre parole: l’architettura dipinta gioca un ruolo nodale per il passaggio dal modello ideale alla prassi edilizia, con tutti i sottintesi platonici del caso. Con questo non si vuole certo identificare nel doppio caso castiglionese l’unica fonte ispiratrice del progetto vaticano del Bramante, ben consci di quanto abbia pesato l’esperienza milanese a partire da San Lorenzo Maggiore; ma solo identificare una decisiva filiera ideale. Dimensioni diverse, e ancor più cogenti sul tema dell’architettura dipinta, sono coglibili nel Battistero (Spiriti, 2018, pp. 155-168). Ritengo di poter dare per scontato i dati generali sull’edificio e sulla sua figurazione masoliniana (1433-1436 ca.) e insisto su alcuni snodi: La voluta non corrispondenza fra i limiti fisici delle pareti e l’estensione dei fondali paesaggistici (in specie rocciosi) e delle rappresentazioni (a cominciare dal Battesimo): un paradigma che si sviluppa era nato nel palazzo papale di Avignone con Matteo Giovannetti, ma che a Castiglione assume ancor maggiore consapevolezza. Il conseguente snodarsi su più spazi parietali1 di rappresentazioni architettoniche, anche qui non rispettando le partizioni parietali. 1 Si pensi al palazzo degli Asmonei, che incomincia sullo sguincio destro della monofora centrale del presbiterio, prosegue sulla parete frontale e destra (sguinci di monofora inclusa) sempre del presbiterio, si sviluppa sulla parte destra dell’arcone e campisce la lunetta destra: in pratica, quasi metà estensione delle pareti.
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Fig. 4 Masolino da Panicale, Progetto per San Pietro in Vaticano, particolare dell’Imago Romae, controfacciata, Battistero di San Giovanni Battista, Castiglione Olona.
L’equilibrio fra una raffigurazione architettonica scabra, geometrizzante (Decollazione del Battista) di sapore neotrecentesco2 e le prospettive ora più distese (Banchetto di Erode) ora più concettuose (Imposizione del nome del Battista) ma comunque aggiornate sull’umanesimo “light” fiorentino, nel senso cioè di un rigore non ideologizzato come quello del gruppo brunelleschiano, ma addolcito da una linea più compromissoria e continuista nei confronti sia della grande lezione trecentesca sia dello stesso gotico internazionale; la linea, insomma, di Lorenzo Ghiberti e dei suoi amici. La raffigurazione, sopra l’ingresso in controfacciata, della strepitosa Imago Romae, con la sua prospettiva urbana a volo d’uccello (in realtà, dall’osservatorio semantizzato dell’Agosta) che introduce un altro livello di architettura dipinta: una città intera, di ovvio e potente valore simbolico, effigiata con precisione topografica, secondo la stessa logica che, 2 Riaffermo che il grande modello è il capolavoro di Maso di Banco, la cappella di San Silvestro di patronato Bardi di Vernio nella basilica francescana fiorentina di Santa Croce.
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credo nel 1433, aveva spinto Masolino a rappresentare Buda nella grande anticamera di palazzo Branda. L’utilizzo, a fini ormai di puro illusionismo architettonico, della monofora alla parete destra del presbiterio per illuminare simbolicamente ma anche fisicamente Giovanni in carcere (fig. 4). A rendere ancora più innovativa questa esperienza quadraturistica provvede la griglia dell’inferriata, nella quale parrebbe difficile non intuire una premessa, mediata appunto dal Bramante, della Liberazione di San Pietro (1513-1514) di Raffaello nelle stanze vaticane di Giulio II. Si può quindi sostenere che il Battistero rappresenti il punto più alto della riflessione castiglionese sui nessi fra pittura e architettura, con un incontro quasi frenetico di temi e problemi; e che sia un momento decisivo per la formazione del Bramante. Una controprova ci viene dall’ultimo grande ambiente della città ideale: la chiesa del Corpo di Cristo, nota come chiesa di Villa (Spiriti 2018, pp. 169-176). Rammento solo, in questa sede, come sui resti della chiesa medioevale del Santo Sepolcro venne eretto dal 1439 il nuovo edificio, non ultimato alla morte del cardinale nel 1443 e terminato invece entro la metà del secolo; pleonastico sottolineare le motivazioni cronologiche spazianti dalla fine unionista del concilio di Firenze al Giubileo emisecolare. Il primo dato interessante ai nostri fini e peraltro diretta derivazione della riconciliazione con la Chiesa ortodossa è l’evidente impianto bizantineggiante: la pianta centrale cupolata, gli enormi pennacchi connessi (e qui la citazione dell’Aghía Sophía pare evidente), forse persino l’iconostasi; in pratica, la messa in immagine ridotta di quanto progettato per il tempio vaticano. Non voglio enfatizzare questa funzione di “prova generale”, ma è impressionante l’analogia ideale col tempietto di San Pietro in Montorio (per il quale vedi Il tempietto, 2017). Comunque, il dato più rilevante sul piano simbolico è il valore di chiesa-tabernacolo: ricettacolo del Corpo di Cristo, l’edificio lo custodisce letteralmente sia nella statua del mortorio presbiteriale, sia e soprattutto nella verità sacramentale posta nel tabernacolo (non a caso un repositorium laterale nell’arcone) e forse nell’adorazione perpetua al centro assiale con la cupola, certo nella processione del Corpus Domini proveniente dalla collegiata e scandita dal tabernacolo eucaristico non a caso effigiato sul portale laterale. La chiesa, dunque, diviene lo spazio nel quale il fedele entra in contatto diretto con la Presenza, letteralmente giungendo dentro il tabernacolo/edificio; e vivendo un’esperienza di Sacro Monte ante litteram (non rara, del resto, a Castiglione), in dialogo coi Padri della Chiesa Latina e gli Evangelisti o Profeti (oggi in Collegiata) dopo essere entrato sotto l’egida gigantesca di Antonio Abate e Cristoforo. Una così forte esperienza eucaristica trova un termine obbligatorio di riferimento nel Cristo alla colonna dipinto dal Bramante per l’abbazia benedettina cistercense di Santa
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Maria in Chiaravalle Milanese e oggi a Brera: in quel caso, con la triplice dialettica fra il corpo fisico del Cristo sofferente, il corpo eucaristico nella pisside e il corpo mistico della nave-Chiesa (Spiriti 2008). Ma la chiesa castiglionese è anche la più innovativa esperienza di cupola nello Stato di Milano prima di Santa Maria delle Grazie (e la diversa logica del battistero-sacrestia di Santa Maria presso San Satiro, coi suoi derivati trivulziani). Ometto per questa sede la disputa critica sul tasso di brunelleschismo, sui nessi col Vecchietta, sull’equilibrio fra cultura toscana e cultura lombarda: resta il fatto che, per coordinare o comunque partecipare con autorevolezza all’impresa domenicana, il Bramante dovette certo guardare alla tradizione milanese partendo da San Lorenzo; ma non poté certo ignorare il ben più recente paradigma castiglionese. Un’ulteriore considerazione: se eliminiamo idealmente dalla chiesa di Villa le peraltro importanti stratificazioni visive che dal secondo Quattrocento la riqualificano, otteniamo un ambiente dal nitore assoluto, brunelleschiano; ma anche uno spazio dove la “scienza del vuoto” raggiunge un suo vertice, quasi inquietante. Quanto cioè intuiamo dalla pergamena degli Uffizi o comunque da ogni traccia dell’idea bramantesca per San Pietro. Credo a questo punto interessante una piccola verifica del “dopo”: di come cioè il linguaggio bramantesco, partito ormai Donato per l’Urbe, abbia fruttificato. É nota e vasta la bibliografia sul bramantismo architettonico, quello pittorico rimanendo invece ancorato al grande ma in fondo ambiguo genio del Bramantino. Un caso particolare, sul quale ho già detto, mi pare quello della sala grande in villa Calchi a Calco (1505: Spiriti, 2016): certo con radici prebramantesche romane (ovvia la sala della biblioteca greca nella Biblioteca Vaticana); ma i suoi capitelli bronzei rivelano con chiarezza i rimandi a Donato, con un’inventiva illusionistica (fingere la sala campita da colonne con motti lapidei fra gli archi) di alto livello anche se un po’ sfigurata dalle vicende successive, e in dialettica con gli arabeschi leonardiani del soffitto. Caso quindi raro, e perciò notevole, di bramantismo pittorico; al quale, per tornare in area, si potrebbe aggiungere l’inedita prima sala, dal pavimento sfondato, di palazzo Castiglioni di Monteruzzo a Castiglione, con la sua sequenza di colonne alternate a rabisch leonardeschi (vicini a quelli della sacrestia della certosa di Garegnano), databile verso il primo decennio del Cinquecento anche per le analogie del fregio sommitale a delfini con quello milanese nella sacrestia vecchia di Santa Maria delle Grazie; e soprattutto gli affreschi di Santa Maria della Rosa, che riferisco senza riserve a Giovanni Lampugnani verso il 1503.
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Santa Maria della Scala
San Fedele
Fig. 1 Immagine del coro nella chiesa di San Fedele a Milano (a); immagine del coro nella chiesa di S. M. della Passione (b); planimetria di S. M. della Scala e S. Fedele (c); planimetrie di S. Fedele (d).
dipinti di legno. le tarsie prospettiche del coro di santa maria alla scala in san fedele a milano Michela Rossi
Politecnico di Milano, Italia
Michele Russo
Università di Roma Sapienza, Italia
Abstract The Jesuit church of San Fedele in Milan preserves the inlaid choir of Santa Maria della Scala church, decorated with perspective inlays in relief, which present repetitive elements and a composition like the wooden choir of San Satiro, varying the decoration of the architectural elements and the urban landscape in the background. All the panels except one have the same decoration in pairs with very similar backgrounds, but the arrangement in the choir, which has been adapted to a different space respect to the original one, is not symmetrical. The analysis tries to reconstruct the design organization, integrating the survey of both the panels and the geometry of the wooden structure, trying to clarify the questions posed by the anomalies found, suggesting the original geometry in an unequal comparison between the digital survey and the eighteenth-century drawings of the demolished church. Keywords Prospettiva accelerata, schiacciato prospettico, decorazione lignea, formelle prospettiche, coro ligneo
Introduzione L’intreccio fra l’arte della pittura, della scultura e dell’architettura ha consentito la costruzione di spazi scenografici in grado di trascendere lo spazio fisico attraverso una nuova dimensione illusoria. Tale risultato, ottenuto attraverso una serie di passaggi nei quali la sensibilità e cultura dell’artista giocava un ruolo essenziale, ha avuto una prima codifica nel Rinascimento con la definizione di una regola geometrica per la rappresentazione misurata della profondità dello spazio. La prospettiva lineare ha offerto infatti un potente strumento di controllo progettuale destinato ad affermarsi come soluzione decorativa, capace di manipolare la percezione con l’illusione di ambienti diversi da quelli costruiti. Il successo della decorazione prospettica ha trovato conferma evidente anche nella sua applicazione ornamentale al di fuori dell’ambito strettamente pittorico. Un esempio interessante è quello offerto dall’ebanisteria e dalle tarsie lignee, come nello studiolo di Federico a Urbino e dalla consuetudine di ornare con formelle prospettiche gli schienali degli scranni
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dei cori ecclesiastici, dove il ricorso alla prospettiva perde la velleità illusionistica per diventare un semplice espediente ornamentale e iconografico. Questo articolo presenta alcune evidenze emerse dallo studio delle tarsie prospettiche del coro ligneo realizzato per la chiesa di Santa Maria della Scala a Milano e poi riadattato all’interno di San Fedele. L’obiettivo della ricerca è la ricostruzione dell’organizzazione originale del coro attraverso l’integrazione del rilievo delle formelle con quello del manufatto ligneo. La ricerca della geometria originale del manufatto evidenzia l’importanza dell’integrazione di diverse tecniche di rilievo, che si dimostra necessaria per comprendere la geometria dei manufatti complessi ai diversi livelli e scale, potendo accedere ad una lettura multilivello dell’architettura. Il manufatto – due cori, tre chiese La chiesa di San Fedele a Milano, affidata da Carlo Borromeo alla Compagnia del Gesù, conserva il coro cinquecentesco della chiesa di Santa Maria della Scala (fig. 1a), che prima della demolizione si trovava dove oggi si erge il teatro omonimo1 (Pedrocchi, 1983). Il coro, nato per arredare la chiesa medievale di Santa Maria della Scala e riadattato due secoli dopo dal Piermarini ad uno spazio diverso, ha subito altri due interventi: uno nel 1763 e un restauro conservativo nel 1979 che non ne ha alterato le forme2 (Cattaneo, 1980). L’apparato decorativo presenta alcune analogie con quello coevo di Santa Maria della Passione (fig. 1b) e sono entrambi attribuiti alla bottega di Anselmo de’ Conti (Caffi, 1870; Forcella, 1974). I cori, che hanno rispettivamente 31 e 47 scranni, sono caratterizzati da due ordini di sedute uno per i canonici e l’altro per i beneficiati. I dossali degli scranni superiori, decorati con formelle prospettiche in rilievo, mostrano caratteristiche e composizione simili, variando solo le decorazioni minute degli elementi architettonici e gli sfondi, che in San Fedele mostrano scorci urbani e in Santa Maria sono ‘vuoti’. Le tarsie prospettiche disegnano una galleria semicircolare sopra il livello degli schienali, inquadrando le sedute con archi in stiacciato che riprendono, semplificandolo, lo schema del finto coro bramantesco di San Satiro, che a sua volta riprende il motivo della volta a botte tipico della composizione prospettica quattrocentesca (Rossi et al., 2018). 1 Il manufatto in legno di noce fu ultimato nel 1560 (data ritrovata nel corso del restauro) e trasportato in San Fedele nel 1775 dopo la demolizione della chiesa medievale, quando Maria Teresa vi insediò il Capitolo della Scala. 2 La chiesa fu realizzata in memoria della moglie di Bernabò Visconti e dedicata nel 1385; alla metà del XV secolo era luogo di culto della Scuola dei Maestri ebanisti di San Giuseppe ed era la chiesa della nobiltà milanese, decretata cappella regia da Carlo V nel 1535 dopo l’occupazione della città, e per questo dotata di un nuovo presbiterio al posto di una precedente scarsella, completato nel 1548, quando fu inaugurato l’altare.
dipinti di legno • michela rossi, michele russo
Il riferimento al coro di San Satiro, richiamato ad altra scala e contesto, è stato la prima ragione di interesse verso il coro di San Fedele e per lo studio della composizione iconografica. Il confronto dello schema prospettico delle sue formelle con quello bramantesco è di scarso interesse rispetto ad altre particolarità del manufatto. Queste hanno richiesto un rilievo più accurato dell’intero manufatto, concepito come struttura integrata in modo organico nell’architettura, spostando l’interesse principale dalla prospettiva della decorazione alla geometria del manufatto, per ricostruirne la composizione originaria e la natura della trasformazione successiva. Si è quindi proceduto all’analisi comparativa delle decorazioni e alla ricostruzione della geometria del coro, confrontandola con le due piante note e con il coro simile di Santa Maria della Passione3. L’analisi decorativo-prospettica Il coro ligneo, che l’altare nasconde alla vista dalla navata, è inserito tra due aperture nella terminazione semicircolare del presbiterio di San Fedele ed è costituito da due ordini di sedute disposte su archi concentrici (Dossi, 1963). L’ordine superiore ha 19 scranni disposti ad arco, quello inferiore ha due settori da sei sedute con passaggio al centro. Le sedute superiori sono sovrastate da dossali scanditi da colonne corinzie che sostengono le mensole del coronamento superiore, decorati dalle tarsie prospettiche in rilievo. Queste hanno disegni accoppiabili ma non perfettamente uguali e presentano alcune costanti con variazioni, come se fossero state realizzate da uno schema comune con un numero ridotto di cartoni. In particolare si osserva che: • tutti i fornici prospettici hanno una volta a botte a pieno sesto su setti pieni con base lineare e una cornice-capitello dorica e sono decorati con motivi geometrici realizzati ad intarsio in madreperla ed osso all’intradosso della volta e sul fronte, • gli archi hanno ghiere tripartite, raccordate alla cornice esterna; • le profondità dei piedritti sono decorate con incisioni che riproducono il disegno dell’apparato murario o ornamenti militari (stemmi e armi); • le campate sono quadrangolari con l’intradosso delle volte e il pavimento decorati a motivi geometrici intarsiati con legni diversi, che solo in alcuni casi lasciano intendere un vano quadrato; • i fornici incorniciano sullo sfondo scorci di paesaggi urbani e rovine classiche, con qualche elemento naturalistico come piccoli corsi d’acqua attraversati da un ponte e qualche albero. 3 In un lavoro condiviso attraverso un costante confronto tra gli autori, della prima parte (paragrafo 1 e 2) e delle conclusioni (paragrafo 5) si è occupata Michela Rossi, della seconda parte (paragrafo 3 e 4) Michele Russo. Per la gentile concessione del rilievo del coro di Santa Maria della Passione si ringrazia Giampiero Mele.
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pagina a fronte Fig. 2 Dossali del coro: i tre esterni sono accoppiati in modo simmetrico, il 4ds sfalsa le coppie di quelli centrali (a); comparazione fra la distribuzione degli stalli in San Fedele (sinistra) e quella ipotizzata in S.M. della Scala (a destra) (b); schema prospettico dei dossali larghi 12 once (1 piede milanese = 0,435185 m.) (c); ricostruzione del punto di vista dello stallo dal coro (d). Fig. 3 Schemi di acquisizione con i sistemi attivi: a sinistra la livella laser, a destra il laser scanner 3D (a); immagine a scala di grigi e colorata relativa ad una singola scansione della destra del coro (b); schemi fotogrammetrici: a sinistra punti di presa per l’intero coro, a destra per il singolo stallo (c); rendering del modello numerico del coro (d).
Per la comparazione, le formelle sono state identificate con numeri dagli estremi sia a destra che a sinistra guardando il coro (1sn/1ds ecc.), quella centrale corrisponde al numero 10 (fig. 2b). Il rilievo diretto dei dossali decorati conferma la regolarità dell’esecuzione e il riferimento ad uno schema geometrico comune anche nella diversa larghezza. Il punto di vista teorico risulta un po’ più in alto della metà del piedritto, e si colloca a 5 piedi milanesi (fig. 3d) dal pavimento. Esso evidenzia alcune particolarità che sembrano legate alla trasformazione settecentesca, che si è cercato di spiegare integrando lo studio delle formelle con quello della geometria dell’arredo, in particolare: • tutte le formelle, ad eccezione di una, presentano a coppie la stessa decorazione del fornice e simile scorcio urbano, con disposizione simmetrica sfalsata dall’accostamento di due formelle con fornici uguali (9sn e 10); • e decorazioni delle volte, piedritti e pavimento sono accoppiabili con la stessa combinazione e misure simili, ad eccezione della formella posizionata non al centro (4ds) ma nel lato destro; • 5 coppie presentano la stessa decorazione del fornice e lo stesso scorcio sullo sfondo, le altre 4 non sono accoppiabili e gli scorci urbani hanno punti di vista differenti; • un solo fondale ha un’immagine frontale con una cupola che sottolinea l’asse di simmetria (3ds); • le larghezze delle formelle, uguali in altezza, variano di alcuni centimetri e possono essere ricondotte a due misure principali con la differenza di un’oncia (circa 36 mm), eccetto una che ha larghezza intermedia di 11,5 once. • La geometria degli apparati prospettici (fig. 2c) dimostra l’intento decorativo delle prospettive. Queste inseriscono lo spazio del coro in un contesto urbano di fantasia con rovine ed elementi classicheggianti, forse carico di riferimenti simbolici, senza nessuna intenzione di rappresentazione realistica di spazi misurabili. Infatti, mentre si risolve con facilità la ricerca del punto principale, la distanza è indeterminata perché mancano riferimenti (geo)metrici certi e il disegno dei pavimenti non sempre riporta lo stesso numero di divisioni nella larghezza e nella profondità, che non risulta scandita in modo rigoroso, lasciando intendere un’applicazione della regola un po’ approssimativa per semplificare il lavoro dell’incisore, riducendo lo scorcio in lontananza. L’accostamento al centro di due fornici uguali (9sn, 10) ma asimmetrici rispetto all’asse del coro sembra imputabile ad un errore commesso in sede di trasformazione. La
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ricostruzione della simmetria perduta richiederebbe l’inserimento al centro della formella con fornice non accoppiato; tale sostituzione però non è immediata, poiché lo sfondo con immagine centrale (3ds) non coincide con il fornice singolo (4ds), che è anche quello di larghezza diversa ed ha specchiature all’interno dei piedritti come 3ds e 3sn. I piedritti dei due dossali esterni (1ds e 1sn) mostrano la tessitura muraria in mattoni, mentre tutti gli altri sono decorati con armi e insegne araldiche. I 4 dossali più stretti, sebbene sfalsati di una posizione, sono riconducibili a due coppie con la stessa composizione di ornato e sfondo e dovrebbero essere stati ai lati, nella parte rettilinea del coro. È improbabile che fondali di differente larghezza (circa 1 cm. di differenza) siano stati invertiti in occasione del trasporto o degli interventi di restauro. Pertanto, sembra che ci sia stato un errore di combinazione in fase di assemblaggio tra il disegno ornamentale dell’architettura e lo sfondo, che non ha consentito di mantenere la simmetria compositiva del piano progettuale (fig. 2a). Questa irregolarità induce a pensare a una causa riconducibile all’adattamento ad una geometria diversa, basata su un arco di raggio maggiore rispetto al coro primitivo, che doveva avere due sedili per parte oltre la parte semicircolare. L’ipotesi giustifica l’idea di ricostruire la disposizione originale sulla base di quanto desumibile dal rilievo e dalla documentazione della chiesa di Santa Maria della
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Scala, con un confronto impari tra il rilievo digitale del coro e i disegni settecenteschi della chiesa scomparsa4. Della chiesa restano due disegni (Della Torre, 1994) che però descrivono due situazioni planimetriche diverse. Il primo, conservato nella Biblioteca Trivulziana (Raccolta Bianconi), riporta la scala grafica, ma solo tre misure (larghezza navata e due misure sulla profondità del presbiterio). Il secondo, conservato all’Archivio di Stato, sembra riferibile alla realizzazione di una scala barocca con balaustra davanti all’altare e riporta una serie di misure in braccia, insufficienti a ricostruire la profondità del presbiterio, più lungo di quello del disegno della Trivulziana, che descrive un coro simile a quello di Santa Maria della Passione. (figg. 1c, 1d) Nella configurazione attuale l’arco absidale non è completo. L’emiciclo si interrompe a 160° per la presenza di due aperture simmetriche (una tamponata), ma il rilievo e il confronto con Santa Maria della Passione dimostrano che gli scranni più stretti dovevano essere quelli della parte rettilinea del coro, poiché in quelli radiali, mantenendo la stessa larghezza nel bordo della seduta, pari a poco più di 50 cm (1 piede e 2 once), lo schienale risulta leggermente più largo (cm. 5), cosa confermata dall’angolo tra i braccioli e lo schienale o il bordo anteriore del sedile (fig. 4d). La geometria del coro Vista la complessità del manufatto, si è pianificato l’utilizzo di differenti metodologie di rilievo al fine di trarre le informazioni qualitativamente più attendibili. Si è dunque proceduto con il rilievo indiretto dell’intero manufatto, cercando tracce che permettessero di verificare eventuali spostamenti dei seggi. Metodologie di rilievo a confronto Il contributo del rilievo diretto è stato essenziale per l’acquisizione delle informazioni necessarie all’analisi visiva dei singoli stalli. L’analisi ha evidenziato caratteristiche materiche e costruttive (lesioni, intagli, venature, cunei), difficilmente visibili con sistemi di rilevamento digitali per la dimensione e il materiale del coro. Il rilevamento indiretto si è basato sull’uso di sensori attivi, con un distanziometro motorizzato (Disto 3D, Leica) e un laser scanner 3D a variazione di fase (Focus 3D 120, Faro), e passivi con la fotogrammetria digitale, ottenendo differenti set di dati con diverse finalità (Guidi et al., 2010; Luhmann et al., 2014). Il distanziometro laser ha consentito di acquisire profili geometrici per una restituzione plano-altimetrica di notevole precisione, evitando di incorrere 4 Quando nel 1773 papa Clemente IV soppresse la Compagnia di Gesù, Maria Teresa d’Austria aveva spostato il capitolo della Scala in San Fedele, demolendo la chiesa di Santa Maria della Scala che era in condizioni precarie, per costruire il teatro della Scala.
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in possibili errori interpretativi dati dalla nuvola di punti dell’intero ambiente. Il laser scanner 3D è stato impiegato per rilevare la geometria dell’intero coro e i suoi dettagli plastici. Infine, la fotogrammetria digitale ha consentito di sperimentare la foto-modellazione degli arredi ecclesiastici, ponendo questa tecnica a confronto con le altre metodologie e valutandone i risultati. L’acquisizione dei dati La tipologia dell’arredo coro-altare presenta alcuni elementi da tenere in considerazione prima dell’avvio della fase di rilevamento, ovvero il differente livello di dettaglio del coro, dalla dimensione architettonica a quello dell’elemento scultoreo minore, nonché il limitato spazio di movimentazione strumentale che porta la creazione di importanti aree di occlusione. La presenza di una piccola scala in marmo posta nel retro dell’altare ha consentito di alzare il punto di vista strumentale, limitando le occlusioni. Infine, il materiale rende complessa l’applicazione dei sensori attivi e richiede una luce distribuita per i sensori passivi. L’assenza di quest’ultima ha determinato il fallimento della foto-modellazione. Il rilievo con la livella laser motorizzata è avvenuto posizionando lo strumento sopra un arredo sacro posto al centro del coro (fig. 3a), programmando l’acquisizione di una sezione verticale e due orizzontali con un passo di 2 cm. Lo strumento consente di mantenere una risoluzione di acquisizione costante grazie alla ribattitura del punto sui cambi di piano, con una notevole precisione nella determinazione dei punti in un unico sistema di riferimento comune. I dati così registrati sono stati importati nella piattaforma di visualizzazione digitale ed esportati in un formato di interscambio. Il rilievo attraverso il laser scanner 3D ha richiesto 5 stazioni (fig. 3a). La maneggevolezza dello strumento ha consentito una rapida esecuzione del rilievo e il posizionamento dello strumento sulla stretta scala dietro l’altare. È stata acquisita una maglia di punti con un passo di campionamento di 6 mm @ 10 metri e una ribattitura di 4 volte del singolo punto, con nuvole da 44 milioni di punti in un tempo di circa 7 minuti. Insieme al dato geometrico è stato acquisito anche quello del colore (fig. 3b), facilitando il riconoscimento delle corrispondenze fra le scansioni durante la fase di allineamento semi-automatico (ICP), che ha portato alla definizione di una unica nuvola di punti. Per la campagna fotografica si è resa necessaria una fase di test in situ per verificare il set-up ideale delle fotocamere. Con la fotocamera D3100 (Nikon), dedicata all’acquisizione dell’intero coro, è stato impostato un tempo di esposizione di 8 decimi di secondo, una sensibilità ISO400 e una apertura di diaframma di 3,6 mm. L’uso del grandangolare (35 mm) non è stato sufficiente per inquadrare l’intero artefatto, pertanto si è effettuata una serie di scatti per ogni
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Fig. 4 Modello numerico del coro ed estrazione delle sezioni attraverso intersezione con piani (a); planimetria del coro con centri di curvatura (b); analisi planimetrica dell’impianto corale (c); ingrandimento del coro di S. M. della Passione (Mele, 2012) e di S. M. della Scala con la distribuzione teoricamente originale (ipotesi) della struttura corale, con comparazione geometrica fra lo scranno originale e quello adattato in San Fedele (d).
punto di presa. La pianificazione di 10 punti di presa (fig. 3c) ha permesso di introdurre sia una baseline orizzontale che verticale entro 1/5 della distanza dall’oggetto, acquisendo un totale di 41 fotografie (4 per ogni postazione e 5 nel punto più in alto). Ad integrazione è stata condotta una campagna fotografica dedicata ad ogni singolo stallo. È stata usata una fotocamera Nex 5 (Sony) con un obbiettivo grandangolare, ISO 200 e massima apertura del diaframma, acquisendo 5 immagini per raffigurazione per garantire una corretta baseline orizzontale ed ottenere un prodotto metricamente corretto (fig. 3c). L’elaborazione dei dati La nuvola di punti ottenuta dal distanziometro laser 3D non ha richiesto elaborazione, in quanto direttamente utilizzabile per la ricostruzione di profili vettoriali al CAD. La nuvola di punti ottenuta dal laser scanner 3D è stata invece utilizzata per la generazione di un modello numerico, ottenuto attraverso un percorso semi-automatico che ha richiesto
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molto tempo in particolare per la chiusura delle numerose lacune, la fase di pulizia topologica della superficie e l’ottimizzazione nella distribuzione dei poligoni. Le zone d’ombra non hanno consentito di ricostruire un modello 3D reality-based ma solo un modello poligonale (fig. 3d) dal quale estrarre sezioni (fig. 4a). Attraverso l’integrazione dei dati del distanziometro e del laser scanner 3D è stata ricostruita la planimetria del coro, (fig. 4b), desumendo i centri degli assi dei braccioli. Il rilievo laser non fornisce in modo diretto la geometria del manufatto, richiedendo una lettura attenta degli allineamenti e dei riferimenti geometrici (fig. 4c), nel tentativo di ricostruire la forma primitiva del coro (fig. 4d). I set di immagini sono stati orientati ed elaborati in un sistema fotogrammetrico fondato sulla Structure from Motion (SfM), definendo una nuvola rada di punti omologhi, una nuvola densa di punti colorati e un modello poligonale texturizzato. Quest’ultimo non è stato utilizzato per l’analisi geometrica vista la presenza di un dato molto rumoroso, originato dalla scarsa e non uniforme illuminazione del coro. I modelli 3D dei singoli stalli hanno invece consentito di generare orto-immagini ad alta risoluzione di ogni raffigurazione prospettica. Ciò ha consentito di creare un database di immagini metriche delle 19 raffigurazioni lignee utile per l’analisi comparativa fondata sul riconoscimento dei medesimi riferimenti iconografici e sull’impianto geometrico dello sfondato prospettico. A conclusione della esperienza di rilevamento dell’intero apparato corale, è chiaramente risultata vincente l’applicazione delle metodologie fondate sull’utilizzo di laser scanner 3D, in grado di superare i problemi evidenti di illuminazione ambientale, comportando la generazione di un modello fotogrammetrico non accettabile. Conclusioni La differente decorazione e le diverse larghezze dei dossali inducono a ipotizzare una simmetria progettuale perduta. I mancati accoppiamento dei dossali simmetrici e quello tra fondale e fornice di quello centrale, documentano che nella trasformazione i sedili e i dossali sono stati ricollocati in diverso e dovendo ridurre il numero delle formelle prospettiche, si sia rotto l’accoppiamento, per un motivo che il solo rilievo non può chiarire. Dovendo ridurre il numero dei sedili a causa della posizione delle aperture, è possibile che la trasformazione non abbia mantenuto l’accoppiamento per riutilizzare i dossali in condizioni migliori. Infatti, il raggio originale del coro, pari a circa piedi 7, non è compatibile con i centri di curvatura rilevati nel manufatto, addirittura maggiori di quelli dell’abside di San Fedele. Pertanto il riadattamento del coro ha richiesto importanti lavori di falegnameria, testimoniati dal rilievo diretto, che mostra numerosi tagli irregolari. Come il mancato allineamento dei braccioli al centro geometrico dell’arredo, più evidenti nell’ordine inferiore, queste irregolarità si
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spiegano come conseguenze della trasformazione, con l’allargamento e la perdita di due posti per ogni ordine, con lo scarto dei due dossali più rovinati. La comparazione geometrico-metrologica tra la pianta di Santa Maria della Scala e il rilievo del coro di Santa Maria della Passione eseguito da Giampiero Mele (fig. 4d) evidenzia la similitudine delle dimensioni dei due cori e ha permesso di ipotizzare la configurazione primitiva dell’arredo che oggi si trova in San Fedele: con il posizionamento di tre coppie di scranni sui lati rettilinei del coro, tra la semicirconferenza absidale e la coppia di paraste che lo delimitava, essa è compatibile con le diverse larghezze dei dossali prospettici e con una originale simmetria della decorazione dei dossali.
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Fig. 1 Frontespizio dei trattati di Vignola e Troili con alcuni estratti dei trattati di Vignola, Troili, Palomino, Pozzo (immagine: Giampiero Mele).
“di sotto in su”. analisi geometrica di alcuni esempi di prospettive in lombardia Giampiero Mele
Università degli Studi eCampus, Novedrate (Co), Italia
Abstract The XVII century, in Lombardia, is characterized by a number of examples of “quadrature” downside-up depicted on the vaults and ceilings of palaces and villas. Some of these paintings have been listed and studied with the aim of finding the methods that contributed to influence the Andrea Pozzo’s perspective principles during the years of his training. The vault of Visconti Palace in Canegrate, the ceiling and the vaults of Moroni Palace in Bergamo, and the vaults of Calderara Palace in Vanzago are few examples showing, through the various types, the high level reached, in the field of quadraturismo, within the Lombard area during the second half of the XVII century. In all these cases, the illusions show architectural scenes seen from one or more viewpoints. The present study unveils the practical devices to acquire and to describe such kind of works and the painter’s geometric thought developed to give the illusion of a wider space, made possible with a perspective artifice. Keywords Rilievo, Geometria, Prospettiva, Quadraturismo, Architettura dipinta.
Introduzione Un’ampia ricerca di interesse nazionale condotta a partire dal 2010 dal titolo “Prospettive Architettoniche: conservazione digitale, divulgazione e studio”1 è stata l’occasione per studiare in maniera approfondita alcuni tipi di prospettive dipinte su soffitti e volte nell’area milanese. Fra i vari dipinti ne sono stati considerati solo tre: quello sulla volta di palazzo Calderara a Vanzago (1641), quello sul soffitto di palazzo Moroni a Bergamo (1652) e quello sulla volta di palazzo Castelli-Visconti di Modrone a Canegrate (1675). Questi tre esempi sono stati valutati significativi per la tipologia delle applicazioni delle regole descrittive utilizzate per la composizione della prospettiva. La spiegazione dei diversi modi di operare si trova nei trattati del Vignola (1583) e del Troili (1683) di area bolognese, di Pozzo (1693-1700) scritto a 1 Il coordinatore Nazionale è stato il prof. Riccardo Migliari dell’Università di Roma “La Sapienza” e quello dell’unità milanese la prof. Michela Rossi.
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Fig. 2 Rilievo integrato della volta di palazzo Calderara a Vanzago (Mi) e del soffitto di palazzo Moroni a Bergamo (immagine: Giampiero Mele).
Roma ma ideato in area lombarda e di Palomino pubblicato in Spagna (1723). La descrizione della costruzione delle prospettive “di sotto in su” è esaustiva nelle operazioni per ricavare il disegno prospettico ma è carente in quella del modo di operare per trasferire il bozzetto su una volta o su un soffitto. La prima distinzione che si evidenzia riguarda l’utilizzo di uno o più punti di vista per generare il disegno in prospettiva; la seconda è relativa al centro di proiezione utilizzato dall’artefice per proiettare il disegno sulla superficie da dipingere. In quest’ultimo caso il centro di proiezione può essere un punto proprio e coincidente con quello di vista o improprio. Tutti questi modi di operare producono degli inganni che funzionano a livello visivo ma che sono ritenuti, dagli stessi artefici, più o meno corretti. Un trompe-l’oeil non può realizzarsi senza il progetto dell’impianto architettonico da mettere in prospettiva e che sarà, poi, proiettato sulla copertura di quel determinato vano. Il progetto dell’architettura di uno sfondato prospettico deve essere prima definito e rappresentato in pianta, sezione e prospetto, per essere tirato in prospettiva. Quest’ultima deve essere riproiettata sulla superficie da dipingere. A questo proposito è necessario puntualizzare cosa s’intende per quadratura perché ciò che viene definito con il termine Quadraturismo è ancora incerto. La stessa storiografia non opera una distinzione netta fra pittura murale di architetture illusorie e quadratura. Si potrebbe definire la prima come la rappresentazione bidimensionale su una superficie, operata per mezzo del disegno, del colore e delle leggi della prospettiva, di uno spazio a tre dimensioni e la seconda come un genere artistico che combina elementi della pittura e dell’architettura, preferibilmente distribuiti su soffitti o volte, in grado di modificare la percezione dello spazio reale attraverso l’estensione e la fusione con la rappresentazione di uno spazio architettonico immaginario ragionato ad hoc. Dalle due definizioni emerge una lieve differenza che diventa sostanziale se si prende in considerazione la coincidenza o no del punto di vista che ha generato la proiezione prospettica piana con il punto di proiezione della prospettiva sulla superficie, sia essa
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verticale, orizzontale, piana o no. Potremmo dire che è quadratura quando il punto di vista coincide con quello di proiezione? Quando l’inganno è perfetto da un punto? Questo studio intende mettere in relazione i tre esempi rilevati e studiati con la trattatistica del periodo con l’intento di mostrare tre diversi approcci che si rifanno a posizioni precise accolte dagli artefici riguardo l’avanzamento della scienza prospettica nell’affrontare il problema della decorazione attraverso lo stratagemma dell’inganno. Il problema nella prospettiva “di sotto in su” nei trattati di Vignola, Troili, Pozzo e Palomino L’analisi del problema della rappresentazione pittorica delle prospettive architettoniche su soffitti o volte rintracciata nei trattati consente una spiegazione del problema prospettico/ proiettivo, e della sua variabile complessità, in chiave sincrona. La lettura di Le due Regole della Prospettiva pratica scritto da Jacopo Barozzi da Vignola si è concentrata sul “modo di fare le prospettive nei palchi, e nelle volte, che si veggono di sotto in su” (Vignola, 1583, pp. 86, 87, 89). Qui l’autore descrive come operare su soffitti piani dando le indicazioni per individuare il punto principale e il punto di vista. Per avere una prospettiva con un unico punto di vista e creare l’illusione di una altezza maggiore del vano, l’osservatore deve stare al centro della stanza e la distanza principale dal soffitto è funzione dell’angolo del cono ottico. Il Vignola suggerisce di preparare il disegno in prospettiva solo di un quarto della quadratura e avverte “che nel fare li cartoni […] è commodissima cosa il fargli in terra nel pavimento, per non avere a salire sopra i ponti, e potere con i fili tirare tutte le linee che ci bisognono, […] e il simile diciamo nel fare i cartoni delle volte” (Vignola, 1583, p. 89). Ignazio Danti nel commento alle prospettive dipinte nelle volte concave afferma “di aver cavato la presente regola” dalla figura del capitolo terzo del Vignola e descrive il processo per ricavare le altezze ridotte in prospettiva. Dal disegno associato alle poche righe di Danti si evince la possibilità di proiettare la prospettiva sulla volta da un centro improprio (fig 1e). Il punto interessante è riportato in un passo successivo della stessa pagina dove viene spiegato che fatto il cartone lo si riporta sulla volta mettendo al centro un filo che contenga sia il punto principale sia quello di vista. Da quest’ultimo “mireremo tutte le linee perpendicolari, e quelle che non risponderanno giustamente, s’andranno racconciando, tanto che battino giusto con il filo: poi tireremo due altri fili a traverso della stanza con l’arcopendolo, che stiano a livello, e s’incrocino, […] traguarderemo tutte le linee piane per quei fili, e quelle che non gli rispondono, le andremo correggendo” (Vignola,1583, p. 89). Secondo Danti bisogna fare particolare attenzione a quelle volte, tipo quella a schifo, dove oltre alla regola è fondamentale anche la pratica. Anche Giulio Troili nel trattato Paradossi per praticare la prospettiva senza saperla, fiori, per
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facilitare l’intelligenza, frutti per non operare alla cieca si pone sulla linea di pensiero del Vignola-Danti2. La descrizione per riportare il disegno della griglia sulla volta, tuttavia, sembra riferirsi ad operazioni diverse. Troili, descrivendo il metodo per riportare la griglia di fili che Pozzo indica come la seconda graticola, dice: per le linee piane, che non si possono tirare, […] si traguardi mendiante un filo, che sia a livello […] stando l’occhio nel mezzo della stanza dal punto A e tragradando per detto filo, e quelle che non corrispondon, si vanno correggendo, ovvero si appende un altro filo al punto A e lo si fa toccare o frizzare per il filo a livello, che con l’estremità di questo punteggiando la volta, si avrà una linea curva che all’occhio nel punto A apparirà dritta (Troili, 1672, pp. 106, 107).
La parte più interessante nel Troili è relativa alla figura corredata al testo che spiega il disegno per ricavare le prospettive nei soffitti piani. Nella Prattica XLV l’autore descrive le operazioni compiute per ‘degradare’ il disegno. Una volta rappresentata la pianta delle colonne sul perimetro della stanza, annotate con X, e assunta BC come linea di terra e BD come quella per ricavare le altezze, si vede come, trasponendo il profilo delle colonne dalla linea PF a quella di terra e portando i suoi punti a quello di distanza E, le intersezioni con la linea BD danno le altezze ridotte in prospettiva (fig. 1d). La lettura del trattato di Andrea Pozzo, Perspectiva pictorum et architectorum3 contiene poche notizie sul modo di proiettare la prospettiva sulla superficie della volta tutte concentrate nel commento alle figure 100 e 101. Nella 101 è rappresentata una griglia in pianta di 16 x 34 moduli quadrati, uno schema delle sezioni longitudinale e trasversale e una visualizzazione prospettica del vano dove si vede il punto O e una griglia quadrettata posta sul piano d’imposta della volta. Nel testo a corredo della figura 100 Pozzo descrive un procedimento per far comprendere al lettore l’idea di proiezione di una prospettiva da un centro, coincidente con quello di vista, su una superficie voltata. Egli scrive: Per le volte però convien fare tre graticole. La prima deve esser nel disegno, che sia fatto in prospettiva con la regola del sotto in su. La seconda graticola deve essere di spaghi in aria, la cui forma geometrica è in M. Il luogo de’ chiodi, che sostengon gli spaghi è nelle linee A,B, E,F[…].Il punto dell’occhio è O; la distanza L,O. Pertanto se vi immaginerete, che essendo in O, il lume d’una candela o lucerna in tempo di notte, dalla rete di spaghi si gettino le ombre nella Volta, tirando i colori su tali ombre, sarà fatta la terza graticola, che è necessaria a dipinger la Volta. Ho detto, se vi immaginerete, poiché essendo la volta coperta da più tavolati, e lontana dalla rete, e molto più dal lume, o non possono gettarvi ombre, o non possono essere si gagliarde, e definite, come bisognerebbe; per tanto convien usare molta industria per ottenere il fine desiderato (Pozzo, 1693-1700, fig. 100) fig. 1g). 2 Il trattato è stato revisionato e integrato dopo la morte dell’architetto bolognese da lunghi commenti del matematico e cartografo Ignazio Danti. 3 Il primo volume del trattato di Pozzo è stato edito nel 1693 ed il secondo nel 1700.
“di sotto in su” • giampiero mele
Del disegno, la prima griglia, Pozzo non dice né le dimensioni né dove lo colloca, questione spiegata da Vignola e Troili e descrive la seconda e la terza griglia. Da queste letture nasce l’ipotesi che vede un disegno proporzionale riportato sul pavimento e collocato al centro della stanza, speculare rispetto alle mediane, di dimensioni simili a quelle della pianta del vano al netto delle murature. Un filo, teso, attaccato dal centro del pavimento a quello del cervello della volta sul quale si riportata l’altezza del punto di proiezione O utile alla proiezione del disegno direttamente sulla volta (fig. 4). senza passare dalla seconda griglia. Il filo che unisce punti del disegno passando da O individua il punto corrispondente sulla volta. Palomino ne “Il Museo Pictorico y Escala Optica” descrive la fig. 4 della Lamina 10 (Palomino, 1723, p. 181). Qui è raccontato il sistema per ottenere le altezze in una prospettiva di sotto in su ‘alla maniera italiana’. L’esempio fa vedere una prospettiva centrale ottenuta dall’utilizzo di quattro punti di fuga. Egli non spiega la relazione per il posizionamento dei quattro punti ma illustra come determinare le altezze per l’individuazione di un’architettura di tipo chiuso a cortile. Nella descrizione l’autore mostra, in pianta, il rettangolo della stanza nella quale dipingere la prospettiva su un soffitto piano e tira le diagonali per individuare il punto principale. Egli prepara un cartone pari ad un quarto della stanza, lo pone sul pavimento e individua le mediane della stanza sulle quali saranno collocati i quattro punti di fuga delle rette verticali al quadro. A tal proposito egli scrive: Pretendo yo levantar un edificio sobre la linea d, h, che tenga de altura tanto como la misura d, h. para lo qual tiro desde el angulo d, la linea punteada à el punto de la vista e; y despues desde el punto h, tiro a el punto de la distancia, che està fuera, la linea h,K, que cortarà la d, e, en j, y hasta allì serà el escorzo, ù degradacion justa de un edificio de la altura d,h, […] y tirando la j,m, parallela à d,h, darà la degradacion de todo aquel costado, contenida en el trapecio d,j,m,h (Palomino, 1723, p. 181) (fig. 1f).
Non è specificato il modo per ottenere i quattro punti di fuga ma si capisce che per assegnare qualsiasi altezza si deve stabilire la quota sul lato lungo della stanza e dal punto tracciare la parallela alla diagonale della stanza. Dal rilievo integrato all’analisi geometrica delle coperture di Vanzago, Bergamo e Canegrate I nuovi metodi di rilevamento indiretto hanno sviluppato software capaci di produrre modelli di rilievo tridimensionali texturizzati di elevata qualità metrica partendo da semplici foto digitali. La documentazione prodotta dalla SFM4 ha riscosso notevole successo tanto da essere 4
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Fig. 3 Sovrapposizione della griglia di 1x1 piedi milanesi agli ortofotopiani delle volte di palazzo Calderara a Vanzago, elaborazioni grafiche sovrapposte all’ortofotopiano del soffitto di palazzo Moroni a Bergamo (immagine: Giampiero Mele).
considerata la migliore modalità per restituire modelli di oggetti architettonici dipinti (pareti, soffitti o volte) metricamente corretti. Questo metodo di rilevamento usato per le coperture dipinte di Vanzago, Bergamo e Canegrate è stato integrato dal misuratore al laser 3D che ha permesso di misurare, oltre a pianta e sezioni, anche una serie di punti noti sulle prospettive dipinte. Il modello 3D prodotto consente di appropriarsi della forma e di ricavare delle ortofoto che sono servite per analizzare i dipinti delle coperture (fig. 2). La prospettiva di palazzo Calderara a Vanzago simula una balconata munita di balaustre e scandita dall’alternanza di colonne e pilastri di colore dorato con capitelli corinzi di porfido viola, sormontati da una trabeazione a mensole interrotta, agli assi dei lati della sala, da quattro altane coperte da crociere. Il cielo copre la parte restante del soffitto con al centro gli unici personaggi della composizione, probabilmente dipinti durante il restauro ottocentesco. L’assenza di figure umane lascia pensare ad un’incompiutezza del programma iconografico. Nei quattro angoli del vano sono presenti delle epigrafi. Su due di queste è scritto “Campi pinse a dì 16 aprile 1641” e “Restaurato a dì 12 luglio 1833” (Mauri, 1999). Partendo dalle misure dei lati in pianta della sala rilevate in metri e trasformandole in Piedi di Milano5 si ha che il salone misura 19 x 32 piedi. Questi numeri, apparentemente poco significativi trovano una loro logica nella misura storica di superficie uguale a circa 17 trabucchi quadri6. Con riferimento alla questione della proiezione della prospettiva di sotto in su della volta di Vanzago, se osserviamo la sovrapposizione della griglia di 1 x 1 piedi (figg. 3a,b,c) con l’ortofoto si vede che la maggior parte delle linee della griglia 5 6
Un piede di Milano è uguale a 43,5185 cm 1 trabucco è uguale a 36 piedi quadri, 19 x 32 = 608 piedi quadri superficie circa uguale 17 trabucchi = 612 pq.
“di sotto in su” • giampiero mele
si sovrappongono a quelle notevoli dell’architettura in prospettiva. Ciò si verifica quando la proiezione della prospettiva appartenente al quadro è stata proiettata sulla volta da un punto improprio ortogonale al piano d’imposta. L’analisi della quadratura mostra un metodo per trovare la terza graticola sulle volte diverso da quello descritto da Pozzo e rimanda a quello del Vignola-Troili. Francesco Moroni, nel 1649, affida la decorazione di alcune sale del suo palazzo bergamasco al pittore cremese Gian Giacomo Barbelli, come testimoniato dalle iscrizioni riportate negli angoli della sala7, dove si legge “IO.s JACO.s BARBERI.s CREMEN.s INVEN.r PINGEB.t ANNO MDCLII” (Colombo, Marubbi, Miscioscia, 2011). L’analisi metrica della pianta del salone ci riporta ad un’unità di misura storica, il Piede bergamasco8. Le misure della sala della Gerusalemme Liberata sono 32 x 17 piedi. I lati della griglia usata da Barbelli sono del doppio e della metà rispetto a quella della figura 100 di Pozzo9. L’altezza della sala è di 14+1/3 = 6.2746 mt. Analizzando nel dettaglio la prospettiva del soffitto si individuano quattro punti di fuga. Il rapporto di posizione di questi punti è legato ai vertici di un quadrilatero ottenuto da due triangoli equilateri. Il tipo è simile a quello descritto nel trattato Palomino che spiega come individuare le altezze. Ripercorrendo sue indicazioni si individua l’altezza massima dell’architettura messa in prospettiva che è pari a 2/3 del lato lungo della stanza, ossia 21 +1/3 piedi. Il punto di vista non è collocato ad altezza d’uomo. L’illusione della volta di palazzo Castelli-Visconti Di Modrone a Canegrate (Mi) mostra una scena architettonica che consente di aprire la volta grazie ad un apparato decorativo che trasfigura e sfonda lo spazio reale. Il nome dell’artefice è documentato dall’iscrizione posta su uno degli angoli della sala dove si legge “Gio. Batta. Grandi a fato la prospetiva” nel 1675. Le misure in pianta sono di 32 x 17 piedi milanesi10. Il punto di vista è ipotizzato ad un’altezza dal pavimento di 4 Piedi. Questo valore non è estraneo alla trattatistica albertiana che da un’altezza del punto di vista di 3 Braccia fiorentine. Essendo il rapporto fra il Braccio fiorentino e il Piede milanese è di 3:4, l’altezza del centro utilizzato per proiettare la prospettiva sulla superficie voltata è congruente. Grazie a questa semplice ipotesi ed un’accurata analisi dell’ordine architettonico è stato possibile ricostruire la vera dimensione dell’architettura rappresentata. La ricostruzione un’altezza dell’illusione pari a quella della stanza al cervello della volta (fig. 4).
La Sala della Gerusalemme liberata è una delle sale che si trova al primo piano del palazzo. Un piede di Bergamo è uguale a 43,7767 cm. Questa misura è di poco maggiore di quella del piede di Milano. 9 La griglia di Pozzo è di 16 x 34. 10 I numeri sono uguali a quelli della sala di Bergamo. 7 8
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Fig. 4 Ortofotopiano della volta di palazzo Castelli Visconti di Modrone a Canegrate (Mi), ipotesi proiettiva per l’individuazione della terza graticola partendo dalla prima, un disegno piazzato a terra (immagine: Giampiero Mele).
Conclusioni Nei tre esempi indagati di Vanzago, Bergamo e Canegrate il sistema per ottenere l’inganno è diverso. Nel primo il punto di vista è unico (fig. 3a) e il centro di proiezione per ottenere la terza graticola è improprio; nel secondo, il punto di vista non è unico, ce ne sono 4 (fig. 3d), e l’altezza dal geometrale dipende da quella dell’architettura da mettere in prospettiva; nel terzo, il punto di vista è collocato ad altezza d’uomo e il centro di proiezione per ottenere la terza graticola coincide con il punto di vista (fig. 4). Dei tre metodi, che come abbiamo visto trovano un riscontro nella trattatistica, solo l’ultimo genera un inganno perfetto da un determinato punto di vista. Lo stesso Pozzo richiama l’attenzione su questo problema e indipendentemente dalla risposta circostanziata all’obbiezione mossa lui predilige la soluzione ad unico punto di vista e per quella a più punti di vista preferisce la divisione dello spazio in tante parti quanti sono i punti di vista (Pozzo, 1693, 1700, fig. 100). Dalla questione emerge che è uso frequente costruire sfondati prospettici a più punti di vista senza curarsi di far corrispondere a questi il punto di proiezione per avere l’inganno perfetto.
“di sotto in su” • giampiero mele
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Fig. 1 Girolamo Curti, detto il Dentone, Loggia passante, Villa Malvasia, Trebbo di Reno (Bologna).
girolamo curti e la quadratura a bologna Marinella Pigozzi
Università di Bologna, Italia
Abstract Girolamo Curti (Bologna, 1575-1632), known as Dentone, after studying figure painting with Lionello Spada and Cesare Baglione, in the early seventeenth century decided to put into practice the knowledge of illusive architecture in perspective (quadratura) that the in-depth investigation of Sebastiano Serlio’s and Jacopo Barozzi da Vignola’s treatises had taught him. He was also aware of the previous trompe-l’oeil frescoes by Amico Aspertini in the Isolani castle and by Pellegrino Tibaldi in the Poggi family palace in Bologna. We will show examples of his achievements in churches, palaces and villas in Parma, Roma, Ravenna, Modena, Bologna and its surroundings. Carlo Cesare Malvasia and Luigi Lanzi will later recognize him as a master of quadratura, the activity that characterized the School of Bologna along with Caracci’s painting. Agostino Mitelli and Angelo Michele Colonna, Andrea Seghizzi were his pupils, while Giulio Troili, known as Il Paradosso, and the two brothers Ferdinando and Francesco Galli Bibiena were his followers. Keywords Girolamo Curti, Bologna, Modena, Parma, Quadratura in XVII th century
Gli interventi di Vignola a Bologna e per i Farnese, confortati e rafforzati dalle sue opere teoriche, gli scritti essenziali e le numerose immagini di Serlio, sono stati determinanti per la formazione di Curti, assieme ad alcuni precedenti prospettici significativi, gli affreschi di Aspertini per gli Isolani, di Pellegrino Tibaldi in palazzo Poggi e le quadrature del siciliano Tommaso Laureti per i Vizzani sono i più noti. Di certo utili sono state anche le precedenti proposte ferraresi di Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, nei palazzi Costabili, oggi sede del Museo Archeologico Nazionale, e Sacrati. Nella sala del Tesoro, Antonio Costabili, già segretario di Ludovico Sforza, ma ben inserito anche nella corte estense ove dal 1502 divenne consigliere e in seguito segretario ducale, conclusa l’architettura del suo palazzo da Biagio Rossetti, coinvolse per la decorazione il Garofalo nel 1506, data della sua nomina a segretario del duca. Ne è risultato un soffitto con ampia balconata rettangolare dipinta in prospettiva, da cui tra festoni di fronde si affacciano una trentina di personaggi assorti in lieti conversari o muniti di strumenti musicali. Al rosso dei tappeti anatolici da preghiera che
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pendono dalla balconata, fa riscontro il verde dei festoni sullo sfondo del cielo azzurro. La prospettiva aerea è continuata, al centro, da una fascia dodecagonale con inserti monocromi di ispirazione classica. Non meno significativa è la decorazione del soffitto nella sala al piano terreno del palazzo di Girolamo Sacrati. Commissionata al Tisi nel 1519, presenta una doppia volta a vele gotiche con costoloni incrociati poggianti su robuste mensole. In territorio bolognese meritano attenzione per la risoluzione prospettica gli affreschi di Amico Aspertini nella villa degli Isolani a Minerbio, databili fra il 1538 e il 1542. Queste architetture in prospettiva, illusive ma solide e razionali, con derivazioni dal Raffaello delle Logge Vaticane e da Giulio Pippi a Mantova, sin dal primo Seicento avevano improntato la didattica di Francesco Brizio e la produzione di Girolamo Curti, detto il Dentone. L’uno, operando in palazzo Dall’Armi Marescalchi e aprendo scuola in casa Sampieri, dopo la formazione nell’accademia dei Carracci, volle “insegnando i principii del disegno, e la prospettiva, far conoscere al mondo quanto più de’ suddetti, e d’ogn’altro i fondamenti dell’arte ei possedesse” (Malvasia, 1841, I, p. 380), privilegiando poi il disegno di figura. L’altro ha operato nel palazzo del Legato, nelle ville dei Malvasia a Trebbo di Reno, dei Paleotti a San Marino di Bentivoglio, dei Malvezzi a Bagnarola, a Bologna in palazzo Paleotti, nella cappella del santo in san Domenico, nei conventi dei Francescani, dei Servi di Maria, degli Olivetani, delle monache Camaldolesi in Santa Cristina e dei Carmelitani, dei Canonici Lateranensi in san Giovanni in Monte, nella chiesa di San Rocco dei “filatoglieri”, a Parma, a Roma, a Modena, a Ravenna. È stato l’animatore di una riforma parallela a quella dei Carracci e ricercatore di una solida e veridica architettura dipinta in prospettiva con solide basi matematico-scientifiche e in dialogo con quella reale ricercatrice del classico. A Bologna il colto barnabita milanese Ambrogio Mazenta con il classico si andava confrontando nella metropolitana di San Pietro e in San Paolo, ma soprattutto in San Salvatore per i Canonici Lateranensi e le sue proposte hanno di certo sollecitato la curiosità di Curti (Pigozzi, 2002, pp. 63-78). Il Dentone in ogni occasione rivela la capacità di calibrare l’assetto delle strutture illusive con quelle reali e di risolvere il tutto con originalità. Ludovico Carracci, rimasto solo dopo la partenza di Annibale per Roma e la morte di Agostino a Parma, continuava a tener viva l’accademia, che con i cugini Agostino e Annibale aveva contribuito ad aprire nel 1582, e ora accompagnava gli allievi Incamminati nei lavori dell’Oratorio di San Colombano e ancor prima li aveva guidati nel chiostro ottagonale di San Michele in Bosco. Eretto da Pietro Fiorini all’inizio del Seicento ha quelle serliane di cui spesso Curti si ricorderà, facendone il motivo ricorrente nelle sue quadrature. Applicatosi al disegno nella bottega di Cesare Baglione, secondo Carlo Cesare Malvasia, Curti divenne
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così pratico di oprar la riga e tirar ritte e nette le linee, che trovandovi quella facilità che non provava ne’ muscoli, altrettanto s’affezionò alla quadratura, quanto alle figure prendesse avversione. Preso perciò animo, e comperatosi un Vignola ed un Serlio, si pose ad istudiar gli ordini dell’Architettura ed a praticar le regole della prospettiva.
Infatti volle sperimentare due invenzioni a lui, ed allora nuove, né più certo praticate: la prima fu tratteggiar d’oro su’ lavori a fresco con quel suo segreto di olio cotto, trementina e cera gialla stemprate assieme, e date così bollenti con sottil pennello ove occorrono i lumi, perché servendo per un mordente, rende la foglia d’oro, che sovra vi si pone col dito grosso, alquanto rilevata, e molto lustra: fu la seconda l’andar con un chiodo, od altro ferro acuto segnando intorno a certe sagome di sottil’asse, che in diverse forme tagliate, ed insieme unite, vengono a formare un bel scomparto, come di marmi, nelle selciate anco nuove e fresche, riempendo alternatamene con diversi colori que’ spazii (Malvasia, 1841, II, pp. 106-107).
Mitelli con Colonna, Troili, Seghizzi, Monti, Cerva, i Bibiena, suoi allievi e seguaci, renderanno ancora più complessi i suoi impianti prospettici, moltiplicheranno i punti di vista, arricchiranno gli apparati decorativi, e contribuiranno a mantenere vivace nel corso del Seicento e nei secoli seguenti l’attenzione della scuola bolognese e dei suoi interpreti all’architettura in prospettiva, la quadratura1, alla scenografia. Realizzeranno esempi originali e magistrali in tutte le corti d’Italia e d’Europa, riuscendo a distinguere le loro innovative soluzioni da quelle celebrate di Andrea Pozzo, in molti casi anticipandole. Per Carlo Cesare Malvasia, il più grande e attento indagatore della cultura artistica bolognese, è importante l’attenzione che Curti rivolge alla ricerca scientifica della luce, della prospettiva e delle sue applicazioni in quadratura e in scenografia. Certo non dobbiamo dimenticare che il canonico si esprime mescolando verità e verosimiglianza per magnificare la grandezza di Bologna e della sua scuola artistica. Lo ha di certo aiutato la sua formazione pittorica nelle botteghe di Giacomo Campana e di Giacomo Cavedone che gli ha permesso di unire la consapevolezza dell’artista al sapere dello storico. Malvasia registra e filtra con sistematicità le informazioni, attento anche alle umane vicende dei protagonisti, al loro temperamento, oltre che alla pratica artistica. Nella stesura definitiva di Felsina Pittrice ci sprona a considerare la grandezza dell’arte bolognese, a valutarne l’importanza, le specificità ricavate dall’intreccio dell’arte con la scienza e con il naturale attraverso la mediazione del disegno. Era quanto si era praticato nell’accademia dei Carracci. Malvasia vuole convincerci della non marginalità di Bologna rispetto a Firenze e a Roma e sollecitare nei suoi stessi concittadini la consapevolezza dell’alta qualità artistica felsinea. Anche il contemporaneo fiorentino Filippo Baldinucci, non sempre concorde con il canonico, a proposito di Curti ricorda con accenti positivi la 1
Binaghi, 2015, pp. 195-203, per il lemma quadratura.
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Fig. 2 Girolamo Curti, detto il Dentone (attr.), e Angelo Michele Colonna, Quadratura nella volta, Sant’Alessandro, Parma.
sua autonoma formazione prospettica. Essere autodidatti è uno dei topoi della letteratura artistica assieme alla precocità e velocità degli studi: “da per se stesso e senza maestro [si pose] agli studi di prospettiva sopra un certo libro, che gli era dato alle mani, senza mai
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però abbandonare il disegno e la pittura” (Baldinucci, 1681, p. 646). Curti non ha frequentato l’accademia dei Carracci, ma la frequentavano Leonello Spada, Francesco Brizio, Lucio Massari e attraverso di loro, suoi amici, può essere stato sollecitato al rapporto con la verità e il naturale proprio dell’accademia, può essere venuto a conoscenza del libro sulla prospettiva che si dice preparato da Agostino Carracci per gli allievi (Feinblatt, 1972, pp. 342-353; Giuliani, 2007, pp. 131-154), senza dimenticare i già ricordati Serlio e Vignola e attraverso di loro le esperienze dell’antichità, le interpretazioni vitruviane rinascimentali, la consapevolezza delle opere di Peruzzi e di Raffaello, viste a Bologna e poi verificate in occasione del viaggio a Roma. Il suo lavoro fu stimato e richiesto da una clientela sia religiosa sia profana, copiato dai contemporanei, in particolare da Giovan Battista Magnani, architetto del duca di Parma, e da Gaspare Vigarani, architetto dei duchi d’Este. Talora si ricorda quale precedente la quadratura nell’atrio della Biblioteca Marciana a Venezia dei fratelli Rosa, i bresciani Cristoforo e Stefano. I procuratori di San Marco li incaricarono del lavoro il 20 settembre 1557. Cristoforo Sorte nel 1580 si considererà “il primo loro principio e fondamento di illuminarli in questa professione di prospettiva in scurzo, aggiuntovi il loro giudicio et una loro naturale inclinazione di operare” (Sorte, 1960, I, p. 287). Le esperienze bolognesi e ferraresi di Aspertini, del Garofalo, di Pellegrino Tibaldi sono ben precedenti gli interventi dei Rosa. Più tardi Marco Boschini con campanilismo si spinge a dichiarare Brescia la fonte della quadratura (Boschini, 1966, pp. 253-254). Non abbiamo notizie di un viaggio di Curti a Brescia, né a Venezia. La laguna era però fonte di informazione per tutti gli artisti bolognesi di fine Cinquecento e quindi non possiamo escludere un contatto visivo con l’opera dei Rosa, ma non dobbiamo dimenticare i precedenti emiliani e il continuo rapporto con l’arte di Roma, la capitale dello Stato Pontificio cui Bologna apparteneva. Nato a Bologna, il 7 aprile 1575, operaio nei filatoi della seta, Girolamo Curti guadagnava 5 bolognini al giorno. Grazie all’amicizia con Lionello Spada si interessò al disegno2. La frequentazione benevola di Vespasiano Grimaldi, che aveva visto una sua Madonna dipinta nel portico dei padri della Carità, lo aiutò ad entrare nella bottega di Cesare Baglione3. Non sono molte le notizie sui suoi primi lavori e sui numerosi cantieri che lo vedono pittore e imprenditore dal 1603 alla morte negli anni trenta. Malvasia, che pur ne elenca molti, non ci aiuta a collocarli nel tempo. Lo sappiamo impegnato nel 1603 per i padri di San Domenico nella cappella dedicata al santo, vi ritornerà nel 1615 per dipingere i chiaroscuri della cupola e 2 Bologna, Archivio Arcivescovile: S. Niccolò di S. Felice, Registri dei battesimi, ad annum 1575; Malvasia, 1841, II, p. 106; Marzocchi, 1982, p. 60. 3 Baldinucci 1681, pp. 45-46, nella vita di Angelo Michele Colonna con cui Curti dipinge la sala del Grimaldi e la galleria degli Olivetani di San Michele in Bosco. Saranno poi attivi entrambi a Ravenna, in Arcivescovado, a Parma nel palazzo del Giardino, a Modena; cfr. Cassoli, 1985, pp. 481-485.
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nel 1619 li concluderà nelle logge del tamburo. Lavorerà anche nel 1606 all’interno del convento delle monache camaldolesi di Santa Cristina, in San Nicolò, nella cappella della sagrestia di San Pietro, in Santa Maria del Piombo, per i Servi di Maria, nel palazzo dei marchesi Tanari. Non è più visibile la quadratura che avvolgeva l’altare maggiore nella chiesa di Santa Cecilia. La sua consapevolezza dell’affresco e delle miscele dei colori fu d’esempio allo stesso giovane Guercino. Non solo, “attaccandosi al naturale, venne a liberarla [la quadratura] di un certo fantastico ideale”4. I manierismi ora appaiono vetusti e deprimenti ai committenti e agli artisti. Vediamo alcuni esempi della alacre attività di Girolamo. Carlo Cesare Malvasia, scrivendo della villa che la sua famiglia, grazie all’acquisto effettuato dal padre Antonio Galeazzo, aveva nella campagna appena fuori Bologna, ci ha lasciato alcune righe utili per comprendere la strategia pittorica di Curti, non si è limitato ad osservare il suo lavoro nelle sale del casino. Curti, scrive, dipinse nel nostro Palagetto al Trebbo il bel soffitto della saletta, che per certa sua bizzarria e prova volle dipingere a tempra s’un tavolato di asse di abeto […] e in forma di T la doppia loggia in volta a fresco in ciaschedun de’ sfondati, ne quali vagamente l’andò dividendo, e per ogni balaustrata, facendovi colorire varie figure al Brizio, a Tognino ed a Franceschino Carracci, al Valesio e simili allora giovani, non d’altro pagandoli, che della sua dolce conversazione ed allegria ad una lieta mensa le feste (Malvasia, 1841, II, p. 107)5. Si può pensare, osservando gli esiti del lavoro nelle varie stanze, che Curti alla guida della sua équipe di collaboratori figuristi e con un progetto che ben precisava i loro compiti secondo le diverse professionalità, sia intervenuto in due tempi diversi, prima nella loggia passante (fig. 1) allorché possiamo ritenerlo al lavoro nel 1617, e poi nel 1619, alla ripresa dei lavori dopo gli impegni parmensi, nel salone con Diana alla guida del suo carro che si muove veloce su una chiaroscurata nuvola, e nelle sale che vedono con altri il coinvolgimento di Angelo Michele Colonna con le sue figure viste di sott’in su6. Ritornato a Bologna, il cantiere del Trebbo riparte in contemporanea a quello nella villa dei Paleotti, che vedremo. Soffermiamoci prima su Parma, la presenza del Dentone e i suoi lavori 4 Alce O.P., 1958, 3, pp. 291-295; 4, pp. 394-406; per la finta cupola che oltre ricorderò: Algarotti, 1792, VIII, p. 60: lettera a Jacopo Bartolomeo Beccari,10 agosto 1756. Bologna, Archivio di Stato, Demaniale, Campione universale del convento dei Servi, 188-6777, c. 35r: “1630. Si fece la Prospettiva nel Dormitorio di sopra per mano del Dentone e Mitelli, Seghizzi, pittori celeberrimi in detta professione in questi tempi”; Malvasia, 1841, II, pp. 105, 106. Per Santa Cecilia: Pigozzi, 2005, pp. 59-77. 5 La data d’inizio si ipotizza considerando l’età dei ‘giovani’ e non più giovani collaboratori che Curti coinvolge: Francesco Brizio (1574-1623), Giovanni Luigi Valesio (1579-1640), Francesco (1589-1618) e Antonio Carracci (1595-1622) erano già avanti con gli anni. Giovane era Angelo Michele Colonna (1604-1687) che lasciata la comasca Rovenno si era appena stabilito a Bologna, giovane era Domenico degli Ambrogi (1600), allievo di Brizio. Brizio e Valesio erano già noti in città, il primo per aver decorato la cappella di San Salvatore in San Petronio, l’altro per il fregio nella Sala degli Svizzeri nel palazzo del Legato. Cfr. Takahashi 2007, p. 39. 6 Per il disegno con Diana: Thiem, 1982, n. 104, fig. 4, con l’attribuzione al solo Dentone; Feinblatt, 1992, pp. 19-20; Giuliani, 2010, pp. 81-94, fig. 2; cfr. Matteucci, 1969.
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per i Farnese in qualità di quadraturista e di scenografo non sono stati sinora oggetto d’indagine. Nel 1618, Cosimo II de’ Medici avrebbe dovuto, in occasione del viaggio a Milano per riverire il corpo di San Carlo, fermarsi a Parma per stipulare un’alleanza con il duca Ranuccio Farnese. Per l’importante occasione, Ranuccio aveva previsto di celebrare l’avvenimento con la costruzione di un nuovo teatro all’interno del palazzo ducale della Pilotta e di inaugurarlo con un’opera torneo, La difesa della bellezza di Alfonso Pozzo. Fra gli artisti bolognesi coinvolti, accanto ai parmensi, ai cremonesi, ai piacentini, ai ferraresi, al fiammingo Giovanni Cales, al lucchese Paolo Pini, oltre a Lionello Spada, decoratore del soffitto con Giove in trionfo contornato dagli dei, Giovanni Maria Tamburini e i meno noti Domenico Gabrieli e Agostino Marcucci, troviamo il nostro Curti7. Non solo contribuì alla pittura delle pareti e delle illusive logge che continuavano le serliane di quelle reali in funzione dell’esaltazione dell’immagine dei Farnese, sono sue le scene con La città di Tebe e Il tempio della Discordia previste per La difesa della bellezza. Sappiamo che l’allestimento fu sospeso all’inizio del 1619 e che il teatro si inaugurò solo nel 1628, in occasione del matrimonio di Odoardo Farnese con Margherita de’ Medici. Nell’occasione nuovi furono gli artisti coinvolti da Enzo Bentivoglio: Francesco Guitti e Alfonso Rivarola detto il Chenda, il poeta Claudio Achillini, il musicista Claudio Monteverdi. L’opera torneo Mercurio e Marte sostituì La difesa della Bellezza e il 21 dicembre 1628 il teatro si aprì alle magnificenze dello spettacolo. Al trionfo contribuì Curti. Nell’occasione furono riutilizzate due delle scene previste per La difesa: La città di Tebe, in cui “all’armonioso invito della cetra di Anfione andavansi insieme accostando i sassi, e compaginando le mura” (Malvasia, 1841, II, p. 110) e Il tempio della Discordia. Nel teatro in legno eretto nel cortile di S. Pietro Martire su progetto di Francesco Guitti, si era rappresentata il 13 dicembre l’Aminta del Tasso con cinque intermezzi di Ascanio Pio di Savoia. Agli intermezzi si riferiscono due scene del Curti, La città di Cartagine e La città celeste, come si evince da una lettera di Guitti al Bentivoglio, 24 ottobre 1627, da cui appare altresì quanto fossero stimate le opinioni della équipe bolognese in materia scenografica: Li Bolognesi havranno fornito la cità di Cartaggine a meza questa settimana e principiaranno la celeste. Ma insomma risolvono che sia mal partitto per la Belezza dell’architettura che si debono vedere li musici su i Palazzi poi che impedisse loro una quantità di belissimi pensieri e sarebbe bene che li detti musici fossero nella citta mentre calla ma sì udissero e non si vedessero (Lavin, 1964, p. 124).
7 Per La Difesa della Bellezza: Parma, Archivio di Stato, Raccolta Ronchini, busta 14. Ciancarelli 1987, pp. 41-84. Utile il confronto con Donati, 1817, pp. 55-56, 60; Ferrari, 1884, p.9; Lombardi, 1909, pp. 1-51; Dall’Acqua, 1980 (1981), pp. 321-351; Dall’Acqua 1994, pp. 193-208; Lavin, 1964, pp. 118-151: vi pubblica la corrispondenza col Bentivoglio presente presso la Biblioteca Comunale di Ferrara, Fondo Antonelli, ms. 660; Achillini, 1628; Malvasia,1841, II, p. 110; Bolognini Amorini, 1833, p. 16.
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pagina a fronte Fig. 3 Girolamo Curti, detto il Dentone, Quadratura nella volta della scala, Convento di San Francesco, Bologna.
Nella città dei Farnese ritengo sia intervenuto anche a suggerire le quadrature nella chiesa del monastero delle monache benedettine di Sant’Alessandro. Tra il 1622 e il 1624, per iniziativa della badessa Maria Lucenia Farnese, sorella del duca, la chiesa era stata ristrutturata da Giovan Battista Magnani. I documenti dal Libro di spese citati da Affò riportano i pagamenti per le volte delle due campate al solo Colonna che nel 1625, il 15 aprile, ricevette lire 26048. La predilezione per l’uso delle serliane, ricordategli dalle architetture reali e illusive del teatro Farnese, è tipica di Curti e qui le vediamo presenti nelle quadrature delle due campate della navata unica (fig. 2). I documenti certificano la presenza del solo Colonna, il risultato però testimonia l’influenza degli stilemi propri della prassi del Dentone e non mi sento di escludere il tramite di un suo disegno al figurista, l’allievo prediletto, l’erede di tutti i suoi beni e disegni9. Ritornando al 1619, lasciata Parma per il mancato arrivo di Cosimo de’ Medici, Curti e la sua équipe rientrano nel cantiere del Trebbo e iniziano i lavori nella villa dei Paleotti nella vicina San Marino di Bentivoglio. Sul loggiato esterno, una lapide riporta la data del 1619 e la conferma il fregio in una delle sale al piano superiore. Possiamo pensare che il cantiere sia continuato sino all’inizio del 1623. L’estate del 1623 vede Girolamo a Roma. Il cardinale Ludovico Ludovisi ha comprato un edificio quattrocentesco in piazza Santi Apostoli nel 1622 e l’architetto Carlo Maderno è stato subito coinvolto per la ristrutturazione. Il 15 luglio 1623 Curti è pagato “per comprar colori” in previsione del suo intervento. Ludovisi però lascia presto ad altri il palazzo e non abbiamo elementi per ipotizzare un effettivo coinvolgimento di Curti nelle decorazioni delle sale. Malvasia non si trattiene dallo scrivere che l’artista eseguì “uno dei suoi soliti sfondati nella sala di esso […], riportandone la meritata lode: e maggiore assai di quella, che per l’addietro erasi tutta attribuita a Giovanni Alberti da Borgo per la famosa pittura della Sala Clementina” (Malvasia, 1841, II, p. 347). A Bologna, lo attendeva il marchese Aurelio Malvezzi Campeggi per affidargli a Bagnarola di Budrio la decorazione del casino di caccia appena acquistato nel maggio dello stesso anno. Sono quindi i monaci di San Francesco a chiedere il suo coinvolgimento per la decorazione dello scalone del loro convento, uno degli esiti più iperbolici della sua attività (fig. 3), ma anche la prova della sua attenzione all’architettura e agli esempi quadraturistici che l’avevano preceduto. Mi riferisco ai lavori in villa Lante a Bagnaia di Agostino Tassi che Curti conobbe nel cantiere di palazzo Ludovisi
8 Malvasia, 1841, II, pp. 109, 347-348; Affò, 1796, pp. 100-101; Da Mareto, 1978, pp. 211-212. Cfr. Sjöström, 1978, pp. 48-49; Feinblatt, 1979, p. 621, fig. 27. 9 Bologna, Archivio di Stato, Notarile, Notaio Bartolomeo Cattani, Testamento di Girolamo Curti, 28 luglio 1630, testimoni Vespasiano Grimaldi e Bernardino Baldi.
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a Roma, ad Amico Aspertini e alla decorazione della volta della sala di Marte nella villa degli Isolani a Minerbio con il fuoco del sott’in su decentrato. Lo vediamo nella decorazione della scala francescana da collocarsi attorno al 1625 con il probabile coinvolgimento degli allievi Giovanni Andrea Castelli e Agostino Mitelli. Qui Curti esclude ogni elemento narrativo a vantaggio della solida struttura architettonica illusiva. L’uso dello schema decentrato non era sfuggito a Malvasia che scrive di giudizioso e capriccioso sfondato nel gran vestibolo delle superbe scale […] piuttosto che prendere il punto della veduta stando nel mezzo, come suol farsi, lo tolse dalla pilastrata che l’uno e l’altro ramo della scala unisce e distingue, acciò sì nel salir per lo primo, che nel discendere per lo secondo, tornasse meglio alla vista (Malvasia, 1841, II, p. 107).
Di certo Curti nel 1626 lavora a Bologna per le quadrature nel soffitto della chiesa di San Rocco e al “mirabile sfondato della volta della gran cappella maggiore” nella chiesa di San Domenico, voluta da Vespasiano Grimaldi. Algarotti vide i suoi lavori nel 1756 e considerò la finta cupola il capolavoro di Curti. Purtroppo i lavori settecenteschi di Carlo Francesco Dotti ci hanno privato della vista di questo ulteriore suo impegno (Malvasia, 1841, p. 106; Crespi, 1769, p. 32, nella vita di Colonna).
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Fig. 4 Girolamo Curti, detto il Dentone, Lucio Massari, Lezione di San Pier Tommaso, Biblioteca del Convento dei carmelitani di San Martino Maggiore, Bologna.
Il successo delle scene parmensi convinsero il marchese Enzo Bentivoglio, a coinvolgere Curti in quelle degli spettacoli per le nozze della figlia Beatrice col noto autore di intermezzi Ascanio Pio di Savoia. Furono celebrate a Ferrara nei primi mesi del 1627 (Fabbri, 1998, pp. 195-206). Due anni dopo i carmelitani del monastero di San Martino vedono conclusa la decorazione ad affresco della loro importante biblioteca. Coinvolti furono Girolamo Curti per la quadratura e Lucio Massari per le oltre sessanta figure di varia età, ceto sociale e provenienza. Tutti ascoltano la lezione del carmelitano Pier Tommaso. Parla dalla sua cattedra situata al centro di un loggiato che a guisa di boccascena è diviso da colonne in tre spazi con quinte architettoniche in diagonale (fig. 4)10. Era stata realizzata, la biblioteca, su progetto dell’architetto Giovan Battista Falcetti a partire dal 1625. Presso i carmelitani si preparavano gli studenti della Facoltà di Teologia annessa allo Studio di Bologna. Per l’individuazione del docente sinora ignorato: Orlandi [1723], cc. 61, 111; Oretti B 127, cc. 21 ss.; Zucchini, 1934, 9, p. 14. Pier Tommaso, vescovo di Costantinopoli nel 1357, fu a Bologna il fondatore dello studio di Teologia nel 1364. Il culto di Pier Tommaso, confermato dai papi Paolo V nel 1609 e Urbano VIII nel 1628, è celebrato l’8 gennaio presso i carmelitani e nella diocesi di Périgueux, luogo d’origine del santo. Le indagini sinora compiute hanno confermato lo stato precario visibile ad occhio nudo dell’affresco a causa delle continue infiltrazioni d’acqua piovana. Si sta cercando di sollecitare interventi economici per rifare il coperto e agire quindi con l’opportuno e non più procrastinabile restauro.
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Dopo aver lavorato a Bologna per il Legato, il cardinal Spada, nella decorazione della sala Urbana, si sposta nel 1631 a Modena con il Colonna. Al servizio di Francesco I d’Este opera nel castello ducale con l’apprezzamento del duca (Malvasia, 1841, p. 170) e con il disappunto del cronachista Giovan Battista Spaccini (Spaccini, 2008, pp. 337, 382), interviene nelle chiese di San Vincenzo, di San Biagio del Carmine, di San Carlo Rotondo. Resta di questi lavori la sola quadratura nella volta della sagrestia di San Biagio. Al centro le figure del Colonna protagoniste dell’episodio dal secondo Libro dei re: il profeta Elia, fondatore dell’ordine carmelitano, dal carro di fuoco getta il mantello al discepolo Eliseo. Finanziatore e suggeritore degli interventi nella sagrestia era stato Angelo Monesi, frate e priore carmelitano. Oltre alla quadratura della volta commissionò anche i due affreschi a lato dell’altare11. Ammalatosi durante i lavori per l’oratorio di San Carlo, ritorna a Bologna nel 1632 e vi muore il 6 gennaio 1633. Curti ha ricercato sempre il variare delle fonti luminose, la relativa graduazione di ombre e lumeggiature, è intervenuto a rafforzare i bianchi a calce introducendovi polvere di marmo. La gamma cromatica chiara in primo piano, accentuata dagli aggetti delle decorazioni in oro, la luce variata lo hanno aiutato a configurare gli spazi e la relativa illusiva profondità dell’architettura. Ha confermato nel tempo l’attenzione all’uso della serliana, alla dimensione tecnica e scientifica della sua arte, agli esiti teatrali. Gli effetti di spazialità sono ulteriormente suggeriti da chi si affaccia, persone o animali, talora ha preferito il fuoco decentrato e la sola impaginazione architettonica.
Catalogo de religiosi figli del Carmino di Modena dal 1606 e ss., ms., Modena, Archivio di Stato, AM, Arti Belle, Pittori, b. 14, E. C. A., filza 381, c. 4; Spaccini, 2008, p. 410; Cronachetta di Vincenzo Colombi modenese, ms. γ. B. 6, 11, Modena, Biblioteca Estense, c. 26r. Molto convincente l’analisi di Sirocchi, 2013, pp. 67-81; Sirocchi, 2016, pp. 127-138. Ricordano i lavori di Curti a Modena: Malvasia, 1841, t. II, p. 110; Campori, 1855, pp. 160-163, 175, 176; Venturi, 1917, p. 69; Baracchi, 1998, p. 123.
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quadraturisti bolognesi e quadraturisti bresciani nel palazzo ducale di sassuolo: incontri ravvicinati Anna Maria Matteucci
Fig. 1 O. Viviani, J. Boulanger, Convito di Giove e Giunone, camera di Giove, Palazzo Ducale, Sassuolo.
Professore Emerito dell’Università degli Studi di Bologna, Italia
Abstract In the 1640s Francesco I of Este promoted the decoration of the ceremony halls and ducal apartments of the Sassuolo palace. The Brescian quadraturist Ottavio Viviani, whose art descends form Rosa’s and Sandrini’s School, worked here in eight rooms (1640-41). His ability to raise the ceilings illusionistically, depicting multiple shelves and columns, sometimes overlapped sometimes Solomonic, is remarkable. From 1645 to 1650 the Mitelli-Colonna couple worked at the Ducal palace; their contribution in the decoration of the honour courtyard and staircase and of the great Guardhall is stylistically very different. Agostino Mitelli, in particular, extends the space by the means of trompe-l’oeil perspectives, in order to display loggias and noble palaces on second and third levels. Keywords Sassuolo, Mitelli, Viviani, quadratura. La volontà d’acquistar gloria al suo nome, d’avanzar la sua persona, di ritornare la sua Casa nell’antico splendore e nella pristina grandezza
sono le parole di Fulvio Testi (1967, III, p. 51), segretario ducale, che ben delineano i propositi del grande Francesco I d’Este anche nella realizzazione delle sue residenze. Dalle sculture presenti sulla facciata principale della reggia di Sassuolo1 (l’Architettura Civile e l’Architettura Militare) pare non esservi dubbio sul significato delle opere pittoriche e plastiche realizzate all’interno della dimora, vale a dire l’esaltazione della famiglia d’Este e, indirettamente, dello stesso committente. Come è noto, nella volta della gran sala delle Guardie, nei libri posti accanto alle nove Muse che circondano Apollo, si possono leggere i titoli delle opere nate col sostegno dei membri dell’insigne dinastia. La presenza poi, resa a monocromo 1 * Desidero ringraziare Fiorella Frisoni, Angelo Mazza, Francesca Montefusco Bignozzi, Vincenzo Vandelli e Alessandra Cantelli per i loro preziosi suggerimenti. Per la consultazione dell’ampio apparato iconografico, documentario e bibliografico si è fatto riferimento al testo curato da M. Pirondini (1982) e al ricchissimo volume curato da F. Trevisani (2004).
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Fig. 2 O. Viviani, J. Boulanger, L’albero della Fortuna, camera della Fortuna, Palazzo Ducale, Sassuolo. Fig. 3 O. Viviani, J. Boulanger, G. Cialdieri, veduta della camera della Fortuna, Palazzo Ducale, Sassuolo.
sempre dal Colonna, delle personificazioni della Pittura e della Scultura all’ingresso del salone e dell’Architettura e della Matematica a fianco della grande finestra è un voler sottolineare di nuovo la passione del duca per queste arti e gli importanti risultati da lui conseguiti in tali ambiti. L’esibizione simbolica dell’operato degli Este sarà tema ricorrente nelle varie camere decorate da validissimi pittori: Ottavio Viviani e Jean Boulanger, Agostino Mitelli e Angelo Michele Colonna, Giangiacomo Monti e Baldassarre Bianchi. L’interesse di Francesco I per la pittura di prospettiva è noto: ben tre generazioni di artisti bolognesi versati in questo campo furono per lui attivi a Modena; forse per ottenere anche interventi di altre celebri scuole, il duca invitò a decorare diverse sale della reggia il bresciano Ottavio Viviani. Averlo non fu per lui una cosa semplice, essendo l’artista in quel tempo detenuto nella sua città natale, ma probabilmente la chiamata si deve anche al fatto che Colonna e Mitelli erano allora felicemente impegnati nella realizzazione delle straordinarie decorazioni dell’appartamento estivo (1639-41) di palazzo Pitti a Firenze (Matteucci, Raggi, 1994). Dal 1640 il Viviani fu a Sassuolo, dove ebbe una intensa attività, realizzando le quadrature di almeno otto camere. Di Ottavio si conoscono diversi interventi in patria, ma quasi tutti non più esistenti: sappiamo però della sua presenza nel 1646 a Lovere per la decorazione della basilica di Santa Maria in Valvendra tutt’ora conservata. Ben più famoso fu il suo maestro Tommaso Sandrini (Piazza, 2017), attivo anche a Ferrara per il marchese Bentivoglio, a Reggio nella cupola del santuario della Ghiara (1614-15) e nella chiesa di San Giovanni Evangelista (1613-14); con lui il Viviani
quadraturisti bolognesi e bresciani nel palazzo ducale di sassuolo • anna maria matteucci
collaborò più volte e ne derivò un linguaggio che mostra di risalire ai capostipiti della scuola bresciana, vale a dire ai fratelli Cristoforo e Stefano Rosa. Nel ricco Regesto pubblicato da Massimo Pirondini, dove, come è noto, appaiono i nomi dei pittori impegnati nell’impresa sassuolese, sono segnate fra l’altro le varie spese per i materiali loro consegnati. Già il 24 aprile 1640 si forniscono carte al “pittore bresciano”, operazione che si ripeterà più volte; a luglio presumibilmente lavora nella camera dei Venti e in quella di Giove “dove mangia sua Altezza Ser.ma”, mentre nel mese successivo sarà realizzato un “castello per il pittore che dipinge le camere in capo alla sala grande”. Altre notizie confermano che il Viviani inizia a lavorare, appunto, dalle stanze dell’appartamento della duchessa, ma che già nel settembre del ‘40 non è a Sassuolo: in una sua sollecitata risposta assicura un immediato ritorno entro la metà del mese “con tutta la sua famiglia” (Pirondini, 1982, pp. 125-126). Non sappiamo il perché di questa assenza, ma, ritornato, prosegue la consegna di carte e di colori; il 22 ottobre viene fatta un’impalcatura affinché possa continuare l’opera interrotta. Nell’appartamento della duchessa sono quattro gli ambienti in cui interviene, ma non tutti hanno conservato integre le sue quadrature. Nella volta della camera dei Venti appartengono al bresciano le ricche cornici dello sfondato dove è in volo l’Eolo del Boulanger. Di indubbio effetto lo scorcio di grandi mensole con foglie di acanto sfrangiate che alternativamente presentano figure di orridi vecchi, forse con valore apotropaico. Sempre in questa enfilade si trova una camera dedicata alla Fede Maritale e una all’Innocenza2, soggetti che dovrebbero caratterizzare il comportamento muliebre. Ben conservate e di notevole efficacia le quadrature situate nella sala dedicata a Giove, dove lo sfondato presenta il re degli Dei a banchetto con Giunone serviti da Ebe (fig. 1). La scena, circondata da un particolare gioco delle balaustre rette da colonne ioniche, naturalmente scorciate, è il frutto della fusione di uno schema rettangolare con uno quadrato, dove al centro dei quattro lati si ha un arretramento sia dei balaustri che delle mensole: in queste zone sono inseriti balconi da cui si affacciano divinità connesse al cibo. Data l’importanza dei soggetti figurati è comprensibile che Francesco I si compiacesse di pranzare qui, come viene ricordato nel citato regesto dalla cui consultazione risulta dunque un’attività molto intensa e veloce di Ottavio che lavorerà a Sassuolo un anno e mezzo circa: dopo il 28 ottobre 1641 non lo si trova più citato nei documenti. È vero che al 7 giugno 1641, per ben tre volte in uno stesso giorno, gli viene consegnata carta di vario tipo, ma già da prima era stato fornito di terra gialla e nera per interventi nelle quattro sale del duca. Anche nella sequenza di queste camere emerge una concatenazione 2 Le quadrature nella camera dell’Innocenza vennero ridipinte nel secolo seguente, ma al pennello del Viviani vanno riferite le cornici in stile auricolare che contornano le figure delle Virtù. Nella camera della Fede Maritale si conservano prospettive del Viviani.
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pagina a fronte Fig. 4 O. Viviani, J. Boulanger, camera della Fortuna (particolare), Palazzo Ducale, Sassuolo. Fig. 5 O. Viviani, J. Boulanger, veduta della camera delle Virtù Estensi, Palazzo Ducale, Sassuolo.
simbolica dei soggetti dipinti: tout se tient. Negli sfondati delle varie stanze appare il tema centrale della narrazione, che viene poi sviluppata in capitoli e sottocapitoli con grandi scene a tutta parete, oppure in spazi minori, fino a presentarsi anche in piccolissimi monocromi all’interno di ricche cornici sempre in stile auricolare tipico dei bresciani. Il diffondersi così dettagliatamente del racconto è un aspetto specifico delle sale di Sassuolo. La serie dell’appartamento del duca inizia con la camera dedicata alla Fortuna. Nella volta è dipinta dal Boulanger la Sorte bendata che fa cadere eventi felici o sventure dall’albero della Fortuna (fig. 2); sotto, in dodici “teatrini”3, i protagonisti sono personaggi storici travolti dalla malasorte. Nei grandi riquadri alle pareti spetta all’urbinate Girolamo Cialdieri, a servizio degli Este dal 1640 circa, il racconto del destino toccato a regnanti di varie epoche. Gli fanno da contorno le quadrature del Viviani, mentre, nella parte alta, bellissimi telamoni a monocromo sono introdotti a reggere la soprastante loggia e la particolare cornice (fig. 3). Situati su alti piedistalli aggettanti, queste figure spettano al Boulanger, come pure le animate scene nei citati “teatrini” (fig. 4). Le colonne della loggia sono differentemente sistemate con soluzioni semplici ma diversificate, che animano la conclusione in altezza della originale sala. È davvero incredibile quanti episodi siano inscenati con personaggi di dimensioni così diverse, ma altrettanto straordinaria è l’abilità di Ottavio nel realizzare tanti posti idonei ad accoglierli. Il convivere in questa stanza di numerosi fatti derivati da antiche fonti era teso a far conoscere l’alto livello della cultura nelle dimore degli Este e, ad un tempo, ad interessare e incuriosire gli illustri ospiti, anche se possiamo constatare che quanto dettato dagli iconologi di corte, come ad esempio dal segretario di stato Girolamo Graziani (Sirocchi, 2018, p. 65 sgg.), non fu sempre realizzato, forse perché troppo ricco di attori4. Non è certo questo il caso degli affreschi di Mitelli, al cui proposito così si esprimeva il Malvasia (1841, II, p. 352): Le figure, che […] dovean dirsi le principali, parvero qui divenire un accessorio, mendicando elleno dalla sua intera operazione il sito, e dalla sua giudiciosa distribuzione il posto.
Mi è sempre parso che l’organizzazione della quadratura di questa sala presenti strettissime analogie con quella del celebre palazzo Avogadro a Brescia, fatto conoscere da Fausto Lechi (1976, pp. 102-119), che esibisce al centro della cornice la firma: “petrus vivianus perspectivus – civis brixiae fecit”. In passato mi ero già posta il problema 3 Si tratta, in effetti, di teatri in miniatura che accolgono varie scene di diverse dimensioni frequenti negli affreschi di pittori bresciani, ad esempio nelle ville venete (Matteucci, 2009; Matteucci, 2015). 4 A leggere le Istruzioni del Graziani per i dipinti da farsi nella camera di Giove si può rimanere stupefatti sul numero delle divinità previste “di primo e di secondo ordine” (Pirondini, 1982, p. 159). Certo i suggerimenti del letterato non vennero tenuti presenti, forse per indicazione del Boulanger o di Francesco I. Ma anche le indicazioni per il finto arazzo con Arianna sullo scoglio nella galleria di Bacco non furono del tutto considerate.
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del rapporto tra le due opere, vale a dire se quella di Sassuolo fosse un modello o una derivazione dalla bresciana. Ma chi era Pietro Viviani? Da un ricco articolo di Fiorella Frisoni (2011, pp. 19-25), dietro indicazioni di Enrico Maria Guzzo, si apprende che il pittore della sala di Brescia potrebbe essere identificato con quel Pietro Maria nato nel 1601 e ultimogenito dei dieci figli di Alessandro Viviani, padre anche di Ottavio. Dunque, non essendoci alcun dubbio sul fatto che le pitture di Sassuolo siano state realizzate dal fratello maggiore a partire dal 1640, e che la decorazione di palazzo Avogadro debba essere posticipata a dopo il 1650 (Lechi, 1976, p. 116), si può affermare che Pietro si sia ispirato agli affreschi della camera della Fortuna. Dal confronto tra le due opere emerge poi la qualità di gran lunga superiore della sala estense, basti osservare la diversa distribuzione delle colonne, sempre binate sui quattro lati a Brescia, mentre a Sassuolo sono singole nei lati brevi, binate in quelli lunghi e gemellate agli angoli. La cornice che inquadra la scena dello sfondato, inoltre, sembra realizzata con una sorta di sovrapposizione di lamelle lignee in modo da sortire leggerezza e raffinatezza, come sono pure da notare i contrasti tra luce e ombra così diversi a seconda dei lati, particolari che non appaiono certo nelle pitture di palazzo Avogadro. Fonti bresciane, però, indicano un’attività di Pietro a Sassuolo (Frisoni, 2011, p. 22); certo che per aver derivato con tanta attenzione il tema della quadratura dall’opera del fratello, il giovane Viviani a Sassuolo deve esserci stato. Chissà se Ottavio aveva dato seguito alla sua affermazione di portare con sé a Modena tutta la famiglia?
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Fig. 6 O. Viviani, J. Boulanger, camera delle Virtù Estensi (particolare), Palazzo Ducale, Sassuolo.
Alla camera della Fortuna fa seguito quella dell’Amore con l’apertura sul cielo realizzata dal bresciano, ma poi ridipinta da Giorgio Magnanini nel 1751. Grazie alla concatenazione simbolica ricordata, segue la camera delle Virtù Estensi, la più spettacolare tra quelle dipinte a Sassuolo (fig. 5). Si entra in una sorta di gazebo, dalla grande copertura, aperto ovviamente sul paesaggio. L’intera struttura parte dal pavimento, ma subito si ha una successione di robusti elementi architettonici diversi che si susseguono in altezza, sorreggendosi l’un l’altro fino all’azzurro del cielo dove s’impone vittoriosa sulla Sorte e sul Vizio la Virtù estense. È un’ascesa difficile che diventa complessa soprattutto nelle zone angolari dove, a vista, ci sono gradini, mensole e balaustri di scale nascoste che portano ai quattro rituali balconi con le virtù dipinte dal Boulanger,
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raffigurate nelle sembianze di colorate e vivaci fanciulle. Queste si affacciano in pose instabili come figure vive, a differenza delle personificazioni dipinte talora a monocromo dal Colonna. Dominano la parte alta dell’originale costruzione otto particolari colonne tortili che non possono non richiamare l’insegnamento dei Rosa. Certamente Ottavio non seguiva i trattati sull’architettura classica così diffusi e consultati a Bologna pure dai quadraturisti. L’adesione del Viviani alla scuola bresciana si avverte anche per la ricerca di decorazioni bizzarre che denotano continuità con la cultura manieristica; invece questo non appare nelle opere del Mitelli. Non si è ancora accennato alla straordinaria presenza nella zona inferiore della sala delle morbide fanciulle, in funzione di cariatidi, poste sulla balaustra a reggere, con l’aiuto di scuri pilastri che contrastano con le loro chiare e leggere vesti, la soprastante ricca trabeazione che chiude la vista sul panorama (fig. 6). L’idea di inserire delle cariatidi su di un ampio paesaggio può essere stata suggerita dallo stesso duca o da alcuni dignitari di corte nel ricordo della fantastica sala delle Vigne di Belriguardo o di quella delle Cariatidi alla villa Imperiale di Pesaro realizzate dai fratelli Dossi. Anche a Sassuolo fanno da sfondo grandi zone di cielo e vasti paesi alberati, diversi fra loro ma di simili tonalità, dove una cospicua carovana di minute figurine partecipa alle gloriose gesta degli Este, più accennate che esibite: rappresentazione priva di ogni aura retorica, particolarmente apprezzata da Angelo Mazza (2004, p. 69). Nel loro sinuoso e lungo percorso, lontano nello spazio e nel tempo, giungono anche a Roma dove Borso riceverà il titolo di duca; per ben tre volte poi viene raffigurato Alfonso I, così ammirato da Francesco e “scelto come protagonista di fatti memorabili nella storia della famiglia” (Farinella, 2008, p. 213). Modalità contrastanti sono dunque presenti in questa sala. Ci si può chiedere a chi spetti la regia dell’insieme e se esistesse un accordo tra il Boulanger e il Viviani. Solitamente è al quadraturista che viene affidata l’organizzazione del lavoro, ma sono note le polemiche emerse nel tempo nei riguardi delle scelte imposte da questi. Forse fu per tale motivo che venne chiesto nel caso della galleria di Bacco un “modello”, steso congiuntamente da tutti gli artisti partecipi all’opera? Presi dall’effetto stupefacente della sala non ci si accorge di come le preesistenze medievali abbiano condizionato la distribuzione dei vari soggetti. Il trompe l’oeil di Ottavio, con la finta porta dal variopinto tendaggio, fu sufficiente ad ottenere una simmetria in quella parete, ma ciò non si verificò in altre parti della camera. Nella volta del camerino del Genio, l’ultimo ambiente dell’enfilade in cui intervenne il Viviani, è presente il protettore delle arti circondato da molteplici cornici in prospettiva, sorrette da mensoloni animati dalle solite orribili facce di vecchi; sotto la balaustra azzurra con
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riflessi dorati, alle pareti, dentro a nicchie dipinte dal bresciano, vi sono le divinità olimpiche di Sebastiano Vercellesi che si alternano a quadri riportati. Anche qui appare la felice mano del Boulanger nel realizzare storie a passo ridotto di una qualità che ritornerà nella galleria di Bacco. Nella concatenazione simbolica delle varie sale, quest’ultima appare quale sintesi ed epilogo di quanto espresso per figura nelle precedenti. Il danno maggiore subito dalla grande delizia fu indubbiamente la cancellazione di quanto dipinto da Mitelli e Colonna nel cortile d’onore (iniziato nel 1645). Dai frammenti di affreschi rimasti, ma soprattutto da quanto scritto dal Codebò e dalle copie derivate dai disegni del quadraturista, possiamo farcene un’idea5. La volontà di conferire grandiosità e magnificenza alla reggia con la pittura, operando su piani paralleli, è l’obiettivo principale di Mitelli, messo in atto anche in altri contesti della residenza ducale. Si veda, ad esempio, l’invitante scena realizzata al piano di sosta dello scalone con la duplicazione virtuale della scala, qui a rampe ricurve, di cui si scorgono solo le balaustre, mentre sono evidenziate le sfere marmoree identiche a quelle reali. Vincenzo Vandelli (2004), in uno dei suoi importanti saggi sulla cultura estense, parla a proposito della parte centrale del palazzo di un voluto sistema cortiletto-scalone-galleria-salone. Diversi appunti sono stati avanzati alla decorazione, realizzata da Colonna e Mitelli, nella sala delle Guardie (1646-47) per la ‘frammentarietà’ di quanto dipinto nelle lunghe pareti. Bisogna però dire che queste sono forate da due ordini di finestre e da porte, anche di notevoli dimensioni, che avrebbero arrecato discontinuità a qualsiasi discorso unitario: si tratta degli accessi più importanti che si aprono sulla grande scala e sul balcone della corte; proprio per questo Mitelli decorandoli internamente riprese i colori e i motivi ornamentali del salone, così da non creare alcuna brusca interruzione dell’insieme. Riappaiono però gruppi di colonne che già si vedono nelle pareti brevi e che alludono ad altri ambienti, ma si scorgono anche avvii a corridoi segreti. Le ante di queste porte, fra l’altro, possono essere ripiegate in occasione delle feste di palazzo generando un’eccezionale 5 Per l’ideale ricostruzione delle pitture si veda il saggio di C. Acidini Luchinat (1982) realizzato seguendo il manoscritto del Codebò della Biblioteca Estense (1670). È utile la lettura dei due disegni derivati da Mitelli del forlivese G.B. Gatti, conservati alla Biblioteca Piancastelli di Forlì, uno dei quali riporta la scala in piedi modenesi (Matteucci, 1993). Alla Fondazione Giorgio Cini si conservano altri elaborati: uno, con il nome di Flaminio Minozzi, riproduce metà della facciata con una finestra simile a quella della Sala degli Armigeri e al piano terreno, sotto ad un’arcata, la fontana con la figura di Diana, nell’altro si vede invece Ercole sulla fontana mentre numerose figurine, eseguite con un segno di scarsa qualità, si affacciano dalla lunga balconata (Matteucci, 1991). Alla Graphischen Sammlung di Stoccarda si trova un disegno (se ne conosce una copia con varianti) attribuito a Mauro Tesi, con particolari simili ai precedenti, mentre risulta diversa l’architettura: due grandi aperture alla Mitelli sfondano sul giardino con fontane; in quella centrale è presente la statua del Nettuno. Risulta difficile per il momento spiegare questa sostituzione, poi avvenuta, se non ricorrendo all’aspirazione di Francesco I di riacquisire gli sbocchi sul mare degli Este. Nell’articolo di L. Silingardi (2013, fig. 82) si può osservare il prospetto per la facciata meridionale dove nelle finestre all’ultimo piano della parte centrale e in quelle estreme sono parimenti presenti due colonne, ma reggenti l’arcata.
