La lunga vita della legge urbanistica | Zoppi Carbone

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mariella zoppi carlo carbone

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La lunga vita della legge urbanistica del ‘42



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saggi | architettura design territorio



La lunga vita della legge urbanistica del ‘42

mariella zoppi carlo carbone postfazione di andrea torricelli


La pubblicazione è il risultato di anni di ricerca dei due autori. Carlo Carbone in particolare si è occupato delle iniziative parlamentari e delle ricadute regionali dal 2001 al 2018. La pubblicazione è stata oggetto di una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata dal Comitato Scientifico del Dipartimento DIDA con il sistema di blind review. Tutte le pubblicazioni del Dipartimento di Architettura DIDA sono open access sul web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Si ringrazia il prof. Piero Barucci e la dr.ssa Lucilla Conigliello per l’ospitalità alla Biblioteca del Polo di Scienze Sociali e per la discussione nell’ambito dei Seminari della Biblioteca di Scienze Sociali. Un grazie a Carlo Lancia, direttore Ance Toscana, e L. Pallini per il convegno Governo del territorio: riscriviamo le regole (2012) che ha avviato questo studio.

in copertina rielaborazione in negativo della copertina di Bob Noorda per il volume, F. Sullo, 1964, “Lo scandalo urbanistico”, Vallecchi, Firenze

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progetto grafico

didacommunicationlab Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Susanna Cerri Federica Giulivo Stampato su carta Fedrigoni Arcoset e Symbol Freelife

didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2018 ISBN 978-88-3338-054-4


indice

Premessa | 1942- 2017: i settantacinque anni della legge urbanistica

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17 agosto 1942: la data di nascita

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Una storia e il suo contesto

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La legge urbanistica è una necessità

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Liberazione e Costituzione

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La ricostruzione

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Il cammino spezzato della riforma

63

Gli anni ‘60

63

Calamità naturali e aspettative urbanistiche

84

Il Sessantotto

91

Città e cittadini

101

Il diritto alla casa

101

La svolta della Legge Bucalossi

121

Il quadro politico nazionale e la nascita delle Regioni 141 Condonare e proteggere: contraddizioni italiane

167

Gli urbanisti e i piani

167

Le contraddizioni della politica nazionale

189

Condonare

190

Proteggere

195

Le Regioni fra programmazione e pianificazione

199

Architetture e città

207


Lo stato del territorio e le politiche ambientali negli anni ‘90

215

L’ambiente

216

Il territorio

225

Il riordino amministrativo e il ruolo degli enti territoriali

229

Le Regioni e il nuovo corso legislativo

233

L’eclettismo disciplinare

249

Recuperare, riqualificare, trasformare

262

E l’urbanistica?

271

Nuovo millennio, nuovi progetti di riforma

277

Il nuovo millennio

277

Il paesaggio

280

Il governo del territorio come materia concorrente

286

I tentativi di riforma

288

La città pubblica

303

La XVI Legislatura

308

Il consumo di suolo

326

Iniziative legislative

334

La risposta delle Regioni

344

Una nuova città metropolitana

348

Orientamenti e tendenze

352

Infine

372

Postfazione

376

Bibliografia

387

Indice dei nomi

393


La lunga vita della legge urbanistica del ‘42

mariella zoppi carlo carbone postfazione di andrea torricelli



premessa 1942- 2017: i settantacinque anni della legge urbanistica nazionale

Gli studi sull’urbanistica fascista sono ormai numerosi: dopo una lunga pausa durata praticamente fino agli anni Settanta, è iniziata una revisione scientifica di quanto era andato maturando disciplinarmente e politicamente in Italia fra gli anni ‘20 e ‘40 del Novecento, passando da un inquadramento ideologico — peraltro comprensibile e giustificabile — ad una più articolata e completa revisione critica. Senza adombrare in alcun modo un’adesione alle idee e alle politiche di quel periodo, appare necessario il tentativo di comprensione contestualizzata di quanto è avvenuto in un campo, come l’urbanistica, che è al tempo stesso tecnico e politico. Questo non è, né vuole essere un libro di storia né un libro di urbanistica: molti ne sono stati già pubblicati. L’obiettivo con cui è stato scritto è quello di ricostruire la lunga e singolare vicenda di una legge ancora vigente per cercare di capire la logica della sua resilienza e per trarre alcune indicazioni utili a decifrare il presente e, soprattutto, ad impostare ipotesi di lavoro per il futuro, in un momento in cui l’Italia sembra, nonostante i tenui segnali di ripresa economica, incapace di dare risposte positive alle aspirazioni e alle attese dei suoi cittadini.


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Ripercorrendo le vicende della legge urbanistica in relazione a quelle economiche e politiche italiane si può notare una sconcertante ciclicità delle situazioni e delle reazioni che oscilla fra le grandi speranze (addirittura fughe in avanti) e le regressioni, i ritorni allo statu quo, contrassegnati da un’arretratezza strisciante sempre presente, che si lega ad uno sfruttamento permanente del territorio, e che, pur manifestandosi con modalità diverse a seconda delle condizioni interne ed internazionali, resta comunque sempre uguale a sé stesso. In sintesi, c’è sempre qualcuno che ‘paga’: i contadini nel primo dopoguerra, gli operai nella successiva industrializzazione, i lavoratori a domicilio negli anni del boom delle piccole e medie imprese, i giovani costretti ad andare all’estero per realizzare le loro aspirazioni o quanti arrivano (donne e uomini senza rappresentanza) oggi. È stato detto, non molto tempo fa, “non abbiamo bisogno di speranze, abbiamo bisogno di realtà”1. Poche parole che esprimono quello che il paese finge di non capire, fra lo stordimento dei media (cui nessuno in fondo crede più, ma che ancora sono in grado di alimentare illusioni e consensi) e la quotidianità della vita che tende a chiudere gli individui in cerchie sempre più ristrette, sempre più omogenee, entro le quali non ci si confronta o si discute, ma ci si riconosce come uguali o ci si rifiuta. La sinistra, grande malato di questo secolo, priva di un’identità propria, ha perso non solo i suoi ideali, ma anche i suoi valori: non è più capace di elaborare progetVincenzo Colla, dal 2016 membro della Segreteria nazionale della CGIL, cfr. conferenza su “Lo scandalo del lavoro dei giovani” Firenze, 4 novembre 2017, cfr. facebook Fondazione Rosselli).

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premessa

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ti, ma mira solo a rincorrere le quantità. Quantità di voti (che calano inesorabilmente con puntuale ripetitività) per imporre le regole di una democrazia ormai scarsamente rappresentativa basata su un sistema elettorale incomprensibile nei meccanismi e imprevedibile negli esiti, che allontana sempre più gli eletti dagli elettori; quantità di ‘fatti’ basati sullo sciorinamento di dati, percentuali, medie e tendenze (sempre positive rispetto a riferimenti temporali volta a volta diversificati, ma sempre negative in relazione agli altri paesi europei), quantità di elargizioni e mistificazioni in cui tutto è ‘buono e bonus’ (i bonus-bebè, il bonus cultura, la buona scuola, i buoni effetti del job act, ecc.). Quantità senza qualità messe al riparo di slogan, alcuni anche accattivanti, che comunque accentuano l’astrattezza della politica trattata come un qualunque altro prodotto da commercializzare e vendere e non come qualcosa da condividere e a cui aderire. La pericolosa separazione fra la politica e la vita del paese è pervasa da differenze che si accentuano drammaticamente e generano diffidenze, acredini, conflitti: giovani contro vecchi, nativi contro immigrati, ricchi contro poveri (e non viceversa, perché i poveri, mai come adesso, sono stati privi di una loro voce). La crisi economica e la divisione della sinistra (ammesso che ancora si possa usare questo termine in modo significante) acuiscono la dissoluzione della solidarietà sociale e contribuiscono alla frantumazione delle regole fino ad ora esistenti, viste come retaggi da superare in un contesto che non riesce a definirne di nuove. Il 51° rapporto decennale del Censis ha parlato per la prima volta di ‘Italia dei rancori’, di un paese chiuso nel bloc-


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co della mobilità sociale che genera negli individui la paura del declassamento economico e sociale: un Paese invecchiato che fatica ad affacciarsi sullo stesso mare di un continente di giovani; impotente di fronte a cambiamenti climatici e a eventi catastrofici che chiedono grandi risorse e grande impegno collettivo; ferito dai crolli di scuole, ponti, abitazioni a causa di una scarsa cultura della manutenzione; incerto sulla concreta possibilità di offrire pari opportunità al lavoro e all’imprenditoria femminile, immigrata, nelle aree a minore sviluppo; ambiguo nel dilagare di nuove tecnologie che spazzano via lavoro e redditi; incapace di vedere nel Mezzogiorno una riserva di ricchezza preziosa per tutti

e ancora: Abbiamo assistito a processi di progressiva disintermediazione, che hanno finito per sottrarre forza ai soggetti e agli strumenti della mediazione; all’affermazione di consumi mediatici e di palinsesti informativi tutti giocati sulla presenza e sulla rappresentazione individuali, con un linguaggio spesso involgarito; all’assestamento verso una sobrietà diffusa nei consumi, aprendo spazi all’economia low cost e alla condivisione di mezzi e patrimoni. La contrazione dei consumi e degli investimenti ha portato le imprese a concentrarsi sulla ripresa di capacità competitiva. Così, tanti settori nell’anno hanno accelerato in fatturato e produttività: dall’agroalimentare all’automazione, dai macchinari alla nautica e all’automobile, d ​ all’ingegneria al design e al lusso. Si sono però indebolite le funzioni selettive esercitate dalla politica industriale e di investimento, con uno spostamento verso interventi a pioggia con i bonus o i crediti di imposta, e con programmi orientati alla rimodulazione lineare della spesa più che al sostegno del tessuto imprenditoriale.


premessa

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In poche parole, una situazione in cui il futuro si è incollato al presente. Ma proprio lo spazio che separa il presente dal futuro è il luogo della crescita. Il prezzo che abbiamo pagato a questo decennio di progresso sottotraccia è proprio il consumo, senza sostituzione, di quella passione per il futuro che esorta, sospinge, sprona ad affrettarsi, senza volgersi indietro. Ora il nostro futuro si prepara sul binomio tecnologia-territorio: sulla preparazione alla tecnologia con solidi sistemi di formazione e sulla valorizzazione del territorio con adeguate funzioni di​​ rappresentanza politica ed economica.2

Un territorio in cui i fenomeni appaiono, invece, fuori da ogni organica pianificazione e controllo. Dominano gli eccessi: alle carenze di un dignitoso abitare per i cittadini più deboli si sopperisce guardando ad un turismo che cresce vertiginosamente. Un turismo diretto verso le coste e le città d’arte e che già nel 2015 registrava oltre 34 milioni di presenze a Roma, di 10 milioni a Venezia e di 9 milioni a Firenze con un trend crescente di aumento costante nei due anni successivi3. Un successo in atto, certamente, ma che non è sorretto da nessuna programmazione dei flussi e denuncia una strutturale carenza di infrastrutture di collegamento e servizio, cui si sopperisce con continue improvvisazioni. Il territorio denuncia una generale mancanza di pianificazione e, allora, la domanda è: ha fallito una disciplina (l’urbanistica) o ha fallito una politica che doveva indirizzare quanto sul territorio andava manifestandosi? Si penCfr. “Considerazioni generali del 51° rapporto Censis” 2017 in www. censis.it I dati sono riferiti al solo comune capoluogo, in quanto a Roma-area vasta nel 2015 superavano i 41 milioni, a Venezia i 34 e a Firenze i 14 milioni.

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si al concetto centro-periferia, che aveva segnato la crescita urbana dal dopoguerra, oggi sepolto all’interno di conurbazioni indifferenziate prive di qualsiasi centralità che non siano i centri commerciali, quelli che erano stati definiti i “non luoghi” del XX secolo che oggi sono forse i soli punti d’incontro — o forse sarebbe meglio dire di confluenza — di una collettività priva di legami e di prospettive condivise. La stessa protezione del patrimonio storico artistico, di quel ‘petrolio italiano’ di cui tanto si è parlato, appare sempre più oscillante e compressa, stretta com’è fra il consumo di beni ‘valorizzati’ e gli usi e gli abusi di visitatori impreparati e disattenti, di cui sono testimoni i centri storici segnati dall’uscita dei tradizionali residenti e dalla loro sostituzione con abitanti temporanei. Sul territorio incombe, inoltre, l’incuria dell’ambiente, palese nel declino dei grandi poli industriali, che non è giunta di sorpresa, ma che non ha trovato risposte adeguate e non ha innescato iniziative di riconversione ecologica in grado di restituire innovazione, lavoro e fiducia nei destini del Paese. La politica, che è ed è stata la grande passione degli italiani, oggi è sfociata in un sentimento collettivo intriso di impotenza e di rabbia in cui sono confluite le speranze deluse, le attese e le aspettative mancate. Non è un fenomeno solo italiano, ma il prezzo che l’Italia sta pagando diventa ogni giorno più alto. È in questo contesto fatto di aspettative e delusioni, di accelerazioni e brusche frenate, che va letta la vicenda della lunga e complicata vita della legge urbanistica nazionale che dal 1942, di decennio in decennio, è stata dichiarata, via via, fascista, superata, inadeguata, inattuabile, ma che


premessa

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in modo singolare, è rimasta come ‘cartello’ di norme facilmente disattendibili (abusivismo e non solo), che tuttavia, ora come allora, sembrano costituire un compromesso ‘accettabile’ fra proprietari, investitori e società, quasi una sorta di punto di equilibrio fra rendita, speculazione e società. La lunga strana vita della legge urbanistica del ‘42 può dunque essere letta come un paradigma della politica italiana, dei suoi tentativi di riscossa e delle sue mortificazioni, del suo gattopardesco modo di proporsi in un paese in cui tutto sembra, sempre, dover cambiare, ma alla fine nulla cambia mai per davvero. Firenze, 17 agosto 2018


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bisogna creare, altrimenti saremo degli sfruttatori di un vecchio patrimonio, bisogna creare l’arte nuova dei nostri tempi, l’arte fascista 1926


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Una storia e il suo contesto La legge urbanistica nazionale è in vigore da oltre sette decenni. Molte sono state le integrazioni, le modifiche, le leggi, i decreti e i provvedimenti che l’hanno in qualche modo variata e ancor più numerosi sono stati i tentativi di superamento della legge stessa, che hanno inizio fin quasi dalla sua promulgazione e che si sono protratti dall’immediato dopoguerra fino ai giorni nostri. Una storia, che è stata più volte raccontata1, ma generalmente in modo frammentato e discontinuo, spesso con curiosità ed interessi di parte, finalizzata ad un principale obiettivo, quello del suo superamento e della sua sostituzione con un nuovo provvedimento. Obiettivo ad oggi non ancora raggiunto. È dunque legittimo domandarsi il perché, a fronte di un’insoddisfazione manifesta e continua, la legge urbanistica del 1942 sia ancora in vigore e sia la legge quadro nazionale in materia, nonostante siano subentrati due fatti fondamentali: l’istituzione delle Regioni a Statuto ordinario (1970) e la riforma delle Autonomie locali (1997- 2001), ai quali più recentemente se n’è

1 Fra i molti studi, se ne vuole citare uno in particolare del Dipartimento di Urbanistica dell’IUAV diretto allora da Franco Berlanda, e realizzato da G. Ernesti e G. Longhi, 1942-1992. Cinquant’anni della legge urbanistica che procede per commenti e citazioni che ricostruiscono correttamente e in modo non convenzionale le vicende del periodo.


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aggiunto un terzo, non meno importante, che interessa le Province e l’istituzione delle città metropolitane, che potrebbe definire utili scenari territoriali per una pianificazione strategica capace di guardare oltre i confini comunali. Quei confini, cioè, su cui si basa la legge del 1942 e che negli anni hanno visto un loro rafforzamento in quanto i comuni, indipendentemente dalle loro dimensioni, dagli abitati e dalle caratteristiche economiche, geografiche e ambientali, sono rimasti le unità fondamentali preposte alla formazione e alla gestione del piano urbanistico. Paradossalmente, più il riferimento politico istituzionale si allontanava, nel tempo e nelle forme, da quello che aveva generato la legge, più il binomio su cui era stata costruita si rafforzava concentrando la sua azione sul legame inscindibile fra uno strumento e un ente: il piano regolatore e il comune. Pertanto, se da una parte possiamo dire che la LU ‘42 e le sue successive integrazioni è da considerarsi uno strumento sorpassato nella sua concezione e nella sua struttura, dall’altro dobbiamo prendere atto delle ragioni e del perché non sia stata mai realmente superata né sostituita. Essa, infatti, rappresenta ora come allora, in modo sia pure precario e insoddisfacente, un punto (o forse il punto) di equilibrio fra le spinte di un sistema economico che resta arretrato e le richieste sociali mai realmente prese in adeguata considerazione. Le vicende della legge sono conosciute, anche se, come si è già detto, sono state lette con interpretazioni di maniera, come spesso avviene quando il desiderio di andare oltre un certo periodo storico-politico sembra prevalere sulla ricerca delle dinamiche e delle dialettiche ad esso connesse.


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La formazione della legge è stata, comunque, più complessa di come l’abbiamo voluta vedere e va oltre la divisione storica fra quanti l’hanno bollata come ‘legge fascista’ e quindi da rifiutare ideologicamente e quanti l’hanno definita una ‘legge tecnica’ e quindi da modificare per adattarla via via al mutare dei tempi e delle situazioni politiche. A questi si sono aggiunte voci2 che l’hanno definita una ‘legge moderna’ in quanto “si fonda sulla presenza congiunta di poteri statali e comunali” e “attribuisce all’urbanistica i connotati ancora attuali del governo del territorio, (e) non quelli dell’architettura a grande scala”. Posizioni, tutte, basate su un’analisi parziale, quando non frammentaria e di parte, della legge che tuttavia hanno trovato un inatteso revival in alcune recentissime leggi regionali3. Dall’attenta lettura dei documenti degli anni precedenti alla sua promulgazione, la legge appare come risultato di un faticoso accordo fra spinte diverse, che solo in un periodo come quello degli inizi degli anni ‘40 del Novecento, in cui si sommavano le difficoltà della guerra a quelle di un regime che mostrava ormai i segni della sua crisi4, potevano trovare una loro composizione che aveva come garante uno Stato autoritario e centralizzato ancora appaCfr. V. De Lucia, La legge urbanistica del 1942, pubblicato on line in Eddyburg 1 settembre 2006, pubblicato in V. Cazzato, MiBACT, Ufficio studi, Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, Roma 2001 col titolo, La formazione delle città 3 Il riferimento è alla legge dell’Emilia Romagna n. 24 del 21 dicembre 2017, “Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio”. Si veda più specificatamente, p. 369 sgg. 4 Il 25 luglio del 1943 (riunione del Gran Consiglio, Ordine del Giorno Grandi, arresto di Mussolini) è la data di riferimento per indicare la caduta del fascismo. 2


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rentemente in grado di far rispettare l’efficienza di un sistema di coerenze gerarchizzate contenute all’interno del provvedimento legislativo. Impresa non facile, dunque, fin dal suo inizio, e che poi ha dovuto fare i conti con la fine del fascismo e della monarchia, con la nuova Costituzione repubblicana, con la ricostruzione di un paese devastato e impoverito dalla guerra e con le spinte popolari della neonata democrazia che non poteva che vedere, quanto meno con sospetto, un provvedimento del tempo della dittatura. Si è detto che la legge fu proposta da Benito Mussolini per affermare un modello territoriale rurale legato all’economia autarchica (1937) e, al contempo, per introdurre le regole della crescita urbana5 che miravano a controllare lo sviluppo delle città maggiori, dove andavano a concentrarsi i movimenti migratori e vi era la necessità di dare alloggio a prezzi contenuti ai nuovi abitanti. La crescita delle città era, allora, un fenomeno che interessava sia Roma, dove era tollerato in vista della creazione di una nuova ‘grandezza’ della capitale, sia il Nord Italia dove i processi di industrializzazione andavano consolidandosi, attraendo manodopera6 nonostante i provvedimenti contro l’urbanesimo siglati nel luglio del 1939, che interessavano 5 Cfr. I “Provvedimenti contro l’urbanesimo” vengono approvati il 25 e il 26 maggio 1939, cfr. archivio.camera.it (02.05.1939 - 06.1939, volume 1375, 691-762 cc. /72 cc.). 6 Va tenuto conto che fra il 1921 e il 1936 la popolazione urbana ha una crescita di oltre 2 milioni di unità. Le città maggiormente interessate da questo fenomeno sono: Roma (+74%), Milano (+36%), Bologna (+32%) e Torino (+25%), nello stesso periodo Genova, Firenze e Venezia salgono fra il 14% e il 17%, mentre Palermo e Napoli non registrano fenomeni significativi di crescita. Su Milano si veda il recente D. Breschi, Mussolini e la Città. Il fascismo fra antiurbanesimo e modernità, Luni, Milano 2018


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le città con più di 25.000 abitanti. La necessità di dare ordine a queste divergenti tendenze è certamente comprensibile nel quadro della politica di quegli anni, tuttavia la sua genesi merita un’attenzione particolare, che può iniziare fin dagli anni ‘20 con l’avvio del dibattito sulle Scuole di Architettura ovvero sulla formazione dei tecnici che, certo casualmente, ha la stessa data di nascita della marcia su Roma (1922), anno in cui nella generale trasformazione dello Stato viene costituito anche il Sindacato fascista degli ingegneri. Va da sé che le opere pubbliche e la politica dell’abitazione sono, da sempre, elementi che connotano i regimi centralizzati e dittatoriali e Mussolini sia per la sua provenienza popolar-socialista, sia per la costante attenzione ai meccanismi di comunicazione e propaganda sembra avere ben chiaro che la ‘terra’ e la ‘casa’ sono punti nevralgici, imprescindibili, per qualsiasi operazione di captazione del consenso. La terra, inoltre, viene considerata sotto un duplice aspetto: quello produttivo legato all’agricoltura e quello dell’urbanizzazione, su cui si innescano varie componenti fra cui quella dell’architettura (gli edifici pubblici e le città di fondazione che si saldano alla politica economica del regime) e quella urbanistica (i piani regolatori delle principali città, ma anche la viabilità e i trasporti). Il controllo della forma degli edifici e quello della crescita urbana, pur separatamente trattati, contribuiscono ad alimentare un unico disegno politico. Infatti in quegli anni si sviluppano, parallelamente, i diversi filoni disciplinari che continueranno ad agire separatamente per molto tempo sul territorio italiano: quello dell’architettu-


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ra, quello dello sviluppo delle città, quello del recupero delle terre e l’ideologia agraria, che vede l’opera di Arrigo Serpieri con la sua ‘bonifica integrale’ e quella di Giuseppe Bottai sulla “protezione delle cose di interesse culturale e delle bellezze naturali”. Politiche che sono rimaste a lungo divise, dapprima senza troppe interferenze, anche se con qualche marginale elemento di conflittualità e di sovrapposizione su particolari aree, ma che si sono rivelate sempre più di difficile gestione relazionale man mano che diminuiva il ruolo trainante del settore agricolo in termini di addetti e di produzione e si assottigliava la divisione fra città e campagna. Un rapporto che entra definitivamente in crisi nel corso degli anni ‘50 facendo emergere quelle tensioni sul territorio che si sono andate strutturando attraverso uno scontro sempre più aperto e diretto, in cui la campagna viene ad essere al tempo stesso oggetto di politiche economiche autonome (protezioni e incentivi) e preda, indifesa, di un’edificazione diffusa (si pensi ai lungo-strada) che, dando una remunerazione immediata proprio a quanti possedevano la terra, innescavano un meccanismo che sfuggiva al controllo di qualsiasi programmazione del territorio e delle sue risorse. Tornando agli anni ‘20 del Novecento, va rilevato come essi siano densi di cambiamenti che riguardano non solo la politica, ma anche la società con una popolazione che va inurbandosi, con un’economia che va sempre più industrializzandosi e con un’agricoltura che tende a diventare estensiva. Vi è, quindi, la necessità di esprimere tutto questo in forme (e da qui l’interesse e il dibattito sull’architettura e sulle arti figurative) e in sistemi organizzativi controllabili e uniformi per tutto il paese. Un processo


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che ha fra le sue tappe la creazione dell’Istituto nazionale di urbanistica (INU) nel 1930 al termine dei lavori del convegno che la FIHUAT7 tiene a Roma. L’INU, il cui primo presidente è Alberto Calza Bini (1930-1943), ha fra i suoi obiettivi quello di “normalizzare la pratica urbanistica” attraverso la definizione di una legge generale che superi quella del 1865 e che obblighi i comuni alla formazione di piani regolatori generali (PRG) visti come strumenti in grado di definire, alle varie scale, la forma fisica della città per “dare un ordine civile ed economico alla società” attraverso l’applicazione della zonizzazione8. Va sfatato un altro luogo comune che riguarda quegli anni ovvero l’isolamento culturale degli architetti italiani dal contesto europeo e la loro vicinanza al solo razionalismo tedesco9 che, certamente, era presente. Sempli-

FIHUAT (Federation Internationale pour l’Habitation, l’Urbanisme et l’Amnagement Urbain) è organismo internazionale con sede all’Aia di cui Adriano Olivetti diventa vicepresidente nel 1956. Per una sintesi storica cfr. V. Claude, P-Y. Saunier, L’urbanisme au début du siècle. De la rèforme urbanine à la compétence technique, in “Vingtième Siècle. Revue d’Histoire”, n. 64, 1999, pp. 25-40. 8 Cfr. L. Piccinato, Architettura e Arti decorative, gennaio/febbraio 1930 e voce Urbanistica in Enciclopedia Italiana, 1937. 9 Cfr. G. Samonà, La casa popolare, p.340 sgg.; G. Minnucci, Edilizia cittadina e piani regolatori (il congresso di Amsterdam, 2-9 luglio) in Architettura e arti decorative, nov. 1924, pp.69-90; M. Piacentini, Influssi d’arte italiana nel Nord America in Architettura e arti decorative, marzo-aprile 1922, pp.536-555. Quest’ultime citate in F. Cinti, Architettura e arte di stato durante il Fascismo, consultabile in bibliomanie.it. Come pure, dalle riviste citate, si evince la conoscenza delle leggi urbanistiche del periodo, ovvero della Danimarca (1925, poi 1939), della Finlandia (1931) e della Norvegia (1932). Si veda inoltre: C. Bianchetti, Le riviste degli anni venti, pp. 33-34 e P. Nicoloso, L’urbanistica nelle riviste di architettura, tecnica, igiene e amministrazione 1921-1932, entrambi in Urbanistica n.89/1987 pp. 35-43 e la bella digitalizzazione di Architettura e arti decorative (anni 1921 -1929) della Biblioteca Centrale di Roma http://digitale. bnc.roma.sbn.it/tecadigitale/giornali/VEA0010895. 7


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ficazioni e inesattezze che non tengono conto, sia pure all’interno di un innegabile provincialismo italiano, che in questo periodo si formano e maturano personalità di grande rilievo come Angiolo Mazzoni, Giuseppe Terragni, Giuseppe Pagano, Mario Ridolfi, Giovanni Michelucci, Luigi Piccinato, tanto per citarne alcuni, che contribuiscono alla vitalità del dibattito fra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ che si polarizza fra i sostenitori dell’aulicità e della solennità dell’architettura che guarda e si ispira agli stili del passato e fra i fautori della modernità e del rapporto forma-funzione da applicarsi in architettura come in urbanistica. Un dibattito che appare ricco e vivace come dimostrano le Esposizioni di Roma e le Triennali di Milano, gli articoli e le pubblicazioni di settore di quegli anni. L’interesse politico si intreccia, infatti, con un tessuto culturale, intellettuale ed artistico che assume i toni di una disputa sull’architettura, testimoniata dalla dialettica fra architetti e ingegneri e rintracciabile sulle riviste10, che sfocia nella discussione e nella successiva istituzione delle Scuole di Architettura (poi Facoltà)11, come pure dalle relazioni e partecipazioni a convegni internazionali. Dopo un periodo di conformismo stilistico, infatti, la riflessione sulla nuova architettura trova una sua prima sistematizzazione nel milanese Gruppo 7, poi Movimen-

Cfr. La nuova antologia (dal 1913), Architettura e arti decorative (1921 diretta da M. Piacentini e G. Giovannoni, nel 1927 diventa l’organo del Sindacato nazionale architetti e A. Calza Bini ne assume la direzione), La casa (1929-31), Urbanistica (dal 1932), Casabella (1928 e dal 1933 diretta da G. Pagano, poi Casabella-Costruzioni con direzione Persico-Pagano). 11 Dopo il 1933 vengono fondate le Facoltà di Architettura. 10


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to italiano per l’architettura razionale (MIAR)12 che, attraverso una serie di articoli pubblicati fra il dicembre 1926 e la primavera dell’anno successivo13, definisce un quadro ideologico basato sul riconoscimento di idee e forme nuove (in rapporto a Gropius, Mendelsohn, Van der Rohe, Le Corbusier) e sulla necessità della complementarietà dei diversi linguaggi artistici (pittura, letteratura, musica) con l’obiettivo di definire la struttura culturale della contemporaneità, che tuttavia deve trovare le sue radici nella continuità storica e all’interno della quale la “tradizione… si trasforma, assume aspetti nuovi”. All’idea di questa continuità che ha origini antiche (Roma, il Mediterraneo e la politica dell’Impero), si affianca il tema di un ‘primato’ nazionale, che a tratti appare capace di rompere con gli ‘slanci artificiosi’ (movimento futurista) e romantici (eclettismo) precedenti, per conseguire ‘lucidità e saggezza’, indispensabili per affermare un pensiero basato su una ‘logica e razionale coerenza’. È interessante notare come la polemica che si sviluppa sia più aspra nei confronti dei precedenti movimenti e delle vecchie avanguardie che nei confronti del regime in vigore, che viene al contrario assunto come interlocutore privilegiato, con una netta chiamata in causa ad opera dalla parte più intellettuale della cultura fascista.

Com’è noto il MIAR si struttura come emanazione a livello nazionale del “Gruppo 7” (G. Figini, G. Frette, G. Pollini, C.E. Rava, G. Terragni, U. Castagnola, poi sostituito da A. Libera, che sarà nel 1931 il “liquidatore”) che nelle sue tesi si rifà a quelle del movimento internazionale, in polemica con gli architetti neo-classici (G. Muzio, P. Portaluppi, E. Lancia, G. Ponti, O. Cabiati, A. Alpago Novello). 13 Cfr. C. De Seta, Storia dell’architettura fra le due guerre, Laterza ed. 1978, vol. II pp.185-196. 12


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Il MIAR realizza le due Esposizioni Nazionali di Architettura Razionale a Roma nel 1928 e nel 1931, ma implode proprio dopo quest’ultima. Lo stesso tentativo di Piero Maria Bardi di stabilire, nel corso della seconda Esposizione Nazionale di Architettura Razionale, un ponte con il partito fascista attraverso il Rapporto sull’architettura per Mussolini fallisce: il Rapporto, se pur concepito all’interno di una logica nazionale non eversiva, denuncia collusioni e favoritismi nella spartizione delle grandi commesse pubbliche fra potere politico e accademico, che ovviamente non potevano essere graditi al Duce. Ad acuire la tensione subentra la Tavola degli orrori14, un collage in cui compariva una sequenza di architetture, espressione di un linguaggio modulato su variazioni eclettiche, neo-classiche e pseudo-moderne prevalentemente riferite a Piacentini e agli architetti vicini a lui. Finisce sotto accusa tutta l’Esposizione del 1931, su cui si abbattono gli attacchi di Ugo Ojetti, forte del successo della Mostra sul Giardino Italiano di Firenze15, sostenuto ed affiancato dal sindacato fascista presieduto da Alberto Calza Bini, 14 Una foto del 3 marzo 1931 mostra Bardi che illustra a Mussolini Il Tavolo o La Tavola degli Orrori, intorno alla quale sono presenti anche Adalberto Libera e Giuseppe Terragni, cfr. http://senato.archivioluce.it/senato-luce/scheda/foto/IL0010025982/12. Va precisato che nonostante lo scontro con Mussolini, Bardi non rinnegherà mai la sua adesione al fascismo: alla fine della seconda guerra mondiale emigrerà in Sud America, dove realizza il MASP (Museu de Arte de São Paulo) con la seconda moglie l’architetto Lina Bo Bardi. 15 La mostra ebbe luogo a Firenze in Palazzo Vecchio, inaugurata il 24 aprile 1931, curata da Ugo Ojetti, Nello Tarchiani e Luigi Dami, intendeva testimoniare il “primato italiano” nella storia del giardino, cfr. Comune di Firenze, Mostra del Giardino Italiano, Catalogo, Firenze 1931 e C. Cresti, Il Giardino Italiano Mostra di Firenze, Pontecorboli, Firenze 2016; si veda inoltre: https://journals.openedition.org/ cei/1959?lang=it.


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che condanna apertamente gli organizzatori e dà vita al RAMI, Raggruppamento Architetti Moderni Italiani, che si forma proprio con lo scopo di definire e propugnare un ‘compromesso’ fra la tradizione e la modernità. Progettare il futuro, progettare la modernità porta, a cavallo degli anni ‘30, ad una scissione fra produzione di progetti e realizzazione di opere, di cui è un esempio Giuseppe Terragni, forse il più significativo esponente del razionalismo italiano, che progetta edifici interessanti e complessi come la casa d’appartamenti Novocomun a Como e il Danteum (non costruito), ma che realizzerà la sua opera più nota, la casa del Fascio a Como, solo fra il 1932 e il 1936. La Casa del Fascio di Como diventa, da subito, un’architettura simbolo: pianta quadrata e modulare, con declinazione del quadrato anche in facciata. Terragni conosce certamente il padiglione di Barcellona di Mies (1929) come la casa Stein di Le Corbusier, ma la sua via creativa è autonoma, ed è legata ad una riflessione sul fascismo come “casa di vetro” — secondo la definizione di Mussolini — che l’architetto traspone nella sua composizione come risoluzione di organicità, chiarezza e onestà16. Si è già detto come, nonostante la chiusura culturale del regime, le informazioni circolassero. Le testimonianze sono varie dalla presenza italiana a congressi come quello di Amsterdam del 2-9 luglio 192417, dal fatto che dal 1928 esista e sia operante una sezione italiana del CIAM, come pure dell’attività di molti tecnici fra Cfr. De Seta, Op. Cit. p. 207. I resoconti sono riportati nei fascicoli 2 e 3 delle riviste Architettura e Arti Decorative del 1924.

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G. Terragni, Casa del Fascio a Como

cui quella dell’architetto italo-svizzero Alberto Sartoris di cui troveremo, quasi dieci anni dopo, la firma sotto la Carta di Atene. Certo la partecipazione al quadro internazionale resta circoscritta ad un gruppo ristretto di personalità e di occasioni, e tuttavia non si può affermare che ci fosse estraneità rispetto a quanto andava maturando nel resto d’Europa. La rivista Architettura ed arti decorative diretta (fin dal 1921 da Piacentini e Giovannoni fino al 1926) che dal 1928 diventa l’organo del Sindacato nazionale architetti, pubblica — non certo per caso — progetti ed esperienze straniere. Lo stesso Piacentini ci fornisce la chiave di lettura dello stato di informazione generale con il suo volume Architettura d’oggi del 1930 in cui, dopo una personalissima quanto singolare ricognizione dell’Ottocento, passa a trattare del ‘risveglio’ dell’architettura nel dopoguerra dovuto principalmente all’evoluzione della tecnica (es. cemento armato) e all’urbanesimo. La sua è una narrazione speditiva, tal-


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Roma, EUR, Palazzo della Civiltà del Lavoro

volta imprecisa e molto soggettiva, nella quale tuttavia si fa riferimento, tra gli altri, a Garnier e Perret, a Mallet-Stevens e a Le Corbusier, di cui critica con tranquilla sicurezza “la casa utensile, la casa macchina, costruita in serie” così come liquida le utopie sovietiche come ‘stravaganti’ esperienze. Neppure la Germania sembra costituire un centro di interesse particolare nel quadro di rinnovamento dell’architettura, anche se sono citati Paul Bonatz (con cinque opere), Hertlein, Fahrenkamp (Shell-Haus, GASAG office, Berlino), Erik Mendelsohn; Mies van der Rohe è visto come una promettente personalità, mentre è esplicita la condanna su Walter Gropius e le sue architetture. Vaghe sono le informazioni sull’America e i suoi grattacieli, mentre un maggior interesse sembra andare all’Olanda (Dudok, Brinkman, Van der Vlugt) di cui si aveva una conoscenza diretta e alla Svezia (Asplund). Gli scambi di esperienze e di informazioni erano certamente rafforzati dalla presenza in


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Italia degli ultimi viaggiatori del Grand Tour, fra questi ci sono quelli che diventeranno i numi dell’architettura del XX secolo, come Mies van der Rohe, Le Corbusier e Ozenfant, dei quali viene ricordato il viaggio in Italia del 1921. Dunque, un quadro informativo esiste anche se lacunoso, episodico e frammentato solo a tratti indirizzato verso qualche approfondimento sulle esperienze dei quartieri, spesso riferibili a quelle tedesche, sia in relazione alle tipologie delle case operaie sia all’impianto planimetrico generale anche in vista di possibili soluzioni da proporre nel contesto italiano. L’attenzione della cultura architettonica è rivolta alle opere pubbliche che hanno un impulso decisivo negli anni ‘30 e maturano espressioni formali di rilievo. Oltre la Casa del Fascio di Terragni, è doveroso citare l’Istituto di Fisica, all’interno della realizzazione della città universitaria di Roma, di Giuseppe Pagano (1932) nel più ampio contesto della stessa Città Universitaria18 e, nel 1933, il concorso per la nuova stazione ferroviaria di Firenze (Baroni, Berardi, Gamberini, Guarnieri, Lusanna, Michelucci). A queste seguirà più tardi, nel 1937, il concorso per l’Esposizione Universale di Roma (EUR 42) che rappresenta il punto massimo dello scontro fra accademia e razionalismo e sul quale Giuseppe Pagano scriverà il suo celebre Occasioni perdute19. Il piano della Città Universitaria di Roma è di Marcello Piacentini che progetta il Rettorato e i Propilei, mentre a G. Capponi e G. Ponti si devono gli Istituti di Botanica e di Matematica. 19 Cfr. A. Zevi, Se Terragni avesse vinto…, in Una guida all’architettura moderna dell’EUR, Fondazione Bruno Zevi, Roma 2008, pp. 7-9 a seguito del quale è riportato l’accorato scritto di Giuseppe Pagano, Occasioni Perdute, pubblicato nel 1941 in Casabella Costruzioni, posto a premes18


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Roma, EUR, Salone delle fontane

Le influenze internazionali che hanno peso sulla situazione italiana di quegli anni sono di ben altra natura. Incombe il clima di disastro economico mondiale, che si manifesta con grande crisi del 1929, una contingenza che impone una risposta anche nell’accelerazione della politica del territorio o come si è detto ‘della terra’, che trova un duplice sbocco: verso la ricerca di nuove aree da coltivare attraverso le bonifiche e verso l’individuazione di zone per il lavoro e la costruzione di nuove fabbriche. Tuttavia non va sottovalutato come le città di fondazione, basate su caratteri igienisti, definiscano un nuovo rapporto città-campagna20 attraverso cui Mussolini tenta di risolvere quella che ritiene la contraddizione urbana, in cui la condizione degli abitanti è vista come fonte di costrizioni e limitazioni anche in relazione allo sviluppo fisico (maggiori tassi di natalità per una razza migliosa della pubblicazione dei progetti scartati per l’EUR, caduti sotto i colpi delle “false, inutili, impacciatissime colonne”. 20 Si pensi, con le dovute cautele, alle Garden City (es. Letchworth, 1903) e alle teorizzazioni del socialista utopistico Ebenezer Howard che, in un contesto del tutto diverso, si poneva il duplice obiettivo di salvare la città dal congestionamento e la campagna dallo spopolamento. Esperienze peraltro conosciute come attesta l’articolo su R. Unwin di C. Albertini, L’opinione di un architetto inglese sulla città e i suoi grattacieli, in “La Casa”, n. 1/1920


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re) e al manifestarsi di aggressività politica (controllo lotte operaie), proponendo modelli urbani nelle campagne recuperate, dove la centralità è affidata alle attrezzature e ai servizi e la distribuzione delle terre e del lavoro favorisce la nascita di un ceto di piccoli proprietari che stabilirà con il regime un rapporto grato e solidale21. La legge sulla bonifica integrale è del 192922. L’anno dopo inizia l’operazione Agro Pontino, che vede i primi coloni insediarsi a Littoria e Pomezia già nel 1932. Sempre del 1929 sono i provvedimenti per la creazione delle aree industriali di Fiume, Trieste-Monfalcone e di Livorno: è il rafforzamento dell’idea dell’Italia come potenza sul mare, proiettata nel Mediterraneo, ma sono anche interventi su aree strategiche e di confine o in zone legate a personaggi del regime come nel caso dei Ciano a Livorno. Non c’è dubbio che in questo attivismo, si avverta la necessità di un provvedimento complessivo in grado di regolamentare i nuovi insediamenti sia nelle aree di bonifica dall’Agro Pontino alla Capitanata, sia nelle aree estrattive come Carbonia sia, infine, nell’espansione delle città esistenti, dove la partita è sempre giocata tra creazione di zone per la produzione e nuovi quartieri residenziali concepiti con Cfr. D. Breschi, Fascismo e antiurbanesimo. Prima fase: ideologia e legge (1926-1929), pubblicata sul web, in: http://www.academia. edu/10270120/Fascismo_e_antiurbanesimo._Prima_fase_ideologia_e_ legge_1926-1929_ 22 Per la precisione, si fa presente che le leggi sulla bonifica datano dal 1923 (30.12.1923 n.3256, 18.5.1924 n.753/legge Serpieri e 20.11.1925 n.2464), poi con la legge 24.12.1928 n.3134 (nota come legge Mussolini), fu costituito un sottosegretariato per la Bonifica Integrale e, con decreto 12.9.1929 n.1661, fu nominato direttore Arrigo Serpieri, da qui la data del 1929 come data d’inizio della cosiddetta “bonifica integrale”. Per questo alcune città di fondazione hanno date anteriori al 1929: es. Mussolinia (oggi, Arborea) che è del 1928. 21


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bassa e media densità edilizia23. Si profila in questo periodo un contesto di radicale cambiamento della politica del territorio, in quanto i piani di allineamento, di ampliamento e piani regolatori edilizi previsti dalle leggi allora in vigore, come la L. 2359 del 1865 e la L. 289 del 1885, nota come legge di Napoli, non sono più sufficienti e idonei a regolamentare le nuove esigenze, come pure non bastano più i piani regolatori redatti e approvati singolarmente con provvedimenti eccezionali. I fenomeni hanno ormai una dimensione nazionale e c’è bisogno di regole di carattere statale applicabili in modo omogeneo sull’intero territorio italiano. Fin dalla fine degli anni ‘20 e in tutto il decennio successivo si era registrata una forte attività in campo urbanistico: oltre il PRG di Roma del 1931, erano state varate alcune decine di piani (da Bolzano, Brescia, Foggia che datano prima del 1930, a Palermo, Carbonia, Apuania nel primo biennio del 1940) direttamente progettati dal ministero LLPP o redatti su bando di concorso tanto che dopo il 1933 viene messo a punto un ‘bando tipo’ per la definizione dei PRG. Ai piani si andavano ad aggiungere i numerosi provvedimenti e progetti per le zone industriali e i ‘villaggi’ operai, che spesso precedono di qualche anno la redazione di un piano generale comunale o sovra-comunale come nei casi di Livorno, Apuania, Ferrara, Trieste-Monfalcone e di Roma stessa; inoltre va ricorCfr. C. Chiodi, La città moderna, 1935 (nuovamente pubblicato da Gangemi nel 2006 a cura di G. Sartorio), ma anche esperienze come “Milano verde” (Albini, Gardella, Minoletti, Pagano, Predaval, Romano, 1938), la “Città orizzontale” (Pagano, Diotallevi, Marescotti, 1940), la creazione di città giardino come Tirrenia (Pisa) e il sistema delle borgate romane con densità maggiore (es. Primavalle, 1938, Tufello 1940, Quarticciolo 1940).

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dato come le azioni per le bonifiche comprendessero borghi e villaggi, i cui modelli verranno riproposti nelle colonie dall’Egeo all’Africa24. Su tutto questo fervore si cala un ulteriore elemento di cambiamento, che interessa le opere pubbliche e le infrastrutture di comunicazione in relazione anche alla nascita dell’industria automobilistica italiana che vede la costruzione delle prime autostrade (es. Milano-Laghi, Firenze-Mare)25 e il rafforzamento e il miglioramento delle strade statali esistenti, che aggiungono alla funzione di più rapido spostamento il concetto del collegamento con la capitale e rafforzano il ruolo effettivo e simbolico di Roma: strade nazionali come moderne evocatrici delle antiche vie consolari romane. La casa, comunque, resta (anzi, diventa sempre più) il problema centrale. Nel 1924 viene creato l’INCIS (Istituto Nazionale Case Impiegati Statali) e nel 1937, l’anno della proclamazione dell’autarchia, si risponde alla richiesta di case a prezzi bassissimi con il rafforzamento dell’Istituto Fascista Autonomo Case Popolari (IFACP) che ha il compito di costruire abitazioni a costi ridotti, con ambientazioni semi-rurali, per venire incontro al continuo inurbamento. Le abitazioni, in opposizione a quanto avviene nel Nord Europa ed in particolare in Germania dove si studia e si sperimenta lo spazio minimo abitativo, devono essere ampie per favorire le esigenze di vi-

Cfr. G. Corsani, H. Parfyrou (a cura di), Borghi rurali e borgate, la tradizione del disegno urbano in Italia negli anni Trenta, Palombi ed. Modena 2017 25 Sulle autostrade, si veda: L. Bortolotti, Origine primordi della rete autostradale in Italia, 1922-1933, in «Storia Urbana» n. 59/1992; A. Giuntini, Nascita, sviluppo e tracollo della rete infrastrutturale, in “Storia d’Italia. Annali 15 (l’Industria)” Einaudi, Torino 1999. 24


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ta della famiglia italiana, che secondo il Fascismo deve essere ‘grande’, con tanti figli e, per questo, doveva differenziarsi dall’essenzialità dell’esperienza tedesca che proponeva case operaie di ridotte dimensioni. Matura, in questi stessi anni, il filone culturale che attiene alle politiche territoriali, legato alla protezione dei beni storico-artistici, che, dopo la legge Rosadi-Rava del 1909, aveva avuto un primo provvedimento nel 1923 con l’istituzione delle Soprintendenze per l’Arte Medievale e Moderna e un riordino territoriale e di competenze con il ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, che nel 1939 rafforza il rapporto diretto delle stesse con lo Stato centrale e, nello stesso anno, vara un’importante sistemazione della materia con le leggi sulla “Protezione delle cose di interesse artistico o storico” (n. 1089/39) e sulla “Protezione delle bellezze naturali” (n. 1497/39), che tuttavia non interferiscono con la politica del “piccone demolitore e risanatore”26 che prosegue la sua opera. Nei provvedimenti del ‘39, che sono di fondamentale importanza, è compresa anche la possibilità per le Soprintendenze di formulare autonomamente dei piani di tutela del territorio, che apre il tema della ripartizione di competenze e di azioni che non verrà mai sanato nel corpus legisla-

Si pensi al discorso di Mussolini del 1925 per l’insediamento del governatore di Roma: “Farete largo attorno all’Augusteo, al teatro di Marcello, al Campidoglio e al Pantheon; tutto ciò che crebbe nei secoli della decadenza deve sparire… L’antico va rispettato a patto però che non soffochi imprescindibili esigenze...” e ancora “I monumenti millenari della nostra storia debbono giganteggiare nella necessaria solitudine” (discorso del 1924 sul disegno della nuova Roma). Cfr. https:// www.regesta.com/2013/03/18/il-piccone-demolitore-e-risanatore-della-roma-fascista.

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tivo italiano e che costituirà un vulnus strutturale interno ad ogni politica territoriale successiva, che da allora considera separatamente il territorio per l’edificazione da regolamentare, le parti ‘di pregio’ da vincolare e proteggere e il territorio dell’agricoltura da mantenere per la produzione. La legge urbanistica è una necessità Disporre di un’organica legge urbanistica diventa urgente e necessario e, il 23 giugno del 1942, il ministro dei Lavori pubblici in carica, Giuseppe Gorla presenta alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni un testo (Atto n. 2038 della Camera) redatto dalla Direzione generale dell’urbanistica, da poco istituita. La relazione del ministro Gorla si articola in quattro punti principali: 1. la necessità di disporre all’interno del piano regolatore di aree da destinare ad edifici ed impianti pubblici di interesse collettivo, 2. l’abolizione delle differenze fra piano regolatore edilizio e piano di ampliamento, 3. la necessità di poter rendere cogente la zonizzazione ovvero la possibilità di imporre e controllare destinazione di vaste superfici di terreno e 4. quella di poter dotare i comuni della capacità di espropriare le aree per la costruzione di opere pubbliche e non solo per ampliare e costruire le strade. A questi punti, se ne aggiungeva un quinto, che oggi appare di grande attualità, e che riguardava il rapporto fra i piani e le architetture basato sulla considerazione che nella costruzione delle nuove parti di città si dovesse tener conto di interessi di ordine estetico, storico e artistico. Dopo aver chiarito le finalità del provvedimento e la sua


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portata tecnica, la relazione del Ministro acquista la valenza di una dichiarazione politica che passa per l’esplicitazione del valore sociale dell’urbanistica come disciplina in quanto “fondamento di una convivenza sociale nella distribuzione delle forze produttive e dei nuclei demografici sul territorio nazionale e pertanto… mezzo efficace per attuare il deurbamento”27 e l’affermazione di un controllo complessivo delle azioni sul territorio che si effettua mediante gli strumenti che vanno dal Piano territoriale di coordinamento (“entro il quale dovranno inquadrarsi i piani regolatori dei singoli comuni e curarne l’armonica coesistenza”) al Piano regolatore generale esteso a tutta la superficie comunale nonché ai suoi piani attuativi. In questa sequenza coordinata tutto il territorio italiano è soggetto ad un processo di pianificazione che accoglie le direttive politiche nazionali e le regola all’interno della dimensione comunale, rispetto alla quale è lo stesso Stato centrale ad essere garante. Il progetto di legge viene discusso in commissione Lavori pubblici in sede deliberante ed è approvato in data 2 luglio. Non si registra una sostanziale opposizione al testo, che si limita alla dichiarazione del rappresentante della Federazione Proprietari dei Fabbricati rappresentati dal deputato Spinelli, mentre nel dibattito complessivo sono numerosi i consensi sia sul significato ‘morale e urbanistico” rispetto alla creazione di un demanio comunale di aree (deputato Massimino) sia nelle raccomandazioni sul rigore da tenersi contro le speculazioni fondiarie (deputa-

27 Cfr. Camera dei deputati, Segretariato generale, Ricerca sull’urbanistica, parte prima, in Quaderni di studio e legislazione, Roma 1965 p.78.


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to Cavallazzi)28. La discussione al Senato ha un andamento assai simile e il testo della legge n. 1150, che porta la data 17 agosto 1942, è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 244, come “Legge Urbanistica”. La legge propone una serie di innovazioni riassumibili in tre principali concetti: 1. il riconoscimento di una dimensione sovracomunale come momento di recepimento di politiche territoriali nazionali di sviluppo; 2. la pianificazione comunale articolata ed esplicitata attraverso un Piano Generale esteso a tutto l’ambito comunale e, dunque, coordinato fra aree interessate all’edificazione ed aree agricole, e che controlla la sua realizzazione tramite piani attuativi (Piani Particolareggiati di iniziativa pubblica e privata, fra cui il comparto ex art.23); 3. il problema (che tuttavia non risolve e rinvia ad atti successivi) del finanziamento del piano attraverso l’introduzione della componente economica connessa alla valutazione degli oneri relativi ai piani particolareggiati. Non esistono in legge indicazioni sulla modalità di redazione del PRG, che verranno date solo nel 195429, men-

28 Arrigo Cavallazzi, ferrarese, fascista, centurione della Milizia, durante la Repubblica Sociale conduce interrogatori e procede all’arresto di Ugo Veronesi. Processato dalla Corte di Assise e d’Appello di Ferrara (26/3/1948) e condannato a 24 anni per collaborazionismo e per l’eccidio della “lunga notte del ‘43” Camera dei deputati. Su dibattito parlamentare, vedi Op cit. p.79. 29 Il riferimento è alla Circolare n. 2495 del Ministero LLPP del 7 luglio 1954, Istruzioni per la formazione dei piani regolatori comunali: generali e particolareggiati, in cui invitano i comuni ad avvalersi di tecnici specializzati, e si esplicitano i contenuti e gli elaborati di progetto, nonché delle procedure burocratiche da seguire.


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tre è forte ed evidente la presenza e la capacità politica dei Comuni di porsi come soggetto in grado di conciliare le attività pubbliche e le iniziative private. L’accelerazione data da Gorla per far approvare la legge è da leggersi in relazione alla situazione del paese, in quanto nonostante l’emergenza della guerra, appare indifferibile e necessario un provvedimento che permetta soprattutto di indirizzare le modalità e lo sviluppo della crescita edilizia urbana dove più evidenti sono le contraddizioni e i conflitti, agendo sul regime di controllo della proprietà fondiaria sia attraverso la zonizzazione (destinazioni d’uso delle aree, come elemento cogente), sia con la possibilità di applicazione dell’esproprio per pubblica utilità (formazione demanio comunale, realizzazione opere pubbliche). Due punti che spesso tendiamo a sottovalutare perché, oggi sembrano aver perso la loro attualità. Lo zoning, infatti, nella sua applicazione è uno strumento obsoleto, in quanto non è più applicabile ad una imposizione legata ad una destinazione unica o prevalente, ma, viceversa, si struttura in relazione ad un pluriuso flessibile che si autodefinisce nel tempo secondo le esigenze e i condizionamenti del mercato. Non meno in crisi sono sia lo strumento dell’esproprio (sentenze reiterate della Corte Costituzionale, tempi e procedure estenuanti, costi inadeguati ecc.) che la necessità di disporre di un demanio comunale — la cui formazione era essenziale negli anni ‘40 e lo è stata per quasi tutto il Novecento — e che appare oggi alla maggior parte (non a tutte, fortunatamente) delle amministrazioni locali come un onere aggiuntivo insostenibile tanto che, sovente, è in via di dismissione non


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tanto per l’impossibilità di mantenerlo in efficienza quanto per l’esigenza di far cassa. Uno dei nodi su cui più si è dibattuto è quello delle circostanze eccezionali in cui la legge è stata varata. Un punto incontestabile se si pensa al momento storico caratterizzate dalla guerra e dai segni di declino del regime, ma rispetto al quale va tenuto conto anche della situazione e dell’attività del Ministero dei Lavori pubblici e della figura del relatore della legge, il ministro Gorla, che del suo operato ha lasciato esauriente testimonianza nel suo libro-diario in cui sono annotate le sue attività dal 1911 fino al 6 giugno del 1944, data dello sbarco in Normandia, quando scrive, concludendo la sua narrazione: “A mio giudizio la Germania è finita. Per quanto riguarda l’Italia non c’è che da pregare il Signore perché abbia pietà di lei: gli italiani hanno dimostrato di non averne”30. La personalità di Gorla merita una digressione: è, come prima cosa, un ingegnere, integrato nel regime con un rapporto personale con Mussolini che origina dall’adesione ai Movimenti interventisti della prima guerra mondiale, dove parte volontario e torna invalido. Vice Podestà di Milano, molto attivo nel mondo delle Associazioni 30 Cfr. Giuseppe Gorla, ingegnere milanese (1895-1970) interventista nella prima guerra mondiale entra in contatto con Mussolini. Parte volontario nel 1915, ferito rientra a Milano ed è attivo nell’Associazione Mutilatati e Invalidi di Guerra e nei Fasci Italiani di Combattimento. Segretario del sindacato nazionale fascista degli Ingegneri (1937-38) e presidente del TCI e consigliere della Camera dei Fasci e delle Corporazione. Parte per la seconda guerra mondiale, viene nuovamente ferito e dal 30 ottobre 1940 al 6 febbraio 1943 è Ministro dei Lavori Pubblici. Del periodo 1911/43 ha scritto nel libro: L’Italia nella seconda guerra mondiale: diario di un milanese, ministro del re nel governo di Mussolini, Baldini & Castoldi, Milano, 1959.


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milanesi quali il Sindacato degli Ingegneri, l’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra e il TCI, passa gran parte della sua vita all’Istituto Case Popolari di Milano, di cui è presidente e dove matura quei convincimenti che lo portano a sostenere la causa della legge urbanistica. Nell’ottobre 1940, al ritorno dal fronte — ancora una volta parte volontario e torna con un’altra ferita nella seconda guerra mondiale — è nominato ministro dei Lavori pubblici. Carica che tiene per tre anni e da cui è rimosso per dissensi con il Duce. Dal Ministero passa alla presidenza dell’Agip, dove conclude la sua vita pubblica. Infatti, l’8 settembre del 1943, chiede essere rimosso dalla carica, ma non riceve risposta e, tuttavia, si oppone alla richiesta della Repubblica di Salò di consegnare i macchinari e di trasferire la sede dell’Agip al Nord. Dopo questo rifiuto non si hanno più sue notizie, la stessa pubblicazione del suo libro-diario, nel 1959, passa del tutto sotto silenzio, tuttavia il fatto che non risultino a suo carico processi di epurazione31 lo connota come un tecnico che, proprio dall’esperienza maturata all’Istituto Case Popolari, conosce le difficoltà in materia di sviluppo e controllo delle città. La sua figura è singolare e Gorla resta nel corso di tutto il suo operato, come lui stesso si autodefinisce nel titolo del suo libro: “un ministro del re nel governo Mussolini”, ma un fatto è certo che senza la sua tenacia la legge urbanistica non sarebbe stata portata a compimento. Cfr. Il suo nome non risulta neppure nella Relazione del Presidente dell’Agip Enrico Mattei (di nomina CLN) che gli succedette e che è rintracciabile in: Archivi diversi, Fondo Istituto per la Ricostruzione Industriale, Serie Nera b. 83.

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Liberazione e Costituzione Alla fine dell’aprile 1945, tutta l’Italia è liberata: la guerra è finita, il regime fascista è definitivamente sconfitto. Le piaghe del paese sono molte ed evidenti e coinvolgono la società, l’economia e la politica sia nei suoi aspetti interni che nelle sue implicazioni internazionali. Il primo governo dell’Italia libera è affidato a Ferruccio Parri (‘il partigiano Maurizio del Partito d’Azione”) che si trova a dover affrontare la difficile ricostruzione di un paese dove non solo esistono le ferite evidenti (rovine, disoccupazione, svalutazione della lira, ecc.), ma in cui forti sono le lacerazioni fra chi ha partecipato e dato la vita alla Resistenza e quanti avevano aderito al fascismo e collaborato coi nazi-fascisti e la Repubblica di Salò; lacerazioni che andavano ad aggravare la frattura fra Nord e Sud, su cui si innesta anche la questione del separatismo siciliano. Con il Referendum istituzionale del 2 giugno 1946 viene proclamata la Repubblica e contestualmente sono eletti i membri dell’Assemblea costituente. Com’è noto la Costituzione entra in vigore il 1° gennaio 1948 e si fonda su alcuni principi fondamentali espressi dai primi 12 articoli, nei quali sono affermate la dignità dell’individuo, la solidarietà sociale (“compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale”) e il ripudio della guerra come strumento di offesa e risoluzione di controversie internazionali. Uno di questi principi fondamentali (art. 9) riguarda in particolare il territorio, che viene inquadrato nell’ambi-


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to dello sviluppo culturale, scientifico e tecnico del paese, in quanto destinatario delle politiche di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione32. Un patrimonio, dunque, che appartiene all’intera comunità di cui ogni cittadino fa parte, e che rappresenta l’identità del suo presente e il lascito della sua storia. Un’eredità (non a caso heritage in inglese) che necessita di ‘cura’, da esercitarsi con saggezza e sapere e che, alimentata dallo sviluppo nella conoscenza, deve essere tramandata nella sua autenticità, nella sua interezza e nella sua complessità che comprende l’insieme del patrimonio ambientale, storico, artistico e paesaggistico. Si è molto dibattuto sui contenuti e il significato dell’inserimento del ‘paesaggio’ nell’art. 9 della Costituzione, in merito alla sua derivazione dalle leggi del 1939 e alla sua preminenza rispetto alle altre componenti che attengono al territorio. Tuttavia, nello spirito desumibile dai principi fondamentali espressi dai Costituenti nei primi 12 articoli, esso è da interpretarsi nel suo senso più ampio e inclusivo che abbraccia il territorio nell’articolazione delle sue trasformazioni, in cui è da ricomprendersi oltre il paesaggio stesso (espressamente citato) anche l’ambiente per cui ancora non esisteva né una sistematizzazione disciplinare precisa né una legislazione specifica. Dunque il territorio, paesaggio e ambiente sono, alla luce delle conoscenze attuali, da rivedersi come un unicum costituito da relazioni multiple, fra loro non separabili in quanto si influenzano reciprocamente. Il paesaggio, infatti, è l’immagine Il testo dell’art. 9 della Costituzione è “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

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riconoscibile e identitaria del territorio o di parti di esso, rispetto al quale l’ambiente rappresenta il quadro delle condizioni che consentono l’esistenza degli esseri viventi, presupposto essenziale del loro benessere e della loro stessa possibilità di vita. Purtroppo molti provvedimenti legislativi anche recenti hanno, al contrario, declinato separatamente questi tre concetti, invocando una supremazia e un’autonomia del campo della bellezza e della sua protezione del paesaggio di cui lo Stato deve essere garante unico, delegando ai comuni la strumentazione urbanistica dello sviluppo del territorio e affidando ad una miriade di provvedimenti relativi all’ambiente quello della valutazione e del controllo delle condizioni di vita. Si è consolidata così una separazione di competenze e di poteri che, oltre a mancare di efficacia, appare in palese contrasto con lo spirito della Costituzione in cui il rapporto individuo-società, come quello diritti-doveri-responsabilità, non viene mai meno ed è enunciato con chiarezza fin dall’art. 2 in cui La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

La Costituzione, inoltre, interviene su un’altra questione fondamentale che attiene al territorio e alla sua programmazione che introdotta nell’art. 5, viene definita nel Titolo V sull’organizzazione dell’amministrazione statale e sul principio di autonomia che regola i rapporti fra i diversi enti territoriali. Sono tre gli aspetti basilari che hanno guidato la stesura e i contenuti del Titolo V: la riconqui-


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stata democrazia, la storia e la tradizione italiana e la nuova situazione politica. Se la prima componente introduce le nozioni di autonomia locale, la nuova situazione politica impone la necessità di definirne limiti e compatibilità affermando il principio di unità e di indivisibilità della Repubblica, “d’altro canto, poiché nella tradizione della cultura nazionale (e quindi nell’Assemblea Costituente) le componenti umanistiche e storico-giuridiche prevalgono su quelle tecnico-scientifiche, si conferisce alla Regione il potere che è ritenuto più qualificante per l’autonomia: il potere legislativo”33. Nell’impostazione del Titolo V (in riferimento, ovviamente, al testo del 1948) la ripartizione della Repubblica in Regioni, Provincie e Comuni è affiancata dall’attribuzione di forme di autonomia speciale ad alcune regioni (Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta) con il chiaro intento di escludere un qualsiasi ordinamento federalista regionale, ritenuto impraticabile a fronte della necessità di riaffermare l’unità della Nazione. Nel testo costituzionale venivano anche specificati i tempi di attuazione del nuovo ordinamento per cui le elezioni dei Consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali avrebbero dovuto essere indette entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione (capo VIII, disposizioni transitorie e finali) e, entro tre anni, si sarebbe dovuto procedere l’adeguamento delle leggi nazionali “alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribui33 Cfr. F. Lombardi, 1970-1975: dall’urbanistica ministeriale alla gestione regionale dell’assetto del territorio, p. 245 in P. Bettini, F. Lombardi, F. Montanari, L. Staderini, Strumenti urbanistici, LEF, Firenze 1977.


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ta alle Regioni” secondo quanto citato nel Capo IX delle disposizioni transitorie e finali. Ma di anni ne passeranno ventidue. La ricostruzione Alla fine della guerra il paese è prostrato economicamente e socialmente, l’urgenza di ricostruirlo pone un primo fondamentale interrogativo: ricostruire quanto esisteva prima, sia pure in relazione alle mutate esigenze, o procedere verso un generale rinnovamento dell’assetto del territorio? Il problema si profila sia per le architetture di sostituzione all’interno delle zone urbane distrutte che interessavano le città di tutta la penisola, sia per le aree ancora esenti da urbanizzazione con particolare attenzione alle aree industriali, alle infrastrutture e ai trasporti. Problemi che, certo, erano attinenti alla scelta del nuovo (e possibile) modello di sviluppo, ma che rivestivano un carattere non marginale rispetto alla strumentazione urbanistica, che faceva riferimento ad una legge varata nel 1942 sotto un regime contro il quale si era combattuto e vinto. L’urgenza della ricostruzione permette di fatto di entrare una fase di sospensione della legge urbanistica nazionale ed è caratterizzata dall’introduzione dei Piani di Ricostruzione34 che sono ipotizzati come assimilabili a piani particolareggiati ed hanno una validità quinquennale con La disciplina è trattata dal DLL n. 154/45 e da altre disposizioni che intercorrono negli anni successivi fino al 1949 con interventi legislativi che interessano gli edifici danneggiati dalla guerra ancora nel 1958 (L 83/58). Al primo elenco dei comuni obbligati alla redazione PRG, ne seguono altri 6 per un complessivo 736 comuni italiani, va rilevato come i piani di ricostruzione nello stesso periodo siano 427 e che sono 23 i PRG approvati in base alla LU ‘42.

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possibilità di rinnovo. Il ricorso diffuso ai piani di ricostruzione innesca una prassi urbanistica che si protrarrà impropriamente fino agli anni ‘70 e che, eludendo la formazione del piano comunale, andrà ad interessare non solo le zone distrutte, ma anche le nuove espansioni, facilitando l’attività edilizia in relazione alla domanda con risultati episodici e disorganici. Ma il giudizio negativo sulla sua azione non è solo da riferirsi al suo prolungarsi nel tempo, quanto all’inadeguatezza complessiva dello strumento rispetto ai problemi che deve affrontare. In suo saggio, Chiara Mazzoleni35 evidenzia nel frazionamento delle strutture istituzionalmente preposte all’attuazione dei piani una delle principali cause del mancato funzionamento del provvedimento, che risultava carente anche rispetto al sistema di riferimento ministeriale dapprima in carico alla Direzione centrale dell’urbanistica, che da autonoma era stata unita a quella di Edilizia e Igiene36 mentre avrebbe dovuto essere rafforzata nella sua capacità e operatività per indirizzare adeguatamente la formazione dei piani e dotata di strumenti di controllo per la loro approvazione. Alla Direzione centrale erano affiancate le strutture tecniche periferiche dei Provveditorati regionali per le opere pubbliche37 che solo nel 1955 vengono dotate di sezioni urCfr. C. Mazzoleni, Trasformazioni dell’istituto del piano regolatore ed evoluzione della disciplina urbanistica, parte I e parte II, rispettivamente in «Urbanistica» n. 128/2005 pp. 80-104 e «Urbanistica» n. 129/2006 pp. 95-116, qui in riferimento a p. 104. 36 Nel 1952 (legge n. 524/52) verrà istituita la VI Sezione, Sezione Urbanistica la cui presidenza verrà affidata a Gino Valle. Si veda in proposito V. Testa, La nuova sezione urbanistica nel Consiglio Superiore, in «Urbanistica» n. 8/1951. 37 I Provveditorati furono creati in via provvisoria con il Dl n.16/1945 e in via definitiva con provvedimento inserito nel Dpr n.1534/1955, che con35


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banistiche concepite, tuttavia, come derivazione acritica del potere centrale e non come raccordo fra le amministrazioni locali e lo Stato. Si strutturava così un rafforzamento del potere centrale sulle politiche territoriali, che andava nella direzione opposta all’idea di decentramento amministrativo inserito nella nuova Costituzione come uno dei capisaldi democratici dell’Italia repubblicana. Si profila in questi anni una negativa “separazione delle competenze fra le istituzioni centrali (Ministero lavori pubblici, Ministero della pubblica istruzione, Direzione generale delle sanità) e tra enti locali di pianificazione (comuni) e di intervento pubblico (Iacp, Incis) che va a dividere il problema dello sviluppo urbanistico in tanti problemi settoriali facendo mancare una procedura in grado di ordinare i diversi programmi in un quadro generale”38. Situazione che permane fino al 1954 quando, con la legge n. 640, viene definita la competenza esclusiva del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (fatto salvo il parere del Consiglio di Stato) sull’approvazione dei PRGC, facendo chiarezza del dedalo di pareri e interferenze che fino ad allora, per oltre dieci anni dall’approvazione della legge urbanistica, si erano verificate. La necessità di ricostruire è reale e pone problemi di tempestività degli interventi, mentre il paese si dibatte, come si è detto, fra due esigenze contrapposte: dare risposta immediata (qualunque sia) alle richieste pressanti di abitateneva anche misure di modifica della L. 1150/42 e dei Piani di ricostruzione L.1402/51 Modificazioni al testo legislativo 1 marzo 1945, n. 154 sui piani di ricostruzione degli abitati danneggiati dalla guerra. Sul tema si veda anche, V. Testa, La nuova sezione urbanistica nel Consiglio superiore dei lavori pubblici, in «Urbanistica» n. 8/1951. 38 C. Mazzoleni, Op. Cit, Parte II, in «Urbanistica» n. 129, p. 105.


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zioni e lavoro o prefigurare uno sviluppo equilibrato per l’intera nazione. Non va dimenticato come in quegli anni agisca il Piano Marshall/European Recovery Program (ERP) che di fatto indirizza la ricostruzione partendo dall’assunto che il caso Italia “dovrebbe essere visto in due parti. Vi è innanzitutto il problema a breve […], la totale utilizzazione degli impianti industriali esistenti che possono essere economicamente impiegati e di una notevole espansione dell’attività edilizia. Oltre a questo problema vi è una difficoltà più obiettiva: espandere l’occupazione industriale e non agricola in modo abbastanza rapido da assorbire almeno l’aumento del numero delle persone che cercano occupazione e, contemporaneamente conseguire l’autosufficienza ed un ragionevole tenore di vita”39. L’edilizia è — secondo un costume italiano che ancora perdura — vista come una doppia salvifica attività: produce occupazione e fornisce case, mettendo in moto un’economia che può far rinascere un paese devastato. Nel febbraio del 194940, il Parlamento approva i “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case popolari” e affida all’INA-Casa la sua gestione. Il successo dei provvedimenti è ampio e immediato: 650 cantieri sono attivati già nei primi sei mesi dalla promulgazione della legge e il suo bilancio a con39 Cfr. I.S.E., a cura di, Documenti sul Piano Marshall, I.E.I., Milano 1949 per come riportato in 1942-1992. Cinquant’anni della Legge Urbanistica, DU, IUAV, Venezia, 1992 tav. Piano Marshall. 40 Si tratta della L. n. 43/1949, promossa dal Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale nel V Governo De Gasperi, Amintore Fanfani, che è uno dei protagonisti democristiani di questo periodo, tanto che questo provvedimento è conosciuto come “piano Fanfani”.


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Quartiere Tuscolano, Roma

clusione dei suoi 14 anni di vita è pari a circa 2 milioni di vani realizzati41. Il programma INA-Casa si basa sulla costruzione di quartieri finanziati congiuntamente dallo Stato, dai datori di lavoro e dai lavoratori con trattenuta in busta paga. I quartieri si pongono come un complesso di abitazioni e servizi tale da costituire un’unità organica anche dal punto di vista sociale, con carattere di autosufficienza: “non case, ma città” dirà Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, all’inaugurazione del quartiere dell’Isolotto nel 1951. L’azione dell’INA-Casa è vasta e diffusa. Le numerose esperienze disseminate in tutto il territorio italiano restituiscono, inevitabilmente, risultati diversi, ma compongono il modello della ricostruzione guidato dalle ‘raccomandazioni’ centralizzate (va ricordato in questo contesto il ruolo e la figura di Adalberto Libera come direttore L’esperienza Ina-Casa si conclude con la L. 60/1963, “Liquidazione del patrimonio edilizio della Gestione INA-Casa e istituzione di un programma di costruzione di alloggi per i lavoratori”, che darà vita ad altri enti fra cui la Gescal. Si veda P. Di Biagi, a cura di, La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ‘50, Roma 2001.

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Forte Quezzi, Genova

tecnico) nel tentativo di introdurre criteri di omogeneità per tutta la penisola che entrano nel merito sia della risoluzione delle problematiche sia ai criteri di progettazione sia alla definizione delle caratteristiche degli alloggi, dando orientamenti di igiene, indicazioni sui materiali ecc.42. Si cerca, cioè, di dare una risposta uniforme che, pur adattandosi alle singole località, possa fornire un prodotto utile socialmente, qualitativamente soddisfacente e equalitario rispetto all’intero territorio nazionale. I risultati, ovviamente, sono assai diversificati in quanto entrano in gioco elementi come la scelta dei progettisti, le dimensioni degli interventi e la localizzazione rispetto al centro urbano di riferimento, che si determinava in base alla necessità di disporre di terreni a basso costo. In relazione alle diverse risposte delle amministrazioni locali si hanno i primi segnali di formazione delle periferie, per come le intendiamo oggi, che per la loro localizza-

42 Fra i numerosi documenti prodotti, si veda in particolare, Suggerimenti, norme e schemi per la elaborazione e progettazione dei progetti, INA-Casa, Roma 1949.


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Quartiere Vallette, Torino

zione esprimono tutta la difficoltà del rapporto dei nuovi insediamenti con le centralità urbane cui avrebbero dovuto riferirsi. Si hanno, infatti, tre principali modelli localizzativi: in adiacenza ai centri urbani esistenti, ai margini delle prime periferie urbane o lontane dalle aree già edificate; in quest’ultimo caso diventano ben presto l’occasione per l’urbanizzazione delle aree intermedie, generando le prime speculazioni edilizie di rilevante portata43. Tuttavia, molti dei quartieri INA-Casa rappresentano ancora oggi esempi di grande interesse architettonico e spesso raccontano di esperienze sociali importanti. Si pensi al quartiere Cesate a Milano per 6.100 abitanti dove fra il 1949 e il 1951 è impegnato lo studio BBPR con Franco Albini, Ignazio Gardella, P. Lingeri e L. Zuccoli o al quartiere Falchera a Torino per 6.000 abitanti, 43 Su questo meccanismo economico di formazione della rendita, se pur riferito al periodo successivo, si veda il saggio di S. Lombardini, La normalizzazione dei mercati delle aree e degli alloggi attraverso la nuova legge urbanistica, in «Urbanistica» n. 38/1963.


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Quartiere Falchera, Torino

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Quartiere Falchera, Torino

progettato da Giovanni Astengo con Sandro Molli Boffa, Mario Passanti, Nello Renacco e Aldo Rizzotti, basato su uno schema a raggera e articolato in ‘unità sociali’ realizzato fra il 1951 e il 1960. E ancora, a Roma, il quartiere Tiburtino dove Mario Ridolfi44 e Ludovico Quaroni propongono una traduzione architettonica ‘vernacolare’, il Cavedone a Bologna di Federico Gorio, Leonardo Benevolo e Marcello Vittorini o il quartiere San Giusto a Prato di Quaroni. I grandi temi sul tappeto sono due: come intervenire nelle aree distrutte delle città storiche e come indirizzare le nuove espansioni urbane in relazione al contesto legislativo vigente. L’INU si fa interprete di queste problematiche con una serie di convegni da quello di Napoli del 1949 sulla ricostruzione nelle città storiche45 fino a quello di 44 Non sono estranee alla progettazione le ricerche di M. Ridolfi per la compilazione per il CNR del Manuale dell’Architetto, pubblicato nel 1945 in collaborazione con l’USIS. 45 Va segnalato il dibattito che sviluppa a Firenze su come ricostruire


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Lucca del 1957 sulla “difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale”, in cui ribadisce come il contesto territoriale sia fondamento indispensabile alla programmazione e alla realizzazione degli interventi a qualsiasi scala e denuncia le carenze e i limiti della LU del ‘42 basata su previsioni a tempo indeterminato che, non essendo supportate da programmi poliennali e finanziari di attuazione, tendono a produrre effetti dimensionali abnormi riscontrabili soprattutto nelle città dove più alta è la domanda di volumi edilizi. Emblematico è il caso di Genova che con il PRG del 1959 viene proiettata su una dimensione di 6 milioni di abitanti. In mancanza e in attesa di un più adeguato impalcato legislativo, sono le città più industrializzate e quelle con una caratterizzazione storica rilevante a rimettere in moto, pur nella convinzione di un suo necessario cambiamento, l’applicazione della legge del ‘42 nel tentativo di assicurare un sia pur minimo ordine alle previsioni e alle azioni sul territorio e, soprattutto, di uscire dalla logica parziale dei piani di ricostruzione. Qualcosa sembra muoversi e, nel 1952, viene varata la legge n. 1902 con cui si introducono le misure di salvaguardia a tutela del territole aree distrutte intorno al Ponte Vecchio (quindi nel cuore della città) nell’agosto 1943 dalle truppe nazifasciste in ritirata. Sul tema la rivista Il PONTE ospita due fondamentali saggi di Bernard Berenson (Come ricostruire Firenze demolita, n. I/1945 pp.34-35) e di Ranuccio Bianchi Bandinelli (Come non ricostruire Firenze demolita, n. IV/1945 p. 118 sgg.) che sono le pietre miliari del tema sulla ricostruzione dei centri storici: il primo sostiene la tesi del “dov’era, com’era” ovvero del rispetto assoluto delle antiche architetture, il secondo introduce gli elementi del “nuovo” nel contesto antico. Purtroppo la ricostruzione a Firenze -e non solo- avverrà ibridando le due tesi e scegliendo architetture anodine, con l’intento prevalente di non interrompere il carattere della sequenza degli edifici e dei tessuti urbani non distrutti.


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rio nei periodi che intercorrono fra l’adozione del PRG e la sua definitiva approvazione ministeriale e, nel 1954, il Ministero dei Lavori pubblici pubblica i primi elenchi dei comuni obbligati entro 5 anni alla redazione del PRG, in cui compaiono anche città di piccole e medie dimensioni che presentano problematiche particolari e/o necessitino di protezione in relazione alla loro storia e alle prime pressioni turistiche che vi si stanno manifestando (es. Erice, San Gimignano, Assisi, Gubbio, Viareggio, Terracina ecc.). Fra il 1954 e il 1955 vengono emanate sempre dal Ministero sia la circolare con le “Istruzioni per la formazione dei piani regolatori comunali generali e particolareggiati” sia l’opuscolo “Orientamenti per l’attuazione della disciplina urbanistica”46 compilati egregiamente da Cesare Valle e Vincenzo Di Gioia per il Reparto Urbanistico del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, che partendo dall’assunto che l’urbanistica sia finalizzata ad “assicurare un armonico svolgimento” delle funzioni connesse alla vita associativa quotidiana, si pone come un sintetico compendio utile alla redazione dei piani rivolto sia all’aumento della consapevolezza nei cittadini (soprattutto nella Premessa) e sia all’accrescimento professionale dei tecnici. Sono anni in cui l’urbanistica si delinea come disciplina basata non tanto e non soltanto su una teorizzazione di carattere generale e sul disegno di scenari urbani come era avvenuto nell’Ottocento e, in certa misura, in periodo Cfr. la relazione alla V giornata di Studi INU, Napoli 23 ottobre 2009, tenuta da Vincenzo Zito, Rapporto tra urbanistica e politica: ripartire dalle occasioni mancate? consultabile sul web: www.inu.it/attivita/dawload/V Giornata_INU_CM_Relazioni/.

