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e storia, Florence, Alinea 2004

Fig. 1 Rocco Lentini, La Cuba, ricostruzione ideale, 1921 (Soprintendenza ai BB.CC. AA. di Palermo).

A partire dal sec. XIX, con i restauri dei monumenti, la ricerca del mito normanno si manterrà viva6, sino all’attuale dibattito sull’opportunità del ripristino di quell’immagine nella quale architettura, vegetazione e acqua partecipano alla vita di questi luoghi. I giardini che avevano narrato l’epopea normanna, trasformati dal sec. XVI in quella pianura identificata come la Conca D’oro, con lo scoppio dell’ultima guerra mondiale subiranno nuove trasformazioni7. Le parti in cui insistevano le tracce delle architetture normanne, si confronteranno con l’espansione urbana del Sacco di Palermo8 e con l’incremento demografico determinato dal miracolo economico. I corsi d’acqua saranno incanalati e molti qana¯t che attraversavano i giardini saranno distrutti dalle costruzioni in cemento armato. Nonostante i mutamenti, si può ancora sostenere che le tracce di quella che è stata la vita dei giardini normanni in questi luoghi sono oggi ancora riconoscibili e, ricordando la Carta di Firenze 1981 all’Art. 1, identificano in questo paesaggio complesso la: «composizione architettonica e vegetale che dal punto di vista storico o artistico presenta un interesse pubblico». Quando nel 2015 l’Unesco ha riconosciuto Patrimonio dell’Umanità Palermo arabo-normanna e le Cattedrali di Cefalù e Monreale, ha compreso non il valore dei singoli monumenti normanni, ma il sistema di valori che connette fabbriche e spazi esterni, facendo emergere l’importanza di queste relazioni9. Di quello che furono i giardini normanni a Palermo, restano oggi molti ettari nella zona di Ciaculli, nel palazzo di Maredolce e parti di agro attorno ad altri monumenti, documenti di valore storico-culturale con caratteri rappresentativi di un fenomeno articolato. I primi grandi cambiamenti si registrano tra Otto e Novecento, un periodo in cui in tutta Europa si portano a temine operazioni di liberazione e ricostruzione:: a Palermo i restauri celebreranno l’immagine dei viaggiatori e degli studi sul Medioevo, restituendo questo patrimonio secondo un’iconografia che lo colloca nel mito normanno. Uno dei restauri nel quale si dà ampio spazio al tema del giardino è quello del complesso di S. Giovanni degli Eremiti. Un intervento di G. Patricolo della fine del sec. XIX, in cui si operano le liberazioni delle strutture architettoniche attribuite al perio-

sec. IX?

sec. XII sec. XVI

sec. XVII 1834

1875

1882-83 1927-29

Fig. 2 Il complesso architettonico di San Giovanni degli Eremiti, Palermo, la cronologia delle trasformazioni in cui si rappresenta il progetto del giardino della fine dell’Ottocento, impiantato dopo le liberazioni dai volumi che, successivamente alla fase normanna, si erano stratificati nei secoli (di FEdErica lo coco, Il chiostro di san Giovanni egli Eremiti a Palermo, tesi di laurea, relatore Prof. Rosario Scaduto, correlatore prof. Emanuela Garofalo e soprintendente ai BB.CC. AA. di Palermo arch. Lina Bellanca, Cdl Magistrale a ciclo unico LM4, a.a. 2017-18). do normanno, impiantando attorno ad esse un nuovo giardino10 (Fig. 2). Il giardino di S. Giovanni degli Eremiti, per chi visita oggi il complesso architettonico, è percepito come parte integrante del monumento, un intervento da contestualizzare nel tempo con tutti i limiti che oggi potremmo evidenziare rispetto al tema del restauro, ma che restituisce quel rapporto importante tra monumento e verde. Un giardino che non è, e non può essere quello normanno, ma che oggi è parte della storia del sito, da tutelare esattamente come recita l’Art. 3 della Carta di Firenze 1981, in quanto monumento vivente. Prendendo spunto dalla Carta di Venezia del 1964, richiamata dalla carta di Firenze del 1981, a Palermo pur non esistendo una strategia progettuale sul tema, è in atto un dibattito nella consapevolezza che le tracce del giardino normanno convivono ancora in un «ambiente urbano e paesistico» riconoscibile nelle sue trasformazioni. Una consapevolezza che non dovrebbe condizionare il progetto in senso ripristinatorio, perché se è vero che il rapporto architettura/ giardino è imprescindibile per un certo tipo di architetture normanne, si dovrebbe intervenire cercando soluzioni che non attingono al mito normanno; piuttosto, come forse in modo più interessante ha già fatto nel sec. XIX Patricolo, elaborare progetti senza proporre falsi storici o anacronistiche reinterpretazioni. In questi ultimi anni si è assistito ad una campagna di interventi sugli spazi che oggi appartengono al percorso Unesco 2015. Il primo in ordine di tempo è il giardino della Zisa realizzato nel 2005, dibattuto dal punto di vista architettonico e agronomico. Citando un’intervista fatta al prof. G. Barbera, sull’argomento, si legge:

Purtroppo quando si realizza un giardino a Palermo si destina il novantacinque per cento delle risorse all’edilizia e il cinque per cento al verde. Un paradosso. Hanno realizzato i prati sugli sfabbricidi (…) Eppure proprio lì un tempo c’erano gli agrumi che rappresentavano in modo sincero il paesaggio islamico palermitano. Ma sono stati smantellati. La gente percepisce quando una struttura recuperata mostra un’identità falsa. Anche per questo il Giardino della Zisa è rimasto un corpo estraneo11 .

In origine l’acqua generata all’interno della sala della fontana giungeva attraverso un sistema idraulico che dal qana¯t arriva al salsabi¯l della fontana della Zisa e attraversava la sequenza delle vasche fino a raggiungere il giardino. Il nuovo progetto, mistificando la continuità tra interno e esterno del monumento, da sempre incarnato nel percorso dell’acqua, prevede una sequenza di vasche probabilmente mai esistite che cercano, non trovandolo, un rapporto con il monumento in una distesa di maioliche, marmo e cemento (Fig. 3). L’agrumeto con le mura di confine descritte nel XVI secolo da Leandro Alberti12, che costituiva ancora fino a poco tempo fa l’uso prevalente del suolo, è

sostituito da aiuole che avrebbero meritato uno spazio maggiore. Ma la Zisa non ha solo il suo nuovo giardino antistante il prospetto del palazzo, ai lati e sul prospetto retrostante c’è un giardino ancora da valorizzare, con scavi e un acquedotto romano, uno spazio che oggi non necessita di un progetto di ripristino, ma di un progetto contemporaneo che valorizzi le stratificazioni. Non secondo alla Zisa, sebbene a differenza di questa non ancora incluso nell’itinerario Unesco, è il palazzo di Maredolce, interessante esempio di architettura normanna in cui persistono le tracce del giardino che lo attorniava, con un grande lago che era fonte di irrigazione per il giardino e il palazzo (Fig. 4). Quello che resta oggi si trova confinato tra l’autostrada e un quartiere popolare segnato da una storia mafiosa, con una realtà sociale che guarda ad un affrancamento dal passato, che cerca di resistere all’avanzata del cemento che ha divorato i giardini. Tra progetti di agricoltura sociale e proposte di valorizzazione, spicca l’ultimo riconoscimento al gruppo coordinato dall’arch. L. Bellanca, già Soprintendente BB.CC.AA. di Palermo, alla quale nel 2015 la Fondazione Benetton ha assegnato il XXVI premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino13. Un premio che ha fatto emergere il dibattito che gravita proprio attorno al progetto di ricostruzione di parte del giardino e in particolare del suo lago artificiale, proposta avanzata da un’associazione che da vent’anni promuove il sito. Gli studiosi della fondazione Benetton, riuniti in un workshop che ha coinvolto anche l’Università di Palermo, hanno invece proposto un’alta distesa d’erba che possa richiamare il perimetro del lago e il movimento dell’acqua14 (Fig. 5). Una proposta condivisibile, che ricorda le profetiche parole di Brandi nel 1962, che a proposito della possibilità di ricostruire il lago scomparso scriveva:

Sotto alla stupenda montagna di Gibilrossa (araba anche nel nome) si estendeva il lago artificiale creato dall’Emiro Giafar (…) e non è che ora si possa sognare di ristabilire il lago artificiale: forse basterebbe solo uno specchio sotto alle mura, come sotto alle mura di Ninfa, e quel mare verde, altrettanto dolce, dei mandarini e dei limoni15 .

Sempre Brandi, con un altro esempio, ci mostra come sia chiaro che il tema dei monumenti normanni e dei loro giardini sia una chiave d’intervento per la città. È il caso dell’isolato che contiene il palazzo della Cuba Sottana e della Cubula, monumenti legati nel loro impianto originario da un giardino, oggi ridotto ad una striscia di agrumi risparmiata dall’urbanizzazione (Fig. 6). La Cubula è l’unico padiglione superstite tra quelli che punteggiavano i giardini normanni fuori le mura del-

Fig. 3 Palermo. Palazzo della Zisa, con il giardino realizzato nel 2005 antistante al prospetto principale e il giardino nella parte retrostante (Z. Barone 2021).

Fig. 4 Palermo. Il complesso architettonico di Maredolce, planimetria d’insieme. Nell’immagine è evidente la grande dimensione, rispetto all’edificio (A), che doveva avere il lago (E) alimentato dalla sorgente (C), e la posizione dell’isola (D) al centro del lago (Archivio della Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Palermo, Fondo Guiotto).

Fig. 5 Palermo. Il complesso architettonico di Maredolce, con la porzione dell’originario bacino lacustre riconfigurato negli anni 1999-2001 e 20092011 (da Maredolce, il complesso della Favara nel quartiere Brancaccio di Palermo, Regione siciliana, Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana, Dipartimento dei beni culturali e dell’identità siciliana 2018, Palermo). la città, ed è proprio una fotografia della Cubula, rappresentata nella copertina del libro Il patrimonio insidiato di Brandi, che mostra lo scempio subito da questi luoghi, narrando tuttavia una forma di resilienza che questo connubio architettura/giardino ancora porta con sé (Fig. 7). Grazie ad una campagna di scavo, in parte conclusa all’inizio del 2021, sono emerse testimonianze che mostrano il valore delle strutture a servizio del giardino, elementi di connessione da cui partire per un progetto di restauro e valorizzazione (Fig. 8). Nella sua peculiarità, il tema dei giardini di pertinenza dei monumenti normanni, a distanza di quarant’anni dalle carte dei giardini storici, può essere un interessante esempio per esaminare l’importanza che le carte hanno come supporto e guida al progetto di restauro. In particolare mi riferisco all’Art. 17 della Carta di Firenze 1981, nel quale si sottolinea:

Quando un giardino storico è totalmente scomparso o si possiedono solo gli elementi congetturali sui suoi stati successivi, non potrà allora intraprendersi un ripristino valido dell’idea del giardino storico. L’opera che si ispirerà in questo caso a forme tradizionali sul sito di un giardino antico, o dove un giardino non era probabilmente mai esistito, avrà allora i caratteri dell’evocazione o della creazione escludendo totalmente la qualifica di giardino storico.

Serve un lavoro di comprensione delle complessità di questo patrimonio, una riflessione alla quale ha sicuramente contribuito per Palermo il riconoscimento Unesco 2015, rafforzando un dibattitto nel quale al pari dei monumenti va riconosciuta l’importanza del contesto stratificato. La ricucitura dei giardini e dei percorsi che li univano, nonostante il sacco edilizio, è una chiave indispensabile per una fruizione e una valorizzazione che possa puntare sullo sviluppo della consapevolezza dei valori monumentali e delle stratificazioni.

Fig. 6 Palermo. Giardino della seicentesca Villa Napoli, impiantato sul giardino normanno che era stato della Cuba Sottana, di cui oggi sono evidenti le tracce architettoniche della torre, le strutture a servizio del giardino per il trasporto dell’acqua e il padiglione della Cubula (Z. Barone 2021).

Fig. 7 Palermo. Padiglione della Cubula, rappresentato nella copertina del libro cEsarE Brandi, Il patrimonio insidiato. Scritti sulla tutela del paesaggio e dell’arte, a cura di M. Capati, Editori Riuniti 2014, Roma.

Fig. 8 Palermo. Padiglione della Cubula, durante il cantiere di scavo e di restauro che ha fatto emergere il sistema idraulico a servizio del giardino che collegava il padiglione della Cubula alla Cuba Sottana (foto di Z. Barone, 2020).

1 ibn G ˘ ubayr, Viaggio in Ispagna, Sicilia, Siria e Palestina, Mesopotamia, Arabia, Egitto, trad. C. Schiaparelli, Palermo, Sellerio 1995, p. 232. 2 Pietro todaro, Il sottosuolo di Palermo, Palermo, Flaccovio 1988; Pietro todaro Sistemi d’acqua tradizionali siciliani: qanat, ingruttati e pozzi allaccianti nella Piana di Palermo, «Geologia dell’Ambiente», 4, 2014, pp. 19-28. 3 GiusePPe barbera, Parchi, frutteti, giardini e orti nella Conca d’oro di Palermo araba e normanna, «Italus Hortus», XIV, 4, 2007, pp. 14-28. 4 henri bresC, L’itinerario del giardino medioevale dall’Egitto alla Sicilia e alla Provenza. Atti Convegno Int. Il giardino come labirinto della storia, Palermo 1984, pp. 28-32. 5 GiusePPe barbera, Giardini islamici, a cura di L. Bellanca, in Monumenti Normanni: sollazzi e giardini. Le mappe del tesoro. Venti itinerari alla scoperta del patrimonio culturale di Palermo e della sua provincia, Palermo, Regione Sicilia Ass. BB.CC.I.S., 2015, pp. 11-12. 6 FranCo toMaselli, Il ritorno dei Normanni, Roma, Officina 1994.

7 ManFredi leone, FranCesCo lo PiCColo, FiliPPo sChilleCi, Il paesaggio agricolo nella Conca d’Oro di Palermo, Firenze, Alinea 2009. 8 Fabrizio Pedone, La città che non c’era. Lo sviluppo urbano di Palermo nel secondo dopoguerra, Palermo, I.P.E. 2019. 9 zaira barone, Un itinerario Unesco in crescita. “Palermo arabo-normanna e le cattedrali di Cefalù e Monreale”, dal riconoscimento del 2015 al dibattito attuale, in La città palinsesto. Tracce, sguardi e narrazioni sulla complessità dei contesti urbani storici, Napoli, FedOA-Federico II University Press 2020, pp. 577-587. 10 FranCo toMaselli, Il ritorno… cit., pp. 120-138. 11 Il triste declino del Giardino della Zisa, «La Repubblica», 27 marzo 2012. 12 GiusePPe Caronia, La Zisa di Palermo, Storia e Restauro, Bari, Laterza 1987, pp. 77-91.

13 GiusePPe barbera, Patrizia bosChiero, luiGi latini, Maredolce-La Favara. Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino, Treviso, Fondazione Benetton 2015. 14 «Per il fondo del bacino si propone la coltivazione di seminativi a rotazione annuale che consentano la vista dell’isola centrale (…). Per le zone umide, che costituiscono una preziosa riserva di biodiversità da mantenere, alla riproposizione seppur parziale di uno specchio d’acqua (ipotesi difficilmente perseguibile a condizione del sistema di impermeabilizzazione, attualmente compromesso) si preferisce l’idea di un mari d’erve», in Lago Maredolce, «Meridione News», 01 dicembre 2017. 15 Cesare brandi, Il patrimonio insidiato: scritti sulla tutela del paesaggio e dell’arte, a cura di M. Capati, Roma, Editori Riuniti 2014, p.114.

Laura Calandriello, Martina Porcu Il giardino della Villa Floridiana in Napoli. Memoria, conservazione e valorizzazione

Laura Calandriello | lauracalan@gmail.com Martina Porcu | martinaporcu1983@gmail.com Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio, Università degli Studi di Napoli Federico II

Laura Calandriello, Martina Porcu

Abstract The theme of historic gardens is once again at the center of international interests, following the profound environmental and social changes of recent decades. The renewed interest in them highlights the lack of specialized skills and the inadequacy of the regulations, so it seems appropriate to face an innovative research path, capable of reading them as a synthesis of different disciplines and not as their juxtaposition. This line of investigation includes the study conducted on the complex of the Villa Floridiana in Naples, a former Bourbon residence, today the National Museum of Ceramics Duke of Martina. Specifically, the elaborated project aims to recover the architecture of the garden and its artifacts, mending the relationships, now severed, between the built, sculptural and vegetable elements. Finally, the studio proposes the planning of an integrated management of the garden together with an innovative enhancement with the inclusion of diversified functions, whose qualities are able to enhance the material and immaterial values of the pre-existence and to dialogue with the consolidated intended use of the villa as a Museum of Ceramics.

Keywords Giardini storici, Floridiana, valorizzazione, conservazione, restauro.

Introduzione Recentemente si assiste a una crescente consapevolezza in merito al fatto che parchi e giardini siano parte integrante del patrimonio culturale nazionale, in quanto testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e dell’ambiente.1 Tale ampliamento di visione ha condotto a un conseguente aggiornamento dei principi teorici, delle modalità e delle metodologie di intervento, tali da riconoscere le peculiarità di questi beni. L’avvio del dibattito che, nel 1981,2 porta alla redazione della Carta dei giardini storici, testimonia la graduale presa di coscienza che i parchi e i giardini sono, sia per la loro componente polimaterica,3 vegetale e architettonica,4 sia per quella immaginativa, emotiva, di memoria e identificativa,5 archivi per la conoscenza della storia culturale, sociale e produttiva degli uomini, oltre che della storia naturale dei luoghi, vere e proprie “architetture aperte”6

a continui interventi di trasformazione, sovrapposizioni, integrazioni, cancellazioni e rifacimenti, che instaurano rinnovati equilibri tra permanenza e innovazione. Da qui consegue il riconoscimento della centralità della manutenzione,7 per scongiurare interventi più invasivi e la perdita del patrimonio monumentale verde. In linea con le più recenti posizioni critiche e sperimentazioni sul campo – auspicando sensibili ricadute culturali e tecniche nel territorio di indagine – si colloca lo studio qui presentato, condotto nell’ambito della tesi di diploma della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, sul complesso della Villa Floridiana, un tempo residenza estiva di Lucia Migliaccio, moglie morganatica di Ferdinando I di Borbone, e oggi Museo Nazionale delle ceramiche Duca di Martina. L’obiettivo è quello di ampliare la conoscenza di tale bene, rimarcandone il significato e l’importanza della memoria, al fine di salvaguardare la sua trasmissione alle generazioni future, nonché di proporne una gestione innovativa e la valorizzazione.

La Villa Floridiana a Napoli La Floridiana sorge nel quartiere Vomero a Napoli e in origine comprendeva un’area di oltre 18 ettari che dalla collina giungeva alla Riviera di Chiaia. Attualmente il complesso si trova in un contesto urbano soffocante, dove la situazione edilizia al contorno lo rende quasi invisibile, nonostante le dimensioni e l’alto valore storico, artistico, culturale e paesaggistico che detiene (Fig. 1). Come da tradizione del giardino paesistico, il sito presenta differenti sottoinsiemi territoriali, le cui variazioni altimetriche concave e convesse creano un ambiente piacevole per il continuo modificarsi della linea d’orizzonte, mentre i percorsi sinuosi, tra radure e boschetti, creano sorprendenti effetti scenografici, grazie alla disposizione della vegetazione d’alto fusto che indirizza lo sguardo in punti specifici, aprendo o chiudendo visuali sia all’interno del giardino che verso il Golfo di Napoli (Fig. 2). Le trasformazioni subite nel tempo non hanno irreversibilmente alterato la sua architettura e ciò è stato riconosciuto tramite un’approfondita analisi diacronica (Fig. 3), che ha permesso un’innovativa lettura rispetto alla letteratura consolidata sull’argomento. Circa l’autore del giardino non sono pervenute fonti dirette, tuttavia attraverso la ricostruzione della cronologia e la ricognizione

Fig. 1 L. Calandriello, M. Porcu, Inquadramento territoriale.

Fig. 2 L. Calandriello, M. Porcu, Il teatrino di verzura della Villa Floridiana.

Fig. 3 L. Calandriello, M. Porcu, Analisi diacronica della planimetria di Villa Floridiana e di Villa Lucia dal 1647 al 1879 rapportata al rilievo odierno.

Fig. 4 A. Niccolini, Pianta della Villa Floridiana divisa in tre porzioni (Napoli, Museo di San Martino). delle personalità coinvolte nella formazione del complesso, è stato possibile formulare delle ipotesi e, ragionando per analogia, trarre alcune deduzioni. Dallo studio presentato emerge il ruolo chiave nella configurazione del giardino originario di Pompeo Schiantarelli, architetto di corte, già autore di numerose ville e giardini sul litorale vesuviano, incaricato da Chevreux, primo proprietario della futura Floridiana, di valutare l’acquisto dei terreni e di progettare il palazzo, come sostenuto dal Siciliano.8 Il seguito è noto, con gli interventi prima di Niccolini e dopo la morte della Migliaccio, di Dehnhardt, incaricato dai Serra, che riunì due terzi del fondo (Fig. 4) come oggi ci appaiono, ad esclusione dello scalone monumentale (Fig. 5), prolungato verso il Belvedere durante gli interventi novecenteschi.

Memoria, conservazione e valorizzazione Attualmente il giardino della Villa Floridiana presenta evidenti segni di un progressivo declino, a causa di importanti carenze manutentive, fino a essere spesso interdetto al pubblico, in attesa di interventi di messa in sicurezza e restauro, che lo rendono inadatto alle mutate condizioni sociali del pubblico fruitore. Nell’ambito dello studio qui presentato, per la restituzione puntuale dello stato di conservazione del patrimonio vegetale sono state costruite delle schede di rilevamento, con relative note di compilazione, che censiscono parametri e caratteristiche degli individui arborei presenti, di modo da poter predisporre un piano di manutenzione programmata e gli interventi da attuare nel caso di sostituzioni: il problema delle lacune vegetali si fa vivo in occasione delle numerose perdite, dovute ai violenti fenomeni atmosferici, che hanno colpito molti alberi secolari, problema che si affianca ad altri come quello della Toumeyella parvacornis, la cosiddetta cocciniglia tartaruga, che ha attaccato i caratterizzanti Pinus pinea del sito, portandone ben oltre la metà alla morte. La sua conservazione, quindi, si impone come un’esigenza per non perdere un ambito cittadino irrinunciabile e storicamente caratterizzante la città, in quanto uno dei pochi giardini storici ancora fruibili nella sua complessa struttura. Il diverso sovrapporsi di usi, tra sede museale e giardino utilizzato come parco urbano, ha cancellato dalla memoria collettiva la stessa identità dei luoghi. Dal questionario esplorativo somministrato online su un campione rappresentativo di 126 persone, è emerso che la metà degli intervistati non riconosce il giardino della Floridiana come un bene

culturale afferente al MIC, quale esso è, quanto piuttosto come parco urbano gestito dal Comune di Napoli. Il questionario ha indagato diversi ambiti di ricerca quali il tipo di fruizione, la percezione della sicurezza, la conoscenza dei luoghi e le aspettative verso la gestione del sito. Due terzi degli intervistati, pur frequentando il giardino in modo assiduo prevalentemente per passeggiare e per godere del verde monumentale, non ha mai visitato il Museo delle ceramiche. Questo risultato pone in luce un’importante riflessione rispetto ai temi dibattuti nell’ambito del convegno: innanzitutto che gli utenti, seppur non abbiano chiara la differenza formale tra giardino storico e parco urbano, riconoscono il valore indiretto del luogo e gli effetti positivi sul benessere psicofisico che il contatto con la natura comporta, al di là della sua destinazione museale. Inoltre, sono emerse le alte aspettative verso la riqualificazione del sito e la sua fruizione, immaginando uno spazio verde ben manutenuto, con il riconoscimento delle specie botaniche, spazi dedicati alla lettura, al gioco e al benessere. I risultati, dunque, sono stati incoraggianti e perfettamente in linea con le prime ipotesi progettuali elaborate. La proposta qui presentata è di avvio a una progettazione complessiva finalizzata alla tutela, gestione e valorizzazione del giardino e dell’intera sede museale. Individuate le componenti paesaggistiche, funzionali e di relazione con l’intorno (Fig. 6), e raccolti criticamente i risultati dell’indagine esplorativa, sono stati definiti quattro focus progettuali (Figg. 7, 8): percorsi, architettura verde, accessibilità e manufatti architettonici. Per i percorsi si propone di partire con la comunicazione, oggi quasi totalmente assente, che prevede il miglioramento della segnaletica per la visibilità dei tracciati da e verso il complesso e le principali vie di comunicazione, per proseguire con gli aspetti più tecnici quali la riqualificazione dei via-

Fig. 5 M. Firera Alessandri, Prospetto meridionale della villa padronale e scalone monumentale.

Fig. 6 L. Calandriello, M. Porcu, Architettura del giardino della Villa Floridiana, Napoli.

Fig. 7 L. Calandriello, M. Porcu, Proposta progettuale per la Villa Floridiana. Focus Percorsi: il percorso storico-architettonico, il percorso botanico, il percorso artistico.

Fig. 8 L. Calandriello, M. Porcu, Proposta progettuale per la Villa Floridiana. Focus Architettura verde: le specie prevalenti e le eccezionalità botaniche, la cartellinatura botanica.

li in battuto di tufo, da dotare di un impianto di illuminazione efficace ed efficiente, ma poco impattante, per consentire lo svolgimento di eventi culturali anche nelle ore serali. Per l’architettura verde, a partire dalla schedatura summenzionata, si intende realizzare una manutenzione programmata della componente vegetale, inserire aree gioco compatibili con il contesto, avvalendosi

del materiale di recupero degli alberi abbattuti, dotare il patrimonio arboreo e arbustivo di un’opportuna cartellinatura con nomenclatura delle relative specie botaniche, nonché installare opere artistiche all’interno del giardino, riconoscendolo come ulteriore spazio museale, come stanza all’aperto. Il progetto prevede, inoltre, nuove destinazioni d’uso per gli edifici attualmente in stato di abbandono e l’inserimento dei servizi minimi per la fruizione del luogo, ad oggi assenti: una scuola di ceramica e per giardinieri, nuovi allestimenti per l’esposizione degli oggetti ora nei depositi del museo, un bookshop tematico su ceramica e paesaggio, una buvette per ristorarsi e naturalmente dei servizi igienici. Infine, in merito all’accessibilità, è prevista la riattivazione del varco tra la Floridiana e villa Lucia per ridonare al complesso l’unità di fruizione perduta ma fisicamente mantenuta, la riapertura delle vie gradinate da e verso la Riviera di Chiaia, ristabilendo il suo filo diretto con il litorale, il miglioramento dell’accessibilità al sito per gli utenti con disabilità motoria, nonché la realizzazione al suo interno di percorsi dedicati agli ipovedenti.