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continuità di spazi; nelle loro aperture vi sono due colonne corinzie di marmo che le nobilitano. L’abilità progettuale di Mitelli emerge particolarmente nelle pareti di fondo (fig. 7) che ho sempre ritenuto siano state un modello per la realizzazione dello straordinario salone di palazzo Albergati del Monti (Matteucci, 1973, p. 233). Nel secondo ordine delle pareti lunghe appaiono, come è noto, in una sorta di cantorie, gruppi di musici sempre molto apprezzati dalla critica per quella verità che da loro traspira, tanto da essere considerati un anticipo sulla futura attività di Giuseppe Maria Crespi (Volpe, 1957). A Sassuolo il figurista Colonna ha al suo arco due differenti modalità di intervento: o si ispira, in un ricordo di Paolo Veronese, alla realtà, come in tutte le comparse che sono presenti pure nelle sale di palazzo Pitti, oppure realizza personificazioni idealizzate e meno espressive. Sempre nella parte centrale dell’edificio si trova la lunga galleria che congiunge l’appartamento del duca a quello della duchessa ed è in posizione parallela allo scalone d’onore e alla Sala delle Guardie. Da una parte le finestre si affacciano sulla piazza antistante il palazzo e servivano anche per assistere ai diversi spettacoli che vi si tenevano, dall’altra danno sulla grande scala e da qui si poteva ammirare il cerimoniale in occasione di fastosi ingressi. Una soluzione che a queste date non pare ancora diffusa in Italia, mentre era già validamente affermata in Spagna. La galleria è dedicata a Bacco (1650-52) e vi sono raffigurate ben quarantun scene a lui riferite dando vita alla “più grande sequenza di episodi dionisiaci mai realizzata in epoca moderna”. Questo soggetto viene scelto perché si tratta di una divinità che simboleggia l’energia della natura e l’ordine morale, ma anche per la sua missione civilizzatrice e per il ruolo di giudice inesorabile nei riguardi di chi non avesse seguito i suoi dettami; figura clemente e misericordiosa, pronta al perdono, ma pure capace di castighi esemplari. È sempre latente l’assimilazione con questa divinità dello stesso Francesco I (Farinella, 2008, pp. 217-19). Nel citato regesto, al 20 giugno 1650, appare uno scritto assai importante e in genere non considerato nella sua completezza: “Nota di spese diverse fra cui carta per li pittori per fare il modello da dissegnare e da scrivere”. Altra carta viene consegnata anche al “S. Agostino e alli pittori Milanesi” (Pirondini, 1982, p. 136). È la prima volta che viene nominato Mitelli da solo, senza il collega figurista che, più anziano di lui, solitamente manteneva i contatti anche di carattere retributivo con i vari committenti: d’altra parte il Colonna aveva già abbandonato Sassuolo. In base a questo documento, viene giustamente ritenuto che Mitelli abbia lasciato disegni per l’architettura della galleria, ma non pare si accenni mai al “modello” citato. Trovo di notevole interesse che tale incarico sia rivolto in generale a tutti i pittori e che venga precisato come il “modello” fosse da disegnare ma anche da scrivere, probabilmente da spiegare.
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Fig. 7 A. Mitelli, A.M. Colonna, veduta della parete di fondo della Sala delle Guardie, Palazzo Ducale, Sassuolo. Fig. 8 A. Mitelli, G.G. Monti, B. Bianchi, J. Boulanger, P.F e C. Cittadini, veduta della Galleria di Bacco, Palazzo Ducale, Sassuolo.
pagina a fronte Fig. 9 A. Mitelli, G.G. Monti, J. Boulanger, P.F. e C. Cittadini, Bacco sul carro trionfale, Galleria di Bacco, Palazzo Ducale, Sassuolo.
Sembrerebbe dunque che questo dovesse essere fatto non dal solo Agostino, ma in collaborazione con gli altri artisti qui impegnati. Indubbiamente l’esecuzione dei tanti temi forniti richiedeva una sorta di complicata regia, ma anche un preciso accordo sull’organizzazione globale. Forse doveva essere approvato da tutti. Pare giusto comunque assegnare ad Agostino l’ideazione del complesso. Dopo il 20 giugno il nome del nostro quadraturista non torna più. L’abbandono della reggia di Sassuolo è stato giustificato da diversi motivi: Crespi indica una insoddisfazione di carattere economico e, naturalmente, viene sempre sottolineata la chiamata dal re di Spagna, rinviata però solo al 1657. Si può pensare che, per un’impresa così complessa e ricca di tante figure di differenti grandezze, si fosse da tempo pensato al Boulanger; in effetti, questi si era in precedenza rivelato l’artista giusto e il risultato fu davvero felicissimo. Per tal motivo Colonna, offeso, se ne era andato? Partito il Mitelli, l’esecuzione degli elementi di quadratura è affidata a Monti e al Bianchi, da tempo suoi collaboratori, i cui nomi ritornano varie volte nei documenti: il 31 dicembre del 1651, ad esempio, viene loro assegnata la provvigione mensile “per dipingere galleria e chiesa” (Pirondini, 1982, p. 138). Ma Monti fu solo un esecutore dei disegni di Agostino o operò anche in prima persona? Nelle sagrestie della cappella palatina si può vedere la sua abilità, ad esempio, nel fare giochi di trompe l’oeil: forse i tanti che figurano nella serie degli arazzi possono spettare anche a sue ideazioni? (Matteucci, 1999) La lunga volta ribassata della galleria (fig. 8) è suddivisa da sorta di illusivi ponti in muratura sovrastati da un berceau ligneo su cui si arrampica la vite con floridi grappoli d’uva;
attorno volano uccelli e corrono gli scoiattoli. Tra un ponte e l’altro si aprono zone di cielo dove sono descritte in scorcio, secondo la consuetudine bolognese del poliprospettivismo, le figure umane dipinte dal Boulanger che interpretano, a conclusione dell’intero ciclo narrativo, gli eventi più importanti della vita del leggendario dio ‘nato due volte’. Appoggiati a questa struttura ‘muraria’, peraltro riccamente decorata, si trovano sedici medaglioni ovali incorniciati da magnifiche ghirlande di fiori o di frutta dei fratelli Pier Francesco e Carlo Cittadini, dove sono raffigurate le storie del giovane Bacco; vengono talora sostenute con nastri colorati da coppie di satiri (fig.9). Dopo l’esempio della Galleria Farnese molti pittori emiliani hanno rappresentato la figura del fauno. Forse perché siamo nel regno di Bacco qui se ne possono contare, in pose differenziate, ben trentadue: splendida esibizione del Boulanger di straordinarie anatomie maschili, realizzate in scala maggiore rispetto a quelle dello stesso Bacco. Percorrendo questa galleria dall’effetto avvolgente, ad una prima lettura non ci si accorge delle asimmetrie presenti e non si coglie immediatamente la differente divisione in parti che avrebbero dovuto essere uguali6. A cosa si deve la scelta di scandire in maniera irregolare la 6
Osservazione scaturita anche alla luce di un primo rilievo a vista fatto da Vincenzo Vandelli che ringrazio vivamente
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pagina a fronte Fig. 9 A. Mitelli, G.G. Monti, J. Boulanger, O. Dauphin, Incontro di Prateo con Bacco, Galleria di Bacco, Palazzo Ducale, Sassuolo
volta? Si potrebbe pensare alla richiesta degli iconologi di inserire altri episodi non previsti all’inizio della progettazione? Per raggiungere la quota di quarantuno episodi si devono considerare anche i cinque riquadri dorati della volta e i quattordici finti arazzi del Boulanger, posti nelle pareti tra le finestre, dedicati ai viaggi di Bacco in lontane contrade. Le figure appaiono molto minute perché ampio spazio è lasciato al paesaggio e in particolare ai grandi cieli con alte e bianche nuvole; una soluzione cromatica molto indovinata sia per la luminosità che conferisce all’ambiente sia per l’effetto unitario ottenuto7. Indubbiamente in questa opera vi è il ricordo della loggia di Psiche di Raffaello, non solo per la quantità di splendidi fiori, ma anche per la presenza nella volta della villa romana di due arazzi agganciati da ambo le parti e pertanto ben tesi. Quelli di Sassuolo risultano invece appesi solo nel lato superiore, derivandone un voluto effetto di disordine e di mobilità. Il trompe l’oeil si compiace di far vedere le tante anelle infilate nell’asta di ferro di sostegno, lasciando scoperti, sul retro, parte di capitelli dorati di colonne ioniche e i finti pilastrini che reggono l’ingannevole trabeazione che sostiene la volta. Il gioco prosegue con la raffigurazione dei diversi putti curiosi, che, volendo guadagnare la scena, ne sollevano le falde increspandoli; si hanno così tanti diversi riflessi di luce e di ombra pure sul grosso bordo ricamato (fig. 10). È stato giustamente sottolineato il rapporto con i finti arazzi dipinti da Domenichino a villa Aldobrandini (Benati, 1993, II, p. 356). Sono molte le felici trovate per annullare il pericolo di monotonia, come, ad esempio, il lasciar filtrare illusivamente la luce: c’è un continuo invito ad osservare i particolari e a comprendere la logica che li propone. A ben guardare le porte d’ingresso agli appartamenti ducali si vedrà che a fianco di queste è simulata la presenza di binati di colonne (una terza è seminascosta) erte su un alto basamento, poste a sorreggere un’aggettante architrave che si estende, assieme allo zoccolo, nelle lunghe pareti, conferendo un senso di unione alle varie scene. Dunque la galleria di Bacco è concepita dall’ ‘architetto’ Mitelli entro un finto loggiato doppiamente colonnato posto forse in un giardino. Fedele alla sua poetica, egli sogna anche qui un’architettura grandiosa e costruibile che illusionisticamente prosegua in profondità quella reale.
con l’augurio che dia presto alle stampe il suo prezioso lavoro. 7 Il Dauphin, nipote di Boulanger, ricorda di aver collaborato nella galleria per vari mesi senza aver ricevuto alcun compenso.
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Fig. 1 Trabeazione con intonaco a marmorino e capitelli con finitura a imitazione del bronzo.
“…amplum, pulcherrimae structurae, et undique pictum a sebastiani ricci et ferdinando bibbiena…”. annotazioni dal cantiere di restauro dell’oratorio del serraglio a san secondo parmense Cristian Prati
Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Parma e Piacenza, Italia
Abstract The historical events of the Serraglio’s Oratory in San Secondo Parmense have been investigated in various contexts, bringing to light elements of certain interest, such as documents relating to payments made by the marquis Scipione I Rossi to Sebastiano Ricci and Ferdinando Galli Bibiena, for the achievement of the extraordinary cycle of interior frescoes. Others, such as the constructive paternity of the building, in reverse, still remain unknown today. In the small religious building, the quadrature of Ferdinando Galli Bibiena, considered the oldest with views of the corner with two fires that are known, intertwined in a lucky partnership with the scenes painted by Sebastiano Ricci. The articulated decorative apparatus, was completed in the short span of a few months, between 1686 and December 1687. In retracing the main construction events of the building and the related decorative apparatus, the present contribution intends to highlight a series of unpublished considerations that emerged during the recent restoration. Keywords Serraglio, San Secondo, quadraturismo, Galli Bibiena, Ricci
Introduzione Le vicende storiche dell’oratorio del Serraglio a San Secondo Parmense sono state indagate in diversi contesti, portando alla luce elementi di sicuro interesse, come i documenti relativi ai pagamenti effettuati dal marchese Scipione I Rossi a Sebastiano Ricci e Ferdinando Galli Bibiena, per la realizzazione dello straordinario ciclo di affreschi interno. Altri, come ad esempio la paternità costruttiva della fabbrica, al contrario, restano ancora oggi ignoti, a dispetto delle numerose ipotesi avanzate. Nel piccolo edificio religioso situato lungo il perimetro dell’ormai perduto muro di cinta del Serraglio, un tempo parco della Rocca dei Rossi, le quadrature di Ferdinando Galli Bibiena, ritenute le più antiche con vedute per angolo a due fuochi che si conoscano (Lenzi, 1991b), s’intrecciano in un fortunato sodalizio con le scene figurate dipinte da Sebastiano Ricci.
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pagina a fronte Fig. 2 Dettaglio della balaustra dipinta con pilastrini tortili.
Queste ultime, principalmente a soggetto mariano, si collocano tra le prime opere databili dell’attività giovanile dell’artista bellunese. L’articolato apparato decorativo, che tanto aveva colpito il vescovo di Parma, Camillo Marazzani, nel corso della visita pastorale del 1717, fu completato nel breve volgere di qualche mese, tra il 1686 e la fine del 1687. Il presente contributo intende proporre una serie di considerazioni inedite emerse nel corso del recente cantiere di messa in sicurezza e restauro degli affreschi, condotto nell’ambito di un più ampio e complesso intervento conservativo dell’oratorio. Grazie all’installazione dei ponteggi e alla privilegiata vista ravvicinata del documento materiale, infatti, si sono resi possibili una serie di accertamenti sino ad ora non verificabili, o perlomeno non documentati nei precedenti cantieri: dalle tecniche pittoriche adottate al ritrovamento di dettagli materici e cromatici frutto di precise volontà progettuali, dall’individuazione di similitudini compositive con altri esempi coevi, sino alla scoperta di alcune curiosità. Vicende storiche e qualche addendum L’oratorio sorge in località Villa Baroni di San Secondo Parmense, in un crocicchio che in passato costituiva uno dei caposaldi del cosiddetto Recinto del Serraglio, un ampio quadrilatero irregolare destinato a parco della Rocca dei Rossi. Un luogo non casuale dove in origine, sul muro di cinta, si profilava un dipinto della Beata Vergine con Bambino, la cui devozione popolare portò dapprima alla costruzione di una piccola cappella votiva e in seguito all’edificazione dell’attuale complesso (Calunga, Rossi, 2000; Pigozzi, 2011). Nel 1663, stante l’accresciuta venerazione per la raffigurazione della Madonna, fu dato corso alla realizzazione di un piccolo oratorio. Fu l’allora prevosto don Francesco Rossi a patrocinarne la realizzazione, non senza i lauti aiuti che provenivano dalla propria famiglia a rimpinguare quanto raccolto con offerte ed elemosine. Sebbene questa fase costruttiva non sia corroborata da alcun documento d’archivio, pare plausibile (Mambriani, 2000a) l’ipotesi che l’originaria cappella sia da ricondursi a parte dell’attuale scarsella, stranamente priva di trabeazione e lesene sino a fondere le pareti con i pennacchi della volta, ove trova ancora oggi collocazione una copia settecentesca dell’affresco mariano. Da notare inoltre come la muratura d’ambito su cui è sistemata l’ancona, analogamente a quella di accesso alla scarsella, sia in asse con la strada per il borgo, forse proprio sul sedime dell’antica cinta muraria. Il cantiere dell’edificando oratorio dovette essere particolarmente tribolato, se come emerge dai documenti notarili del 1684, il suo ‘perfezionamento’ cominciato da almeno
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vent’anni, non risultava ancora terminato. Nell’ottobre di quell’anno il prevosto ne cedette il patronato al conte Scipione I Rossi, il quale fornì l’impulso decisivo per l’ampliamento della fabbrica preesistente. I lavori durarono all’incirca un anno, al termine del quale, il 9 dicembre 1685, Scipione I fu nelle condizioni di incaricare Ferdinando Galli Bibiena e Sebastiano Ricci di “dipingere a fresco l’Oratorio tutto al di dentro da capo a piedi […], cioè parte a figure e parte d’architettura” (Còccioli Mastroviti, 2000a, p. 88). L’attuale configurazione, contraddistinta da terminazioni della croce greca alternativamente tonde e trapezoidali, soluzione pressoché unica che sottende un chiaro intento progettuale, non rispecchiava però lo stato dell’arte al 1685. La lettura stratigrafica degli elevati, infatti, ha consentito di osservare come in seguito siano state giustapposte altre costruzioni, come i due corpi laterali a est e ovest (sagrestia e accesso alla cantoria) che ora inglobano la scarsella, attestate già nel 1717 ma che verosimilmente sono da ricondurre a una fase pressoché contestuale all’ampliamento dell’oratorio, stante la coerenza dell’apparato decorativo con le aperture esistenti su tali lati, ora tamponate. La mancanza di ammorsamenti murari
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pagina a fronte Fig. 3 Quadrature a lato della porta verso il borgo.
e l’occultamento di lesene e cornicione dell’aula, sotto la copertura attigua, ne sono una chiara testimonianza. Fece seguito l’edificazione della casa del cappellano, attestata già nel catasto napoleonico del 1811, a sua volta saldatasi alle addizioni precedenti. […] amplum, pulcherrimae structurae, et undique pictum a Sebastiani Ricci et Ferdinando Bibbiena
Con queste parole Camillo Marazzani, vescovo di Parma, descriveva l’oratorio nel corso della visita pastorale del 1717 (Calunga, Rossi, 2000, p. 203), evidenziando così il fortunato esito del sodalizio artistico tra i due pittori. Gli affreschi furono completati in pochissimo tempo, sebbene non siano stati rispettati i termini del contratto, che prevedeva la conclusione dell’opera entro la fine del 1686. A ben vedere, dopo l’acconto liquidato con la firma dell’incarico, non fu rilasciato alcun pagamento sino al luglio del 1687, quando però al Ricci (Pavanello, 2012; Fadda, 2000) fu assegnata una cifra a saldo, mentre al Bibiena un secondo acconto, lasciando intendere che il maestro bolognese non ebbe modo di lavorare a San Secondo almeno sino alla seconda metà di quell’anno. Va ricordato, infatti, che Ferdinando fu nominato primo Pittore di corte proprio nel 1687, il 1° agosto, e come in quegli anni egli fosse assai impegnato anche in altre imprese. Tra queste si annoverano le scene per angolo del Didio Giuliano di Lotto Lotti realizzate in occasione della riapertura del teatro ducale di Cittadella a Piacenza (primavera 1687), gli affreschi della cappella del palazzo del Giardino di Parma (1687-88), l’avvio dei lavori all’oratorio di San Cristoforo a Piacenza (1687-90), oltre al fitto numero di incarichi in qualità di scenografo (Lenzi, 2000c). Gli ultimi pagamenti ai due artisti risalgono a dicembre del 1687. Nel mese di ottobre il conte Scipione I cedette i propri diritti feudali al figlio Federico, invitandolo a completare i lavori dell’erigendo portico di collegamento con San Secondo, di cui oggi non resta alcuna traccia. Se paiono chiari i ruoli affidati ai due protagonisti, l’uno quadraturista delle architetture dipinte, l’altro figurista dei diversi soggetti mariani, resta ancora oggi sconosciuta la paternità dell’edificio, nonostante le molteplici supposizioni avanzate, da Carlo Virginio Draghi (Cirillo, 2001a) allo stesso Bibiena, sebbene l’intensa attività del maestro in quel periodo parrebbe escluderlo. Vi è forse un’ulteriore ipotesi non sufficientemente indagata. Sebbene, infatti, sia azzardato attribuirne la paternità architettonica a Domenico Valmagini, non si può fare a meno di osservare come ricorrano alcuni elementi riconducibili all’opera dell’architetto ticinese, oltre ad alcune propizie coincidenze.
annotazioni dal cantiere di restauro dell’oratorio del serraglio • cristian prati
Doveroso segnalare lo stretto rapporto intercorrente tra Valmagini e Bibiena, entrambi occupati a Piacenza nel progetto per l’oratorio di S. Cristoforo, iniziato nel gennaio del 1687 e inaugurato il 30 ottobre 1690 (Còccioli Mastroviti, 2004b; Banzola, 1971; Forni 1995). Gli stessi opereranno anche a Parma nella realizzazione degli allestimenti per le nozze del principe Odoardo con Dorotea Sofia di Neuburg del 1690, dove il Bibiena fu chiamato, insieme ai fratelli Mauro di Venezia (Rava, 1966), a disegnare le scene per le feste. Il Valmagini, dal 1679 “Ingeniero della Comunità di Parma”, operò nel ducato farnesiano per circa un ventennio, dal 1677 al 1695, in concomitanza con l’opera di Ferdinando, attestato a Parma prima nel 1672 come collaboratore di Andrea Seghizzi per la decorazione delle lesene della chiesa della Steccata – candelabre del tutto analoghe a quelle che saranno dipinte al Serraglio e con chiari riferimenti alla scena delle Logge terrene del Didio Giuliano – poi con maggiore continuità dal 1680, a partire dal cantiere del Collegio dei Nobili. È altresì nota l’attività dell’architetto ticinese nella vicina Busseto, impegnato nella costruzione del palazzo del Monte di Pietà dal 1679 al 1682, e nuovamente presente nella capitale dei Pallavicino, in occasione dei lavori per il locale ospedale (1686). Prima ancora (1676) lavorò
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Fig. 4 Dettaglio del volto dipinto all’interno del medaglione
nella chiesa di San Vitale a Parma, dove si trovano anche le decorazioni in stucco di Domenico e Leonardo Reti (1666-1669), cui sono stati attribuiti da storici locali, anche i pregevoli interventi al Serraglio. A queste tangenze, si aggiunga l’ottima qualità costruttiva dell’edificio sansecondino, dalla malta di calce alla tessitura muraria, dal sistema di catene del tiburio e della cupola sopra la scarsella (moderne cerchiature ante litteram), elementi che testimoniano una non comune perizia costruttiva, senz’altro assai cara al Valmagini. Molte sono inoltre le affinità tra la fabbrica del Serraglio e quella di S. Cristoforo, quest’ultimo a pianta centrale, come nel caso di San Secondo, sormontato da una cupola dove il Bibiena fornì l’ennesima prova delle proprie abilità da quadraturista, sino a raddoppiarne l’altezza percepita. In entrambe le strutture sono ripresi i disegni delle balaustre a “coppe rovesce” e dei festoni, ma anche nella trabeazione e nella luce tra le lesene parrebbero riconoscibili alcuni elementi comuni. Il cantiere di restauro Il preoccupante stato di conservazione in cui versava l’edificio ormai da diversi decenni, non consentiva ulteriori indugi. Le copiose infiltrazioni d’acqua dalle coperture e il
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consistente fenomeno di umidità di risalita capillare, ma non solo, hanno portato alla formazione di diversi degradi, purtroppo non senza perdite per il prezioso apparato decorativo. Grazie ad una proficua sinergia di risorse erogate da CEI, Fondazione Cariparma e MiBAC, è stato possibile dare corso a un primo intervento di messa in sicurezza e restauro dell’oratorio (2016-2017). Proprio l’installazione dei ponteggi interni ha consentito un esame maggiormente accurato delle superfici decorate da Ricci e Bibiena, portando alla luce alcuni elementi inediti. Si tratta di affreschi realizzati con tecniche tradizionali basate sull’uso di cartoni e relativa trasposizione con incisioni sull’intonaco fresco, di cui si riconoscono in taluni punti le diverse giornate. In alcune aree sono stati rilevati i chiodi che servivano per fissare temporaneamente i cartoni alla superficie, mentre in limitate porzioni è stato riscontrato l’uso della tecnica a spolvero. Più in generale si denota una grande sintonia tra l’opera dei due artisti, che pur giovani, sembrano testimoniare al Serraglio una più antica ‘solidale vicinanza’ (Ghidiglia Quintavalle A., 1956-57), da cui non è estranea la figura del maestro Carlo Cignani. Il veloce ductus pittorico delle pennellate è un’altra costante dell’opera, soprattutto per quanto concerne le quadrature. Non si può escludere che il Bibiena fosse un po’ in affanno, stante i numerosi incarichi ricevuti in quel periodo e visti i termini relativamente brevi del contratto. Come evidenziato, infatti, questi ultimi saranno più che disattesi, pare dunque verosimile ipotizzare una certa premura nel terminare il lavoro. Non devono pertanto stupire taluni evidenti ripensamenti, con incisioni abbandonate o solo parzialmente seguite, sbavature, così come la finitura a secco di altri elementi o ancora l’approssimazione riscontrabile in corrispondenza delle parti nascoste dallo sporto della trabeazione. Ferdinando usò inoltre un piccolo espediente per garantire un maggiore effetto prospettico della volta. Ringrossando di qualche centimetro l’intonaco circostante l’ovato, infatti, riuscì a dare maggiore corpo alla cornice e soprattutto ai vasi, ai volti antropomorfi e alle conchiglie che compenetrano lo sfondato con l’Assunta del Ricci. Il carattere aulico dell’ordine architettonico, con riferimenti all’architettura romana medio-imperiale, è ulteriormente accentuato dall’uso di un intonaco a marmorino per la trabeazione, nei toni del marmo Pavonazzetto – di cui è stato possibile individuare le tracce dei giunti dipinti tra una “lastra” e l’altra – e dall’introduzione di finte tarsie marmoree in corrispondenza dei capitelli, anche queste ultime ideate con un chiaro intento prospettico. A nobilitare l’ordine corinzio dell’architettura, infine, è stata riscoperta la primitiva finitura a finto bronzo dei capitelli e delle basi, in precedenza celata da una scialbatura grigia che ne appiattiva la profondità e la ricchezza. Tale colore ben s’inseriva nella composizione cromatica di terre, tutte in sequenza, che contraddistinguono ancora oggi un impianto dell’aula
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sostanzialmente monocromo. A fronte della rimozione dello scialbo grigio, è stato possibile osservare come le decorazioni dei capitelli con festoni di frutta e volti antropomorfi, siano frutto di più maestranze. Non mancano poi alcune curiosità. I pilastrini della balaustrata proposti nelle semicalotte sopra l’ingresso su strada e in quella contrapposta di accesso alla scarsella, sono tortili, a quanto è stato possibile appurare un unicum nella variegata produzione di Ferdinando, che adotterà tale tema nel disegno di colonne, ma non altrettanto nei balaustri. In una delle due vedute per angolo che inquadrano la porta verso il borgo, inoltre, all’interno di un medaglione incorniciato posto sull’edificio scorciato – tema ricorrente nel disegno della facciata del Collegio dei Nobili a Parma – si staglia un volto dipinto di un giovane, forse un ragazzo, il cui busto appena accennato è avvolto da un drappo. Un autoritratto di uno dei pittori o il ritratto della committenza (magari il giovane Federico Rossi), o più semplicemente un divertissement? La semplicità della figura, abbozzata con l’uso di lumeggiature, parrebbe ricondurre l’opera alla mano dello stesso Ferdinando, anche se la sottostante statua “bronzea”, opera del Ricci, pur non guardandolo direttamente, sembrerebbe enfatizzarne la presenza con la mano rivolta verso l’alto. Infine, ma non meno rilevanti, gli esiti dell’intervento sugli intonaci esterni, le cui porzioni residue erano per lo più riconducibili all’intervento del 1971-72 (Summer, 1976). Tuttavia da alcuni lacerti conservatisi sotto la linea di gronda e grazie alle risultanze dei saggi stratigrafici, è stato possibile individuare le cromie tardo seicentesche, che – al contrario di quanto eseguito in passato – non prevedevano alcuna distinzione tra le paraste e gli sfondati, entrambi color ocra. Alla relativa semplicità, anche cromatica, dei fronti esterni, si contrapponeva dunque lo straordinario ciclo di affreschi interno, contribuendo ancor più ad accrescere lo stupore di chiunque varcasse la soglia dell’oratorio, nel solco della tradizione emiliana (Mambriani, 2000b). Bibliografia Banzola V. 1971, Domenico Valmagini, ingegnere ed architetto di Ranuccio II Farnese, «Biblioteca 70», n. 2, pp. 61-89. Calunga E., Rossi S. (a cura di) 2000, Oratorio del Serraglio dedicato al Santo Nome di Maria, Archeoclub d’Italia, Grafiche Step editrice, Parma. Cirillo G. 2001a, Dipinti inediti del Seicento e del Settecento parmense a proposito del nuovo catalogo della Galleria Nazionale, «Parma per l’arte», anno VII, n. 1-2, pp. 7-67. Cirillo G. 2007b, Architettura dipinta. Le decorazioni parmensi dei Galli Bibiena, Grafiche Step, Parma Fadda.
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E. 2000, Sebastiano Ricci e gli affreschi dell’Oratorio del serraglio, E. Calunga, S. Rossi (a cura di), Oratorio del Serraglio dedicato al Santo Nome di Maria, Archeoclub d’Italia, Grafiche Step editrice, Parma, pp. 101-112. Còccioli Mastroviti A. 2000a, Momenti, aspetti, protagonisti della decorazione a quadratura nel ducato farnesiano: il ruolo dei Bibiena, in E. Calunga, S. Rossi (a cura di), Oratorio del Serraglio dedicato al Santo Nome di Maria, Archeoclub d’Italia, Grafiche Step editrice, Parma, pp. 69-100. Còccioli Mastroviti A. 2004b, L’Oratorio di S. Cristoforo a Piacenza: nuove acquisizioni documentarie, in D. Lenzi (a cura di), Arti a confronto. Studi in onore di Anna Maria Matteucci, Editrice Compositori, Bologna, pp. 235-242. Forni M. 1995, La circolazione della cultura bibienesca nello stato di Milano: tracce per una ricerca, in Sciolla C., Terraroli V. (a cura di), Artisti lombardi e centri di produzione italiani nel Settecento, Bolis, Bergamo, pp. 159-162. Ghidiglia Quintavalle A. 1956-57, Premesse giovanili di Sebastiano Ricci, «Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte», V-VI, pp. 395-415. Lenzi D. 1971a, Problemi bibieneschi in margine a una recente mostra, «Paragone», XXII, n. 259, settembre, p. 45. Lenzi D. 1991b, Ferdinando e Francesco Bibiena. I “grandi padri” della veduta per angolo, in A.M. Matteucci, A. Stanzani (a cura di), Architetture dell’inganno. Cortili bibieneschi e fondali dipinti nei palazzi storici bolognesi ed emiliani, Arts&Co, Bologna, pp. 91-110. Lenzi D. 2000c, La dinastia dei Galli Bibiena, in D. Lenzi, J. Bentini (a cura di), I Bibiena una famiglia europea, Marsilio, Venezia, pp. 18-35. Mambriani C. 2000a, Un santuario mariano in miniatura, in E. Calunga, S. Rossi (a cura di), Oratorio del Serraglio dedicato al Santo Nome di Maria, Archeoclub d’Italia, Grafiche Step editrice, Parma, pp. 55-67. Mambriani C. 2000b, I Bibiena nei ducati farnesiani di Parma e Piacenza, in D. Lenzi, J. Bentini (a cura di), I Bibiena una famiglia europea, Marsilio, Venezia, pp. 97-108. Pavanello G. (a cura di) 2012, Sebastiano Ricci 1659-1734, Scripta edizioni, Verona. Pigozzi M. 2011, Decorazione e devozione nell’Oratorio del Serraglio a San Secondo Parmense. L’architettura virtuale di Ferdinando Galli Bibiena per l’Assunzione della Vergine, «Acta historiae artis Slovenica», 16/1-2, pp. 143-156. Rava C. E. 1966, Note sui Mauro ed i Bibiena a Parma per gli spettacoli farnesiani del 1690, «Arte Lombarda», n. 1, pp. 111-113. Summer L. 1976, L’Oratorio della Madonna del Serraglio a San Secondo Parmense, «Parma nell’arte», n. 2, p. 99.
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Fig. 1 La stanza-giardino di Vincenzo Martinelli a palazzo comunale di Bologna, rilievo tramite scansione laser e rappresentazione complessiva tramite vista aerea assono-metrica.
le stanze-giardino e le prospettive illusorie di vincenzo martinelli a bologna Giuseppe Amoruso
Politecnico di Milano, Italia
Andrea Manti
Università Mediterranea di Reggio Calabria, Italia
Abstract The concept of the stanza-giardino represents an expressive form since ancient times as in the paintings of the Roman domus where the landscapes of the horti picti were animated on the viridaria walls. The research sheds light on the constructive criteria of garden decoration and on the relationship between interior and exterior, highlighting the grammar of the ornament, perspective expedients, building solutions and the use of pictorial and architectural materials. For the works of Martinelli the new aesthetic paradigm was of English origin and was based on three characteristics, variety, beauty and surprise caused by the perspective through the chromatic effects assumed by the foliage and the multi-perspective vision that originates from the insertion of landscape paintings. The study and the graphic analysis of the garden-rooms of Martinelli allow to reconstruct the storytelling of the illusory environment; the digital survey for the first time records the visual imprint of the environment, favoring also the chromatic data and the illusory spatial reconstruction. The thematic representations support further studies on the other rooms that the Bolognese artists have left us.1 Keywords Prospettiva illusoria, quadratura, stanza-giardino, Vincenzo Martinelli, Bologna
Bologna, capitale della prospettiva illusoria In seguito all’arrivo del cardinale Bernardino Spada (1627-1631), inviato come legato dal papa Urbano VIII, Bologna divenne sede privilegiata delle applicazioni della prospettiva illusoria. Grazie a Girolamo Curti, iniziatore di tale tradizione ed in virtù della committenza 1 Questo lavoro rientra in una ricerca più ampia sulla prospettiva architettonica per gli interni; gli autori di tale contributo hanno condiviso tutte le fasi operative di analisi e sopralluogo mentre nella predisposizione dei materiali per la pubblicazione Giuseppe Amoruso ha curato la ricerca storico-critica, la stesura dei testi e l’analisi grafica mentre Andrea Manti ha curato l’elaborazione e la rappresentazione del rilievo eseguito sia con l’uso dello scanner laser che con procedimento di fotogrammetria digitale.
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Fig. 2 La stanzagiardino di Vincenzo Martinelli a palazzo comunale di Bologna. A sinistra, rilievo tramite scansione laser, ortofoto delle pareti della sala. A destra, analisi della prospettiva illusoria e rappresentazione in ortofoto della volta della sala.
illuminata del cardinale Spada, si promossero nuovi tipi e modelli di prospettiva per gli interni. Il Curti (detto il Dentone) decorò la sala Urbana, dedicata proprio ad Urbano VIII e la sala del Dentone (1630 circa) e formò i suoi allievi tra cui Angelo Michele Colonna che nel 1677, di ritorno dalla Spagna dove fu pittore di corte, dipinse la galleria dei Senatori che oggi è la sala del Consiglio comunale. Carlo Cesare Malvasia, autore nel 1678 dell’opera Felsina Pittrice. Vite dei Pittori bolognesi, così ne parlava: preso perciò animo, e comperatosi un Vignola ed un Serlio, si pose ad istudiar gli ordini dell’Architettura ed a praticar le regole della prospettiva (Malvasia, 1678, p. 106; Giuliani, 2007, p. 137).
L’uso della prospettiva per modificare la percezione degli interni fu così diffuso che Giulio Troili, pubblicò un manuale in più edizioni dal titolo Paradossi per praticare la
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prospettiva senza saperla (Bologna 1672 e 1683)2; si tratta di una raccolta delle pratiche della prospettiva per realizzare il cosiddetto ‘sotto in su’. Tali applicazioni si erano diffuse dopo la pubblicazione dei manuali del gesuita francese Jean Du Breuil (1602 – 1670) che scrisse un compendio pratico raccogliendo anche le esperienze di alcuni autori italiani tra cui Viola Zanini ma altresì anticipando soluzioni applicative che poi saranno utilizzate dai prospettivi italiani come il celebre Andrea Pozzo. In particolare la ricerca si è concentrata sull’appartamento del legato pontificio che oltre alla sala Urbana del Curti fu modificato con l’aggiunta di una galleria, la sala Vidoniana, spazi per il soggiorno, la stanza-giardino di Martinelli (oggetto di tale contributo) e la foresteria. Nel 1666 Antonio Masini introdusse per la prima volta il termine “quadratura” secondo il significato contemporaneo rendendo universale tale tecnica di prospettiva architettonica. A partire dal 2014 si è avviata una ricerca sulla prospettiva architettonica come strumento parametrico per il progetto degli interni. L’analisi degli affreschi prospettici ha permesso di verificare i metodi di proiezione delle prospettive, conosciute anche come ‘sotto in su’ e realizzate su soffitti piani e volte. Proprio gli artisti bolognesi realizzarono delle soluzioni che furono ripetutamente imitate in varie regioni italiane ma anche in Spagna e Portogallo: imposero il punto unico di vista, un metodo di proiezione (attribuito a Colonna e Mitelli) per risolvere la proiezione nei saloni oblunghi con l’uso di 4 punti ausiliari per evitare che le porzioni dipinte negli angoli subissero una eccessiva dilatazione, l’assenza di figure allegoriche e l’utilizzo di materiali inorganici che simulassero le superfici architettoniche. La stanza-giardino e l’«artista giardiniere» La ricerca ha seguito una metodologia basata sulla comparazione dei modelli artistici del giardino dipinto negli interni sia analizzando alcuni casi noti dell’antichità ma soprattutto le soluzioni realizzate a Bologna e la loro evoluzione. Successivamente ha analizzato la decorazione della sala che, nel 1797, Vincenzo Martinelli realizzò (assieme al figurista Giuseppe Valiani) presso il palazzo Comunale e che oggi fa parte delle Collezioni Comunali d’Arte; fu decorata come stanza-giardino, secondo la tradizione di ‘sfondare’ gli ambienti domestici con fondali paesistici che raccontassero la natura ed utilizzata probabilmente come sala da pranzo. Più recentemente è stata studiata anche la sala all’interno di palazzo Aldini Sanguinetti, ora sede del Museo internazionale e biblioteca della musica, ad opera dello stesso Martinelli e di Pelagio Palagi.
2 La presenza di Troili diede avvio alla formazione della scuola di quadraturismo locale di cui fecero parte Giuseppe e Francesco Natali e Gian Battista Zaist. In relazione al contributo di Troili fra teoria e pratica vedi M. Pigozzi, 2006.
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Fig. 3 La stanzagiardino di Vincenzo Martinelli a palazzo Sanguinetti di Bologna, rappresentazione di sotto in su della nuvola di punti da rilievo fotogrammetrico.
Il tema della stanza a boschereccia, conosciuta anche come stanza paese, fu ripreso dagli artisti di epoca romantica e appartiene al linguaggio decorativo dell’architettura sin dai tempi antichi come testimoniato dalle pitture delle domus romane dove sui muri dei viridaria si animavano i paesaggi degli horti picti. Le pareti si smaterializzavano integrandosi con il paesaggio circostante e attraverso l’affresco si instaurava un dialogo permanente fra lo spazio reale e quello percepito inevitabilmente illusorio. Tale tipologia si è sviluppata nel medioevo attraverso la realizzazione del giardino dei semplici, uno spazio delimitato e con determinati connotati. Nell’hortus conclusus, ossia il giardino recintato, la funzione decorativa lascia il terreno ad uno scopo pratico e utile, la coltivazione di piante medicinali ed alimentari. Proprio a Bologna, l’agronomo medievale Pier Crescenzi pubblicò il Ruralium Commodorum libri XII, tra i pochissimi trattati medievali di agronomia, presentando tecniche agronomiche e di coltivazione dei giardini, la cui applicazione determinerà lo sviluppo di elementi caratteristici del paesaggio agrario moderno in Italia. Crescenzi diede riferimenti specifici per i giardini “dei re e dei signori”, che dovevano essere circondati di mura, con fontana e “selva d’alberi”; ma anche per i giardini “delle persone mezzane”
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che invece dovevano essere protetti da siepi e alberi da frutto con la presenza di una “pergola ombrosa”. La natura fu sempre più presente nell’immaginario domestico attraverso i repertori botanici o la pratica dell’ars hortulorum. Dal giardino d’amore, diffusosi nei palazzi nobili medievali, nel rinascimento i dipinti murali, a sfondo paesistico, documentano il gusto per un’iconografia diffusa caratterizzata da scorci prospettici come colonnati o filari di alberi che conducono all’interno di un bosco situato nelle vicinanze, o propongono uno spazio rigoglioso nel quale si ha l’impressione di entrare, non appena si varchi l’ingresso della sala. Emblematica la decorazione che Leonardo realizza nel 1498 al Castello Sforzesco di Milano nella sala delle Asse: un bosco rigoglioso fatto di rami intrecciati a formare una pergola di gelsi-mori ma anche la sala delle Cariatidi di Dosso Dossi alla villa Imperiale di Pesaro, affrescata intorno al 1530; qui una natura antropomorfa che richiama le Metamorfosi è la protagonista unitaria di una scena illusoria a tutto tondo che si apre sul paesaggio. Tale spazio prospettico fu il modello per un altro esempio magistrale di ibridizzazione fra illusionismo decorativo e natura: la celebre ed insuperata Sala della Vigna del castello di Belriguardo (Ferrara) commissionata dal duca di Ferrara Ercole II d’Este. Nella stanza-giardino di palazzo Pubblico l’impalcatura prospettica avvolge con le sue geometrie la componente naturalistica, che richiama, nel gusto decorativo e mitologico, la cultura arcadica, con le divinità di Flora e Zefiro e i relativi geni raffigurati in un contesto di architettura illusoria e di pergolato con ricca vegetazione. La stanza-giardino propone un singolare caso di incrocio culturale e visivo, che pur non abbandonando la tradizione delle finte architetture affermatasi nel palazzo Pubblico attraverso i secoli, si collega al gusto coinvolgente e romantico delle stanze dipinte bolognesi. Oltre al caso del palazzo Pubblico, presso palazzo Sanguinetti di Bologna, è presente un’altra sala a boschereccia decorata da Vincenzo Martinelli. Si trova al piano nobile e fu utilizzata come sala da pranzo; era detta infatti anche sala del Convito. Attraverso la documentazione e la trascrizione grafica dei contenuti prospettici, la ricerca fa luce sui criteri costruttivi della decorazione a giardino e sul rapporto fra interno ed esterno mettendo evidenziando la grammatica dell’ornamento, gli espedienti prospettici, le soluzioni realizzative e l’utilizzo dei materiali pittorici e architettonici. Per la stanza-giardino del palazzo Pubblico i riferimenti più diretti sono sempre di artisti bolognesi come Giovan Francesco Grimaldi, che dopo un esordio romano come paesaggista, nel 1649 si trasferì in Francia presso il cardinal Mazzarino. A lui si deve l’innovazione della figurazione naturale negli interni dei palazzi; in particolare è legato al giardino dipinto nella sala della Primavera della villa Falconieri a Frascati (1666): il caso più autorevole di contaminazione naturale degli interni, trasformati in uno scenario pastorale e fiabesco (fig. 3).
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Fig. 4 La stanzagiardino di Vincenzo Martinelli a palazzo Sanguinetti di Bologna, rappresentazione in ortofoto da rilievo fotogrammetrico.
La stanza della Primavera fa parte di una sequenza allestitiva che presenta il ciclo pittorico delle Quattro stagioni: nella decorazione delle pareti i temi naturali sono integrati con le aperture illusorie sul paesaggio mentre nella volta della sala si trova rappresentata sopra tutto la divinità Flora. La stanza manifesta pittoricamente un bosco di verzura che deve indurre un coinvolgimento totale ed ideale dello spettatore nella natura. In questo universo unitariamente realizzato irrompono degli scorci che trasportano lo spettatore verso un desiderato “altrove”, anticipando il modello della boschereccia come espediente per smaterializzare le superfici architettoniche e portare la forza della natura all’interno delle case. Ancora a Bologna, Angelo Michele Colonna e Gioacchino Pizzoli furono artefici di un giardino dipinto a palazzo Cospi Ferretti (1675); un alleggerimento delle pareti che lasciano spazio al verde, una sequenza di finestre prospettiche e apertura di fughe nella vegetazione circostante secondo i modelli di altri palazzi romani, uno per tutti la sala delle Prospettive di Baldassarre Peruzzi nella villa Farnesina, uno dei primi esempi di prospettiva illusoria ambientale che evoca ed ingloba il paesaggio circostante; il Peruzzi nel 1519 dipinse sulle pareti vedute prospettiche aperte tra finti colonnati opportunamente modulati su scorci urbani e campestri. Nella decorazione prospettica di Colonna e Pizzoli,
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Apollo, divinità solare, e Diana, dea lunare della vegetazione, esercitano la loro veglia sui luoghi dove è stata collocata una fonte a conclusione visuale della prospettiva centrale. Per le opere di Martinelli il nuovo paradigma estetico si ispirava a modelli di provenienza inglese includendo tre caratteristiche principali, la varietà, la bellezza e la sorpresa che veniva provocata attraverso la proposizione di percorsi, traiettorie visive e l’introduzione di un gioco di quinte prospettiche. La prospettiva continua a svolgere un ruolo fondamentale nella creazione di tale opera illusoria poiché asseconda lo spettatore attraverso gli effetti cromatici assunti dal fogliame nelle diverse e l’utilizzo di una visione multi-prospettica che si origina dall’inserimento di ‘quadri’ di paesaggio. La stanza-giardino di Martinelli crea un ambiente naturale e allo stesso tempo vincolato geometricamente attraverso l’inserimento di ampi scorci prospettici, sia sulle pareti che sul soffitto che di fatto si smaterializza diventando un giardino pensile; il giardino simula un ambiente architettonico fatto di verzura, un allestimento con varchi a trama larga attraverso i quali l’occhio si allunga sul paesaggio a bosco che si perde all’orizzonte verso specchi d’acqua; si richiama anche l’antica arte della potatura a scopi ornamentali che impone una rigorosa forma geometrica, diversa da quella naturalmente assunta dalla pianta. Si crea pertanto un insieme armonico dove l’ornamento materiale si integra con quello a siepe geometrica, richiamo all’ars topiaria di Roma che trovò nel Templum Pacis, costruito sotto Vespasiano (74 d. C.), uno degli esempi magistrali. Uno dei più importanti riferimenti letterari dell’epoca fu il trattato scritto da Ercole Silva Dell’arte dei giardini inglesi, che introduceva in chiave innovativa un preciso valore pittorico al paesaggio. Silva parlava della figura dell’artista giardiniere che si distingueva, per sensibilità, dall’architetto. Se nell’architettura l’opera si realizza immediatamente, nel giardino essa si realizza in divenire e spesso non offre alcuna certezza della sua effettiva concretizzazione. L’unico riferimento che l’uomo può porsi appartiene all’Arte, perché solo quest’ultima è talmente perfetta da offrire modelli perseguibili (Pelissetti, 2010, pp. 145-146).
Entrando nella stanza-giardino di Martinelli nel palazzo Pubblico di Bologna, la decorazione induce una naturale sensazione di refrigerio supportata dalla presenza delle quattro fontane. L’immersione nel paesaggio è totale poiché la scenografia si completa elevando lo sguardo sulla volta: un pergolato da giardino con armatura di profilo curvilineo, rivestito da rampicanti ornamentali fiorito lascia penetrare la luce, che vibra sul giardino dipinto. Si ritrovano altri caratteri geometrici ricorrenti come l’alternanza di esagoni e ottagoni che aprono e chiudono verso il paesaggio e l’utilizzo di finte porte rivestite anch’esse dalla decorazione a verzura. La prospettiva centrale sulle pareti si poggia su quadri di paesaggio con
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fuga prospettica che converge a tre differenti punti, per addolcire l’effetto tridimensionale e dare maggiore profondità percettiva e spaziale all’intera stanza (figg. 1, 2). Se nelle quadrature di Curti e Colonna il progetto della prospettiva realizzava percettivamente il raddoppio del volume ambientale, nella stanza del Martinelli in palazzo Comunale, la volta (a padiglione, come di consueto per l’epoca) viene decorata a simulare una pergola sferica; una cupola idealmente poggiata sulla stanza, troncata negli angoli della stanza (che ospitano dei vasi) e spianata in sommità proprio per favorire un ulteriore allungamento prospettico. Come nel caso di Frascati, le divinità di Zefiro e Flora sovrastano l’ambiente all’interno di uno sfondato circolare che sembra proprio richiamare quello aperto da Andrea Mantegna nel soffitto illusivo della Camera degli Sposi nel castello di San Giorgio a Mantova (1474); anche in quel caso la scena era arricchita dalla presenza di putti in situazioni di gioco. Nel caso della boschereccia di palazzo Sanguinetti invece, la sala presenta una intelaiatura a pergolato che descrive una forma ellittica sull’intradosso della volta mentre una soglia di pietra al livello del pavimento induce a varcare percettivamente la parete entrando nel paesaggio circostante (fig. 4). Conclusioni Le stanze giardino di Martinelli, qui presentate per la prima volta a confronto, mostrano il modus operandi degli artisti bolognesi che integrava sia l’ideazione che la progettazione di uno spazio illusorio integrale. A partire dalla trasfigurazione negli interni del giardino naturale si instaurava un dialogo fra la cultura del tempo e l’anima dell’ideatore-creatore e lo spettatore che si materializzava con la collocazione di tombe, obelischi, templi e grotte e, più in generale, paesaggi del pittoresco. Nel caso della boschereccia dipinta nel pianterreno di palazzo Hercolani, oggi sede universitaria, la natura dipinta penetra nell’interno domestico e invita gli ospiti a dialogare visivamente con traguardi, tempietti e statue collocati su delle visuali preferenziali. Fu decorata da Rodolfo Fantuzzi nel 1810, a simulazione e anticipazione di un grande giardino che il proprietario fece realizzare successivamente all’esterno del palazzo. L’intento illusorio, in questo caso, era completato dall’inserimento delle ombre portate sul pavimento realizzate agevolmente con un mosaico in graniglia di marmo. Lo spazio prospettico unitario e multi-prospettico, simula diversi paesaggi a bosco, e si addentra nei dettagli caratteristici degli alberi, dall’orizzonte fino al primo piano. Lo studio e l’analisi grafica delle stanze giardino ha permesso di ricostruire il percorso narrativo proposto dagli artisti secondo una tradizione di prospettiva illusoria permettendo una più ampia conoscenza della decorazione prospettica e delle sue regole. Si tratta di pratiche sperimentate e affinate nel corso degli
le stanze-giardino e le prospettive illusorie di martinelli • giuseppe amoruso, andrea manti
anni e secondo segreti di bottega che riproducevano un fattore ambientale e cromatico a supporto allo scorcio prospettico. Il rilievo digitale ha permesso rapidamente di acquisire il calco dell’ambiente privilegiando anche la possibilità di riprodurre un percorso esperienziale tramite video animazioni; le rappresentazioni qui presentate forniscono ulteriori elementi di approfondimento e critica in un quadro multidisciplinare che, assieme al contributo di altri specialisti, potrà fornire maggiori elementi conoscitivi sulle esperienze artistiche dei quadraturisti e degli artisti giardinieri bolognesi. Bibliografia Amoruso G. 2016, Figuring Out the Interiors through the Geometric Tools of Representation: The Illusory Cast of Design, in L. Crespi (a cura di), Design Innovations for Contemporary Interiors and Civic Art, IGI Global, Hershey, PA, pp. 289-310. Amoruso G. 2016, The perspective tabernacle of Bitonti and Borromini, the geometric protocol of baroque solid space, in M. Bini, S. Bertocci (a cura di), Le ragioni del disegno. Pensiero, forma e modello nella gestione della complessità, Atti XXXVIII Convegno internazionale dei Docenti delle Discipline della Rappresentazione - XIII Congresso della Unione Italiana del Disegno (Firenze 15, 16, 17 settembre 2016), Gangemi, Roma, pp. 1017-1020. Amoruso G., Manti A. 2017, Le prospettive illusorie nella stanza-giardino del Palazzo Pubblico di Bologna, in A. Di Luggo, P. Giordano, R. Florio, L. M. Papa, A. Rossi, A. Zerlenga, S. Barba, M. Campi, A. Cirafici (a cura di), Territori e frontiere della Rappresentazione / Territories and frontiers of Representation, XXXIX Convegno internazionale dei Docenti delle discipline della Rappresentazione UID 2017 (Napoli, 14-15-16 settembre 2017), Gangemi, Roma, pp. 133-140. Giuliani E. 2007, Dal naturalismo dei Carracci all’illusionismo prospettico di Girolamo Curti detto il Dentone, in M. Pigozzi (a cura di), La percezione e la rappresentazione dello spazio a Bologna e in Romagna nel Rinascimento fra teoria e prassi, CLUEB, Bologna, p. 137. Landi E. 2015, Il cielo in una stanza. Il giardino dipinto in Emilia-Romagna, in C. Tovoli (a cura di), Giardini nel tempo. Dal mito alla storia, IBC Emilia Romagna, Bologna, pp. 31-54. Lui F. 2013, Viaggio nelle stanze romantiche. Scena e retorica degli interni, Bononia University Press, Bologna. Malvasia C.C. 1678, Felsina Pittrice. Vite dei pittori bolognesi, II, Bologna Pelissetti L.S. 2010, Il ruolo di Ercole Silva nella diffusione del giardino ‘all’inglese’ tra XVIII e XIX secolo, in F. Finotti (a cura di), Melchiorre Cesarotti e le trasformazioni del paesaggio europeo, Edizioni Università di Trieste, Trieste, pp. 145-164. Pigozzi M. 2006, Da Giulio Troili a Ferdinando Galli Bibiena. Teoria e prassi, in F. Farneti, D. Lenzi (a cura di), Realtà e illusione nell’architettura dipinta: quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Atti del convegno internazionale di studi (Lucca, 26-28 maggio 2005), Alinea, Firenze.
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proposta per un aggiornamento del catalogo di francesco natali quadraturista Fig. 1 Castione, chiesa di S.Giovanni Battista, decorazione a quadratura.
Anna Còccioli Mastroviti
Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Parma e Piacenza, Parma, Italia.
Abstract The latest restoration work of the parish church in Castione di Ponte dell’Olio (Piacenza) was an opportunity to study and to gain a better knowledge of the cultural property. At the beginning of the 18th century, the church of San Giovanni Battista was the object of important works, which were promoted by count Pier Francesco Rossi Salvatico, canon of the Piacenza’s cathedral (+1754). He established the art commission in charge of the decorations, entrusting them to local and foreigner artists. Inside, the church is characterized by a wonderful pictorial setup and trompe l’oeil, which is considered as one of the most important examples of painted architecture in the Farnese’s territory (secondary only to the works by Francesco Porro in the presbytery of Bobbio’s cathedral, 1723-1726). It is a decoration of extreme interest, with painted furnishings covering the whole central nave, the walls and the lateral chapels, which host the altars. Similar works were made by Francesco Natali in the church of San Giorgio in Sopramuro (1711), in the church of Teatini di San Vincenzo (1732) and in the church of Teresiane (1710; 1733). All of them are located in Piacenza. Keywords Painted architecture, perspective, noble commission
La chiesa di S. Giovanni Battista e la committenza dei conti Salvatico L’intervento di restauro degli affreschi nella chiesa di Castione di Ponte dell’Olio concluso nella primavera 2016 è stato occasione di studio per una approfondita conoscenza del bene, occasione per mettere sul tavolo di lavoro una serie di sollecitazioni e di spunti, di interrogativi e di confronti che potranno offrire ulteriori elementi per una futura indagine sulla decorazione a quadratura nelle chiese e nei palazzi della città e del territorio. La famiglia dei conti Salvatico, signori di Ponte dell’Olio, suddivisa in vari rami, compare a Piacenza all’inizio del Duecento. In città possedevano numerose case nella parrocchia di S. Donnino e nella parrocchia di S. Antonino sullo stradone Farnese, oltre al palazzo all’attuale civico 29. La documentazione d’archivio, in larga parte inedita, ci consente di ricostruire il cantiere di palazzo Salvatico sullo stradone Farnese al civico 29, e di quello sito nella
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parrocchia di S. Antonino, confinante, come ci ricordano le fonti, con i palazzi dei conti Appiani d’Aragona e Marazzani Visconti, le cui finestre si affacciavano sulla chiesa dei Teatini di S. Vincenzo, ma anche della costruzione della chiesa, della nuova canonica e del cimitero di Rizzolo, borgo rurale alle porte di Ponte dell’Olio. È ancora la documentazione d’archivio fonte imprescindibile per la ricostruzione delle vicende del cantiere della chiesa di S. Giovanni Battista in Castione, piccolo borgo rurale sulle colline a sud di Piacenza, il cui nucleo settecentesco è oggi connotato da una facciata neogotica costruita nel 1922 su progetto dell’architetto Camillo Guidotti. La chiesa è stata teatro di una sfarzosa decorazione a fresco e a stucco realizzata nel primo Settecento (fig. 1). Promotori, i parroci Giovanni Battista Giri (1718-1749), Francesco Caneva (1749-1775) e Paolo Barbieri (1775-1813) di concerto con i conti Salvatico, signori di Castione di Ponte dell’Olio e di gran parte di quel territorio, che sappiamo detentori di numerosi beni a Rizzolo, Tollara, di un palazzo a Ponte dell’Olio (tuttora esistente ancorché ampiamente rimaneggiato), e che proprio a Castione possedevano l’antico castello, che le fonti del 1736 ricordano riccamente arredato e “cinto di mura, con cortile in cui vi è la chiesa Parrocchiale, un torrione, stalla da cavalli e da buoi”1. Le visite pastorali, in particolare, forniscono importanti informazioni sugli arredi della chiesa, oggetto di una importante campagna di lavori all’inizio del XVIII secolo. All’avvio della costruzione della nuova fabbrica, diede un impulso determinante il conte Pier Francesco Rossi Salvatico, canonico della cattedrale di Piacenza (+1754) al quale si deve, con ogni probabilità, anche la scelta degli artisti: il quadraturista responsabile dello sfolgorante apparato illusionistico e il figurista autore dei Misteri del Rosario nella cappella della Beata Vergine del Rosario. Nato a Piacenza e avviato allo stato ecclesiastico coronato con il canonicato della cattedrale, Pier Francesco Rossi Salvatico era ben inserito nel clima culturale e artistico del primo Settecento e risiedeva spesso nel castello di Castione. A lui si devono le principali commissioni per gli arredi e per la decorazione della chiesa di Castione2. Del resto lo stemma del casato, trinciato da una banda a quadri bianco-neri che divide il quadro superiore rosso da quello inferiore verde, testimonia e conferma il ruolo che la famiglia svolse nelle vicende del cantiere della decorazione (fig. 2). Se la realizzazione dell’apparato pittorico illusionistico di Castione è ancorabile con certezza, sulla base delle fonti, al biennio 1731-1732, sono le ragioni dello stile con il quale è tradotto il concetto di spettacolo grandioso, pervaso di festosa luminosità, attraverso Archivio di Stato, Piacenza (ASPc), Archivio Salvatico, b. 81, serie Atti diversi dal 331 al 380. Archivio Parrocchia di Ponte dell’Olio, Benefici e Doni fatti a questa Chiesa di S. Giambatista di Castione…, carte sciolte. 1 2
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i mezzi più spericolati del virtuosismo pittorico e illusionistico che rimandano alle precedenti invenzioni prospettiche di Francesco Natali, attento alle soluzioni messe a punto da Ferdinando Galli Bibiena, attivo nel ducato farnesiano a partire dal 1682. Non conosciamo l’anno di fondazione della chiesa di S. Giovanni Battista. Tuttavia, alcune note d’archivio ci informano che l’edificio, a pianta longitudinale con tre cappelle intercomunicanti per lato, fu oggetto di interventi strutturali nel primo Settecento; che nel 1718 fu sopralzata la torre campanaria; che nel 1724-1725, su commissione del canonico Rossi Salvatico, fu riedificata la facciata e fu costruita la sagrestia. A distanza di circa quattro anni, il 20 maggio 1729, un violento temporale danneggiò seriamente la torre campanaria, la facciata della chiesa e i fulmini, “penetrando per la cappella della Concezione nella Sagristia” arrecarono gravi danni anche gli arredi lignei, al cui recupero “provvide generosamente” il canonico Rossi Salvatico3. Dalle note d’archivio apprendiamo anche che il cantiere si protrasse nei decenni successivi al 1729 e i lavori coinvolsero la cappella della Beata Vergine del Rosario, sede della Compagnia del Rosario ivi eretta nel 1697. Il manoscritto registra che nell’“anno 1731 e 1732 fece pitturare la Chiesa”, ma non cita il committente dell’apparato pittorico ornamentale che possiamo identificare, per quanto sopra argomentato, con il conte Pietro Francesco Rossi Salvatico. Si tratta di un’importante operazione registrata solo in parte negli atti delle visite pastorali di monsignor Giorgio Barni, vescovo di Piacenza dal 1688 al 1731 e del suo successore, monsignor Gherardo Zandemaria (1731-1746). Una proposta per Francesco Natali quadraturista Lo sfolgorante apparato pittorico dell’architetture dell’inganno che riveste la chiesa da cielo a terra, fu realizzato da un quadraturista di formazione bibienesca, ma a conoscenza delle più aggiornate soluzioni elaborate sul volgere del Seicento e nei primi decenni del Settecento in area lombarda, in una felice compresenza operativa, almeno per quanto concerne la cappella della Beata Vergine del Rosario, con il figurista Bartolomeo Rusca (Arosio,1680/85-Madrid, 1750) e con uno stuccatore ancora non identificato. La decorazione è affidata ad apparati pittorici integrali coinvolgenti la volta della navata, le pareti e le cappelle laterali che ospitano gli altari del Rosario e del SS. Sacramento (fig. 3), sull’esempio di quanto era stato fatto a Piacenza ove i precedenti più autorevoli sono alcune opere acclarate al catalogo di Francesco Natali, quadraturista casalasco, e precisamente nell’oratorio di S. Giorgio in Sopramuro (1711), nelle chiese dei Teatini (1732), delle 3 Archivio Parrocchia Ponte dell’Olio, Ad eternam rei memoriam Beneficij et doni fatti a questa Chiesa di S. Giambattista di Castione dall’Ill.mo Sig. Co. Pierfrancesco Rossi Salvatico, Can.co nela Cattedrale di Piacenza, ms. di carte sciolte; Ferruccio Borotti, Castione e la sua chiesa. Storia e origine di Castione i restauri della chiesa, Piacenza, [Borotti], 1941 che però non cita i documenti d’archivio.
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Fig. 3 Castione, chiesa di S. Giovanni Battista, particolare decorazione navata centrale.
pagina a fronte Fig. 4 Piacenza, chiesa delle Teresiane, decorazione di Francesco Natali e Sebastiano Galeotti.
Teresiane (1710,1733) (fig. 4), ma anche la decorazione della chiesa di S. Maria delle Grazie, ricostruita nel 1716 alle porte della città, la cui decorazione, eseguita entro il 1717, mi pare ascrivibile per ragioni stilistiche a Francesco e al figlio Giovan Battista4. Francesco Natali è quadraturista aggiornato, legato da amicizia con committenti illuminati fra i quali il marchese Carlo Dosi e i conti Cavazzi della Somaglia, apprezzato anche ben oltre i confini del ducato farnesiano. A Castione siamo in presenza di rappresentazioni di architettura che, sfruttando ora la prospettiva lineare, ora la prospettiva aerea, inducono nello spettatore una percezione di profondità che sfonda e va oltre il limite della superficie reale, dilatando così lo spazio che le ospita. Ma si deve altresì sottolineare che queste creazioni non sarebbero state possibili se il quadraturista non avesse posseduto la consapevolezza delle leggi della proiezione centrale e senza una conoscenza dei complessi meccanismi della percezione visiva. Regista indiscusso del cantiere decorativo, il quadraturista tracciò la partitura spaziale adeguandola alle dimensioni dell’edificio. Nelle tre campate di cui si componeva l‘originaria struttura tardo seicentesca della chiesa sono ordinatamente costruiti tre sfondati: il primo dei quali, costituito da una grande 4 Roma, Archivio dell’Almo Collegio Inglese, Piacenza, libro 505 e “Libro o Squarcio dell’Almo Colleggio Inglese di Roma principiato adì 12 luglio 1701 da P. Federico Maffei della Compagnia di Gesù Procuratore del med. Col.”. Cfr. anche Archivio Curia Vescovile, Piacenza, Oratori pubblici, b. 1, 1700-1718, Le Mose.
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apertura ellittica, sostenuta lateralmente da un complesso sistema di volute e di robusti mensoloni, reca al centro due graziosi putti in volo; il secondo apre su un doppio sfondato in un complesso gioco di illusorie balaustre ellittiche; il terzo ripropone il motivo dell’apertura centrale sul cielo infinito, al centro della quale sono disposti due putti recanti la Croce. La finzione prospettica trionfa sulla seconda campata (attuale terza)5 della navata (fig. 5), ove si apre un doppio sfondato in un complesso gioco di illusorie balaustre ellittiche che delimitano il partito centrale, nel quale un profondo cupolino dotato di una balaustra dipinta in forte scorcio prospettico sfonda sul cielo, secondo un modulo compositivo che il figlio di Francesco Natali, Giovan Battista, ripropose, con articolata complessità, sulla volta della Certosa di S. Martino a Napoli nel 1750. Ed è proprio il cupolino l’elemento di maggiore novità nella costruzione prospettica della volta che, distante dalla soluzione ideata da Ferdinando Galli Bibiena per la cupola dell’oratorio di S. Cristoforo a Piacenza (1690), fedele alla pittura prospettica e ai modelli di fratel Pozzo, lo rivela proiettato verso esiti nuovi della quadratura. Alla base di questo complesso sistema, dall’assetto compositivo biabsidato e con balaustrini ora ‘a vaso’, ora bombati, analoghi a quelli dipinti dallo stesso Francesco Natali nelle sale al piano nobile del palazzo piacentino dei conti Cavazzi della Somaglia, corre un ricco festone 5 Sull’attuale prima campata della volta, portato dell’ampliamento realizzato nel 1922, Ernesto Giacobbi (Piacenza,1891-1964) ha riproposto l’illusorio sfondato prospettico che orna l’attuale terza campata.
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Fig. 5 Castione, decorazione a quadratura della volta della navata.
vegetale identico a quello dipinto dal quadraturista sulla volta dell’oratorio di San Giorgio in Sopramuro a Piacenza e in precedenza nell’oratorio di San Ranieri a Livorno (1705-1707) (D’Aniello, 2001). Si riconosce inoltre la sigla stilistica di Francesco Natali nelle volute e nei plastici mensoloni che si dipartono da una cornice mistilinea, in parte derivati da quelli ideati e dipinti da Giuseppe Natali (1696) sulla volta della navata centrale della chiesa dei Padri Predicatori di San Giacomo a Soncino, ove egli è documentato con i più giovani fratelli Pietro (Casalmaggiore, 1663-?), Francesco e Lorenzo (Casalmaggiore, 1673-?). Gli elementi strutturali qui proposti denunciano l’aggiornamento culturale del quadraturista e la ricchezza tematica del suo repertorio. Stringenti analogie sono riscontrabili con l’inedito apparato illusionistico presente sulla volta di una sala terrena di palazzo Serafini, con la decorazione, prima citata, della volta del seicentesco oratorio di San Giorgio in Sopramuro, alle quali si aggiungono rimandi a certi particolari dipinti nella cappella di Sant’Antonio nella chiesa di Santa Teresa pure a Piacenza, ove Francesco Natali lavorò con Sebastiano Galeotti (1676-1741). Le affinità nella scelta tipologica e compositiva, nel repertorio decorativo, sono tali da ipotizzare che il quadraturista abbia utilizzato i medesimi cartoni, adattandoli alle diverse dimensioni dell’ambiente. I vasi ornati con fiori e inserti vegetali, la foglia di acanto arricciata e ritorta, quella stessa presente nella cappella di Sant’Antonio in Santa Teresa, nell’alcova di palazzo Barni a Lodi, sulla volta del coro e del presbiterio (1721-1722) della chiesa dei Domenicani
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di San Giovanni in Canale a Piacenza, sono un motivo ricorrente nelle quadrature di Francesco Natali: compaiono anche nella chiesa di San Pietro Apostolo a San Pietro in Cerro, nella chiesa delle Teresiane, ma anche nelle sale di palazzo Calderari a Turano Lodigiano e nella villa Pio Falcò a Mombello di Imbersago (Còccioli Mastroviti, 2018). Le quadrature dei Natali, in primis quelle ideate da Giuseppe e da Francesco, sono contraddistinte da una ‘soda’ impostazione, danno vita a costrutti virtuali ma collaudabili e percorribili, ed è questa la sigla stilistica che le distingue dalle quadrature del più giovane G.Battista Natali, elegantissime e di raffinata leggerezza nella cromìa, ma che, soprattutto dopo il 1735, evolvono verso un maggiore linearismo decorativo, con arcate illusorie illeggiadrite da vasi e da ghirlande di fiori, deprivate del plasticismo robusto proprio delle invenzioni dello zio Giuseppe e del padre Francesco. Le quadrature della volta della navata della chiesa di Castione definiscono un’architettura complessa ma ‘reale’, non fantasiosa. Il partito decorativo ideato dal quadraturista si amplia fino a invadere le pareti della navata, i semipilastri, sui quali sono dipinti conchiglie, cartouches e volute, e le cappelle laterali. Lungo le pareti della navata e nelle cappelle che ospitano gli altari laterali si susseguono eleganti cartigli impreziositi dal motivo della conchiglia, caro al repertorio di Francesco Natali, volute e foglie di acanto arricciate. L’apparato pittorico sembra rivelare una concezione prospettica più statica nella quadratura della volta che lungo le pareti. In realtà, vi è sottesa una caratterizzazione forse più dinamica che potrebbe essere confermata attraverso il rilievo dell’intero vano e tramite la realizzazione dei fotopiani delle pareti e delle coperture, discernendo le informazioni presenti sui palinsesti pittorici è possibile localizzare i punti di vista, i fuochi, l’orizzonte, i piani prospettici. Il restauro di un apparato pittorico a quadratura come quello della chiesa di Castione richiederà infatti un approccio multidisciplinare, con il concorso del restauratore e dello studioso del quadraturismo e della prospettiva che possa indirizzare tutte le necessarie operazioni tecnico-pratiche. La decorazione della chiesa di San Giovanni Battista è il portato della felice collaborazione di un quadraturista al quale si deve la grande macchina illusionistica dipinta sulla volta e sulle pareti lungo la navata centrale, e di un figurista che ha dipinto le singole scene dei Misteri del Rosario, il ticinese Bartolomeo Rusca. Insisto sull’apparato pittorico illusionistico, la quadratura, connotata da un luminoso cromatismo, solo a tratti smorzato dalla patina del tempo, da un dinamismo compositivo che soprattutto sulla volta si qualifica come una delle più riuscite creazioni di Francesco Natali, confermandone da un lato la maturata sapienza costruttiva radicata nella conoscenza profonda delle regole matematico-prospettiche, dall’altro l’attenzione al rococò, ai modi dei colleghi di area lombarda, non escluso il Cremonese, territorio della Lombardia asburgica. Nel rapporto tra quadraturista e figurista, il primo prevale e con esiti peraltro molto significativi. Gli ingannevoli costrutti dipinti
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sulla volta della navata della chiesa di Castione denotano un attento studio delle macchine architettoniche virtuali dei bolognesi Angelo Michele Colonna (1604-1687), e Agostino Mitelli (1609-1660), di Ferdinando Galli Bibiena e di Andrea Pozzo. Per tutta la prima metà del Settecento dunque, Giuseppe e Francesco Natali attivi dal Ducato farnesiano allo Stato di Milano, a Vicenza, a Genova e a Novara (Dell’Omo, 2018), lungo percorsi e committenze ancora in parte da ricostruire, si confermano tra i principali interpreti dei grandi apparati di architetture dell’inganno, dispiegati su volte e soffitti di chiese e palazzi, veri e propri capiscuola di un indirizzo di gusto che affascinò vescovi e alta nobiltà. Lo attestano, da un lato, la chiamata di Giuseppe Natali nei primi anni del Settecento a Lodi, nel cantiere del palazzo su contrada di Porta Regale che il conte Antonio Barni, fratello di Giorgio, vescovo di Piacenza (dal 1688 al 1731), stava facendo ampliare e sfarzosamente decorare,, dall’altro l’impresa del “bell’Oratorio di S. Ranieri” (Zaist, 1770) a Livorno, ove Francesco, fra il 1705 e il 1707, eseguì la decorazione a quadratura dell’intero edificio. La decorazione della parrocchiale di San Giovanni Battista a Castione, realizzata fra il 1731 e il 1732 si inserisce dunque nel più ampio catalogo dell’attività del nostro quadraturista, siglandone gli anni della maturità. Eredi di questa cultura e in linea con il rococò di G. Battista Natali sono, fra gli altri, il cremonese G. Battista Zaist e Gaetano e Giuseppe Magri, quadraturisti piacentini attivi alla corte di Napoli intorno alla metà del Settecento. Bibliografia Bossaglia R., Bianchi V., Bertocchi L. 1974, Due secoli di pittura barocca a Pontremoli, Sagep, Genova. Còccioli Mastroviti A. 2006, Francesco Natali quadraturista momenti e aspetti della decorazione a quadratura fra Toscana, ducato Farnesiano, Lombardo Veneto, in Farneti F., Lenzi D. (a cura di), Realtà e illusione nell’architettura dipinta quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Lucca, 26 - 28 maggio 2005), Alinea, Firenze, pp. 295-306. Còccioli Mastroviti A. 2011, Francesco Natali, in E. Bianchi, R. Colace (a cura di), Artisti Cremonesi. Il Settecento, Cremonabooks, Cremona, pp. 232-239. Còccioli Mastroviti A. 2014, Barocco nello Stato di Milano: committenti e artisti per la decorazione a quadratura a Cremona e nel territorio, in V. Cazzato, S. Roberto, M. Bevilacqua (a cura di), La Festa delle Arti. Scritti in onore di Marcello Fagiolo per cinquant’anni di studi, 2 voll., Gangemi, Roma, II vol., pp. 594-601. Còccioli Mastroviti A. 2015, In Piacenza travagliò assai considerabili lavori dell’arte sua Architettonica nel Palagio del sig. Cont’Ercole della Somaglia…”: architetture dell’inganno nel
proposta per un aggiornamento del catalogo di francesco natali • anna còccioli mastroviti
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il quadraturismo a pontremoli: committenti e artisti Fig. 1 Pontremoli, palazzo Pavesi, stanza da letto attuale, quartiere terreno, Veduta di carceri, Giovan Battista Natali.
Fauzia Farneti
Università degli Studi di Firenze, Italia
Abstract Century, he bought some adjacent buildings of medieval plant in the “vicinia” of San Colombano which, starting from the 1730s, constituted the original core of the family palace. In 1779, the building reached the nowadays aspect with the purchase by Vincenzo of the rooms of the “Pontremoli community casino” by Vincenzo, son of Giuseppe Pavesi. Giovan Battista Natali was a versatile artist, architect and painter of architecture, disciple of his father Francesco and his uncle Giuseppe. His work in Pontremoli for the Pavesis, attested from the end of the thirties, regarding the two apartments on the noble floor of the city palace of the brothers Francesco and Giuseppe, and the ground floor of the archdeacon Paul. Giovan Battista in the palace and in the villa Pavesi offers examples of complex scenographies with a decorative repertoire characterized by pediments, shells, flower vases, balconies. In these large decorative sites, Natali collaborates with his nephew Antonio Contestabili. Keywords Pontremoli, quadraturismo, architettura dipinta, Giovan Battista Natali
I primi documenti che riferiscono notizie sulla famiglia Pavesi1 di Pontremoli concernono Lorenzo Pavesi2, padre di Girolamo, che in Lunigiana creò un consistente patrimonio costituito da terreni e fabbricati3. Quest’ultimo, nella seconda metà del Seicento4, acquistò nella “vicinia” di San Colombano alcuni edifici adiacenti di impianto medioevale che, a partire dagli anni trenta del Settecento, costituiranno il nucleo originario del palazzo familiare. Nel 1 Famiglia originaria di Piacenza; di Pavia secondo Elvio G. 2014, p. 90. La famiglia Pavesi produceva e commerciava damaschi di seta, assieme ai Dosi e ai Damiani, e costituiva la più grande casa di commercio fra Livorno e Piacenza nel XVIII secolo. Ringrazio Francesco e Carlo Ruschi per la squisita disponibilità dimostrata nell’apertura del palazzo e della villa al gruppo di ricerca del Dipartimento di Architettura. 2 Archivio Pavesi, Pontremoli (= APP), Nobiltà famiglia Pavesi, 19 agosto 1630. 3 A conferma di questo, l’estimo di Hieronimy Pavesi del 1638, dove sono riportate tutte le proprietà comprese quelle di Teglia, a pochi chilometri da Pontremoli. Cfr, Archivio di Stato, Pontremoli (= ASP), Estimo del 1638. 4 Si tratta delle case: Calzolari (febbraio 1655, APP, Istrumenti Pontremoli), dei conti Belmisseri adiacente la precedente (15 giugno 1677, APP, Istrumenti Pontremoli) e nel 1689 la casa “su piazza” degli stessi proprietari (20 dicembre 1689, APP, Istrumenti Pontremoli).
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1694 a questi5 furono annessi “pescheria, beccheria,[…] siti sotterranei, et orto”6, che andranno a realizzare una nuova porzione di edificio, costruita per volontà di Francesco, Giuseppe e Paolo Pavesi7 nel 17348; la residenza giunge all’attuale conformazione nel 1779 con l’acquisto delle stanze del “casino della comunità di Pontremoli” da parte di Vincenzo, figlio di Giuseppe Pavesi. Le fonti documentarie permettono di ricostruire l’avvicendarsi delle proprietà delle ‘case’ preesistenti e di ricostruire una parte di storia di questa importante porzione urbana di Pontremoli in cui si sviluppava la ‘piazza di Sotto’, uno spazio urbano di particolare importanza destinato fino al XVII sec. anche allo svolgimento dei mercati9. La piazza e la limitrofa via Ricci Armani erano luoghi particolarmente richiesti per l’edificazione delle residenze dell’aristocrazia pontremolese; nella vicinia di San Colombano infatti sono attestati i palazzi dei Dosi, dei Venturini, dei Ferdani, dei Maraffi e dei Damiani. Nel 1734 i fratelli Giuseppe, Francesco e Paolo, “consigliati da maestri architetti”, diedero inizio ai lavori di riplasmazione della dimora di famiglia a partire dalla facciata, regolarizzandola con l’arretramento “di circa onzie quindici di braccia commerciale” della porzione della parte dell’edificio lungo la via, “più bassa della limitrofa”, e avanzando “di onzie dieci”10 il prospetto del palazzo sulla piazza, “posto sulla cantonata”. Si ritiene che uno dei ‘maestri architetti’ sia Giovan Battista Natali11, artista poliedrico, architetto e pittore di architettura. Allievo del padre Francesco12 e dello zio Giuseppe13, fu attivo in numerose città fra cui Parma14, Piacenza, Pontremoli, Napoli, Genova, Savona, Cremona, Lucca e Casale Monferrato. Nel 1732 l’architetto-prospettico aveva “inventa(to)” l’oratorio di Nostra Donna a Pontremoli15, ricostruito subito dopo l’alluvione 5 Archivio di Stato di Massa, sezione di Pontremoli (=SASP), Antico Comune, Consigli Generali (1692-1701, 7 gennaio 1694. 6 Archivio di Stato, Firenze (=ASF), Pratica Segreta di Pistoia e Pontremoli, 595. 7 Nipoti di Girolamo Pavesi. 8 APP, Istrumenti Pontremoli, 9 aprile 1734. 9 Dalla fine degli anni cinquanta del Seicento cambia la conformazione della piazza di Sotto, fino a quel momento utilizzata per i mercati del bestiame; infatti la comunità di Pontremoli nel settembre 1657 decide di spostare i mercati per dare maggior decoro alla piazza, considerata “un sito il più bello” della città, collocandoli in un’area “fuori delle mura castellane di Pontremoli”: ASF, Nove conservatori del dominio e della giurisdizione fiorentina, 3586, 11 settembre 1657. La decisione dello spostamento è testimoniata in un documento, corredato di una veduta con legenda, che mostra la città sullo sfondo dei due fiumi, Verde e Magra 10 Un’oncia di Pontremoli corrisponde a circa 4,5 centimetri. 11 Archivio Dosi Delfini, Pontremoli (=ADDP), DD 13, filza 1, Lettere di Artisti-Pittori, Piacenza 2 ottobre 1742, 30 gennaio 1743. 12 A proposito di Giovan Battista, Francesco riferisce che fra “tutti i miei figlioli mi fa impazzare, non vuole studiare niente”. ADDP, DD13, filza 1, Lettere di Artisti-Pittori, lettera da Milano del 12 novembre 1711. 13 Pittore e architetto, riconosciuto come “il più attivo e originale dei Natali di Casalmaggiore”. Zaist, 1975, p. V. 14 ADDP, DD13, filza 1, Lettere di Artisti-Pittori, 19 febbraio 1728. 15 Biblioteca Governativa, Lucca (=BGL), ms 1918 numero 4. La testimonianza del manoscritto è avvalorata anche dalla lettera che nel 1755 Giovan Battista scrive a Giuseppe Antonio Dosi esprimendo un parere sull’oratorio
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dello stesso anno; al Natali si devono anche le progettazioni dell’atrio della chiesa di San Francesco16, dove il padre aveva dipinto la cappella dedicata allo stesso santo e alcuni anni dopo, comunque ante 1742, della “casa” di Giuseppe Antonio Dosi per “rendere (la) comoda”17, dove dà prova di conoscere il barocco romano e, in particolare, Borromini. Infatti la soluzione del sovrapporta dell’atrio di palazzo Dosi sembra essere una citazione del portale laterale del prospetto dell’Oratorio dei Filippini e trova nessi logici nell’oculo del motivo d’angolo del collegio di Propaganda Fide, come le modanature e le cornici delle aperture dei prospetti dei palazzi Dosi e Pavesi, elementi che informano anche i costrutti architettonici dell’inganno. I connotata del linguaggio architettonico di Giovan Battista sono chiaramente visibili quale, ad esempio, il frontone mistilineo delle finestre del secondo piano, spezzato con volute laterali ai lati della piattabanda in conci bugnati,che trova corrispondenze nella soluzione ornamentale degli altari dell’oratorio di Nostra Donna. La forma della cornice in pietra delle finestre del piano nobile di palazzo Pavesi e la conclusione laterale con volute di quelle del secondo piano mostrano assonanze con l’apparato dipinto sulle pareti del salone, la cosiddetta “galleria”, dell’appartamento su Piazza dello stesso edificio, ad inquadrare vedute di paesaggi e rovine. Un repertorio decorativo costituito da elementi spezzati, invertiti, aggettanti e rientranti spesso presente nell’architettura reale e dell’inganno di Giovan Battista Natali. Il prospettico offre non solo a Pontremoli esempi di complesse scenografie, con un repertorio decorativo caratterizzato da frontoni, conchiglie, vasi di fiori, balconcini; nella sua attività più matura mostra un progressivo allontanamento dalla credibilità architettonica, vicina al fare compositivo paterno, e la tendenza a costruire architetture meno ‘sode’, a camuffare, a celare la struttura, a nasconderla mediante vasi, cesti di fiori, ghirlande, un linguaggio più ornamentale, permeato di nuovi elementi da vedere nell’orbita lombarda (Coccioli Mastroviti, 2015, pp. 177-186). L’ornato rocaille informa anche i disegni “estrosi e complicati” 18 (Cioffi, 2017, p. 84) da lui eseguiti nel 1764 per le dodici consolles e le “12 cornici da specchio” (Sancho, 2000, p. 92) della sala del Trono nel palazzo Reale di Madrid, dove si trasferisce al seguito del conte Felice Gazzola assieme a Francesco Sabatini. che dimostra di conoscere anche nelle sue strutture (ADDP, faldone 13, filza 1 Lettere di pittori, 29 luglio 1755). 16 “L’atrio di detta chiesa è inventato da Gio. Batta. Natali essendo di pietra con colonne, e pilastri, e d’avanti di esso vi è un piedistallo con una concezzione di marmo”, BGL, ms 1918, numero 4. 17 Giovan Battista Natali scrive a Giuseppe Antonio Dosi riguardo ai disegni relativi alla distribuzione degli ambienti e alla realizzazione di due logge nel palazzo. ADDP, faldone 13, filza 1, Lettere di pittori, 2 luglio 1742; in un’altra lettera parla dei disegni del portone, del cornicione e della facciata di palazzo Dosi, facendo riferimento al prospetto di palazzo Pavesi. ADDP, faldone 13, filza 1, Lettere di pittori, Piacenza 2 ottobre 1742. 18 Per il rapporto fra la sala del Trono di Madrid e la cappella Sansevero a Napoli e il significato iconografico massonico si rimanda a Cioffi 2017, pp. 84-85.
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pagina a fronte Fig. 2 Pontremoli, palazzo Pavesi, salone su Piazza del piano nobile, finto portico dipinto sulle pareti, Giovan Battista Natali.
La sua attività a Pontremoli per i Pavesi, nei due appartamenti del piano nobile del palazzo di città dei fratelli Francesco e Giuseppe19, e in quello terreno di Paolo, arcidiacono, è attestata a partire dalla fine degli anni Trenta. Il nome dell’esecutore della decorazione pittorica del salone si evince da una lettera di Giovan Battista inviata da Piacenza, datata gennaio 1743, in cui scrive “[…] alla mia venuta a Pontremoli che sono fra quindici giorni al più, per fare la galleria al Sig. Giuseppe Pavesi”20; in questo ampio cantiere decorativo il Natali collabora con Antonio Contestabili21 che decora “cinque camere […] con applauso del medesimo in città”22. Nell’ottobre del 1750 Giovan Battista, che si trovava a Napoli, affida al nipote l’esecuzione del costrutto ingannevole dello scalone di palazzo Dosi23 che trova affinità con il repertorio architettonico anche di Francesco Natali24. Significativa a questo proposito la lettera scritta da Paolo Pavesi in cui si fa riferimento alla decorazione dell’appartamento di “Ottavia […] con pitture fatte dal sig. Natali”25: si tratta del quartiere su Piazza del piano nobile in cui il prospettico nel 1743 dipinge il salone, l’alcova e il corridoio limitrofo. Le ingannevoli macchine architettoniche delle due sale adiacenti al salone sono state realizzate presumibilmente da Antonio Contestabili, che utilizza elementi strutturali e decorativi analoghi a quelli del lessico del Natali, tradotti però con cromie, con un uso di luce e di ombra tali da distinguere la mano dell’allievo da quella del maestro. I costrutti architettonici virtuali eseguiti da Giovan Battista nella scelta tipologica e compositiva, nel repertorio decorativo sono tali da ipotizzare che il quadraturista abbia utilizzato cartoni impiegati in altri cantieri anche non pontremolesi, adattandoli alle diverse dimensioni dell’ambiente. Un esempio rilevante è il ricco apparato plastico delle sale del quartiere terreno26 posto a completamento superiore delle cornici mistilinee dorate, dipinte a contenere vedute di paesaggi, roccioso e marino, e rovine di edifici antichi a 19 La decorazione della galleria è realizzata dopo il gennaio del 1743. ADDP, faldone 13, filza 1 Lettere di pittori, 30 gennaio 1743. 20 ADDP, DD 13, filza 1 Lettere di Artisti-Pittori, 30 gennaio 1743. 21 BGL, ms. 1918, numero 4 Descrizione delle chiese e dei palazzi di Pontremoli: “Casa Pavesi […] sono dipinte le stanze da Gio Batta Natali e da me”. Antonio Contestabili è nipote di Giovan Battista Natali. 22 ASF, Pratica Segreta di Pistoia e Pontremoli, b. 292 8filza di suppliche 1770). 19 maggio 1769, c. 104. 23 ADDP, DD 13, filza 1 Lettere di Artisti-Pittori, 27 ottobre 1750. Dal momento che il suo soggiorno a Napoli si sarebbe prolungato, propone a Giuseppe Dosi di fare “li disegni” presumibilmente per le decorazioni del palazzo di Pontremoli, consigliandogli di farsi “servire” da suo nipote, Antonio Contestabili, che “è molto migliorato da quello lo lasciai alla mia venuta a Napoli”. 24 Si fa riferimento, ad esempio, alla scala dipinta da Francesco nella cappella di S. Niccolò da Tolentino nella chiesa dell’Annunziata e nella galleria di casa Ferdani a Pontremoli. Si tratta comunque di un costrutto che Francesco inserisce anche nelle sale delle residenze di Piacenza e non solo. 25 APP, Amministrazione fratelli Ruschi Pontremoli, Lettere, s.d. Si tratta di Ottavia Ricci, moglie di Giuseppe Pavesi. Lo stemma della famiglia Ricci è apposto nella galleria principale. 26 Gli apparati pittorici delle quattro sale terrene sono stati riportati alla luce da un intervento di descialbo realizzato nei primi anni del XXI secolo.
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imitazione di quadri, una modalità ampiamente documentata anche a Firenze a partire dagli ultimi decenni del Seicento27. Inoltre il paesaggio marino dipinto su una parete dell’attuale sala da pranzo terrena trova analogie con quello del sovrapporta del salone di villa Pavesi a Teglia. Sulla parete lunga della camera da letto il prospettico dimostra di essere aggiornato sulle novità in campo pittorico, la veduta di carceri (fig. 1)), che trova diffusione nell’ambiente bolognese dai primi decenni della seconda metà del Settecento ad opera di Mauro Tesi (Matteucci, 2002). Evidente è l’affinità della veduta con una incisione delle Carceri di inventione di Giovanni Battista Piranesi28; lo stesso tema viene riproposto da Antonio Contestabili in un sovrapporta del salone terreno della villa di Teglia. Nello spartito architettonico virtuale della copertura voltata, in analogia con soluzioni architettoniche reali di altri ambienti artistici, il prospettico mostra di portare avanti un virtuosistico esercizio di svuotamento e dilatazione dello spazio che modifica sostanzialmente la geometria della copertura reale, articolata spazialmente su tre piani. La soluzione compositiva, poco utilizzata a Pontremoli, trova affinità nella cupola dell’oratorio di Nostra Donna e nella volta del salone Fra gli esempi fiorentini più significativi si citano i quadri virtuali dipinti da Jacopo Chiavistelli in una sala terrena di palazzo Gerini. 28 La datazione delle quattordici tavole delle Carceri di inventione è ancora incerta; punto di riferimento è la data della ristampa, il 1751. Almeno due edizioni precedenti vennero diffuse dall’editore Bouchard datate tra il 1745 e il 1751, cfr. Wilton-Ely J., 1994, p. 22. 27
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pagina a fronte Fig. 3 Pontremoli, palazzo Pavesi, salone su Piazza del piano nobile, soluzione angolare con l’articolato motivo giocato su linee rette e curve, Giovan Battista Natali.
di villa Pavesi a Teglia. Giovan Battista, collaborando con il padre in numerosi cantieri decorativi, aveva avuto la possibilità di esercitarsi sulle modalità di risolvere le coperture voltate tenendo conto anche delle soluzioni adottate dai Bibiena29. Per Francesco e Giovan Battista i modelli bibieneschi costituirono uno stimolo per le innovative e spesso suggestive proposte che tenevano conto anche delle soluzioni di Andrea Pozzo, diffuse tramite il Trattato. Nel salone su Piazza del piano nobile di palazzo Pavesi30, le pareti e la copertura sono interamente decorate con elementi architettonici che dimostrano ancora una volta la straordinaria perizia prospettica del Natali, con raccordi angolari che rimandano a Pozzo. Lungo le pareti si articola un finto porticato architravato nelle cui campate trovano posto fastigi mistilinei che accolgono vedute di paesaggi montani. Nello stesso salone il pittore elabora una variante della decorazione del fusto delle colonne utilizzata dal padre Francesco31, sostituendo le spire di foglie dorate con fiori colorati (fig. 2), uno stilema che impiegherà anche nel salone di villa Malaspina a Caniparola, nel lucchese palazzo Buonvisi (1743), a Piacenza nella chiesa di Santa Maria del Carmine (1733) e a Napoli32 dove si trasferisce al seguito del conte piacentino Felice Gazzola. Giovan Battista Natali godeva della grande fiducia del re Carlo di Borbone, che lo nominò nel 1752 pittore di camera, e fu un protetto di Maria Amalia di Sassonia, la quale apprezzò il suo delicato ed estroso rocaille vicino, per certi aspetti, a quello degli artisti di Meissen (Cioffi, 2017, p. 88 nota 45). Nella cappella di Santa Maddalena nel napoletano monastero di San Martino, il Natali sostituisce i fiori colorati con una spira dorata di foglie lanceolate, una modalità riproposta nel salone di villa del Cardinale Giuseppe Spinelli33 a Torre del Greco in un apparato architettonico attribuito ai fratelli Magri (Fiorillo, Pascariello, 2015, p. 348) ma che a Cito a questo proposito il costrutto di una sala di villa Dosi a Pontremoli e della cappella maggiore della chiesa di San Giovanni a Piacenza. 30 La stessa soluzione anche nel salone di villa Malaspina a Caniparola. 31 Vedi il salone di villa Dosi. È uno stilema che evidenzia ancora la sua vicinanza al fare paterno, ai disegni inseriti da Andrea Pozzo nel suo trattato, riproposto dal gesuita sulle pareti di palazzo Contucci a Montepulciano, e alle colonne realizzate da Francesco Galli Bibiena nel salone di villa Prati a Collecchio di Parma. La stessa tipologia Giovan Battista la impiegherà anche a Napoli in un altare della chiesa di Santa Brigida. 32 Un riferimento si trova anche nella sala dei Busti a Castelcapuano, dove la colonna scanalata è cinta da una spira più fitta che denota una vicinanza ai modi del Natali. Sigismondo riferisce “Fu ridotto il salone come si vede al presente nell’anno 1752, e vagamente dipinto a fresco per gli ornamenti ed architetture dal celebre Giovan Battista Natali piacentino”; si veda Sigismondo,1788. 33 Questa villa ‘di delizia’ fu progettata nel 1744 per uso personale, dall’architetto Gennaro de Laurentis. Nel 1746 la vendette al cardinale Spinelli, giunto a Napoli nel 1743 come arcivescovo della diocesi, che ne fece la propria dimora estiva. Il salone della villa è attribuito a Giuseppe e Gaetano Magrì, pittori di origine piacentina attivi a Napoli nella seconda metà del Settecento; tuttavia, le macchine architettoniche ideate sulla volta e sulle pareti, gli elementi decorativi, l’uso del chiaroscuro e i cromatismi presentano a mio avviso evidenti analogie con le opere di Giovan Battista Natali. 29
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mio avviso potrebbe essere a lui assegnato per le evidenti analogie linguistiche con il suo repertorio. A questo proposito risulta significativa anche l’affinità della specchiatura centrale della volta di quest’ultimo salone con quella dipinta dal Natali nel salone su Piazza del pontremolese palazzo Pavesi34; la soluzione angolare di entrambi i costrutti, con l’articolato motivo giocato su linee rette e curvilinee35, trovano riferimenti nell’architettura reale e nella trattatistica36 (fig. 3). Contemporaneamente ai lavori di riplasmazione e decorazione del palazzo di città portati avanti dai tre fratelli Giuseppe, Francesco e Paolo, a partire dal 1734 viene costruita da Giuseppe una villa a Teglia37. La progettazione e la decorazione viene affidata a Giovan Battista Anche in una sala di palazzo Petrucci. Questo motivo viene assimilato anche da Antonio Contestabile. 36 Vedi la figura n. 59 inserita del Trattato di Andrea Pozzo che trova riferimenti nella finestra laterale della facciata di palazzo Barberini, attribuita a Francesco Borromini. 37 La proprietà di Teglia è di proprietà Pavesi già nel 1638, ed era costituita da campi coltivati, da prati per il pascolo e boschi di castagno. ASP, Estimo, Pontremoli San Colombano1638, Estimo D. Hieronimus Pavesius, c. 173. 34 35
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Fig. 4 Teglia (Pontremoli), villa Pavesi, salone terreno, macchina architettura dell’inganno dipinta sulle pareti, particolare, Giovan Battista Natali.
Natali negli anni immediatamente precedenti al suo soggiorno napoletano38. Alcune immagini dipinte nelle sale39, che raffigurano i fronti anteriore e posteriore della villa, articolati da un portico a tre campate, attestano un programma edilizio molto ambizioso che trovò parziale attuazione. Il salone, che occupa la posizione centrale dell’appartamento di rappresentanza, è dominato da un camino incorporato nella ingannevole macchina architettonica del Natali composta da paraste impostate sulla pavimentazione reale, rudentate nel terzo inferiore, da volute, valve, mensole, frontoni spezzati e da vedute paesaggistiche, di vita campestre e di interni, messe in evidenza dalla ricca cornice a finto stucco (fig. 4). Stringente è l’analogia con la decorazione della stanza da letto terrena del palazzo di città. Il capitello delle paraste, a volute invertite e con l’abaco decorato da un elemento fitomorfo, mostra evidenti affinità con quelli utilizzati da Giovan Battista Natali nelle decorazioni parietali del salone e di una stanza di villa Malaspina a Caniparola e dell’alcova e del salone del pontremolese palazzo Dosi. Il gioco fra concavità e convessità si esplicita negli Giovan Battista si trasferisce a Napoli al seguito del conte Felice Gazzola, che tra il 1745 e il 1750 guida un importante progetto archeologico. 39 In un sovrapporta e in corrispondenza del camino del salone. Inoltre, nel Ritratto di Giuseppe Pavesi, realizzato da Giuseppe Bottani nel 1750, il committente “mostra su un tavolo la pianta della propria casa”. Non riscontrando affinità con gli ambienti del palazzo è plausibile che la planimetria a forma di ferro di cavallo indichi uno dei progetti della villa di Teglia. 38
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Fig. 5 Teglia (Pontremoli), villa Pavesi, salone terreno, macchina architettonica dell’inganno dipinta sulla copertura voltata, Giovan Battista Natali. Fotopiano realizzato da Monica Bercigli.
intercolumni e nei balconcini in rapporto all’andamento della copertura. Si tratta di una decorazione integrale che coinvolge le pareti in una successione di quinte prospettiche che trovano la loro conclusione nella copertura voltata in cui si apre una cupola virtuale: la soluzione modifica la geometria dell’involucro reale, anticipata dalle cupole dipinte agli angoli e sull’asse principale (fig. 5), in una straordinaria dilatazione dello spazio costruita con i mezzi prospettici, con il colore e la luce. È una tipologia architettonica virtuale di grande ariosità che viene da lui riproposta a Napoli e che trova diffusione anche in Puglia (Di Liddo, 2010) e in Sicilia.
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Fig. 1 Sezione trasversale dell’alcova di Palazzo Pavesi. Visualizzazione della nuvola di punti e del disegno cad.
le quadrature di palazzo pavesi a pontremoli: il contributo del rilievo digitale per la comprensione del processo creativo delle decorazioni di una dimora barocca Stefano Bertocci, Monica Bercigli
Università degli Studi di Firenze, Italia
Abstract The study of this unique and successful set of fabrics of architecture and painting has been dealt by the experienced consolidated research group on the theme of Quadraturism of DIDA Department. The point of view that authors have always pursued is to consider the architectural structure not only as a simple container of the “quadrature”, but as a fundamental element of the creative process of the painter - architect who imagines and represents with the techniques considered more appropriate, for that site and that particular architectural space. The tools of architectural survey have made it possible to evaluate appropriately the close relationships between architectural design and decorative system. Through the digital survey techniques it was possible to make the first observations on the use of interesting perspective techniques implemented by the artists who worked in the main decorated rooms of Palazzo Pavesi in Pontremoli. Keyword Quadrature in Pontremoli, perspective, quadraturismo, Giovan Battista Natali
Introduzione e contesto1 Pontremoli, una piccola ma interessante cittadina dell’Appennino toscano, capoluogo della Lunigiana, è stata nei secoli crocevia di antichi percorsi e snodo strategico sulle vie di collegamento tra la Pianura Padana, la Liguria e l’Italia centrale. Il controllo di questa posizione di collegamento fu conteso da varie signorie italiane a partire dal XVI sec. Per la sua importanza strategica, dopo diversi passaggi nel 1650, Pontremoli entrò a far parte del Granducato di Toscana (Giuliani, 1952; Bossaglia, Bianchi & Bertocchi, 1974) e visse un lungo periodo di stabilità politica e prosperità economica. Si deve a questo periodo la crescita del potere economico di alcune famiglie locali e il rinnovamento della classe nobiliare locale con 1 Si devono a Stefano Bertocci i paragrafi dal titolo “Introduzione e contesto” e “Palazzo Pavesi”. Si deve a Monica Bercigli il paragrafo dal titolo “La documentazione digitale di Palazzo Pavesi” e i relativi sottoparagrafi. Gli elaborati sono stati realizzati da Irene Mancullo, Evelina Proto, Simona Scarnera e Rossella Semerano all’interno del Corso di Rilievo dell’Architettura del Prof. Bertocci, A.A. 2016/17.
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Fig. 2 Dal rilievo digitale agli elaborati grafici: elaborazione della nuvola di punti per la realizzazione di disegni 2D .
l’estendersi degli interessi da parte di casate mercantili provenienti sia dalla Toscana che dal modenese con la realizzazione di numerosi esempi di palazzi e ville suburbane, in uno scorcio relativamente breve del XVIII secolo. In particolare si nota sostanzialmente l’attività di un numero ristretto di operatori, quali Francesco Natali, suo figlio Giovan Battista Natali e Antonio Contestabili (Còccioli 2002; Còccioli 2005). Questi pittori esperti soprattutto di prospettive illusionistiche, data la favorevole situazione economica, operarono spesso congiuntamente. Le caratteristiche del luogo in cui sorge la piccola cittadina, chiusa e difesa da mura e fortificazioni e posta alla confluenza di due fiumi nello stretto fondovalle, ne hanno determinato lo sviluppo della conformazione urbanistica lineare lungo gli assi stradali paralleli ai due corsi d’acqua. Il risultato a livello urbano è costituito da assi viari pressoché rettilinei affiancati da palazzi e palazzetti dalle facciate sostanzialmente in linea con la sobria architettura toscana del tardo rinascimento, dotati solitamente di un unico portale di accesso (Bossaglia, Bianchi & Bertocchi, 1974). Soltanto i palazzi più grandi differiscono per il numero di assi di aperture e sono articolati anche su tre piani. A parte i rari connotati barocchi dei portali e delle cornici delle facciate soltanto una volta entrati all’interno si scoprono cortili porticati, articolati spesso su due o tre ordini, e grandi scaloni spesso con caratteri monumentali, articolati tramite più branche che connettono i vari piani destinati a grandi appartamenti signorili per i vari nuclei della famiglia nobiliare titolare. Gli appartamenti sono solitamente distribuiti attorno ad un salone centrale sul quale si aprono le varie camere; sul retro dei palazzi si trovano sovente ameni giardini barocchi di limitata estensione realizzati utilizzando lo
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spazio esistente fra l’abitato e le mura lungo il fiume. Si deve sottolineare che, tranne alcuni casi, la permanenza delle proprietà storiche o i rari passaggi di mano degli immobili più importanti, oltre alla sensibilità degli attuali proprietari e ad una coerente politica dell’amministrazione, hanno permesso una buona conservazione degli stabili nelle forme originali. In alcuni casi si trova ancora quasi intatto l’arredo tardo barocco, come accade nel caso di palazzo Pavesi, oggi di proprietà della famiglia Ruschi Noceti. Palazzo Pavesi Palazzo Pavesi è una fra le più grandi residenze di Pontremoli e si trova nella piazza centrale del paese. Si sviluppa su tre piani e due cortili e si apre verso il torrente Verde tramite una loggia che introduce un interessante piccolo giardino barocco. Il palazzo risulta costituito dall’unione di diversi edifici preesistenti e l’attuale conformazione, risalente alla prima metà del XVIII secolo, si deve all’attività dei fratelli Pavesi. Gli edifici preesistenti furono riuniti in un unico complesso abitativo su progetto di Giovan Battista Natali2. Il palazzo ha un impianto ad L e conserva su tutti e tre i piani appartamenti sapientemente decorati con quadrature; le diverse unità immobiliari si articolano attorno ai due cortili interni i cui ingressi si aprono uno sulla via principale ed uno sulla piazza. Dall’ingresso posto sulla piazza del comune si accede ad un cortile, porticato su due lati, con facciate decorate a stucco con intarsi in spugna; il portico è arricchito al piano terra con ovali in stucco contenenti una serie di busti di personaggi illustri. Dal fondo del lato lungo del portico, attraverso un portale con arco mistilineo, si accede allo scalone principale costituito da un ampio volume che si sviluppa in altezza oltre le coperture del corpo di fabbrica principale aprendosi nella parte alta con finestrature che illuminano il pozzo scala. Le ampie rampe dello scalone terminano su ripiani di distribuzione articolati tramite due fornici per piano, quasi a suggerire una loggia che si sviluppa su due ordini completata in alto da un terrazzo: al piano terreno si conservano alcune sale decorate; al primo piano si trovano i due appartamenti principali che conservano un salone ciascuno e diversi salotti ed alcove; al secondo piano un altro appartamento con un salone ed alcuni salotti con pitture che oggi appaiono ampiamente rimaneggiate. Le quadrature di quest’ultimo appartamento rappresentano uno dei migliori esempi, anche in relazione allo stato di conservazione, dell’opera di Giovan Battista Natali a Pontremoli e di Antonio Contestabile. Il salone presenta un impianto decorativo che coinvolge sia le pareti che il soffitto. Le pareti sono articolate da un finto porticato architravato che si sviluppa lungo tutto il perimetro
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Per approfondimenti sul palazzo si rimanda al testo di Fauzia Farneti in questo volume.
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Fig. 3 Salone principale, alcova e sala di rappresentanza del primo piano di Palazzo Pavesi (Ruschi-noceti).
proponendo una sorta di galleria nelle cui campate, oltre alle porte di accesso ai salotti contigui, alle due finestre verso la piazza ed alla vetrata con il terrazzo verso il giardino, trovano posto fastigi mistilinei che accolgono vedute di paesaggi montani. Al di sopra della galleria, la cui trabeazione comprende anche la cornice reale in stucco, sulla quale si imposta la grande volta ribassata di copertura, si apre una imponente costruzione prospettica. In primo piano un’articolata cornice mistilinea con una balaustrata sorretta da alte volute accoglie al centro dei lati lunghi gli emblemi nobiliari della committenza ed al centro dei lati corti nicchie con vasi affiancate da medaglioni con paesaggi. In secondo piano si apre una luminosa galleria, coperta da un’articolata soffittatura cassettonata al centro della quale si apre uno sfondato che lascia intuire un ulteriore spazio con gallerie coperte con volte.
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La documentazione digitale di palazzo Pavesi Il paragrafo3 illustra le principali attività svolte per il progetto di documentazione delle quadrature di palazzo Pavesi, ed in particolare riguardo agli strumenti utilizzati per il rilievo e ai processi di post-produzione semi-automatizzati che sono stati utilizzati. Al fine di disegnare e rappresentare un manufatto in modo appropriato, è necessario conoscerne i dettagli facendo riferimento alla documentazione storica e quindi osservando e analizzando criticamente i manufatti. I disegni accurati, indipendentemente dal loro impiego finale, sia per un progetto di restauro che per la visualizzazione digitale, devono essere basati sull’identificazione e la valutazione di fonti pertinenti al fine di garantire l’integrità intellettuale dei metodi di visualizzazione. Il rilievo Laser Scanner Per quanto riguarda gli strumenti utilizzati, si è proceduto al rilievo scanner laser, al fine di garantire la corretta accuratezza del rilevamento metrico. Per collegare le scansioni consecutive, sono stati utilizzati target di riferimento, facilitando così la fase di registrazione della nuvola di punti. In una fase immediatamente successiva è stato effettuato un controllo, la cosiddetta “validazione della nuvola di punti” che prevede la creazione di sezioni verticali e orizzontali per verificare in determinate parti della nuvola di punti eventuali disallineamenti tra scansioni. A questo punto è possibile esportare i dati per la realizzazione di disegni 2D in due modi: automaticamente, eseguendo tagli e sezioni nei punti di interesse, ottenendo “spline” o “polilinee” esportabili in formato.dxf o esportando immagini raster 2D che verranno quindi importati in Autocad per procedere con il ripasso vettoriale delle immagini. In questo caso il passaggio tra immagini raster e ripasso manuale è indispensabile poiché non è possibile ottenere un disegno 2D del dipinto attraverso procedure automatiche. La nuvola di punti ottenuta a seguito del processo di registrazione è stata utilizzata anche come supporto per il ridimensionamento (Bercigli, 2017) e l’orientamento dei modelli 3D structure from motion (SfM), descritti successivamente. Un adeguato confronto tra le due metodologie di rilievo, effettuato attraverso il confronto di modelli 3D ottenuti dai diversi processi, si rende necessario per la validazione del rilievo stesso e per la verifica della sua affidabilità metrica.