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fascista, ma come disciplina capace di affrontare la complessità dei fenomeni urbani finalizzata alla loro pianificazione, una disciplina che si confronta con le diverse realtà e fa tesoro delle esperienze e delle innovazioni, accrescendo la sua attività di sperimentazione continua con la discussione comparata di alcuni PRG considerati ‘esemplari’, che in quegli anni vengono pubblicati in modo esaustivo dalla rivista dell’INU «Urbanistica», diretta da Giovanni Astengo. «Urbanistica» diventa una sorta di manuale-repertorio di riferimento per professionisti, amministratori e politici in grado di esplicitare e sistematizzare i percorsi del piano nei diversi ambiti dalla definizione di contenuti alla capacità previsionale, dall’articolazione delle normative e alle modalità di attuazione. Una rivista che, grazie anche alla lungimirante azione di Adriano Olivetti presidente INU dal 1950 al 1960, ha una sua diffusione in tutta Europa e che fa conoscere le esperienze italiane più innovative, fra le quali ci sono certamente i PRG di Assisi e di Gubbio, entrambi affidati a Giovanni Astengo47. Il piano di Assisi48 è una pietra miliare nella storia dell’urbanistica italiana per la ricchezza della parte analitica che riguarda il tessuto edilizio e lo stato strutturale, tiGiovanni Astengo (1915-1990) architetto e urbanista, ha redatto numerosi PRG considerati esemplari (Assisi, Gubbio, Genova, Firenze, Bergamo, Pavia, Pisa, ecc.), diretto la rivista URBANISTICA e fondato il primo Corso di laurea in Urbanistica (Università di Venezia). Attivo nell’INU (vedi: Codice dell’Urbanistica), è stato assessore per il PSI alla Regione Piemonte. 48 Il PRGC di Assisi è pubblicato in «Urbanistica» n. 24-25/1958, si veda inoltre B. Dolcetta, Astengo ed il paesaggio agrario nel piano di Assisi, in Paesaggi fra conservazione e trasformazione: questione nazionale (a cura di M. Zoppi) QCR n.1/2011, Alinea, Firenze p. 117 sgg. ed inoltre il volume di B. Dolcetta, M. Maguolo, A. Marin, Giovanni Astengo Urbanista, Venezia 2015. 47


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Centro storico di Lucignano, Arezzo (fonte: E. Detti e all. Città Murate e sviluppo contemporaneo, Lucca 1968)

pologico e igienico degli edifici, e per l’attenzione alla struttura socio-economica e alla possibile capacità di risposta degli operatori locali nei confronti delle prescrizioni del piano49. Alla profondità delle analisi corrisponde un quadro a livello generale in cui alla conservazione delle parti più antiche fa riscontro una puntuale definizione delle nuove espansioni. Il piano viene adottato nel dicembre 1957, ma è privo dei Piani particolareggiati che avrebbero dovuto guidarne l’attuazione; manca inoltre un altro importante elemento che è quello della legge speciale che era stata prevista con lo scopo di garantire un supporto economico idoneo alla realiz49 Scrive Astengo: “Occorreva un piano completo di tutte le sue parti: dal Piano Regolatore Generale di assetto complessivo, comprendente anche un vasto territorio agricolo, di pianura, di collina, di montagna, un piano di sviluppo economico, basato su rimboschimenti e irrigazioni, al Piano Particolareggiato del centro storico e dell’espansione di levante fuori le mura, ai paini di comparto per il risanamento di Porta Perice, al progetto di massima di due grandi opere, una sul piazzale fuori porta San Pietro… l’altra nella valletta sotto il Piazzale di Santa Chiara” cfr. B. Dolcetta e altri, Giovanni Astengo.. Op cit. p. 216. Si fa presente che i progetti sono redatti in scala 1:200.


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zazione degli interventi ipotizzati, di particolare importanza soprattutto per la parte attinente alla salvaguardia dei monumenti, al risanamento igienico-sanitario delle abitazioni e alla loro riqualificazione. La legge fu varata successivamente, ma invece di essere collegata alle previsioni del PRG, dava ampia facoltà al Comune di agire al di fuori del piano e dei suoi vincoli, separando la gestione degli interventi dalla coerenza delle previsioni del piano. Un destino che ha purtroppo accumunato le non poche esperienze urbanistiche in cui era stata efficacemente affiancata una legge speciale di supporto finanziario. Un caso può essere citato per tutti: quello che oggi appare più che mai drammatico di Venezia50. Negli stessi anni a Gubbio, Astengo approfondisce le tematiche introdotte ad Assisi accentuando il tema dell’unicità di riferimento territoriale fra la città storica murata e compatta, le sue espansioni e la campagna, interpretata come organismo produttivo attivo, potenzialmente in grado di frenare almeno in parte l’esodo dai campi, mantenendo legato ai fondi un numero congruo ed adeguato di agricoltori. Un’operazione sociale, economica con grandi risvolti sulla conservazione del paesaggio, componente fondamentale per il mantenimento degli equilibri territoriali esplicitati e perseguiti dal PRGC. Nel 1960, nel quadro delle attività connesse al Piano, si tiene a Gubbio il celebre convegno nazionale sulla “Sal50 La legge speciale per Venezia è la n. 171 del 16 aprile 1973 “Interventi per la salvaguardia di Venezia”, emanata dopo la grave alluvione del 1966. La legge è stata seguita da altri provvedimenti quali le leggi n.798/1984, n. 360/1991, n.139/1992.


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Le copertine di «Urbanistica» su Assisi e Gubbio. A destra, il volume di G. De Carlo su Urbino

vaguardia e il Risanamento dei Centri Storici” cui partecipano Comuni, Province, IACP, Enti provinciali del Turismo, studiosi, giuristi e personalità della cultura51. Il convegno ha lo scopo di porre l’attenzione sul declino materiale e sociale dei centri antichi e di definire una serie di misure capaci di frenarne il degrado, ponendo la necessità e l’urgenza di una più approfondita conoscenza e consapevolezza dei problemi, riferita all’indifferibilità di un censimento generale e di una classificazione dei centri stessi. Il censimento non verrà mai fatto52, ma il convegno — anche attraverso la sua risoluzione finale nota come Carta di Gubbio53— segna un punto di svolta nel51 Le relazioni al Convegno furono svolte, tra gli altri, da: G. Badano, L. Belgiojoso, P. Bottoni, E. Caracciolo, A. Cederna, M. Manieri Elia, D. Rodella, G. Romano, G. Samonà, E.R. Trincanato. 52 Si segnala un parziale censimento effettuato in Toscana e pubblicato dal CISCU, E. Detti, G.F. Di Pietro, G. Fanelli, Città murate e sviluppo contemporaneo, Milano 1968. 53 La Carta è la risoluzione finale del Convegno Nazionale del settembre 1960 promosso da un gruppo di architetti, urbanisti, giuristi, studiosi di restauro, e dai rappresentanti dei comuni di Ascoli Piceno, Bergamo, Erice, Ferrara, Genova, Gubbio, Perugia, Venezia. L’azione della carta viene rafforzata l’anno successivo (1961) dalla nascita dell’Associazione Nazionale Centri Storici-Artistici (ANCSA).


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la questione dei centri storici, ribadendo la non scindibilità delle problematiche di intervento e l’unicità non frazionabile del territorio nel suo complesso. La questione dell’architettura antica e quella dei tessuti urbani storici, già emersa nel dibattito per la ricostruzione delle parti distrutte del centro di Firenze nel 194554, assume valenza e connotazione unitaria nell’ambito di un quadro sociale ed economico che deve essere riferito quanto meno all’intero territorio comunale, ed in cui il recupero delle singole parti e dei singoli edifici impone un protocollo comune di metodologia e interventi, sui quali interverrà pochi anni dopo, nel 1964, la Carta del Restauro di Venezia55. La Carta, com’è noto, non solo arriva alla definizione di monumento storico che “comprende tanto la creazione architettonica isolata quanto l’ambiente urbano e paesistico che costituisca la testimonianza di una civiltà particolare, di un’evoluzione significativa o di un avvenimento storico. Questa nozione si applica non solo alle grandi opere ma anche alle opere modeste che, col tempo, abbiano acquistato un significato culturale” (art. 1), ma ribadisce come in ogni intervento non possa “essere separato dalla storia di cui è testimone, né dall’ambiente in cui si trova” (art. 7). La Carta di Venezia, dunque, completa ed integra quanto iniziato a Gubbio, in quanto pone in essere problematiCfr. nota 48. Il riferimento è alla Carta Internazionale sulla Conservazione ed il Restauro dei Monumenti e dei Siti, articolata in 6 punti (Definizioni, Scopi, Conservazione, Restauro, Ambienti monumentali, Scavi, Documentazione e pubblicazione) e 16 articoli. Dai lavori del Congresso di Venezia nasce l’esigenza di disporre di un organismo tecnico operativo (ICOMOS) che si formerà di lì a poco.

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che generali e fa chiarezza sugli interventi e su come per questi, a tutte le scale, si ponga il problema della reciprocità e della contestualità nel rispetto delle strutture e del loro contesto e nella consapevolezza dell’evoluzione delle funzioni e delle mutate situazioni che si vanno verificando sul territorio.


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la speculazione immobiliare non consiste soltanto nella distruzione della città e nell’aspetto caotico che essa assume, ma anche nella distruzione di una cultura a vantaggio di un’altra in cui l’uomo non trova più posto. Francesco Rosi


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Gli anni ‘60 Se il secondo quinquennio degli anni ‘50 aveva segnato la ripresa economica del paese, l’inizio del decennio successivo si apre con l’aumento eccezionale del prodotto interno lordo1 che al contempo, inevitabilmente, trascina un elevato aumento dei prezzi, originato soprattutto dal settore delle costruzioni con il conseguente rincaro dei prodotti e, dunque, delle abitazioni. La produzione industriale italiana diventa concorrenziale a livello europeo grazie alla liberalizzazione degli scambi, alla formazione del MEC e, soprattutto, ai bassi salari, ma il rincaro dei prodotti si riverbera su un sistema produttivo non adeguato sotto il profilo tecnologico e che tende ad oscillare fra periodi di innovazione e fasi di arretratezza. I profitti particolarmente alti2 che si registrano fra il 1956 e il 1963 invece di tradursi in un aumento degli investimenti, si dirigono verso consumi elevati e canali speculativi azionistici e immobiliari, con il risultato di generare inflazione. Infatti fra il 1962 e il 1965 il rapporto fra i prezzi e l’incre1 Il tentativo di tassazione degli utili azionari ebbe come effetto il trasferimento all’estero dei capitali. 2 Cfr. F. Forte, La congiuntura in Italia 1961-1965, Einaudi, Torino 1966.


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mento del prodotto interno lordo nazionale va incrinandosi e lo sviluppo industriale si consolida accentrandosi al Centro-Nord nel cosiddetto triangolo industriale (Torino-Milano-Genova), proprio mentre va approfondendosi lo squilibrio fra settore secondario e settore agricolo, ancora legato a forme arcaiche sia colturali che organizzative come il latifondo e la mezzadria3. Il censimento del 1961 registra imponenti spostamenti di popolazione: i residenti nei capoluoghi aumentano di 3 milioni di unità, che è, in valore assoluto, la stessa cifra che connota la crescita della popolazione italiana nel suo insieme che passa da 47.516 a 50.464 milioni di abitanti. Un dato che va letto insieme alla direzione dei flussi di trasferimento, in quanto l’aumento si concentra solo su un terzo delle provincie italiane con picchi che superano il 25% a Varese, Milano, Torino e Roma. Siamo di fronte ad un esodo di massa dalla montagna alla pianura e dal Sud al Nord e la gente che si sposta ha bisogno di case a basso costo, proprio mentre sul territo3 Per il settore agricolo, anche in attuazione dell’art. 44 (obblighi e vincoli alla proprietà, limite di estensione della proprietà terriera privata) della Costituzione, fu varata la legge 841/1959 (legge Segni o “riforma agraria stralcio”) in cui era contemplato l’esproprio delle terre a fini di carattere sociale per “assegnare la terra a circa un milione di contadini”. Interessante notare come il limite dimensionale non fosse “in base alla sola estensione, ma in base all’estensione e al reddito dominicale. La percentuale di esproprio (o scorporo) è tanto più alta quanto più elevato è il reddito dominicale complessivo dei terreni appartenenti al proprietario soggetto a espropriazione. Ma poiché il criterio del reddito imponibile puro potrebbe danneggiare i proprietari che, migliorando i loro terreni, hanno procurato l’aumento del reddito imponibile, il criterio del reddito globale è temperato da quello del reddito medio per ettaro, e la percentuale di scorporo è tanto più bassa quanto più elevato è il reddito medio per ettaro, in modo che, a parità di imponibile globale, subisce il minore scorporo il proprietario dei terreni che abbia il reddito medio più elevato.” in Enciclopedia Treccani, voce “Agraria, Riforma” curata da E. Romagnoli.


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rio va a scaricarsi la speculazione sulle aree fabbricabili, con la conseguenza del rincaro dei prezzi delle compravendite e degli affitti, che si somma ad una diffusa inadeguatezza del settore delle costruzioni (es. aziende sottodimensionate) e ai due mali mai risolti del paese: l’inadeguatezza delle norme fiscali e delle norme urbanistiche. Il risultato è — e non potrebbe essere altrimenti — un disordine diffuso sul territorio, aggravato dal disavanzo dei bilanci comunali che si riflette nella penuria generalizzata dei servizi. È in questo quadro che maturano le idee e i progetti di programmazione4, che già si erano affacciati con lo “schema” Vanoni nel 19545, e che negli anni ‘60 diventano il punto di convergenza fra le forze politiche che si identificheranno successivamente nell’esperienza di centro sinistra (DC, PSI, PSDI, PRI). Secondo Valdo Spini, si possono identificare quattro filoni principali (che, ovviamente, non sono i soli): quello neo-liberale o liberal-interventista che si identifica con gli “Amici del Mondo” con Pannunzio ed Eugenio Scalfari e i circoli politici ad essi relazionati con Ugo La Malfa e Calogero; quello socialista delineato a suo tempo da Rodolfo Morandi nel dopoguerra, ma rilanciato in modo organico da Riccardo Lombardi per il quale il piano e le ‘riforme di struttura’ ovvero capaci

Cfr. V. Spini, I socialisti e la politica di piano (1945-1964), Sansoni editore, Firenze 1982 p.155 sgg. 5 Ezio Vanoni, avvocato docente universitario, senatore DC, è stato promotore della riforma tributaria. Per Schema Vanoni si intende lo Schema di sviluppo della occupazione e del reddito del decennio 1955-1964, che aveva l’obiettivo di ridurre il divario Nord/Sud, il conseguimento della piena occupazione e il risanamento del bilancio dello Stato. 4


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di incidere sulla struttura economica della società6, si pongono come presupposti fondamentali alla costruzione di una nuova strategia del movimento operaio italiano7 dopo la svolta del ’56 conseguente i fatti d’Ungheria; quello cattolico-solidarista o democristiano (nel quale è presente una linea liberista) che nella relazione di Pasquale Saraceno al Convegno ideologico di San Pellegrino fa emergere il tema della non-indifferenza dello Stato di fronte agli squilibri manifesti della società espressi nell’enciclica di Giovanni XXIII, Mater et Magistra (luglio 1961); e quello comunista che è ideologicamente estraneo e non direttamente coinvolto nell’attività di programmazione, ma che ha in Giorgio Amendola un osservatore attento di quanto va maturando in relazione alla strategia del miglioramento delle condizioni della classe operaia8. Si delinea dunque una complessiva consapevolezza della necessità di passare dalla fase dell’incentivazione allo sviluppo che aveva caratterizzato il primo dopoguerra all’attuazione di uno sviluppo equilibrato sia nei confronti delle disparità che si registravano nella penisola sia rispetto a quelli che Riccardo Lombardi definiva i “meccanismi privilegiati di accumulazione” riferiti prevalentemente

6 Il riferimento è alle “riforme rivoluzionarie” indicate da Riccardo Lombardi che tendono alla mutazione del sistema e non ad una sua parziale correzione. A Lombardi si unisce Antonio Giolitti, uscito dal PCI, che pone come centrale il tema del controllo degli investimenti. 7 Va ricordata, qui, la posizione critica — che poi darà vita ai movimenti operaisti — che affermava la priorità dell’azione all’interno delle fabbriche, rispetto al terreno delle istituzioni di cui la figura più rappresentativa è certo quella di Raniero Panzieri. 8 Cfr. G. Amendola, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la liberazione, in Istituto Gramsci, Tendenze del capitalismo italiano, Editori Riuniti, Roma 1962.


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al monopolio dell’energia elettrica e alla rendita edilizia. Il tema dello sviluppo equilibrato che “consiste nell’idea che per conseguire l’obiettivo dello sviluppo bilanciato occorre sottrarne la direzione ai monopoli e attribuirla ai pubblici poteri, che devono esercitarla mediante il piano. Quest’ultimo, come aggiunge Eugenio Scalfari9, “non è necessariamente incompatibile con un’economia di mercato”10, un concetto che diventa il punto d’incontro fra socialisti e liberal-interventisti. La commissione economica del PSI, presieduta da Riccardo Lombardi, elabora la sua piattaforma “Il contenuto economico della svolta a sinistra” (Avanti! 7 gennaio 1962) che, nello stesso mese, viene approvata dal comitato centrale del partito. Nel pensiero di Lombardi la riforma urbanistica assume un’importanza decisiva. Nel 1963, alla vigilia della formazione del governo Moro I, il primo a partecipazione diretta socialista, Lombardi fa esplicito riferimento a “due meccanismi di accumulazione capitalistica… l’energia elettrica attraverso i suoi 300 miliardi di profitti lordi annui e la speculazione sulla politica edilizia sulle aree” e aggiunge “col primo governo di centro sinistra abbiamo spezzato nelle mani del capitalismo il primo strumento; se ci darete forza e fiato, spezzeremo anche il secondo con la legge urbanistica”. Non è un caso dunque che Lombardi mo9 Eugenio Scalfari (n. 1926) nel 1955 è tra i fondatori del partito radicale e del settimanale L’Espresso di cui nel 1958 diventa direttore responsabile. È relatore al convegno noto come delle “Sei riviste” (Il Mondo, L’Espresso, Il Ponte, Critica Sociale, Mondo Operaio, Nord e Sud) che si tiene al teatro Eliseo/Roma nel 1961: il convegno costituisce la piattaforma di politica economica del centro-sinistra. 10 Cfr. V. Spini, Op. Cit, p.187.


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tivi il suo appoggio al governo Moro I con esplicito riferimento all’impegno assunto a varare la legge urbanistica, mentre consumerà poco dopo la sua rottura con Nenni all’interno del PSI proprio sulla formazione del governo Moro II, in cui Lombardi vede l’inizio della rinuncia al conseguimento di questo obiettivo. La riforma, infatti, non vi sarà. Negli stessi anni, l’INU si era fatto portavoce della riforma proponendo il Codice dell’Urbanistica, che era stato il documento programmatico dell’VIII Congresso nazionale del 1960. Il documento, elaborato da un gruppo composto da Camillo Ripamonti (presidente INU, eletto dopo il decennio di presidenza di Adriano Olivetti), Giovanni Astengo (coordinatore), Enzo Cerutti, Gianfilippo Delli Santi, Luigi Piccinato (autore di una precedente proposta11), Giuseppe Samonà, Umberto Toschi, dopo l’approvazione in congresso, viene pubblicato in appendice al n. 33 della rivista Urbanistica. In apertura al Codice si affermava: la disciplina urbanistica in generale, la programmazione e il coordinamento nel tempo e nello spazio degli interventi Scrive a tal proposito F. Sullo in Lo scandalo urbanistico, Vallecchi, Firenze 1964, p. 11: “Piccinato che è un socialista marxista prevedeva, infatti, tre casi nei quali la sostituzione dell’ente pianificatore avveniva solo in parte: il primo prevedeva l’esproprio delle sole aree ad uso pubblico (…); il secondo caso prevedeva la decurtazione delle singole proprietà per la creazione di servizi pubblici relativi ai quartieri seguendo legislazioni straniere che adottano il 30 per cento di decurtazione media (…); il terzo infine era identificabile con il comparto edificatorio. Come quarto caso del tutto eccezionale Piccinato prevedeva la sostituzione del comune del tutto al proprietario con la conseguente creazione di un demanio comunale per esproprio o per acquisto (…) solo in questa ipotesi, Piccinato riteneva che il terreno comunale non dovesse essere alienato, ma concesso in enfiteusi rinnovabile.” La citazione serve a Sullo per rivendicare l’originalità della sua proposta di legge e l’impegno innovativo della Commissione da lui presieduta.

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pubblici e la disciplina e il coordinamento di quelli privati, si attuano sul territorio nazionale mediante la cooperazione di tutti gli organi amministrativi, centrali e decentrati, e con la formazione di programmi urbanistici e di piani esecutivi.

Il testo, articolato in 22 punti, poneva fin dall’inizio il tema dell’attuazione della Costituzione in materia di decentramento regionale, individuando nell’OPR (Organo di Pianificazione regionale) l’organismo tecnico-politico di indirizzo e raccordo fra il Piano nazionale e i Piani a livello regionale (Titolo II), che diventavano centrali nella trasmissione degli indirizzi fra il livello nazionale e i Piani comprensoriali a validità decennale. Il Codice declinava tutte le scale della pianificazione territoriale, i loro rapporti con le risorse e i finanziamenti, indicava i principali contenuti, gli effetti e la durata dei piani regolatori comunali e sovra-comunali, come pure l’espropriazione delle aree da urbanizzare per la formazione dei demani non alienabili (art. 18,1). Affrontava, inoltre, il tema della riproposizione dei comparti edificatori, nonché della ri-lottizzazione e la ricomposizione particellare (art. 22). Nelle sue “Note illustrative e revisione”, Luigi Piccinato dopo aver ribadito come, nello spirito costituzionale, la materia urbanistica debba essere ricondotta nell’ambito delle competenze delle Regioni — istituite solo nel decennio successivo — affermava “ è necessario che gli strumenti da impiegare nell’operare urbanistico appaiano tecnicamente adatti al fine della pianificazione; siano chiari nella loro definizione; siano, infine, (e ciò è assolutamente indispensabile) legati e connessi con quelle strutture amministrative che sono dotate di bilanci, nei quali


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ultimi, i programmi dei piani debbono essere inseriti, rappresentandone quasi l’estrinsecazione”12. Piccinato ribadiva in tal modo la specificità disciplinare dell’urbanistica, il suo valore sociale e le sue relazioni con quanto andava maturando nella politica e nell’economia italiana. Non è dunque un caso che nel maggio ‘62, il ministro del Bilancio del Governo Fanfani IV (l’ultimo della III Legislatura), Ugo La Malfa, presenti in Parlamento la “Nota aggiuntiva”, definita da Francesco Forte il “Manifesto della programmazione economica italiana”13, in cui erano indicati gli obiettivi (mantenimento del tasso di sviluppo, modificando il modello di sviluppo; superamento degli squilibri territoriali; elevamento del livello civile del paese) e precisate le azioni a breve termine (nazionalizzazione dell’energia elettrica, imposta cedolare sui dividendi, riforma delle società per azioni, eliminazione della mezzadria e dei contratti affini); nonché i provvedimenti per la scuola (es. scuola media unica), quelli sociali (pensioni, previdenza sociale, assegni per i coltivatori diretti ecc.) e i provvedimenti di medio e lungo termine (programmazione e attuazione delle Regioni). Fra il 1962 e il 1963 siamo di fronte ad una sorta di rivoluzione economica volta all’ammodernamento sociale, che riflette una tensione politica che purtroppo non durerà a lungo, ma che determina un clima culturale in cui il dibattito sull’urbanistica, sulle sue finalità e sui suoi strumenti acquista un peso determinante. Il rapporto fra ecoRiportata in Sullo, Op. Cit, pp.165-192. Cfr. F. Forte, Introduzione alla Programmazione, Einaudi, Torino 1967 (terza ed.), p. 581.

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nomia e urbanistica diventa un tema dominante, così come l’impegno a fare dell’accesso alla casa una questione di ‘interesse generale’ capace di coniugare le necessità individuali connesse allo spostamento di popolazione con un uso non speculativo e ordinato del territorio. Inizia così una vicenda politica singolare che accompagna la nascita del primo governo di centro-sinistra. Il 28 marzo 1962 il ministro dei Lavori Pubblici, Fiorentino Sullo, democristiano, insedia la Commissione per la riforma urbanistica14 che costituiva uno degli impegni di governo presieduto da Amintore Fanfani, con l’appoggio esterno dal PSI. Sullo, in merito, scrive: l’urbanistica… costituisce materia esclusiva affidata alle regioni, secondo l’art. 117 della Costituzione. E dunque, erano due i traguardi che inducevano a far presto: da un lato, risolvere i problemi creati dal caos imperante nello sviluppo edilizio delle nostre città […] dall’altro fornire uno strumento unitario (una legge-quadro) per le future regioni, anche per evitare che ciascuna di queste potesse legiferare su questioni tanto delicate come l’esproprio delle aree e il diritto di proprietà, con criteri sensibilmente difformi15.

La commissione in tre mesi produce un progetto di legge che trova d’accordo la cultura urbanistica del tempo e inizia il suo iter ministeriale (Presidenza del Consiglio dei Ministri, CIR e CNEL, che allunga i tempi del parere riLa commissione va a sostituire la precedente nota come Commissione Zaccagnini, che aveva prodotto uno schema di legge che la maggior parte degli urbanisti aveva ritenuto insoddisfacente. La nuova Commissione è integrata con tre urbanisti (Astengo, Piccinato e Samonà), dall’economista Siro Lombardini, dai giuristi Giuseppe Guarino e Savarese, dai sociologi Ardigò e Compagna e dall’on. Agrimi, già capo ufficio legislativo della Camera dei Deputati e neo-eletto senatore. 15 Cfr. F. Sullo, Op. Cit, pp. 31-32. 14


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viandolo a dopo le lezioni politiche), mentre si svolgono le discussioni sul testo sia nelle sedi di partito (in particolare, al Convegno ideologico della DC di San Pellegrino del settembre 1962 e della Commissione economica del PSI, di cui si è già detto), che in Parlamento (23 ottobre 1962) ed, in ambito tecnico, al Congresso annuale dell’INU (Milano, 23 novembre 1962). Il progetto di riforma poteva partire da un dato di fatto importante e in qualche misura anticipatore, che era costituito dall’approvazione della legge n. 167 del 18 aprile 1962 “per l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare” che introduceva il principio dell’esproprio a prezzo equo dei terreni per la costruzione di alloggi per l’edilizia economico e popolare, permettendo il conseguimento di due obiettivi: abbassare i prezzi delle abitazioni e controllare, indirizzandola all’interno delle previsioni dei PRGC, la loro localizzazione. Contenere i meccanismi speculativi sulle aree significava calmierare i prezzi delle costruzioni e poterle immettere sul mercato a prezzi accessibili ai salariati medio-bassi. La legge, attesa, trova immediata applicazione nei comuni che avevano o si stavano dotando di un nuovo piano come Bologna, Torino, Firenze e appare come l’elemento di innesco di un nuovo modo di fare urbanistica. Scrive Campos Venuti: la 167 consente dunque per la prima volta in Italia, l’uso dei piani decennali, interpretati come veri e propri piani urbanistici di intervento diretto ad iniziativa comunale… Due sono i criteri innovatori che differenziano questo intervento urbanistico da quelli consentiti dalla legge generale del 1942: l’acquisizione pubblica delle aree ad un


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prezzo inferiore a quello di mercato e la esecuzione concordata e appositamente finanziata delle urbanizzazioni sempre a cura dell’ente pubblico16.

Vi è chiaramente il tentativo di superare la visione statica del PRG legato alla sua validità illimitata nel tempo prevista dalla legge del ‘42, per percorre la via di una visione programmata nel tempo e sostenuta finanziariamente degli interventi. La legge 167 costituiva certamente un avamposto della riforma ma, tuttavia, aveva un difetto, quello di poter essere usata solo per l’edilizia abitativa e di lasciar fuori il pacchetto delle attrezzature e servizi, che per essere realizzati dovevano seguire altre procedure, contrariamente a quanto era avvenuto con l’INA Casa che invece procedeva per quartieri comprensivi di abitazioni e servizi. In ogni caso l’accoglienza riservata alla legge 167, sembrava configurare un clima culturale e politico favorevole alla proposta Sullo, sviluppata su 87 articoli, che non solo recepiva le indicazioni del Codice dell’Urbanistica, ma addirittura le superava ponendosi al tempo stesso come legge quadro (Titolo II, artt. 4-34), come definizione temporanea dei compiti dello Stato (Titolo III, artt. 3563) validi in attesa dell’entrata in vigore delle Regioni, come indicazione di principi generali anch’essi legati temporalmente all’azione delle future leggi regionali, e come strumento di definizione delle disposizioni per il passaggio dalla legge del 1942 al nuovo regime. Il grosso dell’attenzione si appuntò, inevitabilmente, sul Titolo II che 16 Cfr. G. Campos Venuti, Amministrare l’urbanistica, Einaudi Torino 1966 p. 107.


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conteneva la parte normativa sul controllo dei meccanismi speculativi, attraverso la norma che vedeva nel piano particolareggiato lo strumento attuativo obbligatorio per l’attuazione del PRG che, prevedendo l’urbanizzazione preventiva e pubblica del suolo attraverso l’espropriazione da parte del Comune di tutte le aree inedificate nonché di quelle aree già utilizzate per costruzioni se difformi per utilizzazione da quella prevista dal piano stesso (art. 23 sgg.), introduceva il diritto di superficie (alternativo al diritto di proprietà) commisurandolo ai costi sostenuti dal comune ovvero al prezzo di esproprio, delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria (art.26). Sullo, come si evince dai suoi scritti, è pienamente consapevole della portata dirompente della legge, che declina una di quelle riforme di struttura che avrebbero dovuto cambiare la fisionomia economica e sociale del paese. Non a caso nel suo intervento al convegno DC di San Pellegrino, dice: Secondo me la legge urbanistica sarebbe più rivoluzionaria per le strutture più arcaiche della nostra società non dirò della legge di nazionalizzazione dell’industria elettrica, che è proprio nulla rispetto ad una seria legge urbanistica, ma persino della legge di riforma agraria. […] Sarebbe veramente una grande vittoria […] se fosse la Democrazia Cristiana ad impostare una soluzione, che non pretendo sia il cento per cento della proposta di legge elaborata, ma che deve essere una soluzione vicina a quella e con quella coerente. In un paese che vuole essere cristiano non soltanto nella tradizione ma nelle prospettive, i problemi vengono messi a fuoco e risolti sollecitamente.

Il nodo è quello del diritto di superficie (urbanizzazione pubblica e preventiva dei suoli) che appare come una via


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obbligata per un’attuazione coerente nel tempo e nello spazio del PRG, ma le opposizioni sono forti, tanto che sui giornali e nelle sedi dei partiti moderati di parla di ‘esproprio generalizzato’ adombrando l’idea che nessuno sarà mai più proprietario della propria casa. Il tentativo è quello di seminare il panico nell’opinione pubblica composta per gran parte da piccoli proprietari. Fra il giugno e l’ottobre del ‘62, Sullo cerca di confrontarsi con Aldo Moro (allora segretario della DC) che concorda sulla necessità di poter disporre di una nuova legge urbanistica, ma esprime perplessità sull’introduzione del diritto di superficie per due motivi: che “la Democrazia Cristiana sarebbe stata riluttante sul piano dottrinale” e che “quello che si può fare nei paesi scandinavi o anglosassoni non si può fare in Italia”17. Sostanzialmente, si profila l’idea di rinunciare al diritto di superficie, prima di andare alle elezioni dell’aprile 1963. La DC non sostiene più il suo ministro e poco prima delle elezioni dell’aprile 1963 lo sconfessa apertamente, nonostante la disponibilità di Sullo a modificare il testo del progetto di legge. Gli appoggi alla legge tuttavia non mancano, non solo l’INU si schiera a favore, ma molti economisti intervengono chiarendo la portata e le implicazioni della legge, scrivendo contro la campagna di stampa che riviste come Il Borghese (vicino al MSI) e molti quotidiani come Il tempo e Il Sole 24 ore, organo della Confindustria, stanno massicciamente portando avanti, coadiuvati anche dalla neonata televisione di Stato. Francesco Forte sulla rivista “Politica” del 1° ottobre 1962 controbatte alle critiche so17

Cfr. Sullo, Op. Cit, p. 14.


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stenendo la validità di avere “il comune come unico intermediario (un intermediario che non fa profitti) fra proprietario del suolo e colui che acquista il suolo per edificarlo” e, a proposito degli attacchi del Sole 24 ore, che vede: “il progetto Sullo come uno strumento per precipitarci nel collettivismo, per abolire il diritto di proprietà. È chiaro, per alcuni, il ‘diritto di proprietà’ significa solo diritto di abuso e di privilegio. Ad essi sfugge la funzione economica e sociale e il contenuto morale del principio di proprietà, in un regime democratico”18. Ma la campagna elettorale è ormai in atto. Fiorentino Sullo nel suo libro, che scriverà l’indomani delle elezioni, inserisce un articolo dell’Espresso del 21 aprile 1963, ovvero pubblicato nella settimana del voto e di cui non è riportata la firma, che tenta di arginare la situazione: L’allarme è comprensibile. La nazionalizzazione dell’energia elettrica tranne alcuni industriali non colpiva nessuno e si proponeva anzi di sottrarre alcuni milioni d’utenti agli arbitri di alcuni potenti gruppi industriali. Ma la casa è un bene di moltissimi e un’aspirazione di tutti; la sola ipotesi che il diritto di proprietà così diffuso e così radicato nella tradizione degli italiani possa venir meno ha suscitato un’ondata di paure e risentimenti dai quali la destra s’attende cospicui vantaggi. Infatti la Democrazia cristiana ha visto immediatamente il pericolo… ed è corsa ai ripari sconfessando l’iniziativa del ministro Sullo ed affermando che il progetto di riforma di legge urbanistica non impegna affatto il partito la cui politica, in materia di proprietà edilizia, rimane esattamente qual è stata finora, dal 1948 in poi. […] A leggere il progetto di riforma… non si trova niente di tutto questo. Il principio ispiratore è del tutto diverso… quant’è avvenuto negli ultimi quindici anni […] è

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Cfr. Sullo, Op. Cit. pp. 373-377.


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sotto gli occhi di tutti: la rapidissima espansione della città sta creando immensi spostamenti di valore ed arricchimenti enormi a favore d’alcuni speculatori di aree fabbricabili. Il meccanismo è noto.

Ma è proprio questo meccanismo che non si vuole arrestare. Il ministro Sullo diventa il capro espiatorio di tutta una politica. L’attacco era in verità non solo rivolto contro la legge, ma contro tutto il pensiero programmatico riformatore. Si può quindi dire che quello che è stato definito il ‘centro-sinistra riformatore’ cada nel luglio 1964 e cada proprio sulla legge urbanistica. L’Italia non vuol cambiare: le elezioni confermano questa tendenza. Guadagnano le opposizioni sia a destra che a sinistra (PLI e PCI), la DC resta il primo partito nonostante un calo numerico consistente, il PSI che aveva dato l’appoggio esterno al governo paga un prezzo a sinistra che porterà alla scissione del PSIUP (gennaio 1966), ma nel complesso la compagine di centro sinistra tiene e si può procedere alla formazione del nuovo governo. Fiorentino Sullo resta ancora ministro nel Governo balneare monocolore DC (giugno-dicembre 1963) presieduto da Giovanni Leone, ma con il primo governo Moro, che vede la partecipazione organica dei quattro partiti del centro sinistra (DC, PRI, PSI, PSDI), Giovanni Pieraccini (PSI) diventa ministro dei Lavori Pubblici. Anche lui presenta, il 12 marzo 1964, un progetto di legge urbanistica assai simile a quello Sullo, rispetto al quale vi sono alcune diversità che riguardano soprattutto l’indennizzo dell’esproprio che anziché essere a prezzo agricolo, è calcolato sul prezzo di mercato alla data del 1958 ovvero pri-


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ma che le previsioni dei piani in atto avessero indotto o consolidato aspettative diverse nei proprietari delle aree; inoltre il disegno di legge prevede che i progetti presentati prima del 12 dicembre 1963 siano esclusi dalle procedure di esproprio. La legge ha il sostegno dell’INU espresso da una mozione nel luglio ’64 in cui si sollecita il Parlamento ad una rapida approvazione “per porre fine all’attuale insostenibile situazione del paese, di mortificazione continua dei diritti delle collettività e di speculazione fondiaria e di alto costo delle abitazioni”. Il provvedimento, però, viene bloccato e non riesce ad arrivare neppure in Consiglio dei ministri, anzi diventa una delle cause della caduta del governo, che viene accelerata dal tentativo di golpe del generale De Lorenzo19. Si arriva poi, dopo le trattative note come gli accordi di Villa Madama, al governo Moro II che durerà pochi mesi (dicembre 1963-luglio 1964), seguito da un terzo governo Moro in cui Pieraccini passa al dicastero del Bilancio per continuare l’esperienza di programmazione20 avIl cosiddetto “Piano Solo” concepito dal generale Giovanni de Lorenzo nel 1964 fu reso pubblico solo dopo grazie ad una campagna portata avanti sull’Espresso da Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi, che ebbero strascichi giudiziari (vedi nota 66). Il tentativo di golpe si inquadra nell’ambito della VI legislatura della Repubblica, in cui si hanno le dimissioni di Antonio Segni da Presidente della Repubblica per motivi di salute e l’elezione di Giuseppe Saragat a Presidente. 20 Cfr. Il piano, noto come “Piano Pieraccini” si pone in continuità con i lavori del precedente Governo, in cui Antonio Giolitti (PSI) reggeva il dicastero del Bilancio e programmazione, ed è pubblicato dal Ministero del bilancio e della programmazione economica, Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1966-1970, Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1967. Nel piano sono esplicitati gli obiettivi: 1. Sviluppo del reddito nazionale per conseguire il pieno impiego delle forze lavoro; 2. Accelerazione del ritmo di sviluppo della produzione agricola per l’aumento della domanda interna e dell’esportazione; 3. Riduzione fra redditi agricoli e non agricoli; 4. Ripartizione territoriale dei nuovi posti di lavoro in 19


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viata da Antonio Giolitti. Giacomo Mancini (PSI) diventa ministro dei Lavori pubblici e prende in carico il problema della legge urbanistica. Il quadro politico è cambiato: la DC non è più favorevole alla riforma, la sinistra del PSI di Riccardo Lombardi non si riconosce nei programmi di governo e tutto sembra navigare verso il mantenimento di uno statu quo che, alla fine, non accontenta nessuno. Mancini ha di fronte a sé un cammino difficile e, tuttavia, presenta un nuovo provvedimento di legge: sarà l’ultimo provvedimento organico di riforma. I riformisti sono stanchi e delusi. La destra ha trionfato. L’INU espone la sua manifesta contrarietà e si dissocia da ogni azione governativa. A dimostrazione del fatto che il territorio fosse uno dei campi di scontro maggiori della politica italiana è il numero dei progetti di legge presentati fra il 1963 e il 1966, nessuno dei quali supera la soglia della sede referente della Camera dei Deputati o della Commissione Lavori pubblici e trasporti del Senato: Aldo Natoli del PCI, proposta n. 296/63 “Disciplina dell’attività urbanistica”, Antonio Guarra, MSI, n.1665/64 “Nuovo ordinamento dell’attività urbanistica”, Benedetto Cottone e altri, PLI, n. 2892/66 “Disciplina urbanistica”, presentata anche Senato, da particolare per l’industria, più favorevole al Mezzogiorno; 5. Ripartizione delle risorse tra i diversi impieghi tale da soddisfare i bisogni collettivi (istruzione, sanità, trasporti, ricerca scientifica ecc.) senza comprimere entro margini troppo ristretti l’espansione dei consumi privati; e i vincoli: 1. Aumento del reddito nazionale nella misura del 5% ogni anno; 2. Aumento del prodotto lordo in agricoltura nella misura del 2,8/2,9 in media all’anno; 3. Aumento dell’occupazione extra-agricola di 1,4 milioni di unità nel quinquennio; 4. Localizzazione nel Mezzogiorno del 40/50% dei nuovi occupati nei settori extra-agricoli; 5. Aumento degli impieghi sociali del reddito ad un livello del 26/27% delle risorse interne disponibili (contro il 24% del quinquennio precedente).


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Francesco Rosi, Le mani sulla città, 1963

Giorgio Bergamasco. Ma che l’interesse non fosse solo per addetti ai lavori lo dimostra nel 1963 il successo del film di Francesco Rosi “Le mani sulla città”. La vicenda, scritta insieme a Raffaele La Capria, mette a nudo il rapporto di corruzione e connivenza fra speculatori, costruttori e amministratori e diventa il paradigma dell’Italia dove il regista pone con forza il problema etico della speculazione immobiliare “che — come ebbe a dichiarare — non consiste soltanto nella distruzione della città e nell’aspetto caotico che essa assume, ma anche nella distruzione di una cultura a vantaggio di un’altra in cui l’uomo non trova più posto”. È la cultura del non-piano, fondata su un mercato senza controllo, che appare a Rosi come il “vero crimine collettivo contro la nostra stessa società”. Un caos generalizzato che coincide con il periodo del ministero di Giacomo Mancini (22/7/1964 - 4/6/1968) e che è, per l’urbanistica italiana, uno dei più tormentati. Nel 1965 le previsioni dei PRG e segnatamente per quelle relative agli indennizzi in applicazione della legge n.167/62 vengono dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale e riaprono il tema del prezzo d’acquisto dei terreni. Per far fronte a questo problema viene promulgata nel luglio la


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legge n. 904/65 che riesuma la legge di Napoli del 1865 in materia di indennizzo d’esproprio. Astengo riassume quel clima politico: Le sensate proposte fatte dall’INU a Firenze nel ’55 non trovarono eco né presso il governo né in parlamento. A dar misura di quanto tempo sia trascorso allora inutilmente senza provvedimenti in materia urbanistica, basti il fatto che i due disegni di legge per l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia popolare e per l’istituzione di un’imposta per le aree fabbricabili, presentati uno dal ministro Romita e l’altro dal ministro Andreotti, entrambi nell’ottobre del ’55, impiegano rispettivamente sei anni il primo e sette il secondo per diventare legge, la 167 nel ‘62 e la 246 nel ’63. Per essere poco dopo contestati dalla Corte Costituzionale, con conseguente svuotamento di mordente operativo. […] La 167 era invece destinata a formulare promesse che non sarebbero state mantenute, strumento eccellente per operazioni che si sarebbero fatte mancare al momento giusto. Dare e al tempo stesso, sottrarre, pareva la direttiva del nuovo corso. Se la 167 poteva essere neutralizzata, come lo fu immediatamente, per la riduzione dei fondi per l’edilizia statale e sovvenzionata e per il colpo maestro del ricorso alla Corte Costituzionale… che ne avrebbe ritardato l’attuazione fino al luglio ‘65; la proposta Sullo doveva essere soffocata immediatamente prima che venisse alla luce21.

Ad Astengo si aggiunge la voce di Giuseppe Campos Venuti che afferma la necessità di una coerente prassi urbanistica, garantita da un impegno disciplinare, professionale e amministrativo, come risposta positiva alle carenCfr. Relazione di G. Astengo “non- pronunciata” al Congresso INU Napoli 1968, Vent’anni di battaglie urbanistiche, in «Urbanistica» n. 54/55, 1969 pp. 45-52.

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ze del quadro nazionale. Un impegno da assumere “per indicare a tutti noi che i nuovi impegni non differiscono dai vecchi. Era l’invito a far tesoro dell’esperienza e a continuare: amministrare l’urbanistica, farla vivere tutti i giorni, operare per essa e studiarla, facendola avanzare come per ogni altra disciplina è sempre stato”22. Opporre quindi alle sconfitte parlamentari di quegli anni un più rigoroso impegno, una prassi tenace capace di raccogliere i minimi brandelli di disponibilità che il quadro legislativo poteva offrire. Si è già detto del ruolo dell’INU e della rivista Urbanistica, che segnalava e illustrava alcune esperienze significative di redazione di strumenti urbanistici che si andavano configurando come “operazioni da manuale”, sulle quali si formavano le nuove generazioni di architetti-urbanisti e di amministratori. Fra queste ci sono, senza dubbio, il PRG di Siena di Luigi Piccinato (redatto con Piero Bottoni e Aldo Lucchini, 1958)23 che è, in un certo senso, antesignano della difesa del rapporto fra città e campagna e pone il problema degli insediamenti di crinale; il PRG di Firenze del 1962 di Edoardo Detti che si caratterizza per la protezione delle colline (definite zone agricolo-panoramiche) e del centro storico o quello di Urbino di Giancarlo De Carlo del 1964 ed altri, che preludono ai due piani esemplari di Bergamo sempre di Gio-

22 CFr. G. Campos Venuti, Amministrare l’urbanistica, Einaudi, Torino 1972 p. 17. 23 Si legge infatti nella Relazione di PRG “Non va dimenticato che la difesa di Siena comincia fuori di Siena: comincia proprio nell’impostazione più larga delle maglie più esterne del piano regolatore… questa impostazione è la sola forza che può portare… alla difesa della compagine monumentale della città”. Sul tema dell’urbanistica medievale, si veda inoltre: L. Piccinato, Urbanistica medievale, Dedalo, Milano 1978.


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vanni Astengo del 1969 e di Bologna su cui Leonardo Benevolo aveva intrapreso una fondamentale “indagine settoriale” del tessuto antico dal 196524 cui farà seguito il Piano del Centro Storico di Pier Luigi Cervellati del 1972. Sono gli anni in cui l’impegno disciplinare si dirige verso una vera e propria ‘militanza’, ovvero verso l’assunzione di dirette responsabilità nella politica amministrativa che interessa i maggiori urbanisti come Astengo a Torino (consigliere dal 1964, poi assessore 1966-67), Campos Venuti (1960-66) e Cervellati a Bologna (1964-80) Detti a Firenze (1961-65) che, da assessori e dall’interno degli uffici comunali, portano avanti le più significative esperienze di revisione dei PRGC del tempo. Da questa visione scaturisce la filosofia che sta alla base dell’esperienza di Bologna e che è stata per molti anni un esempio unico in Italia per continuità di gestione e capacità di consegui24 Il PRG di Bologna nel documento di adozione cita esplicitamente come “rispetto del passato come patrimonio universale e si realizza mediante la conservazione regolamentata del centro storico e la sua immissione nella struttura del territorio urbano come parte differenziata e qualificata: il centro storico è quindi considerato come un organismo urbanistico unitario e non come sistemi di organismi edilizi” prefigurando la filosofia dei successivi sviluppi. Venne presentato nel 1972 (adottato nel 1973), il Peep-Centro Storico, in cui “oggetto della conservazione non è un insieme di manufatti… ma un organismo abitato” (L. Benevolo). Il piano che adotta l’analisi tipologica degli edifici di derivazione muratoriana, sposta l’interesse pubblico dalle periferie al centro della città, tentando l’uso dell’esproprio secondo l’interpretazione che aveva dato Alberto Predieri (convegno Regioni-ANCSA, Genova 1972) della legge 865/1971, nota come “legge sulla casa” che equiparava la casa ad “servizio” indispensabile e quindi applicabile per aree ed edifici degradati dei centri storici ai fini della realizzazione di edilizia economico-popolare). Applicazione che non fu possibile e che fu sostituita da interventi su proprietà comunali, acquisti e convenzionamenti coi proprietari. Cfr. anche A. Benevolo, La pianificazione della città storica. Cronaca della ricerca di Leonardo Benevolo, in B. Albrecht, A. Magrin, a cura di, Il Bel Paese, Rubettino, Soveria Mannelli 2017 pp. 94-107.


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re gli obiettivi di piano. Infatti Bologna riesce non solo a correggere un piano che la vedeva proiettata ad oltre il 1 milione di abitanti quando ne contava solo 340.000, ma a definire un programma di revisione, varato fra il 1969 e il 1970, in cui l’articolazione degli interventi è regolata da una successione di strumenti e di azioni mirate, quali la riduzione degli indici, il piano per la zona industriale, quello per il centro storico e i piani PEEP. Strumenti che a loro volta si coordinano con quelli dei comuni della cintura per definire la variante del 1970. La metodologia non è diversa da quella intrapresa a Firenze che con il PRG del 1962 inizia la salvaguardia del centro storico e delle colline e regola, riducendola drasticamente, rispetto al PRG del 1958, l’espansione della città attraverso i PEEP e i Piani di lottizzazione, ma diversamente da Bologna il piano di Firenze non troverà una continuità amministrativa e, anzi, avrà una vita tormentata ed una frammentata e distorta attuazione25. Calamità naturali e aspettative urbanistiche Il 1966 è segnato da una serie di calamità definite ‘naturali’ che si abbattono a luglio su Agrigento, dove sotto la pressione di circa 8.500 vani costruiti abusivamente, frana la collina mentre, a novembre, vi sono le alluvioni che sommergono Firenze e Venezia. Uno stato di emergenza che impedisce il disegno del governo Moro di accantonare la questione urbanistica e consente a Mancini di varare, quasi come intervento di urgenza, la “Legge-Pon-

Cfr. M. Zoppi, Firenze, la ricerca del piano, Lega delle Autonomie, Roma 1982.

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Le alluvioni di Venezia e Firenze nel novembre 1966

te” (che sarà l’ultimo atto verso la riforma) ovvero la legge n.765/67 “Modifiche e integrazioni alla legge urbanistica n. 1150”. La legge introduce non poche limitazioni all’azione dei comuni, quali: la perimetrazione dei centri urbani, il divieto di lottizzare prima dell’approvazione del PRG o del PDF, l’estensione della licenza edilizia in tutto il territorio comunale, l’obbligatorietà degli oneri di urbanizzazione primaria e di parte della secondaria, inserisce limitazioni alle volumetrie edificabili, recepisce inoltre indicazioni di tutela per il patrimonio storico-architettonico, artistico e ambientale, con riferimento specifico ai centri storici26. Assume inoltre il concetto di standard urbanistico e introduce le sanzioni per gli abusi edilizi. Limitazioni che tuttavia, ancora una volta, appaiono lesive ai molti oppositori dell’attività edilizia e dello sviluppo del paese e che, pertanto, saranno soggette ad un rinvio di applicazione per il periodo di un anno. Il tentativo di dare un ordine, sia pure minimo, alle attività edificatorie sul territorio nell’anno di moratoria subisce un drammatico contraccolpo: si calcola, infatti, che in un solo an26

Cfr. art. 10 comma 2 c della 1150/42.


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no siano state rilasciate licenze edilizie per 8,5 milioni di vani e per 245 milioni di mc. non residenziali, pari al triplo di quanto era stato autorizzato complessivamente nei 10 anni precedenti. Nel 1967 vengono pubblicati i risultati dei lavori della Commissione Franceschini27, insediata nel 1964 dal ministro per la Pubblica Istruzione Luigi Gui, che si inseriscono nel dibattito della riforma urbanistica in quanto pongono il tema dei beni culturali, dei centri storici e del paesaggio come componente integrata e integrante delle scelte e delle previsioni urbanistiche con esplicito riferimento al piano regolatore comunale visto nell’unitarietà del territorio. Fin dalla seduta di insediamento della Commissione, il ministro Gui aveva rilevato come il consumo indiscriminato di suolo fosse invasivo “non solo nelle città, ma anche nelle campagne, nei litorali, nelle zone montane, nelle località a più alto valore paesaggistico”28 individuando in questo contesto l’indifferibilità di una revisione generale della legislazione in materia di patrimonio culturale e artistico, ferma ai provvedimenti del 1939. I lavori, Sulla Commissione istituita con legge n. 310/64 si veda, M. Zoppi, Vivere i centri storici. 50 anni dalla Commissione Franceschini, Aska, Firenze 2017.

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Sono le parole di Luigi Gui, Ministro della Pubblica Istruzione da cui dipendevano i Beni culturali nel Governo Moro II che nel suo discorso di insediamento fa riferimento ad una precedente Commissione parlamentare mista per la tutela del paesaggio e la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale (Ministro PI, Paolo Rossi) che era decaduta con la fine della II Legislatura. Cfr. Per la salvezza dei beni culturali in Italia, Fondazione Bianchi Bandinelli, Roma 1967, val. I pp. XXIII-XXIV. Successivamente, in questo filone, va segnalato il contributo di A. Predieri, Paesaggio, in Enc. dir., vol. XXXI, Milano, Giuffrè 1981, 502 sgg. 28


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cui parteciparono i nomi più significativi della cultura di quegli anni durarono due anni29, e produssero un articolato finale ancora oggi di grande attualità, che comprende una materia vastissima che va dall’archeologia ai beni storico-artistici mobili e immobili, fino ai monumenti e all’ambiente30 urbanistico, passando per i musei, gli archivi e le biblioteche, il cui filo conduttore è la visione del patrimonio culturale in funzione della sua responsabilità educativa, di rappresentanza e di presa in carico del senso e del valore di ‘bene comune’ riferita all’intera società e alla Nazione, nella convinzione che ogni azione di tutela vada relazionata alla “conservazione al godimento della collettività, come finalità prioritaria”31. All’interno di questa complessa trattazione emerge l’assunto fondamentale che non vi possa essere estraneità fra i diversi problemi e la loro trattazione alle diverse scale, per cui nulla può essere estrapolato o trattato separatamente. Tematiche già emerse nella Carta di Gubbio del 1960 e che, nell’ordine del giorno finale della Commissione, vengono ribadite nell’assunzione dell’importanza del contesto in cui il bene si colloca (territorio, tessuto urbano, paesaggio) e valutate in rapporto al tempo e ai mutamenti che esso comporta, da cui la necessità di un riordino complessivo dell’intera materia, ferma alle leggi del 1939, motivato dall’“estrema urgenza di provvedere alla Il terzo anno dei lavori è dedicato alla pubblicazione dei risultati: 2.400 pagine suddivise nei 3 volumi. 30 Qui la parola “ambiente” è usata sia per l’ambiente naturale che quello costruito, mentre in seguito la parola avrà una connotazione più riferita all’ambito biologico ed ecologico, quindi di luogo o area geografica in cui i viventi interagiscono (ovvero, influenzano e vengono influenzati). 31 Cfr. Per la Salvezza…Op. Cit. vol. I, p. 70. 29


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Pier Paolo Pasolini, Uccellacci Uccellini, 1966

salvezza dei Beni culturali, minacciati ogni giorno di più nella loro integrità”. Permane, dunque, nonostante i fallimenti politici dei tentativi di riforma urbanistica e le delusioni conseguenti, un clima di responsabilità portato avanti, pur tra le molte difficoltà, da una ancora attiva cultura riformista che, se pure in assenza delle riforme di struttura battute dalla gretta miopia delle destre italiane, non desiste da un’azione che mira ad un diverso rapporto fra amministrazioni, cittadini e uso del suolo. Nell’aprile 1968 (sono gli ultimi mesi di permanenza di Mancini al ministero dei Lavori Pubblici) vengono varati i due decreti ministeriali in materia di standard urbanistici ed edilizi, che disciplinano quanto previsto dalla legge Ponte, che aveva introdotto su tutto il territorio nazionale l’obbligo di individuare quantitativi di aree pubbliche in relazione alle previsioni di abitanti insediati ed insediabili. Sono i due decreti n.1404/68 “Distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all’art. 19 della legge n. 765 del 1967” e n. 1444/68 “Limiti inderogabili di densi-


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tà edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967” che fissano parametri tassativi in materia edilizia ed urbanistica e definiscono le quantità minime e inderogabili di aree da destinare a servizi e attrezzature da prevedersi per ogni abitante in relazione alla residenza e parametrate per zone definite ‘omogenee’ secondo le previsioni dei PRG. La portata sociale di questi provvedimenti è evidente in quanto introducono una valenza equalitaria di tutti i cittadini rispetto alla disponibilità e all’accesso alle attrezzature e ai servizi considerati indispensabili per creare un civile e adeguato ambiente di vita, non solo, ma garantiscono (o avrebbero dovuto garantire) uno sviluppo equilibrato delle città: si pensi ai parcheggi rispetto ai quali dall’aprile ‘68 si sarebbero dovuti prevedere 2,5 mq per abitante e questi avrebbero dovuto essere reperiti al di fuori della carreggiata stradale (prescrizione ancora valida e perfettamente disattesa). Fatta la legge, inserite le previsioni nei piani, le amministrazioni pubbliche non solo non vennero incoraggiate ad applicarle, ma, dopo circa un mese arrivò, puntuale come sempre, lo stop della Corte Costituzionale che con la sentenza n. 55 annullava alcuni articoli della LU ‘42 in materia di vincoli imposti dai PRG, dichiarando illegittima la condizione di inedificabilità delle aree in quanto il proprietario era di fatto messo nella non disponibilità del


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bene a tempo indeterminato senza immediato e congruo indennizzo. Una situazione che andava, secondo la Corte a confliggere con l’art. 42/comma 3 della Costituzione. Contemporaneamente con la sentenza n. 56 la stessa Corte riconosceva legittimo l’art. 15 della legge provinciale di Bolzano n. 8/75, che agendo nell’ambito delle bellezze naturali, si collocava all’interno di una categoria di beni di interesse pubblico, ribadendo in tal modo la legittimità dei vincoli paesaggistici. La sentenza n. 55 ribadiva come l’istituto della proprietà privata fosse garantito dalla Costituzione e che “tale garanzia è menomata qualora singoli diritti, che all’istituto si ricollegano, vengano compressi o soppressi senza indennizzo, mediante atti di imposizione, che indipendentemente dalla loro forma, conducano tanto ad una traslazione totale o parziale del diritto, quanto ad uno svuotamento di rilevante incisività del suo contenuto, pur rimanendo intatta l’appartenenza del diritto e della sottoposizione a tutti gli oneri, anche fiscali riguardanti la proprietà fondiaria. Anche tali atti vanno considerati di natura espropriativa”. Lo spirito della Corte era e resta chiaro: la proprietà di un’area comporta di per sé un diritto di edificazione connaturato alla stessa, che può essere compresso, ma che non può essere vincolato e dunque sospeso neppure in relazione alle esigenze prevedibili o previste della comunità. In conclusione il diritto del singolo prevale su quello della comunità. Neppure nel 1942 si era ipotizzata questa forza della proprietà privata, tanto che sono proprio gli articoli n. 7 (commi 2,3,4) e n. 40 della legge urbanistica ad essere dichiarati illegittimi in quanto portatori di limitazioni non operanti e risarcibili immediatamente.


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Un duro colpo per la disciplina e per la collettività. Lo Stato, costretto a prendere delle contromisure, vara in novembre la legge n. 1187/68 detta ‘legge-tampone’ ovvero “Modifiche e integrazioni alla LU n. 1042”, che tenta di rimediare agli effetti della sentenza della Corte affermando che i vincoli di inedificabilità perdono validità qualora entro 5 anni dalla data di approvazione del PRG non siano stati approvati i piani attuativi in cui sono inseriti32. Si viene ad innescare un’altalena che ancora continua fatta di tentativi di incidere, sia pure parzialmente, sulla rendita fondiaria con provvedimenti urbanistici che, puntualmente, vengono fermati dalle sentenze della Corte Costituzionale, garante della proprietà privata degli italiani. Il Sessantotto Alla fine degli anni ‘60, sembra che una sorta di ciclone di rinnovamento investa tutta la società occidentale che dagli Stati Uniti arriva fino ai paesi dell’Est Europa comunista come la Polonia e la Cecoslovacchia. I primi segni si erano avuti a Berkeley, ma ben presto si erano estesi a tutti i campus americani: gli studenti lottano contro la segregazione razziale (Martin Luter King viene assassinato nel 1968) e a favore dei diritti civili, contro ogni forma di militarismo (segnatamente contro la guerra del Vietnam, iniziata nel 1962) e contro ogni repressione delle libertà individuali e collettive per affermare il diritto al dissenso verso ogni sfruttamento e costrizione. Prende corpo così un’ondata di contestazione generale contro il potere cen-

La legge resterà in vigore fino all’approvazione della L. n.10/1977, Norme di edificabilità dei suoli.

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trale degli Stati che trova nei giovani un terreno fertile. In Europa, il maggio francese del ‘68 è certo l’episodio più noto — oltre ad essere quello che uno sbocco positivo, sia pure parziale, l’ha avuto — ma certo di non minor rilievo è stata la Primavera di Praga con la sua tragica conclusione. In Italia, le prime avvisaglie della contestazione si hanno nelle sedi universitarie di Roma33, Pisa, Torino e Milano34, ma in poco tempo si estendono a tutte le università e agli istituti superiori della penisola. L’influsso internazionale con la sua forte valenza equalitaria e libertaria, si confronta con una politica statale italiana ingessata, tesa a conservare lo statu quo e a mantenere gli squilibri sociali e territoriali di cui si è fatto riferimento. Le stesse forze riformiA Roma va ricordato il tragico episodio della morte dello studente Paolo Rossi nell’aprile 1966 sulle scale dell’Università La Sapienza. Rossi (candidato alle elezioni universitarie per l’UGI, per la Gioventù socialista, scout ASCI) cadde da un’altezza di 5 metri per un pugno nel corso di un violento scontro con Primula Goliardica (gruppo universitario di Destra Sociale) e fu portato in ospedale già in coma. Il responsabile non fu mai identificato: il processo (1968) si concluse con sentenza di “omicidio preterintenzionale contro ignoti”. 34 Si ricorda il giornale studentesco del Liceo Parini, La Zanzara, che pubblicò a firma di M. De Poli, C. Beltrame e M. Sassano un’inchiesta sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di esaminare i problemi del matrimonio, del lavoro femminile e del sesso, che fece scalpore e portò studenti e preside in tribunale. Parlare di sesso allora era ancora un tabù. 33


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ste non riescono a sfondare e non possono costituire un riferimento culturale per i giovani universitari, che sono attratti da forme di rinnovo radicale della società: ‘a sinistra, sempre più a sinistra’ sembra essere diventato l’imperativo che va diffondendosi. Va detto che il numero degli universitari in meno di un decennio era più che raddoppiato grazie alla Legge Codignola che aveva liberalizzato gli accessi35 e, fatto non trascurabile, aveva mutato quella che era la composizione sociale del passato. La scintilla della ribellione venne proprio dalla proposta governativa di riforma dell’università, il progetto di legge n. 2314, presentato dal ministro Luigi Gui, che fu visto (o forse, più propriamente, voluto vedere) come una prova di forza e di repressione statale nei confronti della libertà dell’apprendimento. Le facoltà furono occupate e nelle sedi, fra assemblee e gruppi di studio, la discussione era a tutto campo sulla società, sulla scuola, sul lavoro, sulle di-

35 Il riferimento è alla legge approvata n. 910 dell’11 dicembre 1969 che apriva l’accesso all’università a tutti i tipi di diploma di scuola media superiore. Sempre a Tristano Codignola (PSI) si deve la legge per l’amnistia per i reati politici in relazione alle agitazioni studentesche del Sessantotto. In precedenza, nel 1962, era stato relatore e promotore della scuola media unica.


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seguaglianze, sulla guerra del Vietnam, su Mao, su Marx e si alternava a cortei e manifestazioni. In una di queste, il primo marzo 1968, a Valle Giulia a Roma ci fu uno scontro fra le forze dell’ordine e gli studenti, che si concluse con un bilancio di un centinaio di feriti, oltre duecento fermi e dieci arresti. La risposta, immediata, fu una mobilitazione ancora più ampia e ancora più radicale, gli scontri avvennero in quasi tutte le università dove gli studenti che occupavano le sedi venivano regolarmente denunciati. L’anno successivo, le lotte studentesche si articolano su due filoni: una parte dei giovani sono a fianco delle proteste degli operai sulla vertenza del rinnovo dei contratti, cui si saldano i braccianti, in un clima complessivo di grande tensione con i ‘padroni’, mentre un’altra parte va sempre più radicalizzandosi fino ad arrivare a forme di clandestinità e di totale contrapposizione con lo Stato. È il periodo che va sotto il nome di ‘autunno caldo’, la cui data d’inizio coincide con la grande manifestazione sindacale dell’11 settembre 1969, in cui i gruppi organizzati di studenti si uniscono alle proteste operaie per un miglioramento ed un ammodernamento delle condizioni di lavoro. Una mobilitazione di massa a cui il governo non seppe dare una risposta adeguata, ma si trincerò in un’ottusa chiusura priva di sbocchi propositivi che provocò il panico e generò una situazione economica disastrosa caratterizzata da fughe di capitali all’estero, aumento dell’inflazione e recessione. Non ci dilungheremo qui sul Movimento studentesco, ma su una particolare e specifica azione che riguarda proprio la legge urbanistica in quanto si intreccia al XII congresso INU di Napoli sull’Iniziativa urbanistica delle Re-


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gioni36 che, nella loro imminenza, erano viste come portatrici di un’alternativa al modello di riforma statale. Il congresso, noto come ‘della carta igienica’ per l’uso che di questa si fece, non si tenne proprio a causa dell’occupazione della sede del congresso da parte degli studenti. Tuttavia alcune relazioni sono state pubblicate e danno un interessante spaccato del dibattito di quel momento. Nella sua relazione ‘non tenuta’, Astengo fa una riflessione sul ruolo dell’INU e sullo stato dell’urbanistica in relazione a quanto stava avvenendo in Italia: Richiamare la battaglia per la nuova legge urbanistica significa non solo rievocare gran parte della storia dell’Istituto, ma anche entrare nel vivo dei rapporti fra Istituto e Paese e in definitiva fra urbanistica e realtà circostante per individuare spietatamente le cause e le responsabilità nostre e altrui nel clamoroso fallimento delle nostre proposte e dei nostri piani. […] Oggi i giovani contestano l’Istituto per essere stato servile strumento di razionalizzazione, se non addirittura esaltazione interessata del sistema, denunciano come mistificatorio, e in subordine velleitario, il tentativo di modificare con forze culturali i rapporti reali del paese, e pur concedendo, forse, a qualcuno le attenuanti della buona fede, concludono perentoriamente… che noi siamo INU/tili37.

Astengo resta, comunque e sempre, un solido e positivo riformista e in conclusione alla sua non-pronunciata relazione enuncia quanto, nonostante tutto, di utile (l’aggettivo non è casuale) è andato maturando con le esperienze Tema che verrà ripreso a Perugia nel 13° Convegno nazionale INU, L’iniziativa urbanistica delle regioni, 1973. 37 Si veda il documento B68G, nel sito: circe.iuav.it, alla voce “Giovanni Astengo”. 36


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di revisione dei piani regolatori comunali di Firenze e di Genova, insistendo sul fatto che non si tratta di casi isolati, ma di una tendenza in atto in molti comuni e che attiene soprattutto al ri-dimensionamento dei PRG degli anni ‘50, anche se non nasconde la sua amarezza nel ripercorrere la storia faticosa delle poche parziali conquiste in relazione ad una ridefinizione generale della materia. La cultura riformista lancia i suoi ultimi segnali in un clima di incomprensioni culturali e politiche. Le stesse indicazioni del “Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-69” in cui erano inserite la riforma urbanistica, quella della burocrazia e quella del fisco sono del tutto disattese tanto che si fanno slittare gli obiettivi previsti al 1972 nella speranza di un qualche cambiamento. L’ultimo atto del Ministero del bilancio e della Programmazione è il varo del “Progetto ‘80”38, le cui “Proiezioni territoriali”, a cura del Centro piani e studi economici, vengono pubblicate nel n. 57/71 di Urbanistica39. Il Progetto ‘80 si pone il problema dello sviluppo della società italiana per un periodo più lungo di quello dei piani quinquennali, capace di interagire con gli effetti congiunturali del breve periodo e di affrontare la reciprocità

Fra le critiche al progetto provenienti dalla sinistra non riformista e quindi anti-programmazione, si segnala: Jacobelli, Marcelloni, Ricoveri, Tortora, Ideologia e territorio, per una critica della programmazione democratica, Savelli 1973 e F. Merloni, P. Urbani, La casa di carta, Officina ed. 1976. Per il Pogetto ‘80 in relazione agli esiti si veda il successivo paragrafo sulla nascita delle Regioni, p. 141 sgg. 39 Il numero 57 del marzo 1971 di «Urbanistica» da conto sia della metodologia seguita che delle indicazioni programmatiche. Lo studio è diviso in quattro parti: analisi delle risorse e loro utilizzazione; modello di assetto territoriale attuale; modello di assetto territoriale programmatico; politiche e strumenti di attuazioni del nuovo assetto. 38


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fra obiettivi e progetti di intervento. Le critiche piovono da destra e da sinistra: sono le opposizioni alla programmazione. Il periodo non è certo favorevole ad una mediazione politica che ponga in posizione centrale il territorio. Tuttavia, con le “Proiezioni territoriali” si ha il tentativo di passare dall’interpretazione dei fenomeni in atto a quello della loro programmazione, che si presenta sotto due aspetti fra loro molto diversificati: da una parte permane l’idea che lo sviluppo abbia un andamento pressoché costante (e questo sarà un limite), dall’altro, però, evidenzia per la prima volta come ci debba essere una responsabilità pubblica nelle previsioni per il futuro e come questa costruisca il territorio, interpretato come campo dove si possa realizzare un “ampio, rapido e uguale accesso all’uso delle risorse territoriali: storico-culturali, naturalistiche, produttive e a quelle della civiltà urbana”40. Ma, dopo il ‘68, nulla resta più uguale. Nonostante l’apatia governativa rispetto al cambiamento in atto nel paese, una riflessione politica si impone nelle diverse sedi istituzionali e non. La società e il sindacato acquistano nuove capacità di pressione che sfociano in azioni che esprimono i diversi disagi: lo sfruttamento sul lavoro, la questione femminile (si pensi al licenziamento per matrimonio), la famiglia (il divorzio), la previdenza sociale e le pensioni, 40 Cfr. Progetto ‘80, in «Urbanistica» n. 57/71 p. 20. Va inoltre precisato come il termine “civiltà urbana” sia da riferirsi come un “valore” rispetto al contesto di quegli anni, in quanto ancora la città era considerata come “il luogo delle opportunità”. Del resto, nel testo, si fa riferimento alla contrapposizione con il termine “metropolitano” che interpreta la negatività della congestione urbana, vista come interazione dannosa fra uomo, civiltà, ambiente.


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che sono interpretate soprattutto dai socialisti al governo. Va ricordata l’opera di Giacomo Brodolini, sindacalista e ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, che vara la riforma delle pensioni nel 1969 (passaggio dal sistema ‘a capitalizzazione’ a quello ‘a ripartizione’), l’abolizione delle ‘gabbie salariali’ e istituisce la commissione per la stesura dello “Statuto dei diritti dei lavoratori” presieduta dal giuslavorista Gino Giugni a garanzia non solo dei salari e delle ore di lavoro, ma anche di interventi nel sociale, delle pensioni, del diritto di assemblea, delle modalità di gestione interna (es. consigli di fabbrica) e di garanzie sul mantenimento del posto di lavoro. Il PCI e il PSIUP41 da una parte e il MSI dall’altra si astengono nella votazione finale in Aula: Giancarlo Pajetta motiva le ragioni dell’astensione42 in quanto il provvedimento appare non sufficientemente duro nei confronti del padronato. Nonostante l’appoggio ai provvedimenti dei sindacati CGIL, CISL e UIL, che ormai perseguono una linea politica unitaria, il PCI mantiene la sua differenziazione rispetto ai socialisti al governo, perseguendo (peraltro con successo) più la ricerca del consenso elettorale che quella di un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori italiani. E, per questa sua linea, sarà premiato dagli elettori.

Il PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) si forma nel 1964 per scissione dal PSI sul tema della partecipazione al governo di centro-sinistra. Ebbe per segretari Tullio Vecchietti e Dario Valori. Dopo un discreto risultato alle elezioni politiche del 1968, in quelle del 1972 non raggiunse il quorum e nel luglio ci fu il congresso di scioglimento. 42 Cfr. fra gli altri, Lo scritto sull’Unità del 15 maggio “il testo definitivo contiene carenze gravi e lascia molte armi, sullo stesso piano giuridico, al padronato” (p. 2). 41


il cammino spezzato della riforma

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i cittadini sono protagonisti e artefici dei loro stessi luoghi di vita. le cittĂ sono uno dei campi di rivendicazione, uno dei terreni privilegiati della lotta.


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Il diritto alla casa Gli anni ‘70 sono caratterizzati da tre eventi: la riforma della casa, la nascita delle Regioni a statuto ordinario e la legge Bucalossi. Ognuno di questi, pur incidendo per data in un arco temporale di meno di un decennio, segue percorsi diversi e, solo nell’ultimo scorcio degli anni Settanta, si trova a confluire in modo organico nel filone dei provvedimenti delle Regioni, che iniziano a legiferare sulle politiche del territorio. Per questo, pur rispettando la sequenza temporale, differenzieremo il percorso nazionale da quello decentrato. Inoltre, appare opportuno inserire quella che può apparire una sorta di digressione sul tema dell’ambiente che si affacciò allora e che introdusse nel dibattito italiano la grande questione del destino del pianeta Terra, intervenendo sull’interdipendenza dei sistemi vita-spazio-natura. Nel 1968 viene costituito il Club di Roma, animato da Aurelio Peccei1, che inizia la sua attività commissionan1 Aurelio Peccei (1908-1984) imprenditore, manager dell’Olivetti e poi della Fiat, con un passato da partigiano di Giustizia e Libertà, è fra i fondatori, insieme a David Rockefeller e Alexander King, del Club di Romaassociazione non governativa no-profit — cui aderiscono scienziati, eco-


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do a MIT il Rapporto sui Limiti dello Sviluppo che viene pubblicato in italiano nel 1972. Lo studio, partendo dall’analisi delle tendenze di crescita della popolazione mondiale, arriva ad ipotizzare in un arco temporale di un secolo uno scenario di impatti devastanti sul nostro pianeta. Una problematica che, in qualche modo oggi ci è consueta anche se è lontana dall’essere risolta né si può dire sia adeguatamente affrontata, ma che allora si poneva per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica italiana in modo drammatico e sconvolgente: lo sviluppo non poteva continuare in uno stato di crescita incontrollata, ma doveva essere data attenzione ai ‘limiti’ ovvero al carico di rottura del rapporto fra crescita e risorse in relazione all’industrializzazione, all’inquinamento, all’aumento e alla concentrazione della popolazione e alla conseguente produzione di cibo. Il Rapporto indicava in cento anni il periodo in cui, se non fossero intervenuti correttivi al modello di sviluppo, gli equilibri del pianeta sarebbero arrivati ad un punto di rottura non reversibile, ad una deflagrazione economica contrassegnata da una decadenza della stessa capacità industriale, che avrebbe segnato la fine dello sviluppo per come oggi lo conosciamo, con conseguenze imprevedibili. L’effetto è dirompente e segna l’ingresso non solo dell’Italia, ma del mondo intero, in una fase culturale ed economica del tutto diversa da quella dei decenni precedenti, che si riflette anche nel costume e nel clima politico, che dopo i movimenti studenteschi e operai del ‘68, si caratte-

nomisti, uomini d’affari, attivisti di diritti civili, dirigenti pubblici di alta livello e capi di Stato di tutte i cinque continenti.


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rizza per una diffusa esigenza di condivisione dei problemi, che emergono soprattutto nelle concentrazioni urbane maggiori e più industrializzate. Un disagio locale che si manifesta come la somma di difficoltà diffuse con caratteristiche che accomunano le realtà locali in Europa come in America. Non a caso il libro del filosofo marxista francese Henri Lefevre, Diritto alla città2, diventa una sorta di manuale sulla comprensione della vita e dei destini delle città e dei cittadini. Il libro è un processo politico all’urbanistica e alle sue regole, alla “contraddizione tra valore d’uso (la città e la vita urbana, il tempo urbano) e il valore di scambio (gli spazi acquistati e venduti, il consumo dei prodotti, dei beni, dei luoghi e dei segni)”, alla città capitalistica che esprime il disegno e l’ideologia delle classi dominanti per affermare i valori di una “nuova” città, modulati sul “tempo urbano” che contraddistingue, nella molteplicità e nella libertà degli usi sociali, una “città effimera, opera perpetua dei suoi abitanti, essi stessi mobili e mobilitati per / da quest’opera”3. I cittadini sono, dunque, protagonisti e artefici dei loro stessi luoghi di vita e, conseguentemente le città diventano uno dei campi di rivendicazione, uno dei terreni privilegiati della lotta. In questo spirito si costituiscono come aggregazioni spontanee una serie di comitati, che rivendicano il diritto di vivere in ambiti urbani più rispondenti alle loro esigenze. Si tratta di assemblee stabili, che hanno una sede e una serrata periodicità di riunione e che si focalizzano su due temi prevalenti: la casa e i servizi. Si

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H. Lefevre, Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970. Op. cit. p. 152.


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configurano in tal modo i nuovi diritti urbani supportati da una partecipazione4 collettiva che non può essere sottovalutata ed è ben sintetizzata in quel ‘riprendiamoci la città’ che spesso si poteva leggere sui muri e sugli striscioni, e che è la sintesi delle aspirazioni e delle rivendicazioni per un ambiente di quotidianità migliore in cui il settore pubblico non solo deve essere presente, ma deve essere protagonista, garante cioè dei diritti di tutta la comunità. La rivendicazione del diritto alla casa definisce anche il campo del diritto alla città e dell’analisi sulla ‘condizione urbana’: è l’onda lunga del ‘68, che partendo dall’invivibilità delle aree urbane (pendolarismo, inquinamento ecc.) si pone i temi dell’efficienza delle prestazioni e della presenza attiva delle comunità, facendo di quest’ultima il “concreto terreno di battaglia, scontro di interessi, di posizioni, di culture. In poche parole, scontro di classe”5. 4 La partecipazione verrà, successivamente normata con la legge l8 aprile 1976 n. 278 “Norme sul decentramento e la partecipazione dei cittadini nell’amministrazione dei comuni” che porterà all’istituzione dei Consigli di Circoscrizione (Quartieri). La legge dà una prima risposta alle richieste popolari, infatti le circoscrizioni hanno competenze consultive obbligatorie relativamente ai PRG e ai piani attuativi, sul bilancio e sulle programmazioni di settore, inoltre possono deliberare su materie attinenti ai lavori pubblici e ai servizi. Per completezza sul dibattito sulla partecipazione va ricordata l’esperienza di Bologna che inizia dalla metà degli anni ‘50. Cfr. Giuseppe Dossetti, Libro bianco su Bologna, edito dalla Tipografia del Resto del Carlino, Bologna1956 visibile sul web: http://www. comune.bologna.it/storiaamministrativa/media/files/libro_bianco_su_ bologna.pdf; ancora su Bologna si veda R. Zangheri, I Comuni, in Programmazione autonomie partecipazione. Un nuovo ordinamento dei poteri locali. Atti del convegno di studi promosso dal Centro studi e iniziative per la riforma dello Stato e dall’Istituto Gramsci, Roma, 23-25 gennaio 1978, vol. I, Roma, Edizioni delle autonomie, 1978. 5 Cfr. U. Dragone, Il decentramento urbano: partecipazione, crisi della città, lotta politica, in Decentramento e Democrazia, Feltrinelli, Milano 1975 p. 13.


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Si sviluppa così il grande tema della comunità come portatrice di ‘identità’ che ha per presupposti un ambito spaziale di riferimento e una coesione etico-sociale definita ed è talmente forte da poter contrapporsi alla struttura rappresentativa che amministra le città, individuata come portatrice di interessi ‘altri’ e responsabile della crisi in atto e della disparità di opportunità che si determina all’interno delle aree urbane. Il riconoscimento istituzionale di queste sedi decentrate di decisione e verifica sembra porsi come una mediazione possibile verso una società più solidale e più equa che si riconosce dialetticamente democratica attraverso i suoi interlocutori multipli. Una parziale risposta verrà data con la legge n. 278/766 sul Decentramento comunale che istituirà le Circoscrizioni (chiamate anche Quartieri o Municipalità o Municipi) rette da un presidente eletto all’interno di un consiglio espressione del voto dei cittadini. Nonostante che le funzioni previste fossero assai ampie e investissero la sfera consultiva, quella propositiva e quella gestionale, la legge non darà i risultati sperati: il meccanismo elettorale, manovrato dai partiti politici, ben presto omologa le circoscrizioni a mini-consigli comunali e le svuota proprio della funzione e dei contenuti Per amaro dovere di cronaca, la legge è oggi svuotata di molti contenuti, infatti sono state oggetto prima dall’art. 13 della L. 142/90, poi confluito nell’art. 17 del Dlgs 267/2000 Testo unico sulle leggi dell’ordinamento degli enti locali, che trasformavano il contenuto dettagliato della legge in un ordinamento di principi. Successivamente, nel 2010 (Governo Prodi) si è individuata la necessità di istituire le circoscrizioni solo nei comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti, forse nel tentativo di ridurre i costi della politica comprimendo gli ultimi barlumi di partecipazione, che rifluiscono e rivivono in una miriade di comitati di protesta senza capacità di rappresentanza.