Conclusioni Il caso illustrato è rappresentativo di come lo studio sistematico del giardino storico in relazione alla sua natura di opera in progress, 9 in costante mutamento, costituisca una premessa indispensabile per un’attenta valutazione dei fenomeni in atto e per il riconoscimento dei valori inediti e autentici di tale patrimonio. Alla luce di ciò la risignificazione dei luoghi deve essere pertanto obiettivo della pianificazione dei futuri interventi e premessa imprescindibile per sua la trasmissione alle generazioni che verranno. Una possibile risposta deve arrivare dalla contemporaneità, secondo il principio di evoluzione del giardino come continuo addensarsi di risorse sulle quali agire conservando e aggiungendo nuovi e riconoscibili valori,10 sempre nella prospettiva di una sua manutenzione programmata.

1 Cfr. l’Art. 1 della Carta di Firenze del 1981, a cura del Comitato internazionale dei giardini storici ICOMOS-IFLA. 2 Per una disamina delle fonti storiche che ripercorrono il tema del restauro dei giardini si veda Maria adriana Giusti, Restauro dei giardini: teorie e storia, Alinea, Firenze 2004, p. 29. 3 Secondo la definizione unificata all’Art. 1 della Carta del restauro di Firenze, «un giardino storico è una composizione architettonica e vegetale che dal punto di vista storico o artistico presenta un interesse pubblico. Come tale è considerato come un monumento». 4 Cfr. lionella sCazzosi, Il giardino opera aperta, Firenze, Alinea 1993 5 Paolo d ’anGelo, Filosofia del paesaggio, Macerata Quodlibet 2014, p. 14. 6 Lionella sCazzosi, Il giardino …, cit., pp. 25-58. 7 Maria adriana Giusti, Restauro …, cit., p. 127. 8 toMMaso siCiliano, La Floridiana e Villa Lucia: fonti e documenti, Napoli, Il Rievocatore 1966. Per una puntuale e accurata ricostruzione delle vicende storiche della Villa si vedano inoltre: alFredo buCCaro, Iconografia e identità storica della città e del paesaggio urbano: una nuova occasione di studio e di confronto, «Eikonocity», I, 2016, pp. 7-12; Vanna FratiCelli, Il giardino napoletano: Settecento e Ottocento, Napoli, Electa 1993; anna Giannetti, Il giardino napoletano: Dal Quattrocento al Settecento, Napoli, Electa 1994; Paola Giusti, I tesori della Floridiana, 1990; Fabio ManGone, GeMMa belli, Capodimonte, Materdei, Vomero. Idee e progetti urbanistici per la Napoli collinare 1860 - 1936, Napoli, Grimaldi 2012. 9 Maria adriana Giusti, Restauro …, cit., p. 189. 10 Ibidem.

Marina D’Aprile Il verde che cura. Conservazione e riuso delle aree verdi negli ex ospedali psichiatrici

Marina D’Aprile | marina.daprile@unicampania.it Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale, Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli

Marina D’Aprile

Abstract The greenery as a means of care is an ancient concept. In this sense, designed landscapes played an important role within the psychiatric therapy, constantly accompanying the mental hospital buildings since the first asylums. As simple formal and English layouts always associated with vegetable and agricultural gardens, these places preserved their features at least up to the mid-twentieth century, being then often compromised by building works and lack of maintenance, especially when the psychiatric institution was decommissioned. Once briefly revealed some of the “values” there involved, the paper dealt with the criteria commonly addressing their reuse, comparing them to what the two so-called Charters of Florence stated. What thus emerges is the recurring difficulty to entirely recognise these parks as “historic”, due to the ageless idea, not actually eradicated by the two Charters, that only the “monumental” gardens deserve an undifferentiated safeguard.

Parole chiave Healing garden, airing court, colonia agricola, Carte di Firenze.

La consapevolezza dei benefici indotti dal contatto con la natura e la disposizione a questo scopo di appositi spazi sono concetti antichi. Gli healing gardens – oggi al centro di un rinnovato interesse segnatamente nei luoghi di cura – hanno connotato, difatti, quasi ogni civiltà1. In questo scenario, la sistemazione di giardini e parterres, aree coltivate e orti ha rappresentato, com’è noto, un ingrediente importante della terapia psichiatrica, accompagnando l’evoluzione dell’istituzione manicomiale sin dai primi asili. Per il convergere di fattori diversi, dal secondo dopoguerra la fiducia nel contributo curativo degli ambienti di degenza, sia costruiti che naturali, è andata via via sfumando, sostituita da quella per gli interni e gli arredi. Private dell’uso e della manutenzione, già prima quindi della deistituzionalizzazione dei manicomi (1978), tali risorse hanno verificato reiterate compromissioni. Modifiche nella configurazione degli impianti e nei loro apparati, alienazioni anche consistenti, e sistematiche edificazioni dei quadri naturali al contorno, tra gli anni Cinquanta e Settanta hanno provocato, difatti, un depauperamento significativo di molti contesti, reso poi più pervasivo dall’abbandono conseguente all’applicazione della “riforma Basaglia” (L. 180/1978).

Fig. 1 D. Gualandi, Pianta topografica dello Stabilimento di Aversa nel Regno di Napoli, 1823 da gualandi, 1823. Uno dei primi asili italiani (1813) con “giardini da passeggio” e superfici ortive.

La riconversione dei manicomi – molti dei quali tuttora in disuso – negli ultimi anni è stata al centro di interessi diversi, anche in campo internazionale, di rado coerenti con la loro completa tutela. La vulnerabilità delle loro “architetture vegetali” 2 – la cui vasta estensione è, altresì, tra le maggiori cause dell’indicata divergenza – invera, dunque, un tema cogente. Nella convinzione che gli stessi criteri che regolano l’intervento sul verde storico più rinomato debbano sovraintendere al trattamento di questi siti, le note seguenti ne illustrano caratteri e sviluppo, analizzando gli approcci e le pratiche che ne hanno orientato comunemente il riuso alla luce delle due Carte.

Note sull’impianto e l’evoluzione del verde manicomiale Dopo la chiusura, un nutrito repertorio di studi si è concentrato sulle architetture manicomiali e sul loro riuso, in particolare, dalle prospettive storiografica e progettuale. Sulle relative aree verdi, segnatamente nei plessi provinciali, per ricavare un quadro generale tranne poche eccezioni3, è necessario riferire, oltre che ai contributi su singoli siti, al censimento 1996-98 – utile anche per valutare quantitativamente le colonie agricole sopravvissute4 – e alla nota ricerca PRIN 2008 con il correlato portale5 . Le prime notizie sugli healing gardens nei luoghi di cura risalgono al XVIII secolo6 . Nei manicomi, tali presenze sono accertate sin dai primi impianti e ne hanno accompagnato l’evoluzione all’incirca fino allo scoppio della Seconda Guerra. Quasi sempre anonimi, i progetti di questi giardini, sostanzialmente, non svilupparono configurazioni peculiari, riproducendo schematicamente, nelle prime sistemazioni, gli impianti formali “all’Italiana” o “all’Olandese” e, dagli anni Ottanta del XIX ai primi del XX secolo, i modelli “all’Inglese”. Parte integrante di questi insediamenti furono pu-

Fig. 2 G. Virgilio, Planimetria del R. Manicomio di Aversa, 1883 da Virgilio, 1883. Da notare il diverso impianto dei giardini dei reparti eretti nella prima età postunitaria e l’incremento delle superfici coltivate.

re gli orti e i terreni coltivati che, con i boschi per la legna da ardere, costituivano le principali fonti di autosostentamento. Fino agli anni Cinquanta-Sessanta l’agricoltura in questi contesti mantenne le forme delle tradizioni locali poi, per lo più, soppiantate da modalità intensive. Porzioni consistenti delle colonie agricole furono, in seguito, anche alienate ed edificate, ma persino dove in parte sopravvissute, le trasformazioni subite sono state, in media, così pervasive che, senza indagini archeologiche, è oggi difficile rilevare le tracce delle consistenze passate. Dai primi asili fino almeno agli anni Quaranta i giardini dei manicomi pubblici corrisposero ai cosiddetti airing courts. Destinati al passeggio dei degenti e presenti in ogni reparto, tali spazi erano recintati e divisi per sesso e classe nosografica (Fig. 1)7. Risolti come impianti formali, con parterres (Fig. 2), alberi e piante frondose, a seconda dell’utenza, furono muniti pure di fiori, sedute, vasche, fontane e sculture. Con le colonie agricole, questi luoghi sono oggi i più alterati, specie gli arredi e le recinzioni. Sorte migliore è toccata ai giardini all’ingresso degli istituti e in adiacenza agli ambienti direzionali e di visita. Connotati da schemi formali più ricercati, questi impianti conservano anche le specie esotiche e i palmizi che, secondo una moda diffusa, furono impiantati nei manicomi nei primi decenni del XX secolo (Figg. 3, 4).

La tutela dei parchi degli ex manicomi e le Carte dei giardini storici Nell’insieme delle sue componenti, il verde di cui ci occupiamo è testimonianza di una rete complessa e stratificata di contenuti storici, sociali, scientifici, estetici e simbolici. Di conseguenza, è un «artefatto materiale […], una risorsa architettonica e ambientale […] che riflette la società e la cultura che l’hanno ideato, costruito, usato e che, comunque, sono entrate in relazione con esso»8. Del resto, «la denominazione di giardino storico si applica sia ai giardini modesti, che ai parchi ordinari e paesistici»9. Eppure, di rado questi siti sono qualificati interamente come “storici”. Al sostanti-

vo “parco” si associa, in genere, l’espressione “con alberi monumentali ed essenze di pregio”, con un manifesto intento di selezionarne le aree di tutela. D’altronde, dopo la chiusura dei manicomi, gli interventi approntati in questi spazi sono stati, per lo più, di riqualificazione e recupero10 . «Le disposizioni legali e amministrative atte a identificare, inventariare e proteggere» questi siti sono carenti (CF Art. 23). Tranne qualche episodio, i dispositivi di salvaguardia non ne investono le intere estensioni (CIRGS Art. 4). I piani urbanistici comunali – che classificano, in media, gli ex ospedali psichiatrici come “zona F” – difficilmente, ne hanno interpretato il ruolo ai fini del «riequilibrio del territorio» (CIRGS Art. 3), reperendo al loro interno persino nuovi parcheggi. Lo «studio approfondito» che assicura «il carattere scientifico dell’intervento» (CF Art. 15) rivela, altresì, ulteriori mancanze, segnatamente nella raccolta dei dati diretti. A rilievi spesso solo planimetrici, di rado si associa il completo censimento della vegetazione – per lo più riservato agli alberi – quello di arredi e infrastrutture e l’esame delle visuali e dei rapporti con il contesto. Mancano sovente gli studi geologici e ambientali e, soprattutto, il confronto con gli episodi coevi e le analisi archeologiche, non solo di scavo, per rinvenire le tracce delle disposizioni passate (CIRGS Art. 4). Del resto, il “progetto di conoscenza” è, in specie, carente proprio nell’accertamento delle configurazioni e le consistenze che il parco ha assunto nel tempo (Figg. 5, 6). Di conseguenza, è reiterata l’attitudine ad assegnare primazia alle testimonianze del primo impianto – in primis ad alberi e trame viarie – le quali, se molto compromesse, sono sostituite á l’identique, e se perdute e documentate, sono ripristinate. La Carta ICOMOS-IFLA non esclude, com’è noto, questo intervento (Art. 16). Insieme a una definizione più inclusiva di giardino storico, d’altronde, fu proprio l’esigenza di evitare il ripristino (Art. 2) a spingere alla redazione della Carta italiana. Rimarcando le finalità conservative dell’azione restaurativa essa manca, però, di «prendere coscienza […] dei limiti della conservazione e, al tempo stesso, dell’esigenza del rinnovo» che, ineludibile testimonianza del nostro tempo, deve però incrementare i contenuti della risorsa valorizzandone l’identità11. Tranne qualche caso – come il celebre roseto del S. Giovanni a Trieste o l’arte contemporanea nel S. Maria della Pietà a Roma – in questi giardini le ultime “aggiunte” sembrano conseguire solo alla volontà di incrementarne le attrezzature, senza nessi con lo “spirito del luogo”12, gli usi che lo hanno plasmato e le tracce delle passate disposizioni (Fig. 7).

Fig. 3 Progetto di costruzione del Manicomio Provinciale di Rovigo, Pianta generale, 1906 da sorBo, 2017, p. 958. I “giardini da passeggio”, separati e recintati, connotarono anche gli impianti del primo XX secolo.

Fig. 4 Planimetria generale del Manicomio Provinciale di Gorizia, 1933, da scavuzzo, 2019, p. 141. I caratteri distintivi dei primi giardini manicomiali informarono, sostanzialmente inalterati, anche gli episodi più tardi.

Fig. 5 Manicomio provinciale S. Osvaldo, Udine, Schema della matrice compositiva del sito da visualizza immagine (regione.fvg.it) [luglio 2021]. Le residue testimonianze dei primi impianti sono, comunemente, accertate confrontando le attuali consistenze con i dati desunti dall’iconografia storica.

Fig. 6 Parco del complesso psichiatrico S. Maria della Pietà, Roma, Forme della vegetazione e del paesaggio, da varoli Piazza Et alii, 1996, p. 14. Sulla scorta dei criteri stabiliti dalla International Society of Arboriculture, nel 1994 l’Associazione Silvicoltura Agrocoltura Paesaggio di Roma approntò lo studio e il programma di manutenzione del parco disegnato da Nicodemo Severi. Improntato alla conservazione di tracciati ed essenze, il progetto si basò sul preliminare censimento della vegetazione e sulla sua analisi strutturale e fitosanitaria. Per le componenti perdute del primo impianto fu suggerito il ripristino, secondo «lo stile dei parchi romani d’inizio secolo […] e la memoria storica dei giardini del manicomio». Delle “sorveglianze” – cioè degli antichi recinti dei giardini da passeggio – fu promossa, invece, la rimozione e l’eventuale sostituzione con siepi. Sebbene la damnatio memoriae per l’istituzione manicomiale possa aver alimentato in tali contesti la mancata attuazione di una piena tutela, la maggiore responsabilità risiede nell’inveterata idea che l’oggetto da conservare sia il “monumento”. Per motivi diversi, come si è visto, le due Carte non hanno contribuito al reale superamento di questo concetto. Come la Carta di Venezia per i beni ambientali13, più o meno esplicitamente, esse hanno infatti legittimato l’approccio selettivo, privilegiando le opere rare e di “particolare importanza”.

Fig. 7 Imola. Piano di recupero integrale del parco dell’ex Manicomio dell’Osservanza, 2014-16 da ManarEsi, 2017, p. 51. Dopo un primo progetto, molto trasformativo, di riconversione e nuova edificazione firmato da Gae Aulenti (2004) e non attuato, al parco si è destinato un nuovo piano che, pur mantenendo la vegetazione e le trame viarie, ha disposto il ripristino dell’intera zona centrale, l’inserimento di attrezzature e nuovi tracciati e l’eliminazione di parte del recinto manicomiale.

1 Tra gli altri, Clare CooPer MarCus et alii (a cura di), Healing Gardens. Therapeutic Benefits and Design Recommendations, New York, Wiley 1999.

2 Maurizio boriani, lionella sCazzosi, Il restauro delle architetture vegetali, in Tutela dei giardini storici. Bilanci e prospettive, a cura di V. Cazzato, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali-Ufficio Studi 1989, pp. 223-235. 3 Per l’Italia, Anna Giannetti, Alla ricerca del Gheel tra amene campagne e decorosi quartieri: la Natura in manicomio, in I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di C. Ajroldi et alii, Milano, Electa 2013, pp. 39-46. Per il Regno Unito, dove questo tema è più stato indagato, sarah rutherFord, The landscapes of public lunatic asylums in England, I-III, Leicester, University of Leicester 2003; Clare hiCkMan, Theraupetic Landscapes: a history of English Hospital Gardens since 1800, Manchester, Manchester University Press 2013. 4 ida FriGo I. et alii (a cura di), Per un atlante degli ospedali psichiatrici pubblici in Italia: censimento geografico, cronologico e tipologico al 31 dicembre 1996 (con aggiornamento al 31 ottobre 1998), Treviso, Fondazione Benetton Studi e Ricerche 1998. 5 Cesare aJroldi et alii (a cura di), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, Milano, Electa 2013; e http://www.spazidellafollia.eu/it.

6 nanCy GerlaCh-sPriGGs, riChard enoCh kauFMan, saM bass Warner, Restorative Gardens. The Healing Landscape, New Haven-London, Yale University Press 1998, pp. 7-33. 7 Per uno dei primi giardini asilari, doMeniCo Gualandi, Osservazioni sopra il celebre Stabilimento d’Aversa nel Regno di Napoli e di molti altri spedali d’Italia destinati alla reclusione e cura de’ pazzi con alcune considerazioni sopra i perfezionamenti di che sembra suscettivo questo genere di stabilimenti, Bologna, Tipografia de’ Fratelli Masi 1823, pp. 12-86. 8 Carta italiana del restauro dei giardini storici, d’ora in poi CIRGS, 1981, Art. 1. 9 Carta ICOMOS-IFLA dei giardini storici detta Carta di Firenze, d’ora in poi CF, 1981, Art. 6. 10 San Giovanni oltre il muro: parco pubblico, bello e utile per la città, Treviso, Fondazione Benetton Studi e Ricerche 1996; S. Varoli Piazza et alii, La manutenzione del patrimonio arboreo e arbustivo urbano: il parco dell’ex ospedale psichiatrico S. Maria della Pietà a Roma, «Acer», 4, 1996, pp. 13-17; CarMelo anderle, Fabrizio. Fronza, Il recupero del parco. Il Servizio Ripristino e Valorizzazione Ambientale della Provincia Autonoma di Trento e il suo contributo al recupero del parco dell’ex ospedale psichiatrico di Pergine, «Punto Omega», V, 2003, 12-13, pp. 49-73; MassiMo asquini, Sul sito dell’ex Ospedale Psichiatrico Provinciale di Sant’Osvaldo a Udine: un ambito architettonico e paesaggistico da conoscere, conservare e valorizzare, in Un’identità: custodi dell’arte e della memoria. Studi, interpretazioni, testimonianze in ricordo di Aldo Rizzi, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna 2007 («Arte/Documento/ Quaderni», 12); r. Manaresi, Il parco dell’Osservanza di Imola, «UDM. Urban Design Magazine», IX, 2017, pp. 46-53; sorbo 2017; GiusePPina sCaVuzzo, Architetture tra sovrana ragione e diritti dell’altro, «Ardeth», IV, 2019, pp. 128-149; serGio Pratali MaFFei S. et alii (a cura di), Riparare l’umano. Lezioni da un manicomio di frontiera, Siracusa, LetteraVentidue 2019. 11 MarCo dezzi bardesChi, Il giardino come manufattoartefatto materiale da conservare e valorizzare, in V. Cazzato (a cura di), Tutela dei Giardini Storici. Bilanci e prospettive, Roma 1982, p. 90. 12 iCoMos, Dichiarazione di Québec sulla conservazione dello spirito del luogo, 2008. 13 GiusePPe FienGo, La conservazione dei beni ambientali e le Carte del restauro, in S. Casiello (a cura di), Restauro: criteri, metodi esperienze, Napoli, Electa 1990, pp. 26-46.

Gilberto De Giusti, Marta Formosa Villa Doria ad Albano Laziale. Le memorie del «Bosco» ottocentesco a confronto con lo stato attuale

Gilberto De Giusti | gilbertodeg@yahoo.it Marta Formosa | marta.formosa@uniroma1.it Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura, Sapienza Università di Roma

Gilberto De Giusti, Marta Formosa

Abstract Villa Doria in Albano Laziale is an important example of historic garden in the area of the Castelli Romani. This place is a layered schedule, in which the transformations of the seventeenth and nineteenth centuries overlapped the ruins of the roman villa conventionally attributed to Pompeo Magno. Villa Doria has also a memorial value, because of the battle of the Divisione Piacenza of the 9th September 1943. The succession of phases has left marks on the territory, to be re-read in the layout of the avenues, the wall elements, the vegetation and the furnishings. Currently the park is used as a municipal villa, however becoming the subject of frequent vandalism. A critical reading of the park is proposed, with reference to a nineteenth-century plan, in which the garden is described as “Bosco”, offering a vision of how much it has actually been preserved compared to the ancient layout.

Parole chiave Giardini storici, restauro, villa Doria, paesaggio, archeologia.

Il giardino storico è un delicato palinsesto polimaterico, che riunisce in sé elementi naturali e antropici. La sua espressività figurativa si deve ai caratteri della topologia e della geomorfologia del territorio, dell’ambiente con la sua flora, la sua fauna e il suo clima, e, infine, dell’opera umana, che lo ha modificato con una precisa volontà d’arte e ha quindi impresso dei “segni” leggibili nella destinazione d’uso, nei percorsi, nelle strutture e nell’apparato decorativo, secondo il volgersi delle tecniche e del gusto estetico nelle varie epoche. La villa Doria ad Albano offre una particolare lettura del rapporto consolidatosi nel tempo tra edificato e natura, ma anche dei valori materiali e immateriali espressi da un paesaggio che si è trasformato in una successione di fasi. La complessità che deriva da questo sistema ben definito di relazioni restituisce l’immagine di un luogo decisamente configurato, originatosi dalla modificazione del contesto naturale sulla base della progettazione architettonica e paesaggistica. Questo giardino storico è contraddistinto da una realtà pluristratificata, in cui il costruito si associa agli individui vegetali e alla loro progressiva, lenta ma costante, crescita nel tempo. In questo senso si parla di «una realtà dinamica, soggetta alle leggi dell’evoluzione naturale», estendendo il concetto di conservazione al fragile ecosistema formato da componenti umane e ambientali, strettamente legate nel presente da relazioni spaziali, temporali e culturali1 .

Tuttavia, sono proprio queste peculiarità a esporre maggiormente il sito a pericoli conservativi. Nel tempo si è creato un delicato ambiente, facilmente alterabile per le disattente potature o per l’inserimento di essenze aliene. L’uso del sito come giardino pubblico, senza un’adeguata sorveglianza, lo rende facile preda dei vandali. Manca un attento piano di manutenzione, definita nella Carta dei Giardini di Firenze del 1981 «un’operazione fondamentale e necessariamente continua». Occorre un’operazione di tutela che affondi le proprie radici nella conoscenza e nella corretta interpretazione del luogo, sia sotto il profilo storico-artistico che naturalistico. Il giardino, accessibile da piazza Giuseppe Mazzini, si sviluppa in leggero declivio sul lotto irregolare occupato centralmente dalla zona rialzata che conserva i resti archeologici della villa romana (Fig. 1). Dalla piazza si aprono i tre ingressi principali, di cui quelli laterali sono i viali alberati che percorrono longitudinalmente il parco, mentre quello centrale è il belvedere da cui si diparte la scalea curvilinea di accesso al sottostante ninfeo e al parterre, con la targa a ricordo della battaglia della Divisione Piacenza del 9 settembre 1943 (Fig. 2). La scala di sinistra introduce alla pineta costi-

Fig. 1 Villa Doria, Albano Laziale (RM), Italia. Vista satellitare dell’area da Google Maps, 2021.

Fig. 2 Il parterre di villa Doria con la targa commemorativa della Divisione Piacenza, Albano Laziale (RM), Italia. Fotografia degli autori.

Fig. 3 La pineta di villa Doria, Albano Laziale (RM), Italia. Fotografia degli autori.

Fig. 4 Il piazzale con la fontana di villa Doria, Albano Laziale (RM), Italia. Fotografia degli autori. tuita dal doppio filare di Pinus sp., fino all’estremo margine della villa (Fig. 3). Dall’altro lato, il viale di Quercus ilex si congiunge al piazzale con la fontana da cui si diramano tre sentieri (Fig. 4). Assialmente si eleva la facciata della cisterna romana, sulla cui sommità sono visibili i resti murari e gli stralci di mosaico pavimentale (Fig. 5). Dietro l’altura, si trova lo slargo che affaccia sulle campagne fino al mare, lambito dai muri meridionali della villa, con i due portali di accesso ai criptoportici (Fig. 6). Brani di murature antiche si susseguono cingendo a tratti il perimetro del modesto rilievo, interrotti da aree scoscese, rampe o brevi sentieri, a cui si intercalano grandi individui arborei, soprattutto lecci, presentandosi come area boschiva. Per quel che riguarda l’assetto floristico, sebbene la zona della villa romana sia quella che ha «maggiormente mantenuta la fisionomia antica», tutto il parco «conserva buona parte dell’alberatura antica, costituita da querce, pini, cedri del Libano, platani, frassini»2 . Il giardino attuale si è formato sui resti della villa romana di età tardo repubblicana, convenzionalmente attribuita a Pompeo Magno, di cui gli scavi del XX secolo hanno permesso di comprendere l’impianto e l’estensione rispetto al parco. Dopo l’abbandono in epoca tardo antica e diversi passaggi di proprietà, l’area è acquistata nel 1764 dal principe Giovanni Andrea Doria Pamphili (1747-1820) che commissiona all’architetto Francesco Nicoletti (1703-1776) la realizzazione dell’edificio residenziale. Questo, «con la monumentalità dei coevi palazzi romani», si ergeva a monte del giardino, nell’attuale piazza Mazzini, venendo però demolito nel 1951 per i danni subiti durante la guerra3. La Pianta del Bosco in Albano appartenente a S.E. il Sig.re Principe Doria Pamphilj Singolare per la situazione montuosa sopra Ruderi antichi e con Vedute da tutti i Lati, del 1815, raffigura il giardino accentuando le antichità e le visuali panoramiche verso il paesaggio circostante (Fig. 7). Nel disegno il «Bosco» è percorso longitudinalmente dal viale principale ed è attraversato da numerose vie distinte tra «Gran viali antichi» e «Viale nuovo scoperto», mentre i sentieri, i viottoli e gli slarghi sono evocativamente descritti in legenda, con particolare riferimento alle rovine o agli affacci: «Viale per la Veduta di Roma […] Viale del Cannocchiale per vedere la Rimessa di Casa Altieri […] Veduta a Ponente del Mare […] Veduta a Tramontana di Roma, Castel Gandolfo, Riformati, Monte Cavi e Cappuccini d’Albano […] Veduta a Levante di tutto Albano e Galloro: ed a Mezzogiorno di Monte Giove, Vallericcia e Mare». Emerge un’interpretazione del parco come una trama di percorsi, antichi e nuovi, sovrapposti all’impalcato del bosco tra cui affiorano i resti archeologici della villa romana, secondo una concezione romantica del paesaggio, in stretta comunione con le valenze espressive e simboliche dei ruderi immersi in un contesto spiccatamente naturalistico. Si intendono anche quei «modi di alta civiltà del rapporto villa-territorio […], del rapporto di ville contigue, di sistemi di ville (l’una giovantesi della veduta dell’altra)»4. L’analisi della planimetria del 1815 offre una lettura del luogo come un insieme organico di natura, archeologia e paesaggio, con una visione unitaria del territorio e non come una somma delle singole parti. Tale interpretazione

sembra permanere nel disegno del 1914, in cui si effettua la sovrapposizione tra l’impianto architettonico della villa di Pompeo e l’assetto dei viali di epoca ottocentesca (Fig. 8). Allo stato attuale è molto difficile comprendere l’equilibrio tra le preesistenze archeologiche e il loro contesto. La villa, oggi parco pubblico, non è riletta nel suo rapporto con le rovine e con il territorio circostante: ci si reca nel giardino per beneficiare del verde o per studiare i reperti archeologici, ma sfugge la riflessione che questo spazio è una composizione di elementi antropici e naturali, fusi in un unico paesaggio. Cala su tutto un generale degrado, indifferente ai valori storici e artistici espressi dal luogo: l’assenza di manutenzione e gli atti vandalici affliggono la vegetazione e le strutture archeologiche, facendo sì che tutto sia preda di un comune disinteresse. Ciò è evidente se si considera la diffusa presenza di rifiuti, il mancato governo dei prati e delle aiuole, nonché l’assenza di provvedimenti per la conservazione dei ruderi e dei mosaici esposti alle intemperie e all’azione dell’uomo. Lo stesso vale anche per l’area a parterre che, in seguito alla battaglia della Di-

Fig. 5 Resti murari e mosaici a villa Doria, Albano Laziale (RM), Italia. Fotografia degli autori.