3 Il gruppo di lavoro sul quadraturismo si è costituito a Firenze fino dal 2001 per iniziativa di Fauzia Farneti e Stefano Bertocci, proponendosi di coniugare gli aspetti della ricerca storico artistica con lo studio degli aspetti geometrico percettivi della pittura di falsa architettura in epoca barocca. Gli interessi, nel corso degli anni, si sono spinti ad affrontare oggetti di studio e tematiche scientifiche a livello italiano ed europeo, giungendo anche a trattare alcuni esempi nel Nuovo Mondo. (Bertocci & Farneti, 2016; Farneti & Bertocci, 2002).
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Fig. 4 Pianta del soffitto e sezione longitudinale del salone principale di Palazzo Pavesi (Ruschi-Noceti). Visualizzazione del disegno cad e studio della prospettiva.
Applicazioni di fotogrammetria Sono stati effettuati processi di acquisizione e fotogrammetria al fine di ottenere nuvole di punti e modelli 3D utili per la realizzazione di texture ad alta definizione. Secondo le regole generali per la realizzazione di un corretto rilevamento fotogrammetrico basato su SfM (Remondino 2011; Remondino et al., 2014) sono state acquisite fotografie con assi perpendicolari e convergenti e con un’abbondante sovrapposizione tra fotografie successive. L’acquisizione fotografica degli ambienti si è rivelata difficoltosa in alcuni casi, a causa delle cattive condizioni di illuminazione degli ambienti o delle sorgenti luminose poste più vicino alla volta. Il rilievo SfM richiede condizioni di illuminazione ottimali sia per la corretta ripresa dei colori sia per l’efficacia dei processi di allineamento delle foto; pertanto sono stati utilizzati treppiedi. Molte stanze, facendo parte di appartamenti di proprietà privata attualmente abitati, presentano arredi per l’uso quotidiano, e tendaggi che hanno ostacolato parzialmente l’acquisizione completa delle superfici murali, creando così zone d’ombra. Alcuni soffitti voltati sono “interrotti” perché suddivisi da pareti divisorie o soppalchi che hanno impedito il completo rilievo dei dipinti. Molti ambienti presentano infine quadrature non solo sulle volte ma anche sulle pareti e la presenza di mobili ha quindi provocato un’acquisizione incompleta dei dati relativi a queste superfici.
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Gli output del rilievo digitale Il protocollo di lavoro adottato ha permesso di ottenere disegni molto affidabili e precisi e immagini ortorettificate delle superfici a volta decorate, ma non ha permesso di apprezzare il reale sviluppo dei dipinti realizzati sulle superfici curve. Questo tipo di rappresentazione è fondamentale per la realizzazione di mappe tematiche utili a diversi scopi, come studi diagnostici e mappature di degrado per possibili interventi di conservazione e restauro. Si è proceduto quindi attuando un processo definito ‘unrolling’, ovvero ‘srotolamento’, che prevede lo sviluppo4 delle superfici voltate su superfici piane. In questo modo è possibile ottenere un disegno in vera grandezza delle decorazioni pittoriche. Lo “srotolamento” delle volte, secondo la procedura descritta, evidenzia la presenza di difficoltà nella rappresentazione delle zone vicine all’imposta delle volte dovuto allo scorcio della curvatura (Pancani, 2011). Il rilievo delle dimensioni reali del disegno e del dipinto sulle superfici curve determinate dalle volte di copertura degli ambienti è di fondamentale importanza per lo studio delle conoscenze geometriche degli artisti oltre che per condurre analisi di tipo diagnostico e conservativo mirate alla corretta conservazione delle opere stesse: per ottenere questo risultato è fondamentale utilizzare procedure di rilievo digitale e, in questo caso in particolare, sistemi laser scanner 3D, per gli aspetti morfometrici, e procedure di fotogrammetria Structure From Motion (SfM), per l’accuratezza delle texture dei modelli. Un secondo problema è relativo alla disposizione all’interno del vano e della costruzione dell’apparato decorativo. Per ottenere l’effetto ingannevole sopra menzionato è anche necessaria una attenta progettazione coordinata delle decorazioni pittoriche e dei percorsi e delle vedute privilegiati dall’osservatore per rendere possibile la naturale osservazione dei soffitti e degli scorci da punti di vista appositamente predisposti. La restituzione di modelli digitali ad alta risoluzione dei complessi architettonici che contengono le stanze dipinte è un grande supporto per lo studio e la corretta comprensione delle tecniche di realizzazione di figurazioni anamorfiche su questo tipo di superfici. Attraverso lo studio delle molteplici possibilità di osservazione delle opere possiamo finalmente avere un’idea della complessità delle tecniche di rappresentazione utilizzate da questi artisti per ottenere gli effetti desiderati e l’impegno attivo degli spettatori. La restituzione del rilievo digitale delle sale ha permesso di analizzare la costruzione prospettica della decorazione; questa generalmente è stata progettata in prospettiva centrale da sotto in su ed è stata realizzata applicando i principi anamorfici per l’adattamento delle figure 4 Le superfici sviluppabili sono superfici che possono essere formate facendo rotolare un foglio piatto di materiale in modo tale che il materiale non si allunghi, non si strappi o si increspino. Esempi di questo tipo di forma sono cilindri, coni e alcuni scafi di navi in acciaio. Una sfera è un esempio di superficie non sviluppabile.
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Fig. 5 Studio dell’impianto prospettico di alcune sale di Palazzo Pavesi (Ruschi-Noceti).
alle superfici curvate ribassate delle volte a padiglione. Tuttavia si deve notare che presumibilmente, a causa della ridotta altezza reale dei vani in rapporto alle dimensioni del costrutto virtuale, i pittori hanno usato, per il primo livello della decorazione architettonica, anche altri punti di fuga disposti sullo stesso asse orizzonte di quello centrale per assecondare maggiormente la visione da distanza ravvicinata. Interessante anche l’alcova, completamente decorata a quadratura, cui si accede tramite un salotto sulla sinistra del salone, dal lato del giardino. Anche la camera da letto presenta una complessa articolazione con una alcova introdotta da una arcata mistilinea, quasi a suggerire un palcoscenico teatrale, con una decorazione che coinvolge pareti e soffitti voltati. La parete di fondo dell’alcova presenta uno sfondato prospettico articolato
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tramite una nicchia mistilinea in primo piano che accoglie la testata del letto (anch’essa dipinta) ed al di sopra lascia spazio ad una veduta con una esedra coronata da una balaustrata. Come nei soffitti anche nella veduta della parete di fondo dell’alcova la prospettiva aerea, data dalle diverse tonalità delle coloriture delle finte membrature degradanti dal primo piano fino allo sfondo, fornisce all’impianto decorativo una grande profondità. Maggiori approfondimenti riguardo alle tecniche illusionistiche e prospettiche utilizzate da questi artisti, si avranno a completamento della ricerca in atto che prevede lo studio di tutti gli esempi presenti nel territorio di Pontremoli ed il confronto, in particolare, con le opere realizzate da Giovan Battista Natali in altre città quali, ad esempio, Piacenza e Napoli. Bibliografia Bercigli M. 2017, The transparency of 3D models: the case of the byzantine Church at Masada in Israel, in (Tommaso Empler ed.) 3D Modeling & BIM. Progettazione, Design, proposte per la ricostruzione. DEI Tipografia del Genio Civile, Roma. Bertocci S., Farneti F. 2016, Prospettiva luce colore nell’illusionismo architettonico. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Artemide, Roma. Bossaglia R., Bianchi V., Bertocchi L. 1974, Due secoli di Pittura barocca a Pontremoli, Genova, pp. 25-28, 116-123. Còccioli Mastroviti A. 2002, Momenti, protagonisti e aspetti del quadraturismo a Piacenza e nel territorio nell’età dei Bibiena: Giuseppe, Francesco e G. Battista Natali, in F. Farneti, D. Lenzi (Eds.), L’Architettura dell’inganno. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Atti del Convegno internazionale di studi, Rimini. Alinea, Firenze. pp. 267- 277. Còccioli Mastroviti A. 2005, Francesco Natali quadraturista: momenti e aspetti della decorazione a quadratura fra Toscana, Ducato farnesiano, Lombardo-Veneto, in F. Farneti, D. Lenzi (a cura), Realtà e illusione nell’architettura dipinta. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Atti del Convegno internazionale di Studi, Lucca. Alinea, Firenze, pp. 295-306. Farneti F., Bertocci S. 2002, L’architettura dell’inganno a Firenze. Spazi illusionistici nella decorazione pittorica delle chiese fra Sei e Settecento, Firenze. Giuliani M. 1952, Breve guida alle opere d’arte di Pontremoli, in «Parma per l’arte», II. pp. III-IV e dopo p. 152. Pancani G. 2011, Lo svolgimento in vera grandezza delle volte affrescate delle sale dei quartieri al piano terreno di Palazzo Pitti a Firenze, in Il Disegno delle trasformazioni, Conference Proceeding, Clean Edizioni, Napoli, pp. 1-11. Remondino F., Spera M.G., Nocerino E., Menna F., Nex F. 2014, State of the art in high density image matching, in «The Photogrammetric Record», 29. pp. 144–166. Remondino F. 2011, Heritage recording and 3D modeling with photogrammetry and 3D scanning, in «Remote Sensing», 3(6). pp. 1104-1138.
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accademia delle scienze di torino: la sala, oggi denominata “dei mappamondi”, realizzata a fine settecento (1786-1787) da giovannino galliari (1746-1818). Fig. 1 Torino, Accademia delle Scienze, Salone dei mappamondi, lato dell’ingresso ufficiale dalla scala d’onore.
Rita Binaghi
Università degli Studi di Torino, Italia
Abstract This paper investigates and reconstructs the events which determined the commission for the decoration of the “Salone” (large hall) of Turin Royal Academy of Sciences (founded in 1783) at first to architect M.L. Quarini, and later to scenic and illusive architecture painter G. Galliari. King Vittorio Amedeo III provided some rooms to the Academy in the palace erected by the Jesuits one century before. The age of the building and the way how it was built were the starting point of the problems to solve. The finding of new documents in the Academy’s Archive clarifies the process of execution of Galliari’s work and shows the importance of the relationship between Quarini and Galliari for the conclusive result. Keywords Illusionismo ottico-prospettico, M.L. Quarini, G. Galliari
Nuovi documenti per la storia del decoro del salone delle Adunanze Il sodalizio scientifico, fondato nel 1757 da L. Lagrange, G. Cigna e A. Saluzzo di Monesiglio come privata società, nel 1783 (30 ottobre) ottenne da Vittorio Amedeo III il riconoscimento ufficiale; la ricerca di ambienti idonei, in cui potesse venir ospitata in modo stabile la neo nata Reale Accademia delle Scienze di Torino, portò ad individuare alcuni locali situati nel palazzo fatto costruire un secolo prima dai membri della Compagnia di Gesù per il Reale Collegio Savoia, detto dei Nobili, resisi liberi in seguito alla espulsione della Compagnia. La mancanza di adeguati fondi economici di cui fruire, unita alla fretta di portare avanti l’attività scientifica in una sede definitiva, ma anche degna dell’importanza dell’istituzione, indusse i soci dell’accademia ad una scelta estremamente interessante, che nel passato non sembra essere stata pienamente compresa (Cavallari Murat, 1979, pp. 325-334; Tra Società e Scienza, 1988). Ed anche se intuita (Binaghi, 2000, pp. 160-165), mancava il conforto documentario. Il riordino dell’Archivio Storico dell’Accademia ha permesso una consultazione facilitata del ricco materiale conservato, portando alla luce nuovi documenti.
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L’interesse dei soci dell’istituzione torinese al progetto di riconversione d’uso degli spazi a loro concessi si concentrò sul vano che aveva ospitato il teatro del Collegio dei Nobili, nel desiderio di trasformarlo in un ambiente aulico per le riunioni ufficiali. Dopo una prima richiesta di progetto di riallestimento fatta all’architetto chierese M. L. Quarini1 (1736-1808), allievo e poi collaboratore dell’architetto B. A. Vittone (17041770) di cui è nota la stima nei confronti del genere del Quadraturismo (Binaghi, 2004, pp. 243-256), gli accademici scelsero di rivolgersi al pittore quadraturista oltre che scenografo Giovannino Galliari (Viale Ferrero, 1980, pp. 1443-1444), che, a costi contenuti e molto velocemente, operò in modo magistrale. Infatti, facendo ricorso a tutto il bagaglio di conoscenze, che le sue molteplici versatilità lavorative gli permisero, nel giro di un anno, egli portò a termine l’opera (figg. 1-2). Dai verbali delle adunanze dell’Accademia2 la fretta sembra essere stata la causa principale delle decisioni prese, unita alla necessità di contenere le spese, che ebbe sì un suo peso, ma secondo logiche diverse da quanto sino ad ora supposto. L’adunanza del 22 settembre 1784, in cui fu letta la lettera ufficiale del Re che destinava all’Accademia alcuni locali dell’ex collegio gesuitico, venne tenuta già in quegli ambienti per permettere un primo sopralluogo e contestualmente furono visionate le proposte presentate dall’architetto Quarini, di cui è rimasta traccia nei disegni oggi conservati nell’Archivio Storico dell’Accademia delle Scienze, nell’Archivio Storico del Comune di Torino e nel Museo Civico d’Arte Antica di Torino3, ma la decisione definitiva sulla scelta venne rimandata. La lettura dei documenti4, presenti presso l’Archivio Storico dell’Accademia, rivela che i problemi che influirono sulla scelta finale furono soprattutto di natura strutturale. Il salone presentava non poche criticità statiche che imponevano di non aumentare in modo significativo i pesi di esercizio. Rimandando ad altra sede più idonea l’approfondimento di questo tema, così come viene puntualmente restituito dalle interessantissime testimonianze documentarie ritrovate, ci limitiamo a porre in evidenza il fatto che la scelta di coinvolgere l’operato di un quadraturista dipese principalmente dalla mancanza di regolarità e di simmetrie del vano, cui si associava un sensibile disequilibrio statico della struttura architettonica. 1 Manca uno studio approfondito sull’architetto Mario Ludovico Quarini. La recente voce di Elena Dellapiana apparsa sul Dizionario Biografico degli Italiani (85, 2016), riporta un pensiero non aggiornato. 2 Archivio dell’Accademia delle Scienze di Torino (d’ora in poi AAST), Verbali. Un particolare ringraziamento va alla dott.ssa Elena Borgi, responsabile dell’Archivio Storico dell’Accademia ed all’architetto Chiara Mancinelli, direttore dell’accademia, per la piena disponibilità dimostrata e l’estrema cortesia. 3 AAST, Cartella 9.3.3, Piante e Disegni; Archivio Storico del Comune di Torino (ASCT), Collezione Simeom, D 1407-1421; Museo Civico d’Arte Antica, Palazzo Madama, Torino, Disegni, inv. nn. 10 e 11. Per le immagini dei disegni in AAST e in ASCT si rimanda a Cavallari Murat (1979). 4 AAST, Cat. a, Beni Patrimoniali, Cl. 3 Lavori, IST. 9.3.3; “Liste e Quietanze e registro di caricamento” per gli anni dal 1783 al 1788 (IST. 11.1.1; IST. 11.1.1.2; IST., 11.1.1.3).
accademia delle scienze di torino: la sala “dei mappamondi” • rita binaghi
Il 10 luglio 1785, il verbale della riunione dell’Accademia riporta le preoccupazione dei soci; gli accademici erano rimasti molto perplessi di fronte all’ipotesi di un intervento di risanamento strutturale, inalienabile, come segnalato dall’architetto Quarini, prima di portare a termine il progettato, che avrebbe aumentato in modo sensibile costi e soprattutto tempi di realizzazione. Ad alcuni mesi di distanza, uscito di scena Quarini, il 3 marzo 1786, gli accademici “per non più differire a compire quel che resta da fare nel Salone” istituirono una Deputazione formata dal conte Morozzo, dal cavaliere di Robilant, dal cavaliere, capitano ed ingegnere Lovera, dal cavaliere Napione e dall’architetto Ignazio Michelotti, figlio del matematico e socio Francesco Domenico, cioè da ingegneri/architetti e matematici; alla Deputazione venne demandata “la scelta dei disegni e progetti, come per l’esecuzione”5 cioè venne loro affidata anche la direzione lavori. I materiali previsti da Quarini, come chiarisce l’Istruzione da lui firmata, non erano stucco e mattone, ma pittura e legno, lo stesso legno (malagine rosso e larice) poi effettivamente utilizzato per tutte le parti tridimensionali, come certifica la Lista spese del realizzato e del materiale posto in opera dal Capomastro Giuseppe Mattirolo. L’uso del mattone fu riservato solo alle basi di colonne e pilastri, puntando tutto sulla leggerezza secondo le indicazioni dell’architetto chierese. Quindi i suoi progetti non furono rifiutati per il peso ed i costi eccessivi, come da sempre sostenuto; anzi i nuovi documenti ritrovati, in particolare una Relazione firmata dall’architetto6, svelano che fu lui stesso a sensibilizzare in tal senso i soci che invece desideravano, a decoro, non pitture ma stucchi molto più pesanti e costosi. Quarini e Galliari a confronto È stato detto che Quarini fosse venuto in urto con i suoi committenti (Cavallari Murat, 1979, p. 330), ma i documenti smentiscono questa affermazione; egli mantenne, infatti, un ottimo rapporto con l’Accademia, perché riteneva chiuso il suo incarico (trattandosi di una verifica di fattibilità) con la presentazione dei disegni e dell’Istruzione relativa. Nella Relazione prima citata egli dichiara, infatti, che si sarebbe ritenuto onorato se gli accademici avessero avuto in futuro ancora bisogno di lui, ovvero se si fosse passati da una richiesta di verifica di fattibilità ad un incarico esecutivo con direzione lavori. I committenti, per parte loro, oltre al pagamento dovuto, nel 1785, gli avevano assegnato una medaglia d’argento ed un’ulteriore gratificazione monetaria, ad espressione del loro gradimento7. L’apprezzamento di cui doveva godere l’architetto non venne messo in discussione e, nello stesso anno, egli ottenne 5 6 7
AAST, Verbali. AAST, Cat. a, Beni Patrimoniali, Cl. 3 Lavori. AAST, Verbali.
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Fig. 2 Torino, Accademia delle Scienze, Salone dei mappamondi, lato aulico.
il titolo di Architetto di Sua Maestà ed un congruo stipendio (Baudi di Vesme, 1968, III, pp. 881). Dobbiamo rammentare che nel Settecento non esisteva il diritto d’autore ed era pratica comune che un professionista intervenisse sui disegni di un altro, mutandoli sino a divenire ad un diverso progetto. Questa sembra essere la spiegazione di quanto accadde nella riplasmazione del salone dell’Accademia. La collaborazione, seppur in sequenza temporale, tra Quarini e Galliari venne facilitata dalle doti caratteriali riconosciute a Giovannino, ritenuto persona duttile che conosceva l’arte del compromesso (Crespi Morbio, 2004: 26) e per questo in grado di accontentare la committenza. Inoltre, rispetto agli altri membri della famiglia, doveva essere particolarmente attratto dall’architettura e dal padre Fabrizio e dal contatto con l’ambiente dell’Accademia dei Pittori, Scultori ed Architetti detta di San Luca torinese, di cui padre e zio fecero parte anche in qualità di docenti, aveva avuto la possibilità di approfondire le sue conoscenze in quel campo. Ad inizio secolo il pittore e quadraturista Andrea Pozzo S.J. aveva sostenuto la necessità di un ottima preparazione nell’architettura per ogni pittore prospettico; il che comportava il non secondario effetto di creare un perfetto terreno di dialogo tra le due professionalità all’interno di uno stesso cantiere (Binaghi, 2012, p. 78). I pagamenti (consistenti) fatti nominalmente a Galliari e, a lavori ultimati, l’assegnazione a lui di una medaglia d’oro, accompagnata da un sonetto celebrativo (Griseri, 1988,
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p. 29), non lasciano dubbi sulla paternità di questa realizzazione. Il legame con l’architettura reale, molto stretto, lascia però trasparire una forte dipendenza dai disegni eseguiti dall’architetto Quarini. Galliari ne riprende, infatti, i suggerimenti, ma è la pittura (a secco) il mezzo che dà alla maggior parte degli elementi architettonici un’illusoria immagine tridimensionale sia grazie ad un’azione mimetica affidata al colore che rende il legno marmo, sia creando forme e dando loro sapienti giochi di ombre riportate che suggeriscono tettonicità inesistenti, il tutto a vantaggio del contenimento dei costi e dei pesi di esercizio; inoltre sulle pareti sono assenti quadri dipinti che aprano illusionisticamente lo spazio su ambienti ulteriori, come troviamo, invece, in molte delle realizzazioni della “ditta” Galliari. Purtroppo non si conoscono disegni di mano di Giovannino riguardanti il salone delle adunanze, ma è più che evidente che nel suo operare egli tenne presente non solo le proposte grafiche di Quarini, ma anche le indicazioni espresse dalla Deputazione. Giovannino fece dunque suoi i suggerimenti formali e materiali (come l’uso del legno), in modo particolare per il lato aulico, ospitante il trono del re; del resto il legno era materiale a lui familiare nell’esercizio della sua attività di scenografo a Milano, come a Torino, Berlino e Parigi, ed usufruendo delle potenzialità dell’illusionismo ottico prospettico, utilizzato però come strumento costruttivo, quindi non con il carattere dell’effimero decorativo, ma con quello della durabilità nel tempo, pervenne al risultato che noi tutti ancora oggi possiamo ammirare, creando un’architettura illusoria che ha la pregnanza di una reale. In questa analisi del rapporto tra architettura costruita ed architettura apparente è necessario introdurre, seppur fermandoci alla sola citazione, un’ulteriore figura di protagonista: quella dell’ingegnere A. Lovera8, membro della Deputazione, cui fu affidata, prima dell’intervento di Galliari, la messa in sicurezza del volto del salone. Del suo coinvolgimento è rimasta traccia documentaria. Ed è proprio il rapporto tra Quarini e la Deputazione da una parte e Galliari dall’altra, cioè tra le scelte operate dai professionisti edili e quelle messe in campo dall’architetto-scenografo, sullo sfondo di un pensiero scientifico illuminista, che rende particolarmente interessante questa opera. Parafrasando il motto dell’Accademia possiamo dire che utilitas ha creato i presupposti per una diversa veritas. Il pennello risolutivo di Giovannino Galliari Dopo la decisione di mantenere la volta preesistente che presentava criticità, risolte da Lovera a costi molto più contenuti rispetto ad un rifacimento, il pennello di Galliari, nel progetto
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Sul Capitano ed Ingegnere Antonio Lovera cfr. AAST, Verbale dell’adunanza del 22 marzo 1789.
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di decoro, si dovette confrontare con problematiche non superabili se non con un abile utilizzo dell’illusionismo ottico-prospettico. Nel salone l’altezza ingloba due piani, lasciando facilmente intuire come la destinazione d’uso a teatro nel Collegio gesuitico fosse stata fatta in un momento successivo alla realizzazione dell’edificio, creando così un difficile rapporto tra la copertura dell’ambiente, che si posiziona al livello del secondo piano, e la ritmica delle aperture di porte e finestre. Il rendere meno visibili le dissimetrie, frutto dei ‘vizi’ costruttivi primigeni, in altre parole intervenire sul percepito dell’architettura reale senza modificarla, si presentava come compito non facile. Ad una lettura intenzionalmente attenta del decoro del volto non sfugge che l’arcone di chiave tripartito, impostato in corrispondenza della finestra centrale del salone nel lato lungo verso il cortile, definisce campi laterali di diversa ampiezza, e le cuffie di raccordo angolare agli estremi del lato aulico sono sensibilmente meno ampie di quelle opposte, rivelando una pianta del vano di forma non perfettamente regolare. All’incrocio tra la fascia decorativa trasversale e quella longitudinale, Giovannino creò due cupolette realizzate a trompe l’oeil, leggermente distanziate tra loro che offrivano il luogo per l’attacco di due lampadari (oggi ne esiste uno solo, centralizzato). La soluzione del raddoppio dei punti luce, leggermente distanziati, agevolava la distribuzione del peso dei lampadari sulla volta e creava giochi di luce riflessa e rifratta secondo le leggi fisiche dell’ottica ben conosciute dai pittori quadraturisti. Il decoro a rosette, monotonamente ripetitivo, unito ai giochi di luci ed ombre, contribuiva e contribuisce a confondere l’occhio di chi osserva. L’obiettivo da raggiungere era la dissimulazione delle misure reali, a tutto vantaggio di una regolarità geometrica e di una simmetria invece assenti. A tal fine Galliari ha impostato un dialogo esclusivamente all’interno degli spazi dell’architettura: quella illusoria e quella reale. Nel caso del lato aulico, che avrebbe dovuto ospitare il re o personaggi di particolare prestigio, venne realizzato, in legno ed a piena altezza, il prospetto di un tempio, formato da colonne corinzie con il fusto scanalato, sormontate da un’architrave con una scritta indicante i campi di studio dell’Accademia ed un timpano che reca le iniziali di Vittorio Amedeo III; mentre è la pittura, che suggerisce l’interno del tempio stesso. In realtà si tratta di uno strettissimo vano rettangolare su cui appoggia una volta a botte, ma le logiche dell’inganno prospettico donano allo sguardo la piacevolezza di un ambiente molto più ampio e coperto da un semicatino. L’abilità di Giovannino intervenne anche nella messa in gioco di un ulteriore espediente scenografico, che spiega la sensibile altezza delle basi delle colonne che sostengono il frontone del tempio; l’utilizzo di alte basi in colonne di ordine gigante serviva a non aumentare in modo eccessivo la sezione
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della colonna relativa, ma in questo caso l’innesto di un ulteriore dado sotto le basi è un trucco per alzare ancor più l’occhio di chi osserva verso il frontone che si presenta di grande impatto scenografico. La forza emotiva, suscitata dal realizzato, annulla quella leggerezza virtuosistica del decoro puro, tipica dell’operare dei fratelli Galliari, soprattutto quelli della prima generazione. Ed anche se a Fabrizio ed al figlio Giovannino è stata riconosciuta una tendenza molto forte verso i caratteri dell’architettura costruita, nel caso torinese è evidente, in filigrana, il ruolo di Quarini e degli appartenenti alla Deputazione, cioè di tutti i professionisti intervenuti in questa opera, che spiega la diversità percepita. Tra i documenti ritrovati nell’Archivio dell’Accademia, un pagamento ha permesso, inoltre, di evidenziare la presenza di un’altra mano: quella di un figurista. In un esborso fatto nominalmente a Giovannino si specifica che una parte dell’ammontare della somma è per il figurista “Commanelli” da sciogliersi in Rocco Comaneddi9. Si tratta di un pittore noto nell’ambiente sabaudo che godette di un’ottima fama e di grande operosità sia a Torino che in Valsolda ed in Val Intelvi, sue terre natali (Facchin, 2015, pp. 100-106). L’ammontare ristretto (150 lire piemontesi) del pagamento a lui destinato non lascia dubbi su quale fosse stato il suo apporto: le figure allegoriche della Veritas (con squadra, specchio e cartiglio recante i triangoli pitagorici) e dell’Utilitas (con cornucopia e caduceo), dipinte sul timpano curvo, realizzato invece da Galliari, nella retrofacciata dell’ingresso dalla scala d’onore (fig. 3); le colonne dipinte, che sostengono il timpano, riprendono con mimesi assoluta quelle in legno del lato opposto. Tra le due immagini simboliche è situato lo stemma della casa regnante, cui è appeso il collare dell’Annunziata, cioè il più importante riconoscimento concesso dai Savoia. Figure allegoriche, stemma araldico e collare sono stati dipinti da Comaneddi a trompe d’oeil, mentre la corona sopra lo stemma è di legno intagliato e “colorito” e si china verso la sala, invadendo lo spazio. La bellezza delle due figure femminili monocrome rivela una padronanza sul controllo della resa del corpo non riconducibile a quanto si conosce di Giovannino, ma è coerente con l’operare di Comaneddi. Di un’ulteriore altra mano sembrano essere le “nature morte appese”, composte da strumenti ed animali imbalsamati, dipinte nelle cuffie angolari a testimonianza dei campi di studio dell’Accademia: matematica, fisica, idraulica, geografia, cartografia, botanica, zoologia, metallurgia e chimica., ed i ritratti d Pitagora ed Euclide posti, nel lato aulico, sopra le aperture di passaggio all’ambiente retrostante al salone. I documenti però non hanno rivelato altri nomi. 9 AAST, IST. 11.1.1.3 (1787-1788). Il sciogliere “Commanelli”, come riportato nel documento presente in Accademia, in Comaneddi si ritrova in Ricuperati, Prestia, 2002, p. 1069).
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Fig. 3 Torino, Accademia delle Scienze, Salone dei mappamondi, particolare con le figure allegoriche della Veritas e dell’Utilitas realizzate da R. Comaneddi. Le immagini sono di proprietà dell’Accademia delle Scienze di Torino.
Le immagini sono di proprietà dell’Accademia delle Scienze di Torino.
Le pareti lunghe, oggi ricoperte da una scaffalatura per libri realizzata nei primi anni dell’Ottocento, non sono leggibili, ma è verosimile che fossero scandite da lesene come quelle presenti sui due lati brevi, ad incorniciare le aperture delle finestre a doppio ordine. Dalle liste spese sappiamo che tutto intorno doveva correre una loggia, in corrispondenza di quella oggi ripresa nella scaffalatura. Il decoro quadraturistico nel suo insieme e quello realizzato nelle cuffie angolari esprimono nei soggetti rappresentati, una piena consonanza con il pensiero scientifico europeo coevo, tra Berlino, Parigi e Pietroburgo, sedi delle Accademie con cui Torino aveva un colloquio aperto. Infatti, senza negare la loro possibile interpretazione anche nei termini di un intenzionale uso di simboli massonici (Giovannino era un simpatizzante e nell’ambito dell’Accademia non era certo il solo), come suggerito dallo storico Vincenzo Ferrone (2002, pp. 730-733), che legge in questo il “pensiero forte” che ridimensiona, nelle scelte operative, l’importanza delle ristrettezze economiche come motivazione, è fuor di dubbio che il riferimento corretto sia ai campi della scienza cui dedica la propria attività l’Accademia, ieri come oggi, e secondo modalità linguistiche che, forse nuove in terra di Piemonte, richiamano centri di cultura d’oltralpe ed in particolare Parigi e Berlino, cioè quelle città in cui Giovannino si trovò ad operare professionalmente, prima di questo intervento torinese. Indubbiamente il pittore e scenografo si dimostrò sensibile ai gusti di una committenza cosmopolita e dalle richieste di maggior ampiezza intellettuale anche in altre realizzazioni a lui attribuite, tanto da arrivare a proporre il neogotico nella cattedrale di Biella, ma rimase nell’ambito del decoro, mentre nel caso torinese
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il suo intervento ha saputo piegare il pennello alle necessità dell’architettura effettivamente costruita, mutando il percepito in modo sostanziale attraverso caratteri non riscontrabili in altre opere a lui riconducibili. Bibliografia Baudi di Vesme A. 1966 -1968, Schede Vesme. L’arte in Piemonte dal XVI al XVIII secolo, Società Piemontese di Archeologia e Belle Arti, Torino, II, pp. 490-501; III, p. 881. Binaghi R. 2000, Le Architetture della Scienza, in G. Simoncini (a cura di), L’edilizia pubblica nell’età dell’Illuminismo, Leo S. Olschki, Firenze, I, pp. 123-169. Binaghi R. 2004, Sistemi voltati di Bernardo Antonio Vittone ed alcune realizzazioni del quadraturismo, in F. Farneti, D. Lenzi (a cura di), L’Architettura dell’Inganno. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca: Alinea,, Firenze, pp. 243-256. Binaghi R. 2012, «Ab Angulis ad Angelos»: l’autoritratto di A. Pozzo nella chiesa del Gesù a Roma, in R. Pancheri (a cura di), Andrea e Giuseppe Pozzo, Marcianum Press, Venezia. Cavallari Murat A. 1979, Architettura dipinta e architettura costruita nel confronto Galliari-Quarini del 1786-1787, «Studi Piemontesi», VIII, 2, pp. 325-334. Crespi Morbio V. 2004, I Galliari alla Scala, U. Allemandi, Torino. Dellapiana E. 2016, Quarini M. L., «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 85, Voce consultata (11/2018) all’indirizzo http://www.treccani.it Facchin L. 2015, Dai Ceroni a Rocco Comaneddi: valsoldesi a Torino tra la fine dell’Ancienne Régime e l’età napoleonica, in R. Sulewska, M. Smoliński (a cura di), Artyści znad jezior lombardzkich w nowożytnej Europie/ Artisti dei laghi lombardi nell’Europa moderna. Studi dedicati alla memoria del Prof. Mariusz Karpowicz, Muzeum Pałacu Króla Jana III Wilanowie, Varsavia, pp. 100-106. Ferrone V. 2002, L’Accademia Reale delle Scienze. Sociabilità culturale e identità del <<letterato>> nella Torino dei Lumi di Vittorio Amedeo III, in G. Ricuperati (a cura di), Storia di Torino, G. Einaudi, Torino, V, pp. 689-773. Griseri A. 1988, Veritas et Utilitas. Un Traguardo da Guarini al Settecento, in Tra Società e Scienza. 200 anni di Storia dell’Accademia delle Scienze in Torino (1988), U. Allemandi, Torino, pp. 22-33. Ricuperati G., Prestia L. 2002, Lo Specchio degli ordinati. La città e lo Stato dal tempo di Vittorio Amedeo III alla crisi definitiva dell’«Ancienne Régime», in G. Ricuperati (a cura di), Storia di Torino, Einaudi, Torino, V, p. 1069. Tra Società e Scienza. 200 anni di Storia dell’Accademia delle Scienze in Torino (1988), U. Allemandi, Torino. Viale Ferrero M. 1980, Giovanni Galliari. in E. Castelnuovo, M. Rosci (a cura di)), Cultura figurativa e architettonica negli Stati del Re di Sardegna, 1773-1861Torino Regione Piemonte, Provincia di Torino, Torino,, III, pp. 1443-1444.
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ancora sui percorsi dei galliari. il salone d’onore del castello di piea in provincia di asti: un significativo esempio di architettura dipinta Fig. 1 Volta del salone d’onore del castello di Piea.
Maria Vittoria Cattaneo
Politecnico di Torino, Torino, Italia
Abstract An important example of quadratura painting is kept inside of Piea castle in the province of Asti, originally built in the Middle Age and transformed during the XVIII century in an aristocratic residence. The main hall is decorated with painted architecture: frescoed columns divide false niches with figures inside them that represent groups of statues, on top of these there’s a painted balcony. On one of the walls there are a date “1762” and a signature “fratelli Galliari Pinx.”: it is a testament of the activity of this family of painters and stage designers, active and well recognized across Europe during the XVIII century. Their activity is barely supported by documents and works that are known for sure, so this witness inside of Piea castle is particularly relevant. According to historical documents it is possible to identify Filippo Felice Roero and his son, Carlo Maria, as the clients behind the transformation of the castle in a palace; Carlo Maria hired the Galliari brothers to decorate interiors. In Piea the artists managed to interpret well the main features of quadratura painting – their activity and competences as stage designers likely helped them on this –, carefully adapting architectural inventions to the space in which they are set. Keywords Architettura dipinta, spazio, luce, Galliari / painted architecture, space, light, Galliari
Il castello di Piea1 nel basso Monferrato conserva al suo interno un’importante testimonianza di pittura di quadratura, firmata e datata dai fratelli Galliari, pittori e scenografi originari di Andorno Micca (Biella), attivi nel XVIII secolo (Bossaglia, 1962; Viale Ferrero, 1963; Terraroli, 1998). Gli affreschi nel salone d’onore costituiscono un’attestazione delle loro campagne decorative per la committenza nobiliare, tema decisamente meno indagato rispetto alla loro attività di scenografi, e meritano pertanto un approfondimento vagliato attraverso l’esame di documenti d’archivio e la comparazione con altre opere dei medesimi artisti nel contesto culturale e figurativo del Settecento europeo. 1 Un sincero ringraziamento per la cortese disponibilità alla dottoressa Silvia Tamietto, attuale proprietaria del castello, e alla dottoressa Tura dell’Archivio di Stato di Bologna.
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L’edificio che oggi vediamo rispecchia in modo significativo gli esiti della committenza dei Roero (o Rotari), feudatari del luogo che dalla fine del XIV secolo ne furono proprietari (Farina, 1993). I principali promotori della ristrutturazione e parziale ricostruzione del castello furono Filippo Felice Roero e il figlio Carlo Maria, che nel corso del Settecento lo trasformarono da fortezza a dimora gentilizia. Nello Stato sabaudo il passaggio da ducato a regno (1713), con l’arrivo a Torino di Filippo Juvarra come Primo Architetto regio, aveva determinato un’apertura cosmopolita della corte, che si riflesse anche nella committenza della nobiltà ad essa legata per le proprie residenze. La politica nobiliare di Vittorio Amedeo II e, successivamente, quella del figlio Carlo Emanuele III generarono nell’aristocrazia – soprattutto quella di antico lignaggio e di maggior apertura intellettuale – una volontà di affermazione e di autopromozione (Bianchi, Merlotti, 2017, pp. 131-146). Le famiglie nobili divennero promotrici di iniziative private che fecero delle loro dimore lo specchio di questo desiderio di affermazione del proprio prestigio e di celebrazione del proprio casato. Ne derivarono scelte artistiche affini, che favorirono la circolazione dei medesimi architetti, artisti e maestranze: vennero chiamate ad operare nelle residenze nobiliari le personalità artistiche più significative e prestigiose nel panorama nazionale ed internazionale dell’epoca. Per il contado di Asti, in particolare, la fine della guerra di successione spagnola e la conquista del Monferrato e dell’Alessandrino da parte dei Savoia avevano decretato la perdita del ruolo di importante guarnigione di confine contro la potenza asburgica, fatto che rafforzò nella nobiltà locale la volontà di affermazione della propria identità (Merlotti, 1999). Nel caso di Piea le fonti archivistiche forniscono indicazioni puntuali sulla committenza dei Roero, chiarendo le ragioni che portarono Filippo Felice e Carlo Maria al completo rinnovamento della loro dimora e il ruolo che ciascuno di essi ebbe nell’opera di trasformazione. Nel 1704, contestualmente alle devastazioni perpetrate nell’astigiano dall’esercito francese, all’epoca impegnato nell’assedio di Verrua, il castello di Piea fu in buona parte distrutto dalle mine dei nemici. Il conte Filippo Felice, che vi risiedeva, fu pertanto “costretto ad intraprendere con grandissime spese la riedificazione del Castello medesimo per intiero, e ne continuò la fabbrica sino al di lui decesso”; i lavori furono proseguiti dal figlio Carlo Maria, “che con molto maggiori spese la ridusse a perfettione”2. 2 Archivio di Stato di Torino, Sez. Riunite, Camera dei Conti, Piemonte, art. 687, Patenti Regie, reg. 252, ff. 247r-249r, 29 ottobre 1790.
il salone d’onore del castello di piea in provincia di asti • maria vittoria cattaneo
Due iscrizioni celebrative in latino presenti sulla sommità delle pareti laterali del vano d’accesso al salone d’onore confermano queste notizie e precisano le date degli interventi: castrum hoc / temporis et bellor iniuria dirutum / philippus rotarius comes / instaurare coepit / anno rep. sal. mdccxxiv. carlous rotarius philippi filius / manfredi rotari patrici astensis / in posterorum serie / nepos xv / castri [?]jus instaurationem / auxit absoluit ornavit / anno rep. sal. mdcclxii.
La ricostruzione, l’ampliamento e il rimodernamento del castello furono avviati da Filippo Felice nel 1724, quando fu investito del feudo di Piea3. Resta purtroppo ancora incognita la paternità di tali interventi, che furono portati a termine da Carlo Maria, che dal 1762 si occupò anche della decorazione. Nel 1758, alla morte del padre, fu investito del feudo con titolo comitale dai Savoia e si adoperò per rendere la sua dimora un segno tangibile del suo potere. Già dagli anni trenta del Settecento aveva dimostrato una chiara volontà di affermazione, anche al di fuori del contesto locale: nel 1732 aveva ottenuto la nomina a “gentiluomo della Grande Venezia” (Manno, 1895-1906, vol. XXVI, p. 412), cui nel 1774 aveva fatto seguito il conseguimento della cittadinanza bolognese ex privilegio (Angelozzi, Casanova, 2000)4. Questo desiderio di affermazione si tradusse inoltre nella scelta di artisti tra i più rinomati del tempo per decorare gli ambienti maggiormente rappresentativi della propria residenza, con temi iconografici volti alla celebrazione della propria figura e del proprio casato. La presenza, sulla sommità di una parete del salone d’onore del castello di Piea, di un’iscrizione dipinta in caratteri corsivi rivela paternità e datazione della decorazione ad affresco: “fratelli galliari pinx. 1762”. Si trattava di un’équipe familiare di pittori e scenografi formata da tre fratelli: Bernardino (Andorno Micca, 1707-1794), pittore di figura e “prospettivo insigne”, Fabrizio (Andorno Micca, 1709-Treviglio, 1790), apprezzato quadraturista definito “pittore architetto”5, e Giovanni Antonio (Andorno Micca, 1714-Milano, 1783), denominato “il fiorista” per la peculiarità che lo connotava nella sua arte (Baudi di Vesme, 1963-1982, 3 Nel 1724, alla morte del padre Carlo Gerolamo Roero, Filippo Felice venne investito del feudo di Piea. Nel medesimo anno il suo nome compare nello Stato de’gentiluomini della città e provincia di Asti, dove risulta di 46 anni (Merlotti, 1999, p. 117). 4 Nell’Appendice del volume (p. 468), alla data del 13 maggio 1774, viene citato il documento (Archivio di Stato di Bologna, Part. 41.169r; carr. 245) con cui viene concessa la cittadinanza ex privilegio in forma satis ampla “fratribus de Rotariis Astensibus” Carlo Maria conte di Piea, Francesco Giacinto, Emanuele e Francesco Giambattista, quest’ultimo cardinale e canonico lateranense che morì proprio a Bologna. 5 Noto come scenografo, architetto e quadraturista, Fabrizio si formò a Milano, accanto al fratello maggiore Bernardino, dove giunse in seguito alla morte del padre, avvenuta nel 1722. Seguace di Ferdinando Bibiena – che fu anche architetto e matematico –, studiò scenografia con il Medici – figurista – e il Barbieri – prospettico –, entrambi titolari del Regio Ducale Teatro. Nella città lombarda egli fu iniziato al gusto per le prospettive e le quadrature, in un momento in cui si erano da poco affermati i canoni della visione per angolo, che i Bibiena sperimentarono per primi. Questo clima culturale lo spinse a elaborare moduli compositivi finalizzati all’espressione dei nuovi ideali e a dare definitiva formulazione alla scena intesa come ‘quadro’.
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Fig. 2 Fratelli Galliari, scudo con il ritratto del committente Carlo Maria Roero, particolare decorativo parietale del salone d’onore del castello di Piea, 1762.
pagina a fronte Fig. 3 Fratelli Galliari, decorazione a quadratura del salone d’onore del castello di Piea, 1762.
vol. II, pp. 490-501). La scelta dei Galliari venne attuata quando ormai i fratelli avevano consolidato la propria fama a livello internazionale6, come risulta dall’invito a Innsbruck nel 1738 per realizzare gli apparati scenici in occasione delle nozze di Maria Amalia di Polonia e Carlo III di Borbone, e nel 1750 a Torino per quelle di Vittorio Amedeo III con Maria Antonia Ferdinanda di Borbone, sorella del re di Spagna (Viale Ferrero, 1963). Nella capitale sabauda, dove dal 1748 operarono pressoché continuativamente fino alla fine del secolo come scenografi del Teatro Regio7, avevano destato anche l’interesse del marchese Angelo Francesco Isnardi di Caraglio, per il cui palazzo in piazza San Carlo avevano realizzato tra il 1753 e il 1758 l’innovativa decorazione ad affresco della volta del salone (andata perduta durante i bombardamenti del secondo conflitto mondiale), che presentava forti tangenze con le soluzioni adottate nei contemporanei cantieri decorativi per alcune residenze di villeggiatura del patriziato milanese (Facchin, 2015). L’esempio del marchese Isnardi, probabilmente il primo realizzato per una committenza privata a 6 Alla loro affermazione aveva sicuramente contribuito in modo significativo l’attività pluridecennale a Milano, dove dal 1743 divennero scenografi del Regio Ducal Teatro. 7 Nel 1748 Carlo Emanuele III chiamò a Torino Bernardino e Fabrizio Galliari per la realizzazione delle scenografie del nuovo Teatro Regio progettato da Benedetto Alfieri. Giovanni Antonio rimase a Milano, dove si era formato con i fratelli. Sempre a Torino, dal 1753 furono inoltre scenografi per il teatro dei principi di Carignano.
il salone d’onore del castello di piea in provincia di asti • maria vittoria cattaneo
Torino, fu emulato nel ventennio successivo da altri membri influenti e culturalmente aggiornati dell’aristocrazia legata alla corte, non solo nella capitale, ma anche sul territorio della provincia. A Piea i Galliari seppero dare pienamente risposta alle esigenze autocelebrative del committente, grazie ad un programma iconografico ad hoc per il salone d’onore (Bossaglia, 1962, pp. 70-73). L’ambiente aulico, situato al piano nobile, è di dimensioni non grandi e l’architettura dipinta ha il compito di ampliarlo e renderlo maestoso, quasi una scenografia in cui dovevano svolgersi avvenimenti significativi dell’importanza sociale del proprietario della dimora, che dai pittori viene effigiato, nella parte alta della parete posta di fronte all’ingresso, contornato dai simboli presenti nel suo stemma araldico, in uno scudo tondo sorretto da due figure di “uomini selvatici”, cinti di foglie e armati di clava8 (Albanese, Coates, 1996, p. 139) (fig. 2), mentre nella sovrapporta dell’ingresso viene dipinto il motto dei Roero “a bon rendre”. Il salone risulta tutto giocato sugli effetti illusionistici di quadrature che imitano colonne, nicchie, ovati, conchiglie e altri elementi decorativi. Le pareti sono scandite da finte colonne 8 Il blasone dei Roero (anche Rovero o Rotario), da Asti, fregiato del motto “A bon rendre”, è costituito da tre ruote d’argento in campo rosso e sul cimiero l’“uomo selvatico” armato di clava.
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pagina a fronte Fig. 4 Fratelli Galliari, decorazione a quadratura del salone d’onore di villa Bettoni a Bogliaco sul Garda, 1761.
e lesene sormontate da una balaustra illusiva che regge l’attacco della volta; la sua suddivisione a spicchi, connotati da un delicato motivo a lacunari di dimensioni digradanti con piccoli rosoni all’interno, che creano un effetto di profondità, rimanda a un’impostazione di ascendenza bibienesca (fig. 1). Di notevole interesse le soluzioni d’angolo, caratterizzate dalla presenza di cuffie di raccordo nelle cui pareti di appoggio si aprono finestre sia reali che fittizie, creando camere di luce con la funzione di aumentare l’illuminazione dall’esterno e accrescerne l’effetto sull’apparato decorativo e nella percezione dello spazio. Le colonne, con fusti in apparente marmo screziato nei toni dell’azzurro e capitelli bronzei, inquadrano finte nicchie, arricchite da un sapiente gioco di luci e di ombre volte ad accentuarne il senso di profondità, che ospitano figure monocrome di raffinata eleganza (fig. 3). Ciascuna di esse simula un gruppo bronzeo e celebra divinità – Diana, Bacco, Cerere e Giunone – che ricordano all’ospite gli interessi e la ricchezza del proprietario, con particolare riferimento alla caccia e alle attività agricole svolte al castello. A queste ultime rimandano anche alcuni raffinati dettagli decorativi: le foglie di pannocchie che contornano Cerere sono riproposte in piccoli mazzi sui fusti delle colonne e costituiscono un tratto distintivo della decorazione dei Galliari, presente anche nel salone da ballo di villa Rosales a Cassano d’Adda (Terraroli, 1995, p. 291), firmata e datata dai pittori due anni dopo l’intervento a Piea; spighe di grano, tralci di vite, attrezzi agricoli e cacciagione compongono la natura morta monocroma che orna la sommità dell’ingresso principale al salone dei Roero. Ai lati delle colonne sono affrescati quattro ovati che fungono da sovrapporte e propongono alcune delle fatiche di Ercole, con il chiaro intento di esaltare la potenza del committente. In tutto l’ambiente ricorrono infine delicate decorazioni a motivi floreali: ghirlande di fiori colorati ornano l’ingresso, le finte nicchie e le pareti; dalla balaustra ricchi vasi di fiori si affacciano sull’ambiente sottostante, accrescendo il senso di profondità. Gli elementi architettonici sono definiti da ombre, che rivelano che il punto di vista scelto come preferenziale è quello del fruitore dell’opera, cioè di colui che entra nel salone dall’ingresso principale. Luci e ombre vengono determinate in base alla conoscenza delle modalità di rifrazione della luce e dell’illusionismo prospettico e secondo precisi intenti scenografici, contribuendo in modo significativo alla resa dello spazio architettonico illusivo9 (Binaghi, 2004). La scelta stessa delle cromie dominanti non è casuale, ma operata in funzione della luce reale che, penetrando dalle finestre, esalta il candore delle 9 Nel 1778 Bernardino e Fabrizio Galliari furono nominati docenti della riformata Regia Accedemia di Pittura e Scultura di Torino.
finte architetture, rende vibranti le tonalità giallo-ocra e bronzee delle figure e dei capitelli affrescati e conferisce maggior risalto alle ombre dipinte. In questo salone le immagini figurate non prevalgono sull’architettura illusiva, ma si armonizzano in un perfetto equilibrio fra l’impianto prospettico ideato dal quadraturista e la raffinata e sicura definizione delle figure, in un rapporto che evidenzia lo stringente legame professionale tra i diversi membri della famiglia. I Galliari a Piea sono molto abili nel cogliere le esigenze ambientali e della committenza: le soluzioni adottate nel salone d’onore denotano una grande capacità nell’adattare sapientemente le invenzioni architettoniche all’ambiente entro cui sono inserite. Gli artisti vi si adeguano con un linguaggio che determina il carattere delle loro quadrature, dove un continuo scambio fra pittura e scenografia (Viale Ferrero, 1963) illumina sull’arte del Settecento in Piemonte: ben visibili sono l’influenza del Crosato pittore e scenografo (Griseri, 1961), soprattutto su Bernardino, e il gusto di Juvarra nelle impostazioni spaziali e nei chiaroscuri di Fabrizio. La stessa rinnovata relazione tra decorazione e architettura è debitrice, anche per leggerezza e ariosità, a Juvarra. Le delicate cromie, tutte giocate sui toni del bianco, dell’ocra e degli azzurri e verdi tenui, e la raffinatezza dello stile, rimandano inoltre agli incontri fatti
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pagina a fronte Fig. 5 Fratelli Galliari, decorazione a quadratura del salone d’onore di villa Amoretti a Torino, 1763.
dai Galliari a Torino dagli anni cinquanta in poi con artisti di varia provenienza, tra cui il bolognese Alberoni10. La data dei lavori di Piea è importante in anni poveri di documenti e di opere sicure, ma dove i Galliari, Bernardino, Fabrizio e Giovanni Antonio, si affermano come gruppo familiare. Nel loro percorso stilistico un punto fermo è la loro presenza nel 1761, un anno prima di Piea, nel salone della villa Bettoni a Bogliaco sul Garda (Bossaglia, 1962, pp. 59-70; Bianchi 2009) dove, come nota Rossana Bossaglia, avviene “un vero trapasso di linguaggio” verso un rigore e una maggiore semplificazione; emerge il rapporto figura-architettura, in un ambiente dove l’illusionismo prospettico lascia maggior spazio a rigore, eleganza e leggerezza, all’uso del monocromo e dei colori tenui, preludendo a un’apertura classicista. Molti tratti accomunano la decorazione del salone della villa di Bogliaco (fig. 4) a quello di Piea: dai motivi ornamentali della volta, alla presenza di camere di luce come soluzioni d’angolo, alle figure monocrome che decorano le pareti, fino all’orditura architettonica limpida, raffinata ma al tempo stesso estremamente rigorosa. Orditura analoga è quella realizzata nel 1764 dai fratelli Galliari nel salone da ballo di villa Rosales a Cassano d’Adda, opera firmata e datata, come le precedenti (Bossaglia, 1993; Terraroli, 1995, p. 291). Anche in questo caso l’impaginato architettonico, in perfetto equilibrio con gli elementi decorativi, costituisce una delle prime attestazioni di una nuova tendenza, maturata sullo sfondo di un razionalismo illuminato, che nel secondo Settecento iniziò a diffondersi dalle corti alle periferie. Pressoché coevo l’intervento dei Galliari a Torino, nella villa suburbana del conte Giambattista Amoretti d’Osasio, che nel 1763 commissionò loro la decorazione ad affresco del salone d’onore (Pedrini, 1965; Carubelli, 1989 in Facchin, 2015), tuttora leggibile (l’edificio è oggi sede della biblioteca civica del quartiere di Santa Rita). La partitura decorativa è per molti aspetti accostabile a quella di Piea: l’ordine inferiore delle pareti è scandito da eleganti semicolonne scanalate, affrescate in verde tenue con capitelli bronzei, che reggono una finta trabeazione al di sopra della quale finestre illusive si alternano a quelle reali, tra cui si collocano medaglioni figurati che richiamano i cammei. La volta è connotata da una decorazione ad affresco dale cromie chiare che simula una suddivisione a spicchi dipinti, con all’interno lacunari di dimensioni digradanti. La quadratura sobria ed equilibrata, con l’uso parsimonioso di colori, sapientemente valorizzati dall’ingresso della luce, rimanda al neoclassico (fig. 5). Sia Bernardino e Fabrizio Galliari, sia Giovanni Battista Alberoni negli anni cinquanta del Settecento sono membri dell’Accademia dei Pittori, Scultori ed Architetti di San Luca in Torino.
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il salone d’onore del castello di piea in provincia di asti • maria vittoria cattaneo
Si nota in questi anni un tendere verso un’organizzazione più rigorosa dei partiti decorativi, con un illusionismo prospettico meno accentuato, sintomo di un cambiamento di gusto da parte della nobiltà cosmopolita e culturalmente più aggiornata, a cui l’équipe familiare dei Galliari seppe dare pienamente risposta. La pittura di quadratura, spesso relegata a un ruolo secondario dagli studi degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, risulta al contrario – anche alla luce degli apporti più recenti – una scelta colta, raffinata e di apertura internazionale, operata da committenti consapevoli.
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un capitolo di quadraturismo settecentesco lombardo nel piemonte orientale: i giovannini tra novara e vercelli Fig. 1 Novara, palazzo Cacciapiatti, salone, soffitto, quadrature di Giacomo Antonio e Francesco Antonio Giovannini, l’Olimpo di Francesco Maria Bianchi.
Marina Dell’Omo
Soprintendenza per i Beni Storico Artistici di Torino, Italia
Abstract The choice of painted architecture operated during the XVIII century in religious and civil environments in some towns of oriental Piedmont is very common with the election of local and Lombard artists. In this second direction was placed the work of the Giovannini brothers, who worked on a large area from Varese to Piedmont from the second decade of the XVIII century. In these areas the two brothers were present with Francesco Maria Bianchi, Salvatore’s son, in first instance, since from the second half of the third decade of the XVIII century, in Cacciapiatti Palace, an important aristocratic house of Novara. The subsequent work in the Church of Ghemme in the Novara area was realized between 1742 and 1743 by ensuring at the church a high standard on figurative level. From 1752 the Giovannini, once more with Francesco Maria Bianchi worked in the Church of Saint Cristoforo in Vercelli with an extraordinary operation that would involve them also for the realization of the furniture. Keywords Novara, Vercelli, architettura dipinta
I fratelli Giovannini, Giacomo Antonio e Antonio Francesco, esperti e rinomati quadraturisti, provenivano, secondo recenti ipotesi, dalla provincia lombarda, e nello specifico da Varese: a parziale conferma, in un atto notarile, è detto di quella località anche il loro fratello Giacomo Filippo, residente a Torino, dove praticava il mestiere di minusiere, secondo una prassi consueta per gli artisti dei laghi, non estranei ad emigrazioni professionali (Dell’Omo, 2003, p. 272 nota 171)1. La probabile origine varesina, accreditata anche da una verosimile formazione presso la scuola dei Grandi, per altro ben dimostrata dai primi lavori ad Alessandria, ante 1726 (Spantigati, 1988, p. 114) e a Carignano, tra il 1719 e il 1720 (Lusso, 1971, pp. 207-208), rispettava la consuetudine della provenienza per gli artisti lombardi, operanti nell’ambito dell’architettura dipinta, da scuole locali decentrate, dove tale genere 1 Dai dati emersi dai notarili torinesi relativamente al fratello minusiere dei due quadraturisti, il padre dei Giovannini aveva nome Enrico. Giacomo Antonio risulterebbe già morto nell’agosto 1761, quando lo stesso figlio Carlo nominava procuratore lo zio Antonio Francesco, di cui ignoriamo date di nascita e di morte.
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decorativo, assemblante in sé arti diverse, rispondeva anche a risparmi sul piano della spesa. Ciò, senza dimenticare che altri maestri avevano origini milanesi, seppure i loro interventi nel capoluogo risultino per lo più non conservati. I due quadraturisti, stante la loro specifica professionalità, ebbero una carriera per lo più itinerante, spaziante dal Piemonte meridionale e orientale alla Lombardia, con un passaggio anche su Torino, capitale sabauda, ove, secondo antiche fonti, potrebbero aver lavorato, agli esordi, nella chiesa francescana di San Tommaso. Gli interventi dei Giovannini nel Piemonte orientale avvenivano in tandem con Francesco Maria Bianchi (1687-1757), originario di Velate (Varese) e figlio di Salvatore, con date e committenze diverse, a dimostrare fama e consensi diffusi. In tale area geografica la prima impresa dei tre artisti, la cui collaborazione si era avviata fin dal 1722 nella chiesa di San Martino a Varese (Terzaghi, 2001, pp. 209-212), cadeva a Novara, nel salone del prestigioso palazzo dei Cacciapiatti, prima del 1728, anno in cui era pagato Pietro Gilardi, artefice delle due storie sulle pareti (Dell’Omo, Porzio, 2014, pp.175-186), in una data dunque immediatamente a ridosso al citato intervento varesino. È da chiedersi se in questo caso fosse stato il Bianchi a proporre i due quadraturisti o viceversa, considerando che ad Asti e Alessandria, ove i due operarono nella loro prima attività (Ancilotto, 2001, pp. 374-376; Bologna, 2018, pp.148-151; Rocco, 2018, pp. 126-129), le scelte dei figuristi risultavano legate strettamente al territorio e come tali frutto delle preferenze dei committenti locali. Il Bianchi non aveva mai operato a Novara fino a queste date e anche il padre ebbe un’ attività nella zona del Lago d’Orta ma non nel capoluogo piemontese (Dell’Omo, 2002, pp. 257-274). Diversamente la presenza di Pietro Gilardi era congruente con la storia artistica novarese, da sempre orientata su maestri milanesi. L’opzione del marchese Giacomo Francesco Cacciapiatti, artefice degli ammodernamenti della residenza2, sembra nell’insieme essersi piuttosto orientata verso un gusto aggiornato a quello di altri palazzi lombardi, laddove per la loro decorazione non si disdegnava il genere della quadratura. Tale gusto si sarebbe confermato sia dopo il 1734 per la decorazione di altre sale nello stesso palazzo con il rinnovato intervento dei soli Giovannini, sia con l’acquisto di una serie di quadri di architettura dipinta di Pietro Francesco Prina (Borlandelli, 2014, pp. 225-235). In proposito è da considerare che a Novara l’adesione a tale modalità decorativa non cadeva isolata. Già nel primo decennio del Settecento, Francesco Natali aveva operato per un fregio nella galleria e nell’alcova di palazzo Nazari (Dell’Omo, 2017, pp. 263-275) con un intervento simile a quello attuato della villa 2 L’edificio era il frutto dell’accorpamento di varie unità con la parte di proprietà della famiglia, con annessioni principali effettuate nel 1724 e nel 1734. Queste date segnavano il post quem all’ avvio delle due fasi di lavori di ammodernamento del palazzo, con decorazioni lapidee e pittoriche.
i giovannini tra novara e vercelli • marina dell’omo
Calderara di Turano Lodigiano (Coccioli Mastroviti, 2017, pp. 237-249). Così i Tornielli, nel 1723, si dirottavano per gli apparati dipinti della loro dimora di città, purtroppo perduti, su Giuseppe Baroffio, anch’egli varesino e specialista del genere. Il lavoro dei quadraturisti nel palazzo non è documentato ma si evince dai dati di stile, seppure una parte della decorazione si presenta rimaneggiata da ridipinture successive. Parla in questa direzione il linguaggio messo in campo, con connotati costanti nel loro curriculum, dettagli specifici come le volute arrotolate a cavatappi, cartigli sfrangiati, inserti floreali e vegetali, tonalità cromatiche pastello e grigie. Nel salone centrale, ove al centro è rappresentato l’Olimpo per la mano del Bianchi (fig. 1) e ove le quadrature dipinte dialogano con raffinate decorazioni a stucco, sugli spigoli si aprono finte arcate, sfondate verso altri spazi, delimitate da balaustre piene, sovrastate da vasi di fiori; sul centro dei lati lunghi posano elaborate trabeazioni di un genere molto simile a quelle del soffitto della chiesa dei Battuti Bianchi di Carignano. Nelle altre sale, decorate una decina di anni dopo e leggibili solo nei soffitti, il linguaggio si fa più calligrafico e nervoso, ulteriormente alleggerito da inserti sfrangiati e nastri aggrovigliati. È in queste sale che primeggia una pittura più fantasiosa, che vale quale supporto ornamentale piuttosto che finta architettura illusiva. Una analoga modalità decorativa era messa in atto nella chiesa già di San Pietro all’Atrio a Como, interamente affrescata, il cui corretto riferimento ai Giovannini è affidato alle parole di Francesco Bartoli (Bartoli, 1776-1777, p. 121; Cani, Monizza, 1994, p. 241). Era questa la linea del barocchetto lombardo che, secondo una appropriata affermazione di Rossana Bossaglia, “quando anche si giova di prospettive, le assume oramai come un espediente fittizio, senza sfruttarle in senso realistico e costruttivo” (Bossaglia, 1960, p. 380). Tuttavia una qualche attenzione in senso prospettico i nostri quadraturisti la dimostravano, seppure non su basi matematiche e scientifiche, come nella tradizione bolognese. Nel palazzo novarese lo attestano i finti cupolotti di alcune delle sale, dove la profondità è suggerita dal contrasto tra le tinte pastello e tenui del fondo e gli elementi architettonici dipinti sovrapposti, resi con colori più marcati, per dare idea di una loro posizione in primo piano. Il tutto inquadrato da cornicioni leggeri e ornati con motivi floreali, improbabili e traballanti strutture che finiscono per attenuare il carattere di costruzione architettonica dell’insieme. Motivi analoghi erano ripresi nella parrocchiale di Ghemme, anni più tardi, a dimostrazione che erano canonici nel catalogo dei due quadraturisti. Proprio in questa chiesa, tra il 1742 e il 1743, i Giovannini si riproponevano con Francesco Maria Bianchi per la dipintura di tutto il soffitto interno dell’edifici (fig. 2). La situazione del Novarese aveva subito da pochi anni il passaggio da Milano al Piemonte sabaudo, con la conseguenza della assunzione in carica di vescovi di personaggi di ambito piemontese.
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Fig. 2 Ghemme, chiesa di Santa Maria Assunta, soffitto, quadrature di Giacomo Antonio e Francesco Antonio Giovannini, particolare.
pagina a fronte Fig. 3 Ghemme, chiesa di Santa Maria Assunta, cupola, quadrature di Giacomo Antonio e Francesco Antonio Giovannini.
Dal 1741 al 1747 presenziava in tale ruolo prelatizio l’astigiano Roero di Cortanza, negli anni in cui era in ballo il rinnovamento della chiesa di Ghemme. Non è improbabile che la scelta degli artisti a cui affidare la decorazione fosse scaturita dai suggerimenti dell’appena eletto vescovo, in virtù di una precedente conoscenza dei due fratelli. Non è infatti da dimenticare che i Giovannini nel 1732, dopo una collaudata carriera in Alessandria, avevano lavorato alla cappella della Santissima Trinità e San Francesco di Sales della cattedrale di Asti con Michele Antonio Milocco. A Ghemme l’elezione di Francesco Maria Bianchi poteva essere stata delegata proprio a loro, considerando che nel 1734 i tre avevano collaborato insieme nella chiesa di Sant’Antonio di Lugano, una collaborazione che si replicava dopo quelle citate tra Varese e Novara. Se l’intervento del Bianchi risulta circoscritto alla Gloria della Beata Panacea, in uno degli spicchi del soffitto, e alle quattro Virtù — la Preghiera, la Mansuetudine, la Pazienza e la Penitenza — nelle vele della volta centrale, l’opera dei Giovannini si estende a tutta la copertura della chiesa. La decorazione segue l’andamento delle campate, ciascuna con motivi diversi, trabeazioni, cornici, balconcini bombati, fantasiose volute, fiori e festoni; nel coro si apre un vero e proprio sfondato prospettico, chiuso da due balaustrini, sulla fronte inquadrante la finta cornice, racchiudente la tela con l’Assunta di Giuseppe Antonio Pianca, fiancheggiata da due colonne di raccordo con lo stesso sfondato. L’architettura dipinta forgia anche la cupola centrale circolare (fig. 3), priva
di figurazioni e data da due ordini sovrapposti a delimitare il cupolino finale. Era una modalitĂ presentata con varianti in anni successivi a Vercelli (fig. 3) e ad Asti. In tale invenzione non doveva essere estranea ai Giovannini quella cultura delle finte cupole che aveva un caposaldo fondamentale in Andrea Pozzo e nel suo Perspectiva Pictorum et Architectorum (Salviucci Insolera, 2015). Ma, se pur lâ&#x20AC;&#x2122;impostazione riporta agli esempi diffusi dal Padre gesuita, le proposte fantasiose e irrealistiche delle arzigogolate volute e gli inserti floreali, finiscono con attenuare i realistici intenti costruttivi.
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Fig. 4 Vercelli, chiesa di San Cristoforo, cupola, quadrature di Giacomo Antonio e Francesco Antonio Giovannini.
Dieci anni più tardi, nel 1752, cadeva un’altra commissione nel Piemonte orientale, questa volta nella barnabitica San Cristoforo di Vercelli, ancora con la collaborazione di Francesco Maria Bianchi, che qui interveniva in modo ben più esteso che a Ghemme. Si trattava di una commissione laddove poteva avere avuto un peso il conte Ercole Arborio Gattinara, che dal 1728 dimorava in un appartamento a lui riservato presso lo stesso convento e che nel suo testamento istituiva erede il Collegio dei Padri vercellesi (Dell’Omo,
i giovannini tra novara e vercelli • marina dell’omo
2004, pp. 146-147; Dell’Omo, 2007, pp. 487-491). L’adesione a questo ordine religioso da parte degli Arborio era di data antica, considerando che entrambi i fratelli del conte, Francesco Giuseppe e Giovanni Mercurino, assurti a cariche vescovili, erano barnabiti. Inoltre Francesco Giuseppe a partire dal 1713 aveva coinvolto Giacomo Antonio Giovannini nel lavoro di rinnovamento della cattedrale di Alessandria, nonché nel palazzo vescovile. La consuetudine al lavoro con i barnabiti si intrecciava con il gusto degli Arborio, che, a distanza di tempo, presumibilmente nella persona del citato Ercole, prima della sua morte e all’atto della stesura delle sue ultime volontà, era suggerito il nome dei due artisti. In questo caso il progetto coinvolgeva non solo l’aspetto pittorico dell’interno ma anche gli arredi realizzati con la supervisione del solo Giacomo Antonio (De Dominici, 2009, p. 65). La volta al centro lascia spazio alla parte figurata, immaginata come un cielo aperto contornato da una cornice a finto oro, retta da finti e poco statici pilastroni, alle due estremità limitata da un loggiato in prospettiva. A seguire, sulla traccia di quanto operato a Ghemme ma in forme più semplificate, è la cupola dipinta ottagonale (fig. 4), scandita all’intorno da un articolato incorniciamento, reso in primo piano con toni più scuri per suggerire la profondità, con volute e inserti floreali. Nel coro, ancora secondo la modalità già attuata a Ghemme, una fantasiosa e movimentata cornice inquadra il dipinto con la Madonna deli Aranci di Gaudenzio Ferrari, lasciando immaginare sui lati altre aperture. Le pareti della navata centrale sono poi cadenzate, al di sopra delle arcate divisorie dalle due navate laterali, dalle storie di San Cristoforo a monocromo, entro eleganti cornici dipinte, in parte dorate. È probabile che tale complessità decorativa fosse realizzata attraverso una collaudata organizzazione di bottega, con l’utilizzo degli stessi cartoni reimpiegati in diverse situazioni. Resta il fatto che la chiesa vercellese rimane la prova più autorevole dell’operato dei Giovannini per la capacità di progettazione e di coordinamento anche dei maestri operanti nel medesimo contesto in campi diversi, nonché per la capacità di stravolgere illusivamente gli spazi, pur nell’ambito di quella contenutezza fisica e realistica quale era in quella fase storica per la quadratura. Analoga operazione si sarebbe ripetuta qualche anno più avanti ad Asti nella chiesa della Confraternita della Santissima Trinità, con repertori in parte simili, ma ancora di più svuotati di caratteri architettonici: questa direzione è suggerita in particolare nella finta cupola, questa volta nell’affermazione prevalente di un’architettura dipinta di superficie. Erano questi anni ormai di confine, nell’imminente affermarsi del gusto neoclassico e della fine di una stagione che avrebbe portato definitivamente all’esaurirsi del barocchetto e del rococò. Sull’onda di questa tendenza, anche la pittura di quadratura avrebbe cambiato direzione, nel tramonto di quella volontà di stravolgimento illusivo e di finzione che l’avevano connotata tra XVII e XVIII secolo (Matteucci, 2006, pp. 13-28).
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i giovannini tra novara e vercelli • marina dell’omo
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i baroffio da mendrisio tra varese e il canton ticino Fig. 2 Giuseppe Baroffio e Giovanni Pietro Scotti, Costrutto architettonico con Minerva e virtù, Ludwigsburg, Ordensaal, 1731 (foto Ernesto Palmieri).
Laura Facchin
Università degli studi dell’Insubria, Varese-Como, Italia
Abstract The Baroffio dynasty originated in the area of Vedano Olona (Varese), but it is documented in Mendrisio (Canton Ticino) since the second half of the XVIth century with different branches. During the XVIIIth century various of its members worked as illusive architecture painters. The paper investigates the activity of Giuseppe (1692-1778), focused on Varese town, the surrounding territories and Canton Ticino. He often worked with his brother, the architect Giulio (1703-1778), and later with his son Ignazio and joined frequent partnerships with two great figurative painters: Pietro Antonio Magatti and Giovanni Battista Ronchelli. The Baroffios’workshop played a leading role in the scenery of illusive architectural painting in the Varese area where an illusive painting “school” had been already established (the Grandi brothers and the Giovannini dynasty) since the last quarter of the XVIIth century. Keywords Varese, Artisti dei Laghi, famiglia Baroffio, illusionismo prospettico
La dinastia dei Baroffio è documentata a Mendrisio dalla seconda metà del XVI secolo, ma varie fonti la ritengono originaria dell’area di Vedano Olona, nel cuore della provincia di Varese. Dalla fine del Cinquecento la stirpe si distinse per l’attività di capimastri e stuccatori, differenziandosi in più rami e operando sia in ambito locale, tra Stato di Milano e Canton Ticino, sia in area mitteleuropea. Alcune linee si radicarono all’interno della società di Mendrisio, venendo accolte nel 1786 nel novero del notabilato locale. Si distinse per l’eccellenza delle sue commissioni artistiche, oltre ad essere architetto o disegnatore dilettante, il frate servita padre Antonio Maria (1717-1798), figura di mecenate e committente della chiesa di San Giovanni Battista in Mendrisio. Tra i suoi nipoti, i pittori Antonio Baroffio Bruni (1762-1823 ca./ post 1825) e il figlio Fedele (1799-1878) si spinsero oltre l’area Europea, approdando nella Russia zarista, terra di emigrazione privilegiata per molte famiglie di maestri dell’area dei laghi lombardo-ticinesi tra lo scorcio del XVIII e la prima metà del XIX secolo (Medici, 1969).
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Appartiene a un differente ramo di questa stirpe, impegnatosi, nel corso del XVIII secolo, nella pittura di architettura illusionistica Giuseppe Baroffio. L’artista nacque a Mendrisio nel 1692 da Giorgio, capo mastro, deceduto prima del 1736. Non sono ancora emersi elementi sulla sua formazione, né in merito alle modalità di studio, né ove questo ebbe luogo. I primi lavori documentati dell’artista, sebbene in buona parte perduti, risalgono agli anni Venti del Settecento in Varese, quando iniziò la sua collaborazione con il pittore di figura Pietro Antonio Magatti (1691-1767), artista di spicco per gli sviluppi della pittura rocaille lombarda nella prima metà del XVIII secolo (Coppa, Bernardini (a cura di), 2001; Da Gai 2006, pp. 315-318). Le cronache settecentesche riportano la presenza in città di Baroffio a partire dal 1719, anno nel quale gli sono riferite parte delle pitture nella cappella di Sant’Anna presso il cimitero del complesso monastico dell’Annunciata. L’anno successivo è ricordato un intervento per la facciata dell’oratorio di San Domenico, eretto poco distante dalla collegiata di San Vittore. Secondo queste fonti, sarebbe stato lo stesso pittore di figura ad aver introdotto il quadraturista nella realtà varesina, dove sussisteva già una importante tradizione nel settore della pittura di architettura, avviata nell’ultimo quarto del Seicento dai Grandi. I due fratelli, Giovanni Battista e Girolamo, avevano esteso l’attività all’area del Cusio, feudo dei vescovi di Novara, e soprattutto in Milano. Ottennero anche una importante commissione per la chiesa della certosa di Calci, presso Pisa. Nel 1718 era morto il maggiore, Giovanni Battista, venendo così a mancare un riferimento importante nel panorama locale. Verso la metà del secondo decennio del Settecento, aveva così trovato spazio in Varese l’attività dei Giovannini di cui non si conosce con certezza l’origine, forse emiliana o forse lombarda. Documentati in città dal 1717 in società con Magatti come figurista per la decorazione, perduta, della chiesa di San Rocco (Beltrame, 2001, p. 240), tuttavia, Giacomo Antonio e Giovanni Francesco, a partire dal 1724 circa, abbondonarono la piazza prealpina per tornare nel Piemonte sabaudo, dove già avevano variamente operato nel decennio precedente, spesso in società con il pittore di Velate Francesco Maria Bianchi. La collaborazione tra Magatti e Baroffio ebbe inizio nel 1725, quando il ticinese fu richiesto di dipingere un’architettura per inquadrare l’Ultima Cena affrescata dal primo nel refettorio delle monache dell’Annunciata, oltre a intervenire nel chiostro del medesimo complesso conventuale (Beltrame, 2001, p. 240). Risalgono a quello stesso anno, con proseguimento dei lavori nel 1726, le quadrature dipinte per la chiesa parrocchiale di San Giorgio di Biumo Superiore, molto probabilmente le prime realizzate dal maestro ad oggi pervenuteci in territorio varesino (Terzaghi, 2001, pp. 217-219). Il solido impianto del costrutto architettonico, nel quale si
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inseriscono le figure di santi di Magatti, interessò sia la volta della navata che la calotta absidale, proseguendo lungo le mura del coro. Evidente è il diretto e, molto probabilmente, voluto richiamo alla decorazione della volta della chiesa di Sant’Ignazio a Roma, realizzata da fratel Andrea Pozzo nel 1691-94. La pittura di finta architettura realizzata sull’arcone di separazione tra l’aula e il presbiterio è, invece, una citazione della illusionistica architettura con balconcino curvilineo dipinta da Pozzo nel 1674-76 sulla cupola della chiesa di San Francesco Saverio a Mondovì. Non necessariamente le opere dovettero essere conosciute per visione diretta, ma piuttosto spunti poterono pervenire attraverso le tavole del secondo volume del trattato Perspectiva Pictorum et Architectorum. Nel 1726 Baroffio intervenne per decorare il salone della Communità nel palazzo del Pretorio, mentre l’anno successivo, insieme a Magatti, lavorò al riallestimento della cappella dell’Addolorata nella basilica di San Vittore. Spettò al figurista la segnalazione di Baroffio alla Fabbriceria che lo aveva incaricato di individuare un pittore esperto per le “Architetture”. In questo caso il maestro fornì i disegni per la “tribuna”, ossia la nicchia in marmi policromi destinata a contenere il simulacro mariano ligneo, dimostrando notevoli competenze anche nella scelta dei materiali lapidei e nella direzione del lavoro degli scultori Buzzi di Viggiù (Bollini, 2017, pp. 78-79). Il progetto, prima di essere messo in opera, fu fatto valutare da Giovanni Battista Orrigoni. Questa figura potrebbe identificarsi con il giovane architetto omonimo, “gentiluomo milanese”, coinvolto nella costruzione della chiesa dei gesuiti di Montepulciano e nel 1695 nel concorso per il progetto dell’altare di Sant’Ignazio al Gesù a Roma (Facchin, 2011, pp. 88-89). Personalità di peso negli equilibri varesini, in considerazione dei suoi passati rapporti con Andrea Pozzo, potrebbe aver non poco influenzato la produzione di Baroffio nei primi decenni di attività. Nel 1731 il ticinese è documentato oltralpe nella residenza di Ludwigsburg, capolavoro del maturo rococò eretto nel Baden-Württemberg, dove lavorò, secondo logiche tradizionali per gli maestri dei laghi, in collaborazione con svariate dinastie di maestri intelvesi e ticinesi per la decorazione degli interni della residenza: dai Carlone di Scaria ai Frisoni, Retti e Scotti di Laino. Il suo trasferimento è segno, forse, di una temporanea stagnazione della domanda sulla piazza varesina. La sua presenza in un cantiere del tutto dominato da famiglie di origine intelvese, variamente imparentate tra loro, oltre a confermare l’origine lacuale dell’artista, sottolinea l’assenza, sino al suo arrivo, tra i pur numerosi maestri presenti, di un professionista nel genere della quadratura. L’intervento nella Ordensaal (sala Grande), in collaborazione con Pietro Scotti per il campo di figura centrale con la Glorificazione di Minerva, avvalora la predilezione dei consolidati modelli di Pozzo (fig. 2). La citazione più evidente è quella dalla pittura della volta di palazzo Liechtenstein, eseguita nel 1704-08. Baroffio e i suoi
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Fig. 1 Giuseppe Baroffio e Pietro Antonio Magatti, Architetture e incoronazione della Vergine, Varese, Biumo Superiore, chiesa parrocchiale di San Giorgio (foto dell’autore).
collaboratori eseguirono una decorazione fastosa e monumentale, con solide e incombenti architetture che lasciano un ampio spazio polilobato centrale di cielo per inserirvi le allegorie figurate. È probabile che il pittore non si sia qui trattenuto oltre il 1735, anno nel quale scoppiò uno scandalo, per sospetto di truffa, che coinvolse il direttore dei lavori di Ludwigsburg, Donato Giuseppe Frisoni e l’impresario Paolo Retti. Imprigionati, furono rilasciati e riabilitati grazie al pagamento di una cauzione da parte dei connazionali. L’episodio rese l’ambiente e la committenza decisamente meno favorevoli per i maestri provenienti dall’area lombardo-ticinese (Facchin, 2014, p. 138). Nel 1736 è documentato il ritorno del pittore a Varese, ancora in collaborazione con Magatti, per lavorare agli affreschi del refettorio del convento di Sant’Antonino, impresa che proseguì anche nell’anno successivo. In questa occasione, i permessi di accesso agli spazi destinati alla clausura delle monache segnalano la presenza di Giulio (1703-1778), fratello di Giuseppe (Bernardini, 2001, pp. 205-207). Nello spazio poi denominato Sala Veratti la decorazione interessò sia la volta che le pareti. L’inserimento delle figure, in particolare quelle delle Sibille che si affacciano da illusionistiche specchiature lungo i due lati maggiori, fu accuratamente studiato e rivela un’armonica progettazione d’insieme. Baroffio non dipinse poderosi costrutti architettonici, ma preferì riprodurre una vivace decorazione in finto stucco. Nel 1739 Baroffio ottenne l’incarico per la progettazione della macchina utilizzata per la prima incoronazione della venerata statua della Vergine col Bambino conservata nel Sacro Monte varesino (Bollini, 2017, pp. 79-86). Lo scenografico altare effimero, contraddistinto da un forte sviluppo in altezza, nella sue forme, note da traduzioni a stampa, mostrava un forte debito verso la tradizione pozziana nella vivace alternanza di linee concave e convesse e nella terminazione cupolata sorretta da colonne libere alternate a pilastri sui quali si addossavano le figure allegoriche. Rimandi si possono ritrovare ad esempio nel disegno per tabernacolo ottangolare edito nel primo volume della Perspectiva Pictorum et Architectorum (fig. 60). Negli anni successivi l’attività di Magatti si concentrò su Pavia e su Milano, con una preferenza per la pittura da cavalletto. Difficilmente, come è stato supposto da parte della storiografia, si possono collocare in questa fase gli interventi ascritti a Baroffio dalle Notizie di Giuseppe Bartoli (vol. II, pp. 2, 26) in questa stessa città. Nella perduta parrocchia di Sant’Andrea in Cittadella, retta dai padri lateranensi, l’artista dipinse la volta “d’architettura di sotto un su” in collaborazione, per le figure degli angeli, con il poco noto pittore di Chiasso Alessandro Valdani (1713-1773), a più riprese attivo in Pavia. Poiché la
chiesa venne ricostruita tra il 1755 e il 1759, l’intervento del quadraturista si deve collocare all’inizio del settimo decennio del Settecento. Più prossima, forse, al quinto decennio del Settecento fu l’esecuzione del perduto “ornato di architettura” dipinto intorno alla tavola dell’altare maggiore nella chiesa dei padri della Compagnia di Gesù, rinnovata a partire dal 1740. Baroffio fu certamente di nuovo a Varese nel 1746, per la decorazione della chiesa di San Carlo (Vanoli, 2017, p. 348). In questo caso il nome del figurista, suggerito dallo stesso Magatti, fu quello di uno dei suoi più promettenti collaboratori, Giovanni Battista Ronchelli di Castello Cabiaglio (1715-1788). I lavori dovettero svolgersi a più riprese e si conclusero entro un decennio. Raggiunta ormai sulla scena locale una certa notorietà ed autonomia, il 26 aprile 1749 fu affidata al quadraturista la totale gestione del cantiere per la decorazione della chiesa di Sant’Antonio alla Motta. Baroffio ebbe anche la responsabilità di scegliere il figurista con cui collaborare. La scelta cadde su Ronchelli, non solo perché questi era, come il quadraturista,
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Fig. 3 Giuseppe Baroffio e Giovanni Battista Ronchelli, Veduta d’insieme dell’interno, Varese, chiesa di Sant’Antonio alla Motta, 1749-1756 (foto Beatrice Bolandrini)
confratello del pio sodalizio che gestiva l’edificio di culto, ma perché lo stesso pittore aveva già nel 1747 eseguito la decorazione del prospetto della chiesa. Il mendrisiotto ‘trasfigurò’ le pareti, armonizzando uno spazio architettonicamente non omogeneo, con esuberanti decorazioni a finto stucco. Un’articolata struttura illusoria con mostra architettonica e ariose arcate fu dipinta per ampliare lo spazio del coro (fig. 3). Sulla volta, invece, mise in opera il consolidato repertorio di poderose architetture che delimitano lo spazio di cielo centrale, aperto verso il divino. I lavori proseguono sino al 1756, come si evince da una iscrizione (Coppa, 1992, pp. 294, 296-297). Nel 1754 comparve sulla piazza cittadina per la prima volta come artista autonomo il figlio di Giuseppe, Ignazio, per un intervento nell’istituto ospedaliero del Nifotano in collaborazione con Ronchelli e su commissione della Congregazione di Carità dell’Ospedale dei poveri, di cui il pittore di figura era membro dal 1750, ma nella quale, sin dall’anno precedente risultava iscritto anche Giulio Baroffio (Borri, 1909, pp. 506-508). Nel 1755 ebbe luogo in città la visita pastorale dell’arcivescovo Giuseppe Pozzobonelli. L’arrivo del cardinale fu accolto festosamente da una serie di apparati effimeri allestiti
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lungo l’itinerario di visita (Bollini, 2017, pp. 72-77). L’urgenza per l’esecuzione delle scenografiche ‘macchine’ richiese il coinvolgimento di un buon numero di artisti. Ronchelli e Baroffio furono preposti a coordinare due diverse équipes. Il maestro di Castello Cabiaglio lavorò insieme ai fratelli Giovannini, ricomparsi sulla scena varesina, mentre il secondo diresse un gruppo di lavoro ‘familiare’ composto dal fratello Giulio, che ebbe un ruolo di primo piano nell’allestimento interno alla basilica di San Vittore, e dal genero Carlo Maria Croci, allievo di Francesco Maria Bianchi nel ruolo di figurista1. In questo stesso anno, o comunque entro il decennio successivo, Ronchelli e Baroffio potrebbero aver lavorato insieme, ma si tratta di una attribuzione, nella chiesa di Santa Maria dell’Annunciazione di Muzzano, appena divenuta parrocchiale autonoma da Agno. Si tratterebbe della prima possibile impresa assieme in Ticino (Parravicini, 2016, p. 129). Tra il 1757 e il 1758 il pittore di Mendrisio ritornò a lavorare per le romite del Sacro Monte. Non solo era già stato richiesto come perito per una valutazione sulle immagini che attestavano il culto di Caterina Morigi da Pallanza e Giuliana Purricelli di Busto Arsizio per promuoverne la causa di beatificazione, ma ottenne di poter rinnovare la decorazione delle cupola eretta sopra l’altare maggiore della chiesa di Santa Maria al Monte e i due cori laterali, in collaborazione con Francesco Maria Bianchi. La composizione, fortemente alleggerita nelle membrature architettoniche, vedeva una piena compenetrazione con le figure delle beate e degli angeli. All’inizio del sesto decennio del Settecento, la collaborazione avviata con Ronchelli assunse di nuovo rilevanza significativa. Nel 1762 fu stipulato il contratto per la decorazione di pareti e volta dell’oratorio dei confratelli della compagnia di Santa Marta di Bellinzona (Spiriti, 2017, pp. 105-109). Si trattò di un’opera totale in cui Baroffio progettò anche l’ancona dipinta sopra la mensa d’altare marmorea che doveva circondare la nicchia, destinata a esporre la seicentesca statua della santa titolare (fig. 4). Pienamente riuscito fu il gioco illusionistico tra la scultura reale dell’altare e della statua e quella l’architettura dipinta. Pur lavorando in società con il figurista, i rispettivi campi di pertinenza furono mantenuti separati. L’ovale centrale della volta dove è raffigurata l’apoteosi della santa è privo di riferimenti alla finta architettura. La quadratura è, invece, protagonista sulle pareti dove la figurazione è destinata alle sole lunette con Storie di santa Marta. Baroffio, in collaborazione con il figlio Ignazio, mise in opera una composizione di forte teatralità e scenograficità, inserendo numerose finte aperture, schiarì la tavolozza e propose una diversa soluzione di costrutto architettonico sulla volta, abbandonando la monumentalità di Pozzo e tagliando gli angoli secondo soluzioni che si avvicinano alla tradizione emiliana bibienesca. 1
Croci era nato nel 1719. Sposò Margherita, figlia di Giuseppe, in San Vittore nel 1743.
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Fig. 4 Giuseppe Baroffio e Giovanni Battista Ronchelli, Architetture illusionistiche e gloria di Santa Marta, Bellinzona, oratorio di Santa Marta, 17621763 (foto Giorgio Mollisi).
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L’apprezzamento da parte della committenza locale è confermato dalla richiesta nel 1763 del disegno per l’altare maggiore della collegiata di Bellinzona. La macchina marmorea, aerea e fortemente sviluppata verso l’alto, come la mostra da lui dipinta l’anno prima in Santa Marta, fu messa in opera, ma Baroffio non riuscì a guadagnare altre commissioni, dal momento che l’area del transetto della chiesa dei Santi Pietro e Stefano venne affrescata dagli Orelli di Locarno. Gli anni seguenti furono contraddistinti da difficoltà sulla piazza varesina. La concessione nel 1765 della città in feudo al duca di Modena e Reggio e già governatore di Milano, Francesco III d’Este, a seguito degli accordi matrimoniali siglati da questi con l’imperatrice Maria Teresa che portarono alla nascita della dinastia austro-estense, e la conseguente necessità di creare nuovi spazi per la corte e per le residenze aristocratiche, sia nel nucleo centrale dell’abitato che nelle castellanze, avrebbe potuto rappresentare un’ottima occasione di nuove commissioni per Baroffio e la sua équipe familiare, ma ciò di fatto si realizzò molto parzialmente. Francesco III acquistò dagli Orrigoni una residenza già parzialmente decorata e arredata, nell’urgenza del suo insediamento. Tuttavia, nel quindicennio successivo, la dimora, di limitate dimensioni, fu dotata di due ali laterali, e di un sontuoso parco. Gli interventi di decorazione all’interno della residenza riguardarono anche la pittura di architettura, dal momento che i medaglioni figurati dipinti sulle volte di alcuni ambienti al piano nobile, scalone e piano terreno preesistevano. Tuttavia, per la pittura della grande sala delle assemblee verso il giardino, costruita ex-novo e fulcro della celebrazione della dinastia estense, il duca preferì affidarsi ad un quadraturista esperto, erede della grande tradizione emiliana, già ampiamente utilizzato dalla corte modenese, Ludovico Bosellini (Facchin, 2017, pp. 303-308). L’artista operò a Varese dal 1768; i lavori proseguirono speditamente grazie alla “buona intesa” stabilitasi tra il pittore e l’architetto Giuseppe Bianchi. Nel corso del 1769 fu allestita anche una delle due gallerie al piano nobile, ove i due artisti nuovamente collaborarono «col maggior buon gusto, e perfezione», ma l’impresa non soddisfece il duca che decise di sospendere i lavori. Intorno al 1770, Bianchi lasciò il ruolo di direttore del cantiere; gli subentrò l’architetto e scultore di origine bolognese Ludovico Bolognini, appartenente ad una famiglia da decenni al servizio di Francesco III, prima nel cantiere della sontuosa residenza “di delizia” di Rivalta, a breve distanza da Reggio Emilia, e poi in quella di Sassuolo. In quello stesso anno la decorazione dello spazio sacro di palazzo, dedicato a San Giovanni Battista, venne affidata a Baroffio, forse per ragioni di economia e tempo o, forse, per l’apprezzamento delle capacità dell’artista. Il non vasto spazio, composto da un piccolo presbiterio e una proporzionata aula da esso separata con un arco e una cancellata in ferro battuto, ben si prestava ad un
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“illusorio” ampliamento grazie all’impiego della pittura. Baroffio mise in opera un consolidato repertorio che prevedeva oltre alla riproposizione, in un gioco di rispecchiamenti, di colonne, dipinte sulla parete di fondo e su quelle laterali, illusionistici stucchi di gusto pienamente rocaille. Fu probabilmente questa l’ultima impresa dell’ artista “eccellente pittore in prospettiva, e che ottimamente rappresentava l’architettura usata a tempi suoi”, come ne scrisse l’erudito Gasparo Ghirlanda pochi decenni dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1778 (Id., 1817, p. 17). Bibliografia Ancillotto A. 2001, Giovannini (Gioannini), Giacomo Antonio, «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 56, ad vocem, consultato in edizione on-line. Bartoli F. 1777, Notizia delle pitture, sculture, ed architetture, che ornano le chiese e gli altri luoghi pubblici di tutte le più rinomate città d’Italia, Antonio Savioli, Venezia. Beltrame L. 2001, Regesto, in S. Coppa, A. Bernardini (a cura di), Pietro Antonio Magatti 1691-1767, catalogo della mostra (Varese, 11 marzo-13 maggio 2001), Silvana Ed., Cinisello Balsamo, pp. 239-244. Bernardini A. 2001, Sala Veratti, Varese, in S. Coppa, A. Bernardini (a cura di), Pietro Antonio Magatti 1691-1767, catalogo della mostra (Varese, 11 marzo-13 maggio 2001), Silvana Ed., Cinisello Balsamo, pp. 205-207. Bollini M. 2017, «Tutto il Sacro Monte risplendeva». Studi sugli apparati scenografici realizzati da Giuseppe e Giulio Baroffio a Varese, «Arte Lombarda», 3, 2017, pp. 69-86. Borri L. 1909, Lo Spedale de’ Poveri di Varese, Arti Grafiche Varesine, Varese. Brevaglieri S. 2002, Grandi, Giovanni Battista, «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 58, pp. 483-487. Coppa S. 1992, voce schede, in M. Gregori (a cura di), Pittura tra Ticino e Olona. Varese e la Lombardia nord-occidentale, Cariplo, Cinisello Balsamo. Da Gai V. 2006, Magatti, Pietro Antonio, «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 67, pp. 315-318. Facchin L. 2011, Precisazioni sulla permanenza di Andrea Pozzo nello Stato di Milano, in A. Spiriti (a cura di), Andrea Pozzo, Atti del Convegno Internazionale di studi (Valsolda 17-18-19 settembre 2009), Comunità Montana Valli del Lario e del Ceresio, Varese, pp. 71-94. Facchin L. 2014, Regesto documentario, in A. Spiriti (a cura di), Diego Francesco Carloni da Scaria e la nascita del rococò, Allemandi & C., Torino, pp. 129-142. Facchin L. 2017, Francesco III d’Este “Serenissimo Signore” tra Modena, Milano e Varese, Macchione, Varese.
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tipologie prospettiche per le ‘quadrature’ di tommaso sandrini Fig. 1 Reggio Emilia, chiesa di San Giovanni Evangelista, volta della navata.
Filippo Piazza
Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Cremona, Lodi e Mantova, Italia
Abstract Heir to a tradition of painters from Brescia specialised in illusionistic ceiling painting, Tommaso Sandrini (Brescia, 1579/80-1630) was an exponent of “quadratura” genre, in the same period in which started the school of painters in Bologna. Sandrini’s legacy, not so famous, still remains in fresco cycles into churches and palaces of Lombardia, Veneto and Emilia Romagna. These evidences, compared with preparatory drawings attributed to Sandrini, let understand the painter’s approach to illusory representation, as well as the function assigned to “quadratura” in relationship to the real space. This genre, besides to have a scenographic character, corrects imperfections of the architecture. The paper aims to identify different perspective types adopted by Sandrini, which reflect the choices of the artist and, at the same time, clarify the purpose of his clients. Keywords Tommaso Sandrini, tipologie prospettiche, quadratura, Brescia
Oggetto di una rinnovata attenzione da parte degli studi (Piazza, 2016a; Piazza, 2017b), il tema relativo alla ‘quadratura’ bresciana della prima metà del Seicento, in particolare al suo caposcuola Tommaso Sandrini (Brescia, 1579/80-1630), può fornire ancora qualche spunto di riflessione grazie a importanti acquisizioni recenti, tra le quali si segnala l’identificazione di un gruppo di disegni preparatori, in buona parte inedito, conservato presso il Département des Arts graphiques del Louvre, che ha permesso di chiarire le modalità operative del pittore e della sua bottega (Mancini, 2016; Piazza, 2019). L’esame di queste testimonianze ha messo in luce il ruolo di Sandrini quale responsabile di una vasta équipe di maestranze, come del resto emerge dalla documentazione d’archivio, in particolare da quella relativa all’impresa della decorazione pittorica della cupola della basilica di Santa Maria della Ghiara a Reggio Emilia, eseguita tra il 1614 e il 1616 insieme al bolognese Leonello Spada, che nelle carte risulta un sottoposto – dal punto di vista economico – rispetto al pittore bresciano (Monducci, Rossi, 1998, pp. 234-235 n. 308; Cadoppi, 2015, p. 249 nota 224). La medesima situazione si verifica nella chiesa reggiana di San Giovanni Evangelista, allorché Sandrini nell’estate del 1614 riceve un pagamento “a conto” di Sisto Badalocchio in relazione alle
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pitture eseguite da quest’ultimo nel catino absidale (Artioli, Monducci, 1970, pp. 85-86 doc. III). Si comprende dunque che sono da ribaltare le gerarchie, troppo spesso fissate a priori, tra il quadraturista e il pittore di figura, il quale, sin dalla prima fase d’impostazione di un progetto è obbligato a tenere in considerazione, quindi ad adattarsi, a un impianto decorativo già impostato, limitando così la propria autonomia nonché la libertà creativa. Si ha un’ulteriore conferma di ciò osservando i disegni del Louvre appena menzionati, dove in certi casi si notano settori vuoti affinché il pittore di figura potesse in un secondo tempo aggiungere – apponendo al di sopra ritagli di carta – le proprie composizioni (Mancini [c.d.s.]). Il contributo in esame intende affrontare le modalità con cui le quadrature di Sandrini interagiscono con gli ambienti che, di volta in volta, le ospitano. L’esame dei disegni progettuali, nonché lo studio delle opere ancora conservate, permette di individuare quattro diverse tipologie prospettiche cui il pittore ricorre con maggior frequenza nel corso della sua attività: il loggiato, la galleria, il soffitto e la cupola. Si tratta, come si avrà modo di spiegare, di altrettante soluzioni illusionistiche dalle caratteristiche ben definite, il cui impiego è condizionato dall’architettura reale, nel tentativo di adattarsi a questa senza annullarla. Il loggiato Messo a punto a partire dagli affreschi eseguiti nel 1608 insieme al pittore di figura Francesco Giugno nel refettorio dell’abbazia di Rodengo Saiano (Begni Redona, 2002, p. 244), il ‘loggiato’ costituisce lo schema prospettico applicato con maggior insistenza da Sandrini, come confermano i cicli nelle chiese di San Giovanni Evangelista a Reggio Emilia (1614; fig. 1), della distrutta San Domenico a Brescia (1614-1616) e, nella medesima città, dei Santi Faustino e Giovita (1625-1629; Begni Redona, 1999, pp. 99-236). Nei settori d’imposta delle volte vengono aperti due loggiati sostenuti da colonne che, al centro, lasciano posto a un settore destinato a ospitare le scene figurate. Il vantaggio di tale impostazione, fruibile in modo ottimale se ci si posiziona al centro dell’ambiente (vale a dire della navata), è che non perde efficacia se viene percepita da punti di osservazione eccentrici, quindi laterali. Questo accade perché la prospettiva centrale viene attenuata da un “system of multiple travelling points” (Feinblatt, 1992, pp. 42-43), grazie al quale le fughe delle linee, pur non essendo convergenti nel medesimo centro, sono comunque abbastanza vicine da dare l’impressione che confluiscano “in un sol ponto”, come già riscontrava, alla fine del XVII secolo, lo storiografo e pittore bresciano Francesco Paglia ([1660-1701], 1967, p. 343).
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Tale accorgimento, teorizzato da Giuseppe Viola Zanini (1629, I, pp. 27-30) in riferimento ad alcuni quadraturisti bresciani del XVI secolo (Piazza, 2016b; Piazza, 2016c; Piazza, 2017a), evitava di incappare nelle deformazioni ottiche causate da una prospettiva applicata in modo troppo rigido (qualche considerazione anche in Pontoglio 2016). La fortuna del loggiato è giustificata proprio dal fatto che, assecondando “la irregolarità di alcune parti concave” delle volte, ben si adattava alla semplice struttura a navata unica di molte chiese di area padana del primo Seicento. La galleria Nel caso in cui l’estensione di un ambiente generari squilibrio all’architettura dipinta, cui non si può porre rimedio applicando il metodo descritto in precedenza, Sandrini introduce l’espediente della ‘galleria’, attestato a partire dal 1610-1612 negli affreschi del Broletto di Brescia (Stradiotti, 1988-1990, p. 137). Assai emblematiche, a questo proposito, sono anche le quadrature di Santa Maria del Carmine a Brescia, una chiesa che nei secoli fu oggetto di notevoli trasformazioni all’impianto della navata, con l’aggiunta di due campate verso sud (Volta, 1991, pp. 25-119). Quando i carmelitani, nella prima metà del terzo decennio, affidarono a Sandrini la decorazione della grande volta, è improbabile fossero realmente consapevoli del problema che avrebbe dovuto affrontare. Per ovviare alla lunghezza della chiesa il pittore concepì vari ambienti in sequenza, suddivisi da arcate dipinte così che lo spazio illusorio possa venire ‘scoperto’ per gradi (non più con un colpo d’occhio unitario), chiamando l’osservatore a partecipare in prima persona alla finzione generata dalla pittura, secondo un espediente tipico dell’arte barocca. Questa soluzione prospettica, che secondo le fonti contemporanee restituì “nova simmetria” alla chiesa del Carmine (Averoldo, 1700, p. 20), trova un parallelo con quanto, negli stessi anni, si elaborava in terra emiliana. Un esempio è rappresentato dalle quadrature della volta d’ingresso di villa La Paleotta a San Marino di Bologna, affrescata da Girolamo Curti il Dentone alla fine del secondo decennio del Seicento (si veda Marinella Pigozzi in questo volume). Anche qui la lunghezza della volta impone di ripensare l’organizzazione dello spazio, suddiviso in tre ambienti ognuno governato da un centro prospettico. Non è dato sapere se ci fu qualche contatto o piuttosto un vero e proprio scambio di idee con il mondo bresciano; secondo Ebra Feinblatt (1992, p. 40) “the possibility of knowledge of Tommaso Sandrini’s work by Curti is a rasonable assumption”. Entrambi i pittori condivisero, pressoché negli stessi anni, la committenza del marchese Enzo Bentivoglio: nel 1613 Sandrini è attestato nei palazzi del Bentivoglio a Ferrara (Catalano, 2003, p. 403, doc. 3) e a Gualtieri, insieme a Sisto Badalocchio (Monducci in Pirondini, 2004, p. 201). Dal 1618 Curti presterà servizio nel Teatro
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Fig. 2 Bienno (Brescia), chiesa dei Santi Faustino e Giovita, volta della navata.
Farnese di Parma, sotto la regia dello stesso marchese (dove lavora anche Leonello Spada; Frisoni, 1975, p. 70). Non sembra un caso che proprio quest’ultimo episodio, che vide all’opera maestranze diverse eppure complementari – dal pittore all’architetto, dal decoratore allo scenografo – sarà determinante per orientare lo sviluppo della quadratura padana nella primà metà del Seicento (Capelli, 1990). Per restare nell’ambito dei rapporti artistici e culturali intercorsi sull’asse Lombardia-Emilia, è significativo notare che Enzo Bentivoglio sposò nel 1602 la bresciana Caterina Martinengo, il cui fratello Gherardo, quattro decenni più tardi, avrebbe introdotto presso il duca di Modena il principale allievo di Sandrini, Ottavio Viviani (Ghelfi, 2011, pp. 28-29), per decorare le sale del Palazzo Ducale di Sassuolo con un esteso apparato di quadrature (Benati, 1994; Mazza, 2004, pp. 57-76). Le pitture di Sassuolo rappresentano il momento di maggior penetrazione della quadratura bresciana in Emilia e, al tempo stesso, l’ultimo episodio significativo: dopo la morte di Sandrini, avvenuta nel 1630, la sua scuola (composta non solo da Ottavio e Pietro Viviani, ma anche da Domenico Bruni e Pietro Antonio Sorisene) si sarebbe per lo più rivolta verso Venezia e la laguna, esportando in quel contesto, più che nella pianura, le ormai consolidate tipologie illusionistiche bresciane.