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di mediazione fra le assemblee dei cittadini e le istituzioni, snaturando tutto ciò che aveva caratterizzato la nascita dei movimenti di partecipazione. L’altro problema sul tappeto è l’attuazione delle riforme da poco varate a livello nazionale, in cui è forte sia il ruolo pubblico sia la centralità della persona, che propongono un nuovo rapporto fra lo Stato e il cittadino. Si profila il grande tema delle leggi e dell’uso che di esse se ne fa in relazione proprio a quei diritti che, con non poche difficoltà, erano stati conquistati, come la riforma sanitaria (diritto alla cura e alla salute) che deve trovare una sua applicazione attraverso la ridefinizione delle strutture ospedaliere e di tutto il sistema che investe il territorio (ambulatori, consultori, strutture decentrate e diffuse), la riforma della Scuola media unica (1962) che, con l’abolizione dell’Avviamento professionale, è portatrice di uguali opportunità di formazione attraverso un’educazione pubblica e laica garantita a tutti, e, in tema di servizi, non è meno importante il contenuto del DM sugli standard urbanistici in cui le aree per le attrezzature e i servizi non devono essere solo previsioni inserite nei PRG, ma devono concretizzarsi in aree e strutture adeguate per dimensioni ed uso, essere diffuse in modo omogeneo nelle aree urbane, nonché aperte e accessibili a tutti. In questo contesto, la casa non poteva non essere riconosciuta come servizio primario, e quindi doveva essere garantita là dove se ne rilevava l’effettivo bisogno e non dar conto, ancora una volta, di un divario economico e sociale che caratterizzava (e caratterizza) il paese: si doveva porre fine all’eterna rincorsa fra ‘case che mancano e case che crescono’, come si diceva allora, riducendo in manie-


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ra significativa uno dei tanti squilibri presenti nel paese. La situazione, peraltro, era stata chiaramente fotografata dal censimento ISTAT del 1971 che registrava per una popolazione di 54 milioni e un numero di vani di 65 milioni, con un’eccedenza di 10 milioni di vani, ma le statistiche, come si sa, vanno approfondite e relazionate al territorio. Il dato globale, infatti, non poteva dar conto della frammentazione sociale all’interno delle singole aree, ma la sua analisi indicava in modo inequivoco che quelle che mancavano erano le case accessibili per una popolazione a reddito medio-basso che si era spostata al Centro-Nord in cerca di lavoro, lasciando liberi vani che non avevano possibilità di rientrare nel mercato e che restavano vuoti aumentando in modo improprio il pacchetto delle ‘seconde’ case. Era evidente la mancanza di un indirizzo pubblico di tutto il settore, a fronte delle spinte speculative che dominavano il mercato e indirizzavano la domanda verso abitazioni di lusso e case acquistate per vacanze o per investimento. Il ‘diritto alla casa’ ovvero la casa come servizio fondamentale e basilare per un’equa convivenza sociale diventa una delle rivendicazioni dei sindacati, che in questo momento sono in grado di esercitare una pressione sui partiti e sul Parlamento. Si giunge, dopo un lungo periodo di trattati-


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ve e lotte7, che esprimono il disagio sociale e le rivendicazioni popolari, all’approvazione della legge n. 865/1971 che già nel suo titolo denuncia tutta la complessità del problema e del momento: “Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sull’espropriazione per pubblica utilità, modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942 n. 1150, 18 aprile 1962 n. 167, 29 settembre 1964 n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia agevolata-convenzionata”. La 865, aldilà della complicata dizione, è una legge sulla pianificazione del territorio che interviene sia sull’edilizia residenziale (PEEP)8 sia sui piani per gli insediamenti produttivi (PIP) e soprattutto è il primo provvedimento legislativo che articola organicamente le competenze fra Stato e Regioni in quanto prevede che i fondi stanziati per l’edilizia economico-popolare, previo un coordinamento nazionale in sede di Comitato per l’Edilizia Residenziale (CER), siano utilizzati dalle Regioni in base ai loro piani urbanistici tramite gli IACP regionali. I PEEP, va ricordato, si avvalevano del diritto di superficie, rispetto al quale la proprietà del bene edificato veniva vincolata ad un determinato periodo di anni (da 60 a 99) e separata dalla proprietà del terreno su cui era costruito, al quale tuttavia la legge riconosceva un diritto di edificazione minima secondo quanto sancito dalla Corte Costituzionale in precedenza: il problema, trattato in diversi arti7 La situazione era evidente nelle numerose manifestazioni e scioperi su vertenze specifiche (contratti, condizioni di lavoro ecc.), di carattere più generale (casa, diritti, squilibri Nord-Sud/gabbie salariali ecc.) e spesso riferite a questioni internazionali (es. Cuba e Vietnam). 8 PEEP Piani per Edilizia Economico Popolare, che potevano coprire fino al 60% del fabbisogno residenziale previsto dal PRG.


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coli, prevedeva un’articolata casistica di situazioni in tema di esproprio delle aree che, in qualche modo, teneva conto del mercato delle aree sia all’interno dei perimetri dei centri edificati come all’esterno sia in situazioni particolari (es. raddoppio dell’indennizzo a favore del coltivatore diretto) al fine di non incorrere in situazioni di incostituzionalità. Ma, tutto questo, non c’è bisogno di rilevarlo, andava comunque ad intaccare il sistema proprietà-rendita-speculazione; un sistema che, come si è visto, ha sempre avuto saldamente in mano le leve dell’economia e della politica italiana. Così, l’attuazione della legge subì ritardi di vario tipo fra cui la proposta di un suo inserimento nel quadro dei Sistemi Integrati, che avrebbero dovuto guidarne l’attuazione: un tentativo proposto e propugnato in chiave efficientistica sulla spinta delle grandi compagnie immobiliari (FIAT / SITECO, ENI / TECNECO, IRI, TECNOCASA ecc.) che inseriva la legge in un quadro di coerenze territoriali e di iniziative multi-settore. La proposta non produsse, comunque, alcun risultato utile, se non quello di ritardare gli effetti della legge e come ebbe a denunciare lo stesso relatore Michele Achilli9 in Parlamento, evidenziando la politica ostile del Ministro del Tesoro — e di conseguenza la Banca d’Italia — per cui i provvedimenti privi di risorse potevano considerarsi “carta straccia perché… non assistiti da una politica coerente di finanziamenti e quindi di programmazione”10. Michele Achilli, deputato PSI, militante della Sinistra socialista di Riccardo Lombardi. 10 Cfr. Resoconto stenografico della 297.a seduta del Senato del 25 giugno 1974, in cui le parole riferite all’on. Achilli sono riportate dal sen. Premoli, che denuncia come alla Corte Costituzionale si stiano già esaminando gli art. 35 e 13 della legge 865. 9


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Siamo ancora una volta di fronte al tema legge-gestione della legge. E, come ebbe a scrivere Riccardo Lombardi, ricordando l’impegno non sopito per la riforma urbanistica, la conquista dell’approvazione della 865 rappresentava solo un primo passo: vincere una battaglia, non significa vincere una guerra, ma questa battaglia di apertura doveva essere vinta se si voleva perseguire la guerra e vincerla. […] di vitale importanza sarà) la gestione che di questa sia pur limitata legge verrà fatta; e sappiamo benissimo per dura esperienza, che non basta una riforma se poi a gestire questa riforma vengono chiamati coloro che le sono indifferenti o avversari. […] in Italia anche le poche riforme realizzate sulla carta, sono in generale affidate ad una gestione pubblica e amministrativa che non è convinta né della loro bontà né della loro utilità. Ed è questa una delle ragioni per cui una politica riformatrice non può essere concepita illuministicamente, ma deve essere legata a un generale movimento di massa a monte e a valle; a monte per imporre la legislazione riformatrice, a valle per garantirne la gestione, cioè la concreta realizzazione11.

I primi fondi arrivano nel 1974, con il ministro Salvatore Lauricella12 che riesce a varare il provvedimento “Norme per accelerare i programmi di edilizia residenziale”. Successivamente la legge 5 agosto 1978, n. 457 renderà più fluido il rapporto fra finanziamenti e azioni regionali e tutto potrà andare avanti fino alla sentenza n. 5/1980 con cui la Corte Costituzionale dichiara illegittimo il sistema di indennizzo previsto dall’art. 16 della legge 865, R. Lombardi, Prefazione al libro di M. Achilli, Casa: vertenza di massa, Marsilio, Padova 1972 p. 9. 12 S. Lauricella, PSI, è ministro dei Lavori Pubblici dal luglio 1973 al novembre 1974 nei governi Rumor IV e V. 11


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modificato con l’art. 14 della legge 10, in quanto il valore agricolo del terreno è giudicato ‘irrisorio’. Una storia già vista, che puntualmente si ripete con conseguenze sempre più disastrose. Che la casa sia in questi anni un tema centrale lo dimostra la nascita di un sindacato appositamente costituito fra gli assegnatari di case popolari (ex INA-Casa, GESCAL) e gli inquilini assegnatari di case economiche popolari, che nel 1972 sottoscrivono un documento per la costituzione di un organismo unitario13 finalizzato a “garantire ad ogni lavoratore italiano il diritto alla casa come un servizio sociale” ovvero “un alloggio adeguato alle esigenze del nucleo familiare” (Roma 18 giugno 1972). Il documento è particolarmente chiaro nella sua collocazione e nei suoi obiettivi, infatti: “La lotta per la riforma della casa ha segnato una svolta decisiva a partire dal 1969, da quando Il Sindacato Nazionale Unitario degli Inquilini e Assegnatari (SUNIA) nascerà, inserito nella CGIL, nel dicembre dello stesso anno, 1972.

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cioè le tre grandi organizzazioni sindacali dei lavoratori italiani hanno assunto unitariamente questa riforma ed altre ancora, quali quella della sanità, della scuola, dei trasporti come obiettivo di forma permanente della propria iniziativa e della propria azione”, ma la casa, continua il documento, si inserisce nel quadro della riforma urbanistica generale in accordo e in raccordo con la programmazione economica, con la finanza locale e deve farsi carico sia della manutenzione del patrimonio abitativo pubblico che del problema degli affitti, introducendo il tema del ‘canone equo’ e del ‘canone sociale’. Il tema verrà ripreso alla fine del decennio con il provvedimento legislativo n. 392/1978 sulla “Disciplina delle locazioni degli immobili”, più noto come ‘equo canone’, che interveniva sul mercato degli affitti che dal 1945 andava avanti alternando il blocco delle locazioni a parziali liberalizzazioni. Anche su questa materia era intervenuta la Corte Costituzionale nel gennaio 1976 rilevando l’anomalia di un blocco che si era trasformato da temporaneo in permanente e quindi lesivo dei diritti dei proprietari. La necessità di riordinare l’intero settore diventa urgente e interessa tutte le forze politiche anche in rapporto al numero di cittadini coinvolti. Le prime proposte appaiono insoddisfacenti e inadeguate: il PCI propone di intervenire rivalutando la rendita catastale e basando su quella la determinazione dell’importo, la DC uno sconto del 5% sul valore di mercato dell’alloggio e il Psi un canone corrispondente al 3% del valore dichiarato dal proprietario ai fini fiscali. Su questo tema si inseriscono per la prima volta in modo organico le organizzazioni sindacali, che avevano un loro rappresentante nel Consiglio direttivo INU


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e si stavano caratterizzando per un’azione propositiva sul territorio, che suggeriscono di calcolare il canone sul rapporto fra costo di costruzione dell’immobile e prezzi del terreno valutati sulla base di esproprio per come stabilito dalla legge n. 865/71. Il progetto governativo (ministro Gaetano Stammati, indipendente di area DC) affina la proposta e individua il “valore locativo” come prodotto dalla “superficie convenzionale” per il costo di produzione, ovvero della superficie dell’alloggio comprensiva degli accessori e il suo costo di costruzione, che è parametrato in base all’area geografica d’intervento (Centro-Nord e Sud) e relazionato all’immobile (rurale, civile, popolare, signorile ecc.), al suo stato di conservazione, all’epoca di costruzione, alla zona e alle dimensioni della città in cui si trova; si definiscono così parametri e coefficienti generali cui far riferimento per la determinazione dell’importo massimo di locazione. Su questo importo — che riguarda solo le abitazioni costruite prima del 197514— si vanno ad applicare eventuali rivalutazioni in relazione al costo della vita e le possibilità di recessione dal contratto. La legge sarà operante, sia pur in un quadro di compromessi ed evasioni, per 20 anni fino all’emanazione della legge n. 431/1998 “Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo” che abroga l’equo canone e individua due percorsi alternativi, quello libero con l’imposizione di una durata di almeno otto anni e quello ‘amministrato’ di durata minore con possibilità di detrazioni fiscali per il proprietario.

Per quelle costruite dopo il 1975, il costo viene stabilito, ogni anno, con decreto presidenziale.

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Nel 1971, l’INU, sotto la presidenza di Edoardo Detti15, tiene un convegno nazionale a Roma sul tema “Politica della casa e politica del territorio: le contraddizioni delle leggi approvate e proposte” in cui anticipa quello che sarà il programma del nuovo corso dell’Istituto dopo la crisi del ‘68. Un programma che emerge l’anno successivo al XIII congresso nazionale che si svolge presso il Centro studi della Cgil di Ariccia e che ha per tema “Lo sfruttamento capitalistico del territorio”. A oltre quaranta anni di distanza, nella generale confusione (o, secondo i più, il superamento) delle ideologie, del marxismo, del concetto stesso di ‘sinistra’, queste parole sembrano far parte di un manifesto superato, lo slogan di un periodo colorato da rivoluzionari borghesi, sognatori e inconcludenti, ma di fronte al consumo di suolo (costante, ingordo, indiscriminato), alla distruzione del paesaggio (inesorabile, sistematica), alla crescita urbana (volutamente) incontrollata, forse quelle tre parole ‘sfruttamento’, ‘capitale’, ‘territorio’ hanno ancora una loro disperata attualità. Il tema, infatti, stava ad indicare non solo una precisa e inequivocabile scelta di campo, ma la stessa impostazione dialettica del congresso, per la prima volta a “tesi”16 , testimoniava la volontà di un confronto aperto che non voleva eludere la discussione interna, ma al conEdoardo Detti viene considerato il presidente della rifondazione dell’Istituto dopo le contestazioni di Napoli. Succede, infatti, dopo un breve periodo di transizione retto da Paolo Barile, alla direzione INU caratterizzata dalla relazione con il Parlamento e con il Governo e rappresentata da Camillo Ripamonti. 16 Le Tesi furono pubblicate sulla nuova rivista dell’INU, «Urbanistica Informazioni», strumento di informazione e lavoro, che prende l’avvio sotto la presidenza Detti ed è diretta da Edoardo Salzano. Si vedano, in proposito, i numeri 2/72 e 3/72. 15


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trario esplicitarla per renderla vivificante per la sopravvivenza stessa dell’Istituto. Le tesi anticipavano quanto si svilupperà nel dibattito sull’urbanistica negli anni ‘80, che ha visto, da una parte quanti sostenevano la necessità di un totale ripensamento disciplinare che doveva passare per una nuova visione culturale e per la definizione di strumenti alternativi (superamento del PRG) e, dall’altra, coloro che pensavano di poter ammodernare la disciplina dall’interno, agendo cioè sul regime dei suoli e facendo leva sui temi della gestione (modello Bologna). Oggi, alla luce dei mutamenti legislativi e della pratica urbanistica degli ultimi decenni, è relativamente facile comprendere e dar conto di questo dibattito, ma nel 1972, tre anni prima che i comuni italiani diventassero ‘rossi’ e che le Regioni avviassero nel bene o nel male le loro politiche, la capacità di approfondimento disciplinare all’interno dell’INU si configurava preveggente rispetto alle tendenze che si andavano maturando e si poneva, rinverdendo gli anni ‘60, come libera agorà di discussione e approfondimento. La relazione di Detti ad Ariccia dà conto della complessità e delle incertezze in cui sta dibattendosi l’urbanistica come disciplina, che riflette tutte le difficoltà culturali e politiche del momento. Come ha osservato Franco Girardi “il presidente Detti nel discorso inaugurale ebbe cura di ricordare che fin dal ’64, al tempo del congresso di Firenze17, ci si era resi conto che l’INU andava perdendo credibilità. Non aveva più senso Ci si riferisce al X Congresso “un ordinamento urbanistico democratico: forze, organi, regolamento della legge”, Firenze 23-25 ottobre, 1964, cui Detti partecipa con una relazione riportata su «Urbanistica» n. 4243/1964, pp. 132-4.

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il flirt… tra l’Istituto e il Governo… nuovi interlocutori andavano cercati altrove, tra i lavoratori, direttamente interessati a un migliore assetto delle istituzioni e del territorio” e ancora ricorda che “ci si voleva impegnare non più solo sulla denuncia dei mali e sulla proclamazione delle virtù dell’urbanistica; si voleva scendere nel più profondo dei fatti, per riconoscere le cause dei mali”18. Una fase di transizione che impone all’INU di rivedere la sua stessa missione fondativa, ovvero di scindere ogni rapporto istituzionale con il ministero e il governo per aprirsi a contributi diversificati, che passano oltre che per il sindacato e per un primo coinvolgimento della magistratura sui temi del territorio e dell’ambiente, per un’organica collaborazione con le Regioni, immaginate come protagoniste di una proposta per una nuova legge urbanistica nazionale19. Non era certo una situazione semplice per l’INU in cui ai problemi di cui sopra andavano ad assommarsi le difficoltà finanziarie e organizzative interne, che il taglio del rapporto con il Governo, inevitabilmente, aveva aggravato. Restava tuttavia aperto un dialogo sia con la sinistra con il PSI20 e con il PCI, sia con gli organi tecnici del ministero dei Lavori pubblici, grazie all’instancabile e coraggiosa opera di Michele Martuscelli, a lungo (1965-83) direttore generale dell’Urbanistica di quel ministero. A tutto questo si assommava una dinamica disciplinare che andava sempre più divergendo e che si maSi veda F. Girardi, “Storia dell’Inu. Settant’anni di urbanistica italiana 1930-2000”, Ediesse, Roma 2008 pp. 73-74. Il volume mi è stato gentilmente segnalato da Giuseppe De Luca, che ringrazio. 19 Si veda, il 13° Convegno nazionale su “L’iniziativa urbanistica delle regioni”, Perugia 23-25 novembre 1973. 20 Si veda il volume di M. Achilli, Casa, vertenza di massa, Op. Cit. 1972. 18


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nifesterà apertamente anche attraverso il cambio di direzione della sua rivista «Urbanistica»21. Finisce nel 1977 quella linea trans-generazionale in cui potevano ritrovarsi tanto i maestri come Luigi Piccinato o Giuseppe Campos Venuti, Vincenzo Cabianca o Mario Ghio, quanto i più giovani, che si formavano e andavano emergendo nelle sezioni regionali, e che, in fondo e nonostante tutto, si riconoscevano in quella concezione per cui “l’urbanistica non è soltanto dottrina o scienza pura, né solo arte, né fredda tecnica o semplice prassi: è l’uno e l’altro insieme, è cultura, nel più completo senso della parola, è vita, vissuta e sognata”22. Il tema della continuità/discontinuità delle politiche dell’INU è presente fin nelle brevi note di introduzione a firma Edoardo Detti al documento sulla politica della casa del 1970: Come negli altri documenti pubblicati nell’ultimo decennio, anche questa volta l’Istituto ribadisce i criteri fondamentali per una nuova legislazione urbanistica, per il riordino dell’intervento pubblico, ancora una volta l’asse delle proposte formulate è il controllo pubblico dell’uso del territorio, attraverso la separazione fra il diritto di proprietà del suolo dal diritto di edificare e l’esproprio delle aree edificabili. […] A differenza che nel passato, però, quest’ultimo documento non è una sollecitazione in termini culturali e scientifici agli organi dell’esecutivo ed ai responsabili ministeriali ma intende essere un contributo all’azione del movimento popolare e delle organizzazioni dei lavoratori

Cambio di direzione di Urbanistica avviene sotto la presidenza di Alessandro Tutino (1977-83). 22 Si veda G. Astengo, in «Urbanistica», n. 7, 1951, a presentazione di un articolo su Giovanni Michelucci. 21


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che hanno preso coscienza dell’attuale condizione dell’insediamento umano nel nostro paese e si sono fatti protagonisti della vertenza sulla casa23 .

Ed è con la stessa coerenza di impostazione che nella relazione al suo ultimo congresso da presidente (Roma, 1977)24, Detti traccia un veloce bilancio del suo mandato che passa dalla dominante vertenza sulla casa all’equo canone, dalla cementificazione delle aree costiere all’abusivismo, dal dissesto idrogeologico alla mancanza di criteri comuni nelle diverse politiche e nelle iniziative legislative regionali per il territorio, e giunge fino alla crisi delle città piccole e medie e alla necessità di disporre di finanziamenti e strategie per il ‘riuso’ del patrimonio edilizie esistente.25 Ma su tutto, resta dominante l’affermazione di una visione unitaria del territorio, che Detti puntualizza nell’incipit del suo discorso in riferimento all’argomento generale: “Il tema è un taglio per fare un bilancio complessivo, in cui l’agricoltura è presa a simbolo di tutte le contraddizioni che hanno generato gli squilibri che, in senso sociale ed economico, il paese sta pagando” e, potremo aggiungere, sta continuando a pagare. Il documento INU sulla politica della casa del novembre 1970 è pubblicato insieme alla Sintesi del presidente del consiglio, on. Colombo (17 settembre 1970), al Documento unitario delle tre centrali sindacali (23 settembre 1970), alla Dichiarazione della giunta dell’INU (28 settembre 1970) e al Comunicato comune governo, Ggil, Cisl, Uil sulla politica della casa (2 ottobre 1970) in «Urbanistica Informazioni» n. 1971 pag. 2-12. 24 Si tratta del XV Congresso nazionale INU, Roma 13-15 maggio 1977, sul tema “Agricoltura e governo del territorio”, in cui E. Detti fa una relazione dal titolo Dai rapporti di produzione agli strumenti per il controllo dell’uso del territorio in “Atti”, Marsilio, Venezia 1978. 25 A questo proposito va ricordato il seminario nazionale “La riconversione urbanistica”, Milano 20-22 febbraio 1976, sulle “5 città del Centro-Nord” (Milano, Torino, Venezia, Genova, Firenze) che avevano cambiato amministrazione. 23


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Tutto è presente e compartecipe. Territorio extraurbano e vita nelle città sono i due grandi temi che accompagneranno la fine del Millennio attraversati dalla questione ambientale, dal paesaggio e dalle relazioni sociali ed economiche, che regolano comportamenti collettivi e individuali. La legge 865/71, o come venne chiamata la ‘riforma della casa’, aveva segnato un indubbio passo avanti nella possibilità dei ceti medio-bassi di poter avere un’abitazione dignitosa e sicura, ma aveva lasciato aperto il tema della legge quadro urbanistica. Con la 865 si apre anche un nuovo grande capitolo di intervento sul territorio che dà l’avvio ad una fase in cui la centralità operativa passa per i piani di settore, sui quali vengono erogate risorse che, in teoria, dovrebbero riverberarsi in modo equilibrato attraverso la lente-guida dei Piani regionali in grado di valutare e risolvere i problemi emergenti sul territorio. Nel tentativo di dar risposte ad alcuni di questi problemi, vengono varate, sempre nel 1971, sia la Legge n. 426 “Disciplina del commercio” sia la legge n. 1102 “Nuove norme sullo sviluppo della montagna” che riprende, rinnovandole, le Comunità Montane26 con la finalità di promuovere “la predisposizione e l’attuazione di programmi di sviluppo e piani territoriali… ai fini di una politica generale di riequilibrio economico e sociale” (art. 4). La legge n. 1102 pone fin da subito due problemi: quel-

Cfr. art. 4. In realtà le Comunità Montane erano state istituite con il DPR n. 987/1955, dove all’art. 13 si stabilisce che “i Comuni compresi in tutto o in parte nel perimetro di una zona montana possono costituirsi in consorzio a carattere permanente denominato Consiglio di Valle o Comunità Montana”.

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lo di avere un ente individuato in base alla sua collocazione geografica (l’altezza sul livello del mare) e quello di spostare il problema della pianificazione dalla risoluzione degli squilibri e quello della valorizzazione da ambiti di integrazione economica e sociale ad ambiti basati sull’omogeneità dei territori. Un’omogeneità per di più fondata, nella quasi totalità dei casi, su condizioni di marginalità e sottosviluppo, di lontananza e di scarsa accessibilità (viabilità e trasporti) dai centri maggiori e più industrializzati. In poche parole si evadeva ancora una volta il problema della pianificazione in cambio di qualche incentivo per fallimentari localizzazioni industriali, per rari progetti turistici che, nel migliore dei casi, si traducevano in programmi di manutenzione a protezione della montagna: utili certamente ad una temporanea cura dei luoghi, ma non sufficienti per frenare l’esodo dei residenti e favorire uno sviluppo alternativo e attrattivo a quello delle concentrazioni urbane. La disciplina sul commercio, varata in parallelo, scaturisce dall’esigenza di bilanciare le attività di vendita a posto fisso rispetto ad una domanda che andava sempre differenziandosi e diventava sempre più mobile. Il provvedimento era riferito alle aree urbanizzate, dove si poneva il problema della razionalizzazione della vendita al dettaglio dei generi di largo consumo, per ‘favorire una più razionale evoluzione dell’apparato distributivo’ attraverso una maggiore funzionalità e produttività del servizio da rendere al consumatore, ricercando in raccordo con il piano urbanistico comunale il miglior equilibrio realizzabile fra i punti commerciali e la presumibile capacità di consumo della popolazione residente e fluttuan-


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te. Un’esigenza che sembrava quanto mai opportuna in relazione al manifestarsi di una sempre più ampia e diffusa articolazione e complessità del sistema distributivo. Le scelte che intervenivano sull’apparato commerciale avrebbero dunque dovuto supportare le previsioni e agire all’interno dei PRG, ma questo non avvenne. Nei suoi 20 anni di vita, i piani del Commercio sono stati adempimenti a latere, la cui presenza diventava sempre più ininfluente man mano che il territorio (e non più solo il tessuto urbano) doveva fare i conti con la grande distribuzione e la nascita dei mega centri commerciali. Nel 1998, anche per evitare la sovrapposizione di competenze fra Regioni e comuni, spesso conflittuale, si giungerà all’abolizione della legge con il cosiddetto decreto Bersani, il Dlgs. 114 che, sia pure con una centralità di ruolo delle Regioni, liberalizza le attività: non più piani, tabelle merceologiche, orari di apertura vincolanti e quant’altro. Prioritarie appaiono le esigenze dei grandi distributori, a scapito della battaglia, considerata ormai persa, a sostegno dei piccoli esercizi, ma il decreto non sapeva ancora di dover fare i conti con un ulteriore cambiamento che si stava già profilando, quello degli acquisti on line, che definirà nuovi schemi di vendita e rivoluzionerà il modello di distribuzione territoriale. La svolta della Legge Bucalossi Il rafforzamento delle leggi di settore va di pari passo con le reiterate sentenze della Corte costituzionale in materia di diritti e vincoli, che contribuiscono a indebolire notevolmente le attese e le speranze di riforma. L’attenzione sembra concentrarsi su alcuni problemi come la salvaguardia


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dei centri storici27, l’affermazione di diritti collettivi (garanzia della quantità dei servizi, accesso alla casa/edilizia popolare, ecc.), il contenimento della crescita dei centri urbani e il tentativo di preservare, almeno parzialmente, le aree agricole di pianura dall’invasione edilizia a bassa densità28. Il dibattito si sposta dall’eliminazione — o comunque dal contenimento — della rendita fondiaria al contenimento del diritto di edificazione come connaturato ai suoli. La stessa Associazione dei Comuni italiani sollecita una revisione del rapporto fra proprietà e ius aedificandi, secondo quanto indicato (o quanto meno adombrato) dalle sentenze della Corte Costituzionale, anche per evitare lo stillicidio della reiterazione della legge del novembre 1968 sulla proroga dei vincoli. Si arriva così alla legge n. 10 del 28 gennaio 1977, nota come legge Bucalossi29 dal nome dell’allora ministro dei Lavori pubblici, che abbandona l’idea del contrasto alla rendita fondiaria e imbocca quella della sua tassazione. Si passa così dal modello ispirato alle socialdemocrazie del Nord Europa in cui la casa è un servizio connaturato alle esigenze delle diverse età e della composizione del nucleo familiare a quello di tipo franceCarta di Gubbio (1960) sulla salvaguardia e risanamento dei centri storici e la successiva Commissione Franceschini (1962-64) sulla tutela e valorizzazione del patrimonio storico-artistico. 28 Si fa riferimento alla cosiddetta legge “ponte”, n. 765/67. 29 Cfr. Il riferimento è a Pietro Bucalossi, illustre clinico, prima socialdemocratico poi repubblicano e Ministro dei LLPP. La legge n. 10 /77, Norme per l’edificabilità dei suoli, che ha avuto molti meriti, ma soprattutto il triste destino di veder spezzato il legame fra oneri versati e investimenti sociali (urbanizzazione primaria e secondaria) da un improvvido provvedimento del Governo Amato (Testo Unico per l’edilizia, n.380/2003) che poneva i comuni in un conflitto di interessi palesi, in quanto la quasi totale liberalizzazione d’uso degli oneri fa sì che l’aumento dell’attività edilizia sia il miglior modo per incrementare le casse comunali. 27


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se in cui la casa è un bene, sia pure relazionato ad oneri sociali e ai programmi statali di intervento. La legge si basa sulla considerazione fondamentale che ogni trasformazione sul territorio deve essere ‘autorizzata’ e afferma di fatto il principio che ogni suolo ha una sua intrinseca capacità edificatoria valutabile in denaro da restituire, almeno in parte, alla collettività attraverso il pagamento di ‘oneri’ che attengono sia all’urbanizzazione del suolo sia alla costruzione del manufatto. È un ribaltamento dei principi di base dei precedenti progetti di riforma. La formulazione in merito al regime dei suoli e all’edificabilità è chiara, così come l’inserimento della determinazione sugli indennizzi di esproprio che è relazionata alla legge n. 865/71, e che darà l’occasione alla Corte Costituzionale di intervenire nuovamente ribadendo il concetto dell’incongruità del valore agricolo30. Nonostante tutto la legge, che certo non ha — né forse poteva avere — le caratteristiche di una legge organica in sostituzione della LU ‘42, fa propri alcuni punti del dibattito sulla riforma come il tema dell’edilizia abitativa e il programma poliennale d’attuazione, ed inoltre introduce sanzioni amministrative e penali per quanto costruito in modo difforme o senza autorizzazione. Franco Corsico e Luigi Falco scrivono, all’indomani della sua approvazione, come la legge vada letta in relazione alla drammaticità della crisi economica del paese e al fatto che vi sia “una diffusa rassegnazione” tanto da far considerare

30 Nel 1980, infatti, è ancora la Corte Costituzionale ad intervenire (sentenza n.5/80) dichiarando illegittimo il meccanismo di indennizzo previsto dell’art. 16 della L.865 – modificato dall’art. 14 della L. 10 – che giudica il valore agricolo del terreno non congruo con quanto previsto dalla Costituzione.


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la proposta come “uno dei punti più avanzati di equilibrio che si potessero ottenere in questo quadro di rapporti di forza fra le componenti sociali ed economiche del Paese”31. Questa sarà anche la posizione dell’INU, che nello stesso anno affronta il tema “Agricoltura e governo del territorio” al già ricordato XV Congresso nazionale (Roma, maggio 1977) che segue come in una logica di complementarietà il Convegno di Milano sulle cinque maggiori città del Nord. Il presidente, Edoardo Detti in apertura affronta la tematica nella sua drammaticità complessiva, e inizia: La città e il degrado che hanno investito tanto le città grandi e piccole che i territori esterni, sono di fatto complementari e sono la conseguenza di tutti gli aspetti del travolgente esodo forzato

che, con il fallimento della programmazione, non ha avuto argini ed ha prodotto sul territorio squilibri e distorsioni con la complicità dei piani regolatori impostati su previsioni eccessive, senza regole di fasi e di programmi, [… che] hanno soddisfatto in modo incontrastato la rendita fondiaria ed edilizia

e ancora per le zone agricole, o comunque per le zone extraurbane, i piani regolatori generali hanno fornito le norme più svariate, empiriche, che sono arrivate prima del decreto ministeriale del ‘6832 […] fino ad 1 mc/mq, cioè una bassa densità urbana33.

31 Cfr. F. Corsico, L. Falco, La legge 28 gennaio 1977, n.10, Norme per l’edificabilità dei suoli: iter e primi commenti, CELID, Torino, 1979 p.4 32 Si fa riferimento all’introduzione dell’indice massimo di 0,03 mc/mq che, tuttavia, riguardava solo i nuovi PRG. 33 Cfr. E. Detti, Gli strumenti per il controllo dell’uso del territorio, in INU, Agricoltura e territorio, Marsilio editori, Venezia 1978 pp. 11-25.


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La relazione tratta poi il tema dell’unità congruente di pianificazione che vede il superamento dei limiti comunali, quello delle attese nei confronti delle Regioni e indica, infine, nella necessità di considerare unitariamente “risorse, produzione, ambiente, beni culturali, ecologia, occupazione, casa, servizi” il cardine per un nuovo modello di sviluppo che veda il suo principale obiettivo nelle finalità collettive e non nel mantenimento degli apparati. Una riflessione ed una prospettiva importante, che verrà via via smantellata, e adattata alle necessità di bilancio dei comuni (euro, patto di stabilità) e che sarà travolta dal meccanismo perverso per cui la concessione di nuove quote di costruzione diventerà la grande risorsa della finanza comunale, favorendo — se mai se ne fosse ravvisata la necessità — ancora una volta le attività speculative in edilizia. La legge n.10/77 non agisce, dunque, sul piano della legge quadro, ma su quello di un possibile controllo delle modalità di attuazione dei PRG attraverso la possibilità di recuperare risorse per realizzare le quote pubbliche in materia di opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nonché in quello, più volte invocato, di rapportare le previsioni di piano a tempi certi di realizzazione. Un punto fondamentale nel processo di evoluzione e gestione del piano regolatore, che tuttavia, vede fin dall’inizio profilarsi non poche difficoltà che si palesano ben presto nella mancanza di finanziamenti e in un’insolita e inaspettata proroga della validità dei piani di ricostruzione (ancora loro!) che viene fatta proprio nel 1977 e che riguarda oltre 200 comuni (fra questi: Ancona, Pisa, Viterbo, ecc.) che, per la loro stessa natura ibrida di piano in parte generale ed estesa all’intero comunale e in parte attuativa, se fossero de-


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caduti avrebbero prodotto gravi danni ai territori e/o alle opere previste, delle quali molte in corso di realizzazione. Considerato assolto il problema complessivo, l’attenzione torna alle leggi di settore, fra le quali è da segnalare per la quantità di azioni che riuscirà ad innescare, la legge n. 1 del 3 gennaio 1978, “Accelerazione delle procedure per l’esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali” che, all’art. 1 comma 5, stabilisce che i progetti per le opere pubbliche di fatto sono svincolati delle previsioni di PRG tanto che, se difformi, costituiscono ipso facto variante allo stesso. Gli organi territoriali debbono esprimere parere in merito e il loro parere è obbligatorio ma non vincolante. Si stabiliscono così canali veloci ed agevolati per opere considerate importanti e urgenti, che proprio per questo loro carattere sono ‘al di sopra’ dei PRG e, disponendo di finanziamenti, hanno un loro percorso e una loro totale autonomia. Si costruiscono carceri, ospedali, grandi infrastrutture stradali, palazzi di giustizia ed altre opere assecondando così le richieste delle grandi agenzie che agiscono nell’edilizia siano esse private, a partecipazione pubblica o di tipo cooperativo, che sembrano avide di tuffarsi nei programmi nazionali e nelle grandi manifestazioni culturali e sportive. Parallelamente si consolida il tema del recupero del patrimonio edilizio esistente che presenta un interesse notevole sia in relazione al rallentamento del consumo di suolo, in quanto interviene in aree già edificate peraltro generalmente di pregio, sia per la capacità di coinvolgere le piccole e medie imprese edilizie, a basso contenuto tecnologico, che sono fittamente presenti nel Paese. Una politica supportata dalla legge 5 agosto 1978, “Norme per l’e-


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dilizia residenziale”, in cui il Titolo IV (artt. 28-34) è interamente dedicato al “recupero del patrimonio urbanistico ed edilizio esistente” e che si applica in zone particolari individuate dai piani urbanistici mediante “interventi rivolti alla conservazione, al risanamento, alla ricostruzione e alla migliore utilizzazione del patrimonio stesso” senza cambiamento della destinazione d’uso. Lo spirito sembra andare dunque nella direzione del rafforzamento della politica abitativa nei centri antichi, auspicata dalla Carta di Gubbio e dalla Commissione Franceschini e già in atto in molte città italiane, con particolare riferimento all’esperienza di Bologna. Va ricordato come negli anni Settanta il tema della conservazione del patrimonio edilizio storico acquisisca un suo riconoscimento e una sua sistematizzazione anche a livello internazionale con la convenzione sulla Protezione del Patrimonio culturale e naturale (Protection of the World Cultural and Natural Heritage), adottata dalla Conferenza generale UNESCO a Parigi il 16 novembre del 1972, e rafforzata in seguito dalla Carta europea del Patrimonio culturale e dalla Dichiarazione di Amsterdam, che è il documento finale dell’anno europeo del Patrimonio architettonico (1975). La legge italiana si inserisce in questo filone, fino a prevedere l’attivazione dei Piani di Recupero nel caso di complessi di abitazioni e di complessi di immobili, attuabili sia dai proprietari riuniti in consorzio sia dai comuni che hanno ampie possibilità di sostituirsi ai proprietari privati. Gli interventi previsti possono essere supportati da agevolazioni creditizie e sono estesi ai PEEP centri storici, non solo, ma per la prima volta viene data una definizione unificata degli interven-


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ti ammessi. Una materia di impatto rilevante su cui quasi tutte le Regioni interverranno con leggi, provvedimenti, azioni programmatiche e programmi operativi pilota34. Gli effetti saranno positivi almeno per un ventennio soprattutto nelle aree urbane economicamente più dinamiche indipendentemente dalle loro dimensioni, poi le trasformazioni, esaurito il campo del recupero abitativo, si sposteranno al settore delle trasformazioni funzionali e saranno di tale portata che la strategia e i meccanismi della legge del 1978 non saranno più in grado di governarle. Il tema del recupero delle aree storiche si salda con quello della qualità della vita urbana, cui si è già accennato a proposito delle esigenze di partecipazione dei cittadini e dei suoi sbocchi istituzionali, e dà vita ad una nuova sperimentazione urbanistica che va sotto la dizione di “Piano dei Servizi e/o di Piano Quadro delle Attrezzature”. Si tratta di revisioni generali di PRG approvati prima del 1968 che, in quanto tali, non avevano l’obbligo di adeguarsi ai DM 1-2 aprile 1968, anche se risultavano nel complesso assai carenti di aree pubbliche. Un fenomeno che era di particolare gravità nelle aree urbane maggiori e nelle città storiche come Milano, Firenze o Genova. Va rilevato, infatti, che se la portata sociale del decreto era notevole, il testo presentava non pochi margini di ambiguità (su cui poi con tempestività, coerenza e chiarezza sono intervenute le Regioni) perché di fatto consentiva nelle aree a più alta concentrazione edilizia (zone di satuCfr. In Toscana, nel 1971, viene varato il Programma pilota applicato su 4 centri storici: San Giovanni, Pietrasanta, Montepulciano e Castagneto Carducci e affidato rispettivamente agli architetti E. Detti, L. Quaroni, G. Samonà e L. Gazzola.

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razione, zone B) il dimezzamento dello standard che passava dai 18 mq. ai 9 mq. per abitante creando un’endemica carenza di disponibilità di servizi proprio là dove si erano concentrate le nuove quote di popolazione e dove iniziavano a manifestarsi fenomeni di disadattamento sociale, che si sarebbero potuti, se non sanare, almeno mitigare con forti quote di attrezzature pubbliche. Per i centri storici il decreto era ancora più vago, mentre altre deroghe erano previste per i comuni sotto i 10.000 abitanti, che potevano applicare uno standard di 12 mq. con il risultato che praticamente oltre la metà dei comuni italiani negli anni ‘70 poteva legalmente evadere l’obbligo del quantitativo minimo dei 18 mq del D.M. del 1968. La battaglia politica per il Piano dei Servizi diventa quella per il riordino interno della città nella sua dimensione pubblica. Una battaglia ancora possibile, nonostante la fine delle speranze di operare un controllo pubblico tramite l’esproprio o l’acquisizione a prezzi agricoli dei terreni, in quanto il quadro politico stava cambiando (le elezioni amministrative del 1975 avevano segnato un forte aumento del PCI), il paese registrava una crescita urbana inferiore a quella del decennio precedente e i movimenti migratori sembravano stabilizzarsi se pure con un trend di crescita. L’attenzione degli urbanisti sembra spostarsi dal progetto del piano alla sua gestione, rispetto alla quale da una parte c’è la consapevolezza di dare risposte adeguate alle esigenze di partecipazione, dall’altra inizia a delinearsi un senso di sfiducia nel piano, visto dalle nuove amministrazioni di sinistra come qualcosa di riferito ad una impostazione di stampo borghese e socialdemocratica ideologi-


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camente legata ad un’opposizione condotta nei decenni precedenti. Tale sfiducia si palesa dapprima nei confronti del PRG come strumento, che viene svilito nella sua valenza programmatica e di indirizzo: si inizia a parlare con una certa sufficienza di piano disegnato (si vuol far prevalere l’immagine sul complesso programmatico e prescrittivo) e si adombra l’incapacità intrinseca e strutturale del piano stesso di essere attuato per una sua connaturata incapacità di fare i conti con la realtà. Il PRG è il ‘libro dei sogni’, una digressione culturale, un’illuministica illusione di razionalizzare il territorio e le sue logiche. Una tesi che viene avanzata da molte parti e, non a caso, trovava spesso concordi forze di sinistra e moderati. Un atteggiamento che inizia un percorso di sottovalutazione, forse basato solo sull’ignoranza, di un presupposto fondamentale: ovvero che al disegno del piano per come concepito negli anni ‘60 si affiancava sia un programma di riforme e quella urbanistica in particolare, sia un’azione di programmazione, che insieme consentivano di andare oltre la banale visione del piano come un mosaico astratto di colori, ma intenderlo come il ‘patto sociale’, il cardine di riferimento alle varie scale del vivere sociale, in cui si applicava in concreto l’azione delle riforme di struttura. Il Piano dei Servizi interviene in questo momento come ultima possibilità di razionalizzazione riformista dell’azione urbanistica. Infatti, se, come strumento in sé, la sua portata può apparire limitata, esso agisce e persegue tre obiettivi di non poco conto: il primo è quello di una revisione generale estesa a tutto il territorio comunale e mirata ad un uso equalitario dello stesso, il secondo è quello correlato alla sua formazione e alla sua gestione, in quan-


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to la partecipazione dei cittadini era vista come fondamentale sia in fase di progettazione che in fase di attuazione, sia infine per la possibilità di passare in tempi rapidi dal vincolo all’acquisizione delle aree. Dunque il piano, in questa fase tenta un suo rinnovamento, facendosi portatore di una dialettica partecipata e di un confronto diretto con la popolazione, che alcune amministrazioni vogliono e tentano di stabilire. L’esperienza più interessante è quella di Pavia in cui sono all’opera Giovanni Astengo e Giuseppe Campos Venuti, che riescono a stabilire con l’amministrazione comunale un rapporto solido e finalizzato ad una effettiva trasformazione pubblica della città. Il piano, che era stato preceduto dall’adeguamento degli standard a 26,5 mq. per abitante, adottato il 3 febbraio 1976, è noto come il ‘piano delle cinque salvaguardie’ in quanto fondato sul massimo contenimento della crescita, sulla riqualificazione del tessuto edificato la cui trasformazione è individuata come ‘conservativa’, ed è forte di una parte strutturale condivisa che interessa sia l’aspetto funzionale che la protezione del patrimonio industriale e degli ambiti ecologici (Parco della Vernavola e Parco del Ticino). Il piano costruito attraverso meccanismi di partecipazione e consultazione attiva dei cittadini, viene definito dagli stessi amministratori come un progetto di salvaguardia e recupero, che “tende a proteggere e custodire i principali valori sociali, culturali e ambientali che costituiscono il patrimonio ormai già largamente disperso del territorio pavese, consentendo la riappropriazione da parte della collettività, sotto forma di infrastrutture sociali di quartiere o di verde pubblico, di tutti quegli spazi e quei complessi edificati di interesse am-


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bientale (‘contenitori storici’) funzionalmente idonei, e controllando la destinazione d’uso degli immobili al fine di bloccare l’espulsione dal centro storico, avviato alla terziarizzazione, dei ceti meno abbienti che lo abitano tradizionalmente” 35. Negli stessi anni saranno messi in cantiere su questo filone politico-culturale altri piani come Milano che dimensiona la sua crescita su 2 milioni di abitanti, Genova, Napoli e Firenze36, che non solo non riuscirà a portare a compimento il suo Piano dei Servizi ma inizierà un lungo, faticoso processo di revisione del PRG ‘62 che terminerà molti (troppi) anni dopo, solo nel 1992 con l’approvazione di un piano già superato dalla normativa regionale vigente. Con i piani dei Servizi si ha il tentativo finale di tenere insieme le coerenze del PRG estendendo la visione a tutto il territorio comunale. Poi si agirà ‘per parti’, attraverso l’uso spregiudicato delle varianti, individuando emergenze e priorità che, anche quando avranno una notevole portata sociale e culturale, saranno comunque riferite a singole problematiche e, nel tempo evidenzieranno i loro limiti e le loro criticità proprio in questa parzialità di azione e nell’ottica separata con cui si affrontano i problemi e si trattano le aree (es. il centro storico, la collina, il parco agricolo, il bordo urbano ecc.). Il caso più interessante è quello dei centri storici, che ha la sua punta di diamante nel 1973 a Bologna con il suo

35 Cfr. «Urbanistica Informazioni» n. 30, 1976 in riferimento alla relazione del sindaco, Elio Veltri. 36 Cfr. M. Zoppi (a cura di), Servizi e gestione urbanistica. Le esperienze di Firenze, Genova e Milano, con prefazione di E. Detti, Cooperativa editrice universitaria, Firenze 1978.


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PEEP-Centro Storico, che si pone ancora oggi come una particolare e singolare esperienza, fra le poche in cui si sia proceduto in modo sequenziale fra pianificazione urbanistica comunale e piano dell’area antica. Un aspetto che va sottolineato, perché nelle tante rivisitazioni recenti di quell’esperienza, si tende a scindere le due fasi che invece vanno lette insieme non solo per la sequenza temporale che le definisce, ma soprattutto per la comune matrice, tutta pubblica, che le genera. Due circostanze che non sempre vengono messe in adeguata evidenza e che definiscono il momento in cui si afferma l’urbanistica come fondamentale strumento di governo. Nel 1963 Bologna pone il problema del rapporto fra la città e i comuni limitrofi e quello del centro storico visto in relazione con la disponibilità di aree edificabili e i meccanismi di plusvalore che su di esse si vanno scaricare a danno dei ceti meno abbienti. In quello stesso anno iniziano gli studi di Leonardo Benevolo sulla parte più antica della città, cui segue nel 1969 il Piano di salvaguardia, restauro e risanamento del centro storico e, nel 1970, la Variante generale al PRG in adeguamento e in linea con le scelte definite fra il ‘68 e il ’69 con l’assessorato di Campos Venuti, che riduce drasticamente la popolazione prevista e punta sulla diffusione dei servizi (es. nel 1973 sarà adottato il piano per l’edilizia scolastica) e del verde come indirizzo per le nuove periferie. Dunque, quando nel 1973 viene varato dall’assessore Pier Luigi Cervellati il PEEP Centro storico, esso non solo sarà uno strumento innovativo nel metodo e nel merito, ma farà parte di un quadro complessivo e di una serie di approfondimenti a monte e a valle, ai quali farà seguito la parte attuativa che avverrà, superando non pochi osta-


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coli legali attinenti il regime proprietario, per comparti in via Solferino, a San Leonardo, a Santa Caterina di Saragozza e di borgo San Carlo. L’esperienza bolognese ha fatto scuola per la sua logica urbanistica che passava per la sua collocazione all’interno di un piano generale, per la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, in un’epoca in cui molte amministrazioni italiane non conoscevano neppure la consistenza dei loro demani, per la calmierazione della rendita fondiaria (centro-periferia) nonché per la capacità di istaurare e governare il rapporto pubblico-privato che si sommava ai contenuti e alle modalità con cui era stata messa a punto l’analisi sia sugli aspetti sociali della popolazione residente che sull’approfondimento e la sistematizzazione tipologica applicata ai singoli edifici, sui quali si sperimentavano in concreto e con finalità operative (contestualizzate nella normativa) le metodologie già studiate da Saverio Muratori e approfondite e applicate da Gian Franco Caniggia e Paolo Maretto. Alla metà degli anni ‘70 il dibattito e le iniziative urbanistiche sembrano avere una ripresa di interesse. Due importanti centri storici, su cui si applica una legge speciale, sono oggetto di particolari attenzioni: Venezia che inquadra le sue problematiche in un sistema di piano comprensoriale, in cui prioritari sono il recupero della laguna, la questione abitativa e il centro storico e Matera che indice ed espleta un concorso internazionale per il recupero dei Sassi, in cui si segnala il rapporto centro antico-città. Non sono le sole esperienze significative: a Roma si combatte per la protezione dei Fori Imperiali e per il Parco dell’Appia Antica, mentre a Firenze Edoardo Detti e Vit-


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torio Gregotti tentano con il concorso per la nuova università di proporre una revisione del piano del ‘62, che incontrerà fin da subito l’ostilità del Consiglio comunale. Sono episodi, segnali sporadici spesso privi di uno sbocco adeguato e positivo che danno il quadro della differenziazione che si sta delineando fra l’urbanistica come disciplina e l’urbanistica come prassi: potremo dire in modo marxiano che se esiste una riprova del funzionamento dalla validità del ribaltamento teoria-prassi, questo è il territorio, rispetto al quale il caso-Bologna è esemplare e fa scuola. Ma, purtroppo, resta un’eccezione. Paradossalmente, a fronte di sperimentazioni che coinvolgono molte realtà italiane, la teorizzazione disciplinare in questo periodo inizia a differenziarsi fortemente e si scinde fra coloro che si pongono in modo riformista affrontando e tentando di risolvere problemi all’interno dei meccanismi amministrativi istituzionali e quanti si pongono fuori, rivendicando un’azione diretta, popolare, quasi antagonista che appare prioritaria rispetto ad ogni meccanismo di miglioramento del contesto ed è indirizzata alla realtà soprattutto urbana — al centro di un radicale cambiamento di rapporti e relazioni — e basato su azioni di contrasto. I congressi dell’INU danno solo in parte conto di questi mutamenti e, anzi, sembrano oscillare fra le due tendenze. Si pensi alla progressione temporale delle tematiche dei congressi nazionali evidenziate dai titoli: “Lo sfruttamento capitalistico del territorio” (1972), “L’iniziativa popolare per una gestione alternativa del territorio” (1975), “Agricoltura e territorio” (1977) e “La pianificazione territoriale e urbana e la riforma delle autonomie” (1979).


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Una sequenza che vede la prima metà degli anni ‘70 connotata da un marcato impegno di azione sociale e partecipativo (presidenza Edoardo Detti) e un secondo periodo (presidenza di Alessandro Tutino) in cui prevale il tentativo di inserimento di temi meno esplorati e più mirati alla costruzione di un rapporto con gli enti locali e decentrati. Un rapporto che, nel decennio successivo, sfocerà nei temi dei due congressi del 1983 e del 1986, che renderanno evidente la crisi che l’urbanistica, come disciplina, sta attraversando. L’INU passa, infatti, dalle proposte e dalla sperimentazione sul campo alle riflessioni dottrinali, come rivelano gli stessi temi congressuali che diventano: “Pianificazione, Trasformazioni territoriali: crisi, critica, proposte” e “Una politica integrata per il territorio. Rapporto su tendenze, problemi, iniziative delle diverse situazioni”. Il dibattito in corso è riportato ampiamente da «Urbanistica Informazioni», la rivista dell’INU nata sotto la presidenza Detti come ‘strumento agile di informazione’ e diretta da Edoardo Salzano (poi presidente dell’INU), che in questi anni va consolidandosi e diventa la sede prevalente della discussione sui temi nuovi e antichi (dall’abusivismo alla protezione) e su quanto avviene sul territorio sia da un punto di vista istituzionale (attività legislativa nazionale e regionale) che da quello di denuncia di attività e ‘operazioni incongrue’ sia, infine, come momento di confronto su esperienze e realizzazioni italiane e europee. In parallelo, la rivista «Urbanistica»37 subisce cambiamenti 37 Cfr. la successione dei direttori della rivista è così sintetizzabile: Adriano Olivetti (n. 1/1949 nn.10-11/1952), Giovanni Astengo (n. 12/1953 n.


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non solo per la sostituzione del suo direttore storico, Giovanni Astengo, con Bruno Gabrielli e Marco Romano, ma soprattutto per la trasformazione della sua impostazione che passa da strumento di aggiornamento e manuale di lavoro (centrata sulla coerenza del rapporto professione/disciplina) a piattaforma di discussione e dibattito che si rivolge più alle università e ai cenacoli interni all’INU che a quanti operano sul campo. Una tendenza che si rafforzerà con la direzione di Bernardo Secchi a partire dal 1982. Il numero 76/77 del 1982 è quello del passaggio di consegne fra la seconda e la terza fase e fornisce un’ampia visione di questa transizione fin dall’editoriale a firma Gabrielli-Romano che dà conto delle incertezze e della difficoltà nell’affrontare le problematiche di quegli anni. Partendo, infatti, dalle considerazioni sull’arretratezza dell’urbanistica e del sistema italiano, gli autori cercano di analizzare il divario fra disciplina urbanistica e politica evidenziando la contingenza del momento caratterizzato dall’affermarsi della pacificazione fra cattolici e comunisti, noto come compromesso storico. Questo divario generalizzato è segno vistoso del declino del progetto illuminista in quanto concezione di uno Stato Etico che persegue l’emancipazione sociale dei cittadini attraverso la realizzazione del ‘vero’ scoperto dalla scienza, dal ‘giusto’ valutato dalla democrazia, del ‘bello’ codificato dalle arti” a fronte di questo non si può che rilevare co66/1977), Bruno Gabrielli e Marco Romano per il n. 67/1977, Marco Romano (n. 68-69/1978 n. 76-77/1984), Bernardo Secchi (n. 78/1985 n. 101/1990, Patrizia Gabellini (n. 102/1994 n. 111/1998), Dino Borri (n. 112/1999 n. 126/2005), Paolo Avarello (n. 127/2005_n. 150-151/2013), Federico Oliva (dal n. 152/2013). Per una storia della rivista, si veda il documentato saggio di L. Falco, Urbanistica dalla fondazione al 1949, in «Urbanistica» n. 76-77/1982, pp. 6-28.


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me urbanistica e politica possano e debbano trovare “la rispettiva autonomia nello stabilire le proprie regole interne di validità”. La ricerca di nuove evidenze, dunque, passa per “la consapevolezza che esistono molte ‘verità’… e che in democrazia le asserzioni di ‘giustizia’ sono sempre locali e reversibili, (ciò) implica un atteggiamento intellettuale di accettazione di molteplici idee, di convinzione della sua fertilità, e un atteggiamento morale di tolleranza per chiunque non condivida le nostre38.

È l’esplicitazione dell’impossibilità di costruire un’alternativa teorica compiuta — peraltro impossibile e, forse, inutile — in cui urbanistica e politica siano fra loro coerenti, in cui gli esperti e i tecnici si riconoscono ‘organici’ alla politica, o meglio alle politiche come accettazione delle diversità. Una discussione che acquista un ruolo dominante rispetto al periodo precedente, in cui i tecnici si sentivano portatori essi stessi di valori collettivi e si ponevano il problema di una mediazione informata e partecipe fra politica e società e non di una completa adesione ad un credo politico. La figura dell’‘urbanista condotto’ che dal dopoguerra aveva plasmato la formazione e il lavoro degli architetti si esaurisce, infrangendosi contro quelli che vengono definiti “obiettivi irraggiungibili con il sapere contemporaneo”. Nello stesso numero di Urbanistica sono declinate, nei diversi saggi, una serie di analisi che tentano una codificazione della disciplina in vista della sua trasformazione, in cui vi è ancora, sia pure cautamente espressa, l’idea di un’evoluzione temporale positiva, che si sviluppa a partire da un approccio pragmatico riformista di piano (G.

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Cfr. B. Gabrielli, M. Romano, in «Urbanistica» n. 76-77/1982 pp. 2-3.


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Astengo, L. Piccinato), si arricchisce con l’advocacy planning e con i contributi neo-marxisti alla fine degli anni Sessanta, e trova una sua nuova dimensione, dalla metà degli anni Settanta, nel governo interno delle trasformazioni della città e nel contenimento del suo sviluppo, e così il cerchio si richiude […], eravamo partiti dal piano disegnato e, attraverso negazioni sempre più radicali delle componenti morfologiche, abbiamo riscoperto l’autonomia della forma e il disegno del progetto. […] Gli architetti possono riprendersi la loro libertà, recuperando stili e immagini da cui erano stati banditi nella stagione del rigorismo modernista”39.

Una libertà che viene ulteriormente rivendicata da Marco Romano nel suo “Piano urbanistico e metodo scientifico” modulato sulle tematiche “Dall’arte alla scienza — dalla scienza all’arte”, mentre Bruno Gabrielli affronta in modo sintetico ed efficace quelli che definisce gli ‘ingredienti’ dei PRG degli anni ‘70 e che sono nell’ordine: 1. Le motivazioni 2. Sottodimensionare i piani 3. Sovradimensionare i servizi 4. Prevalenza del pubblico sul privato 5. No al terziario (es. Centro direzionale) 6. Sì al secondario 7. Ridurre all’essenziale le reti infrastrutturali 8. Preservare l’ambiente 9. Conservare l’ambiente storico. Principi ed indicazioni valide, ma che non bastano perché riferiti ad una logica lineare operativa che non soddiCfr. Giorgio Piccinato, Le teorie dell’urbanistica italiana: un tentativo di analisi, in «Urbanistica» 76-77, pp. 28- 32.

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sfa più ma che tuttavia non possono essere negati e, allora, proprio per questo, la conclusione diventa oscura: In fin dei conti, si vorrebbe sostenere la necessità di abolire gli ingredienti del piano: e ciò, nell’attuale momento, significherebbe anche mutare, forse radicalmente, istituto del piano40.

Alla fine, tutto resta sospeso, problematico, indefinito: la concretezza del territorio svanisce come la necessità di dare risposte a problemi e indirizzi per il futuro. Disciplina e strumenti si sovrappongono e tutto sembra restare legato all’incerto destino del PRG. La crisi dell’urbanistica è ormai manifesta, nella consapevolezza condivisa, che fra i piani di settore, la legge n.1/78 e quant’altro, il PRG come strumento di previsione non è più in grado di rispondere alle attese dei cambiamenti in atto. Ma, più che chiarirne le cause, si mette sotto accusa la disciplina proprio negli aspetti che l’avevano caratterizzata e connotata fin dal suo manifestarsi e con essi il suo principale strumento, il piano, come dispositivo di convergenza di una molteplicità di interessi e di scale di intervento. Emerge la necessità di definire una ‘teoria urbanistica’, di esplicitare e strutturare con rigore i rapporti con le altre discipline che attengono al territorio e si ricercano modelli e formule da cui far discendere e su cui testare le azioni mirate, rapportabili alle diverse realtà territoriali. Iniziano a configurarsi più dimensioni e più tempistiche, cui conseguono ipotesi di soluzioni diversificate per il lungo termine con grandi scenari per il futuro che vengono giocati sulla lettura

Cfr. B. Gabrielli, Gli “ingredienti” dei PRG, in «Urbanistica» 76-77, pp. 56-57.

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geo-economica e sociale di area vasta, ai quali vengono affiancate proposte ‘realistiche’ per il breve periodo, definite all’interno di micro aree che tendono a sovrapporsi al progetto architettonico. Il quadro politico nazionale e la nascita delle Regioni La metà degli anni Settanta è segnata dalle due tornate delle elezioni amministrative del 1975 e delle politiche del 1976, che danno la misura del cambiamento del paese, segnando l’avanzata del PCI che, alle regionali, conquista il 33,46% con un aumento del 5,6%. La DC è sempre il primo partito con il 35,27%, ma perde il 2,46% del suo elettorato, il PSI ha un lieve aumento e arriva quasi al 12%, mente il PRI è stabile e il PSDI perde un punto in percentuale. L’anno successivo (votano per la prima volta i diciottenni) la DC si rafforza (38,71%) e così il PCI (34,37%), mentre il PSI scende al 9,64%; a questo va ad aggiungersi un forte calo dei liberali (PLI) e un aumento dell’MSI, mentre Democrazia Proletaria non ottiene i risultati su cui aveva contato. Entrano in Parlamento i Radicali di Pannella, rafforzati della campagna del referendum (1974) sul divorzio che vede la vittoria dei no all’abrogazione della legge n. 898 del 1970, che disciplinava i casi di scioglimento del matrimonio, cui seguirà nel 1978 il referendum sull’aborto, legge n. 194/78. L’area di centro sinistra nel suo complesso mantiene lo stesso numero di seggi, ma la sua carica riformatrice è certamente ridimensionata. I provvedimenti legislativi in campo urbanistico assumono una duplice valenza: quella dei cittadini determinati a ottenere un ‘nuovo tipo’ di democrazia più vicino alle


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loro esigenze e quella dello Stato che, invece di innovare strutturalmente il sistema Italia, risponde alle richieste con azioni anche significative mirate al sostegno dell’economia e dell’occupazione, ma che vanno ad aumentare il debito pubblico per coprire i costi delle riforme già varate, innescando così un meccanismo di inflazione peraltro ‘concordato’ fra sindacati e Confindustria attraverso l’accordo sui punti di contingenza41. Si calcola che, fra il 1970 e il 1975, la spesa pubblica abbia avuto un aumento di 7,5 punti di Pil, con una svalutazione della lira di oltre il 20%. Nonostante tutto, è un periodo di benessere in cui il paese va modernizzandosi: sono gli anni delle battaglie di parità di genere (dall’emancipazione alla liberazione), del cambiamento del diritto di famiglia, del divorzio cui fanno da terribile contrappeso le violenze del terrorismo degli opposti estremismi (quello nero con le stragi di Piazza della Loggia a Milano, e dell’Italicus e quello opposto delle Brigate rosse). Sono ‘gli anni di piombo’ che si segnalano fin dal 1972 con l’omicidio Calabresi e giungono fino al 1980 con quello di Walter Tobagi, passando per la strage di Bologna e per quel 1978 segnato dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro, che rappresenta la punta più alta di attacco eversivo allo Stato, ma segna anche l’avvio di una politica nazionale di impegno concreto e reale per sconfiggere il terrorismo, che diventa la priorità nazionale e coinvolge definitivamente nel governo il PCI, guidato

Rileggere queste dinamiche economiche oggi è assai utile e interessante per avere la misura del cambiamento sia nei confronti del tema finanza-spesa pubblica, sia per il rapporto fra finanza e lavoratori; infatti il patto fra Sindacati e Confindustria del 1975 porta i nomi di Luciano Lama e Gianni Agnelli.

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da Enrico Berlinguer42, che si era mantenuto fino ad allora all’opposizione. Il primo segno di apertura avviene con la nomina di Pietro Ingrao a Presidente della Camera, che prelude al Governo Andreotti III detto della non-sfiducia per l’astensione del PCI, che deve fronteggiare nel corso del 1977 gli attacchi della sinistra extra-parlamentare che coinvolgono anche il segretario della CGIL Luciano Lama, contestato dagli studenti alla Sapienza di Roma43. Successivamente, il PCI passa dall’astensione all’appoggio esterno insieme ai partiti del centro-sinistra, segnando l’inizio della sua politica di compartecipazione alla gestione della politica nazionale che si concretizza con il governo Andreotti IV (ancora monocolore) e che si troverà ad affrontare, poche ore prima della sua presentazione alle Camere, il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione degli uomini della sua scorta. Gli eventi si succedono serrati, segnati dal referendum abrogativo della legge Reale (n.152/75 “Disposizioni sull’ordine pubblico”) a quello sul finanziamento dei partiti, dall’introduzione del servizio sanitario nazionale alla chiusura dei manicomi (legge Basaglia, n. 180/78), ma anche da elezioni amministrative parziali che vedono un calo di consensi al PCI e dalle dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni LeoVa fatto un doveroso riferimento alla politica di Enrico Berlinguer nota come “eurocomunismo” che alla metà degli anni ‘70 si differenzia dalla politica sovietica di Breźnev con l’affermazione delle “vie nazionali” basate sull’attuazione di riforme economiche e sociali da perseguire per via parlamentare. 43 Per tutto il 1977 siamo di fronte ad una ripresa, talvolta anche violenta, delle lotte studentesche che rivendicano spazi di creatività (Indiani metropolitani) e un radicale rinnovamento degli ambiti di vita (Autonomi) e si pongono in diretta contrapposizione con altri gruppi organizzati all’interno delle Università come quelle di Comunione e Liberazione. 42


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ne, sei mesi prima della fine del suo mandato sotto la pressione di presunti scandali, cui seguirà i primi di luglio del 1978 l’elezione di Sandro Pertini ‘il presidente più amato dagli italiani’, che resterà in carica fino al 1985. In questo tumultuoso decennio, prendono vita le Regioni. Prima di essere istituite, le Regioni erano state interessate dal “Progetto 80. Proiezioni territoriali”44, affidato al Centro piani e studi economici e pubblicato nel 1969 con l’obiettivo di fornire una base preliminare al secondo programma economico nazionale 1971-75 e che può essere sintetizzato in tre punti fondamentali 1. Necessità di esplorare il possibile modello di sviluppo dell’intera società nazionale in un più lungo di quello normalmente assunto dai programmi economici; 2. Necessità di stretti legami fra politica economica di breve periodo o congiunturale e obiettivi programmatici; 3. Riconoscimento che la pianificazione deve estendersi fino al livello dei singoli progetti di intervento.45

Il testo è permeato dalla finalità costante di assicurare alla società futura “uguale accesso alle risorse territoriali: storico-culturali, naturalistiche, produttive e a quelle della ‘civiltà urbana”46 ma al contempo ribadisce la preoccupazione di riferirlo, come viene detto, ad una situazione di equilibrio non turbata da quelle forme di congestione, di cui spesso i modelli metropolitani sono portatori. L’area

Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, Roma 1969; si veda inoltre G. Ruffolo, Rapporto sulla Programmazione, Laterza, Bari 1973. 45 Cfr. F. Lombardi, La programmazione economica a cavallo degli anni ‘70: il Progetto ‘80 e le Proiezioni territoriali, in “Strumenti Urbanistici”, LEF, Firenze, 1977, p. 238. 46 Cfr. «Urbanistica» n. 57, marzo 1971, pp. 23-24. 44


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metropolitana diventa il concetto forte della pianificazione tanto che spesso sembra sovrapporsi alla stessa dimensione regionale, vista come grande area di concentrazione produttiva ed abitativa, caratterizzata da un elevato sviluppo dell’urbanizzazione. Sono queste le uniche premesse che introducono l’avvio delle Regioni che, in modo singolare, non avviene a seguito di una riforma istituzionale, ma con un trasferimento di funzioni in attuazione sic et simpliciter del dettato costituzionale. Dopo 22 anni di attesa (1948-70) le Regioni si trovano nella singolare situazione di essere enti legislativi inseriti in un contesto istituzionale di Stato centralizzato, rispetto al quale si andranno ad innescare i meccanismi di conflitto di competenze, che verranno affrontati in modo parziale e non sempre congruo fino al 1997 quando la riforma delle Autonomie locali interverrà tardivamente, su un testo non condiviso, non capito e malamente interpretato tanto che non solo non sanerà i conflitti, ma tenderà ad aumentarli. Il 7 giugno 1970, dunque, vengono eletti i Consigli regionali, dando così avvio alla disposizione transitoria, che aveva previsto la loro istituzione entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione stessa. Le Regioni iniziano il cosiddetto biennio costituente in cui redigono e approvano i loro Statuti, mentre l’attività legislativa prende avvio nel gennaio 1972 con l’emanazione da parte dello Stato di 11 decreti che conferiscono le funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni. Ma, per l’esercizio del potere legislativo, la Costituzione aveva previsto due passaggi: una legge che definisse i limi-


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ti del potere legislativo (adempimento assolto con la legge n.62/53) e una legge di principi (o legge quadro) che organizzasse a livello centrale ogni materia delegata. Per quanto attiene all’urbanistica con il DPR n. 8 del 15 gennaio 1972 i poteri dello Stato passano quasi interamente alle Regioni, ma nessuna innovazione interviene sulla ‘cornice’ che resta per l’urbanistica quella della legge del ‘42. In questo contesto si chiede alle Regioni non solo di avviare la programmazione, ma di risolvere, con urgenza, le controversie in materia di vincoli ed esproprio che dal 1968, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, andavano avanti con continue proroghe. 47 In materia di programmazione del territorio, le Regioni potevano avvalersi dei Comitati per la programmazione economica regionale (Crpe) istituiti in base al Primo programma economico nazionale 1966-70, di cui si è detto, e al Rapporto Preliminare cui doveva far seguito il secondo Piano per il periodo 1971-75, con il compito di indicare le future linee di sviluppo su cui calibrare i piani territoriali a scala regionale. È in questo contesto che si apre la questione delle aggregazioni sovra comunali come unità di programmazione e pianificazione urbanistica, che interesserà la prima fase legislativa di molte Regioni48. È una decisa svolta nelle vicende dell’urbanistica italiana, anche se in realtà siamo di fronte ad una riforma parziaL’ultima viene fatta il 30 novembre 1973, legge n. 756 che prevede una proroga di due anni, poi nuovamente estesa per dare la possibilità alle Regioni di legiferare. 48 Non è questa la sede per fare una disamina puntuale delle leggi regionali in materia urbanistica, pertanto ci limiteremo a fornire alcuni riferimenti a leggi, esperienze e strumenti regionali significativi nel quadro nazionale. 47


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le, in quanto come ambiti amministrativi è riferita ad una quadro geografico tradizionale e manca una riorganizzazione del sistema istituzionale degli enti locali più rispondente alla realtà del paese49. Come si è detto fin dall’istituzione delle Regioni nel 1970, il processo di trasferimento delle funzioni di competenza ai nuovi Enti avviene con lentezza e molte contraddizioni, soprattutto mancano le leggi-quadro che dovrebbero fare da guida per una legislazione regionale chiara nei diversi settori50. Il passaggio delle prime competenze alle Regioni in materia urbanistica è l’occasione per valutare le condizioni dell’assetto del territorio sviluppatosi, negli anni del boom economico, in assenza totale di un quadro di previsioni pianificate e di intenti programmatori, dando luogo a pesanti squilibri territoriali e carenze infrastrutturali. Un divario di cui si prende sempre più coscienza soprattutto da parte di alcune forze politiche prevalentemente di sinistra che, non a caso, si sono battute maggiormente per raggiungere l’autonomia regionale. C’è la consapevolezza che per riorganizzare l’assetto del territorio occorra impostare una pianificazione elaborata in stretto rapporto con la programmazione economica che sia capace a sviluppa49 F. Lombardi, con una analisi molto lucida afferma: “una delle più importanti trasformazioni strutturali della società e della gestione del territorio alla quale si è dato corso negli anni ‘70 non sia in realtà una riforma, ma più semplicemente l’attuazione incompleta e inadeguata di una delle riforme inserite nel quadro costituzionale ventidue anni prima.” In A.A.V.V., Strumenti Urbanistici, LEF, Firenze 1977, p. 243. 50 Contraddizioni evidenti ad es. sul paesaggio con la redazione dei piani territoriali paesistici affidata alle Regioni mentre l’imposizione dei vincoli rimane allo Stato, o il rapporto fra aree tutelate dalla 1497 e la localizzazione delle cave e degli impianti passate alle Regioni.


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re il sistema produttivo in modo coerente con le specificità dei vari ambiti regionali e ripensare un’efficiente politica per le infrastrutture. Le Regioni nei primi provvedimenti tentano di ampliare i tematismi della disciplina urbanistica, considerandola non limitata all’edilizia, ma riferita alle problematiche che interessano il territorio e, ad esempio, aprono un confronto con lo Stato centrale sull’ambito della tutela del paesaggio con la convinzione che la mancanza di uno stretto rapporto fra il piano urbanistico, intervento edilizio e salvaguardia del paesaggio, data dalla rigidità della legge del 1939, fosse da superare. Sulla questione si formano tesi dottrinali giuridiche contrapposte, da una parte si rivendica l’esclusiva competenza dello Stato, mentre dall’altra, si sostiene che dovrebbe essere decentrata perché l’urbanistica, di competenza delle regioni, nella sua attuale nozione è intesa come assetto globale del territorio, ed è attraverso l’assetto globale del territorio che si realizza la tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico51.

Una discussione che viene chiusa, ancora una volta, dall’intervento della Corte Costituzionale che afferma che l’urbanistica è “attività che concerne l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati ed è estranea al paesaggio”52. Le Regioni con i primi provvedimenti cercano di legare lo sviluppo economico al riordino del territorio, ma l’attività legislativa non è mai innovativa nonostante il ventennale dibattito sui temi urbanistici e si limita a provVedi M. Ralli, Tutela del paesaggio ed urbanistica regionale, in A. Ferrero (a cura di), Il ruolo delle Regioni nella disciplina e gestione del territorio, Giuffré, Milano, 1979. 52 Corte Costituzionale, sentenza n. 141/1972. 51


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vedimenti parziali anche per la carenza della legge quadro53. I nuovi enti si trovano ad affrontare il tema della pianificazione basandosi sull’interpretazione giuridica del quadro legislativo offerto a livello nazionale, con stesure che fin da subito portano a differenti ordinamenti. Si può dire, dunque, che la programmazione sia la protagonista della prima legislatura, ma che solo a seguito alla legge n. 335 del 1976 sulla contabilità regionale, avrà la possibilità concreta di fissare obiettivi di medio periodo e quindi di definire i piani e programmi regionali di sviluppo e di sostenerli economicamente attraverso le previsioni di spesa. Tale situazione avrà un ulteriore assestamento con il Dpr. 616/77, in attuazione della legge 382/1975 sul trasferimento dei poteri alle Regioni, ma in qualche modo il quadro legislativo regionale perderà di efficacia in quanto le numerose materie trasferite contemporaneamente produrranno una quantità di provvedimenti settoriali non sempre dotati della necessaria coesione e complementarietà. Fin dall’inizio le Regioni si muovono in ordine sparso con politiche molto diverse, dove le difformità sono acuite anche da singole situazioni economico-sociali talvolta antitetiche e da volontà di governo di segno politico opposto54. Ma, va rilevato come si debba all’impegno delle Regioni se Il provvedimento stesso 16 maggio 1970 n.281 all’art 17 afferma che “le Regioni possono legiferare nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti.” Quindi tutto deve fare riferimento alla LU 1150. 54 Fin dalla nascita delle Regioni il quadro politico generale cambia con coalizioni di governo regionale diverse dalla coalizione del governo nazionale, presentando approcci legislativi differenti che portano a politiche diverse vedi la Lombardia come regione della deregulation, l’Emilia-Romagna come virtuosa ecc. 53


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dagli anni Settanta inizia una politica urbanistica nazionale in cui lo strumento PRGC viene incentivato e va a coprire gran parte del territorio italiano, pur con modalità diverse e non poche contraddizioni. Un andamento simile è riconoscibile in quasi tutte le Regioni, che orientano la prima legislatura verso documenti programmatici di indirizzo utili per la pianificazione, mentre le prime leggi regionali in materia urbanistica arrivano alla fine del quinquennio o all’inizio della seconda legislatura e interessano prevalentemente due campi: quello della protezione del territorio extra-urbano (agricolo, paesistico, naturale), quello delle indicazioni e delle direttive per la redazione degli strumenti urbanistici rispetto ai quali la legge più organica e completa resta quella piemontese, la n. 56 del 1977 (rimasta in vigore per 35 anni) sulla “Tutela ed uso del suolo”55, anche se va ricordata per completezza e per essere stata la prima ad essere varata, quella lombarda la n. 51 del 1975 “Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia per la tutela del patrimonio naturale e paesistico”. La necessità di elaborare piani permette all’urbanistica di porsi come pratica ordinaria, come fondamento necessario per consentire ogni intervento di trasformazione del territorio ma, nello stesso tempo, questa intensa attività di elaborazione riferita ad un arco di tempo ristretto, fi55 In occasione del quarantennale della legge G. Bertola in rappresentanza dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale, ha aperto i lavori sottolineando che: “i principi che hanno animato l’attività di Giovanni Astengo in materia di pianificazione e tutela del territorio urbano hanno perseguito finalità ancora del tutto attuali, condivisibili e auspicabili. Per esempio la spinta verso una partecipazione democratica al processo decisionale e gestionale dell’uso del suolo, per incoraggiare un sempre maggiore coinvolgimento del cittadino nella definizione dei suoi spazi di vita e far crescere la sensibilità e la cultura urbanistica”.


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nisce per fare riferimento a modelli standard e a tipologie di piano ripetitive che utilizzano criteri simili adattabili ad ogni contesto. In questa rinnovata stagione di elaborazione emergono tutte le criticità insite nella legge nazionale: i tempi lunghi per la formazione (anche se non più dell’approvazione) dei PRG che diventa infinita nel caso delle grandi città e complessa per i piccoli comuni; la non adeguatezza a risolvere i problemi fin dal momento del loro sorgere (tanto che spesso quando il piano è definitivamente approvato, è già superato) o la contrapposizione fra comuni contermini per previsioni spesso concorrenziali. Infatti tutti i comuni pianificano il loro sviluppo con previsioni residenziali sovradimensionate, a causa di proiezioni impostate su criteri riferiti al decennio precedente, e distese di PIP (Piani per insediamenti industriali) proposti ovunque poiché ritenuti capaci di attivare la crescita e lo sviluppo economico. Nonostante ciò le Regioni raggiungono la copertura pressoché completa del loro territorio con regole per l’edificazione e soprattutto con la previsione di una dotazione corretta degli standard urbanistici che solo da pochi anni sono entrati a far parte del bagaglio tecnico dell’urbanista. I piani all’avanguardia di questo periodo si caratterizzano per un’ampia dotazione di servizi e di verde, fino ad allora molto carente nelle previsioni dei PRG, e per l’individuazione di aree destinate a PEEP relative alla L.167, in aree strategiche per lo sviluppo urbano, come nell’esperienza condotta in Emilia-Romagna. In qualche modo la pianificazione regionale è impegnata ad impiegare al meglio gli strumenti disponibili con l’intento di dotare piani e territori degli standard urbanistici


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che, nel panorama italiano, avevano costituito la vera rivoluzione urbanistica di quegli anni. La consapevolezza dei pericoli derivanti dall’enorme crescita edilizia avvenuta negli anni di carenza di una pianificazione e contraddistinta da una presenza diffusa di piani caratterizzati da enormi espansioni fa sì problema della redazione dei PRG diventi di primaria importanza e di massima urgenza. In Toscana, una regione con una buona tradizione in campo urbanistico, al 1972, solo 26 comuni su 276 erano dotati di un PRG approvato e in 40 vigeva il piano di fabbricazione. Dal Ministero, tuttavia, furono trasmessi per l’approvazione ben 20 PRG e 86 PdF. L’urgenza di approvarli era pari alla necessità di fornire delle regole su cui modulare le prospettive regionali di programmazione. Non è un caso che fra i primi atti, già nel 1973, siano redatte le “Linee del programma regionale di sviluppo”, un documento che individuava sia le “aree tipologiche”56 che le direttrici di sviluppo ed è in base a queste che, poco dopo, vengono approvati gli “Orientamenti di politica urbanistica transitoria”, che costituiscono ancora oggi un documento di grande interesse e lungimiranza in quanto orientava il dimensionamento delle previsioni in espansione in relazione allo sviluppo delle varie aree della Toscana e, comunque, lo valutava entro il limite massimo del 30% imponendo un contenimento degli indici di fabbricazione fra lo 0,5 e 3 mc/mq. Negli Orientamenti si scoraggiava la redazione dei PdF, che con la legge n. 51/75 “Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia per la tutela del patrimonio naturale e 56 Che successivamente diventeranno le “Quattro Toscane” cui ha fatto riferimento il PIT fino al 2004.