Fig. 6 Ruderi archeologici a villa Doria, Albano Laziale (RM), Italia. Fotografia degli autori.

Fig. 7 Pianta del Bosco in Albano appartenente a S.E. il Sig.re Principe Doria Pamphilj Singolare per la situazione montuosa sopra Ruderi antichi e con Vedute da tutti i Lati,

da isa BElli Barsali, Maria grazia BranchEtti, Ville della Campagna romana, Lazio 2, Milano, Sisar 1975, p. 239.

visione Piacenza all’indomani dell’Armistizio, ha acquisito delle profonde valenze commemorative, e che, tuttavia, è pure soggetta all’incuria e all’azione dei vandali. «Per tutelare e conservare bisogna conoscere», recita la Carta Italiana dei Giardini Storici. L’analisi precisa e puntuale della consistenza fisica del giardino, dei suoi percorsi e salti di quota, delle preesistenze archeologiche e delle sue alberature, è la sola strada per la redazione di un funzionale piano di manutenzione, in vista del futuro restauro. Il riconoscimento dei valori espressi dal giardino, delle sue qualità artistiche e botaniche, costituisce la guida valida per le corrette operazioni manutentive, nel rispetto di ogni fase del processo storico e dei caratteri identitari del sito. Occorre quindi un progetto organico e unitario, saldamente basato sulla conoscenza della realtà fisica del monumento e delle vicende storiche che nel tempo lo hanno modellato fino a consegnarlo ai nostri giorni. La ricostruzione precisa delle fasi di trasformazione, sulla base di un circostanziato rilievo, è il fondamentale strumento di comprensione del giardino storico, da tradursi poi in un concreto piano operativo, sviluppato e portato avanti, secondo un approccio multidisciplinare, da figure professionali altamente specializzate che interpretino in modo adeguato il genius loci. Alla luce di ciò, il progetto di restauro è la risposta critica che conduce alla giusta lettura dello spazio nella sua realtà attuale, nutrito dalla consapevolezza della continuità storica tra l’antico e il presente.

Fig. 8 G. Lugli, Pianta della villa di Pompeo dall’originale del Rosa, da giusEPPE lugli, Le antiche ville dei Colli Albani prima dell’occupazione domizianea, «Bollettino della Commissione Archeologica Comunale», 1914, tav. XI.

1 Maria Piera sette, Note introduttive, a margine, in Il verde nel paesaggio storico di Roma. Significati di memoria, tutela e valorizzazione, a cura di M. P. Sette, Roma, Quasar 2014, p. 5.

2 isa belli barsali, Maria Grazia branChetti, Ville della Campagna romana, Lazio 2, Milano, Sisar 1975, p. 239. 3 auGusto roCa de aMiCis, Villa Doria e cappella di S. Giobbe, in Atlante del Barocco in Italia, Lazio I, a cura di B. Azzaro et alii, Roma, De Luca Editore d’Arte 2002, pp. 54-55. 4 isa belli barsali, Il restauro di ville e giardini storici, in Tutela dei Giardini Storici. Bilanci e prospettive, a cura di V. Cazzato, Roma, L.S. Olschki 1989, p. 80.

Angèle Denoyelle Peut-on créer dans les jardins historiques ? Le cas jardin du Musée Rodin

Angèle Denoyelle | angele.denoyelle@gmail.com École nationale supérieure d’Architecture de Paris-Belleville –Université Paris-Est, École nationale supérieure du Paysage de Versailles

Angèle Denoyelle

Abstract Through the study of the garden of the Rodin Museum, on which Jacques Sgard intervened in 1992, this contribution proposes to analyse the capacity of the creation project to be part of a restoration process of historical gardens. The aim is to show that the landscape project approach can make it possible to reconcile the monument’s conservation issues with the natural dynamics of garden renewal, to reveal the different historical identities of the site while adapting it to its new challenges.

Mots clés Jardins historiques, création, projet de paysage, restauration, Musée Rodin.

L’objectif de cet article est de montrer comment le projet de création dans les jardins historiques peut permettre de concilier l’histoire du monument et de respecter la dynamique de transformation naturelle du jardin du fait qu’il est, comme le définit la Charte de Florence, constitué de « matériau […] principalement végétal donc vivant, et comme tel périssable et renouvelable. Ces deux aspects des jardins historiques peuvent paraître en contradiction. Comment rendre compte de l’histoire et préserver un monument qui se transforme ? C’est là toute l’ambiguïté de la restauration des jardins qui anime l’ensemble des débats depuis les premiers colloques de l’ICOMOS/IFLA dans les années 1970. Faut-il privilégier la restauration d’un état historique donné, conserver un état hérité où s’imbriquent plusieurs périodes de l’histoire ou permettre au jardin de continuer à évoluer comme il l’a toujours fait ? Restituer, conserver ou perpétuer1 ? Le jardin du Musée Rodin, réaménagé en 1992 par le paysagiste Jacques Sgard, que nous proposons d’évoquer ici au regard des deux chartes sur la restauration des jardins historiques, nous semble être un exemple de cette capacité de la création à « se mettre au service de la sauvegarde du jardin2 ».

Présentation du site D’une superficie actuelle de 3 ha, le jardin fait partie intégrante de la scénographie du musée depuis son ouverture en 1919. Nous résumons ici les grandes lignes de son évolution :

L’hôtel particulier est bâti entre 1728 et 1730, pour Peyrenc de Moras. La parcelle, exceptionnelle par sa taille au centre de Paris, permet l’édification d’un bâtiment entouré de jardins sur ces quatre façades. Un plan de Blondel, daté de 1752, nous en donne une description précise : les jardins sont composés d’un parterre à la française orné de broderies, de bosquets et quinconce et d’un potager en terrasse. En 1753, le domaine est vendu à Gontaut-Biron. Un plan de Le Rouge, publié en 1775, nous permet de comprendre les transformations réalisées. La composition initiale est simplifiée en termes de décor. La parcelle est agrandie et la perspective est allongée autour d’un bassin circulaire central. De nouveaux espaces de cultures horticoles sont créés à l’est, derrière les bosquets existants3. Ceux-ci sont peu modifiés et conservent leur disposition. La propriété est vendue en 1820 à la société du Sacré-Cœur de Jésus. C’est le début de l’abandon progressif du jardin. Seules les grandes lignes du jardin à la française sont conservées, le bassin est comblé et l’ensemble sert de potager, de verger et de pâturage. La congrégation abandonne les lieux en 1904. Plusieurs artistes – Matisse ou encore Cocteau - y louent de petits appartements. Le jardin est alors « un parc féerique abandonné4 », « une petite forêt vierge, un désordre végétal inextricable5 ». En 1908, le poète Rilke invite Rodin en lui vantant les charmes d’un « un jardin abandonné6 » bucolique et enchanteur. (Fig. 1)

Fig. 1 L’hôtel Biron vu depuis le jardin, début du XXe siècle (Archives du Musée Rodin).

Fig. 2 J. Sgard, La perspective du Musée Rodin, 2017, A. Denoyelle. Rodin s’installe en octobre 1908. En 1909, l’état de vétusté de l’hôtel entraine sa mise en vente. Commencent alors de longues négociations entre le sculpteur et l’État afin que le lieu devienne un musée dédié à son œuvre. L’État achète l’hôtel en 1911. Le projet du musée prend forme à partir de 1916 et ouvre ses portes le 4 août 1919. La partie sud du jardin, en fond de perspective est cédée au lycée Duruy. L’ensemble est classé Monuments historiques en 1926. Entre 1919 et 1927, les restaurations menées par les premiers conservateurs renouent avec les lignes du jardin à la française de Biron. Le premier, Bénédite, souhaite conserver l’état sauvage des parterres. Le second, Grappe, reproduit l’état XVIIIe s.7. Le miroir d’eau est redécouvert en 1927. Plusieurs fontes de Rodin sont installées pour le mettre en valeur, notamment le Ugolin placé au centre du bassin8. Les arbustes et fruitiers des parterres sont conservés et un tapis vert central est créé. En 1992, après plusieurs réaménagements dans le but d’accueillir des expositions de sculpture contemporaine, le directeur du musée, Jacques Villain, sollicite le paysagiste Jacques Sgard. Celui-ci propose un réaménagement de la perspective qui, en respectant la composition du jardin à la française, retrouve l’esprit sauvage du jardin du début du XXe siècle.

Le projet de Jacques Sgard Le projet de Sgard intervient au moment où la politique du ministère de la Culture pour les jardins historiques s’élargit et proclame, au travers du grand projet des Tuileries notamment, l’importance de la compétence paysagiste en la matière9. La valeur de l’histoire est alors mise en perspective avec « la spatialité particulière du paysage » dans ses différents aspects : taille et forme de l’espace, limites, végétaux, atmosphère, usages ou références culturelles10. Le projet de paysage11 est préféré au projet historique dans sa capacité à travailler « à partir d’un site « construit », pourvu d’une mémoire, en [en reconnaissant] les qualités à partir des traces géographiques et historiques […] et qu’il nourrit de son intuition projectuelle12 ». Le projet de paysage révèle ainsi les possibilités du site, ses « potentialités paysagères13 ». Fruit des multiples restaurations et des aménagements ponctuels successifs, l’état du jardin tient alors plus de la conséquence que d’une réelle composition. L’objectif du projet est double : restructurer les lignes classiques historiques tout en évoquant le jardin de Rodin, celui qu’il a connu et qui l’a inspiré. En effet, il ne s’agit plus tant de célébrer un jardin à la française du XVIIIe s. que de témoigner de la rencontre entre le lieu et l’artiste. L’intervention se concentre sur la perspective, à laquelle il faut créer un fond. L’amputation et l’arrêt brutal de l’axe contre le mur de séparation du lycée Duruy provoquent un déséquilibre dans la

composition. Ainsi, pour rendre à la perspective son prestige, Sgard décide de créer un théâtre de verdure face à l’hôtel. (Fig. 2) Celui-ci est surmonté d’un treillage et d’une charmille percés de trois arches qui répondent à celles de la façade du musée. Cette charmille, qui embrasse le bassin, lui permet de retrouver une assise dans l’axe. Grâce à ces ouvertures, elle permet également de créer un effet de profondeur donnant l’illusion que le jardin continue au-delà de sa limite actuelle. L’effet de jardin tronqué disparait. Grâce à cet élément contemporain, qui reprend les codes des jardins classiques, l’axe retrouve une cohérence spatiale. (Fig. 3) Sur les parterres, de part et d’autre du tapis vert, il s’agit autant d’évoquer le jardin à la française que le jardin sauvage de Rodin. Deux cheminements sinueux y sont créés, l’un mettant en scène le bronze d’Orphée, méconnu, l’autre développant le thème des sources. Des arbustes variés dessinent ces parcours et rappellent la végétation qu’a connue Rodin (comme les euphorbes ou le lierre rampant14). Des arbres fruitiers, échos de l’ancien verger, ponctuent ces parcours et permettent de créer des cadrages de l’hôtel au travers de feuillages à la manière de ceux que voyaient

Fig. 3 J. Sgard, La charmille encadrant le bassin, 2021, A. Denoyelle.

Fig. 4 J. Sgard, Orphée et l’hôtel de Biron au travers des feuillage, 2021, A. Denoyelle.

Angèle Denoyelle Rodin au cours de ses promenades au milieu des arbres. (Fig. 4) Le tapis vert et les alignements de tilleuls, restaurés, forment la structure du jardin classique, les parterres, recomposés, évoquent la « forêt vierge » si chère au sculpteur.

La création dans les jardins historiques Le projet de Sgard, qui s’est nourri tant de l’histoire que de la « spatialité particulière » du lieu, rassemble donc les époques importantes du jardin. En cela, il répond à la Charte de Florence, qui demande aux interventions de « respecter l’évolution du jardin concerné » et de ne « privilégier [aucune] époque aux dépens d’une autre » (art. 16). En revanche, l’ajout d’un élément nouveau, ex-nihilo – ici la charmille – même s’il évoque le vocabulaire des jardins à la française, n’y est pas mentionné. La Charte de Florence peine à affirmer une position claire sur cette possibilité de création. Si elle est en partie progressiste, notamment par sa filiation affirmée à la Charte de Venise qui prône la lisibilité des interventions, le respect de toutes les époques d’un monument et l’emploi, si nécessaire de matériaux et formes contemporaines, elle est aussi conservatrice15, historiciste même selon certains experts italiens16 » puisque qu’elle approuve la restitution d’une époque donnée dans certains cas. La Charte italienne, qui réfute cette dernière possibilité, est plus explicite sur la place que peut prendre la création. En se référant de façon directe aux résolutions du Symposium de Budapest (1972) sur L’intégration de l’architecture contemporaine dans les ensembles historiques, son article 2 cautionne le projet contemporain dans les jardins. En effet, la deuxième résolution de Budapest précise que l’architecture contemporaine, dans la mesure où elle est lisible et « qu’elle respecte des rapports appropriés de masses, d’échelles, de rythmes et d’aspects » est possible17 . Le projet de Sgard remplit ces critères : la charmille est installée sur un treillage contemporain, respecte l’échelle de la perspective et lui permet même de retrouver, par un jeu optique, sa profondeur perdue. Cette rapide analyse montre que le projet de création, lorsqu’il s’intègre dans une démarche de projet de paysage, peut s’inscrire dans le processus de restauration des jardins historiques. Le projet de Pascal Cribier et Louis Benech au jardin des Tuileries en est un autre exemple18. Au-delà de la restitution d’une image historique, le projet de paysage permet de composer avec l’ensemble des aspects d’un jardin : son histoire, certes, mais aussi et surtout sa valeur de paysage englobant ses qualités spatiales et l’évolution de ses formes, ses usages et sa portée culturelle. De cette manière, il permet à la fois de conserver le jardin en respectant son histoire et de le faire perdurer en prenant en compte ses nouveaux usages.

1 Voir à ce propos les colloques ICOMOS/IFLA de 1971, 1973 et 1975, et suivants dans Jardins et Sites Historiques, ICOMOS, 1993 Voir également les échanges du colloque de Sceaux, Que deviennent les jardins historiques ? un état des lieux, SilvanaEditoriale, 2018 ou encore Continuer l’histoire dans H. brunon, M. Mosser, Le jardin contemporain : renouveau, expériences et enjeux, Nouvelles éditions Scala, 2011, p. 14.

2 Chiara santini, aGnès JuVanon du VaChat, Le projet de paysage au service de la valorisation d’un jardin historique, « Projets de paysage », n. 6, 2011, http://journals.openedition.org/paysage/18035. 3 CéCile traVers, MaGali Gondal, Jardins de l’hôtel Biron, Étude archéologique, I, 2007, p. 17.

4 CoCteau, cité par Christine lanCestreMère, Un musée dans un hôtel particulier à Paris, dans Guide du Musée Rodin, Éditions du Musée Rodin 2019, p. 17. 5 CoCteau, cité par Chloé ariot, Les jardins de l’hôtel Biron, Ibid., p. 32. 6 rilke, Ibid., p. 31. 7 aline MaGnien, L’architecture de l’hôtel Biron, in Le musée de Rodin, Éditions Artlys 2015, p. 75. 8 François blanChetière, Les évolutions de la muséographie, Ibid., p. 128. 9 JaCk lanG, Éditorial, « Monuments Historiques » , n. 177, 1991, p. 3, et Jean lebrat, Le Grand Projet, p. 61-62. 10 Jean-MarC besse, La nécessité du paysage, Éditions Parenthèses, p. 61. 11 Tel que le développe l’ENSP et son laboratoire de recherche le LAREP, à savoir « l’ensemble des actions qui visent à agir sur le paysage comme milieu », http://www.ecole-paysage.fr/site/ recherche_fr/Projet-scientifique__1.htm 12 Gilles a. tiberGhien, Forme et Projet, « Les Carnets du Paysage », n. 12, 2005, p. 89-103 13 Jacques Sgard, cité par Pierre donadieu, Les paysagistes, Actes Sud/ENSP, p. 38. 14 léonCe bénédite, Les jardins de Biron, dans Feuillets d’art, octobre 1919. 15 CarMen añon, Historiographie de la Charte de Florence, dans Quels projets aujourd’hui pour les jardins anciens ? Actes du séminaire de Barbireysur-Ouche, Ministère de la Culture et de la Communication, 2004, p. 17. 16 Maria adriana Giusti, Restauro dei giardini. Teorie e storia, Alinea 2004, pp. 175-179. 17 L’intégration de l’architecture contemporaine dans les ensembles historiques , « Monumentum », XIXII, numéro spécial, Budapest, 28-30 juin 1972, p. 10.

18 Chiara santini, aGnès JuVanon du VaChat, Op. Cit.

Marco Ferrari Tramandare la memoria di giardini scomparsi: la dimensione contemporanea di una narrazione iconemica

Marco Ferrari | marco_ferrari@polito.it Dipartimento di Architettura e Design, Politecnico di Torino

Marco Ferrari

Abstract Incompatible uses, extended state of neglect, climate change and exceptional meteorological phenomena can involve a tabula rasa condition in which the garden irreparably loses any identity character. Through a comparison between virtuous projects and international creations, critically connected to the considerations arising from the 1981 Florentine ICOMOS-IFLA meeting, the contribution aims to offer a perspective, free from cultural boundaries, that embraces the complex challenge of conservation as a moment of recognition of the intangible values of the work. From the examination emerges the character and value of a conscious project of reinvention of disappeared historic gardens for the future, capable of managing a contemporary dimension free from copies, imitative evocations and improvised quotes.

Parole chiave Giardini scomparsi, restauro, Carte di Firenze, lacuna, iconemi.

Incompatibili destinazioni d’uso, prolungato abbandono, scenari ambientali in mutamento e fenomeni meteorologici di eccezionale intensità possono comportare condizioni di tabula rasa in cui il giardino perde irrimediabilmente ogni carattere identitario. In merito al cambiamento climatico, in una recente riflessione Jan Woudstra1 invita a sviluppare un approccio resiliente per affrontare l’inevitabile trasformazione dei giardini, inclusa la loro perdita. Un’affermazione di un certo impatto, interprete tuttavia di una visione processuale della vita del monumento-giardino che richiama il pensiero del connazionale John Ruskin e che trova importanti punti di contatto con la cultura italiana del Restauro. Sul tema dei giardini scomparsi, la Carta ICOMOS-IFLA, aprendo alla possibilità di riproporre la lectio originaria qualora «il degrado o il deperimento di alcune parti possano essere occasione per un ripristino fondato su vestigia o su documenti irrecusabili»,2 specifica all’Art. 17:

Quando un giardino è totalmente scomparso o si possiedono solo degli elementi congetturali sui suoi stati successivi, non si potrà allora intraprendere un ripristino valido dell’idea del giardino storico. L’opera, che si ispirerà in questo caso a forme tradizionali, […] avrà allora caratteri dell’evoluzione o della creazione escludendo totalmente la qualifica di giardino storico.

Fedele dunque ai prolegomeni di Pechère,3 la Carta nega in caso di tabula rasa un ripristino à l’identique, ma si muove nell’ambiguità di un’«ispirazione a forme tradizionali», ricordandoci l’intervento del paesaggista belga al giardino del castello di Breteuil, definito da Dezzi Bardeschi un «libero esercizio di progettazione in stile» capace di «falsare la storia, enfatizzarla à la manière de e ingannare il pubblico di visitatori, esperti compresi».4 La Carta italiana al contrario non dedica un articolo al precipuo caso di tabula rasa, ma si esprime in maniera implicita, enunciando l’irripetibilità del giardino in quanto unicum e negando riproposizioni selettive. Invitando a una scrittura contemporanea, Isa Belli Barsali suggerisce, qualora non esista alcuna traccia apprezzabile, di impiantare un nuovo giardino, «con garbo e discrezione».5 Se lo scenario nazionale del ventennio conseguente al colloquio fiorentino è costellato da casi virtuosi di restauro e dalle iniziative del Comitato nazionale per lo studio e la conservazione dei giardini storici,6 la variazione di scala e prospettiva sancita agli albori del nuovo millennio dalla Convenzione europea del paesaggio ha determinato negli ultimi vent’anni un affievolimento delle riflessioni critiche, lasciando spazio nell’operatività a più facili soluzioni ricostruttive.7 Tra i tanti interventi di ripristino offerti da perdite per abbandono o usi inappropriati, si pensi ai giardini del Palazzo Ducale di Sassuolo, di Palazzo Giardino a Sabbioneta, di Palazzo Vitelli alla Cannoniera in Città di Castello e di Villa Mondragone a Frascati. Se si esclude il giardino di Palazzo Ducale di Rivalta, oggetto di un discusso progetto8 tra ripristino di elementi perduti ed evocazioni dal lessico contemporaneo, in Italia un tentativo di concretizzare l’invito di Belli Barsali è rappresentato dal cantiere di Venaria Reale (Fig. 1), il cui travagliato iter tra sperimentazioni, debolezze e correzioni intende liberarsi da riproduzioni e interpretare il messaggio culturale di un documentato palinsesto, del tutto scomparso, attraverso un vocabolario innovativo. Anche nella consolidata tradizione d’oltralpe del minuzioso ripristino di cui Versailles è paradigma si assiste a sperimentazioni di linguaggi contemporanei. Proprio nel più noto domaine di Luigi XIV – oggetto del pluridecennale operato di Lablaude volto a ritrovare «un jardin plus authentique»9 – si segnala un elemento di novità introdotto nel 2015 grazie al cantiere dello scomparso boschetto del Théâtre d’Eau (Fig. 2), evocato dall’interpretazione contemporanea di Benech e Othoniel: una configurazione che di certo irrompe per contrasto nel consolidato tessuto dei giardini ripristinati, ma a cui forse occorre dare il tempo di crescere e fondersi in uno scambio dialettico con essi. Il reinterpretato boschetto rimane d’oltralpe un caso isolato – si pensi al coevo ripristino dei giardini di Chambord, altra tabula rasa (Fig. 3) – così come in Italia il cantiere di Venaria. A venticinque anni dalle Carte di Firenze, Dezzi Bardeschi10 ancora domandava dove fossero i giardini del terzo millennio, rinnovando la critica ai persistenti quanto anacronistici ripristini e sollecitando nuo-

Fig. 1 I resti del tempio di Diana nei giardini della Reggia di Venaria. Foto dell’autore, ottobre 2018.

Fig. 2 L. Benech, J. M. Othoniel, boschetto del Théâtre d’Eau nei giardini della Reggia di Versailles. Foto dell’autore, giugno 2015.