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Il soffitto Quando, per diversi motivi, un soffitto o una volta non sono adatti a ospitare un’architettura illusoria di ampio respiro è necessario ricorrere a schemi meno articolati rispetto a quelli appena analizzati. Si fa riferimento, soprattutto, alle zone presbiteriali delle chiese, le cui volte sono fruibili soltanto a una certa distanza (e quasi mai da una posizione centrale) e spesso di dimensioni ridotte rispetto alle navate. Si ha un esempio nella parrocchiale di San Michele a Candiana, dove Sandrini è documentato nel 1622, allorché riceve il probabile saldo di pagamento relativo a due diverse campagne decorative (Longhin, Marin, 2000, pp. 196-197). Non resta purtroppo quasi nulla della originaria decorazione seicentesca (realizzata insieme al fidato Francesco Giugno), salvo alcuni affreschi ancora visibili alle pareti del presbiterio, da riferire con sicurezza allo stesso Sandrini. Il disegno preparatorio relativo alla volta di Candiana, conservato al Louvre e identificato di recente (Piazza, 2019), evidenzia una struttura del tutto priva di profondità, secondo un’impostazione che, negli stessi anni, viene proposta da Sandrini e dalla sua bottega anche nella volta della parrocchiale di Bienno in Valle Camonica (Brescia). Quest’ultima impresa (fig. 2) fu eseguita dal pittore intorno al 1620-1621 con l’assistenza di vari collaboratori, ancora in buona misura da identificare, e, per quanto riguarda le parti di figura, insieme ai fratelli Giovan Mauro e Giovan Battista della Rovere (Bizzotto in Passamani, 2000, p. 334; Fusari, 2005). La cupola Una valutazione in merito non può che essere parziale, dal momento che, delle varie cupole affrescate da Sandrini e ricordate dalla letteratura antica (in Duomo vecchio e nella chiesa di San Lorenzo a Brescia), si conservano soltanto le pitture del tamburo e della cupola maggiore della basilica della Ghiara a Reggio Emilia (fig. 3). É già stato giustamente osservato che, in quest’ultimo caso, l’intelaiatura illusionistica proposta da Sandrini non si armonizza perfettamente con le numerose – forse troppe – figure eseguite da Leonello Spada (Feinblatt, 1992, p. 42; Mazza, 1996, p. 113). Pur non disponendo, come in altri casi, di fogli preparatori che aiutano a comprendere le fasi progettuali del lavoro, appare abbastanza chiaro che tra i due pittori non ci fu una totale condivisione del programma decorativo: le coppie di putti inserite da Spada nel registro mediano, infatti, mal si coniugano con l’esiguo spazio a disposizione, facendo immaginare che possa trattarsi di un’aggiunta posteriore. A questo proposito bisogna ricordare che l’apparato dipinto nella cupola subì alcune importanti modifiche dopo la partenza di Sandrini per Brescia nel 1616: nella volta della lanterna della cupola è stata infatti acclarata la presenza, al di sotto dell’Assunta realizzata da Spada, dell’originaria “pitura fatta nel toresino”, per la quale il bresciano era stato pagato nel 1612
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Fig. 3 Reggio Emilia, basilica della Beata Vergine della Ghiara, cupola maggiore. pagina a fronte Fig. 4 Reggio Emilia, basilica della Beata Vergine della Ghiara, volta della lanterna.
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(Artioli, Monducci, 1978, pp. 63, 70 nota 2). Questa decorazione, considerata perduta, è invece ancora esistente (fig. 4) sebbene invisibile dal basso (il restauro è stato condotto nel 1999 da Giancarlo Prampolini, che qui si ringrazia; a dare la notizia è Mazza, 2015, p. 121, nota 9). Evidentemente i fabbricieri della basilica reggiana decisero, a distanza di pochi anni, di modificare l’assetto iconografico della lanterna, prima decorato soltanto da finti mensoloni, aggiungendo un’immagine sacra dal valore certamente più pregnante (per il programma iconografico si veda Benati 1996). Malgrado ciò lasci pensare a un episodio non particolarmente fortunato per il quadraturista bresciano, va comunque osservato che l’impostazione proposta nella cupola della Ghiara trovò un’eco quasi immediata all’interno della stessa basilica, come dimostra l’analogia – perlomeno sul piano compositivo – con le volte laterali progettate da Lorenzo Franchi, colui che, solo pochi anni prima, aveva collaborato con Sandrini in San Giovanni a Reggio Emilia (Pirondini, 1986, pp. 215-216, Coccioli Mastroviti, 1998, Benati, 1999, pp. 177-184).
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Conclusioni Si è cercato di dimostrare che le tipologie prospettiche scelte di volta in volta da Sandrini sono state condizionate dallo spazio a disposizione spazio a disposizione. Questo accade in quanto, come si è già anticipato all’inizio, le quadrature bresciane non negano l’architettura reale per trasfigurarla in senso scenografico, bensì mirano ad amplificarne la portata, sovrapponendosi a essa per modificarla e, tavolta, per correggerla. È quanto accade, ad esempio, nella chiesa di San Domenico a Brescia, oggi non più esistente poiché atterrata nel corso del XIX secolo. Nell’aprile del 1616 Sandrini firma il contratto per la decorazione della navata (Boselli, 1958, pp. 122-125), con la probabile mediazione del domenicano Serafino Borra, lo stesso che, qualche anno più tardi, avrebbe commissionato a Tommaso gli affreschi della chiesa parrocchiale di Bagolino, in Val Sabbia vicino a Brescia (Piazza, 2017b). In una lettera inviata dal pittore nel 1627 si apprende che il Borra attribuiva alle ‘quadrature’ di Sandrini la funzione, tutt’altro che scontata, di “remidiar a simil diffetto” (Formenti, 1990, p. 146), alludendo così ai difetti strutturali che avevano compromesso la costruzione di San Domenico. Il disegno preparatorio per questo lavoro, conservato al Louvre (Mancini, 2016, p. 83, n. 21), rappresenta un prezioso documento figurativo che consente di farsi un’idea dello straordinario effetto complessivo delle pitture della volta e, al tempo stesso, testimonia l’eccellente livello raggiunto dal quadraturista bresciano, da annoverare, senza alcun dubbio, tra i principali interpreti della prospettiva dipinta nella prima metà del Seicento.
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Fig. 1 Giuseppe Reina, Disegno per un mobile, Fondo Maggiolini n° 350 C 108, Gabinetto dei disegni, Civiche Raccolte del Castello Sforzesco, Milano.
giuseppe reina quadraturista milanese Vittoria Orlandi Balzari
Università degli Studi dell’Insubria, Varese, Italia
Abstract The present contribution aims to rebuild the painter Giuseppe Reina’s artistic biography, complicated by another artist’s omonymy, a swiss figuriste, born in Savosa on 1 December 1769. But Giuseppe Reina’s first documented work (Milanese quaraturiste, also called Reinino, Rainino, Reinini) is about quadratures in the Marian Shrine of Corbetta, near Milan, which dates 1774. After Corbetta, Reina was charged by the architect Piermarini to decorate in Milan not only the interior of La Scala Theater but also Canobbiana Theater. While the original decorations of these theaters are totally lost, other works by Reina are still visible today like in the Milanese Church of St’Eustorgio, whos work was rediscovered only in 1965, and especially in Palazzo Calini in Brescia, now one of the seats of the local University. Keywords Giuseppe Reina, Milano, Brescia, Quadraturismo, Neoclassicismo
Un caso di omonimia Nella bibliografia a lui contemporanea, Giuseppe Reina veniva nominato col solo diminutivo di Reinino/i o Rainino/i e l’indicazione della provenienza, cioè milanese. Nonostante ciò è stato a lungo confuso con un omonimo artista figurativo ticinese vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. A complicare ulteriormente la ricostruzione biografica fu il fatto che entrambi lavorarono in ambito teatrale ed ebbero a che fare con il Teatro alla Canobbiana, ma per motivi diversi1. Ancora nel 1986 i due artisti erano confusi, come si legge in un articolo a proposito di palazzo Calini a Brescia, decorato dal Reina milanese nel 1783, di cui si dirà in seguito: “Giuseppe Reina è un pittore e scenografo di origine ticinese” (Mondini, Zani, 1986, pp. 47-76). Per un errore di lettura, si è creduto che il Reina ticinese fosse nato nel 1759 mentre la data di nascita è attestata al 1769, come dimostra il registro dei battesimi della parrocchiale di Savosa, 1 Nel 1821 il Reina di Savosa utilizzò il ridotto del Teatro alla Canobbiana per allestire una mostra dei suoi quadri (Chiappori, 1824).
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presso Lugano2. Anche ammesso che fosse nato nel 1759, la perizia tecnica e la maturità artistica che gli permisero di essere scelto già nel 1775 per decorare gli interni del Santuario di Corbetta non si addicevano ad un ragazzo di 15 anni. La rettifica al 1769 toglie ogni dubbio sull’identità dei due artisti. Il Santuario di Corbetta La prima opera che attesta la carriera artistica di Giuseppe Reina è la decorazione del santuario mariano di Corbetta nei pressi di Magenta (Vazzoler, 1995, nota 44 p. 40). L’amministrazione del santuario affidò ai pittori Reina e Perabò la riqualificazione decorativa dell’intera superficie interna della cappella superiore a partire dal 1775; i lavori si conclusero nel 1783 (forse rallentati dagli impegni milanesi del Reina per i teatri della Scala e della Canobbiana): pare infatti che “l’impresa sia compiuta entro il 1783 anche se i pagamenti si succedono fino al 1786” (Spiriti, 1995, p. 157 e nota 74). Per uniformare le parti decorative e architettoniche alle figure che si dovevano rappresentare, sia entro finte nicchie che entro cornici, i due artisti dipinsero tutto a tonalità monocrome calde. Per quanto riguarda l’operato del Reina, “i voltini e i settori laterali delle pareti perimetrali sono decorate a quadrature architettoniche con vasi di fiori” (Spiriti, 1995). Osservando ogni elemento decorativo realizzato dal Reina, si spazia per tutto quel repertorio classico che verrà codificato dall’Albertolli nelle sue raccolte di ornati (Albertolli,1782), in particolare i festoni a cerchi concatenati nei sottarchi, le volute di racemi classici nelle specchiature ai lati delle finestre e delle parti figurate, le candelabre, amalgamando perfettamente l’architettura dipinta all’architettura reale. Il teatro alla Scala e il teatro alla Canobbiana Le vicende artistiche del Teatro alla Scala e del contemporaneo Teatro alla Canobbiana sono ormai note agli studiosi che hanno spesso ritenuto di sorvolare su quei due cognomi, cioè Levati e Reina. Nella suddivisione dei compiti era ovvia la subordinazione dei due pittori a meri esecutori materiali del grande architetto Giuseppe Piermarini, il quale pareva non voler tralasciare all’invenzione altrui il più piccolo dettaglio decorativo dei più importanti teatri milanesi, commissionati per dotare nuovamente la città di Milano di luoghi di rappresentazione lirica e drammatica dopo l’incendio che aveva incenerito il teatro ducale il 26 febbraio 1776. Tra le carte del conte Giberto Borromeo nell’Archivio Borromeo dell’Isola Bella vi è una serie di cartelle dal titolo “Teatri della Scala e della Canobbiana”: tra i documenti vi sono 2 Ringrazio Giovanni Naghiero, archivista dell’Archivio Diocesano di Lugano, per aver permesso la rettifica della data di nascita del ticinese Giuseppe Reina.
giuseppe reina quadraturista milanese • vittoria orlandi balzari
i contratti sottoscritti dai tre artisti, Piermarini, Levati e Reina, interpellati per entrambi i teatri3. Infatti la Delegazione incaricata discuteva nelle stesse sedute sia dell’erigendo Teatro alla Scala che del Teatro alla Canobbiana; da queste carte sappiamo quale fu la reale suddivisione dei compiti dei pittori: nel documento del 6 luglio 1777 si legge: Discorsovi convenire sin d’ora dare le opportune disposizioni per la scelta de’ Pittori, che havessero à dipingere la Volta, li Parapetti de’ Palchetti, e Telone, anche per concertare le idee, ed il Dissegno col Regio Architetto Pier Marini, ed essendosi rilevato, che i migliori soggetti potessero essere li Signori Levati, Reinini, e Ricardi. È stato pregato il Signor Marchese G.B. D’Adda a sentire li medesimi, e vedere se fussi combinabile l’assegnare l’esecuzione ad uno della Volta, all’altro quella de’ Palchetti, ed al Terzo il Tellone (sic), compiacendosi poi di riferire alla Delegazione il risultato4.
Nei documenti successivi il lavoro degli altri due pittori non sono più suddivisi per settori - ad uno la volta e all’altro i palchi - ma dovevano lavorare insieme all’intera decorazione in ogni sua parte “procurando di stabilire il tempo di dar finita l’Opera per il giorno 24 venturo Mese di Giugno”5. Quattro giorni dopo si stipularono i Capitoli tra “Delegati dal Corpo de Signori Proprietarij Palchettisti, e li Signori Pittori Giuseppe Levati, e Giuseppe Reina”. I Capitoli, suddivisi in sette punti, descrivono ogni parte che deve essere dipinta nei minimi dettagli ma al punto Secondo si dichiara, che la sopra descrizione di Opere si ritiene puramente dimostrativa, e non tassativa, mentre la Sostanza della Convenzione, e l’obbligo de Signori Levati, e Reina si è, di dare per il prezzo qui abbasso convenuto lodevolmente finito in tutte le sue parti la Pittura, e Doratura esterna nel detto Teatro, secondo il Dissegno sovraccennato del detto Regio Architetto Signor Pier Marini con quegli adattamenti, che occorressero farsi6.
Da quanto trascritto si evince una maggiore libertà esecutiva da parte dei pittori rispetto al Piermarini, oltre ad un ridimensionamento del ruolo artistico del Levati a vantaggio del Reina. In un altro documento si comprende ancor più chiaramente il rapporto tra Piermarini e i due pittori (Maiocchi,Moiraghi, 1929): sentito il regio architetto li pittori Levati e Rainini, si è determinato di far una prova di otto palchi, cioè per ordine consecutivo, in oro e argento, per cui sono stati incaricati li stessi pittori a rassegnare un verosimile conto. È stato pure ingiunto allo stesso R. Architetto di concordare colli sunnominati pittori l’architettura da dipingersi alla gran volta della platea (Maiocchi, Moiraghi, 1929, p. 96). Archivio Borromeo Isola Bella (ABIB), Teatri, Teatro alla Scala e Canobbiana. La Delegazione, che si riuniva nel palazzo milanese del marchese Pompeo Litta, era formata, oltre che dal marchese suddetto, dal duca Serbelloni, dai marchesi Cusani, D’Adda, Roma, Trivulzi, Moriggia e Viani e dai conti Bigli, Durini, Arese e Scotti; in ABIB, Teatri, Teatro alla Scala e Canobbiana. 5 ABIB, Teatri,Teatri alla Scala e Canobbiana, doc. 4 aprile 1778. 6 ABIB, Teatri,Teatri alla Scala e Canobbiana, doc. 8 aprile 1778. 3
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pagina a fronte Fig. 2 Giuseppe Reina, Cupola maggiore, Cappella della B.V. del Rosario, Basilica di S. Eustorgio, Milano, 1781.
Intanto lo stesso team (Piermarini-Levati-Reina-Riccardi) era impegnato nella realizzazione del Teatro della Canobbiana, inaugurato il 21 agosto 1779 (Ricci, 2008, pp. 512513). Probabilmente fu proprio questa circostanza a rendere difficile rimanere entro i tempi di consegna previsti per la Scala; infatti i lavori di decorazione non erano terminati per il giorno dell’inaugurazione della Scala (3 agosto 1778) e proseguirono nei mesi successivi per concludere l’ “ornato alla Ringhiera di sopra al Loggione” (Ricci, 2008, p. 523 e note). L’atelier del Maggiolini Ancora nel 1841 l’incisore Giuseppe Beretta non mancava di ricordare il Reina tra i “migliori artisti ch’ebbero stanza in Milano dall’anno Mille Ottocento” (Beretta, 1841): infatti, dopo aver elogiato Giocondo Albertolli e nominato Levati, Beretta così scriveva: “Reinini è disegnatore eccellente e pittore d’ornamenti”. Gli unici disegni finora identificabili del Reina sono quelli forniti per l’ebanista lombardo Giuseppe Maggiolini conservati presso il Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco di Milano7; si tratta di due ovali che rappresentano capricci architettonici con alcune figure di popolani; il più interessante dei due è certamente quello in cui è visibile un porticato ad archi a sesto acuto, precoce suggestione del revival del neo gotico in voga soprattutto in Inghilterra (fig. 1); l’altro disegno rivela una impronta più vicina al classicismo veneto (Morazzoni, 1957, tav. LXXXVIII). Un terzo disegno, acquarellato, riproduce in formato rettangolare la scena neogotica. Le figure inserite rivelano una dimestichezza per il disegno a mano libera e per l’inventiva che supportano la tesi che Reina non fu un mero esecutore materiale dei disegni altrui, prono al Piermarini di turno. Forse la sua eccessiva indipendenza ha provocato il proprio l’allontanamento dai grandi cantieri milanesi. La cupola della cappella del Rosario in Sant’Eustorgio a Milano Dopo i due teatri milanesi, il Reina nel 1781 ricevette l’incarico di decorare la cupola maggiore della cappella della B. Vergine del Rosario all’interno della basilica di Sant’Eustorgio (Zanchi Pesenti, 1984, pp. 232-233). Nel 1965 il parroco D. Paolino Spreafico promosse una campagna di recupero del tessuto pittorico originale della cappella durante la quale vennero alla luce una serie di affreschi che erano stati coperti all’inizio del Novecento, soprattutto nelle due cupole 7 Gabinetto dei disegni, Civiche Raccolte del Castello Sforzesco di Milano, Fondo Maggiolini, Rainini 350 C 108.
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che sormontano altrettanti ambienti della cappella suddetta (fig. 2): grazie alla “eliminazione totale delle ridipinture novecentesche si è riscoperta la cupola del Rejnino, in tutto il suo prezioso illusionismo prospettico, giuocato su toni dorati e madreperlacei di squisito sapore rococò” (Consoli, 1965, pp. 158-161). Agli inizi del Novecento “l’Albertella lo aveva semplicemente ricoperto di una tinta azzurra e poi stellato d’oro, nella calottina, mentre aveva finto un cassettonato a fioroni, dal forte risalto, per tutto lo sviluppo della cupola” (Consoli, 1965, p. 159). Nel 1735 l’architetto Francesco Croce aveva rifatto la struttura della cappella (la terza entrando della navata destra) come la vediamo oggi, cioè costituita da due ambienti a pianta quadrata nei quali sono inscritte le rispettive cupole sormontate da lanterne, forse con l’intento di uniformarla alle proporzioni classiche della cappella Portinari (Bora, 1984, pp. 175-207). A quella data erano stati distrutti gli affreschi precendentemente dipinti da Federico Macagno e Andrea Porta, sostituiti in parte da Giovanni Battista Sassi. La decorazione però fu ultimata solo nel 1781 con gli affreschi nella cupola dell’ambiente maggiore realizzati da Francesco Corneliani e Giuseppe Reina in stretta collaborazione: infatti mentre il Corneliani era stato incaricato non solo di decorare a figure di santi domenicani le vele di raccordo tra la cupola e gli archi ma anche di “rinfrescare” i precedenti dipinti del Sassi nel cupolino, al Reina spettò la decorazione prospettica della cupola: “Francesco Croce architettò la cappella del Rosario che in seguito venne rifatta nel 1733 con lusso di marmi e di dorature. Giuseppe Rainini più recentemente vi dipinse la quadratura” (Bossi, 1818, pp. 113-114). Si tratta di una visione scorciata di un finto parapetto a balaustri intervallati da pilastrini che restringe la visuale del perimetro della cupola, al di là del quale parapetto sono delineate quattro finestre con i loro vetri sormontate ognuna da timpani, poste nei punti cardinali, scandite nella parete di fondo da coppie di lesene lisce a capitello ionico, separate tra loro da un pannello a decorazione vegetale; i capitelli poggiano sul primo dei tre cornicioni che delimitano questo tamburo illusorio sul quale si finge impostata la cupola a cassettoni; gli
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Fig. 3 Giuseppe Reina, particolari del Salone delle Lauree e della Galleria di Palazzo Calini, Università degli Studi, Brescia (tratte da Mondini, Zani, 1986, p. 54).
scorci, sapientemente definiti dalle ombre, sono accentuati dalle linee verticali arcuate che partono dalla balaustra, proseguono lungo le lesene e continuano nella spartizione del cassettonato. Completano la decorazione vasi di fiori fortemente scorciati che si fingono posti sul parapetto in corrispondenza delle lesene e conchiglie all’interno dei quattro timpani. Purtroppo l’archivio della basilica è andato perduto e i dati a nostra disposizione sono essenzialmente quelli raccolti da padre Giuseppe Allegranza in un manoscritto terminato nel 1784 intitolato Descrizione della Basilica di S. Eustorgio in Milano8. Purtroppo l’Allegranza non aggiunse nulla di più al nome, anzi al diminutivo (Rajnino), e alla data di esecuzione (1781). Palazzo Calini a Brescia L’acquisizione dell’archivio della famiglia Calini da parte dell’Archivio storico Civico di Brescia ha permesso di ricostruire la vicenda artistica dell’omonimo palazzo, ora parte dell’università di Brescia (Mondini, Zani, 1986, pp. 47-76). Le carte relative ai pagamenti e soprattutto agli incarichi degli artisti hanno fatto riscoprire la paternità di tutti gli interventi pittorici che si sono succeduti negli ambienti neoclassici del palazzo, aggiungendo alla biografia del Reina un altro lavoro: “Partendo dal settore settentrionale, la Galleria delle Sfingi, rivolte ad oriente, viene realizzata da Giuseppe Reina, quadraturista e da Pietro Scalvini figurista” oltre alla Sala delle Candelabre (fig. 3) (Volta, 2006, pp. 76, 80)9. L’impresa decorativa si concentrò negli anni 1780-1783, come attestano le 8 9
Per i riferimenti catalografici al manoscritto di padre Allegranza si veda Zanchi Pesenti 1984, pp. 232-233. Ora la sala delle Candelabre è deputata a sala delle Lauree.
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polizze intestate al Reina, cioè quella datata 4 marzo 1782 per la decorazione della galleria e quella della sala Grande (25 settembre 1783) sicuramente terminata entro la fine dell’anno, come documenta la firma e la data dello stesso nel pannello laterale sinistro nella parete settentrionale della sala suddetta: “joseph rejna mdcclxxxiii” (Mondini, Zani, 1986, pp. 55-56 e note). Anche in questa commissione Reina è affiancato da un pittore figurista, il bresciano Pietro Scalvini (Guzzo, 1986), sotto la direzione generale del cremonese Giovanni Manfredini (Tanzi, 1985). Come già visto nei precedenti interventi, anche in palazzo Calini lo schema decorativo, di evidente matrice albertolliana, è “concepito a pannelli incorniciati da fasce neutre” a lesene e colonne corinzie, candelabre e girali, nei quali sono inserite le medaglie e le sovrapporte di Scalvini. Ma come giunse Reina a Brescia, all’epoca non appartenente al Ducato di Milano ma alla Serenissima Repubblica di Venezia? Una ipotesi plausibile potrebbe essere la mediazione del Corneliani che fornì una serie di sei dipinti per un’altra sala di palazzo Calini, eseguita entro il 1781, lo stesso anno in cui Corneliani aveva lavorato alla cappella del Rosario di Sant’Eustorgio decorata dal nostro quadraturista (Mondini, Zani, 1986, p. 62 e note). L’oblio Dopo il 1786, cioè alla fine dei pagamenti da parte della fabbriceria del santuario di Corbetta, il nome del Reina scompare fino ad essere confuso con l’omonimo ticinese. Ancora l’anno successivo il Bianconi lo indicava come “vivente”10. Non è chiaro però se il Caimi nel suo “Prospetto dei più distinti artisti che attinsero la loro istruzione nelle scuole della R. Accademia di belle arti di Milano”, alla voce “Pittori e disegnatori di Ornato”, nominando un “Reinini Francesco” intendesse il nostro, confondendo il pittore con il celebre biografo di Parini Francesco Reina, oppure si trattasse di un figlio, che avrebbe quindi seguito le orme paterne (Caimi, 1873, p. 37)11. Il nostro pittore, sempre e solo con il diminutivo di Rainini o Reinini, è ricordato ancora da Nicodemi agli inizi del Novecento scrivendo a proposto della pittura d’ornato dell’ultimo quarto del Settecento a Milano: Generalmente ben composti, in questi e in altri artisti (in Clemente Sacchi, nel Rainini ecc.) i motivi risentono presto anche dell’influsso del Piermarini, il quale coll’autorità sua sembra aver avviato da solo il movimento (Nicodemi,1915, p. 30).
È sempre possibile che vi siano altri ritrovamenti in futuro che permettano di aggiungere nuovi dati all’esigua biografia di un artista a lungo dimenticato. Almeno è questo il nostro augurio. 10 11
Sant’Eustorgio “Nel 1781 il bravo Giuseppe Rainini vi dipinse molto bene la quadratura” (Bianconi, 1787, p. 208). Il Caimi specificava che “gli artisti citati nell’esposto elenco sono tutti defunti” (Caimi, 1873, p. 40).
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giovanni mariani “il vecchio” e le quadrature di palazzo visconti a brignano gera d’adda (bg) Fig. 1 Brignano Gera d’Adda, Palazzo Visconti Vecchio, Galleria, 1675 circa (foto dell’autore).
Beatrice Bolandrini,
Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como, Italia
Abstract The name of Giovanni Mariani “the older”, as author of important quadratures inside two Visconti’s Palaces, in Brignano Gera d’Adda, was restituted primarily from archival documents. These buildings are located in the Bergamo plain, but historically they were afferent to the State of Milan. Giovanni Mariani is a painter documented between 1671 and 1684, and is known for some paints inside the sanctuary of Saronno, in Arese Borromeo Palace in Cesano Maderno and in Mirabello Villa in Monza park. The Gallery of the oldest Visconti’s palace in Brignano was discovered about ten yars ago, because frescos were covered for a long time. This ambience is lighted by eight windows along the side overlooking the internal courtyard, interspersed by painted medallions, while on the other side three large frescoed cornices housed the picture gallery. The analysis of a document datated 1717 made it possible to identify other environments frescoed by Mariani, whose existence within the building was ignored until a few years ago, and which contributed to enriching the catalog of works so far documented by the artist. Among the peculiarities of Giovanni Mariani stands out the formal rigor of the scenic layout, which harmoniously coexists with the landscape painted. Keywords Giovanni Mariani, Palazzo Visconti, Brignano Gera d’Adda, quadrature
L’attività del quadraturista Giovanni Mariani “il vecchio” si sta sempre più delineando grazie a quanto emerso dalle ricerche d’archivio, che nel caso di palazzo Visconti Vecchio a Brignano Gera d’Adda (Bg) hanno trovato ulteriore conferma nel rinvenimento di alcuni ambienti affrescati al piano nobile. Nonostante sul finire del diciassettesimo e l’inizio del diciottesimo secolo questa famiglia di pittori, composta oltre che da Giovanni dai figli Giuseppe e Paolo, fosse ben nota e richiesta dalla nobiltà dello Stato di Milano, non appare citata tra le pagine delle più autorevoli fonti coeve, (Santagostino, 1671; Torre, 1674).
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Solo agli inizi del Settecento il nome di Giuseppe compare nell’Abecedario Pittorico, citato come giovane milanese di “grande aspettazione” (Orlandi, 1704, p. 187). Nella breve nota biografica che gli è dedicata, in cui è erroneamente indicato come figlio di Domenico invece che di Giovanni, Giuseppe risulta aver lavorato in molte città, tra cui Roma, Napoli e Genova, mentre in quegli stessi anni pare distinguersi lodevolmente nella quadratura e nell’architettura a Vienna. Pochi anni dopo Latuada (1737-1738) lo ritiene uno tra i più eccellenti “Dipintori” con Giuseppe Castelli (I, p. 285) e lo cita come quadraturista in numerosi cantieri milanesi, quali la cappella della Croce in San Salvatore (I, p. 142), in San Barnaba (I, p. 291), in San Celso (III, p. 46), nella seconda cappella del lato degli Evangeli e nella speculare sul lato opposto in San Jacopo delle Vergini Spagnole (IV, pp. 401-402), in San Michele (V, p. 355). Stilisticamente la personalità di Giuseppe continua ad essere poco delineata e a volte sovrapposta a quella dell’omonimo ritrattista, (a tal proposito si veda Pacciarotti, 2001, pp. 133-134 che li ritiene un’unica persona e Geddo, 2010, p. 175 che propone due distinti profili biografici). Per quanto concerne la decorazione ad affresco i problemi maggiori sono dovuti al fatto che molti degli edifici citati dalle fonti come sede di sue opere non sono più esistenti, mentre la figura del padre ha acquisito negli ultimi decenni un sempre maggiore spessore, anche grazie alla comparazione stilistica, supportata dalle scoperte documentarie che hanno consentito di rafforzarne la paternità. Si deve a Paola Venturelli il rinvenimento di un manoscritto conservato nell’Archivio del Santuario di Saronno, in cui Giovanni Mariani è ricordato come “Milanese eccellentissimo di Prospettiva et Architettura”, il quale “dipinse con il Sig. Giuseppe suo figlio le navi laterali” della detta chiesa entro il 1679, (1989, p. 213). Inizia da qui la tortuosa ricostruzione dell’attività di Giovanni, maestro dei Grandi e di Castellino (Geddo, 2010, p. 44), la cui abilità tecnica doveva essere indiscussa e condivisa, tanto da essere documentato anche in palazzo ducale, tra il 1679 e il 1684, attivo sia come quadraturista sia come pittore di figura, (Venturelli, 1989, pp. 213-214). Purtroppo non permane testimonianza di questi lavori, in cui è affiancato da un altro artista particolarmente attivo nello Stato di Milano, Giovanni Stefano Doneda detto il Montalto (Venturelli, 1989, pp. 213-214), che ritroveremo al suo fianco in altri importanti cantieri. Grazie alle prime testimonianze documentarie nel Santuario di Saronno è stato possibile ipotizzare la presenza di Giovanni e dei figli anche in altri cantieri, tra cui nella cappella dell’Angelo Custode e in quella dedicata ai Santi Cosma e Damiano nella chiesa di San Francesco a Saronno (Gatti Perer, 1992, p. 158; Spiriti, 1992, pp. 187-188, 215), nella chiesa di San Marco a Milano (Spiriti, 1998, pp. 174, 212, 221), in alcune sale al
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piano nobile, nella galleria e nella cappella di San Pietro Martire in palazzo Arese Borromeo a Cesano Maderno, spesso in collaborazione con Giovanni Ghisolfi (Spiriti, 1999, pp. 80, 82, 121, 128, 132). Cristina Geddo (2010, p. 41) ha ipotizzato la presenza di Giovanni anche ad Arcore in villa Cazzola, dove la studiosa gli attribuisce i fregi del salone e di alcune stanze adiacenti, databili agli anni 1670-1675, raffiguranti scene prospettiche e paesaggistiche con rovine, incorniciate da solide architetture, e ne ha inoltre attestato l’attività su basi documentarie in villa Mirabello nel parco della Villa Reale di Monza, dove gli vengono commissionati i lacunari dipinti a rosette in sei ambienti e le fasce decorative sottosoffitto, all’interno delle quali oltre alle consuete quadrature corredate da un’insistita componente architettonica, compaiono anche alcune figure (Geddo, 2010, pp. 44-45). In particolare le quadrature della Cazzola e i soffitti del Mirabello presentano stringenti analogie con alcuni ambienti in palazzo Visconti a Brignano Gera d’Adda. Dall’analisi dei testamenti e degli inventari dei beni di alcuni dei proprietari più significativi, sono infatti emerse alcune notizie di rilievo sulla decorazione ad affresco. Purtroppo l’edificio, oggi adibito al pian terreno a sede municipale, nel corso del Novecento venne interessato da pesanti manomissioni, che inclusero la copertura della maggior parte della superficie affrescata. L’impiego del piano nobile come casa di riposo per anziani ancora negli anni sessanta del Novecento ne aveva ulteriormente compromesso l’originario splendore, riemerso solo grazie ad importanti interventi di restauro che lo scorso decennio hanno consentito ai dipinti di riemergere da numerosi strati di calce ed intonaco, e ai soffitti di essere di nuovo visibili, non più nascosti dai ribassamenti. Ad Alfonso Visconti, padre dei più noti Pirro, Annibale e Luigi, e a Barnabò, figlio di Barnabò II e di Margherita Talenti di Fiorenza, si deve sostanzialmente la riqualificazione ascrivibile agli anni settanta del Seicento in due edifici nobiliari brignanesi, soprattutto per quanto concerne il ricco apparato decorativo che interessa la quasi totalità del piano nobile di palazzo Vecchio, e alcune sale di palazzo Nuovo, per lo più dislocate nel corpo di fabbrica centrale. Nell’inventario dei beni di Barnabò Visconti stilato nel 1688, due anni dopo la sua scomparsa, sono elencate con dovizia di particolari le svariate proprietà sul territorio di Brignano e soprattutto i beni mobili ospitati all’interno dell’edificio principale1. Lo scrupoloso inventario, iniziato il 6 ottobre, può dirsi concluso solo il 31 dicembre. Oltre all’elenco dei dipinti, privi di attribuzione, si trovano interessanti indicazioni relative allo stato di ultimazione dei lavori in Palazzo Vecchio, come nel caso del “salone depinto che si ritova di sopra della scala”, ovvero l’ambiente di rappresentanza affrescato con le statue monocrome dei Signori di Milano e datato 1675. 1
Archivio di Stato di Milano (ASMI), Notarile, f. 33707, notaio Giuseppe Pusterla.
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Il luogo che desta maggior interesse all’interno di questo inventario è però la Galleria, già abbellita con ventuno dipinti distribuiti “in tre ordini connessi ad un telaro di color turchino” (Bolandrini, 2013, pp. 249-253), intercalati dalla massiccia presenza di ben 9 specchi, di cui due di ampie dimensioni, e da dieci grandi finestre corredate di tende e telari. Dunque già sul finire del Seicento l’edificio appare corredato di un’imponente quadreria e completamente affrescato, ad esclusione dello scalone, che verrà ultimato solo nel terzo e quarto decennio del Settecento. Ma è grazie all’inventario post mortem dei beni di Marc’Antonio Visconti, stilato nel 1717 (ASMI, Notarile, f. 35727, 15 marzo 1717), che possiamo ricostruire ancora meglio le fasi decorative del Palazzo. Si fa infatti riferimento anche alle tre stanze verso la fossa decorate con un “fregio antico”, inesorabilmente mutate nel corso del secolo scorso e ridotte ad un unico ambiente, in cui si è però preservata la raffinata fascia sottosoffitto, finemente decorata tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento da Camillo Procaccini (Bolandrini, 2013, p. 254 ; Bolandrini 2019, icp). Questo documento settecentesco si è rivelato fondamentale per altri motivi, infatti è qui per la prima volta che la galleria risulta “tutta dipinta dal Mariani Vecchio” (Bolandrini, 2008, p. 52; Kluzer, 2008, p. 29), nominativo che tornerà spesso anche nell’inventario del 17802, all’interno del quale il pittore e i suoi discendenti risulteranno essere particolarmente quotati anche per opere su tela. Curiosamente negli inventari di questi maestosi edifici non vengono mai menzionati altri affreschisti ma solo ed esclusivamente Giovanni Mariani. Se pensiamo che le due dimore viscontee ospitano al loro interno oltre cinquanta sale, la cui decorazione è riconducibile alle personalità più in vista del Seicento e del Settecento nello Stato di Milano, tra cui si riconoscono oltre al già citato Camillo Procaccini, Giovanni Stefano e Giuseppe Montalto, Ercole Procaccini, Giovanni Ghisolfi, Cristoph Johann Storer, Fabrizio e Giovanni Antonio Galliari, Giovanni Antonio Cucchi, Giovanni Battista Sassi, Mattia Bortoloni, ovvero i protagonisti coinvolti nelle principali campagne decorative delle ville e dei palazzi della nobiltà milanese, stupisce che in oltre due secoli di documenti l’unico nome che compaia sia proprio quello del quadraturista, ancora oggi poco noto, Giovanni Mariani il Vecchio. Curiosamente nella descrizione della galleria di palazzo Visconti del 1717 si può notare l’assoluta corrispondenza dei dipinti registrati nell’inventario del 1688, che saranno mantenuti pressoché identici anche nell’inventario del 1780. Così appare dunque nel 1717 la galleria: 2
ASMI, Notarile, f. 47717.
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Tutta dipinta dal Mariani Vecchio, con tre campi di quadri con cornici tutte intagliate et adorate; rapresentanti favole; nel primo verso la porta vi sono sette pezzi di figure e due frutiere et fiori; nel 2do campo di mezzo un quadro grande nel mezzo at quadro laterali tutti di figure e favole; nel 3° campo vi sono sette quadri a figure e due di instrumenti musicali tutti con cornici come s.a. Due spechij grandi alle teste della Galleria intagliati et adorati con piccoli putini. Sette altri spechij piccoli fra le finestre verso il cortile con cornice intagliata et adorata con suoi fiocchi rossi3.
Restaurato nel corso dello scorso decennio dopo essere stato intonacato per più di un secolo, l’ampio spazio occupato dalla galleria di palazzo Vecchio (fig. 1) ricopre un intero lato del perimetro dell’edificio, la parete che affaccia sulla corte interna è intervallata da 8 finestre, intercalate da medaglioni dipinti monocromi e in passato anche dagli specchi descritti negli inventari sei e settecenteschi, mentre sull’altro lato tre grandi cornici affrescate oggi vuote, ospitavano i dipinti menzionati nei documenti. La decorazione ad affresco della Galleria conferma le peculiarità della pittura di Mariani, che insite sui toni monocromi, ravvisabili in particolare nel Santuario della Beata Vergine dei Miracoli di Saronno. La predilezione per un impaginato semplice e di effetto consente al quadraturista di scandire le superfici in base alla destinazione d’uso, ovvero ospitare l’imponente quadreria nelle cornici sormontate da una elegante fascia sottosoffitto, all’interno della quale inserire, senza soluzione di continuità, riquadri con laconiche rovine architettoniche e scene paesaggistiche che disperdono lo sguardo nei cieli limpidi che si intravedono oltre il loggiato dipinto. La lettura del lato breve di fondo (fig. 2) è stata alterata dalla tamponatura delle due aperture che conducevano al terrazzo, punto di congiunzione con palazzo Nuovo, ancora visibili sulla facciata esterna. Sulla parete di accesso il gioco illusionistico ottiene gli esiti più felici dell’intera stanza: con un linguaggio disinvolto il pittore mantiene la suddivisione in due ordini percepibile in tutto la galleria, ma qui enfatizza l’architettura di un finto porticato al cui centro colloca l’ingresso reale, sormontandolo con una lanterna dipinta e ai suoi lati affresca due porte, arricchendole con le medesime complesse cornici che troviamo sul lato lungo, in corrispondenza degli accessi alle salette laterali, mentre nell’ordine superiore continua il loggiato da cui spunta una rigogliosa vegetazione. I medaglioni monocromi ospitano scene paesaggistiche e si concludono sul fondo con mascheroni antropomorfi (fig. 4), i medesimi che troviamo anche in altri ambienti, e che avevano un corrispettivo ligneo posto all’esterno dell’edificio su ogni singola trave di gronda, di cui si sono conservati 165 esemplari, in parte esposti nella sala dei Centauri (Bolandrini, 2019, icp.).
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Fig. 2 Giovanni Mariani il vecchio, particolare, Brignano Gera d’Adda, Palazzo Visconti Vecchio, Galleria, 1675 circa (foto dell’autore).
pagina a fronte Fig. 3 Giovanni Mariani il vecchio, quadrature, Brignano Gera d’Adda, Palazzo Visconti Vecchio, sala adiacente alla Galleria, 1675 circa (foto dell’autore).
Questo tipo di raffigurazione antropomorfa è la medesima che si può osservare nella galleria al piano nobile di villa Visconti d’Aragona De Ponti a Sesto San Giovanni, i cui affreschi sono stati attribuiti ad Agostino Santagostino da Simonetta Coppa (1988, pp. 131, 136), la quale non si sbilancia sul nome del quadraturista ritenendolo però in grado di attuare “una cultura più aggiornata di quella del quadraturista che lavorò con Santagostino a Cinisello Balsamo”. A questo proposito, anche per ulteriori confronti di cui dirà a breve, è fondamentale, ancora una volta, il documento del 1717 che ha consentito di individuare altri ambienti affrescati da Mariani, di cui fino a pochi anni fa si ignorava persino l’esistenza all’interno di palazzo Visconti, e che contribuiscono ad arricchire l’esiguo catalogo di opere sinora documentate dell’artista. Mi riferisco in particolare alla sala, originariamente divisa in due ambienti distinti a giudicare dal tipo di decorazione parietale e dalle diverse tonalità del soffitto a cassettoni, che guarda verso quello che un tempo era il giardino, e che immette sia nella galleria verso la corte sia nella prima delle quattro piccole salette corrispondenti. Da un lato gli sfondati paesaggistici insistono su colonnati sobri ed eleganti, i medesimi che troviamo nell’alcova al piano nobile di villa Visconti
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d’Aragona De Ponti a Sesto San Giovanni, dove la vegetazione si inserisce con garbo tra le architetture che mantengono un ruolo principale nella decorazione ad affresco. In quella che in origine era una sala a sé l’impaginato delle quadrature si complica, svettano lacerti di cupolini ottagonali in scorcio sulle pareti sopravvissute agli scempi passati (fig. 3). Nelle salette di minori dimensioni adiacenti alla galleria permangono fasce sottosoffitto dai chiari echi della maniera di Giovanni Mariani, del tutto simili a quelle che si incontrano in villa Cazzola ad Arcore (Geddo, 2010, p. 43), e ancora nella sala con la parte figurativa realizzata da Giovanni Stefano Montalto (Bolandrini, 2001-2002, pp. 174-175) pare palese il rimando al nostro quadraturista. A questo proposito è doveroso un approfondimento della fortunata collaborazione tra Giovanni Mariani e i fratelli Giovanni Stefano e Giuseppe Doneda detti i Montalto, indubbiamente attivi in entrambi i palazzi Visconti, ma per motivi di spazio si rimanda ad altra sede un’adeguata trattazione (Bolandrini, 2019, icp). Del resto come è già stato messo in luce questi artisti lavorano insieme anche in villa Mirabello (Geddo, 2010, pp. 45-46) e in palazzo Arese Borromeo a Cesano Maderno, (Spiriti, 1999, pp. 47-59; Natale, 2000, pp. 104-105) nel medesimo lasso temporale.
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Fig. 4 Giovanni Mariani il vecchio, particolare, Brignano Gera d’Adda, Palazzo Visconti Vecchio, Galleria, particolari, 1675 circa (foto dell’autore).
Palazzo Visconti presenta inoltre un’altra forte analogia con il Mirabello, nella resa dei soffitti a cassettoni dipinti a rosette. Ad esclusione della sala di rappresentanza a Brignano ogni ambiente è caratterizzato da questa tipologia di soffitti, uno diverso dall’altro, decorati con tonalità accese e in molti casi corredati anche al centro di ogni singolo riquadro da rosette lignee ricoperte con foglia d’oro. La testimonianza del Mirabello (Geddo, 2010, p. 238) trova dunque un’ulteriore conferma in palazzo Visconti a Brignano Gera d’Adda dell’inusuale attività di Giovanni Mariani e del suo entourage di decoratori anche di soffitti lignei cassettonati.
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L’accrescersi del catalogo documentato di Giovanni Mariani suggerisce di ipotizzare la sua presenza anche nel monumentale cantiere di palazzo Nuovo Visconti sempre nella località in terra bergamasca, in particolare nel corridoio che collega la galleria all’ala orientale del piano nobile, e in alcuni ambienti posti nel corpo di fabbrica più antico, dove si ravvisa la sapiente capacità del quadraturista di impaginare le ariose scene paesaggistiche all’interno di architetture monocrome, abbellendole con festoni dorati e cornici importanti ed austere, ma considerata la complessità dell’apparato decorativo di palazzo Nuovo si rimanda ad altra sede la disamina di tale proposta attributiva. In chiusura è a mio avviso interessante notare come nella stima e nell’inventario dei beni di Brignano del 1779, siano citate anche opere dei Mariani su tela, con quotazioni molto diverse, da £ 12 “per un soraporto”, a £. 750 per due architetture con macchiette4. In particolare queste due ultime hanno un valore molto elevato, la stesso di un dipinto attribuito a Pieter Paul Rubens conservato nella medesima collezione, il che lascia intuire l’alta considerazione ancora in essere sul finire del Settecento. Analogamente nella quadreria di Giovanni Antonio Parravicini, proprietario di villa Visconti d’Aragona De Ponti a Sesto San Giovanni, era conservato un dipinto rappresentante “un’architettura con macchiette e paese in lontananza” opera di Mariano vecchio, come indicato in un inventario del 1721 (Coppa, 1988, p. 173, n. 196). Non stupisce quindi che i committenti degli affreschi collezionassero anche opere mobili, scelta che non fa che rafforzarne la fama raggiunta nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo, venuta meno per un lungo tempo e fortunatamente recentemente recuperata.
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ASMI, Notarile, f. 47717.
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Fig. 1 Giulio Campagnola, La NativitĂ di Maria (1505); un dettaglio; La Specola oggi.
l’architettura dipinta della scoletta del carmine a padova Agostino De Rosa, Giulia Piccinin
Università Iuav di Vernezia, Venezia, Italia
Andrea Giordano, Cosimo Monteleone, Rachele Angela Bernardello, Mirka Dalla Longa, Emanuela Faresin, Isabella Friso Università degli Studi di Padova, Padova, Italia
Abstract This article conserns a study related to a research project, titled MONADII, for conservation and dissemination of architectural and cultural heritage. This project focuses on the Scoletta del Carmine, one of the oldest religious brotherhoods in Padua. This place has a Renaissance pictorial cycle, punctuated by a painted architectural set concerning episodes from the life of Saint Mary, which contains in nuce all future developments of 17th century quadraturism. This research has been set in stages, starting from historical data to a digital survey followed: • to investigate the main transformations of the building over time; • to create a model in BIM environment; • to provide ortho-photos of the walls; • to create a database, an interoperable HBIM (Historic Building Information Model) model for gathering all the information. The perspectival outlines in the Scoletta allowed us to reconstruct the configuration of the represented buildings, the morphology of the landscape and the position of the characters. The information, obtained from the painted architecture – an advanced example of illusionism –, permits to create virtual clones of the illusory settings, using multimedia systems. Keywords Scuola del Carmine, quadraturismo, prospettiva, pratica prospettica, teoria prospettica.
Introduzione (A. De Rosa, A. Giordano) La storia della rappresentazione occidentale, e segnatamente quella italiana, si è nutrita di due elementi sorgivi: quello della teorizzazione trattatistica e quello delle sue applicazioni pittoriche. Alle prime sono riconducibili tutti quegli elaborati letterari e meta-narrativi (i trattati), indirizzati sia ai pittori che ai matematici, che dal Quattrocento in poi hanno ‘occupato’ il campo della figurazione controllata dello spazio, assumendo, l’identità ontologica tra corpi fisici e spazio vuoto. Al secondo ambito, appartengono tutte quelle sperimentazioni iconografiche che hanno messo vertiginosamente en abîme quelle riflessioni astratte,
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Fig. 2 Sezione ottenuta dall’indagine georadar elementi tombali al di sotto del pavimento.
dotandole di un potere iletico senza precedenti. Dagli anni Ottanta del Novecento, sappiamo che la storia della prospettiva non è solo una storia culturale, ma anche sociale e sociologica, con complesse influenze anche politiche e finanche legali. Spesso però la prospettiva nell’ambito del cosiddetto ‘ciclo pittorico’ diventa la sintassi di uno storytelling dotato di una sua peculiare coerenza epistemoloigica ossia: un mito fondativo civile e/o religioso; l’idea di una forma classica in termini architettonici, scenograficamente aperta verso l’osservatore; e infine la cornice/sfondo del paesaggio, spesso realisticamente trattato, altre volte metafisicamente riconfigurato. Il progetto di ricerca MONADII – elaborato in joint venture tra Università di Padova, Università Iuav di Venezia e Regione Veneto – ha assunto proprio queste premesse teoriche nell’analisi interpretativa degli apparati prospettici presenti nella Scoletta del Carmine (Padova), sede di una delle più antiche fraglie religiose di Padova: qui è sembrato ai responsabili scientifici che i tre elementi cui si accennava dianzi, abbiano trovato un terreno di scambio e confronto decisamente sperimentale. Il luogo è infatti caratterizzato dalla presenza di un ciclo pittorico cinquecentesco, scandito da partiture architettoniche raffiguranti episodi della vita di Maria. Sulla campagna di rilievo della Scoletta del Carmine (E. Faresin) Il patrimonio culturale, per il suo valore storico ed estetico, è un bene che rappresenta l’identità dell’uomo. La sua conservazione e valorizzazione necessitano di un’approfondita documentazione sia in termini più propriamente storico-artistici che per quanto concerne le caratteristiche strutturali. Il rilievo si configura nel progetto come lo strumento critico con il quale è possibile comprendere e ricostruire le principali trasformazioni dell’edificio. La Scoletta del Carmine è stata indagata con tre differenti metodologie di rilievo: laser scanner, fotogrammetrico ed applicazioni geofisiche (termocamera e georadar) (fig. 2).
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Rilievo tramite laser scanner La campagna di rilievo con strumentazione laser scanner è stata suddivisa in due giornate: una specifica per il complesso della Scoletta ed una per l’acquisizione dell’ambiente esterno (Piazza Petrarca e zone limitrofe). Rilievo fotogrammetrico Il rilievo fotogrammetrico è stato eseguito con una strumentazione fotografica ad altissima risoluzione e un software per la fotomodellazione automatica tramite multi-stereo matching. Il clone virtuale tiene conto non solo della configurazione geometrica dell’architettura, ma anche delle informazioni sul colore delle superfici restituite. Dal modello così ottenuto, sono state ricavate le quattro ortofoto, proiezioni ortogonali delle superfici che ospitano gli affreschi, materiale fondamentale per procedere con la restituzione prospettica delle architetture raffigurate1. Lo spazio architettonico della Scoletta del Carmine (R.A. Bernardello) La percezione dell’osservatore in riferimento agli affreschi della Scoletta del Carmine, non può prescindere dallo spazio architettonico che lo circonda, il modello HBIM si presta ad essere un cardine fondamentale del progetto, consente infatti di riprodurre geometria, misura e forma descritte da ogni informazione, necessaria alla comprensione del bene e alla sua conservazione, inclusi tutti quegli elementi figurativi trascurabili ai fini di un approccio ingegneristico strutturale, ma fondamentali per quanto riguarda la ricostruzione storico – artistica di una delle più antiche fraglie della città di Padova. Utilizzando come riferimento geometrico le nuvole di punti ottenute dal rilievo, è stato possibile ricostruire l’edificio as built, secondo una procedura metodica e rigorosa ScanToBIM. Le fasi storiche della Scoletta del Carmine È stato possibile ricostruire non solo da un punto di vista documentale, ma anche visivo le quattro fasi storico-costruttive della Scoletta del Carmine, scegliendo come discrimen principale la realizzazione degli affreschi. Sono stati creati i vari elementi costruttivi del progetto, in particolare ciascun quadro pittorico è stato considerato come un componente unico all’interno del modello, descrivendone i vari parametri dimensionali, ma anche popolandolo di informazioni relative, tra cui autore, titolo, riferimenti bibliografici, presenza di disegni preparatori. 1 I modelli ottenuti, geometricamente corretti, sono stati orientati nello spazio utilizzando le coordinate di alcuni punti ricavate dal rilievo laser scanner.
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pagina a fronte Fig. 3 Individuazione dei centri di proiezione.
Le fasi storiche sono così definite: 1. 1313-1492 costruzione del convento di Santa Maria del Carmelo e presenza del refettorio dei frati al piano terra. 2. 1492-1505 crollo della parete est della Chiesa con conseguente spostamento al piano terra della sede della fraglia e inizio dei lavori di decorazione pittorica della Scoletta. 3. 1505-1600 chiusura dei lavori di decorazione pittorica con la costruzione di un muro che divide la Scoletta dalla Sacrestia. (attuale muro ovest). 4. 1600-2018 apertura delle due attuali porte di accesso dal sagrato e soppressione della fraglia Una sovrapposizione della nuvola di punti con il modello BIM ha permesso di evidenziare fuori piombo e difformità strutturali, in particolare è stato possibile determinare l’inclinazione del piano del quadro e analizzare così le varie opzioni di ricostruzione prospettica. Dalla fruizione dello spazio architettonico a quella dello spazio rappresentato (I. Friso) Il ciclo pittorico delineato narra la vita della Vergine Maria attraverso la rappresentazione di 16 episodi inquadrati all’interno di un sistema architravato sorretto da colonne, anch’esso dipinto. La lettura inizia dall’affresco a sinistra dell’altare e in senso antiorario. Il ciclo, realizzato tra il 1505 e il 1560, è stato concepito dall’opera di molteplici artisti influenti2 che si sono succeduti nel tempo, in cui le scene dipinte sono ambientate in interni domestici o all’esterno di edifici pubblici, raffigurati applicando correttamente – salvo alcune deroghe – le regole della prospettiva lineare conica. Le ortofoto ricavate dal rilievo fotogrammetrico hanno permesso di restituire in primis i riferimenti prospettici. Le informazioni così ottenute evidenziano come i differenti autori abbiano mantenuto una retta d’orizzonte comune in tutte e quattro le superfici verticali, fatta eccezione per alcuni elementi rappresentati prospetticamente che fanno riferimento ad un’altra, leggermente più alta. Mentre la parete a nord presenta una molteplicità di centri di proiezione – uno per ogni affresco – proprio perché molteplici furono gli autori impegnati nella sua configurazione, quella a sud, realizzata interamente da
2 Gli episodi narrati sono in ordine di lettura: Gioacchino scacciato dal Tempio (Girolamo Dal Santo), L’Angelo appare a Gioacchino (attribuito a Girolamo Dal Santo), Incontro tra Gioacchino e Anna (attribuito a Domenico Campagnola), Natività di Maria (Giulio Campagnola), Presentazione della Vergine al Tempio (Giulio Campagnola), Vita della vergine (Giulio Campagnola), Sposalizio della Vergine (Giulio Campagnola), Natività (Stefano dell’Arzere), Adorazione dei Magi e Purificazione (Stefano dell’Arzere), Fuga in Egitto (Girolamo Dal Santo), La Santa Famiglia di Nazareth (Girolamo Dal Santo), Gesù fra i Discepoli (Girolamo Dal Santo), Pentecoste (Girolamo Dal Santo), Transito della Vergine (Girolamo Dal Santo), La Fede e la Speranza (Girolamo Dal Santo), Assunzione della Vergine (Girolamo Dal Santo).
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Girolamo Dal Santo, prevede uno schema compositivo caratterizzato da un unico centro di proiezione posizionato a circa la metà della lunghezza totale della stanza, in prossimità della parete opposta a quella del dipinto (fig. 3). La corretta posizione degli osservatori all’interno della fraglia consente di avanzare alcune interessanti ipotesi sulla fruizione dello spazio reale: il percorso è vincolato alla lettura dei vari episodi che si sviluppa per tappe definite dalle diverse posizioni dell’osservatore desunte dalla restituzione prospettica. In questo modo viene comunque introdotta una dinamicità, poiché l’osservatore è costretto a cambiare la propria posizione per apprezzare l’unitarietà compositiva degli affreschi. La Natività di Maria come exempla della metodologia applicata. Ultimato lo studio sulla fruizione dello spazio architettonico, la ricerca si è focalizzata sulla restituzione degli apparati architettonici rappresentati negli affreschi. Le prime considerazioni vertono sul fatto che tutte le scene sono state rappresentate in prospettiva a quadro verticale. Questo metodo della rappresentazione presuppone la proiezione in vera forma sul quadro prospettico, di forme appartenenti a piani paralleli al quadro stesso. La metodologia di restituzione rigorosamente applicata ha permesso di ricostruire il clone digitale delle ambientazioni sceniche nonché la posizione dei personaggi raffigurati. La restituzione prospettica applicata a La Natività di Maria di Giulio Campagnola costituisce l’exempla del processo metodologico messo in atto. Partendo dal soffitto cassettonato – dando assodata la forma quadrata del cassettone – è stato possibile restiture il riferimento prospettico usato dal Campagnola: ossia la proiezione dell’occhio dell’osservatore sul quadro e, di conseguenza, la retta di orizzonte, la distanza principale dell’osservatore piano iconico in primis e, successivamente, la conformazione planimetrica e altimetrica della stanza e di tutti gli elementi d’arredo in essa presenti. I dati così ottenuti hanno permesso di realizzare un modello tridimensionale in ambiente CAD.
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La Scuola del Carmine e il paesaggio dipinto (G. Piccinin) Contestualizzando il ciclo di affreschi all’interno del periodo storico-artistico rinascimentale, è possibilie individuare nell’opera oggetto della ricerca, pratiche ed espedienti comuni dell’epoca. I paesaggi che fanno da sfondo alle opere pittoriche spesso non sono subordinati realmente ai fatti che si va raccontando nel dipinto, ma l’obiettivo è unicamente quello di dare completezza alla composizione. Il risultato permette però, a chi li osserva, di riconoscere un ambiente familiare: mettendo in atto una funzione prettamente emozionale. Al Carmine è possibile riconoscere il paesaggio patavino e i dintorni dei Colli Euganei, fil rouge dell’intero ciclo di affreschi. Il primo ad aver attratto la nostra attenzione è stato il Mastio Federiciano (Rocca di Monselice), dipinto da Girolamo Dal Santo in La famiglia di Nazareth: alle spalle spicca il Monte Ricco e ai suoi piedi compare il complesso delle Sette Chiese. L’inquadratura secondo la quale è stato dipinto il paesaggio è riconducibile ad una precisa posizione nella città di Monselice. Le scelte compositive sono influenzate non solo dal paesaggio circostante ma anche dagli stili compositivi dettati dalla circolazione di bozzetti di studio tra gli artisti stessi. Ben note erano infatti anche le incisioni di Dürer associabili ai paesaggi dipinti da Stefano dall’Arzere o da Giulio Campagnola. In La Natività di Maria di Giulio Campagnola la scena si svolge in una stanza che si apre su un paesaggio urbano attraverso una porta aperta a sinistra del letto. Lo scenario è costituito da una torre circondata da mura merlate, all’angolo della biforcazione di un corso d’acqua; come sfondo un paesaggio di montagna, in primo piano uno spazio rurale non edificato. Sono molteplici gli elementi da ricostruire in questo caso, considerando Padova quale centro urbano più vicino e rappresentativo, è possibile associare l’ambiente raffigurato, all’attuale Specola, lambita su due lati dalle acque del Bacchiglione. A dimostrazione della presenza di mura merlate, costituiva la torre maggiore del Castel Vecchio di Padova fino a marzo 1767, prima della sua conversione in osservatorio astronomico. A partire dai disegni dell’architetto Domenico Cerato, è possibile confrontare le due versioni della torre, prima e dopo la conversione. Quella antecedente era costituita da un corpo in pianta quadrata con copertura a quattro falde e, rispetto a come si presenta oggi, molto più vicina a ciò che può aver visto il Campagnola. Per quanto invece concerne le montagne sullo sfondo, l’unica ipotesi che si può avanzare è che si tratti delle colline asolane e, ancora oltre, delle Dolomiti (fig. 1).
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Ad oggi la ricerca sui paesaggi è stata dedicata alle quadrature che presentano una rappresentazione più dettagliata degli ambienti dipinti. In alcuni casi le quadrature sono ambientate in stanze chiuse o in luoghi solo accennati e allusivi a un senso di continuità. Insieme agli altri contenuti documentali e fotografici, le informazioni relative ai paesaggi sono state organizzate in un’App dedicata alla Scuola del Carmine che permette al visitatore di essere coinvolto in una visita dell’edificio attiva e dinamica dei contenuti come i paesaggi, non visibili sul posto. Esperienze di Realtà Immersiva ne La Scoletta del Carmine (M. Dalla Longa) Dopo aver analizzato le diverse piattaforme presenti attualmente sul mercato, la scelta è ricaduta sul software Unity, un motore grafico che consente una grande libertà in termini di output finale. In seguito ci siamo occupati dei vari mezzi per mostrare la Realtà Virtuale. Si è deciso di testare la realtà virtuale su tre diversi dispositivi: un HeadMountedDisplay della Oculus, un Cave Automatic Virtual Environment e un qualsiasi computer. All’interno dell’ambiente di realtà virtuale, oltre al modello della Scoletta allo stato attuale, si è deciso di mostrare anche altri elaborati tridimensionali quali la nuvola di punti derivante dal rilievo e i modelli delle 4 fasi storiche. Data la presenza all’interno della fraglia degli affreschi, il modello creato in ambiente BIM è stato integrato con altri, ottenuti mediante una modellazione ‘tradizionale’,3 che mostrano la configurazione spaziale delle architetture raffigurate. Si è quindi andati a creare un modello “filtro” tra il reale e quelli virtuali degli affreschi aggiungendo al modello BIM il clone 3D del basamento, le colonne e il fregio. Visualizzazione Scoletta del Carmite tramite Realtà Virtuale • Oculus Rift. Attraverso questo strumento è possibile fare un’esperienza di VR totalmente immersiva e personale. L’utente indossato il visore e viene guidato all’interno dello spazio 3D per apprendere passivamente i contenuti esposti. Si crea quindi una sorta di video, dove il fruitore può guardare ciò che lo circonda a 360°. Definite le modalità, è stato deciso uno storyboard per determinare i contenuti da esporre tramite questa esperienza. • CAVE- Automatic Virtual Environment. Sebbene sia un’esperienza immersiva non lo è completamente in quanto l’utente riconosce di essere all’interno della stanza e può peò condividere con altre persone l’esperienza (fig. 4). • WebVR– è stato realizzato un file che non consente ovviamente una esperienza immersiva, ma è possibile navigare in una sorta di videogioco.
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Ci si riferisce ai cloni 3D realizzati con i softwares Autocad e Rhinocerons.
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Fig. 4 Esperienza di Immersive Reality.
Conclusioni (C. Monteleone) La ricerca presentata si concentra principalmente sul legame, che è possibile instaurare, tra le nuove tecnologie e la visualizzazione 3D dell’architettura storica. Tale connessione può avere finalità molteplici: a parte le operazioni di restituzione prospettica dell’architettura dipinta nella Scoletta del Carmine basate su un rilievo digitale accurato, si è cercato di rendere il modello BIM realmente rappresentativo della storia e della consistenza fisica dell’edificio oggetto di studio, coinvolgendo discipline scientifiche differenti, con l’apporto anche di istituzioni straniere (Duke University – NC, USA; NTU – Singapore) ed esperti professionisti. Il lavoro è stato organizzato per fasi successive ma concatenate. La trasformazione di una nuvola di punti in un modello 3D BIM interoperabile è stata particolarmente utile nel controllo delle geometrie e studiare le strutture e le trasformazioni storiche nel tempo. In più, collegare automaticamente il modello BIM ai sensori, che misurano specifici parametri, ha permesso di ottenere informazioni inerenti condizioni ambientali dell’interno e dell’esterno dell’edificio. Il modello 3D interoperabile può essere interrogato anche in riferimento alla gestione economica di un siffatto edificio storico per cui i sensori giocano un ruolo fondamentale perché in grado di misurare in tempo reale, per esempio, il flusso turistico, il consumo di energia, la dispersione termica. Un’altra importante finalità di questa ricerca consisteva nell’interoperabilità del modello 3D con lo scopo approfondire la conoscenza di un edificio storico per scopi scientifici, come pure per la disseminazione delle informazioni a livello turistico; ciò è stato reso possibile grazie alla realtà aumentata e virtuale.
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Fig. 1 Restituzione prospettica della volta della Sala dellâ&#x20AC;&#x2122;Autunno. 1) risultato proiettivo; 2) correzione sulla distanza; 3) architettura ideale. A destra: particolare sezione ovale della colonna.
architettura reale e illusoria: prospettiva e percezione in una decorazione genovese Cristina Càndito
Università di Genova, Italia
Abstract The research deals with a number of decorations realised in Palazzo Rosso (Genoa) from the second half of the seventeenth century onwards. Genoese decoration follows an original development in the use of perceptive effects that create continuity between real and illusory spaces an original interpretation of the integration of arts typical of the Baroque style and its poetics of Meraviglia, which favours the use of perspective and optical tricks. Some considerations are made here from previous studies carried out inside Palazzo Rosso thanks to the research on its artistic context, formal comparisons and the data taken from different surveying techniques, based on spherical photography and digital photogrammetry, in addition to the application of methods of reverse perspective and virtual modelling. The methods employed by the artists are used to obtain a unified real and illusory spatial perception: the observers move within the real space, while the architecture represented conveys a persuasive message, drawing them in through the dynamism of the characters brought to life through painting, stucco and reflected images. Keywords Architectural Perspective, Reverse Perspective, Reflection, Mirrors, Virtual space.
Le decorazioni di palazzo Rosso La decorazione degli ambienti del ciclo secentesco in palazzo Rosso a Genova è stata oggetto di attenzione in approfonditi studi storico artistici che ne hanno rilevato il ruolo centrale nella cultura figurativa secentesca, oltre alle caratteristiche modalità di integrazione tra le arti1. Nella presente ricerca si traggono alcune considerazioni sulla base di questi approfondimenti e sugli studi effettuati attorno agli spazi reali e illusori dei singoli ambienti del ciclo decorativo, attraverso diverse tecniche di rilevamento, restituzioni prospettiche e 1 Si ricordano i contributi sulla decorazione genovese (Gavazza, 1974; Gavazza, 1989; Gavazza, 2004), anche con particolare attenzione al suo sviluppo secentesco (Gavazza, Lamera, Magnani, 1990). Studi specifici su palazzo Rosso sono stati condotti durante il restauro post bellico (Marcenaro, 1966) e in tempi più recenti (Boccardo, 1998; Toncini Cabella, 2002; Magnani, Rotondi Terminiello et alii, 2003; Sanguineti, 2004).
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pagina a fronte Fig. 2 Ordini architettonici ideali e rappresentazione. A sinistra: La corrispondenza con l’ordine ionico del Palladio (1570) nella Sala dell’Autunno. Nella pianta è evidenziato in rosso un lato obliquo a rilievo in stucco della cornice ottagonale. A destra: Confronto con l’ordine composito del Palladio (1570) nella Sala dell’Inverno.
ricostruzioni con tecniche di modellazione virtuale. Lo scopo era verificare e integrare gli studi precedenti, in particolar modo attraverso il ruolo che assume la prospettiva dei dipinti e la sua interazione con le superfici riflettenti presenti nel percorso2. La dimora è realizzata per la famiglia Brignole Sale in Strada Nuova fra il 1671 e il 1677 su progetto dell’architetto Pietro Antonio Corradi (1613? -1683)3. I due fratelli Gio. Francesco (1643-1693) e Ridolfo Maria Brignole Sale (1631-1683) commissionarono due piani nobili, che sarebbero poi stati loro assegnati tramite sorteggio. Dopo alterne vicende legate al primo grande periodo delle decorazioni e alle successive modifiche, nel 1874 Maria Brignole Sale De Ferrari (1811-1888) dona il palazzo alla città di Genova. Nel 1942 l’edificio subisce un bombardamento che porta ad ampie distruzioni. I successivi interventi (1953-1961), ad opera di Franco Albini (1905-1977) con la consulenza di Caterina Marcenaro (1906-1976), conducono a nuove concezioni di allestimento e di fruizione degli spazi. Le prime decorazioni sono volute da Gio. Francesco Brignole Sale che, dopo la precoce morte di Ridolfo (1683), diventa unico proprietario del palazzo. A partire dal 1687 si realizza così il ciclo delle stagioni al secondo piano nobile, che, coordinato da Domenico Piola (1627-1703), comprende il salone del Sole a nord, le quattro sale delle stagioni a est e la loggia delle Rovine a sud, a cui collaborano alcuni dei migliori artisti del momento a Genova4 e che stupiscono per la varietà di tecniche e di stratagemmi adottati nella decorazione illusionistica. La sala dell’Autunno La sala dell’Autunno ha un volume approssimativamente cubico, con circa 8 metri per lato, ed è coperta da una volta a padiglione con intersezioni arrotondate e coppie di lunette angolari. La decorazione (1687-1689) è ideata ed eseguita da Domenico Piola insieme al quadraturista bolognese Sebastiano Monchi (?-1706) (Marcenaro, 1966, p. 10). Le quadrature parietali sono rimaneggiate dai pittori Andrea Isola e Michele Canzio tra il 1845 e il 1846 (Marcenaro, 1966, p. 24) e, in parte, sono recuperate nei recenti restauri5. Al centro della volta sono raffigurati Bacco e Arianna ed è ricorrente il riferimento ai 2 Lo studio è stato avviato con il Progetto di Ricerca di Interesse nazionale 2010-11 dal titolo: Prospettive Architettoniche: conservazione digitale, divulgazione e studio (coordinatore nazionale: Prof. R. Migliari; responsabile’Unità di Genova: prof. M. Boffito) e prosegue nella ricerca PRA 2018 dal titolo La rappresentazione e i metodi inclusivi per la valorizzazione dell’architettura (responsabile scientifico: C. Càndito). 3 Per la storia del palazzo, cfr. Boccardo 1998 con bibliografia precedente. 4 Oltre agli artisti citati per le sale di seguito descritte, si ricorda Gregorio de Ferrari (1647-1726), che realizza la decorazione del salone del Sole e delle sale della Primavera e dell’Estate, coadiuvato dal quadraturista Antonio Haffner (1654-1732). 5 I restauri del 2013 hanno coinvolto la loggia delle Rovine e la sala dell’Autunno e sono stati condotti con la
prospettiva e percezione in una decorazione genovese • cristina càndito
tralci di vite e grappoli d’uva presenti nelle cornici della volta e della specchiera, realizzate entrambe in stucco dorato da Giacomo Maria Muttone. Per individuare alcune caratteristiche dello spazio illusorio, abbiamo effettuato studi e confronti tra i risultati ottenuti con la fotogrammetria digitale e altri con la fotografia nodale6. Si sono così realizzati elaborati che forniscono una percezione spaziale tridimensionale e le immagini utili per verificare alcune caratteristiche dello spazio reale e illusorio (nuvola di punti della volta scalata e georeferenziata, ortofoto, texture HD, fotopiano e proiezione equirettangolare navigabile a 360°). Le procedure di restituzione prospettica della prospettiva della volta effettuate sull’ortofoto (fig. 1) hanno evidenziato le frequenti distorsioni prospettiche, tra cui l’evidente mancanza di proporzioni dell’architettura rappresentata, che risulta troppo angusta per rappresentare un’architettura reale. I contorni delle sezioni delle colonne, inoltre, non sono circolari, come dovrebbe accadere in una prospettiva con piano orizzontale, ma appaiono evidentemente ellittici (Càndito, 2015). Lo studio ha offerto l’occasione per un confronto con i manuali di prospettiva e di architettura disponibili nel Seicento; in particolare, si è trovato un riscontro (fig. 2) tra le proporzioni delle colonne dello spazio illusorio dell’affresco con l’ordine ionico proposto da Andrea Palladio (Càndito, 2016a). La suggestione di coinvolgimento è integrata dagli elementi in stucco, tra cui spicca la cornice ottagonale della volta, che rappresenta la base strutturale per l’intero apparato illusorio, i cui lati obliqui giocano sull’ambiguità tra dipinto e rilievo, in una funzione di collegamento tra architettura e pittura (fig. 2) (Babbetto, Càndito, 2015). collaborazione dell’Istituto Centrale per il Restauro. 6 Si sono effettuate operazioni di rilevamento di fotomodellazione (maggio 2014, R. Babbetto, G. Garello, M. Teixeira) e con strumenti per ottenere fotografie sferiche HD (maggio 2014, L. Baglioni, C. Càndito, M. Mazzucchelli).
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pagina a fronte Fig. 3 Restituzione prospettica. A sinistra: Modellazione dello spazio illusorio ottenuto dalla restituzione prospettica della parete est e sua integrazione con lo spazio reale della sala dell’Inverno. A destra: La parete ovest della loggia delle Rovine con il dettaglio della colonna illusoria interna.
La sala dell’Inverno Nella sala dell’Inverno, che è contigua alla sala dell’Autunno e ne ripete la volumetria, l’elemento più interessante e meglio conservato è costituito dalla quadratura delle pareti. Come nella sala precedente, la decorazione della volta è realizzata da Domenico Piola, in questo caso con la collaborazione del figlio Paolo Gerolamo (1666-1724), che dipinge le lunette. Al centro della volta le personificazioni dei venti popolano un cielo tempestoso insieme a figure e animali con riferimento alla caccia e al carnevale. La quadratura delle pareti è realizzata ad opera di Nicolò Viviano Codazzi (1642-1693), che vi rappresenta gli interni di un’architettura monumentale. Per la geometria delle superfici affrescate, le procedure di rilevamento sono state condotte utilizzando le tecniche di fotografia nodale7, capaci di generare fotopiani delle pareti ad alta risoluzione, sufficienti per condurre le costruzioni di restituzione prospettica di superfici piane. Le pareti ovest, nord ed est della sala dell’Inverno presentano ciascuna una quadratura prospettica che rappresenta lo spazio monumentale di un edificio con portico e scale. Il disegno è identico, dimostrando il reimpiego di un cartone, ma non crea una configurazione monotona anche grazie ad alcuni ribaltamenti (come nelle simmetriche pareti est e ovest) e alle diverse modulazioni di ombre e luci. Il disegno dell’ordine adottato nell’architettura illusoria, corrisponde anche qui ai precetti di Andrea Palladio, questa volta riferiti all’ordine composito (fig. 2). Il processo della restituzione prospettica, basato su alcune ipotesi basate sulla morfologia dell’architettura rappresentata, ha permesso l’ottenimento di una configurazione che è stata modellata virtualmente ed integrata allo spazio reale (fig. 3) (Càndito, 2016b). Si riscontrano anche in questo caso delle incongruenze prospettiche, come ad esempio nelle semicolonne verdi nella parte centrale delle pareti che dovrebbero trovarsi in una posizione più arretrata rispetto alle altre, mentre le loro basi appaiono allineate. La contraddizione più evidente, però, è costituita dalla collocazione del punto di vista esterno alla sala, come risulta dalle procedure di restituzione prospettica. Questa caratteristica può costituire un indizio di derivazione dei disegni usati da Codazzi per scenografie teatrali, anche se non esistono ulteriori prove su questo aspetto, se non la sua documentata esperienza nel settore. La loggia delle Rovine Al termine del ciclo delle stagioni si trova la loggia di Diana o delle Rovine che è affacciata a sud sul centro storico e a nord sul cortile interno ed è decorata nel 1689 da Paolo 7 Le operazioni di rilevamento sono state condotte con le stesse strumentazioni impiegate per l’ottenimento di fotografie nodali (coordinate da C. Càndito, con la collaborazione di F. Capolupo e C. Marino; luglio 2016).
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Gerolamo Piola con le quadrature di Nicolò Viviano Codazzi8. Il soggetto è quello di Diana (nella volta) che sorprende il pastore Endimione nel sonno (nella parete ovest) con una scenografica ambientazione tra rovine che ha fornito il nome all’ambiente. Il gioco creato dall’architettura in rovina risulta particolarmente efficace nelle sporgenze dello stucco che rappresentano mattoni o pietre cadenti ed integrano la suggestione creata dalla pittura. Gli affreschi delle due pareti est e ovest ampliano illusoriamente lo spazio reale della loggia con ulteriori campate illusorie visibili correttamente in (O) dall’ingresso opposto (fig. 3). Occorre osservare come non manchino i compromessi dovuti al passaggio dalla forma reale a quella bidimensionale, che non consente un geometrico allineamento delle campate reali e virtuali, a causa dell’esigenza di rappresentare le colonne all’interno della parete. La restituzione prospettica (basata sull’ipotesi di forma quadrata delle basi degli abachi dei capitelli delle colonne dipinte), inoltre, conduce ad una base rettangolare delle campate illusorie proporzionate a quelle reali (Càndito, 2014). Una foto che documenta i danni bellici mostra le finestre verso il cortile con specchi al posto dei vetri (Boccardo 1996). La dotazione degli specchi può essere ascritta al 1740 circa, quando Gio. Francesco II Brignole Sale, fa giungere da Parigi numerose luci di specchio (Gonzàles-Palacios, 1996, p. 171 e n. 39 cap. III). Occorre anche ricordare che l’ambiente viene citato come galleria da parte di fonti ottocentesche (Alizeri 1875, p. 161). Si riconosce così una configurazione presente a Genova nella Galleria Dorata di Palazzo Carrega Cataldi (Lorenzo De Ferrari, 1742-44), in quella di palazzo Spinola di Pellicceria (Lorenzo De Ferrari, 1734-1736) e in quella di palazzo Reale (Domenico Parodi, 1730 ca.). La tipologia si 8
Per un approfondimento, cfr. Gavazza, 1987, p. 258.
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pagina a fronte Fig. 4 Gli specchi di palazzo Rosso. A sinistra: Modello con simulazione della spazialità riflessa dai vetri posti verso il cortile interno della loggia delle Rovine. Al centro: pianta del secondo piano nobile di palazzo Rosso con evidenziazione di specchiere (X, Y, Z, W) e percorsi di visioni dirette e riflesse (da 1 a 5). A sinistra: Modello delle sale delle stagioni che evidenzia la riflessione, in funzione della posizione dell’osservatore, di una porzione di affresco (O) e di un dipinto visibile dalla specchiera dell’Autunno (N).
ispira alla Galerie des Glaces di Versailles e ai salotti di alcuni hôtels parigini, decorati tra il 1710 e il 1735 circa, con stucchi, affreschi e specchi, questi ultimi disposti in maniera da offrire suggestivi effetti spaziali9. Sembra però di riconoscere una continuità di riferimento anche con la disposizione delle sale delle stagioni di palazzo Rosso che presentano un allineamento prospettico continuo delle porte sul versante ovest (linea rossa nella pianta in fig. 4) e la presenza di grandi specchiere tra le finestre, capaci di generare efficaci dialoghi tra i diversi spazi (Càndito, 2018). La specchiera della sala dell’Autunno è coeva alla decorazione, la quale fornisce nuovi elementi di contatto con lo spazio illusorio e rimanda a mirati dettagli dell’affresco: l’osservatore dall’atrio vede riflessa la finta porta affrescata che appartiene alle originarie quadrature parietali (fig. 4) (Càndito, 2018). Esistono altri rimandi speculari nelle sale delle stagioni, come quello che permette l’apparizione di elementi della sala dell’Estate fino alla sala dell’Inverno (percorso speculare 5) e di altri della sala della Primavera a partire dal salone del Sole (percorso 1) o dall’Estate e dall’Autunno (percorsi 2 e 3). Continuità di temi e di rappresentazioni Il significato simbolico del ciclo decorativo della sala delle stagioni è noto (Boccardo, 1998): si celebra la famiglia delle Brignole Sale attraverso il mito di Apollo, fondatore del popolo ligure e il cui simbolo è il leone, presente nello stemma della famiglia Brignole. Lo svolgimento del tema inizia con il salone del Sole (o di Fetonte) di Gregorio de Ferrari, in cui si assimila allegoricamente la residenza di famiglia alla casa del Sole, che è la stella che segna il passare del tempo e l’alternarsi delle stagioni, rappresentati nelle stanze decorate sempre da Gregorio de Ferrari (Primavera ed estate) e in quelle realizzate da Domenico Piola (Autunno e Inverno), fino a giungere all’epilogo nella loggia delle Rovine decorata da Paolo Gerolamo Piola. Le ricerche compiute da chi scrive sono effettuate attraverso i rilevamenti che conducono a restituzioni dello spazio illusorio capaci di consentire ulteriori considerazioni basate sulla continuità spaziale, reale e illusoria, delle sale. Si sono riscontrati elementi peculiari e caratteristiche similari tra le concezioni prospettiche delle sale dell’Autunno e dell’Inverno e la loggia delle Rovine che sono realizzati da pittori di figura e quadraturisti diversamente combinati, ma che seguono un unico progetto legato alla bottega 9 Per l’influenza e il significato della tipologia della galleria degli specchi a Genova, cfr. Càndito, 2001, con bibliografia.
prospettiva e percezione in una decorazione genovese • cristina càndito
di Domenico Piola. Tra gli elementi formali si riconosce una comune caratteristica di ambiguo passaggio tra spazio reale e illusorio, ad esempio nelle colonne in primo piano delle pareti della sala dell’Inverno e della loggia delle Rovine, generate in entrambi i casi dalle prospettive del Codazzi. Le diverse strategie illusionistiche sono evidenziate anche dalla diversa posizione del punto di vista: naturale nella Loggia e teatrale nelle pareti dell’Inverno. Alle similarità si aggiunge la probabile ricorrenza del modello palladiano nelle pareti dell’Inverno e nella volta dell’Autunno, quest’ultima ad opera di Sebastiano Monchi. L’oscillazione tra la seconda e la terza dimensione degli stucchi della cornice ottagonale della volta della sala dell’Autunno trova una rispondenza nelle plastiche sporgenze dell’architettura in rovina della loggia. Si riscontra poi una continuità nei rimandi interni ed incrociati tra le immagini riflesse dalle specchiere di tutte le sale delle stagioni, che echeggerà nella versione settecentesca della loggia, trasposizione genovese della tipologia della galleria degli specchi. La continuità dei significati allegorici che celebrano i fasti dei Brignole e l’integrazione di pittura e architettura sono, dunque, sottolineate dalla ricorrenza di motivi ed effetti ottici generati dalle prospettive e dalle superfici riflettenti, che aiutano a riconoscere l’unitarietà semantica e figurativa del ciclo decorativo delle stagioni a palazzo Rosso.
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prospettiva e percezione in una decorazione genovese • cristina càndito
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Fig. 1 Grotta Doria: restituzione da rilievo con scanner laser eseguiti da Modus e M. Malagugini a confronto con il rilievo analogico eseguito da L. Cogorno - Analisi ed elaborazioni grafiche per lo studio della geometria prospettica sul raddrizzamento dellâ&#x20AC;&#x2122;immagine fotografica dellâ&#x20AC;&#x2122;impianto decorativo presenti nella parete del salone di villa delle Peschiere e nella sala delle Rovine di villa dello Zerbino. (Rilievi ed elaborazioni eseguiti da M. Malagugini).
nuove tecnologie di rappresentazione per la comprensione del progetto di architettura dipinta Maria Linda Falcidieno, Massimo Malagugini, Maria Elisabetta Ruggiero, Ruggero Torti
Università di Genova – Scuola Politecnica, Genova, Italia.
Abstract The architectural panorama in the Baroque period sees even in Genoa the realization of important villa / park or palace / garden complexes. Inside these structures there are cycles of frescoes of great importance both for their quality and for their originality. In particular, by virtue of a particular configuration of the Genoese landscape, architecture often opens with loggias or large windows towards an artificially composed nature according to grandiose and even spectacular schemes. The aim of this study is to investigate the relationship between these particular formal connections between architecture and landscape - and the presence of some expressions of quadraturism in which the simulation of ruins, caves and nature seems to emphasize this peculiarity. The study is divided into the analysis of some of the most significant cases and the focus on a case study in which, thanks to the digital representation, it is possible to analyze these relationships in greater detail through the use of models. The result of this analysis is a new point of view from which to observe interior decoration and relationships between architecture and landscape. Keywords Architecture, representation, nature, art, visual communication
Introduzione (MLF) In relazione al concetto di rappresentazione, prima di trattare nello specifico l’argomento oggetto del presente studio, occorre fare almeno alcune principali considerazioni preliminari, essenziali per la comprensione di quanto ci si è prefissati come fine della ricerca, accanto alla lettura critica delle opere dal punto di vista della composizione e della consapevolezza delle scelte progettuali, ovvero la natura e l’essenza del rapporto che legano alcune decorazioni di interni con l’esterno che circonda l’edificio, veri e propri passaggi, legami tanto fittizi, quanto visivamente e percettivamente forti, tra ciò che si trova “dentro” e ciò che si ha “fuori”. Almeno due le considerazioni: la prima, che riguarda il concetto di confine e di margine; la seconda che indaga le componenti di dette decorazioni.
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l’architettura dipinta: storia, conservazione e rappresentazione digitale • s. bertocci, f. farneti
Fig. 2 Decorazioni pittoriche (D. Parodi) e a rocailles presenti all’ ingresso di villa Durazzo a Pino Sottano; creano un evidente richiamo al paesaggio naturale circostante.
Confine, nel suo secondo significato esteso, tratto dal vocabolario Treccani, è genericamente un limite, un termine, mentre il margine, sempre secondo il vocabolario Treccani, indica il limite, ma in una posizione di confine, in una situazione che non è più o non è ancora quella di riferimento. Si potrebbero, in altri termini, anche definire tali forme di rappresentazione come forme “ibride” che, decorando lo spazio interno, mimano e prefigurano già quanto accade in altro luogo immediatamente adiacente, limiti e conclusioni dello spazio chiuso, ma in una configurazione differente da quella del luogo ospitante. Come sovente accade, per un osservatore la situazione di incertezza attributiva e spaziale può essere fastidiosa e straniante, oppure intrigante e affascinante, a seconda dell’impatto visivo e percettivo che ne deriva; senza dubbio effetti strettamente connessi con la sensibilità del singolo, con il suo riferimento culturale e sociale e, quindi, con il concetto di “gusto” in senso lato, che porta ad apprezzare o disprezzare identiche situazioni, tuttavia il risultato che si può ottenere deriva anche dalla capacità tecnica, narrativa e creativa dell’Autore della medesima rappresentazione, così come dalla messa a sistema dei suoi stessi elementi componenti. Forma ibrida, si diceva, dal momento che gli elementi componenti il genere pittorico che si fonda sulla realizzazione delle “quadrature”, ovvero delle architetture dipinte all’interno di una rigorosa intelaiatura prospettica e illusionistica, devono soddisfare la richiesta di effetti illusionistici spaziali, mimando una realtà che non esiste: disegno al
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tempo stesso di invenzione e di realtà, dovuto a componenti di fortissima ideazione, ma al tempo stesso di altrettanto forte tecnica. Si potrebbe parlare di rappresentazione della realtà, approssimando tale termine al sinonimo di concreto; di rappresentazione dell’invenzione, quando si tratta di comunicare visivamente ciò che ancora è presente solo nella mente di chi lo ha pensato, ma potrebbe esistere, come avviene per il disegno di progetto; e infine di rappresentazione dell’inganno, quando ci si riferisce a configurazioni che hanno lo scopo di esporre quanto non esiste e vogliono renderlo plausibile agli occhi dell’osservatore, fino a confondere i confini tra reale e irreale, creando un margine spaziale alternativo a quanto ci circonda. Disegno dell’immaginario, in un certo senso; disegno dell’irreale e dell’impossibile, entrambi, però, riferibili anche alle due tipologie sopra descritte, del reale e dell’invenzione, dalle quali traggono spunti, strutture compositive e metodologie di trascrizione grafica: quanta realtà si trova nelle decorazioni di interni che mimano dettagli architettonici, strutture voltate, bucature e quanto progetto nella definizione degli ambienti, degli spazi, delle decorazioni floreali scelte? Addirittura, volendo introdurre anche una lettura critica dei linguaggi visivi, è del tutto lecito presupporre che le due componenti ideative da sempre rintracciabili nelle esperienze progettuali — ovvero quella dell’animus e quella della ratio — nel caso del quadraturismo non lascino molto spazio a sistemi equilibrati; per realizzare ciò che non esiste nella maniera maggiormente coinvolgente possibile, infatti, occorre un preciso e chiaro progetto tecnico-compositivo, che rende l’elaborato senz’altro dipendente dalla conoscenza, dall’applicazione e dalla interpretazione innanzitutto della geometria, esplicitata, nel periodo di riferimento di questo contributo, dal metodo prospettico di rappresentazione. Ecco, quindi, i due livelli di lettura critica proposti in questa sede, in particolare sul caso studio della villa Balbi dello Zerbino a Genova: da un lato la lettura del rapporto e della consapevolezza di utilizzo, da parte degli Autori, degli elementi geometrici indispensabili per una costruzione virtuale il più coinvolgente possibile; dall’altro la lettura della continuità che le opere pittoriche proposte vogliono instaurare tra il costruito e l’ambiente circostante l’edificio. Spazi esterni e teatralità decorativa: relazioni formali (MER) La conformazione di Genova, stretta tra mare e montagne, ha fortemente condizionato la struttura della sua architettura: forti declivi hanno visto nel tempo l’articolazione di forme naturalmente rivolte al paesaggio in una relazione sempre più marcata tra spazi interni ed esterni. Questa bivalenza in particolare a partire dal ‘500 assume una espressione evidente: è il caso cioè di rappresentazioni pittoriche che cercano di trasformare letteralmente lo spazio
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Fig. 3 Villa Balbi, Durazzo allo Zerbino a Genova. Da P.m. Gauthier, Les plus beaux edifices de la ville de Genes et de ses environs, Parigi.
architettonico in spazio naturale e viceversa spazi naturali, come parti dei giardini formali, trasformati in architetture. Queste complesse articolazioni sono arricchite negli interni da decorazioni affrescate di grande scenograficità a cui si uniscono, negli esterni, repertori del tutto nuovi quali grotte e ninfei. Artifici pittorici e scultorei conducono la natura all’interno e soluzioni formali originali strutturano architettonicamente la natura. È soprattutto nella seconda metà del secolo XVII che il desiderio di realizzare allestimenti e decorazioni per destare stupore e meraviglia negli ospiti delle dimore genovesi si accentua ulteriormente, iniziando progressivamente a introdurre il modello delle grotte e dei ninfei addirittura all’interno della villa o del palazzo stesso. Costituisce un esempio significativo la villa Balbi allo Zerbino, proprietà dei Balbi, committenti di importantissime realizzazioni nel centro cittadino, dal XVI secolo e ancora nel 1684, nel momento in cui vengono sviluppati al suo interno importanti cicli di affreschi. La struttura interna è dominata, al piano terra, dalle due grandi sale contigue in diretto collegamento con il giardino e, al piano superiore, dal grande salone su cui si aprono le tre ampie bucature rivolte verso il paesaggio. La magnifica decorazione interna si sviluppa in due distinte fasi, la prima delle quali, commissionata dai Balbi dopo il 1680 ed affidata a Domenico Piola e Gregorio De Ferrari, riguarda il piano nobile. Il Piola, insieme probabilmente al quadraturista Andrea Sighizzi, affresca gli ambienti laterali mentre la seconda fase riguarda essenzialmente il piano terreno e si deve a Ippolito Durazzo, che chiama Andrea Tagliafichi. È nella decorazione della sala delle Rovine che si individua una chiara originalità rispetto alle altre sale ed un legame con una interpretazione del tutto originale dell’architettura e della natura. L’impaginato architettonico della decorazione, attribuito al Sighizzi, vede lo sviluppo di un basamento, scandito da pannelli decorati in maniera piuttosto semplice, a cui si sovrappone un ordine architettonico tuscanico, scandito trasversalmente da una sorta di bugnato che enfatizza la percezione volumetrica e conferisce un senso di compattezza. La trabeazione soprastante costituisce l’imposta della volta a padiglione che, riproponendo l’effettiva struttura della copertura, è arricchita da una serie di lunette. Tutta la struttura è interpretata secondo la logica della ‘rovina’, rappresentando squarci, distaccamenti e cedimenti diffusi in tutta la sua estensione. Lungo le pareti, nelle aperture campite da archi di diverse dimensioni, si susseguono le altre scene mitologiche. Le scene sono ispirate alle narrazioni delle Metamorfosi di Ovidio In questa composizione appare evidente come l’accurata geometria dei giardini esterni si trasformi all’interno in una natura selvaggia e misteriosa. Le rappresentazioni pittoriche dove la natura, quasi in un assedio,
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avanza intorno al palazzo fino ad entrarvi dentro rendendo così labili le forme di un giardino regolare ed ordinato definente da secoli la supremazia dell’Uomo sulla Natura, sembrano introdurre nuovi punti di vista. Nella finzione artistica il processo è portato ad una iperbole figurativa, in cui è la Natura ad avere il sopravvento, ormai capace di scardinare le strutture del palazzo e di farne crollare le strutture architettoniche, simbolo anche delle passioni narrate nelle scene. Appare necessario sottolineare l’ideale corrispondenza spaziale rispetto alla sala delle Rovine, che nel secolo successivo, Ippolito Durazzo enfatizza con il completamento della grande grotta ipogea grazie ad una lunga scala che la mette in comunicazione con l’accesso alla villa dalla parte del parco, come a voler enfatizzare questo rapporto di permeabilità tra natura e architettura in questo lato della villa. Analogamente il Piola opera nella loggia di palazzo Rosso, in cui il gioco di illusione e di apertura verso il paesaggio circostante raggiunge livelli di assoluta eccellenza, con l’introduzione ulteriore di specchi rivolti alla creazione illusoria di uno spazio dilatato abbinato anche in questo caso al tema della rovina, resa con vere e proprie parti plastiche che fuoriescono dalla struttura (si vedano le approfondite ricerche di Cristina Candito in merito a questa importante parte di palazzo Rosso).
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Fig. 4 Villa dello Zerbino: restituzione planimetrica, altimetrica e ricostruzione virtuale 3d dello spazio dipinto. Lo studio dei dipinti in proiezione prospettica evidenzia il grado di aderenza alla realta della composizione architettonica a firma di Domenico Piola.
Si può quindi sottolineare come il grande impatto scenico di certe soluzioni, in cui natura e architettura si fondono, diventi paradigmatico di altre celebri realizzazioni nell’ambito dei palazzi e delle ville del genovesato, al punto che soluzioni formali analoghe possono ritrovarsi, sebbene in tono di minore enfaticità, perfino in ville minori. quali la stessa villa Durazzo a Pino Sottano (Val Bisagno). Meraviglia e mimesi della natura nel panorama decorativo dipinto (MM) L’impianto delle ville genovesi ha sempre avuto una stretta connessione con l’ambiente circostante, le cui caratteristiche hanno spesso determinato particolari scelte architettoniche. In quest’ottica si inseriscono anche le invenzioni ‘illusorie’ che ripropongono il paesaggio e la natura circostanti all’interno dell’architettura stessa; si tratta di spazi
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artificiali capaci di evocare suggestioni ed emozioni che solitamente sono rintracciabili in contesti naturali, come accade nelle cinquecentesche grotte artificiali1, che sono concepite come spazi di meraviglia, luoghi dedicati alla rappresentazione dei misteri della natura e del creato. Le grotte e i nuovi palazzi di città e di villa diventano l’espressione architettonica, decorativa e culturale di una classe dominante, estremamente aperta e sensibile alla cultura moderna che, a partire dal Cinquecento, fa propria un’idea di città di giardini, in cui lo spazio di natura convive con la dimensione urbana del costruito. La stretta connessione fra natura e costruito si riflette anche nelle decorazioni pittoriche degli spazi interni che propongono aperture illusorie verso ambienti e paesaggi immersi nella natura; si tratta di apparati decorativi pittorici fortemente realistici, nei quali sono presenti architetture inventate descritte nel loro splendore o restituite allo stato di rovina secondo il gusto ‘archeologizzante’ dell’epoca. Esemplari sono gli affreschi presenti nelle pareti e nei soffitti della villa delle Peschiere (oggetto di un rilievo fotogrammetrico dettagliato in occasione della ricerca PRIN 2010) che sembrano espandere lo spazio interno verso una dimensione esterna di invenzione, scena ideale per la narrazione di episodi storici e mitologici. Nel salone maggiore, la decorazione delle pareti si appropria dell’impianto architettonico della sala stessa per sviluppare uno spazio più complesso che introduce a una loggia aperta sul paesaggio circostante. Attraverso elaborazioni grafiche sviluppate a partire dalla restituzione fotogrammetrica dei prospetti del salone della villa delle Peschiere si è analizzato l’impianto decorativo della parete laterale impostato su una illusoria apertura bipartita che lascia intravedere la continuità della sequenza porte-lesene esistente nella sala, fino a un immaginario affaccio sul giardino. La disposizione asimmetrica delle aperture esistenti condiziona l’intero impianto decorativo e sposta il punto di vista in corrispondenza della porta mediana, non centrata rispetto all’intero salone. La prospettiva frontale così elaborata è, pertanto, priva di una simmetria geometrica e fornisce all’intera rappresentazione un carattere particolarmente dinamico. La rappresentazione sembra comunque seguire in modo rigoroso i principi teorici della prospettiva centrale e individua nel punto principale in corrispondenza dell’asse della porta mediana, l’unico punto di fuga per le rette ortogonali al quadro. In modo analogo, anche la sala delle rovine della villa dello Zerbino propone un’interessante connessione con l’esterno attraverso la rappresentazione di una coppia di archi (affrescati 1 Giovanni Paolo Lomazzo nel suo Trattato dell’Arte della Pittura, Scoltura ed Architettura (1584) usa queste parole: “Essendo frequentissimo l’uso d’ornare i fonti in diversi modi di belli edifici, come si vede in Francia, a Fontana Bleo, in Roma, in Genova et in molti altri luochi […]”, indicando così anche Genova fra i centri principali per lo sviluppo della moda delle grotte artificiali che si diffuse nel corso del Cinquecento nelle maggiori città europee.
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su due pareti distinte) che si aprono su un paesaggio di invenzione. Le geometrie disegnate sul finire del ‘600 da Domenico Piola offrono due viste pressoché simmetriche degli elementi architettonici; questi, però, sono ritratti in due differenti stati di conservazione: da una parte è mostrato un arco ancora integro (seppur con evidenti segni del tempo tipo fessurazioni, presenza di vegetazione spontanea, etc.), dall’altra uno analogo, ma dipinto in stato di rovina, con muratura in mattoni a vista, ampie fessurazioni nel rivestimento, distacchi e rotture nel bugnato oltre ad un improvvisato puntello diagonale realizzato in maniera posticcia con una colonna tortile. Il tentativo di rintracciare la precisa geometria che governa la prospettiva della rappresentazione ha mostrato la presenza di diverse inesattezze nella gestione delle linee che concorrono ai punti di fuga, facendo desumere una maggiore propensione alla ricerca dell’effetto decorativo ed evocativo dell’affresco nel suo insieme, rispetto alla necessità di una rigorosa impostazione della geometria prospettica. Rappresentare l’architettura rappresentata: il caso studio della villa Balbi allo Zerbino (RT) Il contributo vuole porre l’attenzione sul rapporto esistente tra gli affreschi della sala delle rovine di villa Balbi Durazzo Gropallo allo Zerbino nel cuore di Genova e l’architettura. Dalle raffigurazioni architettoniche in prospettiva presenti nelle quattro pareti e nel soffitto voltato della sala posta nell’angolo a sud del piano nobile della seicentesca dimora storica nota anche come villa dello Zerbino, si è restituito un modello virtuale tridimensionale degli elementi architettonici caratterizzanti gli affreschi. La realizzazione di un modello ha permesso di affiancare alla visione della composizione pittorica uno spazio tridimensionale derivato da un’approfondita analisi critica degli elementi architettonici rappresentati e oggetto di possibili interpretazioni legate proprio allo spazio pittorico dipinto. In questa sede si è scelto di ricostruire solamente una parete dipinta della sala delle rovine, in quanto ritenuta maggiormente significativa dal punto di vista dell’analisi delle matrici geometriche. Partendo dall’analisi grafica necessaria allo studio della geometria prospettica e operando il raddrizzamento dell’immagine dipinta, si è cercato infatti di verificare nella rappresentazione prospettica dipinta la correttezza e la rispondenza alle precise regole della geometria presenti. Una volta effettuato lo studio dell’opera pittorica in proiezione prospettica, supportati dalle tecnologie informatiche, si è risaliti quindi alla restituzione planimetrica e altimetrica delle architetture rappresentate, ottenendo il modello virtuale dello spazio dipinto, necessario a comprendere il grado di aderenza alla
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realtà della composizione architettonica a firma di Domenico Piola. Quanto sopra descritto è stato possibile grazie all’ausilio dei sempre più sofisticati software di modellazione parametrica, che permettono proprio l’analisi della rispondenza tra immagine e realtà con un buon grado di approssimazione, grazie all’individuazione delle possibili matrici geometriche della composizione. Attraverso le tecnologie digitali si è potuto quindi individuare con estrema facilità e precisione l’esatta posizione del punto di vista: infatti, dopo avere inserito l’immagine di prospettiva come immagine di sfondo del modello 3D, mediante l’attivazione di pochi e semplici comandi, è stato possibile identificare sul modello virtuale il corrispondente punto di riferimento nella rappresentazione prospettica dipinta, selezionando con attenzione un punto sull’immagine di sfondo e il medesimo punto sul modello 3D. L’identificazione precisa di un congruo numero di coppie di punti conduce inevitabilmente a risultati maggiormente accurati in termini di lettura critica dell’opera. In definitiva, la restituzione prospettica derivata dall’applicazione dei noti processi di geometria proiettiva ha permesso l’individuazione della conformazione spaziale rappresentata nelle pareti affrescate che, insieme alla modellazione digitale degli stessi ambienti dipinti, ha permesso di verificare i legami tra quanto dipinto e le rispettive realizzazioni architettoniche ricreate virtualmente. Da tale operazione, ovvero dalla sovrapposizione digitale tra il modello 3D e la raffigurazione pittorica si evince un contrasto evidente tra l’architettura reale – ricreata virtualmente – e l’architettura dipinta, caratterizzato dalla presenza di proporzioni alterate degli elementi architettonici raffigurati e da imprecisioni nella gestione delle linee che concorrono ai punti di fuga. In conclusione, il mancato rispetto del rigore compositivo e formale a favore della ricerca di un’illusione spaziale caratterizzata dall’effetto evocativo dell’affresco quale elemento predominante -anche se nel caso studio qui illustrato molto probabilmente è stato voluto dallo stesso Piola quale enfatizzazione dell’aspetto emozionale- rende lecita l’osservazione sull’effettiva consapevolezza da parte degli autori in genere, in relazione alle costruzioni geometriche utilizzate.
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Fig. 1 Giuseppe Galli Bibiena, Andreas Pfeffel (incisore), Architetture e Prospettive, Parte I, Tav. 10.
questioni di scala e funzione Martina Frank
Università Ca’ Foscari, Venezia, Italia
Abstract The imperial printer Andreas Pfeffel published Giuseppe Galli Bibiena’s Architetture e Prospettive in Augsburg, apparently in the year of the death of Emperor Charles VI (1740) to whom the volume is dedicated. Nevertheless, there are evidences that the book did not appear before 1744. Funereal apparatus, “teatri sacri”, theatrical sceneries and imaginary architectural views compose each of the five parts, except the fifth where three prints show the Imperial Riding School in Vienna transformed in 1744 into a ballroom for the marriage of Charles Alexander of Lorraine to Marianna of Austria. Many plates can be linked with sketches or drawings that show on one hand the preparation of the etchings and on the other illustrate how drawings must be considered as autonomous artworks. The contribution analyses the differences between the prints and the drawings and focuses on the “piazza all’antica”. As in the case of the “teatri sacri”, the drawings of imaginary urban views with classical, modern and medieval buildings and monuments differ from the engravings primarily by eliminating the human figures and by giving emphasis to the architectural and spatial invention. Keywords Galli Bibiena, architectural drawing, veduta, architectural treatise
L’elaborazione di un progetto di architettura illusionistica-prospettica comporta diversi stadi i cui esiti finali dipendono dalla funzione del progetto. In altre parole: scenografia, pittura e disegno/incisione seguono fino a un certo punto lo stesso procedimento progettuale, ma poi vengono introdotte varianti e modifiche che si giustificano appunto dalla destinazione finale. Questi procedimenti sono particolarmente significativi in un periodo storico che identifica nella rappresentazione dell’architettura e nella sua percezione ottica anche il più significativo momento progettuale, facendo quindi coincidere l’invenzione con la rappresentazione prospettica (e non con la rappresentazione tecnica con pianta e alzato e ancora meno con la costruzione). Martin Kemp (1994, p. 159) sostiene a proposito della prima metà del Settecento, nella quale si riconosce l’ultima grande fase della pittura prospettica (quella da Andrea Pozzo a Canaletto per intenderci), che la comprensione di questo particolare momento della storia dell’arte sia impossibile senza tenere in adeguata considerazione
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pagina a fronte Fig. 2 Giuseppe Galli Bibiena (attr.), Veduta fantastica, 50x91,5 cm, asta Lempertz 22 nov. 2008, lotto 1428.
la scenografia, in particolare quella dei Galli Bibiena. Vorrei quindi insistere su questi intrecci utilizzando proprio alcuni aspetti dell’opera di un esponente della dinastia dei Galli Bibiena, ovvero Giuseppe, per indagare questi processi che investono dunque, e questo è un punto essenziale, lo status ma, come vedremo, anche lo stato dell’architettura. Giuseppe non ha un profilo definito come pittore ed egli utilizza il disegno non soltanto per progettare e documentare scenografie ma anche come un mezzo per generare opere autonome che talvolta trovano una loro corrispondenza in incisioni. Che la trasposizione di un progetto di scenografia in un disegno finito e autonomo richieda interventi correttivi è un presupposto importante per relativare l’affermazione di Kemp e per sottolineare che il pensiero prospettico - architettonico di Giuseppe si sviluppa in modo del tutto indipendente rispetto al vedutismo e al capriccio. A partire dagli anni Trenta, forse in coincidenza con la crisi del teatro di corte imperiale (Michels, 2013), si intensifica l’interesse di Giuseppe per la rappresentazione dell’architettura. Ne è la più compiuta e nota testimonianza il volume dal titolo programmatico Architetture e Prospettive e la critica ha ripetutamente segnalato schizzi di Giuseppe che possono essere messi in relazione alle incisioni (Saxon, 1969; Oechslin, 1977; Bergamini, 1980; Scotti Tosini, 1998; Frank, 2016). Il volume è dedicato a Carlo VI e l’inizio dell’impresa editoriale, a Augsburg per i tipi di Andreas Pfeffel, sembrerebbe coincidere con l’anno di morte dell’imperatore, il 1740, ma non conosciamo una editio princeps riferibile a quell’anno. In effetti, la datazione al 1740, o almeno l’originaria composizione del volume, pone non pochi problemi dato che tre incisioni della Winterreitschule della Hofburg di Vienna si riferiscono a un avvenimento del 1744 (Saxon, 1969; Bergamini, 1980). D’altronde esistono evidenze sull’intenzione di Giuseppe ad ampliare la raccolta (Myers, 1975; Oechslin, 1977) persino fino a nove libri (Viale Ferrero, 1980). Architetture e Prospettive non è un trattato e ancora meno un libro d’istruzione. Giuseppe non segue la strada intrapresa dal padre e sviluppa un nuovo modello per rifondare il connubio tra architettura, scenografia e prospettiva. Ad eccezione dell’introduzione e di alcune didascalie Architetture e Prospettive non ha testo e lascia parlare soltanto le immagini. Non si tratta nemmeno di un libro con inizio e fine e la composizione del volume (o meglio le composizioni o ancora i montaggi che sono stati fatti a partire dalle singole tavole) sembrano rispecchiare una totale arbitrarietà dell’operazione di componimento. I volumi assegnabili all’editore Pfeffel sono composti da cinquanta incisioni suddivise in cinque parti. Ad eccezione della quinta parte, che contiene le tre tavole della Cavallerizza, ogni unità contiene castra doloris, scenografie, teatri sacri e piazze o porti all’antica. La raccolta pubblicata verso il 1750, e comunque dopo il 1748 anno di morte di Pfeffel, a
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Parigi presso il mercante d’arte François Basan segue invece un raggruppamento per generi e una numerazione araba continua. Certo Architetture e Prospettive è autobiografico perché si tratta di invenzioni di Giuseppe. Invenzioni che rispecchiano opere realizzate ma anche, e questa è la categoria che più ci interessa, opere pensate, progettate e rappresentate prospetticamente su carta. Del resto, lo stesso Giuseppe afferma nella sua introduzione che il volume contiene “volontarij esercizij”, identificabili nei teatri sacri, che Giuseppe dice di avere modificato rispetto alle opere realizzate, e soprattutto nelle vedute di immaginarie piazze o porti. Leopoldo Cicognara, che giudica Giuseppe “un sommo prospettico”, possedeva una delle molte edizioni composte di Architetture e Prospettive, che, pur mantenendo il frontispizio di Andreas Pfeffel con la data 1740, unisce fogli di provenienza eterogenea1. Le incisioni sono soltanto quarantadue, alcune sono prive di firme e invertite rispetto agli originali e l’ultima, la veduta fantastica di un porto non firmata, rimanda a una parte VI e al numero 512. Da questo insieme vorrei menzionare in particolare due teatri sacri che sono delle rielaborazioni di due incisioni della quarta parte di Architetture e Prospettive. Rispetto a queste esse sono invertite ed è modificato il loro formato, da rettangolare a quasi quadrato; inoltre sono mutilate le cornici architettoniche e eliminati i tabernacoli ed è notevolmente ridotto il numero 1 Il volume è consultabile all’indirizzo: https://www.cicognara.org/catalog/431#?c=0&m=0&s=0&cv=13&xywh=-2274%2C-272%2C8148%2C5425. 2 Un’incisione identica, ma senza numerazione, è conservata presso il Theatermuseum a Monaco (Inv. IV 3632). Il soggetto è da identificare con quello ricordato da Saxon, 1969.