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paesistico” di fatto venivano equiparati a PRG, di cui tutti i comuni dovevano dotarsi. Il documento indicava nei piani/167 la via da seguire per risolvere il problema del fabbisogno abitativo, mentre vi erano limitazioni per le previsioni di nuove zone industriali attraverso la parametrazione legata ad un massimo di 15 mq. per abitante; si prevedeva inoltre un innalzamento dei quantitativi minimi per attrezzature e servizi, rispetto al decreto ministeriale del 1968, che si poneva fra i 30 e 24 mq. per abitante. Un primo risultato fu subito evidente non solo nell’accelerazione dell’iter procedurale delle approvazioni dei piani, ma anche nel processo dialettico che, in questa prima fase, la Commissione preposta ad esprimere un parere tecnico sui piani (CRTA) istaurò con i comuni e i progettisti sia per indirizzare le previsioni in coerenza con le Linee del programma regionale, ma anche con la finalità di giungere in tempi brevi (pochi mesi) ad una approvazione senza prescrizioni o rinvii. Va poi sottolineato che nello Statuto regionale toscano erano stati inseriti alcuni principi attinenti alle problematiche del territorio come la necessità di garantire la protezione della natura, della salute e delle condizioni di vita delle generazioni attuali e future;… promuovere il giusto rapporto fra città e campagna, subordinando a queste necessità gli interventi relativi alle opere di interesse pubblico, agli insediamenti umani e alle attività produttive;… intervenire per difendere il suolo e le foreste, per regolare le acque, per prevenire ed eliminare le cause di inquinamento57.

Sull’attività urbanistica della Regione Toscana, si veda G. De Luca, Pianificazione e Programmazione. La “questione” urbanistica in Toscana: 1970-1995, Alinea, Firenze 2001.

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Dunque il primo obiettivo, in Toscana ma non solo, in coerenza con la delega e con la legge cornice riferita al 1942, fu quello di dotarsi di un quadro programmatico di riordino e di indirizzi generali a carattere operativo e al tempo stesso di strutture di riferimento tecnico politico di sopporto come gli Istituti economici per la programmazione58. Nelle Regioni sembra essere presente la convinzione che la pianificazione territoriale possa indirizzare in modo ordinato lo sviluppo ma, nello stesso tempo, si percepisce la necessità che per coordinare lo sviluppo economico e sociale occorra porsi a livello sovracomunale per il quale è necessario riferirsi ad un ente intermedio capace di predisporre un piano di area vasta. Un livello decisionale che manca e la cui assenza ha limitato la pianificazione territoriale ed intercomunale prevista già dalla legge 1150. Su questo argomento tutte le Regioni si muovono con indirizzi diversi e talvolta contradditori, comprendendo che una pianificazione territoriale svolta in maniera coordinata e non in contrapposizione fra i vari attori, è alla base di uno sviluppo ordinato e sinergico. La sperimentazione nella disciplina urbanistica si muove nel definire una pianificazione di area vasta capace a dettare regole e indirizzi di crescita economica e di ricreare condizioni di riequilibrio fra i diversi ambiti all’interno della regione. L’istituto In Toscana, l’IRPET fu istituito con la LR n. 48 del 10 agosto 1974 (trasformazione dal CRPET istituito nel 1965 inizia a lavorare nel dicembre 1967) con il compito di studiare la struttura e le trasformazioni della struttura socio economica e territoriale della Toscana gli andamenti congiunturali e lo studio delle metodologie di programmazione, valutazione e di verifica delle politiche; gli studi preparatori per gli atti della programmazione regionale e per il piano di indirizzo territoriale. Cfr. G. De Luca, Pianificazione e programmazione. La questione urbanistica in Toscana: 1970-1995, Alinea, Firenze 2001.

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privilegiato è quello del comprensorio: un nuovo livello di ente capace di organizzare scelte in aree caratterizzate da specifici processi di assetto e a cui far riferimento nella gestione dei servizi59. La Regione Emilia-Romagna parte con un atteggiamento di prudenza. I primi provvedimenti sono relativi alla tutela del patrimonio artistico e culturale della regione tramite leggi sulla tutela dei centri storici e la costituzione di un Istituto per i beni artistici, culturali e naturali60, ma poco dopo si pone il tema dell’istituzione dell’ente intermedio individuato nei comprensori idonei “per la realizzazione di una politica di riequilibrio socio-economico e territoriale” (art.1) e ai quali viene affidata la formazione dei piani territoriali di coordinamento chiamati a definire le localizzazione e dimensione degli insediamenti produttivi. Sono piani sovracomunali assai complessi con una lunga procedura di approvazione in quanto devono sottostare al parere dei singoli Consigli Comunali, delle Province e successivamente dalla Regione. Piani che si rifanno a scelte politiche che individuano una programmazione economica strettamente legata alla pianificazione territoriale da porre alla base dello sviluppo economico, che deve avvenire in modo equilibrato in rapporto alle caratteristiche del territoI comprensori nascono come possibile ente intermedio in revisione delle province che per lo più hanno delimitazioni non corrispondenti ai processi di sviluppo infrastrutturale e industriale che si sono consolidati nel dopoguerra, hanno riferimento alle ULS del Piemonte o Asl per la Toscana, o in qualche modo alla tematica dei distretti industriali che in molte regioni caratterizzano i termini del sistema produttivo basato su una rete di piccole e medie imprese. 60 LR n. 2/1974, Primi provvedimenti per la tutela, la conservazione e la valorizzazione dei centri storici, e LR n. 46/1974, Costituzione dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della regione Emilia-Romagna. 59


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rio in conformità con il programma di sviluppo regionale. Dopo alcune leggi di settore (es. cave) viene approvata la LR 47/1978 “Tutela e uso del territorio”, dove all’art.1 si conferma: “La pianificazione territoriale è coordinata alla programmazione economica; in particolare la pianificazione territoriale regionale e comprensoriale si coordina con la programmazione economica nazionale e a quella regionale perseguendo lo sviluppo equilibrato del territorio”. Il sistema di pianificazione è articolato su tre livelli: Regione, Comprensori, Comuni61. Nella politica degli anni Settanta della Regione Emilia-Romagna il comprensorio assume un ruolo centrale (i comprensori in cui viene suddiviso il territorio regionale sono 28) in quanto riferimento per il riequilibrio economico-territoriale correlato allo sviluppo economico, e soprattutto organizzato per favorire una pianificazione che parta dal basso, legata alla realtà locale, in opposizione al modello gerarchico imposto dall’alto previsto dalla legge nazionale. Il piano comprensoriale individua, inoltre, le zone agricole, il dimensionamento e la localizzazione delle aree per i nuovi insediamenti produttivi e per i grandi insediamenti commerciali mentre la presidenza 61 La Regione prevede un Piano territoriale regionale che delinea le grandi opere, le reti della comunicazione, le infrastrutture, i grandi impianti tecnologici e i vincoli. Il piano è fondato su 4 progetti relativi a precise aree geografiche: l’Appennino, la via Emilia, la Costa, l’area Cispadana, il tutto redatto su apposita cartografia. Ai Comitati comprensoriali viene affidato il piano territoriale di coordinamento comprensoriale, l’approvazione dei PRG comunali e le loro possibili varianti, i programmi poliennali di attuazione, e l’approvazione dei piani attuativi e dei piani di zona 167. Va tuttavia rilevato che nonostante il grande impegno profuso nessun piano comprensoriale porterà a compimento la sua approvazione, facendo decadere tutto il processo di coordinamento fra i diversi livelli di piano previsti dalla Regione.


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del Comitato comprensoriale ha il compito di approvare i piani regolatori comunali. La LR 47 è una legge complessa che abbraccia più argomenti contenendo oltre alle procedure di pianificazione, definizioni, parametri, zonizzazioni e un bagaglio tecnico che arriva a declinare le diverse categorie di intervento edilizio. Un elemento interessante è l’introduzione di forme di protezione dei valori ambientali con “l’individuazione delle zone da sottoporre a speciali norme di tutela ai fini della difesa del suolo, dell’ambiente e delle risorse naturali” che anticipa i contenuti della futura legge Galasso e fa riferimento all’efficacia del piano territoriale paesistico della legge n. 1497 del ’39: uno strumento previsto ma sempre tralasciato dalla pianificazione. Va rilevato, inoltre, come a scala locale venga realizzata una grande mole di lavoro con la redazione di piani per grandi, medi, piccoli comuni (assegnatari di contributi a fondo perduto per la redazione dei PRG), delineando un quadro organico che coniuga le prospettive di crescita con la tutela delle specificità locali. La pianificazione emiliana si contraddistingue, oltre che per l’innalzamento degli standard (25 mq. per abitante per i comuni sotto i 10.000 abitanti e a 30 mq. per tutti gli altri), soprattutto per l’uso generalizzato e diffuso delle aree di167 per l’Edilizia economica popolare, che coprono gran parte delle zone di espansione allo scopo di contenere la rendita fondiaria con risultati altamente positivi. In questa fase si può rilevare che il comprensorio sia visto come l’elemento di innovazione nel sistema della pianificazione, nel tentativo di istituire un ente preposto al piano di coordinamento previsto anche dalla legge del ‘42 qua-


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le piano di livello intermedio fra Regione e Comune. Il dibattito riprende con una proposta dell’INU, emersa negli anni Sessanta, che riteneva la Provincia un istituto arcaico, troppo rigido e non rispondente agli assetti territoriali che si erano venuti a formare e che avrebbe dovuto essere abolito per evitare la sovrapposizione di ruoli e competenze per far posto a nuove delimitazioni amministrative idonee alle problematiche emergenti sul territorio. Il comprensorio sembra la soluzione a lungo cercata tanto che 15 Regioni lo inseriscono nei loro statuti e 11 Regioni, alla fine del decennio, lo hanno strutturato sia pure con competenze e ruoli diversificati. Tramite i comprensori si procede ad instaurare relazioni fra la programmazione economica e la pianificazione territoriale, per raggiungere il livello di efficacia nella valorizzazione delle risorse. Nonostante le numerose esperienze, il comprensorio non decolla a causa della ridotta capacità decisionale a guidare le scelte localizzative che resta aleatoria e limitata rispetto a quella dei comuni. Studi, analisi, proposte: molteplici sono i tentativi sul tema, che restano ovunque incompiuti. L’esperienza di pianificazione e programmazione di tali enti non ha trovato un adeguato sviluppo, soprattutto per l’essere stati enti di secondo livello e non già ad elezione diretta. In sostanza, il comprensorio non ha mai rappresentato un soggetto abbastanza ‘forte’, per la mancanza di un riferimento istituzionale, da poter imporre una propria linea economica, sociale, e territoriale62.

Oltre alla debolezza istituzionale influisce anche la presenza di previsioni pianificate poco gestibili, non sostenuG. De Luca, L’efficacia della pianificazione di area vasta nell’esperienza italiana e comunitaria, INU convegno, Perugia 16 aprile 2012.

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te da risorse economiche e minate da una più o meno latente conflittualità interna fra i comuni, in un momento in cui sembra ancora possibile una crescita. La concezione amministrativa che si scontra con una visione ad orizzonte breve, mentre il piano lavora per tempi lunghi. Inevitabilmente, nonostante i tentativi numerosi e ripetuti, la pianificazione regionale non potrà che riferirsi al solo livello istituzionale ‘sicuro’, cioè il PRG comunale. Come si è detto, alcune Regioni cercano fin dall’inizio di dotarsi di una legge urbanistica. La Lombardia, per prima approva una sua legge, la LR n. 51/75 “Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia per la tutela del patrimonio naturale e paesistico” che prevede tre livelli di pianificazione: regione, comprensori, comuni. Questi ultimi sono obbligati dalla legge a dotarsi di un PRG. Lo schema istituzionale si ripete: la Regione ha il compito di formulare il piano territoriale di coordinamento che si pone come riferimento dei programmi di intervento. Il Comprensorio a sua volta forma il Piano territoriale comprensoriale che contiene le previsioni di insediamenti di rilevanza sovracomunale, la viabilità e le attrezzature di interesse generale oltre a dettare criteri per la formazione dei piani comunali per delineare gli assetti del proprio sviluppo, relativamente al territorio urbanizzato e a quello non urbanizzato. Ma il nodo istituzionale resta, anche i Comprensori nella Lombardia sono enti privi di carattere giuridico ed emanazioni dirette della Regione per personale e finanziamenti e hanno il compito di predisporre i PTC di fatto senza un reale potere decisionale. Non manca l’aumento della do-


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tazione di standard accompagnata dal limite massimo di densità fondiaria ammessa (4,5 mc/mq. per le zone di nuova espansione) ed è presente la volontà di intervenire sulla criticità temporale nell’iter dei piani, prevedendo procedure diversificate di approvazione dei piani attuativi accelerandone l’iter con la LR n.63/1978. Un tema quello dell’accelerazione/semplificazione che si instaura fin dalla prima legislatura regionale lombarda veicolato da una cultura liberista che troverà elementi sempre nuovi nelle stagioni successive. Il modello più completo — e quello che ha resistito più a lungo — è fornito dalla Regione Piemonte che legifera in materia di pianificazione in modo articolato, prima con la costituzione delle Comunità Montane63 poi l’istituzione dei Comprensori64 affiancati nella ripartizione del territorio regionale dai relativi Comitati con il compito di redigere il Piano territoriale di coordinamento, infine con l’istituzione dei parchi e delle riserve naturali.65 I comprensori sono individuati come l’ente intermedio e i comitati risultano organismi decentrati della Regione, a cui è affidato, oltre alla pianificazione, la programmazione economica e la promozione per favorire le associazioni di comuni finalizzate ad espletare le funzioni delegate. Si inizia così a sperimentare un nuovo modello di governance. La legge urbanistica arriva nel dicembre del 1977, LR n. 56 Istituite, come già ricordato, dalla L. 1150/1971 “Nuove norme per lo sviluppo della montagna”. 64 L.R. 4 giugno 1975 n. 41 “Individuazione ed istituzione dei comprensori”. 65 L.R. 4 giugno 1975 n. 43 “Norme per l’istituzione dei parchi e delle riserve naturali” che detta in maniera anticipatrice all’art.1 “Al fine di conservare e difendere il paesaggio e l’ambiente, di assicurare alla collettività ed ai singoli il corretto uso del territorio” e provvedendo ad elencare i contenuti tecnici dei piani territoriali di coordinamento. 63


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“Tutela ed uso del territorio” (nota come Legge Astengo) che, fin dal titolo, manifesta il ruolo affidato alla pianificazione di tutelare il territorio, declinando all’art. 1, comma 3 e 4, “la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio naturale” e “la piena e razionale utilizzazione delle risorse… evitando ogni immotivato consumo di suolo”. La legge prevede un sistema di pianificazione impostato su piani sovracomunali e piani regolatori comunali, dei quali definisce contenuti e prescrizioni operative, fino agli interventi edilizi, indica i relativi elaborati, con articoli che si pongono come un’integrazione della legge del ‘42. Il sistema di pianificazione prefigura un impalcato gerarchico in cui ogni livello di piano è conforme al piano sovraordinato. In realtà non prevedendo un piano regionale, i livelli si esauriscono a due: il comprensorio e il comune. Significativa è la concezione del piano comprensoriale pensato come uno strumento rivolto a soddisfare le esigenze delle comunità locali in modo da far emergere le reali problematiche del territorio piemontese, assicurando nello stesso tempo, una partecipazione dal basso. In tal modo l’assemblaggio dei piani comprensoriali viene a costituire di fatto un piano regionale attento alle dinamiche presenti sul territorio. Vengono predisposti i piani dei rispettivi comprensori, in tutto 15, ma anche in questo caso nessuno riesce a completare l’iter procedurale. La politica territoriale proposta dalla LR 56/7766 esalta il ruolo del piano di area vasta come livello congruente di pianificazione, ma tale esperien-

Legge la cui stesura si deve a G. Astengo allora Assessore alla pianificazione e gestione urbanistica della Regione Piemonte.

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za si esaurisce dopo le prime legislature tanto che i comprensori sono soppressi nel 1985, mentre non ottiene migliori risultati l’esperienza dei piani intercomunali che sono portati avanti solo per le comunità montane, cioè da un ente istituzionale definito. Così lo sforzo della Regione nell’attività pianificatoria finisce per affidarsi, ancora una volta, all’unico strumento possibile e certo, il PRG, dotando in pochi anni tutti comuni piemontesi di un piano urbanistico. Un’operazione di grande impegno, ma che presenta elementi critici per un’inevitabile conflittualità che si genera fra enti diversi nelle scelte di governo in mancanza di un piano regionale. La legge piemontese n. 56/77, con ben 92 articoli, costituisce una delle più complete leggi di questa fase, spaziando dalla pianificazione alla formazione dei piani, ai contenuti dei singoli strumenti urbanistici, all’elencazione degli elaborati, fino alla regolazione dell’attività edilizia. Si distingue, inoltre, per l’attenzione e la tutela delle zone destinate ad attività agricola dove sono possibili solo interventi relativi alle necessità delle aziende agricole. Anche il Piemonte sceglie di elevare la dotazione degli standard a 25mq/ab aumentando la componente dell’istruzione e del verde. La legge sarà, poi, modificata con la LR 50/80 che introduce le aree sub-comprensoriali e il Progetto Territoriale Operativo per l’attuazione in aree specifiche degli obiettivi del piano territoriale. Come si è visto, uno dei problemi che accomuna le diverse Regioni è quello dell’identificazione dei comprensori o comunque di entità sovra-comunali, viste come unità di pianificazione territoriale congruente67.Un riferimen67

Si vedano a tal proposito le leggi in materie promulgate dalla Regione


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to territoriale non facile come si è visto per la mancanza di riferimento ad un ambito amministrativo istituzionale a livello di governo locale e che non poteva in nessun caso coincidere con le Province esistenti, che a loro volta erano, da una parte, comprensive di più ambiti di pianificazione e, dall’altra, compartecipi di parti di comprensori articolati su più province. Inoltre le Provincie erano allora considerate come enti da superare in quanto definivano una geografia amministrativa storica che non coincideva con quella di programmazione. L’area vasta come dimensione intermedia fra programmazione regionale e la pianificazione comunale viene in questa fase declinata in vario modo, scegliendo modelli definiti per legge o aggregazioni volontarie di comuni, che dovevano in ogni caso far riferimento alla legge urbanistica del 1942. La mancanza di una ridefinizione geografico-amministrativa, come si andava facendo in Gran Bretagna nello stesso periodo, non solo poneva in essere una contraddizione di poteri e competenze fra Province e Comprensori/Associazioni di comuni, ma finì per consumare energie nella redazione di strumenti e meta-piani che non riuscirono ad andare in porto né a produrre effetti concreti, salvo qualche vaga indicazione di tendenza utile, nel migliore dei casi, alla localizzazione di alcune grandi attrezzature, peraltro non sempre rispettate, in quanto non vincolanti. Restando la legge del 1942 come legge quadro nazionale, il comune Lombardia “Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia per la tutela del patrimonio naturale e paesistico” (LR n. 51/75); della Regione Toscana “Norme relative ai programmi di fabbricazione e alle zone agricole” (LR n. 16/75); Regione Umbria “Norme per la definizione dei comprensori e per la formazione degli strumenti urbanistici” (LR. n. 40/75); Regione Emilia Romagna “Costituzione dei Comitati comprensoriali sul territorio della Regione Emilia Romagna” (LR n. 12/75).


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riaffermava la sua centralità in materia di organizzazione del territorio e il destino dei piani sovracomunali era così segnato in partenza indipendentemente dalle cause che si sono volute individuare: differenze di indirizzo politico fra le amministrazioni, divergenze di interessi rispetto alle prospettive di sviluppo, mancanza di coinvolgimento o convinzione da parte degli amministratori sono solo alcune delle motivazioni addotte di volta in volta per giustificare e dare una logica ai diversi fallimenti, ma il nodo restava quello della relazione fra la potestà amministrativa e le competenze in materia urbanistica che erano allora, come adesso, in carico al solo comune. Nonostante ciò, sono molti i piani intercomunali che vengono redatti, anche se nessuno viene formalmente approvato. Fra le esperienze più interessanti, oltre quella bolognese, resta forse quella del PIM, che come molte altre ha inizio fin dagli anni ‘50 con la richiesta di autorizzazione al Ministero LL PP, che nel 1959 definisce un perimetro che comprende 35 comuni (che diventeranno 94 nel 1968) intorno a Milano, che dopo due anni dal decreto istitutivo si dota di un Comitato e di un Ufficio Tecnico. Nel 1966 l’Assemblea dei sindaci delibera all’unanimità le Linee programmatiche e pochi mesi dopo viene redatto il primo schema di piano, noto come Schema a Turbina, su cui fra il 1965 e il 1966 verranno presentate quattro Proposte di piano e gli Orientamenti operativi. Nel 1967 l’Ufficio tecnico presenta il Progetto Generale di Piano, su cui si baseranno attraverso la costituzione del CIPEM (Centro per l’edilizia economico e popolare) i coordinamenti delle politiche abitative, dell’edilizia scolastica per le scuole medie superiori e la costituzione dei due consor-


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zi per i parchi Nord e delle Groane. La ricerca della definizione di una dimensione comprensoriale istituzionale blocca il PIM, che si ricostituisce alla fine degli anni ‘80 come associazione volontaria di 99 comuni, oltre Milano, diventando Centro Studi per la Programmazione intercomunale dell’area metropolitana, mantenendo l’acronimo PIM, con l’obiettivo di produrre una piattaforma di studi e ricerche (traffico, viabilità e grandi infrastrutture: Malpensa e parco Sud) finalizzate alla pianificazione dell’intera area. Missione che troverà sbocchi e motivazioni successive, anche recenti, nelle azioni di coordinamento delle politiche di riqualificazione e sviluppo territoriale, della viabilità e della progettazione ambientale e paesaggistica68.

68 Sulle vicende milanesi si veda F. Oliva, L’urbanistica di Milano. Quel che resta dei piani urbanistici nella crescita e nella trasformazione della città, Hoepli, Milano 2002.


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le poche riforme realizzate sulla carta, sono affidate ad una gestione pubblica non convinta né della loro bontà né della loro utilità Riccardo Lombardi


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Gli urbanisti e i piani Secondo la migliore tradizione il decennio si apre con un terremoto, quello dell’Irpinia1 e con una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 5 del 25 gennaio 1980, che dichiara illegittimi gli articoli che intervengono in materia di espropri per pubblica utilità contenuti sia nella legge sulla casa sia in quella sul regime giuridico dei suoli. Si ripete il quadro di destabilizzazione già descritto per il 1968 a seguito della sentenza n. 55 della Corte. Va così in fumo il principio su cui si era basato il compromesso che aveva portato alla legge n. 10/75 ovvero il tentativo di ‘aggirare’ il problema della separazione dello ius aedificandi dal diritto di proprietà rinunciando a qualsiasi enunciazione di principio sulla necessità di una riforma strutturale. Un tentativo per la verità assai timido, che tuttavia viene

Il bilancio e di quasi tremila morti e la distruzione di interi paesi e gravi danni al patrimonio storico nella città di Napoli. Il piano di ricostruzione, sotto la direzione di Vezio De Lucia, propose per Napoli non solo interventi di ricostruzione nel centro storico, ma anche un piano di riqualificazione delle periferie (attrezzature, verde, servizi) salutato positivamente da Antonio Cederna. Ma la sua attuazione fu interrotta sia dai cambiamenti amministrativi sia dallo scandalo che ha accompagnato la ricostruzione dell’Irpinia.

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ancora una volta battuto, in quanto la Corte Costituzionale ribadirà due anni dopo, con la sentenza n. 92/1982, che “la legge Bucalossi ha sostanzialmente lasciato inalterata la situazione preesistente per ciò che concerne il regime giuridico dei suoli edificatori”2. La sentenza ha una sua notorietà in quanto segna la nascita ufficiale delle ‘zone grigie’ ovvero delle aree che non sono normate dal piano, cui seguiranno nel 1982, in forza di un’altra sentenza della Corte, le ‘zone bianche’ ovvero le zone in cui decadono tutte le previsioni dei PRG e che pertanto diventano edificabili per il privato sia pure con indici molto bassi (0,03 mc/mq e rapporto di copertura 1/10). Sono le aree che il piano aveva indicato come inedificabili e/o quelle destinate a standard (verde, servizi, strade), che in assenza di un piano attuativo regolarmente approvato entro 5 anni dall’approvazione del PRG, vengono ‘sbiancate’ ovvero private della loro destinazione e quindi non fanno più parte di una strategia complessiva e collettiva per la città pubblica, ma tornano in carico e nelle disponibilità dei singoli proprietari. L’instabilità del quadro urbanistico è accentuata dai Decreti Nicolazzi del novembre 1981 (Governo Spadolini), poi convertiti nella legge n. 94/82 “Norme per l’edilizia residenziale e provvidenze in materia di sfratti”, con cui in nome della liberalizzazione i comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti vengono dispensati dalla formazione dei Programmi Pluriennali di Attuazione (PPA) previsti dalla legge n. 10/77 e in nome della semplificazio-

2 Cfr. Vezio De Lucia, Se questa è una città, Editori riuniti, Roma 1989 p.192.


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ne introduce la procedura del silenzio-assenso e la certificazione di destinazione d’uso del suolo sottoscritta dal progettista. Il controllo pubblico del territorio sembra perdere progressivamente interesse: appare spesso un peso anche per molte amministrazioni che avrebbero il potere (e il dovere) di indirizzarlo e che sembrano subirlo solo come compito da adempiere, almeno formalmente, per un obbligo di legge. Si tratta di segnali che configurano, attraverso la loro coordinata successione, un costante depauperamento del valore del piano e dell’urbanistica in generale, che introduce a quella che sarà la vera svolta concettuale e comportamentale segnata dal condono edilizio del 1985. Al censimento del 1981 gli italiani sono 56 milioni e mezzo ed ognuno dispone di 1,1 stanze, che risultano per oltre il 75% in proprietà, tuttavia non si placa l’emergenza casa nemmeno a fronte del continuo aumento delle aree urbane che si espandono verso l’esterno a scapito delle aree agricole di margine considerate zone in attesa di urbanizzazione. La crescita avviene nonostante sia ormai palese il processo di obsolescenza interno alle aree di più antica urbanizzazione che coincide con il loro cambiamento funzionale e che riguarda dapprima la dismissione di alcune zone industriali racchiuse nei tessuti abitativi e/o la cessazione di attività delle grandi attrezzature pubbliche di servizio ottocentesche (es. mercati e macelli) ormai fuori uso. Siamo di fronte ad un processo di trasformazione delle aree urbane che inizia in modo silenzioso, apparentemente episodico e rarefatto, ma che, per il suo costante incremento innescherà una sorta di reazione a catena che muterà radicalmente la fisionomia delle


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Renato Guttuso, Interno metafisico, 1916 (particolare)

parti centrali urbane e delle periferie consolidate del primo Novecento, destinate ad una terziarizzazione diffusa in sostituzione del settore secondario e della residenza. La funzione abitativa tuttavia resiste fino alle soglie del XXI secolo, nonostante si registri una sempre più marcata la tendenza alla sua fuoriuscita verso i comuni vicini ai maggiori capoluoghi che interessa tutti i ceti sociali in quanto è mirata sia alla ricerca di abitazioni più moderne, più confortevoli e meno costose sia a quella di luoghi più prestigiosi per ubicazione e paesaggio (es. zone collinari) e di tipologie abitative isolate, spesso di lusso (le ville). Lo spostamento delle industrie residue interne alle zone centrali verso i comuni esterni, più o meno vicini ai centri in cui erano tradizionalmente localizzate, si attua sotto il ricatto dell’autofinanziamento, che significa che il costo del trasferimento dello stabilimento deve essere agevolato dalla comunità attraverso il cambiamento di destinazione d’uso delle aree lasciate libere (da produttive a terziario e/o residenza) pena la minaccia della cessazione delle attività e di drastiche riduzioni della manodopera. Il guada-


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gno sul plusvalore derivante dalla vendita dei terreni, permette al padronato di effettuare il trasferimento senza costi aggiuntivi. Si vanno così ad innescare una serie di pressioni improprie che inducono varianti ai PRG che intervengono sia sulla destinazione delle aree urbane liberate che su quella delle aree in cui le nuove sedi andranno ad impiantarsi. Viene così fatto pagare alla collettività un doppio prezzo che si scarica sul mercato delle aree e degli immobili, in quanto produce un aumento di valore sia all’interno della città dove le aree da produttive diventano terziario-abitative sia all’esterno dove le nuove fabbriche si vanno a localizzare su terreni agricoli (e acquistati come tali), che vengono puntualmente convertiti in zone industriali con varianti apposite non sempre congruenti alle logiche dei PRG vigenti e ai tentativi di pianificazione sovracomunale, quando esistono. Il tema della deindustrializzazione urbana appassiona gli urbanisti che si confrontano sulle modificazioni d’immagine della città dove l’uscita delle lavorazioni industriali rivela scenari sconosciuti ai più, dove il “muro chiuso della fabbrica racchiude una sorta di buco nero, un luogo che si riaffaccia piuttosto per quello che non è che per quello che è”3, ma al contempo il fenomeno mette in luce dinamiche economiche che palesano tutta l’aggressività del settore terziario che sta ormai sovvertendo “il rapporto che ha storicamente legato città e attività… Le città sembrano diventate prigioniere di un nuovo ambiente economico in cui in cui i fattori tradizionali di localizzaM. Romano, L’immagine urbanistica, in G. Basilico, Milano ritratti di fabbriche, SugarCo, Milano 1982 per come riportato in DU-IUAV, 19421992 Cinquant’anni della Legge urbanistica, Venezia 1992.

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Centro Commerciale Campania, Caserta

zione, che hanno sempre legato le attività ad una comunità e a un luogo, tendono a perdere la loro forza di attrazione”4. Non solo, ma si evidenzia il senso della formazione di una nuova realtà esterna che va formandosi. “Le attività lasciano i centri della prima urbanizzazione, la grande città, e si disperdono nella ‘campagna urbanizzata’: molte sedi aziendali una volta simboli edilizi della concentrazione della produzione e del potere, si disperdono nel mare anonimo degli appartamenti delle zone urbane e suburbane”5. Immaginazione, analisi critica e ideologia si confrontano con i diversi aspetti del fenomeno, che coesistono riferendosi a scenari che svaniscono e a nuove tipologie che vanno definendosi, ma di tutto questo raramente viene evidenziata la vastità dalle dinamiche innescate delle trasformazioni funzionali in atto cui faranno seguito, quali inevitabili conseguenze, i cambiamenti radicali della fisio4 L. Mazza, Introduzione alle città del mondo e al futuro delle metropoli, Catalogo alla XVII Triennale, Electa-Triennale, Milano 1988 per come riportato in DU-IUAV, 1942-1992 Cinquant’anni della Legge urbanistica, Venezia 1992. 5 B. Secchi, Nuove tecnologie e territorio, in A. Ruberti (a cura di), Tecnologia Domani, Laterza, Bari 1986, per come riportato in DU-IUAV, 1942-1992 Cinquant’anni… Op cit.1992.


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Centro commerciale Coop Empoli

nomia sociale dei vecchi quartieri o l’insorgere di nuovi fenomeni come il pendolarismo inverso (ovvero dal centro ai comuni contermini) che andranno a gravare su un sistema infrastrutturale, viario e di traffico, mai realmente controllato e diretto e, soprattutto, non relazionato e adeguato a quanto sta avvenendo. Cambia, inoltre, la portata delle operazioni in relazione alle dimensioni e alle delimitazioni amministrative, in cui i singoli comuni risultano in modo palese incapaci e non attrezzati ad indirizzare le nuove strategie di localizzazione degli spostamenti, che potrebbero essere coordinati solo in una prospettiva di programmazione di area vasta. Una dimensione di piano che potrebbe affrontare l’aggravamento del sistema infrastrutturale aggredito da un’altra tipologia di insediamenti che va a localizzarsi in aree ex-agricole, quella dei centri commerciali (shopping mall, village, outlet ecc.), definita da grandi contenitori capaci di accogliere enormi quantità di acquirenti, dotati di ampi parcheggi, ma che sono impiantati su una rete viaria locale che risulta ben presto superata e che dovrà essere aggiornata in funzione delle nuove attività, seguendo una logica che si sovrappone a quella del sistema urbanizzato esistente. Anche il rapporto fra investimenti e interventi subisce modificazioni che


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vedono il progressivo consolidamento dell’iniziativa dei grandi gruppi finanziari e che si riversa non più (o, forse, non tanto e non soltanto) nella creazione di quartieri abitativi (magari di lusso come Milano 2), ma si indirizza verso operazioni rivolte in modo diretto e autonomo alle aree deboli all’interno e all’esterno alla città. Sono fenomeni che potevano ancora essere controllati nella seconda metà degli anni Settanta e che esperienze come quella di Pavia avevano dimostrato essere possibili, ma che negli anni Ottanta non reggono più. L’urbanistica, ormai in crisi, offre una risposta disciplinare debole, rinunciataria e, talvolta, contorta nelle sue formulazioni, che si incanala verso una revisione interna della materia che annullerà, senza una vera consapevolezza critica ed in una prospettiva miope di ammodernamento, i principi che l’avevano sorretta fin dalle sue origini e che erano rivolti alla creazione di un equilibrio fra benessere sociale e sviluppo, per dirigersi verso una real politik, in cui la ‘concretezza del fare’ diventa sempre più conflittuale con la necessità di un controllo generale e pubblico del territorio. L’abbandono della programmazione finalizzata e condivisa porta l’attenzione sui singoli interventi, assecondata e sorretta dalle politiche e dai finanziamenti di settore che, in un primo periodo sono caratterizzati dall’intervento pubblico, ma che, man mano che il sostegno dello Stato va assottigliandosi, lascia le città in balia della logica degli investimenti privati che, necessariamente, è finalizzata al profitto. Il territorio come ‘bene comune’ in quanto appartenente alla comunità e in cui la comunità si riconosce, prendendone in carico diritti e doveri, per cui tante battaglie era-


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no state condotte nonostante gli strali delle sentenze della Corte costituzionale, svanisce per lasciare il posto a quella che viene chiamata l’urbanistica ‘contrattata’. Il temine contrattazione non ha di per sé un valore negativo, in quanto si propone come sintesi concettuale degli interventi ‘possibili’ contrapposti a quelli considerati ‘utopistici’ previsti dai PRG, ma implica e suggerisce una scomposizione delle previsioni e vede la presenza di due soli attori (amministratori e investitori), che si sostituiscono ad un insieme di soggetti. La definizione delle singole aree, che prevale sul complesso del sistema urbano, si manifesta sul territorio con due diversi trattamenti: vi sono aree ‘di particolare interesse’ su cui si sviluppa la contrattazione in cui le trasformazioni hanno delle regole flessibili, e un tessuto urbano che le comprende in cui gli interventi sono regolati da una normativa sempre più dettagliata che affronta e si confronta prevalentemente con problematiche edilizie e architettoniche. Le funzioni si fanno sempre più evanescenti e indeterminate affidate alle esigenze degli investitori, mentre gli involucri diventano il principale oggetto dell’interesse normativo. Quelli che Campos Venuti aveva definito i Piani della Terza Generazione6 che avrebbero dovuto affrontare il tema della trasformazione interna della città, non potendo agire in ambiti territoriali adeguati ad una visione programmatica di riequilibrio del territorio, non riescono a ‘tenere’ né disci6 La dizione ‘Terza generazione’ è in riferimento alla teorizzazione di G. Campos Venuti, che vede prima i piani dell’ordinamento urbano (“mettere regole al caos della crescita cittadina”), poi i piani dell’espansione (che comunque producono “una notevole evoluzione disciplinare”) e infine i piani della trasformazione (in La terza generazione dell’urbanistica, Milano 1987).


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plinarmente né politicamente. Uno degli ultimi tentativi è il PRG di Reggio Emilia7, noto come Piano di Riordino Ecologico, che pone la centralità dei servizi e il rapporto fra superfici permeabili e impermeabili come verifica e controllo della qualità del territorio e tenta, con l’introduzione dello strumento della perequazione8, di calmierare e controllare le trasformazioni dal punto di vista economico, funzionale e sociale. È lo stesso Campos Venuti, coordinatore del piano, a rivendicarne l’efficacia nel 1987: L’urbanistica riformista, che si è diffusa specialmente in Emilia Romagna, ha anticipato per prima il passaggio dalla cultura della espansione a quella della trasformazione. Essa ha fornito la consapevolezza che durante il periodo del boom edilizio le previsioni dei piani dovessero calcolarsi in dimensioni fisiologiche, perché quelle patologiche favorivano soltanto la rendita e non riducevano di certo i costi delle aree edificabili. Ha posto per prima il problema della qualità urbana, legandolo alla diffusione dei servizi sociali e del verde e alla difesa degli ambienti storici e naturali9.

Ma l’attenzione degli urbanisti sembra concentrarsi altrove, prevalentemente sul tema della flessibilità del piano,

7 Il PRG di Reggio Emilia (1989) identificato come piano di riordino urbanistico-ecologico, è pubblicato nel n. di Urbanistica; si veda anche G. Campos Venuti, Una garanzia ecologica per gli interventi urbanistici, in «Urbanistica» 104/1995 p.92. 8 Con il termine Perequazione si intende un atto che tenda ad eliminare sperequazioni o sanare danni subiti. In urbanistica il concetto è stato “progressivamente introdotto dalle legislazioni regionali cui è affidata la disciplina del territorio e persegue l’obiettivo di eliminare le disuguaglianze create dalla funzione pianificatoria, in particolare dalla zonizzazione e dalla localizzazione diretta degli standard, quanto meno all’interno di ambiti di trasformazione, creando le condizioni necessarie per agevolare l’accordo fra i privati proprietari delle aree incluse in essi e promuovere l’iniziativa” (cfr. TAR Veneto, Venezia, sez. I, 19 maggio 2009, n. 1504; 10 gennaio 2011, n. 11). 9 Cfr. La terza generazione dell’urbanistica, Milano 1987 p. 45.


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che viene declinata attraverso l’introduzione delle ‘due velocità’. Un doppia faccia insita nella teorizzazione della contrattazione urbanistica conseguente al rapporto pubblico-privato, che non viene definita da regole e procedure, ma che segue la logica del carpe diem segnata da un lato dall’accelerazione delle scelte, delle procedure e degli strumenti (varianti, perequazione ecc.) che devono facilitare le trasformazioni e garantire gli esiti dell’investimento privato mentre, dall’altro, da quella che può essere definita una ‘manutenzione urbana’, scandita sui tempi lunghi del piano, che si rivolge ai cittadini e definisce e norma la gestione ordinaria del territorio nel suo insieme. Il tema della ‘velocità’ non può essere disgiunto da quello dell’attuazione e della gestione viste nella loro dimensione temporale, peraltro già insita nello strumento e nelle previsioni di piano, ma fino ad allora (e forse finora) maldestramente regolamentata attraverso i piani poliennali e i piani attuativi che, non riuscendo ad uscire dalla logica della legge del ‘42, continuano ad operare secondo la sequenza lineare definita delle azioni in approfondimento e attuazione del PRG. La successione in linea, per il ritmo e la scansione dei suoi tempi, non funziona più e viene allo scoperto la necessità di un diverso rapporto fra piano, sistema politico-decisionale e gestione. Inizia a prendere quota la dizione “governo del territorio”10 in sostituzione

Per ‘governo del territorio’ si intende il governo (indirizzo, pianificazione, attuazione e gestione) delle trasformazioni sul territorio che si struttura su due livelli: il primo attiene ad una fase di programmazione e pianificazione generale, mentre il secondo è concentrato sulla parte attuativa che interessa l’attività edilizia (pubblica e privata), le infrastrutture e le modificazioni delle attività umane sull’ambiente.

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della più vecchia «Urbanistica»11 che viene ritenuta inadeguata e impropria. La riflessione è sintetizzata efficacemente in poche righe da Bernardo Secchi: Tramontate le grandi visioni d’assieme, nella loro visione organica o strutturalista, messe da parte le teorie forti o totalizzanti, la loro rete univoca di nessi esplicativi, abbandonate le concezioni razionalistiche della politica come realizzazione di obiettivi definitivi a priori, il tempo nella sua doppia dimensione di continuo degrado e rigenerazione, ci appare più rapido e denso, il flusso degli eventi meno facilmente prevedibile. Entro le sequenze spaziali e le successioni temporali che ci è dato sperimentare diviene sempre più difficile riconoscere le relazioni d’ordine. A tutto ciò è legata una percezione del presente come privo di senso collettivo. […] La nuova domanda è allora la richiesta di piani e di progetti, di una nuova fase di analisi dotata di profondità storica, fondata su ciò che connota in modo stabile e duraturo le nostre società, che trovi la propria giustificazione in argomenti che possano aspirare ad un elevato grado di generalità entro una visione lenta del tempo12.

E ancora, abbandonata l’idea di sovrapporre alla città, urbs e civitas, un disegno, una forma fisica e politica; abbandonata ogni visione razionalistica di piano e della politica urbanistica come insieme di azioni totalmente definire ex-ante, abbandonata anche la centralità del soddisfacimento dei 11 La definizione di Urbanistica, è in riferimento a quella riportata nell’Enciclopedia Universale dell’Arte (G. Astengo, 1966) per cui “è la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti avendo come proprio fine la pianificazione del loro sviluppo storico, sia attraverso l’interpretazione, il riordinamento, il risanamento, l’adattamento funzionale di aggregati urbani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso l’eventuale progettazione di nuovi aggregati, sia infine attraverso la riforma e l’organizzazione ex novo dei sistemi di raccordo degli aggregati tra loro e con l’ambiente naturale”. 12 Cfr. B. Secchi, Un tempo più lento, in «Urbanistica» n. 80/1985 p. 4-5.


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bisogni di una parte sociale, il problema è ora riferito alla qualità. Qualità è termine che evoca, non costruisce linguaggi descrittivi univoci e rigorosi; tantomeno costruisce teoremi e schemi di calcolo13.

Tutto è fluido, opinabile, valutabile con occhi ed ottiche diverse. Insomma tutto diventa possibile, perché ogni riflessione sull’“urbanistica non vuole presentare esempi da porre come modelli, quanto piuttosto avviare una corretta analisi del tema, contribuire alla definizione di metodi di lettura ed alla elaborazione di categorie concettuali sempre più fertili” in quanto e, a buona ragione, “ il modello non si copia, si conosce e si critica, si elabora”14. La svolta disciplinare necessaria dovrebbe fronteggiare un duplice cambiamento, quello funzionale generato dall’economia delle trasformazioni e quello sociale che sta modificando il rapporto fra popolazione e luoghi di vita, ma tutto questo avviene in un momento storico in cui la società sembra appagata dalla sua rappresentanza politico amministrativa. L’Italia è ancora in questi anni un paese ottimista, dove si vive bene e, forse per questo, la carica partecipativa critica del decennio precedente va indebolendosi: riemerge la forza della delega, che appare ai più consegnata in mani ritenute talmente sicure (la sinistra al governo) da non aver bisogno di un vero accompagnamento valutativo (quasi una volontà di ‘non disturbare il manovratore’). Permangono, tuttavia, alcune forme spontanee di contestazione riferite a singoli provvedimenti o interventi, ma ogni discussione torna e si ri13 Cfr. B. Secchi, Le contraddizioni del progetto urbanistico, in Urbanistica n.81/85 p. 62. 14 Cfr. PDB (P. Di Biagi), in «Urbanistica» 87/1987 p.46.


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compone all’interno delle sedi dei partiti politici che, tuttavia, ancora mantengono — e riusciranno a conservare per tutti gli anni Ottanta — una dialettica interna sia culturale che ideologica anche molto vivace. Sono, comunque, i partiti con i loro apparati centrali e periferici che si confrontano direttamente con le operazioni immobiliari che interessano ormai tutta la penisola perché passano per i colossi dell’economia come la Fiat15, la Pirelli e le Ferrovie dello Stato e che a Torino si chiamano Lingotto e Mirafiori, a Milano Alfa Romeo, Pirelli e Montedison, a Genova San Benigno e Corte Lambruschini, a Firenze Galileo, Fiat e Fondiaria, a Napoli Poggioreale, Bagnoli-Ilva e Ponticelli. Va inoltre ribadito che, nella logica delle due velocità di pianificazione, ogni area e ogni investimento finisce per porsi come particolare e unico, collocandosi al di ‘fuori’ del piano. Per ognuno si propone una procedura personalizzata e un iter particolare e specifico. Un processo pericoloso, che innescherà connivenze e corruzioni e che sarà condotto attraverso l’uso di varianti specifiche, documenti ‘direttori’, piani preliminari, concorsi internazionali di idee e quant’altro possa essere ‘agile e flessibile’. Processi spesso nebulosi, sorretti da forme e formule che consentono di aggirare il piano in una logica che condiziona pesantemente le amministrazioni locali e che, nella quasi totalità dei casi, esclude i cittadini, anche quando, come a Firenze o a Milano, essi sembrano riuscire ad esprimere ancora qualche capacità organizzativa e propositiva.

Cfr. F. Indovina, a cura di, La città occasionale. Firenze, Napoli, Torino, Venezia, FrancoAngeli, Milano 1992.

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Si guarda alle esperienze delle città europee con particolare riferimento al Mediterraneo, a Barcellona, al suo disegno urbano, alle sue piazze, al suo dinamismo come modello da imitare. Quello che non si dice (o non si sa) è che a monte di tutti quei progetti, di tutta quella riorganizzazione della città c’è la pianificazione della fine degli anni Settanta e il Piano metropolitano del ‘76 che indirizza la logica degli interventi, nonché un programma di acquisti di aree pubbliche che ha interessato le industrie in uscita dalla città16. Non si dice neppure che si sta agendo in un contesto legislativo analogo a quello italiano perché modellato da Franco sulla legge del 1942 che, contrariamente a quanto avviene in Italia, viene usata in tutte le sue potenzialità pubbliche attraverso il controllo area-funzione. Non si dice che la coerenza delle trasformazioni è saldamente nelle mani del Comune che, con le sue strutture tecniche, è in grado di controllare la plusvalenza attraverso la compra-vendita dei terreni, il controllo della destinazione d’uso e l’applicazione degli indici di fabbricabilità. Si conoscono gli esiti, ma non si vogliono vedere né comprendere le logiche pubbliche — ed etiche — che hanno permesso di conseguirli. In Italia, siamo di fronte, senza averne la consapevolezza, alla doppia conclusione di una stagione politica e culturale che riguarda sia l’urbanistica e la programmazione territoriale, sia il rapporto fra i cittadini e i meccanismi decisionali, che intervengono sul loro stesso ambiente di vita. La prima passa per il rifiuto disciplinare dell’urbanisti-

Si pensi all’area del parco dell’Espaňa Industrial (ex fabbrica tessile, mq. 50.000) o al parco de la Creueta del Coll (ex cava di pietra).

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ca ‘riformista’ e per il suo allontanamento dai temi sociali visti ormai attraverso la pressione di un più realistico approccio in adeguamento ai processi economici e di mercato, la seconda vede l’iniziativa popolare e diffusa, che aveva profuso il suo impegno al grido ‘riprendiamoci la città’, indirizzare la sua azione verso le tematiche dell’ambiente nella doppia accezione global e local. Gli studi sul territorio sembrano dare ormai per scontato che le città non si espandano più per l’addizione di nuovi quartieri proiettati verso l’esterno e si focalizzano sulle loro trasformazioni, ma sottovalutano quanto si sta manifestando ai margini, nelle aree agricole soggette a forti e sostanziali alterazioni che vedono il deterioramento e la cancellazione progressiva della trama tradizionale dei campi e sono oggetto di una rarefatta urbanizzazione continua, a meno che non siano aree sottoposte a protezione paesaggistica o siano inserite in progetti di parco. Il territorio aperto (non più definito agricolo neppure nei PRG) viene eroso sistematicamente da una miriade di costruzioni abitative, industriali e commerciali che definiscono le nuove forme dell’urbanizzazione diffusa. Si teorizza la campagna urbana, la città-territorio o città-regione, la ‘rurbanizzazione’ senza cogliere per intero la portata di un fenomeno che, solo in un secondo tempo, quando l’erosione delle aree agricole si porrà in tutta la sua evidenza e nella sua massiccia diffusione, verrà recepita come una situazione di non ritorno e allora si guarderà con orrore allo sprawl, come se si trattasse di un fenomeno frutto della somma di disattenzioni amministrative e del soddisfacimento egoistico di esigenze individuali e non di una connivente negligenza.


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Nel 1982 inizia una colossale ricerca diretta da Giovanni Astengo sul consumo di suolo in Italia, IT. URB. ‘80 “Rapporto sullo stato dell’Urbanizzazione in Italia”17, che ha come obiettivo quello di analizzare e quantificare il processo di urbanizzazione in relazione allo sviluppo avvenuto nel trentennio 1950-1980 “esaminato nei suoi aspetti fisici, quantitativamente e qualitativamente valutabili, e le tendenze in atto, con la prospettiva di individuare possibili correttivi alle principali distorsioni rilevate”18. Gli esiti sono rilevanti, in quanto per la prima volta si evidenzia non solo l’estensione della crescita dell’urbanizzazione, ma anche il suo aspetto qualitativo e i caratteri con cui è avvenuto in relazione alle diverse modalità e strumenti che lo hanno determinato e alle destinazioni/funzioni delle varie aree. La ricerca viene pubblicata in ritardo, all’inizio degli anni ‘90, anche a causa dell’improvvisa morte di Astengo, e i risultati escono in un contesto culturale e politico completamente mutato, indifferente, se non ostile. I dati faticosamente raccolti e verificati sul campo, ormai possono essere più facilmente rilevati e restituiti con procedimenti digitali nella loro dimensione quantitativa, mentre sembra aver perso d’interesse la relazione fra le funzioni, le tipologie e gli strumenti urbanistici che le hanno indotte. Se ne legge solo l’immagine che emerge dalle carte colorate ovvero l’aspetto legato alle misurazioLa ricerca “Rapporto sullo stato dell’urbanizzazione in Italia e sulle politiche urbane e territoriali per gli anni ‘80” (IT. URB. ‘80, all’anagrafe ricerche) finanziata dal Ministero del Pubblica Istruzione in attuazione del Dpr 382/80, è stata coordinata da G. Astengo dal 1982 al 1986, e dal 1987 al 1990 da Camillo Nucci. I risultati sono pubblicati, in gran parte, nei Quaderni n. 8 e 9/1990 di Urbanistica Informazioni. 18 G. Astengo, IT. URB. ‘80, Op. cit. p. 12. 17


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ni e alle quantità del consumo di suolo che, però, vanno a collocarsi all’interno di un dibattito in cui lo studio dei processi di formazione dei fenomeni al pari delle rilevazioni, del confronto e dell’incrocio fra popolazione e territorio sono bollati come vecchi ‘arnesi’ di un’urbanistica definita ormai sprezzantemente razionalista, rispetto alla quale si è perduta ogni spinta ‘riformista’. L’analisi quantitativa basata sul rilevamento comparato di numeri e dati è dichiarata come obsoleta, poco inutile se non fuorviante. Sul banco d’accusa ci sono proprio ‘le quantità’ e il loro uso come componente essenziale delle interpretazioni dei fenomeni, finalizzati alla progettazione dei piani. Una tematica su cui si consolida un campo di studi che contesta non solo gli strumenti e le logiche del piano, ma anche la disciplina nelle sue metodologie tradizionali di analisi basate anche su dati numerici e riferite a modelli e tecniche. L’analisi quantitativa viene indicata come il “metodo della giustificazione, poiché non solo produce risultati di calcolo opportuni (modelli, dati e tecniche), ma indica e controlla le condizioni alle quali i risultati possono sembrare legittimi… (e) non è questo il contributo che ora occorre”. Quello che occorre, invece, è individuare una visione post-empirica, che possa agire secondo criteri ‘multipli’ nella esplicitazione di soluzioni possibili in un “rapporto dialogico tra struttura politica e struttura di ricerca: la prima definisce i problemi; la seconda analizza e valuta le alternative” e, in tal modo, si possa passare da “un approccio descrittivo e classificatorio dei fenomeni territoriali ad uno relazionale” in cui il valore e il significato di ogni bene è “posizionale” ovvero “cambia significato a seconda della sua in relazione ad altri beni o ai diversi usi: dunque il pro-


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blema del piano non è la collocazione dei beni di natura definita a priori, ma il governo delle relazioni che intercorrono”19. E, poiché le relazioni sono, per loro natura, mutevoli, anche gli strumenti devono rispondere ad una logica di assoluta adattabilità se vogliono essere in grado di affrontare i “cambiamenti relazionali” che si determinano. La carenza del ragionamento sembra, tuttavia, continuare a riferirsi più agli strumenti che alla crisi della disciplina. L’accusa alla strumentazione tradizionale ha come effetto la rinuncia consapevole alla programmazione e, con essa, a qualsiasi forma di indirizzo e controllo sul territorio che sembra restare estraneo al dibattito. Gli urbanisti, troppo concentrati a demolire il piano regolatore in quanto statico e costrittivo, non si pongono il problema di una sua evoluzione in relazione a quella del sistema legislativo (nazionale e regionale) che lo vincola e alla dimensione cui si applica, ma molto più semplicemente rifiutano il ‘vecchio’ piano nella sua validità erga omnes. Il risultato è che, mentre si disquisisce sulla sua inadeguatezza, il PRG appare sempre più finalizzato a risolvere specifici problemi dell’urbano e distratto verso quanto sta avvenendo parallelamente e con un percorso separato nelle zone esterne che in questi anni stanno abbandonando definitivamente ogni loro relazione con la produzione agricola. La città è ancora una volta protagonista: cresce su sé stessa, si densifica, ogni spazio libero o residuale viene occupato prontamente da un carico volumetrico e d’uso superiore a quello precedente. Un processo non guidato che trova la sua

19 Cfr. P.C. Palermo, Tradizione e innovazione nell’analisi urbanistica “quantitativa”, in «Urbanistica» n. 79/1985, p. 37.


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ragione solo nelle dinamiche del mercato immobiliare. Sul territorio, le esigenze dettate dalla sete di liberalizzazione delle iniziative, in cui il promoter è sempre più protagonista, dettano regole e comportamenti. Punto di partenza, da tutti condiviso, è l’affrancamento dai ‘lacci e lacciuoli’ che imbrigliano i PRG per poter dare risposte più rapide (o più compiacenti) agli investimenti. Al piano è richiesta una sempre maggiore flessibilità per non perdere le occasioni immobiliari che via via si presentano e le due velocità diventano requisiti indispensabili: una, più generale, per segnare la tabella di marcia ordinaria nelle aree che non sono oggetto dei desideri di nessuno ma solo contenitori di vita della popolazione che ci abita e, l’altra, autonoma e privilegiata, in grado di soddisfare le urgenze e i tempi d’investimento. La perequazione invocata per calmierare o almeno attenuare il plus-valore e configurare equilibri sociali più solidali, diventa il mezzo per eludere il rapporto fra cittadini e servizi proprio nelle aree di più vecchia edificazione, in quei tessuti compatti dove le attrezzature (pubbliche o collettive che si voglia) sono più carenti e quindi più necessarie. Ed è proprio qui che si consuma l’inganno, coinvolgendo per le realizzazioni pubbliche, cinicamente, aree lontane e di scarso valore ed interesse: l’obiettivo prioritario è quello di ‘non perdere le occasioni’ e agevolare l’investimento, non quello di rendere più stabile e migliore la continuità del legame fra gli abitanti e i loro spazi di vita. Non è più la dinamica delle aree e la rendita che deve essere controllata, ma il flusso di capitali che definiscono l’immagine della città e, non potendo intervenire sui meccanismi economici, il tema centrale diventa la definizione della forma.


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Si palesa una sorta di strabismo disciplinare che si confronta, con vivacità e ricchezza di proposte e ipotesi, sul superamento degli strumenti (i piani), senza mai affrontare il quadro legislativo nazionale sempre riferito al 1942 e che ha il suo cardine proprio nel PRG, attaccato ferocemente dal dibattito teorico, ma mai scalfito nella sua struttura e nella sua logica. Anzi, si agisce per modularlo e adattarlo, attribuendogli il valore di una ‘nuova prospettiva’ capace di restituirgli un compito in linea con i tempi. Bernardo Secchi, sempre interessante nelle sue riflessioni, dalle pagine di «Urbanistica» arriva a proporre un’articolazione del processo di piano in tre fasi che muovendo dalle 1) condizioni del progetto ovvero dalla mappa dei problemi da affrontare e risolvere, sia in grado di cogliere 2) il senso delle nuove interpretazioni dello spazio urbano (nuovo linguaggio, nuove categorie concettuali ecc.) per approdare al 3) sistema di giustificazioni che sottendono le proposte dell’urbanista, ma aggiunge dire che questo problema deve essere approfondito è usare un eufemismo: in realtà esso deve ancora cominciare ad essere nominato con un minimo di rigore scientifico. [… In quanto] le trasformazioni della società italiana rendono questo compito particolarmente difficile. Uscire dalle grandi visioni aggregate del passato, dalle rappresentazioni compatte dell’interesse generale, dei compiti e dei modi dell’urbanistica costa un grande sforzo di immaginazione. Non si tratta tanto di abbandonare gli ingenui e semplificati schemi di calcolo dell’urbanistica ‘quantitativa’, quanto la concezione naturalistica dell’uomo e dei suoi rapporti nella società che li ha ispirati20.

20 Cfr. B. Secchi, Una nuova prospettiva, in «Urbanistica» n. 81/1985 p.8-9.


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Protagonista è, quindi, l’attesa del cambiamento generale che dovrà coinvolgere il sistema dei valori e delle relazioni, superando le tecniche e le pratiche consuete. Ma come? Alle manifeste incertezze disciplinari, l’INU, dalle pagine di «Urbanistica Informazioni», tenta di mediare fra le varie tendenze che si stanno manifestando e di fornire indicazioni utili per la pratica urbanistica. Il Dossier n. 3/86 “Le analisi per i piani urbanistici”, curato da Valeria Erba21, rivela la chiara volontà (e la necessità) di ricomporre la divaricazione fra sistema teorico basato sull’analisi della complessità e sull’inadeguatezze delle sue traduzioni e la prassi corrente di progetto dei PRG che, ad ogni buon conto, devono essere redatti e approvati per legge. Il vecchio spirito dell’INU riemerge, quasi a far prevalere il dovere di indirizzare la disciplina verso ‘buone pratiche’ per poter ricondurre le tematiche della formazione del piano all’interno di un processo interattivo fra analisi e progetto, in cui l’analisi è una delle tappe della formazione del piano stesso, in quanto dati e previsioni si condizionano, nel metodo e nel merito, a vicenda. Ma è tardi: l’intero impalcato disciplinare è sotto accusa. Sono in discussione le logiche e la validità del piano stesso. Un cambiamento è, comunque, necessario. Quello che non si avverte è che esso non può essere solo di tipo strumentale, ma che deve coinvolgere l’intero settore disciplinare e le ragioni che l’hanno supportato fin dalla sua origine. L’effervescenza del dibattito, la sfiducia nei piani (di cui, tuttavia, si accettano incarichi per la loro redazione) fanno emergere molte e diversificate soluzioni ‘origiCfr. V. Erba (a cura di), Le analisi per i piani urbanistici, Dossier 3/86 in «Urbanistica Informazioni» n. 87/86 p. 50 sgg.

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nali’ che si focalizzano sugli elaborati e la loro presentazione, dimenticando il problema della legge urbanistica come se la sua logica non avesse un rapporto diretto con la formazione e la concezione del piano stesso. La questione nazionale della legge quadro sembra essere ‘altra cosa’, un problema di competenze e poteri, un fatto politico di cui, forse, si faranno carico le Regioni. Ma anche su questo fronte si registrano le prime speranze deluse, che si erano accese con il Convegno INU di Perugia del novembre 1973 su “L’iniziativa urbanistica delle Regioni” che individuava nel nuovo ente istituito il propulsore della riforma nazionale. Si vedrà ben presto che, dopo i primi entusiasmi, l’iniziativa congiunta delle Regioni per proporre una legge di riforma si spegnerà. Ogni Regione agirà per suo conto, secondo una sua logica e una sua visione politica ed in relazione ad un quadro nazionale che nel corso del decennio va facendosi sempre più vischioso. Le contraddizioni della politica nazionale Nell’agosto del 1983 si insedia il governo Craxi I, il primo a guida socialista, che resta in carica fino al 1986. Sono tre i maggiori provvedimenti legislativi di questi anni che riguardano il territorio e presentano fra loro un carattere fortemente contraddittorio. In ordine cronologico sono: l’istituzione del Dipartimento dell’Ecologia sotto la presidenza del Consiglio dei Ministri22, che successivamente, con la legge 349/86 diventerà Ministero dell’Ambiente; il condono edilizio e il decreto Galasso, poi trasformato nella legge n. 431 del 1985. 22

Si tratta di un Ministero senza portafoglio, affidato ad Alfredo Biondi.


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Siamo di fronte a due provvedimenti che prefigurano una nuova sensibilità e la volontà di agire in difesa dell’ambiente, che stava emergendo come una delle problematiche più urgenti e significative, e un terzo che va ad agire in modo del tutto contrario e con pesanti conseguenze sul territorio in quanto avvalora e legalizza la trasgressione di ogni regola di protezione. Condonare Il condono viene inserito nella legge n. 47/85, “Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie”, che si pone nella titolazione come una provvisoria legge-quadro urbanistica, ma che in realtà ha un’unica finalità, quella di aprire la via alla sanatoria di tutti gli abusi edilizi realizzati fino alla data del 1° ottobre del 1983. Una sanatoria generale e tombale regolata in modo assai semplice dal punto di vista procedurale attraverso la presentazione della documentazione dei lavori eseguiti in deroga al comune di appartenenza: l’abuso viene sanato con un pagamento in danaro che varia da 5.000 lire al mq. per gli illeciti commessi prima dell’entrata in vigore della legge Ponte fino a 36.000 al mq. per le situazioni di deroga più recenti e ritenute più gravi. Ogni peccato viene rimesso, con l’unica eccezione degli edifici costruiti in aree a vincolo di inedificabilità, che tuttavia non coincide sempre con quelle a vincolo paesaggistico (ovvero con il 47% del paese) sulle quali, alla fine, in molti casi la sanatoria risulterà possibile. A cautela della tranquillità dei proprietari degli immobili sull’esito positivo delle pratiche e per facilitare il mercato immobiliare in cui i volumi sanati po-


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tranno essere immessi, è prevista la procedura del silenzio-assenso. Dunque, praticamente tutto è, in via di principio, sanabile. Un presupposto particolarmente grave in quanto in esso è implicita la rinuncia ad ogni ipotetico controllo sul territorio e che, per di più, riguarda quantità elevate. Secondo le stime del Cer23 fra il 1950 e il 1984 vi era stata la costruzione di circa 500.000 alloggi (poco meno della metà edificati fra il 1982-83) cui si aggiungevano gli ampliamenti e le modifiche che in quel contesto apparivano, indubbiamente, di minor entità e dunque trascurabili dalle rilevazioni. Il provvedimento ha in sé una doppia negatività, in quanto cancella un reato sanzionandolo, ma non lo può annullare in quanto esiste e permane sul territorio e, inoltre, per gran parte dei casi si pone in contesti delicati (es. vicinanza di aree industriali inquinanti) o protetti (es. aree di pregio panoramico). Ma, come si è rilevato più sopra, i vincoli e le prescrizioni di piano, costituivano ormai un corpo disciplinare sempre più incerto ed opinabile, tanto che alcune forze politiche anche di sinistra, che si erano in un primo tempo opposte in via di principio al condono, si ammorbidiscono di fronte a quelli che vengono definiti gli ‘abusi per necessità’. Inizia così un processo di valutazione del danno in relazione non alla sua entità, ma alle motivazioni di chi lo ha commesso, che innesca una sorta di deroga morale alla violazione della legge, in cui il peccato esiste, ma è un peccato veniale in quanto commesso in nome dei valori familiari (la casa per un figlio o

Cfr. Quaderni del Cer, n. 18/1986, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1986 p. 32.

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per la propria famiglia). Si fa appello alla mozione degli affetti in quanto a monte c’è un sentimento che merita attenzione, comprensione e rispetto. La famiglia, si sa, viene prima di tutto. Una ‘necessità’ che giuridicamente non è riconosciuta, infatti è stato a più riprese ribadito24 come non sia riconoscibile nessuno stato di necessità nella realizzazione di un immobile abusivo da destinare ad abitazione familiare, in quanto non si può ravvisare in questa aspirazione nessun pericolo di grave danno alla persona in relazione all’art. 54 del Codice Penale. Il condono ha un tale successo che sarà reiterato tre volte (1985, 1994, 200325) con un buon riscontro per le casse dello Stato. La cadenza costante, poco meno che decennale, ha instaurato un clima di attese successive in quanto è stato percepito come una deroga, semi-legale o comunque legalizzabile, di costruzione tanto che gli abusi sono diventati una componente strutturale dell’attività edilizia con un aumento valutabile fra il 10 e il 12% annuo del quantitativo costruito. Si richiama l’ultima sentenza in ordine di tempo, Cass. Pen. III, n. 7691 del 17/02/2017. 25 Il riferimento è alle leggi n.724 del 1994 e n. 269 del 2003, entrambe emanate sotto i Governi Berlusconi. 24


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Non stupisce dunque, che, proprio negli ultimi mesi della XVII Legislatura (2017), il condono abbia avuto un ritorno di popolarità e, in Parlamento, si sia manifestata la volontà di legalizzare ancora una volta gli abusi, definiti comunque ‘di necessità’. La vicenda, veicolata dalla presentazione e dalla discussione sul cosiddetto Ddl Falanga26 è da porre in relazione con la legge regionale della Campania n.19/2017 “Misure di semplificazione e linee guida di supporto ai Comuni in materia di Governo del Territorio, peraltro impugnata dal Governo”27, in cui si ipotizzava una regolarizzazione anche per costruzioni in aree vincolate che erano state escluse dai precedenti condoni (es. pendici del Vesuvio). In questo disordine concettuale si possono inserire le vicende siciliane28 e la questioCiro Falanga, senatore letto con Forza Italia, poi passato al gruppo parlamentare Ala. 27 La legge regionale campana è stata oggetto della sentenza negativa della Corte Costituzionale n. 56 del 22 agosto 2017. 28 Si richiama qui la legge regionale n. 29 febbraio 1980 n. 7 “Norme di riordino urbanistico edilizio” con la quale si invitavano i Comuni a delimitare le aree con insediamenti caratterizzati da disordine urbanistico-edilizio cioè le zone dove sono “sorte costruzioni in assenza o in contrasto di previsioni urbanistiche o senza il rilascio dei titoli abilitativi” e per le quali i relativi proprietari potevano presentare domanda di concessione in sanatoria. Un caso in cui la Regione siciliana aveva anticipato il provvedimento di condono. 26


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ne del comune di Licata del 2017, che ha visto il consiglio comunale sfiduciare il suo sindaco, reo di voler adempiere alle prescrizioni di demolizione a seguito di sentenze passate in giudicato. Una vicenda che coinvolgeva 400 case illegali, perché costruite entro la fascia dei 150 metri dal mare, distribuite su una lunghezza della costa di 18 km. Edifici che, proprio per la loro posizione, non avevano potuto usufruire dei provvedimenti delle sanatorie precedenti, ed erano vissuti dai proprietari come negazione impropria di un diritto acquisito. Demolire è, comunque e sempre, problematico in quanto è un processo complicato, lungo, costoso e doloroso, tuttavia la disobbedienza civile di intere comunità contro le decisioni della magistratura dà il senso della difficoltà del rapporto fra società e territorio, fra i cittadini e lo Stato, fra libertà individuali e rispetto delle regole e dei valori civili, per come è stato possibile rilevarlo, almeno, nell’estate del 2017. Lo stesso presidente dell’Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone nel rimarcare le dimensioni del problema, dopo aver criticato le “opposte radicalità” incancrenite da sanatorie e/o abbattimenti ad oltranza, ha tentato una mediazione proponendo una terza via ovvero un piano straordinario concordato con le amministrazioni che “ridisegni con chiarezza la geografia urbanistica dei territori” e si basi sulla demolizione delle costruzioni “totalmente” abusive e recuperi quanto inserito in contesti urbanizzati. Parole sagge, ma di non facile applicazione, in quanto prefigurano una possibile soluzione all’interno di un quadro decisionale minato dalla discrezionalità nell’interpretazione del vincolo, che dovrebbe riporta-


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re la legalità in situazioni dove la mancanza di fiducia fra chi amministra e chi è amministrato è il primo fattore di produzione dell’abusivismo. Proteggere Non tutto va male nel 1985, infatti viene varata la legge 431/85 “Dichiarazione delle aree di notevole interesse pubblico dei terreni costieri, dei laghi, dei fiumi, dei torrenti, dei corsi d’acqua, delle montagne, dei ghiacciai, dei cerchi glaciali, parchi, riserve, boschi e foreste”. Il provvedimento è noto come legge Galasso dal nome del sottosegretario ai Beni culturali che, nei governi Craxi I e Craxi II, lo presentò e lo condusse in porto. Con la nuova legge — scrisse, con un certo ottimismo, Antonio Cederna — il territorio nazionale viene sottoposto a due tipi di vincolo. Con un vincolo permanente, generale, immediato, vengono tutelati i litorali, laghi, fiumi… aree archeologiche. È un grande progresso rispetto all’unica legge tuttora esistente che risale addirittura al 1939. Vengono infatti vincolate intere categorie di beni (litorali, montagne, boschi, ecc.) che sono poi le linee fondamentali del nostro paesaggio, e quindi la tutela viene bassata su un criterio oggettivo: mentre prima veniva esercitata in modo casuale e discrezionale su aree limitate, a seconda dell’umore e dei gusti delle commissioni provinciali e dei soprintendenti. […] Il secondo vincolo è quello che prescrive inedificabilità assoluta e temporanea nelle aree di maggior pregio ambientale […] che vale fino al 31 dicembre 1986, nella fiducia che entro quella data le Regioni abbiano provveduto ad approvare gli strumenti urbanistici necessari, piani paesistici e piani territoriali, finalmente rispettosi di ambiente e paesaggio29. 29

A. Cederna, La legge di Natura, in «L’Espresso», 18 agosto 1985.


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Gli effetti positivi della legge saranno numerosi, si pensi, per esempio, al permanere del vincolo nelle aree boschive dopo gli incendi, e soprattutto alla chiara esplicitazione dello stretto legame fra ambiente, paesaggio e qualità della vita, ma si ripercuote su una delle attività ‘sportive’ più popolari, allora, in Italia: la caccia, che si organizzerà in rappresentanze politiche, che agiranno soprattutto a livello di Regioni fino a tutto il decennio successivo. Gli effetti sperati sulla pianificazione non si realizzeranno pienamente, in quanto il provvedimento verrà interpretato nella sua parte vincolistica senza coglierne la portata propositiva che, attraverso i piani paesaggistici regionali, avrebbe potuto e dovuto manifestarsi. Le Regioni, a parte la Liguria (adozione nel 1986) e l’Emilia Romagna (adozione 1989), sembrano più orientate all’aggiornamento di provvedimenti precedenti o a proposte su determinate aree, che a sperimentare pratiche e piani ambientali e paesaggistici, mentre a livello statale da parte del Ministero non vi è nessuna significativa azione riferita alla raccolta di informazioni e documentazioni o al coordinamento (indirizzo e supporto) delle iniziative delle Regioni. Si manifesta cioè una stasi, frutto del conflitto di competenze fra i poteri decentrati e quello centrale, che origina dal problema della fragilità permanente di una legge quadro urbanistica (quella del 1942) che si somma a quelle sulla protezione delle cose e delle bellezze che risalgono al 1939, e, come se non bastasse, tutta la materia ha un’ulteriore complicazione nel frazionamento delle stesse competenze che a livello centrale sono divise fra i diversi ministeri dei Beni culturali, dell’Ambiente e dei Lavori pubblici. A tutto questo si aggiunge l’insoluto (forse irrisolvibile)


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problema dell’applicazione dei vincoli, che per loro natura nell’ordinamento italiano sono ‘statici’, per loro sventura sono ‘interpretabili’ e, comunque, sempre ‘poveri’ per la mancanza di qualsiasi coordinamento decisionale che li priva di un adeguato sostegno economico. La gestione della legge 431, in carico al Ministero dei Beni Culturali, resta impigliata in questo meccanismo, risultando lenta nella sua applicazione e carente degli elementi innovativi che avrebbero dovuto caratterizzarla. Inoltre, nonostante il merito di affrontare i grandi temi connessi allo sviluppo, la legge agisce separatamente dalle problematiche ambientali che, se pure evidenziate fin dal decennio precedente con la Conferenza di Stoccolma (1972) e la successiva istituzione dell’UNEP (United Nations Environment Programme30), in Italia stentano ad assumere appropriata consistenza, nonostante che la Comunità europea, dopo il Programma d’Azione alla metà degli anni ‘70, nel giugno del 1985 avesse varato la Direttiva n. 85 sulla Valutazione d’impatto ambientale (VIA) con l’esplicitazione dell’iter e della tempistica da seguire fin dalla fase precedente all’esecuzione dell’opera come elemento fondamentale per attuare un efficace controllo31. La necessità di disporre di strutture adeguate in grado di fa30 La missione dell’UNEP può essere sintetizzata: 1. monitorare la situazione ambientale globale; 2. promuovere il coordinamento e la cooperazione internazionale; 3. diffondere le informazioni scientifiche e le normative standard per facilitare lo sviluppo; 4. coordinare le diverse convenzioni internazionali sull’ambiente. 31 La Direttiva n. 87/3337/CE prefigura un protocollo procedurale in quattro fasi, che partendo dallo studio e dalla redazione del piano preliminare d’impatto si accompagnano alla consultazione delle amministrazioni interessate, e a quella dell’informazione alle popolazioni per arrivare, infine, alla fase autorizzativa.


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re fronte ai problemi ambientali viene recepita dal secondo governo Craxi con l’istituzione, l’8 luglio 1986, del Ministero dell’Ambiente (legge 349/86). Il nuovo dicastero si trova ad affrontare dapprima le questioni di riallineamento normativo con il complesso legislativo nazionale nonché quelle di raccordo con le politiche europee, e solo nel 1988 (ministro Giorgio Ruffolo) può iniziare una politica di integrazione fra sviluppo e risorse basata sul concetto di sostenibilità in sintonia se pure tardiva con quanto stava maturando in Europa, che vede l’entrata in vigore delle direttive per la qualità dell’aria (n. 203/88), dell’acqua (n. 236/88) e sulla VIA per alcune grandi opere (autostrade, dighe ecc.). Provvedimenti che troveranno più compiuta sistematizzazione con la legge 183/89 “Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo” e con la 146/94 “Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee” e il DPR del 12 aprile 1996 che contiene l’elenco delle opere da sottoporre a procedura di valutazione. L’ambiente, nel corso degli anni ‘80, acquisterà un peso sempre maggiore in relazione ai temi dell’inquinamento (aria, acqua e suolo) e dei cambiamenti climatici, ma, malauguratamente, le sue azioni verranno gestite in modo del tutto separato da quelle per il paesaggio e la sua protezione e, per gran parte, anche da quelle territoriali su cui interverranno, più concettualmente che operativamente, molte leggi regionali. Le Regioni fra programmazione e pianificazione L’elemento che sembra accomunare la politica territoriale delle Regioni è la necessità di definire obiettivi, stru-


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menti e tempi per una pianificazione finalizzata alla soluzione degli squilibri interni e alla promozione dello sviluppo attraverso la formazione di piani o di documenti programmatici costruiti e supportati dalle analisi e dagli studi che i Centri di ricerca regionali stanno allestendo sviluppando in parallelo l’organizzazione del sistema informativo territoriale (cartografia tecnica regionale). Naturalmente, non sono poche le diversità che caratterizzano le singole esperienze, ma in quasi tutte compare, almeno fino alla metà degli anni ‘80, la definizione della dimensione intermedia di piano, iniziata già nel decennio precedente, ma che non sembra produrre i risultati sperati e, anzi, fa emergere tutte le difficoltà “che la dimensione regionale denuncia in molti interventi localizzativi e nell’esercizio del controllo sull’attività insediative”32. Molta attenzione viene data alla costituzione delle aree naturali protette (riserve, parchi) e al recupero edilizio in attuazione della legge n. 457 del 1978. Su quest’ultimo tema si muovono soprattutto la Toscana con la LR 59/80 “Norme per il recupero del patrimonio esistente” e la Lombardia con la LR 22/86 “Promozione dei programmi integrati di recupero del patrimonio edilizio esistente”, mentre il Piemonte continua un percorso più complessivo, avviato dall’assessore Astengo nel quinquennio precedente che aveva visto l’approvazione della LR 56/77 sulla “Tutela e uso del suolo”, varando le “Norme in materia di beni culturali, ambientali e paesistici” (LR 20/89). Le Regioni, in questo periodo, sembrano comportarsi co-

Cfr. INU, Regioni, programmazione e pianificazione territoriale, Roma 1981, p. 98.

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me enti locali ‘più grandi e con qualche potere in più’ senza sfruttare a pieno la portata del loro potere legislativo e la possibilità di innescare processi di programmazione, che sarebbero particolarmente necessari in un momento in cui sembra affievolirsi l’attenzione a livello nazionale proprio su questo aspetto. Generalmente le leggi regionali in materia di territorio restano all’interno dall’articolazione e definizione delle procedure, sia pure con alcune interessanti intuizioni come nella legge della Toscana n. 74/1984 “Norme urbanistiche integrative” che ha contenuti procedurali, ma che sembra concepita come una legge-quadro in attesa di un analogo provvedimento nazionale in quanto definisce criteri e direttive per la formazione degli strumenti urbanistici comunali in un’ottica di coordinamento intercomunale con l’introduzione delle Conferenze di Area (tavoli di confronto fra soggetti istituzionali, soggetti sociali e operatori pubblici e privati) che avrebbero dovuto dar vita, attraverso i successivi Schemi Strutturali, a proposte di programmazione di area vasta. È il tentativo di proporre il livello di programmazione e pianificazione intermedio, in grado di superare le limitazioni dei confini comunali agendo all’interno del dettato costituzionale. L’esperienza applicata più significativa è quella dell’area metropolitana Firenze-Prato-Pistoia33 che, intervenendo sull’area centrale e più complessa della Toscana, si pone come il tentativo di conciliare la struttura regionale in rapporto ai sistemi sovracomunali34, prefiguIl Piano viene istituzionalizzato con la LR Toscana n.4/1990, su questo si veda, Verso l’area metropolitana, in Quaderni di Urbanistica Informazioni, n 7/1990. 34 Per l’ente intermedio la Regione Toscana, dopo il fallimento di una ipo33


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rando un insieme di coerenze territoriali trasferibili dallo Schema territoriale ai comuni che lo compongono. Il sistema introdotto è stato definito ‘a formazione progressiva’ in quanto il rapporto fra il livello regionale (Quadro territoriale di coordinamento-QRT e Piano regionale di sviluppo-PRS) e quello di area vasta è “costituito da complessi dotati di autonomia funzionale (direttive, prescrizioni e vincoli) che possono essere composti a dimensione variabile [… e] alla cui composizione concorrono soggetti istituzionali diversi”. Un’interessante proposta connotata da una flessibilità definibile in relazione ai territori e ai problemi, ma a cui corrisponde (né potrebbe essere diversamente in riferimento alla legge del 1942, sia pure con modifiche e integrazioni) la centralità del livello della pianificazione comunale che dovrebbe adeguare i propri strumenti agli esiti dei Quadri e degli Schemi territoriali, ma che è riluttante a piegarsi a logiche diverse dal modello tradizionale, per aderire al quadro che si riferisce ad un “rapporto non risolto tra pianificazione sovracomunale, ancora tutta da sperimentare, e piano urbanistico comunale”35. In definitiva il QRT si pone come “…una sorta di griglia entro la quale si possa configurare, con la massima autonomia possibile, l’azione degli enti intermedi e dei comu-

tesi di suddivisione in comprensori, utilizza la maglia territoriale prodotta dalla riforma sanitaria con le USL (Unità Sanitarie Locali) per individuare le Associazioni intercomunali (il territorio viene suddiviso in 32 Associazioni), enti giudicati funzionali alla gestione dei servizi sociali e al coordinamento dei relativi piani comunali. 35 Cfr. M. Gamberini, L’esigenza di un testo unico nella normativa urbanistica regionale, in Quaderni di Urbanistica Informazioni, La pianificazione regionale in Toscana, (a cura di G. De Luca) n. 10/1991, pp. 104-109.