Fig. 3 Il parterre nord e la grande prospettiva François 1er del castello di Chambord prima dei recenti ripristini. Foto dell’autore, settembre 2006.

vi contributi di provata qualità. Eppure dalla presente ricognizione di interventi su sedimi di giardini scomparsi emergono alcune rilevanti sperimentazioni, sorta di «rarefazioni concettuali»11 in cui il giardino diviene metafora estetica e assume un carattere narrativo che – adattando all’oggetto indagato le parole di Turri – si può definire iconemico:

Con il termine iconema si definiscono quelle unità elementari di percezione, quei quadri particolari di riferimento sui quali costruiamo la nostra immagine di un paese. […] Essi sono la proiezione della nostra maniera di percepire, proiezione a sua volta della nostra organizzazione del conoscere. E la cultura che li ha individuati ci ha insegnato a coglierli, a indicarli come riferimenti del nostro guardare.12

In semiotica gli iconemi sono dunque segni dati da similitudine formale e da rapporto culturale con l’osservatore che presuppongono un’attribuzione di valore soggettivo o collettivo, e quindi un’interpretazione critica. Tra conservazione e ripristino, l’impianto di un nuovo giardino su tabula rasa apre dunque a una terza via in cui l’atto creativo, se permeato della storia e consapevole dei rapporti spaziali del luogo, può tradurne il palinsesto in una lettura contemporanea capace di tramandarne la memoria e l’eredità culturale alle generazioni future. Luoghi metafisici nella cui natura astratta si esprime l’«amore per la lacuna» caro alla Yourcenar,13 in tali giardini l’impiego di segni di massima, planimetrici o volumetrici, di ciò che resta o di ciò che è scomparso, parla ai nostri archetipi culturali, stimola un’osservazione attenta, sollecita il senso critico e induce l’immaginazione creativa a ricostruire un vuoto parlante. Nell’essenzialità compositiva e nell’impiego di materiali duttili, vegetali e minerali, attuali o tradizionali, risiedono molteplici possibilità con cui perpetuare il carattere profondo ed essenziale del giardino scomparso. Matrice spaziale e griglia compositiva, insieme al culto archeologico della permanenza, interpretano il lenotriano giardino di Saint-Cloud o l’iconico caso di Goodnestone nel Kent, i cui pochi elementi superstiti segnano assialità ed essenziali comparti. Si pensi inoltre a Marly-le-Roi (Fig. 4), dove tagli nella vegetazione, fontane prive di acqua, basamenti di statue assenti, la sola partitura pla-

nimetrica del padiglione scomparso, allineamenti di semplici topiarie lasciano spazio al potere immaginifico del visitatore, come ricorda Carmen Añón Feliú alla Conferenza di Nara:

Essendo la spazialità praticamente una materializzazione di questa struttura spirituale e fondamentale del giardino, ci può sembrare opportuno – e qualche volta più raccomandabile che costruire un giardino completamente scomparso in una sorta di rinnovamento totalmente falso – ricordare questa struttura spaziale del giardino, eseguita con materiali attuali e ridotta alla sua più semplice espressione simbolica.14

Tra Inghilterra e Germania, pura geometria e modellamento del terreno ricorrono nell’astrazione del King’s Knot di Stirling (Fig. 5) e del giardino dell’abbazia di Lorsch nei pressi di Hesse, che adottano «una soluzione topografica ed evocativa che evidenzia lo schema dell’impianto, modellando senza soluzione di continuità la distesa prativa».15 L’estrusione o la sottrazione di volumi restituiscono una chiara visione d’insieme non dettagliata da ricostruzioni secondo l’esprit de l’époque. Anche la malleabilità della componente vegetale e degli inerti può esprimere, attraverso aspetti cromatici e semplici accorgimenti manutentivi, un potenziale narrativo di elementi perduti, come a Villa Pisani a Stra (Fig. 6), dove uno scomparso «parterre di fiorita» è stato evocato agli albori del nuovo millennio mediante una differente semina del miscuglio d’erba e un taglio a diversa altezza: «un disegno discreto, quasi un suggerimento, […] un lavoro di minima, totalmente reversibile» – scrive il direttore e progettista Giuseppe Rallo.16 La collega Mirella Macera sperimentava nei medesimi anni l’impiego a Racconigi di fioriture blu per evocare la trascorsa presenza dell’acqua nell’alveo di un laghetto ormai non più colmabile e a Venaria terre colorate e frammenti di vetro per integrare e rendere leggibili i ritrovati lacerti della Fontana di Ercole (Fig. 7). Eugenio Battisti in uno dei suoi ultimi contributi afferma il valore della reinvenzione di qualità dei giardini del passato per il futuro, denunciando la diffidenza della cultura coeva nei riguardi del moderno. In risposta a mimetici interventi di ripristino che testimoniano tale circospezione, Battisti già nel 1989 supporta un progetto consapevole del palinsesto, figlio della cultura contemporanea e proiettato al futuro, ricordando che «esistono monumenti che si trasmettono solo a condizione di essere interpretati con una riesecuzione».17 Giusti rimarca con vigore tale prospettiva, asserendo che «l’obiettivo di preservare la cultura del passato è possibile solo attraverso la produzione della cultura del presente»18 e auspicando che le nuove creazioni affermino la propria qualità «attraverso una coscienza metabolizzata del passato» in grado di liberare il progetto del nuovo da copie, evocazioni imitative o citazioni improvvisate. A quarant’anni dalle due Carte di Firenze, consolidati e contaminati i differenti orientamenti, per i nostri giardini scomparsi è dunque quanto mai indispensabile rinnovare una salvifica e creativa immaginazione del nuovo in cui risieda la conservazione della memoria del luogo e della cultura dei suoi artefici.

Fig. 4 Il grand miroir nel domaine di Marly-leRoy. Foto dell’autore, settembre 2006.

Fig. 5 Il King’s Knot del castello di Stirling in Scozia. Foto dell’autore, agosto 2015.

Fig. 6 Il «parterre di fiorita» nei giardini di Villa Pisani a Stra. Foto dell’autore, giugno 2000.

Fig. 7 La fontana di Ercole nei giardini della Reggia di Venaria. Foto dell’autore, giugno 2009.

1 Cfr. Jan Woudstra, Dealing with the Consequences of Climate Change in Historic Parks and Gardens in the United Kingdom, in Historische Gärten und Klimawandel, a cura di K. David, R.F. Hüttl, B. U. Schneider, Basilea, Brikhäuser 2019, pp. 337-348. 2 Carta icoMos-iFla dei giardini storici, Firenze 1981, art. 16. 3 Cfr. rené PeChère, Prolegomeni a una Carta dei giardini storici, in Tutela dei giardini storici. Bilanci e prospettive, a cura di V. Cazzato, Roma, Arti Grafiche Nemi 1989, pp. 100-102; Maria adriana Giusti, René Pechère. Restauro, restituzione, evocazione, «Architettura del paesaggio», 10, maggio 2003, pp. 7-11. 4 Cfr. MarCo dezzi bardesChi, Una riflessione d’attualità sulla Carta italiana, in Giardini, contesto, paesaggio. Sistemi di giardini e architetture vegetali nel paesaggio. Metodi di studio, valutazione, tutela, a cura di L. S. Pelissetti, L. Scazzosi, Firenze, Olschki 2008, I, pp. 245-250: 248. 5 Cfr. isa belli barsali, Il restauro di ville e giardini storici, in Tutela dei giardini storici…, op. cit., pp. 80-86. 6 Cfr. luiGi zanGheri, Il restauro dei giardini storici in Italia dal 1980, in Bibliografia del giardino e del paesaggio italiano. 1980-2005, a cura di L. Tongiorgi Tomasi, L. Zangheri, Firenze, Olschki 2008, pp. 135-159; Patrizio Giulini, Il Comitato nazionale per lo studio e la conservazione dei giardini storici del Ministero per i beni culturali e il Capitolato speciale di appalto per il restauro dei giardini storici, in Giardini storici. A 25 anni dalle Carte di Firenze: esperienze e prospettive, a cura di L. Pelissetti, L. Scazzosi, Firenze, Olschki 2009, I, pp. 299-308. 7 Maria adriana Giusti, Restauro dei giardini. Teorie e storia, Firenze, Alinea 2004, p. 177. 8 Durante un incontro presso la Sala del Capitano del Popolo a Reggio Emilia (28 febbraio 2019), Carlo Mambriani ha posto in evidenza le criticità della metodologia di studio e sviluppo del progetto, invitando l’amministrazione comunale a procedere con cautela. 9 Pierre-andré lablaude, Tempête dans un jardin français, in Le Nôtre, un inconnu illustre?, Parigi, Monum 2003, pp. 186-198: 196. 10 Cfr. M. dezzi bardesChi, Salviamo il patrimonio del passato, ma i nuovi giardini del terzo millennio dove sono?, in Giardini storici. A 25 anni dalle Carte di Firenze…, op cit., I, pp. 159-166. 11 M. a. Giusti, La dimensione contemporanea del giardino: esperienza cognitiva e creativa, in Giardini storici. A 25 anni dalle Carte di Firenze…, op cit., I, pp. 265-275. 12 euGenio turri, Semiologia del paesaggio italiano, Venezia, Marsilio 2014, p. 275. 13 MarGuerite yourCenar, Il Tempo, grande scultore, Torino, Einaudi 1985, p. 54. 14 CarMen añón Feliú, Authenticité. Jardin et paysage, in Conference de Nara sur l’authenticité dans le cadre de la Convention du Patrimoine Mondial (Nara, 1-6 novembre 1994), a cura di K. E. Larsen, Parigi, unesCo-iCCroM-iCoMos 1995, pp. 217-231. 15 M. a. Giusti, Sito Unesco Cloister Lorsch, in Premio internazionale «Domus Restauro e Conservazione», dossier VI ed., 2017-2018, p. 19. 16 GiusePPe rallo, Conservare per restituire complessità al giardino: alcuni esempi italiani, in Il governo dei giardini e dei parchi storici. Restauro, manutenzione, gestione, a cura di F. Canestrini, F. Furia, M. R. Iacono, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 2001, pp. 127-144: 137-138. 17 euGenio battisti, Reinventando per il futuro i giardini del passato, in Tutela dei giardini storici…, op. cit., pp. 217-222: 220. 18 M. a. Giusti, Les jardins de la Venaria Reale: peuton parler de restauration?, intervento alla giornata di studio Restitution de jardins disparus: le cas de la Venaria Reale et du château de Chambord, Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art, 11 aprile 2018; cfr. MarCo Ferrari, Jardines disparus, «Ananke», LXXXVI, 2019, pp. 153-155.

Carmen Genovese Il Giardino Garibaldi a Palermo, monumento vivente nella città storica

Carmen Genovese | mariacarmen.genovese@beniculturali.it; carmen.genovese@unipa.it Ministero della Cultura; Università degli Studi di Palermo

Carmen Genovese

Abstract According to the tradition of the “squares”, in 1864 in Palermo the architect Giovan Battista Filippo Basile designed the Garibaldi Garden. This green space in the ancient city has transformed in line with the changing historical city. In fact, some factors related to the unexpected growth of vegetation and the environment in which the Garibaldi Garden is inserted have influenced the history of this real “living monument”, giving us today a space with added values compared to its original conception. The essay aims to retrace the history of the Palermo garden as an opportunity to reflect on the specific problems of restoration and management of such a complex “living monument”, in the light of what is indicated in Carta ICOMOS-IFLA di Firenze and Carta italiana del restauro dei Giardini Storici in 1981 and of more recent considerations on the subject.

Parole chiave Palermo, Giardino Garibaldi, Ficus magnolioides.

Premessa Nel solco della moda degli squares, nel 1864 Giovan Battista Filippo Basile progetta il Giardino Garibaldi. Questo spazio verde, oggi villa comunale nel cuore della Palermo antica (Fig. 1), si è trasformato nel tempo nella “forma” e nell’uso, in linea con la città storica in cambiamento. Infatti, eventi legati alla crescita imprevista delle piante e alle alterne vicende dell’ambiente in cui il Giardino Garibaldi si inserisce – il centro storico di Palermo – hanno determinato le sorti di questo vero e proprio «monumento vivente», consegnandoci oggi uno spazio stratificato, «un insieme polimaterico»1 ma anche polisemantico, con valori aggiunti rispetto a ciò che era in origine. Il saggio ripercorre la storia del giardino palermitano come occasione per riflettere sul restauro e sulla gestione di un così complesso monumento, alla luce di quanto indicato nelle Carte ICOMOS-IFLA di Firenze ed italiana del restauro dei Giardini Storici del 1981 ed in considerazione del più recente dibattito sul tema.

Uno spazio urbano dalle alterne fortune Il “piano della Marina”, posto in prossimità dello sbocco al mare del Cassaro, arteria primaria della Palermo antica, fu teatro di celebrazioni, spettacoli ed esecuzioni della Santa Inquisizione che ebbe sede allo Steri dal 1600 al 1782.

Quando, nel secondo Ottocento, il comune incaricò Giovan Battista Filippo Basile, architetto municipale, di dare dignità architettonica all’area, irregolare per perimetro e per quote, egli pensò ad un progetto di riqualificazione complessiva della piazza, ragionando anche sull’intorno. Il nuovo giardino intitolato all’eroe dell’epoca, Garibaldi, si caratterizzò per un disegno dai viali curvilinei abbelliti da sculture commemorative e piante tropicali e rare, due piccoli chalet ed una cancellata perimetrale in ghisa appositamente disegnata (Fig. 2). In una Palermo che sin dall’istituzione dell’Orto botanico, nel secondo Settecento, accolse con grande interesse l’arrivo di piante da varie parti del mondo, lo studio botanico ebbe un peso rilevante nel progetto della villa; fornì le piante la ditta Besson, vivaista «sempre all’altezza del progresso Orticolo» per creare «ogni sorta di giardini sia paesaggisti che giardini di Città (squares)» (Stabilimento… 1871, controcopertina). Fino al primo Novecento le foto mostrano una villa curata, con una vegetazione che lascia ben vedere l’impianto architettonico (Fig. 3). Dal secondo dopoguerra essa subì le sorti del centro storico, al cui spopolamento e degrado corrispose una carenza di cure e manutenzione degli chalet, delle statue e della cancellata, a conferma che un giardino «ha un proprio processo di sviluppo, una propria storia (nascita, crescita, mutazione, degrado) che riflette la società e la cultura che l’hanno ideato, costruito, usato» (Carta italiana dei Giardini Storici, Art. 1). Finalmente, nell’iter di riscoperta, restauro e valorizzazione del centro storico avviato negli anni Novanta con l’approvazione del PPE, il Comune intraprese il restauro del giardino la cui cancellata (Fig. 4), in più parti corrosa e lacunosa, fu integrata con elementi fusi ad hoc contraddistinti con apposite sigle. Nel frattempo la vegetazione, soprattutto i Ficus magnolioides ed alcune palme, continuò fortunatamente a prosperare, fino a diventare monumento nel monumento nel solco di una storia della tutela siciliana precocemente favorevole alla monumentalizzazione degli alberi – si pensi al Castagno dei Cento Cavalli. Oggi il giardino è molto visitato in virtù sia del ripopolamento del centro storico sia del crescente turismo. Come si è accennato, quasi venendo meno la visione di questo giardino come organica «composizione architettonica e vegetale», si è progressivamente rafforzato l’interesse per il suo

Fig. 1 Palermo, aerofoto del Giardino Garibaldi e del suo contesto (Google Maps).

Fig. 2 Palermo. Giardino Garibaldi. La cancellata in ghisa progettata da G. B. F. Basile, dettaglio (foto dell’autrice).

Fig. 3 Il Giardino in una foto databile tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Sullo sfondo è riconoscibile il Palazzo Chiaramonte prima dei restauri degli annni Trenta del Novecento (giovanni Fatta, Piazza Marina a Palermo. Memorie di cronaca cittadina, Palermo, Caracol 2019, p. 122). valore botanico, in particolare per i Ficus magnolioides che dopo circa 150 anni dalla piantumazione, con il groviglio di possenti radici aeree ed imponenti chiome, costituiscono una grande attrattiva, forse più dello stesso giardino nel suo complesso. In effetti tali alberi, grazie al clima favorevole, ora allungano i rami e le radici aeree molto oltre la cancellata del giardino, fino a diventare alberi tra i più grandi in Europa. Purtroppo tale sviluppo ha comportato recentemente problemi di stabilità per il mancato ancoraggio delle nuove radici sul marciapiedi in pietra che perimetra la villa,2 tanto che nel caso del ficus prospicente lo Steri un grande ramo nel 2020 è crollato provocando la distruzione di un tratto della cancellata storica (Fig. 5). È ancora vivo il dibattito tra amministratori, botanici, storici e architetti sulla gestione di un organismo vivente così importante e del suo contesto, in una coesistenza a tratti difficile; si è discusso anche sull’opportunità che la pianta si espanda, fino quasi a nascondere lo Steri, di fronte alla piazza. Nel 2019, vista l’instabilità dei rami, il marciapiede in corrispondenza del ficus più grande viene chiuso al passaggio e si accosta una pedana lignea che però, presto degradata, viene dismessa tra molte polemiche. Si decide dunque di assecondare e stabilizzare l’espansione della chioma oltre il perimetro disegnato da Basile, creando nella pavimentazione a basole delle aiuole di terra che consentano alle radici aeree di impiantarsi; intorno ad esse vi sono oggi elementi di protezione che saranno rimossi dopo il radicamento (Fig. 6). È una soluzione non ordinaria per cui il contesto urbano ed architettonico asseconda le esigenze dettate dalla cura di un eccezionale patrimonio arboreo.

Il giardino che cambia. Considerazioni sull’uso contemporaneo La villa, denso polmone verde nel cuore di Palermo, è per molti aspetti diversa dallo square pensato nel secondo Ottocento. Non soltanto per il cambiamento morfologico – lo stesso concetto di “originalità” appare inconsistente soprattutto se pensato per i giardini – dovuto alla imprevista

preponderanza dei volumi verdi, ma anche per come oggi viene percepito e vissuto questo spazio urbano. La villa infatti non è più solo luogo in cui passeggiare e sostare. La progressiva riscoperta di questo spazio, parallela alla rinascita cittadina di cui si è detto, ha portato a destinare per alcuni anni uno dei piccoli edifici ad attività ludiche per l’infanzia; non è raro che vi si tengano anche feste. Inoltre, ormai da anni, ogni fine settimana lungo il perimetro della villa si tiene un mercato dell’usato e che richiama cittadini e turisti contribuendo a fare del giardino e del suo intorno un centro pulsante della città (Fig. 7). Infine le limitazioni imposte dalla pandemia Covid hanno fatto meglio comprendere come, specialmente in città, parchi e giardini siano una grande risorsa. La possibilità di stare all’aperto in un ambiente verde è apparsa un’opportunità insostituibile non solo per socializzare in sicurezza ma anche per altre attività. Azioni che, tutt’altro che scontate, si sono rivelate di grande aiuto per superare questo difficile periodo in salute, fisica ma anche mentale. Dunque molti giardini urbani si sono caricati di nuove funzioni. In particolare la villa Garibaldi, grazie anche al favorevole clima locale, è stata sempre più spesso palestra all’aperto e teatro di piccoli eventi (Fig. 8). Potremmo dire che si è rafforzato quell’«interesse pubblico» che, anche secondo la Carta di Firenze, rende il giardino un monumento.

Gestione e conservazione dei giardini verso nuove prospettive «Quando un giardino sia di proprietà pubblica, esso deve essere aperto compatibilmente ai problemi di manutenzione; occorre dunque favorire l’accesso al pubblico, ma al tempo stesso prendere le opportune precauzioni contro un eccessivo numero di visitatori, programmando accettabili soluzioni alternative»: nelle Raccomandazioni la Carta italiana rilevava importanza e limiti della fruizione dei giardini, aprendo ai diversi usi più di quella ICOMOS-IFLA che invece ne voleva la circoscrizione entro luoghi alternativi per preservare il giardino come «luogo di tranquillità e silenzio»; ancor prima la Carta di Venezia evidenziava che «La conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni utili alla società». Oggi la conservazione di giardini come il nostro deve affrontare le sfide della complessità, apren-

Fig. 4 Palermo. La cancellata di Basile durante il restauro degli anni Novanta del Novecento (P. PorrEtto,

a. Putaggio, a. scianna, Giardino Garibaldi, in La città che cambia. Restauro e riuso nel Centro Storico di Palermo, a cura di G. Di Benedetto, Palermo, Comune di Palermo, Assessorato al centro storico 2000, vol. II, p. 640).

Fig. 5 Mercato dell’usato lungo il perimetro esterno del giardino, dettaglio (foto dell’autrice).

Fig. 6 Il grande ramo del Ficus magnolioides crollato sulla cancellata nel 2020 (https://magazine. leviedeitesori.com/tag/ giuseppe-barbera/).

dosi non solo ai temi botanici, ma anche alle mutate istanze sociali ed educative.3 Forse se ne dovrebbe ripensare la gestione, ad esempio superando certe inerzie degli Enti gestori per l’affidamento di servizi non necessariamente legati alla consolidata idea del giardino come rifugio interiore, a vantaggio però di una fruizione basata su processi partecipativi. Per il Giardino Garibaldi alcuni comitati cittadini hanno da tempo avanzato istanze non sempre accolte dal Comune: dal 2015, ad esempio, non si rinnova la concessione a privati di uno degli chalet per attività di ludoteca, nonostante in pochi anni fosse diventato un punto di riferimento per molte famiglie del quartiere.4 L’interesse per la nostra villa si inquadra in un più generale clima di riscoperta del valore del patrimonio verde a Palermo, che ultimamente ha visto svilupparsi vari interventi e dibattiti su spazi importanti della città5, come il Parco Uditore, il Parco della Favorita, il costituendo Parco del fiume Oreto e l’Orto Botanico, di cui si immagina un significativo ampliamento. Nel 2008 il Comune di Palermo si era dotato di un Regolamento del verde che necessiterebbe di essere rivisto alla luce della Strategia nazionale per le aree verdi e delle Linee Guida per la gestione del verde urbano esitate nel 2017 dal Ministero dell’ambiente. Un aggiornamento delle linee di gestione dei giardini urbani come il nostro e l’avvicinamento dei cittadini ai temi della conoscenza, dell’uso e della cura di questo patrimonio ne favorirebbe un maggiore rispetto e dunque una più facile tutela.

Fig. 7 Strutture di protezione delle radici aeree del Ficus magnolioides del giardino realizzate oltre il suo perimetro (foto dell’autrice).

Fig. 8 Corso di danza per bambini tenuto nel giardino nel 2021 (foto dell’autrice).

1 Questa definizione, legata ad una precisa visione, fu volutamente distintiva della Carta italiana dei Giardini Storici rispetto a quella franco-belga. 2 La questione è più complessa dal punto di vista botanico ed è stata ben spiegata, seppur sinteticamente, dall’agronomo Giuseppe Barbera nell’articolo del 12 Agosto 2020 Crolla un ramo del ficus di piazza Marina, https://magazine. leviedeitesori.com/tag/giuseppe-barbera/ 3 «La gestione richiede risposte alle sfide contemporanee della sostenibilità (ambientale, sociale, economica, culturale) e alla gestione del mutamento: cambiamenti climatici, incremento della popolazione e dell’urbanizzazione, perdita di tecniche e pratiche storiche, ecc». (lionella sCazzosi, Verso una nuova Carta internazionale sui giardini, «Ananke», 80, gennaio 2017, p. 125). 4 «Oggi però i giardini cadono per ben altri motivi e soprattutto per incapacità, indifferenza e per insolente ambizione di alcune amministrazioni che (…) mettono a serio rischio il futuro di beni irreversibili che appartengono a tutti» (MarCo dezzi bardesChi, Salviamo il patrimonio del passato, ma i nuovi giardini del terzo millennio dove sono?, in in L. S. Pellissetti, L. Scazzosi (a cura di), Giardini storici. A 25 anni dalle Carte di Firenze. Esperienze e prospettive, vol. I, Firenze, Olschki 2009, p. 160. 5 In questo clima si inquadrano anche contributi specifici quali i libri Guida ai giardini pubblici di Palermo del 2015 e Alberi di Palermo. Guida al riconoscimento del 2020 che, seppur con rigore scientifico, si rivolgono al cittadino comune.

Isabelle Glais, Elsa Durand Le projet de renouveau du jardin des Tuileries (1990-2000) : Héritage, ressources et perspectives pour penser le jardin historique aujourd’hui

Isabelle Glais | isabelle.glais@mnhn.fr Muséum National d’Histoire naturelle

Elsa Durand | emcdurand@gmail.com Conseillère Nature en ville du bourgmestre Paul Magnette à Charleroi

Isabelle Glais, Elsa Durand

Abstract Adjacent to the Louvre, the Tuileries is the witness of five centuries of garden art. In 1990, the French Ministry of Culture undertook the restoration of this garden with the aim of introducing a “contemporary expression” into the landscape of this listed historic site. This heritage, together with the cultural context, social value, political ambitions, and tourism and construction economy, fed the creativity of the project team. In this article, we analyse this restoration from the perspective of the renewal it has triggered. We argue that, while it follows certain principles of the Florence Charter, it also departs from it. First, we present the main findings of a 2016 research study on this project. Secondly, we discuss the current management of the Louvre’s gardens. The latter takes advantage of this recent heritage to adapt the garden to new challenges, by continuing its restoration and supporting the creativity of its gardeners. Finally, we show that one of the greatest tradition of this historical garden is to stimulate the creativity.

Mots clés Jardiniers, création, climat, gestion, savoir-faire.

Les deux dernières décennies du XXe siècle ont vu naître un regain d’intérêt pour les jardins historiques en France et en Europe. L’année 1981 l’illustre par deux évènements porteurs d’espoir pour leur sauvegarde. En mai, le comité international des Jardins historiques ICOMOS-IFLA se réunit à Florence et engage la rédaction d’une Charte pour guider l’entretien, la conservation, la restauration et la restitution des jardins historiques1. La même année en France, le président de la République François Mitterrand annonce son souhait de rendre à la totalité du palais du Louvre sa fonction de musée2. La restauration du jardin des Tuileries s’imposera peu à peu comme la clé de voûte d’un projet global visant à modeler le domaine national du Louvre et des Tuileries. Après neuf ans de discussion autour de projets jugés trop conceptuels ou passéistes, Mitterrand lance une consultation singulière auprès de huit équipes de paysagistes afin de rénover ce jardin dégradé et faire des Tuileries « un témoignage de la création paysagère de la fin du XXe siècle »3. Il s’agit de « créer aux Tuileries et jusqu’à l’Arc de triomphe du Carrousel, un espace très végétal alliant harmonieusement le respect du passé et la modernité »4. Le pépiniériste belge Jacques Wirtz sera chargé de la rénovation du jardin du Carrousel tandis que le jardin des Tuileries sera confié à une jeune équipe française : Pascal Cribier, Louis Benech et François Roubaud.

Menée entre 1990 et 20005, la rénovation du jardin des Tuileries est l’un des premiers exemples français d’expression contemporaine sur un jardin classé monument historique, à fort impact urbain, social et touristique. Elle est le fruit de compromis entre les intentions d’origine de ses concepteurs, des impératifs économiques et la réalité d’un site complexe qui recense cinq siècles d’art des jardins, d’histoire du pouvoir et des espaces ouverts convoités dans la ville dense. Dans cet article, nous exposons le renouveau que ce projet a accompagné et montrons qu’il applique les principes de la Charte de Florence autant qu’il s’en détache. Nous présentons d’abord les résultats d’une recherche datant de 20166, puis nous témoignons de la manière dont l’actuelle direction des jardins du Louvre se saisit de cet héritage récent pour adapter le jardin à de nouveaux défis, en poursuivant sa restauration et en accompagnant la créativité de ses jardiniers.

1. La recherche d’une expression contemporaine pour le jardin des Tuileries (1990-2000) Selon l’article 16 de la Charte de Florence, « l’intervention de restauration (...) ne saurait privilégier une époque aux dépens d’une autre ». Lorsque le jardin des Tuileries entre dans la dernière décennie du XXe siècle, sa structure entremêle différentes strates de son passé. Son épaisseur historique tient autant des témoins matériels qui le composent que de sa mémoire : celle des gestes qui l’ont animé comme celle des projets restés sur le papier. Sans chercher à restituer une époque de référence, le projet mené par Pascal Cribier, Louis Benech et François Roubaud développe des dispositifs techniques et esthétiques inspirés des histoires du lieu pour répondre à des attentes de confort, de nature en ville et d’entretien. Il assume ainsi d’inscrire sa propre époque dans les lignes du jardin (Fig. 1). À l’est, sur les traces du palais des Tuileries disparu depuis 1883, la mise en souterrain de la voie Lemonnier est parachevée par la création d’une terrasse qui redonne sens à l’axe central initié par André Le Nôtre en 1664. Elle offre une vue plongeante sur le domaine et l’illusion d’une perspective raccourcie grâce à l’abaissement des bassins et à l’aplanissement de l’assiette du Grand Carré, jusqu’alors en pente douce (Fig. 2). Cette démarche se libère du principe de la Charte de Florence selon lequel les profils de terrain participent de la composition architecturale (article 4) mais restitue un patrimoine immatériel précieux, alors même que le jardin historique est le complément inséparable de son édifice (article 7). L’interprétation inventive du passé est mise au service d’un jardin plus frais. Au sein des bosquets du Grand Couvert, les Exèdres sont les seuls vestiges de l’époque de la Convention (fin XVIIIe siècle). Ils sont mis en eau selon une idée inspirée d’une peinture d’Antoine-Pierre Mongin du XIXe siècle (Fig. 3) et deviennent les frais bosquets des eaux dormantes. Dans le Grand Carré, les fossés hérités de Napoléon III sont restaurés et un tracé homogène des pelouses vient unifier l’espace jusqu’alors scindé entre les jardins réservés et les Carrés de Fer (Fig. 4). La largeur des allées minérales

Fig. 1 Pierre Galard, Domaine du Louvre et des Tuileries : les trois séquences du jardin des Tuileries, Image perspective, 1993, archives personnelles de Louis Benech.