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Fig. 3 Giuseppe Galli Bibiena (attr.), Progetto per un monumento circolare, 1735 (?), Werkskizzenbuch, Theatermuseum, Wien, Inv. HZ HG36992, f. 142v.
delle figure: tutte misure che enfatizzano l’invenzione architettonica e spaziale rispetto alla funzione originaria, cioè quella di teatro sacro per la settimana santa. Si tratta certo di un processo di spoliazione e di riduzione, in questo caso anche un po’ grezzo, ma contemporaneamente si verifica una specie di ritorno all’idea primordiale di Giuseppe che mette al centro l’invenzione architettonica. Si possono individuare diversi esempi di simili manipolazioni, estranee a un intervento diretto di Giuseppe, delle tavole di Architetture e Prospettive. Il Theatermuseum di Monaco conserva per esempio una scenografia, non firmata e numerata XXI, che corrisponde alla tavola 5 della terza parte del volume, rispetto alla quale è invertita e spogliata delle figure3. Questo tipo di operazione non è tuttavia riservato al medium dell’incisione né implica necessariamente una successione temporale che parte dall’incisione, e nello specifico da Architetture e Prospettive, per arrivare a un’altra incisione. In effetti, lo stesso Giuseppe Galli Bibiena sembrerebbe avere ragionato sulla prospettiva seguendo una doppia traiettoria e un’alternanza incisione - disegno: il suo primo intento è più scenografico e teatrale, il secondo è invece architettonico. Tale processo è ben evidente se si mettono 3
Il foglio porta la scritta “Smlg. Quaglio 3°” e la sigla A 866.
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a confronto le tavole incise di Architetture e Prospettive con le loro corrispondenze al livello di disegni preparatori e per quanto concerne disegni finiti. Ne è un bell’esempio la tavola 8 della parte II di Architetture e Prospettive che si colloca tra uno schizzo dello Sketchbook della Houghton Library e un disegno finito dell’Accademia di Vienna (Kupferstichkabinett HZ4775). Lo schizzo imposta lo spazio e gli elementi architettonici, l’incisione riproduce l’avvenimento scenico e il disegno, privo di figure, riconduce alla sola invenzione architettonica-prospettica. Anche le “piazze all’antica” (Scotti Tosini, 2000) contenute in Architetture e Prospettive sono, ad eccezione della tavola 7 della parte V4, popolate da figure. Al contrario, in quasi tutti i disegni di questa tipologia la componente umana è assente5. Da questi confronti emerge che l’incisione segue un intento più scenografico e pittorico, mentre il disegno, nonostante le sue qualità formali apparentemente pittoriche (si noti in particolare l’uso di acquerellature per gli elementi vegetali e per la resa di valori atmosferici) è più prospettico e architettonico. Lo spazio architettonico è delimitato e isolato dal fitto repertorio di reperti e frammenti antichi che, quasi in sostituzione degli attori, occupa come una barriera il primo piano. Queste prospettive ideali di cui secondo Werner Oechslin (1977, p. 149) Giuseppe Bibiena è il primo testimone, affondano le loro radici nella scenografia, ma si sviluppano in modo del tutto indipendente e autonomo. I disegni di questa categoria, peraltro spesso di notevoli dimensioni, non sono dunque né disegni di presentazione né di repertorio. Essi costituiscono opere autonome concepite per un mercato collezionistico complementare a quello delle stampe. Non vi possono essere dubbi che questa produzione sia inizialmente stata destinata a un pubblico che gravita attorno alla corte imperiale e che recepisce l’immagine di una ‘moderna’ Roma. Spesso sono le informazioni sulle provenienze a confermarlo e del resto ancora oggi molti disegni appartengono a raccolte o collezioni centro europee. Ad esempio, la collezione di disegni bibieneschi di Janos Scholz, poi confluita in quella di Donald Oenslager e oggi alla Pierpont Morgan Library, e che contiene diverse piazze all’antica, si è formata a partire da quella del pittore teatrale viennese Michael Mayr (1796-1870) (Weninger, 1984). Certo, le piazze richiamano l’immagine di Roma e evocano l’idea di un foro (Scotti Tosini, 2000, p. 285). Tanto è vero che uno schizzo del Wiener Werkskizzenbuch del Theatermuseum (Inv. 36.992, f. 147r) porta la scritta “piazza di Roma”. Giuseppe propone davanti Cfr. il disegno preparatorio nello Sketchbook della Houghton Library, ms. Typ 412, f. 217r. Da considerare sono per esempio i fogli dell’Albertina di Vienna (Inv. 2554, 14406, 14407, 17248), della Morgan Library di New York (Inv. 140977v), del Detroit Institute of Arts (Inv. 67.3), del Theatermuseum di Vienna (Inv. HZ_ HU8106, HZ_II_254, HZ_IX_56) o del Niederoestereichisches Landesmuseum (Inv. 5569), del Nelson Atkins Museum a Kansas City (Inv. F61-37). Il 22 novembre 2008 è passato all’asta da Lempertz un grande disegno (50x91,cm) corrispondente alla tav. 10 della prima parte di Architetture e prospettive. Anche questo disegno è, al contrario dell’incisione, priva di figure. 4 5
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pagina a fronte Fig. 4 Giuseppe Galli Bibiena (attr.), Piazza di Roma, Werkskizzenbuch, Theatermuseum, Wien, Inv. HZ HG36992, f. 144r.
a uno sfondo di città medievali architetture antiche spesso riconoscibili come il Pantheon, che egli cita con o senza i campanili di Maderno, o il mausoleo di Adriano, riprodotto con l’aiuto della ricostruzione di Labacco di cui si è servito anche Fischer von Erlach, o ancora l’Arco di Costantino, la Piramide Cestia, la Torre delle Milizie, il Colosseo nonché diversi monumenti come la Colonna Traiana o la statua di Marc’Aurelio (Scotti Tosini 2000, p. 286). Ma non mancano nemmeno citazioni di strutture cinquecentesche, il Tempietto bramantesco, e non romane come è testimoniato dalla cisterna del Terribilia, oggi collocata nel cortile dell’Accademia di belle arti di Bologna, che compare sulla tavola 10 della III parte di Architetture e Prospettive e in una serie di disegni. Le chiese moderne cupolate evocano invenzioni di Juvarra, ma si riscontra per esempio anche qualche analogia con la Frauenkirche di Dresda6. Nel montare le quinte dei palazzi, che solitamente assicurano la stabilità e la coerenza delle composizioni spaziali, Giuseppe varia poche tipologie di base non riconducibili a precisi modelli. Egli predilige strutture ritmate da paraste o colonne con risalti sporgenti laterali aperti da loggiati e coronamenti con balaustrate sormontate da una fitta sequenza di statue7. Piranesi scrive nel 1743 nella sua Lettera della Prima Parte di Architetture e Prospettive parole che si potrebbero attribuire anche a Giuseppe Bibiena: altro partito non veggo restare a me e a qualsivoglia Architetto moderno, che spiegare con disegni le proprie idee, e sotrarre in questo modo alla Scultura e alla Pittura l’avvantaggio, che (come spiega il grande Juvarra) hanno in questa parte sopra l’Architettura, e per sottrarla altresì dell’arbitrio di coloro, che i tesori posseggono, e che si fanno creder di poter a loro talento disporre dalle operazioni della medesima.
Le parole di questo architetto non costruttore rivendicano quindi le capacità dell’architetto a produrre opere di disegno (o più generalmente di grafica) dello stesso livello qualitativo di quelle dei pittori e di affermare attraverso di esse la forza dell’invenzione architettonica. Una forza inventiva che si scontra con le aspettative dei possibili committenti. Non voglio essere fraintesa: non intendo per niente forzare il parallelo tra Giuseppe Bibiena e Piranesi. Tuttavia, anche a prescindere del fatto che l’ipotesi di un allunnato di Piranesi a Bologna presso Ferdinando Bibiena sia ormai caduta, il ruolo dei Bibiena nella formazione del giovane veneziano continua ad essere un tassello fondante degli studi Vienna, Albertina, Inv. 2554 Un genere ampiamente documentato dagli schizzi dei volumi di Vienna e Harvard, ma in ambito viennese scarsamente documentato da opere realizzate o conservate, sono le “prospettive a fresco”. Pur essendo parenti delle piazze all’antica esse sono maggiormente allineate con il gusto per il capriccio e vi dominano paesaggi naturali nei quali sono inserite rovine. Per questa tipologia cfr. Lenzi, 2015. 6 7
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anche recenti. Per quanto attiene ai legami con Giuseppe, l’apporto della scenografia è misurato utilizzando il topos della prigione, che, nell’edizione di Pfeffel, rappresenta l’ultima delle incisioni di Architetture e Prospettive (Busch, 1977) e più generalmente si riconosce un’affinità tra il volume bibienesco e la Prima Parte di Architetture e Prospettive (Kruft, 1985, p. 219). Piranesi e Giuseppe Bibiena condividono la ricerca di un’immagine della città e dell’architettura che è condizionata da un pensiero architettonico e che utilizza il medium della grafica per la sua realizzazione. E con questo entrambi si distinguono dai maestri della veduta come Carlevarijs, Visentini o Canaletto. Per entrambi si tratta di affermare “la storicità dell’architettura e della sua glorificazione come un momento della cultura tecnico-materiale, che è capace di tradursi in una forma simbolica e valore metastorico” (Contessi, 2000, p. 23). Il più importante mediatore tra Piranesi e Giuseppe Bibiena potrebbe essere riconosciuto in Antonio Corradini, il veneziano che fin dal 1733 occupava a Vienna la carica di scultore imperiale (Deckers, 2014, pp. 48-58) e che, come Giuseppe, cercava al più tardi dopo la morte di Carlo VI nuove opportunità e incarichi, una ricerca che lo portava fin dal 1740 a Roma. Tra Corradini e i Bibiena esistevano rapporti piuttosto stretti dato che il fratello di Giuseppe, Antonio, conduceva fin dal 1735 assieme allo scultore un Hetztheater, un teatro per combattimenti tra animali (Hadamowsky, 1962, pp. 16-19). Ma più generalmente entrambi appartenevano a una solida e articolata cerchia di artisti e scienziati veneti e veneziani attivi alla
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corte imperiale (Bevilacqua, 2006). Fu dunque probabilmente grazie a Corradini, che Piranesi entrò in contatto con l’opera di Fischer von Erlach (Puppi, 1983; Neville, 2007) e che conobbe in anteprima i preparativi per Architetture e Prospettive di Giuseppe Galli Bibiena che, appunto, non sembrerebbero essere state pubblicate prima del 1744. Già Daniele Donghi, uno dei padri dell’utilizzo del calcestruzzo in Italia, aveva insistito su alcune delle qualità che avvicinano Piranesi a Giuseppe Bibiena. In una conferenza intitolata Piranesi e i Bibiena, tenuta presso la Società degli ingegneri e degli architetti di Torino nel 1890 conclude: […] perché anche lo studio delle antiche stampe può riuscire assai giovevole all’architetto, non solo riguardo alla storia dell’architettura, ma ai concetti nuovi e grandiosi che l’architetto può in dette stampe rintracciare e rendere di pratica applicazione (Donghi, 1890, p. 14).
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Fig. 1 Ricostruzione 3D della Gloria di Santâ&#x20AC;&#x2122;Ignazio: il modello digitale simula la medesima prospettiva dellâ&#x20AC;&#x2122;affresco (Elab. V. Riavis).
prospettive illusionistiche di christoph tausch nell’europa centro orientale Alberto Sdegno
Università degli Studi di Udine, Udine, Italia
Veronica Riavis
Università degli Studi di Trieste, Trieste, Italia
Abstract The research focuses on Christoph Tausch (1673-1731), Andrea Pozzo’s lay coadjutor, known for his role as promoter of ideas and perspective-illusionistic principles as well as diffuser of many types of altars of the Tridentine master. The artist operated on behalf of the Society of Jesus in Austria, Silesia, Bohemia, Bavaria, Hungary and Romania. In Italy, the only work known and attributable to Tausch is preserved in the Church of St. Ignatius in Gorizia (of which is also attributable the facade project), where he painted in 1721 an illusionist perspective known as Glory of St. Ignatius. The research conducted on the Jesuit artist focuses on the perspective restitution and digital reconstruction of this quadrature, made on the wall of the presbytery. The image of the fresco was previously reconstructed using image-based modeling software, in order to define a complete photographic mosaic, because the lower part of the fresco is covered by the main altar. Then the research proceeded to the perspective analysis of the architectural geometries of the painting, the definition of the observer’s point of view and the three-dimensional reconstruction of the illusionistic environment. Keywords Christoph Tausch, Andrea Pozzo, quadraturism, perspective, illusionism
Christoph Tausch: artista gesuita Christoph Tausch fu tra i principali allievi e diffusori dei dettami artistici, architettonici e illusionistici di Andrea Pozzo nelle province dell’Europa centro-orientale.1 Nacque il 25 dicembre 1673 a Innsbruck, dove ricevette un’istruzione primaria e secondaria per poi entrare nell’Ordine dei Gesuiti di Vienna nel 1695, diventando padre laico nel 1698 dopo il noviziato presso la chiesa di Sant’Anna. Conformemente agli interessi dei Gesuiti che vedevano nelle diverse forme d’arte uno strumento disciplinare, divulgativo ed emotivo per i fedeli, il Tausch si appassionò alla pittura 1 Erano allievi e assistenti di Pozzo a Vienna anche Johann Hiebel e Kacper Bazanka, mentre in Italia Antonio Colli, Alberto Carlari e Agostino Collaceroni (de Boni, 1840; Farneti, Lenzi, 2006).
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e all’architettura, diventando dal 1703 al 1709 l’adiunctus in pictura di padre Pozzo, il quale dal 1700 si era stabilito a Vienna su invito dell’imperatore Leopoldo I d’Asburgo (Dziurla, 1991). Numerose furono le collaborazioni con il maestro, quali Il Trionfo di Ercole a palazzo Liechtenstein, o negli interni delle chiese dei Gesuiti (Jesuitenkirche - Universitätskirche), di Sant’Anna (Annakirche) e dei Francescani (Franziskanerkirche). Esperienze che, assieme al trattato Perspectiva Pictorum et Architectorum, costituirono il modello di riferimento fondamentale per diventare un artista indipendente operando per conto della Compagnia di Gesù non solo in Austria, ma anche in Slesia, Boemia, Baviera, Slovacchia e Romania. Tra le sue più importanti opere si ricordano il ciclo di affreschi presso la chiesa gesuitica di San Francesco Saverio a Trenčín dove realizza sfondati prospettici e una finta cupola illusionistica (1710-1713) su modello di quella realizzata da Pozzo nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma e nella viennese Universitätskirche, nonché illustrata nel Perspectiva pictorum et architectorum; e la tela rappresentante Le nozze di Cana (1710) per il refettorio estivo del Klementinum a Praga, attuale sala lettura della Biblioteca Nazionale, nel quale l’apparato architettonico raffigurato è di chiara ispirazione al Teatro sacro disegnato nel 1695 da Pozzo per il Gesù di Roma (Pozzo, 1700, fig. 47). Il suo operato lo si ritrova anche nella realizzazione di diversi altari come l’altare maggiore della chiesa di San Michele a Passavia (1712), in quello realizzato nel 1714 per la chiesa Piarista a Prievidza in Slovacchia (Serfözö, 2010), attualmente posizionato a Kecskemét nella chiesa gesuita della città2, o per la chiesa dell’Ascensione della Santa Vergine Maria a Kłodzko in Polonia (1728-1729). Tuttavia vi sono opere non firmate delle quali si ipotizza la paternità: l’altare maggiore della chiesa gesuita di Skalitz (1713), gli interni delle chiese gesuite di Banska Bystrica e di Nitra (1715) in Slovacchia così come l’altare maggiore nella chiesa della Santa Trinità a Cluj in Romania (1718). Al rientro da un viaggio studio a Roma (1720), il Tausch si fermò a Gorizia per sovrintendere i lavori di costruzione della chiesa di Sant’Ignazio, progettandone la facciata monumentale e affrescando all’interno un’ardita quadratura illusionistica nota come Gloria di Sant’Ignazio (1721), queste si configurano come le uniche opere attribribuibili all’artista conservate in Italia. Numerosi furono invece gli interventi a Breslavia, sia in qualità di supervisore alla
2 La pala d’altare di Tausch rappresenta l’Assunzione di Maria e ripete la composizione di Pozzo per l’altare maggiore della chiesa dei Gesuiti di Vienna.
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decorazione della sala Leopoldina dell’Università3, di decoratore degli interni della chiesa gesuitica del Sacro Nome di Gesù (1722), e ideatore del monumento a San Nepomuk (1730). Gli ultimi progetti riguardano infine l’ala sud-occidentale del palazzo del principe vescovo a Nysa (1729), città dove morì due anni dopo il 4 novembre 1731. Considerazioni sull’opera di Tausch Da una prima indagine dell’opera di questo autore poco studiato, emerge che Christoph Tausch, come altri allievi di Pozzo quali Hiebel e Bażanka, diffuse nelle province gesuitiche (Austria, Boemia, Polonia Grande e Piccola) l’esperienza dell’autore del Perspectiva Pictorum et Architectorum. Il suo contributo costituisce una coerente e logica prosecuzione dei lavori del maestro tridentino, creando opere di carattere illusionistico e scenografico, dipingendo finte cupole, progettando prospetti architettonici ed erigendo altari e macchine effimere. Noto come architetto e pittore, bisogna tuttavia puntualizzare in merito ai periodi in cui si può dividere la sua carriera artistica: la prima parte, infatti, lavorò soprattutto come pittore che si divideva tra la realizzazione di tele e affreschi quadraturisti; nella seconda parte della sua vita, si afferma invece come architetto nel senso più ampio del termine, diventando inoltre ideatore e creatore di mobili e dettagli liturgici. L’intervento a Sant’Ignazio di Gorizia sembra quasi segnare il passaggio tra una fase all’altra, affrescando un’illusione e progettando l’architettura concreta della facciata, dimostrandosi un “maestro dell’adattamento”. Tausch fu un artista di epoca barocca, periodo storico nel quale non era possibile essere un buon artista senza essere tecnicamente completo4. Bisognava saper creare opere di straordinaria complementarietà compositiva, coloristica e spaziale, aspetti che, a sua volta diventando maestro, trasmise ai suoi più frequenti collaboratori come Jan Albrecht Siegwitz, Ignacy Albert Provisore, Franciszek, Josef Mangoldt. Nonostante la sua attività creativa sia stata confermata in molte città, il numero di opere attribuite al Tausch non è grande: in conformità alle regole dell’ordine gesuita, infatti, agì in forma anonima per la Gloria di Dio. In molte opere di epoca barocca inoltre, il progettista era spesso celato e l’opera veniva eseguita da falegnami, marmisti, pittori e stuccatori. Le difficoltà in merito all’attribuzione di un’opera tra maestro e allievo è una delle motivazioni per la
Fu affiancato da artisti e artigiani quali: Mangoldt, Handke, Karinger, Acher, Schatzel, Provisore, Messe, Hollandt. Secondo Pozzo: “Dunque non vi fate uscir di bocca quello sciocco argomento: è pittore, dunque non sarà buon architetto; ma piuttosto inferite in contrario. È buon pittore, è buon prospettico, dunque sarà anche buon architetto” (Pozzo, 1700, fig. 66). 3 4
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Fig. 2 C. Tausch, 1721, progetto facciata e Gloria di Sant’Ignazio, Chiesa di Sant’Ignazio, Gorizia.
quale molte opere del Tausch ci sono tutt’ora ignote, questione che tuttavia non deve essere considerata in termini negativi. In conclusione bisogna notare che molte opere sono coeve, si presume quindi che l’artista si spostasse nei territori dell’Impero per seguire diverse committenze. Ciò che bisogna riconoscere a Christoph Tausch è il ruolo di promotore di idee e di principi della pittura illusionistica del Pozzo, ma anche la diffusione delle diverse tipologie di altare raffigurate dal maestro tridentino nel Perspectiva Pictorum et Architectorum5. Sant’Ignazio di Gorizia: tra realtà e illusionismo In seguito al soggiorno romano avvenuto nel 1720, Tausch fu invitato dai padri gesuiti di Gorizia a sovrintendere ai lavori della chiesa di Sant’Ignazio6. 5 Dziurla H. 1993, Aula Leopoldina Universitatis Wratislaviensis, Widawn, Wrocław. Co przewodnik powinien wiedzieć o Krzysztofie Tauschu? (Stefan Mizia; D.u. nr 24) 6 La cronaca gesuita di Gorizia riporta che da fine febbraio a inizio novembre 1721 soggiornò nel collegio un coadiutore laico che ultimò alcune opere della chiesa, senza tuttavia indicarne il nome. Il cronista dei Gesuiti di Lubiana precisò la versione fornita dal collega goriziano: “la mattina [18/11/1721] intorno alle 6 con documenti romani giunse a Lubiana il nostro aiutante dell’ordine, Christoph Tausch. Lo abbiamo accolto cordialmente giacché speravamo che la nostra casa di Lubiana o almeno la Biblioteca potessero giovarsi della sua arte pittorica.
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Da fine febbraio agli inizi di novembre 1721, portò a termine i progetti della facciata della chiesa con le due torri campanarie (costruite tra il 1722 e il 1723, e completate con le cupole bulbiformi nel 1725), terminò la volta della navata, predispose i progetti per la cantoria e affrescò la parete del presbiterio. La scenografica facciata a lui attribuita, è posizionata a sud-est e si presenta ripartita su tre diversi registri che sintetizzano l’esperienza romana, veneziana e viennese-nordica con un risultato elegante ed armonioso (Koršič Zorn, 2001, p. 21). L’elemento di stupore che si può scoprire all’interno è invece costituito dalla grande quadratura Gloria di Sant’Ignazio, dove l’architettura dipinta, resa illusionistica dalla prospettiva, dilata la profondità dell’ambiente (fig. 2). Il Tausch realizzò tale opera con grande destrezza e ingegno in quanto la chiesa era già parzialmente costruita e presentava delle preesistenze liturgiche. La parete del presbiterio (ca 270 mq), che conclude in alto con una finestra termale, presentava dinanzi il massiccio altare maggiore realizzato nel 1716 da Pasquale Lazzarini ad una distanza di 2,80 m, condizione per la quale impostò l’architettura dipinta dell’affresco sopra tale gruppo scultoreo. L’opera appare come un altare concavo che ricrea un’abside serrato da poderose colonne composite, dove in un turbinio di nuvole e angeli Sant’Ignazio si libra verso il cielo, mentre nell’attico illusionisticamente sfondato appare Cristo con la croce e la colomba dello Spirito Santo. Il gioco si fa ancora più illusionistico ai lati dell’edicola dove sono raffigurate delle finte porte e finestre apparentemente piene di luce che accrescono la sensazione della presenza di una struttura architettonica a sé stante (Bösel, 1998, in De Feo, Martinelli, 1998, pp. 204-229). L’altare dipinto, di dimensioni e rapporti ideali, è adeguato allo spazio per il quale è stato progettato e contribuisce ad arricchire esteticamente l’ambiente sacro (Šerbelj, 2002). Diversamente da altri quadraturisti che riproducevano pittoricamente elementi presenti nel contesto reale della chiesa per amplificare l’illusione percettiva del dipinto, il Tausch ripropone solo piccoli dettagli così come la quasi celata analogia compositiva del prospetto principale, preferendo conferire piuttosto la continuità cromatica rosso-rosata del fregio che si sviluppa lungo le pareti, l’estensione della fascia marcapiano e la riproduzione delle porte del presbiterio. Dall’analisi del dipinto emerge infatti che l’artista, invece di ricercare un’illusione complessiva con il contesto della chiesa, abbia scelto di reinterpretare le opere pittoriche e di seguire Allo spettabile Tausch abbiamo affiancato un accompagnatore poiché potesse ammirare gli edifici piu importanti ed i monumenti della citta. […] Questa mattina [20/11/1721] Christoph Tausch è partito alla volta di Graz, diretto a Bratislava, dove deve portare a termine dei lavori per la nostra chiesa” (Šerbelj, 2002, pp. 22-24).
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Fig. 3 Mosaicatura fotografica dell’affresco Gloria di Sant’Ignazio e porzione di restituzione prospettica (Elab. V. Riavis).
i metodi rappresentati dal maestro Andrea Pozzo nel suo trattato Perspectiva Pictorum et Architectorum. Forse nel 1721 non erano ancora presenti particolari elementi di decorazione da essere inseriti nella quadratura per renderla ancora più illusionisticamente convincente. Pozzo e Tausch a confronto Per comprendere l’operato di Tausch a Gorizia è necessario confrontarlo con il Perspectiva Pictorum et Architectorum, non tanto dal punto di vista di costruzione della prospettiva, ma piuttosto per la scena architettonica rappresentata nella Gloria di Sant’Ignazio.
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Il Trattato di Pozzo, infatti, illustra come rappresentare la prospettiva centrale applicata a elementi architettonici di complessità crescente limitandosi tuttavia a descrivere il metodo convenzionale, dove il prospetto principale dell’oggetto è posto parallelamente al quadro di proiezione. Ad eccezione per gli oggetti ruotati di 45° rispetto al piano proiettivo, il procedimento grafico accidentale non è invece affrontato: il Pozzo infatti passa direttamente alla raffigurazione prospettica finale senza spiegare le regole grafiche. Tali nozioni di prospettiva, orientate nello specifico soprattutto a problematiche di architettura, probabilmente erano tramandate esclusivamente agli allievi, come dimostra il Tausch in questo capolavoro goriziano. Diverse analogie si possono riscontrare tra l’affresco in esame e l’opera di Pozzo, dal quale l’allievo rielabora i disegni secondo la personale inventiva: gli angoli di rotazione rispetto al quadro prospettico (22° e 68°) dei volumi degli ordini architettonici sono infatti riferibili a simili immagini di altari del maestro quali quello di Sant’Ignazio fabbricato in Roma (Pozzo, 1700, figg. 60-61) e Il dipinto nella Chiesa del Collegio Romano (Pozzo, 1700, figg. 6667) dove oltre alla resa finale in prospettiva, sono rappresentati anche le sezioni ortogonali di piante e alzati. La chiara impronta della Scuola di Pozzo è distinguibile soprattutto nel capitello composito di colonne e lesene che lo stesso Andrea definirebbe “capriccioso”, avendo usato lo stesso termine nel libro caratterizzato da un unico anello di foglie d’acanto, superiormente definito da scanalature verticali ad altezza alternata, volute su ovuli e dardi, e fiori dell’abaco diversi da colonna a colonna, ideato in precedenza da padre Pozzo per i più famosi altari romani di Sant’Ignazio nella chiesa del Gesù e di San Luigi Gonzaga a Sant’Ignazio (Pozzo, 1700, fig. 32). Anche gli aggetti di modanature di porte e finestre, archi spezzati (Pozzo, 1693, fig. 33) e il fregio curvilineo palladiano rimandano a precise illustrazioni rappresentate nel trattato. I contrafforti superiori della pala d’altare, infine, richiamano quelli che il maestro tridentino disegna per il progetto del Monumento funebre per le esequie di Leopoldo I d’Asburgo allestito nel 1705 presso l’Universitätskirche di Vienna (Bösel, 1998, in De Feo, Martinelli, 1998, p. 210). Dalla restituzione prospettica e alla ricostruzione digitale della Gloria di Sant’Ignazio L’obiettivo della ricerca è stato quello di analizzare l’architettura dipinta dell’opera sfruttando i principi della geometria descrittiva che permettono la restituzione prospettica, in modo da poter definire l’ipotetico bozzetto su carta disegnato dall’autore.
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Fig. 4 Inserimento dell’architettura restituita all’interno della chiesa di Sant’Ignazio (Elab. V. Riavis).
Con restituzione prospettica o prospettiva inversa si intende il procedimento che consente di ricavare forma e dimensioni degli oggetti rappresentati proiettivamente ripercorrendo a ritroso la costruzione che li ha generati. Per ottenere tale risultato è necessario conoscere la genesi geometrica degli elementi raffigurati e almeno una delle loro misure reali da cui ricavare le altre attraverso un rapporto proporzionale. Nel caso in esame l’entità del rapporto metrico e stata fornita dalla posizione assegnata alla traccia del quadro prospettico. Il fotogramma per lo studio prospettico è stato ottenuto attraverso la realizzazione di un’immagine ortorettificata, grazie all’uso di algoritmi di compensazione, per eliminare dall’immagine eventuali deformazioni che avrebbero comportato degli errori in fase di restituzione. Una problematica rilevante per l’acquisizione completa dell’immagine riguardava proprio la presenza dell’altare maggiore di Paquale Lazzarini che nasconde la porzione inferiore dell’affresco, oscurando buona parte dei basamenti dipinti: tale
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difficoltà è stata superata mediante la ricostruzione della parte non visibile con un software fotogrammetrico di Image-based Modeling che, attraverso una sequenza di fotografie scattate a diverse distanze e quote, ha consentito di definire in un unico fotogramma la mosaicatura della parete (fig. 3). L’immagine generata mostra l’interezza del manufatto artistico e rappresenta un inedito anche per la sua catalogazione. La restituzione prospettica è stata affrontata sulla parte destra del dipinto, e una volta ottenute tutte le informazioni geometriche in pianta e alzato si è proceduto a completare il modello digitale complessivo finale in ragione della simmetria. In questo affresco il Tausch ha definito l’architettura illusionistica usando la prospettiva frontale, ma con delle eccezioni: mentre la porzione absidale e il prospetto di sfondo sono riferibili al punto principale PP posto sull’asse di simmetria dell’affresco, i volumi degli ordini architettonici risultano invece collocati in posizione accidentale, ovvero ruotati rispetto al quadro di proiezione con le linee convergenti verso due punti di fuga. Dall’analisi prospettica effettuata sull’affresco è emerso che il punto di vista dell’osservatore è posizionato ad una quota di 1,81 m dal pavimento della navata ad una distanza di 29 m circa dalla parete del presbiterio (fig. 4). Tale posizione coincide planimentricamente con il centro geometrico della chiesa e corrisponde all’attuale posizione del leggio. Pertanto, il punto di vista dell’osservatore previsto dal Tausch asseconda il precetto pozziano del punctum oculi optimum, il punto privilegiato di osservazione di una prospettiva illusionistica. Sempre mediante la restituzione prospettica, sono stati quantificati gli angoli di rotazione dei volumi architettonici rispetto al quadro ricavati dai punti di fuga (22° e 68°), riferibili a simili altari romani progettati e realizzati da padre Pozzo. La planimetria della scena architettonica dipinta e delle sue componenti è stata determinata per mezzo dell’omologia di ribaltamento, mentre le altezze per omotetia. L’architettura illusionistica è stata infine ricostruita tridimensionalmente in ambiente CAD, dove sono stati modellati tutti gli elementi in base alle dimensioni restituite. Il modello è stato in seguito elaborato con algoritmi di Global Illumination, per simulare l’illuminazione e la resa materica della scena, per produrre immagini di sintesi al fine di comprendere le variazioni prospettiche relative alla veduta dell’altare e del prospetto architettonico, posizionandosi in diversi punti della chiesa (percorrendo l’asse della navata, avvicinandosi progressivamente al presbiterio oppure visualizzando il modello lateralmente). Impostando la fotocamera nel punto di vista ricavato dallo studio (PV con h=1,81 m e d=29 m) e generando le immagini di sintesi sono stare riscontrate delle corrispondenze tra la scena rappresentata nell’affresco ed il modello digitale ricostruito che confermano la correttezza del procedimento grafico effettuato nell’analisi di restituzione prospettica (fig. 1).
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Fig. 1 Villa Il Pozzino, cortile, restituzione dei fotopiani del loggiato.
l’apparato pittorico della villa il pozzino, a firenze: rilievi e prime restituzioni critiche Paola Puma, Giuseppe Nicastro
Università degli Studi di Firenze, Italia
Abstract The study deals with the documentary base of the pictorial apparatus of the late Renaissance villa called “Il Pozzino”, located in Castello near Florence. The characteristic feature of the Pozzino is certainly constituted by the decorative apparatus that liven up the grotesques on the vaults in the portico and on the ceiling of the above loggia -with rural scenes by Piero Salvestrini, active at the end of the sixteenth century in the school of Bernardino Poccetti-, and covers the facades of the main courtyard with illusionist architectural paintings (quadrature) made around 1630 by the court painter Giovanni di San Giovanni. The documentation of this pictorial apparatus has been set up on the survey realized using the Structure From Motion methodology, carried out with digital-coded color control and integrated into the base by the laser scanner for inserting the pictures in a metrically reliable morphological register. The 3D models and traditional 2D drawings come out to be the first ever made on the villa of Pozzino based on scientifically conducted surveys. Keywords Villa Il Pozzino, rilievo cromatico, grottesca, quadratura, Giovanni da San Giovanni
Quadro della ricerca: il contesto, il caso studio Lo studio tratta della base documentaria dell’apparato pittorico de “Il Pozzino”, realizzata a partire dal rilievo del nucleo tardo rinascimentale della villa1. La Firenze del primo Seicento è una città culturalmente molto vivace; la fervente attività architettonica e artistica, favorita da alcuni dei Granduchi di Toscana avvicendatisi nel periodo, la caratterizza come ambiente fertile per artisti rilevanti e scuole che operano partendo dalla scala locale della città e del contado fiorentino a quella regionale delle committenze nobiliari a quella cardinalizia romana. In questo periodo la già consolidata e ampia la tradizione delle ville medicee conferma la tipologia riverberandosi in una proliferazione di esempi arricchiti da pregevole caratterizzazione Si devono a Paola Puma i paragrafi Quadro della ricerca: il contesto, il caso studio; Risultati e conclusioni; a Giuseppe Nicastro il paragrafo Metodologia dello studio e la stesura delle figure.
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Fig. 2 Il rilievo effettuato tramite laser scanner e SFM.
artistica, a denotare una committenza colta e desiderosa di mostrare potenzialità di rappresentanza, oltre alla forza economica. In questo quadro storico e sociale di fermento culturale si inserisce anche l’intervento di ristrutturazione realizzato nel secondo decennio del Seicento sulla villa detta Il Pozzino, che prende nome dal pozzo situato nel cortile principale. La villa si trova sulle immediate colline di Firenze, sulla direttrice che collegava il centro cittadino alla campagna di Castello da tempo eletta dalla famiglia Medici a luogo di amenità e di delizie, punteggiandola delle ville che andavano costituendo già allora un vero e proprio sistema territoriale. Il Pozzino è un grandioso edifizio il quale, sia nell’aspetto esterno, sia nell’interne decorazioni, come nella elegante comodità degli annessi, rappresenta il tipo caratteristico delle sfarzose villeggiature dell’antica nobiltà fiorentina.
Così il Carocci menziona il Pozzino (Carocci, 1907, pp. 291-292), allora villa Gilli, costruita nel XV secolo -molto probabilmente intorno ad un nucleo preesistente rappresentato dalla torre- e passa attraverso le proprietà dei Carnesecchi e dei Galgani prima di arrivare alla fine del XVI secolo nella disponibilità della famiglia Grazzini. È intorno al 1620 che la villa viene ristrutturata ed assume l’assetto che vediamo oggi: un complesso con un impianto planimetrico presidiato dalla torre, che viene alzata con una
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altana sostenuta da esili colonnine e inglobata sul lato occidentale dell’organismo a far da snodo angolare tra la villa, il giardino all’italiana e la limonaia, che separa il giardino disegnato di ponente ed il bosco selvatico a nord in posizione pedecollinare. I volumi si raccolgono così intorno al cortile centrale a bilanciare la studiata infilata prospettica che, attraverso il cortile, marca l’integrazione tra costruito artificiale e costruito naturale mettendo in collegamento visivo diretto il giardino monumentale ad ovest ed il giardino murato ad est. Oggetto specifico del presente studio sono stati gli affreschi che costituiscono il composito quadro decorativo che in maniera attenta va ad aggettivare gli spazi filtro della villa: il cortile ed il corpo a due piani che lo definisce a ovest, coperto a terra da portico ed al piano superiore da una loggia. A caratterizzare questa assialità monumentale contribuisce, infatti, l’apparato decorativo pittorico che si snoda tra le figure dal nitore miniaturistico sul soffitto dell’altana, che già visibili dal giardino attraggono il visitatore all’interno dove le grottesche fitte di animali fantastici e scene agresti popolano le volte del portico, e le quadrature che avvolgono le facciate del cortile strutturando con l’inganno uno spazio che amplia e sfonda quello reale. Il filo conduttore iconografico è tracciato da pittori in vista nella scena artistica fiorentina dell’epoca: Piero Salvestrini2, che lavora intorno al 1619 alle volte del portico e del soprastante soffitto dell’altana inserendosi nel solco pieno della tradizione fiorentina cinque-seicentesca della grottesca arricchita da vedute e scene, e Giovanni da San Giovanni3 per i tre fronti 2 Piero Salvestrini (Baldinucci, 1846) nasce a Castello nel 1574 e muore nel 1631 a Firenze; in questo contesto si svolge la vicenda artistica del primo artista che lavora al Pozzino per Giovan Francesco Grazzini (a conferma degli stretti rapporti con la famiglia Salvestrini, lo stesso Grazzini nel 1626 commissionerà una Flagellazione al nipote di Piero, Bartolomeo Salvestrini). Salvestrini opera a cavallo tra Cinquecento e Seicento e nel 1596 risulta immatricolato all’Accademia del Disegno; in rapporti di lavoro con Allori, si specializza in realtà con Bernardino Poccetti (detto Bernardino delle grottesche), da “coscienzioso artigiano a capo di una ben organizzata bottega in grado di soddisfare le raffinate esigenze dei suoi committenti, soprattutto per quanto riguarda la decorazione parietale e più in particolare nel genere della grottesca. In questo campo egli è da ritenersi un vero e proprio specialista e le sue opere raggiunsero un’eleganza e un livello qualitativo di prim’ordine, tanto da essere paragonate a quelle di artisti ben più noti di lui.” (Danti, Felici, 2008, p. 135). Al Pozzino, nella zona dove il suo maestro Bernardino Poccetti aveva già decorato la villa Franceschi e la villa il Casale, il Salvestrini risulta lavorare nel 1619. 3 Giovanni Mannozzi (Baldinucci, 1846, pp. 191-278), detto di San Giovanni per la nascita in San Giovanni Valdarno nel 1592, intraprende la carriera artistica a Firenze nella bottega di Matteo Rosselli, contemporaneamente al perfezionamento sulla prospettiva, condotto presso Giulio Parigi. Nel 1612 Giovanni da San Giovanni risulta immatricolato nei registri dell’Accademia del Disegno e forse anche collaboratore del Parigi nell’allestimento delle esequie di Margherita d’Austria, regina di Spagna e più tardi, nel 1619-1620, con lui coordina un gruppo di artisti nella decorazione della facciata di palazzo dell’Antella in S. Croce. Tra i suoi lavori per la famiglia medicea, si cita la serie di incarichi del ciclo nell’oratorio della villa degli Arcipressi del pievano di S. Stefano in Pane, per Luca Mini; nel 1633: l’affresco de la Quiete che pacifica i venti nella villa La Quiete a Quarto per la probabile precedente committenza di Cosimo II (Natali, 2011); nel 1634, il Matrimonio mistico di S. Caterina per la quadreria della Petraia, di don Lorenzo de’ Medici; nel 1634 infine, per Giovan Carlo de’ Medici, viene chiamato a realizzare nella villa di Mezzomonte un affresco a temi mitologici ed altre storie con soggetto simile sono documentate come provenienti dalle ville medicee fiorentine (Spinelli, 2004, pp. 49-55).
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Fig. 3 Campionamento per la normalizzazione dei profili colore.
del cortile, commessa documentata fino al 1630, in contemporanea con il lavoro nella vicina villa degli Arcipressi di proprietà di Luca Mini, di lì a poco “provveditore al Guardaroba” della villa della Petraia. Diversi i passaggi di proprietà documentati dopo i Grazzini fino ad oggi: attraverso i Bartolini- Baldelli ai Mori-Ubaldini-Alberti per finire, nel Novecento, in disponibilità Luci, poi Gilli, Leventritt, e dal secondo dopoguerra in poi, con la attuale funzione di scuola, all’Istituto Antoniano Femminile4. Metodologia dello studio Metodologia di rilievo digitale: acquisizioni laser scanner e Structure From Motion La metodologia di rilievo utilizzata è basata sull’integrazione fra l’acquisizione laser scanner per il rilievo delle caratteristiche geometriche ed una campagna fotografica utile alla realizzazione SFM di modelli 3D dotati di texture fotorealistiche la cui combinazione ha reso possibile documentare gli aspetti dimensionali e materici delle architetture rilevate lavorando su una base digitale idonea ad essere processata in maniera omogenea. La campagna di rilievo è stata eseguita in tre giornate lavorative in cui è stato effettuato un numero di scansioni sufficienti a descrivere le parti del complesso della villa oggetto di studio5: ognuna delle scansioni eseguite nei differenti punti di stazione ha generato 4 Ringraziamo la madre superiora, Suor Licia, per la paziente disponibilità ad accogliere la nostra presenza in compresenza con le attività dell’Istituto Figlie del divino zelo e gli architetti Paolo Pinzani e Giovanni Comi per il cortese e fattivo coordinamento delle attività di rilievo. 5 Il rilievo di base è stata eseguito nell’ambito del Seminario tematico Rilievo, riqualificazione e riprogettazione
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una nuvola di punti (point cloud) non georeferenziata e dotata quindi di un proprio sistema di riferimento la cui origine coincide con la testa dello scanner. Le differenti scansioni sono state processate e registrate tra loro per la successiva produzione di screenshot ad alta risoluzione finalizzati alla produzione dei grafici alla scala architettonica di insieme. La campagna di acquisizione fotografica è stata invece finalizzata alla creazione di un archivio di immagini digitali da restituire con la tecnica Structure From Motion: le prese fotografiche acquisite sono state processate con opportuni software di fotomodellazione e referenziate utilizzando i dati ottenuti dal rilievo Laser Scanner; i dati referenziati sono stati infine impiegati per la produzione dei modelli 3D texturizzati e di ortofoto ad alta risoluzione degli elementi decorativi. La produzione di screenshot ad alta risoluzione ha permesso l’elaborazione delle rappresentazioni bidimensionali (piante, prospetti e sezioni) descritte in grafici tematici di tipo geometrico, quotato e fotorealistico. Per il rilievo dei fronti che presentavano un apparato pittorico, inoltre, è stato necessario definire un flusso di lavoro che potesse garantire un idoneo grado di controllo già durante le fasi di presa del colore. Il controllo colore nelle fasi del rilievo e della restituzione Dovendo operare il rilievo di prospetti ed elementi architettonici in cui erano presenti apparati pittorici esposti a condizioni di luce differente, il workflow è stato impostato tenendo conto di un aspetto che ha condizionato in maniera sostanziale l’acquisizione fotografica: il corretto campionamento del colore, nonché la parametrizzazione delle caratteristiche di acquisizione che potesse garantire prese omogenee sebbene effettuate da fotocamere differenti (dunque con una resa dei valori RGB influenzata dalle caratteristiche dei diversi sensori) o in momenti diversi della giornata. Uno dei vantaggi offerti dalla digitalizzazione dei processi di acquisizione fotografica è sicuramente rappresentato dalla possibilità di scattare le immagini in Raw: il formato Raw rappresenta, infatti, una modalità di acquisizione del dato in cui non siano stati effettuati processi di interpretazione e modifica da parte del sensore deputato alla cattura. Nel caso delle immagini digitali, ciò si traduce in uno scatto fotografico che non subisce alcuna dell’architettura a. a. 2017/2018, tenutosi presso il CdL in Architettura, Scuola di Architettura di Firenze; docenti titolari: Paola Puma (coordinatore), Stefano Bertocci, Giovanni Minutoli, Giovanni Pancani, Andrea Ricci; tutor: architetti Giuseppe Nicastro, Francesco Tioli; studenti: Giada Adami, Michela Bianco, Maria Ginevra Cassioli, Alessia Cavaliere, Andrea Ciuli, Filippo Frediani, Arianna Giulianelli, Edoardo Rossi, Gabriele Rovetini, Gianmarco Spagnesi, Beatrice Taddei, Cosimo Vanni, Filippo Zucchini.
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Fig. 4 Restituzione dell’apparato pittorico delle volte del portico e del soffitto della loggia.
perdita di dato dovuta alla compressione (caratteristica, ad esempio, del più leggero formato jpeg); ciò permette dunque di intervenire, in fase di post-produzione, sugli aspetti che più di altri definiscono la buona qualità di un’immagine (in termini di perfetta corrispondenza con il soggetto fotografato). Operate le fasi preliminari di bilanciamento del bianco, sono stati dunque creati i campioni da cui estrarre le caratteristiche di profilo colore con cui eseguire le successive regolazioni: si è operato sovrapponendo alle architetture da fotografare un color checker (nel nostro caso il Kodak Color Control Patches) di cui erano note le caratteristiche di stampa. Le immagini in cui è presente il checker sono state convertite in formato Dng (Digital Negative) e quindi analizzate con il software Adobe Dng Profiler Editor con cui è stato possibile verificare i valori RGB dei singoli colori presenti nel checker stesso ed operare le opportune correzioni per avvicinarli ai parametri di riferimento. Corretti i campioni è stato quindi possibile generare i profili colore corrispondenti da utilizzare per
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la normalizzazione di tutte le immagini Raw: a questo scopo, sono stati creati tre profili colore utilizzati rispettivamente per la restituzione dell’apparato pittorico degli ambienti interni, del loggiato, dei prospetti sul cortile. Risultati e conclusioni La cifra più caratteristica del Pozzino è costituita dall’apparato decorativo che caratterizza l’asse principale del complesso lungo l’infilata di spazi aperti e chiusi che collega il giardino disegnato a ponente, il cortile, il giardino a levante. Al piano terreno Salvestrini scandisce le tre volte a crociera del portico con un costrutto decorativo concepito unitariamente e realizzato a grottesche il cui montaggio mette in rapida concatenazione la rete visiva portante fatta di costoloni, cartigli con viste di ambientazione naturale, tondi a segnalare i punti di cervello delle volte. L’ariosità dei campi è affidata ad una dinamica polifonia di centauri, animali fantastici, figurine cavalleresche, temi araldici, candelabre e trofei tenuti insieme da tralci, volute e spirali vegetali. Il vivace cromatismo è tutto giocato sulle scale del rosso e del verde, che consentono alle esili figurazioni di stagliarsi con vividezza sul bianco di fondo. Mentre gli intradossi degli archi sono trattati allo stesso modo, Salvestrini richiama per le imbotti delle aperture una campionatura di marmi, memoria delle abilità maturate a bottega dal Poccetti dove l’imitazione illusoria di materiali diversi (sete, marmi, boiseries) era stata uno stilema distintivo della mano del maestro. Il soffitto piano della loggia al primo piano è anch’esso suddiviso in tre grandi campate dove con la stessa eleganza scene agresti ed esili figurine mitologiche si compongono mescolando elementi di provenienza letteraria con altri della vita di tutti i giorni. Salvestrini tratta in maniera differenziata le campate, che vengono dedicate rispettivamente: ad un montaggio minuto di circa 50 piccole formelle a riquadri e ovati delimitate in bianco per la campata a nord; ad un illusorio berceau circolare in trompe-l’oeil, spartito radialmente da arpie e campi contenenti lo stemma dei Grazzini, delimitato da due circoli composti dal rincorrersi di putti e scene agresti per la campata centrale; ad una composizione più in linea con la tradizione della grottesca per la campata a sud, dove l’intelaiatura è impostata su campo chiaro che ospita un quadro centrale da cui si diramano 4 campi radiali con vedute ovali dal tema bucolico, ed un intarsio decorativo di cartigli, animali fantastici, motivi architettonici e mitologici. Anche qui il cromatismo si gioca tutto sulle sfaccettature del rosso e del verde, con uno spostamento verso tonalità più scure rispetto alle volte sottostanti. “Giovanni da San Giovanni, il geniale pittore de’ primi del XVII secolo, ne decorò il cortile
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di affreschi nei quali ritrasse soggetti mitologici che illustrava con certi suoi versi strampalati”: i ricordi culturali dall’antico al Manierismo e l’interpretazione tutta moderna dei temi sono le caratteristiche del lavoro del Mannozzi nel Pozzino. Nel cortile il Mannozzi affresca, almeno fino al 1630, le facciate dei tre corpi chiusi, dove spartisce i fronti in due livelli dal registro differenziato. Al piano terra è un telaio definito da ordine gigante architravato, che a correre su tutti i tre lati si imposta sul piedistallo -di altezza corrispondente ai davanzali delle finestre- e poi inquadra superiormente una successione di scene inquadrate da scatole prospettiche, coperte da soffitti a cassettone su colonne ioniche, “aperte” illusoriamente sul giardino retrostante. Al primo piano grandi fasce fitte di elaborati racemi intercalati da ornati di gusto manierista ribadiscono la spaziatura inferiore data al piano terra dalle paraste e vanno a saturare i sodi murari tra le aperture incorniciando i quadri centrali. Sui due livelli e nelle soprapporte sono distribuite scene, oggi fortemente compromesse nella conservazione e pertanto poco leggibili, il cui soggetto è rappresentato prevalentemente da storie tratte dall’Asino d’oro di Apuleio ed altre trascrizioni di favole mitologiche con tratti licenziosi suggeriti da citazioni letterarie e versi satirici composti dal pittore stesso. Secondo la moda dell’epoca, nei partiti architettonici si susseguono scene dove l’arte gareggia con la natura: storie epiche la cui raffigurazione di un passato mitologico accredita moralmente lo status del committente, la raffigurazione di ninfe e satiri, scorci paesistici, scene bucoliche e di caccia. Il punto di vista dell’osservatore è al centro del cortile, la luce uniformemente distribuita sui toni delle terre. Se è vero che “il Quadraturismo in Toscana si concentrò nelle mani di G. Parigi” (Vagnetti, 1979, p. 357), nella cui bottega Mannozzi si era formato, al Pozzino siamo in una fase prodromica del quadraturismo fiorentino che annuncia l’uso del rapporto tra illusione e percezione come vero e proprio strumento progettuale: Giovanni da San Giovanni si situa, infatti, in quella fase che è stata definita quadratura pre-barocca (De Carlo, 2015, pp. 15-20), ancora di passaggio tra la cultura prospettica cinquecentesca e lo splendore del quadraturismo barocco; in questo senso il cortile del Pozzino costituisce una prima esperienza che prelude a quella dei grandi quadraturisti fiorentini (Farneti, 2002, pp. 16, 26) e fa da snodo tra l’esperienza rinascimentale e la quadratura che anche nel fiorentino si svilupperà pienamente nel XVII e XVIII secolo. Intendendo la quadratura come esito prima concettuale e poi applicato di un complesso processo di traduzione incrociata delle conoscenze teoriche e pratiche sulla prospettiva, sull’architettura e, dopo, anche della macchina teatrale (Bertocci, 2002, pp. 261-262),
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nel cortile del Pozzino sono certamente presenti in nuce gli elementi che saranno di qui a breve costitutivi della fioritura quadraturista barocca: l’uso della prospettiva per creare un altrove immaginario, il tema dell’integrazione illusoria del naturale nell’artificiale proiettando lo spazio architettonico vero del cortile nella campagna circostante tramite un dispositivo architettonico fittizio (la scatola definita dall’ordine architettonico), la grande perizia pittorica. L’incrocio tra i risultati provenienti dal rilievo, i riferimenti bibliografici alla struttura architettonica della villa e le fonti relative alla sua vicenda artistica avviano qui una riflessione critica di esito parziale e provvisorio tutta suscettibile di futuri approfondimenti. Bibliografia Acanfora E. 2001, La pittura ad affresco fino a Giovanni da San Giovanni, in Il Seicento, storia delle arti in Toscana, Edifir, Firenze. Baldinucci F. 1846, F. Ranalli (a cura di), Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua (1681-1728), IV, Firenze. Banti A. 1977, Giovanni da san Giovanni. Pittore della contraddizione, IT: Sansoni, Firenze. Bertocci S. 2004, La costruzione prospettica nella decorazione architettonica di chiese e palazzi nel primo Settecento fiorentino, in F. Farneti, D. Lenzi (a cura di), L’architettura dell’inganno, Alinea, Firenze, pp. 155-163. Buccheri A. 2003, L’architettura delle nuvole tra teatro e pittura: Ludovico Cigoli e G. da San Giovanni, «Proporzioni», IV, pp. 115-135. Carpiceci M. 2017, La rivoluzione del rilevamento architettonico: Santa Presede, un rilievo (in corso) per la conoscenza, «Svmma», 9, pp. 47-63. Gregori M. (a cura di) 2005, Fasto di corte. La decorazione murale nelle residenze dei Medici e dei Lorena, I, Da Ferdinando I alle Reggenti (1587-1628), Edifir, Firenze. Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III, 1986, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi 21/12/1986-4/5/1987), Cantini, Firenze. Mannini M.P. 1979, La decorazione in villa tra Sesto e Castello nel XVI e XVII secolo, Società per la biblioteca circolante, Tipografia Nova, Sesto fiorentino. Santopuoli N., Seccia L. 2008, Il rilievo del colore nel campo dei Beni Culturali, in G. Carbonara (a cura di), Trattato di Restauro Architettonico, UTET, Torino, pp. 141-153. Versaci A., Cardaci A. 2011, Il rilievo “automatico” del colore: nuove tecnologie a supporto della lettura cromatica per il restauro dell’edilizia storica, in P. Falzone (a cura di), Il colore nel costruito storico. Innovazione, Sperimentazione, Applicazione, Aracne Editrice, Roma.
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Fig. 1 Sala delle Udienze private: sullâ&#x20AC;&#x2122;ortofoto della parete a sud, la griglia in braccia fiorentine ed i moduli dellâ&#x20AC;&#x2122;ordine architettonico dipinto (foto: A. Morelli).
geometria e misura nelle sale dei quartieri estivi di palazzo pitti Barbara Aterini, Sara D’Amico
Università degli Studi di Firenze, Italia
Abstract This paper describes a research that has been taking care of the quadratures in the rooms of the Argenti Museum in Palazzo Pitti in Florence, which belong to the summer districts. Celebrating the prestige of Grand Duke Ferdinando II, the pictorial decoration of these rooms was painted by Giovanni da San Giovanni, Agostino Mitelli and Angelo Michele Colonna, in the first half of the seventeenth century. The study is concerned with the use of perspective in the construction of the various painted scenes: through the comparison with the theories of the five-seventeenth-century culture on perspective, the survey shows the awareness with which the quadraturists designed the geometric scheme of their works. Geometry and measure are thus the founding rules of the design of these quadratures, allowing the control of the illusionistic force of the painted architectures but also of the technical aspects of the construction site. In verifying how certain perspective artifices stimulate the path inside these rooms, digital modeling becomes a tool for the analysis and illustration of the theoretical-technical contents of such pictorial works. Keywords Prospettiva, geometria, misura, quadraturismo, Pitti
Introduzione L’esigenza di ampliare, dilatare, moltiplicare lo spazio di gallerie, stanze e saloni ha guidato l’arte del costruire nei secoli. Diverse sono state le dinamiche con cui progettisti e pittori prospettici hanno operato, a seconda di luoghi, epoche, tecnologie, ma sempre con l’unico obiettivo di arricchire ambienti e spazi per variarne dimensioni e forma, correggendo e superando vincoli topografici, costrizioni volumetriche e limiti planimetrici. Nel corso di pluriennali ricerche è stato possibile effettuare un avvicinamento progressivo al tema dell’interpretazione/ricostruzione di questi spazi immaginati e rappresentati attraverso le quadrature. L’architettura dipinta scaturisce sempre da uno spazio progettato dal pittore, fino nei minimi particolari, secondo schemi prefissati in funzione della volontà di ampliare lo spazio reale o, comunque, di renderlo maggiormente vivibile. La ricostruzione tridimensionale dell’architettura immaginata sottolinea la precisa volontà di colui che l’ha progettata
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e denota come ricorrano certi temi particolari, fra i quali la loggia che incornicia il dipinto, le scale che invitano l’osservatore ad entrare per essere partecipe di quello spazio. Tutto ciò permette di affermare che il quadraturista era anche un architetto, cioè conosceva l’architettura e sapeva gestire mentalmente lo spazio tanto da concepire ambienti articolati ed in stretto rapporto con quelli reali. L’esplorazione degli spazi dell’illusione avviene attraverso il filtro delle leggi proiettive e delle costruzioni geometriche che, oltre a permetterne il controllo, ne facilitano la decifrazione. Perciò si è pensato di ricavare l’analisi del costrutto geometrico delle quadrature tramite la restituzione prospettica, cioè l’inverso della prospettiva (Aterini, 2012). D’altra parte una cosa è ricercare gli elementi fondamentali della prospettiva, messi in atto dal quadraturista per gestire lo spazio reale attraverso la ‘costruzione’ di quello virtuale, altra cosa è pensare e cercare di capire in quale modo si siano potute realizzare quelle date prospettive dipinte. Al di là delle regole riportate dai più noti trattatisti in materia, qui preme partire proprio dalla ‘cantierabilità’ di queste opere pittoriche così raffinate. Ecco dunque che si ricercano geometrie e rapporti mensori. Se la geometria dell’opera appare più evidente, la ‘misura’ usata che, come sappiamo, può dipendere dal luogo e dall’artista, si svela però attraverso chiari rapporti proporzionali. In questo lavoro, dopo l’analisi del costrutto prospettico, abbiamo cercato proprio questi rapporti proporzionali che svelano la messa in opera della prospettiva architettonica dipinta. In questo contesto vogliamo riportare una parte dello studio, condotto nel corso di più di un decennio, sulle architetture dipinte nei saloni dei quartieri estivi di palazzo Pitti a Firenze, in genere molto studiati perché non solo emblematici per la storia delle quadrature, ma in stretto contatto con la percezione della città di Firenze. Le sale delle Udienze Seguendo l’attuale ordine di percorrenza, le quattro sale al pianterreno dell’ala palatina di sinistra sono il salone di Giovanni da San Giovanni, la sala delle Udienze pubbliche, delle Udienze private e quella di Rappresentanza. Negli anni trenta del XVII secolo, il granduca Ferdinando II ne volle la decorazione pittorica per celebrare le nozze con Vittoria della Rovere: il primo salone fu affidato al pittore toscano Giovanni Mannozzi da San Giovanni (1592-1636), i restanti tre furono assegnati ai bolognesi Angelo Michele Colonna (1604-1687) e Agostino Mitelli (1609-1660). Pur dedicandoci a tutti gli ambienti del quartiere estivo, per ragioni di spazio in questa sede riferiremo di quanto osservato nella sala delle Udienze private. I due quadraturisti scelgono di amplificare la percezione delle dimensioni della sala attraverso il disegno di spazi architettonici
geometria e misura nelle sale dei quartieri estivi di palazzo pitti • barbara aterini, sara d’amico
illusoriamente affacciati verso essa; organizzano così una successione ritmata di colonne dipinte che corre attorno alla stanza ad una quota superiore al pavimento attuale, sopra una sorta di palcoscenico. Questo è suggerito anche dai tratti di balconata disegnati sulle pareti più corte del salone, soprattutto nella meridionale dove, a sollecitare l’immaginazione dell’astante il parapetto segue la salita di due brevi scale simmetriche, il cui approdo è celato dal grande tabernacolo riprodotto al centro della parete. Tale palcoscenico, fittizio, si estende sino a diventare un percorso coperto, segnato in tutti gli angoli dell’ambiente da coppie di archi che, di quell’immaginario cammino attorno al salone, fissano i passaggi salienti rimarcandone il senso del movimento, circolare e continuo. L’inganno di queste quadrature risulta più convincente grazie alla maestria con la quale gli artisti compongono questi elementi architettonici, appositi e fortemente connotativi, assieme a raffinati dettagli narrativi, spesso di natura figurativa: personaggi ritratti come affacciati verso il salone1 sono parte integrante e vivifica dell’intera scena, in un immaginario rimando di sguardi con lo spettatore. Mitelli e Colonna contrastano così il senso di chiusura del limite murario e raggiungono l’obiettivo grazie all’uso del disegno, strumento indispensabile nel gestire, accordare le esigenze plurime che il programma decorativo imponeva. Se infatti la conoscenza della geometria, piana e proiettiva, è imprescindibile per la costruzione degli apparati prospettici dipinti, i due autori impostano un vero e proprio progetto architettonico, controllandone con il disegno la coerenza stilistica e ‘costruttiva’. Le colonne descritte sono effettivamente concepite combinando elementi degli ordini architettonici classici, dalla base dorica al capitello ionico con cimasa corinzia. Ricercandone i rapporti proporzionali, la metà circa del diametro della colonna, rilevato all’imoscapo, si scopre modulo dell’ordine come voleva la regola classica; la sua altezza, misurata nell’insieme e per parti, risulta divisibile in un numero intero di moduli, o comunque secondo valori gestibili in termini cantieristici (fig. 1)2. Gli impalcati colonnari contribuiscono inoltre ad enfatizzare lo sviluppo verticale, alludendo a nuove stanze. I temi del percorso circolare, e di una comunicazione diretta tra spazio reale e fittizio, tornano ad esplicitarsi con elementi e presenze evocativi: il finto soffitto a cassettoni, che si ripresenta in tutte le pareti al di là delle colonne, oppure la soprastante balconata, dalla quale fanno capolino altri personaggi della corte che fu medicea. Manipolando la costruzione geometrica, gli artisti rafforzano la sensazione di trovarsi in ambienti dalla configurazione più complessa di quella reale, soprattutto quando si volga lo sguardo al soffitto a volta: nella sala in esame, 1 Dagli ambienti dipinti si affacciano un uomo col binocolo, un giovane che gioca con un pappagallo appollaiato ad un trespolo e, ai piedi della scala, una figura d’anziano, ritenuta ritratto del guardarobiere granducale Giacinto Maria Marni. 2 Nella sala delle udienze private si possono assegnare approssimativamente 9 moduli all’altezza della colonna, mentre il capitello comporta circa altri 3 moduli con la trabeazione.
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pagina a fronte Fig. 2 Sala delle Udienze private: sull’ortofoto della parete a sud, la griglia modulare in braccia ed alcuni quadrati che governano la composizione delle architetture (foto: A. Morelli).
alle colonne si sovrappone un loggiato, dipinto sulla copertura allungando altre colonne, in marmo verde, che a loro volta sorreggono il terzo ed ultimo livello, il cui ideale affaccio sul salone è demarcato da un parapetto. Il corrispondente profilo, sapientemente tracciato dalla regola prospettica, inquadra uno scampolo della volta celeste, dedicato allegoricamente al trionfo di Ferdinando II. A conferma ulteriore delle raffinate competenze tecniche di Mitelli e Colonna, dobbiamo soffermarci sulla compagine compositiva delle pareti. Riguardando quella a sud in termini mensori si rileva che la posizione di alcuni suoi punti si attesta su valori numerici tendenzialmente precisi: come dire che l’immagine pittorica è strategicamente referenziata rispetto all’unità in uso, il braccio fiorentino. La definizione altimetrica delle principali parti architettoniche del dipinto – l’ideale piano di calpestio della loggia, le basi ed i capitelli dell’ordine, l’imposta dell’arco, la distribuzione dei finti cassettoni – rimanda a misure intere, al più aggiunte della mezza unità3. Tali dati suggeriscono già il ruolo basilare del disegno di progetto nella definizione di queste quadrature ma ci pare opportuno individuarne le regole, delineando cioè i possibili principi informatori di quel processo costruttivo concretatosi nel lavoro dei due artisti. Con questo obiettivo si è approfondita l’analisi di queste scenografiche architetture, rimandandola a schemi geometrici che permettessero di riordinarne forme e misure secondo un criterio, logico, leggibile, ripetibile. Riguardando la solita parete, può oggettivamente provarsi che le parti più rilevanti sono distribuite e dimensionate, all’interno della superficie murale, richiamando alcune figure geometriche elementari (fig. 2). L’ideale muro di fondo, nel quale si aprono le due finestre, individua un quadrato di 10 ½ braccia4, misurato rispetto alla larghezza e all’altezza della balconata superiore. Un altro quadrato, di 13 ½ braccia, incornicia la quadratura, in larghezza, al netto delle paraste laterali ed arriva in altezza alla trave che separa, secondo la profondità, le due linee di lacunari. Tale quadrato, traslandolo in alto di 1 ½ braccio, copre pure l’area tra il profilo interno delle paraste e la linea intradossale della fila di lacunari in primo piano. Il quadrato, inoltre, non governa solo l’assetto generale della parete ma interviene anche nella giustapposizione di alcune membrature interne: il tabernacolo centrale, misurato alla quota d’imposta del relativo timpano, è divisibile in due quadrati di 6 braccia ciascuno. Tutto ciò acclara l’idea di un approccio volutamente progettuale dei nostri autori, ulteriormente confermato dall’applicabilità delle stesse osservazioni ai restanti brani pittorici. 3 Tali osservazioni restano valide anche nelle altre stanze: nella sala delle Udienze pubbliche, le basi del colonnato, i capitelli, i parapetti del balcone centrale e della balconata superiore, addirittura i due vasi di fiori che la guarniscono, si appoggiano a valori di quota interi, alcuni persino uguali ai corrispettivi della quadratura descritta. 4 Le misure in braccia fiorentine saranno espresse in frazioni, evitando per brevità l’uso dei sottomultipli.
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Prestando infatti attenzione ai lati lunghi della medesima sala (fig. 3), l’impiego di figure piane, per l’ordinamento degli elementi architettonici virtuali, rimette all’attenzione il tema geometrico del quadrato: non è assolutamente trascurabile che la successione delle coppie di finte colonne – a scandire le parti piene e vuote lungo il muro – sia ripartibile in due quadrati di 9 braccia. Di poco più piccole e sempre quadrate le due regioni, simmetriche, segnate dall’altezza della colonna e, in larghezza, dalla distanza tra le paraste d’estremità ed il profilo
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Fig. 3 Sala delle Udienze private: sull’ortofoto della parete ad ovest, i quadrati (verdi) ed i rettangoli aurei (azzurri) che governano la composizione delle architetture (foto: A. Morelli).
esterno delle colonne che chiudono il pannello murario centrale. Il suo bassorilievo, che fittiziamente ne scolpisce la fascia centrale, a sua volta può sezionarsi in quattro aree uguali e regolari, sovrapposte verticalmente. Potremmo allora attestare che vige, ancora in pieno Seicento, una cultura del progetto letteralmente classica, designando con ciò il fatto che il disegno (nel nostro caso il dipinto) riflette un pensiero ordinatore, la cui regola generativa risiede strumentalmente nella geometria, vera norma cogente del progetto. In virtù di ciò, la buona pratica suggerisce all’artista di creare l’immagine tramite un atto compositivo, in cui il dato concreto, la misura, è tradotto e trasferito con figure e costruzioni geometriche. La prassi di riferire il disegno ad una modularità geometrica è di nuovo verificata quando si scopre che la strutturazione della scena dipinta è dominata anche dal rettangolo aureo. Se riconsideriamo le pareti descritte, ad esempio la meridionale, il quadrato di 9 braccia, esteso tra l’asse di una semicolonna d’angolo e il limite verticale, più lontano, della nicchia centrale, è
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generatore di un rettangolo aureo che incornicia il nucleo della quadratura, ad esclusione delle semiparaste d’estremità. Circa la sistematicità con cui i quadraturisti costruiscono l’architettura componendo geometrie elementari, si aggiunga che la proporzione aurea è reiteratamente applicata anche nel disegno delle pareti lunghe, particolarmente per segmentare il passo dell’ordine architettonico del primo livello. L’essenzialità di un’impostazione così fortemente progettuale, utile a strutturare l’immagine pittorica conferendole una ratio geometrica, non di meno ne rende sostenibile anche la realizzazione, rammentando che in effetti i pittori, dopo l’iniziale fase ideativa, debbono provvedere al trasferimento del tema decorativo sull’estensione muraria, lavoro tutt’altro che banale. Il quadraturista pertanto non può non interfacciarsi direttamente con le varie operazioni cantieristiche, prevedendo soluzioni che rendano gestibile proprio il suddetto passaggio; non dovrà poi essere secondario il tentativo di rendere riproducibile questo processo di trasposizione materiale, svincolandosi fin dove possibile dalle contingenze dei singoli cantieri. L’assegnazione di misure nette ai più cruciali elementi e nodi architettonici dipinti, l’opzione di articolare la scena prospettica attraverso figure geometriche elementari, assurgono conseguentemente anche a mezzi per la conduzione delle operazioni di cantiere: è nuovamente chiarificato, in conclusione, il valore metodologico della geometria, da regola compositiva nell’impostazione del disegno, a strumento di controllo nell’organizzazione del cantiere. L’intrinseca connessione tra questi due concetti, geometria e misura, si materializza in una delle quadrature già descritte in modo assolutamente interessante. L’ambiente architettonico dipinto nella parete sud della sala delle udienze private è impostato, ad un primo sguardo, secondo una perfetta simmetria, il cui asse s’incardina manifestamente sulla porta al centro del muro stesso; il rilievo ha ricavato che essa però non è esattamente al centro della parete, larga 15 ½ braccia, ma la sua linea mediana resta fissata su 7 ½ braccia. Questo non deve stupirci, vista la necessità di semplificare quanto più possibile la costruzione: infatti, se si fosse pretesa la centralità esatta del passaggio si sarebbe dovuta misurare una frazione del braccio fiorentino pari a tre quarti, optare cioè per una soluzione meno pratica. Non rinunciando ad un modello formale simmetrico, l’architettura dipinta deve vincolarsi comunque all’effettiva posizione della porta, per evitare la sgradevole percezione di un disallineamento, seppur lieve, tra quest’ultima e la finta edicola superiore. Ecco allora che l’apparato decorativo del soprapporta si dispone perfettamente in asse col vano sottostante, mentre la struttura del tabernacolo si avvicina, quasi impercettibilmente, all’asse murale. L’esiguità di questo spostamento trova ragione, d’altro lato, nel fatto che il pittore deve rapportarsi contemporaneamente con l’ingombro del passaggio e con la postazione dell’osservatore all’interno della
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Fig. 4 Sala delle Udienze pubbliche: confronto tra l’architettura dipinta nella parete a sud e la sua restituzione tridimensionale (foto, modello digitale: A. Morelli).
stanza che, lo anticipiamo, è appunto centrale. Aver avvicinato così poco il tabernacolo all’asse della parete non ha potuto eliderne totalmente l’eccentricità, resta perciò il problema di dover dipingere due settori della quadratura, formalmente uguali, in due porzioni di muro che dimensionalmente non lo sono affatto. Per comprendere il criterio col quale fu affrontato questo casuale condizionamento, si è provato a rileggere il disegno della quadratura secondo l’unità di misura, ordinando la successione dei moduli unitari sia a partire da sinistra che da destra. Si scopre che il reticolo modulare scansionato da sinistra ripartisce con grande esattezza la corrispondente metà del muro proprio fino alla porta, della quale va a fermare le linee essenziali del timpano sovrastante. La sequenza delle braccia fiorentine, avviata invece da destra, distribuisce con equiparabile precisione la restante parte del dipinto, quella meno contratta. Ciò dunque mostra, una volta di più, la dimestichezza e la perizia con le quali Mitelli e Colonna sanno collimare le prerogative del disegno alle esigenze, circostanziali, del cantiere e del processo costruttivo, grazie ad un’oculata gestione delle operazioni di misura. Nell’esempio descritto, infatti, la reale, se pur ridotta, disuguaglianza dimensionale tra le due metà della quadratura viene affrontata, e risolta, distogliendo l’osservatore dalla percezione di tal asimmetria: in parte traslando l’edicola, elemento centrale della composizione, verso la mediana della parete, in parte aumentando lievemente le dimensioni di alcuni elementi architettonici per adattarli alla metà più larga del muro. Unitamente a questi accomodamenti, il quadraturista nasconde elegantemente questa difformità riassorbendo le differenze dimensionali all’interno di un elemento del disegno globale, la porta, tutto sommato secondario alla vista dello spettatore, mentre le parti sicuramente più immediate alla percezione – perché quelle su cui s’impernia l’assetto generale – sono definite con un medesimo schema, sì da conservare l’idea di un’immagine complessivamente uniforme.
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La nostra indagine prosegue per comprendere il meccanismo prospettico che supporta il progetto delle quadrature, a rintracciare l’eventuale esistenza di un metodo applicativo che giustifichi razionalmente le soluzioni adottate. Per le medesime ragioni di spazio, qui concludiamo invece con un altro importante passaggio della ricerca, quello che attiene l’utilizzo della modellazione tridimensionale digitale. Lo studio di ciascuna quadratura si è sviluppato attorno al tema del legame tra forma e misura, muovendo da un’interpretazione dell’immagine pittorica fondata sulla geometria elementare piana. I numerosi riscontri in tal senso hanno acquisito un’importanza effettiva soprattutto perché, come già osservato, palesano la volontà degli stessi autori di concepire la quadratura come un vero progetto architettonico. La principale conseguenza di tal approccio è che i quadraturisti dipingono scenari virtuali ed illusori sempre tenendo ben a mente il loro intrinseco significato di fisicità e spazialità, per quanto ideale. La modellazione tridimensionale, dunque, ha offerto la propria efficienza nell’illustrare quella combinazione di volumi e percorsi celati dietro l’inganno delle pareti dipinte ed anzi, allo scopo di sottolinearne il valore, i modelli ottenuti sono presentati privi di attributi cromatici e depurati dagli elementi decorativi. Questa sorta di decurtazione ne lascia intatta, come è visibile (fig. 4), anche l’ormai sperimentata efficacia divulgativa. Bibliografia Aterini B. 2012, Spazio immaginato e architettura dipinta, Alinea, Firenze. Aterini B. 2009, Modelli tridimensionali per lo studio dell’architettura dell’inganno. Il salone di Palazzo Cerretani a Firenze, in E. Mandelli (a cura di), Dati, Informazione, Conoscenza. Metodi e tecniche integrate di rilevamento. I modelli tridimensionali, la costruzione e trasmissione dati, Alinea, Firenze, pp. 65-73. Aterini B. 1997, Restituzione prospettica. Misura di elementi rappresentati in una immagine fotografica per il rilievo di architettura, Alinea, Firenze. Bartoli M.T, Lusoli M. 2015, Le teorie, le tecniche, i repertori figurativi nella prospettiva d’architettura tra il ’400 e il ’ 700. Dall’acquisizione alla lettura del dato, Firenze University Press, Firenze. Farneti F., Lenzi D. (a cura di) 2006, Realtà e illusione nell’architettura dipinta. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Alinea, Firenze.
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Fig. 1 Particolare del castello di Vicchio, in bianco lâ&#x20AC;&#x2122;oratorio e il locale della sagrestia annesso. Archivio di Stato di Firenze, Catasto Generale Toscano, Mappe, Vicchio, 147.
il restauro e il ridecoro dell’oratorio della misericordia di vicchio del mugello Monica Lusoli
Università degli Studi di Firenze, Italia
Abstract On 29th June 1919 a strong earthquake struck the towns of Mugello causing considerable damage to the ecclesiastical heritage in particular, on that occasion, the dome of the oratory of the Misericordia in Vicchio collapsed, built in the early nineteenth century. Only on 21th September 1930 the oratory was reopened to the public with a new covering painted by the Florentine scenographer Donatello Bianchini with a fake dome illusionistic decoration, with decentralized fire. A balustrade is set on a tall mixtilinear frame that opens the presbytery space towards side rooms separated from the oratory by a filter of Ionic columns and connected by arched openings that can be seen on the wall in the background. A milky sky can be seen at the top, beyond the group of fluttering putti descending towards the altar showing a cartouche that is praising mercy. The painted architecture, illusory, completes and justifies the real one, providing an important scenographic background to the building and providing the uniqueness of this oratory in the Mugello area. Keywords Fake dome, decentralized fire, Donatello Bianchini, Mugello, oratory
Introduzione A Vicchio del Mugello, a sinistra, nel Corso, appena entrati da porta B.S. Lorenzo o porta di Ponente1 si trova il cosiddetto oratorio della Misericordia o di Filippo Neri già della Compagnia del SS. Sacramento. Contraddistinto da una semplice facciata con portale lapideo e finestra mistilinea viene realizzato entro il 1815 come riportato dalla mostra di una cassettina per le offerte murata nel museo allestito recentemente in un locale attiguo. Ad aula, si insinua nella cortina degli edifici limitrofi disposti a pettine lungo la via che attraversava l’abitato castrense e collegava i due accessi principali uno verso Firenze e l’altro verso Dicomano e la Romagna; posteriormente prospetta una corte ricavata lungo le mura urbiche su cui si aprono dei piccoli ambienti di servizio e una stretta scala che conduce al locale posto al primo piano e adibito a museo della confraternita della Misericordia. 1 La porta ormai inesistente è rappresentata in un dipinto (1833-1907) del macchiaiolo Stanislao Pointeau in cui si intravede la facciata dell’oratorio.
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Fig. 2 Veduta frontale della parete d’altare e scorcio delle pareti laterali.
Nel territorio di Vicchio, prima delle soppressioni leopoldine (1785-1790), erano presenti numerose compagnie o confraternite sorte in risposta ai dettami della riforma tridentina, in nome di una rinnovata religiosità e di un profondo spirito di carità, e insediate in cappelle o oratori. Soppresse in seguito ai motupropri di Pietro Leopoldo, alcune vennero rifondate, con il beneplacito delle autorità locali, dopo i tumulti popolari del 1790: la compagnia del SS. Sacramento, di cui era testimoniata la presenza dal 16332, fu una di queste e venne ricostituita nel 1798. In questa occasione venne commissionata a Clemente Susini una statua in ceroplastica del corpo di Cristo morto e da quell’anno la compagnia assunse il titolo di Confraternita del SS. Sacramento e di Gesù Morto. Il 3 ottobre, ricevuto il simulacro dall’artista, deposto in una “cassa di cristallo” e pagato scudi 147 e lire 4, “dodici signori deputati” lo condussero dal pontefice Pio VI che soggiornava nella Certosa di Firenze per ottenerne la benedizione. Successivamente il simulacro venne trasportato solennemente nella pieve di Vicchio e, in attesa che fossero terminati i lavori 2 La prima notizia della Compagnia risale al 1633, anno in cui Luca di Francesco Guidi dispose per legato testamentario che ogni anno in perpetuo fosse offerto un pane ai poveri che partecipavano alla processione del Corpus Domini e che inoltre fosse celebrata una messa nella cappella della famiglia dei Guidi dedicata alla SS. Annunziata che si trovava all’esterno della porta di levante del castello di Vicchio. ASF, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo, 1831, cit in Gasparrini A., A. Altieri A. 2017, p.190 n.206
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di costruzione del nuovo oratorio intitolato a San Filippo Neri3, depositato nella cappella della Compagnia della Santissima Annunziata limitrofa alla chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista e distrutta nel 1823-27. Agli inizi del XIX secolo, Giuseppe di Bartolommeo Ciatti vendette alla Compagnia del SS. Sacramento e di Gesù Morto, per 180 scudi, con atto rogato l’8 agosto 1805 dal notaio Giuseppe Fabbrini4 (Gasparrini, Altieri, 2017, p. 190 n. 207; De Carpi 1910, pp. 54-56), un immobile sulla via centrale di Vicchio posto di fronte alle case che la sua famiglia già deteneva nei pressi della porta urbica: questo diventerà la sede dell’odierno oratorio5 (Gasparrini, Altieri, 2017, p. 190 n. 206). Nel 1812 la cassa con il simulacro in ceroplastica venne collocata sotto l’altare dell’oratorio, la cui costruzione era appena terminata (De Carpi, 1910, pp. 54-56); quindici anni dopo venne rifatta la teca del Cristo Morto e probabilmente spostata nella sua posizione attuale, in alto, sopra l’altare. Non abbiamo testimonianze della morfologia dell’oratorio in questo periodo anche se nella seconda metà del secolo don Lino Chini riferisce che l’edificio è costruito “con buon disegno e buon gusto” (Chini, 1876, IV, pp.22-23 n.1). Tipologicamente l’ambiente rispecchia costruzioni di analoga destinazione distribuite nel territorio: ad aula dotate di una cupola sul presbiterio, sovente decorata con pitture, “lavori di prospettiva e di ornato”, per lo più, in questo periodo, realizzati da artisti locali, Pietro Paolo Colli o Pietro Alessio Chini6 (Chini, 1876, IV, pp.296-298). Fino all’inizio del Novecento anche la cupola della chiesa parrocchiale di Vicchio era ornata con “un’illusione ottica sorprendente” che “arieggia lo stile del ‘400” con “armoniose decorazioni pittoriche” nella volta e nell’abside (Niccolai, 1974, p. 212). Lo spazio interno all’oratorio All’interno l’oratorio risulta percettivamente diviso in aula e presbiterio, due ambienti visivamente scollegati; contraddistinto da un intonaco chiaro su cui spicca una cornice lapidea perimetrale, che si interrompe nell’arco di trionfo all’altezza delle reni e in controfacciata in corrispondenza dell’apertura mistilinea, il corpo dell’aula è coperto da una volta a botte mentre il presbiterio, separato dal semplice arco trionfale in conci lisci e rialzato di due gradini, ha pareti e copertura decorate pittoricamente: nessuna corrispondenza si riconosce tra Ibidem, p. 35 Archivio di Stato di Firenze, Notarile Moderno, Protocolli, 5940, cc. 68-70. La famiglia Ciatti è con le maggiori di Vicchio, i Guidi, i Fabbrini, i Buoni, i Bianchi e i Malenotti, una di quelle che ritornano maggiormente nel registro delle cariche della Compagnia. ASF, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo, 1831. 6 Don Lino Chini traccia una precisa biografia del padre, Pietro Alessio, indicando che “dal 1824 al 1870 [realizza la decorazione di] 3 chiese plebane, 16 priorie, 3 confraternite secolari, 1 conventuale e 10 fra cappelle e oratorii” e specificando gli edifici. 3 4 5
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Fig. 3 Veduta della ‘cupola’ dall’aula dell’oratorio.
le modanature della cornice perimetrale e quelle dipinte a ripartire l’elevato delle pareti limitrofe all’altare. Queste ultime, suddivise in due livelli da un alto cornicione, sono concluse da arconi. Le laterali hanno la porzione inferiore caratterizzata dall’inserimento centrale di una nicchia in elementi lapidei poggiata su una illusionistica base con mensole a volute e inquadrata lateralmente da finte specchiature marmoree con spesse cornici mistilinee. Il livello superiore è caratterizzato da una partizione geometrica con cornici dorate in cui, in alto, tangente all’arco, a sinistra si apre una finestra mistilinea analoga a quella della facciata mentre a destra la stessa è riprodotta pittoricamente. La parete frontale è ugualmente bipartita: al livello inferiore l’altare, con il sovrastante simulacro di Gesù Morto, occupa la parte centrale mentre, ai lati, si trovano due aperture nascoste da tendaggi con sovrapporta dipinti. Il dorsale d’altare concluso da un timpano spezzato in cui si inserisce un vaso dorato con fiori multicolori ricadenti accoglie una nicchia con l’immagine scultorea della Madonna Addolorata sormontata da due valve e un cartiglio dorato con iscrizione. Elementi decorativi plastici si collocano sulle lesene laterali concluse da volute con larghe foglie d’acqua dorate e ornate da festoni con perle e boccioli; due volute ad orecchio concluse da una non canonica baccellatura, collegano
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il dorsale al cornicione sottostante. Il motivo del vaso dorato con fiori ritorna lateralmente, chiuso tra due valve nei fastigi che decorano le mostre delle due finestre che si aprono sul presbiterio dal contiguo museo. Tutti gli elementi decorativi illusori che alludono ad una realizzazione in pietra sono dipinti con tonalità chiare e spiccano sul fondo vinaccia delle pareti. Dall’aula i fruitori possono percepire in giusta prospettiva un apparato pittorico illusorio dipinto sulla copertura che solo da vicino, dalle finestre al primo piano del presbiterio, si mostra come una finta cupola realizzata su un substrato piano che allude e ripropone elementi impiegati nel quadraturismo dei secoli XVII e XVIII. La decorazione della cupola Dal 1910 l’oratorio diventa proprietà della Confraternita della Misericordia che lo utilizza per le proprie riunioni periodiche e le celebrazioni liturgiche che non possono tenersi nella pieve. Nove anni dopo, il 29 giugno 1919, l’edificio è uno dei tanti danneggiati dal forte sisma del Mugello. Il 3 agosto sulla prima pagina del Messaggero del Mugello viene pubblicato uno dei resoconti di visita che l’ingegner Francesco Niccolai svolge in questi territori nell’imminenza dell’evento sismico; l’autore testimonia danni e conseguenze sociali e in particolare riporta che a Vicchio è “crollata […] la volta della Misericordia, pur avendo risparmiato la ceroplastica del Susini”7. Da ciò si comprende che l’oratorio in origine era voltato ma non si sa niente del suo apparato decorativo; il Niccolai sottolineando che “il terremoto […] ha colpito, specie nei fabbricati delle chiese, le superstrutture e la discontinuità dei materiali eterogenei” sottintende che probabilmente la volta non era portante. Pochi giorni dopo, il 7 settembre 1919, vengono pubblicate le “Disposizioni e norme tecniche da osservarsi per le riparazioni da eseguire nelle località danneggiate dal terremoto” in cui si auspica una sostituzione delle volte spingenti, con “impalcati o soffitti piani”8. La situazione dell’oratorio rimane pressoché inalterata, nei danni subiti, fino all’inizio del 1930 quando il 2 febbraio viene ricordato che a breve sarebbero iniziati “importanti restauri” all’oratorio “non ancora rimesso in pristino stato” e si rimanda all’arrivo del “mutuo governativo”9; nel frattempo si assommano le donazioni e i lasciti alla Misericordia che probabilmente permettono l’avvio delle lavorazioni in un periodo immediatamente successivo visto che nei mesi seguenti sono testimoniati il “restauro ed abbellimento dell’oratorio”. Finalmente, il 21 7 Niccolai F. 1919, Attraverso la campagna mugellana. La desolazione delle Chiese e dei casolari distrutti, «Il Messaggero del Mugello», anno XXXVII, 3 agosto 1919 8 Disposizioni e norme tecniche da osservarsi per le riparazioni da eseguire nelle località danneggiate dal terremoto del 29 giugno 1919, «Il Messaggero del Mugello», anno XXXVII, 7 settembre 1919 9 «Il Messaggero del Mugello», 2 febbraio 1930, anno XLVIII, p. 6
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Fig. 4 Dalla finestra del museo, al primo piano, la copertura mostra la sua realtà costruttiva.
settembre 1930, con solenni festeggiamenti che dureranno un’intera settimana, viene riaperto l’oratorio o cappella di Gesù Morto, ricostruito, dopo i notevoli danni subiti nel sisma, per l’interessamento di Paolo Santoni e di Pio Bianchi, provveditori della Confraternita. Gli articoli dedicati ai festeggiamenti documentano che “i lavori di pittura [erano] stati eseguiti magistralmente e con fine veramente artistico, dal professor Bianchini di Firenze che, con la sua ben nota valentia, [aveva] saputo trasformare la vecchia Chiesetta in una superba e ammirata Cappella”. Durante le celebrazioni la popolazione intervenne numerosa ad ammirare il “bellissimo oratorio” apprezzando tra l’altro i dipinti e commentando con gioia il posizionamento nel presbiterio del bassorilievo robbiano con Madonna e Bambino fino ad allora collocato in una sacrestia10. Donatello Bianchini, professore e accademico onorario dal 1939, è uno degli autori delle decorazioni pittoriche del Politeama Fiorentino Vittorio Emanuele II, oggi, teatro comunale del Maggio Musicale Fiorentino, realizzate negli stessi anni di quelle dell’oratorio vicchiese e andate distrutte tra il 1957 ed il 1958. Per la stessa istituzione fiorentina 10 Feste per la riapertura dell’oratorio di Gesù Morto, «Il Messaggero del Mugello», anno XLVIII, 20 settembre 1930; Processione del Gesù Morto, «Il Messaggero del Mugello», anno XLVIII, 28 settembre 1930; Chiusura delle feste religiose, «Il Messaggero del Mugello», anno XLVIII, 5 ottobre 1930.
il restauro e il ridecoro dell’oratorio della misericordia di vicchio del mugello • monica lusoli
l’artista è anche scenografo e, come tale, nel 1936, partecipa alle lavorazioni del film Coup de vent con la regia di Jean Dréville e Charles Felix Tavano. Con l’équipe di Ugi Ojetti partecipa all’allestimento della Mostra del giardino italiano tenutasi nel 1931 a Palazzo Vecchio realizzando, dieci tipi di giardino messi in scena sotto forma di diorama e, come piccoli teatri, impostati per essere percepiti da un preciso punto di vista. Nell’oratorio della Misericordia, Bianchini realizza una macchina architettonica illusionistica che finge una cupola; sicuramente lo scenografo guarda alle indicazioni sempre attuali di padre Pozzo utilizzando nella rappresentazione un fuoco decentrato11 (Pigozzi, 2015, in particolare pp. 33-35) con un unico punto di vista privilegiato nell’aula. Nella Figura Nonantesima, Cupola in prospettiva di sotto in su, il Pozzo indica che “il punto dell’occhio” deve trovarsi al difuori della composizione “acciocche quei che la mirano si stracchino meno, e si scopra più d’architettura e d’artifitio il che non seguirebbe se la veduta fosse nel mezzo” (Pozzo, 1693-1702, figura 90). Probabilmente come indicato dallo stesso autore, il Bianchini disegna tutta la pianta geometrica del colonnato per far si che “ciascuna [colonna] vuol essere digradata da per sé”. Certo, come l’artista seicentesco avrà trovato difficoltà “in trovar tanti centri digradati, quanti saranno i circoli; e tanti saranno i centri, e circoli, quanti i membri dell’architettura” (Pozzo, 1693-1702, figura 49). Una balconata impostata su una cornice modanata poggia su otto mensole che permettono all’illusionistica cupola di trovare imposta sul quadrato d’impianto del presbiterio. Quattro pennacchi angolari completano gli appoggi costituiti anche dai conci in chiave dei quattro arconi laterali. Le otto mensole sono completate da foglie di acanto che vanno a coprire le volute terminali impostate sulla gola delle cornici degli arconi e dei pennacchi. Superiormente le mensole trovano continuità in plinti che intervallano la balconata e la dividono in otto gruppi di sette balaustri. La cimasa ricorre in aggetti in corrispondenza dei plinti. Le specchiature triangolari al di sotto della balaustrata sono decorate con elementi fitomorfi dorati. Gli stretti rapporti esistenti tra l’architettura costruita dei pennacchi e degli arconi e quella apparente della cupola si esplicitano nella cornice mistilinea ottagonale che senza soluzione di continuità si sviluppa sul perimetro, concatenando e raccordando realtà e illusione. Gli elementi architettonici e plastici rappresentati con le tonalità cromatiche impiegate attingono al repertorio del quadraturismo sei-settecentesco tanto da ingannare anche l’occhio degli studiosi12 (Ciuffoletti, Marilli (a cura di), 1990). Su questo argomento parlando di Giulio Troili e della cupola a fuoco decentrato Marinella Pigozzi fa un breve excursus citando tra l’altro Vignola che in Le due regole della prospettiva pratica, tratta Del modo di fare le prospettive nei palchi e nelle volte che si veggono di sotto in su. 12 La didascalia dell’immagine n. 154 riporta: Cupola dipinta illusionisticamente con il Trionfo dei Misericordiosi, 11
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Discordanti rispetto all’impaginato generale sembrano essere gli angeli reggicartiglio dipinti in corrispondenza delle valve nei pennacchi sia per tonalità cromatiche, in riferimento ai putti che svolazzano nella cupola, che per caratteristiche antropomorfe molto più vicine a realizzazioni ottocentesche. L’impiego della finta cupola permette di riproporre la tipologia della copertura precedente ad un minor costo rispetto alla sua ricostruzione e, soprattutto, nel rispetto delle regole dettate per le costruzioni post-sisma; l’ambiente si apre verso un cielo lattiginoso popolato da putti svolazzanti che scendono verso l’aula attorniati da nuvolette e parzialmente coperti da due drappi, uno rosso e uno azzurro, che ne coprono le nudità; nel loro volo sorreggono un cartiglio concluso da una valva e recante la scritta “Beati misericordes”. La soluzione compositiva trova affinità nella illusionistica apparecchiatura della cappella di San Giacomo o del Crocifisso nella chiesa della Santissima Annunziata realizzata da Giuseppe Chamant dal 1746 (cfr. voce Giuseppe Chamant, in Farneti, Bertocci, 2002, pp.165-174; Bertocci S., 2004.): i finti pennacchi che creano aggetti superiori, inseriti in conchiglie, sono qui sostituiti dalla valve accoglienti angeli monotonali con cartigli; il ritmo dei balaustri è interrotto da plinti come nella cappella fiorentina e analogamente la cornice della balaustrata poggia su mensole in chiave agli arconi. Posteriormente, due arcate richiamano alcune soluzioni di Giuseppe Tonelli con concio in chiave a rilievo e volute laterali; una soluzione simile per l’estradosso dell’arco e con l’analogia dell’arcata inquadrata da due colonne ioniche è impiegata da Rinaldo Botti in Santa Elisabetta delle Convertite e nella tribuna di Santa Maria degli Angiolini a Firenze, realizzata prima del 1725 (cfr. voce Rinaldo Botti, in Farneti, Bertocci, 2002, pp. 3155, in particolare p. 37 e n. 60 p. 53). In queste due ultime quadrature il fornice arcuato è affiancato dalle colonne che si trovano sullo stesso piano prospettico mentre nell’oratorio della Misericordia le arcate sono su un piano posteriore rispetto alle colonne che hanno capitelli ionici con festoni dorati appesi agli occhi delle volute. Centralmente, oltre i balaustri, si intravvedono due vasi con fiori policromi che sporgono al di sopra della cimasa riprendendo quelli che decorano la parete d’altare. La luce che determina illusionistiche ombre prodotte dalle figure angeliche sulle valve e dalle colonne sulla parete retrostante, è quella che proviene dalla finestra reale che si apre sulla corte limitrofa e quella virtuale proveniente dalla finestra dipinta sul lato opposto alla precedente. XVII secolo. Ignoto quadraturista. Fotografia Peter Morpurgo e Pierpaolo Pagano per gli Archivi Alinari.
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La parte conclusiva della cupola riprende gli schemi pozziani e candelabri dorati continuano la verticalità delle colonne ripartendo la superficie curva in otto spicchi decorati con volti di putti alati e fasci di palme. Al 2006 risale l’ultima campagna di restauri svolta sulla copertura13 e tesa ripristinare lo stato originario compromesso da infiltrazioni di acqua con veicolazione di “sostanze saline ed organiche di varia natura”14 e piccole lesioni localizzate; un’immagine Alinari mostra la situazione prima del restauro15. Il Bianchini sembra dominare la forma costruita sfruttando la componente psicologica della visione della forma dipinta, illusoria e apparente. Impossibile dire se la sua conoscenza del quadraturismo o l’esercizio della scenografia sia alla base della coerenza compositiva certamente ottenuta dall’uso di espedienti prospettici e psicologici, come già fatto da quadraturisti precedenti con la stessa formazione teatrale. Bibliografia Bertocci S. 2004, La costruzione prospettica nella decorazione architettonica di chiese e palazzi nel primo Settecento fiorentino, in Farneti F., Lenzi D. (a cura di), L’architettura dell’inganno a Firenze. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Firenze, pp. 155-166. Chini L. 1876, Storia antica e moderna del Mugello, voll.4, Firenze. Ciuffoletti Z., Marilli S. (a cura di) 1990, Immagini del Mugello. Terra dei Medici, Firenze. De Carpi T. 1910, Di Clemente Susini e de’ suoi lavori in ceroplastica. Note e rilievi a proposito del “Gesù Morto” venerato in Vicchio di Mugello, Borgo San Lorenzo. Farneti F., Bertocci S. 2002, L’architettura dell’inganno a Firenze. Spazi illusionistici nella decorazione pittorica delle chiese fra Sei e Settecento, Firenze. Gasparrini A., Altieri A. 2017, La comunità di Vicchio nel Settecento, Borgo San Lorenzo. Niccolai F. 1974, Mugello e Val di Sieve. Guida topografica storico-artistica illustrata, Borgo San Lorenzo, 1914, Rist. Multigrafica editrice, Roma. Pigozzi M. 2015, Arte, scienza e tecnica conciliabili a Bologna nel secolo XVII, in Bertocci S., Farneti F. (a cura di) 2015, Prospettiva, luce e colore nell’illusionismo architettonico. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Roma, pp. 31-38. Pozzo A. 1693-1702, Perspectiva Pictorum atque Architectorum, voll. 2, Roma.
Effettuato dalla ditta ICONOS Restauri Snc ha previsto la ripulitura e il consolidamento della pellicola pittorica ma anche dell’intonaco dipinto e del substrato preparatorio. 14 Il restauro è descritto nella brochure che la Misericordia di Vicchio fornisce durante la visita alla struttura. 15 Fotografo Alinari; data dello scatto 1990; id. CAL-F-005368-0000. La scheda riporta la datazione del XVII secolo. 13
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le decorazioni di villa murlo a san casciano in val di pesa Fig. 1 Una delle quadrature della Sala.
Sandra Marraghini
Università degli Studi di Firenze, Italia
Abstract Bernardino Ciurini worked as an architect for the enlargement of the original core of Villa Murlo in San Casciano, near Florence. The decorative apparatus of some of the Villa’s main rooms was made between 1723 and 1740 by Giovan Filippo and Anton Domenico Giarrè for the pictorial part and by the Ticinese Giovan Martino Portogalli for the stuccoes one. Some of the most significant and well-preserved decorations are the Quadrature with tempera paintings in the Music Room, located in front of the garden, while in the upstairs room are stored the stuccoes installations. In this paper the attribution of the paintings to Giovan Filippo and Anton Domenico Giarrè is confirmed, based on the style and the few references. All the paintings display a typical Arcadian landscape, characterised by ruins of classical architectures and Egyptian and oriental style monuments. The artists’ interest in the making of illusionistic perspectival constructs is confirmed, concerning the possibilities of use by the visitors to the halls. Keywords Quadraturismo, Arcadial landscape, illusionistic perspectives, Villa Murlo in San Casciano
L’allestimento decorativo di Villa di Murlo in San Casciano Val di Pesa (FI) fu realizzato da Giovan Filippo e Anton Domenico Giarrè, per la parte pittorica e dal ticinese Giovan Martino Portogalli per gli stucchi, negli anni tra il 1723 e il 1740 nel contesto del progetto architettonico di Bernardino Ciurini, consistente nell’ampliamento del nucleo originario della villa risalente al XV1. Degno di segnalazione è che nella biblioteca della villa si trovava il prezioso archivio rinascimentale Vasari, trafugato nel 1980 e ritrovato presso l’università di Yale negli Stati Uniti2. La villa, circondata da colline coltivate a viti e olivi, gode di una posizione panoramica lungo l’antica strada di crinale tra Firenze e Siena e mantiene l’immagine risalente all’ampliamento 1 L’attribuzione ai Giarré risale alla proprietaria della villa, oggi deceduta, che si era occupata della ricerca storica per i lavori di restauro. Tale attribuzione è attendibile dal punto di vista stilistico e probabile rispetto alla cronologia, alla tipologia e alla geografia degli interventi decorativi effettuati dai Giarrè, anche se non è disponibile alcun documento storico diretto che lo possa confermare. 2 Il prezioso archivio Vasari, trafugato nel 1980, è stato ritrovato presso l’Università di Yale negli Stati Uniti, dove tuttora è custodito, il governo italiano ha intrapreso un contenzioso, per ora senza successo, per farlo rientrare in Italia.