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ni” e nel primo periodo, mancando un vero piano regionale “il livello centrale trasmette le sue scelte sotto forma di delibere o di leggi subsettoriali, quando ritiene che occorrano e riproducendo in qualche modo il modello ministeriale di discrezionalità delle scelte che si legge nella 1150/42. (…) in materia di assetto del territorio non esiste nessuna strategia….con una legislazione che non ha fatto in definitiva nessuna scelta che non sia quella dell’amministrazione corretta, ma notarile, della pianificazione di livello comunale”36. Tuttavia i provvedimenti assunti più che rivedere o procedere ad innovazioni nella strumentazione, hanno l’intento di favorire una gestione efficiente delle normative in vigore e l’incentivazione alla formazione di strumenti urbanistici su tutto il territorio regionale, nonostante le turbative conseguenti all’emanazione della LR 10/79 “Norme urbanistiche transitorie relative alle zone agricole” che interviene non solo in materia di uso agricolo del suolo (Piani aziendali), ma anche sulla valutazione del rapporto fra fabbricati esistenti e attività dando la possibilità del cambio di destinazione d’uso da agricolo a residenziale e prefigurando un’arretrata separazione concettuale fra spazio urbano e campagna. Fra gli esiti negativi della legge c’è stato il vasto e diffuso fenomeno della riconversione degli edifici a residenza turistica che ha interessato tutta la Toscana. L’Emilia Romagna, nel 1984, si trova costretta a prendere atto del fallimento della politica dei comprensori e abo-

Cfr. F. Lombardi, Toscana, in INU, Regioni Programmazione Pianificazione territoriale, Edizioni delle Autonomie, Roma1980.

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lisce i comitati comprensoriali37, attribuendo le funzioni alle Province, mentre sul fronte degli strumenti di pianificazione territoriale, oltre al Piano regionale, introduce il Piano territoriale di coordinamento infra-regionale come un nuovo livello intermedio finalizzato a localizzare aree per gli insediamenti produttivi e commerciali. Con la legge n. 36/1988, “Disposizioni in materia di programmazione e pianificazione territoriale”, i piani infra-regionali vengono assegnati alle Province ed hanno contenuti analoghi ai PTCP38. Ma la cosa più interessante di questi anni è la formazione del Piano Paesistico conseguente all’approvazione della legge Galasso che la Regione Emilia-Romagna mette a punto, utilizzando il ricco materiale predisposto per i piani comprensoriali, e contemporaneamente39 procede alla redazione del Piano territoriale regionale (PTR) impostato sul modello policentrico, sul riequilibrio dell’assetto territoriale e sul rapporto sviluppo/ambiente. Con il Piano paesistico, l’Emilia Romagna vuole affermare la fine della cultura dell’emergenza in materia di ambiente e paesaggio e individuare la tutela come valore primario integrante e integrato nelle trasformazioni del paesaggio, partendo dall’attuazione della legge 431, che viene vista come punto di svolta nella gestione del territorio solo se costituirà contestualmente l’occasione per rifondare una nuova cultura dell’ambiente, per promuovere una ridefinizione strategica della pianificazione, per creare una nuova cultura urbanistica L.R. n.6/1984, Norme sul riordino istituzionale, artt. 23-40 Piani territoriali di coordinamento provinciali. 39 Il Piano Territoriale Regionale e il Piano Paesistico Regionale vengono adottati nel 1989 e approvati rispettivamente nel 1990 e nel 1993. 37 38


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in cui confluiscono cultura dell’ambiente, cultura di piano, cultura amministrativa. Il piano, messo a punto sotto l’assessore Felicia Bottino, individua una metodologia che partendo dalle “invarianti territoriali” individua l’ambiente come risorsa da tutelare e valorizzare, restaurare o restituire a meno precarie forme di equilibrio quando già degradato” che “pone condizioni e occasioni alle politiche di sviluppo economico e sociale” in cui “la tutela per essere efficace non deve essere indifferenziata, ma assumere di volta in volta finalità che si basino su giudizi di valore specifici, differenziati” e dunque deve essere vista non come “polo frenante della coppia conservazione/sviluppo, ma come esplicitazione dei gradi di modificabilità delle configurazioni ambientali e della flessibilità dell’uso compatibile con il giudizio di valore attribuito alle configurazioni stesse” ed è su questa base che “sono stati individuati e disciplinati i contenuti del piano, cioè le ‘invarianti territoriali’ dell’intera Regione: dalle zone ed elementi che strutturano la forma del territorio (grande sistema appenninico, costiero, fluviale, dei boschi e della pianura agricola); alle zone ed elementi di particolare interesse storico-archeologico e testimoniale; alle zone ed elementi di rilievo naturalistico; alle zone ed elementi le cui caratteristiche fisiche a rischio (franosità, permeabilità, pendenza ecc.) richiedono particolari limitazioni all’edificazione40.

Il Piano Paesistico si articola, anticipandole, in quelle che diventeranno le metodologie dei migliori piani di paesaggio, partendo dalla definizione delle Unità di paesaggio41 e procedendo attraverso la suddivisione delle indicazioni di piano in Prescrizioni cogenti ed Indirizzi e PrescrizioF. Bottino, Il piano pesistico dell’Emilia Romagna, in «Urbanistica» n. 87/1987, pp. 48-80, citazione riferita a p. 51. 41 Per ‘Unità di paesaggio’ si intendono ambiti di paesaggio con specifiche, distinte e omogenee caratteristiche di formazione ed evoluzione. 40


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ni rivolte alla pianificazione locale, in grado di concorrere a definire quella processualità di piano, necessaria per affrontare il problema delle trasformazioni e che, in questo primo stadio, è individuato come il passaggio dalla scadenza del 1986 (lettura e individuazione dei beni, primo step dell’attuazione della legge 431) alla definizione delle fasi successive attinenti alla valorizzazione e gestione delle risorse ambientali e paesaggistiche. Le Regioni sono compresse fra le difficoltà operative connesse all’esercizio della programmazione e la necessità di doversi misurare con la ricaduta dei provvedimenti statali che, in non pochi casi, tendono ad innescare un meccanismo riproduttivo delle normative e, nella loro trasposizione in atti, incidono solo in minima parte sulle politiche dei Comuni per la mancanza di quel coordinamento a livello intermedio che era stato il grande tema sul tappeto e di cui si registrava la sconfitta. Non era peraltro sufficiente il ripiegamento, necessario dal punto di vista istituzionale, sulla la Provincia come unico ente in grado di mettere in campo qualche potere effettivo (infrastrutture viarie, scuole superiori, paesaggio) e a cui, se vogliamo, in qualche misura, potevano affiancarsi le Comunità montane. Si manifesta così una sorta di paradosso in cui le previsioni regionali in riallineamento alle direttive di settore può avvenire solo ex post ovvero nel momento del controllo sull’approvazione dei PRGC e non nella fase preventiva di formazione degli strumenti, con la conseguenza di una dilazione e una perdita di efficacia delle iniziative. Un meccanismo che investe tutti i piani da quello per la casa, a quello per i porti e gli approdi, per i trasporti (viabilità, ferrovie, aeroporti, porti, trasporto merci, trasporto


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pubblico locale), per le attività estrattive, fino al piano dei carburanti o a quello dei rifiuti solidi e dei fanghi. È una delle numerose contraddizioni che caratterizzano quello che può essere definito come il periodo dell’incertezza della programmazione, in cui si fanno piani di settore su tutto, esistono le Regioni, ma, alla fine, i provvedimenti si applicano direttamente ai territori comunali. Come se non bastasse, poiché ogni piano fa capo ad un particolare e specifico assessorato e/o ministero, si produce una sovrapposizione non correlata di azioni che diventa particolarmente evidente per le materie che interagiscono in modo considerevole nei contenuti che dipendono da più assessorati, come nel caso del piano sanitario o dei piani che riguardano i settori produttivi, agricoli e non agricoli. Un funzionamento che crea una pletora di piani, progetti e azioni, tutti riferiti al comune e/o agli ambiti su cui possono applicarsi i finanziamenti e che, solo raramente, riesce ad avere adeguati e positivi coordinamenti e sinergie a livello regionale o sub-regionale. Inoltre, i finanziamenti europei, quando arrivano, influiscono appesantendo questa situazione, in quanto affiancano alle politiche e alle misure di settore quelle dell’azione sui territori inquadrati a seconda del loro sviluppo e del loro grado di industrializzazione/deindustrializzazione, creando disparità di trattamento non solo fra le diverse parti della penisola (aree obiettivo42), ma anche all’interno dei singoli ambiti regioSono le aree cui si possono applicare i fondi strutturali. Per la programmazione 2003-2006 avevano 3 obiettivi: 1. promuovere lo sviluppo e l’adeguamento strutturale per le regioni con un PIL pro capite minore del 75% della media europea (es. Mezzogiorno); 2. sostenere la riconversione socioeconomica delle zone con difficoltà strutturali; 3. per le regioni escluse dall’obiettivo 1, sostegno a formazione, istruzione e occupazione.

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nali e, cosa particolarmente grave, agiscono in modo pressoché autonomo rispetto ai piani e programmi delle stesse Regioni, che si trovano a recepire anziché a proporre. Una contraddizione che sarà solo in parte sanata nel 1999 con lo “Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo” che, se pure non vincolante, costituirà un quadro intergovernativo finalizzato alla cooperazione tra le politiche comunitarie settoriali con impatto significativo sul territorio. Architetture e città Il vuoto, lasciato dall’urbanistica nel progetto della città, viene occupato dall’architettura. Le città iniziano la gara per avere i progetti più prestigiosi, gli edifici più iconici e le firme delle più note archi-star. Siamo solo agli inizi di un processo in cui gli architetti si vanno sostituendo agli urbanisti e propongono immagini caratterizzanti per i nuovi pezzi urbani, che devono essere riconoscibili e unici, tanto da diventare un richiamo nel rapporto di concorrenza fra le città, che si va istaurando anche sotto gli auspici delle politiche europee. L’immagine, il brand, diventa l’obiettivo di ogni amministrazione locale, tanto che ogni riferimento alle quantità, siano essi limiti di altezza, rapporti di superficie o aree per servizi, è bandito dal vocabolario del ‘buon urbanista’. Ormai, un piano per essere adeguatamente progettato deve vedere affiancate le figure dell’urbanista e dell’architetto (si pensi a Campos Venuti e Paolo Portoghesi, a Bologna) in modo da poter disegnare le forme delle sostituzioni urbane. Un obiettivo che è sicuramente corretto in relazione al passato, quando nella foga dell’espansione si era perso ogni legame con le architetture, ma che in questo mo-


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mento si pone come valore assoluto quasi divergente nei confronti di un rinnovamento che dovrebbe riguardare il futuro della città nel suo complesso e in cui le sostituzioni dovrebbero essere collocate e risultare coerenti rispetto ad un progetto generale anziché articolarsi per ‘pezzi speciali’ che dovrebbero essere in grado, da soli, di fare la differenza in termini di qualità. Va detto che, almeno, in una prima fase, il PRG si relaziona ancora con l’intero territorio comunale compiendo imprese ciclopiche di definizione del disegno urbano alle varie scale43, ma di fronte a questa sfida i piani, inevitabilmente, tendono a perdere di coesione per focalizzarsi su ambiti parziali, che si accompagnano ad indicazioni di carattere programmatico assai generiche. Si va componendo uno specifico e vario glossario fatto di Schemi direttori, Progetti preliminari, Quadri strategici, che sostituiscono il PRG (che ancora esiste, perché la legge lo prevede): si pensi a Milano (ma certo non è il solo caso) in cui tutto viene delegato affidato ai ‘documenti direttori ad efficacia interna’ che si sostituiscono e si sommano alle varianti senza che vi sia una revisione generale del PRG. Siamo di fronte agli ‘atti non cartografati’ che si rifanno a delibere — di consiglio e, talvolta, di giunta — che si sovrappongono agli elaborati di piano. In questa affannata gestione dell’urbanistica affiorano altre denominazioni che individuano gli strumenti attuativi del PRG, che non sono più semplici piani particolareggiati e/o di recupero, ma, in quanto ambiscono a configurare la città di

Si veda, ad es., il PRG di Sassuolo redatto da Tiziano Lugli e riportato in «Urbanistica» n. 76-77/1984 pp. 76-130.

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fine Millennio, diventano qualcosa di significativamente diverso. Compaiono le Schede o Aree di progetto (Ancona 198844), i Disegni di Suolo, i Progetti Norma (Siena; 1986), i Progetti Guida (Arezzo 1985), le Zone Integrate di Settore (Bologna 1985) e quant’altro si possa individuare come indicazione progettuale propositiva e sperimentale mai usata in precedenza. La nuova nomenclatura ha, tuttavia, un vulnus in quanto non essendo prevista nella legge urbanistica nazionale, sempre riferita al 1942, non è cogente a meno che non abbia una specifica definizione e collocazione nelle normative regionali. Si somma dunque una doppia aleatorietà: quella nuova del non-strumento e quella atavica della mancanza di finanziamenti necessari per la realizzazione. I progetti, restituiti spesso attraverso una quantità notevole e pregevole di elaborati e dettagli, nella quasi totalità dei casi non sono vincolanti e non hanno alle spalle un investimento certo e, quindi, si pongono rispetto al piano come proposte indicative e/o suggerite che possono essere ridefinite in qualsiasi momento, in base alle intenzioni, ai tempi e all’esigenze del mercato. Mercato: parola magica che inizia a dominare la scena italiana in economia come in politica. Ben presto si parlerà, a buona ragione, della finanziarizzazione dell’urbanistica. Il piano, che resta un adempimento di legge, ha ormai l’aspetto di un contenitore che ha perso la sua valenza socia-

44 Cfr. P. Gabellini, Il disegno urbanistico, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1967; per esperienze di piano di quegli anni, cfr. Rovereto («Urbanistica» n. 94/1989) di Pistoia e Arezzo («Urbanistica» n.95/1989), e Nuovi piani, a cura di P. Di Biagi e P. Gabellini in «Urbanistica» n. 95/1989 pp. 7-42.


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le per diventare il campo prevalente su cui si applicano e si sovrappongono le iniziative dei privati. La partecipazione popolare che aveva caratterizzato il decennio precedente, è sempre più episodica e viene incanalata in binari strutturati da provvedimenti legislativi in cui il cittadino non è più portatore di interessi sociali (l’assemblea popolare che dialoga con i rappresentati eletti), ma è il delegante di gruppi organizzati e politicamente individuabili. L’urbanistica è sempre più stretta fra amministratori che la vedono come un limite alle loro decisioni, promoter e investitori che vanno sostituendosi ai proprietari (e certo non si sentono responsabili dei destini dei territori, ma sono concentrati sul rivenuto economico delle operazioni che intraprendono), professionisti che tentano di sopravvivere inventandosi escamotage progettuali attraenti e cittadini che, esclusi dalla definizione delle scelte, stanno dirigendo le loro energie verso nuove priorità. Un piano identificativo di questo periodo è, certamente, il PRG di Siena (1987-90) affidato a Bernardo Secchi, che si propone di intervenire in un sistema urbano definito dai crinali delle colline con interventi non invasivi e congruenti con la protezione del paesaggio che il piano Piccinato del 1956 aveva garantito. Dopo un primo tentativo di regolamentare gli interventi sul territorio con Progetti Norma, si procede con una sequenza di Piani strategici, Proposte di progetto e Progetti che nella loro interazione definiscono la strategia (esplicitata, a monte, nella “Struttura del piano”) e ne garantiscono l’attuazione, condizionata dall’esplicitazione delle limitazioni derivanti dalle situazioni geomorfologiche (“Fattibilità degli interventi”) e dai vincoli nazionali e regionali vigenti, con indicazioni


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e normative applicate ai tessuti urbani consolidati45 e con progetti specifici, fra i quali il “Progetto di suolo” che definisce il “sistema configurato” degli spazi aperti pubblici e collettivi (verde, piste ciclabili ecc.) e il “Miglioramento del suolo per il recupero delle aree degradate” che si pongono come progetti attuativi e sono redatti con risoluzione planivolumetrica, carattere flessibile e dotati di “congruenza interna” legata alla specificità dell’intervento. Gli obiettivi dei PRG più interessanti di questi anni vanno in questa direzione, magari ricercando una maggior agilità nella struttura come ad Arezzo, dove opera lo studio Gregotti Associati (1987) o rafforzando le tematiche di area vasta come a Pistoia dove lavorano Astengo e De Carlo che procedono per Obiettivi, partendo dalla riorganizzazione dell’esistente (Progetti Guida) e tentando la sua integrazione con il sistema agricolo produttivo (florovivaismo) della pianura e quello ambientale della collina e della montagna, nel quadro di un riordino del sistema infrastrutturale che si inserisce nello Schema territoriale Firenze-Prato-Pistoia che la Regione Toscana stava, negli stessi anni, definendo. È opportuno richiamare il Congresso INU di Chieti “Per una politica integrata per il territorio” del 1986, dove il presidente nazionale, Edoardo Salzano, tenta una rivendicazione del ruolo della pianificazione territoriale e urbanistica in quanto strumento “indispensabile in una so-

Le normative sui tessuti consolidati sono regolate dagli “Usi e le Modalità di intervento applicata alla totalità degli edifici”, dagli “Abachi delle tipologie edilizie” e dalle “Guide per gli interventi e riferite a zone e sottozone” trattate a diverse scale (es. la città entro le Mura/1:500, la città fuori le mura/1:2.000 e il territorio rurale/ 1:5000).

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cietà complessa qual è la società moderna, e democratica” in cui chiarisce come il termine sviluppo sia da relazionarsi a quello delle risorse e dell’ambiente (va ricordato come nel maggio del 1986 vi era stata l’esplosione alla centrale nucleare di Cernobyl in Ucraina) e come per questo sia indispensabile una visione integrata che ha nel piano un atto indispensabile, ma non esaustivo in quanto “la pianificazione… è un’attività permanente e sistematica volta al governo delle trasformazioni”. Una concezione ‘dinamica e processuale’ che doveva essere alla base della legge10/77 e dei suoi Piani poliennali d’attuazione, ma come lo stesso Salzano rileva, con un certa amarezza, così non è stato e, anzi, deve evidenziare come i PRG siano diventati esperienze che iniziano e si interrompono, che si risolvono in documenti preliminari o si materializzano in bozze di piano che appaiono e poi scompaiono per anni, “quasi fiori all’occhiello di questo o quell’assessore, rapidamente avvizziti dopo aver consentito a chi li portava di fare bella figura”46.

La relazione è riportata nel Dossier Congresso 5/86, in «Urbanistica Informazioni» n. 89 settembre-ottobre 1986 p. 50 sgg.

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il piano è una struttura di pensiero fortemente contraddittoria: da un lato si presenta come controllo del futuro sviluppo, dall’altro come ipotesi, scelta e interpretazione particolare dell’interesse collettivo. Vittorio Gregotti


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Ambiente, riforma delle autonomie locali e programmi per il recupero urbano sono i temi che caratterizzano l’ultimo decennio del secolo XX che, da un punto di vista politico, si configura tumultuoso sia per il susseguirsi degli scandali che esasperano l’opinione pubblica sia per le alternanze dei governi che ogni volta operano in totale discontinuità con i precedenti. Paradossalmente ad una maggiore durata dell’esecutivo corrisponde un’incoerente intermittenza dei provvedimenti e un inasprimento del dibattito politico che si allontana sempre più dai temi di interesse generale e sociale. Con la fine delle ideologie, la politica va alla ricerca di un consenso impersonato dalle figure dei leader che si pongono come nuovi autocrati capaci di innovare (un nuovo sempre più nuovo) le pratiche politiche e raddrizzare le sorti del paese. Spariscono i partiti tradizionali dell’Italia repubblicana1, sostituiti da nuove formazioni che hanno un minor grado di rapporto con il territorio e una debole coesione interna. Fra il 1992 e il 1994 l’Italia è, infatti, oggetto di un rivolgimento istituzionale che, muovendo dagli scandali di Tangentopoli Il PCI diventa Partito democratico della sinistra (PdS) ma nel 1994 il suo fondatore Achille Occhetto si dimette a seguito della sconfitta elettorale, sempre nel 1994 il PSI viene sciolto, mentre la DC nel 1993 diventa Partito Popolare. Cfr. V. Spini, La rosa e l’Ulivo, Badini & Castoldi, Milano 1998.

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(1992) e dall’indagine Mani Pulite, porta al cambiamento del quadro politico con la scomparsa di due dei partiti ‘storici’ (PSI e DC) e con la nascita di nuove formazioni come Forza Italia (1994), la Lega Nord (1992) e Alleanza nazionale (come trasformazione del MSI nel 1995) che approda a quella che viene definita la Seconda Repubblica, nella quale ci si inoltra non solo con una nuova legge elettorale, ma anche con la costruzione di un nuovo assetto istituzionale. L’ambiente Alle soglie degli anni ‘90, il territorio italiano appare come una serie di campionature insediative autoreferenziali e, almeno apparentemente, non consapevoli della loro interdipendenza: le campagne sono invase dalle costruzioni, i centri urbani sono collegati da una ragnatela non gerarchizzata di infrastrutture di comunicazione sulle quali si incistano incessantemente altri insediamenti. Il consumo e lo stato del suolo sono sempre più preoccupanti, mentre le città subiscono modificazioni interne continue che le amministrazioni non sembrano capaci di controllare e coordinare. Su una situazione multiforme ed eterogenea si abbattono non poche calamità naturali come frane e alluvioni (Piemonte 1994, Lombardia e Sicilia Orientale 1995, Toscana e Calabria 1996, Campania/Sarno 1998, Liguria 2000) e terremoti (Umbria e Colfiorito 1997) che denunciano ed evidenziano tutte le debolezze del territorio italiano, cui si aggiungono le continue emergenze dovute a incuria e mala amministrazione, come quella dei rifiuti (stoccaggio, smaltimento, rifiuti tossici e pericolosi) che risparmia pochissime zone della penisola.


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Le prime riflessioni d’insieme sullo stato del territorio sono quelle del Ministero dell’Ambiente che, dopo un iniziale periodo organizzativo, è ormai in grado di fare un bilancio e di denunciare la parziale e lacunosa attuazione del suo piano triennale 1989-91 (ministro Ruffolo), evidente anche per l’avanzo di gran parte dei finanziamenti pari a 5.000 miliardi di lire. I soldi risultano non spesi per i due terzi e, di conseguenza, le opere previste non sono state realizzate: il meccanismo di trasmissione Stato-Regioni non ha funzionato come era stato ipotizzato2. Ma le cause non sono solo tecniche. Il paese è nel caos di ‘Tangentopoli’, che in un primo momento sembrava circoscritta ad episodi particolari come quelli degli scandali edilizi di Savona (già nel 1983) e di Torino e legata prevalentemente al finanziamento occulto ai partiti (certo, non poca cosa), ma che ben presto diventa evidente in quanto la sua dimensione “non riguardava soltanto le singole aree di corruzione, rami marci da tagliare, ma stava diventando a poco a poco una cupola, che spartiva in modo perverso le risorse del nostro paese, distorcendo la spesa pubblica con logiche inique e irrazionali, estranee all’esigenze dell’ambiente, come nel caso dell’opera per opera”3. La spesa avveniva secondo un meccanismo che si è rivelato lungo e complesso, infatti le Regioni dovevano stipulare Intese con il Ministero e definire i loro progetti all’interno degli 11 Programmi operativi individuati a livello statale per il risanamento e la tutela ambientale, ma i tempi lunghi (circa due anni) per definire le Intese hanno fatto sì che solo il 25% dei fondi impegnati siano stati impegnati. 3 Cfr. V. Spini, L’ambiente come opportunità, opuscolo supplemento a Progetti n.1, Firenze gennaio 1994. Si veda inoltre con lo stesso titolo il numero monografico sull’ambiente dei “Quaderni del Circolo Rosselli, QCR”, n. 1 del 1994, Franco Angeli ed. Milano, luglio 1994. 2


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L’ambiente rappresenta, in questo momento, una sorta di approdo ‘pulito’ e la speranza di un ribaltamento sia degli stili di vita che del modo di fare politica. È, infatti al centro di un diffuso interesse popolare tanto che riesce a darsi una sua rappresentanza associazionistica e partitica, e sembra avere la capacità porsi come il campo di convergenza per azioni che si confrontano su problemi e scale di intervento diverse, nelle quali sono riconoscibili le interdipendenze e complementarietà. Il Quarto Programma d’Azione europeo (1987-92) agisce proprio su questi temi e delinea con chiarezza un approccio globale, che è supportato da strumenti e finanziamenti4. Il territorio, dunque, non è più da considerarsi come un contenitore indifferenziato, capace di accogliere tutto, ma diventa una risorsa primaria da proteggere e da usare secondo regole definite e condivise. Non va dimenticato come il 1992 sia una sorta di anno spartiacque per le politiche ambientali di tutto il mondo: la Conferenza di Rio, infatti, definisce il piano d’azione (Agenda 21) che impegna i Governi ad adottare una strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile. Il 1992 è anche l’anno del Trattato di Maastricht (firmato il 7 febbraio 1992) che all’art. 2 individua la necessità per l’Unione Europea di perseguire “una crescita sostenibile, non

inflazionistica e che rispetti l’ambiente” in accordo con il Rapporto Brundtland (Our common future) che introduceva il concetto della salvaguardia delle risorse per le 4 Il Quarto Programma d’Azione, fa seguito all’Atto Unico Europeo (1986) ed è affiancato dalla Conferenza di Dublino del Consiglio Europeo del 1990, cui fa seguito nello stesso anno il Libro verde sull’ambiente urbano.


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Rio 1992; Gro Harlem Brundtland; Our Common Future

generazioni future e affermava quello della sostenibilità nello sviluppo. L’Italia si adegua alle indicazioni europee con un piano nazionale, che viene approvato dal Comitato Interministeriale per la Programmazione (CIPE) su proposta del ministro dell’Ambiente il 28 dicembre del 1993 ed ha un finanziamento di 3.200 miliardi di lire5. Il Piano fa seguito alla precedente Relazione sullo Stato dell’Ambiente (1992)6 che aveva delineato la situazione del paese in tutta la sua complessità attraverso la disamiIl comunicato della Adnkronos del 18 ottobre batte così la notizia: “Tremilaeduecento miliardi per i prossimi tre anni. Sono gli stanziamenti previsti per il prossimo piano triennale dell’ambiente 1994-96 presentato dal ministro Valdo Spini come ‘documento fondamentale dell’azione pubblica per la tutela ambientale’. Tremilaeduecento miliardi (non pochi in tempi di vacche magre) che serviranno per difendere il suolo, disinquinare le acque, disinnescare la bomba delle aree a rischio ambientale, risanare le città, prevenire e combattere l’inquinamento acustico ed atmosferico, realizzare nuovi parchi, raccogliere e diffondere informazioni sullo stato della salute del Belpaese”. 6 Cfr. Ministero dell’Ambiente, Relazione sullo stato dell’Ambiente, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1992. In esso sono ricomprese sia le direttrici programmatiche su cui impostare gli 11 Programmi operativi generali che riguardano: 1. Smaltimento rifiuti; 2. Depurazione delle acque; 3. Disinquinamento atmosferico e acustico in aree urbane; 4. Sistema informativo nazionale e di monitoraggio ambientale; 5. Ricerca scientifica sull’ambiente; 6. Protezione della natura; 7. Prevenzione, controllo e ristrutturazione delle attività produttive; 8. Carta geologica nazionale; 9. Nuova occupazione per fini ambientali; 10. Informazione/educazione; 11. Aree a rischio elevato di crisi ambientale. 5


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na delle risorse (aree protette, vegetazione, fauna, acqua, aria, inquinamento acustico), dei fattori cosiddetti di pressione (territorio, industria, agricoltura, energia, rifiuti, radioattività), delle politiche e degli strumenti (programma triennale, spesa pubblica, informazione/educazione, ricerca, strumenti economici, studi per la programmazione ambientale e pluriennale). Un corpo di analisi e riflessioni critiche articolate non solo con attenzione agli aspetti particolari e specifici, ma anche in relazione alla loro dimensione globale (atmosfera: ozono/effetto serra; foreste: riserve di carbonio, deforestazione) e alla capacità di influenza e azione di quella che è definita l’eco-diplomazia (accordi bilaterali e multilaterali, organizzazioni preposte a livello europeo e mondiale) che avrebbe dovuto sovraintendere, raccordare e monitorare le politiche dei paesi del mondo. Nella Relazione sullo Stato dell’Ambiente un documentato capitolo è dedicato al territorio e affronta la continuità di crescita del modello di sviluppo edilizio diffuso. Una tendenza che si palesa ormai evidente in tutte le aree urbane di grandi e medie dimensioni, e che va ad assommarsi a quello delle zone industriali, manifestandosi “in un continuo agro-industriale (che) caratterizza ormai vaste regioni, particolarmente nell’Italia Nord-orientale, in buona parte dell’area lombarda, nell’Appennino tosco-emiliano, nel quadrante marchigiano-abruzzese, nell’area romana e in quella napoletana-sarnese”7 interessando dunque gran parte della penisola. Un modello che non solo ha un elevato consumo di suolo, ma che incide pe7

Cfr. Ministero dell’Ambiente, Op. cit. p. 263.


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santemente sull’ambiente “attraverso gli scarichi nei corpi idrici, le emissioni in atmosfera, l’occupazione di suolo, l’uso e la trasformazione delle risorse, di beni naturali e del paesaggio”8 definendo il propagarsi continuo di situazioni pericolosità e rischio, che può essere fronteggiato solo con il raccordo fra gli strumenti regolatori del territorio e quelli ambientali, di cui è parte imprescindibile la corretta utilizzazione della valutazione d’impatto ambientale vista nella sua dimensione più ampia. La VIA intesa, dunque, non come strumento eccezionale, ma come prassi di prevenzione e di monitoraggio, in cui convergono la stima anticipata della proiezione dell’intervento, strettamente legata ad un procedimento pubblico e partecipato, e la valutazione degli effetti prodotti dalla costruzione di ogni nuova opera. Un processo che è indipendente dalle dimensioni dell’operazione, in quanto comunque incide sul sistema territoriale di riferimento (non a caso uno degli esempi indicati è quello della localizzazione di un supermercato in un’area periferica che va commisurato al complesso degli effetti prodotti sull’insieme della crescita urbana) e soprattutto si colloca in un quadro di ‘attenzioni’ che riguardano zone fragili per collocazione geografica, geologica, geomorfologica o a rischio ambientale. Le politiche nazionali per l’ambiente, influenzate nei primi anni ‘90 anche dalla necessità di risparmiare energia in relazione alle oscillazioni del prezzo del petrolio (es. legge n. 10/91, “Norme per l’attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell’energia, 8

Cfr. Ministero dell’Ambiente, Op. cit. p. 265.


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di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia”), presentano un certo dinamismo rivolto al conseguimento di un complesso di obiettivi che operano in adeguamento alle direttive europee e alle finalità dell’Agenda 21 e si relazionano sia con i settori produttivi da quelli industriali (es. provvedimenti contro gli inquinamenti, smaltimento e differenziazione dei rifiuti, materie prime-seconde, direttiva Seveso, ma anche ECOLABEL ed ECOAUDIT) a quelli agricoli e al turismo, sia con i grandi temi delle infrastrutture di base (energia e trasporti). A questi si aggiungono le azioni in attuazione della legge n. 394/91 sulla “Conservazione della Natura” con l’istituzione di 6 nuovi parchi nazionali fra il 1993-949, di Aree protette marine e della Carta della Natura, cui si affiancano i finanziamenti della legge 195/91 a favore delle zone danneggiate da eccezionali avversità atmosferiche nonché l’elenco delle industrie insalubri (DM 5/9/94). Come si può vedere vi è il tentativo di proporre una pianificazione integrata del territorio, agendo in accordo con le Regioni e con gli enti locali. Non sono poche, infatti, le norme che delegano funzioni importanti di strategia e controllo ai comuni come quella sul risparmio energetico che prevede la formazione di Piani regionali e comuna9 I nuovi parchi nazionali sono: Dolomiti Bellunesi, Foreste Casentinesi – Monte Falterona e Campigna, Monti Sibillini, Pollino, Val Grande e Aspromonte. Da rilevare come vi sia in questi anni un cambiamento del concetto di gestione dei parchi nazionali “non parchi di carta gestiti dal centro, ma parchi che vadano effettivamente incontro alle aspettativi dei cittadini e che siano gestiti a livello decentrato” in accordo con le Regioni e con le popolazioni interessate (V. Spini, L’ambiente come opportunità, Op. Cit. p. 21). Lo stesso concetto di vincolo viene assunto in modo evolutivo come protezione dinamica finalizzata ad uno sviluppo consapevole in grado di valorizzare il territorio, rinnovando le sue risorse.


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li da allegare ai PRG (L. 10/91), quella sui limiti massimi di esposizione al rumore (DPR 1/03/91) poi legge quadro sull’inquinamento acustico (n.447/95) con la previsione dei Piani di azzonamento acustico comunali o la Direttiva per la sistemazione e il controllo degli impianti tecnologici nel sottosuolo che interviene sul coordinamento dei singoli gestori dei servizi a rete, cui consegue la formazione dei Piani urbani generali per i servizi nel sottosuolo (PUGGS), anch’essi da allegare ai PRG. La spinta ecologica è recepita dalle normative regionali, anche se viene messa a dura prova, nel 1994, da un secondo condono. L’ambiente sembra dominare la scena ed è al tempo stesso speranza e dannazione. Speranza che attraverso un nuovo approccio ai problemi del territorio si possa trovare finalmente quell’equilibrio fra risorse e sviluppo che consenta di programmare la sostenibilità dello sviluppo stesso e dannazione perché le spinte che continuano a venire dagli investitori e da una parte dell’opinione pubblica tendono a minimizzare la portata dei problemi, che puntualmente si ripropongono, aggravati, ad ogni sopraggiungere di eventi naturali di eccezionale portata che evidenziano in tutta la loro gravità il problema dell’alterazione degli incerti equilibri fra attività, insediamenti e territorio, rispetto ai quali la natura sembra ribellarsi, manifestandosi in eventi catastrofici sempre più frequenti (alluvioni, frane, terremoti). Come se non bastasse al disastro naturale del Paese si aggiungono gli incidenti derivanti da lavorazioni industriali pericolose non controllate e da alcune emergenze che diventano strutturali come quella dei rifiuti, che va a coinvolgere le tipologie di rifiuti, le modalità di gestione (raccolta e smaltimento),


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i luoghi (discariche) e si scarica sulla salute e sull’ordine pubblico, nonché sulla delicata questione delle pressioni ‘improprie’. In parallelo, su tematiche assai vicine agisce anche il ministero per le Aree Urbane, che affronta l’inquinamento nelle città cercando di razionalizzare il sistema del traffico e dei trasporti, che si sta manifestando di particolare gravità nella aree metropolitane, attraverso la legge del 24 marzo 1989, n. 122 (legge Tognoli dal nome del ministro) “Disposizioni in materia di parcheggi, programma triennale per le aree urbane maggiormente popolate, nonché modificazioni di alcune norme del testo unico sulla disciplina della circolazione stradale, che prevede Programmi Urbani dei Parcheggi e l’incremento delle aree di sosta pertinenziali anche privati in deroga ai PRG”. Sono anticipazioni di un più vasto e articolato provvedimento, il nuovo Codice della Strada (Dlgs. n. 285/92) che prevede, fra l’altro, i piani comunali del traffico per i comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti o con presenze stagionali superiori alle 10.000 unità, nonché per i comuni in cui vi siano elevate esigenze di tutela ambientale.


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Le politiche per le forme alternative di mobilità iniziano a prendere consistenza attraverso i finanziamenti per le piste ciclabili (legge n. 366/98, art. 13), ma anch’esse, a causa delle modalità dell’erogazione dei finanziamenti, seguono una logica parcellizzata e si pongono al di sopra e al di fuori dei PRG, in quanto con la sola approvazione comunale esse costituiscono variante al piano in vigore e dunque vengono (e saranno sempre) viste come una sovrapposizione alle previsioni dei PRG e non come parte integrante ed essenziale del progetto del sistema della mobilità in relazione al più generale quadro insediativo. Il territorio Alla metà degli anni ‘90 vengono pubblicati i risultati della ricerca Itaten sulle “Forme del territorio italiano”10, che si colloca a seguito di due ricerche nazionali quella di Giovanni Astengo (IT. URB ‘80) e del Progetto condot10 La ricerca nota con l’acronimo Itaten, è stata restituita nei due volumi A. Clementi, G. Dematteis, P.C. Palermo (a cura di) Le forme del territorio italiano. Vol. I I temi e le immagini del mutamento; Vol. II Ambienti insediativi e contesti locali, Laterza, Bari 1996.


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to da Giorgio Fuà per il CNR nel 199111. Itaten fornisce un quadro delle dinamiche insediative del paese per conto della Direzione Generale del coordinamento territoriale del Ministero lavori pubblici che in collaborazione con alcune Università intendeva costituire un “Osservatorio permanente sulle trasformazioni territoriali” in cui confrontare le diverse situazioni locali in parallelo a quanto stava avvenendo in Europa. Lo studio presenta elementi di originalità sia nell’analisi che nella restituzione e si fonda sulla definizione degli ambienti insediativi come “nuovo modo di abitare e usare il territorio che sta rendendo obsolete le categorie abituali di città e campagna o di centro e periferia”. Gli ambienti insediativi costituiscono la chiave interpretativa del territorio e sono in grado di restituire la rete dinamica di relazioni tra quadri ambientali, matrici territoriali, forme dell’urbanizzazione e forme sociali che danno corpo a microregioni dotate di una riconoscibile e significativa identità complessiva […] volendo evitare l’errore di privilegiare i caratteri stabili che da sempre concorrono all’identificazione del territorio italiano, ma che oggi vengono messi alla prova da un mutamento di portata epocale, segnato dall’indebolirsi del ruolo delle prossimità spaziali e dall’estendersi delle interazioni con circuiti globali resi accessibili dalla tecnologia e dall’economia contemporanea. Cfr. Orientamenti per la politica del territorio, a cura di G. Fuà, Il Mulino, Bologna1991. Per dovere di completezza va citato il Progetto Quater (ricerca Cnr, 1995-97) coordinato da G.L. Rolli si fonda su una comparazione ragionale delle diverse esperienze di piano, ottenuta attraverso “una sorta di metalinguaggio, integrabile, espandibile e trasformabile, che può trovare riscontro nei diversi contesti territoriali, istituzionali, culturali e anche operativi, e che è in grado di comunicare i contenuti delle diverse forme della pianificazione realizzata” in «Urbanistica» n. 115/2000 p. 6.

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Il territorio, secondo i ricercatori Itaten, non può più essere assunto come un insieme gerarchizzato di fuochi urbani e metropolitani in cui si caricano i valori di centralità e di rappresentatività e di aree periferiche irradiate dai fuochi centrali, una deriva di quell’Italia delle cento città che ha tenuto a lungo il campo nella letteratura e nell’immaginario collettivo. Piuttosto, un insieme di territori a forte diffusione abitativa con microregioni dell’abitare non interpretabili solo in funzione dei fuochi più intensi, ma anche come esito delle crescenti interazioni fra sfere locali e sfere globali; e comunque marcatamente diversificate nei loro caratteri interni in ragione delle differenti morfologie fisiche e sociali, nonché delle diverse sedimentazioni storiche di cui sono espressione. Un insieme di stanze del territorio in stato permanente di interazione reciproca, che decompongono e ricompongono assetti ereditati dalla storia ma immersi in un nuovo contesto di relazioni che ne mutano il senso e le prospettive di cambiamento per il futuro12.

Reti, infrastrutture, politiche europee sono i fattori che condizionano il territorio e i suoi insediamenti. Ed è con questi che la ricerca Itaten si vuole confrontare quando affronta il problema delle dinamiche territoriali nella loro fisicità (figurazioni) per cogliere il senso e i meccanismi di un’articolata complessità che caratterizza l’Italia e su cui domina una forte imprevedibilità differenziata per aree e determinata dall’iterazione delle reti economiche, sociali, politiche e culturali che si muovono fra realtà locali e dimensioni globali. I risultati, pubblicati nel 1996, costituiscono una prima fase di lavoro cui avrebbe dovuto se-

Cfr. A. Clementi, Il programma, le prime restituzioni, p.6, in A. Clementi, M. Ricci e A. Palazzo, La ricerca Itaten: forme del territorio italiano, in «Urbanistica» n. 106/1996 pp. 6-72.

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guire un “contesto permanente di cooperazione istituzionale” rispetto alla quale con la sua costituzione l’Osservatorio sarebbe stato in grado, attraverso l’attività di monitoraggio costante, di orientare e supportare la pianificazione e la programmazione del territorio. Ma anche in questo caso il condizionale è d’obbligo. Allo sforzo interpretativo e creativo Itaten non corrispondono esiti concreti. Tuttavia, come si può notare, in questi anni le ricerche e le attività ministeriali, anche in relazione a quanto si muove in Europa, sembrano orientarsi sulla necessità di ripensare la conoscenza e le azioni sul territorio e danno conto dei due aspetti presenti nel dibattito urbanistico: da una parte, l’esigenza del superamento della dimensione della pianificazione troppo legata al ristretto ambito comunale considerato del tutto inadeguato anche in relazione alle politiche e ai finanziamenti europei e, dall’altra, l’affermazione crescente del disegno urbano e quindi della scala architettonica riferita alla città, che sembra sostituirsi a una certa povertà dell’approccio disciplinare urbanistico che dagli anni ‘80 e deve fare i conti con la divaricazione dei finanziamenti europei fra aree agricole e urbane. Si va così a definire un campo di studi più rivolto a risolvere problemi riferiti ad ambiti definiti e circoscritti che alla comprensione della reciprocità degli effetti che si andavano scaricando su ambiti vasti, nei confronti dei quali le risposte sembrano pervenire più dall’approccio ambientale e successivamente, in parte, da quello paesaggistico che ricompare in questi anni e culminerà nel 2000 con la stesura e la firma della Convenzione europea.


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Il riordino amministrativo e il ruolo degli enti territoriali La dimensione di piano sembra trovare un suo approdo nella legge n. 142/1990 che introduce il livello intermedio, a lungo atteso, fra la pianificazione regionale e quella comunale con l’istituzione della ‘città metropolitana’, dotata di poteri e competenze (e potenzialmente di strutture) per la pianificazione del territorio, che si affianca alla fiera resistenza delle Provincie che, essendo previste dalla Costituzione, non possono essere soppresse. Una contraddizione e una duplicazione di ruoli insolubile che la legge tenta di risolvere “in modo istituzionalmente omogeneo, ma strumentalmente differenziato”, ma siamo comunque di fronte ad un unico problema, quello “del governo del territorio in due tipi di aree dove gli stessi problemi (e la stessa esigenza di coordinamento territoriale) si pongono in modo diverso: gli ambiti dove i processi sono caratterizzati da maggiore intensità, concentrazione e complessità (le aree metropolitane) e gli altri. Com’è noto, la legge prevede per le prime la formazione delle aree metropolitane e, per le altre, la ristrutturazione delle attuali provincie, le une e le altre dotate di competenze di pianificazione del territorio”13. Un assetto istituzionale ibrido per la mancanza di una revisione e di una riorganizzazione dell’intera materia (che arriverà più tardi) che si profila di difficile funzionamento ed al quale andrà ad aggiungersi un irrazionale aumento del numero delle

Cfr. Note editoriali, Il “livello intermedio” vince il Gattopardo, in «Urbanistica Informazioni» n. 112-113/1990, p. 2; si veda inoltre nello stesso numero, il Dossier: la città metropolitana, a cura di G. Bianchi ed F. Ciccone, pp. 36-117.

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Provincie che agirà in modo incongruente in quanto porrà ulteriori delimitazioni all’interno dei territori, producendo effetti di separazione fra aree che avrebbero avuto la necessità di trovare forme di integrazione e perfino di interrompere i rari tentativi di pianificazione integrata come nel caso dell’area Firenze-Prato-Pistoia. Le aree metropolitane saranno destinate ad essere congelate fino alla riforma costituzionale del Titolo V del 2001 quando la città metropolitana viene riconosciuta nell’art. 114 della Costituzione come uno degli “enti autonomi” che costituiscono la Repubblica14, ma si dovrà aspettare fino alla legge n. 56/2014 (legge Delrio, dal nome del ministro) che con il ridisegno dei confini e delle competenze delle amministrazioni locali, disciplinerà il loro funzionamento e le loro funzioni in materia di programmazione e pianificazione territoriale15. Nella seconda metà degli anni ‘90 vengono emanate le cosiddette leggi Bassanini (dal nome del ministro) che costituiscono un compatto insieme sequenziale di provvedimenti, emessi fra il ’97 e il 2000, e introducono, a Costituzione invariata (art. 117. 2), alla riforma delle autonomie locali. La prima legge ad essere promulgata è quella del 15 marzo 1997 n. 59, “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplifi-

14 L’art 114 recita. “La repubblica è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città Metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. Comuni, Provincie, Città Metropolitane e Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.” 15 Cfr. G. De Luca, F.D. Moccia, Pianificare le città metropolitane in Italia. Interpretazioni, approcci, prospettive, INU edizioni, Roma 2017.


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cazione amministrativa”16, che fa riferimento a due principi fondamentali: la semplificazione delle procedure e il federalismo amministrativo, e interviene, inoltre, nelle competenze e nei rapporti fra Stato, Regioni e sistema delle autonomie locali, che si relazionano fra loro secondo i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. La legge ipotizza l’applicazione di tali principi non più a cascata e per successiva approssimazione dallo Stato alla periferia, ma dal basso verso l’alto, per cui i comuni diventano per molte materie, fra cui quella urbanistica, il cardine del rinnovato sistema amministrativo, che riconosce alle Regioni e con esse agli enti territoriali tutte le funzioni amministrative, tranne quelle espressamente indicate come competenza esclusiva dello Stato.17 Le competenze statali verranno poi ulteriormente ridefinite per la parte di competenza concorrente dalla Riforma del Titolo V della Costituzione (2001) in cui si riaffermeranno fra

Alla legge n.59/97, si aggiungono una serie di decreti delegati di cui il principale è il DPR n. 112/1998, e le leggi n. 127/97 e 191/98 e 50/99 sulla riorganizzazione del Consiglio dei Ministri e il riordino dei ministeri. 17 Le materie indicate nell’art. 117.2 della Costituzione come competenza esclusiva dello Stato sono: politica estera e rapporti internazionali; diritto di asilo; immigrazione; rapporti fra Repubblica e istituzioni religiose; difesa e forze armate, sicurezza dello Stato ecc.; moneta, tutela del risparmio, sistema monetario ecc.; leggi elettorali, referendum, ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; cittadinanza, stato civile e anagrafi; giurisdizione e norme processuali, ordinamento civile e penale, giustizia amministrativa; determinazione dei livelli essenziali per prestazioni sociali e dei diritti civili; norme generali sull’istruzione; previdenza sociale; leggi elettorali e organi di governo per comuni, provincie e città metropolitane; dogane, protezione confini e profilassi internazionale; coordinamento statistico e informatico, pesi e misure, determinazione del tempo brevetti e opere d’ingegno; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. La Corte costituzionale con le sentenze n. 408/98 e n. 125/2003 ha dichiarato la costituzionalità dei provvedimenti Bassanini. 16


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le esclusive competenze dello Stato, in relazione al territorio, la tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, l’ambiente e l’ecosistema, l’ordinamento delle professioni, le disposizioni generali e comuni sul governo del territorio, il sistema nazionale e il coordinamento della protezione civile, nonché le infrastrutture strategiche e le grandi reti di trasporto: tutte materie sulle quali, per altro, per la parte amministrativa, in base al principio di sussidiarietà e competenza, intervengono gli enti territoriali. Il territorio non riesce, neppure in questo riordino, a trovare una sua unicità relazionale, restando ancora soggetto a competenze diversificate e afferenti a un’articolazione ministeriale che raramente riesce a comunicare al suo interno. Siamo di fronte ad un meccanismo in cui si intrecciano istituzioni, competenze e finanziamenti, rispetto al quale manca una logica comune e l’identificazione di uno strumento dialogante da tutti riconosciuto e utilizzato per verificare la congruità degli interventi e delle opere in relazione agli effetti sul contesto territoriale, sociale ed economico. Uno strumento utile avrebbe potuto essere la VIA, che al contrario viene impiegata con mistificata parsimonia e non riesce a stabilire nessuna innovazione nei processi decisionali che restano in mano a meccanismi politici ed economici che non si confrontano con le necessità e i desiderata delle popolazioni, ma anzi spesso entrano in aperto conflitto con esse. Né riusciranno in questo le Conferenze dei Servizi, neppure dopo le più recenti modificazioni.18 Infatti, il dominio del piano resta Si fa riferimento per la parte urbanistica al DPR 616/77 (art. 81) e alla legge 241/90, poi all’ammissione dell’uso della telematica (legge 15/2005) e infine al Dlgs. 127/216 in attuazione della legge 124/2015. 18


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quello comunale in cui gli attori si collocano su due fronti: i cittadini, utenti e fruitori, che possono aderire, subire, condividere o contestare le scelte, ma che hanno affidato al sindaco, direttamente eletto, una delega piena e incondizionata e hanno perso la capacità di interloquire in una dialettica positiva e propositiva con le amministrazioni locali proprio nel momento in cui gli investitori sono in grado non solo di contrattare, ma neanche di condizionare gli interventi (nei tempi, nei modi e nelle quantità) perché hanno per controparte una finanza comunale sempre più impoverita che non è più in grado di guidare e imporre le sue scelte. Al sistema pubblico in crisi nella sua capacità di spesa e arrogante nel suo meccanismo rappresentativo resta, quando va bene, il ruolo di mediatore fra scelte economiche e esigenze della popolazione. Le Regioni e il nuovo corso legislativo Negli anni ‘90, dopo un ventennio di leggi regionali che hanno avuto l’obbiettivo di definire un quadro di pianificazione legato alla specificità dei problemi dei rispettivi territori, si cerca di innovare l’apparato tecnico con provvedimenti più rispondenti ad esigenze di governance che trovano nella strumentazione tradizionale più un ostacolo che un riferimento. Il PRG della legge n. 1150 non è, infatti, in grado di tener insieme decisioni, tempi e realizzazioni: un gap che è storia delle vicende italiane.

Cfr. http://www.italiasemplice.gov.it/media/2268/conferenza_guida_alle_novita.pdf, che si apre con “La nuova conferenza di servizi affronta un problema essenziale per l’Italia: tempi delle decisioni pubbliche (ad esempio per la realizzazione di opere e il rilascio di autorizzazioni per le attività d’impresa e per quelle edilizie)”.


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L’INU, dopo decenni, torna ad evidenziare l’esigenza di una riforma nazionale e la individua basata su alcuni principi fondamentali, in cui ripropone la distinzione su due livelli dello strumento urbanistico comunale con un piano strutturale non più conformativo della proprietà ma solo dei possibili scenari di assetto del territorio e un piano operativo vincolante per la proprietà con validità temporale definita (cinque anni). Ma la proposta è soprattutto mirata alla consacrazione dell’istituto della perequazione e della compensazione, ritenuto il solo in grado di far acquisire ai comuni, in modo concreto e non oneroso, le aree per i servizi pubblici. Ne è conferma il richiamo esplicito alla defiscalizzazione, all’interno dei comparti, dei diritti edificatori cioè dei trasferimenti di cubatura da un’area all’altra nel processo perequativo quando esso sia attinente alla cessione pubblica e quindi abbia la finalità di generare un interesse collettivo. Molte Regioni approntano leggi che si rifanno al quadro normativo prospettato dall’INU con il piano diviso a due livelli come la Regione Emilia-Romagna, l’Umbria, il Veneto, la Toscana, la Basilicata, la Puglia, la Calabria, mentre altre preferiscono un piano unico più riferito alla tradizione come Abruzzo, Liguria, Sardegna, Valle d’Aosta. Diversa è l’impostazione della Lombardia che si caratterizza per un percorso improntato alla liberalizzazione e alla semplificazione, interpretati con elementi di innovazione nella gestione. Nella logica dei provvedimenti, dal punto di vista temporale, si possono distinguere due periodi, cui se ne aggiungerà un terzo nel secondo decennio del secolo XXI: il primo è immediata conseguenza degli adeguamenti al-


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la prima riforma delle autonomie locali e si colloca alla metà degli anni ‘90 con l’integrazione, per esempio, della pianificazione provinciale e quello successivo al 2001 che si sintonizza con quanto previsto dalla riforma costituzionale e si ispira al principio della sussidiarietà e della partecipazione. Si giungerà così all’inizio del nuovo Millennio con un complesso di leggi regionali che presentano linguaggi apparentemente simili, ma con definizioni e contenuti che lasciano spazio a molte e diverse interpretazioni19 dando luogo a quello che Elio Piroddi ha felicemente definito “un federalismo perfettamente asimmetrico”.20 È il riflesso della forte spinta al decentramento introdotta dal nuovo assetto istituzionale, che di fatto delegittima il ruolo delle assemblee consiliari in funzione di un forte potere apicale (sindaci e presidenti), e da una riforma delle autonomie basata su un federalismo incerto che attribuisce da una parte il potere delle singole Regioni di legiferare in materia urbanistica dal punto di vista amministrativo e dall’altra sovverte l’ordine dei rapporti di sussidiarietà fra gli enti locali, conferendo ai comuni un’assoluta autoreferenzialità in materia urbanistica. Ne consegue il rafforzamento dell’autonomia dei comuni (indipendentemente dalla dimensioni) nel governo del terriLa legislazione regionale si contraddistingue per impiegare con termini diversi contenuti simili, ad es. il PRG, che dopo anni era diventato un termine comune, si trasforma in PS, PSC, PUC, PGT, RU, POC, RUE, ecc. oltre ad introdurre definizioni come Invarianti strutturali, Statuto dei luoghi, sviluppo sostenibile e altri concetti di cui si ha un’interpretazione diversa fra Regione e Regione, cui corrispondono differenziazioni nell’elaborazione dei piani all’interno della stessa Regione. 20 Cfr. E. Piroddi, Efficienza ed efficacia dei piani a confronto con lo stato delle cose, in «Urbanistica Informazioni» n. 231/2010. 19


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torio e la molteplicità di interpretazioni del piano21, che si trasforma in molti casi in uno strumento redatto più per esprimere idee o strategie complessive che per regolare e regolamentare le azioni ordinarie sul territorio, che vengono affidate poi ad altri strumenti. La stessa proposta di riforma dell’INU del 1995 fa proprio il clima e la filosofia di un decentramento guidato da poche flessibili regole, cui le Regioni si adeguano, in relazione ai loro contesti territoriali, ai loro modelli di sviluppo e alle loro risorse. In questa fase si hanno leggi che potremo definire innovative rispetto agli impalcati precedenti, ma che in definitiva sono modulate sull’unico cardine offerto dalla legge quadro nazionale: il comune e il suo piano. Ed è sempre la legge del 1942 che regola i contenuti dei Piani regionali22 che restano riferiti al suo art. 5 e si pongono in fondo ancora come “coordinamento delle opere di infrastrutturazione necessarie alla modernizzazione del paese” o se vogliamo al suo sviluppo, declinato ormai come sostenibile. Le Regioni si trovano dunque, ad oltre vent’anni dalla loro istituzione, a dover coordinare e modulare il loro Piani su documenti di programmazione economica, di cui costruiscono le proiezioni territoriali, che dovrebbero tradursi in un corrispettivo urbanistico ma non riescono a conseguire l’obiettivo, in quanto intervengono sui proces21 Un’interessante riflessione andrebbe fatta sul caso-Toscana e sulle due leggi in materia di Governo del territorio la LR 5/1995 e la successiva LR 1/2005, nelle quali la perdita di cogenza del Piano urbanistico (Piano Strutturale) è evidente. 22 Cfr. P. Properzi, Sistemi della pianificazione regionale e legislazioni regionali, pp. 60-64 e S. Fabbro, I nuovi piani territoriali regionali in Italia: approcci, scenari, efficacia, pp. 56-60 entrambi in «Urbanistica» n.121/2003.


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si e non sulle forme e sono riferiti alle politiche di settore che definiscono la programmazione (se così vogliamo dire) a livello nazionale che raramente ha funzioni strategiche e, ancor meno, si confronta con le politiche regionali. Una situazione che dimostra la sua inadeguatezza proprio nel campo in cui doveva porsi come più vincolante, in quello dei beni culturali e del paesaggio, dove gli scarsi esiti dei piani pesistici previsti dalla legge 431, prima, e del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio poi, attestano tutte le incongruenze che si manifestano fra le diverse dimensioni territoriali cui si applicano i provvedimenti. Una soluzione a queste discrasie fra piani e programmi, come fra i vari livelli d’intervento, sembra poter essere trovata nella separazione fra la pianificazione strategico-strutturale e quella regolativa: la prima legata alla dimensione morfologica e ricognitiva, ai valori, ai vincoli e alla valutazione dei rischi che agisce attraverso la riconoscibilità delle ‘invarianti’ della struttura del territorio; la seconda che traduce in comportamenti la responsabilità nei confronti del territorio, dell’ambiente e del paesaggio individuata dal ‘quadro strutturale’, e si applica attraverso regole e modelli, che per armonizzarsi con le diverse situazioni spazio-temporali presentano gradi di adattabilità spesso elevati. Ma la situazione di per sé si manifesta contradditoria e genera un’inevitabile discrezionalità da parte di chi detiene il potere decisionale tantoché il rapporto fra chi governa (Sindaco, Presidente) e chi attua (operatori pubblici e privati) diventa la chiave di comprensione delle dinamiche territoriali, dalle quali il cittadino, come tale, sembra scomparire.


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La Regione Toscana aderisce da subito al federalismo della Bassanini e ne applica i principi rapidamente e senza incertezze. Vara infatti, a distanza di dieci anni, due successivi provvedimenti urbanistici in adeguamento alla legislazione nazionale: la legge n. 5/ 1995 e n. 1/ 2005, in cui il problema centrale resta quello di conciliare le previsioni di lungo periodo a scala territoriale con la necessità di un governo rapido e flessibile delle trasformazioni a livello locale. La LR n. 5/95 “Norme per il governo del territorio” è una legge di principi come si evince fin dal suo primo articolo “lo sviluppo sostenibile” che recita: La presente legge, di riforma dei principi e delle modalità per il governo del territorio, orienta l’azione dei pubblici poteri ed indirizza le attività pubbliche e private a favore dello sviluppo sostenibile nella Toscana, garantendo la trasparenza dei processi decisionali e la partecipazione dei cittadini alle scelte di governo del territorio. Si considera sostenibile lo sviluppo volto ad assicurare uguali potenzialità di crescita del benessere dei cittadini e a salvaguardare i diritti delle generazioni presenti e future a fruire delle risorse del territorio.

Non ci sono enti o organismi gerarchicamente sovra-ordinati di controllo a livello regionale: la dimensione comunale è l’unica riconoscibile, se pur subordinata al principio di adeguatezza. È all’interno del comune che maturano tutte le strategie: dall’arredo urbano alla localizzazione dei servizi, dalla viabilità alla costruzione dei nuovi quartieri residenziali, fino alla dismissione delle aree industriali e alla loro sostituzione con altre destinazioni. Il quadro, su alcune scelte, torna a criteri quantitativi applicati con discrezionalità a scala regionale e/o provinciale (es.


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superfici per la grande distribuzione o multisale per spettacolo) o ad accordi fra comuni vicini, Provincia e Regione per i sistemi delle infrastrutture (strade, ferrovie, porti, ecc.) o per la localizzazione delle attrezzature di servizio (inceneritori, discariche), ma quando l’accordo non si trova (es. aeroporto di Firenze), si sospendono le decisioni e si rinvia. Lo sviluppo e la sua proiezione territoriale sono indirizzati da un quadro meta-programmatico a scala regionale (PIT) e da un piano di indirizzo a scala provinciale (PTC), ma la titolarità della legittimazione delle scelte resta al comune e ai sindaci in quanto detentori esclusivi della potestà decisionale e rafforzati dall’elezione diretta. Il piano comunale è articolato su due livelli: il Piano Strutturale (PS), che individua le strategie a tempo indeterminato e si costruisce sulle Invarianti e sullo Statuto del territorio ed è affiancato dai Regolamenti urbanistici (RU), che disciplinano gli insediamenti esistenti e le espansioni con validità quinquennale. La successiva legge 1/2005 che porta lo stesso titolo di quella del 1995 “Norme per il governo del territorio”, si pone come una sorta di Testo Unico in materia di territorio. La legge mantiene il doppio livello di piano a livello comunale, ma propone un’articolazione dell’apparato strumentale più dettagliata che entra in merito a tutte le fasi del processo di trasformazione e di edificazione (dalla partecipazione agli atti, alle procedure, ai controlli, alle sanzioni) ed integra le materie che non erano ricomprese nella LR 5/75 in quanto interessate da leggi di settore, come la disciplina per il territorio rurale (abrogazione LR 64/95) e per le attività agrituristiche, o da piani e provvedimenti specifici come i porti e gli approdi, i parchi e le aree


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protette, la gestione rifiuti e i siti inquinati, le cave fino al trasporto pubblico o ai provvedimenti per Rom e Sinti; insomma interviene su tutto quanto possa avere attinenza con il territorio. Restano i due livelli di pianificazione comunale: il piano strutturale (PS) che si applica su tutti i comuni, indipendentemente dalle loro dimensioni e dal numero degli abitanti, e si presenta come un documento definito a grandi linee che contiene il quadro storico-analitico delle risorse e dei beni e che agisce su ampie zone (sistemi e unità territoriali organiche elementari, UTOE) con validità illimitata. Di fatto il PS indicano solo il dimensionamento (dimensioni massime sostenibili) e le eventuali aree di espansione, mentre sugli interventi opera il Regolamento Urbanistico che è un ‘atto’ di governo insieme ai Piani complessi d’intervento (ovvero quelli dove sia necessaria “l’esecuzione programmata e contestuale di interventi pubblici e privati”) e ai Piani attuativi. Infatti il carico della previsione, gestione e del controllo della trasformazione fisica e funzionale è affidato al RU che “disciplina l’attività urbanistica ed edilizia per l’intero territorio comunale” (art. 55) ed è composto da due parti: “a) disciplina per la gestione degli insediamenti esistenti; b) disciplina delle trasformazioni degli assetti insediativi, infrastrutturali ed edilizi del territorio”. Un atto amministrativo redatto e approvato dallo stesso ente, il comune, che dovrà gestirlo e che si dovrà confrontare con il complesso delle “sollecitazioni immobiliari” che su di esso andranno a scaricarsi. In riferimento al rinnovo del quadro normativo nazionale agisce anche la Regione Emilia-Romagna che nel 2000


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vara la LR n. 20/2000 “Disciplina generale sulla tutela ed uso del territorio” in cui confluiscono molte delle regole elencate dalla proposta INU del 1995, ed ha per finalità (art. 1) di a) realizzare un efficace ed efficiente sistema di programmazione e pianificazione territoriale che operi per il risparmio delle risorse territoriali, ambientali ed energetiche al fine del benessere economico, sociale e civile della popolazione regionale, senza pregiudizio per la qualità della vita delle future generazioni; b) promuovere un uso appropriato delle risorse ambientali, naturali, territoriali e culturali; c) riorganizzare le competenze esercitate ai diversi livelli istituzionali e promuovere modalità di raccordo funzionale tra gli strumenti di pianificazione, in attuazione del principio di sussidiarietà; d) favorire la cooperazione tra Regione, Province e Comuni e valorizzare la concertazione con le forze economiche e sociali nella definizione delle scelte di programmazione e pianificazione; e) semplificare i procedimenti amministrativi, garantendone la trasparenza e il contraddittorio.

Gli aspetti più significativi in termini strumentali sono: il Quadro conoscitivo, il Documento preliminare e la Valsat (Valutazione di Sostenibilità Ambientale e Territoriale) che, prima del Dlgs.152/2006, sancisce la necessità di una valutazione della sostenibilità ambientale e territoriale degli effetti prodotti dai piani da effettuarsi preventivamente nel processo di formazione degli strumenti e non a valle del procedimento: la legge, inoltre, introduce la Conferenza di pianificazione e imposta la pianificazione comunale su tre livelli: strutturale PSC (Piano strutturale comunale) che delinea le scelte strategiche di sviluppo e tutela, il RUE (Regolamento urbanistico ed edilizio) che fornisce le norme per gli interventi “nonché la disciplina


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degli elementi architettonici e urbanistici, degli spazi verdi e degli altri elementi che caratterizzano l’ambiente urbano” e il POC (Piano operativo comunale) attuativo delle scelte di espansione e trasformazione. Una programmazione urbanistica che ammette condizioni di flessibilità nelle scelte evitando un piano ‘rigido’ nelle sue modalità applicative, accoglie la perequazione e riconosce la gestione della capacità edificatoria residua dei vecchi piani, un deciso appesantimento nel processo di revisione innovativa dei PRG. Significativo, rispetto al dibattito ancora in corso, è l’art. 18 “Accordi con i privati”23 con il quale i progetti dei privati che abbiano un rilevante interesse per la comunità locale e fanno parte integrante del quadro previsionale. I soggetti privati entrano dunque direttamente nella forSi riporta il testo dell’art. 18 “Accordi con i privati” LR 20/2000 (per come modificato nei commi 1 e 2, modificati commi 3 e 4 da art. 24 L.R. 6 luglio 2009 n. 6) “1) Gli enti locali possono concludere accordi con i soggetti privati, nel rispetto dei principi di imparzialità amministrativa, di trasparenza, di parità di trattamento degli operatori, di pubblicità e di partecipazione al procedimento di tutti i soggetti interessati, per assumere in tali strumenti previsioni di assetto del territorio di rilevante interesse per la comunità locale condivise dai soggetti interessati e coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione. Gli accordi possono attenere al contenuto discrezionale degli atti di pianificazione territoriale e urbanistica, sono stipulati nel rispetto della legislazione e pianificazione sovraordinata vigente e senza pregiudizio dei diritti dei terzi. 2) L’accordo indica le ragioni di rilevante interesse pubblico che giustificano il ricorso allo strumento negoziale e verifica la compatibilità delle scelte di pianificazione concordate, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’articolo 3. 3). L’accordo costituisce parte integrante dello strumento di pianificazione cui accede ed è soggetto alle medesime forme di pubblicità e di partecipazione. La stipulazione dell’accordo è preceduta da una determinazione dell’organo esecutivo dell’ente. L’accordo è subordinato alla condizione sospensiva del recepimento dei suoi contenuti nella delibera di adozione dello strumento di pianificazione cui accede e della conferma delle sue previsioni nel piano approvato. 4) Per quanto non disciplinato dalla presente legge trovano applicazione le disposizioni di cui ai commi 2, 4 e 5 dell’art. 11 della Legge n. 241 del 1990”.

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mazione della strumentazione urbanistica, in attuazione ed estensione di quanto previsto dall’art.11 della 241/1990 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi” con l’intento di ricorrere alla negoziazione per la carenza di risorse economiche nel reperimento di aree e la realizzazione per opere pubbliche. La legge 20/2000 della Regione Emilia-Romagna appare come quella più organica rispetto ai principi di riforma dell’INU con il piano articolato su tre livelli considerato il più efficiente per gestire le diverse problematiche del territorio, ma la sua attuazione appare scarsamente incisiva per i tempi troppo lunghi nell’applicazione dei nuovi criteri da parte dei comuni specie di quelli più piccoli.24 L’aspetto positivo è che la gran parte dei comuni, continuando nel solco culturale iniziato fin dall’esperienza dei Comprensori, individua l’area sovracomunale come quella idonea ad elaborare il piano strutturale redigendo il PSC in forma associata anche su invito da parte delle province. Con la successiva legge 6/200925 “Governo e riqualificazione solidale del territorio”, la Regione introduce correttivi alla LR 20/2000 agendo in particolare sui temi Al 2010 risulta che solo il 29,6% dei comuni ha approvato il PS mentre il POC è stato approvato solo dal 12,9%, livelli decisamente bassi che testimoniano una certa ritrosia da parte degli Enti ad adeguarsi alle nuove regole e ad una presenza di massicce previsioni nei PRG redatti rispetto alla precedente legislazione. Cfr. M. Piccinini, S. Vecchietti, Emilia Romagna. Contenuti innovativi nel sistema di pianificazione, in «Urbanistica Dossier» n. 117/118, 2010.

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25 Legge “Governo e riqualificazione solidale del territorio” che in realtà è un provvedimento in materia del Piano Casa nazionale rivolto al miglioramento della qualità architettonica e della sicurezza, l’efficienza energetica del patrimonio abitativo con la possibilità di incrementi dal 20 al 35% di superficie utile lorda residenziale.


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ambientali e sugli aspetti collettivi con il rafforzamento dell’intervento per la realizzazione dell’edilizia residenziale sociale sia sulla natura giuridica degli strumenti urbanistici con l’esplicitazione che il PSC non attribuisce “in nessun caso potestà edificatoria” alle aree classificate nel piano “né conferisce alle stesse una potenzialità edificatoria subordinata all’approvazione del POC ed ha efficacia conformativa del diritto di proprietà limitatamente all’apposizione dei vincoli e condizioni non aventi natura espropriativa”. Dunque non è da considerarsi uno strumento cogente se non per la parte dei vincoli sovraordinati, mentre “il RUE può stabilire, per le parti del territorio specificamente individuate dal PSC, e in conformità alle previsioni del medesimo piano, la disciplina particolareggiata degli usi e delle trasformazioni ammissibili, dettandone i relativi indici e parametri urbanistici ed edilizi.”26 Infine la flessibilità e l’adattabilità dei piani è assicurata, in relazione ai tempi e alla capacità di realizzazione degli interventi, dal POC in quanto strumento che “individua e disciplina gli interventi di tutela e valorizzazione, di organizzazione e trasformazione del territorio da realizzare nell’arco temporale di cinque anni” e “trascorso tale periodo, cessano di avere efficacia le previsioni del POC non attuate, sia quelle che conferiscono diritti edificatori sia quelle che comportano l’apposizione di vincoli preordinati all’esproprio.” Assai diverso il modello lombardo, che resta ancorato alla LR 51 del 1975 e alla pianificazione strutturata su livel26

L’art. 30 modifica l’art. 29 della LR 20/2000.


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lo regionale e comunale. Solo nel 2000, infatti, introduce i piani territoriali di coordinamento affidati alle Province, recependo con dieci anni di ritardo la 142/90 con la LR 1/2000 “Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia”, ma ne limita il ruolo, decretandone il potere decisionale in relazione agli obiettivi generali o di coordinamento di scelte già indicate dai piani comunali o dalla Regione e senza l’autorità di approvazione dei PRG. L’azione legislativa tende, con provvedimenti parziali, a rivedere e, in qualche modo, a smantellare l’impalcato della legge 51, ritenuta troppo tradizionale e vincolistica. I cambiamenti riguardano soprattutto il PRG visto come eccessivamente rigido e caratterizzato da tempi non flessibili rispetto ad un contesto dove gli investimenti dettano tempi e modi, condizionando scelte e procedure. Con la legge n. 9 del 1999, oltre a prevedere i Programmi integrati di intervento la cui approvazione è possibile anche in variante al PRG e con adozione diretta da parte del comune quando non costituiscano variante al piano provinciale, si introduce il Documento d’Inquadramento, che serve a “definire gli obiettivi generali e gli indirizzi della propria azione amministrativa nell’ambito della programmazione integrata d’intervento sull’intero territorio comunale” che, affiancando il piano urbanistico, diventa il riferimento per gli interventi dei piani attuativi. “Il Documento di Inquadramento espropria volutamente il piano regolatore dei suoi contenuti strategici, sottrae le strategie urbanistiche alla legge del piano e le restituisce alla programmazione politica” infatti esso non si deve contrappore o adeguare alla rigidità delle norme ma, semplicemente, essere in sintonia con principi e obiettivi


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declinati dal Documento stesso e può garantire una maggiore velocità nell’approvazione delle proposte. Si sviluppa una linea culturale che vede come primo principio da perseguire quello della flessibilità, una via già ampiamente intrapresa con provvedimenti tesi ad accelerare le procedure di approvazione dei piani attuativi e delle varianti. Una politica di gestione che trova immediato consenso e applicazione negli atti e nella politica della giunta comunale di Milano che l’anno successivo approva il documento “Ricostruire la grande Milano” che raccoglie, quasi in un acritico assemblaggio, i grandi progetti in divenire nel territorio milanese secondo un processo che privilegia nelle trasformazioni urbane la valorizzazione immobiliare27. Dinamismo e velocità declinati come principi di una politica efficiente inducono profondi cambiamenti all’interno del sistema pianificatorio della Regione Lombardia che punta sull’accelerazione delle procedure dei piani e sulla semplificazione dei controlli per avere strumenti in grado di operare subito: in Lombardia la pressione dell’urgenza degli investimenti e degli investitori detta i tempi della pianificazione. Il cambiamento avviene con la LR n. 12 del 2005 “Legge per il governo del territorio”. Una legge di tipo nuovo dove si supera definitivamente il piano regolatore tradizionale per il Piano di governo del territorio articolato su tre atti: il Documento di piano, il Piano dei servizi e il Piano delle regole. Il Documento contiene gli indirizzi di svi27 Cfr. “Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali” a cura dell’Assessorato allo sviluppo del territorio, retto da M. Lupi.


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luppo, non è prescrittivo ma strategico con scadenza dopo cinque anni, il Piano dei servizi è programmatico rispetto alle opere pubbliche e dei servizi in genere e non ha scadenza se non per i vincoli sulle aree per gli standard, mentre il Piano delle regole che è prescrittivo per gli usi di suolo e per gli interventi di trasformazione, è a tempo indeterminato. Il piano regolatore così viene disarticolato in tre atti che sono autonomi fra loro e modificabili indipendentemente l’uno dagli altri, indebolendo la visione unitaria delle previsioni sul territorio che dovrebbe delinearne gli intenti di sviluppo. La maggiore criticità è costituita dal rapporto fra il Piano dei servizi e il Documento di piano rispetto ad una capacità insediativa accertata in modo assai vago con progetti non complessivamente definiti. A questo si aggiunge uno svilimento del ruolo degli standard che vengono riportati al minimo di legge e sono parametrati impropriamente ad una capacità insediativa innalzata a 150 mc. ad abitante. La Regione Lombardia, dunque, in una fase che vede molte regioni adeguarsi alla linea cultuale dell’INU, si muove in maniera autonoma e con strumenti anche innovativi che prefigurano una strumentazione oltremodo duttile finalizzata alla ricerca della capacità di adattamento alle differenti situazioni. Ancora diverso è il caso-Piemonte, che in adeguamento alla legge 142 sul nuovo ordinamento delle autonomie locali, inizia un processo di integrazione della LR 56/77 che continuerà nei decenni successivi. Nel 1994, con la LR 45 introduce il livello di pianificazione regionale con il Piano territoriale regionale e riconosce le competenze a livello sub-regionale attraverso il Piano territoriale provin-


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ciale e il Piano territoriale metropolitano, inoltre prevede i Progetti territoriali operativi, i Piani paesistici e i Piani di Area dei parchi e delle altre aree protette. A livello comunale obiettivi e criteri restano sostanzialmente invariati e rimangono sotto il controllo della Regione, al contrario di altre Regioni come la Toscana in cui viene abolito. Ha inizio una pianificazione regionale fondata sull’assemblaggio dei materiali elaborati per i piani comprensoriali, ma nonostante le numerose iniziative basate sull’area vasta, la pianificazione è circoscritta ai “comuni che, in forma non coordinata tra di loro, pianificano il territorio di loro competenza senza guardare oltre i propri confini amministrativi, cercando di far convergere le occasioni e le opportunità di sviluppo… il piano assume quindi l’aspetto di un disegno delle opportunità da realizzarsi, in forma conflittuale, nei riguardi di altri Comuni”28. Il Piano territoriale regionale viene approvato nel 1997 e contestualmente diventa realtà la pianificazione paesaggistica con tre piani paesistici, anche il livello provinciale si muove con lentezza: al 2000 solo due su sette29 hanno un loro piano e, anche quando il piano esiste, non sembra andare oltre la verifica di quanto approntato dai singoli comuni. Manca in concreto un’attività di coordinamento, nonostante la costante attenzione all’ambiente e al paesaggio, che produce una pianificazione volta alla tutela del territorio che si avvale delle esperienze di operatività locale derivanti da quelle dei comprensori. Un nuovo Piano territoriale regionale verrà poi approvato nel 2011 28 Sezione INU Piemonte, Piemonte, in «Urbanistica Dossier» n. 34, Il governo del territorio nelle Regioni, ottobre-novembre 2000. 29 A queste va aggiunta l’area metropolitana torinese.


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assieme al Piano paesistico regionale in attuazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio30. Il Piemonte continua ad essere un caso singolare nella politica urbanistica delle Regioni con la sua LR 56/77 che rimane ancora oggi la legge di riferimento della pianificazione nel Piemonte sia pure con una quarantina di provvedimenti legislativi di integrazione e revisione. Cambiamenti importanti si sono avuti con la LR 3/2013 con la VAS per gli strumenti di pianificazione, la perequazione e la possibilità di elaborare il piano a due livelli nella componente strutturale e operativa. Quello che colpisce è che la legge del Piemonte mantiene un suo percorso che non è influenzato dai tentativi di innovazione portati avanti da altre Regioni e dall’INU con il piano a tre livelli, il PRGC resta, realisticamente, tema centrale e unico strumento di regolazione delle trasformazioni, mantenendo tra l’altro gli originari 25 mq/ab di standard urbanistici in un momento in cui tutti sembrano metterne in discussione il ruolo, la validità e le quantità. L’eclettismo disciplinare In un clima segnato dalla trasformazione istituzionale e dall’affermazione di una nuova politica, si riaffaccia il tema della riforma urbanistica. L’INU, in un editoriale su «Urbanistica» del presidente nazionale Stefano Stanghellini31 la indica come “componente essenziale del rinnovamento politico e sociale del paese” e la immagina non 30 Responsabile del piano territoriale è G. Dematteis, mentre del piano paesaggistico R.Gambino. 31 Cfr. S. Stanghellini, La nuova legge urbanistica: i principi e le regole, in «Urbanistica» n. 104/1995 p. 7.