Fig. 2 E.Durand, La Terrasse Lemonnier : mise en scène d’un horizon. Evolution schématique de l’entrée orientale du jardin, coupes et photographies, 2016. Sous-légende I. Silvestre, Vue du jardin des Tuileries après 1671 avec perspective vers l’Ouest, gravure, XVIIème siècle, Musée du Louvre R. Henrard, vue aérienne de Paris : le Palais du Louvre, photographie, 18 x 24 cm, 1948, Musée Carnavalet, C. Moutarde, Vue de la terrasse construite par Ieoh Ming Pei lors de la rénovation du jardin, 1996, Musée du Louvre

Fig. 3 A.-P. Mongin, Vue du parterre apollon et Daphné, huile sur toile, Après 1873, Collection particulière; E.Durand, Les Exèdres en eau, Photographie, mai 2016.

diminue tandis que les parterres, légèrement bombées, sont supportés par des voliges novatrices au profil courbe et offrent l’illusion d’un vaste continuum engazonné. L’invention de dispositifs facilitant l’entretien du jardin participe aussi de sa réinvention. Assemblées à un passe-pied de gazon, les plates-bandes du Grand Carré suggèrent d’exubérants massifs d’une largeur allant jusqu’à cinq mètres et consacrent le travail de fleurissement (Fig. 5). Les quelques 4 km de voliges du Grand Carré en fixent le tracé et substituent au travail manuel de découpe du jardinier le tracé net d’un élément métallique. Elles figent cependant la vibration du geste du jardinier considérée comme l’un des points cruciaux de l’art de Le Nôtre tandis que leur lourd ancrage questionne le jardin dans son système technique. Alors que la Charte de Florence nous alerte sur « toute modification du milieu physique mettant en danger l’équilibre écologique du jardin » (article 14), l’héritage de cette rénovation se trouve aussi dans ses choix constructifs. Ces données environnementales s’ajoutent au débat de sa conservation.

Dans le Grand Couvert, la replantation de plus de la moitié des arbres initie une alternative au renouvellement cyclique des sujets préconisé par la Charte (article 11). La restauration est guidée par la rencontre entre le respect d’une unité historique, l’introduction de nouvelles espèces et le traitement de l’arbre au cas par cas. Elle définit une esthétique singulière qui marie la rigueur d’une nouvelle trame taillée en rideau au port libre d’arbres plus anciens. Enfin, deux bosquets accueillent depuis 1999 deux œuvres qui enrichissent le rapport entre art, nature et jardin. Comptine, issue d’une collaboration entre Pascal Cribier et Anne Rochette, ouvre les portes d’un potager féerique rappelant la fonction vivrière du jardin de Catherine de Médicis. Réalisée avec Giuseppe Penone, l’Arbre des voyelles (Fig. 6) offre une composition où le socle de l’œuvre est le jardin. Le bronze d’un chêne de quatorze mètres de long pérennise l’étreinte d’un retour à la terre : cinq arbres naissent au contact de ses branches maîtresses. C’est un renouveau pour l’art au jardin. Le jardin des Tuileries, marqué par cette nouvelle strate d’histoire, est géré par le Centre des monuments nationaux7 avant d’être rattaché au musée du Louvre en 2005. En 2014, la nouvelle sous-direction des jardins du Louvre reprend sa conservation et noue dès 2016 un partenariat avec l’École nationale supérieure de paysage de Versailles en vue de conduire une recherche pour consolider les connaissances historiques de cette rénovation de la fin du XXe siècle.

2. Poursuivre la restauration du jardin (2016-2021) En 2016, le Grand Carré a perdu de sa superbe. Ses 4 000m² de massifs floraux sont la proie d’une végétation spontanée difficile à maitriser (Fig. 7). Les compositions florales, qualifiées de féériques lors de l’inauguration, ne sont qu’un mélange uniforme de plantes vivaces et d’adventices. Leur désherbage estival est chronophage. Quant au dessin complexe des compartiments végétaux, il exaspère les jardiniers d’art8 qui en demandent la suppression. La redécouverte du plan d’origine (Fig. 8) de la rénovation du jardin bouleverse la donne. Les intentions de Pascal Cribier, Louis Benech et François Roubaud sont remises en lumière9. Le compartimentage des massifs du Grand Carré permet de séparer deux types de plantes : les vivaces qui restent en place et dont la floraison est éphémère et les saisonnières replantées chaque année qui fleurissent spectaculairement pendant plus de quatre mois en été. L’étude du plan révèle ainsi le génie d’un dessin qui concilie simplification de l’entretien et floraisons plus longues. Le cloisonnement sépare deux écosystèmes dont l’entretien est différent mais les floraisons complémentaires. Pour graver dans la mémoire collective l’intention des concepteurs, les espaces sont identifiés et nommés par la nouvelle équipe des jardiniers. Les longs compartiments de plantes saisonnières sont baptisés les « serpentins » et les petits compartiments deviennent les « confettis » (Fig. 5). Un travail de restauration qui va durer 3 ans commence dès 2017. Ici, les travaux d’entretien et de conservation sont liés et non différenciés (article 9). Le Louvre comprend aussi que pour pérenniser

Fig. 4 C. Moutarde, Le jardin rénové lors de l’opération du Grand Louvre, Photographie, 1996.

Fig. 5 Jardiniers d’art à l’œuvre et usage des passe-pieds, Photographie, Album des jardiniers des Tuileries, Tuileries, mai 1993; I. Glais et E. Durand, Plan schématique d’une des plates-bandes fleuries, 2016. Sous-légende : En 2016, les espaces de la géométrie ingénieuse sont nommés : « serpentins » et « confettis » par les jardiniers a. Les serpentins : Plantes saisonnières dont la floraison est spectaculaire, mais qu’il faut arracher et replanter chaque année b. Les confettis : Des plantes vivaces dont la durée de floraison est limitée, mais qui restent en place plusieurs années.

Fig. 8 nouvelle L.Benech, Plans du projet révisé en 1992, Photographie, Archives personnelles de Louis Benech, 1992. cette restauration, il faut associer les jardiniers en amont des projets. Ils participent ainsi à la conception des plates-bandes forestières du bosquet des oiseaux avec l’architecte en chef des monuments historiques pour concrétiser une idée de 1994 restée à l’état de projet (Fig. 9). Les recherches concernant l’histoire récente du jardin répondent à d’autres défis. Le premier est de rapprocher le musée et les jardins. S’appuyant sur la liberté de création proposée par les concepteurs pour les massifs, il est décidé de concevoir les floraisons saisonnières en lien avec les expositions du Louvre. Les créations innovantes se succèdent alors. En 2019, le Grand Carré voit l’expression d’un fleurissement « sfumato » inspiré des tableaux de Léonard de Vinci. Le jardin des Tuileries devient pleinement celui du Louvre (Fig. 7). Cette attractivité nouvelle lui permet d’emporter l’adhésion de plusieurs mécènes10 . Au-delà des enjeux esthétiques et économiques et face au défi du climat, cette recherche montre que Pascal Cribier, Louis Benech et François Roubaud avaient anticipé le réchauffement actuel et s’étaient affranchis de la palette historique (article 12), introduisant par exemple un chêne vert dans le bosquet de Penone. Sur ce modèle, lors de la replantation de la Grande Allée des Tuileries, en 2020, l’architecte en chef propose l’Orme Vada « Wanou », plus résistant à la sécheresse que le Marronnier de Le Nôtre, mais tout aussi original par rapport à la palette du jardin. La restauration des massifs bouleverse aussi les techniques d’entretien. Des couvertures de sols ou des paillages sont installés. Ils limitent le développement des adventices et conservent l’humidité de surface. Cette technique modifie l’équilibre écologique des plates-bandes (article 14). Le temps du désherbage manuel est investi dans un travail valorisant : effleurage, fertilisation raisonnée et conception des massifs floraux. La transmission des savoir-faire est aussi concernée par cette recherche qui, aux côtés du plan de gestion des jardins, offre des documents de référence pour transmettre aux jardiniers l’esprit de cette rénovation dont ils sont les gardiens (article 24). En 2021, cinq ans après cette relecture du jardin, les apports méthodologiques de cette expérience mettent les jardiniers au cœur d’une restauration qui se poursuit par la revégétalisation des bosquets des Exèdres et des rampes de l’Octogone.

Un jardin dont la tradition est de créer La rénovation du jardin des Tuileries est un témoignage de la fin du XXe siècle. Aujourd’hui, sa restauration se poursuit au prisme d’enjeux écologiques fondamentaux tout en tentant de répondre à l’accueil des 14 millions de visiteurs qui le traversent chaque année. Au-delà de la conservation des formes, des tracés et de ce qui compose le jardin au sens de la Charte de Florence, les gestion-

naires du Louvre mettent à l’honneur la créativité des jardiniers d’art et poursuivent sa végétalisation. Tout comme Pascal Cribier, Louis Benech et François Roubaud, ils convoquent les différentes mémoires du jardin comme une matière à penser l’avenir. Le jardin des Tuileries, plus vieux jardin de Paris, est un jardin historique contemporain car sa plus grande tradition reste celle de créer.

Fig. 9 P. Cribier, L. Benech, Vue d’ambiance des bandes forestières proposées en 1994 par les paysagistes (non réalisées) dans le Grand Couvert du jardin, sous-direction des jardins du Musée du Louvre, 1994; I.Glais, Les Bosquets des oiseaux après sa restauration, Photographie, avril 2021.

1 iCoMos-iFla, Jardins historiques (Charte de Florence 1981), Florence 1981. 2 Conférence de presse de François Mitterrand donnée au Palais de l’Élysée le 24 septembre 1981. 3 établisseMent PubliC du Grand louVre, Étude de définition de programme de réaménagement des Tuileries : Marché (avril 1990), MAP, série 0081/075-01-côte 0081/075-01/0033, 1990. 4 Ibid. 5 Les principaux travaux dirigés par l’équipe se déroulent de 1991 à 1996 et sont complétés, entre 1999 et 2000, par l’installation d’œuvres d’art dans le jardin. 6 elsa durand, Le jardin des Tuileries 19902000 : un laboratoire de créativité ?, Mémoire de master, École nationale supérieure de paysage de Versailles, 2016. 7 Il s’agit d’un établissement public rattaché au ministère de la Culture dont les missions sont définies par le code du patrimoine. Il gère, anime et ouvre à la visite près de 100 monuments nationaux, propriétés de l’État. 8 En France, les jardiniers d’art entretiennent, préservent et mettent en valeur 29 jardins de l’État relevant du ministère de la Culture. Il s’agit de l’un des métiers d’art de la fonction publique de l’État. 9 isabelle Glais, Les tuileries, un laboratoire de créativité (1900-2000), «Grande galerie: le journal du Louvre», n. 43, mai 2018, pp. 18-27. 10 En février 2020, le Louvre et Dior couture annoncent un partenariat sur 5 ans pour la revégétalisation du jardin des Tuileries. La campagne « Tous mécènes des Tuileries ! Replantons la Grande Allée » terminée en janvier 2021 a rassemblé plus d’un million d’euros.

Weile Jiang, Mingcong Zou Study on the Conservation and Development of the Old Summer Palace from an Ontological Perspective

Weile JIANG | 386776637@qq.com Mingcong ZOU | 386776637@qq.com Xi’an Jiaotong University

Weile Jiang, Mingcong Zou

Abstract The Old Summer Palace was a famous royal garden of the Chinese Qing destroyed in the XIX century. Due to its historical importance for Chinese people and in order to fully explore its heritage value, the preservation of the Old Summer Palace with innovative ways and means of preservation and utilization is a contemporary issue. This paper aims, through the Old Summer Palace in Beijing, to discuss and study the fundamental purpose, essence and sustainable development of landscape and cultural heritage conservation, through four main categories of views on its conservation: reconstruction, preservation of the original state, partial renovation and development of ecology, in terms of conservation principles and methods, demonstrating that integrity of cultural heritage should exist in multiple levels of retention and memory.

Keywords Ontology, The Old Summer Palace, Cultural heritage preservation.

1. History of the conservation of the the Old Summer Palace site 1.1 The historical process of preserving the the Old Summer Palace site The Old Summer Palace was built in the forty-sixth year of the Kangxi Emperor (1707) and consists of three gardens: Yuanming, Changchun and Qichun. Covering an area of 350 hectares, with more than a hundred landscapes and a building area of more than 200,000 square meters, it was a large royal palace created and operated by the emperors of China’s Qing Dynasty. The Old Summer Palace was once known as “the model of all gardening arts” and “the garden of all gardens” for its grand geographical scale, outstanding construction skills, exquisite architectural scenery, rich cultural collection and profound national culture. Unfortunately, this world-famous garden was brutally plundered and destroyed by the British and French allies in October 1860, and later experienced countless destruction and plundering, a generation of famous gardens was finally reduced to a ruin. It has become the ruins of the Old Summer Palace. Soon after the Old Summer Palace was burned by the British and French forces, the Qing imperial family attempted restoration projects. In Qing Tongzhi’s twelfth year (1873 AD), the emperor Tongzhi to “care for the empress” in the name of the rebuilding of the the Old Summer Palace,

wanted to restore two of the three gardens, the Yuanming and Wanchun gardens. At that time, the proposed restoration was a total of more than 3,000 halls, mainly concentrated in the hajj ruling complex and the bedchamber area. However, due to internal and external problems, the shortage of construction materials and construction funds, it was difficult to support the huge restoration plan, and the group of ministers under the opposition ordered to stop. After repeated destruction from the end of the Qing Dynasty to the founding of the country, the government consciously began to take certain protective measures for the Old Summer Palace site. In 1976 the Old Summer Palace Administration Office was established and the site began to have a special management body responsible for conservation-related matters. By 1983, the Beijing Urban Construction Master Plan was approved by the State Council, which planned the Old Summer Palace site as a heritage park. Subsequently, the Beijing Municipal Government allocated special funds to restore part of the garden walls, completed the relocation of farmers, units and factories stationed in the garden, repaired most of the garden’s mountainous water system, studied and adjusted the configuration of some plants according to historical information, and carried out some necessary municipal infrastructure construction. In 2000, the State Administration of Cultural Heritage approved “the Old Summer Palace Ruins Park Planning” and agreed in principle to the plan for this project: ”The restoration of the mountain shape, water system and architectural sites, should be based on scientific archaeological excavation, combined with historical documents, take a variety of scientific means to fully explore the historical and cultural information”. The restoration of ancient buildings within the site should be mainly functional housing, and coordinated with the surrounding environment. The restoration area should be strictly controlled at 10% of the ancient site area to ensure the quality of the project” and other basic restoration principles [8]. It is believed that the profound historical, cultural and artistic values of the Old Summer Palace should be systematically protected, and the cultural quality of its landscape should be improved, so that the social value of traditional cultural heritage can be fully realized.

1.2 Main ideas for the preservation of the the Old Summer Palace site In October 1980, led by Song Qingling, involving architecture, urban construction, gardening, cultural relics and history, literature and art and other fields, 1583 people jointly published the “preservation, restoration and use of the Old Summer Palace initiative”, in order to share their idea of

Fig. 1 Beijing. Yuanming Yuan, Ruins of Old Summer Palace, architectural details, (foto M.A. Giusti 2010)

Fig. 2 Beijing. Yuanming Yuan, Ruins of Old Summer Palace, architectural details, (foto M.A. Giusti 2010). the Old Summer Palace site, and how to protect it, but the academic debate has not been fully resolved. The main views can be broadly divided into the following four categories: reconstruction, preservation of the original state, partial renovation and development of ecology.

1.2.1 Reconstruction In 1979, the Beijing Municipal Government announced the Old Summer Palace site as a key cultural relic protection unit in Beijing, but destruction continued to occur, and in 1980, some foreign investors took an interest in the site and proposed development; the Old Summer Palace site once again faced complete destruction. In this context, the “Initiative for the Protection, Restoration and Utilization of the Old Summer Palace” put forward the initiative of salvage and protection, mentioning that “we have the will and ability to renovate and reproduce this excellent historical garden on the ruins destroyed by imperialism, so that it can contribute to the construction of socialist modernization”[9]. Early experts who advocated restoration, based on the tradition of restoration of famous monuments in China through the ages, argued that there was no lack of fine works of restoration recognized today, and that important monuments should be restored repeatedly for the betterment of present and future generations. In the 21st century, the view of complete reconstruction is mainly based on off-site reconstruction to reproduce the landscape of the Old Summer Palace in its heyday, with emphasis on economic benefits.

1.2.2.Keep it as it is Maintain the original state first appeared as the opposing side of the renovation. Duan Yunhuai “research and discussion is fine, renovation is not necessary - the restoration of the Old Summer Palace views” that: “the limited funds need to be used to develop production and gradually improve people’s lives”… “As for the famous and insubstantial sites, they can be left as they are”[10]. Mr. Ye Tingfang in the “beauty is not repeatable - the Old Summer Palace ruins before the sigh” elaborated the core of the view to maintain the status quo: “the Old Summer Palace as the pinnacle of the history of China’s garden art, her brilliance is a one-time, “the ruins of the Old Summer Palace, marked by the remnants of the ‘Western-style building’, are also unparalleled in the world for their great charm of tragic beauty”[12]. The most central claim of the preservation-in-place category of opinions is to emphasize the originality of the heritage, arguing that only by maintaining the original state can the authenticity of the site be guaranteed and opposing any form of building fake antiques.

1.2.3 Partial refurbishment The 1980 Initiative for the Protection, Restoration and Utilization of the Old Summer Palace proposed to “restore individual scenic areas for people to visit, and to clean up a number of sites for visitors to visit”, but it did not specifically discuss the proportion of restoration and its degree. Some thought that the Old Summer Palace site should be properly restored, but did not support the total reconstruction. The renovation school of thought can be seen as more pragmatic towards site protection, and is now the mainstream voice of the Ming Garden site protection [11]. Mr. Luo Zhewen in the “rescue and protection of the Old Summer Palace site and renovation of the open” an article with more comprehensive elaboration on the main points of renovation: site protection mainly includes the general layout of the garden, landscape, garden architecture, stacked rocks and mountains, plants and animals and other aspects of Chan; step by step cleaning i.e. site cleanup one by one, e.g. a scenic area, a building or a garden; protection methods of the site: units and households occupying the park should be moved out, according to the principle of “scientific protection and rational use”, to build a museum-style site park open to the public; site display can take a step-by-step cleaning, as aforementioned, to open in stages.

1.2.4 Development of ecology The development of the ecological point of view stems from the reflection on the implementation of the conservation of the Old Summer Palace site. In September 2000, the State Administration of Cultural Heritage officially approved in principle the “the Old Summer Palace Heritage Park Planning” after some controversy over the technical means [12]. Mr. Yu Kongjian in the article “the best way out of the Old Summer Palace”, uses a more complete expression of the main views of the ecological school: first of all, examining decade by decade, by virtue of the soil and moisture conditions of the western hills, the development of the existing native vegetation on the site, so that the Old Summer Palace site could be restored to a near-natural biological habitat, in order to attract birds and small animals to survive and reproduce there. In the second stage, once the Old Summer Palace site has become a rare natural habitat in the plains of Beijing, it will develop its function as an educational base with both natural and cultural functions, forming a heritage network of historical and cultural sites and natural ecology.

1.3 Basic consensus on the preservation of the the Old Summer Palace site In 2000, the Beijing Planning and Design Institute prepared the Old Summer Palace Site Park Plan, approved in 1983, further discussed and evaluated by experts in the fields of cultural relics, planning, architecture, and landscape architecture and agreed in principle. This plan was the result of the broadest consultation at the highest level for the preservation of the Old Summer Palace site, and the site preservation has been in dispute for decades. The controversy in the industry reached a stage of consensus, the construction of the basic framework of site protection. “The Old Summer Palace Heritage Park Plan” put forward the conservation principles of “overall protection, scientific renovation, and reasonable utilization” in order to “deal with the relationship between social, environmental, and economic benefits”, including in detail: First, the Old Summer Palace site’s Heritage composition includes the mountainous water system, vegetation and building sites, the site should be protected as a whole, in order to show the basic appearance of the site’s former heyday. Site cleanup and display can be necessary for restoration and rehabilitation, in order to scientific protection and sustainable use; second, the construction of museum-style garden site, the site does not add new scenery, play a historical, artistic and scientific value and historical information, learning and educational role; third, focus on social benefits highlighting the environmental benefits; fourth, rectify the garden’s improper construction, to protect the historical appearance of the Old Summer Palace [8].

2. Re-conceptualization of the existence and unity of the Old Summer Palace’s heritage 2.1 Cultural Retention of the Old Summer Palace’s Heritage The Old Summer Palace is a historical testimony of the splendor of the Qing Dynasty, Kang, Yong and Qian, the pinnacle of the world’s classical gardens, it is the Qing Empire at its peak, concentrating the country’s financial, material and human resources, and after more than 100 years of uninterrupted new construction, expansion, additions, and construction of the royal gardens, both the “garden” and “court”. Palace “dual function, is the Qing dynasty emperor and queen life and the political center of the imperial government”. The Old Summer Palace is a glorious summary of 5,000 years of Chinese civilization and a grand exposition of the world’s garden art in the 18th century, which is called the “Wonder of the World”. It’s also a huge museum of cultural relics and treasures with a royal library. French writer Victor Hugo said: “The treasures of all the cathedrals in France together may not be worth the magnificent museum in the East”[14]. In this specific case, speaking in philosophical terms, ontology is a dynamic and creative root. It’s always a relationship of one yin and one yang. Even an abstract idea, such as “state”, has its actual history and culture, so that abstraction and embodiment are combined. In short, for the Old Summer Palace, we can summarize that the history, culture and values it carries (historical value, use value, age value, artistic value, relative artistic value, etc.), including the original intention of its renovation, are the “body”, understood as the existence form of the Old Summer Palace, such as the existence of the Old Summer Palace when it was first built, the existence in the process of using, the existence in the process of being destroyed, the existence after being destroyed, among which, the existence after being destroyed continues to the present. But the existence after the destruction of the Old Summer Palace, can it best explain the history and culture carried by it? Is it reasonable to preserve the existence of the Old Summer Palace after its destruction to the present, and is this existence consistent with the “essence” of the Old Summer Palace? If not, it is necessary to try to achieve the unity of its essence, that is, the unity of the history and culture carried by the Old Summer Palace and the form of existence.

2.2 The heritage value of the Old Summer Palace’s legacy The Old Summer Palace, which brings together the essence of traditional Chinese culture, art and technology, is a masterpiece of classical Chinese garden art and more profoundly influenced the history of European gardens in the 18th century. It also witnessed the whole process of the last Chinese dynasty from the rise to the fall, it is a memorial site of Chinese national emotions. Moreover, the Old Summer Palace was the witness of cultural exchange between the East and the West [14]. As the “Garden of Ten Thousand Gardens”, the Old Summer Palace has concentrated the essence of Eastern and Western garden architecture art, and is also the place where the world’s garden architecture art is gathered. One of its scenic spots is the Western-style building in Baroque style, which was planned and designed by Western missionaries during the Qianlong period, and it’s a witness of the exchange and integration of Eastern and Western civilizations during the Qing Dynasty. In the middle of the Qianlong period of the Qing Dynasty, the Qing Empire had a vast territory and the four seas were at peace, so the complacent Emperor Qianlong took the position of being the kingdom of heaven. In addition, the Chinese attach great importance to “Guan”, that is an important way for Chinese people to interpret ontology, and ontology also exists in interpretation. The destruction of the Old Summer Palace is a way of interpretation, but it’s not the best and only interpretation of it. I think the destruction is only a stage of the Old Summer Palace’s life, and of course, it’s not the end.

3.Discussion on the conservation and development of the the Old Summer Palace site 3.1 Integrity of the existence of the reservation The core principle for the preservation and development of the Old Summer Palace site is the preservation of authenticity, which is also the basic principle that must be followed for the exhibition of the site[15]. After exploring and understanding the historical process of the Old Summer Palace’s development and examining the “original state” of the heritage, I believe that the preservation of the integrity of the site should be viewed separately from the material and spiritual and cultural levels. First of all, the material level includes the physical composition of the original site, historical traces, materials, techniques, functions, environment, and related local things, the materials used for bricks and tiles, the rockery, the preservation of contemporary functions as cultural heritage and heritage park, patriotic education;, and the surrounding natural and cultural environment. The surrounding natural and cultural environment and the ruins that still remain after the destruction of the Old Summer Palace, mainly underground ruins, as well as a small amount of surface remains and stray cultural relics, are also the direct objects for its preservation. In the spiritual and cultural level, in addition to the important element that it was the outstanding representative of the level of ancient Chinese architecture and garden art architecture and garden art, and for the Chinese national shame, the Old Summer Palace has become a specific historical and cultural symbol in the minds of Chinese people, which is the most core spiritual and cultural meaning of the Old Summer Palace. Therefore, for the preservation of its integrity, the importance of this dimension should be taken into account and emphasized.

3.2 Guiding for sustainable change Sustainable maintenance and guidance requires thinking about the regeneration of the site, but in looking at regeneration, I think there are two meanings, the first is to treat the process of its birth well, and at the same time not to miss the process of death too much. The more you treat the living process well, the easier it will be to produce something to replace it with future ideals. I think this is the purpose of its real regeneration, because nowadays most of the architectural world is more about the construction as a permanent monument. In other words, each generation feels closer to the absolute truth than the previous generation, so he feels that what he has created should be preserved permanently, and this is actually one of the roots of Western urban and architectural theory. There is a gap between it and Chinese culture. Chinese culture talks about reincarnation, the energy of life is being maintained, but the form of life does not necessarily have to be like this. Our way of life is passed down from generation to generation. Chinese culture is based on relationships, not on fixed monuments, and I think regeneration has a very strong excavation of Chinese culture. To guide sustainable landscape change and cultural continuity in heritage conservation in a way that can sustain the process and the system to function well in the long term: this is also an interpretation of the fundamental purpose of site conservation and the nature of its existence.