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Fig. 2 Foto panoramica della Sala.
pagina a fronte Fig. 3 Sala della Musica.
della prima metà del Settecento, quando furono inseriti gli apparati decorativi: cornici di porte finestre, bousierie, quadrature e stucchi, come parte integrante del progetto architettonico. I corredi più significativi, conservatisi integri, sono le quadrature con dipinti a tempera nella sala della musica posta davanti al giardino, mentre nella camera al piano superiore sono conservati gli allestimenti di cornici a stucco, ma non le pitture in esse contenute, che sono state oggetto di una ricostruzione arbitraria nel secolo scorso. Le quattro quadrature originali, al piano terreno, con dipinti a tempera incorniciati da decorazioni in gesso, sono collocate esattamente al centro di ogni parete e tutte a uguale altezza, circa m.1.90. L’attribuzione più probabile, sulla base dello stile e di scarsi riferimenti, è a Giovan Filippo e Anton Domenico Giarrè con la collaborazione per gli stucchi di Giovan Martino Portogalli3. Il soggetto, lo stesso genere per tutti i dipinti, è un tipico paesaggio arcadico contrassegnato da ruderi di architetture classiche e monumenti in stile egizio o orientale, dalla presenza di qualche sporadico viandante o pastore e, in lontananza, da alcune costruzioni, a volte semplici case di contadini, a volte grandiose ville e fattorie rurali nello stile moderno. L’apparato decorativo dipinto a tempera sulle pareti, che completava l’effetto illusionistico d’insieme, come bousierie e cornici attorno a porte e finestre, è andato in gran parte perduto e la versione attuale è il frutto di una ricostruzione frammentaria e di fantasia, realizzata in occasione dei lavori di restauro della villa negli ultimi decenni del secolo scorso4. Ibid. n.1 È possibile che sul soffitto si trovasse un’ulteriore specchiatura inserita in una cornice in gesso con la
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Un riferimento stilistico, sopravvissuto e degno di menzione, paragonabile per analogia di genere alle quadrature di villa di Murlo, sono i quadri di sala con classiche vedute ruinistiche incorniciate da stucchi, opera del pittore Niccolò Pintucci, che si trovano a villa Tempi a Montemurlo al secondo piano, i temi sono gli stessi, differente, oltre la mano dell’artista, il supporto della pittura: la tela invece della parete5. L’attività della bottega fiorentina di pittori decoratori della famiglia Giarrè attraversò tutto il Settecento6. Giovan Filippo Giarrè, documentato dal 1710, è menzionato da Gaburri: “fiorentino, pittore di architettura e prospettiva fresco e a tempera, scolaro di Francesco Botti”7. Il suo rapporto di lavoro più prestigioso fu per la famiglia Rinuccini, di cui purtroppo non è rimasto quasi nulla. Giovan Filippo collaborò spesso con altri artisti, tra cui Benedetto Fortini a villa delle Montalve alla Quiete, dove furono dipinte viste della villa stessa e a villa i Tempi rappresentazione di un cielo similmente a quella conservata nella camera al piano superiore con analoghe decorazioni. Il verde della parete si deve a una tinteggiatura recente, non basata sul colore originale. 5 “A partire dal 1731è documentata l’attività del Pintucci per i Marchesi Tempi.” Farneti F., Bertocci S., L’architettura dell’inganno a Firenze, spazi illusionistici nella decorazione pittorica delle chiese fra Sei e Settecento, Aliena editrice, Firenze, 2002, p. 179. 6 “L’attività dei Giarrè, impegnati nel genere pittorico della quadratura, occupa l’intero arco del Settecento; come la famiglia Papi, rappresenta uno degli esempi più significativi di una tradizione professionale tramandata all’interno di una famiglia.” Farneti F., Bertocci S., L’architettura dell’inganno a Firenze, spazi illusionistici nella decorazione pittorica delle chiese fra Sei e Settecento, Aliena editrice, Firenze, 2002, p. 120 7 BNCF, Ms Palatino E.B. 9.5., F.M.N. GABURRI, II, c.959
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Fig. 4 Assonometria della nuvola di punti.
a Montemurlo, con le quadrature a soggetto ruinistico; ambedue i casi sono confrontabili con villa di Murlo. Anton Domenico Giarrè, figlio e allievo di Giovan Filippo, è documentato da Gaburri: “si porta eccellentemente nello stesso genere di pitture, emulando la gloria e la virtù del padre, in compagnia del quale vive, ed opera in Patria nel 1739”8. Ebbe una prima importante commissione per le decorazioni di villa Giogoli Rossi presso Firenze nel 1735, dove, inquadrate da elementi architettonici, sono dipinte vedute paesaggistiche con elementi classici, colonne, obelischi, rovine, con vegetazione e animali; lavorò in equipe con altri artisti alla villa delle Corti a Torre a Cona, a villa delle Montalve alla Quiete, a Palazzo Capponi Covoni, contribuendo a realizzare imponenti apparati decorativi dai sorprendenti effetti illusionistici. I Giarrè, attingono al repertorio del quadraturismo toscano della fine del Seicento e dei primi del Settecento, in particolare da artisti come Botti, del Moro e Tonelli e dal capostipite di questo genere pittorico, Jacopo Chiavistelli, che introdusse, nella tradizione toscana i motivi mitelliani e bolognesi, derivati dalla scenografia teatrale. Oggetto principale è la ricerca dell’effetto illusionistico di sfondamento e smaterializzazione delle pareti reali, verso vedute virtuali, di interni o esterni, inserite in un inquadramento architettonico. Gli artisti si esibivano in numerose e sempre più sorprendenti varianti, sviluppando tecniche complesse dal punto di vista prospettico, dove l’elemento architettonico fungeva da mediazione visuale per compenetrare realtà e finzione, architettura e decorazione, dove il senso della profondità era efficacemente restituito attraverso il susseguirsi delle quinte architettoniche. Uno dei soggetti di maggior successo del repertorio della scuola chiavistelliana fu quello della rovina, ispirato dagli esempi dei ruinisti romani e bolognesi. 8
BNCF, Ms Palatino E.B. 9.5., F.M.N. GABURRI, II, c.959
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La prospettiva risultava lo strumento privilegiato per la pittura illusionistica così come si legge in Ferdinando Galli Bibbiena: quell’inganno dell’occhio, per cui da’ pittori in tela, carta o muro, per via di linee vengono rappresentati in lontananza, in una sola superficie, tutti gli oggetti, tanto di Architettura deh di Figure, Paesi ed altro che può scolpirsi con l’occhio.
Le problematiche poste ai pittori si collocavano nel campo della percezione visiva e le tecniche che svilupparono erano volte a gestire l’osservazione e la percezione da parte del soggetto fruitore pensato, in questo caso, non fermo in un punto, ma liberamente in movimento all’interno dell’ambiente. Nel progetto dei dipinti a tempera nella sala della musica della villa di Murlo è il disegno prospettico il principio ispiratore della concezione compositiva complessiva, volta a legare architettura e decorazione in un’unica visione d’insieme attraverso i seguenti elementi: la composizione plani-volumetrica e la giustapposizione geometrica delle quadrature sulle pareti; l’impostazione della prospettiva; le strategie illusionistiche e gli espedienti pittorici della prospettiva aerea. La concezione del progetto planivolumetrico rivela una rigorosa impostazione geometrica, dove ritmi e contrappunti simmetrici sono volti a integrare intervento edilizio e intervento artistico e dove l’elemento matematico è il viatico dell’illusione e dell’immersione intellettuale nella dimensione filosofica dei paesaggi rappresentati. I dipinti sono quattro, uno per parete, sono quattro rettangoli uguali, disposti al centro della parete a partire dalla stessa altezza, m. 1.90 circa, dal pavimento. La pianta della stanza è quadrata e le aperture, sia porte o finestre, si affacciano simmetricamente agli angoli, creando ritmi visivi e riferimenti intellettuali. È la concezione compositiva che prevale sulla funzione oggettiva dell’uso reale, per questo alcune porte sono finzioni pittoriche, indispensabili solo a integrare, attraverso le regolazioni geometriche, architettura e decorazione. Gli elementi di riferimento della prospettiva sono rintracciabili attraverso i volumi delle rovine che connotano geometricamente lo spazio incommensurabile della campagna. Si tratta di quattro prospettive centrali i cui punti principali si trovano immersi nel mezzo del paesaggio e tutti alla stessa altezza dal pavimento. Uno degli effetti scenografici ottenuto attraverso l’uso della prospettiva centrale deriva dal fatto che le linee orizzontali e verticali del dipinto (larghezze e altezze delle architetture rappresentate in primo piano) risultano parallele alle orizzontali e verticali dell’ambiente interno (pertanto piani paralleli alle pareti della stanza), gli elementi geometrici di riferimento della decorazione risultano così sintonizzati con quelli dell’architettura, funzionando da ponti percettivi tra realtà e finzione pittorica.
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pp. 308, 309 Figg. 5-7 Studio della prospettiva delle quadrature della Sala.
L’altezza dell’orizzonte, uguale per tutte e quattro le quadrature, è tenuta più alta del punto di vista da cui un osservatore si trova a guardare, pertanto il visitatore fruisce i dipinti solo dal basso, senza mai poter raggiungere la posizione del punto di vista prospettico. L’effetto prodotto è organizzato in maniera tale che il visitatore non si possa mai avvicinare troppo e che le immagini sembrino seguire l’osservatore mentre si muove nello spazio, senza che le prospettive risultino aberrate. Le quadrature risultano concepite, quindi, per essere osservate da lontano e produrre la sensazione d’insieme di trovarsi di fronte a quattro affacci su un unico paesaggio che idealmente circonda la stanza. Non risultando desumibile alcuna vera grandezza, nemmeno dagli elementi architettonici presenti nel paesaggio, non è ‘possibile’ rintracciare al posizione del quadro e la linea di terra della prospettiva. Si consente, in questo modo, allo spettatore di avvicinarsi e allontanarsi dai dipinti senza perdere la veridicità prospettica, potenziando l’effetto immersivo all’interno del paesaggio rappresentato nella pittura. Strategie illusionistiche ed espedienti pittorici Le rovine, ovvero gli elementi architettonici e i riferimenti geometrici che commensurano lo spazio dipinto con l’ambiente reale, sono concepite come una serie di piani precocemente interrotti che si rincorrono, senza permettere di individuare la linea di terra della prospettiva. La loro scala di rappresentazione rispetto al contesto, così come il rigore geometrico non sono lo scopo di questi artisti, che si preoccupano invece di predisporre una serie di accorgimenti volti a gestire la visione della scena pittorica da ogni punto di vista dentro la stanza. Le ombre sono trattate in modo geometricamente arbitrario, ma con attenzione di tipo pittorico. Gli artisti hanno utilizzato più sorgenti luminose tenendo conto della preminenza dell’illuminazione naturale della sala, per coordinare e amalgamare la luce reale
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con quella morbida e soffusa della pittura, i cieli rosati sono colti nel momento in cui il sole è appena calato (o sta per sorgere) al di sotto dell’orizzonte. La distribuzione planimetrica della sala crea una gerarchia di percorsi dentro l’ambiente. Due percorsi, i più utilizzati, sono stati progettati con particolare attenzione alla impostazione dei soggetti pittorici, per dare all’osservatore che attraversa la stanza, non solo la prospettiva più corretta, ma anche la percezione visiva più soddisfacente durante la fruizione del percorso stesso9. I percorsi privilegiati sono due. Il primo è quello che parte dall’ingresso principale dal corridoio e attraversa la sala in diagonale per raggiungere la porta di accesso alla biblioteca. Entrando nella sala, lo spettatore è coinvolto dal dipinto di fronte e l’attenzione va spontaneamente ai ruderi architettonici, dove la geometria è l’origine e lo stimolo del collegamento mentale tra reale e virtuale e dell’immersione immaginativa in un unico spazio simbolico attorno alla villa. Questi elementi architettonici, rappresentati in prospettiva centrale, risultano coordinati con le linee della stanza, in modo che l’occhio si immerga con naturalezza nel paesaggio dipinto e vi trovi anche il centro prospettico della scena pittorica. Attraversando la stanza si è guidati a trasferire lo sguardo gradualmente verso sinistra, trovando prima una finestra che si apre verso la campagna (questa volta il paesaggio è reale) per rientrare in un ulteriore paesaggio, questa volta dipinto sulla parete di sinistra. La scena pittorica, dopo che si “lo spazio simulato, la cui percezione è condizionata dal movimento dello spettatore, è parte integrante di quello reale, in un coinvolgimento che muta nell’evoluzione dei tempi.” Farneti F., Bertocci S., L’architettura dell’inganno a Firenze, spazi illusionistici nella decorazione pittorica delle chiese fra Sei e Settecento, Aliena editrice, Firenze, 2002, p. 17
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pp. 310, 311 Figg. 8, 9 Quadrature della Sala.
è percorso l’intera stanza in diagonale, si chiude nello stesso modo in cui si era aperta, con delle rovine, ovvero con degli elementi architettonico-geometrici che predispongono l’uscita dalla dimensione illusionistica della pittura a quella reale dell’architettura. Il secondo percorso è quello che corre parallelo alla parete che conduce dal corridoio interno verso il finestrone di accesso al giardino e viceversa. Nella quadratura di questa parete l’artista ha dipinto i ruderi in una visione molto contratta, allo scopo di mantenere la coerenza della prospettiva da una posizione particolarmente svantaggiata per l’osservatore, come quella dal basso rasente alla parete. Riguardo al complesso decorativo della camera al piano superiore non è possibile fare considerazioni, poiché le pitture sono state rimaneggiate e non abbiamo alcuna documentazione della versione originale10. Non conosciamo se il soggetto dipinto fosse anche in origine senza ruderi, possibile che si sia voluto tener conto della funzione della camera da letto, dove l’atmosfera doveva, questa volta, predisporre al riposo e non
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L’apparato decorativo di villa di Murlo è il prodotto di un disciplinato lavoro di equipe tra un architetto e una bottega di pittori del periodo tardo barocco, probabilmente quella dei fiorentini Giovan Filippo e Gian Domenico Giarrè. All’interno della bottega venivano tramandati di generazione in generazione i segreti delle tecniche pittorico- illusionistiche, competenze basate sullo studio dei trattati sulla prospettiva pubblicati e sviluppate attraverso l’esperienza praticata per oltre un secolo di decorazioni e quadraturismo. L’obiettivo ricercato attraverso l’uso coordinato di varie tecniche prospettiche ed espedienti pittorici è l’integrazione tra architettura e decorazione per ottenere un unico effetto d’insieme e suscitare la sensazione di quattro affacci su un unico panorama esterno, quasi le quadrature fossero finestre ideali che si aprono a paesaggi dipinti, paesaggi non realistici, ma culturali, atti a predisporre alla riflessione, all’ascolto della musica o alla discussione filosofica. all’eccitante attività intellettuale, tipica del salotto.
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Fig. 10 Dettaglio dell’apparato decorativo della villa.
Risulta, inoltre, evidente una certa approssimazione nella conduzione della prospettiva, sia per quel che riguarda i punti di fuga che per le ombre. Si può capire che l’autore si è fidato del proprio occhio e che probabilmente ha utilizzato cartoni e modelli predisposti, come era consuetudine nelle botteghe di artisti e che la geometria è presente solo quanto basta al controllo dell’intera struttura compositiva e della percezione visiva dello spettatore, per unire in un solo linguaggio architettura e decorazione.
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Bibliografia Bertocci S., Farneti F. (a cura di) 2011, Prospettiva, luce e colore nell’illusionismo architettonico, quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Artemide editori, Convegno internazionale di studi, Firenze Montepulciano, 9-11 giugno 2011. Bevilacqua M. (a cura di) 2010, Atlante del Barocco in Italia – Quaderni 1, Architetti e costruttori del barocco in toscana, Opere, tecniche, materiali, De Luca Editori d’Arte, Roma. Carocci C. 1892, Il Comune di San Casciano Val di Pesa, Tipografia Minori corrigendi, Firenze. Chiostrini Mannini A. 1977, Tesori del Chianti, Firenze-Libri, Firenze. Farneti F., Bertocci S. 2002, L’architettura dell’inganno a Firenze, spazi illusionistici nella decorazione pittorica delle chiese fra Sei e Settecento, Alinea editrice, Firenze. Farneti F., Lenzi D. (a cura di) 2004, L’architettura dell’inganno, quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, Aliena editrice, Firenze. Rabolini N. 1997, Sull’onda della musica, in «Antiquariato» gennaio. Repetti E. 1833-1845, Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana. Toscano M.A. 2010, ARS L’Archivio Vasari tra storia e cronaca, Le Lettere, Firenze. <https://it.wikipedia.org/wiki/Villa_di_Murlo>
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Fig. 1 La chiesa di San Trovaso nella Veduta di Jacopo deâ&#x20AC;&#x2122; Barbari e la chiesa romanica di San Trovaso con originaria cappella del SS. Sacramento (ricostruzione Guidarelli).
jacopo tintoretto e la rappresentazione digitale dell’architettura dipinta Gianmario Guidarelli, Gabriella Liva
Università degli Studi di Padova, Italia
Abstract This paper presents the results of a research conducted at the University of Padua on the occasion of the “Cinquecentenario Tintorettiano” (2018-2019) and promoted by the Scuola Grande di San Rocco in Venice. The analysis of eleven works has allowed us to reconstruct 1) the relationship between the painted space and the actual physical space where they were originally placed, 2) the role of architecture as a disciplinary element of the composition and in reference to the narrative dimension of history. It was possible to verify Ridolfi’s account of Tintoretto’s habit of using ‘perspective theaters’ to verify the correctness of his compositions. The case study analysed is ‘Ultima cena’ in the San Trovaso church (Venice): the research has concentrated on the lights in the painting, checking the correspondence between the painted space and the real space. In consideration of this aspect, possible in a virtual field, the deep understanding of the painting is recovered as a ‘place’ that needs not only to be looked at, but also understood and subdivided into its visible components, in the context of dialectic between religious space and the virtual space of the painting. Keywords Jacopo Tintoretto, perspective restitution, painted architecture
La cultura spaziale di Tintoretto: i teleri per la chiesa di San Trovaso (G. G.) Lo scopo del paper è di presentare i risultati di una ricerca condotta presso l’Università di Padova in occasione del Cinquecentenario Tintorettiano del 2018-2019 promosso dalla Scuola Grande di San Rocco di Venezia. La ricerca, che ha prodotto una monografia edita da Marsilio editrice (Grosso, Guidarelli, 2018 ed. it, 2019 ed. ingl.), è stata condotta da un gruppo formato da uno storico dell’architettura (Gianmario Guidarelli), uno storico dell’arte (Marsel Grosso) ed esperti in rappresentazione (Gabriella Liva, Cristian Boscaro, Isabella Friso). L’analisi di nove opere di Jacopo Tintoretto, in cui è significativo l’apporto dell’architettura, ha permesso di ricostruire sia il rapporto tra lo spazio dipinto e lo spazio fisico reale dove erano originariamente collocati, sia il ruolo dell’architettura come elemento disciplinante della composizione e in riferimento alla dimensione narrativa della storia. Inoltre, è
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stato possibile verificare il racconto di Carlo Ridolfi che narra dell’abitudine di Tintoretto di utilizzare ‘teatrini prospettici’ per verificare la correttezza delle sue composizioni (Ridolfi [1648], 1914-1924, II, p. 15). Inoltre, abbiamo potuto ricostruire la cultura architettonica di Tintoretto, basata non solo sulla trattatistica (soprattutto i sette Libri di Sebastiano Serlio), ma anche sul panorama architettonico a Venezia nella seconda metà del Cinquecento. Il passo successivo è quello di tentare di verificare quanto numerosi studi hanno argomentato, cioè l’interesse che il pittore coltivava per stabilire un efficace rapporto visivo tra quadro e spettatore. In questo senso è particolarmente significativo il caso dei cicli di teleri commissionati dalle confraternite veneziane del Santissimo Sacramento. La originaria collocazione delle tele realizzate da Tintoretto era legata agli spazi di pertinenza della confraternita all’interno della chiesa che la ospitava. Ogni Scuola (‘confraternita’ secondo l’uso lessicale veneziano) disponeva di un altare e di un ‘banco’ (cioè un tavolo attorno al quale si svolgevano le assemblee dei confratelli), che erano quasi sempre collocati in una delle navate laterali o in una cappella (normalmente accanto a quella centrale del presbiterio). Nel primo caso, il telero era visto frontalmente, nel caso delle cappelle, invece, erano posti a coppia sulle due pareti laterali, occupandone quasi completamente la lunghezza (Cope, 1979; Matile, 1996). Per questo motivo, la percezione dei teleri era condizionata dallo loro sviluppo in lunghezza e dalla posizione laterale, che obbligava ad una visione scorciata (Grosso, Guidarelli, 2018, pp. 124-133). Questa originaria collocazione è, però, quasi sempre andata perduta, a causa della trasformazione delle chiese in seguito al rinnovamento liturgico dovuto al Concilio di Trento. A partire dagli anni ’60 del XVI secolo, infatti, molti degli altari maggiori delle chiese veneziane saranno riconvertiti per essere destinati alla custodia eucaristica secondo le nuove disposizioni conciliari. Nell’allestimento che rinnova le cappelle maggiori delle chiese, i teleri, tolti dalla loro collocazione originaria e sistemati ai due lati dell’altare maggiore, si vengono a trovare in una situazione spaziale mutata, che ne condiziona pesantemente la possibilità di essere percepiti nel modo inizialmente concepito dall’autore. Variano, infatti, il rapporto funzionale e liturgico con l’altare e il banco, ma anche la relazione con le fonti di luce e, più in generale, con la conformazione spaziale dell’ambiente (Wilde, 1938, p. 141). In una situazione documentaria spesso carente, è difficile ricostruire con un grado sufficiente di precisione, la collocazione originaria delle tele tintorettiane e la stessa conformazione delle originarie cappelle cui erano destinate; i dipinti sono stati spesso ricollocati in una posizione diversa nella stessa chiesa - o musealizzati - e gli stessi ambienti originari sono stati trasformati o, addirittura, demoliti.
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È questo il caso della cappella del Santissimo Sacramento della chiesa veneziana dei SS. Gervasio e Protasio (detta San Trovaso), per la quale Tintoretto realizzò una Ultima Cena (Rossi, in Pallucchini Rossi 1982, I, p. 187) e una Lavanda dei Piedi (Rossi, in Pallucchini Rossi, I, pp. 187-188), nella seconda metà del sesto decennio del Cinquecento (Michael Matile ipotizza una datazione tra il 1556 e il 1561; Matile, 1996, pp. 158-164). Nella notte del 12 settembre 1583 la chiesa subì un grave collasso strutturale e ne fu subito intrapresa la ricostruzione (fig. 1). Due anni dopo, alla Scuola del Santissimo Sacramento fu assegnata una nuova cappella, posta dinanzi all’ingresso laterale, dunque in una posizione preminente, al culmine di uno dei due assi su cui è impostata la pianta della nuova chiesa. Già un anno dopo, la nuova cappella era stata costruita, mentre il vecchio sacello (persa la originaria funzione) era stato in parte demolito ed in parte inglobato nella nuova struttura. Nella nuova cappella, i due teleri dell’Ultima cena e della Lavanda dei Piedi vennero sistemati rispettivamente sulla parete laterale sinistra e su quella destra; agli inizi del XVIII secolo, però, la Lavanda fu venduta e sostituita con una copia (oggi l’originale è conservato alla National Gallery di Londra, dove giunse nel 1882); infine nel 1843 i due dipinti vennero invertiti dopo il restauro commissionato da Antonio Florian, probabilmente per assicurare alla Ultima Cena la parete meglio illuminata (Matile, 1996, pp. 158-159 e la scheda 32 in Tintoretto 2007, pp. 304-309). In un suo saggio, recentemente pubblicato, M. Letizia Paoletti, ricostruisce in modo diverso la vicenda, ipotizzando che un dipinto oggi in una collezione privata sia l’originario telero realizzata da Tintoretto per la cappella, danneggiato in seguito al crollo; il quadro oggi esposto in chiesa sarebbe una copia realizzata dallo stesso pittore per la nuova collocazione (Paoletti 2019). In ogni modo, ciò che sappiamo per via documentaria sulla originaria collocazione dei due teleri è pochissimo: si trattava della cappella sistemata “a cornu epistule” rispetto al presbiterio (cioè sul lato liturgico sinistro, ma a destra guardando), che, dopo essere assegnata nel 1543 alla confraternita del Santissimo Sacramento era stata ricostruita mantenendo molto probabilmente le stesse fondazioni e le stesse quote del sacello precedente (secondo l’uso veneziano). La chiesa di cui stiamo parlando era stata costruita dopo l’incendio del 1106 sulle fondazioni di un edificio precedente; incrociando le poche fonti documentarie con l’immagine resa dalla Veduta prospettiva di Jacopo de’ Barbari (1500; fig. 2) si può affermare che fosse costruita su un impianto basilicale (orientato nord-sud) a tre navate, suddivise da filari di cinque pilastri, con un lungo portico esterno che, secondo l’uso veneziano, correva lungo il fianco orientale per affacciarsi verso il canale di San Trovaso (Franzoi, Di Stefano, 1976, pp. 205; Chiesa di San Trovaso, 2007, pp. 5-8).
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Fig. 2 Individuazione dei punti di fuga e delle rispettive rette di orizzonte. Le rette rosse sono riferite allo spazio della mensa, le blu fanno riferimento al fondale di scena; (in basso) vista prospettica del modello 3D e sovrapposizione delle figure (elaborazione G. Liva).
Su questo versante si trovava il campanile (che è stato mantenuto nella ricostruzione) proprio in prossimità della cappella laterale che sarà assegnata alla Scuola del Sacramento (fig. 3). Si trattava di una chiesa grandiosa, descritta da Francesco Sansovino come “amplo, notabile, & di bella apparenza” secondo per dimensioni solo alla cattedrale di San Pietro di Castello, per poter servire non solo a tutto il sestiere di Dorsoduro, ma anche alla antistante isola della Giudecca; insomma, conclude Sansovino, “ella ha sembianza à un certo modo di Cattedrale” (Sansovino 1581, p. 89). Le tre navate, con copertura a capriate, si concludevano con la cappella centrale chiusa da un’abside decorata con un mosaico dorato (“aurea testudo graecanici operis”, Sabellico 1503), e con due
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cappelle laterali chiuse da una parete rettilinea. Per poter dimensionare la chiesa romanica è possibile ipotizzare che nella ricostruzione del 1583 siano state riutilizzate le fondazioni del manufatto preesistente, pur in un impianto planimetrico completamente diverso; la chiesa romanica, allora, avrebbe avuto le dimensioni di ca 49 x 14 mt e, ipotizzando l’uso di un modulo di 347 cm (cioè 10 piedi veneziani), possiamo dimensionare le due cappelle laterali come ambienti a base rettangolare formati da due moduli (quindi di cm 347 x 694). Su questa base, si può ipotizzare che la cappella fosse sopraelevata rispetto alla navata laterale di tre gradini e che la copertura fosse costituita da un soffitto piano (relativamente comune a Venezia per questo tipo di spazi cultuali) posta ad una quota di ca 6 mt dal pavimento. Sempre per via comparativa si può ipotizzare che nella parete di fondo, sopra l’altare, si aprissero due finestre a lancetta e che ulteriori aperture potessero trovarsi soltanto nella parte superiore della parete laterale destra. Una volta ricostruito (su una ragionevole base indiziaria) la conformazione di questo spazio, è possibile ipotizzare la originaria collocazione dei due teleri di Tintoretto in rapporto all’involucro delle pareti e al sistema di illuminazione, e comprenderne meglio l’organizzazione prospettica. La ‘curiosa invenzione’ di Tintoretto: l’Ultima Cena della chiesa di San Trovas (G. L.) L’Ultima Cena dei Santi Gervasio e Protasio (1561-62), definita dal pittore e scrittore Carlo Ridolfi (1594-1658) una ‘curiosa invenzione’ per l’epoca, conserva tuttora aspetti estremamente interessanti per ragionare sul significato della tecnica rappresentativa - scena sacra inserita in un registro di prospettiva lineale - e sul rapporto tra spazio reale e spazio dipinto. Una fonte utile per comprendere maggiormente la composizione del quadro è la stampa di Aegidius Sadeler (1569-1629) che riproduce la scena tintorettiana. È possibile comprendere in maniera più precisa la scenografia architettonica, in particolare le pareti in muratura ed eventuali aggiunte di fasce laterali di tela in seguito alla rintelaiatura del quadro avvenuta nel 1707 (Paoletti 2019, p. 61). Nell’Ultima Cena in esame, telero realizzato in età matura, l’applicazione ‘problematica’ della tecnica prospettica non implica la negazione totale della regola, ma una maggiore libertà che dimostra la consapevolezza tra il rigore dell’impostazione geometrica e la sua personale deroga. A un’apparente coerenza prospettica, l’attento studio condotto in ambiente CAD, rivela l’esistenza di due spazi figurativi che solo apparentemente soddisfano l’occhio, venendo abilmente fusi insieme da opportuni e voluti interventi pittorici. Partendo da un’ortofoto ad alta risoluzione del dipinto e da un’analisi delle possibili matrici geometriche, è stato possibile, mediante la restituzione prospettica, non solo, individuare i centri di proiezione
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Fig. 3 Modelli 3D e schemi prospettici dello spazio della cena e del fondale; (in basso) piante, prospetti, sezioni ottenuti dalle restituzioni prospettiche dei due riferimenti principali (elaborazione G. Liva).
(in questo caso quattro) con le loro rispettive rette d’orizzonte, ma anche ottenere la restituzione planimetrica e altimetrica delle architetture. La presenza multipla di elementi dell’orientazione interna ha portato a ragionare su quali fossero i riferimenti spaziali principali limitando la scelta ai due più significativi; la composizione, dunque, risulta divisa inequivocabilmente in due spazi diversi per contenuto narrativo, architetture dipinte ed esposizione luminosa. Il cinematismo visivo, causato da più riferimenti prospettici trova pace nel volto di Cristo attraverso cui passa la linea verticale ideale che contiene tutti i punti principali, eccetto quello limitato all’arco di fondo che per maggior visibilità mantiene una sua autonomia (fig. 2). Sono state effettuate, di conseguenza, due restituzioni prospettiche: l’una, generata dalla scacchiera pavimentale, per lo spazio della “celebrazione” e l’altra, dal plinto di una colonna presente nel fondale, per lo spazio esterno. Entrambe hanno permesso di ricavare, mediante procedimento omologico, le proiezioni ortogonali e i conseguenti modelli digitali 3D (fig. 3). Dai cloni virtuali sono state verificate le due posizioni dell’osservatore nei rispettivi spazi, la correttezza dello spazio costruito - comparando l’immagine del telero con i render ottenuti dai modelli 3D - e infine un’ipotesi di posizionamento di luci all’interno delle scene Proprio studiando le luci e le ombre proprie e portate dipinte abbiamo verificato, attraverso l’uso del software 3ds max, la presenza di una luce direzionale a raggi paralleli proveniente da destra non visibile e l’aggiunta nel fondale alla prima luce, necessaria per generare le ombre sulla scalinata a confine tra i due registri prospettici, una seconda luce che aumenta l’intensità luminosa complessiva. La ricerca ha, dunque, indagato sul significato di questa duplice illuminazione cercando di trovare una giustificazione per il posizionamento originale del telero. Esso, come la maggior parte delle opere tintorettiane, ha subito rimozioni e ricollocamenti scindendo ogni rapporto concettuale con la funzione liturgica e con le condizioni illuministiche
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presenti alla sua ideazione. Le ipotesi sulla possibile pianta romanica di San Trovaso e sulle originarie dimensioni della cappella del Santissimo Sacramento ha portato a ragionare sull’illuminazione naturale della cappella per capire se Tintoretto possa aver dipinto l’Ultima Cena tenendo in considerazione le caratteristiche dimensionali e luminose del sito. Con molta probabilità la presunta cappella originale poteva avere una coppia di finestre a lancetta sulla parete di fondo e delle finestre o oculi nella parete di destra. Nel telero, concentrandoci sulla mensa e considerando la sua luce presente anche nel fondale, le ombre portate si orientano da destra verso sinistra; nel clone virtuale 3D è stato impostato una sorgente illuminante in grado di soddisfare tale inclinazione. Questa scelta obbliga ad escludere il posizionamento del quadro sulla parete di destra perché non è credibile che la fonte di luce naturale possa venire da una parete opposta a quella delle due finestre a lancetta, laddove ritroviamo l’accesso alla cappella. Anche l’ipotesi della provenienza della luce da probabili oculi sulla parete di destra potrebbe essere veritiera anche se la quantità di luce penetrante sia inferiore rispetto alle altre finestre. Presa in considerazione la parete sinistra per il telero, è stato sostituito ad esso il clone 3D e la luce impostata per le ombre presenta una direzione coincidente con il fascio di luce prossimo alla finestra a lancetta di destra. Con molta probabilità c’era un’ora della giornata in cui la luce naturale filtrava attraverso le vetrate e riusciva ad intensificare il bagliore dipinto da Tintoretto (fig. 4). L’ipotesi di collocamento del quadro sulla parete sinistra giustificherebbe anche il posizionamento della tavola imbandita, elemento centrale della scena. Essa non rispetta l’intelaiatura prospettica principale e presenta un riferimento anomalo e del tutto singolare ma maggiormente giustificabile se si guarda il telero da una posizione scorciata, dal basso verso l’alto sulla parete sinistra dell’originale cappella: la tavola che, da una vista frontale del quadro, appare obliqua e scomposta, da una vista laterale appare più leggibile. Probabilmente il telero veniva visto soprattutto lateralmente, prima dei probabili tre scalini di accesso alla cappella e dunque Tintoretto introduce con maestria una direzione di osservazione totalmente diversa dalle fughe prospettiche: l’occhio del fedele è accompagnato verso il corpo di Cristo dall’apostolo di spalla, dalla sedia rovesciata sul pavimento, dalla tavola… tutti elementi che mantengono la stessa orientazione. La figura di Gesù unisce due posizioni fondamentali di osservazione: quella frontale al quadro (il volto di Cristo raccoglie l’asse dei punti di fuga della prospettiva) e quella scorciata (corpo ruotato verso gli scalini). Abbiamo anche verificato la posizione del punto principale di fuga della prima parte della scena: esso risulta all’esterno della cappella (il punto principale ha una distanza di 5,04 metri, mentre la cappella ipotizzata ha una larghezza ipotetica di 3,12 metri), quindi inaccessibile fisicamente; la sua quota è in funzione della collocazione del quadro in quanto i 3 metri
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Fig. 4 Render dell’ipotetica cappella con la collocazione del telero sulla parete di sinistra; schema delle due direzioni di osservazione del telero: vista laterale e vista frontale; sequenze di viste prospettiche del telero, da una posizione scorciata fino a una posizione frontale (elaborazione G. Liva).
e 60 centimetri dell’occhio prospettico possono variare a seconda della posizione del telero sulla parete. Esso ha dimensioni di 221 x 413 centimetri e il punto principale ha un’altezza dalla linea di terra - limite inferiore della scacchiera pavimentale - di 205 centimetri. A tale quota va aggiunta la distanza del limite inferiore del quadro al pavimento della cappella. L’osservatore, dunque, di fronte al telero risulta più vicino e più basso del punto principale (fig. 4). Il modello virtuale ha dunque permesso di eseguire delle prove, scartando alcune ipotesi e avvallandone altre; non abbiamo documenti scritti che ci informino sulla reale collocazione del telero e sulla sua fruizione, ma sicuramente la
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posizione dei personaggi e il contrasto luce-ombra nel quadro ci suggeriscono informazioni sulla contestualizzazione dei quadri all’interno dello spazio accogliente e sul reale irraggiamento presente nella perduta chiesa di San Trovaso. Non bisogna dimenticare che le reali condizioni luminose, osservate e verificate dal Robusti nella chiesa romanica, siano stati determinanti per un eventuale posizionamento di apparati illuminanti nell’ipotetico, ma verosimile, uso di uno dei suoi ‘teatrini prospettici’ in cui era solito verificare la correttezza delle sue composizioni (Ridolfi, 1648, II, p. 15). Proprio muovendo fisicamente il ‘modellino’ può aver riflettuto sulla percezione frontale e di scorcio della scena e su come poteva filtrare la luce per dipingere la scena. Concludendo, il nostro modello 3D, contemporaneo ‘teatrino’ tintorettiano si è rivelato un prezioso strumento di studio e di indagine che ha permesso di recuperare il significato profondo del dipinto, inteso come ‘luogo’ che non deve essere solo osservato, ma anche compreso, scomposto nei suoi elementi compositivi visivi, in una significativa dialettica con lo spazio accogliente. Bibliografia AA.VV. 2007, Chiesa di San Trovaso Venezia, il Prato, Padova. Cope M.E. 1979, The Venetian chapel of the sacrament in the sixteenth century, PhD dissertation. Falomir M. (a cura di) 2007, Tintoretto, catalogo della mostra, Madrid. Franzoi U., Di Stefano D. 1976, Le chiese di Venezia, Afieri, Venezia. Grosso M., Guidarelli G. 2018, Tintoretto e l’architettura, Marsilio, Venezia. Matile M. 1996, Quadri laterali” ovvero conseguenze di una collocazione ingrata: sui dipinti di storie sacre nell’opera di Jacopo Tintoretto, «Venezia Cinquecento», 6, 12, pp. 151-206. Pallucchini R., Rossi P. 1982, Tintoretto, le opere sacre e profane, Electa, Milano. Paoletti M. L., 2019, La prima redazione dell’Ultima Cena di San Trovaso di Jacopo Tintoretto, in «Arte documento», 35, pp. 52-65. Ridolfi C. [1648], 1914-1924, Le maraviglie dell’arte, [1648], a cura di D. von Hadeln, Berlino. Sabellico M. 1503, De situ Venetiae, Venezia. Sansovino F. 1581, Venetia città nobilissima e singolare, Venezia. Wilde J. 1938, Die Mostra del Tintoretto zu Venedig, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 7, pp. 140-153.
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Fig. 1 Giorgio Vasari, Sala dei Cento Giorni, palazzo della Cancelleria, Roma (1546). In alto: trasformazioni proiettive del modello architettonico della parete ovest rispetto alla collocazione dellâ&#x20AC;&#x2122;osserva-tore; in basso: trasformazioni proiettive del modello architettonico della parete ovest rispetto alla posizione dello spettatore.
per una metodologia di studio delle prospettive architettoniche Leonardo Baglioni, Laura Carlevaris, Marco Fasolo, Jessica Romor, Marta Salvatore, Graziano Mario Valenti
Sapienza Università di Roma, Italia
Matteo Flavio Mancini
Università degli Studi Roma Tre, Italia
Abstract This paper aims to contribute to the definition of a shared methodology for the documentation, analysis and dissemination of Architectural Perspectives. Rooting in PRIN 2010 research titled “Architectural Perspectives: digital preservation, content access and analytics”, the present study is oriented towards the possibility of defining a research line connecting project, experimentation and testing of targeted procedures. The methodology here proposed can be summarized in the following steps: • cognitive approach: defining the methodological path for reduced-scale and real-size perspectives; gathering information concerning the artist and his geometrical skillness; highlighting author’s and patron’s ideas; investigating the relationship between illusory architecture and real space; • acquisition: defining project, experimentation and testing of surveying procedures for the realization of high resolution equirectangular and rectilinear images with metrical value; • interpretation of architectural perspectives: affording critical and interdisciplinary analysis for the evaluation of different interpretations (architectural, geometric, projective and perceptive approach); • scientific dissemination and communication: exploiting new representation tools to communicate results (such as virtual and mixed reality). The study of architectural perspectives represents a central chapter in the history of art, representation and scientific progress; for interpretation, conservation and dissemination of these masterpieces, a synergistic approach is required, where the skills of Drawing area scholars have to to be connected with history and technology as well. Keywords Prospettive architettoniche, quadraturismo, Geometria descrittiva, storia della prospettiva, immagini Gigapixel.
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l’architettura dipinta: storia, conservazione e rappresentazione digitale • s. bertocci, f. farneti
Fig. 2 Stralcio di raccolta documentale relativa al dipinto della finta cupola realizzato da Andrea Pozzo presso la chiesa di Sant’Ignazio a Roma (1685) (a sinistra nella figura).
Il contributo presenta la metodologia sviluppata all’interno del gruppo di lavoro e finalizzata alla documentazione, all’analisi e alla valorizzazione delle prospettive architettoniche1. La proposta trae spunto dagli studi avviati in occasione della ricerca PRIN 2010 coordinata da Riccardo Migliari dal titolo “Prospettive Architettoniche: conservazione digitale, divulgazione e studio” e in seguito perfezionati e verificati su casi studio diversi, per lo più distribuiti sul territorio romano e nelle aree limitrofe, con il duplice obiettivo di arricchire il database relativo alla catalogazione e alla documentazione di tali opere e di sperimentare limiti, vantaggi e possibili sviluppi delle procedure e delle tecnologie messe in campo. Nella consapevolezza della varietà dei valori comunicativi, interpretativi e strumentali, caratteristici della prospettiva alle sue diverse scale e delle peculiarità di queste opere pittoriche, in equilibrio fra atto artistico espressivo e rigore procedurale scientifico, la metodologia qui presentata può essere sintetizzata attraverso una suddivisione per fasi: approccio conoscitivo, acquisizione, interpretazione, valorizzazione. Approccio conoscitivo La qualità più affascinante di una prospettiva risiede nel suo potere di evocare un’illusione, rendendo possibile la visualizzazione di qualcosa che non è presente nella realtà. Quando si parla di prospettive particolari, come quelle che abbiamo definito “prospettive architettoniche” (in seguito PA), il grado di illusione arriva a coinvolgere lo spazio e la dimensione architettonica, ricreando luoghi immaginari e realizzando al loro interno architetture illusorie. 1 La metodologia qui presentata è frutto di molte ricerche su casi studio diversi. Per approfondimenti si rimanda agli esiti di queste ricerche pubblicati dagli autori in Valenti 2014, 2016 e in altri volumi presenti in bibliografia.
per una metodologia di studio delle prospettive architettoniche • l. baglioni, l. carlevaris, m. fasolo, m.f. mancini, j. romor, m. salvatore, g.m.valenti
Quando si affronta lo studio di una PA ci si trova di fronte a vari aspetti che devono essere tenuti presenti e valutati attentamente. Senz’altro è fondamentale conoscere la storia dell’edificio che ospita l’opera ma sono indubbiamente l’autore e l’opera d’arte stessa che suscitano nello studioso quell’interesse sul quale sarà incentrata la sua analisi. Imprescindibile, infatti, risulta la conoscenza della figura culturale e professionale dell’autore; quando si indagano, ad esempio, i cicli affrescati da Vignola nel palazzo Farnese di Caprarola non ci si può esimere dallo studiare i suoi due trattati: Regola delli cinque ordini d’architettura e Le due Regole della prospettiva pratica… In questa fase la ricerca delle intenzioni dell’artista volte a rispondere alle richieste del committente potrà fornire utili indicazioni per formulare ipotesi sull’iter progettuale condotto dall’autore. Particolarmente utili a tal fine possono risultare documenti testuali espliciti o riconducibili ai desiderata della committenza. Così come assumono altrettanta importanza gli schizzi, gli studi preliminari, i bozzetti e i cartoni riferibili all’opera eseguita; si tratta di leggere con attenzione tali documenti e di desumere le indicazioni che illustrano e chiariscono gli intenti progettuali degli artisti (fig. 2). Ultimate queste indagini e ancor prima di entrare nello specifico dell’opera è necessario analizzare il rapporto che si instaura tra l’affresco o gli affreschi e lo spazio fisico in cui sono collocati. Ci riferiamo evidentemente alla relazione che si può stabilire tra l’architettura illusoria e quella reale: la diversa modulazione di questa relazione ci permette di distinguere tra PA che non hanno un preciso rapporto compositivo con lo spazio reale che le accoglie e PA che, invece, mirano a stabilire una continuità unitaria con l’architettura reale. Orseolo Fasolo distingueva tra «prospettive architettoniche di 1° grado» (quelle in cui la relazione con lo spazio reale è meno stretta) e «prospettive architettoniche di 2° grado», realizzate in modo tale da far sì che l’architettura reale e quella immaginaria restituiscano, da un unico punto di vista, un’unica prospettiva di un’unica architettura costituita dall’insieme delle due componenti: l’architettura reale e quella illusoria (Fasolo, 1992). A compimento di queste fasi di approccio all’opera e al suo autore, che sarebbe troppo riduttivo definire “preliminari”, lo studioso ha la necessità di disporre di un modello di studio sul quale condurre opportune e approfondite indagini. Si passa, dunque, alla fase di rilievo, che si configura come attività mirata all’acquisizione degli affreschi e delle superfici che li ospitano. Acquisizione Il rilievo delle superfici dipinte assume una connotazione particolare nell’ambito generale del rilevamento architettonico. In questo tipo di acquisizioni infatti, l’interesse per la plasticità della forma è affiancato dalla ricerca dei caratteri cromatici e materici della pittura, che
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pagina a fronte Fig. 3 Immagini panoramiche in alta risoluzione della Sala di Giove, palazzo Farnese, Caprarola (1562) e mappature tematiche sulla base di modelli tridimensionali Image Based in alta risoluzione della gloria di Sant’Ignazio, Chiesa di Sant’Ignazio, Roma.
definiscono la morfologia del dipinto e il relativo corredo geometrico, costituito dai tracciati e dai segni nascosti della sua costruzione. L’esigenza di acquisizione del colore e di lettura dei tracciati ha indirizzato la ricerca verso metodologie di rilevamento image-based, finalizzate alla costruzione di immagini panoramiche e modelli tridimensionali, da impiegare in funzione della morfologia della superficie che ospita il dipinto. Nel caso di superfici piane è stata sperimentata una metodologia basata sull’acquisizione di immagini panoramiche in alta risoluzione dotate di valenza metrica. Caratterizzate da un consistente contenuto informativo, queste consentono un’esplorazione immersiva e ravvicinata del dipinto in grado di rivelare i segni della sua costruzione, come gli spolveri, le incisioni, le quadrettature o le giornate di realizzazione. La qualità complessiva di queste acquisizioni è definita da diversi parametri che, stabiliti in fase di ripresa, ne misurano la nitidezza e la risoluzione. La valenza metrica è invece ricavata applicando all’inverso il procedimento proiettivo alla base della loro costruzione. Un’immagine panoramica infatti è composta da un insieme di scatti acquisiti da un medesimo centro di proiezione, che sono da immaginarsi come piani tangenti a una sfera ideale di raggio pari alla lunghezza focale impiegata. Questo set di immagini può essere proiettato su una superficie di forma qualsiasi, per esempio un cilindro o una sfera, restituendo proiezioni cilindriche e equirettangolari, oppure su un piano, restituendo una proiezione rettilineare, vale a dire un’immagine prospettica generalmente a quadro inclinato. Fra le infinite prospettive che si possono ottenere proiettando su una superficie piana il panorama ce n’è una che restituisce la vera proporzione della parete da rilevare: quella che meglio approssima la superficie del dipinto, che risulta determinata se è noto, sul panorama, il punto principale della prospettiva, piede della normale condotta dal centro di proiezione alla superficie acquisita. Ottenuta la vera proporzione della pittura, è possibile integrare i dati acquisiti con un rilievo topografico e stabilirne la scala. Questa metodologia risulta efficace anche nell’ambito di indagini multispettrali. Nel caso dei dipinti realizzati su superfici curve come le volte, le immagini in alta risoluzione non risultano del tutto efficaci. La curvatura della superficie che ospita la pittura esige infatti una restituzione tridimensionale metricamente affidabile capace di una risoluzione tale da rendere leggibili i segni della costruzione del dipinto. In questi casi si è operato attraverso rilievi Image-based 3D Modeling, sistematizzando i parametri di qualità della ripresa, con l’obiettivo di elaborare un metodo ripetibile di misurazione della risoluzione complessiva del modello. Le acquisizioni tridimensionali in alta risoluzione del Corridoio della Casa Professa del Gesù e della volta della chiesa di
per una metodologia di studio delle prospettive architettoniche • l. baglioni, l. carlevaris, m. fasolo, m.f. mancini, j. romor, m. salvatore, g.m.valenti
Sant’Ignazio a Roma, hanno consentito la costruzione di mappe tematiche vettoriali ricostruttive delle incisioni presenti sulle superfici acquisite. Le High Resolution Images e i modelli Image based costituiscono, nel loro insieme, una documentazione ottimale per lo studio, la catalogazione e la valorizzazione delle PA e un supporto ideale, nell’ambito della conservazione del patrimonio storico, per monitorare con accuratezza lo stato di conservazione del bene (fig. 3). Interpretazione delle prospettive architettoniche ‘Restituire’ una prospettiva significa ricostruire lo spazio tridimensionale in essa rappresentato. Sulla base delle esperienze condotte è possibile effettuare un’analisi dei problemi che si incontrano più frequentemente durante questa fase interpretativa. Se per “immagine prospettica” intendiamo ciò che viene percepito dall’occhio dell’osservatore che si trova ad ammirare una prospettiva, si ha che a ogni immagine prospettica possono corrispondere infiniti modelli tridimensionali. Quando invece un’immagine prospettica è corredata dal codice simbolico la corrispondenza tra spazio grafico e spazio tridimensionale diviene biunivoca e il modello rappresentato risulta determinato.
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Una restituzione prospettica si articola in due fasi principali. La prima consiste in un’analisi preliminare volta alla lettura e all’individuazione delle caratteristiche principali dell’architettura dipinta; la seconda è relativa all’interpretazione geometrica degli elementi individuati nell’opera e alla loro decodifica su base prospettica. La prima chiave interpretativa a intervenire è quella architettonica. Per mezzo dell’interpretazione architettonica di quanto rappresentato è possibile formulare ipotesi volte al riconoscimento degli elementi che compongono la PA in relazione all’esperienza e alla cultura di chi opera. Infatti, se non fossimo in grado di riconoscere nella quadratura forme che ricorrono nella nostra esperienza visiva quella prospettiva perderebbe molto del suo significato e del suo potere illusorio. Ne consegue una questione notevole: il ruolo fondamentale del modello mentale che si decide a priori di restituire. Senza questo modello, infatti, la restituzione prospettica risulta un problema indeterminato. Inoltre, le PA sono spesso caratterizzate da un’apparente contraddizione per la quale l’osservatore, cioè il centro di proiezione determinato dalla chiave geometrica, non è congruente con la posizione dello spettatore che visita lo spazio in cui l’opera è realizzata. Le relazioni che si instaurano tra osservatore (O’) e spettatore (S’) possono essere di diverso genere, come ad esempio casi in cui osservatore e spettatore sono molteplici ma non coincidenti. Proprio quest’ultima categoria, piuttosto ricorrente, avvia alcune importanti riflessioni. Per meglio comprendere il ragionamento facciamo riferimento al caso emblematico della sala dei Cento Giorni, dipinta da Vasari nel palazzo della Cancelleria di Roma. Nelle quattro quadrature dipinte sulle pareti verticali della sala i rispettivi centri di proiezione si collocano a una quota di circa 5 m dal pavimento, altezza non coerente con quella di uno spettatore che si trovi nello spazio reale. In questi casi, risulta opportuno operare un’analisi critica che confronti lo ‘spazio illusorio realistico’, restituito cioè secondo la chiave geometrica, con lo ‘spazio illusorio surreale’ generato dal mancato rispetto della veduta vincolata. Sono state analizzate quindi le trasformazioni proiettive alle quali è soggetto il modello architettonico realistico durante la dislocazione dell’osservatore verso lo spettatore. In questa traslazione, l’architettura illusoria realistica, subisce una trasformazione proiettiva che la rende anisotropa, assicurando al contempo l’invarianza dell’immagine prospettica (fig. 1). Durante la dislocazione cambia però il sistema di relazioni che lega la quadratura e lo spazio reale della sala: il senso di vertigine che si vive osservando una delle quattro pareti è infatti dovuto all’effetto della pendenza dei piani delle pedate delle scale o del portico illusori, che risultano incoerenti con la giacitura orizzontale. Va osservato che se Vasari
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avesse mantenuto la coerenza geometrica della prospettiva dello spazio illusorio, nell’immagine prospettica il piano orizzontale della scena dipinta sarebbe risultato illeggibile, facendo perdere alla quadratura la sua potenza espressiva. Da queste considerazioni si comprende la necessità di un’analisi critica ampia nella quale non intervenga esclusivamente la chiave geometrica, per non escludere quelle caratteristiche della quadratura che potrebbero invece essere ricondotte a scelte consapevoli dell’artista e che devono inevitabilmente essere tenute in considerazione. Valorizzazione La valorizzazione riguarda sia i risultati della ricerca sia l’oggetto di studio. ‘Valorizzare’ significa soprattutto comunicare, poiché è attraverso una sensibile e accurata diffusione del sapere che la comunità perfeziona la conoscenza del patrimonio culturale e il valore che gli attribuisce. La comunicazione in ambito scientifico ha due obiettivi diversi. Il termine ‘disseminare’ indica i processi di comunicazione fra pari, ove la trasmissione della conoscenza consente di costruire nuova conoscenza. La qualità, la completezza, l’interoperabilità e la stabilità dell’informazione sono le principali criticità di questa comunicazione. Il termine ‘divulgare’ ha invece come obiettivo la diffusione generalizzata della conoscenza, verso un vasto ed eterogeneo pubblico, perseguita necessariamente in forma sintetica, semplificata e accessibile a tutti (fig. 4). I problemi relativi a queste due forme di comunicazione sono diversi e non univocamente risolvibili poiché legati al divario metodologico che esiste fra le ‘scienze dure’ e quelle che impropriamente, per antitesi, sono definite ‘scienze molli’: da un lato il metodo scientifico nel senso “galileiano” e il predominio dei dati quantitativi, raccolti con misure sperimentali ripetibili; dall’altro, dati qualitativi e ipotesi interpretative. Le Scienze dell’Architettura, e fra queste il Disegno, operano frequentemente a cavallo dei due metodi. Nella sua straordinaria complessità, la necessità di trovare un equilibrio fra dati sperimentalmente ripetibili oggettivi e dati di analisi interpretativi soggettivi si manifesta magistralmente nella ricerca sulle PA, presentandosi come un terreno incredibilmente fertile ma altrettanto scivoloso. In questo contesto l’obiettivo della disseminazione richiede un notevole sforzo supplementare durante tutto il percorso della ricerca, ma nel contempo offre un prezioso valore aggiunto, poiché le attività suppletive necessarie si configurano quali ulteriori strumenti di verifica metodologica. Nell’approccio conoscitivo, per esempio, si dovrà classificare e pesare la qualità delle
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Fig. 4 Andrea Pozzo. La gloria di Sant’Ignazio, chiesa di Sant’Ignazio, Roma. Esplorazione immersiva attraverso visore stereoscopico del modello tridimensionale che restituisce la spazialità dell’affresco.
informazioni documentali, strutturarle in un grafico di dipendenza relazionale, evidenziare i nodi cruciali ove le ipotesi interpretative sostituiscono quelle induttive o deduttive, infine avvalersi, se possibile, della ripetibilità sperimentale. Nell’acquisizione, l’obiettivo “disseminazione” può influenzare il progetto di rilievo, attivando processi di perfezionamento procedurali, volti alla verifica e al collaudo di modelli qualitativamente più ricchi, definiti e versatili. I contenuti informativi da cui trae origine la disseminazione sono naturalmente anche le fonti di informazione primaria per la divulgazione. Tuttavia, la varietà delle azioni possibili, derivanti sia dalla eterogeneità dei potenziali destinatari, sia dalla scalabilità dei contenuti, suggerisce metodologie di sviluppo dedicate e collaterali rispetto a quella di ricerca qui illustrata.
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Fig. 1 Orazio Grassi, progetti per Santâ&#x20AC;&#x2122;Ignazio: a. Prospetto, 1628, P.U.G. album n. 20. F. 118v; b. Prospetto, 1627 (o 1642 ca.), B.A.V., Chigi P.VII. 9, f.136v-137; c. Sezione long., 1627 (o 1642 ca.), B.A.V., Chigi P.VII. 9, f.135; d. Sezione trasv.: 1627 (o 1642 ca.), B.A.V., Chigi P.VII. 9, f.136v-137). [2018] Biblioteca Apostolica Vaticana.
il progetto della finta cupola nella chiesa di sant’ignazio a roma Antonio Camassa. Giovanna Spadafora
Università degli Studi Roma Tre, Italia
Abstract The illusionistic painting of the dome in the church of Sant’Ignazio da Loyola is one of the many works of painted architecture in Rome, of the last decades of the 17th century. Given the geometric and spatial structure used, the stylistic coherence within the architectural context, and its extension, represents a significant example of all painted architecture. Our contribution describes some of the results of the ongoing research on the illusionistic domes realized by Andrea Pozzo in Italy. The aim is to shed new light on a central question in the artist’s poetics: the dualism between practical-technique skill and theoretical knowledge. We, in fact, know much about him as an artist but little as an architect. The study was prompted by a preliminary analysis of the perspective methods, which Pozzo describes in his treatise (1693-1700), followed by a graphical-geometric analysis of the painting. In order to understand how much the perceptive effects sought by Pozzo are an expression of sensitivity to the architectural context, a 3d model of the dome was elaborated, with the sole purpose of evaluating the spatiality, via an acceptable approximation, implied by Pozzo in the painting and the lexical coherence with the whole architecture. Keywords Andrea Pozzo, Chiesa di Sant’Ignazio a Roma, finta cupola, prospettiva, restituzione prospettica
Introduzione Lo studio della finta cupola che Andrea Pozzo, nel 1685, realizza all’interno della chiesa di Sant’Ignazio a Roma prende in esame gli aspetti geometrico-costruttivi dell’illusione prospettica, allo scopo di ricostruire la conformazione dello spazio architettonico raffigurato. L’obiettivo più ampio, all’interno del quale si inserisce questo lavoro, è quello di indagare la figura di Andrea Pozzo architetto attraverso l’analisi delle sue cupole finte1 per valutare se 1 Le finte cupole che la storiografia attribuisce alla mano di Andrea Pozzo, oltre a quella nella chiesa di Sant’Ignazio, sono la cupola della Badia delle Sante Flora e Lucilla ad Arezzo (1702) e quella nella Jesuitenkirche a Vienna (1704). Le finte cupole nella chiesa del Gesù a Frascati (1701) e Montepulciano (1703) sono da attribuirsi alla mano dell’allievo Antonio Colli su progetto di Andrea Pozzo.
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gli aspetti formali che le caratterizzano possano essere messi in relazione con una idea di progetto preordinata e coerente, di volta in volta, con gli invasi sottostanti. Nello specifico, abbiamo quindi ripercorso la storia della costruzione della chiesa di Sant’Ignazio a Roma e analizzato i disegni, pianta e sezione longitudinale, eseguiti da Andrea Pozzo e pubblicati nel primo volume del suo Perspectiva pictorum et architectorum (figure Novantesimaterza e Novantesimaquarta) pubblicato nel 1693. La chiesa di Sant’Ignazio a Roma e il progetto della cupola La realizzazione di una cupola finta sulla crociera della chiesa di Sant’Ignazio a Roma origina dalle complesse vicende che hanno riguardato la progettazione e la costruzione dell’edificio che avrebbe dovuto celebrare il pontificato Ludovisi. Le fonti bibliografiche2 riferiscono di una progettazione “collettiva” e di una soluzione finale che prende corpo contemperando le proposte formulate da diversi architetti3, invitati di volta in volta dai Padri Gesuiti a proporre le loro idee. Il disegno della facciata (fig. 1a), eseguito da Orazio Grassi e approvato nel 1628, due anni dopo la posa della prima pietra, è conservato alla Pontificia Università Gregoriana4 e mostra un prospetto scandito da 5 campate, con due registri sovrapposti di uguale larghezza, e un coronamento caratterizzato da una balaustrata interrotta da un timpano, che sovrasta le tre campate centrali. In questo disegno non compare la cupola che invece Orazio Grassi disegna in ulteriori quattro fogli, conservati alla Biblioteca Apostolica Vaticana5. Essi raffigurano il prospetto principale (fig. 1b), quello laterale e due sezioni, una longitudinale (fig.1c) e una trasversale (fig.1d). La facciata conserva i due registri sovrapposti di uguale larghezza ma senza timpano centrale, ed è coronata da una balaustra orizzontale, continua lungo tutto il corpo di fabbrica (fig. 1). La sezione mostra la conformazione interna della cupola, a doppia calotta, e la scansione del tamburo nel quale le finestre sono intervallate da coppie di paraste corinzie in lieve aggetto, poste su un alto basamento. Tali disegni sono stati datati6 al 1643 e interpretati come la volontà di ribadire un’idea progettuale precisa, incentrata sulla continuità della balaustrata orizzontale e sulla presenza di una cupola svettante su un tamburo interamente visibile7. Si veda in proposito, tra gli altri, Bellori (1672). Gli storici danno per certo il coinvolgimento di Domenico Zampieri (il Domenichino), Carlo Maderno e Francesco Borromini. 4 Collocazione P.U.G. album n. 20. F. 118v. La datazione del disegno è stata ipotizzata da Richard Bösel (Bösel, 2004). 5 Collocazione: B.A.V., Chigi P.VII. 9, f. 135-136v-137. 6 I disegni sono stati datati da Frey al 1643-1645, come riportato in Bösel (2004, p. 11 nota 26). 7 Orazio Grassi realizza questi disegni accogliendo, in parte, i suggerimenti contenuti nella perizia redatta dalla 2 3
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La costruzione della chiesa proseguì sotto la guida di Antonio Sasso, il fratello gesuita incaricato di seguire il cantiere in assenza di Orazio Grassi, che apportò autonomamente altri e più sostanziali cambiamenti8 al progetto originario. Orazio Grassi, rientrato a Roma nel 1650 e constatato come le osservazioni e i consigli che aveva espresso, in merito alla costruenda fabbrica in una nota del 16459, fossero stati disattesi, redige un nuovo rapporto10 nel quale oltre a nuove raccomandazioni di carattere generale, scrive: Si manderà il disegno del nuovo, col quale si potrebbe farla Cuppola, si che di dentro comparisse, e realmente fusse Cuppola, e di fuori fusse come un maschio di fortezza, con variare dall’usanza comune, […] e con alzarsi molto meno, saria di minor danno all’aria del Collegio e de’ vicini, e saria cosa nova, e molto vaga, perche accompagnerebbe meglio il resto della fabrica.
La decisione di modificare il progetto della cupola nasceva dalla considerazione, espressa nella citata perizia del 1645, che qualora realizzata come nel progetto iniziale da lui stesso proposto, sarebbe risultata affogata e coperta per via della maggiore altezza che avevano assunto sia il prospetto che i muri laterali della chiesa. È a questo punto che si susseguono una serie di consultazioni11 che riguardano specificamente il tentativo di trovare una soluzione al problema della costruzione della cupola, che culminano diversi anni dopo, nel 1685, nella decisione di realizzare una cupola finta12, temporanea, in attesa di un progetto convincente. Andrea Pozzo dipinge la finta cupola in poco più di un mese, tra le perplessità di chi non immaginava che avrebbe effettivamente portato a buon fine un’impresa tanto audace (Baldinucci, 1725). Nel 1693, quando pubblica il primo volume del suo Trattato (Pozzo, 1693), inserisce le figure Nonantesima e Nonantesimaprima relative alla costruzione della cupola in prospettiva di sotto in su e alle figure Nonantesimaterza e Nonantesimaquarta riporta la “Pianta geometrica della Chiesa di S. Ignazio di Roma e la Elevatione geometrica”. Nel breve testo che introduce la descrizione della Elevatione, ovvero della sezione trasversale, aggiunge “vi ho messa altresì la cupola conforme l’idea dell’Autore; la quale non essendo
commissione chiamata, nel 1642, a decidere sul progetto della chiesa. Per le modifiche proposte si veda ARSI, Roma 149, f. 126, Rapporto degli architetti Orazio Torriani, Giovan Battista Soria e Paolo Maruscelli, 28.III.1642. Una trascrizione è in Bösel (1985). 8 L’elenco delle modifiche apportate da Antonio Sasso si può leggere in una perizia scritta da Orazio Torriani e Martino Lunghi (ARSI, Rom. 149, ff. 111-115), i quali giudicano tali “transgressioni degne di ogni emenda”. 9 Si veda ARSI, F.G. 1245, fasc.I., Rapporto di Orazio Grassi, 1645. 10 Si veda ARSI, F.G. 1245, fasc. 1, f. 4ff, Rapporto di Orazio Grassi, 5, XII. 1650. 11 Tra gli altri, Gianlorenzo Bernini, interpellato in merito al progetto iniziale di Orazio Grassi esprimerà le sue perplessità sulla distanza tra le due calotte, criticando anche il fatto che il lanternino, interno alla calotta esterna, non prendesse luce diretta. A proposito della cupola inclusa nel tamburo: “ Non biasima il ripiego del solo tamburo senza cuppola esterna, mà il disegno fatto non li piace, non stimando bene che apparisca il lanternino nel mezzo”. Cfr. B.A.V., Vat. lat. 11257, f.112, 1651); viceversa, Francesco Borromini “lodò il pensiero del tamburo proposto dal Padre Grassi […]”. Cfr. BAV, Vat. lat. 11257, f. 114, 1651. 12 Sulla storia della finta cupola si veda Montalto, 1962.
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Fig. 2a Bozzetto dipinto da Andrea Pozzo nel 1683 e conservato presso l’archivio della Galleria Nazionale d’Arte Antica a Roma – Palazzo Barberini, (inv.1425) Fig. 2b Il dipinto della finta cupola del 1685 all’interno nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma. Fig. 2c Disegno estratto dalla tavola Nonantesimaprima del primo volume del Trattato.
ancora fabbricata in luogo d’essa ho appoggiato il telaro in A e B per la cupola dipinta di cui trattammo nelle figure 90 e 91”. Di fatto la pianta disegnata da Pozzo non corrisponde, nell’articolazione degli elementi lungo il prospetto principale, a quanto era stato realizzato, ma riprende la pianta13 incisa da Giovanni Giacomo De Rossi nell’opera Insignium Romæ Templorum Prospectus, edito nel 1683. Pozzo vi aggiunge, però, la proiezione delle volte e quella della cupola. Ugualmente in sezione, la facciata, la conformazione del tetto, e conseguentemente la posizione della cupola, confrontate con il progetto di Grassi e valutate considerando quanto fosse stato già realizzato, lasciano aperte una serie di domande che verranno affrontate nel prosieguo della ricerca. I disegni della cupola di sotto in su descrivono nel primo e nel secondo volume due distinti metodi per la costruzione prospettica e, nelle parole di Pozzo, rappresentano un esempio al quale riferirsi nel caso la cupola dipinta nella chiesa di Sant’Ignazio disgraziatamente si guastasse. I disegni per la finta cupola di S. Ignazio da Loyola in Roma L’articolazione architettonica della finta cupola Lo studio del disegno della finta cupola è partito dal confronto tra il bozzetto dipinto da Andrea Pozzo nel 1683 e conservato a Roma presso l’archivio della Galleria Nazionale d’Arte Antica a Palazzo Barberini, la finta cupola dipinta dall’autore nel 1685 all’interno nella chiesa di Sant’Ignazio e la tavola Novantesimaprima del primo volume del Trattato, pubblicato nel 1693, raffigurante la “Cupola in 13
Una disamina dei disegni in pianta della chiesa è in Bösel, 2004.
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prospettiva di sotto in su coi suoi chiari e scuri”. La sezione con un piano orizzontale, passante per la base delle calotte, ha permesso di estrapolare la spaziatura angolare dei costoloni lungo la circonferenza di base e constatare come, nel bozzetto preparatorio (fig. 2a) e nel dipinto (fig. 2b)14, Pozzo utilizzi uno schema di partizione angolare (50°-40°) con gli angoli maggiori posti in asse con l’osservatore. La finta cupola disegnata nel Trattato (fig.2c) propone invece uno schema distributivo dei costoloni secondo l’alternanza di angoli di 30° e 60°, e presenta un disegno semplificato nella distribuzione dei cassettoni. Confrontando il bozzetto preparatorio e il dipinto sono di interesse le differenze nel tracciamento delle curve dei costoloni all’intradosso della calotta. Nel dipinto, le curve dei costoloni disegnate per i settori laterali, che per costruzione dovrebbero essere porzioni di ellisse come è approssimato in maniera verosimile nel bozzetto, appaiono infatti poco slanciate. La differenza principale tra i dipinti (bozzetto e tela) e il disegno del Trattato si riscontra nella maggiore altezza del tamburo ravvisabile in quest’ultimo. Ciò è da imputare in primo luogo ad una diversa disposizione spaziale degli elementi propri del metodo prospettico, rispetto a quella utilizzata nei dipinti, ma anche all’uso di un ordine architettonico più slanciato. Mentre, infatti, il tamburo della cupola raffigurato nel bozzetto e nel dipinto è proporzionato secondo l’ordine ionico, nel Trattato l’ordine è quello corinzio, ispirato alla scansione proposta da Jacopo Barozzi da Vignola (1507-1573)15. Con ogni probabilità, Pozzo lo utilizza nel suo disegno prospettico in coerenza con la tavola Nonantesimaquarta del Trattato, in cui è disegnata la “Elevazione geometrica della chiesa”, nella quale il tamburo, ascrivibile al progetto di Orazio Grassi, è proporzionato proprio secondo l’ordine corinzio. Si noti inoltre come, nella cupola del Trattato, il tamburo abbia una scansione formale semplificata rispetto al dipinto. Appare plausibile, in considerazione della finalità dimostrativa del Trattato, che Pozzo riduca il numero di colonne rispetto a quelle rappresentate nella tela della chiesa di Sant’Ignazio, in favore di un’articolazione meno complessa. Elementi per una restituzione prospettica del dipinto Andrea Pozzo, nella descrizione della tavola Nonantesima relativa alla costruzione della “Cupola di sotto in su”, dispone con precisione gli elementi della genesi spaziale, fornendo preziose informazioni per la loro individuazione nello spazio. AB è la linea del piano, CD è l’orizzontale, AD la perpendicolare. O è il punto dell’occhio, D è quello della distanza: onde questa figura deve haver sopra l’occhio l’altezza DO. Il punto L’immagine nella figura 2b è quella ottenuta dal rilievo fotogrammetrico effettuato nell’aprile 2016 e dalle successive elaborazioni. 15 Il proporzionamento degli ordini architettonici è stato desunto dai disegni alle figure 49 (ordine ionico) e 51 (ordine corinzio) del primo volume del Trattato. 14
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Fig. 3 Restituzione prospettica della sezione della cupola del Trattato e confronto con la descrizione dell’ordine architettonico fornita dallo stesso Pozzo nella figura Cinquantesimaprima del primo volume del Trattato.
dell’occhio l’ho messo fuori dell’Opera, accioché quei che la mirano si stracchino meno, e si scopra più d’architettura e d’artifitio; il che non seguirebbe se la veduta fosse nel mezzo.
A partire da questa descrizione è stata ricostruita la sezione verticale della cupola disegnata nel Trattato e da questa dedotto il proporzionamento dell’ordine architettonico del tamburo (fig. 3). Dalla tela dipinta nella chiesa di Sant’Ignazio, però, non è possibile rintracciare univocamente la distanza principale usata da Pozzo nella costruzione della prospettiva (Baglioni, Salvatore, 2018). Pertanto, nell’impostare la restituzione prospettica della tela si è deciso, avendo a disposizione il rilievo16 laser scanner dell’interno della chiesa, di posizionare nel modello prospettico il punto di vista nel punto preferenziale della visione, indicato sulla pavimentazione della chiesa. Si è poi constatato che il procedimento prospettico descritto nel Trattato contempla più volte la figura umana per dimensionare l’altezza del punto di vista. Nel commento alla figura Prima contenuta nel primo volume, Pozzo descrive un Huomo per i cui occhi passa “la linea N.O.N., chiamasi linea orizzontale, in cui si pone O punto dell’occhio, e N punto della distanza”. Appare quindi verosimile l’ipotesi che, nella fase di impostazione della prospettiva della finta cupola, Pozzo abbia effettivamente collocato il punto di vista ad una altezza di un Huomo dal pavimento. La distanza principale (ovvero la distanza tra l’osservatore e il quadro) è stata quindi dedotta per differenza, considerando che in ogni caso, piccole 16
Il rilievo è stato eseguito nell’aprile 2016 con stazione laser Z+F modello Imager 5010x.
il progetto della finta cupola nella chiesa di sant’ignazio a roma • antonio camassa, giovanna spadafora
variazioni dell’altezza del punto di vista non modificano la distanza principale (che misura più di 30 metri) in maniera tanto determinante da incidere sull’immagine prospettica che si ottiene. La posizione del “punto dell’occhio” sul dipinto è stata facilmente individuata all’intersezione delle linee che, tratteggiando gli elementi architettonici verticali e perpendicolari al piano di quadro, convergono nel punto di fuga O0. Nel modello spaziale dell’impianto architettonico si è potuto verificare che la proiezione a terra del punto di fuga O0 coincide con il punto sul pavimento, utilizzato, come descritto alle righe precedenti, per impostare la posizione del punto di vista. Partendo da questi elementi e ripercorrendo a ritroso i passaggi che Pozzo usa per costruire la cupola di sotto in su, è stata ottenuta la sezione della cupola dipinta. Il modello della finta cupola Al fine di comprendere quanto gli effetti percettivi ricercati da Pozzo, “il modo di congiugnere il finto col vero”, siano espressione della sensibilità al contesto architettonico, è stato elaborato un modello tridimensionale della cupola (fig. 4), col solo scopo di valutare, con una accettabile approssimazione, la spazialità suggerita da Pozzo nel dipinto e la coerenza lessicale con l’architettura dell’invaso sottostante. L’ortofoto ad alta risoluzione della tela17 è stata ridisegnata trasformando ogni curva visibile del dipinto in una linea vettoriale, ponendo particolare attenzione a non alterare la geometria della composizione e cercando di interpretare al meglio le consistenze materiche delle pennellate e gli effetti chiaroscurali. Per assicurare all’architettura modellata la giusta proporzione, è stato studiato preliminarmente il disegno degli ordini architettonici che Pozzo descrive nelle prospettive del Trattato. L’autore infatti richiama nelle descrizioni del metodo prospettico l’architettura di Jacopo Barozzi da Vignola, “come forse la più usata”. L’ordine del tamburo quindi è stato proporzionato secondo le indicazioni della figura Quarantesimanona, in cui descrive la “Elevazione geometrica di una fabrica Jonica”. Per la costruzione del modello è stata imposta la collimazione tra i punti del dipinto e il punto di vista, così da ottenere la migliore sovrapposizione tra l’immagine e il modello stesso. Gli scarti visibili dalla sovrapposizione dell’immagine al modello sono da ricondursi all’approssimazione propria del metodo del best-fit, data dal reiterarsi di numerose configurazioni possibili, fino all’individuazione di quella che meglio soddisfa le condizioni imposte. 17
Cfr. nota 19.
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Fig. 4 Restituzione prospettica della sezione della cupola della chiesa di Sant’Ignazio. Modello tridimensionale della finta cupola con sovrapposizione dell’immagine vettoriale ottenuta dal ridisegno del dipinto; dettaglio dell’arco nascosto dalla trabeazione.
La finta cupola così modellata ha messo in luce alcune approssimazioni operate nel dipinto, che Pozzo ha evidentemente tralasciato, confidando nell’effetto d’insieme e consapevole che l’opera sarebbe stata ammirata da più di trenta metri di distanza. In particolare, emerge come Pozzo abbia ridotto la profondità della trabeazione in corrispondenza dell’arco sull’asse centrale, poiché altrimenti questo ne sarebbe risultato nascosto alla vista. Si noti, ancora, come la mensola in chiave sia stata aggiunta solo sul dipinto, mentre non si rintraccia nel bozzetto preparatorio, dove compare invece la stessa incertezza sul disegno dell’arco. Il disegno del Trattato, al contrario, prevede l’effettiva soluzione del problema compositivo, rispettando lo spessore della trabeazione seppur mantenendo la presenza della mensola. Appare singolare la profondità degli ambienti restrostanti l’arco, poco rapportabili all’architettura sottostante. La modellazione tridimensionale ha permesso inoltre di approfondire il rapporto tra le differenti curvature della calotta e dei costoloni. Nel prosieguo della ricerca si proverà ad approssimare la configurazione di questi elementi in modo da darne una migliore descrizione architettonica e definizione geometrica.
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Bibliografia Baglioni L., Salvatore M. 2018, Un modello per le finte cupole emisferiche di Andrea Pozzo, in R. Salerno (a cura di), Rappresentazione/Materiale/Immateriale, Atti del 40° Convegno Internazionale dei Docenti delle Discipline della Rappresentazione, Gangemi, Milano, pp. 553-562. Baldinucci F.S. 1912, La vita del padre Andrea Pozzo (manoscritto del 1725-30 circa), in E. Benvenuti (a cura di), Atti della Imperial Regia Accademia di scienze, lettere ed arti degli Agiati in Rovereto, XVIII, pp. 207-237. Bösel R. 1985, Jesuitenarchitektur in Italien (1540-1773),Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, Vienna. Bösel R. 2004, Orazio Grassi: architetto e matematico gesuita, Argos, Roma. Bösel R., Insolera L.S. 2009, Mirabili disinganni. Andrea Pozzo pittore ed architetto gesuita, Artemide, Roma. De Feo, V., Martinelli V. 1996. Andrea Pozzo. Electa, Milano. Fasolo M., Mancini M.F. 2018, Andrea Pozzo “architetto” e il suo progetto “architettonico” per la volta della chiesa di Sant’Ignazio, in R. Salerno (a cura di), Rappresentazione/Materiale/Immateriale, Atti del 40° Convegno Internazionale dei Docenti delle Discipline della Rappresentazione, Gangemi, Milano, pp. 553-562. Montalto L. 1962, La storia della finta cupola di Sant’Ignazio, «Capitolium», XXVII, n. 6, 397. Pozzo A. 1693, Perspectiva pictorum et architectorum. Pars prima, Joannis Jacobi Komarek Bohemi, Roma. Pozzo A. 1700, Perspectiva pictorum et architectorum. Pars secunda, Joannis Jacobi Komarek Bohemi, Roma. Spadafora G., Camassa A. 2017, La finta cupola di Sant’Ignazio da Loyola a Roma – Una ricerca in corso, «Ricerche di Storia dell’arte: Arti visive, Conservazione e restauro», n. 122, pp. 96-105.
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Fig. 1 Disegno riportato nel Trattato di Andrea Pozzo (Parte Prima, XXXIII immagine).
l’influenza di andrea pozzo nello stato di minas gerais, brasile Maria Cláudia A. Orlando Magnani
Università di Diamantina, Brasile
Abstract In the town then known as Arraial do Tijuco (now Diamantina), in the state Minas Gerais in the eighteenth century, José Soares de Araújo, an artist from Braga, Portugal came to live and eventually became one of the most intriguing figures of colonial painting. From recent research, we know that he was an exquisite illusionist painter, a complete artist skilled in different artistic media and an influentialman in his day. He is thought to have been broadly educated in thearts in his homeland, as he was able to play many erudite roles inthe colony. Although from a family of scarce means in Braga, hebecame quite wealthy and socially mobile in the colony, ascendingthe social ladder through spheres usually thought insurmountable.He is credited for bringing the technique of faux architecture ortrompe l’oeil to the painting of the Tijuco region, in a way unsurpassedin Minas Gerais. This work attempts to demonstrate, through aphotograph of a painting in Braga Cathedral that no longer exists, the possible influence of Minho painter Manuel Furtado and of the Jesuit Andrea Pozzo in the pictorial art of José Soares de Araújo. Keyword Baroque, Quadraturism, Colonial Art
Nella pittura coloniale brasiliana, chiamata anche “pittura luso-brasiliana”, ci sono diversi esempi di falsa architettura, uno di questi è rappresentato dall’opera del pittore portoghese José Soares de Araújo, nato nella città di Braga nel 1723 e morto a Diamantina, nello stato brasiliano di Minas Gerais, nel 1799. Questo artista, che divenne nel corso della sua vita una delle figure più stimolanti della pittura coloniale portoghese, non solo fu un significativo pittore illusionista ma, come è emerso da una recente ricerca, anche un artista completo, in quanto abile in diverse forme di arte, nonché un uomo influente nel panorama del suo tempo, esercitando molti ruoli nella colonia al di là dell’Atlantico. Nonostante provenisse da una famiglia di poche risorse divenne ricco, effettuando una scalata sociale, circostanza per quei tempi non usuale.
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José Soares de Araújo portò a Diamantina una pittura quadraturista unica nella regione di Minas Gerais, circostanza che ci porta a domandare sulla sua formazione, sulle sue influenze e sui fattori che potrebbero aver determinato le sue scelte artistiche. È presumibile che la sua formazione sia avvenuta a Braga, probabilmente presso i padri gesuiti, responsabili della diffusione della scienza in Portogallo; la loro influenza sulle arti fu molto significativa non solo a Lisbona ma anche in altre città come Coimbra ed Évora. A Braga in particolare i gesuiti presiedettero all’istruzione universitaria nel Collegio di San Paolo fino al 1759, quando furono espulsi dal Portogallo. È presumibile, dunque, che José Soares mentre viveva a Braga abbia avuto contatti con questi religiosi e le loro opere, tenuto conto dell’analogia che si può cogliere tra i suoi dipinti e il Trattato di Pittura e Architettura del gesuita Andrea Pozzo (Silva, 2012). Se nei dipinti di José Soares de Araújo si possono solo percepire le influenze del trattato di Pozzo, una ulteriore prova la troviamo nell’inventario del suo allievo Caetano Luís de Miranda, dove in una vasta lista di merci e di libri è presente un trattato di pittura e architettura, in due volumi, che per il prezzo e le caratteristiche potrebbe essere identificato con quello del gesuita trentino1. Nonostante le ricerche portate avanti per ottenere informazioni sulla permanenza di José Soares de Araújo nella sua città natale, l’unico documento trovato è stato il suo certificato di battesimo nella chiesa di San Vittore, in cui è riportata l’informazione relativa all’abitazione della famiglia Soares de Araújo al momento della sua nascita e, sebbene non esista una definizione del suo ceto sociale, tuttavia è possibile determinarla dall’aspetto esteriore della casa. Nella strada in cui vivevano non c’erano edifici corrispondenti a quelli dei mercanti più ricchi, per cui questa informazione è sicuramente indicativa della situazione socio-economica della sua famiglia. Le case erano basse e piccole, del tipo chiamato “porta-finestra” e solo le persone di basso ceto sociale potevano vivere lì. Non sono state trovate informazioni sulla sua formazione artistica o documenti che lo collegano ad altri artisti o ad altri linguaggi artistici, né è stato identificato alcun documento relativo al suo trasferimento in Brasile; la considerazione che avesse avuto una formazione artistica prima del suo trasferimento nella colonia è solo suggerita dalla raffinatezza della sua pittura e dall’esclusività di alcune caratteristiche estremamente erudite uniche nel Minas Gerais. 1 Il documento è conservato nella BAT – Biblioteca Antônio Torres – Inventario – maço 175 – 2º Ofício – 1837 – Caetano L. de Miranda, p. 169.
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È noto che a Braga, nel diciottesimo secolo, accanto ad una notevole attività commerciale esistessero numerose botteghe artistiche, dove si può supporre che José Soares de Araújo si sia istruito come artista poliedrico (Magnani, 2013); infatti non solo fu pittore ma anche doratore, intagliatore e architetto. È la comprensione della società di Braga del XVIII secolo che può fornirci alcuni indizi interessanti sulla vita dell’ artista nella sua città natale. A quell’epoca Braga, che contava circa 24.000 abitanti, ospitava la più antica diocesi portoghese e gli arcivescovi, fino al diciottesimo secolo, svolgevano un ruolo molto importante (Bandeira 1993). La città era anche il centro della regione più popolata del Portogallo e in questo contesto l’arte nei suoi diversi linguaggi e manifestazioni aveva una notevole importanza. Significativa nella vita di José è la prima registrazione rintracciata in Brasile, datata 15 aprile 1759, che denota una differenza notevole fra la vita da lui condotta in madrepatria e quella nella colonia. Si tratta della presentazione del suo brevetto come fratello nell’Ordine Terza di Nostra Signora del Carmine, un ordine a cui appartenevano i membri del ceto benestante2. Qualche anno più tardi, nel 19 agosto del 1766, ricevette anche la carica di sostituto del comandante della Guardia delle miniere, o Guardia mor, una funzione creata dalla corona portoghese nel 1679., ruolo che dava un particolare potere nel rilasciare concessioni minerarie (Salgado, 1985). Significativo è anche il suo testamento, che riporta la data del 20 aprile 1789, conservato nella Biblioteca Antonio Torres di Diamantina, dove viene riferito che il pittore era nato nella città di Braga, era figlio legittimo di Bento Soares e Tereza Araújo ambedue già deceduti, e che non si era mai sposato né aveva avuto figli; il documento elenca inoltre i suoi bene: case, una fattoria, una coltivazione e un campo ma anche il possesso di 22 schiavi, tra cui un pittore di nome João Camundongo e un doratore chiamato Vidal Mulato Nelle sue opere pochi elementi indicano chiaramente le caratteristiche tipiche della pittura di Braga. È proprio di uno di questi pochi ma eloquenti elementi che ci occuperemo qui. La difficoltà di individuare i dipinti di quel tempo va oltre il divario documentario. Come abbiamo detto Braga era una città molto ricca e sede di un arcivescovado di grande importanza e fra gli arcivescovi di Braga vi furono anche membri della famiglia reale3. 2 Il documento è conservato nell’ Archivio dell’Ordine Terza di Nostra Signora del Carmine, a Diamantina, nel Libro dei fratelli professi, p. 5v. 3 Informazioni sul sito web della diocesi di Braga: http://www.diocese-braga.pt/historia accesso del 5 maggio 2018;
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Fig. 2 Confronto tra la fotografia a destra (eseguita da Manuel Carneiro) che raffigura l’alto coro della cattedrale di Braga, dipinto da Manuel Furtado, e il disegno di Andrea Pozzo, Preparatory drawing for the Sant’ Ignazio vault fresco, 1685-90, National Gallery, Washington.
Conseguenza di questa ricchezza e importanza politica è stato il continuo rinnovamento artistico dei beni monumentali per adeguarli alle varie mode del momento, in un’epoca in cui ancora non esisteva una concezione conservativa. Così è avvenuto che i soffitti delle chiese di Braga in gran parte non hanno conservato le decorazioni pittoriche del periodo barocco o rococò e, questo, ha limitato la possibilità di comprendere quali sono stati i tipi di dipinti che esistevano nelle epoche precedenti. Quali dipinti può aver visto dunque José Soares de Araújo che potrebbero aver influenzato la sua opera? Un fatto certo è che la scelta artistica di José Soares è stata la pittura murale a finta architettura, ovvero il quadraturismo. È questo genere pittorico, con il conseguente e deliberato inganno dell’occhio, che il pittore di Braga ha portato a Diamantina, dove gli effetti monumentali e di dilatazione dello spazio reale propri della quadratura sono legati all’affermazione e all’imposizione del potere. Dall’altra parte dell’Atlantico il quadraturismo fu sempre associato alla necessità dell’apprezzamento pubblico di cui avevano bisogno gli ordini religiosi e alla loro intenzione di affermare la superiorità dell’uno sull’altro. Si può quindi ritenere che la scelta di José Soares de Araújo abbia come fattore determinante la rivalità tra gli ordini religiosi esistenti nel mondo coloniale (Raggi, 2012). A Braga, come già rilevato, il rinnovamento è stato possibile a causa dell’importanza e della ricchezza della sua arcidiocesi, motivo per cui ben poco si è conservato dei dipinti dei soffitti delle chiese del periodo in cui visse José Soares de Araújo. Nonostante ciò una fotografia, eseguita da Manuel Carneiro nel 1903 c., ancora conservata nell’ archivio del Museo Nogueira da Silva a Braga, raffigura il soffitto del coro superiore della cattedrale di quella città. La decorazione pittorica ad illusionismi architettonici lì rappresentata, realizzata da Manoel Furtado de Mendonça tra il 1737 e il
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1738, è andata putroppo perduta insieme al soffitto intorno al 1960, però nonostante la scarsa qualità dell’immagine, si può cogliere l’affinità tra il disegno e la volumetria delle false trabeazioni del dipinto della cattedrale di Braga, con il dipinto della navata centrale della chiesa di Nostra Signora di Carmo (dipinto da José Soares) e alcuni disegni di Andrea Pozzo, sia quello del Trattato sia quello che si trova alla National Gallery di Washington (fig. 2). Si possono citare altre analogie, come l’uso di coppie di colonne, presenti sia nei dipinti di José Soares che nella produzione pittorica di Pozzo. A differenza di quanto accadde in Italia, dove le regole sistematizzate nel trattato del gesuita sono mantenute come modello esemplare per il quadraturismo, in Portogallo la nuova grammatica della quadratura, l’interesse per la dilatazione dello spazio (Mello, 1998) si integrano con la tradizione pittorica del luogo esplicitata dal mantenimento della compartimentazione degli spazi e l’uso del quadro riportato, caratteristiche queste del brutesco, uno stile diffuso in Portogallo precedentemente. Questa è la caratteristica della ingannevole macchina architettonica dipinta sul soffitto del coro alto della cattedrale di Braga, dove la falsa architettura convive con i quadri riportati al centro. L’alto coro della cattedrale fu realizzato tra il 1728 e il 1741 quando furono portati avanti significativi lavori: mentre le mura esterne mantenevano la struttura medioevale e rinascimentale, l’interno fu profondamente modificato; le pareti laterali furono parzialmente ricoperte da piastrelle, furono inserite numerose pale d’altare e vennero dipinti tutti i soffitti. Nessun intervento successivo ha modificato le opere del coro alto che, comunque, non hanno ricevuto neppure lavori manutentivi o conservativi Per questo motivo, non sorprende che nel marzo del 1960 il grande soffitto del coro alto sia crollato, portando con sé l’enorme dipinto di prospettiva architettonica di Manuel Furtado de Mendonça e che solo la fotografia degli inizi del XX secolo ci fa conoscere. Non c’è memoria scritta di questo dipinto. Nel 1970 lo storico nordamericano Robert Chester Smith (1912-1975), grande studioso dell’arte portoghese e dell’ arte coloniale brasiliana, ha fatto riferimenti superficiali al dipinto, aggiungendo poi in una nota che il suo autore non era noto (Smith, 1970). Dopo questa informazione l’unica pubblicazione che rimanda esplicitamente alla pittura perduta è una guida molto recente che lamenta la sua perdita (Oliveira, 2015). Il soffitto, dopo il crollo, è stato consolidato e coperto da un semplice intonaco bianco. Alla fine degli anni novanta del Novecento è stato eseguito il dipinto attuale che non trova alcun riferimento con il dipinto di Manuel Furtado de Mendonça, che attraverso la vastità e la varietà delle sue opere ci mostra bene lo stato della pittura nell’ arcivescovado di Braga, la più importante metropoli religiosa portoghese.
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Fig. 3 Confronto tra il soffito della navata centrale della chiesa della Madonna del Carmine di Diamantina dipinto da José Soares de Araújo, il disegno riportato nel Trattato di Andrea Pozzo (Parte Prima, XXXIII immagine) e un dettaglio dell’alto coro della cattedrale di Braga dipinto da Manuel Furtado.
A Braga e nella sua regione, Manuel Furtado de Mendonça ha lasciato importanti opere studiate da Magno Moraes Mello (Mello, 1995) e Vítor Serrão (Serrão, 1996) che ci danno preziose, anche se brevi, note sull’insieme del suo lavoro. La fotografia di Manuel Carneiro tira quindi fuori dall’anonimato il legame tra il dipinto di Manuel Furtado de Mendonça a Braga e quello di José Soares de Araújo nella colonia portoghese d’America. Il Trattato del gesuita Andrea Pozzo crea invece un trait d’union tra gli elementi pittorici dei due pittori che hanno prestato la loro attività in universi territoriali tanto diversi e lontani.
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Fig. 1 Le nozze di Amore e Psiche. Camera da letto, Cuarto Real Nuevo al piano nobile. Quadratura Giacomo Bonavia, figure Bartolomeo Rusca. La Granja de San Ildefonso, Segovia. 1735 ca. (Foto: Patrimonio Nacional).
al servizio della regina farnese: quadraturisti piacentini in spagna Sara Fuentes Lázaro
Universidad a Distancia de Madrid, Spagna
1 Abstract Within the artistic renovation undertaken by King Philip V in the Court of Madrid, his second consort Elisabetta Farnese (married to the king in 1714, widow since 1746 and deceased in Madrid 1766) hired painters and decorators who had worked in the churches and palaces of Parma, Piacenza and Colorno, in order to reproduce the quadrature ambiences in which she lived her youth in the Farnesian Duchy. This aesthetic was transplanted to the Royal Sites of La Granja and Aranjuez mostly by Giacomo Bonavia (Parma, 1705 - Madrid, 1759), a disciple of Giovanni Battista Galluzzi (Piacenza, 1675 – Madrid 1734) who arrived to Madrid together with his master in 1728. As an architect, urban planner and decorator, Bonavia successfully worked in the Spanish Court for over 30 years. In close collaboration with the figurista Bartolomeo Rusca (Arosio, 1680 - La Granja, 1750) and other Farnesian-related artists, Bonavia recreated in several royal residences the repertoire and technique perfected by the Natali family.
Keywords Giacomo Bonavia, Bartolomeo Rusca, La Granja de San Ildefonso, Quadratura, Farnese
Il cambio di dinastia sul trono spagnolo intorno al 1700 non comportò anche un repentino cambio culturale nell’ambiente cortigiano di Madrid, ma produsse piuttosto l’inizio di una nuova miscela di influenze che si consoliderà lungo la prima metà del secolo, coincidendo con il regno di Filippo V di Borbone. In particolare Elisabetta Farnese, sua seconda consorte dal 1714 al 1746, ebbe un ruolo di primo piano in tale processo sovrintendendo personalmente le decorazioni delle residenze, avvalendosi della sua ampia formazione artistica (Bertini, 2002, pp. 417-433, spec. pp. 424-425). Il ricorso ripetuto, da parte della Farnese, a maestri originari di Piacenza rivela una forte volontà di ricreare sul suolo iberico la magnificenza dei palazzi della sua famiglia, il cui splendore artistico sorpassava di gran lunga l’importanza economica e politica della dinastia. Sebbene lo sviluppo della pittura di quadratura
1 Desidero ringraziare la professoressa Fauzia Farneti, per avermi gentilmente invitata a partecipare al presente convegno, e la dottoressa Anna Coccioli Mastroviti, per la generosità nell’aiutarmi nella mia ricerca. Sono inoltre grata al dottor Antonio Vinciguerra per l’assistenza datami nella stesura in italiano di questo testo.
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Fig. 2 Piano basso e piano nobile del Palazzo di La Granja de San Ildefonso, Segovia, con le sale decorate a quadratura (Foto: autore).
nel ducato farnesiano sia stato già ampiamente studiato da Coccoli Mastroviti (2015) e da altri autori, qui ci proponiamo di illustrare alcuni temi ed eventi che riguardano la cultura visuale che la regina aveva acquisito nella sua giovinezza. Ferdinando Galli Bibiena stette per 28 anni al servizio della Casa Farnese, occupandosi non solo dei celebri e fastosi apparati, ma anche dirigendo, dal 1699 al 1708, i lavori di ammodernamento della reggia e del giardino di Colorno. Il palazzo Farnese di Piacenza ospitava quadrature di Giovanni Andrea Seghizzi, discepolo di Agostino Mitelli, assistente di Angelo Michele Colonna e Girolamo Curti a Parma (Pigozzi, 2005), e possiamo rilevare anche la presenza di varie opere di mano di Giambattista Galluzzi nei palazzi e nelle cappelle piacentine, dove collaborò con Bartolomeo Rusca (Coccioli Mastroviti, 1997, pp. 126-139; Riccò Soprani, 2015). Importante è anche il complesso di opere del cremonese Francesco Natali nelle terre piacentine, come pure la sua collaborazione con Rusca, che segna un momento di eccellente qualità delle decorazioni tanto nell’arte figurativa quanto nell’illusionismo prospettico. Ormai divenuta regina di Spagna, Elisabetta richiese, nel decennio dal 1720 al 1730, i servizi di molti di questi quadraturisti e figuristi in quanto creatori dell’immagine cortigiana del ducato farnesiano, favorendo così l’ultima grande stagione della decorazione quadraturista barocca nella corte madrilena. Dopo il suo arrivo a Madrid, nel 1714, a poco a poco Elisabetta prese in mano la direzione culturale della corte spagnola. Il gusto italiano andò imponendosi gradualmente non solo con il reclutamento di architetti, ingegneri, scenografi, musici e pittori, ma anche grazie all’uso abbondante di manodopera specializzata, come lo stuccatore Bartolomeo
quadraturisti piacentini in spagna • sara fuentes lázaro
Sermini2, il falegname Francesco Balestrieri3 ed altri per lo più collegati ai territori governati dai Farnese. È interessante notare inoltre che questi artisti e artigiani formavano gruppi di lavoro che includevano pittori di quadratura e di storia, stuccatori, doratori, muratori, architetti, carpentieri, ecc., insomma tutti i mestieri necessari per l’ornamento dei palazzi. Tali gruppi potevano anche trasferirsi da una zona all’altra, facilitando in questo modo la contrattazione dei lavori e alla stesso tempo radicando il gusto emiliano, genovese e lombardo nelle decorazioni palatine per tutta l’Europa. Questi gruppi provenienti da Piacenza operarono nella corte di Madrid dapprima sotto la direzione del ministro Alberoni, poi, a partire dal 1719, sotto la supervisione del marchese Annibale Scotti come Maggiordomo Maggiore della regina e protettore dei lavoratori italiani impiegati nelle Obras Reales spagnole; alcuni di questi, come Vigilio Rabaglio o Bartolomeo Rusca (Arosio 1680 – Madrid 1750) erano artisti arrivati su sua esplicita richiesta (e sicuramente anche a instanza della regina) attraverso il conte Ignazio Rocca, tesoriere del duca di Parma. Il marchese Scotti e Giacomo Bonavia (Piacenza, 1705 – Madrid, 1759) furono i principali esecutori delle istruzioni date da Elisabetta per allestire e abbellire il palazzo di La Granja di San Ildefonso, dove i monarchi abitarono quasi stabilmente dal 1735 fino alla morte di Filippo V nel 1746. Dalla fine del 1724 furono eseguiti i lavori del cortile progettato da Andrea Procaccini e del corpo centrale opera di Filippo Juvarra insieme al suo discepolo Sacchetti (Lavalle Cobo, 1991) (fig. 2). Nell’angolo sud del cortile si trovavano i primi alloggi che i sovrani occuparono dal 1735 al 1742, la cui decorazione originale, progettata dallo stesso Procaccini e dipinta da Bartolomeo Rusca fra il 1734 e 1737, è andata perduta (Martín Pérez, 1995, p. 49). Sebbene gli artisti piacentini furono impiegati nella modernizzazione di vari siti reali, quali Aranjuez e il Buon Retiro è nella residenza reale di San Ildelfonso che si conserva il principale complesso di pittura quadraturista di quest’epoca, nonostante il catastrofico incendio che la colpì nel 1918. Si tratta di ventitré sale con volte affrescate, dieci sale nel piano nobile e dodici nel piano basso (fig. 2) più l’ambiente della Fonte di Galatea o delle Conchiglie (una piccola sala sotto la scala del lato sud-est). Dodici delle sale contengono pitture di storia di mano di Rusca che sono completate con stucchi bianchi e dorati progettati in uno stile quasi rococò da Bonavia. Si conservano dieci sale dove si raffigurano architetture (quattro nel piano nobile e sei della galleria aperta al giardino) formano i due piani del corpo principale, ad est del palazzo. Tutte le storie centrali furono dipinte sempre da Rusca, mentre 2 Attivo a Madrid fino al 1766, era figlio dello stuccatore Antonio Sermini che aveva collaborato nell’opera di palazzo Somaglia, luogo di incontro degli artisti decoratori più importante di Piacenza. 3 Che accompagnò G.B. Galluzzi.
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Fig. 3 Ritorno di Giasone e Medea, gabinetto della regina (piano nobile). Quadratura Giacomo Bonavia, figure Bartolomeo Rusca. La Granja de San Ildefonso, Segovia. Ca. 1735. (Foto: Patrimonio Nacional).
pagina a fronte Fig. 4 Dipartimento di Storia e Scienze Umane, Universidad a Distancia de Madrid, Spagna
le quadrature, che partono dalla cornice lasciando nel centro uno spazio aperto per la rappresentazione di motivi mitologici, sono tutte su disegni di Bonavia (Martín Pérez, 1995, pp. 115-116) anche se egli dipinse di sua mano solo quelle del Cuarto Real Nuevo, composto dalle sale centrali nel piano nobile, trattandosi di stanze particolarmente importanti per i sovrani. Queste rappresentavano Callisto trasformata nell’Orsa Maggiore (l’attuale Galleria dei ritratti), la Caduta di Fetonte (oratorio), il Ritorno di Giasone e Medea (Gabinetto della regina) (fig. 3) e Le nozze di Amore e Psiche (camera da letto dei sovrani). Le altre sei quadrature della galleria inferiore furono realizzate da Felice Fedeli insieme al suo collaboratore spagnolo Alejandro González. La decorazione della camera da letto rappresenta la migliore opera del complesso (fig. 1). Filippo e Isabella condivisero sempre il talamo: dormivano fino a tardi, cominciavano la giornata insieme, seguivano una stessa routine e sbrigavano gli affari con i loro segretari tutte le mattine dal letto, per più di un’ora (Bottineau, 1986, pp. 620 e ss.). Ecco perché scelsero per dormire la sala maggiore nel centro della facciata e con la vista migliore sul giardino; nella decorazione di questa camera, Bonavia dimostra una grande vicinanza a Francesco Natali, come rivela la distribuzione dei piccoli balconi degli angoli, di traverso, già presenti nel repertorio proprio della famiglia Natali nei palazzi e nelle chiese piacentine durante i primi decenni del Settecento. Questa somiglianza di forme appare anche con maggiore chiarezza nel disegno a penna preparato a matita e guazzo marrone
quadraturisti piacentini in spagna • sara fuentes lázaro
conservato nel Museo del Prado attribuito a Bonavia (fig. 4). La sua relazione con il Palazzo di Riofrío è una congettura moderna e non può essere scartata l’ipotesi che si trattasse di un modello da presentare alla regina nel momento della decorazione di La Granja. Giacomo Bonavia giunse in Spagna nel 1728 come aiutante del suo maestro, Gianbattista Galluzzi (Piacenza 1675 – Madrid 1734). Dai documenti sappiamo che Galluzzi non ebbe successo nell’ambiente delle opere reali, forse per i problemi di salute che gli impedirono di lavorare; si sa che aspirò all’incarico di direttore delle Opere Reali di Aranjuez nel 1733, che però non gli fu concesso, andando invece al suo discepolo (Urrea, 1977, pp. 97 e ss; Tovar Martín, 1974, p. 6 n. 8.). Bonavia lavorò in Spagna per 31 anni svolgendo sempre un’intensa attività al servizio della famiglia reale, favorita tanto dalla vicinanza alla regina – che fu madrina di battesimo del suo primo figlio maschio (Urrea, 1977, p. 39) –, quanto dalla sua
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pagina a fronte Fig. 5 Galleria di Statue al piano basso, Sala di Venere. Quadrature Felice Fedeli e figure Bartolomeo Rusca. La Granja de San Ildefonso, Segovia. Ca. 1735. (Foto: Patrimonio Nacional).
versatilità. Andò accumulando responsabilità e commissioni: la sua prima occupazione fu come aiutante dell’ingegnere idraulico Marchand, poi come macchinista nel Retiro e quadraturista decoratore, quindi ebbe una brillante esperienza di urbanista ad Aranjuez, per poi infine consacrarsi come architetto Maestro Mayor de las Obras de la Catedral di Toledo e Siviglia. Alla fine della sua carriera raggiunse una notevole influenza diventando Direttore di Architettura nella Real Accademia di Belle Arti di San Fernando nel 1752. A Madrid è conservato un volume del Perspectiva Pictorum Architectorum (vol. I, Roma, 1723), firmato dallo stesso Bonavia, che più tardi dovette appartenere anche a suo cognato, Juan de Herrera – come si ricava dalle annotazioni nella prima pagina e nell’ultima–, che fu suo collaboratore ad Aranjuez (Tovar Martín, 1997, p. 222 n. 28), nonché l’erede del suo incarico di Conserje del Real Sitio (Tovar Martín, 1974, p. 9 n. 27). A nostro avviso però nell’opera di Bonavia come quadraturista non si rilevano influenze distintive di Pozzo, se non nei suoi disegni per gli altari della chiesa di Alpajés (Tovar Martín, 2000). Ad ogni modo – e senza aver potuto localizzare il secondo volume che pure certamente avrà posseduto – il suo esemplare di Perspectiva è intatto e non presenta segni d’uso: questa, insieme ad altre ragioni, ci fa dubitare che si sia servito direttamente dei modelli pozzeschi per le sue quadrature. L’opera pittorica di Bonavia rivela invece una cultura che ha stretti rapporti, attraverso il maestro Galluzzi, con le soluzioni della dinastia Natali diventando come loro, i maggiori interpreti della cultura bibienesca, l’erede della tipologia della “soda architettura” filobolognese (Matteucci, 1989, pp. 471-480; Cioccoli Mastroviti, 2010). Il figurista che lavorò sempre con Bonavia a Madrid, Bartolomeo Rusca, sebbene originario del Ticino, era stato attivo a Piacenza per più di venti anni, tra il 1713 e il 1733. Chiamato a Madrid per succedere ad Andrea Procaccini, morto nel 1734, Rusca – del quale non sappiamo con certezza se ricevette la nomina di Pintor del Rey – fu assegnato immediatamente alle opere del Buen Retiro, El Pardo, Aranjuez e, soprattutto, La Granja (Lavalle Cobo, 2002, p. 77). Rusca aveva già lavorato a Parma e a Piacenza con Bonavia (Tovar Martín, 1998, pp. 131-143) e tornò a fare squadra con lui in Spagna per numerosi lavori di decorazione. Per esempio nel Buen Retiro, quando divenne la residenza principale dei sovrani nel 1734 dopo l’incendio dell’Alcázar, essi furono richiesti per selezionare le opere della collezione reale che si sarebbero dovute trasferire da lì: Rusca si occupò di ciò nel 1739 e Bonavia fece lo stesso nel 1746 (González García e Riaza de los Mozos, 2002, p. 180 n. 53.) A differenza di Rusca, che era un suo collaboratore, il pittore di architetture subordinato di Bonavia era Felice Fedeli (Pienza 1710-La Granja 1773), anch’egli proveniente dal Ducato farnesiano ed educato nella tradizione
dei Bibiena e dei Natali (Urrea, 1977, pp. 111 e ss). Bonavia, Rusca e Fedeli formarono il gruppo responsabile delle volte dipinte di La Granja, e nonostante i documenti mostrino certi dissapori tra Bonavia e il suo aiutante, Fedeli dovette comunque essere abbastanza competente; quando Bonavia, in quanto Direttore delle Opere Reali, doveva rimanere spesso a Madrid o Aranjuez, lo riteneva infatti degno di sostituirlo ed eseguire i suoi progetti, come accadde nella sala di Ercole, nella sala della Vittoria, nella sala della Pace, nella sala di Europa e Asia (non così nella contigua sala di Africa e America che ha stucchi dorati, non quadratura), nella sala di Venere (fig. 5) e nella sala della Conquista. Sotto l’aspetto formale, la produzione quadraturista di Bonavia e Fedeli in questa successione di stanze aperte sul giardino, che formano una galleria all’italiana, è condizionata dal breve slancio dell’alzato della fabbrica del sito reale, con tetti relativamente bassi. Nella composizione di questi affreschi è rispettato uno schema che si ripete: una balaustra finta come una cornice di architettura più o meno complessa circonda un medaglione centrale a profilo mistilineo dove si inserisce un tema allegorico. Queste volte della galleria bassa sono in tema con i parterre dei giardini, con le numerose fontane e sculture, dal momento che il complesso era concepito per essere goduto combinando gli affreschi, i giochi d’acqua e l’urbanistica dei giardini. La regina
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dimostrò la sua predilezione per questo spazio installandovi la collezione di sculture e antichità di Cristina di Svezia, acquistata su consiglio di Andrea Procaccini nel 1724. Data la brevità di queste pagine e il carattere di work in progress della presente ricerca, restano inevitabilmente in sospeso temi sostanziali che andranno certamente chiariti nei prossimi lavori e che riguardano il ruolo degli artisti piacentini nella corte di Madrid, come la ricostruzione della biblioteca di Giacomo Bonavia, una maggiore definizione dei pittori di architetture Felice Fedeli e Alejandro Gonzalez, così come il compendio del catalogo completo del duo Rusca-Bonavia come ultimi rappresentanti della scuola quadraturista emiliana in Spagna. Bibliografia Bertini G. 2002, La formación cultural y la educación artística de Isabel de Farnesio en la corte de Parma”, in J.M. Morán Turina (Com.), El arte en la corte de Felipe V, Fundación Caja de Madrid: Patrimonio Nacional: Museo Nacional del Prado, Madrid, pp. 417-433. Bottineau Y. 1986, El arte cortesano en la España de Felipe V (1700- 1746), Fundación Universitaria Española, Madrid. Coccioli Mastroviti A. 1997, Gianbattista e Andrea Galluzzi architetti, scenografi e decoratori da Piacenza alle corti del Nord Italia e di Madrid, «Strenna Piacentina», pp. 126-139. Coccioli Mastroviti A. 2010, Chiesa dei Teatini a San Vincenzo, Piacenza: Premio Gazzola 2010 per il restauro dei palazzi piacentini, Piacenza. Coccioli Mastroviti A. 2015, Architetture dell’inganno nel palazzo dei conti Cavazzi della Somaglia in V. Poli (a cura di), Palazzo Cavazzi della Somaglia, GM Editore, Napoli, pp. 91138. González García J.L., Riaza de los Mozos M. 2002, Del saber de la Academia al gusto del amateur: las colecciones de pintura y escultura clásica de Felipe V in J.M. Morán Turina (com.), El arte en la corte de Felipe V, Fundación Caja de Madrid: Patrimonio Nacional: Museo Nacional del Prado, Madrid, pp. 173-194. Lavalle Cobo T. 1991, La obra de Andrea Procaccini en España, «Academia», 73, pp. 381398. Lavalle Cobo T. 2002, Isabel de Farnesio, la reina coleccionista, Fundación de Apoyo a la Historia del Arte Hispánico, Madrid. Matteucci A. 1989, L’incidenza della cultura padana nella formazione di G. Bonavia, in El Arte en las Cortes Europeas del siglo XVIII, Comunidad de Madrid, Madrid, pp. 471-480. Pigozzi M. 2006, Ferdinando Galli Bibiena: le esperienze di Seghizzi e di Troili e la consapevolezza della teoria prospettica dei francesi, in F. Farneti, D. Lenzi (a cura di), Realtá e illusione nell’architettura dipinta, Atti del convegno internazionale (Lucca 26-28 maggio 2005), Alinea Ed., Firenze, pp. 285-294.
quadraturisti piacentini in spagna • sara fuentes lázaro
Poli V. (a cura di) 2015, Palazzo Cavazzi della Somaglia, GM Ed., Napoli. Riccò Soprani L. 2015, La sontuosa decorazione pittorica della dimora dei conti Cavazzi della Somaglia sull’antica strada levata a Piacenza. Ritratto per immagini di un committente aristocratico del settecento in V. Poli (a cura di), Palazzo Cavazzi della Somaglia, GM Editore, Napoli, pp. 135157. Martín Pérez P. 1995, El Real Sitio De San Ildefonso, Patrimonio Nacional, Madrid. Tovar Martín V. 1974, Pintura de arquitecturas fingidas en los palacios españoles de Aranjuez y la Granja de San Ildefonso, «Bracara Augusta», 64, pp. 571-583. Tovar Martín V. 1997, Santiago Bonavía en la obra del Palacio Real de Aranjuez, «Academia», 85, pp.209-245. Tovar Martín V. 1998, Santiago Bonavia: pintor y decorador en la corte española in I Congreso Internacional Pintura española siglo XVIII, Museo del Grabado Español Contemporáneo, Marbella, pp. 131-143 Tovar Martín V. 2000, La iglesia de Nuestra Señora de Alpajés, de Aranjuez, «Madrid: Revista de arte, geografía e historia», 3, pp. 513-528. Urrea J. 1977, La Pintura Italiana del siglo XVIII en España, Universidad de Valladolid, Valladolid.