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più “circoscritta all’ambito della strumentazione tecnica, ma collegata ad altri fondamentali ordinamenti dello Stato dal sistema elettorale all’assetto istituzionale, dal sistema tributario al diritto di proprietà”. Una generale riforma dello Stato, in cui anche la componente territoriale può trovare spazio, dunque, ma senza un’attenzione specifica alla questione disciplinare, cui invece fa riferimento, nello stesso numero della rivista (104/95) il direttore responsabile, Patrizia Gabellini. La Gabellini fa un’analisi dello stato della disciplina osservando come negli anni Novanta, pur in un periodo di ‘turbolenza tematica’, l’urbanistica sembri reagire alla crisi del decennio precedente che aveva esposto il piano e la sua strutturazione a ‘diversificazioni multiple’. La ricerca di convergenze sembra, ora, esprimersi attraverso “l’individuazione del o dei problemi chiave, l’argomentazione della loro rilevanza e del loro carattere di generalità, la messa a punto dei modi più adatti al loro trattamento e alla loro soluzione” nella consapevolezza di operare in un nuovo quadro disciplinare in cui “l’urbanistica si presenta come una ‘famiglia di discipline’ dove confluiscono, contaminandosi, diversi orientamenti e contributi di varia provenienza, dove i problemi sono soggetti ad una continua revisione e nessun punto di vista riesce a trionfare, dove è di casa l’ecclettismo, non da oggi ma dalle sue origini”32. Il riferimento all’eclettismo, come congerie di approcci e soluzioni proposte, è particolarmente efficace e può es-

Cfr. P. Gabellini, Convergenza ed ecclettismo, in «Urbanistica» n. 104/1995 p. 5. 32


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sere facilmente letto attraverso le pagine della rivista «Urbanistica» che documentano un ampio e dettagliato quadro dei diversi orientamenti, caratterizzati da una quantità mai registrata di “attraversamenti dell’idea di piano”. Primo fra tutti, quello ambientale con il ‘piano ecologico’ che Giovanni Maciocco riconduce a tre categorie principali: quella del determinismo ambientale (approccio bio-urbanistico, bio-climatico), quella del formalismo ambientale (urbanistica make up, urbanistica trompe l’oeil, urban design contro dispersione urbana) e quella del funzionalismo ambientale (il controllo ambientale/VIA come unica garanzia di ogni trasformazione)33 alle quali si va ad aggiungere quella territorialista-sostenibile. A quest’ultima fa riferimento Alberto Magnaghi che ne propone l’applicazione in alcune aree che, proprio per la loro diversità, “consentono di contestualizzare e specificare il metodo di approccio territorialista allo sviluppo sostenibile”. Gli ambiti individuati sono: la Val Bormida per l’alto rischio che presenta, la Val di Cornia e le Colline metallifere della Toscana meridionale dove è evidente la crisi e la necessità di riconversione del modello industriale e le periferie di aree metropolitane come Firenze e Milano, identificative di un più generale problema. L’obiettivo, secondo Magnaghi, è quello di avviare il rito della rifondazione delle città. Il modello metropolitano contemporaneo ha prodotto l’esplosione elettrica, energetica, tayloristica e telematica della città. L’e-

33 Cfr. G. Maciocco, Dominanti ambientali e progetto dello spazio pubblico in «Urbanistica» n. 104/1995 pp. 76-91 che interviene sul progetto ambientale e la trasformazione della città in relazione alle forme di disagio disciplinare.


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splosione deposita frammenti (funzioni) seppellendo a caso paesi, città, tessuti territoriali e paesaggistici. L’effetto ‘geologico’ è devastante e insostenibile. La dissoluzione delle città e dei luoghi nello spazio economico metropolitano senza più misura, proporzioni, confini e sapienza ambientale è una delle cause di crescita esponenziale del degrado ambientale. Perciò porsi l’obiettivo di rifondazione dei luoghi urbani, per superare la forma metropoli scomponendola e ricomponendola in un denso reticolo di piccole città e villaggi, può costituire un elemento strategico di riequilibrio fra insediamento umano e ambiente.

Un’intuizione di grande suggestione in cui concorrono la ridefinizione del concetto di limite, la costruzione di reti, che non devono essere confuse con le gerarchie di città, e la nuova creazione dello spazio pubblico inteso come ‘il nuovo municipio’ in cui i protagonisti sono gli abitanti in grado di stabilire nuovi rapporti di ‘cura’ con il loro territorio anche attraverso l’uso di nuovi strumenti fra i quali il progetto strategico (disegnato) che è visto come lo stimolo per dislocare l’immaginario degli abitanti, oltre l’orizzonte normative o dell’ottimizzazione delle funzioni della macchina economica metropolitana34

Alla suggestione di scenari alternativi si affiancano quelli del governo della concretezza, che molte amministrazioni di sinistra stanno portando avanti. A questi afferisce, sia pure nella sua singolarità geo-politica e nella sua abbondanza di finanziamenti in quanto città Capitale35, l’esperienza di Roma, sempre riportata nello stesso numero 34 A. Magnaghi, Progettare e pianificare il territorio: un contributo alla questione ambientale, in «Urbanistica» 104/95 p. 74 35 Su questa eccezionalità della questione romana, si arriverà nel 2009 alla legge n. 42 nel quadro del federalismo fiscale, in attuazione alla modifica del Titolo V della Costituzione.


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104 di «Urbanistica», dove viene valorizzato il “Piano delle Certezze di Rutelli” attraverso gli slogan “Ascoltare e comunicare” ed in cui “la Macchina del piano”36 si esplicita attraverso “la coerenza rigorosa dei valori, le invarianti della pianificazione, gli obiettivi e la concreta pratica quotidiana di trasformazione, manutenzione e gestione della città.”37 Una coerenza raggiungibile con il ‘pianificar facendo’ ovvero in quel farsi e ri-farsi della città che si modifica “per coloro e con coloro che ci vivono, ci lavorano e ci trascorrono il tempo libero: le famiglie, gli anziani, i giovani e i bambini, i visitatori”38 cui vanno ad aggiungersi le categorie più deboli, ovvero l’insieme di quanti la usano.39 Il piano o, come viene definita, la ‘macchina del piano’ è finalizzata alla rinascita di una città sostenibile e introduce una terza dimensione intermedia fra quella comunale e piani attuativi: il progetto d’ambito (fra i quali risultano centrali quelli che incidono sulle aree ferroviarie). Sui progetti d’ambito vengono fatte numerose proposte indicate come “ragionevoli strategie di sviluppo per una città millenaria”, dove convergono le idee di tutti i maggiori architetti del momento da Oriol Bohigas a Rob Krier, da Carlo Aimonino a Franco Purini fino a Renzo Piano, che agiscono in un quadro di ‘consapevole cambiamenCome non fare un’annotazione lessicale in riferimento alla “gioiosa macchina da guerra” di Achille Occhetto delle elezioni politiche del 1994? 37 Cfr. M. Marcelloni, D. Modigliani, La macchina del piano, in «Urbanistica» n. 106/1996 pp. 128-134. 38 Cfr. D. Cecchini, Il piano delle certezze, in «Urbanistica» n. 106/1996 pp. 116-128. 39 Fra gli stakeholders non vengono citate le donne: errore? omissione? Ma questa è un’impertinente osservazione degli autori. 36


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to’ del ruolo dell’Urbe esaminato nei suoi rapporti con il contesto nazionale (la città Capitale), nella sua centralità spirituale per il mondo cattolico (Roma e il Vaticano) e all’interno di un sistema in rete e di reti che per il loro peso finanziario e propulsivo si riferiscono al bacino del Mediterraneo.40 Una strategia monumentale rafforzata da un articolato documento dalla sezione laziale dell’INU41, che interviene ribadendo l’obsolescenza dei PRG e affermando come la trasformazione urbana operativa e nuova legge urbanistica siano da inquadrarsi nel cambiamento del quadro istituzionale e normativo in atto collegato alla riforma autonomie (n.142/90), alle operazioni di recupero urbano (n. 179/92 con l’introduzione di quote di partecipazione privata) e all’elezione diretta dei sindaci (1993). Un ottimismo focalizzato su Roma e sul suo nuovo piano (ma aperto a tutta l’Italia) che prefigura una “seconda fase dell’urbanistica: la sfida dei problemi e il cimento della conoscenza” e che potrà avere una sua positiva soluzione se il prossimo piano di Roma saprà delinearsi come piano strutturale, che formalizza solo le invarianti dei sistemi ambientali e della mobilità, che contiene le regole per la conservazione dei tessuti consolidati e le linee per la trasformazione delle aree obsolete o ancora irrisolte, assumendo al contempo il ruolo di guida strategica nel processo di ricollocazione della metropoli romana nel rinnovato quadro mondiale42.

Il piano di Roma diventerà ‘strutturale’ nel 2001. Roberto Morassut affermerà: Cfr. P. Ceccarelli in «Urbanistica» 106/1996 pp. 149-156. Cfr. INU Sezione Lazio, Trasformazione urbana operativa e nuova legge urbanistica, in «Urbanistica» n. 106/96, pp. 160-167. 42 Cfr. INU Sezione Lazio, Op. Cit, p. 167. 40

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sono sempre un sostenitore di questo piano, della sua impostazione e della sua filosofia […] come democratico di sinistra [...] ora come assessore alle politiche del territorio della nuova amministrazione guidata da Walter Veltroni farò una rapida approvazione

che, operando con continuità nella diversità (da Rutelli a Veltroni), assume il “Piano delle Certezze” già adottato come variante generale da Rutelli come base da perfezionare ed “entro cui operare con un’attenta gestione del fare quotidiano (il cosiddetto planning by doing) ai fini della politica e del progetto di città nel suo complesso”. In un clima di incertezze disciplinari questa ostentata sicurezza infonde fiducia, rafforzata dall’adesione alle indicazioni dell’INU del Lazio, e propone una pianificazione articolata su due livelli: il piano strategico che ‘fissa in maniera puntuale le scelte decisive’ e il livello locale delegato ai Municipi. Morassut interviene in modo cristallino sul concetto di piano, evidenziando come punto di forza la riduzione di ruolo del piano urbanistico stesso rispetto all’originaria filosofia onnicomprensiva (in corsivo nel testo originale, n.d.a.), che lo interpretava come strumento di controllo totale (sociale, economico e fisico) dello sviluppo urbano. Una riduzione che non è una diminutio, ma una precisazione sul ruolo del piano, quale componente importante ma non esclusiva della costruzione del progetto della città43. Cfr. R. Morassut, Il nuovo piano regolatore di Roma. La sfida della qualità, in «Urbanistica» n. 116/2001, p. 41-43. Il numero di Urbanistica è praticamente monografico dedicato al nuovo piano di Roma, approvato dalla Giunta comunale il 20 ottobre 2000. Anche gli autori sono replicanti rispetto al n. 104: fra questi Campos Venuti che individua nel procedimento romano una “terza via” che pur restando entro i limiti della legge del 1942 “riesce a superare le contraddizioni irrisolte, la mancanza di equità fra le aree di trasformazione e l’incostituzionalità dei vincoli pubblici a tempo indefinito: affrontando le nuove rendite urbane concreta-

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E conclude in modo significativo, esplicitando il clima culturale del momento “dopo quarant’anni di attesa… la nuova classe dirigente del centrosinistra è oggi impegnata a definire contestualmente un nuovo piano regolatore (non vincolistico né liberista) e una nuova prospettiva di sviluppo economico e strategico di Roma capitale”.

La politica delle amministrazioni locali, particolarmente vigorosa in quelle rette dal centrosinistra, tende così a sostituirsi, autolegittimandosi, rispetto a qualsiasi ricerca di innovazione critica dei fondamenti disciplinari, considerati ‘vecchi arnesi’, superati e di scarsa utilità. Ne scrive Oriol Bohigas che, a seguito dell’esperienza di Barcellona, era in quegli anni molto presente e popolare in Italia: La pianificazione non è inutile. È insufficiente perché dimentica […] alcuni fattori essenziali del divenire urbano, come la forma dello spazio collettivo, ambito delle identità sociali, e il contenuto specificamente politico, argomento di queste stesse identità. In tal modo i Piani sono soliti ridursi a tre imposizioni […] la zonizzazione […], il sistema autosufficiente della viabilità (…) e la normativa edilizia, che consegna la forma urbana all’inespressione e alla disfunzionalità architettonica basata sull’incultura del progetto. Con queste tre mancanze, la città si trasforma in suburbio. Non è necessario continuare a sviluppare queste considerazioni per ottenere la definizione e il metodo del Progetto Urbano come strumento plausibile di controllo […] Ma forse è ancora utile insistere sulle basi prettamente politiche dell’evoluzione della città. La città è un promente con gli strumenti tecnico-giuridici disponibili. È insomma il più avanzato compromesso con la legge attuale e la più realistica anticipazione della legge futura” pp. 43-46, D. Cecchini, I caratteri del piano. Roma laboratorio per una nuova urbanistica, pp. 4-56; M. Marcelloni con il suo Ragionando del planning by doing, p. 57 sgg. su cui interviene anche G. Manacorda p. 69.


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dotto artificiale — disegnato — in lotta trionfale con la natura. È uno scenario costruito per nutrire e stimolare un certo tipo di interrelazioni umane. Pertanto la città non è la gente: la città sono le pietre, l’asfalto, i tram, le fogne, i servizi, gli alberi, i lampioni, tutto ciò che definisce gli spazi fisici che favoriscono gli usi adeguati per una determinata collettività. Tale artificialità si determina e si giustifica solo con criteri politici, ossia interpretando e, spesso, correggendo e interpretando le tendenze, le aspirazioni, le necessità, gli ideali della gente. Pertanto, le città le fanno — coscientemente o inconsciamente — i politici, che in democrazia si suppone siano i testimoni di una certa vicinanza alla volontà popolare, ma nello stesso tempo si sentono investiti di un potere che permette loro di dominare e guidare la creatività dei progettisti44.

Il primato della politica, interpretata dalla sinistra governativa, è in grado di indirizzare e di determinare un nuovo apporto disciplinare che supera le visioni di un passato, che appare pesante, scomodo e fastidioso. Ma, non tutti sono acriticamente allineati alle posizioni che riscuotono maggior successo, e per questo un particolare significato acquista l’esperienza di Torino, il cui PRG, affidato allo studio Gregotti Associati, propone quella che può considerarsi la riflessione più articolata di questi anni sul

Oriol Bohigas, architetto e urbanista catalano, responsabile dal 1980 al 1984 del Sevizio Urbanistico del comune di Barcellona, poi responsabile del coordinamento dei lavori per le Olimpiadi del 1992, è stato attivamente presente in Italia con lavori in molte città fra cui Salerno, Parma, Mola di Bari, Falconara, Pescara, Venezia. Autore di numerosi libri, in Italia hanno avuto risonanza: Tra strada del dubbio e piazza della Rivoluzione. Epistolario sulle arti, l’architettura e l’urbanistica, Gangemi ed. Roma 2003; Trentaquattro domande a Oriol Bohigas, Clean Editori, Napoli 2007. La citazione è tratta dalla Prefazione (p. 6) al libro di Maurizio Russo, Il progetto urbano nella città contemporanea. L’esperienza di Salerno nel panorama europeo, Napoli 2011 consultabile sul web http://mauriziorusso.weebly.com/uploads/6/2/3/5/6235940/russo_salerno.pdf.

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progetto di città. Un tema che viene affrontato nelle sue diverse articolazioni (la città da non-costruire, da tutelare, da migliorare, da trasformare) e, rispetto al quale, il disegno urbano come progetto del presente impone oggi alcune qualità che sono, nello stesso tempo, mezzi propri e fini specifici preminenti della disciplina. Tali qualità sono proprio quelle che possono rendere disponibile la morfologia urbana all’uso sociale

nella consapevolezza che il piano è una struttura di pensiero fortemente contraddittoria: da un lato si presenta come controllo del futuro, riordino e riorganizzazione in funzione di uno sviluppo, sforzo di programmare la previsione, dall’altro come ipotesi, predisposizione, distacco dal presente, scelta e interpretazione particolare dell’interesse collettivo.

Vittorio Gregotti è ben consapevole dei limiti e delle contraddizioni degli strumenti urbanistici (con tutte le imputazioni di ragioneria urbanistica, di pesantezza delle regole ecc.), ma indica come spesso in queste critiche sia implicita una dogmaticità espressa “con la cattiva coscienza di volere in realtà liberarsi da ogni impegno collettivo e dalle chiarezze architettoniche durevoli che devono accompagnare le scelte di piano” ed evidenzia la forza esercitata dal contesto in questi tempi attivi e diversificati, teoricamente aperti ad ogni iniziativa, modellati sui comportamenti del mercato e della comunicazione, al concetto di programmazione si oppone quello di flessibile opportunità; peraltro la scarsità di regole collettive e della loro morale, così come di grandi orizzonti ideali, rende precario anche l’aspetto predittivo del piano. Ma questa condizione plurale noi crediamo non diminuisca, ma piuttosto aumenti le responsabi-


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lità del piano, non solo come misura di ogni deriva futura, di ogni scostamento dalle prospettive previste, ma come costruzione di ipotesi che si deve misurare con il sito o gli scopi e con il durevole valore di testimonianza della costruzione del nostro ambiente45.

Idee e proposte quelle del PRG di Torino, condivisibili o meno, che hanno l’impagabile pregio della dialettica e indicano, in quel mare magnum dell’eclettismo urbanistico della metà degli anni Novanta, come punto fermo l’impegno collettivo e la chiarezza nella rivendicazione delle scelte, che non posso trincerarsi dietro il fantasma dell’obsolescenza strumentale per affermare nei fatti la deriva delle responsabilità pubbliche o la strabordante arroganza del potere, complici entrambi di un nebuloso occultamento delle regole. Emerge, sia pure minoritaria, la responsabilità del fare e del fare insieme, un bisogno di distinzione di ruoli e di responsabilità nelle decisioni, che non può essere nascosta dal continuo variare della nomenclatura degli strumenti cui non corrisponde alcuna coerenza fra le idee e le azioni, fra le proposte progettuali e la capacità di attuarle. Perché è questo che sta avvenendo nella generalità dei casi con la redazione di PRG che contengono ‘di tutto e di più’ in termini di superfici, volumi e destinazioni, con norme tecniche d’attuazione ipertrofiche quanto criptiche dove alla fine non esiste nessun divieto grazie all’uso dell’allocuzione ‘di norma è vietato’ che apre infiniti ventagli discrezionali per aumentare le quantità da costruire ed evadere le prescrizioni che le regolano. Apparentemente i Cfr. V. Gregotti, Progetto urbano e pianificazione: un dialogo necessario, in «Urbanistica» n. 104/1995 p. 126.

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piani sono impeccabili, le loro relazioni sono un florilegio culturale in cui, partendo dalla più remota storia dei luoghi, si citano tutte le possibili operazioni sui tessuti urbani e sui singoli edifici, dalla riqualificazione dei ‘margini urbani’ (aree di transizione fra l’edificato e la campagna, che ormai non esiste quasi più) alla costruzione di ‘nuove centralità’ che dovrebbero dare dignità e carattere alle periferie senza forma e identità fino al recupero delle aree extra-urbane (parco agricolo, chilometro zero) e alla riconquista della qualità dell’ambiente e della vita. Nulla viene tralasciato. I piani diventano sempre più complicati e le prescrizioni sono materia esclusiva per addetti ai lavori: il cittadino non esiste più. I piani sono inoltre diversificati nella loro struttura in base alle diverse normative regionali e ogni progettista propone la sua metodologia di approccio e di restituzione: qualcuno tenta di usare il disegno, puntando sulla rappresentazione figurata del territorio ed esplicitando ‘morfotipi’, per stabilire un contatto più diretto con i cittadini destinatari del piano, altri fanno leva sulle ‘invarianti’ (permanenza dei valori riconosciuti e riconoscibili) come supporto e guida alla progettualità, altri ancora fanno riferimento al concetto di ‘identità’ e alla riconoscibilità nei luoghi delle comunità che li abitano. Sono alcune delle proposte metodologiche più interessanti e ricche di potenzialità che, tuttavia, restano sempre e comunque astratte rispetto a quanto, poi, avviene sul territorio, dove si agisce attraverso i Regolamenti, mera riproposizione dei vecchi PRG che, quando va bene, hanno qualche attenzione ai processi di transizione indirizzati alla sostenibilità e al contenimento effettivo del suolo edificato/edificabile.


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Dalla metà degli anni ‘90, la legge sul “Governo del territorio” della Regione Toscana in sintonia con l’INU, diventa un modello culturale da imitare, ma la scissione fra Piano strutturale e Regolamento urbanistico o Piano operativo che dir si voglia, applicata alla medesima dimensione comunale, fa sì che il Piano strutturale resti uno strumento indeterminato di tipo meta-progettuale, che delega la sua attuazione ad un insieme minuto di regole che il Comune stesso confeziona, approva e sui cui esercita il proprio controllo, modificandolo ogni volta lo ritenga opportuno. Un’autoregolazione che genera disparità interne e complicazioni esterne. Infatti ogni coerenza e relazione fra le scelte dei due livelli di piano è affidata, nella maggior parte dei casi, ad un insieme generico di indirizzi, comunque validi, riferiti ad un quadro programmatico comunale, dove le implicazioni di area vasta sono evanescenti. Tutto si perde in una complicata rarefazione di ipotesi previsionali che viene presentata come una moderna interpretazione dell’urbanistica, ovviamente semplificata e flessibile, rivolta ad un territorio che appare sempre più ingovernabile e si scontra con un falso concetto di libertà (destino drammatico di questa parola) che evade i problemi di cattivo uso e di mala amministrazione per proiettarsi su grandi scenari futuri che sapranno riportare una salvifica ‘bellezza’ ai luoghi. Come non è dato saperlo né si vuole, qui, entrare in merito al concetto di bellezza e ai suoi rapporti con il piano urbanistico. Una tematica che si sta aprendo su vari fronti: dall’affrancamento dalle costrizioni che avevano soffocato l’architettura con indici e numeri, dall’identificazione di strumenti in grado di riportare una nuova qualità urbana alla re-


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stituzione della dignità dell’immagine del quadro di vita alla ricerca di tutele e vincoli che proteggano il territorio. Recuperare, riqualificare, trasformare La pratica urbanistica, sostenuta da un diffuso cambiamento delle normative regionali, si indirizza verso un ribaltamento delle modalità e delle tecniche tradizionalmente utilizzate per la redazione dei PRG (zone, indici ecc.), che passano ad una definizione sempre più dettagliata degli interventi sui singoli lotti, cercano di definire la morfologia delle architetture e dei volumi, forniscono indicazioni su colori e materiali, fino a confrontarsi con l’esplicitazione dei modelli progettuali che identificano ‘gli strumenti complessi’ che si applicano nelle aree di trasformazione. A livello nazionale, infatti, l’attenzione è rivolta prevalentemente all’avvio dei programmi di edilizia residenziale pubblica (legge n. 179/92) e, con cadenza quasi annuale, si susseguono per tutti gli anni ‘90 provvedimenti intesi a facilitare gli interventi all’interno delle zone urbane: legge n. 493/1993 “Programma di Recupero Urbano, PRU”, DM 21/12/1994 “Programma di riqualificazione urbana, PRIU”, legge n. 662/1996 “Contratto di Quartiere, CdQ”, legge n. 127/1997 “Società di trasformazione urbana, STU”, DM 8/10/1998, “Programmi di Riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio, PRUSST”. Sono i Programmi complessi che si evolvono nel tempo passando da misure volte al recupero abitativo, dei servizi e del potenziamento dell’arredo urbano nei quartieri degradati (1993) ad un’attenzione mirata al miglioramento della qualità delle periferie con i PRIU, che è


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tuttavia sempre accompagnata dal sostegno pubblico alle abitazioni46 e giunge fino alla realizzazione di infrastrutture, servizi e attrezzature per il conseguimento di uno sviluppo sostenibile (PRUSST 1998) che va ad interessare un po’ tutto dalle ferrovie agli ospedali, dalle attrezzature sportive a quelle turistico-ricettive, dalla riqualificazione delle aree centrali alle verifiche di sostenibilità degli interventi sul territorio. A questi si affiancano i Contratti di quartiere e le Società di trasformazione urbana che si configurano come strumenti attuativi e sono pensati, i primi, per le aree marginali con problematiche di disagio sociale anche se non direttamente interessate da trasformazioni urbanistiche, mentre le seconde sono finalizzate alla creazione di società miste pubblico/privato per l’attuazione delle previsioni di piano. L’evoluzione dei Programmi complessi si relaziona anche con la variazione della composizione dei finanziamenti, nei quali acquistano un peso crescente quelli europei, e con l’acquisizione e l’uso di nuovi strumenti quali gli Accordi di programma che consentono di variare più velocemente i PRG vigenti. È una delle tante declinazioni della flessibilità e dell’accelerazione nell’attuazione del PRG, che non è più relativo ad un progetto unitario esteso all’intero territorio comunale, ma si confronta con le singole tematiche di cambiamento parcellizzate e autonomamente valutate in relazione alle risorse che riescono a trovare. Si può rilevare, Va inoltre rilevato come la Bassanini (n. 112/98) abbia regionalizzato la politica della casa e di come le Regioni non abbiano investito a sufficienza in questo settore (in media si calcola l’1% del Pil) e si siano appoggiate prevalentemente ai fondi strutturali europei. Solo dopo il 2000 si avranno interventi da parte dello Stato con la legge n. 21/2001 e con il Piano nazionale per l’edilizia abitativa, Dpcm 16 luglio 2009.

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Quartiere Zen, Palermo

dunque, come vi sia coerenza fra leggi, operazioni di recupero e teorizzazioni sulla crescita della città, ma anche come a questa coesione logica non corrispondano reali e diffusi miglioramenti sul territorio in quanto, agendo per parti, segmentano definitivamente le operazioni di analisi dalla redazione di qualsiasi strumento di progetto integrato. Ogni rilettura del territorio in termini di sostenibilità risulta impossibile, perché il sistema nel suo insieme e nel suo divenire segue meccanismi di produzione che non hanno riscontro in nessun documento programmatorio. Ed è proprio sulle problematiche dello sviluppo, che si palesano tutti i limiti in cui vanno a collocarsi le tematiche dell’ambiente, che si svelano deboli su tutti e tre fronti: quello ministeriale, quello regionale e quello locale con modalità ed effetti diversi, ma sempre ed egualmente rilevanti. Situazioni di degrado che attengono al quadro delle risorse ambientali o alla natura idro-geologica o sismica delle diverse zone, ma anche sono certo aggravate pesantemente dagli usi impropri o da modelli di sfruttamento che sembrano inarrestabili. I territori più esposti sono quelli che devono affrontare il declino economico dovuto alla deindustrializzazione,


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Quartiene Toscanini, Aprilia

che si manifesta e sarà risolta — quando lo sarà — con modalità, interventi ed esiti assai diversificati. Sono soprattutto le città-fabbrica che devono affrontare programmi di riconversione generale, che certo non si può risolvere soltanto con l’applicazione di strumenti urbanistici e modelli spaziali. Sono aree in cui la dinamica immobiliare è scarsa e il rischio di un collasso economico può assumere caratteri drammatici anche dal punto di vista sociale in termini collettivi e individuali. Il fenomeno è palese soprattutto dove l’industria pesante e/o chimica si scontra con metodi di lavorazione arretrati che va ad assommarsi alle difficoltà di sostegno economico da parte dello Stato che, invece di affrontare globalmente un tema che è nazionale anche se si presenta con un’apparenza puntuale, e di collocarlo in un’ottica ampia di riconversione e di ammodernamento dell’intero sistema produttivo italiano, tenta di dilazionare gli effetti e gli esiti finali mantenendo in vita le attività esistenti in condizioni sempre più precarie che si riverberano sull’ambiente con tassi di nocività preoccupanti. In altre realtà europee, come il bacino della Ruhr o il Nord Pas de Calais, questioni analoghe sono state affrontate e risolte con una ‘lente verde’, ribaltan-


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do le basi stesse su cui si fondavano le vecchie economie e con programmi di investimento impostati su tecnologie avanzate, ambiente e cultura, in cui confluiscono capitali europei, nazionali, locali e privati. Al contrario, in Italia, le crisi di settore (metallurgia, chimica ecc.) si tamponano con passaggi di proprietà, interventi d’emergenza, cassa integrazione e sussidi a protezione dei lavoratori che hanno la funzione di procrastinare le decisioni in attesa di (im-)probabili soluzioni risolutive affidate spesso a capitali stranieri che appaiono, promettono e si ritirano innescando aspettative e delusioni che incidono pesantemente sulle popolazioni. Genova, Taranto, Trieste, Piombino, Sagunto, Terni: sono alcune delle realtà in crisi da decenni che oggi mostrano evidenti lacerazioni di un fenomeno cui non sono state risposte adeguate in termini né economici, né sociali, né territoriali. In questo contesto è il Sud a pagare il prezzo più alto: non ha la forza di riconversione che può avere una grande città del Nord come Torino, dove la deindustrializzazione si è accompagnata ad una dinamica economico-immobiliare elevata e alla capacità di attrarre investimenti che ha consentito operazioni come la riqualificazione del Lingotto o, successivamente, ospitare le Olimpiadi invernali del 2006 e che, per di più, beneficia di una posizione geografica che la inserisce sulle maggiori direttrici europee e la colloca nel cuore produttivo nazionale. Per il Mezzogiorno la situazione è molto diversa: non ha neppure la vitalità di entrare a far parte della cosiddetta “terza Italia”47 trasformando i

47 Cfr. A. Bagnasco, Problematica territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino, Bologna 1984.


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suoi monoliti industriali in un sistema di imprese medie e piccole, in grado di attivare lavoro e rigenerare il territorio secondo un modello presente in altre regioni dell’Italia centrale come la Toscana o le Marche; non ha, soprattutto, le risorse materiali e la capacità imprenditoriale per la riconversione del suo territorio perché manca di infrastrutture moderne e adeguate e nessuno è in grado, o è messo in grado, di indirizzare i processi di cambiamento, di programmarli e di progettarli. La spesa parziale e inefficace dei fondi europei, erogati o erogabili, lo conferma. Ci si affida al binomio cultura e natura (il turismo culturale) che sono le sole risorse a portata di mano — insieme al buon cibo come la pizza da poco bene immateriale dell’Umanità — ma non si pensa di accompagnarle né alla protezione dell’ambiente né alle innovazioni tecnologiche in grado di supportare nuove economie e attrarre investimenti di lunga durata. Condizioni indispensabili per sviluppare energie intellettuali e un quadro politico-sociale eticamente favorevole in grado di creare una crescita ‘sana’, che mantenga sul territorio i giovani migliori e più preparati e che attragga, senza vischiosità, le risorse economiche necessarie. Nel corso dell’ultimo decennio del Novecento, il divario fra il Nord e il Sud del Paese ha continuato ad aggravarsi. Non sono stati di aiuto neppure i flussi di finanziamenti per le grandi manifestazioni, che hanno generato magari qualche struttura in più, ma non hanno invertito nessuna tendenza in atto. Il paradosso è che di soldi per i grandi eventi e le opere ad essi collegati ce ne sono stati, e ce ne sono stati tanti, ma dire che sono stati spesi male è solo un eufemismo. Se si escludono forse le Colombiadi del


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1992, dove Genova è riuscita a coordinare gli interventi per il risanamento del porto vecchio con il grande Acquario e i Musei adiacenti, le tragedie maggiori si sono concentrate dove più notevole è stata l’erogazione di finanziamenti: si pensi, per esempio, ai Mondiali di Calcio (Italia ‘90) con i soldi destinati non solo alla costruzione e l’ammodernamento degli stadi di calcio48 finanziati con quasi mille miliardi di vecchie lire, ma anche all’accoglienza, ai trasporti e alle infrastrutture, dove le grandi beneficiate sono state le nuove stazioni. Solo a Roma sono state costruite la stazione di Farneto in zona Farnesina che è rimasta in funzione per breve tempo e chiusa nel 2008, quella di Vigna Clara (75 miliardi di lire) presto dichiarata inservibile e l’Air Terminal di Ostiense (350 miliardi di lire) chiuso nel 2003 e rimasto vuoto fino al 2012 quando Oscar Farinetti l’ha rilevato per Eataly; mentre a Firenze si è costruita la stazione dello Statuto, oggi fatiscente, a cui non ferma nessun treno, e l’elenco potrebbe continuare: denaro distribuito a pioggia un po’ dappertutto senza una logica e una coerenza. A questi si sono aggiunti i soldi del Giubileo 2000 spesi per l’accoglienza ai ‘pellegrini’ in alberghi, residence, strutture congressuali e quant’altro e certo non può mancare una nota sui Mon-

Per Italia ‘90 sono stati ammodernati 10 stadi e costruiti due stati nuovi, il San Nicola a Bari/58.000 posti su progetto di Renzo Piano, di costosa manutenzione, e il Delle Alpi a Torino/69.00 posti e dal 2006 chiuso alle attività sportive e nel 2008 abbattuto per la costruzione di un nuovo impianto, in funzione dal 2011. Va inoltre rilevato come per tutti gli stadi ci furono problemi enormi di lievitazione dei prezzi in fase di costruzione: per lo stadio di San Siro nel giro di tre anni si passò dai 20 previsti a 140 miliardi coinvolgendo anche le ‘opere connesse’ (metrò sopraelevato) e il sistema dei parcheggi.

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diali di Nuoto del 2009 quando, sempre a Roma, il nuovo Polo natatorio di Valco San Paolo (vicino all’Università di Roma Tre e di cui poteva costituire un’integrazione di servizi) viene presto abbandonato, con il paradosso del Palazzetto dello Sport progettato da Santiago Calatrava da 8.000 posti, con piscina olimpionica /3.000 posti e pallanuoto/4.000 posti, non è completato in tempo tanto che le gare sono state disputate al Foro Italico. Grandi architetture e progettisti eccellenti che avrebbero dovuto contribuire all’ammodernamento delle città, assecondando la loro trasformazione, e che invece si pongono come iniziative disperse in un vuoto amministrativo e calate in contesti di pessima programmazione. Sul progetto di cambiamento di questi anni si inserisce il tema del marketing urbano, che mette sul mercato mondiale dell’attrattività, l’immagine delle città. Nasce il mito che l’immagine che se ben diretta potrà richiamare investimenti e essere fonte di ricchezza e benessere per i cittadini. Le città al top in questo periodo sono Bilbao, Stoccolma, Amsterdam, Utrecht e Lione che sanno trovare una ri-collocazione, quanto meno europea, basata sulla definizione dello loro strategie di sviluppo rivolte, in tutti questi casi, sia ai cittadini che ai visitatori. Bilbao fa da apripista con il suo Guggenheim49 e la riqualificazione del lungo fiume e del centro storico, Stoccolma si proietta già nel secolo successivo puntando su più settori dall’innovazione, al welfare, all’integrazione sociale e al turismo d’affari, mentre Amsterdam sceglie di presentarsi come centro in grado di favorire la collaborazione fra isti49

Su progetto di Frank O. Ghery, inaugurato nel 1997.


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tuzioni locali, nazionali ed internazionali con centri di ricerca, agenzie di comunicazione e un’imprenditoria moderna, lavorando in sintonia con altre città olandesi fra cui Utrecht, che incrementa il suo ruolo di città della cultura con quello di città della conoscenza fondata sul rapporto fra innovazione ed economia. Lione, con lo slogan-anagramma Only Lyon, sottolinea un’eccellenza tutta francese impostata su una gastronomia che fa rete con l’economia di un territorio e si dota di parchi, musei, aree archeologiche e d’interesse naturalistico. In tutti questi casi, la vendita di cultura va di pari passo con la produzione di cultura e l’innovazione tecnologica: un collegamento che non è mai da dimenticare. In Italia la partita si gioca interamente sul ‘petrolio nazionale’: i beni culturali, che certo abbondano in tutta la penisola, e la bellezza del paesaggio. Il turismo diventa la croce-delizia della fine del secolo e le sfide delle città si concentrano soprattutto in questo campo. Attrarre visitatori, aumentare la ricettività e diffondere la ristorazione: in Italia la cultura si vende e con essa i centri storici delle città d’arte. Ci sono alcuni must cui i territori, se vogliono piazzarsi nelle classifiche dei più visitati, non posso-


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no sottrarsi. Essi devono apparire in film o in serie televisive (nascono e prosperano le film commission), devono ospitare manifestazioni strabilianti e avere sempre qualche evento nuovo da offrire (festival, illuminazioni, sport, la notte bianca o rosa ecc.), non possono sottrarsi dal chiamare un progettista di fama a firmare un quartiere o almeno un edificio, meglio se un museo (fenomeno delle archi-star) o, per le città di mare, dal riqualificare lo water-front (modello Barcellona) e, naturalmente, essere wifi per sembrare più smart. I risultati sono eccellenti: un’overdose di turisti, concentrata su alcune città d’arte che annienta ogni altra attività e ogni quotidianità di vita. Il problema della residenza nei centri storici, così responsabilmente presente nel dibattito dei decenni precedenti, ormai si pone in termini di una massiccia riconversione turistica degli immobili e delle attività e nell’accettazione passiva di una permanenza temporanea, che in cambio di ospitalità a pagamento deve offrire una ‘vista particolare’ ed essere universalmente e facilmente fruibile. E l’urbanistica? Va da sé che il piano urbanistico, in questo grande scenario di iniziative e interventi, diventi ancora più inadeguato e fragile, in balia di un susseguirsi estremamente rapido di iniziative regolate da flussi di denaro elevati, prevalentemente privati, che offrono occasioni che ‘vanno colte al volo’. Il PRG deve mutare la sua natura di strumento prescrittivo e cogente per diventare un supporto sempre più elastico, un contenitore capace di supportare e agevolare gli impulsi (le sollecitazioni) che su di esso vanno via via scaricandosi.


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Come si è detto, l’INU nel 1993 avanza dopo trent’anni una proposta di ‘riforma’ dell’urbanistica che segna, poco dopo, l’avvio di una corsa parlamentare di presentazione di disegni di legge da parte di tutte le forze politiche (XIII legislatura,1996-2001)50. Nella proposta INU convergono le esigenze di dare risposta alle difficoltà che emergono dalle reiterate sentenze della Corte costituzionale in materia di proprietà e diritti edificatori e quindi di espropriazione per pubblica utilità, nonché la necessità di armonizzare e recepire le esigenze emergenti nelle nuove leggi regionali e l’urgenza di definire i rapporti che si pongono sempre più forti (e conflittuali) negli interventi fra pubblico e privato. La proposta è quella di arrivare ad una ‘legge di principi’, in grado di garantire alcuni fondamentali obiettivi per il governo del territorio (perequazione, compensazione) superando lo schema regolativo della legge del 1942, nell’assunto che il piano, se pur fondamentale, non è esaustivo della strumentazione per il territorio in quanto ad esso vanno affiancati i programmi e le politiche delle amministrazioni locali, regionali e dello Stato finalizzate al conseguimento di particolari obiettivi. Va richiamato qui che, nel corso degli anni ‘90, gli interventi a valenza pubblica erano ancora determinanti e in grado quanto meno di condizionare (qualora avessero voluto o saputo farlo) il rapporto con i privati. Non sarà Fra il 1996 e il 2002 vengono presentati una serie di testi eterogenei sulla materia. Si ricordano i Ddl: C 518 (Turroni, Boato), C 206 (Mussi), C 3779 Martinat, C 4134 (Casinelli) e il testo unificato presentato nel marzo 2000 da M.R. Lorenzetti allora presidente della VIII Commissione. Il dibattito si svolge parallelamente a quello sul testo di riforma costituzionale da parte della Commissione bicamerale.

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più così dopo le liberalizzazioni51 e la filosofia della concorrenza (che da sola, avrebbe dovuto, avere la capacità di condizionare e calmierare il mercato) e il progressivo coinvolgimento dei privati apriranno scenari totalmente diversi. Un processo cui contribuiscono tutti sotto la spinta delle indicazioni europee a protezione della concorrenza, che vede d’accordo in Italia sia le forze politiche di destra che quelle di sinistra, e che trova nelle operazioni di recupero urbano un terreno fertile che porterà di lì a poco gli investitori privati ad essere determinanti e dominanti. Le vere difficoltà, infatti, arrivano dopo il 1997 a seguito del Patto di stabilità e crescita, in attuazione del controllo sulle finanze pubbliche conseguenti all’accordo di Maastricht, quando la capacità di intervento degli enti locali va assottigliandosi progressivamente fino a diventare quasi inesistente e il piano non potrà che ridursi ad una intelaiatura acritica di supporto per un assemblaggio indifferenziato fatto “con progetti d’area, con disegni di architettura, tutti diversamente concorrenti ad affermare e giustificare il prevalere assoluto delle grandi società finanziarie”52. A completare le difficoltà dell’azione di controllo pubblico sul territorio interviene nel maggio1999 un’altra sentenza della Corte Costituzionale che, con la precisione e la puntualità di sempre, ribadisce come nessun terreno possa essere bloccato per previsioni pubbliche se non, congruamente e nei tempi dovuti, indennizzato: ai comu-

51 Il riferimento è, fra gli altri, ai provvedimenti noti come Decreto Bersani n. 79/99, Decreto Bersani-Visco legge n. 248/2006 e Decreto Bersani bis n. 40/2007. 52 Cfr. G. Campos Venuti, L’urbanistica riformista, EtasLibri, Milano 1991 p. 199.


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ni già paralizzati e penalizzati nelle loro iniziative dal Patto di stabilità viene, ora, notificata la non costituzionalità della reiterazione del vincolo per le aree destinate ad attrezzature e servizi. La città pubblica subisce un altro colpo e sembra non interessare più come rappresentazione della collettività, ma esistere solo in funzione di un potere economico che va facendosi sempre più anonimo, aggressivo e totalizzante. È ancora una volta Bernardo Secchi a fornire una suggestiva ed efficace immagine dello stato dell’arte, proponendo un’analogia fra la lettura del sistema urbanizzato e il Poema sinfonico per cento metronomi, ideato ed eseguito dal compositore ungherese Gyorgy Ligeti ad Hilversum nel 13 settembre 196353, in cui numerosi strumenti insieme compongono un suono compatto che poi si riduce e finisce al ritmo ad uno solo strumento. Scrive infatti: chi percorra lo spazio della città dal continuum dei suoi tessuti centrali verso i complessi ritmi delle sue periferie strutturate dai molti progetti della modernità, per giungere, infine ai ritmi della città diffusa… discontinua, dispersa, frammentaria, eterogenea, priva di regole facilmente riconoscibili, connotata dalla mescolanza di attività… compresenza di parti, forme tecniche appartenenti ad epoche diverse (… spinta verso) “la diversità nelle sue diverse forme sta costruendo il grande mito di fine secolo (… che) accomuna senza aggregare, occultando in parte le strutture ritmiche della società. 53 Si riportano le parole di Gyorgy Ligeti “Lo ideai a Vienna nel 1962. Quando battei a macchina il progetto del pezzo su un foglio di carta, non pensavo che venisse mai eseguito. Era una bella idea. Mi ero immaginato il suono di cento metronomi che si fermavano uno dopo l’altro. Cento era solo una cifra approssimativa: pensavo ad un numero sufficiente di metronomi perché il rumore, inizialmente uniforme, desse luogo successivamente a costellazioni ritmiche che mutavano a poco a poco” (1961).


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Ed è qui, osserva, che si annidano diversità e integrazione, dove integrazione è omologazione, conformismo, repressione.

E ancora riflette sulla città antica costruita da una folla di attori che agivano integrando linguaggi e tecniche, mentre oggi “costruire scenari vuol dire costruire uno o più ordini ipotetici tra i diversi fenomeni che investono la città, l’economia e la società, e chiarirne le conseguenze… richiede una “particolare deontologia” che passa per la consapevolezza delle nostre responsabilità verso l’ambiente e che modificherà il nostro paesaggio54. Si apre dunque, accanto al tema della difficile collegialità della costruzione dei nuovi “ritmi” della città, quello dell’etica nei confronti del territorio (ambiente e paesaggio) riferito ai comportamenti professionali come a quelli sociali e della politica: un tema ricorrente, che appare sempre più difficilmente gestibile in una società che va da un lato individualizzandosi sempre più e dall’altro adattandosi ad un livellamento culturale che passa per un conformismo comportamentale diffuso.

54 Cfr. B. Secchi, Prolusione all’Anno accademico 1998-1999 all’IUAV, Venezia, pubblicata in «Urbanistica» n. 112/1999 pp. 9-14.


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scompare ogni gerarchia di bellezza del paesaggio e si fa strada il concetto di un’ aspirazione collettiva che riguarda tutto il territorio, tutte le popolazioni e che rafforza il tema della democrazia nella cittadinanza e dell’uguaglianza degli individui in quanto abitanti della terra


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Il nuovo millennio L’ingresso in un nuovo millennio sembra portare di per sé una carica di ottimismo che si manifesta in una direzione di positività individuale e collettiva: tutto cambierà e cambierà in meglio. Archiviate le macchine da scrivere, i dischi in vinile e gli walkman, ormai il digitale è entrato a far parte della quotidianità nelle case (personal computer), negli uffici privati come quelli pubblici, l’elettronica digitale cambia il modo di comunicare: la globalizzazione è nello spazio, alla portata di tutti, basta essere connessi. Non a caso la minaccia più temuta della notte del 31 dicembre 1999 è quella del Millenium Bug (il virus dei computer) che non si verifica. Una sensazione che è destinata a durare solo fino all’11 settembre dell’anno successivo, quando con l’attentato alle Torri Gemelle inizia l’era del terrorismo accompagnato dall’intensità e dal numero dei conflitti bellici e dall’escalation di violenza che andranno a coinvolgere tutto il pianeta: una tragica beffa, se si pensa che le Nazioni Unite proprio da New York avevano dichiarato il primo decennio del XXI secolo come “Decennio Internazionale per la Cultura della Pace e della Non-Violenza”.


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L’Europa, tuttavia, sembra in un primo momento continuare il consolidamento delle sue politiche e delle sue istituzioni, rafforzando la coesione interna che sembra trovare nella moneta unica entrata in circolazione dal gennaio 2002 e nella Convenzione per la Costituzione europea1 due cardini del processo di integrazione, ma gli ostacoli sulla via della Costituzione si dimostrano più numerosi e insidiosi del previsto al punto da condizionarne gli esiti. Invece di riflettere sulle ragioni e su quanto va succedendo all’interno dell’Unione, la Commissione decide di procedere verso l’allargamento dei suoi confini, aumentando il numero degli stati membri. Inevitabilmente cambiano le priorità politiche che vanno oltre il sostegno economico ai singoli paesi (si pensi ai bilanci e ai settori in crisi come quello agricolo), ma devono farsi carico della complessità dell’integrazione interna (pari opportunità e inserimento) che passa per l’occupazione, gli affari sociali e le pari opportunità, in un quadro decisamente improntato alla sostenibilità dello sviluppo. Arrivano dall’Europa molti segnali positivi che si riflettono La Convenzione per l’avvenire dell’Europa, istituita nel 2001 e presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, concluse i suoi lavori nel luglio 2003 e fu sottoscritta dagli Stati membri il 29 ottobre 2004 a Roma, come “Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”. Articolato in quattro parti il Trattato si poneva come una tappa intermedia per arrivare ad una vera e propria Costituzione europea. Ma la bocciatura dei referendum di ratifica del maggio-giugno 2005 in Francia e in Olanda (due dei sette paesi fondatori) furono fatali alla ratifica del Testo. Ancora più grave fu la sottovalutazione politica che se ne fece in quanto non si volle capire che stava cadendo la fiducia nel progetto federalista di integrazione europea. Nel frattempo era infatti avvenuto il “processo di allargamento che a seguito della delibera del dicembre 2002 aveva approvato l’adesione (ingresso maggio 2004) di Cipro, Malta, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovenia (2003), cui fecero seguito Romania e Bulgaria (2007) e, nel 2013, la Croazia.

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sui diritti civili e sul territorio di cui si vedono gli aspetti ambientali, che continuano ad essere una priorità, ma anche importanti aspetti ‘integrativi’ e relazionali come il paesaggio. Ma su tutto questo vanno a gravare i numerosi conflitti bellici e le grandi migrazioni dall’Asia e dall’Africa che diventeranno drammatici con l’inizio delle primavere arabe (2011) e con la seconda guerra civile libica (2014). Per l’Italia è il periodo degli ‘sbarchi’: un fenomeno regolato prevalentemente con la Convenzione di Dublino2 che trova un’Europa impreparata proprio su queste tematiche che in relazione alla sua storia e alle sue politiche di integrazione avrebbero dovuto essere non ‘emergenze irrisolte e delegate ai singoli paesi’ ma priorità di azione basate sui principi di accoglienza e integrazione su cui l’allargamento stesso dell’UE nel primo decennio del XXI secolo si era basato. In Italia quadro politico è assai convulso. Dovrebbe funzionare il nuovo sistema maggioritario (Seconda Repubblica) disegnato dalla legge Mattarella. In pochi anni cambiano tre presidenti della Repubblica e tre Papi. Vi è una forte alternanza delle coalizioni di governo: nel 1996-2001 l’Ulivo anche se con tre presidenti del Consiglio, nel 2001 la coalizione di centro-destra con Forza Ita2 La Convenzione di Dublino è un Trattato multilaterale in materia di “Diritto di asilo”. Ha dato vita a tre successivi Regolamenti: oggi è in vigore il Dublino III (2013/604/CE), approvato nel giugno 2013, determina lo Stato membro dell’Unione europea competente a esaminare una domanda di asilo o riconoscimento dello status di rifugiato in base all’art. 51 della Convenzione di Ginevra. Per contenere la circolazione dei richiedenti asilo stabilisce che sia il paese di arrivo a esaminare la domanda, con due conseguenze negative: che ci sia una disparità di criteri fra paese e paese e che ci sia (come si è verificato) una pressione insostenibile sui paesi di prossimità che ricevono la prima ondata di migranti.


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lia, Alleanza Nazionale, Unione di Centro e Lega Nord (Berlusconi II, 2001-2005, il più lungo nella storia repubblicana), poi la breve legislatura del 2006-2008 (centro sinistra con Prodi) cui segue il ritorno di Berlusconi (20082011) e il governo Monti fino al termine della legislatura nel 2013, per giungere ai tre governi di centro sinistra (Letta, Renzi, Gentiloni) e alle elezioni del marzo 2018. Nel Paese si avverte un clima di tensione e violenza che inizia a Genova con il G8, prosegue negli stadi e nelle storie di ‘ordinaria follia’, spesso infrafamiliare, che culmina nella paura di attacchi terroristici. Il centro sinistra riesce a portare all’approvazione alcune leggi di valore civile come quella delle unioni civili e del biotestamento, ma non riesce a risolvere i grandi problemi come l’occupazione giovanile o il risanamento del debito e soprattutto ad instaurare un clima di fiducia nelle sorti del paese. Le elezioni del marzo 2018 rispecchiano, infine, l’incoerenza del quadro politico e sembrano travolgere quanto avvenuto in precedenza. Il paesaggio Fra le speranze di inizio Millennio c’è il paesaggio. Il 19 luglio 2000 viene adottata dal Consiglio d’Europa la Convenzione Europea del Paesaggio, sottoscritta a Firenze il 20 ottobre: un testo che va ad integrare il quadro delle politiche ambientali e di partecipazione popolare finalizzate allo sviluppo sostenibile e al miglioramento della qualità della vita nella crescita, nella tutela dell’ambiente e nella coesione sociale3. Oltre a indicare una definizio3 Cfr. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:52009DC0400.


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ne4 di paesaggio che, sia pure in modo incompleto e variamente interpretabile, diventa un riferimento comune per amministratori, tecnici e popolazione, afferma la necessità di un’azione politica da parte degli enti pubblici nella gestione (obiettivo della qualità e della sostenibilità), nella pianificazione (“orientare e armonizzare” le trasformazioni “volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi”) e nella salvaguardia del paesaggio. Si raggiunge, dunque in questi anni, l’obiettivo fondamentale di avere due definizioni condivise per i concetti di ambiente e paesaggio: il primo individuato come “un complesso dinamico di flora e fauna e dell’ambiente in cui vivono, nonché le loro interazione reciproche” e il secondo in quanto “designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Come si può notare le due definizioni hanno in comune la dinamicità dell’oggetto e il fatto che si applichino agli stessi campi fisici in quanto interagiscono nei rispettivi cambiamenti. Un’iterazione che ha la sua componente principale nell’azione dell’uomo che attraverso la sua cultura influenza l’evoluzione e la trasformazione dei luoghi, da cui, a sua volta, è condizionato. Un chiarimento culturale e politico rilevante, ma quello che la Convenzione EU non può risolvere, è la contraddizione italiana insita nella pianificazione del territorio, che resta frazionata sia dal punto di vista legislativo, sia

4 La convenzione EU recita all’art. 1, comma a) “Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”.


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Panorama dalla Villa Medicea, Cerreto Guidi

da quello strumentale, sia da quello culturale e disciplinare. Infatti nel 2004, con Dlgs del 22 gennaio n. 42, l’intera materia dei Beni culturali e del paesaggio viene riordinata in un testo unico, il “Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 20025” che tiene conto, nella Parte Terza, dei principi e delle indicazioni della Convenzione, formalmente introdotta nell’ordinamento italiano con la legge n. 14 del 9 gennaio 2006 “Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sul paesaggio, fatta a Firenze il 20 ottobre 2000”. Va tuttavia rilevato come il testo del Codice e le successive modi-

L’art. 10 della legge 137/2002 “Delega per la riforma dell’organizzazione del Governo e della Presidenza del consiglio dei Ministri, nonché di enti pubblici” entra nel merito del riassetto e della codificazione in materia di beni culturali e ambientali, spettacolo, sport, proprietà letteraria e diritto d’autore e recita “1. Ferma restando la delega di cui all’articolo 1, per quanto concerne il Ministero per i beni e le attività culturali il Governo è delegato ad adottare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto e, limitatamente alla lettera a), la codificazione delle disposizioni legislative in materia di: a) beni culturali e ambientali; b) cinematografia; c) teatro, musica, danza e altre forme di spettacolo dal vivo; d) sport; e) proprietà letteraria e diritto d’autore”. Va rilevato come il Codice nella sua versione del 2004 abbia avuto per la Parte III sui Beni paesaggistici modifiche introdotte dalla legge n. 308/2004 e dai Dl n. 156 e n.157/2006 e n. 62 e n. 63 del 26 marzo 2008 nonché dalla legge n. 129 del 2 agosto 2008.

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Crete in terra di Siena

fiche abbiano teso a ricondurre la materia paesaggistica allo spirito delle leggi del 1939, allontanandola dalle indicazioni della Carta europea, infatti all’art. 1316 si legge:

6 Il testo dell’art. 131 recita: “1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali. 3. Salva la potestà esclusiva dello Stato di tutela del paesaggio quale limite all’esercizio delle attribuzioni delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano sul territorio, le norme del presente Codice definiscono i principi e la disciplina di tutela dei beni paesaggistici (N.B. il comma è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza della Corte costituzionale n. 226 del luglio 2009). 4. La tutela del paesaggio, ai fini del presente Codice, è volta a riconoscere, salvaguardare e, ove necessario, recuperare i valori culturali che esso esprime. I soggetti indicati al comma 6, qualora intervengano sul paesaggio, assicurano la conservazione dei suoi aspetti e caratteri peculiari. 5. La valorizzazione del paesaggio concorre a promuovere lo sviluppo della cultura. A tale fine le amministrazioni pubbliche promuovono e sostengono, per quanto di rispettiva competenza, apposite attività di conoscenza, informazione e formazione, riqualificazione e fruizione del paesaggio nonché, ove possibile, la realizzazione di nuovi valori paesaggistici coerenti ed integrati. La valorizzazione è attuata nel rispetto delle esigenze della tutela. 6. Lo Stato, le regioni, gli altri enti pubblici territoriali nonché tutti i soggetti che, nell’esercizio di pubbliche funzioni, intervengono sul territorio nazionale, informano la loro attività ai principi di uso consapevole del territorio e di salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche e di realizzazione di nuovi valori paesaggistici integrati e coerenti, rispondenti a criteri di qualità e sostenibilità.


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per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità” nei confronti del quale la tutela agisce “relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali,

anche se lo Stato, le Regioni, gli altri enti pubblici territoriali nonché tutti i soggetti che, nell’esercizio di pubbliche funzioni, intervengono sul territorio nazionale, informano la loro attività ai principi di uso consapevole del territorio e di salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche e di realizzazione di nuovi valori paesaggistici integrati e coerenti, rispondenti a criteri di qualità e sostenibilità.

A ribadire la differenziazione delle competenze, l’articolo 133 ultimo comma, appare come il tentativo di recuperare dell’unitarietà fra territorio e patrimonio culturale, infatti esplicita: Il Ministero e le Regioni cooperano, altresì, per la definizione di indirizzi e criteri riguardanti l’attività di pianificazione territoriale, nonché la gestione dei conseguenti interventi, al fine di assicurare la conservazione, il recupero e la valorizzazione degli aspetti e caratteri del paesaggio indicati all’articolo 131, comma 1. Nel rispetto delle esigenze della tutela, i detti indirizzi e criteri considerano anche finalità di sviluppo territoriale sostenibile. Gli altri enti pubblici territoriali conformano la loro attività di pianificazione (…) e, nell’immediato, adeguano gli strumenti vigenti.

In buona sostanza, significa che le Regioni definiscono i loro piani paesaggistici su tutto il territorio, ma resta salva la competenza esclusiva dello Stato in materia di aree soggette a vincolo7. Conflitti di competenza che sembra7 Per un doveroso approfondimento sui temi del paesaggio, si veda S. Settis, Paesaggio, Costituzione e Cemento, Einaudi, Torino 2000


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no impossibili da risolvere anche dopo la riforma del Titolo V. L’idea del bel paesaggio che identifica e caratterizza il bel paese tende a dominare il dibattito che invece di orientarsi in sintonia con la difesa di tutto il territorio facendo del paesaggio lo strumento non solo di conservazione, ma anche di miglioramento delle situazioni esistenti, si incanala verso le vie della salvaguardia tutelata dal vincolo: tutto quanto è ritenuto prezioso e identitario deve essere tramandato “dov’era e com’era” con qualche (talvolta troppe) concessione alla fruizione turistica, chiamata pudicamente ’valorizzazione’, mentre quanto ha perso o non ha conseguito valore o pregio dal punto di vista estetico viene abbandonato alla sua decadenza. La rivoluzione culturale che la Convenzione UE aveva compiuto, spostando l’attenzione dall’apprezzamento estetico alla ricerca del riconoscimento dell’identità dei luoghi, interpretati come quadro di vita delle collettività viene così affievolita, nonostante alcune sperimentazioni di piani regionali che tentano di riportare l’azione di piano all’interazione fra popolazione e ambiente, nella sua relazione fra quotidianità del vissuto e dell’ambito che lo accoglie. In questa concezione gli abitanti, in quanto ‘custodi’ o ‘demolitori’, diventano il focus di ogni ragionamento sul paesaggio che non può essere disgiunto dal territorio e dalla sua pianificazione né può ignorare o sottovalutare i problemi dell’ambiente. Scompare ogni gerarchia di ‘bellezza’ del paesaggio e si fa strada il concetto di aspirazione collettiva alla bellezza che riguarda tutti i territori e tutte le popolazioni nella ricerca dell’equipotenzialità estetica, che rafforza il tema


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della democrazia nella cittadinanza e si palesa come affermazione di uguaglianza degli individui in quanto abitanti di un dato territorio. Sono, infatti, essi che hanno la ‘percezione’ del loro paesaggio, quindi lo identificano e al tempo stesso vi si identificano e, per questo, ne hanno (o quanto meno, ne possono o ne potrebbero avere) cura. Un processo che implica almeno due presupposti: che vi sia una fondata comprensione culturale e che vi sia un’etica comportamentale collettiva nei confronti di quella determinata ‘porzione di territorio’. Il governo del territorio come materia concorrente In piena stagione di riordino urbanistico che le Regioni portano avanti in maniera innovativa, e che vede con favore il federalismo e una maggiore autonomia degli enti regionali e locali specie nella gestione del territorio, nel 2001 viene approvata la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione. La riforma ribalta l’impostazione precedente che elencava le sole competenze affidate alle Regioni e di conseguenza confermava la potestà dello Stato per tutte le altre materie. Viceversa il nuovo testo enumera nello specifico quanto rimasto di esclusiva competenza statale e le materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni, mentre tutto quanto non indicato negli elenchi diventa di esclusiva potestà legislativa delle Regioni. Rimane allo Stato “la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” oltre al regime civilistico della proprietà, mentre “il governo del territorio” è materia concorrente per il quale allo Stato è affidato il solo compito di declinare “i principi fondamentali” su cui le Regioni dovranno legiferare.


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Principi generali, dunque, ma che devono essere in grado di rappresentare una base omogenea per le variegate legislazioni regionali tali da renderle coerenti e unitarie. Sul tema delle competenze si sviluppa un serrato dibattito che parte dal fatto che nel quadro legislativo non sono citate né la voce urbanistica, né quella edilizia: alcuni, muovendo da questa omissione, sostengono che sarebbero materie di natura diversa e quindi di competenza regionale proprio perché non elencate nell’articolo, altri, in opposizione, affermano che entrambe siano ricomprese nel governo del territorio8. Nonostante la riforma permane il conflitto Stato-Regioni, poiché, malgrado le assegnazioni, molte sono le contraddizioni e le sovrapposizioni di competenze e di enti chiamati a svolgere funzioni inerenti ad aspetti della stessa materia: si pensi alla gestione dei rifiuti nocivi che è competenza statale, ma è compito delle Regioni individuare i siti per la localizzazione e lo stesso dicasi per l’edilizia residenziale pubblica divisa fra materia fra Stato e competenze regionali. Ma su questi temi, prima che si arrivi ad una contrapposizione operativa sul tema, interviene la Corte Costituzionale con alcune sentenze: prima, quella dell’ottobre 2003 n. 303, con cui rileva che la voce 8 Le diverse opinioni nascono dal fatto che il testo approvato fra le numerose materie di legislazione concorrente quali: l’istruzione, le professioni, la ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi, la tutela della salute, l’alimentazione, l’ordinamento sportivo, la protezione civile e altre ancora, cita in modo preciso il governo del territorio, i porti e gli aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali, tutte attività che riguardano il territorio, ma non sono nominate l’urbanistica e l’edilizia lasciando non pochi dubbi di interpretazione.


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‘urbanistica’ sia da ritenersi parte del Governo del territorio, poi nel dicembre 2003 con la n. 362 con la quale afferma che “l’ambito di materia costituito dall’edilizia va ricondotto al governo del territorio”. E, ancora, nel giugno 2004 quando ribadisce in maniera definitiva che: “nei settori dell’urbanistica e dell’edilizia i poteri legislativi regionali sono senz’altro ascrivibili alla nuova competenza di tipo concorrente in tema di governo del territorio”. I tentativi di riforma Sulla spinta della riforma del Titolo V e sull’onda del federalismo, nella XIV Legislatura della Repubblica (2001-2006)9 l’intento di riformare la legislazione urbanistica è presente in tutte le componenti politiche. Numerose sono le proposte di legge depositate alla Camera, la prima presentata è “Legge quadro per il governo del territorio” a firma di U. Bossi10, ma tutti i gruppi parlamentari presentano le loro proposte: Forza Italia (M. Lupi,) Margherita-L’Ulivo (P.L. Mantini), Verdi (A. Pecoraro Scanio), Rifondazione Comunista (N. Vendola), Alleanza Nazionale (U. Martinat), Democratici di Sinistra-L’Ulivo (A. Sandri) e altre per un totale di otto11. In

9 La XIV legislatura (2001-2006) è caratterizzata dai Governi Berlusconi II (vice presidenti Gianfranco Fini/AN e Marco Follini/CCD) e Berlusconi III (vice presidenti Fini e Giulio Tremonti/FI). 10 L’intento politico traspare evidente nella relazione di Bossi dove si afferma che lo “Stato che, specialmente in materia edilizia, si è intromesso nell’area delle autonomie regionali e locali, defraudando le regioni e gli enti locali stessi delle competenze proprie”. 11 N. 153 (Bossi); n. 442 (Vigni, Bellini); n. 677 (Martinat, La Russa e altri); n. 1065 (Pecoraro Scanio e altri); n. 3627 (Mantini, Realacci, e altri); n. 3810 (Sandri, Bersani e altri); n. 3860 (Lupi e altri); n. 4707 (Vendola, Russo Spena e altri).


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pratica sono rappresentati tutti i gruppi politici. Il dibattito inizia nel 2001 e l’atmosfera politica sembra favorevole tanto che i lavori terminano con un Ddl condiviso dal titolo “Principi fondamentali per il governo del territorio”, una definizione in linea con quanto espresso dall’art. 117 della Costituzione, il cui testo riunisce, grazie al lavoro di Lupi e di Mantini, argomenti e principi fra i più significativi delle varie posizioni espresse in commissione (oltre 30 sedute e 28 audizioni). L’approvazione finale avviene nel giugno del 2005 alla Camera dei Deputati con Lupi come relatore. Il disegno di legge12, pur se distante dalle riforme sviluppate già da alcune Regioni e dalle indicazioni espresse dall’INU nel 1995, mette ordine su alcuni principi della pianificazione inserendo modalità ormai consuete nelle esperienze dei piani urbanistici più recenti. Il progetto definisce le materie comprese nel governo del territorio e quelle di competenza dello Stato, al quale viene comunque data la possibilità ad effettuare interventi per ambiti territoriali caratterizzati da degrado ambientale e urbano, e si ribadiscono i principi di sussidiarietà e partecipazione, ma soprattutto si conferma la formazione del piano urbanistico comunale impostato su due livelli: il primo ‘strutturale’ e non conformativo, il secondo ‘operativo’ prescrittivo della proprietà. Altro punto significante presente è il superamento degli standard urbanistici sostituiti dalle ‘dotazioni territoriali’ il cui dimensionamento è demandato totalmente alle Regioni, senza definire nessun minimo. Ma l’aspetto più caratterizzante è la possibi12

Atto C 3860, 3 aprile 2003.


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lità per i Comuni di concludere accordi con i privati nella formazione degli strumenti urbanistici, una modifica che ribalta la tradizionale impostazione pubblica in quanto il privato entra direttamente e da protagonista nel processo di pianificazione, in accordo con alcune posizioni peraltro già presenti nella cultura urbanistica italiana. La proposta di riforma interviene su perequazione e compensazione, con la possibilità di rendere i diritti edificatori liberamente commerciabili e trasferibili da area ad area. La perequazione diventa così un mezzo ordinario di pianificazione senza però che se ne specifichino gli aspetti operativi. È inoltre da evidenziare come, all’art.4, l’unico criterio dato sulla formazione del piano sia l’individuazione del territorio extraurbano diviso in tre categorie, aree per l’agricoltura, aree di pregio ambientale ed aree per ulteriori utilizzazioni. Tutte le tematiche relative al consumo del suolo sembrano non esistere. Il testo è trasmesso al Senato dove viene depositato alla Commissione territorio, ambiente, beni ambientali, e qui, fortunatamente, si arena sia per l’azione consapevole di alcuni senatori che per mancanza di tempi tecnici. Siamo nell’ottobre 2005 ormai prossimi alla fine della legislatura e il tentativo, che sembrava favorito da una certa disponibilità politica a cambiare la legislazione, termina bruscamente. Il 2006 è anno di cambiamenti: alle elezioni l’Unione, la coalizione di centro-sinistra guidata da Romano Prodi vince e forma il nuovo governo sostenuto da più partiti ma con una maggioranza esigua. All’inizio della legislatura Giorgio Napolitano viene eletto Presidente della Repubblica. Nel 2007 i Democratici di Sinistra si sciolgono


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e insieme alla Margherita danno vita al Partito Democratico con Walter Veltroni segretario, mentre a destra nasce il Partito del Popolo della libertà che assorbe Forza Italia. Nel gennaio 2008 Clemente Mastella, ministro della giustizia, rassegna le dimissioni per una vicenda giudiziaria che vede coinvolta la moglie e successivamente ritira l’appoggio del suo gruppo al governo che viene a perdere la maggioranza. Il 6 febbraio il Presidente della Repubblica scioglie anticipatamente le Camere. La XV legislatura, pur con un quadro politico mutato, mantiene il suo interesse per il territorio e l’ambiente. I propositi di programma sembrano ancora favorevoli al tema della riforma urbanistica che è ritenuta da tutti, politici e tecnici, non più procrastinabile.13 Ancora protagonista Maurizio Lupi, riferendosi al lungo lavoro svolto, ripresenta il testo, aggiornato, già approvato in aula nella precedente legislatura, con la convinzione di poter far passare una legge su cui c’era già stata un’ampia convergenza di forze politiche14. Il testo del disegno di legge cerca di fare chiarezza sulle competenze in merito all’urbanistica, all’edilizia e alla difesa del suolo che vengono tutte ricomprese nel governo del territorio, precisando come allo Stato competa la guida dell’assetto generale del territorio in relazione all’ambiente e alle infrastrutture, con la facoltà di proporre in13 Appare a favore di una possibile riforma, la nomina a presidente della VIII Commissione (ambiente, territorio, lavori pubblici) di E. Realacci esponente dell’Ulivo, ambientalista e già presidente di Legambiente firmatario di un Ddl sul Governo del territorio. 14 Atto C 103, 28 aprile 2006. Nella presentazione si dichiara che “l’iniziativa che viene qui riproposta, con l’autorevolezza dell’approvazione di un ramo del Parlamento nella scorsa legislatura, ha una portata storica”.


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terventi speciali in alcuni ambiti contraddistinti da squilibrio territoriale, economico e sociale o esposti a rischi naturali. Interessante in questa proposta è l’inserimento del ‘rinnovo urbano’, che diviene uno strumento della pianificazione finalizzato alla rigenerazione, riqualificazione, riabilitazione e all’estetica urbana, e si pone quasi come un riferimento alla ‘città bella’. Compaiono inoltre alcuni punti sul rapporto pubblico/privato su cui Lupi aveva già lavorato nella sua esperienza come amministratore della giunta milanese e che sono presenti nella legge della Regione Lombardia, che all’art. 2 dichiara che il governo del territorio si caratterizza per “l’integrazione dei contenuti della pianificazione da parte dei privati” e contempla la programmazione negoziata che entra a pieno diritto a far parte dell’operatività urbanistica15. Il Comune resta l’ente preposto alla pianificazione e il piano comunale è ‘primario’ nella gestione del territorio all’interno del quale vanno ricomprese tutte le disposizioni dei vari piani di settore e le prescrizioni del paesaggio. Il piano comunale è organizzato su due livelli: piano strutturale e piano operativo. Occorre rilevare che, pur con l’intenzione di innovare e di allontanarsi dalla legge n. 1150, il caposaldo della pianificazione resta ancora il piano urbanistico comunale. L’aspetto che maggiormente caratterizza la proposta, derivata dall’esperienza milanese, è rilevabile in un comma

Cfr. Regione Lombardia LR. n.12/2005. Si richiama che Lupi nella giunta comunale di Milano guidata da Albertini fosse assessore allo sviluppo del territorio, edilizia privata e arredo urbano (1993-2001) e si deve a lui il “Documento ricostruire la Grande Milano” redatto sotto la direzione di Luigi Mazza.

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dell’art. 5 dove, parlando di sussidiarietà, cooperazione e partecipazione, in nome della semplificazione si attesta che le funzioni amministrative saranno esercitate non più con atti autoritativi ma tramite atti negoziali. È un vero capovolgimento del concetto di pianificazione: la gestione del territorio in tal modo non è svolta avendo come prioritario l’interesse pubblico rispetto a quelli dei privati, ma attraverso atti ‘paritari’, nei quali il rapporto pubblico-privato appare sbilanciato a favore della proprietà immobiliare. Un’impostazione ribadita per quanto attiene alla riqualificazione del tessuto urbanizzato, dove il privato viene ad avere un ruolo preminente e facilitato, che diventa significativo poiché nella formazione del piano urbanistico l’ente può fare accordi con quanti possono avanzare proposte da inserire nel piano operativo purché coerenti con gli indirizzi del piano strutturale, che come si è detto, ha una definizione per grandi linee. Come nel testo precedente gli standard diventano dotazioni prestazionali diversamente gestibili dalle Regioni, mentre con la perequazione i diritti edificatori sono indipendenti dalla destinazione d’uso e sono, ovviamente, commerciabili. Non si accenna al consumo di suolo, anzi per il territorio extraurbano si mantiene la distinzione fra zone agricole, aree di pregio ambientale e aree urbanizzabili ovvero zone prevalentemente periurbane, dove si prefigura una possibile espansione. Pur in presenza di processi del tutto diversi, l’impostazione della legge mantiene la vecchia filosofia di un’urbanistica basata su due cardini: lo sviluppo e l’espansione, che si legano all’affermazione netta dell’edificabilità co-


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me diritto irrevocabile del suolo urbanizzabile. Non stupisce, dunque, che le parole d’ordine che riecheggiano e dominano il disegno di legge siano: casa, edificabilità, suolo urbano. Lupi si fa attivo interprete della necessità di riordinare l’intero settore legislativo richiamando la necessità di semplificare le procedure con l’intento di privilegiare l’intervento diretto e la partecipazione dei privati a sostegno dell’iniziativa pubblica, superando la rigidità delle regole del piano. Il problema che viene sottolineato come emergente e urgente è quello dell’urbano, della casa e dell’edificabilità generalizzata: così, contemporaneamente, Lupi presenta un altro progetto di legge dal titolo “Legge obiettivo per le città”16 con il quale oltre a valorizzare gli ambiti urbani attraverso il potenziamento delle infrastrutture cerca di dare una risposta rapida al problema dell’emergenza abitativa. Infatti vi è la possibilità di presentare in aree di proprietà pubblica o nella disponibilità del soggetto proponente privato, anche con destinazione diversa da quella residenziale, di programmi residenziali caratterizzati dalla destinazione di un massimo del trenta per cento di alloggi a locazione a canone economicamente sostenibile, del dieci per cento da cedere gratuitamente al comune per l’emergenza abitativa e per la restante quota da cedere a soggetti privati come abitazione principale.

Tali programmi potranno beneficiare di incrementi premiali, di diritti edificatori aggiuntivi e di agevolazioni fiscali. L’obbiettivo è una liberalizzazione generalizzata, che in nome dell’urgenza abitativa e delle necessità di rilanciare il patrimonio abitativo sociale pubblico, consen16

Atto C 172, XV legislatura


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ta di presentare progetti su aree anche a destinazione urbanistica diversa quindi in deroga agli strumenti urbanistici che risulterebbero appesantiti da incrementi edificatori fuori controllo. Un colpo al ruolo del piano e l’ingresso del privato anche nell’edilizia a canone sostenibile. Si afferma il concetto di pianificazione ‘oltre il piano’ che sarà ripreso qualche anno più tardi in un’altra proposta, che Lupi presenterà come ministro dei Lavori Pubblici e che rappresenta la traduzione in legge di quanti avevano teorizzato la fine del PRG. Queste accentuazioni su principi privatistici fanno sì che Mantini, pur condividendo molte posizioni con Lupi17 e avendo lavorato con lui alla proposta nella legislatura precedente, trovi improponibile l’equiparazione del ruolo del pubblico e del privato nelle scelte di programmazione e presenti un suo disegno di legge, nella convinzione che la crisi della pianificazione sia anche conseguenza della deregulation e delle varianti automatiche favorite dall’istituto della conferenza di servizi e dagli accordi di programma che hanno portato dal “criterio ordinatore della gerarchia tra i piani a quello della gerarchia degli interessi di volta in volta emergenti”18. Nel testo di Mantini viene sottolineata la natura pubblica della pianificazione ribadendo all’art. 5 che “Il gover17 Lupi e Mantini, esponenti della politica milanese, scrivono il volume “I principi del governo del territorio. La riforma urbanistica in Parlamento”, Il Sole24ore, Milano 2005 dove ribadiscono il concetto di consensualità fra amministrazione pubblica e privati immobiliari. Si precisa che nella XIV Legislatura Mantini appartiene al gruppo Margherita e nella successiva al gruppo PD. 18 Cfr. Relazione alla proposta di legge C 1215, 27 giugno 2006.


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no del territorio è funzione pubblica” mentre per la strumentazione urbanistica si dà come acquisito l’impalcato a due livelli proprio delle legislazioni regionali, da cui viene ripreso anche un forte indirizzo di tutela nella pianificazione del territorio agricolo, in quanto “il territorio non urbanizzato è edificabile solo per servizi legati all’attività agricola o per opere ed infrastrutture pubbliche”. Con un apposito articolo la proposta specifica e regola la partecipazione e il coinvolgimento delle associazioni e dei cittadini. Spariscono gli standard per come erano stati configurati nelle precedenti proposte, e gli atti di pianificazione devono prevedere una dotazione calcolata su un arco di tempo di dieci anni rispetto ai bisogni reali delle varie parti del territorio. La perequazione è vista come il metodo ordinario nella prassi dell’urbanistica operativa con diritti edificatori attribuiti a tutti i proprietari, diritti liberamente commerciabili e trasferibili. Il documento di Mantini, non a caso uomo di centro, si pone come intermedio fra quello di Lupi e quello di Gennaro Migliore (SEL) che vedremo più avanti, con propositi derivanti da considerazioni correnti politiche diverse e da suggerimenti provenienti dall’ambiente culturale e accademico che in quel periodo è attivo con documenti, iniziative, contributi di valutazione, convegni con politici e dirigenti ministeriali, in un clima ritenuto favorevole alla riforma, cui si aggiungono gli impegni presi dal governo di centrosinistra e dalla Commissione ambiente e territorio guidata da Ermete Realacci, esponente di Legambiente. Nel dibattito che si svolge al di fuori del Parlamento, fra addetti ai lavori e studiosi, trova spazio in questa legislatura, una proposta ispirata da Italia Nostra e da personag-


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gi di rilievo nel panorama della pianificazione (Berdini, Tamburini, Salzano, De Lucia, Cervellati, Indovina, Camagni, ecc.) presentata da Migliore con il titolo emblematico “Riforma della legislazione urbanistica”19. Un termine ampiamente consolidato e conosciuto da tutti e che sembra riportare alla tradizione della sinistra riferendosi all’art. 80 della L. 616/77 come esplicitato nella relazione al disegno di legge “per cui l’«Urbanistica» concerne «la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente». L’atto, con forza di legge, avvicinava il lemma «Urbanistica» a quello di «governo del territorio», ancorché esso potesse e possa tuttora avere un significato ancora più vasto.” La proposta ribadisce la titolarità pubblica della pianificazione (art. 2), per quanto riguarda l’area vasta prevede il livello provinciale o regionale per le conurbazioni per le quali l’ambito comunale non risulti adeguato mentre i servizi sono dichiarati un diritto fondamentale per tutti i cittadini ai quali lo Stato deve garantire le quantità minime su tutto il territorio nazionale e nei quali è inclusa anche l’edilizia sociale. Non si trascura la partecipazione che deve avere momenti di confronto per un “coinvolgimento nel processo decisionale” in modo da non essere circoscritta al tradizionale istituto delle osservazioni a piano ultimato. Ma l’elemento innovativo è sul “Contenimento dell’uso del suolo e tutela delle attività agro-silvo-pastorali” (art. 7): un tema che inizia a porsi al centro del dibattito e che avrà successiva19

Atto C 2086, 19 dicembre 2006.