Conclusion Today, most of these so-called “tangible” things have left us, but this does not mean that they have just disappeared, the shape of each building in the Old Summer Palace, each garden specifications, appearance are clearly recorded in the book, but many people have forgotten these and only remembered the destruction of the Old Summer Palace. The Old Summer Palace site needs to be preserved at multiple levels in terms of integrity protection, constantly improving the interpretation of the existence value and fundamental purpose of the “ontology”, as well as the existence and re-understanding of the site, leading to the continuation of cultural heritage, showing the value of heritage. In China, it is in this deepening understanding of the landscape ontology that this concept of heritage conservation and development inquiry is gradually improving, gradually free from the shackles of ideology and converging to the true original meaning.

Julien Laborde, Guillaume Duhamel, Agnès Nicolas

La définition de la valeur patrimoniale comme guide d’intervention. Elaboration du plan de gestion du Parc des Bosquets, jardin du Château de Lunéville

Julien Laborde | contact.julienlaborde@gmail.com Paysagiste dplg

Guillaume Duhamel | guillaume.duhamel@live.fr Urbaniste

Agnès Nicolas | carpehortem@gmail.com Conceptrice de jardins

Abstract The “Parc des Bosquets”, which is the garden of Lunéville Castle, has occupied a major place in the history of art of European gardens since the 18th century. Despite the several phases of transformation it has witnessed throughout the eras, it has remarkably remained similar to its primal stage. The management plan that is currently being developed is intended to give it a new breath while keeping it within the lawful heritage setting it belongs to, as a listed historical site. Thus, our intervention intends to reconcile the historical dimension of a garden whose heritage stems from the Eighteen Century, the Golden Age, with its contemporary use as a public park located at the heart of the city and to which inhabitants are deeply attached. A master plan has therefore been set, a co construct piece of the management plan, which values each of the major periods of transformation the site underwent, while maintaining its initial composition. At the same time, the gardeners’ workshops make it possible to experiment concrete actions in situ.

Mots clés Schéma directeur, valeur patrimoniale, expérimentation, plan de gestion.

Le « Versailles Lorrain » est l’héritier du dessein visionnaire des deux derniers ducs de Lorraine, Léopold et Stanislas, qui ont à leur façon et successivement souhaité par la splendeur de leur château et de ses jardins affirmer au XVIIIe siècle un pouvoir de plus en plus réduit, tiraillé entre le Royaume de France et le Saint-Empire. Le Parc des Bosquets, jardin du Château de Lunéville, a ainsi été l’incarnation d’un projet de propagande politique d’ampleur puis l’incarnation du faste et d’une démarche d’innovation remarquable, avec l’invention de la fabrique de jardin notamment, influençant durablement l’art des jardins en Europe. A la jonction du classicisme, du baroque et du rococo, il est aujourd’hui l’un des témoins de l’histoire de la construction identitaire de la Lorraine et à l’origine d’évolutions stylistique majeures. La Charte de Florence, dans son article 23, insiste sur la nécessité de prendre les « dispositions légales et administratives propres à identifier, inventorier et protéger les jardins historiques »1. C’est chose faite très précocement à Lunéville, dès l’année 1929, alors qu’en France la protection de jardins au

titre des Monuments Historiques est encore embryonnaire. La protection est confirmée et étendue en 1998 par le classement du « domaine en totalité, y compris le col des cours et les jardins »2 . En 2018, le Conseil Départemental de Meurthe-et-Moselle, propriétaire du jardin, confie à une équipe de maîtrise d’œuvre l’élaboration du plan de gestion du Parc des Bosquets. Cette impulsion nouvelle rompt avec des années où le devenir du parc a été relayé au second plan compte tenu des efforts à déployer sur le projet de reconstruction de l’aile détruite lors de l’incendie du château en 2003. L’étude en vue de l’élaboration du plan de gestion a rapidement soulevé la question de l’intervention possible dans ce contexte de reconnaissance patrimoniale très forte. Les motivations peu développées de l’arrêté de classement ne permettaient pas de fonder un projet de gestion garantissant le respect des valeurs patrimoniales du jardin. Le document ICOMOS-IFLA sur les « Parcs publics urbains historiques » relève pourtant dans son article 6 les nombreuses valeurs attribuées à ceux-ci3 . Ainsi, est rapidement apparu la nécessité de définir la méthodologie et l’esprit du plan de gestion à élaborer qui tiendrait compte du niveau d’exigence réglementaire et technique posé par la loi et qui répondrait à une réalité prégnante d’une appropriation très forte du Parc des Bosquets, à l’origine de diverses polémiques dans le débat local. C’est ainsi que dans un premier temps, le plan de gestion s’est attelé à définir et préciser cette valeur patrimoniale pour la traduire ensuite dans un schéma directeur et enfin mettre en place les conditions de pérennité de la démarche par la communication et l’association régulière de l’équipe de jardiniers. La définition de la valeur patrimoniale du Parc des Bosquets a fait l’objet de débats et d’échanges nombreux avec le comité scientifique créé pour l’occasion4. Quatre composantes ont été identifiées et validées ensuite par la DRAC et les élus du Conseil Départemental. Elles expriment les valeurs patrimoniales et les axes fondateurs de toutes les interventions à venir sur le jardin. La première composante définit le parti d’intervention retenu, considérant le Parc des Bosquets comme un « jardin qui maintient remarquablement sa composition XVIIIe et intègre les apports de chaque époque »5. En effet, contrairement à la représentation qui en a été donnée jusqu’à ce jour, il apparait que l’héritage reçu mêle bien plus les époques que l’image XVIIIe prépondérante

Fig. 1 Périodes significatives de l’évolution du Parc des Bosquets.

Fig. 2 http://www.equipolepaysdelandi.com, 3 juin 2018 , manifestation équestre destructive de la cour.

Fig. 3 G. Duhamel, J. Laborde, A. Nicolas, action sur la restructuration des Ifs du parterre. ne le laissait paraître. Par exemple, les grands parterres, véritable signature de Lunéville, sont en réalité le fruit d’une restauration engagée au sortir de la Seconde Guerre mondiale qui a gommé la patte d’oie du XIXe siècle pour créer une projection de ce que les concepteurs d’alors imaginaient être les parterres XVIIIe à partir des plans et de l’iconographie disponibles (Fig.1). Les bosquets quant à eux sont issus d’un dessin simplifié et rationnalisé du XIXe siècle tout comme les seules fabriques visibles aujourd’hui. L’esprit du XVIIIe siècle est néanmoins prégnant dans la remarquable permanence de la composition globale. Si les parterres ont été profondément remaniés et les bosquets simplifiés, la composition du XVIIIe siècle a résisté à la mode du pittoresque qui, à Lunéville, n’a pas pour autant modifié l’articulation symétrique de part et d’autre de la grande perspective et le découpage entre vastes parterres centraux et bosquets latéraux délimités par les alignements plantés. Au regard de ces analyses, dans le cadre du plan de gestion, il a été collectivement décidé de maintenir et de renforcer cette composition comme architecture globale du Parc des Bosquets tout en valorisant les apports des XIXe et XXe siècles. La deuxième composante touche la délicate question de l’articulation entre deux valeurs fortes du jardin à savoir sa dimension historique reconnue et réglementée, et sa dimension fonctionnelle et affective pour les habitants. Elle vise à affirmer que le Parc des Bosquets est un « jardin ouvert depuis ses origines »6, entérinant le fait qu’il a depuis le XVIIIe siècle occupé une place centrale dans la ville et le cœur des Lunévillois comme lieu de promenade, de rassemblement et d’événements. Il n’est donc pas un monument figé mais un lieu vivant, fréquenté, utilisé quotidiennement. Cette appropriation est d’une grande richesse et témoigne de la continuité du projet initial d’un jardin ouvert. Mais cette appropriation par les habitants peut aussi avoir pour effet de scléroser les débats sur les tentatives d’évolution du lieu où un sentiment d’intemporalité domine. Ceci rappelle la nécessité, avant toute intervention, de faire œuvre de pédagogie et pose la question de l’implication citoyenne dans les projets de jardins historiques. Il ne s’agit pas de remplacer l’expertise par la parole citoyenne mais d’en avoir une écoute attentive pour que les projets proposés soient adoptés. L’objectif est d’impliquer plutôt que d’opposer, susciter le débat plutôt que les critiques, induire le respect plutôt que de sanctionner. La troisième composante de la valeur patrimoniale réintroduit fermement la volonté initiale de Stanislas de créer à grande échelle un « jardin de surprises et de plaisirs »7. Malheureusement, les fabriques baroques, les labyrinthes, les déambulations dans les bosquets et les surprises qui s’y

révélaient ont disparu au profit d’une aire de jeux constituée de modules standardisés. Vieillissante, elle nécessitait une rénovation complète qui a été l’occasion de repenser de manière globale l’approche ludique du parc. En effet, si l’article 20 de la Charte de Florence8 propose de pratiquer les sports et jeux en dehors des jardins historiques, il nous a semblé important ici de travailler au contraire à une réflexion et à une « réinvention » de la manière de jouer dans le Parc des Bosquets en respectant ses dimensions historique et paysagère. Celles-ci supposent de se réapproprier et de retrouver des manières de jouer moins standardisées et moins normées qui peuvent passer par des aménagements paysagers, de la végétation ou des structures détournées, réintroduisant un nouveau rapport à la nature et à l’espace et une pratique différente du lieu. Un bosquet a été désigné pour accueillir ces nouvelles manières de jouer : le bosquet des plaisirs. L’objectif à terme est de proposer progressivement, en complément d’un travail sur la végétalisation, des parcours et chambres végétales où pourront être installées ces espaces ludiques. La dernière composante, enfin, vise à rappeler le rayonnement initial du jardin à l’échelle européenne soulignant la nécessité de « l’ouverture internationale des innovations menées dans le jardin »9. Couplé au projet de musée en cours pour le château, l’ambition à long terme est d’affirmer que le Parc des Bosquet peut à nouveau redevenir un lieu d’innovations et d’expérimentations s’appuyant sur les ressources locales. En parallèle à la démarche de plan de gestion, depuis les origines de l’étude, un processus d’expérimentations a été mis en œuvre (Fig.3). Cette démarche est un gage de réussite du projet, permettant les ajustements nécessaires et indispensables pour s’adapter à la réalité du terrain, aux contraintes techniques et budgétaires, aux calendriers de mises en œuvre, à la saisonnalité. Des ateliers réguliers de réflexion et de travail sur site testent des actions, d’abord modestes, valorisant le lieu et engageant un processus de transformation (Fig.4). Menées avec l’équipe de jardiniers, ces actions rappellent leur rôle indispensable dans l’évolution du site à la fois en termes de connaissance mais également de savoir-faire et de gestion. Plusieurs actions ont ainsi été menées à l’échelle du parc sur le mobilier, les bassins, la gestion différenciée des pelouses, la replantation de lisières et des alignements, l’évolution des cheminements, l’élévation de la taille des tilleuls en rideaux... A côté de ces interventions globales, un secteur a été choisi pour mener une série d’expérimentations de plantations et de gestion : le bosquet laboratoire. Sur une parcelle délimitée sont testées et plantées différentes variétés d’arbres, de la régénération naturelle à la plantation d’arbres de hautes tiges, en passant par le semis ou les plants forestiers.

Fig. 4 G. Duhamel, J. Laborde, A. Nicolas, action simple d’embellissement du parc.

Fig. 5 G. Duhamel, J. Laborde, A. Nicolas, Plan des invariants patrimoniaux du schéma directeur du plan de gestion du Parc des Bosquets.

Fig. 6 G. Duhamel, J. Laborde, A. Nicolas, Fiches-motifs du schéma directeur du plan de gestion du Parc des Bosquets, première page. Différentes méthodes de fermetures des bosquets y sont expérimentées : ganivelles, palissades, charmilles, sous-bois arbustifs… L’idée sous-jacente est d’apporter par ces expérimentations une connaissance et un savoir utiles pour les autres bosquets du parc qui seront réhabilités par la suite. Ces actions ont aussi une portée pédagogique et de sensibilisation vis-à-vis de tous : public, personnel du château, jardiniers, presse...

Ces quatre composantes fondent l’esprit du plan de gestion et la ligne de conduite de tous les acteurs. Il est néanmoins apparu nécessaire de les traduire spatialement pour qu’elles soient opérationnelles et comprises par toutes les personnes en charge du devenir du jardin. Un schéma directeur du Parc des Bosquets a ainsi été réalisé (Fig.5). A l’échelle du parc, il s’appuie sur des axes écrits traduisant en actions les différentes composantes, sur un plan des invariants patrimoniaux qui constituent la transcription spatiale et opérationnelle de la valeur patrimoniale à respecter avant toute intervention. Il identifie précisément les témoins du parc à conserver et/ou à restaurer, les alignements plantés de la composition du XVIIIe siècle à renforcer, les objectifs de fermeture des bosquets, les allées à conforter ou à restituer, les entrées à harmoniser, les lisières végétales à créer ou à renforcer et les points de vue majeurs à préserver ou à requalifier. A l’échelle des lieux, Il est complété d’une identification des secteurs du parc, ses motifs constitutifs, qui font l’objet d’une fiche détaillant de manière plus précise les invariants généraux posés par le schéma directeur. Plan des invariants et fiches-motifs n’ont pas vocation à se substituer aux futurs projets mais bien de dresser le contour d’une commande publique ou d’un projet de conception. Validés par les élus et les services de l’Etat, ces documents constituent des garde-fous contre des propositions d’intervention qui seraient hors des attendus tout en permettant de gagner en efficacité et en pertinence (Fig.7). Une fois ce cadre posé, le défi actuel du plan de gestion (en cours de finalisation) est de garantir la pérennité dans le temps des actions dépassant le seul temps de l’étude. A cette fin, l’expérimentation menée depuis le début de la démarche, mais aussi la motivation et l’engagement des équipes sur place sont des gages rassurants. En complément, des cycles de conférence et des ateliers participatifs pour échanger sur la valeur patrimoniale ont été mis en place, des articles réguliers sont publiés dans la presse et des supports de communication sont progressivement installés dans le

parc (Fig. 8). La réception favorable des propositions augure d’un travail plus apaisé sur le parc. Pour conclure, la charte de Florence, complétée par le Document ICOMOS-IFLA sur les parcs publics urbains historiques pose les grands principes d’intervention sur les jardins historiques et de ce fait reste un outil déterminant pour justifier des attentes en matière d’intervention par les maîtres d’ouvrages. Dans le cadre particulier du projet de plan de gestion du Parc des Bosquets, la charte a permis une position de consensus, comprise et acceptée malgré un contexte extrêmement sensible. Au regard de cette expérience lunévilloise, des évolutions pourraient néanmoins être envisagées sur trois axes : premièrement, sur la place laissée à l’expérimentation, toujours à condition que celle-ci soit compatible avec la valeur patrimoniale du jardin ; deuxièmement sur la méthodologie à suivre pour l’intervention en jardin historique, à partir peut-être d’un bilan des pratiques actuelles dans différents jardins, par différentes équipes ; et enfin, sur la place laissée aux communautés locales qui restent, malgré tout, les premières concernées par l’avenir de ces jardins contre des évolutions dommageables.

Fig. 7 G. Duhamel, J. Laborde, A. Nicolas, Fiches-motifs du schéma directeur du plan de gestion du Parc des Bosquets, deuxième page.

Fig. 8 G. Duhamel, J. Laborde, A. Nicolas, 1ère conférence mars 2020, Rencontres aux jardins de Lunéville faire projet en jardin patrimonial.

1 ICOMOS-IFLA, Jardins historiques (Charte de Florence 1981), 1981. Adoptée par ICOMOS en décembre 1982. 2 Classement par arrêté du 23 mars 1998. 3 Référence document ICOMOS-IFLA sur les parcs publics urbains historiques. 4 Réunissant des représentants de la maîtrise d’ouvrage et des services de l’État, des chercheurs spécialisés et des partenaires institutionnels. 5 Mission d’accompagnement d’un paysagisteconcepteur pour le château de Lunéville, livret II Julien Laborde, Guillaume Duhamel, Agnès Nicolas. 6 Mission d’accompagnement d’un paysagisteconcepteur pour le château de Lunéville, livret II Julien Laborde, Guillaume Duhamel, Agnès Nicolas. 7 Mission d’accompagnement d’un paysagisteconcepteur pour le château de Lunéville, livret II Julien Laborde, Guillaume Duhamel, Agnès Nicolas. 8 Jardins historiques (Charte de Florence 1981). Adoptée par ICOMOS en décembre 1982. Art 20. 9 Mission d’accompagnement d’un paysagisteconcepteur pour le château de Lunéville, livret II Julien Laborde, Guillaume Duhamel, Agnès Nicolas.

Francesca Lembo Fazio Limiti d’intervento nel restauro sulla materia vegetale e artificiale in finte rovine e piccole strutture eclettiche. Alcuni casi nei giardini storici romani

Francesca Lembo Fazio | fra.lembofazio@gmail.com Sapienza Università di Roma

Francesca Lembo Fazio

Abstract Historic gardens are compositions of artificial and vegetal constituents. Thus, there are some unresolved issues on conservation and restoration, and their boundaries. Those problems are about setting the right extent of the interventions on living and non-living materials, in order to protect their balance. As for artificial ruins and small eclectic buildings, or follies, it is fundamental to keep the harmony between the nature and the so called natura naturata – as to say the anthropic elements – to read correctly both the system and the passage of time. The paper aims to outline the purpose of some maintenance and conservation works on imitation ruins and small architectures in Roman historic gardens. Hence, different strategies will be taken into consideration to understand how to preserve the bond between artificial and vegetal elements in those structures.

Parole chiave Finte rovine, folies, living and non-living systems, intervention’s extent, maintenance works.

La Carta italiana del restauro dei Giardini Storici supera il concetto di verde come cornice di architettura, rendendo possibile leggere il carattere «polimaterico» del giardino. Proprio nelle finte rovine o negli elementi antichi che compongono il giardino, questo connubio di diversa materia, vivente e non, risulta maggiormente evidente e problematica per la conservazione. Nonostante secondo la Carta italiana del restauro dei Giardini Storici l’intervento di restauro debba identificarsi come un «processo di continua, programmata, tempestiva manutenzione» da mettere in atto nel corso del tempo, troppo spesso si tende ancora a rispondere alle principali problematiche emergenziali con ricostruzioni di padiglioni o imponenti operazioni di sfrondamento, sacrificando tutte quelle operazioni ordinarie, puntuali e costanti, necessarie a preservare gli arredi “minori” delle ville, quali spesso vengono considerati i resti sparsi di colonne e capitelli. A questi ultimi elementi, insieme alle realizzazioni di piccole strutture eclettiche o di edicole, viene applicata una lettura “pittoresca” di rudere nella vegetazione, alimentata anche dalle immagini dei “capricci” con rovine e dai pensieri di John Ruskin1. Il loro apprezzamento si esprime quindi nel momento in cui siano visibili i segni dello scorrere del tempo e dell’azione della natura, ed è

quindi auspicabile su di essi la presenza di patina biologica e vegetazione, che tuttavia, in assenza di controllo, possono degenerare in fenomeni di biodeterioramento. Si delinea così la problematica, molto delicata nell’ambito della conservazione del giardino storico, sulla misura dell’intervento da eseguire, soprattutto nel caso delle rovine o finte rovine, per le quali il carattere figurativo risiede proprio nel connubio con la vegetazione e nella presenza di patina biologica, al contrario degli elementi scultorei esposti all’aperto, per i quali è spesso più importante preservare e riconoscere l’immagine rappresentata2 .

Fig. 1 Tempio di Faustina in Villa Borghese (foto dell’autore).

Fig. 2 Finta rovina in Villa Sciarra, prospetto su viale Giuseppe Wern (foto dell’autore).

Fig. 3 Finta rovina in Villa Sciarra, prospetto su viale Adolfo Leducq (foto dell’autore).

Non volendo prendere qui in considerazione l’apparato statuario e tutte quelle strutture che risentono di degradi connessi alla presenza dell’acqua, come fontane e ninfei, si possono individuare alcune principali conformazioni di arredi dei giardini storici romani, che richiamano la presenza dell’antico e il gusto “romantico” attraverso l’uso di elementi rinvenuti in loco, finte rovine e piccole strutture eclettiche. Le configurazioni più semplici sono formate da uno o più elementi sparsi, generalmente riversi a terra o posizionati su plinti ed accostati alla vegetazione, di solito non avvinti da essa. Si passa poi a configurazioni più complesse, dove viene ricreato un paesaggio in rovina, al quale sono accostate diverse essenze a mimare un rudere nella natura. In questi casi sono spesso reimpiegati elementi antichi, montati insieme a creare una nuova architettura in forma di rudere. Ne è esempio il Tempio di Faustina in finta rovina di villa Borghese, con frammenti architettonici e decorativi ricomposti a formare capitelli, paraste e colonne. In tale composizione si evidenziano patine biologiche sulle superfici e, solo puntualmente, piccoli problemi di distacco dell’intonaco e lacune. Qui

la presenza di vegetazione è controllata, il danno alla materia è molto limitato e la presenza biologica accentua la percezione di rudere (Fig. 1). Al contrario, la finta rovina con archi a tutto sesto a Villa Sciarra risulta sovrastata dalla vegetazione che copre quasi del tutto la struttura (Figg. 2, 3). La mancanza di manutenzione ha portato a non rendere più riconoscibili gli elementi della composizione, nella quale né la natura naturans né la natura naturata riescono a trovare vera espressione. Alle composizioni in finta rovina possono essere ricondotte inoltre le strutture in forma di edicola, più limitate rispetto alle precedenti, nelle quali alcuni pezzi antichi sono montati insieme a realizzare un traguardo visivo, come nel caso dell’Edicola della Musa (Fig. 4) e di quella del Dace a Villa Borghese (Fig. 5). In questi casi, i problemi maggiori riguardano l’infiltrazione di acque meteoriche e la crescita di piante sugli elementi di copertura (Fig. 6). Infine vi sono le realizzazioni di edifici eclettici, spesso nella conformazione di edicola o piccola cappella, più discostati dalla vegetazione. Tali strutture sono generalmente di dimensioni molto più contenute rispetto a un vero e proprio padiglione e non hanno che la funzione di fornire un traguardo visivo e di meditazione. Proprio per queste caratteristiche risultano interessati maggiormente dal degrado. Si veda, ad esempio, l’edicola di ispirazione gotica in villa Celimontana, un tempo ospitante una statua di San Michele3 (Fig. 7). La presenza di rampicanti nella parte sommitale ha probabilmente causato delle infiltrazioni nelle volte a crociera ogivali, mentre la presenza di vegetazione infestante (tagliata di recente) alla base e fenomeni di risalita capillare hanno determinato distacchi e lacune dell’intonaco, oltre alla presenza di patina biologica (Fig. 8). I materiali che compongono le parti di tutte le strutture precedentemente descritte sono marmo e più raramente travertino per gli elementi antichi di reimpiego, muratura con intonaco e stucchi

Fig. 4 Edicola della Musa in Villa Borghese (foto dell’autore).

Fig. 5 Edicola del Dace in Villa Borghese (foto dell’autore). Fig. 6 Edicola del Dace in villa Borghese, degrado della copertura (foto dell’autore).

Fig. 7 Edicola di S. Michele in Villa Celimontana (foto dell’autore).

Fig. 8 Edicola di S. Michele in Villa Celimontana, degradi (foto dell’autore).

per gli edifici eclettici. Le tipologie di degrado osservabili sono differenti. Si va dall’erosione, polverizzazione e microfratture, che hanno origine dalle impercettibili discontinuità nel marmo e dalle caratteristiche della struttura cristallina, alla possibile crescita di muschi negli alveoli del travertino4. Tuttavia, in questi casi, ruderi e finti ruderi vengono percepiti maggiormente come tali se mantenute le patine biologiche, anche con eventuali diverse colorazioni, che concorrono all’attribuzione di un valore estetico alle strutture. Sebbene in molti casi queste patine non costituiscano un problema di conservazione della materia, nell’eventualità di danni comprovati è possibile eliminare le specie licheniche dannose con biocidi selettivi, evitando la totale perdita della componente organica e preservando parzialmente il valore estetico dell’aspetto ruderale5 . Per quanto riguarda le murature, gli intonaci e gli stucchi, si evidenzia la possibile intrusione della vegetazione e di apparati radicali all’interno delle strutture, che hanno esito in lacune, problemi di infiltrazioni e, nel caso di alcune essenze, al rilascio di sostanze fitotossiche. In quest’ultimo caso, la gestione del giardino risulta fondamentale al fine di limitare lo sviluppo radicale, potando con costanza le essenze, e prevenendo la crescita della componente vegetale in aree troppo a ridosso dell’architettura6. Anche in questi casi, è evidente la necessità di operazioni molto misurate e puntuali per evitare eventuali danni irreversibili sui materiali, ma allo stesso tempo preservando l’aspetto di rudere immerso nella vegetazione. I casi qui illustrati non sono che esempi di problematiche che possono insorgere nei giardini storici. La Carta italiana, configurando l’intervento come una conservazione che rispetta il «complessivo processo storico del giardino», mostra in modo chiaro la via da percorrere per la manutenzione di questi fragili sistemi in cui vegetazione ed architettura devono compenetrarsi e mantenere un equilibrio. Lo studio analitico di tutte le componenti e di tutte le fonti, dirette e indirette, rimane alla base del processo di conservazione, come anche il necessario contributo interdisciplinare alla risoluzione delle problematiche di un complesso polimaterico, e dunque multiforme, quale è il giardino storico.

1 Per una panoramica sulle diverse percezioni nel corso dei secoli di rovine e vegetazione si veda il saggio di rossana ManCini, Ruderi e vegetazione: un percorso comune, in rossana ManCini, ilaria rossi doria, Ruderi e vegetazione. Questioni di restauro, Roma, GB EditoriA 2017, pp. 23-62, in particolare pp. 23-33. 2 Si veda l’approfondimento sull’apparato statuario dei giardini del Quirinale affrontato in FranCesCa roMana liserre, Il biodeterioramento della statuaria nei giardini del Quirinale: caratterizzazione, controllo e manutenzione, in M. L. Accorsi, M. de Vico Fallani, G. Lepri (a cura di), Giardini e parchi storici, elementi ‘portanti’ del paesaggio culturale. Pluralità di aspetti e connotazioni, Roma-Bristol, «L’Erma» di Bretschneider 2021, pp. 149-156. 3 Cfr. alessandro CreMona, Villa Celimontana, in Alberta Campitelli (a cura di), Le Ville a Roma. Architetture e giardini dal 1870 al 1930, Roma, Argos edizioni 1994. 4 Cfr. F. r. liserre, Il biodeterioramento della statuaria nei giardini del Quirinale: caratterizzazione, controllo e manutenzione, in M. L. Accorsi, M. de Vico Fallani, G. Lepri (a cura di), Giardini e parchi storici, elementi ‘portanti’ del paesaggio culturale. Pluralità di aspetti e connotazioni, Roma-Bristol, «L’Erma» di Bretschneider 2021, pp. 153-153, con la relativa tabella della frequenza degli interventi da mettere in atto per minimizzare l’insorgenza di forme di degrado. 5 Cfr. daniela Pinna, Biofilm and lichens on stone monuments: do they damage or protect?, «Frontiers in Microbiology», V, 2014; Giulia CaneVa, MarCo tesCari, Stone biodeterioration: treatments and preventive conservation, in Conservation Technologies for Stone Cultural Heritages: Status and Future Prospects, International Symposium of Stone Conservation, Corea 2017, pp. 95-114.