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l’ultimo quadraturista umbro. pietro carattoli (1703-1766) e l’architettura dipinta “sul sito” Fig. 1 Pietro Carattoli, disegno di studio per un soffitto, Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia, Fondo dei disegni storici e didattici, inv. 100.
Paolo Belardi, Valeria Menchetelli
Università degli Studi di Perugia, Italia
Abstract Pietro Carattoli (Perugia, 1703-1766) appears to have been substantially ignored by historiography and criticism. Yet the artistic career of Carattoli, the last (but probably the only) Umbrian quadraturist, is marked by some stages that serve to highlight his relevance and place him in the national scene. The founder of an illustrious family of Perugian artists, Carattoli was first a pupil of the Perugian architect Alessandro Baglioni and then he probably moved to Bologna, where he continued his training at the Galli da Bibiena school. The artistic skills he learned can be seen in Carattoli’s work after his return to Perugia, where he works as a skilful decorator, capable of creating marvellous painted architectures. The contribution aims to outline the person of Pietro Carattoli as an artist, scene painter and architect, to present a regimen of the Umbrian works as well as to study in more detail the profile of the Umbrian quadraturist, placing him in the reference context. The contribution also deals with the perspective restitution in one of Carattoli’s study drawings, in order to critically evaluate his knowledge of geometrical and representative abilities. Keywords Pietro Carattoli, quadraturism, drawing, perspective restitution
Introduzione La figura di Pietro Carattoli (Perugia, 1703-1766) appare sostanzialmente ignorata dalla storiografia e dalla critica: il nome dell’artista perugino è citato unicamente in studi che non esulano dall’ambito territoriale umbro ed egli non sembra assumere un ruolo di rilievo nella pittura quadraturistica né dell’Italia centrale né tantomento di ambito nazionale. Tuttavia, il percorso artistico di Carattoli, probabilmente unico quadraturista umbro, è segnato da circostanze singolari e da tappe significative, che possono evidenziare la rilevanza dell’artista e inquadrarlo opportunamente nel panorama nazionale. Il presente contributo si propone di contribuire a colmare tale lacuna storiografica delineando la figura del quadraturista e presentando un regesto delle sue realizzazioni, al fine di facilitare l’inserimento della sua opera in un più ampio contesto.
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Pietro Carattoli (1703-1766) La principale fonte biografica1 per ricostruire la carriera artistica di Pietro Carattoli è rappresentata dal profilo tracciato da Baldassarre Orsini nelle Memorie de’ pittori perugini del secolo XVIII (Orsini, 1806). L’opera, riferimento imprescindibile per la pittura del Settecento a Perugia, estende fino alle soglie dell’Ottocento l’arco temporale definito da Lione Pascoli nelle Vite de’ pittori, scultori, ed architetti perugini (Pascoli, 1732) ed esce postuma di quarant’anni rispetto alla morte di Carattoli. Proprio Pascoli cita per primo l’artista tra quelli “che si distinguon tra gli altri” e fornisce alcune prime informazioni su di lui, “scolare […] di Bibbiena, che è molto pratico in dipignere scene [e] attende anche con buon gusto all’architettura” (Pascoli, 1732, pp. 258-259). Pietro, capostipite di una famiglia di illustri artisti, nasce nel 1703: la sua formazione viene avviata in seno alla famiglia dell’architetto perugino Pietro Baglioni, e in particolare seguita dal figlio Alessandro, abate, giurista e anch’egli architetto. Le fonti sono concordi su un soggiorno a Bologna durante il quale Carattoli avrebbe appreso, presso la scuola dei Galli da Bibbiena, le regole della prospettiva e l’arte del quadraturismo. Allo stato attuale non esistono riscontri documentari relativi al periodo bolognese di Carattoli2; tuttavia Orsini afferma con certezza “ch’egli si portò in Bologna nella scuola del Bibiena”, in cui ha modo di maturare le proprie doti artistiche innate, “poiché egli era, per così dire, nato pittore” (Orsini, 1806, p. 41). La naturale inclinazione artistica di Pietro, unita alla sua quasi proverbiale velocità di esecuzione e alle favorevoli circostanze incontrate nel contesto perugino, fanno sì che al suo rientro nella città natale egli intraprenda una carriera professionale di successo, tanto nell’ambito architettonico quanto in quello pittorico. Sebbene le sue opere suscitino nei coevi giudizi critici contrastanti, in virtù della formazione di pittore quadraturista Carattoli ha l’opportunità di dominare nettamente la scena artistica perugina; le occasioni in cui è chiamato a prestare la propria opera sono molteplici e diversificate: in particolare, nel campo pittorico egli instaura un proficuo sodalizio con il figurista anconetano Francesco Appiani (1704-1792), che integra le quadrature predisposte da Pietro con gli elementi figurativi ad esse complementari. A testimonianza della sua notorietà al di fuori del contesto regionale, il nome di Pietro è menzionato nell’Enciclopedia metodica critico-ragionata delle belle arti che Pietro Zani redige nel 1820: qui, identificato mediante la triplice qualifica di architetto, pittore-architetto e 1 Oltre alle citazioni nelle fonti storiche (Orsini, 1784; Orsini, 1806; Siepi, 1822a-b), sono stati dedicati a Pietro Carattoli e alla sua attività a Perugia e in Umbria due studi monografici, a cui si rimanda per approfondimenti: Spaccini, 1975-1976; Placido, 2004-2005. 2 Si ringraziano per le prime verifiche effettuate negli archivi dell’Accademia di Belle Arti di Bologna il direttore, professor Enrico Fornaroli, e la curatrice del Fondo Storico, professoressa Maria Giovanna Battistini.
l’ultimo quadraturista umbro: pietro carattoli • paolo belardi, valeria menchetelli
pittore-quadraturista, è annoverato tra i “bravissimi” (Zani, 1820, p. 298). Oltre ad analizzare criticamente le sue opere, Orsini indugia nel tratteggiare gli aspetti fisici e caratteriali di Pietro, definendolo “uomo di giusta statura […] e di poca avvenenza”, che “pel suo natural focoso […] menava ancor le mani” (Orsini, 1806, p. 48); tratti confermati da Luigi Bonazzi, suo discendente diretto, che lo definisce “il migliore artista [del suo] secolo” (Bonazzi, 1879, p. 351). Riguardo ai meriti artistici, Orsini reputa Carattoli valente in veste di pittore e di decoratore, ma non altrettanto abile in veste di architetto, come non esita a sottolineare commentando molte delle sue opere; tuttavia, egli ritiene che tali mancanze si presentino “non già per mancanza di talento, ma sibbene per l’educazione” poiché “se […] avesse fatto gli opportuni studi sulle cose antiche, egli sarebbe arrivato al colmo dell’arte” (Orsini, 1806, p. 47). Di fatto, Carattoli “fu il pittore più richiesto in città per le quadrature” (Fidanza, 2010, p. 238) e, per una serie di fattori ben messi a sistema da Romina Placido3, “poté intraprendere moltissime opere, e porre le mani in ogni sorta di lavoro, in Perugia, e fuori” (Orsini, 1806, p. 42). Nell’opera di Carattoli sono riconoscibili modelli desunti dalla trattatistica sulla quadratura prospettica all’epoca circolante, in primo luogo dai due volumi della Perspectiva pictorum et architectorum di Andrea Pozzo (Pozzo, 1693; Pozzo, 1700). Carattoli sembra attingere alle soluzioni elencate dal maestro gesuita per rispondere alle esigenze occasionali, riproponendole in taluni casi con minime rielaborazioni: questo aspetto, unitamente a una non perfetta aderenza al rigore geometrico e alle regole della prospettiva, costituisce una delle maggiori argomentazioni portate dai suoi detrattori. Seppure ritenuto allievo di Bibiena, Carattoli non sembra invece esibire evidenti riferimenti alla principale innovazione introdotta dal bolognese, che ne L’architettura civile preparata su la geometria, e ridotta alle prospettive teorizza le modalità rappresentative delle “scene vedute per angolo” (Bibiena, 1711, p. 137). Stante l’impossibilità di verificare il supposto periodo di formazione bolognese, Placido ipotizza che il contatto tra i Bibiena e l’artista perugino sia avvenuto in occasione della presenza dei maestri bolognesi nell’Italia centrale, durante l’esecuzione di alcune opere nelle confinanti Marche (Placido, 2004-2005, pp. 87-88). L’opera di Carattoli non si delinea come particolarmente innovatrice: egli è abile nel rispondere tempestivamente e con un livello qualitativo elevato alle esigenze artistiche che il momento storico e il contesto culturale richiedono, ma dal punto di vista creativo tende a riproporre modelli ampiamente consolidati e soluzioni ricorrenti, non presentando caratteri di significativa originalità. Tuttavia, dopo la sua morte, nonostante l’insegnamento del 3 “La sua carriera risulta favorita da vari fattori: innanzi tutto dalla politica artistica cittadina che, data la presenza dell’Accademia del Disegno, mira a promuovere ed impiegare artisti locali: dalla mancanza in loco di architetti di una certa fama; dal suo innegabile talento nel settore della pittura prospettica; dai lavori eseguiti in Duomo nel 1729 e nel 1735”: Placido, 2004-2005, pp. 14-15.
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mestiere impartito al figlio Valentino, lascia la scena artistica perugina priva di un pittore di pari abilità nel campo della quadratura prospettica. Tanto da portare lo stesso Orsini a concludere: È pur vergogna, che tra’ Pittori di quadratura della nostra Città, dopo morto Pietro Carattoli, non ve ne sia stato, e non ve ne sia presentemente uno abile a fare […] un adornamento di Architettura in buona Perspettiva (Orsini, 1791, p. 145).
In tal senso Carattoli, pur nei limiti del suo approccio metodologico, frutto di un compromesso tra rigore geometrico e opulenza decorativa, si configura probabilmente come unico quadraturista umbro. Le opere umbre La versatilità del maestro perugino fa sì che il regesto delle sue realizzazioni, ricostruibile mettendo a sistema le fonti storiche4 e le più recenti ipotesi di attribuzione5, si presenti ampio e diversificato: in esso prevalgono nettamente le opere pittoriche, che impegnano Carattoli senza soluzione di continuità a partire dagli anni venti del Settecento e per tutto l’arco della sua carriera. Le prime decorazioni perugine attestate dalle fonti, oggi perdute, risalgono al 1720, quando Carattoli dipinge la volta e le pareti dell’oratorio della Confraternita di San Pietro Apostolo; nello stesso anno lavora nella chiesa di San Domenico, disegnando non soltanto l’altare maggiore e il tabernacolo, ma anche una “macchina prospettica teatrale trasparente” messa in opera ogni anno “per la festa del Corpus Domini” (Orsini, 1806, p. 44), realizzata in collaborazione con Appiani e oggi anch’essa perduta; sempre in San Domenico, Pietro realizza la vera del pozzo “nel principale claustro” (Orsini, 1806, p. 47). Altre realizzazioni perdute sono la decorazione della volta dell’oratorio dei Santi Simone e Fiorenzo (1724) e le opere all’interno della cattedrale (1733-1735), per cui realizza inoltre il portale principale (1729). Uno dei temi pittorici dominanti è quello dei finti altari prospettici, che Carattoli dipinge nella chiesa della Compagnia della Morte, nella chiesa di Santo Spirito (ante 1738) e nella chiesa dell’Ospedale di Santa Maria della Misericordia (1760), oggi visibile solo in minima parte. Tra le numerose decorazioni di tema sacro risaltano le volte della cappella di San Gregorio alla Sapienza Vecchia, “dipinta ad arabeschi alla tedesca” (Siepi, 1822b, p. 739), dell’oratorio del Santissimo Crocifisso (1750), della sacrestia dell’oratorio della Confraternita di Sant’Agostino (1763)
Le fonti di riferimento principali rimangono Orsini, 1784 e Siepi, 1822a-b. Il più recente catalogo delle opere di Carattoli è stato redatto da Romina Placido (2004-2005); in esso, oltre alle opere documentate, sono inclusi elenchi delle opere attribuite e delle opere andate distrutte. 4 5
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e, seppure di paternità non certa, dell’oratorio della Congregazione dei Nobili interno alla chiesa del Gesù (Siepi, 1822a, p. 416); egli potrebbe inoltre aver ideato la decorazione della chiesa di Santa Lucia, realizzata dal figlio Valentino (Placido, 2004-2005, pp. 73-74). Ma l’opera più importante in questo ambito è certamente la prospettiva dipinta che decora la volta della “ornatissima” (s.a., 1792, p. XLVI) cappella del Sacramento nella Basilica di San Pietro (1762-1763), in cui l’architettura illusoria, vertiginosamente sfondata in profondità e realizzata con tinte digradanti come “da pochi quadraturisti si sa fare” (Orsini, 1806, pp. 4344), incornicia l’immagine della Vergine dipinta da Francesco Appiani. Le opere pittoriche realizzate per la committenza privata consentono a Carattoli una maggiore magniloquenza espressiva: oltre a realizzare le scene per il teatro di Foligno, ambito in cui dà prova di essere “abilissimo” (Orsini, 1806, p. 45), gli viene affidato il compito di decorare interamente il piano nobile di palazzo Donini, le cui sale costituiscono “il più esteso ciclo pittorico di ambito non religioso del Settecento a Perugia” (Fidanza, 2010, p. 229). Pietro, probabilmente responsabile della direzione del complesso degli interventi decorativi, porta a compimento l’opera tra il 1745 e il 1750 e realizza per ciascuna sala mirabili quadrature prospettiche, completate per gli elementi figurativi da Francesco Appiani, Nicola Giuli e Giacinto Boccanera. I disegni di studio di Carattoli6 confermano come egli “abbia quivi operato più per stimolo di gloria, che pel lucro” (Orsini, 1806, p. 42); in alcune sale, tuttavia, il virtuosismo della tecnica pittorica sembra prevalere sulla resa prospettica. Altra grande opera è la direzione dei lavori di realizzazione del palazzo Antinori, poi Gallenga-Stuart, a Perugia (1758), in base al progetto firmato dall’architetto romano Francesco Bianchi (Belardi, 2008); qui, Pietro è poi impegnato nella decorazione dell’appartamento nobile, le cui volte orna “a sottinsù architettonico con gusto tedesco” (Siepi, 1822a, p. 179). Tra i lavori di architettura spicca il discusso progetto di riconfigurazione del complesso di San Francesco al Prato (1740-1748) (Orsini, 1806, p. 46; Cassese, 2013, p. 75), realizzato ma demolito per problemi statici nella seconda metà dell’Ottocento. Numerose sono le architetture perugine: la biblioteca del convento di Monteripido (1754), per cui Carattoli disegna l’elegante arredo ligneo; il portico del convento di San Girolamo (post 1754); i portici posti a copertura delle botteghe lungo la piazza del Sopramuro (1756) (Silvestrelli, 2008, p. 286); il disegno della casa e della chiesa della Congregazione dei Padri della Missione (1760), demolita a fine Ottocento; il progetto della chiesa di San Fiorenzo, realizzato postumo (17681780); la facciata e la scala interna del palazzo Friggeri7 nell’attuale piazza IV Novembre; infine, la riconfigurazione del teatro del Pavone (1765-1773). I disegni sono conservati presso l’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia. Alcuni studiosi ritengono che, come quello di palazzo Friggeri, anche il disegno di palazzo Aureli sia da attribuire a Carattoli: Placido, 2004-2005, p. 77. 6 7
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Al di fuori del contesto perugino, Carattoli opera in diversi centri umbri, con relizzazioni la cui attribuzione appare in alcuni casi probabile ma ancora non documentata: ad Assisi, disegna gli stucchi e realizza l’architettura illusoria dipinta sulla parete di fondo del refettorio maggiore del Sacro Convento (1760) (Fratini, 1882, p. 397), opera in cui sembra assimilare la lezione di Bibiena impostando la scena “per angolo”; sempre ad Assisi, nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva, progetta i due altari laterali in legno (Placido, 2004-2005, pp. 81-82); a Deruta ristruttura il coronamento del palazzo dei Consoli (1760); ad Amelia progetta l’impianto e decora la navata della chiesa di Santa Elisabetta, distrutta nel 1944; a San Martino Delfico progetta la villa Silvestri per la famiglia Donini (1639); per la medesima committenza decora la stanza della musica della villa a San Martino in Campo; a Umbertide progetta forse la ristrutturazione della chiesa di San Bernardino (Placido, 2004-2005, pp. 70-72). L’utilizzo estemporaneo del disegno di studio Non è noto se Carattoli eseguisse in maniera sistematica disegni di studio per la realizzazione delle sue opere; in proposito Baldassarre Orsini afferma anzi che “era sempre suo fare di formar l’idea sul sito da dipingersi, né giammai in carta” (Orsini, 1806, p. 46). In tal senso, quello di Carattoli appare un modus operandi tanto estemporaneo quanto atipico, che da un lato ne tratteggia lo scarso rigore sul fronte della scienza della rappresentazione, ma che dall’altro lato, al contempo, ne evidenzia le notevoli abilità sul fronte della resa decorativa. Una collezione di disegni di Pietro Carattoli è custodita all’interno del Fondo dei disegni storici e didattici dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia (Boco, 2002, p. 68). La raccolta, donata da Luigi Carattoli (figlio di Valentino e nipote di Pietro), è composta da quarantotto disegni, realizzati a penna e inchiostro acquerellato su carta e firmati8. Soltanto uno dei disegni evidenzia una corrispondenza diretta con un’opera effettivamente realizzata (Fidanza, 2010, p. 275), mentre la restante parte sembra derivare da studi individuali. A titolo esemplificativo, è stato preso in esame un disegno9 raffigurante la decorazione a soffitto di una sala con pianta a forma di rettangolo absidato (fig. 1). La pianta della sala non sembra corrispondere a nessuna delle opere realizzate da Carattoli: inoltre, seppure la forma possa suggerire quella di un piccolo oratorio culminante con un’abside, la decorazione ipotizzata (per lo più girali fitomorfe e rosette) non è riferibile a uno spazio sacro. Il fatto è confermato dall’apposizione, su una delle pareti, di una 8 9
I disegni della raccolta sono contrassegnati dai numeri di inventario da 99bis a 145. Il disegno è contrassegnato dall’inventario n. 100; le sue dimensioni sono pari a 220x320 mm.
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cartella riproducente a mo’ di panoplia un catalogo di simboli riconducibili alle arti (un nastro avvolge e sorregge due gruppi di strumenti: in alto per il disegno artistico, in basso per il disegno geometrico). La configurazione architettonica simula idealmente uno spazio a ballatoio affacciante sulla sala che, delimitato da una balaustra a sbalzo continua sostenuta da mensole, perimetra la sala su tre lati eccetto quello corto. Il soffitto dello spazio illusorio è ipotizzato a lacunari che, in senso longitudinale, si succedono con passo serrato e presentano due elementi di grandi dimensioni, rispettivamente circolare (lasciato vuoto nel disegno) e quadrato (che accoglie un medaglione contornato da una cornice a volute). Anche il ballatoio presenta un soffitto a lacunari decorati a girali e tralci fitomorfi ed è scandito da coppie di colonne composite a base quadrata, sormontate da una trabeazione che corre lungo l’intero perimetro. Sul lato corto della sala la parete verticale è ornata da lesene. La restituzione prospettica ha preso le mosse da alcune verifiche preliminari sul disegno: Carattoli utilizza un unico punto di fuga delle rette verticali, corrispondente con il centro del lacunare circolare del soffitto. Pur non essendo rintracciabili linee di costruzione del disegno, una agevole verifica grafica conferma tale circostanza. Assunto il quadro coincidente con l’intradosso della mensola a sbalzo e acquisita la geometria dell’impianto planimetrico della sala, è possibile ricostruire l’andamento teorico delle sezioni effettuate con piani orizzontali a esso paralleli. Tali sezioni, effettuate per maggiore confrontabilità in corrispondenza delle cornici modanate che caratterizzano lo spazio illusorio, presentano un andamento che, tenuto conto dell’opportuno scorciamento, ripropone la forma della pianta della sala. Nel disegno di Carattoli, tuttavia, le linee tracciate si discostano anche sensibilmente da tale andamento teorico, assumendo nel tratto curvilineo una geometria policentrica anziché semicircolare come invece avviene sul piano di quadro (fig. 2). Questo primo indizio offre una prima chiave di lettura del disegno, che appare ottenere una resa efficace dello spazio illusorio mediante artifici rappresentativi e licenze geometriche. Non essendo nota la sede reale di destinazione della decorazione pittorica, si rende necessario ipotizzare sia l’altezza della sala sia la posizione del punto di vista. Un ausilio a questa stima proviene dalla scala metrica riportata in calce al disegno che, seppur non specificato, è espressa in piedi perugini10. Ricavate di conseguenza le dimensioni planimetriche della sala e confrontatele con le analoghe dimensioni di alcune sale di edifici coevi (in primis quelle di palazzo Donini a Perugia), si è stabilita un’altezza pari a 6,5 m (circa 17 piedi e 9 once). Parimenti, l’altezza del punto di vista da terra è stata fissata pari a 1,6 m (circa 4 piedi e 4 once). La deduzione è possibile tenendo conto dell’unità di misura impiegata all’epoca in Umbria ovvero il piede perugino (pari a 0,366 m), che “si divide in 12 once, e l’oncia in 12 linee”, cfr. Guidi, 1855, p. 272. L’individuazione dell’unità di misura è confermata dal confronto con altri disegni di Carattoli in cui essa viene specificata.
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Fig. 2 Verifica della costruzione prospettica: in nero l’andamento teorico delle sezioni orizzontali, in rosso l’andamento disegnato dall’autore (elaborazione grafica: Veronica Zoccolini).
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Assunta piana e orizzontale la geometria del soffitto, il procedimento inverso di costruzione prospettica restituisce una sezione in cui la distanza compresa tra le colonne e la balaustra appare, rispetto a quanto suggerito dall’osservazione del disegno, esageratamente dilatata (fig. 3). Determinando invece la traccia sul quadro della parete verticale che delimita la sala sul lato corto, è possibile desumere geometricamente tale distanza, che risulta sensibilmente più compressa e di entità paragonabile alla larghezza di una colonna. Riportata in sezione, tale distanza dà luogo a una diversa articolazione spaziale: il confronto tra le due configurazioni in sezione e in pianta (fig. 4) mostra con evidenza l’effetto di maggiore dilatazione (o contrazione) imputabile alle licenze rappresentative adottate da Carattoli, che tendono a espandere artificiosamente, sia in senso orizzontale sia in senso verticale, lo spazio illusorio in prossimità della parete semicilindrica. D’altra parte, la configurazione “compressa” risulta marcatamente tozza e le colonne appaiono prive di proporzioni consone. In entrambe le configurazioni sembra cioè evidente la presenza di alcune incongruenze nello spazio architettonico, che il procedimento geometrico di restituzione prospettica mostra con grande chiarezza. Il disegno, tuttavia, esibisce uno spazio illusorio “plausibile”, in cui l’effetto di sfondamento prospettico del soffitto appare all’osservazione nettamente efficace. Considerazioni conclusive Nel contesto nazionale la figura di Pietro Carattoli emerge per il quasi assoluto monopolio del panorama artistico umbro nel campo delle quadrature prospettiche. Le sue doti artistiche, unite alla notevole celerità esecutiva e alla numerosità delle commesse assegnategli, contribuiscono al suo ruolo di assoluto spicco nell’Umbria del Settecento. Il grande successo in qualità di decoratore appare tuttavia stemperato dalle libertà rappresentative che egli usa impiegare nell’organizzazione dello spazio illusorio, segno di un equilibrio in continuo divenire tra resa decorativa e rigore geometrico. Il presente contributo intende in tal senso porre nuova attenzione sulle opere umbre di Carattoli, anche con l’obiettivo di promuovere ulteriori approfondimenti di ricerca volti a indagare e valorizzare criticamente le conoscenze geometriche e le abilità rappresentative di un artista inevitabilmente controverso.
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Fig. 3 Sezione desunta mediante restituzione prospettica. La distanza compresa tra la balaustra e le colonne appare sensibilmente dilatata (elaborazione grafica: Veronica Zoccolini).
Fig. 4 Raffronto tra le diverse configurazioni spaziali in sezione, a sinistra, e in pianta, a destra (elaborazione grafica: Veronica Zoccolini).
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Fig. 1 Ravenna, biblioteca Classense, disegno, coll. Mob 3. cass. dx B n. 16, C. Pronti.
l’apparato decorativo della galleria del cardinale in palazzo san giacomo a russi (ra): studi e indagini per la conoscenza e il restauro Marta Porcile
Scuola di Specializzazione in beni architettonici e del paesaggio, Università degli Studi di Firenze, Italia
Abstract Nineties demolitions have spared just the final part of the “Galleria Grande” and modified the decoration’s overall appearance. Nowadays the gallery has a painted decoration of three walls and vault, which in 1688 had to involve the entire space because it has been planned as a representative hallway and also as a celebrative iconographic program for the virtues of the cardinal Cesare Rasponi. The contribution’s purpose is an inter-disciplinary approach aimed at examining modifications of the gallery in order to consider any possible opportunity of restoration and valorisation. The research focuses on artistic-historical aspects and reconstruction of the gallery’s original dimensions; it allows to appreciate the material state of conservation, to explain the painting technique and the types of pigments, it is also supported by diagnostic investigations. Thanks to the study the painted decoration was attributed to Cesare Pronti, author of the quadratura, in collaboration with Filippo Pasquali, author of figures. The restoration proposal suggests integrating lacunae with neutral tones in order to complete virtual architecture and to restore the original perspective. Keywords Galleria, Cesare Pronti, Ravenna, pittura murale
Palazzo San Giacomo, nella sua massima espansione, fu l’esito di ampliamenti e trasformazioni commissionati dalla famiglia Rasponi tra la fine del XVI e il XVIII secolo. I lavori presero avvio dall’antico corpo di fabbrica della tenuta1, inaugurando un’intensa stagione di rinnovamento edilizio e funzionale che trasformò la residenza di campagna in villa di delizia. Unico ambiente superstite, appartenente alla prima fase di lavori, è la galleria del Cardinale: commissionata nel 1688 da Guido Carlo, fu concepita come “collegamento privilegiato fra il palazzo vecchio e gli appartamenti del fronte nuovo” al piano nobile (Benini, Tumidei, 2004, p. 195) e come percorso celebrativo delle virtù del cardinale Cesare Rasponi. Le pesanti demolizioni disposte dagli eredi sul complesso di palazzo San Giacomo all’inizio del XIX secolo, hanno risparmiato solo la parte terminale della galleria, alterando profondamente la leggibilità e lo stato di conservazione dell’apparato decorativo originario. 1
Il 1° febbraio 1664 Guido Carlo acquista dai canonici di Santa Maria di Porto due tenute con edifici annessi
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Fig. 2 Ricostruzione del piano nobile di palazzo San Giacomo basata sulla planimetria storica del 1750.
La galleria del Cardinale Ipotesi di ricostruzione dimensionale dell’impianto originario La galleria testimonia le modifiche volumetriche subite dal palazzo: si tratta di un ambiente coperto da una volta a botte ribassata che si raccorda da un lato alla parete di fondo con un fuso di padiglione, dal lato opposto si interrompe bruscamente in corrispondenza di un tamponamento verticale realizzato a seguito delle demolizioni. Ad oggi, non sono state reperite fonti iconografiche che documentano l’originaria estensione della galleria pertanto, in tale ambito, sono state formulate ipotesi supportate da osservazioni geometrico-proporzionali e da informazioni desunte dai documenti d’archivio. Gli inventari settecenteschi menzionano la galleria dopo la “Sala Grande” e la “chiesina”2, seguendo un ordine di importanza o alludendo forse alla continuità planimetrica con cui gli ambienti stessi venivano incontrati dal visitatore, una volta salito al piano nobile attraverso lo scalone monumentale. Preso a riferimento tale scalone – del quale 2
Archivio Storico Comunale Ravenna (ASCRa), TR, n. 869, n. 901, n. 918, n. 944
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si conoscono dimensioni e posizione grazie alla planimetria storica del 17503 – e proiettato l’ingombro massimo dell’edificio antico, sono stati ricollocati gli ambienti descritti, in corrispondenza planimetrica con i setti murari del piano terreno. Sulla base del rilievo architettonico e della decorazione, è stato individuato l’asse di simmetria longitudinale della volta e riproposta simmetricamente la curvatura del fuso di padiglione esistente. È risultato un vano di 8,40m, lunghezza tuttavia troppo ridotta per corrispondere alla “Galleria Grande” descritta dagli inventari. Il modulo è stato quindi ripetuto più volte in pianta e ricercata una corrispondenza con i setti murari del piano terreno; tale procedimento ha permesso di individuare una dimensione significativa pari a 24,75 m, equivalente a 38 bracci di Ravenna (fig. 2). Risulta inoltre plausibile supporre che il modulo iniziale di lunghezza 8,40 m fosse ripetuto per la campata iniziale e terminale e fosse intervallato da un modulo centrale di differenti dimensioni, secondo lo schema A+B+A. La decorazione pittorica Nonostante le compromesse condizioni conservative della decorazione, è possibile leggere l’impostazione classicheggiante dell’apparato pittorico: su di un basamento continuo si aprono, simmetriche sui prospetti longitudinali, nicchie con figure femminili che rappresentano le virtù cardinali e teologali alternate a paraste doriche; in tre delle quattro nicchie esistenti la lettura iconografica ha consentito di identificare La Fortezza, La Carità e Il Sacrificio4 (Ripa, 1603, p. 203). A riproporre il concetto di simmetria sui prospetti, si fronteggiano all’altezza dell’imposta della volta due medaglioni monocromi raffiguranti scene della vita del Cardinale. Un alto architrave con specchiature unifica l’ordine sottostante e sorregge una balaustra, aperta all’esterno ed interrotta da coppie di mensole, su cui si imposta la copertura dell’ambiente. Al centro della copertura, ormai quasi illeggibile, vi era raffigurata “la gloria di San Giacomo” (Corbara, 1977, p. 40). Il prospetto terminale, al di sotto della volta, è impostato su uno sfondato prospettico con punto di fuga centrale ed è contraddistinto dall’articolazione più complessa di elementi architettonici quali colonne, paraste e mensole; al di sopra un arco scenico, decorato con borchie dorate e lacunari - oltre il quale si scorge un fittizio soffitto a cassettoni - è stato progettato sulla base di un costrutto prospettico ideato su un piano inclinato, proiettato sul fuso di padiglione e adeguato secondo i principi dell’anamorfosi alla conformazione geometrica della volta per essere percepito correttamente dall’osservatore. Museo Civico di Russi (RA), Piante e misure […] della Villa di San Giacomo, anonimo, 1750 circa La simbologia tradizionale distingue: virtù teologali Fede, Speranza e Carità e virtù cardinali Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza 3 4
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pagina a fronte Fig. 3 Russi (RA), palazzo San Giacomo, galleria del Cardinale, rilievo, F. Pasquali e C. Pronti (attr.), 1688.
Sull’asse centrale della porta, il ritratto del cardinale Cesare Rasponi è sorvolato da putti che porgono corone di alloro e un galero cardinalizio. Completano la decorazione della galleria festoni con nastri e fiori, valve di conchiglie e girali che conferiscono note cromatiche ai colori chiari dell’architettura virtuale. L’impostazione dell’apparato pittorico permette di comprendere che si trattasse di un ambiente integralmente decorato su modello di un “corridoio prospettico probabilmente modulare”5 con un punto focale dinamico, in asse con la direzione di percorrenza dell’osservatore da ovest a est. Ipotesi attributive L’assenza di libri contabili e riferimenti diretti nella documentazione d’archivio lascia aperta la questione attributiva legata all’illusionistica macchina architettonica della galleria di palazzo San Giacomo. L’epistolario del 1688 di Guido Carlo Rasponi pone ripetutamente l’accento sui criteri stilistici da adottare per i “medaglioni della Galleria” (Casali, 1986, pp. 111-217) consentendo di dedurre che la campagna decorativa non era ancora stata avviata e che, in loco, stava lavorando ai cartoni per le parti di figura il forlivese Filippo Pasquali6, allievo di Carlo Cignani7. Ipotesi attributive della seconda metà del Novecento (Corbara, 1977; Foschi, 1989) individuano invece nella figura del frate Cesare Pronti l’autore delle quadrature della galleria del Cardinale. Nel presente contributo le ipotesi sono state vagliate sulla base di evidenze contestuali, rapporti con la committenza e criteri stilistici. Cesare Pronti (Cattolica 1626-Ravenna 1708) si forma a Bologna nella bottega del Guercino e, dopo aver preso i voti nel convento degli agostiniani a Rimini, dal 1650 si trasferisce a Ravenna, dove realizza commesse per il Duomo e per altre chiese. Nonostante Leone Pascoli ricordi il frate come “prospettivo, architetto e pittore” (1730, p. 176), ad oggi sono poche le opere di quadratura ascrivibili con certezza al Pronti. Una prima testimonianza del suo interesse per l’architettura sono le tele Prospettive di casa Traversari conservate alla biblioteca Classense. Negli anni settanta del Seicento sono documentate le collaborazioni, in veste di quadraturista, con il Cignani presso la 5 Minguzzi A., Pompeo G., Palazzo San Giacomo. Linee evolutive della dimora di villeggiatura dei Rasponi, Università degli Studi di Firenze DIDA, non pubblicato 6 Nato a Forlì nel 1651, si forma nella scuola pittorica forlivese; dipinse a Bologna il portico della basilica di santa Maria dei Servi e altre opere commissionate nella città natale. Leone Pascoli lo ricorda tra gli allievi più dotati di Carlo Cignani. 7 È documentato che quest’ultimo fu chiamato a San Giacomo non come decoratore ma per sovrintendere al cantiere e apportare “vantaggi all’opera” (Casali, 1986).
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sacrestia di San Romualdo dei monaci di Classe8 (1672; 1683), presso la villa del cardinale Albizzi9 a Cesenatico (ante 1684) e presso le cappelle di Sant’Agostino e Santa Monica nella chiesa di San Nicolò di Myra a Ravenna10 (post 1675). L’ultima impresa, in particolare, presenta soluzioni compositive affini all’ingannevole macchina architettonica della galleria: analoga è la composizione architettonica della volta poggiata su un’alta trabeazione e su mensoloni prospettici di influenza mitelliana11; lo sfondato prospettico della specchiatura centrale, in cui viene raffigurata la Gloria del santo; l’impiego dell’arco prospettico sulla parete di fondo ed elementi decorativi, quali borchie e specchiature in finto marmo, che conducono certamente nella direzione dei quadraturisti di scuola bolognese. Cifra stilistica dell’attività del Pronti è inoltre la tematica ricorrente dei medaglioni monocromi con cornici fitomorfe che l’autore realizzò nella sacrestia di San Romualdo, nella Situata all’interno della Biblioteca Classense, oggi denominata sala Muratori. L’attività del Pronti è documentata dall’epistolario tra il cardinale Albizzi e Guido Carlo Rasponi; ASCRa, TR, n. 639. 10 La chiesa sconsacrata è sede del museo TAMO di Ravenna. 11 Pronti collaborò con Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli presso l’oratorio di San Girolamo a Rimini (16841687). 8 9
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pagina a fronte Fig. 4 Simulazione di restauro dell’apparato pittorico con reintegro delle lacune.
cappella di Santa Monica e nell’abside della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Ravenna. Lo stesso artista si era cimentato nel 1687 nella realizzazione di tondi monocromi istoriati per l’oratorio di San Girolamo a Rimini, ove entrò in contatto con il quadraturista bolognese Angelo Michele Colonna (Giovanardi, 2016). Ascrivibili al Pronti sono infine gli stemmi con iscrizioni ed encarpi12, realizzati per l’Accademia dei Concordi (1683 ca.) e per l’Accademia Ecclesiastica (1706 ca.) (Viroli, 1993). Ai fini dell’attribuzione delle parti architettoniche della galleria al Pronti, è significativa l’assonanza stilistica con i disegni custoditi presso la biblioteca Classense i quali propongono soluzioni compositive analoghe a quella del portale situato sul prospetto est. Il disegno n. 16 in particolare illustra un portale inquadrato da colonne ed enfatizzato da lesene con mensole sulle quali poggia un sovrapporta dal timpano ad arco ribassato; al centro di tale composizione è posizionato un tondo sorretto da un putto. Inoltre la presenza di una valva di conchiglia nel timpano richiama le soluzioni compositive adottate nella galleria del Cardinale (fig. 1). Ulteriore analogia è l’impiego ricorrente nelle ambientazioni del Pronti di colonne con capitelli, trabeazione e basamento di ordine dorico, come la colonna attorno alla quale si svolge la scena del Martirio di Sant’Agata13. Le tematiche della rappresentazione e le soluzioni compositivo-architettoniche pertanto non portano ad escludere la collaborazione del padre agostiniano con il Pasquali, ma al contrario le relazioni della committenza Rasponi con l’ambiente religioso e i documentati contatti con il Cignani, avvalorano l’attribuzione della quadratura e dei medaglioni della galleria del Cardinale a Cesare Pronti. Il lavoro dell’artista a palazzo San Giacomo si collocherebbe tra gli interventi all’oratorio di San Girolamo nel 1687 e la collaborazione con l’Accademia Ecclesiastica del 170614. Indagini diagnostiche per la conservazione Indagini diagnostiche fotografiche e spettroscopia micro-Raman Sulle superfici della galleria sono state svolte indagini preliminari con tecniche fotografiche speciali, frequentemente adottate nell’ambito degli apparati decorativi per il proprio carattere non distruttivo. Sono state individuate sei zone campione, ritenute significative per lo studio della “l’attribuzione dell’opera […] è inconfutabile, basandosi sul confronto con opere certe dell’artista, fra cui le decorazioni della sagrestia di Classe” (Viroli, 1993). 13 Milano, Galleria Baratti, C. Pronti, Supplizio di Sant’Agata. 14 Ravenna, Biblioteca Classense, Impresa dell’Accademia dei Concordi, C. Pronti (attr.), 1683 (?); Impresa dell’Accademia Ecclesiastica, C. Pronti (attr.), 1706 (?). 12
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decorazione nel complesso15, e osservate a luce visibile (LV), luce radente (LR), infrarosso (IR), infrarosso falso colore (IRfc), ultravioletto riflesso (UVW), ultravioletto falso colore (UVfc) e fluorescenza UV (UVfl) (Aldrovandi, Caruso, Mariotti, 2010). L’indagine a luce radente ha permesso di documentare due differenti tipologie di intonaco a supporto della decorazione: la prima piuttosto ruvida e largamente diffusa sul manufatto; la seconda con segni superficiali di lavorazione a frattazzo e circoscritta nelle zone limitrofe alle porte. Soltanto sulla prima tipologia è stata riscontrata la presenza di disegno preparatorio, eseguito attraverso incisione indiretta da cartone, e di pontate, corrispondenti alle fasi di lavorazione del supporto e nettamente distinguibili sui prospetti longitudinali al di sotto dell’imposta della volta. Particolarmente indicativa inoltre è risultata la presenza di volti cordonati incisi sull’intonaco, riconducibili all’impianto originario della galleria e allo stato attuale occultati da mensoloni dipinti che poggiano in falso. L’analisi ad infrarosso ha posto in evidenza nel medaglione sud un disegno preparatorio eseguito con medium secco - carboncino o grafite – differente dalla tecnica ad incisione adottata per il medaglione nord. La presenza di differenti tipologie di intonaco del supporto, diverso
Serie 1: sovrapporta (est); Serie 2: La Carità (nord); Serie 3: medaglione (nord); Serie 4: medaglione (sud); Serie 5: decorazione centrale della volta; Serie 6: porzione della volta (ovest).
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disegno preparatorio e l’esito dell’indagine micro-Raman dei pigmenti, avvalorano l’ipotesi secondo la quale i medaglioni monocromi sono stati realizzati diacronicamente e con tecniche pittoriche differenti. L’identificazione dei pigmenti appartenenti all’impianto originario è risultata molto complessa a causa del grave degrado materico e della presenza di prodotti di restauro sulla superficie16 pertanto, a supporto della campagna diagnostica fotografica, sull’apparato pittorico sono state svolte indagini non invasive con l’ausilio di uno spettrometro micro-Raman portatile. Le indagini hanno rivelato l’impiego di una tavolozza cromatica basata su pigmenti di facile reperibilità, quali terre ed ocre tradizionalmente impiegate con tecnica a base di calce, arricchita da pigmenti di particolare pregio, quali il cinabro, la malachite e l’azzurrite, significativi per comprendere il prestigio della committenza. L’utilizzo prevalente di pigmenti appartenenti all’epoca pre-industriale17 ha reso complessa la distinzione delle ridipinture pertanto, l’individuazione dell’impianto originario della decorazione si è servita di altri dati rilevanti: la presenza di incisioni, l’utilizzo di base di una tecnica a calce e l’impiego di precise regole prospettiche. Lo studio dei prospetti longitudinali ha permesso di riscontrare, già in fase preliminare, la sussistenza di incongruenze nel costrutto architettonico della galleria: su tali prospetti infatti risulta evidente come la scansione di nicchie e lesene non rifletta l’iterazione di un modulo o un criterio di simmetria rispetto alla posizione delle porte. Quest’ultime sarebbero da ricondurre con buona probabilità ad una fase di cantiere successiva, contestuale alla realizzazione dell’enfilade di ambienti (1695-1705) in ampliamento al nucleo antico del palazzo. L’impiego di una differente tipologia di intonaco, l’assenza di incisioni e le lesioni con andamento ad arco sopra le porte avvalorano tale ipotesi. Sono altresì da attribuire ad interventi successivi estese ridipinture con fluorescenza gialla, l’inserimento delle mensole sopra i volti cordonati e la realizzazione dei festoni floreali, elementi incongrui con l’apparato decorativo originario della galleria e sovrapposti alla decorazione preesistente. Tali decorazioni sono state realizzate con pigmenti quali biacca, malachite, azzurrite e cinabro, generalmente sconsigliati dalla trattatistica18 con la tecnica a calce e il cui impiego risulta significativo per la probabile presenza di un legante organico sulla superficie pittorica. Nell’ambito delle ridipinture è stato possibile datare soltanto la realizzazione dei festoni Relazione a cura di C.R.C. Bologna; SABAP, F. 214/2 RA, Prot. N. 4594, 14/3/1995. L’uso di tali pigmenti è documentato con continuità nel corso dei secoli. 18 Si fa riferimento ai trattati di C. Cennini, A. Pozzo e G.B. Armenini 16 17
l’apparato decorativo della galleria del cardinale in palazzo san giacomo a russi • marta porcile
floreali19 mentre si attribuiscono ad un restauro tardo ottocentesco le stesure di nerofumo realizzate agli angoli del fuso di padiglione della volta20. La cospicua presenza di gesso riscontrata sulla superficie pittorica è stata ricondotta alle condizioni conservative dell’apparato decorativo della galleria, ma non si esclude che tale materiale possa essere stato impiegato in miscela nell’intonaco di supporto alla decorazione o introdotto durante interventi di rifacimento o restauro non documentati. In conclusione, sulla base dei dati emersi, si ritiene che la decorazione dell’impianto originario della galleria sia stata eseguita con tecnica a calce21 e completata, per le finiture delle parti figurative, o ridipinta con tecnica a secco permettendo di ampliare la tavolozza cromatica. Proposta per la valorizzazione dell’apparato decorativo Lo studio degli autori, dei materiali, delle tecniche esecutive e dello stato di conservazione dell’apparato decorativo ha permesso di circoscrivere gli ambiti di intervento al fine di proporre operazioni razionali volte alla conservazione critica della galleria. Risolte le principali cause di degrado con la ricostruzione delle coperture22, il restauro suggerisce un intervento di preconsolidamento dello strato pittorico e successivo consolidamento dei profondi distacchi dell’intonaco di supporto alla decorazione. Partendo dall’assunto secondo il quale il costrutto architettonico della galleria si basa su precise regole prospettiche e sul principio di simmetria, l’integrazione propone la ricostruzione pittorica dei soli elementi architettonici mancanti, con tonalità neutre, per ricreare l’effetto illusorio dell’apparato decorativo nella sua forma originaria. L’intervento consentirebbe di rispettare la presenza delle stratificazioni, ove non in contrasto con le regole prospettiche dell’ingannevole macchina architettonica della galleria, ponendosi metodologicamente tra il recupero dell’originale e il mantenimento delle ridipinture storicizzate.
I festoni floreali risultano stilisticamente analoghi a quelli dipinti nell’ambiente adiacente ove l’intervento del 1697 è documentato dalle fonti. 20 Si presume che le ridipinture siano state impiegate erroneamente per intensificare una sottostante biacca annerita. 21 Metodologicamente si differenzia dall’affresco e prevede che i pigmenti siano miscelati con latte di calce per poi essere stesi sull’intonaco stanco e/o su intonaco secco. La pittura a calce è considerata una tecnica a secco, dove la calce svolge funzione di legante. 22 SABAP, f. 214/2 RA, Prot. N 6665, 6/9/1978; Prot. N. 115, 27/7/1985; Prot. N. 1940, 8/3/1985 19
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Fig. 1 G. Forte. Ritratto di Domenico Chelli (1813c.). Museo di San Martino, Napoli (foto: F. Speranza).
illusione e prospettiva nell’architettura dipinta di domenico chelli María Fernanda García Marino
Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, Italia.
Abstract The Neapolitan theatrical scenery from the end of the 18th century until the beginning of the 19th century was dominated by the Tuscan Domenico Chelli (Florence, 1746 - Naples, 1820). In Naples, from September 1782 he held the role of architect and stage director of the Teatro San Carlo until 1807. In this city he also worked as a professor of perspective design at the Academy of Painting (invited directly by the director Johann Tischbein). Between his many students, there are the architect Pietro Valente and the painter Giuseppe Cammarano. Domenico Chelli and was also famous for the realization of civilian macchines and royal celebrations. The first phase of the ‘barocchetto’ style follows another more international one, dominated by the late Baroque classicism that precedes the evolution towards the Neoclassic. The aim is to highlight the extraordinary figure of the Florentine artist, hinge between Rococo and Neoclassicism, in the context of perspectives and quadratures through the little known but fundamental example of his intervention in the Parlatorio of the Regina Coeli Monastery in Naples. Keywords Domenico Chelli, Scenografia, Quadraturismo, Prospettiva, Settecento.
Domenico Chelli (1746-1820) Architetto, fiorentino, dalla fine del Settecento, fino al 1807, dominò il mondo della scenografia a Napoli dove giunse da Firenze nel 1781 chiamato da Ferdinando IV, per allestire la Calipso, messa in scena il 30 maggio 1782 per il suo onomastico. Il successo ottenuto gli consentì di entrare ancor di più nelle grazie del sovrano e di ottenere, dal settembre di quello stesso anno, l’incarico di architetto e direttore delle scenografie del teatro San Carlo. Il Chelli fu il terzo e l’ultimo architetto teatrale del XVIII secolo presso il Massimo Napoletano (il primo fu Vincenzo Re, dal 1740 c. al ‘62, il secondo Antonio Joli, dal ‘62 al ‘77). Per quel che attiene il suo stile, la bibliografia più accreditata afferma la sua impostazione bibienesca anche in mancanza di documenti che possano confermare questa ipotesi. Certamente lo stile del Chelli rivela sin da subito quest’influenza ma documenti recentemente ritrovati
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suggeriscono un suo apprendistato presso un´altro noto maestro fiorentino. È comunque ovvio supporre che fosse ben a conoscenza della cultura dei Bibiena, almeno per via di un attento e puntuale studio dei loro numerosi trattati sulla prospettiva e l’architettura che all’epoca erano in circolazione. A Napoli (1782-1820) tra incarichi reali e commitenze private Quando giunse a Napoli, il Chelli aveva 36 anni, era già professore dell’Accademia Fiorentina e godeva di una reputazione ben consolidata a livello nazionale. Aveva operato prevalentemente a Firenze – nel teatro del Cocomero e alla Pallacorda – e a Milano – alla Canobbiana e alla Scala. Nella città partenopea, svolse fin dall’inizio anche l’attività di professore di disegno prospettico, sia privatamente, sia dal 1791 presso l’Accademia di Pittura, per invito del direttore Johann Tischbein. Fu tra l’altro maestro del celebre pittore Giuseppe Cammarano che chiamò a collaborare, per un certo lasso di tempo, alla realizzazione delle scenografie per il Teatro San Carlo. Durante i primi 15 anni a Napoli, realizzò svariati apparati civili e per i reali festeggiamenti, ad esempio quelli del 1791 per celebrare il ritorno a Napoli dei sovrani, Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Asburgo, da un lungo viaggio. Una manifestazione rilevante questa, non solo per la fastosità degli apparati che la caratterizzavano, ma anche perché si configurava come uno degli ultimi grandi cicli di questo genere. Infatti nell’ultimo scorcio del Settecento, in concordanza con la situazione politico-economica del regno, mentre le feste di carattere religioso si facevano sempre più sfarzose e più numerose, le manifestazioni civili (soprattutto quelle di corte) diventavano sempre più rare. (Mancini, 1997). Nell’ambito della sua attività furono numerose le commissioni reali anche al di fuori del suo incarico principale di scenografo del Teatro San Carlo. Tra queste vanno ricordati i cicli decorativi nel palazzo Reale di Napoli (1795), nei siti reali di Carditello (1791) e San Leucio (1789). Consistenti anche gli incarichi ricevuti da privati cittadini e da enti religiosi; tra questi ultimi le decorazioni per il parlatorio del monastero di Regina Coeli, oggetto principale di questo intervento (fig. 1). Il monastero di Regina Coeli e l’architettura dipinta del Chelli Questo monastero femminile, tutt’oggi inserito nel tessuto urbano, venne costruito fra il 1590 e il 1594. Secondo alcune fonti il progetto fu affidato all’architetto Giovanni Vincenzo Della Monica, altre invece attribuiscono l’opera a Giovanni Francesco di Palma. Di sicuro i lavori per la chiesa del monastero terminarono nel 1594 sotto la supervisione dell’architetto Luciano Quaranta, come indica l’iscrizione sul portale maggiore.
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Nel monastero il Chelli viene impegnato dalle monache durante un periodo di circa 6 anni, tra il 1791 e il 1797 secondo la documentazione rinvenuta. Tra il 1634 e il 1659 l’architetto Pietro De Marino progettò ed eseguì il soffitto ligneo dell’unica navata, ricco di intarsi e dorature. All’interno della chiesa si trovano ancor oggi dipinti di Massimo Stanzione, Luca Giordano, Micco Spadaro, Giovan Battista Beinaschi e Pietro Bardellino a testimonianza dell’importanza che ricopriva questo complesso monastico. Nel 1812 le monache Lateranensi che l’occupavano furono trasferite presso il monastero di Gesù e Maria, sostituite dalle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret che tuttora abitano il complesso. Per tornare al Chelli, questi venne chiamato, come già detto, a lavorare a Regina Coeli tra il 1791 e il 1797, con la supervisione dell’architetto Ignazio Di Nardo. Il primo intervento di cui abbiamo notizia è la prospettiva dipinta del Grottone nel Giardino del grande chiostro. Infatti, una nota trovata presso l’Archivio di Stato di Napoli, datata 16 aprile 1791, documenta i lavori realizzati “dallo scenografo del Teatro San Carlo per la dipintura di una prospettiva del Grotone del Giardino per la solita festa delle educande”1. Ovviamente, l’opera per il suo stesso carattere effimero non ci è pervenuta. Allo stesso periodo risale anche il suo intervento nel parlatorio del convento, come viene riportato in un altro documento sempre presso l’Archivio di Stato di Napoli. Il suo impegno per le monache di Regina Coeli dura fino al 1797, come risulta da una nota del 21 agosto dello stesso anno relativo al “pagamanto finale di 60 ducati per i lavori realizzati nella porteria e grata della Badessa”, documento firmato dal R. Ing. Ignazio di Nardo (ASN. Corporazioni Religiose Soppresse, Fasc. 1928). Il parlatorio è uno spazio di dimensioni relativamente ridotte; 7 mt di lunghezza per 5,50 di larghezza. Il soffitto, fino alla chiave di volta, raggiunge circa 6,5 mt. Sulla parete di fondo, una finestra, alta circa 2 mt, si affaccia su vico San Gaudioso. Un tempo al posto dell’attuale ingresso c’era una grande grata che, come documentano i fori sul pavimento, separava le religiose dai visitatori. Risulta evidente che questo ambiente ha subito nel corso del tempo sostanziali modifiche distributive. Rimane intatto invece l’assetto decorativo originario. Questo è realizzato con la tecnica del mezzo secco e tempera grassa (detta tecnica mista) com’era d’uso all’epoca, così diffusa che la maggior parte delle stanze dei reali appartamenti a Caserta, a San Leucio e a Carditello, viene eseguita con questa tecnica e non ad affresco come si è soliti pensare. La decorazione è caratterizzata dal continuo gioco, di matrice barocca, tra quello che è vero e quello che è finto (cioè dipinto). C’è sempre da notare la presenza di alcuni elementi decorativi che si qualificano come di matrice classicista. Il tutto è impostato con la tecnica del quadraturismo – architetture dipinte entro una rigorosa intelaitura prospettica in modo da
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ASN, Corporazioni Religiose Soppresse, Fasc. 2025.
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Fig. 2 Parlatorio, parete lato sud (17911797), complesso Regina Coeli, Napoli (foto: MF Garcia Marino).
creare un’illusione spaziale – procedura in questo caso particolarmente utile, proprio per le ridotte dimensioni reali dell’ambiente. È un esempio notevole di decorazione prospettica dove architettura, scultura, pittura e arti minori sono compresenti (fig. 2). Lo spazio va letto in senso orario. Dopo l’ingresso, a sinistra, la parete sud: l’intero schema compositivo della decorazione è delimitato su entrambi i lati da due grandi colonne con capitelli compositi, serti floreali. Dunque una sorta di boccascena teatrale. La superficie è articolata in due zone e in due piani visivi. Quella inferiore presenta una divisione tripartita: due portali dipinti affiancano la nicchia centrale. Il portale a sinistra racchiude una grata, incorniciata da commessi marmorei, attraverso la quale s’intravede un altro ambiente (inaccesibile). Il portale a destra invece presenta una porta lignea dorata e dipinta che per il suo stile si può forse collocare in un momento succesivo. Entrambi i portali presentano, in alto e in posizione centrale, una modanatura con voluta e mensola; su ognuna poggia un piccolo vaso decorato con motivi teriomorfi. La nicchia centrale si erge sopra un plinto classicheggiante. Sul finto piano di esso, poggia una base composta da una pedana sormontata da una forma trapeziodale decorata con volute a festoni. Sopra
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ancora è posto un vaso contenente fiori e caratterizzato da una forma alquanto estrosa: la base è una sorta di kylix strigilato e decorato con una grande conchiglia, mentre il corpo del vaso presenta sinuose strisce incise. Dal culmine della nicchia parte una grande mensola a volute che sorregge la parte centrale della balconata superiore. Quest’ultima collega la zona inferiore della superficie decorata a quella superiore, attraverso la forte presenza della balaustra continua che si sviluppa in maniera mistilinea alternando forme concave (in corrispondenza dei portali) e convesse (in corrispondenza della nicchia centrale). La zona superiore, pur occupando una superficie di muratura più ridotta, è la parte più interessante per quel che attiene l’illusione prospettica. Sull’angolo destro, dietro la cornice scenografica che serve d’inquadratura alla composizione, si sviluppa la prospettiva che costruisce la profondità spaziale, attraverso una successione di quattro piani sovrapposti suggeriti da capiteli compositi con i relativi plinti, cornicioni e modanature. Da questi ultimi si potrebbe tracciare una chiara linea discendente verso la nicchia centrale dove si trova un punto di fuga. Gli elementi leggibili (colonne, capitelli, arcate e volte a crociera) e la loro impostazione suggeriscono la presenza retrostante di una corte caratterizzata da un pianterreno e uno piano nobile. Contribuisce a questo effetto di profondità anche l’alleggerimento dei colori che appaiono schiariti e più sfumati, quasi monocromi. In alto, a chiudere l’intero campo visivo, un’altra balaustra che disegna una netta linea orizzontale, elemento interessante e non messo sicuramente a caso, forse richiamo alle balaustre presenti nell’architettura napoletana a delimitare giardini e terrazze pensili (Pane, 1927). Continuando verso destra, sulla parete ovest, si nota, oltre alle colonne poste sui lati, identiche alle precedenti, una cornice mistilinea spezzata, con al centro un elemento decorativo contenente una piccolo vaso con fiori. In basso si vede il disegno in monocromo, a fingere il marmo bianco, di una piccola scala a cinque gradini che, quasi giunta alla base della finestra, termina in finti sedili. Ancora a destra, la parete nord connotata da un grande arco a tutto sesto con un profondo intradosso. La parte centrale dell’intradosso è decorata con elementi floreali dipinti su fondo giallo e con alcune modanature monocrome (anche esse dipinte) in rosa chiaro. L’estradosso è quasi spoglio di decorazione, tranne qualche dettaglio floreale; nel resto della parete si evincono tratti che servono a sottolineare il carattere architettonico degli elementi. All’interno dell’arco è presente una porta, da cui, un tempo, si accedeva a questo ambiente. Anche se l’apparato decorativo è palesemente più semplice, si ritrova lo stesso schema con le colonne sui lati, un accenno alla struttura di boccascena teatrale presente sulla parete sud. Infine, il lato est, connotato da una decorazione che presenta una consistente alternanza tra elementi architettonici dipinti e ornati mamorei. Qui il limite tra finzione e realtà diventa
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Fig. 3 Decorazione ‘prima stanza grande’ (1791), particolare della volta. Casino Reale, Carditello (foto: MF Garcia Marino).
decisamente labile. Al centro e in primo piano si trova un grande portale in marmo bianco e commesso, decorato in chiave da un cartiglio mistilineo anch’esso in marmo con una scritta incisa. Il portale è coronato da una cornice mistilinea dipinta su cui poggia un vaso. In posizione retrostante, sempre dipinto, un balcone concavo con balaustra. Ai lati del portale, in basso si trova un plinto classicheggiante (dipinto) su cui poggia una grata di ferro contornata da una cornice di vero marmo commesso; su di essa una base decorata con volute e festoni che sorregge un vaso biansato e strigilato da cui fuoriescono elementi floreali. Nello sfondo si intravede una lesena dipinta a finto marmo che si alza fino all’imposta di un secondo arco. Quest’ultimo, in secondo piano, in prospettiva, presenta un profondo intradosso realizzato in rossa chiaro con piccoli dettagli in giallo, simili a quelli della parete nord. In fondo (terzo piano compositivo) si vedono alcuni elementi architettonici abbozzati in monocromo tra cui lesene e cornici che creano un evidente effetto spaziale. Sovrasta l’intero ambiente la volta a tutto sesto. La sua decorazione costituisce un esempio di vivace sperimentazione: è contraddistinta, sul lato sud e nord, da uno scenografico cornicione, costituito da grandi e profonde volute affrontate, mensole ed elementi
floreali. Una cornice più sottile realizzata in rosa, profilata da una linea di perline e ritmata da mensole ‘fughiane’, inquadra verso il centro una serie di cornici dove si alternano l’oro e il verde. La zona centrale viene occupata da una sorta di velario a fondo bianco panna decorato a piccoli fiori policromi. È opera documentata del pittore ornamentista Giuseppe di Domenico, collaboratore del Chelli nell’ambito dei lavori a Regina Coeli. Conclusione Quanto emerge dalla descrizione del parlatorio darebbe sostanzialmente ragione a quanti – come Napoli Signorelli (1813), Taddei (1817), Lorenzetti (1952), Mancini (1962, pp. 147159; Id.,1964; Id., 1980, pp. 302-370) ed altri – liquidano il Chelli come un artista arretrato, percettibilmente ancora legato agli stilemi tardo-barocchi bibieneschi ed in quanto tale messo da parte e poi sostituito dal Nicolini nel suo ruolo di ‘scenografo maximo’ del teatro San Carlo. Forse le cose non stanno proprio così, come proposto più recentemente da altri studiosi quali Strazzullo (1962; 1964, pp. 209-220), Ciapparelli e Porzio e come risulta evidente dallo studio di altre opere che, del periodo napoletano, è possibile attribuirgli. In primo luogo va considerata la sua performance, nel 1791, presso il Casino Reale di Carditello, a fianco di Fedele Fischetti, nel grande salone centrale dell’appartamento reale ed ancora in una delle sale più piccole (fig. 3). Come Annalisa Porzio (2001, pp.19-32) nota: Il soffitto, con un ovale al centro a cassettonato prospettico, circondato da comparti monocromi con candelabre, copre un loggiato ad esedra con vetrate aperte, animato da putti che scavalcano una balaustra a meandri.
Una notevole capacità dunque di inserire nell’ornamentazione, entro quadrature prospettiche, figure o gruppi di figure, creando spazi illusori quasi di gusto ecclettico. Di interesse ancora più notevole risulta la sua propensione verso il gusto neoclassico e neopompeiano nei suoi interventi per la decorazione del palazzo Colonna di Stigliano a Giugliano (1795) e del palazzo Reale di Napoli (1788-1795) (Alisio, 1976). Della sua decorazione per la reggia napoletana, in particolare della ‘stanza dipinta a scaglia’ nel Quarto di Parata del duca di Calabria, restano, a detta della Porzio, tre pannelli in scagliola con figure femminili dipinte su fondo bianco. Il sapore neoclassico e neopompeiano delle opere non può meravigliare, dato il rapporto consolidato del Chelli con personaggi quali Tischbein, Hackert, Kniep, campioni del neoclassicismo a Napoli e fortemente inseriti nell’entourage della corte borbonica. Con questi evidentemente esisteva una sostanziale consonanza stilistica2. 2 Come già accennato, non si dimentichi che fu proprio Tischbein ad incaricare il Chelli come professore presso l’Accademia di Pittura.
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Fig. 4 Parlatorio, volta. Complesso Regina Coeli, Napoli (foto: MF Garcia Marino).
Per concludere, va sottolineata la contemporaneità dei vari interventi citati: addirittura l’inizio dei lavori per il palazzo Reale di Napoli precede quello di Regina Coeli, il più legato ai modi bibieneschi della sua formazione (Garzya, 1978, pp. 44-47). Dunque risulta chiaro il ruolo che dovette avere la committenza sullo stile delle opere realizzate, oscillante dai modi tardo barocchi a quelli neoclassici a seconda delle richieste e dei gusti dell’uno o dell’altro committente, nonché la valenza della funzione degli spazi coinvolti. L’ipotesi che il Chelli sia stato allontanato dal suo incarico di scenografo reale per via della sua arretratezza stilistica, come si è soliti affermare, non è quindi ormai accettabile. Un pregiudizio, questo, che si basa esclusivamente sulle critiche mosse all’architetto in merito al restauro da lui eseguito nel 1797 dell’interno del teatro San Carlo di Napoli. Fu
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infatti accusato di aver modificato, in senso peggiorativo e nel segno di una pervicace arretratezza culturale, l’assetto decorativo messo in opera negli anni Settanta dall’architetto Ferdinando Fuga. Vista la totale mancanza di elementi di giudizio, trattandosi di un intervento non più in essere, non è possibile esprimere un’opinione impaziale. Sta di fatto che quanto realizzato dal Chelli per altri teatri ebbe largo successo. Nel caso del San Ferdinando di Napoli (1788 e il 1790) furono molto apprezzate le originali decorazioni per la compresenza di motivi tratti sia dal repertorio rococò che da quello classicista (Ciapparelli, 1999). Per quel che riguarda il San Giocchino di Salerno (1811), e il San Ferdinando di Avellino (1813-1817), le decorazioni sono di pieno di gusto neopompeiano. In questi ultimi due casi il fiorentino dà prova della sua genialità anche nel trasformare edifici religiosi in sale per spettacoli profani (Mangone, 1986; Ciapparelli, 1999). Dunque la parziale, e alquanto discussa, estromissione del Chelli dagli incarichi pubblici (rimane comunque professore all’Accademia di Pittura fino alla sua morte) avrebbe più a che fare con le sue vicende personali, strettamente collegate agli eventi politici dell’epoca3. Questa avvenne alla fine di circa un ventennio in cui il Chelli era stato il Deus ex machina della scenografia napoletana. Nella motivazione del suo allontanamento, ebbe un peso importante anche la quasi totale mancanza di allievi in grado di succedergli. In conclusione le scelte del fiorentino documentano una definita posizione culturale che, pur tenendo ben presente la tradizione, è aperta a nuove e più aggiornate sperimentazioni, mantenendosi nel contempo però in una dimensione decisamente ecclettica. Una personalità poliedrica, per dirla col Ciapparelli (1999), che funge nell’ambito della scenografia napoletana da cardine tra tardo Barocco e Neoclassico e che ha il grande merito di aver preparato il terreno alla splendida fioritura della scenografia della prima metà del secolo XIX (Mancini, 1987, pp. 55-60) (fig.4).
3 La breve stagione della Repubblica Partenopea del 1799, la successiva restaurazione borbonica, l’inizio del decennio francese.
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Fig. 1a The ground floor plan of St. Francis Xavier Jesuit Church in PiotrkĂłw Trybunalski, after 1731. Fig. 1b The fasade. recostructions: Delamars version 1690â&#x20AC;&#x2122;s. Fig. 1c The fasade rebuilt after large fire in 1731. Fig. 1d The Jesuit church and colleges in 1843 (archive).
phenomenon of augmented space – physical and virtual space analysis of wall paintings: st. francis xavier jesuit church in piotrków trybunalski, poland Magdalena Żmudzińska-Nowak, Karolina Chodura Silesian University of Technology, Faculty of Architecture, Gliwice, Poland
Assunta Pelliccio, Marco Saccucci
University of Cassino and Southern Lazio, Cassino, Italy
Abstract Baroque quadrature paintings by Jesuit artists (Andrea Pozzo’s followers) are well represented in architecture of Polish churches of late XVII and XVIII centuries. We can find excellent examples of wall and ceiling paintings that include the pictorial genre of trompe-l’oeil and quadrature to make an illusion of three-dimensional space above the main nave (“open sky” effect) and illusion of depth behind the main altar in the presbytery. (Kraków, Brzeg, Krzeszow, etc.) In this paper we present more unique illusionistic perspective painting by Jesuit painter A. Ahorn in late baroque and rococo (dated 1737-1741), in the St. Francis Xavier Jesuit Church in Piotrków Trybunalski in Poland. The pictorial genre of quadrature was used to create an illusion of expanding space around the main altar in side directions. The painting presents the sequences of columns, arcades and emporas (made on vertical curved wall). The paper is an attempt to explain the phenomenon of the perspective created in this painting using a geometrical analysis. Keywords Quadrature painting, baroque, conservation, photogrammetry, geometrical analysis.
Introduction - Jesuits Churches in Poland From the second part of XVI to very end of XVIII century, Poland (former Polish-Lithuanian Commonwealth) was one of the largest states in Europe in terms of territory, economy and political influence. As a country strongly connected to the Catholic Church it offered an excellent condition for ecclesiastic architecture development. Since 1560’s when the first
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Jesuits have arrived, they quickly transformed the ’Gothic style marked’ space into a new Italian style: at the beginning according to Il Gesu basic model (Kraków, Lublin, Lwów, Jarosław, Nieśwież Łuck, etc.), then – late Roman two – towers mode (Wilno, Pinsk, Grodno, Swieta Lipka, Poznan). In XVIII century influences of Roman late Baroque, south German (Bavarian) architecture and elements of Rococo style were also visible (Wilno, Witebsk, Mińsk). Summing up, a huge number of impressively abundant Jesuits ecclesiastic buildings were erected, the form of churches and colleges inspired by Italian artist – from Vignola and della Porta to Borromini and Guarini. Also, a ‘theatrical space’ of interiors were visibly inspired by Roman architects and wall and ceiling paintings particularly by Andrea Pozzo. Turbulent history of Poland during XIX and XX centuries (partitions, national uprisings, wars – including WWI and WWII) effected with destruction and loss of a considerable parts of territories after World War II. (Betlej, 2018). St. Francis Xavier Jesuit Church in Piotrków Trybunalski This paper is focused on the Jesuits church of St. Francis Xavier in Piotrków Trybunalski in central Poland. The great importance of the city in the sixteenth century resulted of the Royal Supreme Court established there. History of the Jesuits in Piotrków probably dates back to the first half of the XVII century, when the first representatives of the Order arrived (Gacki, 1830). The first plans of the church and college were prepared in 1655, but finally the cornerstone was laid in 1695 and the buildings was completed after 1700, then the church was consecrated in 1727 (Załȩski & al., 1954). The first architectural design of the church was drawn by the Jesuit architect Jan Ignacy Delamars (Poplatek, Paszenda, 1972). The original plans, preserved in Paris, differ significantly from the existing form of the church. The church probably was crowned (in the central part of the nave) by a dome. The original composition of the facade was modelled directly on the Il Gesù church (by G.B. Vignola and G. della Porta) in Rome. The ground floor plan of the church was a three-aisled basilica. The main rectangular nave, three-span, was closed with a semi-circular presbytery, side aisles – from the east and west – consisted of three chapels connected by narrow portals. In 1731 a large fire of the city totally destroyed the church. The church was rebuilt in two years and two towers were added to the church façade (Załȩski & al., 1954). (figg. 1a, 1b) The whole of the Jesuit building complex consists of the church, the new and old colleges and the monastery house. (fig. 1c)
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History of the interior polychromy: Andrzej Ahorn and his masterpiece Originally the church interior was decorated with paintings by the Franciscan painter Adam Swach and completed in 1727 (Poplatek, Paszenda, 1972). The fire of the city that caused serious damages to the church structure, partly annihilated the walls and ceiling paintings. After the church reconstruction, a new polychrome inside were carried by Andrzej Ahorn, the brilliant Jesuit painter who was invited to create new decorations of the presbytery, main nave and side chapels (Łoziński, 1971). Ahorn, born in 1703 in Chełm (eastern Poland), entered Jesuits Order in 1721 in Kraków and graduated in theology and philosophy. He died in 1780. His brilliant paintings in Piotrków church, completed in 1737-41 are one of the most magnificent baroque polychromes in Poland, unique in terms of form and artistic values, but paradoxically not very famed. New compositions and frescoes required placing a new layer of plaster on the previous, Adam Swach’s paintings. Although the iconographic themes of the polychrome remained the same, Ahorn’s compositions did not imitate the former ones. The vault of the presbytery is decorated with paintings related to the “glory of Christ”, the vault of the nave is dedicated to “apotheosis of St. Francis Xavier” – the patron of the church. Quadrature, symbols and meanings Particularly precious and noteworthy is quadrature paintings decorating the walls of presbytery – two mirrored, monumental compositions depicting fantastic illusionistic architecture complementing the real architecture of the main altar, creating the image of augmented space. Symmetrically, walls on the both sides of the main altar are painted with open perspective galleries with ornamental grid balustrades (fig. 2a). At the right side, behind one of the decorative lattice, Ahorn placed the legible figure of a praying man, that is supposed to be a self-portrait of him. The central place of the painting (on the both sides) is occupied by a golden rose, which is a symbol of spiritual joy, eternal wisdom, Christ’s passion, mystery and eternity. Going up, above the rose, we can see clearly blue shells, symbols of baptism and pilgrimages. The crowning of the whole composition is a vase filled with fruit and flowers symbolizing the perfection of the soul, two pink roses that symbolize youth, love and devotion, two white tulips tell us about the declaration of deep love and virtue (fig. 2b). The pictorial genre of quadrature painting had also been used in different parts of the church, for example on the walls of the chapel of St. Stanislaus Kostka where the baroque composition shows the scene of the temptation of Saint Stanislaus combating devil symbolized by a huge black dog. It is an example of quadrature painting in which wall pictures closely
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pagina a fronte Fig. 2a The main altar and the Ahorn’s painting. Fig. 2b Details of the painting: rose, shell, vase, and the ’self-portrait’ on the right. Fig. 2c Stanislaus Kostka chapel, the wall painting (photo. M. ŻmudzińskaNowak).
harmonize with the real architecture of the chapel creating an illusion of additional spaces. Particularly interesting is, that the illusionist windows and stairs are painted on the chapel’s wall in a place where previously had been window openings and an entrance to a hidden stair-case (currently walled up). (fig. 2c) Fresco technique and contemporary conservation process The excellent Ahorn’s knowledge, skill and technique as well as materials used, caused that as much as 90% of the original painting has survived, despite later overcoating – some parts of the presbytery were repainted in the adhesive technique, that completely distorted the original colours and the quadrature effects. Many repaints were made in the second part of XIX century (by Antoni Strzałecki and Jan Strzałecki). The most damaging for the original polychromy was unskilled restoration in 1970’s. According to the recent analysis, originally, the wall paintings were made in the technique of fresco (’a fresco’) with finishing elements in the dry fresco technique (’al secco’). Thanks to renovation completed in 2008 (by Karolina Niemczyk-Bałtowska and Jakub Bałtowski) the painting was returned closely to its original state from Ahorn’s times (Bałtowska, Bałtowski, 2008). Space analysis. First reflections The physical and virtual space in illusionistic painting (obtained by quadrature or “below up” pictorial genres) represent a unitary combination through which augmented spaces take shape thanks to the use of perspectives or trompe-l'œil. Different reasons define the physical/virtual binomial in augmented representations. The most important is the application of anamorphosis (Bertocci, 2009). It is a geometrical procedure in the perspective, which identifies the plan of projection not arranged orthogonally to the visual axis but generally oriented: in this case, the observer has to move in physical space to identify the punctum optimum, capable of revealing optical deception. Therefore, the architectural space plays a dual role: passive, to define the arrangement of the basic elements for the perspective representation; active as a guide for the observer in the reading and perception of the depicted work. According to the thought of Andrea Pozzo the architecture becomes the framework of the representation se uno sta nel solo punto che gli viene indicato, cioè nel punto di ubbidienza più stretta, allora l’istituto di quest’Ordine può apparire come un unico edificio coerente. Ma se uno si scosta anche di un solo passo da questo punto dell’ubbidienza cieca si vede chiaramente e sempre più chiaramente, quanto uno più si allontana, che tutto è solo inganno e che l’istituto di quest’Ordine non trova un legame coerente con tutti gli altri rapporti in cui Dio ha posto l’uomo, e che esso perciò è un impedimento per il vero bene dell’umanità.
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Fig. 3a 3D digital model of the church Saint Francis Xavier, obtained thanks to direct and photogrammetric suvey. Fig. 3b Dimension analysis of quadrature in relation to the real space.
b.
Fig. 3c Digital photogrammetry survey of the apse (M. Saccucci).
a.
c.
Another significant element of the binomial physical/virtual space is undoubtedly the integration between real and painted architectures. In many cases, in fact, the architectural spaces have been designed coherently with the decorative apparatus: the rooms were designed and built to support the observation of illusory reality from preordained points of view. In some others, as in the church of Saint Francis Xavier, the architectural conformation had dated back before the realization of the quadrature, so the artist incorporated structural and decorative architectural elements present in the physical space in the iconographic apparatus for making the illusory image more real. Moreover, for the realization of augmented space on painted wall, the physical or architectural space plays an even more significant role for curved surfaces as for instance vaulted surfaces or the walls of the apse in the church of Saint Francis Xavier. In fact, in the case of different curvature surfaces, the application of anamorphic projections, necessary to obtain the perspective implant conceived by the artist, is actually even more complex. In this case, both the study of historical treatises on perspective together with the definition of the basic grid used for the representation, and the understanding of the physical space within the representation takes shape, is very useful (Bertocci, 2009).
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The research, in this first step, focuses on understanding of the theoretical/practical system used by Andrzej Ahorn for the realization of the two symmetrical quadrature painted on the concave walls of the Saint Francis Xavier apse. A more detailed purpose of the research is to analyze the physical space that contributes to the definition of such depictions. Indeed, with the aid of the digital photogrammetric ad direct survey, the 3D digital model of the church has been created just to understanding the relationship between the architectural space and the virtual one (figg. 3a, 3c). Through the analysis of the 3D model, some first reflections carry out. The apse, 13.80 meters high up to the dome, conforms to a semicircle with a diameter of 6 meters and is quadripartite in circumference arches with a length of 4.6 meters. In the two central arches, there is the main altar, while the two side ones are characterized by symmetrical squares with respect to the central altar. From the analysis of the metric relationships between the physical objects and the depicted ones, it clearly emerges that the artist wanted to divide the quadrature into two different areas: the first one that develops its height from the floor approximately to up the impost level of the ciborium; the second one that faces the tabernacle (fig. 3b). The two subjects of the paintings are different both in the use of colours and in the perspective system chosen. In the lower part, the artist, taking up an existing architectural element, the door, creates a pyramid, following the real perspective given by the existing object, the door, is placed at the centre of the altar. In this way the optical deformation is minimal and the virtual door looks as real. In the upper scene, the representation recalls, as often in the XVII century quadrature, the theatrical scenic plant: in particular, the artist paints a stage of proscenium not close to but within the same scene in which the main actor plays: God. The representation of the upper part of the quadrature takes up some of the architectural motifs of the altar itself: more in detail, the entablature and the same criteria for the proportioning of virtual symmetry in the subject with the desire to accentuate the destination of the use of these spaces to men and not to God (fig. 4a). Thanks to digital photogrammetric survey, it has been possible to compare the dimensional characteristics of the columns of the altar and the virtual ones shown in the quadrature. The colours shown are similar to the real objects. The punctum optimum, vertex of the visual The analysis shows as the real columns of the altar follow the parameters of the classical architectural orders. In fact, the Corinthian order used for the real columns has the ratio between the height of the column (h=9,5 m) and the diameter (d=0.95m) is 1:10; the pedestal is 3.5 times the diameter (h = 3.325m) and the entablature is 2.5 times the diameter of the column (h = 2,37m). The columns are smooth and not grooved.
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Fig. 4a Digital Photogrammetry. The image shows the two different subjects of the quadrature (A. Pelliccio). Fig. 4b Analysis of the parameters of the classical architectural orders both in real column of the apse and of the virtual in quadrature (M. Saccucci).
In the same way, Andrzej Ahorn applied the ratio of classic order in the painting of illusionary columns within the quadrature: he chose the Ionic order. The analysis shows that the relationship between the height of the column including the capital (h = 2, 88 mt) and the diameter (d = 0.32 mt) is 1:9. In this case also the columns are smooth and not grooved (Fig. 4b). The iconographic complexity of this second part of the quadrature inevitably requires further investigations to define the geometric grid of the perspective figurative structure. From a first and summary analysis it seems that the artist, in this second picture, deviates from the assumption of Andrea Pozzi of “tirar sempre tutte le linee delle vostre operationi al vero punto dell’occhio che è la gloria Divina”. In fact, Andrzej Ahorn does not adopt a single central vanishing point exasperating the marginal perspective deformations for
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making the illusion even more spectacular from a preferential point of view. On the contrary, the artist more closely follows the operational practice experienced by the sixteenth-century quadrature painters, and then consolidated in the seventeenth century. According to their paintings, the quadrature painters adopted within the architectural space, above all on vaults and ceilings, different vanishing points for the perspective composition in order to guarantee a better visibility of the work from different points of the architectural space. At a later step, the research will focus precisely on the geometrical perspective definition of the stage apparatus to identify firstly the ectype and then the punctum optimum defined by the author, Andrzej Ahorn (Monteleone, 2016). Moreover, the research intends to analyse also another quadrature present in the side chapel of the church for defining the framework of the representations chosen by the artist in two different architectural spaces. Conclusion The paper examines the quadrature on the main altar of the church of Saint Francis Xavier, painted by Andrzej Ahorn. The quadrature analyzed and presented in the text is one of many examples of Jesuit painting in Poland, but it is unique in terms of its location on the vertical curved wall of the altar apse. The paper focuses on the importance of the relationship between physical space and virtual space, which has a pivotal role for this genre of the paintings. Moreover, the paper describes how often the two spaces influence each other, stopping in detail on the case study. Starting from the early reflections, the future aims of the re-search are: the defining of the perspective frame-work used by the author necessary for the definition of the punctum optimum; to perform the analysis of a further quadrature present in a side chapel of the church. The comparison between the representations made in different architectural contexts in our opinion contributes to a greater understanding of the physical/ virtual space relationship of illusory representations.
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quadraturismo e grande decorazione barocca nelle chiese e nei palazzi vescovili in italia meridionale. restauri e nuove acquisizioni Fig. 1 Matera, Palazzo vescovile. Affresco della volta del Salone grande detto degli stemmi (1709).
Mimma Pasculli Ferrara
Università degli Studi ‘Aldo Moro’ Bari, Italia
Abstract
Recent studies have shown that the restoration of “Romanesque restoration” of the late 19th and early 20th centuries in Apulia Region completely changed the face of baroque churches, in order to bring out the Romanic identity. Despite this massive operation to the detriment of the Baroque decorations, still remains evidence of the quadraturism and the great Baroque decoration in the churches of Apulia with differentiated techniques, from the frescoes, to the paintings and wooden ceilings to planks. This is the case of the painted canvas in the cathedral of Ostuni, a wooden plank ceiling in the cathedral of Otranto and in the church of S. Maria degli Angeli in Brindisi. On the other hand, recent restorations for the protection of the architectural heritage in southern Italy have brought to light recently unknown or unpublished cases of quadraturism and perspective illusionism, such as, in this sense, in the Episcopal palaces of Taranto, Matera and Melfi, the whose halls offer examples of fine workmanship, in the convent complex of S. Francesco a Maddaloni (Caserta), in the church of S. Benedetto a Troia (Foggia). Keywords
Matera, quadratura, Maddaloni, Funaro, Troia
Studi recenti hanno evidenziato come i restauri di “ripristino al romanico” della fine dell’800 e inizi ‘900 in Puglia hanno completamente cambiato il volto delle chiese barocche, nell’intento di far emergere l’identità romanica. Nonostante questa operazione massiccia a danno delle decorazioni barocche, perdurano ancora testimonianze del quadraturismo e della grande decorazione barocca nelle chiese pugliesi con tecniche di fattura differenziate, dagli affreschi, ai teloni dipinti e soffitti lignei a tavolato. È il caso dei teloni dipinti nella cattedrale di Ostuni, i soffitti a tavolato nella cattedrale di Otranto e nella chiesa di Santa Maria degli Angeli a Brindisi1. D’altro canto recenti restauri per la tutela del patrimonio architettonico in Italia meridionale hanno fatto emergere casi finora poco conosciuti o inediti di quadraturismo e illusionismo 1
Cfr. M. Saccente in questo volume.
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Fig. 2 Giuseppe e Giovanni Funaro, Telone della volta del Salone grande, 1756. Maddaloni (Caserta), ex convento di S. Francesco (Fotografi d’arte Antonio e Roberto Tartaglione – Bari).
prospettico, quali, in tal senso, nei Palazzi vescovili di Taranto, di Matera e di Melfi, i cui saloni offrono esempi di quadratura di pregevole fattura2, nel complesso conventuale di San Francesco a Maddaloni (Caserta), nella chiesa di San Benedetto a Troia (Foggia). Il Palazzo vescovile è stato considerato da noi per la prima volta come tipologia diffusa “del vivere nobiliare” del vescovo (Petrarota, 2007; Pasculli Ferrara, 2009, Cazzato, 2018) da sempre detentore del potere ecclesiastico, e, quindi, come polo di attrazione o di antitesi col potere laico. Il Palazzo vescovile, residenza del vescovo, nasce insieme alla cattedrale e si evolve spesso assecondandone gli ammodernamenti barocchi. Il clima di fervore devozionale investe la Puglia e l’Italia meridionale ad opera di alacri vescovi (i ‘sisifi cristiani’ come li soprannomina Gerard Labrot, 1999), i quali sia secolari che religiosi (specie francescani e teatini) impongono tra mille difficoltà i dettami della Controriforma cercando di eseguirne i grandi programmi. In parallelo alla regolamentazione religiosa, la campagna edilizia conferisce ‘decoro’ alle cattedrali romaniche (‘le spose’ del vescovo) ovvero, se fatiscenti, le ricostruisce talvolta insieme ai nuovi palazzi vescovili. Ciò si apprende dalle Relationes ad limina, proficuo strumento nelle mani dei vescovi (Pasculli Ferrara, 2007).
In questo clima si inseriscono gli ammodernamenti barocchi dei palazzi vescovili di Taranto e Matera che recenti lavori di consolidamento e di restauro hanno restituito alla comunità diocesana. Per Taranto possiamo parlare di decorazione totale delle pareti e delle volte del Palazzo vescovile di cui sono ricomparse tracce o consistenti presenze nei vari appartamenti. 2
Cfr. I. Di Liddo in questo volume.
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È il caso della Galleria del vescovo napoletano Caracciolo teatino (secc. XVII-XVIII) con ingresso a triplice arco figurato con prospettiva illusionistica e alle pareti con ‘galleria di bosco’ e riquadri di episodi a cineseria, o la sala nell’ala est dell’appartamento del famoso Capecelatro con cielo sfondato con stemma del vescovo e cornice architettonica a finta prospettiva rococò e, in particolare, il trompe d’oeil (1778) probabile opera di Michele Lenti. Sottolineo che «nella relazione ad limina del 1791 Capecelatro scrisse a Roma che il palazzo vescovile, in rovina, era stato da lui con grande spesa, ridotto in una forma la più elegante di tutti gli episcopi del Regno»3 (De Marco, Mancini, 2010, p. 52). A Matera (1703-1722), l’arcivescovo napoletano Antonio Maria Brancaccio (chierico teatino), nel fervore dei lavori intrapresi per ampliare e arricchire la cattedrale e il palazzo vescovile secondo i dettami del tempo, dispose di affrescare la volta del salone grande del Palazzo vescovile detto degli Stemmi (15 m x 7 m). Un articolato e originale programma iconografico (otto medaglioni delle città della diocesi con cartigli sottostanti: Matera, Acerenza, Altamura, Anglona-Tursi, Venosa, Gravina, Tricarico, Potenza) è scandito da coppie di colonne su plinti emergenti, che sorreggono un tetto costituito dalle immagini della Madonna della Bruna, S. Eustacchio, S. Canio4, in prospettiva illusionistica ribassata (fig. 1). Inoltre ogni medaglione è in finta cornice, sorretta da coppie di angeli. Al di sotto corre una continua successione di vescovi della Sede materana con relativi cartigli esplicativi, inframmezzati da ovali dipinti con le città di provenienza in numero di 24 e da finti racemi dorati. 3 4
Ringrazio il vescovo Filippo Santoro per avermi accompagnato nella visita del Palazzo vescovile. Datato 1709 e col nome del vescovo.
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Fig. 3 Giuseppe e Giovanni Funaro, Telone della volta del Salone piccolo, 1757. Maddaloni, ex convento di S. Francesco (Fotografi d’arte Antonio e Roberto Tartaglione – Bari).
Grazie ai recenti restauri sono più nitide le vedute delle città in prospettiva attribuite pertanto ad Anselmo Palmieri da Polla, non escludendo il coinvolgimento di Francesco Cassiano De Silva. Quest’ultimo è l’esponente di rilievo della tradizione cartografica e vedutistica delle città del regno di Napoli, noto per il suo apporto alla pregevole edizione del Regno di Napoli in prospettiva (1703) dell’abate G. B. Pacichelli (Annunziata, 2015, p. 13). A conferma, le vedute delle otto città a volo di uccello prendono ispirazione dalle suddette tavole, in quanto eseguite dal 1703 fino al 1709, data quest’ultima apposta nella volta, al di sotto della immagine di S. Canio. Ma anche i conventi si adeguano al nuovo gusto della decorazione, grazie ai padri conventuali a volte potenti come i vescovi. Lo dimostra a Maddaloni la serie di ritratti di papi, cardinali e vescovi dell’ordine francescano dipinti ad memoriam lungo le pareti. In tal senso eclatante è il caso dell’enorme telone (740 mq) ricoprente il corridoio detto salone Grande, datato 1756, dell’ex convento di San Francesco a Maddaloni, noto alla critica5 (Sarnella, 1987; Borrelli, Catalano, Lattuada, 1993, pp. 27-41; Cazzato, Fagiolo, Pasculli Ferrara, 1996, p. 109; Russo, 2015, p. 307) perché presente nel ricco complesso francescano dei frati minori conventuali, divenuto quasi un vero e proprio feudo nel ‘700, anche con la grande chiesa annessa, ma non giustamente esaltato come un unicum: la sua straordinaria estensione con alta qualità artistica (mq 740, m 72 x 10,8), la vicinanza alla Reggia di Caserta con le stesse botteghe operanti, l’essere stato “modello” eccelso 5 In quest’ultimo saggio il tema centrale del telone del Salone grande di Maddaloni è interpretato come Assunzione della Vergine, mentre è Immacolata Concezione, protagonista della “dottrina” di cui fu il primo sostenitore il teologo Giovanni Duns Scoto (sec. XIII).
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per tante altre decorazioni prospettiche illusionistiche sia in conventi che in palazzi nobiliari meridionali, nonché per lo stesso convento di San Francesco a Maddaloni. Dimostrazione ne è la recente messa in opera (2006) di un grande telone dipinto nel soffitto del corridoio collegato allo scalone d’onore (oggi chiamato salone Piccolo), dopo essere stato 23 anni arrotolato in attesa di essere restaurato6 (Pagliaro, 2018, p. 18). Questo telone (qui pubblicato per la prima volta) ripropone la prospettiva illusionistica del salone Grande ed è datato sul margine estremo del lato corto: 17 aprile 1757. Il telone centinato del salone Grande (fig. 2) presenta una fuga prospettica incalzante con al centro dell’immensa tela (740 mq) l’immagine della Vergine Immacolata con le litanie (in alto la Trinità, in basso papa Sisto IV e Duns Scoto7) in un cielo ‘sfondato’ delimitato sorretto da una fitta trama di architetture a 2 piani alla Andrea Pozzo. Alla base una continua monumentale balaustrata di marmo rosso, che corre tutto intorno, fa da cesura tra l’episodio centrale del “dogma dell’Immacolata” e gli episodi laterali nei bracci corti del telone con le immagini in volo dei santi francescani (Francesco e Antonio) sostenitori del dogma, apparentemente a sé stanti, ma strettamente correlati all’architettura centrale attraverso immensi doppi arconi belvedere con balaustrata, a sua volta poggiante su doppi archi più piccoli che introducono rispettivamente alle glorie dei due santi. 6 Il finanziamento concesso dall’attore Tom Cruise dopo aver girato alcune scene del film “Mission Impossibile III” alla reggia di Caserta, come riporta un’iscrizione sulla parete del salone Piccolo. Ringrazio il dott. Pagliaro per avermi accompagnato nella visita del Convitto Nazionale e i fotografi TARTAGLIONE per la campagna fotografica. 7 Su Scoto e la diffusione della dottrina cfr. Pasculli Ferrara M. (2005, pp. 201-226). Per lo schema compositivo del nucleo centrale del telone con l’Immacolata Concezione, di ascendenza solimenesca (Pavone, 1994, p. 169), rimando a un altro telone (mq 74) dipinto da Leonardo Olivieri (1733) per la chiesa della Misericordia ai Vergini a Napoli, recentemente restaurato e ricollocato sul soffitto dell’oratorio nel 2016 dopo circa quarant’anni (Pasculli Ferrara, 2016).
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Fig. 4 Giuseppe e Giovanni Funaro, Telone della volta del Salone grande,1756. Fuga prospettica delle sovrapporte e finestre. Maddaloni, ex convento di San Francesco.
Si tratta dell’Apparizione di Gesù Bambino a Sant’Antonio e le Stimmate di San Francesco. Come trait d’union, in un nugolo di angeli e la dirompente prospettiva illusionistica, sono rappresentate quattro figure allegoriche, due per lato, rispettivamente Il dispregio del mondo e il Nodo che non si scioglie, e la Orazione e la Fortezza. Alla base delle due scene sacre, sui due lati corti del telone (10,8 metri), ci sono cartigli oblunghi con soluzioni angolari quali puttini, un cuore trafitto, le braccia incrociate (simbolo dei francescani). Nel telone centinato8 del salone Piccolo (fig. 3) manca la composizione del cielo sfondato, ma si articola in riquadri con tre possenti cornici dorate mistilinee collegate l’un l’altro con medaglioni, aprendosi a sfondati di architetture in prospettiva culminanti con monocromi putti volanti o elementi decorativi giocati sul verde. 8
Per la tecnica della centina cfr. Di Liddo (2010, pp. 109 – 114).
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Elemento unificante un’alta e lunga finta cornice architettonica pregevolmente rocaille simile a quella presente nel soffitto ligneo a tavolato nella chiesa della Madonna del Carmine a Barletta (Di Liddo, 2010, p. 122, fig. 10a). Degli affreschi alle pareti di questo salone Piccolo restano soltanto le decorazioni con tralci di fiori nei sottarchi delle arcate che si aprono sullo scalone. Salendo la seconda rampa dello scalone d’onore si accede a un pianerottolo che, attraverso le tre porte centrali attigue, introduce nel grande salone monumentale (fig. 4) su cui si aprono una serie di finestre reali e in finta prospettiva e le 13 porte delle celle dei frati (oggi aule e uffici) le cui sovrapporte monocrome sono affrescate con le figure dei papi e cardinali illustri dell’ordine francescano. Agli estremi del Salone, lati est e ovest, ci sono rispettivamente due grandi porte monocrome frontali decorate a prospettiva illusionistica, le quali danno accesso ai corridoi laterali dell’ex convento di S. Francesco, dove si trovano altre celle. Ai due lati opposti, nelle pareti corte, ci sono due grandi portali con finestra reale polilobata incorporata, decorati ai lati illusionisticamente con antiche colonne avvolte da rami e fiori cadenti e in alto da putti alati con tuba. In un cartiglio dipinto nel punto di congiunzione fra il portale e la finestra vi è la data 1756, senza il nome dell’artista. I nomi dei qualificati artisti sono stati rilevati dai documenti: i fratelli Giovanni e Giuseppe Funaro, il primo pittore quadraturista, il secondo pittore di ornamenti figurativi, con la collaborazione dell’architetto Casimiro Ventromile (architetto e autore della messa in opera della grande cornice in legno dorato che racchiude il grande dipinto) e dei pittori della sua bottega. Alla Sarnella si deve l’aver individuato altre opere importanti a cui ha lavorato Giuseppe Funaro a Napoli insieme al pittore Giacinto Diano (Sarnella, 1982-1986, p. 143). Quindi posso confermare quanto già sottolineato precedentemente, che i teloni del convento di S. Francesco siano “un unicum” nel loro genere per l’alta qualità (1756-1757), realizzati contemporaneamente alla costruzione della reggia di Caserta (iniziata appunto nel 1752), dove lavora Giacomo, figlio di Giovanni Funaro. A lui si deve “l’ornato” della stanza dell’Estate dipinta da Fedele Fischetti (1777-1778 e 1781) e le decorazioni di festoni e viticci nella stanza dell’Autunno, dipinta da Antonio Dominici9. È interessante sottolineare le evidenti analogie di queste ultime con i vasi di fiori nei lati corti del telone nel salone Grande di Maddaloni. Un caso eclatante, nell’ambito dei recenti restauri e in particolare delle chiese, è una doppia tipologia di tecniche settecentesche adottate a distanza di pochi decenni nella chiesa di San
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Il Palazzo Reale di Caserta, 1996, p. 46.
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Fig. 5 Troia, chiesa di S. Benedetto. Telone del soffitto. J. Petruzzi, Tela centrale e Allegorie (sec. XVIII) (Antonio Farina, fotografo).
Benedetto a Troia. La rimozione per motivi di restauro del pregevole telone della Gloria di San Benedetto dal soffitto della navata unica (dipinto a illusionismo prospettico) ha rivelato la presenza di un precedente soffitto ligneo a tavolato con lo stesso soggetto. La scelta operativa ha privilegiato - delle due tipologie di copertura – la permanenza in loco del primitivo soffitto a tavolato ligneo in parte abraso, mentre il grande telone restaurato è conservato nella chiesa di San Domenico, opera che la tradizione vuole sia stato dipinto dal pittore Giovan Petruzzi di Troia (sec. XVIII) in quanto già autore del dipinto centrale con la Gloria di San Benedetto (firmato, fig. 5) ispirato al Beinaschi, e nella stessa chiesa degli affreschi del cupolino e sui pennacchi (Pasculli Ferrara, 2013, pp. 229-238). Ritengo interessante supporre che proprio l’antico soffitto a tavolato dipinto, oggi a vista,
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sia stato il supporto già pronto per ospitare il nuovo telone dipinto con analoga Gloria di San Benedetto. Si può ipotizzare che sia avvenuto nel periodo finale del completamento della decorazione totale alla chiesa, cioè in coincidenza (o poco prima) con la commissione nel 1760 del pavimento di maiolica e cotto ancora esistente (con stemma dei D’Avalos) al famoso “riggiolaro” napoletano Giuseppe Barberio (Pasculli Ferrara, 1983, pp. 71-72). Il nuovo telone dipinto (a sostituzione del primitivo soffitto a tavolato) non si può considerare un ammodernamento alla chiesa di S. Benedetto perché troppo precoce, dal momento che la posa della prima pietra è stata il 9 marzo 1721, la consacrazione della chiesa e dell’altare maggiore il 16 novembre 1724 dal vescovo Emilio Giacomo Cavalieri (Mastrulli, 1983, p. 20). È vero che abbiamo l’esempio della cattedrale di Bari dove a distanza di pochi decenni viene riammodernata tutta la chiesa (1738-1745), considerando già obsoleto il soffitto ligneo piatto, nascondendolo con architetture di volte “ad incannucciata” con bianchi stucchi (Pasculli Ferrara, 1984, pp. 1-24). Tuttavia ritengo che a Troia ci sia stato un problema tecnico al soffitto; cioè, non appena montato, abbia subito danni quali una infiltrazione di umidità che ha provocato la perdita di pellicola pittorica invalidando la leggibilità del contenuto e delle allegorie sacre. Questo posso dedurlo dalla visione diretta del soffitto a tavolato ligneo recentemente scoperto e restaurato, che mostra evidenti lacune della pellicola pittorica. Quindi all’epoca le Benedettine di Troia avranno dovuto provvedere, con una soluzione alternativa, a decorare la loro chiesa. In questo caso ci spieghiamo la novità dell’uso di un grande telone dipinto (fig. 5) (facilmente applicabile al supporto ligneo costituito dall’ex soffitto a tavolato dipinto), secondo una moda già in uso e, nello specifico, già presente nella vicina San Severo, in cattedrale (Pasculli Ferrara, 2015, pp. 281-288). La qualità del telone dipinto è notevole, come si può dedurre anche dall’immagine fotografica (Di Liddo, 2010, pp. 101-106) delle quattro Virtù Cardinali che si possono accostare ad altre figurazioni simili delle Virtù, come quelle presenti nel soffitto a tavolato della chiesa di San Antonio a Barletta10, mentre la raffinata prospettiva illusionistica può rapportarsi ad alcuni dettagli architettonici del telone del salone Grande di Maddaloni. Il telone è collocato oggi nella chiesa restaurata di S. Domenico di Troia, in piedi lungo una parete della navata, in attesa di essere sistemato sul soffitto della chiesa. Pertanto non è stato ancora integrato in maniera definitiva il dipinto della Gloria di S. Benedetto, firmato “Joan Petruzzi P.”, mentre risaltano sul raffinato sfondo a prospettiva illusionistica, rapportabile a Domenico Mondo (Campanelli, 1997), le pregevoli quattro Virtù cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza. 10
Ringrazio ANTONIO FARINA – FOTOGRAFO - TROIA (FG) per aver eseguito la campagna fotografica in loco.
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Fig. 1 Melfi, Palazzo Vescovile, sala del Trono, Filippo Pennino, 1720ca. Fig. 2. Melfi, Palazzo Vescovile, sala del Trono durante i lavori di restauro, 1985.
Immagini su concessione del Ministero dei Beni e delle AttivitĂ Culturali e del Turismo- Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Basilicata.
l’architettura dipinta nelle sale del palazzo vescovile di melfi Isabella Di Liddo
Università degli Studi ‘Aldo Moro’ Bari, Italia
Abstract 1720 dates back to the decoration of the Throne Room, commissioned by Antonio Spinelli. The huge hall, which still retains a finely inlaid eighteenth-century throne, presents a complex plan iconographic of Allegories and Myths in scenographic perspective squares, which develop from the walls and at a time (the latter completely lost). Fortunately, the restoration has made it possible to protect the entire decorative system of the walls on which are depicted spectacular iconographies such as the Rape of Proserpine and Oryx in an illusionistic architectural structure. The frescoes can be attributed to the painter Filippo Pennino. Keywords Melfi, Spinelli, Pennino, Quadratura
Il filone degli studi sul quadraturismo in Italia meridionale, incrementato negli ultimi tempi da ricerche d’archivio, ha consentito di rintracciare nuove figure di decoratori che si vanno ad aggiungere ai pochi nomi che erano già emersi dalle pioneristiche ricerche su questo argomento. Ad oggi resta tuttavia quasi del tutto in ombra il territorio della Lucania che, ad una prima indagine, presenta alcuni considerevoli episodi di decorazione prospettica. È il caso degli affreschi presenti nella sala del Trono, nella cappella privata e nelle sale della Biblioteca del palazzo Vescovile di Melfi, riportati alla luce nel 2008 a seguito dell’ultimo intervento di restauro (figg. 1-2). La decorazione, che ha suscitato poco interesse da parte della critica, è il risultato di una lunga vicenda conservativa, conclusasi con la scelta di rimuovere le ridipinture ottocentesche che avevano completamente cambiato il significato di alcuni brani pittorici. Nel caso di Melfi, il responsabile dell’intero impianto decorativo è, come attesta l’enorme stemma dipinto sulla parete della sala del Trono, il vescovo Spinelli. A seguito del terremoto dell’8 settembre 1694 (Araneo, 1866, p. 358), il vescovo promuove una intensa campagna di restauri, trasformando completamente la facies gotica della cattedrale.