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mente una sua autonomia, rispetto al quale nuovi impegni di suolo sono consentiti solo se non sussistano alternative di riuso di insediamenti esistenti e come le nuove costruzioni devono essere esclusivamente in funzione delle esigenze dell’attività agricola. Il disegno di legge, nella volontà di salvaguardare il carattere storico e culturale dell’insediamento e del paesaggio, dichiara i centri storici e le unità edilizie isolate con caratteri storici, quali ‘beni culturali’ da inserire nel Codice dei beni culturali e del paesaggio20 fino ad includere tutto il territorio non urbanizzato naturale o agricolo, classificato lettera E nei piani urbanistici. Il testo, come gli altri, viene assegnato alla VIII Commissione Ambiente della Camera dove non avrà seguito21. Qualche mese dopo all’inizio del 2007, viene presentata la proposta a firma Raffaella Mariani insieme a Fassino e a un folto gruppo di deputati DS e Margherita, dal titolo “Principi fondamentali per il governo del territorio. Delega al governo in materia di fiscalità urbanistica e immobiliare”22, è il disegno di legge dell’Unione cioè della componente vincitrice alle elezioni politiche. Un testo, articoIn rif. al Dlgs n. 42/2004, all’art. 142 comma 1 con lettera apposita m-bis. Il testo di legge come quello successivo presentato al Senato, è redatto come si comprende dai nomi degli estensori dall’area culturale attorno a Eddyburg e il provvedimento risulta parziale nei contenuti rispetto alle altre iniziative perché come dichiara lo stesso Edoardo (Eddy) Salzano “affronta il solo campo della pianificazione urbanistica e territoriale nella convinzione che una legge sul governo del territorio debba essere ampia e trattare tutte le materie esclusive e concorrenti che il nuovo articolo 117 della Costituzione elenca. Un compito complesso tecnicamente”. Osservazione giusta nel momento in cui il governo del territorio nella sua globalità comincia ad annacquarsi riportando l’attenzione all’urbanistica e all’edificazione, una tendenza che si svilupperà in seguito e che manifesta la sfiducia ad arrivare alla riforma vera e propria. 22 Atto C. 2319, 2 amarzo 2007. 20

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lato in 27 articoli, in cui i principi fondamentali sono individuati in sostenibilità, tutela e sicurezza, sussidiarietà, trasparenza e democrazia, equità, legalità del territorio. Fra questi prevale la trasparenza, la garanzia dell’informazione e la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. Per la strumentazione si prevede il coordinamento delle pianificazioni di settore, l’incentivazione della pianificazione intercomunale, il piano comunale organizzato su tre livelli, strutturale, operativo, regolamentare, introducendo inoltre (è l’unico fra i numerosi testi presentati) il concetto di invarianti territoriali ed ambientali23. Punto di riferimento per la pianificazione è il quadro conoscitivo del territorio che contiene, “nelle forme e nei contenuti determinati con legge regionale, la lettura del territorio effettuata attraverso l’analisi delle componenti ambientali, culturali e paesaggistiche, economiche e sociali, demografiche e infrastrutturali” considerate necessarie per individuare gli obiettivi degli strumenti di pianificazione. Anche in questa iniziativa si propone il superamento degli standard, considerando le dotazioni territoriali non solo dal lato quantitativo ma specialmente quello qualitativo per garantire l’effettiva accessibilità dei cittadini, rimandando però la definizione dei servizi, cioè delle ‘opere’ e i minimi inderogabili, ad un decreto del Presidente del Consiglio di intesa con la Conferenza unificata Stato-Regioni. Tuttavia non mancano perplessità su parti come l’art. 20, ‘concorrenzialità’, che promuove il confronto fra progetti privati e pubblici nella pianificazione operativa o sulla mancanza di indicazioni e norme sul consumo di 23

Presenti nelle leggi della Regione Toscana, LR n. 5/95 e n. 1/05.


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suolo. È comunque il testo della cultura del centro sinistra del tempo, tanto che Giuseppe Campos Venuti, pur criticando alcuni punti, afferma che questa è la “riforma del governo del territorio” attesa e necessaria e ne auspica un percorso rapido alla Camera che assicuri un arco di tempo utile per la sua approvazione al Senato.24 Complessivamente traspare dalle dichiarazioni un certo entusiasmo basato anche sul poter disporre di una maggioranza parlamentare che sembra mostrare interesse alle tematiche del territorio. Anche al Senato le iniziative sono molteplici. In pochi mesi vengono presentati numerosi disegni di legge sul governo del territorio: addirittura tre da parte di senatori dell’Ulivo (D. Piglionica, E. Ronchi, G. Bellini), di Alleanza Nazionale (sen. F. Mugnai), di Rifondazione comunista (sen. T. Sodano). Nel complesso tutti gli schieramenti politici hanno un loro programma in termini di ridefinizione dell’urbanistica, che testimonia l’attenzione al tema, ma nello stesso tempo frammenta quell’intento unitario che era stato il tentativo nella precedente legislatura. Il documento di Rifondazione25, basato sul contributo di giuristi ed urbanisti che si riconoscono attorno ad Eddyburg26, fa riferimento all’introduzione nella pianificaCfr. «Urbanistica Informazioni», n. 231. Atto S.1144, 8 novembre 2006, “Principi fondamentali in materia di pianificazione del territorio e recepimento della direttiva 2001/42/CE, del Parlamento Europeo e del Consiglio concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente”. Questo testo è quello ufficiale di Eddyburg presentato in un convegno a Roma nel giugno del 2006. 26 Il riferimento è al sito web Eddyburg.it, nato nel 2003, che come indicato nel sito “I temi dei quali si occupa sono la città, la società e la politica (urbs, civitas, polis) e gli argomenti che rendono bella, interessante e 24

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zione italiana della normativa europea della VAS (Valutazione Ambientale Strategica) uno strumento giudicato in grado di garantire una maggiore trasparenza e partecipazione nelle scelte della pianificazione. Nella presentazione si attacca duramente il testo Lupi perché ritenuto portatore dell’interesse privato a danno dell’interesse collettivo e per la scelta di azzerare di fatto gli standard. La critica non risparmia alcuni punti del programma politico del governo Prodi nonostante riprenda una proposta dell’allora ministro dei Beni Culturali, Walter Veltroni, sul vincolo ope legis ai centri storici e alle strutture insediative storiche non urbane. Anche in questo Ddl, come nel documento Migliore alla Camera, compare l’articolo “Contenimento dell’uso del suolo e tutela delle attività agro-silvo-pastorali” che sarà uno dei temi della XVII legislatura. L’INU proseguendo nell’impegno intrapreso con il XXI congresso del 1995, si attiva con iniziative a sostegno della riforma urbanistica: un convegno a Firenze con le Regioni, seminari a Roma, un altro convegno a Potenza, un confronto attivo fra istituzioni e politica che coglie l’opportunità di forze governative di una componente politica affini alle forze culturali in campo.27 Il presidente dell’VIII Commissione, Ermete Realacci, prefigura un crono-programma per fare approvare la legge alla Camera in modo da evitare che i tempi si dilatino in Senato, piacevole la vita. Dal settembre 2016 costituisce un’attività permanente dell’Associazione di promozione sociale eddyburg”. 27 Al seminario di Roma nel settembre 2006 partecipano il presidente e vicepresidente (Ermete Realacci e Mauro Chianale) dell’VIII Commissione oltre al viceministro alle infrastrutture (Angelo Capodicasa, DS).


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impedendo la conclusione dell’iter. L’impegno, portato avanti in una visione definibile riformista dell’urbanistica, è prevalentemente orientato a sancire con legge nazionale il piano a due componenti: quella strutturale programmatica con indirizzi e obiettivi ma non prescrittiva in quanto non genera rendite di attesa e quella operativa o meglio per “successivi Piani operativi” prescrittivi e conformativi della proprietà con durata 5 anni. Ai piani si aggiunge la perequazione che si applica omogeneamente su tutta l’area di intervento sia nelle aree inedificate, sia in quelle edificate da trasformare, con i diritti edificatori che si concentrano nelle aree che rimangono ai privati ricevendo, in cambio, gratuitamente le aree per uso pubblico. Grande fautore della perequazione continua ad essere Campos Venuti: mi sembra da apprezzare il fatto che gran parte delle nuove leggi regionali propongono formalmente la perequazione urbanistica per l’acquisizione gratuita delle aree della città pubblica. Quel che ancor oggi non riesco a capire è la tenace ostilità di alcuni urbanisti e politici che si considerano di sinistra verso la perequazione urbanistica, mentre continuano, invece, a ritenere l’esproprio, con gli attuali prezzi stratosferici, il meccanismo attuativo da preferire28.

Concetti e principi ribaditi dall’INU nel giugno 2006, con il documento “Al più presto la legge di principi per il governo del territorio” che ribadisce i contenuti della sua decennale proposta e in parte sono il filo conduttore della relazione della Mariani al Ddl citato, a cui segue nel dicembre 2006 un secondo documento “Verso la legG. Campos Venuti, Città senza cultura, intervista sull’urbanistica, a cura di F. Oliva, Laterza, Bari 2010 p. 98.

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ge sui principi del governo del territorio” nel quale si afferma che Oggi, ai sensi della Costituzione, serve una ‘legge di principi’, necessariamente concisa, ma che incida profondamente nella pianificazione e nella gestione della città e del territorio, capace di superare l’ormai obsoleta legge del 1942, offrendo alla responsabilità legislativa regionale quel supporto giuridico e politico generale che appare indispensabile. Attuando così, da un lato, il modello di responsabilità concorrente fra Stato e Regioni, coerente con il Titolo V della Costituzione e confermando, dall’altro lato, l’importante passaggio concettuale da urbanistica a governo del territorio.

Ma è soprattutto necessario dare una copertura legale alla perequazione e alla fiscalità urbanistica, strumenti ormai impiegati in numerosi piani, e prevedere “l’equiparazione tra vincoli pubblici e diritti privati, entrambi legati alla durata quinquennale dello stesso Piano Operativo”29. Tutte queste iniziative si fermano per la fine anticipata della XV legislatura nell’aprile del 200830 e non continuano nella successiva, caratterizzata da quattro anni di Governo Berlusconi, che, com’è noto, dovrà dimettersi da presidente del Consiglio nel novembre 2011 e decadrà da senatore nel 2013 per la sentenza di condanna passata in giudicato per frode fiscale31. Subentrerà il Governo presieduto da Mario Monti fino alla fine della legislatura.

29 Cfr. Documento INU, dicembre 2006 “Verso la legge sui principi del governo del territorio”. 30 La XV legislatura (2006-2008, Governo Prodi II) è la seconda più breve della Repubblica, dopo l’XI (1992-94, più corta di 10 giorni). La XVI (2008-2013) vedrà i governi Berlusconi fino al 2011 e Monti (2011-13) 31 Berlusconi sarà poi riabilitato nel maggio 2018.


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La città pubblica Mentre il dibattito disciplinare si focalizza sulla riforma dell’urbanistica, sul ruolo del piano, sul rapporto progetto architettonico-piano e sul bagaglio tecnico disciplinare, ulteriori provvedimenti legislativi e sentenze a livello nazionale intervengono sulla pianificazione. Fra questi il Dlgs 42/2004 (Codice Urbani), di cui si è detto più sopra in rapporto al paesaggio, e il recepimento della Direttiva comunitaria 42/01 sulla VAS. Di non meno peso è, nell’ottobre del 2007, l’intervento della Corte Costituzionale, ancora una volta in materia di esproprio con la sentenza n. 348 che dichiara l’illegittimità costituzionale del criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione delle aree edificate32 da utilizzare per la realizzazione dei servizi relativi agli standard o per l’edilizia residenziale pubblica (vedi L. 167/62), in quanto viola l’art. 117 primo comma della Costituzione e sanziona che “i criteri per la determinazione dell’indennità di espropriazione riguardante aree edificabili devono fondarsi sulla base di calcolo rappresentata dal valore del bene”. Una cosa è chiara: l’indennizzo alla proprietà deve essere commisurato al valore di mercato. Criterio che viene assunto per l’espropriazione delle aree nella legge 244/2007 (in realtà la finanziaria 2008). Si chiude così una lunghissima vicenda relativa all’uso dello strumento dell’esproprio per realizzare la città pubblica, decretandone nei fatti la fine poiché gli enti locali, stretti dal Patto di stabilità e pressoché privi di risorse finanziarie non sono in grado

Regimate dall’art 5 bis del Dl 333/1992 e del DPR 327/2001, Testo unico degli espropri.

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di affrontare gli alti costi necessari a reperire aree per servizi pubblici33. Ma un’altra scure si abbatte sulla capacità di attuazione dei piani. Con la stessa legge del dicembre 2007 n. 244, all’art. 2, si conferma che i proventi derivati dagli oneri di urbanizzazione e dal contributo del costo di costruzione, previsti dalla Bucalossi (L. 10/1977) e finalizzati alla realizzazione di opere di urbanizzazione e risanamento dei centri storici, non più vincolati dal DPR 380/2001, siano inseriti nel bilancio ordinario dei comuni e possano essere utilizzati per la spesa corrente fino al 50%, cui si aggiunge un 25% per la manutenzione di strade e del patrimonio comunale in genere. Non solo, ma proprio in considerazione delle minori entrate per gli enti locali, il governo porta per il 2016 e 2017 la possibilità di impegnare per le spese correnti fino al 100% degli oneri rimandando al 2018 il ripristino dell’originaria destinazione. L’edificazione, a questo punto, diventa uno dei pochi mezzi a disposizione dei comuni per incrementare il bilancio. Si favorisce così, in modo perverso, uno sviluppo che, come sempre, resta basato sull’espansione. In questi anni si apre una profonda crisi economica con pesanti conseguenze sul sistema edilizio e causata dall’emergere di una bolla immobiliare data da un ingente stock di abitazioni invendute con conseguente diminu-

Tutto ciò in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per la quale la Corte europea aveva condannato l’Italia perché la quantificazione “irragionevole” dell’indennità di esproprio costituiva, rispetto al valore del bene, una violazione dei diritti umani.

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zione dei valori immobiliari che frena il settore delle costruzioni con una drastica contrazione in termini sia di imprese che di lavoratori occupati. Siamo in presenza di grandi cambiamenti sociali determinati dal frazionamento delle famiglie, da una forte presenza di nuclei monofamiliari, da flussi di immigrazione che, con il ricongiungimento creano ulteriori famiglie, e da un sistema del lavoro basato su una mobilità che obbliga continui spostamenti e migrazioni; tutti fattori che ripropongono prepotentemente il problema abitativo. Un fenomeno che pone serie criticità nelle aree metropolitane e nelle città medie e che riguarda in particolare le persone e i nuclei familiari meno abbienti che non trovano risposte da un mercato immobiliare rivolto a fasce di reddito medio-alto, cui corrisponde la mancanza di un mercato immobiliare rivolto all’affitto a canone calmierato. La risposta della politica, contrariamente a quanto era avvenuto all’inizio degli anni ‘70, non tenta una calmierazione di tutto il settore abitativo, ma fa appello ai temi ‘socio-compassionevoli’ e il governo Prodi vara L. 8 febbraio 2007 n.9, “Interventi per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali” predisponendo la sospensione degli sfratti esecutivi per famiglie con reddito sotto i 27.000 euro nei comuni capoluogo e nei comuni contermini con più di 10.000 abitanti. La legge prevede, inoltre, la predisposizione da parte delle Regioni di un piano straordinario di edilizia pubblica da inviare entro tre mesi al Ministero delle infrastrutture che stabilisce le priorità in base alle quali erogare i finanziamenti, mentre la finanziaria 2007 destina 550 milioni per il recupero degli alloggi ex IACP non utilizzati, all’acquisto o l’eventuale costruzione di nuovi alloggi.


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La filosofia della legge opera nel solco tracciato dalla Commissione europea, in forza degli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo, che aveva inserito l’alloggio sociale34 fra i possibili servizi utili alla promozione della coesione sociale e territoriale. La formulazione è un’opportunità per una politica abitativa socialmente inclusiva, dal momento che la fine di programmi di edilizia pubblica non consentiva non solo di dare una risposta35, ma essendo l’istituto dell’esproprio impraticabile per scarsità di risorse, diventava necessario ricorrere ai privati per realizzare gli interventi. L’INU nella sua proposta di legge pone l’Edilizia residenziale sociale (ERS) come standard aggiuntivo realizzabile anche nelle aree cedute con la perequazione. Se l’edilizia sociale può essere suscettiva della qualifica di servizio pubblico è possibile statuire che chi, utilizzando i diritti edificatori, frutto della conformazione mediante piani di aree di sua proprietà, promuove iniziative di sviluppo urbanistico deve farsi carico della cessione gratuita delle aree non solo per le opere di urbanizzazione strettamente intese, ma anche per servizi pubblici ad esse assimilabili e quindi per interventi di edilizia sociale36. Per la Comunità Europea per ‘alloggio sociale’ si intende un’abitazione in locazione permanente che svolge funzione di interesse generale ai fini della coesione sociale, della riduzione del disagio abitativo degli individui e dei nuclei familiari svantaggiati che non sono in grado di accedere ad alloggi a libero mercato. 35 Nel dopoguerra l’intervento nell’edilizia pubblica, anche se mai risolutivo, impiega fondi per realizzare un cospicuo patrimonio pubblico grazie anche ai piani INA-Casa e PEEP, ma con la fine dei contributi Gescal nel 1998, ai primi anni del XXI secolo le realizzazioni crollano drasticamente, mentre il patrimonio pubblico si riduce per le continue dismissioni. Al 2015 il patrimonio pubblico si è ridotto a meno di 800 mila alloggi, mentre Federcasa stima un fabbisogno pari alle 650 mila domande in attesa di una assegnazione. 36 Crf. F. Pagano, L’alloggio sociale come servizio, in «Urbanistica Dos34


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In adempimento alle indicazioni della Commissione, viene varato il DM 22 aprile 2008 del Ministero delle infrastrutture dal titolo “Definizione di alloggio sociale ai fini dell’esenzione dall’obbligo di notifica degli aiuti di Stato ai sensi degli artt. 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità Europea”, con cui (art.1, comma 2) l’alloggio sociale, posto alla base del comparto dell’edilizia residenziale sociale (ERS) cioè del patrimonio edilizio pubblico e privato realizzato con contributi ed agevolazioni pubbliche, è definito quale unità immobiliare adibita ad uso residenziale in locazione permanente che svolge la funzione di interesse generale, nella salvaguardia della coesione sociale, di ridurre il disagio abitativo di individui e nuclei familiari svantaggiati che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi nel libero mercato

e precisa (comma 5): L’alloggio sociale in quanto servizio di interesse economico generale, costituisce standard urbanistico aggiuntivo da assicurare mediante cessione gratuita di aree o di alloggi, sulla base e con le modalità stabilite dalle normative regionali37. sier» n.119, 2010 p. 9. Del resto già la legge n. 244/2007 al comma 158 dell’art.1, introduce, in attesa di una riforma del governo del territorio, che “negli strumenti urbanistici sono definiti ambiti la cui trasformazione è subordinata alla cessione gratuita da parte dei proprietari, singoli o in forma consortile, di aree o immobili da destinare a edilizia residenziale sociale, in rapporto al fabbisogno locale e in relazione all’entità e al valore della trasformazione. In tali ambiti è possibile prevedere, inoltre, l’eventuale fornitura di alloggi a canone calmierato, concordato e sociale.” 37 Si recepisce con questo decreto, che nasce per non incorrere nelle sanzioni europee di “aiuto di stato”, uno dei punti su cui l’urbanistica detta “riformista” (in quanto usa concetti e modalità previste dal quadro di riforma promosso dall’INU) aveva compiuto numerose iniziative e aveva inserito l’alloggio sociale fra le dotazioni territoriali cioè fra gli standard. Con tale attribuzione l’alloggio sociale diventa un servizio di pubblico in-


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La XVI Legislatura Le elezioni dell’aprile 2008 portano alla vittoria il Popolo della Libertà con un ritorno alla presidenza del consiglio di Berlusconi. Nella XVI legislatura (2008-2013) si ha la ripresentazione delle proposte di riforma già riviste, ma il nuovo governo muta l’atteggiamento e riporta al centro del programma politico il tema della casa considerando l’edilizia un incentivo allo sviluppo economico nell’intento di dare sempre più spazio agli operatori privati, coinvolgendoli nella realizzazione delle opere e servizi pubblici. Una delle prime iniziative è il Dl 25/06/2008 n. 112 trasformato poi, nella legge 6 agosto 2008 n. 133 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”, un testo eterogeneo che tratta di banda larga, start up, innovazione, taglio delle spese di gestione delle amministrazioni pubbliche c’è anche il “Piano Casa” (art. 11), cioè la volontà di predisporre un piano nazionale di edilizia abitativa per risolvere il fabbisogno di alloggi a canone sostenibile per categorie sociali svantaggiate di utenti che non hanno risorse economiche per accedere al mercato. Fra queste sono inclusi nuclei familiari e giovani coppie a basso reddito, studenti fuori sede, anziani in condizioni sociali difficili, immigrati regolari residenti da più di dieci anni: una massa che preme sulle città creando disagi e criticità. Il piano si propone di costruire nuove abitazioni o recuperare il pateresse se pur riferito alle classi meno abbienti e in quanto tale va inquadrato all’interno dei piani urbanistici superando la logica dei Piani di zona (PEEP) ormai impossibili da realizzare per l’elevata onerosità degli espropri dei terreni.


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trimonio abitativo esistente grazie a risorse ricavate tramite fondi immobiliari appositi, l’alienazione di abitazioni di edilizia pubblica agli occupanti, ma soprattutto con la promozione di interventi di privati38. Prende sempre più campo la concezione di un neoliberismo economico che diventa la filosofia di fondo nella convinzione che l’iniziativa privata possa sostituirsi a quella pubblica e che il mercato sia in grado di determinare con le sue dinamiche (concorrenza) quell’equilibrio capace di attenuare disagi e criticità. Questo modo di vedere, così contrario alla scienza urbanistica, uccide la città pubblica e la fa diventare un puro conto economico. La nostra tradizionale città è stretta in una tenaglia: da un lato la pressione di una finanza speculativa, spesso in accordo con le istituzioni, dall’altro la mancanza di risorse per garantire il funzionamento della città stessa. Si impone una logica di rapina che distrugge le conquiste sociali, favorisce i grandi centri commerciali, porta al fallimento, specie tramite le cosiddette liberalizzazioni, le piccole imprese che sono state sempre il nerbo della nostra economia39.

I nuovi miti della ‘bontà’ del mercato attraversano gli schieramenti politici e così il gioco di anteporre ancora

38 L’intento è di varare programmi integrati di promozione edilizia residenziale sociale con la partecipazione di soggetti pubblici e privati tramite il trasferimento di diritti edificatori, incrementi premiali di diritti finalizzati alla realizzazione di servizi e spazi pubblici relativi agli standard, riduzione del prelievo fiscale, la costituzione di fondi immobiliari e la cessione di diritti edificatori come corrispettivo per la realizzazione di abitazioni pubbliche destinate a locazione a canone agevolato. Tali programmi sono dichiarati di interesse strategico nazionale, cioè è prevista la possibilità di procedere anche in difformità delle previsioni degli strumenti urbanistici attraverso il DPR 616/1977. 39 P. Maddalena in P. Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano, Donzelli, Roma 2014 pp. X-XI.


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una volta — e con successo − gli interessi parziali e settoriali e le ‘urgenze’ a quelli di carattere generale e strutturale diventa facile, favorito da un clima di tatticismi presunti o reali, in cui i partiti politici non approdano ad un testo di riforma approvabile, troppo divisi nelle loro posizioni, che riverberano in una discussione disciplinare limitata a soli addetti ai lavori e che presenta a sua volta impostazioni modellate su posizioni antitetiche. Da una parte ci si attesta sul consumo di suolo come soluzione decisiva per rimettere in discussione il processo diffusivo dell’urbanizzazione italiana, dall’altra si punta sulla riforma degli strumenti da renderli più flessibili e favorire l’edificazione. Entrambe sono espressione di una visione miope dei problemi in campo, che non si accorge di un’Italia che sta rapidamente cambiando: cambiano i cittadini che ormai provengono da ogni parte del mondo, cambia la struttura e il peso delle classi sociali, cambia la piramide delle età, cambia la visione del futuro che per i giovani si fa più incerto e indeterminato. Di tutto questo, la politica sembra non accorgersi, presa nella dinamica del breve periodo, del risultato immediato, dalla realizzazione facile e l’urbanistica, come disciplina che progetta il futuro, ne fa le spese. Il Piano Casa di Berlusconi, rispondendo al concetto ‘padroni a casa propria’ rilancia gli interventi straordinari e si rivolge soprattutto al comparto dell’edilizia privata alla quale si concede la possibilità di ampliamenti volumetrici con sopraelevazioni, aggiunte e demolizioni con ricostruzione anche in deroga agli strumenti urbanistici. Lo schema del decreto-legge “Misure urgenti in materia edilizia, urbanistica ed opere pubbliche” ha come fine quel-


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lo di facilitare le procedure autorizzative degli interventi ampliando i casi in cui si può procedere senza bisogno di titoli abilitativi e con semplificazioni per gli interventi sottoposti ad autorizzazione paesaggistica, inoltre dispone che la VAS non sia più necessaria per i piani attuativi relativi a strumenti urbanistici già sottoposti a valutazione. Il provvedimento concede aumenti del 20% per le abitazioni uni o bifamiliari con l’esclusione dei centri storici, ampliamenti che aumentano al 35% in caso di interventi di demolizione e ricostruzione. Essendo materia concorrente, l’iniziativa statale viene concordata con le Regioni che, senza obiezioni, rendono operativi i criteri definiti a livello nazionale con proprie leggi, aumentando anche le percentuali (ad es. in caso di ricostruzione si arriva fino al 50%). Va rilevato, inoltre, che quella che era stata presentata come una misura di rilancio temporanea, diventa, grazie alle ripetute proroghe delle scadenze (alcune fino al 2020), un provvedimento praticamente ordinario. Negli anni, infatti, alcune Regioni con l’obbiettivo di incentivare l’attività edilizia ne prolungano la validità, ampliano la casistica delle possibilità e le percentuali di aumento40, mentre altre, come l’Umbria, la Valle d’Aosta e la provincia di Bolzano, lo inseriscono stabilmente all’interno della loro normativa. Scrive Vezio De Lucia: Doveva essere un decreto legge per consentire di ampliare fino al 30% con semplici autodichiarazioni villette e piccole costruzioni: in sostanza, una specie di condono preventivo e generalizzato. Ma il decreto legge — che prevedeva addirittura procedure semplificate per le zone sismiche – non fu approvato e fu sostituito da un’intesa con le Regioni 40

In Toscana, ad esempio, si arriva al 2018.


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che si impegnarono a produrre apposite leggi regionali. Si è aperta così una gara — probabilmente vinta da Lazio e Campania — a chi fa peggio: aumento della cubatura fino al 50 per cento, trasformazione a fini residenziali anche di impianti industriali dovunque siano collocati41.

Del resto, le concessioni del piano casa si adattano perfettamente al tipo di sistema edilizio minuto che caratterizza l’urbanizzazione diffusa italiana. Nella XVI legislatura, pur con il cambio di maggioranza, l’impegno per la nuova legge urbanistica sembra ripartire in maniera quasi automatica. I protagonisti sono gli stessi della legislatura precedente che ripresentano i loro testi, spesso identici, senza alcun aggiornamento, ancorati alle posizioni dei rispettivi partiti. Sono attori di una discussione che assomiglia alla recita del medesimo copione, che è possibile replicare, nonostante appaia sempre più lontana l’attualità e l’urgenza del suo contenuto. Maurizio Lupi, fin dall’apertura dei lavori parlamentari, ripropone il suo testo (atto n.438 del 29 aprile 2008) sui “Principi per il governo del territorio” al quale affianca anche la precedente iniziativa dal titolo “Legge obiettivo per le città”. Articolati già noti dove si ribadisce il prevalere del ruolo del privato sia nel processo di pianificazione sia negli interventi di edilizia residenziale sociale dove, come si è detto, si può derogare al piano. Anche Raffaella Mariani42 presenta l’identico testo di due anni prima dove il cambiamento è solo nell’intestazione da cui scompare la dizione “Unione” sostituita da quella “Partito Democratico”. Per il resto, relazione e i 26 arti41 42

Cfr. V. De Lucia, Nella città dolente, Rx, Castelvecchi, 2013 p. 166. Atto C 329, 29 aprile 2008.


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coli ricalcano la versione già agli atti nella XV legislatura. Anche il disegno di legge presentato da Mantini è uguale ai precedenti, con lievi modifiche sul principio di pari opportunità e di partecipazione, sugli accordi con i privati e sulla fiscalità relativa all’imposta comunale sugli immobili in rapporto all’edificabilità riconosciuta dal piano. Il clima politico, al contrario, è molto cambiato, solo i testi di riforma sono gli stessi ripetuti negli anni che, in qualche maniera, risultano ormai superati. A distanza di due legislature hanno perso interesse, mentre l’attenzione del paese è rivolta ai grandi temi della crisi economica che si sta delineando anche in relazione alle modificazioni del quadro delle forze politiche rappresentate in Parlamento con la scomparsa di alcuni partiti tradizionali della sinistra (es. Rifondazione Comunista)43. Alla riforma sui principi dell’urbanistica, che nel 2005 sembrava al Senato prossima all’approvazione, nessuno crede più, o meglio si prende atto che il cammino sarà lungo anche per la contrapposizione evidente degli schieramenti non tanto sugli strumenti quanto sul ruolo della pianificazione all’interno del sistema economico-sociale del paese. Un’impostazione che riflette il venir meno della spinta delle componenti intellettuali impegnate a fronteggiarsi più in riflessioni ‘veloci’ ed esternazioni contrapposte, che sembrano unite sia nella sfiducia verso l’approvazione della riforma sia sull’efficacia della stessa. A testimonianza di tutto ciò, sono le due iniziative di leg43 Con la non presenza di Rifondazione, anche il disegno di legge, a cui avevano contribuito esponenti di rilievo della pianificazione italiana con riferimento al sito di Eddyburg, presentato dall’on. Migliore (allora deputato RC) nella precedente legislatura scompare dal dibattito parlamentare.


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ge presentate nel 2010, quasi a metà legislatura, dai due schieramenti contrapposti, da una parte Lupi e dall’altra Morassut-Mariani. La prima è relativa a “Disposizioni per la semplificazione di adempimenti in materia edilizia, urbanistica e di opere pubbliche” 44 finalizzata a fornire una disciplina di riferimento statale all’istituto della perequazione e della compensazione, ormai applicate in numerosi piani dove “incidono sullo statuto della proprietà immobiliare” finalizzate alla realizzazione di servizi e attrezzature pubbliche senza dover ricorrere all’esproprio. All’ordine del giorno è la semplificazione: tutto ruota intorno ad essa. Tutti i provvedimenti mirano ad abbreviare i tempi burocratici, quando non a ‘saltare’ permessi e autorizzazioni ritenute un vincolo inutile e una ‘perdita di tempo’ per gli operatori immobiliari. L’approccio che si vuol far emergere è quello di una proprietà immobiliare penalizzata dalle scelte della pianificazione e che, invece, il piano deve facilitare e per questo la perequazione, che incide sulla proprietà e che è rimasta competenza esclusiva dello Stato, deve essere regolata con urgenza in attesa di un riordino generale di quanto attiene al territorio.45 Allo stesso modo vengono portate avanti le facilitazioni per l’autorizzazione paesaggistica e per la VAS, fino ad arrivare ai piani attuativi, per i quali la legge non richiede più l’approvazione del Consiglio comunale, ma solo il parere della Giunta. Si arriva così all’urbanistica ‘alleggerita’ del Governo di centro sinistra. Atto C 3379, 8 aprile 2010 di 6 articoli. Ad es. la traslazione dei diritti edificatori da un’area che viene ceduta al comune se generano un incremento non pianificato il comune deve adottare una variante per rendere operativi tali diritti impegnando nuovo suolo.

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La seconda proposta a firma Morassut46, Mariani ed altri della componente PD47, nasce anche da una sollecitazione espressa da Campos Venuti, presidente onorario INU, del giugno del 2010 con cui si dichiara esplicitamente che la discussione delle diverse proposte di legge presenti in Commissione comporteranno tempi lunghi e che per una approvazione rapida conviene presentare un testo breve di soli 6 articoli come ‘anticipazione funzionale’ ad una vera e propria riforma. Si vuole dare una copertura legislativa nazionale ai punti più qualificanti ed innovativi delle esperienze regionali quali: la perequazione e la compensazione nelle aree di trasformazione con la cessione gratuita delle aree per la città pubblica e incentivi che possono tradursi in premi di edificabilità per trasferimento che incentivino gli interventi di riqualificazione urbana. Un secondo tema sviluppato dal disegno di legge è il piano comunale basato su tre livelli48 insieme a quello che sembra il tema più innovativo, dell’incentivazione della qualità architettonica (art. 6) rivolto ad ottenere una qualità edilizia ed estetica più elevata utilizzando la procedura del concorso internazionale di architettura, ma anche in questo caso l’intervento si traduce in un au-

Roberto Morassut, esponente del partito Democratico. già assessore all’Urbanistica del comune di Roma (2001-2008). 47 Atto C 543, 15 giugno 2010 con 6 articoli. Vedi p. 1-2. 48 La proposta INU articola la pianificazione su tre livelli: la componente strutturale, non prescrittiva, che indica i vincoli ricognitivi, i livelli di tutela dell’ambiente, le scelte di sviluppo, i carichi insediativi massimi; la componente operativa (conformativa della proprietà) che individua le aree oggetto di interventi di trasformazione e le opere e servizi pubblici da realizzare nelle durata dei cinque anni, la componente regolativa che disciplina gli interventi ammissibili sul patrimonio edilizio esistente e le aree non interessate da trasformazione. 46


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mento di volumetrie che viene stabilito dai comuni promotori dell’iniziativa. Tutto ha un prezzo, tutto è monetizzabile. L’operatore pubblico è sempre più marginale e l’interesse collettivo è subordinato a quello privato, che si traduce nell’aumento di volumetrie da realizzare, con operazioni che gravano su un patrimonio costruito già ingente, con una quantità di stabili vuoti che ormai si attesta su percentuali a due cifre nei contesti urbani. In conclusione, nulla cambia veramente, alla base della pianificazione italiana resta il PRG coadiuvato dalla perequazione, che può essere utile (quando va bene) per ottenere le aree degli standard, mentre tutto il resto può aspettare tempi migliori: alla fine la legge del 1942 può ancora, con pochi ritocchi, continuare ad essere la legge quadro urbanistica nazionale. Nel frattempo interviene, ancora una volta, la Corte Costituzionale, richiamando i principi che avevano ispirato la precedente sentenza n. 348/2007 sulle aree edificabili, con la determinazione n.181/2011 sull’esproprio delle aree agricole non edificabili che dichiara l’incostituzionalità del valore agricolo medio (VAM), introdotto dalla legge 865/1971 all’art.16 con il quale si era regolata l’espropriazione. Un pronunciamento rilevante perché distingue le aree agricole secondo le loro potenzialità cioè introduce come parametri di giudizio quelli del mercato. Pertanto per le aree non edificabili ma coltivate (aree agricole dei PRG) il valore agricolo per l’esproprio è determinato in base alle colture effettivamente praticate, mentre per le aree non edificabili e non coltivate esterne ai centri abitati (ovvero tutto il territorio periurbano), la Corte giudica il VAM


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un valore del tutto astratto in quanto non tiene conto delle caratteristiche e delle potenzialità date da un possibile uso diverso conseguente anche alla localizzazione, che può incidere nel determinare l’effettivo valore sul mercato. Siamo di fronte ad un pronunciamento che, possiamo dire, mette la parola fine su un confronto/scontro fra Corte Costituzionale e leggi urbanistiche durato per più di mezzo secolo, che si conclude con l’eliminazione del principio fondativo dell’esproprio basato sull’indennità parziale, e quindi di fatto fa decadere l’istituto stesso che ormai è praticabile solo se commisurato al valore fissato dal mercato immobiliare. Inutile ribadire come questa sentenza abbia conseguenze fatali per la pianificazione e oltremodo onerose per gli enti locali eventualmente intenzionati all’acquisizione di terreni agricoli attorno alle città magari da destinare alla realizzazione di opere ed infrastrutture pubbliche. Ma a fronte di tutta questa disperazione urbanistica, si profila la gioia dell’approvazione della legge n.10/2013 con la quale si istituisce la “Giornata nazionale degli alberi” e si conferma l’obbligo per i comuni di piantare un albero per ogni nuovo nato. Un provvedimento di un miglioramento del sistema ambientale urbano in quanto incentiva lo sviluppo degli spazi aperti, promuovendo la formazione di cinture verdi intorno alle conurbazioni e l’impianto di filari di piante lungo le strade. Torna così, in controtendenza, un’attenzione alla dotazione degli standard in quanto i comuni che non abbiano rispettato le quantità minime previste dal D.M. 1444/68, devono approvare specifiche varianti. Un provvedimento utile dulci che si propone di abbellire le città e, soprattutto, di miglio-


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rare le condizioni ambientali grazie ad un maggiore assorbimento di CO249. Nel febbraio 2013, “Italia. Bene comune” è la coalizione che per 100.000 voti, vince le elezioni politiche e, grazie al premio di maggioranza, costituisce il governo con Enrico Letta presidente50. Un nuovo partito, anzi un movimento politico entra in Parlamento: il Movimento 5 Stelle. Nello stesso anno muoiono Giulio Andreotti ed Emilio Colombo, costituenti, democristiani, protagonisti della politica italiana del Novecento, mentre Silvio Berlusconi decade da senatore in agosto in virtù della legge Severino causando le dimissioni del Popolo delle libertà dal governo che si ricostituisce grazie alla scissione di Angiolino Alfano (NCD), che garantisce la maggioranza. La ribalta nazionale si apre per Matteo Renzi che, da sindaco di Firenze, vince le primarie per la carica di segretario del Partito Democratico e il 22 febbraio del 2014, dopo aver Un intento ambizioso che rimanda a decreti successivi e alla volontà dei singoli enti locali con effetti e ricadute parziali. Inoltre la legge estende l’utilizzo dei proventi dai titoli abilitativi della legge n. 380/2001, alla realizzazione di opere pubbliche di urbanizzazione di recupero urbanistico e di manutenzione del patrimonio comunale. 50 Per completare il quadro si ricorda la successione degli eventi: 1) politiche del febbraio 2013 (confronto fra Bersani e Berlusconi) con l’attribuzione del premio di maggioranza alla Camera al PD; 2) Giorgio Napolitano presidente della Repubblica in scadenza di mandato, affida un primo incarico a Bersani che non riesce a costituire una maggioranza al Senato, poi forma due gruppi di lavoro (istituzionale ed economico) per trovare una soluzione alla crisi; 3) 18 aprile 2013 Napolitano viene rieletto Presidente della Repubblica; 4) 24 aprile, incarico a E. Letta che forma un governo basato su una coalizione a cui partecipano sia il PD che il PdL; 5) 1° agosto 2013 Berlusconi viene condannato nel processo per la compravendita dei diritti televisivi e decade in virtù della legge Severino da senatore causando le dimissioni del Popolo delle libertà (Ministri: Alfano, Lorenzin, Lupi, Quagliariello ecc.); 6) 4 dicembre, sentenza di incostituzionalità della Legge elettorale; 7) Renzi diventa segretario PD; 8) febbraio 2014 dimissioni di Letta e governo Renzi. 49


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sfiduciato Letta, giura come Primo ministro, senza essere parlamentare ma in quanto segretario di partito. A complicare il panorama istituzionale interviene, il 5 febbraio 2017, la sentenza della Corte Costituzionale sull’incostituzionalità della legge elettorale che sfocia nel referendum del 4 dicembre 2017, dove la vittoria dei ‘no’ porta alle dimissioni del premier Renzi, cui succede il governo Gentiloni. La XVII legislatura, pur con un governo a guida centro-sinistra, appare disattenta ai problemi del territorio, anche se la ritualità è rispettata. Puntualmente Lupi e Mariani ripresentano quasi contemporaneamente i loro documenti, ma sembrano ormai più posizioni personali che reali proposte politiche. A queste si affiancano alcune iniziative parlamentari più fresche su temi specifici come quello di restituire l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione all’originaria destinazione51 o sull’ambiente per la rigenerazione ecologica delle città o la riqualificazione dei borghi antichi fino alla valorizzazione della ‘bellezza’ del paesaggio52. L’evento che cambia le logiche è la nomina di Lupi come ministro delle Infrastrutture e dei trasporti prima nel governo Letta poi nel governo Renzi, per un periodo che va dall’ aprile 2013 fino al marzo 2015. Nella veste di ministro del governo Renzi, Lupi presenta nel luglio 2014 un disegno di legge dal titolo “Principi in materia di politiche

Atto C 392, 21 marzo 2013. È il disegno di legge “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della bellezza nel paesaggio italiano, nell’ambiente e nella qualità architettonica e urbanistica” a firma E. Realacci cofirmatario lo stesso Lupi, atto C 64, 15 marzo 2013.

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pubbliche territoriali e trasformazione urbana” con un testo del tutto diverso dai precedenti redatto dalla sua segreteria tecnica-Gruppo di lavoro “Rinnovo Urbano”, in cui i concetti di gerarchia e sussidiarietà si inseguono alle varie scale, declinati sia nella strumentazione che nei processi. Il principio ispiratore è enunciato fin dal Titolo I, “Principi fondamentali in materia di governo del territorio, proprietà immobiliare e accordi pubblico-privato”, che riassume le problematiche che maggiormente stanno a cuore al Governo e in cui la complessità del territorio viene chiaramente concepita in relazione alle esigenze della proprietà immobiliare e alla composizione del rapporto pubblico-privato, rispetto al quale prioritaria è la volontà di preservare i diritti della proprietà. Il disegno di legge definisce, peraltro in modo impeccabile, il territorio in tutti i suoi aspetti e afferma che “costituisce bene comune, di carattere unitario e indivisibile” e ribadisce che nel governo del territorio confluiscono l’urbanistica e l’edilizia, oltre alle infrastrutture e alla difesa del suolo. Poi, dopo aver sostenuto la necessità della partecipazione dei privati nella definizione degli strumenti urbanistici (art. 1), si rivolge ai proprietari degli immobili per rafforzare “il diritto d’iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà”. Del tutto nuova è l’individuazione dei livelli istituzionali (art.2) preposti alla pianificazione, che introduce la distinzione del territorio in rapporto alla densità di popolazione presente e potenziale (riemergono le previsioni di sviluppo) e indica le scale in cui si opera con strumenti di indirizzo e di intervento: lo Stato con la Direttiva Quadro Territoriale definisce gli obiettivi strategici e formula


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la necessaria domanda pubblica di trasformazione del territorio che la pianificazione paesaggistica deve assumere all’interno delle proprie normative, senza trascurare le politiche agricole e quelle della salute; mentre, a livello regionale, la Direttiva Quadro Regionale indica “gli indirizzi per la definizione delle densità edilizie ottimali di riferimento per la pianificazione urbanistica tenendo conto delle culture insediative locali”. Le differenze fra le Regioni, ormai in atto con una grande varietà di leggi emanate in materia di territorio, viene confermata anche per le dotazioni territoriali che lo Stato, in sede di Conferenza Unificata, definirà in rapporto alle differenti soglie demografiche, mentre le Regioni determineranno (art. 6) per ogni ambito territoriale unitario, oltre alle dotazioni territoriali essenziali secondo le indicazioni di cui ai commi precedenti, i limiti di riferimento di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché i rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e dotazioni territoriali essenziali. La proprietà privata è conformata in base ai suddetti ambiti territoriali unitari e alle previsioni di pianificazione di carattere operativo.

Con tali distinzioni il carattere unitario e indivisibile del territorio nazionale appare in discussione proprio nella sua valenza sociale, in quanto si accentua le diversità delle dotazioni e accessibilità ai servizi da zona a zona. In qualche modo si torna ad un governo del territorio con impalcati legislativi variabili, che non garantisce alcuna sostenibilità neppure a fronte delle problematiche ambientali che emergono con gli eventi calamitosi, sempre più frequenti. Delle leggi regionali si riprendono i distinti livelli di pianificazione: uno programmatorio e uno operativo, che è l’unico rilevante in quanto conformativo e al-


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la cui approvazione finale si applica la fiscalità immobiliare. Si torna, così, a privilegiare l’urbano, cioè il territorio dell’edificazione, reale o possibile, individuando regole per l’edificazione con densità, altezze, distanze, normative che ricordano le indicazioni contenute nei piani della prima metà del Novecento. Trionfa l’ottica immobiliarista che, sancita dal massimo organo di governo nazionale, garantisce ai proprietari il diritto a partecipare alla stesura dei contenuti della programmazione anche con accordi di iniziativa privata o progetti di fattibilità che possono intercorrere nelle varie fasi della pianificazione e che i comuni dovranno valutare in rapporto alla pubblica utilità anche concedendo premi urbanistici-edilizi cioè diritti edificatori aggiuntivi. Ampio spazio viene dato al rinnovo urbano, dove le aree di intervento indicate nel piano programmatico, possono essere avviate tramite accordo urbanistico anche in assenza di piano operativo o in difformità dello stesso. I comuni devono prevedere apposite aree dove realizzare alloggi provvisori, ma che possono anche diventare definitivi in quanto gli immobili oggetto dell’intervento possono essere ceduti in cambio di quelli nuovi. Un processo che sottintende una vecchia e consueta politica di ricambio sociale ed economico che da sempre si accompagna ai processi di riqualificazione, che non tiene alcun conto del contesto (problematiche dei centri storici nel quadro della pianificazione comunale) e che sembra particolarmente adatto nelle ricostruzioni post-terremoto. Non manca l’attenzione all’edilizia residenziale sociale, che chiude il disegno di legge, e premia i privati che si impegnano a realizzare l’edilizia sociale, con quote di edificazione aggiun-


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tive e detrazioni fiscali accompagnate dall’esonero del pagamento del contributo del costo di costruzione. Per gratificare la partecipazione e la trasparenza, il disegno di legge viene sottoposto ad una consultazione pubblica on-line53. Commenti e reazioni non tardano a venire. Edoardo Salzano in una lettera aperta dichiara il testo non emendabile e si attiva nel tentativo di fermare il suo iter parlamentare. La critica è rivolta al pensiero che sottende tutto il disegno di legge rivolto a valorizzare la proprietà immobiliare, il ruolo dei privati nel processo di formazione della pianificazione al pari dell’operatore pubblico e la soppressione degli standard senza alcun corrispettivo egualitario in sostituzione. Tutta l’area culturale che gravita su Eddyburg si mobilita contro la legge ritenuta inadeguata a risolvere i problemi del territorio italiano, che non prende in considerazione la messa in sicurezza del suolo, il paesaggio e il patrimonio storico architettonico, mai citati nel testo. Solo qualche voce si leva in favore54 della legge. L’INU tenta una mediazione ma, pur apprezzando l’inserimento della perequazione urbanistica e della compensazione e i livelli del piano comunale, segnala come non vi sia richiamo alcuno alle numerose materie che compongono il governo del territorio e, pur enunciando principi generali come la partecipazione, la legge si occupi Il ministro Lupi presenta il Ddl il 24 luglio al Maxxi a Roma, e procede ad una consultazione on-line fino al 15 settembre per proposte e critiche, alla fine del periodo in totale pervengono più di 100 contributi (portale del Ministero). 54 Cfr. Dichiarazione di Morassut, rappresentante PD in Commissione Ambiente e Territorio della Camera, al Sole24Ore e posizione di Legambiente che, pur con molte osservazioni, ritiene lodevole l’iniziativa. 53


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principalmente dei diritti edificatori dei privati e del ruolo della proprietà immobiliare. Sottolinea, inoltre, come non sia condivisibile la possibilità di compensare tutte le limitazioni alla proprietà imposte dalla pianificazione anche quelle non dettate da vincoli ablativi55, rileva la mancanza di qualsiasi riferimento al principio di sostenibilità e censura la possibilità di costruire in deroga ai piani modificando le destinazioni d’uso che “renderebbe la pianificazione un atto quasi superfluo, ma utile alla commercializzazione dei metri cubi individuati nei Piani.” Sostanzialmente, continua il documento, si premia la rendita e si trascurano “tutti gli aspetti di carattere ambientale, paesaggistico sociale ed economico. Il disegno che ne esce è un progetto di regolazione dell’attività di trasformazione delle aree edificate ed edificabili.”56 Che è proprio quello che si vuole, ma inaspettatamente il percorso della legge termina con le dimissioni improvvise e inattese di Lupi57 da ministro. Ma Lupi non demorde e, come parlamentare NCD, alla fine del 2015 presenta l’ennesima proposta (la sesta) dal titolo: “Disposizioni concernenti il governo del territorio, l’uso razionale del suolo, la rigenerazione urbana e l’edilizia residenziale sociale. Deleghe al Governo per la definizione delle dotazioni territoriali essenziali e per il riorI vincoli ablativi sono quelli soggetti alla scadenza quinquennale e che devono essere indennizzati. 56 Cfr. S. Viviani, Presidente nazionale INU, Riflessioni sulla materia e indicazioni sul testo di legge proposto, contributo alla consultazione on-line, Roma, 15 settembre 2014. 57 Maurizio Lupi è costretto a dimettersi da ministro (anche se non indagato) a seguito di quanto scaturito da una indagine della Procura di Firenze sul sistema degli appalti per un giro di tangenti. La vicenda coinvolge, fra gli altri, anche il figlio del Ministro che, a questo punto, si dimette. 55


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dino e la semplificazione delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”. Un testo che si distingue per utilizzare parametri e termini tecnici nuovi rispetto ai precedenti e dove si afferma, pericolosamente, che la pianificazione non deve “arrivare alla condizione di mancanza di suolo alla quale rischiano di portare di fatto certe ipotesi sulla riduzione del consumo di suolo”. Si conferma così, ancora una volta, il credo di un’urbanistica basata sullo sviluppo e sull’espansione che risponde non più alle esigenze della collettività ma solo a quelle del mercato immobiliare58. Il consumo di suolo Il consumo di suolo, drammatico, conquista una sua evidenza anche sulla stampa non specializzata che evidenzia, oltre le dimensioni del fenomeno, la fragilità del territorio e le condizioni di criticità di numerosi ambiti del territorio nazionale. Gli eventi climatici e le calamità che si susseguono nel corso degli anni, evidenziano la perdita del presidio agricolo e gli effetti del processo di cementificazione che incide sul sistema ambientale e paesaggistico. I dati sono documentati dall’ISPRA con cifre sull’incremento delle superfici artificiali e la perdita di aree naturali59. Un processo di urbanizzazione che registra il dato Si tutela l’investimento immobiliare e si riconosce l’esistenza di un mercato globale che ha altre regole da rispettare: “La domanda di territori e di città è oggi solo in minima parte espressa dal mercato locale, gli operatori di domanda sono sempre più spesso molto distanti dal locale e non sono certo motivati dall’obiettivo di rispondere a esigenze locali”. Vedi C 3408, 5 novembre 2015, p. 4. 59 L’ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che prende il posto dell’Agenzia dell’Ambiente, viene istituito nel 2008 con la legge 133 a supporto del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. 58


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di 500 kmq/anno coperti artificialmente con una superficie urbanizzata di oltre 2.100.000 ha pari al 7,6% dell’intero territorio italiano. Una trasformazione irreversibile che interessa soprattutto le valli e le aree agricole di pregio. Quello che non si era voluto vedere negli anni ‘80 con i risultati della ricerca IT. URB ‘8060 è adesso sotto gli occhi di tutti: ne parla l’INU nella proposta di legge del 2008 come di uno dei principi fondamentali per contrastare il processo di urbanizzazione diffusa, attestando la esigenza di stabilire soglie precise a livello nazionale con l’obbiettivo di arrivare al cosiddetto consumo di suolo ‘zero’. All’INU si aggiungono Legambiente, Italia Nostra, altre associazioni ambientaliste e molte università italiane. Il dibattito scaturisce dalla forte percezione che negli anni dello sviluppo siano andati perduti migliaia di ettari di terreno coltivabile, mentre molti terreni collinari e montani versano in uno stato di abbandono quasi irreversibile con grave danno al sistema idrogeologico del paese. I dati sono impressionanti. Si stima che nei primi anni 2000, ben 8 mq. al secondo siano stati cementificati passando ai 4 mq. del periodo 2010-2013 e ai 3 mq. del 2016, una diminuzione da mettere però in relazione alla crisi economica che vede il comparto dell’edilizia in forte contrazione con perdita di imprese e posti di lavoro.61 Ma quello che colpisce di più sono le modalità di edificazione: l’11,8% del territorio artificiale si trova in zone dichiarate a pericolosità di frana e l’11,2% è ubicato in aree ad alta pericolosità idraulica, cioè tutte aree che dovrebCfr. p. 146, nota 47. Cfr. ISPRA, Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici, Roma 2017. 60

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bero essere escluse da qualsiasi processo di trasformazione. Condizioni che rendono l’intero patrimonio edilizio italiano particolarmente vulnerabile alle calamità naturali ed ai cambiamenti climatici. Le piogge abbondanti, i rovesci temporaleschi che si traducono in ‘bombe d’acqua’, che un tempo erano episodi straordinari, sono ormai diventati ‘normali’ e si riversano su un territorio che non riesce più ad assorbire e smaltire le quantità che riceve. Le alluvioni si susseguono nel corso degli anni arrecando danni ingenti frane, smottamenti, crolli, interruzioni di strade e autostrade ma, soprattutto, vittime. Un elenco lungo, basta ricordare l’alluvione di Genova nel 2011 (che si ripete ancora nel 2014) con lo straripamento del Bisagno e del Ferraggiano, torrenti in gran parte coperti nell’attraversare la città e che non riescono a smaltire l’ingente massa d’acqua causando sei vittime, l’alluvione nel territorio di La Spezia con 13 vittime, nel 2009 a Messina dove i conseguenti smottamenti causano 37 vittime, la Sardegna (2013) con 19 vittime, nel 2017 a Livorno dove nella notte cadono 256 millimetri di pioggia e otto persone perdono la vita. Viene, se pure con grave ritardo, messo sotto accusa il modello di urbanizzazione diffusa che ha caratterizzato e caratterizza l’assetto insediativo italiano disperso lungo il sistema degli assi infrastrutturali che porta ad inghiottire nell’urbano ampie fasce di terreno agricolo e causando la saldatura dei centri grandi e minori. Una crescita continua, come confermano i dati62, che registra quasi 30 ettari 62 Diversi sono gli enti che si occupano della materia oltre all’ISPRA il Centro di ricerca sui consumi di suolo formato da Legambiente, INU, Politecnico di Milano, l’ISTAT, l’AGEA (Agenzia per le erogazioni in


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Percentuale di consumo di suolo in Italia: 1950-2012 (fonte ISPRA)

al giorno di consumo ancora nel 2016, in piena crisi edilizia, con un processo che coinvolge in particolar modo le zone a bassa densità insediativa. Lo spreco di suolo, che era stato denunciato nella sua pericolosità già nelle Proiezioni territoriali del Progetto ‘8063, appare in tutta la sua gravità e diventa argomento di dominio pubblico, evidenziando la fragilità del sistema territoriale nazionale che perde progressivamente risorse naturali e servizi ecosistemici. Una perdita che si traduce in un aumento progressivo dei costi, sempre più ingenti, per gli interventi di ripristino che vanno ad incidere anche sulla ripresa economica. È la stessa Commissione Europea che parla di ‘costi nascosti’ dovuti alla crescente impermeabilizzazione del suolo che porta ad alterare il sistema ambientale non più in grado di reagire ai cambiamenagricoltura), l’Università dell’Aquila con WWF e FAI. 63 Cfr. pag 96 sgg


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ti climatici. Ne scaturisce l’esigenza di bloccare l’urbanizzazione per mettere in sicurezza il territorio e il patrimonio edilizio. L’ISPRA, come istituzione a livello centrale, pone la necessità di riconsiderare scelte edificatorie già approvate ritenute non più sostenibili e la documenta nei suoi rapporti, dichiarando di voler fornire ai Comuni e alle nuove Città Metropolitane, cioè agli enti interessati alla pianificazione, “indicazioni chiare e strumenti utili per rivedere anche le previsioni di nuove edificazioni” contenute nei piani vigenti. L’offerta non viene recepita da chi avrebbe il dovere di farsene carico e l’emergenza dilaga determinando una criticità ambientale crescente evidente nelle frane, alluvioni, allagamenti, crolli, esondazioni, eventi che si manifestano in modo sempre più frequente in tutto il territorio italiano e rende evidente il legame di causa-effetto legato alla cementificazione e all’impermeabilizzazione del suolo. Si calcola che oltre 6 milioni di abitanti siano in aree a rischio: ben il 10% dell’intera popolazione64. Fragilità del territorio e cementificazione selvaggia emergono in conseguenza del terremoto di Ischia nell’agosto 2017 dove si verificano due vittime e numerosi crolli pur con un evento di una magnitudo per la quale i geologi esprimono perplessità rispetto alla mole dei danni. Il mistero è ben presto svelato: in un ambito ad alta sismicità — basta ricordare come Casamicciola sia diventato un termine di uso comune per indicare eventi catastrofici — ci sono ben 600 case abusive da demolire e le pratiche di A questo dato ha concorso il fenomeno dell’abusivismo che ha dilagato in zone ad alto rischio e il reiterato istituto del condono che alla fine ha favorito il fenomeno stesso.

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Norcia, terremoto 2016

condono presentate ammontano a 27.000 in un’isola con 60.000 abitanti. In questi anni, nel tentativo di risolvere i problemi del territorio, si sviluppano le cosiddette pianificazioni ‘separate’: dai rifiuti alla mobilità, ai beni culturali, all’energia, alla difesa idrogeologica fino alla protezione civile, per tutti i settori c’è un piano che propone soluzioni specifiche limitate al campo di cui si occupa. Di fronte a questa pianificazione frazionata la cui sommatoria dovrebbe essere onnicomprensiva (ma non può esserlo), gli eventi naturali trovano il Paese sempre impreparato in termini di qualità edilizia e di infrastrutture. I terremoti ne sono tragica evidenza e svelano la fragilità del patrimonio edilizio, delle infrastrutture e degli edifici pubblici. Così all’Aquila (2009) dove fra le 309 vittime ci sono gli studenti deceduti nel crollo della Casa dello studente e la distruzione dell’intero centro storico, in Emilia (2012) dove il terremoto mette in crisi il sistema industriale della piccola e media impresa, nell’Italia centrale (2016) con 299 vittime


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Casamicciola, Ischia, terremoto 2017

fra Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, con il crollo devastante del patrimonio architettonico e artistico dei nostri borghi del quale la Basilica di San Benedetto a Norcia è il simbolo rappresentativo.65 Eventi naturali disastrosi, come quelli ambientali che mettono in rilievo una situazione climatica globale rispetto alla quale dovrebbe delinearsi una maggiore consapevolezza, resa evidente dall’adozione della Agenda 2030 e dagli Obbiettivi dello Sviluppo Sostenibile (ONU), dall’Accordo di Parigi sul Clima e dall’enciclica Laudato Sì di Papa Francesco, che portano tutti la data dell’anno 2015, nonché dalle negoziazioni per Nuova Agenda Urbana66. 65 La protezione civile stima i danni per oltre 23 miliardi di euro ma, a fronte dei 20,1 miliardi stanziati fino al 2017, la ricostruzione, vedi il centro storico dell’Aquila, appare ancora all’inizio senza avere precise indicazioni su come ricostruire. Va sottolineato inoltre come le stime indichino che per mettere in sicurezza le abitazioni dei comuni più a rischio occorrano oltre 25 miliardi. 66 La Nuova Agenda Urbana è il documento conclusivo di Habitat III (organizzata da UN-Habitat), Quito 2016, condiviso da 193 paesi del mondo, che si propone di guidare e indirizzare lo sviluppo urbano sostenibile nei prossimi 20 anni. Cfr. http://habitat3.org/the-new-urban-agenda


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L’Aquila, terremoto 2009

Un complesso di documenti e azioni che coinvolgono i governi nazionali, le organizzazioni non governative e i popoli della terra. Infatti, dal 30 novembre all’11 dicembre del 2015, si svolge la Conferenza internazionale sul clima a Parigi a cui partecipano delegazioni di 195 nazioni. Si tratta della 21ª sessione annuale della Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) del 1992 e la 11ª sessione della Riunione delle Parti che hanno stipulato il protocollo di Kyoto (1997) sul tema del surriscaldamento del pianeta. Dopo giorni di negoziato si arriva ad un accordo che mira a contenere il rialzo della temperatura del globo al di sotto di 2 gradi, con la riduzione delle emissioni di gas serra, entro il 2020. Un risultato importante che va nella stessa direzione, sottolineata da forti accenti etici, del richiamo che Papa Francesco fa attraverso la sua enciclica Laudato si’ (giugno 2015) dove fondamentale è il dovere di cura che il credente deve avere nei confronti del Creato di cui è custode attivo e, pertanto, non può esimersi dal farsi carico delle condizioni am-


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bientali del pianeta. Il Papa parla di questi temi come di una “riflessione gioiosa e drammatica”: gioiosa in relazione alle speranze per il futuro, drammatica per la consapevolezza della gravità della situazione presente. L’invito è a “coltivare e custodire” il Giardino del mondo, dove tutto si relaziona e tutto è interdipendente, dove sono sempre i più poveri a pagare il prezzo più alto della distruzione delle risorse, del consumismo e dell’ingordigia dei profitti. È un incitamento ad un cambiamento radicale e consapevole delle convinzioni e dello stile di vita, che hanno provocato la crisi ecologica in corso, in cui l’uomo “attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, (egli) rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”67. Papa Francesco parla di acqua, cibo, biodiversità, povertà, foreste, auspicando un’ecologia integrale fondata sul rapporto di sussidiarietà fra gli uomini e di quotidianità fra l’uomo e la natura, sul bene comune e sulla giustizia fra generazioni. Iniziative legislative Le iniziative legislative sul consumo di suolo di questi anni possono avere un sottotitolo: dalla protezione delle aree e dell’economia agricola al tentativo di definire una legge quadro urbanistica. Infatti, mentre le proposte di legge sul governo del territorio sono all’attenzione delle commissioni, Mario Catania, ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali del governo Monti presenta al governo un disegno di legge 67 Cfr. Papa Francesco, Laudato Sì. Enciclica sulla cura della casa comune, San Paolo, Milano 2015.


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sul consumo di suolo insieme ai ministri per i Beni e le attività culturali (Ornaghi) e delle Infrastrutture e dei trasporti (Passera), sulla “Valorizzazione delle aree agricole e il contenimento del consumo di suolo”. Un testo breve, di 8 articoli, chiaro nelle finalità e nelle modalità68. L’intento è la salvaguardia del territorio e dell’attività agricola, infatti si considera la perdita di aree coltivabili un danno per la produzione agricola e alimentare del paese, la cui tutela è fondamentale per la messa in sicurezza del territorio in quanto favorisce il drenaggio e la regimazione idrogeologica e, inoltre, conserva il paesaggio considerato un risorsa ‘economica’ fondamentale per l’Italia69.

Il disegno di legge AS 3601, è approvato il 14/09/2012 dal Consiglio dei Ministri e trasmesso alla Conferenza Unificata che propone l’inserimento del riconoscimento del suolo come bene comune e risorsa non rinnovabile e l’intero art.2 relativo alle definizioni su suolo agricolo e consumo. È un Ddl che ha come oggetto la tutela del suolo agricolo ma si interrela con il governo del territorio che è materia legislativa concorrente per cui il testo deve enunciare principi nel rispetto delle competenze regionali. 69 Queste le intenzioni elencate nell’art.1 che afferma che il suolo è un “bene comune e risorsa non rinnovabile che esplica funzioni e produce servizi ecosistemici” il cui minor consumo di suolo si applica “privilegiando gli interventi di riutilizzo e di recupero di aree urbanizzate”, che suona come un riferimento esplicito all’urbanistica. Viceversa l’art. 3 “Limite al consumo di superficie agricola” svolge un punto che riporta ad un confronto fra Stato e Regioni, con il Ministero delle politiche agricole che decide la quota nazionale di suolo agricolo consumabile che le Regioni, poi, gestiranno autonomamente nella ripartizione; nell’art. 4 si afferma il divieto del cambiamento di destinazione d’uso per tutti quei terreni che abbiano beneficiato negli ultimi anni di contributi o incentivazioni da parte dello Stato o su fondi europei. Il progetto di legge poi introduce l’uso dei proventi dai titoli abilitativi per tutti gli interventi di edilizia per le opere di urbanizzazione ripristinando l’originaria destinazione, intervenendo anche in questo caso su materia di governo del territorio. Va, inoltre, ricordato che la legge si muove nell’ambito delle direttive dell’Unione Europea che nel 2012 chiede di arrivare ad un consumo di suolo pari a zero nel 2050. 68


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L’obiettivo in questo caso è dare ossigeno al settore agricolo che vede cementificare i terreni coltivabili migliori, ma è anche evidente che per combattere lo sprawl e l’espansione urbana occorre indirizzare l’intervento edilizio sull’edificato abbandonato o degradato. Non potendo intervenire in materia di esclusiva competenza delle Regioni, si aggira l’ostacolo cercando di limitare le previsioni urbanistiche affermando che i territori agricoli devono restare agricoli. Un’affermazione che non solo non confligge con il governo del territorio, ma anzi coopera alla tutela delle risorse. Siamo al dicembre del 2012 alla fine della legislatura e l’iniziativa, necessariamente, si interrompe. Ma essendo diventato un argomento di largo impatto, tradotto nella comunicazione politica con lo slogan piani a consumo zero, viene ripreso, subito all’inizio della nuova legislatura dal governo Letta70 con un nuovo testo, approvato dal Consiglio dei ministri nel giugno 2013 e inoltrato alla Conferenza unificata Stato-Regioni, che si esprime favorevolmente nel novembre dello stesso anno. Il disegno di legge, sempre di iniziativa del Ministero dell’agricoltura, ha ora il titolo “Contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato” e conferma il principio del suolo come bene comune e risorsa non rinnovabile affermando (art. 1, comma 2), il concetto che “il riuso e la rigenerazione urbana, rispetto all’ulteriore consumo di suolo inedificato, costituiscono principi fondamentali della materia del governo del territorio”. Ma è eviden-

Il testo si deve ai ministri Bray (Beni culturali), De Girolamo (Politiche agricole), Lupi (Infrastrutture) e Orlando (Ambiente) e viene presentato nel 2014 alla Camera (C.2039).

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te il cambio di finalità sulle “Priorità del riuso” (art.4) impone alle Regioni di fornire indirizzi ai Comuni per individuare negli strumenti urbanistici le aree edificate non utilizzate o sottoutilizzate, che possono essere suscettibili di rigenerazione o di riqualificazione urbana, pur sempre col richiamo di rispettare le previsioni contenute nel piano paesaggistico71. Tutti argomenti che di fatto entrano in materia pianificazione dirottando la proposta dall’originaria salvaguardia e valorizzazione dell’attività agricola al più vasto campo del governo del territorio. Nella stessa legislatura, Catania insieme a Realacci (di nuovo presidente della VIII Commissione, Ambiente e Territorio) ripresenta una proposta “Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo” (maggio 2013), in cui il punto qualificante resta quello sulla destinazione dei proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni da impegnare, esclusivamente, per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, per il risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, per interventi di qualificazione dell’ambiente e del paesaggio, o per la messa in sicurezza delle aree a rischio idrogeologi-

71 Interessante è il concetto espresso nella relazione governativa sul ruolo di tale strumento che “costituisce, nel nostro ordinamento, il piano di area vasta in grado di dettare quantomeno le invarianti dei processi di trasformazione del territorio e di canalizzarli verso le aree già urbanizzate o comunque artificializzate da recuperare e riqualificare, preservando i suoli agricoli e il paesaggio che presenta profili di pregio. Esso pertanto assurge, come è stato rilevato, al ruolo di vera e propria «costituzione del territorio», in quanto piano preordinato a determinare in maniera certa, e con previsioni destinate a prevalere su quelle di ogni altro strumento di pianificazione territoriale, le regole fondamentali dell’assetto del territorio regionale”.


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co72. Ritornando così alle finalità della legge n. 10/77, nel tentativo di dare un supporto economico agli interventi. Altri disegni di legge sono presentati, fra questi quello di Massimo Felice De Rosa (Mov. 5 Stelle) dal titolo “Disposizioni per il contenimento del consumo di suolo agricolo e per la tutela del paesaggio” (maggio 2013) dove al tema del consumo di suolo, caratterizzato dall’abbandono dell’agricoltura e dalla dilagante diffusione urbana, si aggiunge l’aspetto della compromissione del paesaggio. Per contenere tale processo e salvaguardare il territorio non edificato la proposta indica l’obbligo per i comuni di individuare con chiarezza il territorio agricolo e quello urbanizzato73. Sembra che decenni di perimetrazione dei centri abitati, dei centri storici e quant’altro (le prime risalgono alla ‘legge Ponte’ del 1967) non siano mai esistiti né applicati, ma meglio reiterare che ignorare e, dunque, ben vengano le indicazioni che all’interno del Ddl sono rivolte ad evitare ogni possibilità di trasformazione e di edifiInsieme all’iniziativa governativa abbiamo alla Camera altri 4 proposte di legge sul consumo di suolo: C 902 (Franco, Bordo), C 948 (Catania), C 1176 (Faenzi), C 1909 (De Rosa), tutte all’esame delle Commissioni parlamentari riunite VIII (Ambiente, territorio e lavori pubblici) e XIII (Agricoltura). Per i lavori le Commissioni scelgono come testo base quello del governo che è stato oggetto di parere da parte della Conferenza unificata e dall’Anci con alcuni emendamenti nel testo. La Conferenza rileva che il campo di applicazione si sposta dall’agricoltura alla disciplina del Governo del territorio. L’ANCI rileva che la proposta declini due interessi pubblici: quello della tutela dell’attività agricola e quello della trasformazione del territorio e di conseguenza il consumo di suolo è materia di governo del territorio e la proposta deve indicare come rendere operativa la riduzione attraverso gli strumenti urbanistici. 73 A tal fine ogni comune entro sei mesi dall’approvazione della legge, viene obbligato a perimetrare, su apposita cartografia (1:10.000) da trasmettere alle Regioni e poi al Ministero, il suolo impermeabilizzato, le superfici agricole e le aree a vocazione ambientale. 72


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cazione, e il prospettato inserimento del territorio agricolo nel Codice dei beni culturali come bene da tutelare. Si viene, così, a segnare un rigo rosso fra urbano e agricolo che dovrà comparire nella pianificazione paesaggistica, individuando gli ambiti della competenza dello Stato. Questo testo, come del resto tutti gli altri depositati per la discussione, non prende posizione nel definire la quota di riduzione di consumo di suolo da adottare e rinvia la scelta ad una complessa procedura con un arco temporale lunghissimo74 e che, di fatto, rimanda a scenari lontani. Va comunque rilevato che un vero contenimento del consumo di suolo è difficilmente proponibile anche perché, nel tempo che intercorre fra l’approvazione e l’applicazione della legge, le previsioni dei piani urbanistici restano in pieno vigore con tutte le conseguenze relative. Le proposte di questo periodo oscillano dunque fra agricoltura e governo del territorio, ipotizzando una sorta di inquadramento atipico delle norme di carattere urbanistico. Su questa linea è anche il testo “Norme per il contenimento dell’uso del suolo e la rigenerazione urbana” (gruppo Scelta civica per l’Italia) dove il suolo è visto come risorsa fondamentale il cui consumo “comporta gravi oneri diretti ed indiretti a carico della collettività” (art.1) e per preservarlo è introdotta la previsione che il suo conLa Conferenza Unificata ha 180 giorni per stabilire i criteri e le modalità da adottare per la riduzione, a sua volta il Ministro delle politiche agricole, entro un anno dall’approvazione della legge, stabilisce, con decreto ministeriale, la riduzione progressiva vincolante a livello nazionale, all’entrata in vigore di tale decreto, si hanno altri sei mesi per la Conferenza unificata per ripartire fra le diverse regioni il dimensionamento, a loro volta le Regioni impiegheranno un ulteriore tempo per ripartire la propria quota fra tutti i comuni di pertinenza.

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sumo diventi oneroso con l’introduzione di un contributo, in aggiunta agli oneri di legge, pari a tre volte quelli dovuti per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.75 Nel testo è inserita anche la possibilità per gli strumenti urbanistici di individuare ambiti di rigenerazione urbana e non mancano né la perequazione né la compensazione urbanistica necessarie per acquisire le aree per le dotazioni territoriali e, in un confronto continuo con la Corte Costituzionale, compare il tema della validità temporale per tutti i diritti edificatori che perdono efficacia alla scadenza del piano76. Il Ddl sul consumo di suolo rimane di iniziativa del Ministero delle politiche agricole, ma i vari passaggi fra i diversi governi della XVII legislatura e le discussioni in sede di Commissioni riunite, determinano l’introduzione di emendamenti comunque inerenti al titolo, ormai consolidato di “Contenimento dello uso del suolo e riuso del suolo edificato”, che inseriscono non poche modificazioni concettuali e tendono a porre più un freno all’urbanizzazione che a salvaguardare il territorio rurale. La legge di fatto viene ad includere temi ed obiettivi di carattere urbanistico e si trasforma da provvedimento sul consumo di suolo in legge di governo del territorio, o meglio, tende 75 Anche se questo contributo potrebbe generare un meccanismo poco virtuoso nella ricerca da parte dei comuni di maggiori entrate, tuttavia tali contributi possono essere sostituiti da cessione di aree per la realizzazione di nuovi sistemi naturali permanenti, siepi, filari, prati, boschi, percorsi ciclo-pedonali, ecc. 76 Atto S. 129, art.7 comma 2, “Qualora le leggi regionali fissino un limite temporale alla conformazione edificatoria operata dagli strumenti urbanistici, in concomitanza con tale termine perdono di efficacia i diritti edificatori non ancora utilizzati, salvo che la loro originaria attribuzione da parte del comune non sia stata frutto di una compensazione”.


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a diventare una legge urbanistica concepita in modo definibile ‘tradizionale’, in quanto basata su precise regole edificatorie, in cui la pianificazione sembra privilegiare il riuso e la rigenerazione urbana77 e contenere il consumo di suolo destinando i terreni abbandonati all’uso agroforestale78. Nel 2015 nuovi emendamenti sono inseriti, come l’articolo 6, che originariamente compare come “compendi periurbani”, e successivamente nella versione finale (2016) trasformato in “compendi agricoli neorurali”79 una definizione che apre scenari critici in quanto allarga la possibilità di intervento edilizio a tutto il territorio agrico-

La rigenerazione urbana, pur con definizioni generiche, viene ritenuta come un insieme di interventi finalizzati alla riorganizzazione del tessuto urbano degradato in base alla quale i piani devono individuare gli ambiti di tessuto caratterizzati da situazioni di abbandono, da sottoporre a rigenerazione e recupero, pena la sospensione di ogni tipo di attività edilizia. 78 I lavori della commissione si protraggono a lungo, un primo accordo viene trovato sulla definizione delle quantità di consumo di suolo netto, nel cui calcolo siano detratte le superfici impermeabilizzate “in cui sia stata rimossa l’impermeabilizzazione”, mentre le polemiche più accese si registrano sul metodo di stima della superficie impermeabilizzata (art. 2). Nella superficie impermeabilizzata, infatti, non sono inserite come consumo le superfici ancora permeabili ma destinate ad infrastrutture, servizi, aree funzionali per le attività produttive, oltre ai lotti interclusi e le aree non edificate all’interno della rete delle urbanizzazioni. Un calcolo che non corrisponde alle definizioni utilizzate dall’UE e che porta a dati difficilmente confrontabili a livello europeo, provocando critiche da enti ed associazioni ambientaliste e dall’ ISPRA. 79 L’articolo 6 — introdotto in Commissione — appare un controsenso in una legge che si pone l’obbiettivo di tutelare il territorio agricolo, in quanto per compendio agricolo neorurale si intende “l’insediamento rurale oggetto dell’attività di recupero e di riqualificazione che viene provvisto delle dotazioni urbanistiche ed ecologiche e delle nuove tecnologie di comunicazione e di trasmissione di dati, in modo da offrire nuovo sviluppo economico e occupazionale”. I piani urbanistici devono individuare tali compendi all’interno dei quali poter intervenire con la riqualificazione, in tal modo il termine neorurale può essere declinato in neourbanizzato. 77


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lo. I compendi sono in realtà assimilabili a veri comparti edilizi all’interno dei quali operare con il riuso e la riqualificazione ma anche con la demolizione e sostituzione modificando l’assetto tradizionale, ad eccezione dei soli manufatti di valore storico-culturale e testimoniale, aspetto rilevante per il paesaggio italiano che scompare nella versione approvata in aula. Il testo finale, paradossalmente, trattando di edificazione per intervento diretto o per progetti di comparto, si configura come una vera e propria legge urbanistica rivolta esclusivamente al sistema edilizio con scarse attenzioni al sistema ambientale. Non conta più la salvaguardia del territorio agricolo e il presidio delle attività a sostegno del mantenimento delle condizioni di suolo, ma è prioritario il riuso e il rinnovo dell’edificato, tanto che si liberalizza l’intervento edilizio mantenendo intatte le previsioni di espansione dei piani vigenti. Il disegno di legge è trasmesso al Senato per l’approvazione80 dove, a commissioni riunite, continuano gli emendamenti volti prevalentemente a trovare una possibile soluzione per stabilire percentualmente la riduzione di consumo di suolo da adottare. Alla fine la proposta di legge ammettendo interventi di trasformazione e sostituzione generalizzata, interventi in deroga, opere non considerate nel calcolo finale, e quant’altro, altera completamente l’idea originaria che aveva mosso il ministero delle Politiche Viene assegnato alla IX Commissione ‘Agricoltura e produzione agroalimentare’ e alla XIII ‘Territorio Ambiente, beni ambientali’ in discussione con altri 4 Ddl fra cui S. 1734 “Riconversione ecologica delle città e limitazione al consumo di suolo” presentato dalla sen. Laura Puppato (PD) che è il relatore del Ddl di iniziativa del governo.

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agricole nel tentativo di limitare il processo di espansione urbana nelle aree rurali. È interessante notare come Legambiente, FAI, WWF, Touring Club Italiano, Slow Food e le associazioni impegnate sul fronte ambientalista e della salvaguardia del paesaggio salutino come passo positivo l’approvazione del disegno, pur con perplessità su non pochi punti. Tra questi ci sono le numerose possibilità di deroga che rendono meno significativa la tutela della risorsa del suolo81, i dubbi sulle definizioni di ‘consumo di suolo’, di ‘superficie agricola naturale e seminaturale’ e di ‘area urbanizzata’, la mancanza di chiarezza sui principi e i criteri per le deleghe sulla “rigenerazione delle aree urbanizzate degradate”, ma soprattutto vi è un’esplicita condanna alla norma sui “compendi agricoli neorurali” e alla norma transitoria di applicazione della legge, in cui addirittura sono fatti salvi i piani urbanistici presentati prima dell’entrata in vigore della legge. Perplessità, dubbi, ma anche soddisfazione per qualche ‘passo avanti’. Non vi sarà, infatti, nessuna mobilitazione di piazza, nessuna decisa presa di posizione: opposizione e governo appaiono solidali nell’emendare i provvedimenti per trovare soluzioni che facilitino e semplifichino gli interventi. I tempi sono molto cambiati dagli anni in cui si pensava che il controllo pubblico e l’uso sociale del territorio fosse prioritario, ormai il punto centrale è il ‘fare’, che quando non può costruire nuovi volumi trova l’ocSi considerino ad esempio i commi aggiuntivi, introdotti all’articolo 1, in cui vengono descritte le finalità della legge (comma 3) e tutte le eccezioni (considerata anche la riforma del Codice Appalti) riservate alle opere strategiche.