6 Cfr. Giulia CaneVa, Giulia Galotta, laura CanCellieri, Valentina saVo, Tree roots and damages in the Jewish catacombs of Villa Torlonia (Roma), «Journal of Cultural Heritage», X, 2009, pp. 53-62;

Guido trotta, Valentina saVo, eManuela CiCinelli, Marta Carboni, Giulia CaneVa, Colonization and damages of Ailanthus altissima (Mill.) Swingle on archaeological structures: Evidence from the Aurelian Walls in Rome (Italy), «International Biodeterioration and Biodegradation», CLIII, 2020; Giulia CaneVa, A botanical approach to the planning of archaeological parks in Italy, «Conservation and Management of Archaeological Sites», III, 1999, 127-134.

Tiziana Lettere, Marilena Manoni Restauro del Giardino storico del Palazzo Marchesale “De Luca” a Melpignano

Tiziana Lettere, Marilena Manoni | meta.studioassociato@gmail.com META Studio Associato di Architettura e Paesaggio

Tiziana Lettere, Marilena Manoni

Abstract The restoration of the historic garden of Melpignano is part of the recovery of the monumental complex of the Marquis Palace De Luca. Unlike the Palace, unfortunately about the garden there was no documentation relating to its creation, its general plant and its management over time and this has made the restoration work much more complex. Although little remains of the evidence of the past, the restoration of the historic garden took into account the complexity encountered, taking advantage of what is still legible of the general system and implementing an intervention capable of mending the design of the place and rigorously preserving the existing one, integrating it with the new functional needs linked to the future use of the monumental complex. The restoration approach has taken into consideration all the possible transformations that have occurred over time and has defined solutions compatible with the future management and use of the garden and the monumental complex that houses it.

Parole chiave Salento, Residenze nobiliari.

Il progetto di restauro del giardino storico di Melpignano, elaborato nel 2015 da META Studio Associato di Architettura e Paesaggio e i cui lavori sono stati eseguiti tra il 2016 e il 2019 sotto il coordinamento degli stessi progettisti, si inserisce nel recupero del complesso monumentale del Palazzo Baronale Castriota, oggi conosciuto come Palazzo Marchesale De Luca, dal nome dell’ultima casata nobiliare che ne prese possesso nella seconda metà del XVIII secolo. Si tratta di un giardino risalente, probabilmente, al XVII secolo quando il feudatario del tempo, Giorgio Castriota, sfruttò l’antico recinto, attestato in documenti precedenti, per costruire la sua nuova dimora signorile, grazie al venir meno delle esigenze primarie della difesa. A differenza del palazzo, purtroppo del giardino non esiste una documentazione in grado di fornire dettagli relativi alla sua realizzazione, al suo impianto generale e alla sua gestione nel tempo e questo ha reso certamente molto più complesso l’intervento di restauro. Lo schema generale che lo caratterizza è costituito da una maglia di percorsi ortogonali che ripartiscono l’area in una serie di aiuole rettangolari o quadrate e che può essere certamente riconducibile ad un intervento antecedente a quello seicentesco. «A giudicare dalle asimmetrie presenti, pur nella composizione regolare del disegno generale del giardino, il viale più importante non è la na-

turale prosecuzione della direttrice portale-atrio-recinto balaustrato della nuova ala del palazzo, ma segue un precedente tracciato che divide a metà l’intero recinto delle mura»1 . Al centro di questo viale è una piazzola che accoglie una fontana, ornata da eleganti motivi tardo-cinquecenteschi e, in fondo al viale, una casamatta sulla cui sommità si può osservare una testa antropomorfa sormontata da una corona che si staglia sul muro. Un recinto balaustrato, databile alla metà del XVII secolo ubicato tra l’androne del palazzo e il giardino, costituisce una sorta di filtro che introduce a quest’ultimo, costituito da una quinta a colonnine che si impostano su un basamento e sostengono a loro volta una fascia di conci bugnati a punta di diamante (Fig. 1); motivo che si ripete anche sui pilastrini che riquadrano le colonnine e nel disegno del portale di accesso al giardino. Si tratta di un recinto particolarmente curato, tanto negli elementi che compongono la parte balaustrata quanto nel disegno della pavimentazione in lastre di pietra, nonché nel trattamento di quanto ancora rimane degli elementi di arredo, quale una vera di pozzo con motivi vegetali. Il perimetro interno del giardino è impreziosito da un pergolato, che si snoda lungo le mura dell’antico fortilizio, costituito da pilastri monolitici in pietra caratterizzati da smussi angolari che raccordano la base e la parte sommitale, a sezione quadrata, al tronco dell’elemento a sezione ottagonale. Nonostante sia rimasto poco delle testimonianze del passato nei relativi documenti, il restauro del giardino storico ha fatto tesoro di quanto ancora leggibile dell’impianto originale, attuando un intervento in grado di ricucire il disegno di questo luogo, conservando rigorosamente quanto possibile e integrandolo alle nuove esigenze funzionali legate alla futura fruizione del complesso monumentale, in linea con quanto contenuto nelle Carte del restauro dei Giardini storici. La mancanza di fonti storiche accertate sul disegno del giardino e l’alterazione prodotta da decenni di totale abbandono, hanno reso necessaria una rigorosa operazione di pulizia da tutti gli infestanti che avevano completamente avvolto il giardino rendendo praticamente illeggibile il suo impianto e impossibili le operazioni di rilievo di ogni sua parte, propedeutiche allo stesso intervento di restauro. Di fatto, quest’area di oltre cinquemila metri quadrati, ubicata nel cuore di Melpignano, circondata dalle mura dell’antico fortilizio e da altri interessanti manufatti architettonici, qua-

Fig. 1 Melpignano. Il recinto balaustrato in pietra leccese che introduce al giardino (M. Manoni).

Fig. 2 Melpignano. Scorcio sul giardino dalle mura sud prima della pulizia dalle infestanti (M.Manoni).

Fig. 3 Melpignano. Scorcio sul giardino dalle mura sud dopo la pulizia dalle infestanti (M.Manoni). li le torri di guardia e la casamatta, è rimasta praticamente abbandonata per diverse decine di anni (Figg. 2, 3). Dopo aver provveduto all’accurata pulizia di ogni porzione del giardino dagli infestanti che ne occultavano tanto la struttura generale quanto i singoli elementi di arredo, è stata attivata una delle fasi più importanti dell’intervento di restauro di un giardino storico, finalizzata alla ricognizione sistematica di ciascun elemento facente parte del complesso interessato: l’archivio degli arredi e degli elementi erratici del giardino. La fase di catalogazione e di archivio condotta nel giardino, ha interessato tutti gli elementi di arredo rinvenuti (colonne monolitiche e pilastrini ornamentali in pietra, cordonature, volute di testata, sedute, fontana, cisterne di raccolta dell’acqua, ecc.) e i cosiddetti elementi erratici disseminati nelle varie porzioni dell’area legati in qualche modo al complesso monumentale. Si è trattato di un’operazione particolarmente complessa che ha però consentito di far emergere tutti gli elementi fondamentali dell’impianto del giardino consentendone, quindi, la loro successiva corretta ricollocazione. Il restauro vero e proprio del giardino è stato preceduto da alcune importanti indagini preliminari secondo i principi della conservazione espressi nella Carte del restauro dei Giardini Storici. Un’indagine geofisica, eseguita con strumentazione georadar, in grado di indagare la consistenza del giardino e le cavità già rinvenute in fase di rilievo (le cisterne di raccolta dell’acqua), oltre a quelle sarebbero emerse, in considerazione della preesistenza dell’antico borgo medievale ove oggi sorge il giardino storico. Particolarmente preziose sono state le indagini archeologiche, che hanno consentito di riportare alla luce elementi altrimenti irrintracciabili e testimonianze della storia di questo luogo straordinario, occupato a partire dall’età bizantina (X-XII sec. d.C.), fino al tardo Medioevo, preservate sotto gli strati di terreno e racchiuse dalle mura del XV secolo. Il rilievo della vegetazione, infine, ha evidenziato la fisionomia prevalente del giardino: un vero e proprio giardino di agrumi alternati ad altri alberi da frutto, tipico dei giardini storici del Salento. Purtroppo, l’aggressione degli infestanti, dovuta ad anni di abbandono e incuria, nonché alle gravi fitopatologie sopraggiunte, avevano fortemente compromesso le piante esistenti e completamente cancellato altri esemplari. Il rilievo della componente vegetale, oltre alla restituzione planimetrica della consistenza e della reale ubicazione delle piante all’interno del giardino, è stato affiancato da una catalogazione in cui ciascuna delle piante esistenti è stata raccolta in una schedatura, con le caratteristiche botaniche e lo stato di conservazione dopo l’intervento di pulizia. Partendo dall’analisi dello stato di fatto e dalle caratteristiche originarie, si sono valutate le possibilità di recupero dell’esistente riproponendo un restauro in grado di seguire il più possibile l’impianto della vegetazione preesistente, quindi fedele allo spirito del passato.

Fig. 4 Melpignano. La ricostruzione delle cordonature intorno alla fontana (T. Lettere).

Fig. 5 Melpignano. Il percorso lastricato ricostruito (M. Manoni).

Lo stesso studio ha evidenziato, in modo inequivocabile, il grave stato in cui versavano quasi tutti gli esemplari e la necessità di provvedere ad una loro sistematica sostituzione cercando di ricostruire fedelmente l’impianto generale integrandolo con le nuove piante previste dal progetto, in un approccio filologico finalizzato a restituire, per quanto possibile, l’atmosfera di un tempo. Il nuovo impianto della vegetazione ha previsto la ricostruzione delle zone ad agrumi e la reintroduzione di una serie di frutti antichi, nelle diverse varietà, spesso presenti nei giardini storici locali e parzialmente rinvenuti nella fase di rilievo della vegetazione del sito. Accanto a questi l’intervento di restauro ha previsto anche l’inserimento di una serie di specie rampicanti lungo il percorso pergolato che si snoda ai piedi delle antiche mura fortilizie, comprese alcune varietà di rose antiche e di viti. In prossimità dei due parterre centrali, ai lati della fontana con motivi tardocinquecenteschi, sono state introdotte specie in grado di conferire al cuore del giardino, un particolare effetto ornamentale con le loro fioriture e la loro consistenza. Facendo seguito a quanto emerso nelle complesse operazioni di rilievo, di catalogazione e archiviazione di tutti gli elementi, l’intervento di restauro ha consentito di ricostruirne fedelmente l’impianto geometrico, con la sua maglia di percorsi ortogonali e i rispettivi parterre. Gli interventi realizzati per le pavimentazioni e i cordoli, hanno seguito il criterio generale utilizzato dal progetto per tutte le porzioni del giardino, vale a dire, il recupero funzionale ed estetico degli elementi esistenti e l’integrazione di quelli mancanti o compromessi, con altri realizzati in materiali della tradizione locali e consoni al contesto nel quale si inseriscono. L’archivio degli arredi aveva evidenziato ben sette tipologie di cordonature, ciascuna delle quali accuratamente dettagliata mediante grafici e fotografie che ne hanno consentito un’adeguata ricollocazione all’interno delle varie porzioni del giardino in un disegno fedele all’originale (Fig. 4). Tutti i percorsi che compongono la maglia regolare del giardino, compreso quello che accoglie la pregevole fontana cinquecentesca, sono stati ricostruiti in terra stabilizzata, al fine di mantenere le sembianze di un terreno naturale, anche dal punto di vista cromatico, e di garantirne l’adeguato inserimento nel complesso monumentale. L’unico percorso pavimentato rinvenuto, quello che dal patìo balaustrato conduce al giardino, è stato adeguatamente recuperato in tutti i suoi elementi originari, completamente smontato e ricostruito fedelmente nel suo disegno originario (Fig. 5). Un altro percorso, di straordinaria valenza compositiva nel disegno generale del giardino, è rappresentato dal pergolato (Fig. 6) che si snoda ai piedi dell’intero perimetro delle mura e che ha rappresentato uno dei punti salienti del progetto di restauro. Si tratta di un percorso costituito da una serie di colonne monolitiche in pietra emerse integralmente nel loro sviluppo e nella loro consistenza dimensionale dopo l’ingente operazione di pulizia effettuata per consentire le operazioni di rilievo.

Fig. 6 Melpignano. Il percorso pergolato (mura ovest) con la nuova illuminazione del giardino (T. Lettere).

Fig. 7 Melpignano. Vista sul giardino (mura sud) con l’atmosfera della nuova illuminazione (T. Lettere).

Grazie all’accurata fase di archiviazione degli arredi e degli elementi erratici del giardino, è stato possibile riportare alla luce tutti gli elementi facenti parte di questo straordinario sistema ancora presenti nel giardino, anche quelli spezzati o comunque compromessi, per ricostruire fedelmente tutto il camminamento pergolato con ben 158 colonne monolitiche in pietra sovrastate da un nuovo pergolato in ferro e impreziosito dall’inserimento di rampicanti, al fine di evocare, per quanto possibile, la suggestione di un tempo. Tra gli interventi di maggior rilievo è da annoverare il recupero della fontana, con motivi tardocinquecenteschi, che si inserisce lungo quello che, probabilmente, era l’antico asse principale prima del nuovo impianto determinato dal giardino del Palazzo Baronale. Un elemento interamente in pietra leccese, dalla forma assimilabile ad una grande coppa finemente decorata, a sua volta inserita in una base circolare e delimitata da un cordolo anch’esso finemente lavorato, sempre in pietra leccese. Il progetto ne ha previsto, prima, un adeguato interven-

to di pulizia e rimozione dagli infestanti che avevano attecchito durante i decenni di abbandono e, successivamente, un delicato intervento di restauro lapideo finalizzato a farne emergere nuovamente i motivi ornamentali e la sua composizione d’insieme. A completare il restauro, la dotazione di nuovi impianti tecnologici di illuminazione e irrigazione, finalizzati all’odierna gestione del giardino e a creare nuove atmosfere (Fig.7).

Fig. 8 Melpignano. Planimetria generale del progetto di restauro del Giardino.

1 VinCenzo Cazzato andrea MantoVano, Giardini di Puglia - paesaggi storici fra natura e artificio fra utile e diletto, Galatina, Mario Congedo Editore, 2010, p. 68.

Tessa Matteini, Andrea Ugolini Archeologia dei giardini e giardini archeologici. Note per una ricerca

Tessa Matteini | tessa.matteini@unifi.it Dipartimento di Architettura, Università di Firenze

Andrea Ugolini | a.ugolini@unibo.it Dipartimento di Architettura, Università di Bologna

Tessa Matteini, Andrea Ugolini

Abstract The Italian Charter for the Restoration of Historic Gardens also includes archaeological sites among the different categories of historic gardens, proposing a remark on the design of archaeological parks, so highlighting the consolidated link between archaeological research and historic garden. Already systematically explored by Giacomo Boni’s explorations in Roman archaeological sites, this complex interaction takes into account the various aspects of garden archaeology oriented towards restoration, reconstruction or reinterpretation of the historic garden. Developed in the English context, the garden archaeology has been applied in Pompeii in a systematic and rigourous way. Thanks to the innovative contributions of paleo-botany, palynology and dendrochronology, gardens, domestic and agricultural crops are re-proposed in the different Regiones. For this kind of interventions we can speak of in vivo reconstruction, restoration or reinterpretation, in a variety of categories that need to be investigated in the light of a contemporary look, including the inventive conservation imagined by Donadieu or the poetic archaeologies designed by Lassus.

Parole chiave Giardini storici, garden archaeology, restauro, conservazione inventiva, transdisciplinarietà.

«Il me resterait à examiner une autre question intéressante: la restauration des anciens jardins: c’est le côté archéologique du jardins: il n’est pas des talent trop grand pour l’envisager dans son ensemble et dans ses détails. » Edouard André, 18791

1. Due linee di ricerca integrate La Carta Italiana del Restauro dei Giardini storici inserisce, tra le diverse tipologie di giardini storici, anche le ‘aree archeologiche’ (art.1), ampliando così lo sguardo sulle differenti categorie di spazi aperti patrimoniali, per i quali si rendeva necessario, agli inizi degli anni ’80, sviluppare un set di strumenti scientifici e culturali interdisciplinari. La Controcarta è l’esito del lavoro approfondito di un gruppo di studiosi di eccellenza, che aveva iniziato a formularne le basi nell’ambito del fertile dibattito culturale sviluppatosi in occasione del Convegno di Siena/ S. Quirico d’Orcia organizzato nel 1978 dall’Archivio italiano dell’Arte dei Giardini.

La Carta propone una notazione specifica sul progetto dei parchi archeologici (punto 7 delle Raccomandazioni) esplicitando il legame che, proprio agli inizi degli anni ‘80, si andava saldando tra ricerca archeologica e restauro del giardino. L’intervento della Carta italiana appare oggi provvidenziale perché apre prospettive inedite e innovative su di un ambito fino ad allora esplorato in modo marginale, in particolare da progettisti o studiosi isolati, ma non ancora acquisito alla consapevolezza culturale e scientifica delle comunità. La fertile e sensibile combinazione tra archeologia e giardino, entrambi termini polisemici e stratificati, sembra essersi sviluppata, nel corso del tempo, lungo due principali linee di progetto e ricerca: da un lato la sistemazione paesaggistica o ‘giardinistica’ dei luoghi archeologici, a partire dagli inizi del XVIII secolo (parchi, passeggiate, promenades, giardini archeologici); dall’altro lo scavo archeologico dei giardini, praticato in maniera consapevole sin dalla seconda metà del XIX secolo. Possiamo osservare come le due linee si integrino organicamente nel lavoro pionieristico e profondamente rivoluzionario di Giacomo Boni che fece dello studio scientifico, della lettura interpretativa e del progetto integrato dei luoghi archeologici uno dei principali obiettivi della sua missione professionale. In questo contributo, per motivi di necessaria sintesi, si approfondirà in particolare la seconda traiettoria di ricerca.

2. La dimensione archeologica del giardino storico Una delle più profonde innovazioni della Carta Italiana è la definizione di giardino storico, inteso come “risorsa” e come “unicum limitato, peribile, irripetibile”, in contrapposizione al “monumento”, seppur vivente, proposto dalla Carta ICOMOS IFLA. Questa visione diacronica e sistemica del giardino, in sintonia con il progressivo affermarsi delle discipline ecologiche ed ambientali risulta particolarmente affine alla interpretazione contemporanea ed olistica del concetto di sito archeologico, proposta ad esempio, da Daniele Manacorda2 . Entrambi questi ambiti (giardino storico e sito archeologico) infatti, trovano nella stratificazione e nella quarta dimensione il loro valore patrimoniale, e debbono essere integrati nella complessità del sistema territoriale e sociale e nella trama di relazioni che li hanno generati e che ne consentono la sopravvivenza. Sia il giardino storico che il luogo archeologico, infine, possono essere considerati (in senso compiuto per il primo e metaforico per il secondo) ecosistemi. Luigi Zangheri, che ha affrontato in più occasioni la dimensione archeologica del giardino storico, sottolinea come l’indagine stratigrafica consenta di individuare la presenza, la forma, la posizione di elementi sepolti, e permetta la ricostruzione dei processi di modifica del sito3. La Garden Archaeology che andava sviluppandosi negli anni ’80, in particolare in ambito anglosassone4, sebbene applicata con grande perizia tecnica e scientifica, non sarà sempre adoperata con obiettivi ‘laici’ dal punto di vista della conservazione5. Spesso infatti, l’importanza del dato fisico e tattile o la pre-

Fig. 1 Roma. “La fontana degli spechi” sugli Orti Farnesiani, da giacoMo Boni, L’Arcadia sul Palatino, in “Bollettino d’Arte del Ministero della P. Istruzione”, 12, Dicembre 1914, p.381.

Fig. 2 Pompei. Domus del bracciale d’oro, Particolare dell’affresco, (foto S. Bolognini 2008).

Fig. 3 M. Busiri Vici, La pianta di Ostia con sistemazione a giardino, (https://www. ostiaantica.beniculturali. it/it/ostia-racconta/ giornata-nazionale-delpaesaggio-al-parcoarcheologico-di-ostiaantica/ - 13.07.202). dilezione per il layer di un’epoca considerata maggiormente rappresentativa o ‘coerente’ con le architetture renderà difficile riconoscere la complessità dialettica, la imprescindibile diacronia e la dinamica di coevoluzione tra sito e patrimonio, tra componente archeologica e componente vegetale che già era stata prefigurata dalla visione proto-ecologica di Ruskin e poi confluita nelle fondamentali esplorazioni teoriche e pratiche di Boni6 . Non bisogna dimenticare che nel contributo al Convegno di San Quirico, che anticipa in nuce, molti dei temi della Controcarta, Isa Belli Barsali affronta già il tema della pratica archeologica applicata al giardino, di cui ben evidenzia le potenzialità solo a fini conoscitivi o interpretativi e soltanto “per quei luoghi in cui non esista che un terreno bruciato”7 .

3. Archeologia dei giardini Dalla seconda metà del XIX secolo, la tecnica dello scavo archeologico inizia ad essere applicata all’ambito del giardino storico. Non stupisce che le prime palestre per queste esplorazioni siano collocate nei grandi siti archeologici che venivano all’epoca indagati con metodo, come Pompei, Ostia e il Palatino. Sappiamo che la Relazione degli Scavi pompeiani dal 1861 al 1872, pubblicata da Giuseppe Fiorelli, fu il supporto su cui nel 1875 Overbeck8 intraprese la descrizione dei giardini pompeiani, mentre qualche anno dopo, sul Palatino, Giacomo Boni, a valle di una approfondita indagine storico-letteraria e iconografica e sulla base di una incisione del Falda, formula un “piano di ricerche” attraverso lo scavo, per riportare alla luce la “fontana degli spechi” degli Horti Farnesiani coperta da “immondezze e terre di scarico” poi colonizzate da “robinie e i fetidi ailanti” (Fig. 1). Da illuminato concepteur (ma anche giardiniere e manutentore) dei luoghi archeologici, Boni coglie profondamente il valore della complessità ecologica, della diacronia e della diversità biologica che caratterizzano il giardino storico. Ma questo sguardo olistico e sistemico è, di fatto, di suo appannaggio esclusivo, mentre, la convalida di ‘una storia’, a volte, di ‘una immagine’, mediante il restauro caratterizza la maggior parte degli interventi sui monumenti di quegli anni: il restauro viene considerato ‘scientifico’ proprio perché si fonda sulla presunta oggettività della storia e, in ambito archeologico, su quella del metodo. Ricerca storica e ricerca archeologica concorrono così a ridefinire assetti naturalistici scomparsi e sono alla base degli interventi sugli spazi aperti delle domus pompeiane e ostiensi. Al concetto di “fedele ricostruzione dei giardini” contribuirono in maniera determinante lo studio accurato degli affreschi naturalistici, seguendo la lezione del botanico Orazio Comes, ma anche

la tecnica dello scavo stratigrafico e quella dei calchi in gesso messa a punto da Giuseppe Fiorelli e adoperata anche per le radici di piante anticamente presenti in loco (Fig. 2). Con queste modalità, dalla fine del XIX a Pompei vennero ricostruiti il giardino della casa dei Vetti (1894, il primo ad essere scavato con metodo stratigrafico9), quello del Centenario e quelli di alcune domus della Regio VII. Agli inizi degli anni ‘30 viene ripristinato il giardino della domus di Decimus Octavius Quartio, (scavata tra il 1918 e il 1921), che si segnala per il discreto rigore fondato sul riconoscimento delle specie originarie grazie ai calchi degli apparati radicali10 . Anche ad Ostia (dove nel febbraio del 1941 Michele Busiri Vici sviluppa le sistemazioni paesaggistiche solo in parte realizzate) peristili e cortili vengono ricostruiti, basandosi su indagini archeologiche e iconografiche11, mentre, nel caso del Piazzale delle Corporazioni, il Lanciani ricorda nelle sue “Notes from Rome” del 1913 «the garden (was) reconstructed by one of our cleverest landscape artists, with its display of classic bushes and flowers…»12, ricalcando, almeno in parte, il tracciato dei viali e delle aiuole del giardino antico portati alla luce dagli scavi (Fig.3). Un primo, seppur apparente, cambio di passo si ha intorno agli anni ’60 del secolo scorso con il contributo delle scienze ambientali e gli studi palinologici della Jashemski, condotti a Pompei, in occasione degli scavi dei giardini delle domus delle Regiones I e II13. Queste ricerche, sebben confermino una attitudine al ripristino, aprono la strada a più rigorosi reimpianti, ponendo le basi della Garden archaeology14 che recupera metodologie di scavo stratigrafico consolidate, supportate da un substrato scientifico specialistico e multidisciplinare, capace di unire conoscenze archeologiche e architettoniche con una profonda attenzione botanica.