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pagina a fronte Fig. 3 Melfi, Palazzo Vescovile, sala del Trono, particolare del Ratto di Proserpina, Filippo Pennino, 1720ca.
La frenesia rinnovatrice di Antonio Spinelli non si limita solo alla cattedrale ma coinvolge anche al palazzo vescovile: Ingrandì lo Spinelli e diede una forma grandiosa all’Episcopio, ma non giunse a compierlo nell’appartamento della Curia e nella covertura del sontuoso gradinato, ove restarono imperfette le volte che stavansi costruendo, allorché accade la sua morte (Araneo, 1866, p.190).
Tralasciando i considerevoli lavori architettonici (la grandiosa scalinata, il giardino all’italiana e la scenografia scalinata interna), questo contributo intende analizzare la decorazione pittorica, in particolare della cosiddetta sala del Trono, vicenda che lo Spinelli non vide mai conclusa a causa della sua morte sopraggiunta il 6 ottobre 1724. I lavori però furono continuati e completati dai suoi successori: il vescovo Mondilla Orsini, nato a Solofra e nipote del papa Benedetto XIII, che eletto vescovo nel 1724 inaugurò appena un anno dopo la cappella vescovile (Lancieri, 1961, p. 14) e da Pasquale Teodoro Basta che commissionò la decorazione delle altre due sale di ridotte dimensioni, le cosiddette sale della biblioteca, come si evince dallo stemma dipinto che sovrasta la cornice del portale d’ingresso di una delle due sale. La rettangolare sala del Trono, lo spazio più rappresentativo del palazzo, è collocata la piano nobile dell’edifico e si prospetta con un lato lungo, ad ovest, su piazza Duomo, quello corto a sud invece sulla laterale piazza Guglielmo Marconi, mentre gli altri lati confinano con ambienti interni dell’Episcopio. Queste sale hanno subito un lungo periodo di chiusura, a partire dal terremoto del 1980 che aveva fortemente compromesso la stabilità dell’edificio. Già un primo intervento, che non è stato possibile documentare, si attesta nel 1949 come ricorda una iscrizione negli affreschi della sala del Trono. A seguito del terremoto del 1980 l’intervento di restauro sugli affreschi, definito urgente, fu eseguito dalla ditta Fransesini di Tuscania che si occupò di operare una “velinatura in corrispondenza delle lesioni e delle spaccature, con iniezioni di caseato di calcio”1. La lettura della relazioni del restauro condotto da Maurizio Lorenzoni (4/12/1985), specificamente sull’intervento nella sala del Trono e nella sala degli Stemmi, documenta un preventivo fissaggio della resina acrilica della pellicola pittorica, che risultava sollevata e arricciata su se stessa, per poi passare all’impiego della malta tradizionale. Poi nel 1997 la ditta GER.SO interviene a causa delle infiltrazione di umidità con il reinserimento della carta giapponese e successive spugnature e, dal 1999 al 2001, l’intervento di Lorenzoni che a seguito di saggi rimuove le ridipinture e gli scialbi nella cappella del vescovo, riportando in luce una decorazione a quadratura prospettica. 1 La Relazione di restauro (2/01/1981) a cura della dott.ssa M. Giannatiempo riferiva: “Il settecentesco palazzo episcopale di Melfi conserva una serie di ambienti fastosamente affrescati con scene sacre, personaggi mitologici, prospettive architettoniche e motivi ornamentali. Le decorazioni, in perfetta armonia con l’architettura sobria ma raffinata delle sale, testimoniano la presenza di un valido artista culturalmente aggiornato e perfettamente padrone del mezzo tecnico”.
L’ultimo intervento di restauro, avviatosi nel 2003 e conclusosi nel 2008, eseguito da Paolo Schettino, ha comportato la rimozione di ridipinture e scialbi portando alla luce un ciclo pittorico del tutto inedito che era stato censurato e quindi ricoperto da generiche figure di vescovi ottocentesche. Le figure allegoriche erano state completamente sostituite da quelle di vescovi con piviale, stola, mitra e pastorale in atto benedicente (fig. 2). Anche i poderosi telamoni dovettero subire un vero e proprio intervento di censura da parte di un ‘braghettone’ meridionale a cui fu dato il compito di coprire tutte le figure del ciclo, verosimilmente nell’ottocento, quando le sensuali nudità barocche dovettero apparire poco decorose. Il ciclo pittorico non è mai stato interpretato dagli studi precedenti, in maniera generica è stato accostato al celebre poema eroico morale di Clemente Prudenzio, la Psicomachia, ma senza poi effettuare nessuna lettura iconografica specifica delle figure. Il poeta latino descrive le virtù, identificate da figure femminili, che schiacciano e non lottano contro i Vizi, ma dubito si possa leggere il ciclo di Melfi in tal senso. Anche la lettura della fortunata edizione di Cesare Ripa, l’Iconologia, non può rappresentare l’unico modello di lettura e di identificazione delle figure allegoriche del ciclo perché quest’ultime risultano raffigurate in maniera differente, come vedremo. Nella sala del Trono a nostro parere è possibile distinguere principalmente due episodi. Il primo episodio raffigura le virtù cardinali, che identificano virtù del bene, alla base della formazione dell’uomo e che coincidono con i valori della religione cristiana, e quindi in linea con la scelta del vescovo Spinelli. Il secondo episodio, raffigurato su i due lati
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lunghi, non può rappresentare un episodio isolato e, benché identificato facilmente con i celebri miti del Ratto di Proserpina (fig. 3) e il Ratto di Orizia, si deve leggere come una raffinata interpretazione del ciclo della natura, in particolare il motivo dell’alternarsi delle stagioni, primavera e estate, autunno e inverno, attraverso quindi una raffigurazione che riprende la mitologia antica. Questi episodi esprimono perfettamente la raffinata cultura umanistica e religiosa del vescovo Antonio Spinelli che commissiona così gli affreschi e forse ne suggerisce anche gli episodi al pittore campano Filippo Pennino. L’intero impianto pittorico si sviluppa in uno spazio rettangolare decorato da una finta architettura prospettica a finto marmo in cui si alternano scene allegoriche, nicchie con figure allegoriche, colonne e coppie di telamoni, quest’ultimi si aggrovigliano mostrando una poderosa plasticità, influenzata dalla visione della scultura antica, nonché dai celebri modelli michelangioleschi. La lettura delle grandi figure allegoriche collocate nelle pareti più corte (a sud e a nord) richiamano espressamente le quattro virtù cardinali (Prudenza, Temperanza Forza e Giustizia), sviluppate dal De repubblica di Platone, furono poi riprese nel medioevo da S. Ambrogio nel De officiis ministrorum. La Prudenza, collocata sulla parte destra della parete corta a sud, è una giovane donna che guarda il suo volto riflesso nello specchio e con l’altra mano regge un serpente. Guardarsi nello specchio implica la conoscenza di sé, delle proprie possibilità e dei propri limiti. Dalla parte opposta a sinistra è collocata l’allegoria della Temperanza raffigurata da una donna che regge una fiaccola, simbolo di equilibrio soprattutto nell’amministrazione del denaro, come mostra la figura allegorica seduta in basso con la cornucopia. Sulla parete opposta sono raffigurate le altre due virtù cardinali. Sul lato destro la Fortezza. Qui l’allegoria è raffigurata da un uomo, e non una donna, che indossa una nobile armatura e sulle spalle la pelle di un leone, simbolo del controllo e della capacità di dominare le passioni. La figura è altèra indica con superiorità una donna seduta con lo specchio, evidentemente qui raffigurata in senso negativo come segno di vizio, la vanità. Dall’altra parte, è raffigurata la Giustizia seduta su un globo che schiaccia una figura maschile, con una mano regge una spada, simbolo di imparzialità nel governare. Le due pareti lunghe (a est e ovest) alternano finestre ad una scenografica architettura dipinta che riproduce marmi rosa e verdi intervallati da colonne dipinte a finto marmo e poderosi telamoni. La scena centrale, sulla parte est, raffigura il celeberrimo Ratto di Proserpina (fig. 3) da parte di Plutone (dalle Metamorfosi di Ovidio), secondo il modello berniniano, commissionato dal cardinale Scipione Borghese nel 1622. Il mito è legato al rinnovamento della natura e in particolare alla primavera, ma è possibile riconoscere anche il simbolo delle resurrezione, in virtù del racconto che vedrebbe Proserpina ritornare dall’inferno sulla terra per fare
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compagnia alla madre Cerere. Tale lettura può essere confermata dal fatto che l’affresco è collocato sulla parete est della sala, la direzione in cui sorge il sole, e così come la primavera richiama la stagione della rinascita allo stesso tempo la direzione ad est indica la tomba del Cristo, luogo fortemente simbolico in quanto simbolo della resurrezione. Trovo abbastanza suggestivo che il pittore abbia voluto sottolineare, attraverso un fascio di luce, da sinistra a destra, una guida nella lettura degli affreschi in corrispondenza dello studio reale della luce. Due ninfe, dipinte con un monocromo color oro all’interno di una nicchia, affiancano la celebre scena: una mostra un indice rivolto verso est, la direzione in cui sorge il sole; l’altra ninfa, in gran parte in ombra, mostra l’indice verso il lato opposto, il tramonto del sole. Sulla parete opposta a ovest è raffigurato il Ratto di Orizia da parte di Borea. Orizia2 viene rapita da Borea, vento del nord, che innamoratosi della fanciulla la fecondò col soffio di vento e la sposò. Il mito di Borea si associa essenzialmente al mito della fecondità ma è curioso riconoscervi anche il ciclo dei venti che credo si possa leggere negli affreschi di Melfi e in particolare la bora chiara e quella scura. La luce naturale, a differenza della parete opposta, coincide con quella raffigurata dal pittore a nord ovest. Qui la figura femminile è raffigurata dipinta come l’allegoria della Fede, con la corona di alloro e un giglio, nell’atto di camminare. Completamente illuminata dalla luce potrebbe raffigurare anche la Bora chiara, cioè il vento associato al tempo al sereno, collocato nei settori nord orientali o dell’Europa centrale. Dall’altra parte la bora scura, sulla parete nord ovest, un vento che si forma in concomitanza con la bassa pressione sui mari centro meridionali e che sull’alto Adriatico piega da nord/nordest con forti raffiche. La figura collocata nella nicchia opposta è lasciata quasi in ombra, simbolo del tempo scuro e raffigurata con i polsi liberati dalle corde, in riferimento alla potenza delle raffiche tipico della bora scura. Nel 1980 gli affreschi erano stati attribuiti al pittore lucano Anselmo Palmieri, attribuzione riconfermata poi nel 1999 nella scheda OA della Soprintendenza Gallerie Basilicata-Matera (Grelle Iusco, 1981, p. 127)3. A seguito dei restauri gli affreschi della Sala del Trono però sono stati condotti da Apollonia Basile alla cultura napoletana: un linguaggio pienamente rococò vicino alle soluzioni decorative e fantasiose di Giacomo de Po e agli esisti di quella pittura napoletana dei primi decenni del Settecento che vede artisti come Domenico Antonio Vaccaro, Paolo de Matteis, Filippo Pennino e altri ancora, impegnati in quel percorso di superamento della tradizione barocca e alla ricerca di una pittura libera nelle forme e nelle luci (Vernetti, 2011). Secondo la mitologia greca è figlia di Eretteo e Prassitea. Ringrazio Pietro Valluzzi della Fototeca della Soprintendenza dei Beni artistici e paesaggistici della Basilicata per aver agevolato le mie ricerche. 2 3
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pagina a fronte Fig. 4 Vietri sul mare, Congrega dell’Immacolata, particolare della decorazione della volta, Filippo Pennino, 1713.
L’accostamento al modus operandi di Filippo Pennino trova conferma anche in altri studi successivi (Acanfora, 2012) mostrando l’evidente comparazione con altri poderosi telamoni già documentati e pubblicati del pittore campano: Vietri sul mare e San Pietro a Siepi presso Cava de’ Tirreni. Filippo Pennino (o Pennini) è attivo a partire dal 1690 a Benevento per i lavori di affresco, oggi perduti, nel palazzo Vescovile e chiesa di S. Lucia (1708). È stato Mario Alberto Pavone per primo a documentare la presenza del pittore e a tracciare un organico profilo critico (Pavone, 1997, pp. 228-233; Braca, 2003; Carotenuto 2008, pp. 93-102; Carotenuto 2017, pp. 11-117). Sempre a Benevento eseguirà i lavori per la cattedrale, tra cui “una pittura succielo e spalliera” vicino alla zona del trono e nel 1692 la pittura di marmoresco del nicchio più lo frontespizio” (Pavone, 1997, pp. 228-233). Qui il pittore collaborerà col giordanesco Pietro Di Martino e avrà contatti con Arcangelo Guglielmelli, invitato a Benevento per risolvere problemi di ricostruzione post sismica. Tutti questi lavori furono commissionati da Vincenzo Maria Orsini, il futuro papa Benedetto XIII, che a detta di Pavone coinvolse nella fase di ricostruzione numerose maestranze napoletana (Pavone, 1998, p. 12). La figura dell’Orsini potrebbe essere stata fondamentale per l’arrivo del Pennino a Melfi, non solo per la vicinanza territoriale ma come sappiamo, dopo la morte del vescovo Spinelli nel 1724, viene nominato vescovo di Melfi proprio da papa Benedetto XIII, il nipote Mondillia Orsini. Dopo l’esperienza di Benevento, Pennino lasciò la firma e la data 1709 a San Pietro a Siepi, presso Cava de’ Tirreni, una decorazione su un tavolato ligneo per la quale viene pagato nel 1709 “la somma di duecento ducati” (Milano, 2004, pp. 80-81). Diversamente dai suoi primi lavori, il pittore sperimenta la tecnica del tavolato dipinto mostrando tuttavia delle incertezze e caduta di qualità rispetto ai lavori successivi, come per esempio la decorazione ad affresco della Congrega del Rosario di Vietri del 1713 (fig. 4). Lo stesso Lattuada aveva già pubblicato il tavolato di Cava, prima del ritrovamento del documento, e così si era espresso: Non so se questa poderosa sfilata di telamoni en grisaille che si sporgono da balaustre ricurve in un vertiginoso ‘sottinsù’ sia davvero da attribuire a Gennaro Greco o ad un esponente di quella vivace scuola di decoratori d’interni che fa capo a Michele Ricciardi. In ogni caso l’autore del soffitto di Cava dei Tirreni ha compreso fino in fondo le implicazioni del Trattato di Padre Pozzo, e le ha combinate con le novità di Ferdinando Galli Bibbiena (Lattuada, 1997, p. 140).
Le sperimentazioni architettoniche della schiera di questi pittori, da Greco Coccorante Saracino, Codazzi, Luciani ed altri furono giustamente già messe in relazione con il vedutismo, le architetture di invenzione e con gli spettacoli teatrali napoletani. Tali
esperienze vanno a sommarsi ai grandi episodi di decorazione di finte architetture, secondo i sistemi compositivi romano emiliani, con la presenza di pittori che giĂ dalla fine del seicento avevano lasciato una forte suggestione, sulla generazione di lĂŹ a poco successiva dei decoratori meridionali. A partire dalla presenza a Napoli di Filippo e Crispoforo Schor dal 1684, di Galli Bibbiena nel 1699, la contemporanea volta della farmacia della certosa di San Martino, realizzata nello stesso anno da Paolo De Matteis, Giacomo Del Po e lâ&#x20AC;&#x2122;operato di Luigi
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Garzi attivo alla fine del Seicento a Santa Caterina a Formiello a Napoli. Questi episodi rivelano un graduale distacco dalla maniera di Luca Giordano, i nuovi linguaggi saranno assimilati e sviluppati anche nelle aree periferiche. Il richiamo al linguaggio nuovo, come per esempio i telamoni proposti dal Garzi, come elemento coordinato tra interno ed esterno, sarà una forte suggestione per i decoratori delle aree periferiche come per i pittori Pennino e Ricciardi (Pavone, 1997, p. 25). L’operato di Giovan Battista Beinaschi, coadiuvato da Giacomo Sansi nella Congrega dei Bianchi della Giustizia a Napoli, costituisce poi un esempio importante per le suggestioni che Pennino poté ricevere. La cappella napoletana voltata a botte infatti presenta una decorazione pittorica a quadratura prospettica che imita il marmo policromo e stucchi dorati, essa si sviluppa dalla volte alle pareti mentre la parte inferiore è occupata da scanni lignei. Anche a Melfi la decorazione copre interamente le pareti e la volta (oggi perduta) e presenta una raffinata quadratura prospettica con una gamma coloristica che imita i marmi rosa e verdi e gli stucchi dorati. A differenza di Napoli la trabeazione nella sala del Trono di Melfi che corre su tutto l’ambiente è dipinta e, in corrispondenza delle quattro pareti, si intuiscono le pitture di quattro grandi medaglioni dorati, oggi del tutto persi, che dovevano con tutta probabilità collegarsi ad uno centrale di grandi dimensioni, posizionato nella volta, come già sperimentato nelle opere già note del Pennino. Ritornando agli affreschi di Melfi, benché risulti facilmente accostabile l’identica posizione degli telamoni che incrociano le gambe, ad una analisi più dettagliata l’opera di Cava mostra una soluzione prospettica priva di rigore e spazialità compositiva, soluzione che invece Filippo Pennino padroneggia più agevolmente più tardi, nel 1713, quando realizzerà gli affreschi per la Congrega del Rosario di Vietri sul mare (fig. 4). A questo punto si potrebbe tentare di datare gli affreschi di Melfi intorno agli anni 1720-23, ricordo che i lavori della cattedrale furono conclusi nel 1723, un anno prima della morte del vescovo, lo stesso che orgogliosamente fa dipingere il proprio stemma sul lato corto a sud della sala del Trono; pertanto a quella data presumibilmente i lavori dovevano essere conclusi. Finora l’indagine di archivio, operata sui conti di spesa del Capitolo durante gli anni dello Spinelli e oltre, non ha prodotto nessun esito positivo, ma sono documentati solo generici pagamenti di muratura che si attestano tra 1713-1719, presumibilmente la decorazione seguì subito dopo. Gli affreschi di Melfi confermano le suggestioni giordanesche di Pennino e conservano quella plasticità compositiva che più avanti perderà, perché confinato in ambienti provinciali a discapito degli stimoli che invece avrebbe potuto avere a Napoli (Abbate, 2009, p. 489: Guarino, 2005, pp. 237- 241).
l’architettura dipinta nelle sale del palazzo vescovile di melfi • isabella di liddo
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i soffitti a tavolato ligneo di s. maria degli angeli a brindisi. un esempio di quadraturismo in puglia Fig. 1 Brindisi, chiesa di S. Maria degli Angeli. Ignoto pittore di prospettiva, soffitto a tavolato della navata, seconda metà del XVIII secolo.
Marianna Saccente
Università degli Studi ‘Aldo Moro’ Bari, Italia
Abstract The church of Santa Maria degli Angeli was commissioned by Giulio Cesare Russo in 1609. He was a capuchine prior who took the name of Fra’ Lorenzo da Brindisi. The construction was financed by Massimiliano di Baviera and the dukes of Lorena. The interior of the church is Latin cross shaped, articulated with a central nave with a series of lateral chapels. The attention can be captured by the sumptuous baroque wooden ceiling (the so-called a tavolato, a typical Apulian technique), and by the aisles and the transept, decorated with the technique of the perspective illusionism. The church can be compared to the Palazzo Granafei in Sternatia (LE) of the 18th century as it shows the architectural frame. The ceilings are also particulary remarkable as they are embellished with three paintings the Madonna degli Angeli che appare a S. Lorenzo da Brindisi,the Martirio di S. Orsola e le sue compagne and the Miracolo di S. Chiara. For the first time, it has been assumed that these three paintings can be attributed to an Anonymous author from the Alpst since he shows the same stylistic features as the Flemish painters of the 17th century. Later the church and the two wooden ceilings have been restored from 2007 up to 2011. Keywords Quadraturismo, Puglia, Brindisi, soffitto a tavolato, Settecento
La chiesa di Santa Maria degli Angeli (Basile, 2015, pp. 431-432; Carito, 1995; Ribezzi Petrosillo, 1993, pp. 34-37) fu voluta nel 1609 da Giulio Cesare Russo (1559-1619), cappuccino con il nome di fra’ Lorenzo da Brindisi, beatificato nel 1783 da Pio VI, canonizzato nel 1881 da Leone XIII, proclamato dottore della chiesa universale con il titolo di doctor apostolicus nel 1959 da Giovanni XXIII. San Lorenzo da Brindisi (Arturo M. da Carmignano di Brenta, 1960-1963; Carito, 1977), orfano di padre e di madre, all’età di quattordici anni si trasferì da Brindisi a Venezia presso uno zio sacerdote che dirigeva una scuola privata. Continuò i suoi studi diventando frate dell’Ordine dei Minori Cappuccini e quindi sacerdote nel 1582. La sua ascesa nell’ordine fu rapida, grazie alla sua spiccata vocazione di predicatore, tanto che nel 1598 divenne vicario provinciale in Svizzera e nel 1599, in qualità di Definitore Generale, fu posto a capo della
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Fig. 2 Brindisi, chiesa di S. Maria degli Angeli. Ignoto pittore di prospettiva, soffitto a tavolato della navata. Particolare, seconda metà del XVIII secolo.
schiera di missionari che i cappuccini inviarono in Germania, su sollecitazione di papa Clemente VII, per contrastare la diffusione del pensiero protestante. La sua fama di santità accrebbe in Germania grazie a un episodio avvenuto nell’ottobre del 1601. San Lorenzo da Brindisi volle essere uno dei quattro cappellani necessari per assistere spiritualmente le truppe cattoliche nella campagna in atto contro i turchi di Maometto III ed il 9 ottobre giunse ad Alba Reale, dove era accampato l’esercito imperiale. In questa occasione le truppe turche furono sconfitte grazie all’intervento del Santo il quale sosteneva con le parole di incitamento e la croce che portava in mano le truppe cattoliche. Il 24 maggio 1602 San Lorenzo da Brindisi viene eletto Vicario Generale dell’ordine; con l’alta carica gli è affidato il compito di visitare tutte le province oltre le Alpi1 (Arturo M. da
1 L’Ordine si configurava allora suddiviso in trenta province con circa novemila religiosi, sparsi in tutta Europa: era compito del generale visitare tutte le province e incontrare i frati, esortando e incoraggiando tutti. Il generale in meno di un anno visitò a piedi le province transalpine: l’Italia, la Svizzera, passò per la Franca Contea e per la Lorena, Paesi Bassi e trascorse l’inverno nelle province francesi di Parigi, Lione, Marsiglia e Tolosa. Nel primo semestre del 1603 era in Spagna, da dove ritornò in Italia, effettuando la visita a Genova, prima di recarsi in Sicilia e nel Meridione.
i soffitti a tavolato ligneo di s. maria degli angeli a brindisi • marianna saccente
Carmignano di Brenta, 1959, pp. 166-236). Nel 1605, Paolo V lo rimandò verso i paesi del settentrione, in Boemia a Praga come commissario generale. Passando per il Tirolo giunse a Monaco, dove si incontrò con Massimiliano il Grande, duca di Baviera e capo dei cattolici tedeschi. Lorenzo da Brindisi era già stato sette anni prima in quelle terre dove erano sorti conventi a Monaco nel 1600, ad Augsburg nel 1601 e poi a Innsbruck, Salisburgo, Bressanone e Bolzano, luoghi che nel 1605 erano stati riuniti in un nuovo commissariato autonomo (Arturo M. da Carmignano di Brenta, 1959, pp. 166-236). Durante la sua attività di predicatore in Europa riesce, intorno al 1604, a rientrare in Puglia, a Brindisi, e a pianificare la costruzione della chiesa di Santa Maria degli Angeli su modello di quella dello Spirito Santo a Napoli2 (Sale, 2001) grazie ai finanziamenti di Massimiliano di Baviera e dei duchi di Lorena3 (Arturo M. da Carmignano di Brenta, 1963, pp. 335-337, 363-377; Arturo M. da Carmignano di Brenta, 1964; De Carrocera, 1960, pp. 133-195; Carito, 2005, pp. 200-203). Annesso alla chiesa fu costruito anche un monastero per le clarisse cappuccine, dove furono ospitate dal 14 febbraio 1619 le monache che erano in Santa Chiara a Brindisi, e vi rimasero fino al 1862 sotto l’alto patronato dello stesso duca di Baviera (Perfido, 2016, pp. 237-249). Dopo aver inquadrato la figura carismatica e di grande spessore religioso di S. Lorenzo da Brindisi, torniamo alla descrizione della chiesa di Santa Maria degli Angeli. L’interno è a croce latina, a navata unica con una serie di cappelle laterali. Sono presenti numerosi pregevoli dipinti tra cui quello raffigurante S. Lorenzo da Brindisi attribuito a Oronzo Tiso, e l’Immacolata tra angeli, che è stata attribuita a Pietro Candido ossia Pieter de Witte (1548-1628) da Nuccia Barbone Pugliese. Notevoli sono i soffitti lignei decorati a illusionismo architettonico della navata e del transetto ascrivibili alla prima metà del XVIII secolo. Il soffitto della navata è a tavolato ligneo (fig. 1). Tutt’intorno corre una decorazione a illusionismo architettonico che riproduce una serie di lesene alternate a decorazioni dorate su fondo blu e raccordate le une alle altre con ghirlande di fiori. È interessante il confronto con lo 2 Il motivo di prendere a modello questa chiesa napoletana sta nel fatto che rispecchiava appieno i dettami imposti dal Concilio di Trento per realizzare gli edifici di culto. 3 Dopo alcuni anni di fitta corrispondenza con Massimiliano il Grande fu richiamato dallo stesso in Baviera per liberare Elisabetta di Lorena, moglie di Massimiliano, da un’ossessione diabolica. Il santo liberò la duchessa il 2 febbraio 1607. Lorenzo divenne non solo il consigliere più fidato del duca, ma anche il suo padre spirituale. Il duca di Baviera pensò di mandare in Spagna e a Roma San Lorenzo, in qualità di ambasciatore, per sollecitare l’aiuto di Filippo III e di Paolo V verso i principi cattolici tedeschi, e giunse a Madrid il 10 settembre 1608. Nei due mesi e mezzo che si trattenne a Madrid, s’incontrò una cinquantina di volte coi sovrani. Il Santo, pertanto, riuscì a ottenere non solo gli aiuti richiesti, ma anche di fondare un convento in Spagna. La sua amicizia con Massimiliano divenne sempre più profonda e si trasformò in una vera paternità spirituale. Questa condizione fu anche l’occasione per far costruire a Brindisi una chiesa dedicata a S. Maria degli Angeli e un monastero.
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Fig. 3 Ciriaco Brunetti, Progetto per la decorazione di un soffitto, 1757. Da I. Di Liddo (2010).
stesso motivo decorativo che si ritrova nella volta della sala della Gloria dellâ&#x20AC;&#x2122;Olimpo affrescata a illusionismo architettonico del Palazzo Granafei a Sternatia (LE) datato al sec. XVIII (Tundo, 2008, pp. 230-241; Basile, 2015, pp. 384-385). Al centro tra le lesene ci sono due medaglioni sorretti da puttini dove sono raffigurate la Fortezza e la Speranza, mentre sui lati corti del soffitto sono raffigurati degli splendidi
i soffitti a tavolato ligneo di s. maria degli angeli a brindisi • marianna saccente
archi decorati nell’intradosso da rose dorate e contenenti due medaglioni raffiguranti la Carità e la Fede. Nei quattro angoli della decorazione con lesene sono raffigurati i Quattro Evangelisti con i loro attributi iconografici che costituiscono una interessante soluzione angolare illusionistica curva. Tra le lesene si aprono quattro arcate attraverso le quali si affacciano alcuni personaggi (fig. 2) (motivo decorativo, questo, che ritroveremo anche nel soffitto del transetto). La tela centrale del soffitto rappresenta la Madonna degli Angeli che appare a S. Lorenzo da Brindisi e in questa sede per la prima volta si da una probabile attribuzione dell’opera ad un pittore fiammingo del Settecento considerate le fisionomie della Madonna e del Cristo Redentore ascrivibili alle caratteristiche della ritrattistica degli artisti d’Oltralpe. Questa ipotesi troverebbe anche fondamento nel fatto che la costruzione della chiesa fu finanziata da Massimiliano di Baviera e sicuramente anche tutti gli ammodernamenti successivi furono sovvenzionati dalla stessa famiglia, il quale preferì ingaggiare qualche artista bavarese per realizzare le tre tele della navata e del transetto. Interessanti sono le decorazioni a raccordi dorati che ricordano le decorazioni di Ostuni in Cattedrale e Polignano in Cattedrale e nella chiesa di Sant’Antonio realizzati da Luca Alvise tra il 1720 e il 1721 (Di Liddo, 2010, pp. 109-114). Ancora più interessante è il raffronto da me proposto, in questo contesto, tra la decorazione di due grandi rose dorate poste sopra e sotto la tela centrale del soffitto della navata e il Progetto per la decorazione di un soffitto realizzato da Ciriaco Brunetti nel 17574. Nel suo progetto di decorazione Ciriaco Brunetti (Borrelli, 1993) realizza grandi rose dorate dipinte che campeggiano sui lati del soffitto raccordate da grandi cornici dorate dipinte (fig. 3). Il soffitto del transetto è anch’esso a tavolato (fig. 4). Qui, a differenza della navata, la decorazione a illusionismo architettonico è più movimentata in quanto caratterizzata da un alternarsi di cavità e convessità che ampliano notevolmente lo spazio prospettico. Rosse colonne marmoree scandiscono la superficie aprendo lo sguardo su arcate dalle quali si affacciano alcuni personaggi. Questo motivo decorativo affonda le sue radici in una delle splendide decorazioni di palazzo Pitti a Firenze, dove Mitelli e Colonna tra il 1639 e il 1641 realizzano il Trionfo di Alessandro Magno dove si vede affacciarsi, tra le colonne della balaustra, un giovane con il cannocchiale. Al centro dei quattro lati della decorazione ci sono quattro medaglioni raffiguranti S. Pietro, S. Giacomo di Compostella, S. Mattia apostolo (o S. Giuda Taddeo apostolo), S. Paolo recante gli attributi della spada e del libro delle Lettere con un cartiglio che riporta EPITRES S.TA 4
Il Taccuino di progetti per decorazioni 1757 di Ciriaco Brunetti è stato pubblicato in Di Liddo, 2010, pp. 153-176.
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pagina a fronte Fig. 4 Brindisi, chiesa di S. Maria degli Angeli. Ignoto pittore di prospettiva, soffitto a tavolato del transetto, seconda metà del XVIII secolo.
PAULE. Ai lati del soffitto due dipinti raffiguranti il Martirio di S. Orsola e delle sue compagne5 (Sgarbossa, 1998, pp. 595-596) e il Miracolo di S. Chiara6 (Sgarbossa, 1998, pp. 453-454). Al centro tra i due dipinti si apre una lanterna, circondata da quattro angeli in volo, che porta lo sguardo dello spettatore verso l’alto, accompagnato da quattro imponenti finte colonne di marmo verde, oltre una balaustrata al di sopra della quale appare la colomba dello Spirito Santo circondata da nubi e testine alate. Interessanti risultano i due angeli che si affacciano dalla finestra circolare e sorreggono un vaso di fiori fiancheggiati da due finte statue bronzee allocate tra le quattro colonne in marmo verde. Il motivo decorativo della lanterna prende avvio dalle grandi invenzioni architettoniche barocche del Borromini, esempio eclatante è la chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza a Roma. Questo tipo di decorazione si è evoluta nel tempo fino a giungere nella sua forma di illusionismo architettonico, importanti esempi sono dati dalle invenzioni di Andrea Pozzo con le sue finte cupole (Fagiolo Dell’Arco, 1997, pp. 263-275). Pertanto anche la decorazione del soffitto brindisino risente di questo influsso riscontrabile in altre decorazioni affini, ad esempio, sia a Napoli nel palazzo Nifo Medici, in particolare nelle decorazioni del loggiato attribuite a Gaetano Brandi (1685-1695ca.) (Fumagalli, 2018, pp. 104-115) che a Enna nella chiesa di San Marco Le Vergini, con la finta cupola su progetto attribuito ad Agatino Daidone (1705-1708) (Piazza, 2006, pp. 427-438). Alla luce di queste considerazioni è evidente che l’esecutore della decorazione dei soffitti di Brindisi sia stato un artista estremamente preparato, che conosceva sia le realtà artistiche del Regno di Napoli che romane. Purtroppo non ha lasciato alcuna firma sui soffitti7, tuttavia è presente un’unica iscrizione sul soffitto, mi riferisco al cartiglio che riporta EPITRES S.TA PAULE posto sul libro delle Lettere che reca in mano il S. Paolo. È singolare che l’iscrizione sia in francese, pertanto anche qui potrebbe essere ancora presente la committenza della famiglia del duca di Baviera, che, come ricordiamo, ebbe il patronato sulla chiesa e l’annesso convento fino al 1862, per l’ingaggio di un artista d’Oltralpe per la decorazione dei soffitti. Rimane comunque in piedi la teoria dell’utilizzo dei progetti del Brunetti almeno per la decorazione del soffitto della navata. 5 Secondo la leggenda, era figlia del re d’Inghilterra (infatti ha la corona quale attributo regale) e fu promessa sposa a un principe. Ma lei, che s’era votata segretamente a Dio, chiese tre anni per riflettere. Intanto con le sue undici ancelle si recò a Basilea,poi al ritorno a Colonia le giovani si imbatterono negli Unni di Attila e furono uccise. 6 La santa è raffigurata con il saio nero e marrone dell’ordine e l’ostensorio (suo attributo principale) con il quale cacciò da Assisi i saraceni assoldati da Federico II nel 1204. 7 La conferma dell’assenza di firme sui soffitti è data dalla relazione di restauro redatta dall’architetto Luigi Dell’Atti nel 2011 alla fine dei lavori. Ringrazio la dott. Katiuscia Di Rocco e l’architetto Dell’Atti per avermi fornito la sua Relazione di Restauro della chiesa.
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Nel 2016 è stato effettuato uno studio da parte di Paolo Perfido che ha eseguito la sovrapposizione del rilievo celerimetrico al fotopiano per individuare i vari punti verso cui convergono le linee di fuga con cui è costruita la scena del soffitto della navata. Perfido afferma che la percezione di allineamento tra l’architettura reale e quella dipinta è talmente efficace nell’inganno visivo che genera, nell’osservatore in movimento, l’impressione che le strutture dipinte si modifichino sotto i propri occhi fino a raggiungere un perfetto allineamento con l’architettura reale. Lo stesso effetto lo si ottiene percorrendo la navata in senso contrario essendo l’opera perfettamente simmetrica anche rispetto all’asse minore. Il risultato ottenuto ha confermato che anche per i singoli elementi architettonici l’autore del dipinto ha usato punti di fuga differenti calcolati in funzione di una efficace resa visuale piuttosto che di una rigorosa costruzione prospettica, evidenziando una capacità di controllo dello spazio. La rappresentazione dei singoli elementi architettonici è pensata per essere colta da un preciso punto di vista dal quale si può percepire l’illusione che l’architettura reale e quella dipinta siano tra loro in perfetto allineamento. La costruzione prospettica, pertanto, non ripercorre i rigorosi canoni indicati da padre Pozzo nei suoi scritti facendo uso di un solo punto di fuga, ma l’autore interpreta le nuove idee sulla raffigurazione dell’architettura adattandole alle esi genze del luogo. La rigorosa applicazione di una prospettiva centrale non avrebbe sortito lo stesso effetto illusionistico che si ottiene da più punti di vista. L’autore dimostra di possedere
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una buona tecnica e al contempo di essere al passo con le più innovative suggestioni artistiche che si vanno diffondendo a cavallo tra XVII e XVIII secolo (Perfido, 2016). Concludendo i soffitti a tavolato della chiesa di Santa Maria degli Angeli a Brindisi andrebbero ascritti alla prima metà del Settecento soprattutto per le analogie sia con i citati soffitti di Polignano, che con il progetto decorativo del Brunetti risultando un importante esempio di illusionismo architettonico nel novero della grande e fiorente stagione del quadraturismo in Puglia (Pasculli Ferrara,1996, pp. 97-116; Pasculli Ferrara, 2006, pp. 347-358; Saccente, 2009, pp. 162-164; Di Liddo, 2010; Pasculli Ferrara, 2015, pp. 281287). Inoltre è importante sottolineare che i soffitti a tavolato sono una peculiarità della Puglia e sono stati ritrovati anche in Brasile e Portogallo come dimostrano gli studi di Magno Mello (2006, pp. 479-489; 2015, pp. 311-318). Bibliografia Arturo M. da Carmignano di Brenta 1959, Il generalato di S. Lorenzo da Brindisi (1602-1605), «Collectanea Franciscana», 29, pp. 166-236. Arturo M. da Carmignano di Brenta 1960-1963, San Lorenzo da Brindisi, dottore della Chiesa universale (1559-1619), Voll. I-IV, Venezia Mestre. Arturo M. da Carmignano di Brenta 1964, Missione diplomatica di Lorenzo da Brindisi alla corte di Spagna in favore della Lega Cattolica tedesca (1609), Padova. Basile V. 2015, Brindisi, in V. e M. Cazzato, Atlante del barocco in Italia. Lecce e il Salento, De Luca, Roma, pp. 431-432. Basile V. 2015, Sternatia, in V. e M. Cazzato(a cura di), Atlante del barocco in Italia. Lecce e il Salento, De Luca, Roma, pp. 384-385. Borrelli G.G. 1993, Ciriaco Brunetti decoratore, in G.G. Borrelli, D. Catalano (a cura di), Oratino. Pittori, scultori e botteghe tra XVII e XIX secolo, Catalogo della Mostra, Napoli. Carito G. 1977, Giulio Cesare Russo e la spiritualità cristiana in Brindisi fra XVI e XVII secolo, Ed. Amici della A. De Leo, Brindisi. Carito G. 1995, La guida di Brindisi. Itinerario storico artistico, Capone, Cavallino (LE). Carito G. 2005, Massimiliano di Baviera e Lorenzo da Brindisi. Per la pace tra protestanti e cattolici nei paesi d’oltralpe, «Alba pratalia: semenzaio delle memorie. Storia, lettere, arti scienze», 7, pp. 200-203. De Carrocera B. 1960, San Lorenzo de Brindisi, España y los capuchinos españoles, «Naturaleza y Gracia», 7, pp. 133-195. Di Liddo I. 2010, L’arte della quadratura. Grandi decorazioni barocche in Puglia, Schena Ed., Fasano (BR). Fagiolo Dell’Arco M. 1997, Le finte cupole di fratel Pozzo: artificio, meraviglia, propaganda, «Annali arentini», 4, pp. 263-275.
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Fig. 1a Dettaglio della colonna tortile, paliotto mobile (P. Donia, 1739), santuario di Papardura, Enna; Fig. 2b paliotti mobili in argento: ortofoto dei modelli a confronto; Fig. 2c V. Natoli, A. Natoli, F. Martines, A. Gigante (1768) paliotto mobile, chiesa di San Giuseppe, Enna. Ortofoto della fotomodellazione; Fig. 2d P. Donia (1739), paliotto mobile, santuario di Papardura, Enna; A. Pozzo (1693), Prospettiva deâ&#x20AC;&#x2122; pittori e architetti, tomo II, figura 41°; Fig. 2e F. Tuccio, P. Picherali (1726-29), paliotto mobile, chiesa di Santa Lucia alla Badia, Siracusa. La prospettiva illusoria: rappresentazione digitale della nuvola di punti da laser scanner 3D.
il paliotto dell’altare maggiore della chiesa di s. lucia alla badia a siracusa: il carattere illusorio di una prospettiva architettonica scultorea Rita Valenti, Emanuela Maria Paternò
Università degli Studi di Catania – Struttura Didattica di Architettura con sede a Siracusa, Catania, Italia
Abstract Within the context of the artistic Baroque production in the area around Syracuse, religious architecture has an important role. Its furnishings, on a small scale, are real jewels whose figurative aspects refer to the themes of architecture itself. The carried out research focused on the highly symbolic and recurrent theme of the Solomonic order and on the twisted columns which evoke those of the destroyed Solomon’s temple in Jerusalem. The case study deals with the high altar in the church of St. Lucia alla Badia, in Ortygia, Syracuse, The artefact has a high architectural value revealed through a central perspective view representing a real architectural scene. The presence of the twisted columns offers the opportunity to further embellish the scene which contains the three arts altogether: drawing architecture and sculpture. The geometric analysis and the digital representation with modern 3D rendering technology, through the reconstruction of the architectural space suggest hypotheses about the inspiration of the scene. Decoding the perspective is useful in order to detect the lines that lie at the root of the creative process and that allow reasoning and comparisons. Keywords Baroque, Spiral column, 3D Modelling
Piccole architetture d’argento: i paliotti In sintonia con il panorama barocco italiano e siciliano, nel territorio siracusano si sviluppa una notevole produzione artistica soprattutto in campo religioso. Nel periodo compreso tra ‘600 e ‘700 vi è un’intensa attività, caratterizzata da opere straordinarie per forma e fattura, rivolta alla esecuzione di apparati ecclesiastici che in piccola scala costituiscono dei veri gioielli, non solo per la preziosità dei materiali, ma anche per l’alta capacità espressiva e per i notevoli contenuti simbolici1. 1 Lo studio condotto nell’ambito del programma di ricerca dal titolo “La rappresentazione dell’architettura religiosa barocca tra geometria e simbologia. Dalla grande alla piccola scala, dalle facciate agli altari” (progetto PON-NEPTIS) è il risultato della collaborazione di tutti gli autori. Nello specifico, Rita Valenti ha scritto il paragrafo 1 e le conclusioni; Emanuela Paternò ha scritto i paragrafi 2 e 3.
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Realizzati in legno, marmi policromi, argento, compongono spettacolari congegni destinati a stupire e ad emozionare, manifestando la straordinarietà del sacro e sono espressione di una particolare abilità artigianale degli artisti e della attenzione culturale dei progettisti. Tali opere spesso nascono dalla sinergia di competenze artistiche differenti e sono frutto di tradizioni non esclusivamente di ambito locale. Di estremo interesse in questo panorama culturale sono i paliotti degli altari che, nella loro semplice funzione di apparecchiatura mobile della mensa, dall’originaria fattura in tessuto nel XVI secolo vengono realizzati anche con materiali preziosi. L’argento per la presenza in Sicilia di abili argentieri –infatti nei maggiori centri siciliani era attivo un Consolato degli orafi e degli argentieri– e per la sua duttilità è uno dei materiali per eccellenza utilizzati per la realizzazione di paliotti tra la metà del XVII e gli inizi del XVIII secolo. La lavorazione a sbalzo delle lamine di argento vede il contributo di artisti, a volte sconosciuti, che hanno apportato nuovi impulsi culturali e compositivi realizzando opere fortemente espressive in cui spesso è raffigurato uno spazio architettonico dall’effetto scenografico. La tridimensionalità della scena viene percepita sia attraverso una rappresentazione prospettica sia attraverso uno sfondamento scenico in cui la lastra costituisce la quinta della rappresentazione. Indagare questi elementi di arredo sacro equivale a studiare delle piccole architetture in scala; infatti, come riferisce Ruggeri Tricoli (1992), in alcuni contratti questa classe artistica viene indicata proprio come “palio con disegno di architettura”, il cui riferimento è riscontrabile nella scenografia teatrale. La relazione tra scienza della visione e le rappresentazioni pittoriche o, come nel caso specifico, le rappresentazioni realizzate in bassorilievo, tra la teoria prospettica e la pratica operativa è tema ricorrente nel clima culturale di fine seicento. L’architettura scolpita nelle lastre di argento, con la tecnica a sbalzo secondo la vista in prospettiva, crea quell’effetto illusorio di percezione tra spazio reale e immaginario proprio del quadraturismo. La lastra d’argento alla stessa stregua del foglio di carta costringe l’osservatore ad un solo punto di osservazione, per lo più posto al centro della scena, nonostante attraverso lo sbalzo venga aggiunta in alcuni dettagli la terza dimensione che dona profondità materica. Il lavoro di ricerca, considerata nella realizzazione dei paliotti la stretta collaborazione tra artigiani e architetti, pone l’attenzione sul ritrovamento della geometria sottesa per individuare i legami tra rappresentazione scultorea e geometria e per comprendere la dipendenza dell’effetto scenico dalla coerenza con la regola. Lo studio sviluppa una
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metodologia di indagine critica fondata sulla estrapolazione esatta delle costruzioni geometriche della prospettiva per dare fondamento ad ipotesi sull’applicazione in campo scultoreo della teoria prospettica. Il Salomonico nei paliotti siciliani in argento Alla luce della ricognizione effettuata sui paliotti barocchi siciliani, emerge nei motivi architettonici il tema del Salomonico con la declinazione della colonna tortile, espressione della dinamicità delle forme architettoniche. Nei fatti, la realizzazione di impianti scenografici con portici sostenuti da colonne tortili costituisce, come è noto, l’evocazione di quelle del distrutto tempio di Salomone che la leggenda individua nelle colonne petriniane. Il ricorso alla simbologia connessa con la colonna tortile inserita in una scenografia di portici è figurazione artistica consueta nella creazione dei ‘paliotti d’architettura’ siciliani in argento; nei fatti la tecnica a sbalzo consente di poter meglio interpretare la tridimensionalità della colonna salomonica. Questa generalmente, nelle raffigurazioni delle opere conservatesi, assume un proprio modello formale che non replica quello berniniano delle colonne del Baldacchino di San Pietro piuttosto trova un riferimento diretto con le elaborazioni artistiche degli altari barocchi siciliani. Le colonne delle differenti ambientazioni scenografiche sono tortili per tutta l’interezza del fusto oppure per un terzo insistono su un piedistallo liscio o decorato; il fusto non viene proposto con la ripartizione dei tratti scanalati e lisci; generalmente è liscio, a volte cinto da decori (fig. 1a). La lettura sincretica è stata indirizzata verso il riconoscimento delle caratteristiche linguistiche che definiscono le differenti configurazioni geometriche che, dall’assetto prettamente scenografico, confluiscono in una forma di rappresentazione geometrica prossima al linguaggio pittorico. Ci si trova difronte a delle quadrature in rilievo di tipo scenografico in cui la ricerca delle leggi della geometria con precisione è fattibile grazie alle potenzialità offerte dalla fotogrammetria, dalle strumentazioni e dai software di ultima generazione. Dalla scenografia alla ‘quadratura scultorea’ Alla stessa stregua degli altari, i paliotti sono frutto del pensiero di architetti, spesso anche scultori e scenografi, che riversano in queste opere una creatività basata su strategie decorative prossime alla costruzione teatrale. Tra i molteplici esempi diffusi nel territorio siciliano, lo studio ha considerato i paliotti in argento della chiesa di San Giuseppe e del santuario di Papardura a Enna e della chiesa di
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Santa Lucia alla Badia a Siracusa, simili per dimensioni e emblematici sia per la complessità figurativa che per la confluenza di maestranze differenti, per competenze e provenienza (fig. 1b). Il primo del 1768, opera congiunta dell’architetto Andrea Gigante, dell’argentiere Vincenzo Natoli e dello scultore-cesellatore Francesco Martines è stato definito “un vero e proprio palcoscenico in argento” (Accascina, 1974, pp. 396-398). La rappresentazione scenica si svolge entro un recinto di edicole tridimensionali disegnate in ogni dettaglio che costituiscono le quinte del palcoscenico. In particolare, nei documenti si fa riferimento al ‘disegno in grande’ che non riporta le figure per “non occultare l’Architettura” (Rizzo, 2008, pp. 205-209); è proprio l’apparato architettonico, costituito da un tripudio di colonne, con capitello ionico, dalle fattezze tortili realizzate con lamine bidimensionali, ad essere declinato sul proscenio. La tridimensionalità dell’opera è del tutto simile a quella di una scenografia, in cui nella limitata profondità di campo si realizza una vista in prospettiva (fig. 1c). Uno sfondamento prospettico di tipo centrale caratterizza il paliotto a pannello scenografico del santuario di Papardura; la scena, realizzata in argento sbalzato, cesellato e bulinato, presenta un susseguirsi di tre arcate sorrette da colonne tortili che nella tridimensionalità materica invitano verso un illusorio punto di fuga. In questo caso è possibile affermare che la rappresentazione tende verso gli effetti scenici che ricordano le prospettive del Pozzo per i teatri (fig. 1d). Una rappresentazione bidimensionale su lastra d’argento è l’opera dell’argentiere Francesco Tuccio su progetto dell’architetto Pompeo Picherali, realizzata con cesello e bulino nel paliotto sul Martirio di Santa Lucia della chiesa di Santa Lucia alla Badia a Siracusa. Tale manufatto dalla forte valenza architettonica rivelata attraverso una vista prospettica centrale, rappresenta una vera e propria scena architettonica e presenta “le caratteristiche di una tipica scena quadro, che si sviluppa in profondità attraverso la spettacolare fuga dei portici scanditi da colonne tortili” (Rizzo, 2008, pp. 223-225). Queste gli attribuiscono un valore simbolico e offrono l’occasione di impreziosire la scena dell’opera che racchiude in un unico oggetto le tre arti: disegno, architettura e scultura. Nel dettaglio, il riferimento di dette colonne sembra essere il baldacchino del Bernini, infatti, impostate su una base attica, nel primo terzo presentano un andamento ondulato e scanalato con collarini con foglie d’acanto e nei restanti due terzi il tortile è arricchito da decori con motivi vegetali. Lo sfondamento prospettico, di derivazione pittorica, crea l’illusione di una tridimensionalità che conferisce particolare drammaticità alla scena che racchiude al suo interno i
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personaggi del Martirio. Nonostante la prospettiva sia stata disegnata con un punto di vista centrale, la percezione della scena varia con l’esperienza dinamica dell’osservatore in loco (fig. 1e). L’illusione creata dalla rappresentazione stimola la ricerca delle regole sottese a tale geometria; per comprenderne a pieno la base scientifica si è fatto ricorso alle attuali tecnologie di rilievo per una restituzione grafica puntuale su cui impostare i ragionamenti. Studio e analisi dei paliotti indagati: dal rilievo alla modellazione 3D Gli apparati ecclesiastici presi in esame sono stati analizzati a partire da un rilievo di base eseguito con le moderne tecnologie di rilevamento e successivamente di modellazione 3D, stabilendo a monte l’approccio ideale per una restituzione puntuale e completa. Nel caso del paliotto mobile della chiesa di Santa Lucia alla Badia, le condizioni al contorno hanno permesso di operare mediante l’utilizzo del laser scanner Faro CAM2 Focus ideale per il rilievo di architetture complesse e/o in piccola scala poiché i parametri impostati –nel caso specifico risoluzione pari a ½ e qualità pari a 4x– consentono di ottenere una nuvola di punti densa e di avere un rilievo di precisione. Tuttavia, per poter cogliere le lievi sporgenze che rendono questa lastra d’argento tridimensionale, è stato necessario effettuare più scansioni da più punti di stazione. Grazie all'utilizzo del software Cyclone, che consente l'unione delle scansioni e l'elaborazione dei dati del rilievo, è stato possibile ottenere un modello discontinuo che è stato osservato e analizzato per cogliere a pieno i caratteri peculiari e effettuare a partire dalle ortofoto, derivate dal processamento della point of cloud, i ragionamenti geometrici necessari (fig. 2a). Contrariamente a quanto fatto per il caso precedente, la tipologia di rilievo adottata per i paliotti mobili, rispettivamente del santuario di S. Giuseppe e del santuario di Papardura a Enna, differisce dal tradizionale modus operandi a causa delle difficoltà riscontrate in fase di rilevamento e dovute al fatto che gli stessi sono custoditi all’interno di teche in vetro che impediscono di operare con tecnologia laser scanning. Per far fronte a tale inconveniente è stato necessario sperimentare procedure alternative di misurazione, rappresentazione e modellazione 3D. L’approccio scelto, noto come fotomodellazione, ha richiesto l’ausilio di strumenti facilmente reperibili come le fotocamere digitali grazie alle quali, a partire da un set di fotografie digitali è possibile ottenere un modello in scala da poter analizzare. La metodologia adottata si basa sui concetti della fotogrammetria secondo la quale, a partire dall’acquisizione delle immagini fotografiche, è possibile ottenere modelli tridimensionali continui. Così come nella fotogrammetria, anche nella fotomodellazione, il tecnico che esegue le operazioni di rilievo fotografico e successivamente di elaborazione dei dati, mantiene
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Fig. 2a Paliotto del martirio di Santa Lucia: postprocessamento dei dati digitali. Fig. 2b Paliotto del santuario di Papardura: fasi della fotomodellazione.
un ruolo di fondamentale importanza nell’interpretazione geometrica dell’oggetto rilevato. A tal proposito, una corretta progettazione dei punti di stazione da cui effettuare gli scatti fotografici ed una precisione nell’esecuzione dei fotogrammi, può produrre un risultato finale ottimale. In particolare, gli scatti devono essere circoscritti alla sola area in
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esame, devono essere ravvicinati ed è opportuno disattivare il flash e il bilanciamento del bianco automatico. Inoltre, è ideale che il soggetto inquadrato sia ben illuminato e che l’esposizione resti la stessa per evitare che le foto abbiano illuminazione differente. Nonostante sia sconsigliato operare su soggetti monocromatici e su materiali trasparenti e/o riflettenti, si è deciso comunque di effettuare il rilievo fotografico per la successiva elaborazione con software Photoscan Agisoft, il quale permette di ricavare dati tridimensionali e cromatici da fotografia. Il procedimento, che si compone di tre fasi successive: acquisizione delle coordinate spaziali, ricostruzione tridimensionale e restituzione visiva; si conclude con l’intervento dell’operatore che deve essere in grado di estrapolare da semplici immagini fotografiche, i dati necessari per interpretare e descrivere le forme architettoniche. Nello specifico, nel santuario di S. Giuseppe, sono stati eseguiti 11 scatti fotografici a intervallo regolare e su tre linee parallele al paliotto indagato e ad una distanza dallo stesso rispettivamente di 1,70 m, 3,70 m e 4,70 m. I primi cinque scatti sono stati compiuti per percepire i dettagli scultorei, i successivi cinque scatti per inquadrare l’oggetto architettonico e infine l’ultima fotografia per cogliere il manufatto nella sua totalità. Un procedimento simile è stato adottato anche per il paliotto del santuario di Papardura. I primi scatti sono stati compiuti al una distanza di 2 m dal paliotto mentre per i successivi 10 scatti si ci è posizionati ad una distanza inferiore (0,70 m) per poter apprezzare i particolari architettonici. In quest’ultima postazione le fotografie sono state eseguite ad un’altezza rispettivamente di 0,70 m e 1 m dal piano di calpestio (fig. 2b). Nella fase successiva di elaborazione dei dati rilevati, il software opera attraverso il riconoscimento automatico di punti omologhi individuabili nelle varie fotografie, inoltre, “un algoritmo permette di orientare le foto nello spazio creando delle interazioni tra di loro e ottenendo una nuvola di punti tridimensionale. Il modello discontinuo così ottenuto viene convertito in modello continuo attraverso la produzione di mesh triangolari. Infine viene associato il dato colorimetrico alla mesh prodotta definendo il modello finale texturizzato” (Valenti & Paternò, 2018). Anche nelle condizioni al contorno degli ultimi due casi, il metodo adottato si è dimostrato idoneo per gli obiettivi prefissi. In conclusione, qualunque sia il procedimento adottato, i risultati avuti permettono di affermare che il contributo offerto dal digitale e l’innovazione nella strumentazione adottata per il rilievo e la rappresentazione dell’architettura riduce i tempi di prelievo delle informazioni e consente di aumentare i livelli di precisione. Inoltre, grazie ai modelli 3D è possibile trasmettere le informazioni relative a un Bene in maniera efficace non solo per la precisione delle informazioni fornite ma anche per la velocità con la quale possono essere trasmessi i dati elaborati, permettendo agli studiosi di poter effettuare in qualsiasi momento ulteriori studi.
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Fig. 3a Studi geometrici sulla prospettiva disegnata. Fig. 3b Studi geometrici: restituzione prospettica.
pagina a fronte Fig. 4a Confronto tra metodo abbreviato dell’Alberti e restituzione prospettica. Fig. 4b Studi modulari sull’architettura rappresentata.
Il paliotto di Santa Lucia alla Badia: ipotesi sull’applicazione della teoria prospettica La rappresentazione prospettica, come è noto, fu prassi consolidata in epoca rinascimentale, soprattutto nel campo pittorico, nondimeno, anche nella scultura è possibile riscontrare casi simili. In particolare, analizzando gli elementi di arredo del barocco siciliano e grazie ai dati ricavati dal rilievo di precisione, è stato possibile esaminare la costruzione geometrica della prospettiva e verificare un’eventuale applicazione della stessa anche in campo scultoreo. I ragionamenti geometrici sono stati effettuati direttamente sull’ortofoto ricavata dalla nuvola di punti, attraverso una restituzione prospettica. Nella fattispecie, trattandosi di una prospettiva centrale, sono stati altresì individuati il punto di fuga, LO e la LT. Definiti questi dati certi si è ricorso ad un’ipotesi: i portici scanditi dalle colonne tortili e dagli archi, che caratterizzano la scena, si sviluppano su una maglia costituita da cinque campate quadrate.
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Per dimostrare quanto ipotizzato si è ricorso al procedimento della costruzione prospettica secondo Leon Battista Alberti applicato ad un quadrato di base suddiviso a scacchiera. Tale metodo ha permesso di dedurre che soltanto la prima campata può essere ipotizzata quadrata, mentre, per le altre, lo stesso ha permesso di definire che si tratta di campate rettangolari (fig. 3a). Per la restituzione in pianta di quest’ultime si è ricorso invece alla costruzione geometrica secondo le regole della restituzione prospettica (fig. 3b). Confrontando i risultati dei due metodi si evince che la quarta campata individuata attraverso la costruzione abbreviata dell’Alberti si conclude in corrispondenza della terza campata della restituzione prospettica. Quanto detto permette di affermare che il quadrato della prima campata, che idealmente secondo l’ipotesi iniziale si sarebbe dovuto succedere in pianta, ha invece subito una deformazione graduale fino all’ultima campata. Tale deformazione però sembra non seguire una regola geometrica ben precisa (fig. 4a).
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Probabilmente l’intento del progettista fu proprio quello di riprodurre la profondità spaziale consentendo una visuale esaustiva anche delle ultime campate che altrimenti sarebbero state poco percepibili. Considerando le arcate del portico che insistono sul piano del quadro, che per le ipotesi fatte non subiscono la deformazione prospettica ma una diminuzione di scala, si sono effettuati gli studi relativi al modulo di proporzionamento della campata del loggiato dai quali è emerso un rapporto tra altezza e larghezza delle arcate pari a 5:2 (fig. 4b). Conclusioni Dallo studio effettuato scaturiscono alcune considerazioni riguardanti la relazione tra illusione geometrica e illusione scenografica nella rappresentazione dell’architettura e nell’impianto della prospettiva del paliotto di Santa Lucia. L’autore del progetto, il sacerdote architetto Pompeo Picherali, si ispira alle colonne berniniane e costruisce un’architettura con propri rapporti modulari. La restituzione dell’impianto prospettico evidenzia una proiezione ortogonale molto deformata; in realtà l’intersezione della linea di orizzonte con tutte le diagonali della pianta delle campate del portico determina quattro punti i cui segmenti sottesi non sembrano essere casuali, ma stanno fra loro secondo un birapporto di 5/4 (fig. 3b). Considerando tali punti alla stregua di punti di distanza corrispondenti a distinti punti di vista man mano più vicini al quadro, il risultato è quello di una prospettiva illusoria (fig. 1e), la cui percezione dinamica crea un effetto scenografico ingannevole. L’architettura effimera di questa ‘scena quadro’, sintesi costruttiva di disegno, architettura e lavorazione scultorea, qualifica il Picherali come figura eclettica del panorama siciliano, attento ai temi culturali del suo tempo in un ambito che esula il locale. Il rilievo e le letture quanti-qualitative consequenziali, effettuate sulla restituzione bidimensionale e tridimensionale, hanno consentito di mettere a sistema la materia, la tecnologia e il disegno per trarre determinazioni utili per lo sviluppo della ricerca.
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Bibliografia Accascina M. 1974. Oreficeria di Sicilia, Flaccovio Ed., Palermo. Agnello G. 1929. Argentieri e argenterie del Settecento. Per l’Arte Sacra, vol. VI, pp. 151-165. Bartoli M.T., Lusoli M. 2018, Diminuizioni e accrescimenti. Le misure dei maestri di prospettiva. University Press, Firenze. Fagiolo M. 2006, L’illusione dell’infinito, in: P. Portoghesi (a cura di), Roma barocca: Bernini, Borromini, Pietro da Cortona, Electa, Milano. Rizzo S, 2008, Architetture barocche in argento e corallo, Giuseppe Maimone Ed., Catania. Ruggieri Tricoli M.C. 1992, Il teatro e l’altare: paliotti “d’architettura” in Sicilia, Grifo, Palermo. Valenti R., Paternò E. 2018. Digital instruments of knowledge and dissemination. The re-presentation of Baroque architecture in Sicily, in C. Marcos, a cura di Cham: Springer, pp. 672-684.
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Fig. 1 Soffitto della navata della chiesa del Bambino GesĂš, Vitorino Manuel da Serra (con attuazione di JoĂŁo Nunes de Abreu), c.1730/34.
l’inganno architettonico tra settecento e ottocento: frammenti dell’esperienza luso-brasiliana Magno Mello Moraes
Universidade Federal de Minas Gerais, Belo Horizzonte, Brasile
Abstract In this study I explore the relationship between art history and the history of science, by investigating illusory architecture in Portugal and Brazil during the first quarter of the eighteenth century. I also examine how certain models persisted in Brazil well into the nineteenth century, both in coastal areas and parts of the hinterland (Capitania do Ouro). I focus on two key figures in Portuguese-Brazilian illusory architecture: Vincenzo Bacherelli, the Florentine quadratura expert who lived and worked in Lisbon from 1701 to 1720; and Inácio Vieira, a Lisbon-based Jesuit who taught Mathematics, Perspective and Cosmography from 1709 to 1720. This is the context in which quadratura developed among Portuguese and Brazilian practitioners, enabling several operational or perspective procedures. Keyword Quadratura, colonial art, Portugal, Baroque, perspective, Jesuits
L’articolo che segue affronta aspetti tecnici/formali della pittura prospettica con l’intenzione di giustificare il rapporto tra storia dell’arte e storia della scienza; centralizzare il modello a Lisbona portato dal fiorentino Vincenzo Bacherelli, a partire dal 1701, ed evidenziare alcune delle aree fuori dal centro di Lisbona. La conoscenza della pittura illusionistica nel Portogallo del Settecento e nel Brasile coloniale, dal 1732 fino all’avvento del XIX secolo, si presenta con un’area geografica e diversità formali dinamiche ma ancora priva di una ricerca sistematica. In Portogallo questo tipo di pittura è stato condizionato dal linguaggio italiano dei secoli XVI e XVII, non solo nella pittura ma anche nel campo teorico esemplificato nei trattati sull’architettura, sulla prospettiva e in testi sull’ottica senza dimenticare la maturazione di questa conoscenza attraverso la presenza dei gesuiti. Comprendere la pittura della falsa architettura lasciando da parte la cultura teorica di questo periodo può essere compromettente
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Fig. 2 Lisbona, soffitto della portineria del monastero di San Francesco di Fuori, Vincenzo Bacherelli, 1710.
nello studio dell’arte barocca luso-brasiliana, specialmente nel genere della quadratura. La preoccupazione principale di questo testo è di favorire la prima metà del XVIII secolo, senza dimenticare la diffusione di alcuni modelli nel corso del secolo fino a una parte del XIX secolo. Pertanto è possibile conoscere il modo di concepire e rappresentare l’illusione architettonica ed evidenziare le trasformazioni che riguardano la concezione della prospettiva. Per un verso, lo strumento pragmatico e funzionale destinato a descrivere e misurare lo spazio reale, potrebbe rivelarsi utile e caratterizzare fortemente valori, virtù spirituali e ideali mistici che altrimenti diventerebbero astratti e concettuali. È da tutte queste valutazioni che possiamo distinguere due universi nella decorazione dei soffitti, che nel caso portoghese hanno perfettamente ragione di essere. Il primo riguarda l’argomento; il secondo riguarda la costruzione virtuale dell’architettura. Entrambi gli schemi hanno la loro validità e il loro significato, nonché la loro ripercussione nell’utente o fruitore. In termini pratici, uno scorcio figurativo in un ambiente di bassa altezza costringe il pittore a deformare troppo le figure, rendendole a malapena riconoscibili. In questo caso è possibile optare per una vista più frontale e leggermente obliqua. Nell’architettura illusionistica, optare per più di un punto di fuga può consentire una migliore visualizzazione senza rompere l’armonia dell’insieme. È più facile scommettere su un messaggio immediato che insistere su scorci audaci che riflettano una lettura complessa e, dal punto
l’inganno architettonico tra settecento e ottocento: l’esperienza luso-brasiliana • magno mello moraes
di vista formale, meno simbolica per quanto concerne l’idea pragmatica del risultato finale (quella del committente). L’architettura è una cornice, una specie di universo materiale e tettonico. Ma perché non dire più aritmetica? una visione del mondo stesso – come suggeriva Panofsky. Il caso della figura è più specifico, poiché presenta un impegno più audace e ‘commovente’ nei confronti degli utenti. La figurazione penetra nell’immaginazione e nella meditazione, mentre l’architettura fittizia esplora lo sguardo e la sensazione di spazio terreno che, per un secondo, diventa reale e percepibile come tale. Tuttavia non si deve dimenticare che negli spazi costruiti con i mezzi pittorici troviamo un desiderio inesplicabile di camminare attraverso corridoi, vani, o di salire scale che non esistono. In questo momento, l’architettura illusionistica diventa il centro e, quindi, la protagonista. È importante tenere presente il seguente percorso: la costruzione prospettica, con tutto il suo rigore geometrico e matematico, obbliga lo spettatore a partecipare attivamente, rendendo l’efficienza della rappresentazione affidata alla capacità del fruitore di mettersi nel posto giusto. In questo modo, la partecipazione dell’osservatore è fondamentale, oltre al fatto che richiede un’accurata sensibilità per vedere l’opera esclusivamente da quel (preciso) punto; tutto questo per indurre e sensibilizzare al meglio l’utente, rendendo possibile un’impressione di interiorizzazione tipica del barocco. Essere parte integrante della costruzione prospettica è vederla correttamente, sia con uno o più punti di vista. Non sarebbe questo il momento in cui il pittore indicherebbe la via per non creare dubbi o per richiedere ulteriori spiegazioni? Che dire dello scorcio figurativo? Questo aspetto è spesso problematico per la maggior parte degli artisti. Possiamo dire che nell’universo luso-brasiliano i pittori non sapevano veramente o non si rendevano conto che questo non era così rilevante e che ciò che contava era l’effetto nel suo insieme: dopotutto, il “quadro riposizionato” o “figurato” non rappresentava un problema ma la vera soluzione. Questo è un linguaggio che viene eseguito con lo scopo di simulare o dimostrare, quasi come una finestra, la storia principale coinvolta in tutta la macchina decorativa. Tutti questi aspetti mostrano la composizione prospettica attraverso alcuni argomenti, di cui ne evidenziamo tre. Il primo ha la prospettiva strutturata attraverso una base scientifica; il secondo, come iconografia dello spazio; il terzo, come una sorta di elaborazione culturale. Tuttavia, sia lo spazio della quadratura che lo spazio “figurato” devono essere visti come campi visivi diversi ma contenuti nello stesso messaggio, sebbene siano assemblati come costruzioni spaziali specifiche. Le biblioteche in Portogallo e in Brasile sono ricche di testi su questi temi che non sono stati ancora studiati in modo appropriato. È in questo contesto che va citata l’immensa produzione scientifica del sacerdote gesuita Inácio Vieira (1676-1739) (Mello Moraes, Leitão, 2005,
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pp. 95-142; Cabeleira Vieira, 2011, pp. 315-335), professore di matematica nell’Aula della Sfera del Collegio di Santo Antão di Lisbona, tra il 1709 e il 1721. Dotato di grande erudizione, questo gesuita è autore di numerosi testi scientifici ed nel Collegio di Santo Antão è docente di matematica, prospettiva e scenografia. Di grande significato è la presenza a Lisbona del fiorentino Vincenzo Bacherelli (16721745)1. È importante notare che Inácio Vieira, nel suo manoscritto sulla prospettiva, cita tre volte il fiorentino e loda la decorazione da lui realizzata sul soffitto della portineria del monastero di São Vicente de Fora a Lisbona, nel 1710 (fig. 2). Bacherelli nacque il 2 giugno 1672 e poco si conosce della sua formazione; a Lisbona fu apprezzato come pittore specializzato nella costruzione di architetture illusionistiche. È stato il responsabile della diffusione delle macchine prospettiche proprie del linguaggio fiorentino, nella decorazione dei soffitti e delle pareti di numerose chiese e palazzi di Lisbona. In Portogallo, Bacherelli accelera la rottura tra la mera decorazione che riempie gli spazi bidimensionali e limita l’interno degli edifici, come la grottesca e le cartelle poste al centro dei soffitti. Senza dubbio conosceva le opere più significative dell’ambiente fiorentino: i cicli decorativi di palazzo Pitti, le opere di Pietro da Cortona, quelle di Giovanni da San Giovanni e del Chiavistelli, di Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli. È evidente che tutte queste influenze sono presenti nella formazione di Bacherelli; Francesco Maria Gaburri lo definisce: «fiorentino pittore di architettura e di prospettiva a fresco e a tempera»2. La fine del XVII secolo è caratterizzata da un forte cambiamento culturale in Portogallo, trasformazione che avrebbe generato nuove modalità nella cultura artistica portoghese. La più grande trasformazione si esplicita nel rapporto tra ambiente reale e simulazione architettonica, tenendo sempre conto delle libertà e affinità specifiche. Bacherelli appare con un duplice ruolo: trasformare tecnicamente la decorazione dei soffitti e contribuire alla formazione di una nuova generazione di pittori secondo la grammatica del suo linguaggio. Il suo primo intervento in Portogallo è documentato nella chiesa di Loreto, quando la Confraternita tratta “con Vicente Bacherelli che dipingeva a fresco il Coro, e gli Archi inferiori per un prezzo di 225$000 come appare sul suo obbligo datato il 6 giugno 1702”3. L’unica opera superstite del famoso pittore toscano è la decorazione del soffitto della portineria del monastero di San Vincenzo Fuori le Mura, eseguita nel 1710 (Chiarelli,1963, p. 20). Colpita dal terremoto nel 1755, coperta da uno strato di calce nel 17724, fu restaurata nel 1796 da Manuel da Costa5 e nel 1995 dall’Istituto Portoghese per la Conservazione e per il Restauro. Vincenzo Bacherelli dipinse inoltre i due soffitti dell’antico palazzo dei Conti de Alvor (attualmente Museo Nazionale d’Arte Antica di Lisbona) nella sala
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degli Alabastri e nella sala della Pittura Fiamminga (Chiarelli, 1963, pp. 51-59). La decorazione coincide con l’apogeo dell’attività di Bacherelli a Lisbona e l’apparato decorativo mostra affinità con quello di San Vincenzo Fuori le Mura. Il suo nome riappare a Firenze il 24 ottobre 1721 insieme a quello del fratello, Marco Maria Bacherelli, in una richiesta per ottenere la cittadinanza fiorentina dietro il pagamento di due fiorini d’oro6. Gabburi riferisce che rimarrà attivo e continuerà a lavorare come pittore, entrando all’Accademia del Disegno il 16 gennaio 17227. Da questo momento pagherà regolarmente tutte le tasse fino al marzo del 1745, data del suo ultimo versamento, all’età di 73 anni, dal momento che muore il 4 dicembre dello stesso anno. L’arte portoghese del XVIII secolo trova nella pittura barocca un momento di grande espressione. All’infuori di una certa individualità e specificità, il quadraturismo ha la capacità di unificare pittura di figura e architettura, in modo che l’una e l’altra superino i loro veri limiti. La pittura diventa l’ambiente stesso e può trasformarlo in una nuova concezione spaziale. È a causa di queste dinamiche spettacolari che il quadraturismo interagisce con l’ambiente costruito ma è anche in grado di creare la propria architettura, continuando la dimensione interna dello spazio fisico. Le cosiddette finte architetture che formano la naturale chiusura delle strutture reali di un edificio danno il complemento allegorico/simbolico delle visioni dello spazio a cielo aperto per costituire il sogno che diventa realtà. È anche in questo senso che la pittura architettonica portoghese barocca è strutturata in un focus attivo in rete nella geografia nazionale. A Lisbona si riscontrano numerosi quadraturisti; uno dei nomi più illustri è quello di Antônio Lobo, a cui si deve nel 1718, l’anno prima della sua morte, la decorazione del soffitto della navata della chiesa di Nossa Senhora da Pena, rovinata dal terremoto del 1755 e rifatta nel 1781 da Luís Batista e dai suoi collaboratori. La cappella principale della chiesa dei Paulisti è stata dipinta ad illusionismo architettonico dal decoratore Antônio Pimenta Rolim. Anche questa opera è stata ridipinta nel 1770 da Simão Batista e Jerônimo de Barros. Intorno agli anni trenta del XVIII secolo, João Nunes de Abreu decorò la navata della chiesa del Bambino Gesù a Lisbona, con la collaborazione di Vitorino Manuel da Serra (1692-1747) (fig. 1). Dal suo elogio funebre (Andrade,1748, p. 15) si comprende che Vitorino era molto richiesto per l’esecuzione di schizzi e disegni prospettici. A questo punto, come non ricordare Lourenço da Cunha «il più grande pittore portoghese che abbiamo avuto nel genere di Architettura e prospettiva, persino equiparato a Baccarelli nella pratica, e superandolo nella teoria» (Machado Volkmar, 1922, p. 156)? Alla fine del XVII secolo viene eseguita una delle decorazioni più significative con effetti tridimensionali. Si tratta della decorazione del soffitto della navata della chiesa di Nossa Senhora dos
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Fig. 3 Ventozelo, Concelho de Mogadouro, navata della cappella della Buona morte, senza data e senza autore.
pagina a fronte Fig. 4 Navata della chiesa della Ordine Terciaria di San Francesco della Penitnza, Caetano da Costa Coelho, 17371743.
Prazeres, a Beja, datata 1690, eseguita da Antônio de Oliveira Bernardes (e altri decoratori), con la quale si identifica quello che chiamiamo il modello di Bernardes8. Tra la regione del Douro, in particolare nella città di Braga, e la regione di Trás-os-Montes è molto significativa la figura di Manuel Xavier Caetano Fortuna, che rimane isolata nel contesto culturale. Nel 1763 il pittore lavora alla decorazione dell’intradosso del soffitto voltato della chiesa del convento di San Benedetto a Bragança, dove costruisce una macchina architettonica ingannevole che coinvolge l’intera navata. Il finto colonnato impostato sulla cimasa reale inquadra la specchiatura figurativa con il Trionfo di Santa Scolastica e San Benedetto circondato dalle Quattro Parti del Mondo. Nel Comune di Mogadouro è possibile vedere ancora la decorazione della navata della cappella della Buona Morte a Ventozelo con un apparato architettonico molto vicino a quello di Andrea Pozzo, sebbene sia dominato da una grande cartella figurativa, in evidente stile rococò (fig. 3). Ci concentriamo, a questo punto, sull’America portoghese in un percorso cronologico e in una disposizione geografica senza precedenti in tutta la storia della quadratura: l’ambiente litoraneo con le sue variazioni culturali, con i diversi apparati e la cultura di Minas Gerais, dove l’apparato dipinto sui legni tropicali interpretano un altro senso decorativo e altre espressioni estetiche come una rocalha ben sviluppata o le sue stilizzazioni tra gli spazi longitudinali e trasversali del soffitto.
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In primo luogo individuiamo la fascia litoranea per poi conoscere il focus interno della pittura coloniale. I modelli diffusi nel Brasile coloniale variano dai volumi della talha dourada stessa, passando attraverso l’abbondanza di scene agiografiche, fino alla pittura di simulazione spaziale, in cui lo sfondamento prospettico diventa l’obiettivo principale. Tra il 1732 e il 1737 (Baptista, 1939; Ayres de Moura Ramalho Araújo, 2013, p. 123) il quadraturista più significativo di Rio de Janeiro è il portoghese (naturale di Porto) Caetano da Costa Coelho che realizza la decorazione della cappella principale e della navata della chiesa del Terzo Ordine di San Francesco della Penitenza (fig. 4). Il nord e il nordest del Brasile spiccano come punti fondamentali di questa nuova moda decorativa legata al genere del quadraturismo, dove le città di Salvador, Olinda, João Pessoa e Recife esuberano in pannelli e soffitti dipinti su diversi supporti. Tutta questa area è condizionata dalla presenza di Antônio Simões Ribeiro9, originario della città di Santarém. Fu questo decoratore che diffuse i modelli della rappresentazione prospettica dei primi anni del regno di Giovanni V nella città di Salvador. Ciò significa che la conoscenza di Vincenzo Bacherelli diventa fondamentale per la comprensione del quadraturismo nelle terre di Bahia e altrove. Simões Ribeiro appare attivo a Coimbra intorno al 1701; il 19 gennaio 1735 ((Serrão, 2000)10 lascia il Portogallo per lavorare in Brasile, senza fare ritorno in patria e muore nel 1755. A Salvador fu un grande protagonista della pittura architettonica dando inizio a una
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pagina a fronte Fig. 5 Salvador, soffitto della Antica Libreria o Biblioteca del Collegio del Gesuitas, Antônio Simões Ribeiro, c. 1735/37.
nuova fase come prospettico e scenografo. Fra i numerosi lavori realizzati in Brasile, la decorazione pittorica del soffitto dell’ex Libreria del Collegio dei Gesuiti a Salvador richiama la nostra attenzione (fig. 5). Su questo soffitto identifichiamo una figura seduta su una nuvola a mostrare un libro aperto; si tratta della Sapienza: Sapientia e Cultura. In questo modo, attraverso la rappresentazione prospettica, i gesuiti unificano la conoscenza cristiana nell’Arte e nella Scienza; è l’ordinamento del mondo naturale nel dominio delle regole matematiche e geometriche, per poi rappresentare il luogo terreno e allo stesso tempo celeste in un unico spazio pittorico (Chen, 1998, p. 17; Pfeiffer, 1992, pp. 13-31). Un altro grande protagonista dell’inganno architettonico a Salvador, vicino al pittore di Santarém, è senza dubbio José Joaquim da Rocha (1737-1807). La sua opera più emblematica fu il soffitto della navata della chiesa della Conceição da Praia, eseguito nel 1773; la storiografia dell’arte attribuisce ancora a questo prospettico la decorazione della navata della chiesa di São Domingos, di cui non si conosce la data di esecuzione e non si è trovata alcuna documentazione. Come massima ripercussione del quadraturismo nel nordest, si può osservare la decorazione del soffitto della navata, della cappella principale e della sagrestia della chiesa di Nostra Signora della Divina Pastora a Sergipe (figg. 6, 7). Il repertorio decorativo della Divina Pastora viene ora studiato per la prima volta dal punto di vista della costruzione prospettica. È stata rintracciata una documentazione molto limitata, poco si conosce il suo autore né l’anno di esecuzione. Ci troviamo di fronte a tre costruzioni prospettiche di grande espressione che potrebbero non essere state realizzate nello stesso periodo. Le decorazioni della cappella principale, essendo in un buono stato di conservazione, ci permettono di visualizzare un punto di fuga centrale, un cromatismo molto accurato e molto vicino alle concezioni dell’architettura illusionistica a partire dal trattato di Andrea Pozzo che l’autore mostra di conoscere. A completamento del centro del Brasile del XVIII secolo, non va dimenticato che l’area di oro e diamanti del Capitanato del Minas Gerais sviluppa altre tipologie decorative, inserite in altre concezioni estetiche. Questo genere di pittura iniziò proprio nell’area di Cachoeira do Campo, verso il 1755 e si diffuse nel capitanato del Minas Gerais fino a interessare gran parte del diciannovesimo secolo con l’uso della quadratura. La simulazione architettonica di Minas Gerais occupa una vasta area e con diverse dinamiche formali che ci permettono di visualizzare apparati sviluppati in diverse aree e da diversi artisti. In primo luogo, faccio riferimento a José Soares do Araújo, della città di Braga, attivo tra il 1760 e il 1799 a Diamantina, a Inhaí e a Couto de Magalhães.
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Fig. 6 Sergipe, Divina Pastora, navata della chiesa di Nossa Senhora della Divina Pastora, Divina Pastora (cità), senza data e senza autore. Fig. 7 Sergipe, Divina Pastora, cappella maggiore della chiesa di Nossa Senhora della Divina Pastora, senza data e senza autore.
pagina a fronte Fig. 8 Ouro Preto, (punti di fuga) soffitto della navata della chiesa di San Francesco, Manuel da Costa Ataíde, 1801-1812. Fig. 9 Ouro Preto, soffitto della navate della chiesa di San Francesco, Manuel da Costa Ataíde, 1801-1812.
A Diamantina, la chiesa di Nossa Senhora do Carmo presenta nella navata e nella cappella principale una struttura architettonica dell’inganno di grande effetto, con elementi significativi derivati dalla trattatistica pozziana. Un altro filone si concentra nella regione di Ouro Preto, Santa Barbara, Mariana, Itaverava e Ouro Branco, con apparati che esibiscono rocalhas in un cromatismo più aperto e rilassato, agendo in modo significativo tra il 1801 e il 1828. Su questa linea e associata a Manuel da Costa Ataide, è centrale la decorazione della navata della chiesa di San Francisco, a Ouro Preto (figg. 8, 9). Siamo di fronte a specifici capitoli della storia dell’arte brasiliana in relazione all’illusionismo architettonico. La decorazione dei soffitti dipinti con la componente pittorico-figurativa e tecnico-geometrica è un filone che si apre alla storiografia brasiliana: significativo è l’identificazione del legame tra la letteratura scientifica (i trattati) e il suo processo operativo. Non si può dimenticare la semplicità delle rappresentazioni di nuvole isolate che si aprono alle visioni celestiali, quasi come apparizioni dal disegno ingenuo, che caratterizza un’altra forma decorativa del Capitanato e che si prolunga fino agli anni trenta del XIX secolo, ma che non sarà oggetto di questo saggio. In tutto il vasto contesto
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storiografico, la preoccupazione degli studiosi si limita all’universo religioso, sociale e/o iconografico. Artisti come Joaquim Gonçalves da Rocha e Jacinto Ribeiro, attivi a Sabará tra la metà del XVIII secolo e parte del XIX secolo, Antônio Martins da Silveira agendo tra il 1760 e il 1770, Bernardo Pires da Silva, che lavora intorno al 1775, Francisco Xavier Carneiro presente dalla fine del diciottesimo secolo fino parte del diciannovesimo. Sappiamo poco di questi pittori, ma sono i responsabili della definizione di un nuovo lessico decorativo nel Minas coloniale, con programmi pittorici significativi (Ribeiro de Andrade, 1978-79; Id., 19821983, pp. 171-180; Do Prado Valadares, 1973, pp. 238-272; Andrade, 1978; Silva, 2012). Altri nomi possono ancora essere citati, come ad esempio, João Batista de Figueiredo attivo tra il 1773 e il 1792; José Carvalhaes, tra il 1768 e il 1781; José Gervásio de Souza Lobo, tra il 1779 e il 1806; Manuel Ribeiro Rosa (1757/58 – 1808); João Nepomuceno Correia e Castro tra il 1744 e il 1795; Manuel Vitor de Jesus, tra il 1781 e il 1824; Gonçalo Francisco Xavier attivo tra il 1742 e il 1775; Silvestre de Almeida Lopes che agisce per tutta la seconda metà del diciottesimo secolo; Joaquim José da Natividade tra il 1785 e il 1824, artista con opere di
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grande interesse nel sud del Minas Gerais. In generale questi artisti sono quasi sempre citati in uno studio relativo al contesto storico/sociale/religioso o nel risultato di una ricerca regionale. Nonostante la mancanza di studi o indagini più specifici nel contesto della quadratura è significativo menzionare anche il decoratore Caetano Luís de Miran da, collaboratore di Jose Soares de Araújo e attivo soprattutto nel XIX secolo. Sono questi vasti cicli pittorici narrativi che costruiscono una visione moderna dello spazio che non ha precedenti. L’inganno architettonico è il frutto di un nuovo modo di vedere ed esprimere la natura coinvolgendo la sintesi della dimensione naturale al servizio dell’espressione di potere politico/mondano o potere religioso/divino. Ciò che importa è che dal XVI/XVII secolo fino alla fine del XIX secolo, i cambiamenti di aspetto e comportamento speculativi hanno prodotto una rappresentazione virtuale dello spazio con un processo iconografico/ iconologico mai visto prima.
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Fig. 1 Charles Belleville (attr.), decorazione del soffitto della sacrestia della chiesa del seminario di BelĂŠm da Cachoeira (Bahia, Brasile). Foto: Renata Martins, 2016.
una multinazionale della quadratura. artisti e gesuiti tra europa, cina e brasile Renata Maria De Almeida Martins, Luciano Migliaccio Universidade de São Paulo, Brasile
Abstract The seminary of Belém da Cachoeira was one of the most important educational institutions of the Society of Jesus in Portuguese America. The decoration of the sacristy roof of its church is a unique case. It has been attributed to the French Jesuit Charles Belleville, who died in Bahia in 1730. He had been the architect of the church built by the French Mission at the court of the Chinese emperor Kangxi, which was decorated with perspective paintings by the Italian Giovanni Gherardini. In the sacristy of Cachoeira, in fact, the program, based on the symbolism of the flowers, is developed in a language which reveals the training of its author alongside the decorators of the Forbidden City. In the church there are also traces of perspectives that had to cover the walls of the main chapel, and could be rediscovered by a restauration. Based on primary sources, the text will look for more new light on the works executed by Gherardini and Belleville in China, and on this peculiar case of an East-West dialogue, between European perspective and Chinese tradition, in a religious space of colonial Brazil. Keywords Colonial Art, Brazil, Perspective, Chinese Painting.
Il seminario gesuita di Belém da Cachoeira, nella regione di Baia, fu una delle più importanti istituzioni educative fondate dai Gesuiti in Brasile. Iniziativa del padre Alexandre de Gusmão (1629-1724), era destinato alla formazione di religiosi e laici “figli della terra”, cioè discendenti dei coloni portoghesi nati nel territorio brasiliano. La sacrestia della chiesa del seminario è ben nota agli studiosi di storia dell’arte a causa della straordinaria decorazione pittorica del soffitto, ispirata all’arte cinese, databile a poco prima del 1725 (Leite, 1953; Pontual, 1969; Alves, 1976, p. 210; Valladares, 1981; Teixeira Leite, 1988, p. 555; Bailey, 2005, p. 199). Il Catalogo della provincia gesuita del Brasile di quell’anno, infatti, riferisce che l’ambiente era stato ornato mirabilmente con diverse pitture1 (fig. 2). 1
Arquivum Romanum Societatis Iesu (ARSI), Bras. 6-1, f.157v.
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Fig. 2 Sacrestia della chiesa del seminario di Belém da Cachoeira (Bahia, Brasile). Foto: Renata Martins, 2016.
A differenza delle prospettive, delle combinazioni di elementi vegetali, antropomorfi e zoomorfi tipici dei brutescos o delle chinoiseries di moda all’epoca, l’artista di Belém da Cachoeira dipinse in ciascuno dei comparti che suddividono la copertura, ghirlande di fiori dai colori vivaci, che includono circoli con motivi fitomorfi stilizzati in oro su fondo nero. Le numerosissime specie floreali - molte tipiche del repertorio ornamentale cinese
artisti e gesuiti tra europa, cina e brasile • renata maria de almeida martins, luciano migliaccio
e giapponese, ma anche rose, garofani e gigli, e anche passiflora, nativa dell’America — sono raffigurate in un linguaggio pittorico che evoca l’arte asiatica; il fogliame stilizzato è simile alle decorazioni di mobili e oggetti orientali in lacca (fig. 1). Questo repertorio formale unico, che distingue il soffitto di Belém da Cachoeira tra tutti quelli delle sacrestie gesuite, è stato messo in relazione con la presenza nel Collegio di Salvador da Bahia del coadiutore temporale Charles Belleville (1657-1730), scultore, pittore e architetto francese che aveva lavorato alla corte dell’imperatore Kangxi (1662-1722), per quasi dieci anni, adottando il nome di Wei-kia-lou. Pur essendo menzionato come artefice nei Cataloghi della provincia, non restano sue opere documentate in Francia (Pfister, 1932, p. 536; Delattre, 1945, p.148; Crozet apud Salvini, 1948, pp. 376-377). Egli potrebbe aver partecipato alla riforma dell’altare della cappella del Collegio dei Gesuiti di Poitiers (oggi Collège Henri IV), in particolare all’esecuzione del nuovo tabernacolo terminato nel 1698, caratterizzato dalla combinazione di vari materiali preziosi (Crozet, 1948, pp. 376-377). A Belleville è attribuito l’altare con l’Assunzione della Vergine già nella chiesa del Collegio dei Gesuiti di Perigueux, oggi conservato nella cattedrale di Saint-Front, noto come uno dei maggiori esempi di arte barocca nella regione (Pelliot,1929, pp. 290-291; Bailey in Carr et alii, 2015, pp. 103-105). Successivamente il religioso partì per la Cina, integrando un gruppo di dieci gesuiti, artisti, tecnici e scienziati, inviato, con il favore di Luigi XIV, presso la missione installata dall’imperatore Kangxi all’interno della Città Proibita a Beijing (Pechino). I missionari lasciarono il porto di La Rochelle il 6 marzo del 1698 e giunsero a Guangzhou (Canton) il 2 novembre, a bordo della nave L’Amphitrite. Nelle parole di Gauvin Bailey, Belleville fece parte del più grande ‘raduno’ di talenti artistici europei chiamati a collaborare con le officine della corte imperiale cinese (Bailey, 2001, p.106). In Cina, Belleville fu l’architetto del tempio del Salvatore, noto anche come Beitang (Tempio del Nord) eretto dai religiosi francesi nella Città Proibita, inaugurato nel 1703, e decorato con quadrature dell’italiano Giovanni Gherardini, alunno di Angelo Michele Colonna (Lettres Édifiants et Curieuses, 1979, p. 85; Corsi, 2000). Una gouache conservata nella Bibliothèque Nationale de France di Parigi (inv. N CR-B-0074), potrebbe rappresentare la facciata del tempio demolito nel 1827 (Seguy, 1976; Golvers, 1993; Wang, 2014, p. 378). La descrizione dei dipinti del Gherardini nella chiesa di Pechino, contenuta in una lettera del padre Pierre Jartoux al padre Jean de Fontaney del 1704, informa che includevano la rappresentazione illusionistica nella volta di un edificio con colonnato marmoreo, archi, balaustrate e vasi di fiori, aperto verso il cielo, lasciando apparire al centro, Dio Padre in una gloria
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di angeli (Jartoux, in Lettres Edifiants, 1810, 18, p. 7-8). Anche l’altare maggiore sembra fosse un’architettura dipinta che continuava in maniera scenografica lo spazio della chiesa (Corsi, 1999). Per avere un’idea dell’opera perduta può essere utile un confronto con le fotografie della volta dell’oratorio di Santa Maria del Soccorso a Bologna, anch’esso scomparso, ma, soprattutto, con le prospettive ancora esistenti realizzate dal pittore modenese nella chiesa di Saint-Pierre a Nevers, tra il 1682 e il 1684, o con le poco posteriori decorazioni della biblioteca della Casa Professa dei Gesuiti di Parigi, ritrovate negli ambienti del Lycée Charlemagne. L’artista italiano, a causa della sua padronanza della prospettiva e del ritratto sarebbe stato ammesso alla presenza dell’imperatore (Froger, 1929, p. 106; Mungello, 2013, p. 67). Un ritratto di Kangxi attribuito a Gherardini, infatti, si trova nella Galleria degli Uffizi di Firenze. Tuttavia non sembra eseguito dal vivo, ma piuttosto una replica di un altro conservato nel Museo della Città Proibita a Pechino. François Froger (1929, p. 100) riferisce che anche Belleville fu convocato nella capitale nel febbraio del 1699 per occuparsi di opere di scultura, pittura e architettura, arti che padroneggiava perfettamente. Lo stesso autore afferma inoltre che l’abilità del francese come miniaturista avrebbe impressionato il sovrano, il quale si divertiva anche con trucchi di magia creati dal religioso. L’opera di Gherardini e Belleville si trovò, dunque, all’origine del dibattito tra europei e eruditi cinesi sulla prospettiva lineare, che avrebbe dato origine alla redazione di alcuni importanti trattati cinesi studiati da Elisabetta Corsi. Presentati spesso come compendi del trattato di Andrea Pozzo, che si trovava tra i libri della biblioteca gesuitica del Beitang a Pechino, secondo le tesi della studiosa italiana, questi scritti sarebbero invece il documento di una riflessione che cercava di individuare convergenze nelle tradizioni visive cinesi e europee in relazione al problema della rappresentazione nello spazio (Corsi, 2004). Può essere interessante notare che un teorico e artista cinese dell’epoca, Zou Yigui (1686-1772), nell’esprimere riserve sulla prospettiva occidentale con punto di fuga unico, chiamerà in causa la pittura di fiori dell’epoca Song, ritenuta capace di riprodurre le piante nella loro essenza, più che nella loro forma esteriore. Dopo quasi dieci anni in Cina, nel 1708, Belleville lasciò il paese per tornare in Europa, ma, trattenuto a Salvador da Bahia a causa di una grave malattia, chiese il permesso di rimanere in quella città, e vi si fermò fino alla morte nel 1730. Egli è citato nei cataloghi della provincia Brasilica, nel Collegio di Salvador dal 1716 al 1726, in qualità di pictor e associator, termine che indicava i compagni dei padri che viaggiavano in
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missione fuori dal collegio. Solo nel catalogo del 1719 è menzionato come Pictor, statuarius et associator2. I dati documentari indicherebbero che a Bahia la sua attività principale fu quella di pittore, tuttavia, l’unica opera legata al suo nome nei documenti è di architettura, cioè, il progetto del noviziato della spiaggia di Jequitaia a Salvador, iniziato nel 1709. L’atrio dell’edificio, secondo le fonti, era decorato con false architetture. Belleville morì nel collegio di Salvador da Bahia il 29 settembre del 1730. La lettera annua che ne riferisce la morte sottolinea la grande modestia del missionario: Non pochi tra di noi si meravigliavano del grande distacco con cui disconosceva le lodi che aveva ricevuto in passato per certe sue opere di architettura (arte che principalmente coltivava)3.
Oltre alla coincidenza cronologica, vi sono argomenti di ordine stilistico e iconografico che rafforzano l’attribuzione a Belleville dei dipinti del tetto della sacrestia e, probabilmente, di altre decorazioni in prospettiva nella chiesa di Belém da Cachoeira. Uno di essi è la scelta dei temi ornamentali basata sul programma pedagogico ideato dal fondatore del seminario, padre Alexandre de Gusmão, che aveva un interesse particolare nell’uso didattico delle immagini, essendosi occupato anche della costruzione e della decorazione della cappella interna del collegio di Salvador4. Il programma iconografico della sagrestia e della chiesa sviluppa il tema dei fiori caro al pedagogo gesuita, essendo evidente immagine dell’infanzia, che come una pianta nata dalla terra, si sviluppa per fiorire e dare frutti. In un’opera stampata nel 1715, intitolata Rosa de Nazaré nas montanhas de Hebron. Nossa Senhora na Companhia de Jesus, Gusmão riferisce dell’esistenza nel seminario di due Congregazioni dei Fiori, composte da una trentina di studenti scelti “tra i più devoti e modesti”, che si riunivano in una cappella e confezionavano fiori di carta, come segni degli atti di virtù e mortificazione che erano offerti alla Madonna nelle festività annuali (GUSMÃO, 1715, p. 289). Nel Museo de Arte Sacra da Bahia è conservato un paliotto di altare in scagliola, simile a quelli prodotti nella Val d’Intelvi5, proveniente da un altare della chiesa di Belem da Cachoeira. L’opera è decorata con motivi vegetali e floreali tra i quali si osservano uccelli e farfalle, motivo comune alla pittura cinese e a quella europea. Al centro compare l’iscrizione Florete Flores (Fiorite Fiori), fulcro dell’intero discorso iconografico dell’edificio.
ARSI, Bras. 6-1, 102. ARSI, Bras. 10-2, f. 326. 4 ARSI, Bras. 3-2, c. 318v. 5 Si ringrazia il prof. Andrea Spiriti per questa osservazione. 2 3
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Fig. 3 Presbiterio della chiesa del seminario di Belém da Cachoeira (Bahia, Brasile). Foto: Renata Martins, 2016.
Nella decorazione della sagrestia lo stesso tema è declinato, come visto, in un linguaggio ispirato all’estetica cinese. La scelta delle varietà di fiori rappresentate obbedisce forse alla tradizione buddista e taoista. Come in quelle, il crisantemo potrebbe simboleggiare i piaceri della vita appartata e la stagione dell’autunno, i fiori del pruno la gioventù e la primavera, il loto la purezza, il fiore del pero la longevità. Tra queste, però sembrano inserirsi fiori nativi dell’America meridionale come la passiflora (o granadilla), che potrebbero alludere alla Passione di Cristo o al martirio, come accade di frequente nella cultura emblematica assai coltivata dai gesuiti. Ne è un esempio il libro di Juan Eusebio Nieremberg, Historia Naturae (1635) (Lib. XIV, Granadillae Ramus, p. 299). Si potrebbe citare anche la moda della floricultura e del simbolismo dei fiori illustrata dal famoso libro De Florum Cultura di Giovanni Battista Ferrari, anch’egli gesuita, sorto nel circolo della famiglia Barberini, pubblicato prima in latino nel 1633 e poi in italiano nel 1638 (Ferrari, 2001). Il risultato di questo ibridismo potrebbe ricordare, anche se solo per uma mera coincidenza formale, le ghirlande di fiori dipinte dagli specialisti fiamminghi come Daniel
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Seghers o Jan Brueghel, o, le corone multicolori che circondano le Vergini bambine in atto di filare della Scuola di Cusco. Il tetto della sacrestia di Belém da Cachoeira si inseriva in un insieme ornamentale ben più ampio, che potrebbe ricordare le esperienze di Gherardini e Belleville in Cina. Ancora oggi resti di architetture dipinte con figure, vasi, rocailles e fiori sono visibili nella volta del presbiterio, e sulla parete vi sono tracce di pitture rappresentanti un altare, con colonne e un alto frontespizio, con festoni floreali, due figure allegoriche e il nome di Gesù (fig. 3). L’inventario del seminario, redatto dopo l’espulsione della Compagnia nel 1759, informa che in una nicchia nella sagrestia era conservato un Gesù Bambino “addormentato, in una teca di lacca rossa con i suoi ornamenti in oro”. Nella chiesa esisteva “un tabernacolo rivestito in parte di tartaruga […] e sopra lo stesso, dalla parte esterna, una piccola nicchia e al suo interno un Bambino Gesù piccolo […]”. In altre parti della chiesa c’erano altari decorati in guscio di tartaruga e dipinti che imitavano questa preziosa materia6. Così, a Belém da Cachoeira, come a Salvador e a Pechino, il gusto prezioso dell’oriente, unito alla quadratura, penetrava in vari ambienti: la chiesa, la sacrestia, le cappelle interne, fino al coronamento del campanile dove frammenti di porcellana e ceramica cinesi e giapponesi di esportazione, si mescolano alle imitazioni prodotte in Portogallo o in Inghilterra. Ciò che distingue l’insieme di Cachoeira, tuttavia, è il fatto che il suo autore ebbe una conoscenza diretta dell’estetica e del repertorio ornamentale cinese e fu in grado di reinventarli, collocandoli al lato dell’architettura dipinta, dando loro un nuovo significato coerente con l’uso persuasivo dell’immagine nella cultura religiosa barocca. Esistono casi simili in Brasile, ma con significati diversi. Un esempio ne è la sacrestia della chiesa dell’antica residenza gesuita di Nossa Senhora do Rosário di M’Boy Mirim, oggi Embu das Artes, nei pressi di San Paolo. Tuttavia, nel caso delle chinoiseries di Embu, come delle decorazioni più note della piccola chiesa di Nossa Senhora do Ó o della chiesa matrice di Nossa Senhora da Conceição di Sabará, in Minas Gerais, la scelta di un repertorio orientale era l’applicazione nell’ambiente coloniale di una moda delle corti europee, con risultati di grande originalità. Charles Belleville fu invece una figura esemplare di “mediatore culturale”, un “passeur” secondo la definizione di Serge Gruzinski, che, usando nei diversi ambienti del complesso di Cachoeira, la quadratura europea e il linguaggio decorativo cinese, “collegò tra loro mondi, immaginari e risorse, facendo sì che transitassero da uno spazio all’altro, da una lingua all’altra, da una cultura all’altra” nel contesto brasiliano. (Gruzinski, 2005).
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Arquivo Histórico Ultramarino (AHU), Caixa 26, Documento 4894(1).
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Finito di stampare da Officine Grafiche Francesco Giannini & Figli s.p.a. | Napoli per conto di didapress Dipartimento di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Luglio 2020
La serie di pubblicazioni scientifiche Ricerche | architettura, design, territorio ha l’obiettivo di diffondere i risultati delle ricerche e dei progetti realizzati dal Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università degli Studi di Firenze in ambito nazionale e internazionale. Ogni volume è soggetto ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata al Comitato Scientifico Editoriale del Dipartimento di Architettura. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, per favorire non solo la diffusione ma anche una valutazione aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze promuove e sostiene questa collana per offrire un contributo alla ricerca internazionale sul progetto sia sul piano teorico-critico che operativo. The Research | architecture, design, and territory series of scientific publications has the purpose of disseminating the results of national and international research and project carried out by the Department of Architecture of the University of Florence (DIDA). The volumes are subject to a qualitative process of acceptance and evaluation based on peer review, which is entrusted to the Scientific Publications Committee of the Department of Architecture. Furthermore, all publications are available on an open-access basis on the Internet, which not only favors their diffusion, but also fosters an effective evaluation from the entire international scientific community. The Department of Architecture of the University of Florence promotes and supports this series in order to offer a useful contribution to international research on architectural design, both at the theoretico-critical and operative levels.
Il volume raccoglie i numerosi contributi presentati al quarto convegno internazionale di studi sul Quadraturismo che si è tenuto a Firenze nel 2018 e si collega idealmente alla collana di lavori e convegni sull’architettura dell’inganno promossi dal gruppo di ricerca fiorentino. Il quadraturismo, affermatosi nella prima metà del XVII secolo, declina in infinite varianti il motivo della finta architettura e, quindi, della finta spazialità e modella con modalità illusoria gli interni di chiese e palazzi con padronanza dei linguaggi architettonici e della scienza prospettica fra Seicento e Settecento, fino a divenire una delle espressioni creative più caratterizzanti del vasto fenomeno del barocco. Gli interventi raccolti si propongono non solo di proseguire il censimento delle opere di tanti maestri operanti in Italia e all’estero, ma anche di delineare i complessi itinerari degli artisti e chiarire il ruolo della committenza nei singoli casi studio. Una particolare attenzione è rivolta anche agli aspetti storico architettonici delle sedi che accolgono tali opere ed ai percorsi culturali e di aggiornamento scientifico sui temi del disegno da parte degli operatori. Stefano Bertocci Professore Ordinario di Disegno. Docente di Rilievo dell’Architettura nei corsi di Architettura e docente di Disegno nel corso di Design del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, si occupa di numerose ricerche relative alle opportunità offerte rilievo digitale nel campo dell’archeologia, dell’architettura e dell’urbanistica. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche sulle problematiche del recupero e della riqualificazione dei centri storici e dei siti patrimonio UNESCO a livello nazionale ed internazionale. Si occupa inoltre assieme a Fauzia Farneti dei temi relativi al rilievo ed allo studio prospettico dei protagonisti del quadraturismo in epoca barocca. È responsabile di numerosi accordi di cooperazione scientifica dell’Università di Firenze e svolge attività di ricerca in numerosi paesi. Si segnalano le ricerche sull’architettura in legno in Russia e nel Nord Europa, le campagne di rilevamento di vari siti archeologici in Medio Oriente (le fortezze crociate di Petra in Giordania e la fortezza di Masada in Israele), e gli studi recenti sui centri storici di San Paolo in Brasile e di Città del Messico. Fauzia Farneti Ricercatore e professore aggregato in quiescenza di Storia dell’Architettura nell’Università di Firenze, è professore a contratto presso la Scuola di Architettura di Firenze e presso la Scuola di Specializzazione in Beni architettonici e del paesaggio. Ha studiato e studia l’incidenza dell’architettura costruita sulla pittura di quadratura con numerose partecipazioni a convegni internazionali sul tema. Fa parte di comitati scientifici ed organizzativi di mostre e di convegni internazionali di Storia dell’architettura e di Restauro e conservazione dell’architettura. A partire dal 2004 ha attivato convenzioni con enti pubblici per l’attivazione di iniziative tese alla conoscenza e alla valorizzazione dei beni culturali. È autore di numerosi saggi sull’architettura italiana dal Seicento all’Ottocento, nonché sull’architettura virtuale europea moderna.
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