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casione di costruire sul costruito, possibilmente cercando di aumentarne le cubature, di adeguare naturalmente per ‘migliorare’. Come e per chi migliorare non si dice, come fosse il riferimento ad un dogma non finalizzato che mira ad una catartica rigenerazione di periferie, centri antichi, qualità dei servizi, paesaggio urbano e rurale, tutto all’insegna di un nuovo rapporto con gli imprenditori, con chi investe, con il privato che ha risorse da spendere e può restituire a nuova vita82 le parti abbandonate delle città. La risposta delle Regioni I dati ufficiali sul consumo di suolo sono la verifica indiretta dell’incapacità a limitarne l’edificazione tramite leggi regionali. Le stime storiche, documentate dall’ISPRA, riguardano il periodo 1998-2014, un arco temporale in cui erano vigenti le norme di pianificazione territoriale che, come si è visto, prefiguravano quella riforma urbanistica invocata da più parti. Ebbene, in questi anni, il suolo artificiale è passato da 17.600 Kmq a oltre 21.000 Kmq ha registrato cioè un aumento di 3.400 Kmq che equivalgono ad una crescita di consumo di suolo in soli 16 anni di ben il 20% dell’esistente alla fine secolo. Gli esiti sono evidenti e distribuiti in tutta la penisola, con l’aggravante di un consumo presente anche all’interno delle aree a pericolosità idraulica elevata (P3)83. 82 La locuzione ‘restituire a nuova vita’ ricorda volutamente l’iscrizione posta sull’arcone di Piazza Repubblica a Firenze, che sigilla l’intervento ottocentesco di distruzione dell’antico Ghetto. 83 Le aree rispetto alla pericolosità idraulica sono classificate in rischio P1. pericolosità bassa, P2. pericolosità media, P3 pericolosità elevata (con possibilità di ritorno degli eventi ventennale), P4 pericolosità molto elevata. Per un’ampia analisi delle condizioni in cui si trova il territo-


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Non sono esenti da questo fenomeno neppure le Regioni virtuose. In Toscana il dato attinente alla pericolosità è pari all’ 8% e continua a crescere tra il 2015 e 2016 di un ulteriore 0,4% pur in presenza di piani strutturali e regolamenti urbanistici ‘innovativi’. Una situazione simile si registra in Emilia Romagna dove l’esistente in aree critiche è pari al 9,3% con una crescita dello 0,2%. In Lombardia la soglia è più bassa con il 5,65 del territorio urbanizzato, ma con una crescita nell’ultimo anno di 0,3%. La Liguria, oggetto di pesanti eventi alluvionali negli ultimi anni, presenta ben il 22,6% del territorio artificiale in area ad alto rischio, un quantitativo che riesce a crescere, nonostante tutto, ancora dello 0,1. Le caratteristiche del fenomeno sono molto diversificate: in Emilia Romagna il consumo di suolo è il 9,8% del territorio pari a 2.193 Kmq con un indice di dispersione elevato84, la Toscana presenta invece una percentuale minore pari al 7,12 del totale, equivalente a 1.636 Kmq ma con un indice di dispersione ancora più elevato che testimonia un modello di urbanizzazione diffuso specie lungo la valle dell’Arno, mentre la Lombardia registra il maggior consumo di suolo (13%, con ben 3.095 Kmq), ma la dispersione nettamente inferiore alla media nazionale, presentando una struttura insediativa più compatta e accentrata sull’area metropolitana.

rio italiano cfr. http://www.isprambiente.gov.it - Pericolosità e indicatori di rischio, ISPRA, 2015 84 L’indice di dispersione è il rapporto tra la superficie urbanizzata discontinua e la superficie urbanizzata totale e è utilizzato per calcolare l’incidenza della dispersione territoriale dell’assetto insediativo rispetto alla compattezza dei tessuti edificati.


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Tuttavia è proprio la Regione Lombardia che fa da capofila in questa materia, approvando nel 2014 la legge n. 31 “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato” volta ad indirizzare gli interventi edilizi solo nelle aree urbanizzate o degradate e rimandando al Piano territoriale regionale (PTR) il compito di definire i criteri per la riduzione delle previsioni di espansione che i comuni dovranno adottare nei loro piani. Il criterio della dilazione, presente nel disegno di legge nazionale, prevale nell’impostazione lombarda che ha tempi lunghi per la revisione del Piano Territoriale, l’adeguamento dei PTC provinciali e successivamente dei Piani di Governo del territorio dei singoli Comuni. La previsione dei tre/quattro anni può così raddoppiare prima che la legge possa avere qualche effetto, considerato che l’integrazione dei criteri di contenimento al piano regionale è stata adottata solo nel maggio 2017 e che, per concludere l’iter si dovrà aspettare almeno tre anni, si può affermare che solo dopo il 2021 si potranno avere strumenti basati sulla riduzione del consumo di suolo. Un’ennesima conferma di come la pianificazione arrivi in ritardo rispetto alle aspettative. La porta al consumo, peraltro, rimane aperta poiché la legge concede ai comuni la possibilità di prevedere nuova espansione se si trova nella condizione di aver realizzato tutte le nuove previsioni contenute nel piano e/o dimostri la non convenienza tecnica ed economica a riqualificare aree edificate (dimostrazione non difficile per alcuni aree industriali dove costi di bonifica e di ristrutturazione sono di gran lunga più gravosi rispetto ad una nuova costruzione). Sono, inoltre, fatte salve tutte le previsioni vi-


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genti e i piani attuativi in corso e per cui si sia fatta richiesta. La legge assume la definizione nazionale di consumo di suolo senza correttivi e pertanto non include nel calcolo le aree permeabili su cui ci sia una previsione di edificazione al momento dell’entrata in vigore del provvedimento e, dunque, sono incluse tout court nell’urbanizzato con la conseguenza che tutta l’edificazione in corso non è contabilizzata come consumo. Non solo, ma nelle more di attivazione dei limiti, i piani restano congelati così anche quanti erano intenzionati a rivedere le loro previsioni in senso restrittivo non possono farlo (come ribadito dal TAR85) poiché di fatto restano in vigore non solo le previsioni dei singoli piani, ma anche quelle che hanno perso efficacia per scadenza dei termini in quanto congelate dalla norma: “Fino a detto adeguamento sono comunque mantenute le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente”86. Va comunque rilevato come per superare questa contraddizione fra obiettivi e uso degli strumenti, la Regione Lombardia nel maggio 2017 abbia modificato la legge (art. 5) consentendo ai comuni di “approvare varianti generali o parziali del documento di È il caso del comune di Brescia che insieme ad ANCI Lombardia ha ricorso al Consiglio di Stato. 86 Per comprendere la filosofia alla base della legge è significativo il comma 7 dell’art. 5: “In tutti i casi di inerzia o di ritardo comunale negli adempimenti di cui al comma 6 (cioè la richiesta dell’approvazione di piani attuativi conformi o in variante) l’interessato può chiedere alla Regione la nomina di un commissario ad acta. Il dirigente regionale, ricevuta l’istanza, procede ai fini dell’intimazione al comune di adempiere entro il termine di sette giorni dal ricevimento dell’intimazione. Nel caso di ulteriore inerzia del comune, comunque comprovata, la Giunta regionale nomina un commissario ad acta nel termine dei sette giorni successivi alla scadenza della diffida. Il commissario ad acta così designato esaurisce tempestivamente gli adempimenti di istruttoria tecnica, adozione, approvazione e convenzionamento secondo necessità”. 85


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piano e piani attuativi in variante al documento di piano, assicurando un bilancio ecologico del suolo non superiore a zero”87. Una nuova città metropolitana Nel 2014 interviene la legge n. 56 (legge Delrio) che produce un deciso passo avanti nella riforma istituzionale degli enti locali, fondamentale fin dal nascere delle Regioni. Il provvedimento legislativo incide soprattutto sul piano del livello sovracomunale con l’introduzione delle Città metropolitane. Negli obiettivi della legge emerge come le Città metropolitane siano un nuovo soggetto istituzionale funzionale alla modernizzazione del paese. A livello internazionale sono infatti le città metropolitane che danno una spinta per la crescita, l’innovazione e il miglioramento della qualità della vita dei cittadini88. Il PTR definisce l’indice del consumo come rapporto percentuale fra la somma della superficie urbanizzata e della superficie urbanizzabile (comprensiva degli interventi pubblici e di interesse pubblico o generale di rilevanza sovracomunale per i quali non trovano applicazione le soglie comunali di riduzione del consumo di suolo ai sensi del comma 4 art. 2 della LR 31/14, e individuabili sulla base della specifica deliberazione di Giunta Regionale) e la superficie territoriale comunale. Attraverso l’indice del consumo di suolo viene monitorata nel tempo l’attuazione, ai diversi livelli di pianificazione territoriale, la politica regionale di riduzione del consumo di suolo. La soglia regionale di riduzione del consumo di suolo per destinazioni residenziali è articolata in soglie provinciali omogenee: tra il 20% e il 25% per le Province di Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Lecco, Lodi, Mantova, Pavia e Sondrio; tra il 25% e il 30% per le Province di Monza e Brianza, Varese e la CM di Milano. Il piano, inoltre, divide in Ambiti territoriali omogenei il territorio regionale comunque a seconda del fabbisogno e resta comunque possibile ad un comune che documenti che la rigenerazione non sia sufficiente al proprio fabbisogno di prevedere espansioni in area agricola. 88 C. A. Barbieri, C. Giaimo, Nuovo modello di governance istituzionale e nuova pianificazione del territorio in Italia, in Urbanistica n. 153, gennaio-giugno 2014 p. 90 e il numero monografico della rivista QCR Quader87


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Si tratta di un ente intermedio — peraltro già previsto dalla L.142/1990 che ne affidava la definizione alle Regioni e che non era mai decollato — istituito con la trasformazione delle province delle dieci maggiori città italiane, a cui vanno aggiunte le città relative alle regioni Sardegna, Sicilia e Friuli-Venezia Giulia: in totale vengono indicate 15 Città Metropolitane.89 Siamo di una forte spinta di innovazione anche se si rimane ancorati sui confini storicizzati, senza ripensare a vere aree metropolitane in rapporto ai sistemi economici e alle zone di influenza. Le critiche infatti vertono proprio su questo punto: È proprio questa considerazione che ci ha indotto a ragionare sulla perimetrazione della città metropolitana, l’argomento che ha appassionato più di qualsiasi altro le critiche alla scelta della delimitazione provinciale della legge Delrio alla quale si oppongono gli studi delle scienze regionali sui servizi ed interrelazioni funzionali, oppure visioni progettuali di riassetto territoriale […] questione che, tuttavia, non riduce, semmai amplifica, la questione principale sul tappeto: l’estrema frammentazione della struttura urbana italiana e la sua multipolarità90.

Nella legge è previsto — novità meno eclatante, ma forse più significativa — l’incentivo alle Unioni e Fusioni di

ni del Circolo Rosselli, La città metropolitana. Il caso di Firenze, n.1/2010 Alinea, Firenze 2010. 89 Genova, Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Reggio Calabria, Messina, Catania, Palermo, Cagliari. In base a questa suddivisione è interessante mettere in evidenza i dati relativi al 2017che registrano in Italia che nelle aree metropolitane vivano 47.288.551 persone su un totale di 60.665.551, che risultano concentrati su una superficie totale di 121,958 kmq ovvero su poco più di un terzo del territorio nazionale (302.072 kmq). 90 G.DeLuca,F.D.Moccia,(acuradi)PianificarelecittàmetropolitaneinItalia. Interpretazioni, approcci, prospettive, INU Edizioni, Roma, 2017 p. 11


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Comuni che in una realtà come quella italiana, composta da una moltitudine di piccoli e piccolissimi enti locali91, può rendere più efficiente non solo la politica di gestione dei servizi e quindi ridurre la spesa, ma anche operare un controllo più coordinato del territorio. In sostanza la riforma prevede un sistema con Regioni e Comuni quali enti elettivi di primo grado, e Città metropolitane, nuove Province, e Unioni di Comuni quali enti di secondo grado. Le conseguenze per la pianificazione sono consistenti sia per le competenze attribuite che per la funzione determinante delle Città metropolitane in quanto il piano strategico entra a far parte a pieno titolo degli strumenti di pianificazione, dopo numerose esperienze condotte su iniziativa del tutto volontaristica. Il piano, nella definizione data dalla legge, è un “atto di indirizzo per l’esercizio delle funzioni dei comuni compresi nell’area” senza specificare contenuti e modalità del piano, si delinea solo una temporalità molto breve di tre anni.92 Dunque si assommano, fra eredità delle province e nuove competenze alle Città metropolitane, tre tipi di piani: il Piano strategico, il Piano territoriale generale93 e il Piano territoriale di coordinamento oltre al Piano della mobilità. La legge indica una soglia di 10.000 abitanti. Non mancano numerosi esempi di piani strategici mutuati sull’esperienza dell’Europa settentrionale Torino, Firenze, Bologna, ecc. piani con ridotta capacità come ricaduta sulla pianificazione urbanistica. Firenze addirittura dopo anni di lavoro non lo prende in considerazione. 93 La legge n. 56/14 art.1 comma 44 b), “pianificazione territoriale generale, ivi comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture appartenenti alla competenza della comunità metropolitana, anche fissando vincoli e obiettivi all’attività e all’esercizio delle funzioni dei comuni compresi nel territorio metropolitano”. 91

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Il piano strategico delinea, in ambito sovracomunale, lo sviluppo economico del territorio finalizzato ad un riequilibrio fra aree di sviluppo e aree di marginalità, con una strategia flessibile che deve adattarsi ai veloci cambiamenti sociali ed economici e che prevede, non a caso, un aggiornamento triennale. Tuttavia, ancora una volta, molto resta in sospeso perché fra enunciazioni di principi, procedimenti non definiti e carenza di contenuti, manca una ridistribuzione delle competenze di gestione. Come sottolineano De Luca e Moccia, la rivendicazione di una pianificazione operativa delle città metropolitane è quella che deve farsi più spazio tra gli enti territoriali in cui si inserisce (i comuni da una parte e le regioni, dall’altra) a cui dovrà richiedere l’attribuzione di competenze. Per poter gestire programmi compiuti, avrà bisogno perlomeno delle risorse finanziarie, da una parte, e, dall’altra, del potere di conformazione del suolo finalizzato alla realizzazione dell’opera, oggetto di legge regionale. Questa innovazione nella pianificazione può essere percepita dai comuni come ingerenza nei loro poteri e come lesiva dell’autonomia della comunità locale.94

Alla città metropolitana è inoltre affidato il compito di definire un piano strutturale in grado di delineare la riqualificazione urbana, la salvaguardia del paesaggio e la qualità ambientale tramite indirizzi puntuali, con una fase operativa che vede i singoli comuni impegnati a dettagliare le indicazioni in conformità con quanto espresso dal quadro generale. Ma è inutile sottolineare ancora una volta che la titolarità urbanistica resta ai comuni e quindi solo una forte capacità di indirizzo e una volontà politica

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Sempre G. De Luca, F.D. Moccia, Op.cit. p. 20


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unitaria fra i comuni potrà rendere operative le Città metropolitane. Occorre peraltro ricordare che la legge era inserita nel programma di riforma costituzionale (bocciata dal Referendum del dicembre 2016) che il governo Renzi aveva previsto e che modificava profondamente il rapporto fra Stato e Regioni con la definitiva soppressione delle province e un ruolo maggiore delle Città metropolitane. La legge, inoltre, va inquadrata all’interno delle politiche europee perché mette in grado di recepire le risorse che derivano dalla programmazione dei fondi comunitari 2014-2020, che rispondono ad una profonda revisione nella strategia dell’UE sia nel ripensamento dello sviluppo urbano e delle modalità di governo, in un processo che tende a privilegiare i territori metropolitani o ‘metropolizzati’, cioè sistemi urbani di medie e piccole città, verso cui vengono indirizzati i fondi strutturali in un percorso di regionalizzazione delle politiche di intervento. Superata la fase della competitività fra città su obiettivi omogenei, si punta ad una cooperazione e ad una integrazione fra città e comuni caratterizzati da capacità diverse. Sono numerose le missioni che vengono affidate alle città, ma soprattutto è evidente come, all’interno della cornice delle sfide aperte con il programma Europa 2020, il loro ruolo sia strategico per lo stesso sviluppo del modello economico e sociale europeo95.

Orientamenti e tendenze La crisi economica che investe il paese e soprattutto il settore edilizio ha conseguenze sul ritardo della ripresa d’in95 E. Carloni, M.V. Pineiro, Le città intelligenti e l’Europa, tendenze di fondo e nuove strategie di sviluppo urbano, in www.regione.emilia-romagna.it/affari_ist/Rivista_4_2015/


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teresse sulla legge urbanistica. Si avverte sempre più una non rispondenza della strumentazione urbanistica ai problemi attuali quali la messa in sicurezza del patrimonio storico, la riqualificazione delle aree abbandonate, il potenziamento del sistema infrastrutturale. Ambiti che si scontrano con una pianificazione regionale a macchia di leopardo, simile ma discontinua, con denominazioni diverse, normative differenti e in qualche caso opposte, in un quadro che molti definiscono caotico96. Il governo del territorio non appare più riconducibile ad interpretazioni unitarie, ma sembra ristretto a schemi meccanici e procedure burocratiche, tanto che non pochi riflettono sull’utilità delle molteplici regole regionali tutte diverse che ritardano le scelte anche a causa di un “coinvolgimento di troppi attori spesso allunga il tempo delle decisioni pubbliche”97. Sono anni di grandi trasformazioni, con un sistema sociale che cambia continuamente in relazione ad un’economia che ha obiettivi sempre più ravvicinati, quasi immediati (hic et nunc), e che corrisponde ad un presente incerto e ad un quadro politico che muta con velocità. La riforma urbanistica che ha contraddistinto un dibattito culturale, politico e pubblico durato decenni, ha perso di interesse, le grandi strategie per il futuro affascinano po-

96 Un tema peraltro ripreso in uno dei capitoli della Riforma istituzionale del governo Renzi, poi bocciata al Referendum del 4 dicembre 2016. 97 La frase riportata è di Mantini e va relazionata alle contestazioni delle comunità locali della Val di Susa sulla TAV Torino-Lione o sulla realizzazione del TAP (Trans Adriatic Pipeline), l’oleodotto che porterà il gas dall’Azerbaijan all’Italia che vede opposizioni popolari e critiche da parte della Regione Puglia contro l’estirpazione degli ulivi.


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chi, mentre pressanti sono i problemi del ‘buon’ funzionamento del vivere quotidiano. Nonostante i provvedimenti presi fin dagli anni ‘90 sul tema del recupero, il miglioramento della qualità di vita all’interno delle città non sembra registrare sensibili progressi né sembrano incidere particolarmente gli scenari proposti dai vari piani strutturali, strategici, regolativi, ecc. Non solo i fenomeni d’uso della città sono fuori controllo (si pensi al turismo nelle città d’arte con Venezia che tenta di mettere i tornelli per tentare di controllare i flussi alla stazione ferroviaria), ma la maggior parte degli interventi di trasformazione, spesso reclamizzati e pomposamente definiti di ‘riqualificazione’ (un termine ampiamente abusato assieme all’altro ancora più impegnativo di rigenerazione urbanistica con la quale si prefigurano quadri urbani paradisiaci), non hanno prodotto i risultati positivi sperati e, per lo più, si sono risolti in operazioni immobiliari speculative con pesanti densificazioni in contesti urbani già in crisi. Il funzionamento delle città, dopo decenni di piani, è carente nell’efficacia e lontano dai cittadini. Siamo di fronte ad una pianificazione sempre più residuale nei confronti della società italiana e sempre più incomprensibile nelle forme e nei contenuti rispetto alla linearità dei vecchi PRG, mentre si continuano a trascurare i temi dell’ambiente e della vivibilità urbana che hanno un’immediatezza d’impatto per tutti. Le questioni prioritarie, infatti, non sono la forma e le procedure dei piani, ma i loro contenuti, gli obiettivi e il conseguimento di risultati verificabili, che si riflettono sulla vita urbana in termini di mobilità, di qualità dell’aria, di assottigliamento delle risorse am-


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bientali e di disponibilità di spazi pubblici98. Una città che nella sua trasformazione deve essere coniugata con il concetto di sostenibilità. Pertanto sembra che tutti siano d’accordo che la città debba evolversi in maniera equilibrata nel rispetto delle condizioni ambientali, che sono da salvaguardare e da potenziare con grande attenzione alle risorse esistenti in termini di spazi naturali, spazi verdi, sistemi infrastrutturali da recuperare, sistemi edilizi da riqualificare in termini energetici e sismici. Un orientamento comune e condiviso più dal punto di vista teorico che nella sua traduzione in buone pratiche. Accantonata la riforma, quello che interessa è ciò che si trasforma e come si trasforma. La transizione verso la sostenibilità urbana o resilienza urbana, come spesso viene chiamata, sono termini centrali della città di oggi, che non è riconducibile al senso e ai modelli con cui veniva analizzata e pianificata la città moderna, né bastano le interpretazioni approssimative che raccontano di un sistema urbano diffuso difficilmente circoscrivibile, in cui le questioni ambientali diventano sempre più pressanti (e non risolte) in mancanza di capacità compensatorie. Nel secondo decennio del XXI secolo, sul territorio si scaricano con una velocità e una violenza senza precedenti processi sociali, immigrazioni e spostamenti continui che aprono scenari sempre diversi, dove il tempo della breve durata impone le sue regole e mette in crisi il piano ancora basato su una visione statica, su tempi medi e lunghi che non collimano con le esigenze in atto, ma che, L’INU, raccoglie questa esigenza, e ne fa il tema dei suoi congressi ponendo al centro del dibattito il tema della città, si vedano “La città oltre la crisi” Livorno, 2011; “Città come motore di sviluppo del Paese” Salerno, 2013

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comunque esiste e non può essere ignorato né lasciato ad una logica priva di regole condivise e che si affida al caso per caso. Lo stesso tema, tanto popolare fra gli addetti ai lavori, della densificazione è da rivedere in un sistema capace di coniugare e relazionare positivamente le reti di diversità e di contrapposizioni fisiche e sociali: i pieni e i vuoti, la temporaneità e la permanenza, la conservazione dell’antico e la sperimentazione di nuovi progetti e così via. Ma la risposta tarda a venire e, del resto, non può venire solo dall’apporto disciplinare: è un problema politico, profondamente etico, drammatico nelle sue proporzioni che la società tutta deve affrontare. Il territorio riflette le politiche ma non determina le scelte, anzi le recepisce e le evidenzia. Determinanti sono le condizioni e la qualità della vita in base alle azioni proposte che, a loro volta, derivano dagli scopi prefissati, dalle finalità che si vogliono raggiungere e dalle modalità con cui si intendono raggiungere. Ad una politica senza priorità sociali e senza valori, non può che corrispondere un territorio confuso, consumato, senza qualità. L’urbanistica è una ‘disciplina applicata’. Dove il termine disciplina va letto nelle sue molteplici accezioni: è una materia con un suo campo di applicazione, è formazione ed è un insieme di regole finalizzate al conseguimento di obiettivi e alla convivenza della comunità. Dunque è una disciplina che si applica al territorio che è un bene prezioso, ma la cui continua trasformazione tende a rimettere sempre in discussione le soluzioni proposte. In quest’ottica, fondamentali diventano i fini, rispetto ai quali deve esistere un sistema di regole che connotano e caratterizzano la disciplina, ma rispetto al quale gli strumenti ovvero


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le modalità con cui si applicano possono (o meglio, debbono) cambiare. In questione non è l’obsolescenza degli strumenti, ma le finalità con cui si orientano le azioni indicate negli strumenti che è inevitabile, ma per chi e con quali finalità si pianifica. Forse uno dei motivi della resilienza della legge del 1942 sta anche nel fatto che non entrasse nel merito delle modalità di redazione del PRGC, ma indicasse solo una dimensione territoriale e un ente di riferimento. Su questo dobbiamo riflettere. Dobbiamo aver chiaro, cioè, se il fine che si intende perseguire è il conseguimento di un benessere (star bene, viver bene) distribuito più equamente possibile nella popolazione o se l’obiettivo è favorire uno sviluppo comunque e dovunque, senza valutare — almeno apparentemente — chi perde e chi profitta. Gli urbanisti negli ultimi trent’anni hanno discusso troppo sugli strumenti e hanno perso di vista la ‘ragione sociale’ della disciplina. Sono stati abbagliati dalle chimere e dai miraggi che apparivano e svanivano velocemente come le mode e le stagioni. Cambiare opinione è stato per troppo tempo un pregio, una necessità per non sentirsi ai margini del dibattito e della professione, una sorta di conformismo disciplinare che si è mosso in un contesto di posizioni e proposte prive di una bussola collettiva che le orientasse. Le stesse politiche del fare finalizzato e attivo non possono essere autoreferenziali, né essere frutto dell’estemporaneità dell’improvvisazione, ma devono essere basate su consapevolezza, sapere, responsabilità e solidarietà, pena l’incapacità di produrre risultati positivi. Non scandalizza più nessuno affermare che il PRG è superato nella sua dimensione territoriale, nella sua staticità


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e nelle difficoltà di essere attuato: ne conosciamo i motivi, li abbiamo analizzati per decenni. È, infatti, inadeguata e carente la dimensione territoriale del comune, sono inadeguati vincoli e limiti fissati per lunghi periodi, è insensato pensare che per essere attuato nella sua parte pubblica l’ente preposto non sia dotato di risorse, perché la parte pubblica è prioritaria e deve essere garantita. Tutto questo gli urbanisti lo sanno benissimo, ma dirlo era troppo banale, troppo vecchia maniera e, soprattutto, non dava nessuna copertura alla politica che nel suo ondivago vagare aveva bisogno di manipolare quanto avveniva sul territorio, di trarne profitto (la filiera del mercato dal permesso di costruzione, agli appalti alla compra vendita è nota), salvo poi dare facili prebende per avere più ampi consensi e allora via libera a condoni, programmi caritatevoli e quant’altro. Lo sappiamo, lo sapevamo, ma abbiamo voluto ignorarlo. Non ci meravigliamo certamente più se qualcuno dice che il piano come tale ha perso d’interesse e d’importanza in quanto non è in grado di conseguire risultati e che altre modalità di indirizzo e di azione possono sostituirsi al piano, proprio perché il piano è uno strumento, un mezzo, e non un fine o un traguardo da conseguire. Anche se, sarebbe opportuno che il dibattito disciplinare si concedesse un momento di riflessione sui contenuti, sulla sua missione (o, al limite, se ancora si voglia riconoscerle una missione) e sulla capacità di indirizzare e/o correggere i fenomeni economici e sociali che attraverso i piani diventano forme, volumi, aggregazioni e relazioni sul territorio anziché veleggiare verso obiettivi sempre più nuovi e apparentemente più raggiungibili, più urgenti e, soprattutto, più concreti in termini di volumi e profitti.


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Tutto è rapido. Tutto sembra scorrere ad una velocità eccezionale. Dall’inizio del nuovo secolo si sono accesi interessi, che poi sono stati abbandonati: il paesaggio e la difficile ricerca della bellezza, le città da rigenerare in cui si compongono mosaici di diseguaglianze, la città metropolitana e la dimensione di area vasta che non riesce a decollare e, ancora, il consumo di suolo e le sue leggi incerte che rinviano il problema anziché stroncarlo. Una catena di innamoramenti intensi quanto brevi che sembrano finire sempre in un amore nuovo, senza consolidare alcun rapporto alle spalle. Così si sono aggiunti, dopo Parigi 2015, i temi della smart city, delle città resilienti, dei bio-eco-quartieri. Nella politica per le città dobbiamo spostare il fuoco dal consumo di suolo (che si fissa sull’aspetto più eclatante dell’urbanizzazione) al consumo di ambiente: i danni causati dagli eventi calamitosi, dalla crisi idrica e dai picchi di calore, oppure la povertà energetica sono di natura economica e sociale, minano alle basi l’idea di benessere99.

Tutto assolutamente condivisibile, ma come attuarlo? con quali capacità culturali e politiche, e, soprattutto, per quali cittadini e per quale comunità. Giriamo attorno allo stesso problema, ai molti aspetti della stessa medaglia, al territorio, dove tutto si tiene, dove nulla può avere una trattazione separata pena il fallimento. Quel fallimento che costatiamo tutti i giorni. Eppure, pervicacemente, si tende a privilegiare le particolarità e si elude la complessità dei fenomeni che caratterizzano il nostro tempo, tanto che c’è chi ci ricorda che per incidere nella realtà più che

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Cfr. P. Gabellini, Introduzione al XXVIII congresso INU, 2013.


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fare piani onnicomprensivi, bisogna dare attenzione ai progetti e orientare “l’urbanistica italiana verso una nuova forma progettuale che utilizzi una varietà di strumenti adeguati alla scala e alla natura delle questioni da affrontare”100. Ancora si evoca la parola ‘strumento’, salvifica di per sé, al di fuori dei suoi contenuti che non si esplicitano, ma che trovano sempre nuove denominazioni (quante ne abbiamo sentite): torna il masterplan (a lungo abbandonato) “forse il solo in grado di illustrare la realtà e gli effetti delle trasformazioni proposte” che altro non è che un “piano preliminare a carattere generale”, uno strumento progettuale spesso utilizzato nelle grandi operazioni immobiliari che, con sfoggio di rendering e vedute varie, presenta suggestioni architettoniche accattivanti e spesso soltanto virtuali. Illustrare la città per immagini, come fosse un corpo autonomo, un oggetto e non un organismo e un insieme di relazioni che vive, si evolve e si trasforma, è — ed è stato — un altro retropensiero degli urbanisti italiani: l’urbanistica, astruso enigma, per comunicare con i cittadini e per farlo deve disegnare immagini accattivanti, deve reclamizzare sé stessa e il suo divenire. Comunicare è un’altra parola in sintonia coi tempi e, naturalmente, si comunica per immagini e con brevi incisivi scritti (twit): tutto deve essere semplice, comprensibile, facile. Nasce l’urbanistica figurata che indica come ‘comporre’ una città dilatata e resiliente, come darle forma e organizzazione è tema proprio di urbanisti e architetti. Le proposte avanzate alle origini della città moder100 Cfr. F. Oliva, Editoriale, in «Urbanistica» n.152, luglio-dicembre 2014.


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na… costituiscono riferimenti abbastanza convincenti. In più occasioni ho insistito sulle ‘figure’ intese come ‘composizione senza modelli’. Modello e regola hanno una lunga storia di contrapposizione (Choay 1986) e la fortuna del primo consiste nell’essere rassicurante. Eppure oggi possiamo darci solo alcune regole affidandoci all’interpretazione e alla responsabilità dell’interprete, alla sua capacità di argomentare e convincere, insieme con la sua disponibilità ad aggiustare101.

Interpretare, argomentare, convincere: una triade affasciante che affida ai ‘capaci di comunicare’ la responsabilità di decisioni che riguardano tutto e tutti e di cui ognuno per la sua parte, nei diversi ruoli, dovrebbe essere compartecipe e responsabile. Al di fuori di questo contesto collettivo l’urbanistica è incapace di rappresentare in modo globale le dinamiche e si riduce ad un collage, un ‘rammendo’ sempre più simile ad un atto progettuale interpretativo, intriso di creatività che avvicina la pianificazione sempre più all’architettura e rinuncia ad una missione programmatrice. I problemi sembrano tornare al punto di partenza. E allora come si traduce in politiche territoriali tutto questo? Che effetti ha sulle leggi nazionali e regionali? I due mondi non sono affatto scollegati, anzi, si plasmano a vicenda e la cultura urbanistica ha manifestato non poche connivenze e complicità, adeguando le modalità, definendo strumenti e pratiche utili alle finalità espresse dal potere. Le oscillazioni politiche fra centro-destra e centro sinistra non hanno gran che influito sull’indirizzo della politica del territorio degli ultimi 30 anni: entrambe hanno teso a P. Gabellini, Grandi questioni e rappresentazioni della città, in «Urbanistica» n.156, luglio-dicembre 2015 p. 23

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privilegiare l’intervento privato, in nome di una libertà di concorrenza, peraltro raccomandata dall’Europa. Né, nel corso della XVII legislatura si è avuta una svolta significativa, anzi si è proceduto in modo altalenante senza definire una riforma del settore e un cambiamento della sua legge quadro nazionale. La parola è passata alle iniziative regionali, che possiamo significativamente leggere attraverso due Regioni: la Toscana e l’Emilia Romagna, due tradizionali regioni rosse, che hanno seguito due orientamenti molto diversi fra loro. La Toscana, a meno di dieci anni dalla seconda versione della legge di governo del territorio, ha varato, dopo lunghe discussioni, nel 2014, la legge n. 65102, ispirata al progetto Migliore e ai contributi delle personalità vicine a Eddyburg. La legge, pur mantenendo un impalcato simile alla precedente legge 1/2005 specifica i contenuti di alcuni principi, chiarisce parametri ritenuti generici e introduce modalità di gestione, in cui la Regione torna ad assumere un ruolo centrale ammorbidendo la forte sussidiarietà che aveva contraddistinto la versione del 2005 e inserisce per tutti gli interventi che impegnano suolo agricolo (considerato come paesaggio da preservare) l’approvazione da parte della Conferenza di co-pianificazione 103. Il testo, Il presidente della Regione è Enrico Rossi, l’assessore competente è Anna Marson. 103 Cfr. art 25 della LR n.65/2014. La conferenza di co-pianificazione è indetta fra gli enti interessati dove la Regione può invitare anche i comuni confinanti su cui possono ricadere gli eventuali effetti dell’intervento e nel cui giudizio “Il parere sfavorevole espresso dalla Regione è vincolante, salvo che in presenza di piano strutturale intercomunale” e ancora si istituisce una Conferenza paritetica inter- istituzionale con la quale si valutano i piani ritenuti in contrasto con altri atti di pianificazione territo102


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nell’intento di limitare le varie interpretazioni di volta in volta assunte nella redazione degli strumenti di pianificazione, definisce alcuni termini ormai diventati comuni nell’operare come ‘invarianti strutturali’, “statuto dei luoghi” e introduce un nuovo parametro — oggetto di ampie riflessioni da parte della componente urbanistica territorialista che guida la filosofia della legge — il patrimonio territoriale, inteso come “l’insieme delle strutture di lunga durata prodotte dalla coevoluzione fra ambiente naturale e insediamenti umani, di cui è riconosciuto il valore per le generazioni presenti e future”104. Il salto qualitativo della legge è la chiara distinzione fra territorio agricolo e territorio urbanizzato entro il cui perimetro è possibile operare interventi edilizi di riuso trasformazione o saturazione e il territorio rurale 105, dove sono evidenziate le aree di valore paesaggistico o storico, ma anche gli ‘ambiti periurbani’ nel quale è esclusa ogni edificazione a scopo residenziale: il famoso ‘rigo rosso’ fra un territorio nel quale operare e un altro da salvaguardare. Le novità non sono solo d’impostazione generale, ma anche strumentali, infatti è da rilevare che, mentre nella LR 1/2005 si operava la distinzione fra atti di pianificazioriale, che in caso di esito sfavorevole, rende inefficace il provvedimento adottato dal comune. 104 Cfr. art. 3. 105 Cfr. art 64, “Il territorio rurale” che recita: “Ai fini della presente legge il territorio rurale è costituito: a) dalle aree agricole e forestali individuate come tali negli strumenti della pianificazione territoriale urbanistica di seguito denominate “aree rurali”; b) dai nuclei ed insediamenti anche sparsi in stretta relazione morfologica, insediativa e funzionale con il contesto rurale, di seguito denominati “nuclei rurali”; c) dalle aree ad elevato grado di naturalità; d) dalle ulteriori aree che, pur ospitando funzioni non agricole, non costituiscono territorio urbanizzato.”


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ne (PIT, Piani strutturali e atti di governo quali il Regolamento urbanistico e i piani attuativi) e gli atti di governo, con la LR 65 tutti gli strumenti diventano atti di governo sia quelli di pianificazione territoriale sia quelli di pianificazione urbanistica all’interno dei quali viene superata la definizione di ‘regolamento’ a favore di un più immediato Piano operativo. La legge assicura ampio spazio alla partecipazione dei cittadini nel corso della formazione degli strumenti, grazie al ruolo del ‘garante della partecipazione’ (che sostituisce quello del garante dell’informazione della legge precedente) e definendo linee guida omogenee per tutte le amministrazioni con riferimento alla LR 46/2013. Le nuove disposizioni si pongono anche l’eterno obiettivo di abbreviare i tempi della pianificazione poiché, nonostante tutto, l’iter di piano impegna mediamente sei anni dall’inizio (incarico) alla sua approvazione; tempi ritenuti ancora troppo lunghi e che svalutano l’azione stessa del piano. Per evitare ciò è concesso un periodo di due anni dall’avvio del procedimento per la redazione del piano (strutturale o operativo) oltre quale, per i comuni inadempienti, è ammessa la sola attività edilizia ordinaria. L’area vasta è introdotta e incentivata come aggregazione volontaria a dimensione variabile106 per la definizione del Piano Strutturale, rispetto al quale la Conferenza di co-pianificazione è un passaggio fondamentale. Sempre in sede di Conferenza sono valutate, oltre le infrastrutture, le localizzazioni delle grandi e medie strutture di vendita e le aperture dei centri commerciali per i loro 106

Riprendendo un’impostazione presente nella LR 74/84.


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effetti sul territorio. Un tema che suscita polemiche tanto che il 24 dicembre il governo (presidenza Renzi) impugna la legge poiché gli articoli che riguardano le modalità proposte di approvazione della localizzazione delle grandi strutture commerciali ostacolano la libera concorrenza e sono in contrasto con la legge nazionale che investe una materia di competenza esclusiva statale. Risultano in contrasto con le disposizioni nazionali anche gli articoli sulle sanzioni per gli abusi edilizi. Un intervento che sembra un attacco ai principi fondativi della legge rivolta a dare particolare attenzione al consumo di suolo e ad ostacolare il prolificare di centri commerciali che mettono in crisi il sistema di vendita di vicinato ritenuto vitale per il sostegno e il presidio delle zone residenziali. Le norme sulle sanzioni saranno poi emendate dalla Corte Costituzionale, ma l’impalcato della legge resiste e non vi saranno modifiche sostanziali neppure dopo le elezioni del 2015107. La legge toscana appare, dunque, anticipatrice di alcuni dei principali temi richiamati nelle varie proposte di riforma giacenti al Parlamento, in quanto affronta il consumo di suolo e la salvaguardia del territorio agricolo. Il testo è salutato da molte parti come l’avvio di una pratica di buon governo che deve essere alla base di ogni attività di trasformazione del territorio e soprattutto come un riferimento autorevole per la messa a punto di processi in grado di salvaguardare il territorio rurale e il paesaggio. 107 Le elezioni regionali del 2015 che confermano Enrico Rossi alla guida della Regione con una maggioranza PD; cambia l’assessore (Vincenzo Ceccarelli) e, per quanto riguarda la legge, vi sono alcune precisazioni, approfondimenti e semplificazioni.


Un tema questo che la Regione Toscana porta avanti parallelamente con l’elaborazione del Piano paesaggistico che viene approvato come “integrazione paesaggistica del PIT” nel 2015 in accordo di co-pianificazione con il MiBact108 e che ripropone una metodologia e un approccio già applicati da Alberto Magnaghi nel piano paesaggistico della Puglia109. L’esperienza toscana, contribuisce ad arricchire il quadro delle regole con alcune innovazioni fra cui l’incentivo alla partecipazione nell’elaborazione di ogni piano, la sollecitazione ad un corretto uso delle risorse e l’impegno, rivolto ad amministratori e cittadini, alla valorizzazione di quel patrimonio territoriale in cui la stessa comunità è chiamata a riconoscersi. Un contributo che ha solo parziali riscontri nel dibattito nazionale in una fase in cui il 108 Il piano alla sua presentazione suscita numerose polemiche specie per le prescrizioni sulle aree di escavazione di marmi sulle Apuane, con emendamenti del gruppo di maggioranza in commissione consiliare che saranno riviste poi dal Ministero e dall’intervento dello stesso presidente Rossi. 109 Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR) della Puglia, è in vigore dal 16 febbraio 2015 (delibera della Giunta Regionale n. 176/2015). Nel piano i principali elaborati sono: l’Atlante del Patrimonio, lo Scenario Strategico, il Sistema delle Tutele e gli Ambiti Paesaggistici. La Puglia promuove anche l’Osservatorio del Paesaggio con capacità di progetto e intervento per l’attuazione del PPTR e con funzioni conoscitive e propositive per la conservazione, fruizione e valorizzazione del patrimonio paesaggistico della Regione.


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tema del consumo di suolo è ormai un argomento che travalica i confini disciplinari, ma verso il quale non si riesce a prendere concreti provvedimenti. Alla vigilia di importanti ‘compleanni’, come quello dei 75 anni della legge urbanistica nazionale e dei 50 anni del Decreto ministeriale sugli standard urbanistici, si verifica un generale blocco delle iniziative e dei progetti di legge, che si arenano in Parlamento fra Commissioni e Aula, fra emendamenti e discussioni, mentre a livello culturale e accademico si sviluppa una contrapposizione sterile, terociamente ideologica, su obiettivi e modalità. Alla fine del 2017, una nuova legge urbanistica viene varata in Emilia-Romagna, ma se nel caso toscano restiamo nel solco tracciato dalle precedenti esperienze, la Regione Emilia-Romagna segue un percorso assai diverso e, in qualche modo, antitetico. La nuova legge presentata nel 2016, approvata in giunta all’inizio del 2017 e definitivamente approvata nel dicembre dello stesso anno, pur coniugando consumo di suolo, salvaguardia del territorio rurale e partecipazione, si distingue per le sue applicazioni che si rifanno a modalità definibili ‘tradizionali’. Così la Regione che da sempre ha tentato forme di strumentazione, ponendosi come capofila di un processo innovativo svolto nel solco dell’INU, con la LR. n.24/2017 compie un deciso cambiamento che si annuncia già nel titolo “Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio”, in cui scompare la dizione onnicomprensiva ‘governo’ sostituita non a caso da ‘uso’, un termine decisamente urbanistico che riprende il titolo della prima legge regionale degli anni Settanta: “Tutela e uso del territorio”.


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La legge punta a conseguire obiettivi di contenimento di consumo di suolo, privilegia la città (“la città… in testa”) e la rigenerazione urbana nei processi di trasformazione, si propone di aumentare la competitività del sistema regionale (semplificazione, flessibilità, tempi di decisione delle PA), favorisce la tutela del territorio agricolo e del patrimonio storico culturale, ma si distingue dalle altre in quanto sancisce il ritorno ad un unico strumento urbanistico comunale, il PUG, Piano urbanistico generale110. Entro cinque (tre per l’avvio dei nuovi PUG con decadenza delle previsioni di espansione) anni i comuni dovranno adeguare la loro strumentazione avviando “il procedimento di approvazione di un’unica variante generale diretta a unificare e conformare le previsioni dei piani vigenti ai contenuti del Piano urbanistico generale”. Il PUG nasce con l’intento di semplificare e valorizzare i rapporti negoziali nella fase operativa cioè favorire i progetti di trasformazione della città archiviando il concetto del piano a due livelli, strutturale e operativo, che per decenni era stato considerato come la soluzione delle criticità gestionali dell’urbanistica111. Il piano strutturale, già in crisi perché giudicato pleonastico nella sua parte strategica e sostituito nella conoscenza dello stato dei luoghi 110 Il PUG sostituisce PSC e RUE e introduce l’Accordo Operativo sostitutivo di POC e PUE. 111 Cfr. inizio dell’art. 30 “Strumenti urbanistici dei Comuni e delle loro Unioni e piani intercomunali”: “1. Allo scopo di semplificare la pianificazione urbanistica comunale e valorizzare i processi negoziali nella definizione della fase operativa degli interventi, la pianificazione urbanistica comunale si articola in: a) un unico Piano urbanistico generale (PUG), che stabilisce la disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio, con particolare riguardo ai processi di riuso e di rigenerazione urbana…”.


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(che è garantita dagli organismi di area vasta), è superato in favore di un solo strumento dei possibili interventi di trasformazione (masterplan delle trasformazioni), che stabilisce la “griglia dei vincoli strutturali e la strategia per la qualità urbana e ambientale dei nuovi insediamenti” mentre “la disciplina urbanistica di dettaglio e l’attribuzione dei diritti edificatori è demandata alla stipula di accordi con gli operatori (Accordi operativi/art.38)”112 che definiscono il progetto urbano, la valutazione della sostenibilità ambientale (Valsat), il piano economico finanziario e la convenzione urbanistica (impegni, tempistica, garanzie dell’operatore). Anche in questa legge è centrale il perimetro del territorio urbanizzato, dove intervenire con il riuso, la riqualificazione, sostituzione e con ‘interventi di addensamento’ prospettando un piano con una logica assai simile al PRG della legge del 1942. Nel territorio urbanizzato sono individuati anche i centri storici dei quali viene attenuato il concetto di bene unitario in quanto, pur vietando le modificazioni dei caratteri e delle destinazioni d’uso, per motivi di interesse pubblico sono ammessi interventi in deroga “da attuare attraverso l’approvazione di accordi operativi o di piani attuativi di iniziativa pubblica. Il PUG individua inoltre le parti del centro storico prive dei caratteri storico architettonici, culturali e testimoniali, nelle quali sono ammessi azioni dirette di riuso e rigenerazione urbaCfr. si vedano le slide illustrative della legge riportate nel sito della Regione, datate 31.01.18 e riferite all’assessore Raffaele Donini e al dr. Giovanni Santangelo, in http://territorio.regione.emilia-romagna.it/codice-territorio/ultimi-aggiornamenti/slide-illustrative-della-lr-24-2017. Nel testo il virgolettato fa riferimento alle slide Santangelo n. 19 e 23, 24 e alla n. 7 di Donini (impresa agricola) e 9 (città).

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na”113. La salvaguardia dei centri storici, le zone A del decreto n.1444 del 1968, appare in qualche modo messa in discussione, proprio dalla Regione che ne aveva fatto, con successo, il suo cavallo di battaglia, definendo un modello di analisi ed intervento esemplare. La legge, inoltre, nell’intento di semplificare e facilitare le decisioni, attenua il suo ruolo di controllo sulle trasformazioni in modo da favorire l’attività agricola (“impresa agricola: bene comune”), e, in tal senso, è significativa la possibilità di realizzare in territorio rurale, anche interventi di nuova edificazione, resi possibili tramite la presentazione di un PRA (Programma di riconversione o ammodernamento dell’attività agricola) e come, in questo caso, il controllo avvenga a campione114. La nuova legge emiliana, ripercorrendo alcuni concetti propri della legislazione della Lombardia, antepone l’intervento alla pianificazione, dove l’uso (non a caso richiamato nel titolo) si riverbera sull’impalcato della legge, che si articola dal particolare al generale secondo la sussidiarietà dal basso verso l’alto ovvero dai piani urbanistici comunali alla pianificazione territoriale (Piano territoriale metropolitano PTM, Piano di area vasta PTAV che in parte riprende i contenuti dei PTCP115) che è, di fatto volon113 Cfr. art. 32 “Perimetro del territorio urbanizzato, tutela del centro storico e altre invarianze strutturali di competenza comunale”, comma 7. 114 Cfr. “Territorio rurale” art.36, comma 2. 115 Un’inversione di tendenza in una Regione in cui l’importanza della pianificazione territoriale è stata un punto di riferimento fin dagli anni Sessanta (si pensi al Piano Territoriale Regionale elaborato dal Provveditorato Regionale OO.PP.). Il cambiamento è rilevabile anche dallo spazio dedicato dalla LR 24/17: ben dieci articoli per illustrare ruolo e contenuti del PUG, solo tre sintetici articoli per i tre strumenti di pianificazione sovracomunale.


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taria, pur avendo la capacità di conferire quote di edificabilità ai comuni compartecipi in base a valutazioni strategiche e di stabilire meccanismi di perequazione territoriale a favore dei comuni stessi. Pur declinando come obiettivo principale il blocco al consumo di suolo, la legge consente per tutti i comuni un consumo standard pari al 3% dell’attuale territorio urbanizzato, una soglia assai elevata che non contempla i possibili accordi in deroga, rimandando tempi e modalità per stabilire una limitazione a successivi momenti. Ma l’aspetto forse più sorprendente è l’abdicazione del ruolo pubblico della pianificazione, con l’inserimento nella gestione ordinaria della partecipazione attiva dei privati secondo le modalità peraltro presenti in alcune delle proposte parlamentari dello stesso periodo116. Gli artt. 38 e 39 della legge stabiliscono, infatti, che il PUG si attui con accordi operativi fra pubblico e privato su progetti che le stesse amministrazioni comunali richiedono “periodicamente” tramite “avviso pubblico”. Proposte che definiscono forme e capacità insediative e dei quali entro 60 giorni, l’ente deve valutare l’interesse pubblico per inserirlo all’interno del piano. Ancora una volta la dizione ‘interesse pubblico’ diventa il grimaldello per scardinare analisi e previsioni della pianificazione. Lo strumento urbanistico viene così a delinearsi ricalcando le sollecitazioni e le proposte che emergono dall’esterno, salvaguardando esclusivamente gli interessi dei privati lasciando al pubblico un ruolo del tutto subalterno. Tutto ciò è ancora più evidente nel principio affermato che qualora le proposte avanza116

Cfr. La XVI legislatura, p. 308 sgg.


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te siano deficitarie rispetto all’individuazione delle dotazioni territoriali e dei servizi, non verranno respinte ma, semplicemente, verranno raddoppiati i tempi (quindi 120 giorni) per l’approvazione, periodo entro il quale si dovrà aprire una negoziazione, che appare quanto meno rischiosa per la componente pubblica. Infine Dopo decenni di convegni, documenti, iniziative culturali, dibattiti, esperienze urbanistiche che hanno sperimentato approcci e strumentazioni diverse, più o meno innovative, si torna con la legge emiliana del 2017 ad un piano di tipo tradizionale nella forma, che diventa flessibile, in quanto periodicamente si rivolge alle sollecitazioni del mercato attenuando in modo evidente quel ruolo di indirizzo pubblico che, peraltro, aveva contraddistinto la nascita e l’impostazione della LU 1150. La pianificazione a due livelli, strutturale e regolativa, appare del tutto superata dalla legge emiliana. Lo strumento unico rafforza la centralità del piano e il ruolo del comune quasi a cancellare la memoria di un dibattitto disciplinare e politico che aveva dalla fine degli anni ‘90 pensato di modificare i meccanismi di trasferimento sul territorio delle dinamiche economiche e sociali che andavano manifestandosi, ma che lo ha fatto confrontandosi solo in termini di strumenti e procedure. La miopia di ricondurre il tema generale al suo aspetto strumentale e alla necessità di una sua riformulazione ha mostrato e mostra, nelle ultime esperienze, tutti i suoi limiti e l’incapacità di uscire dalla logica della legge del 1942: una logica superata dai tempi, dalle tecnologie, dal


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modo di vivere e relazionarsi nella società, che non riesce a trovare in urbanistica come in politica il modo di rapportarsi ad un presente che sia in grado di andare oltre l’immediatezza dell’oggi. Così, si assiste alla replica di uno spettacolo già visto con le posizioni dei vari addetti ai lavori che si contrappongono fra ‘tradizionalisti’ e ‘riformisti’ che rilasciano dichiarazioni, promuovono iniziative, stimolano un acceso dibattito all’interno delle università come fuori, senza però ottenere alcun concreto e serio risultato, mentre il territorio viene lasciato in balia di sé stesso, con indicazioni che cambiano ma non innovano e, quando innovano, non sono in grado di incidere, se non nelle agevolazioni ai privati. Tutto questo mentre continua ad operare su tutto il territorio nazionale legge quadro nazionale, la ‘vecchia’ legge n. 1150 del 17 agosto 1942, rispetto alla quale sembra che ogni giudizio di merito sia da sospendere. Questo volume non può né vuole avere una conclusione, né dare indicazioni per i destini dell’urbanistica. Come si è detto all’inizio, l’intento con cui è stato scritto era quello di ripercorrere una storia, quella della legge urbanistica italiana per cercare di capire le ragioni della sua lunga durata, del suo continuo riemergere nel procedere di un dibattito disciplinare che l’ha vista perdente fin, si può dire, dal suo nascere. E, tuttavia, come cittadini e come tecnici non possiamo tirarci fuori dalle responsabilità verso il territorio e la sostenibilità delle sue trasformazioni: il domani ci riguarda da vicino, ci incalza, ci preoccupa. Non possiamo che ritornare a quel 51° Rapporto Censis, citato nella Premessa, che mai come nel 2017, è apparso


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dubbioso sulle prospettive e crudo nella sua analisi, che fotografa e interpreta una società “sconnessa, disintermediata, a scarsa capacità di interazione, a granuli via via più fini”, priva di un ‘ordine sistemico’, dove in crescita appaiono solo solitudini e diseguaglianze determinate “dalla domanda squilibrata verso professioni intellettuali ad alta competenza o verso servizi alla persona a bassa specializzazione professionale”. Una condizione strutturale che impone visioni e comportamenti etici, anche a fronte delle tecnologie avanzate che dilagano nel nostro presente e che necessita di un ripensamento sociale solidale e del superamento di ogni politica di sopraffazione. Un pensiero collettivo capace di guardare lontano nel tempo e nello spazio, in grado di andare oltre “l’incessante inseguimento di un quotidiano ‘mi piace’, nella personale verticalizzazione della presenza mediatica. I decisori pubblici sono rimasti intrappolati nel brevissimo periodo. Il disimpegno dal varo delle riforme sistemiche, dalla realizzazione delle grandi e minute infrastrutture, dalla politica industriale, dall’agenda digitale, dalla riduzione intelligente della spesa pubblica, dalla ricerca scientifica, dalla tutela della reputazione internazionale del Paese, dal dovere di una risposta alla domanda di inclusione sociale, ha prodotto una società che ha macinato sviluppo, ma che nel suo complesso è impreparata al futuro”117. Un futuro che si gioca e si riflette non solo nelle sfide tecnologiche ma, anche e come sempre, si riverbera sul territorio, che non può essere abbandonato o restare alla deri-

Cfr. “Considerazioni generali del 51° rapporto Censis” 2017 in www. censis.it

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va di logiche prive di finalità sociali e di qualsiasi controllo pubblico. Un futuro che non può essere ignorato perché, inevitabilmente e con rapidità, si concretizza nelle forme e nei modi con cui è stato concepito e preparato. E, in questo forse, l’urbanistica come disciplina, può ancora rivendicare una sua specifica utilità, movendo dalle necessità di un più equilibrato uso del suolo e delle risorse, nel tentativo di ricostruire le aspirazioni sociali e collettive con una politica di valori e non di rancori.


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Andrea Torricelli

postfazione in coda alla storia della legge urbanistica: qualche considerazione per proseguire il cammino

Chiamato a dare una lettura a questo lavoro su “La lunga vita della legge urbanistica del ‘42”, per il caso vi fosse da accordare qualche riferimento giuridico, poi invece sono stato invitato a condividere in breve postfazione alcune considerazioni che avevo scambiato con Mariella Zoppi in amicizia. Con qualche maggior mio impegno nel riportarle qui, pur sempre come riflessioni incompiute. Voglia prenderle chi leggerà come uno dei modi per far uso della limpida ricostruzione che è nel libro: sarà di avvincente promemoria per molti che già si misurano con questi temi e potrà servire da mappa del retroterra per coloro che il governo del territorio si trovano a farlo dispersi sul territorio, spinti a prender parte alla costruzione di una nuova più lineare prospettiva di azione. Altra avvertenza per chi proceda nel leggere è che le considerazioni che posso proporre risentono del mio lavoro di giurista; ma son stato chiamato per questo. Al più per attenuante, entrando nel tema, mi par di poter osservare che tra i fili che scorrono nel libro vi è anche la vicenda del rapporto tra urbanisti e giuristi. Naturalmente è narrato come rapporto tra leggi e strumenti della pianificazione, o riportando le diverse fre-


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quenti battaglie giudiziarie che hanno inciso sulla pianificazione riguardo alla proprietà fondiaria o alle competenze tra istituzioni e apparati. Ma dietro a queste vicende vi è il rapporto tra due corpi professionali ed i rispettivi campi e metodi, che sono all’evidenza istituzioni sociali presupposte dell’intero impianto del governo del territorio già nel disegno della Legge urbanistica. Vari sono i rapporti tra questi due operatori della pianificazione e tra ciascuno di essi ed i poteri politici. Se ne potrebbe utilmente indagare i modi e studiare come innovarli, sin dalla formazione disciplinare e professionale. A proposito di tali rapporti, stando al tema indagato dal libro, si può invitare il lettore a soffermare l’attenzione sul diverso rapporto che le due professioni hanno con la legge; un’ovvia considerazione che conviene specificare. Non è indifferente – operativamente e quindi anche concettualmente — che ad esempio, data una norma che definisce uno strumento di pianificazione, l’urbanista si occupi di riempirla, specificarla ed avvalersene ed il giurista abbia innanzitutto da occuparsi del contesto in cui lo strumento si pone rispetto a molteplici interessi ed altre strutture dell’ordinamento, in appoggio all’urbanista o in conflitto. Ne nasce un discorso sulla fattibilità della pianificazione a due prospettive, che se condotto continuamente e meno a distanza potrebbe essere il luogo in cui le innovazioni possono radicarsi e svilupparsi riguardo al modo di pianificare ed anche a quello di normare. Basti qui un richiamo alla vicenda che il libro ben riporta della legge di principi sul governo del territorio. Non si riesce a vararla per un complesso di ragioni che sembrano il riassunto di tutti i problemi incontrarti nella storia urba-


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nistica nazionale. Potrebbe essere interessante soffermarsi sul contenuto ed il modo di esprimere quei principi, cominciando a chiedersi cosa significano e come opereranno; da un lato i principi valoriali con carattere di obiettivo, dall’altro quelli modali che rimandano a poteri già istituiti e quelli con carattere di vincolo o limite prescrittivo più o meno da specificare. Aspetto quest’ultimo non secondario, posto che dai principi non si traggono regole per i rapporti tra interessi sui quali la pianificazione mira ad incidere. Giustamente il libro non si spinge ad indicare soluzioni e conclude con un “infine” aperto, che invita a stare ai fatti, pur non abbandonando la speranza che qualcosa maturi da questa lunga esperienza, per prendere un passo nuovo, che forse ha da toccare anche la forma normativa che fa così esteso ricorso alla legge; e lo stesso piano urbanistico generale, oramai trasformato in parte per legge ed in parte nei fatti. A tal proposito la Legge urbanistica nella sua lunga storia mostra due caratteri che semplificando si possono così segnalare. Essa si è progressivamente svuotata di funzioni e contenuti. Ad essa si sono aggiunte prescrizioni di diversa natura e funzione; alcune essenziali per il suo funzionamento (come le norme regolamentari degli standard oramai pacificamente ritenute primarie quanto la legge); altre derogatorie o comunque speciali (come i diversi tipi di piani attuativi o piani-progetto o piani programma economico). Tuttavia l’impianto essenziale e soprattutto lo schema di qualificazione del valore degli atti di pianificazione è ri-


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masto immutato, centrato sul binomio del piano generale ed attuativo e sulle competenze comunali come che siano condizionate. Ne è risultato uno schema neutralizzato in quasi tutti i suoi contenuti pianificatori urbanistici, come mostra l’evoluzione dei piani di attuazione e prima quella della funzione della zonizzazione. Pur così ridotta, la Legge urbanistica svolge ancora la funzione di schema minimo di regolazione edilizia, consentendo una costruzione pragmatica regolamentare o negoziata tra Stato, Regioni, Comuni e mercato, che nello schema della Legge urbanistica trova un riferimento ordinante. Questa debole figura della pianificazione urbanistica, è resa ancor più generica dall’introduzione del concetto di ampio di ‘governo del territorio’, al quale sono ricondotte e sul quale crescono le tutele speciali. Un concetto quello di territorio che è criterio metodologico ed operativo, ma senza una precisa effettiva rilevanza normativa. In qualche modo la legge urbanistica, per quel che ne è rimasto, appare oggi come il complemento della definizione della proprietà nel codice civile. Norme che pongono un oggetto nel contesto dell’ordinamento ed assolvono alla funzione di identificare il posto ed i contorni del loro oggetto nel sistema economico e sociale ed in tal modo ordinano la molteplicità delle altre regole speciali che vi si riferiscono. A tal proposito dice qualcosa come tutto cominciò nella storia dell’ordinamento repubblicano: la legge urbanistica ed il codice civile sono coevi e collegati riguardo alla proprietà immobiliare ed erano da poco in vigore; alla


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Costituente ben si discusse della proprietà, ma non apparve necessario toccare il codice civile, che si è poi ben adattato agli sviluppi nel nuovo contesto costituzionale; quasi niente si disse della Legge urbanistica, se non che andava bene così. Innegabilmente il suo schema ancora regge tra piani sopravvenuti di ogni tipo, regolarmente ricondotti ad un qualche criterio unificante nello schema del piano urbanistico generale e dei piani attuativi. Si può aggiungere: una permanenza che tuttavia comporta un evidente slittamento di significati riguardo a ciò che è attuazione di indirizzi o di norme e ciò che è sviluppo o addirittura invenzione progettuale e tuttavia si continua a considerare attuativo, solo perché speciale rispetto al piano urbanistico generale. Un esempio di questo fenomeno: dato un Piano di riqualificazione urbanistica approvato con Accordo di programma in variante del Piano urbanistico comunale ratificato dal Consiglio comunale, le sue successive varianti, complesse quanto siano, dovranno essere analizzate caso per caso e riportate parte per parte o al regime delle varianti edilizie, o a quello delle previsioni pianificatorie e progettuali di livello idealmente ‘attuativo’, o da ultimo a quelle di livello corrispondente al piano generale che si possano ritenere implicite nel progetto originario (così la Cassazione). Ecco dunque che, nonostante il nuovo modo di intervenire e regolare, si chiede ancora di riferirsi allo schema concettuale piano regolatore e sua attuazione, posto dalla legge urbanistica come criterio razionale di verifica degli equilibri tra interessi e dei rapporti tra competenze.


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Nello stesso senso della permanenza degli schemi e della loro operatività pare la vicenda della pianificazione di area vasta: si è provato a introdurre quella pianificazione ponendola sopra l’impianto della pianificazione basica comunale radicato nella Legge urbanistica. In tal modo la pianificazione d’area vasta è rimasta concettualmente ed anche linguisticamente sostanzialmente di indirizzo e programmatica e non conformativa ed operativa, a dispetto della vincolatività asserita. La permanenza dello schema pianificatorio della Legge urbanistica, nonostante il mutare dei contenuti e delle funzioni della pianificazione, porta a due temi che la storia narrata nel libro pone e non lascia cadere: la funzione che svolge l’introduzione del concetto di ‘territorio’ ed il passaggio del ruolo dei Comuni dalla regolazione delle trasformazioni edilizie alla gestione del territorio. Non è da dire ciò che meglio si legge nel testo. Ma può essere utile indicare il punto di contatto tra territorio e gestione. Pare stia nel riferimento all’assetto organizzativo delle funzioni pubbliche: il concetto di ‘territorio’ mira ad unificare le funzioni collegandole al complesso degli interessi della collettività che vive su di esso; la gestione sposta la pianificazione dalla regolazione (pur sempre necessaria) all’attuazione, che sotto il principio di efficacia dell’azione amministrativa (ancorché principio assai astratto) apre alla molteplicità dei modi di esecuzione diretti o indiretti, di autorità o con accordi. Di qui anche lo stretto collegamento tra l’ambito del governo del territorio, le riforme istituzionali e l’evoluzione


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del ruolo politico delle amministrazioni locali e del loro rapporto con il governo centrale. Se ne può vedere molti aspetti e dire assai, ma poiché qui è della Legge urbanistica che si tratta, l’attenzione va al contesto istituzionale in cui essa ancora opera. Di questo si possono richiamare due aspetti principali, che sembrano ancora attivi nelle alterne vicende che hanno in parte svuotato la Legge urbanistica: l’autonomia locale ed il ruolo del governo. Entrambi incidono anche sulle scelte dei contenuti e prima ancora sui metodi della pianificazione. Il libro ricorda che l’introduzione della pianificazione urbanistica si fece non solo con la legge, ma con indirizzi e un ruolo attivo del governo centrale, ancorché saltuario e insufficiente, ma per alcuni aspetti determinante. Ancora oggi molte sono le materie di rilievo territoriale nelle quali operano indirizzi, criteri e norme tecniche specifiche di fonte centrale. Si aggiunga pure la recente unificazione di terminologia e di regolamentazione tecnico-edilizia. Pare questo un campo nel quale una riflessione e poi una costruzione sistematica è necessaria, poiché è evidente da un lato la ragione dell’unificazione, ma dall’altro è incombente il pericolo che ogni regola tecnica o indirizzo che attenga alla pianificazione si saldi in qualche modo con la disciplina della proprietà, incidendo così sulla pianificazione non a favore dello sviluppo tecnico e metodologico, ma come vincolo al governo del territorio. Se ad una riorganizzazione degli assetti di governo si vuol pensare, occorre anche spostare l’attenzione dalle leggi e dai poteri all’organizzazione delle attività di governo del territorio, siano di indirizzo od operative, centrali, regio-


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nali, o locali. Poiché tra le ragioni per le quali ritardò tanto l’attuazione della Legge urbanistica e poi essa si è non poco appiattita sul governo dell’edilizia, specialmente alle scale minori, vi fu certo anche la mancanza di capacità diffuse o accessibili dal livello comunale. La storia dei piani mostra che, pur con forti opposizioni, le cose si mossero quando la politica entrò in contatto con i portatori di conoscenze e tecniche. Il territorio è ora coperto di piani per effetto dell’impulso che dettero le Regioni. La gestione della pianificazione resta al livello comunale. Ciò basta a dire dove si deve intervenire a investire sulle capacità e sulla semplificazione e gestibilità degli strumenti. Si torna anche qui alla storia della legge che nacque imperfetta per mancanza di sostegni organizzativi e di mezzi.


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indice dei nomi

Achilli Michele 109, 110

Basaglia Franco 143

Agnelli Gianni 142

Basilico Gabriele 171

Agrimi Alessandro 71

Bassanini Franco 230, 231, 263

Aimonino Carlo 253

Belgiojoso Ludovico Barbiano,di 59

Albertini Cesare 31 Albertini Gabriele 292 Albini Franco 33, 52 Albrecht Benno 83 Alfano Angiolino 319 Alpago Novello Alberto 25 Amato Giuliano 122 Amendola Giorgio 66 Andreotti Giulio 81, 143, 319 Ardigò Achille 71 Asplund Erik Gunnar 29

Bellini Giovanni 288, 300 Beltrame Claudia 92 Benevolo Alessandro 83 Benevolo Leonardo 53, 83 Berardi Pier Niccolò 30 Berdini Paolo 297, 310 Berenson Bernard 54 Bergamasco Giorgio 80 Berlanda Franco 17 Berlinguer Enrico 143

Astengo Giovanni 53, 56, 57, 58, 68, 71, 81, 95, 117, 131, 136, 137, 139, 150, 161, 178, 183, 199, 211, 225

Berlusconi Silvio 280, 288, 303, 309, 319

Avarello Paolo 137

Bettini Paolo 45

Badano Gaetano 59 Bagnasco Arnaldo 266 Barbieri Carlo Alberto 348 Bardi Piero Maria 26 Barile Paolo 114 Baroni Nello 30

Bersani Pier Luigi 273, 288, 319 Bertola Giorgio 150 Bianchetti Cristina 23 Bianchi Bandinelli Ranuccio 54 Bianchi Giuliano 229 Biondi Alfredo 189 Bo Bardi Lina 26 Boato Marco 272


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Bohigas Oriol 253, 256, 257

Cazzato Vincenzo 19

Bonatz Paul 29

Ceccarelli Paolo 254

Borri Dino 137

Ceccarelli Vincenzo 365

Bortolotti Lando 34

Cecchini Domenico 253, 256

Bossi Umberto 288

Cederna Antonio 59, 167, 195

Bottai Giuseppe 22, 35

Cerutti Enzo 68

Bottino Felicia 204

Cervellati Pier Luigi 83, 133, 297

Bottoni Piero 59, 82 Bray Massimo 336 Breschi Danilo 20, 32 Breźnev Leonid Il’ic 143 Brinkman Johannes Andreas 29 Brodolini Giacomo 98

Chianale Mauro 301 Chiodi Cesare 33 Choay Francoise 361 Ciccone Filippo 229 Cinti Federico 23

Brundtland Gro Harlem 219

Claude Viviane 23

Bucalossi Pietro 121, 122, 168, 305

Clementi Alberto 225, 227 Codignola Tristano 93

Cabianca Vincenzo 117

Colla Vincenzo 10

Cabiati Ottavio 25

Colombo Emilio 319

Calabresi Luigi 142

Compagna Francesco 71

Calatrava Santiago 269

Corsani Gabriele 34

Calogero Guido 65

Corsico Franco 123,124

Calza Bini Alberto 23,24,26

Cottone Benedetto 79

Camagni Roberto 296

Craxi Bettino 195,198

Campos Venuti Giuseppe 72, 73, 81, 82, 83, 117, 131, 133, 175, 176, 208, 255, 273, 300, 302, 316

Cresti Carlo 26

Caniggia Gian Franco 134 Cantone Raffaele 194 Capodicasa Angelo 301 Capponi Giuseppe 30 Caracciolo Edoardo 59 Carloni Enrico 352 Casinelli Cesidio 272 Castagnoli Ugo 25 Catania Mario 334, 337 Cavallazzi Arrigo 38

Dami Luigi 26 De Carlo Giancarlo 82,211 De Gasperi Alcide 49 De Girolamo Nunzia 336 De Lorenzo Giovanni 78 De Luca Giuseppe 116, 153, 154, 158, 230, 351 De Lucia Vezio 19, 167, 168, 312 De Poli Marco 92 De Rosa Massimo Felice 338 De Seta Cesare 25,27 Delli Santi Gianfilippo 68


indice dei nomi

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Delrio Graziano 230

Gamberini Marco 201

Dematteis Giuseppe 225, 249

Gambino Roberto 249

Detti Edoardo 59, 82, 83, 114, 115, 117, 118, 124, 128, 132, 134, 136

Gardella Ignazio 33, 52

Di Biagi Paola 50, 179, 209 Di Gioia Vincenzo 55 Di Pietro Gian Franco 59 Diotallevi Irenio 35 Dolcetta Bruno 56,57 Donini Raffaele 369 Dossetti Giuseppe 104 Dragone Umberto 104 Dudok Willem Marinus 29 Erba Valeria 188 Ernesti Giulio 17 Fabbro Sandro 236 Fahrenkamp Emil 29 Falanga Ciro 193 Falco Luigi 123, 124, 137 Fanelli Giovanni 59 Fanfani Amintore 49, 71 Farinetti Oscar 268 Fassino Piero 298 Ferrero Ardea 148 Figini Luigi 25 Fini Gianfranco 288 Follini Marco 288 Forte Francesco 63,70,75 Franceschini Francesco 86,122 Frette Guido 25 Fuà Giorgio 226 Gabellini Patrizia 137, 209, 250, 359, 361

Garnier Tony 29 Gazzola Luigi 128 Gentiloni Paolo 280, 320 Ghery Frank Owen 269 Ghio Mario 117 Giaimo Carolina 348 Giolitti Antonio 66, 78, 79 Giovanni XXIII 66 Giovannoni Gustavo 24,28 Girardi Franco 115,116 Giscard d’Estaing Valéry 278 Giugni Gino 98 Giuntini Andrea 34 Gorio Federico 53 Gorla Giuseppe 36, 39, 40, 41 Gregotti Vittorio 135, 211, 258, 259 Gropius Walter 25, 29 Guarino Giuseppe 71 Guarnieri Baldassarre 30 Guarra Antonio 79 Gui Luigi 86, 93 Hertlein Hans 29 Howard Ebenezer 31 Indovina Francesco 180, 297 Ingrao Pietro 143 Jacobelli Paolo 96 Jannuzzi Lino 78 King Alexander 101 Krier Rob 253

Gabrielli Bruno 137, 138, 139

La Capria Raffaele 80

Galasso Giuseppe 157, 195

La Malfa Ugo 65, 70

Gamberini Italo 30

La Pira Giorgio 50


396

la lunga vita della legge urbanistica del ‘42

La Russa Ignazio 288 Lama Luciano 142 Lancia Emilio 25 Lauricella Salvatore 110 Le Corbusier Charles Edouard Jeanneret 25, 27, 29,30 Lefevre Henri 103 Leone Giovanni 77, 143 Letta Enrico 280, 319, 320, 336 Libera Adalberto 25, 26, 50 Ligeti Gyorgy 274 Lingeri Pietro 52 Lombardi Franco 45, 144, 147, 202

Mantini Pier Luigi 288, 289, 295, 296, 314, 353 Marcelloni Maurizio 96, 253, 256 Marescotti Franco 33 Maretto Paolo 134 Mariani Raffaella 298, 302, 313, 315, 316, 320 Marin Alessandra 56 Marson Anna 362 Martinat Ugo 272, 288 Martuscelli Michele 116 Massimino Rosario 37 Mastella Clemente 290

Lombardi Riccardo 65, 67, 79, 110

Mattarella Sergio 279

Lombardini Siro 52, 71

Mazza Luigi 172, 292

Longhi Giuseppe 17

Mazzoleni Chiara 47, 48

Lorenzetti Maria Rita 272

Mazzoni Angiolo 24

Lorenzin Beatrice 319

Mendelsohn Erich 25, 29

Lucchini Aldo 82

Merloni Francesco 96

Lugli Tiziano 208

Michelucci Giovanni 24, 30, 117

Lupi Maurizio 246, 288, 289, 291,292, 294, 295, 296, 313, 315, 319, 320, 324, 325, 336 Lusanna Leonardo 30

Mattei Enrico 41

Mies van der Rohe Ludwig 25, 27, 29, 30

Luter King Martin 91

Migliore Gennaro 297, 301, 314

Maciocco Giovanni 251

Minnucci Gaetano 23

Maddalena Paolo 310

Minoletti Giulio 33

Magnaghi Alberto 251, 252, 366

Moccia Francesco Domenico 230,349, 351

Magrin Anna 83

Modigliani Daniel 253

Maguolo Michela 56

Molli Boffa Sandro 53

Mallet-Stevens Robert 29

Montanari Franco 45

Manacorda Giuliano 256

Monti Mario 280, 303, 334

Mancini Giacomo 79, 80, 84, 88

Morandi Rodolfo 65

Manieri Elia Mario 59

Morassut Roberto 254, 255, 315, 316, 324


indice dei nomi

397

Moro Aldo 67, 68, 75, 78, 84, 142, 143

Persico Edoardo 24

Mugnai Franco 300 Muratori Saverio 134

Piacentini Marcello 23, 26, 28, 30

Mussi Fabio 272

Piano Renzo 253, 268

Mussolini Benito 19, 21, 31, 40

Piccinato Giorgio 139

Muzio Giovanni 25 Napolitano Giorgio 290, 319

Piccinato Luigi 23, 24, 68, 69, 70, 71, 82, 117, 139, 210

Natoli Aldo 79

Piccinini Mario 243

Nenni Pietro 68

Pieraccini Giovanni 77, 78

Nicolazzi Franco 167

Piglionica Donato 300

Nicoloso Paolo 23

Pineiro Manuel Vaquero 352

Nucci Camillo 183

Piroddi Elio 235

Occhetto Achille 215, 253

Pollini Gino 25

Ojetti Ugo 26

Ponti Gio 25, 30

Oliva Federico 137, 165, 302, 360

Portaluppi Piero 25

Olivetti Adriano 23, 56, 68, 136 Orlando Andrea 336 Ornaghi Lorenzo 335 Ozenfant Amédée 30

Pertini Sandro 144

Portoghesi Paolo 207 Predaval Giangiacomo 33 Predieri Alberto 83,86 Premoli Augusto 109

Pagano Fortunato 307

Prodi Romano 105, 280, 209, 301, 303, 306

Pagano Giuseppe 24, 30, 33

Properzi Pierluigi 236

Pajetta Giancarlo 98

Puppato Laura 342

Palazzo Anna Laura 227

Purini Franco 253

Palermo Pier Carlo 185, 225 Pannella Marco 141 Pannunzio Mario 65 Panzieri Raniero 66 Papa Francesco 332, 333, 334 Parfyrou Heleni 34

Quagliariello Gaetano 319 Quaroni Ludovico 53, 128 Ralli Marcello 148 Rava Carlo Enrico 25 Rava Luigi 35

Parri Ferruccio 42

Realacci Enrico 288, 291, 296, 301, 320, 337

Passanti Mario 53

Reale Oronzo 143

Passera Corrado 335

Renacco Nello 53

Peccei Aurelio 101 Pecoraro Scanio Alberto 288

Renzi Matteo 280, 319. 320, 365

Perret Auguste 29

Ricci Mosé 227


398

la lunga vita della legge urbanistica del ‘42

Ricoveri Giovanna 96

Savarese Michele 71

Ridolfi Mario 24, 53

Scalfari Eugenio 65, 67

Ripamonti Camillo 68, 114

Secchi Bernardo 137, 172, 178, 179, 187, 210, 274, 275

Rizzotti Aldo 53 Rockefeller David 101 Rodella Domenico 59 Rolli Gian Ludovico 226 Romagnoli Emilio 64 Romano Giovanni 33, 59 Romano Marco 137, 138, 139, 171 Romita Giuseppe 81 Ronchi Edoardo 300 Rosadi Giovanni 35 Rosi Francesco 80 Rossi Enrico 362,,365, 366 Rossi Ermete Rossi Paolo 86 Rossi Paolo (studente) 92

Segni Antonio 78 Serpieri Arrigo 22, 32 Settis Salvatore Severino 284 Sodano Tommaso 300 Spadolini Giovanni 167 Spinelli Francesco 37 Spini Valdo 65, 67, 215, 217, 219, 222 Staderini Lucia 45 Stammati Gaetano 113 Stanghellini Stefano 249 Sullo Fiorentino 68, 70, 71, 74, 75, 76, 77 Tamburini Giulio 297 Tarchiani Nello 26

Ruberti Antonio 172

Terragni Giuseppe 24, 25, 26, 27, 30

Ruffolo Giorgio 144, 198

Testa Virgilio 47, 48

Rumor Mariano 110

Tobagi Walter 142

Russo Maurizio 257

Tognoli Carlo 224

Russo Spena Giovanni 288

Tortora Fausto 96

Rutelli Francesco 253, 255

Toschi Umberto 68

Salzano Edoardo 114, 136, 212, 297, 298, 324

Tremonti Giulio 288

SamonĂ Giuseppe 23,59,68,128

Turroni Sauro 272

Sandri Alfredo 288 Santangelo Giovanni 369 Saraceno Pasquale 66 Saragat Giuseppe 78 Sartorio Gianluigi 33 Sartoris Alberto 28 Sassano Marco 92 Saunier Pierre-Yves 23

Trincanato Egle Renata 59 Tutino Alessandro 117, 136 Unwin Raymond 31 Urbani Giuliano 304 Urbani Paolo 96 Valle Cesare 55 Valle Gino 47 Valori Dario 98 van der Vlugt Leender Cornelius 29


Vanoni Ezio 65 Vecchietti Sandra 243 Vecchietti Tullio 98 Veltri Elio 132 Veltroni Walter 255, 291, 301 Vendola Nichi 288 Veronesi Ugo 38 Vigni Fabrizio 288 Visco Vincenzo 273 Vittorini Marcello 53 Viviani Silvia 325 Zaccagnini Benigno 71 Zangheri Renato 104 Zevi Adachiara 30 Zito Vincenzo 55 Zoppi Mariella 56, 84, 86, 132, 377 Zuccoli Luigi 52


Finito di stampare da Officine Grafiche Francesco Giannini & Figli s.p.a. | Napoli per conto di didapress Dipartimento di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Novembre 2018



Questo non è un libro di storia e non è un libro di urbanistica. È il tentativo di ricostruire la singolare vicenda della longevità della legge urbanistica del 1942 per capire la logica della sua resilienza, trarre indicazioni per il presente e tentare di impostare ipotesi di lavoro, in un momento in cui l’Italia sembra, con oscillanti e sempre più tenui segnali di ripresa, incapace di dare risposte positive alle aspirazioni dei suoi cittadini. Ripercorrendo le vicende della legge, gli autori ricompongono la sconcertante ciclicità delle situazioni e delle reazioni oscillanti fra grandi speranze e regressioni, contrassegnate da un’arretratezza sempre presente, che si manifesta in uno sfruttamento permanente del territorio che pur con modalità diverse, resta sempre uguale a sé stesso. In sintesi, c’è sempre qualcuno che ‘paga’: i contadini nel primo dopoguerra, gli operai nella successiva industrializzazione, i lavoratori a domicilio negli anni del boom delle piccole e medie imprese, i giovani costretti ad andare all’estero per realizzare le loro aspirazioni o quanti arrivano (donne e uomini senza rappresentanza) oggi. L’ultimo rapporto Censis parla di un’Italia dei rancori, incapace di affrontare i grandi temi dai giovani all’ambiente, e di un paese ripetutamente ferito dai crolli di scuole, ponti, abitazioni. Un territorio fuori controllo e una disciplina sotto accusa, ma c’è un quesito che non si può eludere: ha fallito l’urbanistica come disciplina o ha fallito una politica che non ha saputo o voluto orientare quanto sul territorio andava manifestandosi?

€ 32,00

9 788833 380544


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