4. La costruzione di un metodo La consapevolezza dell’unicità del patrimonio costruito, ma anche dei contesti di relazione e la necessità di conservazione e tutela di entrambi, informa l’operato di Annamaria Ciarallo, biologa e naturalista, della Soprintendenza speciale di Napoli e Pompei. La sua produzione scientifica spazia dalla storia della flora pompeiana a quella del territorio campano, dal paesaggio rurale a quello della città antica; studia il clima e le diverse sollecitazioni ambientali dei luoghi in cui opera; si occupa di problemi di restauro e gestione del patrimonio archeologico, avvalendosi, oltre che delle tradizionali fonti iconografiche e letterarie, di nuove tecniche di indagine, quali dendrocronologia, carpologia, palinologia, ampelografia. Chiamata in più occasioni a collaborare alla gestione di sistemi complessi, Ciarallo si appella alla «sapienza degli antichi»15, come nel caso della stabilizzazione di bordi di scavo o di scarpate, e supporta con solide motivazioni scientifiche i progetti a cui partecipa, continuando la ricerca in natura delle specie coltivate in passato e oggi scomparse, riproponendole nei vivai, per poi farle ripiantare nei giardini scavati dagli archeologi. Grazie al suo contributo vengono ripristinati orti, giardini e colture pompeiane, tra cui i vigneti della Regio I e II, gli olivi e le specie della Ins.8 Regio II e il percorso naturalistico extra moenia, dove

Fig. 4 Pompei. Foro Boario, i vigneti, (foto P. Mighetto 2021)

Fig. 5 Pompei. Necropoli di Porta Nocera extra e intra moenia, (foto P. Mighetto 2021)

Fig. 7 B. Lassus, History. A poetic archeology of the Art of Gardens, (1990),

da bernard lassus, The Landscape Approach, Philadelphia, University of Pennsylvania Press 1998. la bonifica dalle piante infestanti e l’integrazione di specie storiche ed ecologicamente compatibili concorrono alla ridefinizione di un luogo perduto16 (Figg. 4,5). Le esplorazioni di Ciarallo rivestono un particolare valore dal punto di vista scientifico e assumono una speciale qualità di innovazione perché, pur nel rigore storico e filologico, considerano la dimensione dinamica e sistemica. Nell’ambito di ricerca su cui ci si è proposti di indagare, definiscono indubbiamente dei protocolli e delle modalità operative fondamentali per la ricostruzione dei giardini delle domus, per la riproposizione delle antiche colture e per sistemazioni paesaggistiche che possano accompagnare le strutture antiche Occorre infine sottolineare due aspetti rilevanti ai fini della cultura del restauro e, più in generale, dello sguardo progettuale (ma anche manutentivo e gestionale), con il quale qui si intende affrontare il tema di ricerca. Da un lato, la peculiare storia di Pompei, che ‘sigilla’ i suoi giardini sotto l’unico evento catastrofico del 79 d.C. non è riscontrabile altrove. Normalmente si assiste piuttosto ad un tipo di evoluzione del palinsesto paesaggistico simile a quella avvenuta ad Ostia17. E dunque le esplorazioni di Pompei concorrono a definire un metodo scientifico e una serie di strumenti che non sempre sono applicabili in ambiti diversi e soggetti a continua, seppur lenta trasformazione, come, generalmente sono i giardini storici. D’altro canto, Ciarallo definisce i “giardini storici” come “il risultato di una fedele ricostruzione operata sulla base di rigorose indagini scientifiche applicate ad uno scavo stratigrafico”18, riportando così l’aggettivo “storico” non solo alla profondità temporale del luogo e alla sedimentazione dei suoi numerosi passati, evocati dalle due Carte di Firenze, ma al riutilizzo di specie botaniche e di tecniche colturali e costruttive che si adoperavano all’epoca in cui questo è stato originariamente concepito19 .

5. Per (non) concludere Guardando all’evoluzione della ricerca archeologica per il giardino storico, le categorie di intervento che possono essere evidenziate sulla base delle sperimentazioni applicate nel corso del secolo scorso sono in genere attinenti al ripristino o alla ricostruzione in vivo, per i quali manteniamo lo stesso distinguo professato nel 1978 da Isa Belli Barsali, che esclude scavo e ricostruzione «quando sopra il giardino antico (…) esista un giardino moderno che va ovviamente conservato»20 . Nella visione contemporanea, l’attitudine strategica e progettuale che va progressivamente affermandosi è quello di una attenta e consapevole coltivazione21 che possa dare sostanza al tempo del giardino storico e alla sua particolare natura eterogenea, che combina «l’eternità-sia pur relativa-della pietra” con la “fugacità del fiore»22 .

Applicando all’ambito del giardino storico lo sguardo olistico, multidimensionale e sistemico del progetto paesaggistico, rappresentato ad esempio dalla conservazione inventiva di Pierre Donadieu23, o dalla archeologia poetica di Lassus24, possiamo prefigurare un uso diverso e innovativo della garden archaeology, non più adoperata per «sbucciare»25 il giardino o congelarne le singole fasi, ma, all’opposto, per evidenziare profondità, diacronia e coevoluzione di un unicum che integra componenti minerali e vegetali (Fig. 7). In sintesi, l’archeologia, come dimensione di studio e ricerca può contribuire alla costruzione di una nuova visione progettuale, pratica e poetica, da esplorare e perseguire con l’obiettivo culturale di “reinventare per il futuro i giardini del passato” attraverso quello “storicismo avventuroso e competitivo” evocato da Battisti26 .

1 edouard andré, L’Art de jardins. Traité général de la composition des parcs et jardins, Paris, Masson, 1879, p.198. Vedi il commento di Maria adriana Giusti, Restauro dei giardini. Teorie e storia, Firenze, Alinea 2004, p.123. 2 daniele ManaCorda, Il sito archeologico: fra ricerca e valorizzazione, Roma, Carocci 2003 3 luiGi zanGheri, Giardini storici (Archeologia e conservazione) in L. Marino, Dizionario di Restauro Archeologico, Firenze, Alinea 2003, p.103 4 luiGi zanGheri, l’archeologia e il restauro dei giardini storici in L. Zangheri, Storia del giardino e del paesaggio. Il verde nella cultura occidentale, Firenze, Leo S. Olschki, 2003, 328. 5 Maria Chiara Pozzana, Giardini storici. Principi e tecniche della conservazione, Firenze, Alinea, 1996, 125. 6 tessa Matteini, andrea uGolini, La lezione di Ruskin e il contributo di Boni. Dalla sublimità parassitaria alla gestione dinamica delle nature archeologiche. in «Restauro Archeologico», vol. 1, 2019/Special issue, pp. 294-29 7 isa belli barsali, Il giardino storico italiano: Problemi di indagine in GioVanna raGionieri, op.cit., p.24. 8 luiGi zanGheri, op.cit., pp.323. 9 anna Maria Ciarallo, op.cit. , p. 114 10 anna Maria Ciarallo, op.cit.. pp. 166-167

11 elizabeth J.shePherd, Paola oliVanti, Giardini ostiensi in “BCAR”, cix, 2008, pp.69-98

12 lanCiani (1988) cit. in elizabeth J.shePherd, Paola oliVanti, op.cit., p.89.

13 WilhelMina F. JasheMski Gardens of Pompeii,Herculaneum and the villas destroyed by the Vesuvius, New Rochelle, Caratzas, 1979, 1993;

anna Maria Ciarallo, op.cit., 168 14 elizabeth J.shePherd, Paola oliVanti, op.cit., p.73 15 anna Maria Ciarallo, op.cit., 180. 16 anna Maria Ciarallo, op.cit., 186-189. 17 Per il raffronto tra Ostia e Pompei vedi arnold esCh, Viaggio nei paesaggi storici italiani, Gorizia, LEG 2021, 16-17. 18 Mentre sono giardini ‘storicizzati’ quelli frutto di arbitrarie ricostruzioni. a.M. Ciarallo, Giardini e aree verdi nell’antica Pompei in «Arte dei giardini. Storia e restauro», 2, Firenze, Alinea, 1991, p.15.

19 tessa Matteini, Paolo MiGhetto, Il tempo dei giardini di Pompei in «Architettura del Paesaggio», 33, 2, 2016, p.18 20 isa belli barsali, op.cit., p. 24. 21 luiGi latini, tessa Matteini, Manuale di coltivazione pratica poetica. Per la cura dei luoghi storici e archeologici del Mediterraneo, Padova, Il Poligrafo, 2017 22 Monique Mosser, All’impossibile ricerca del tempo perduto: considerazioni sul restauro del giardino in M. Mosser, G. Teyssot, L’architettura dei giardini d’Occidente: dal Rinascimento al Novecento, Milano, Electa, 1990, 521-526.

23 Pierre donadieu in auGustin berque, MiChel Conan, alain roGer, Pierre donadieu, bernard lassus, La Mouvance. Cinquante Mots pour le paysage. Paris, La Villette, 1999 24 bernard lassus, The Landscape Approach, Philadelphia, University of Pennsylvania Press 1998, pp.144-145. 25 isa belli barsali, I giardini non si sbucciano, «Italia Nostra», n.221, 1983, pp.32-36 26 euGenio battisti, Reinventando per il futuro i giardini del passato, in V. Cazzato, Tutela dei giardini storici Bilanci e prospettive, Roma, Ministero Beni Culturali e Ambientali, 1989, pp. 217-222.

Alberto Minelli, Paola Viola Giardino Giusti a Verona. Piano di gestione del verde storico

Alberto Minelli | alberto.minelli@unibo.it DISTAL, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna

Paola Viola | paola.viola@beniculturali.it Valorizzazione, Educazione e Mediazione; Reggia di Caserta

Alberto Minelli, Paola Viola

Abstract The Giusti Garden is one of the finest examples of Italian garden. The flat portion, crossed by an avenue of cypresses, is geometrically marked in squares for the different scenes of the garden: flowerbeds, boxwood labyrinth and hedges with fountains, statues, and epigraphs. The cliff enhances the contrast between the artificial perfection of the beds below and the spontaneity of the upper garden. On 23 August 2020, a powerful storm caused the uprooting of many trees – including the Goethe cypress - which also swept stone artifacts, immediately recovered. The estimate of the damages and the start of the restoration suggested the planning of innovative management plan of turf and vegetable heritage in order to deepen the evaluation of the trees through morpho-functional analysis and instrumental diagnostic analysis with penetrometers, sonic tomograph and electric tomograph, controlled traction test and DTM investigation, to develop systems to mitigate the consequences of climatic events.

Parole chiave Piano di gestione, analisi morfo-funzionali, progettazione, fruizione, tappeto erboso.

La storia del Giardino di Palazzo Giusti, il cui impianto risale alla fine del 1300, dimostra quanto sia indispensabile, per la conservazione di un giardino storico, un piano di gestione attento a molteplici aspetti. Vero e proprio museo all’aperto, in cui la vegetazione dialoga con epigrafi d’epoca romana e paleocristiana, Giardino Giusti si presenta costantemente rinnovato ma al contempo legato al disegno originario e ai valori essenziali che lo ispirarono. Per tale ragione, quel delicato equilibrio tipico del giardino storico, «composizione di architettura il cui materiale è principalmente vegetale, dunque vivente e come tale deteriorabile e rinnovabile» così come indicato all’Art. 2 della Carta di Firenze, è alla base di un programma manutentivo che tenga conto sia dell’utilizzo attuale che delle stratificazioni compositive. Da hortus conclusus, ancora rintracciabile nell’ingresso affidato alle statue di Apollo e Pallade che lo consacrano all’arte (Fig. 1), il sito venne convertito da Agostino Giusti in un raffinato esempio di giardino all’italiana con bossi, cipressi, fontane, grotte e gli elementi tipici dei giardini del Cinquecento ancora presenti: vasi con agrumi, statue mitologiche, fontane, cedraia, grotte, mascheroni e padiglioni. (Fig. 2). La scelta del disegno per il giardino, i cui confini includono tratti delle antiche mura scaligere, dipese dalla particolare morfologia dell’area:

una distesa di terreno pianeggiante, delimitata verso nord-est da una massiccia rupe che si inerpica sul Colle di San Zeno, a cui fa seguito un’ulteriore striscia di terreno. La porzione in piano, che nel Settecento presentava anche distese a prato e alberi da frutto1, agli inizi dell’Ottocento per volontà di Gomberto Giusti, fu organizzata in stanze, attraversate da un viale di cipressi, ornate da statue e più tardi trasformate in boschetti di gusto romantico. Con gli interventi avviati negli anni ’30 del Novecento da Giovanni Giusti, il parterre viene trattato prevalentemente a prato e solo dagli anni ’80, con Nicolò Giusti, si recupera il disegno dei diversi momenti: a sinistra il parterre all’italiana e

Fig. 1 Ingresso del Giardino Giusti, Verona - credits Archivio Giusti.

Fig. 2 Giardino all’italiana, Giardino Giusti, Verona - credits Archivio Giusti.

Fig. 3 Parterre, Giardino Giusti, Verona - credits Archivio Giusti.

il giardino di agrumi (Fig. 3), a destra il labirinto, tra i più antichi d’Europa2 (Fig. 4). Il viale di cipressi culmina con l’ingresso di una delle cinque grotte scavate nella rupe che – sovrastata da un gigantesco mascherone3 in pietra coronato dal Belvedere – esalta il contrasto tra la perfezione artificiosa delle aiuole sottostanti e la composizione apparentemente spontanea del giardino superiore dove tutto deve affascinare il visitatore. La necessità di preservare la ricchezza di questo luogo si è avvertita dopo eventi atmosferici eccezionali, sempre più spesso conseguenti ai cambiamenti climatici in atto, che ne hanno fortemente compromesso l’impianto attuale. Il 23 agosto 2020 un potente nubifragio con violente raffiche di vento ha causato lo sradicamento di numerosi esemplari arborei: circa 60 tra cipressi centenari e bagolari, tra cui il cosiddetto Cipresso di Goethe4 (Fig. 5,6). Gli alberi hanno travolto alcuni manufatti architettonici e scultorei, immediatamente recuperati e catalogati per essere restaurati con le modalità filologicamente più corrette, e diversi elementi vegetali, tra cui numerosi bossi nella parte piana. La valutazione dei danni (Figg. 7,8) e l’avvio degli interventi di ripristino e restauro hanno suggerito la programmazione di un piano di gestione pluriennale della componente vegetale, finora mai elaborato, a cura del DISTAL, Università di Bologna, che parta dall’analisi dello stato di salute e di stabilità degli alberi, soprattutto quelli peculiari per la conservazione del sito. Gli alberi vanno sottoposti ad analisi morfo-funzionali e analisi diagnostica strumentale con penetrometri che analizzano in modo localizzato, spesso radiale, le caratteristiche del tessuto nell’area esplorata, con tomografo sonico per effettuare indagini trasversali al colletto o a varie altezze del fusto e con tomografo elettrico che, identificando le parti con maggiore umidità relativa, conferma o meno i problemi della tomografia sonora in relazione alle cavità e alle aree ad alta attività microbica di funghi e batteri. L’attività di valutazione fitosanitaria programmata include il prelievo di campioni e la successiva coltura in laboratorio o l’eventuale cromatografia liquida ad alte prestazioni HPLC, per definire il tipo di ospite ed eventuali situazioni di antagonismo o sinergia con organismi onnipresenti. Risultano utili anche i test di trazione controllata, seppure con i forti limiti del sistema, e l’indagine DTM, sulla quale applicare un modello che definisca

le caratteristiche del vento in caso di eventi meteorici particolarmente significativi e preparare nuovi sistemi con effetti di windbreak, capaci di mitigare le conseguenze di eventi simili a quelli già accaduti. Queste tipologie di dati consentono di elaborare un piano di intervento, anche con nuovi impianti sulla base delle preesistenze e della documentazione storica, finalizzato ad una sistemazione del sito più funzionale tanto alla corretta lettura del disegno quanto ad una fruizione rispettosa del luogo e della sua vocazione educativa e contemplativa. Per la sua valenza culturale, infatti, Giardino Giusti è l’unico sito italiano inserito da Europa Nostra tra i sette siti del patrimonio più a rischio in Europa per il programma 2021 del 7 Most Endangered. Le fasi di intervento preliminari alla progettazione includono, oltre all’analisi dello stato di fatto, il rilievo storico-critico del Giardino e la definizione delle linee guida da applicare nonché il rilievo georeferenziato topografico delle aree, dei manufatti, dei viali e dei percorsi e il rilievo georeferenziato di tutte le alberature. Le fasi successive sviluppano lo studio di fattibilità e il progetto esecutivo. Uno dei primi interventi già realizzati ha riguardato la risagomatura delle siepi di bosso, con reintegri di esemplari dal genotipo compatibile, e l’impianto di cipressi funzionali al disegno della parte bassa del giardino. Per il muro di confine, lato sud-est, si ipotizza un impianto di carpini bianchi piramidali che, armonizzandosi prospetticamente con i cipressi già presenti in una sorta di geometria alternata, distolgano l’attenzione dagli edifici esterni, resi visibili dal crollo delle alberature di tiglio causato dal nubifragio. L’essenza del Giardino sarà recuperata attraverso l’eliminazione di esemplari danneggiati e di specie infestanti: nel settore sud-ovest si dovrà potenziare la presenza nelle aiuole di Helleborus argutifolius eliminando il Cornus sanguinea, riprogettare la balconata in tasso e ridefinire il percorso dell’area servizi con siepi di viburno. Per la stessa motivazione nella parte alta del giardino è necessario procedere all’eliminazione di tigli, bagolari e cedri che, ostacolando le prospettive un tempo attentamente ricercate e danneggiando i manufatti, alterano lo status originario dell’area. Il berceau di edera a nord-ovest sarà rimesso in sicurezza e ripristinato con Wisteria sinensis o Hydrangea petiolaris. Una specifica progettazione, innovativa nella gestione del verde storico, riguarda le superfici a tappeto erboso, fortemente degradate e composte quasi esclusivamente da infestanti annuali e perenni monocotiledoni e dicotiledoni (Eleusine, Digitaria, Pabbio, Tarassaco)

Fig. 4 Labirinto, Giardino Giusti, Verona - credits Archivio Giusti.

Fig. 5 Cipresso di Goethe, Giardino Giusti, Verona - credits Archivio Giusti.

Fig. 6 Cipresso di Goethe dopo il nubifragio, Giardino Giusti, Verona - credits Archivio Giusti. e Cynodon dactylon spontaneo nelle zone più assolate. Premessa imprescindibile per la riuscita del piano di interventi è la realizzazione di un efficiente impianto di irrigazione. Si prevedono il diserbo delle aree coinvolte e l’asportazione del terreno più superficiale, argilloso/limoso, almeno per i primi 15 cm, da sostituire con un mix 70/30 rispettivamente di sabbia silicea di fiume e torba bruna o compost. Le superfici vanno poi livellate considerando le pendenze per facilitare lo smaltimento delle acque piovane e rullate per compattare il nuovo substrato. Il mix di semina è composto da Festuca arundinacea/Poa pratensis in percentuale in peso 90/10 con aggiunta di festuche fini (Rubra rubra o Rubra commutata) nelle aree a parziale ombreggiamento indotto dal muro di confine a sud-est. La semina viene programmata tra inizio settembre e ottobre e da fine marzo a fine aprile. Il piano manutentivo post-impianto prevede prescrizioni per irrigazione, taglio, concimazione, pratiche colturali ottimali e gestione delle avversità come insorgenza di muschi e attacchi fungini. Superato il periodo iniziale di germinazione ed emergenza del tappeto erboso, durante il quale le irrigazioni devono assicurare un’umidità superficiale costante mediante cicli irrigui quotidiani brevi e multipli, le irrigazioni devono essere garantite all’occorrenza nei periodi di transizione (primavera ed autunno) in caso di siccità ed in modo regolare durante l’estate, con una distribuzione media di 15 mm ogni 3 giorni in assenza di piogge. Per le rasature va mantenuta un’altezza di taglio di circa 50 mm con particolare attenzione ad eventuali danni estetici dovuti allo scalping. Dopo la concimazione starter della fase di semina, si prevedono 4 concimazioni granulari annue con concimi ternari NPK a lento rilascio. Vanno previste anche alcune pratiche colturali aggiuntive come l’arieggiatura superficiale del tappeto erboso per asportare il feltro, mediante l’utilizzo di appositi arieggiatori a lame verticali ad inizio primavera e inizio autunno e, nelle aree esposte a maggior calpestio, una carotatura ogni 1 o 2 anni al fine di decompattare ed ossigenare il terreno superficiale. Gli interventi sul patrimonio vegetale dovranno essere completati con la sistemazione e l’apertura al pubblico delle serre, la ridefinizione dei percorsi in ghiaino con eliminazione degli ostacoli agli accessi e l’implementazione delle misure di sicurezza fondamentali per la corretta fruizione del Giardino da parte dei diversi pubblici. A tal fine saranno programmate anche iniziative educative, rivolte soprattutto al pubblico in età scolare. La corretta gestione di un Giardino Storico, inoltre, non può prescindere dalla divulgazione: una cartellonistica adeguata, in linea con i principii della comunicazione museale, QR code e App dedicate illustreranno ai visitatori le caratteristiche storiche e botaniche del Giardino e forniranno informazioni utili sull’attività di cantiere. Il piano di intervento in corso di applicazione al Giardino Giusti, nella sua pragmaticità, risulta funzionale nel caso specifico ma anche esempio per la corretta gestione di ogni giardino architettonico, costruendo, su piattaforma GIS, una banca dati georeferenziata essenziale, legata ai vari aspetti (alberi, arbusti, tappeti erbosi, irrigazione, ecc,), a cui attingere sia per la prevenzione degli effetti di eventi atmosferici particolari sia per la pianificazione tecnica ed economica ottima-

le delle attività manutentive e dei reintegri, compatibili sia con la natura del luogo che con l’ utilizzo produttivo e moderno del giardino. L’estensione ad altri giardini storici del programma gestionale potrà permettere di convogliare le informazioni, facilitando l’applicazione di soluzioni funzionali che permettano, con tecniche attuali, di conservare l’idea originaria del giardino in modo più sostenibile.

Fig. 7 Panoramica del giardino giusti dopo il nubifragio, Verona - credits Archivio Giusti.

Fig. 8 Panoramica del Giardino Giusti dopo il nubifragio, Verona - credits Archivio Giusti.

1 La presenza di alberi da frutto si evince da una stampa del 1714 di J. C. Volkamer in “Continuation der Nurnbergischen Hesperidum”. 2 Inserito già nell’ impianto cinquecentesco, fu ridisegnato nel 1786 dall’architetto Luigi Trezza. 3 Il mascherone, un tempo rivestito di madreperla, coralli, conchiglie emetteva lingue di fuoco e fumo. 4 Esemplare centenario citato da Goethe nel suo Viaggio in Italia del 1817: «Quei rami li avevo presi nel giardino Giusti […] Un albero che dal basso fino alla vetta protende verso il cielo tutti i suoi rami, i più vecchi come i più giovani, e che vive i suoi buoni trecent’anni, è davvero venerabile. Meta obbligata del Grand Tour, il Giardino fu visitato da illustri personaggi come Goethe e Mozart.

Genna Negro La raffigurazione degli elementi vegetali nei progetti di parchi e giardini. Note storiche e tecniche

Genna Negro | genna.n@hotmail.it Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio, Facoltà di Architettura, Sapienza Università di Roma.

Genna Negro

Abstract This paper aims to illustrate the analyzes carried out on the methods of depicting gardens and parks. The study object of this work is limited to the planimetric representation in the first half of 20th century. Examples of gardens and parks have been selected internationally, aimed at a general framework of the theme and the deepening of some aspects also useful for professional practice in the two main forms of graphics, the narrative one to which a figurative graphic corresponds, and the prescriptive to which an ideogrammatic graphic corresponds.

Parole chiave Raffigurazione, novecento, elementi vegetali.

La raffigurazione di un progetto per un parco o giardino consiste sostanzialmente in due tipi principali di grafici, quello finalizzato alla sola illustrazione e quello necessario alla sua esecuzione. Nel primo caso si tratta di una raffigurazione di tipo artistico-figurativo, volta ad esprimere la forma del giardino; nel secondo caso invece, la raffigurazione si fonda su ideogrammi contenenti informazioni qualitative e quantitative. La raffigurazione utilizza le proiezioni ortogonali (verticali e orizzontali) e la proiezione centrale (prospettiva) e deve confrontarsi con le caratteristiche fenomeniche dei singoli elementi vegetali quali il portamento, la forma, la grandezza, la ramificazione, la densità del fogliame, i colori, la trasparenza, il riflesso della luce, ecc. e per come gli stessi vengono percepiti, secondo quanto recita l’Art. 4 della Carta ICOMOS-IFLA dei giardini storici del 19811 in riferimento al giardino come composizione architettonica e vegetale. Precedenti moderni e contemporanei sulla progettazione dei giardini che abbiano un riferimento consistente alla raffigurazione grafica sono stati prodotti fra l’altro negli Stati Uniti d’America, come ad esempio il volume di A. J. Rutledge Anatomy of a Park2 del 1971. Altri studi concernenti la raffigurazione grafica soprattutto progettuale si focalizzano però prevalentemente sugli schemi compositivi, come ad esempio The poetics of Gardens3 di W. J. Mitchell, W. Turnbull Jr., Charles W. Moore del 1993. Parlando più in particolare di un progetto di restauro di giardini, un modello di riferimento ancor oggi valido è quello di D. Hennebo Gartendenkmalpflege,4 del 1985, che dedica un apposito capitolo alla caratterizzazione grafica dei di-

segni di rilievo e di progetto. Per lo stesso tema si rimanda inoltre, tra gli altri, agli studi di Massimo de Vico Fallani e di chi scrive.5 Tuttavia, come in ogni altra forma di produzione artistica, anche nel campo del giardinaggio è impossibile individuare connessioni causali esclusive tra modelli e nuove espressioni, anche perché, in generale, i singoli autori trasformano o arricchiscono modelli e prototipi preesistenti producendo tipi che sono al tempo stesso derivati e originali, e contribuendo in tal modo all’attualizzazione di un linguaggio che come ogni altro è in continua e progressiva trasformazione. In questo scritto, limitatamente alla rappresentazione planimetrica,6 vengono discusse entrambi i tipi accennati esaminando esempi reali di disegni di giardini e parchi del periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del secolo scorso. Tale segmento temporale è stato scelto in relazione alla nascita del giardino pubblico; infatti a differenza degli impianti privati dove la memoria e le nuove idee potevano essere trasmesse oralmente tra proprietario e giardiniere, quando l’opera diviene pubblica nasce l’esigenza di dettagliare per mezzo di grafici e di documenti scritti un progetto che doveva essere comprensibile a tutti. Certamente non mancano disegni significativi anche in epoche precedenti. Andrè Le Nôtre (1613 – 1700) ad esempio, elabora disegni accuratissimi; Antonie Joseph Dezallier D’Argenville (1680 – 1765), naturalista e trattatista francese, completa e arricchisce il suo trattato sulla teoria e pratica del giardinaggio con numerosi disegni d’insieme e di dettaglio.7 Il linguaggio grafico di Le Notre, considerato, insieme a quelli del D’Argenville un modello di riferimento per il Settecento francese, trova i suoi precedenti nelle incisioni cinquecentesche e seicentesche di giardini, in particolare italiane e francesi, e nei disegni di giardinieri come André e Claude Mollet e Boyceau. Inoltre va tenuta presente la formazione di Le Nôtre all’Accademia di pittura e scultura, dalla quale attinse tecniche di disegno ornamentale utilizzate in particolare per il tracciamento delle decorazioni a ricamo nei parterres. Come descritto di seguito, nel tempo la raffigurazione, degli alberi, da parte di autori diversi, presenta via via sviluppi originali. Verso la fine del XIX secolo, John Claudius Loudon (1783 – 1843), botanico, architetto paesaggista e autore di una monumentale Enciclopedia del giardinaggio,8 nel disegno in proiezione verticale per il progetto del giardino per il Rev. Thomas Garnier nello Hampshire si serve del modello definito logico-concettuale che prevede l’utilizzo di simboli, lettere e numeri come strumenti per fornire informazioni dettagliate sugli individui stessi. Nel caso specifico ad ogni elemento raffigurato, albero isolato o gruppi di alberi, in proiezione orizzontale, è associato un numero che identifica le caratteristiche dell’elemento vegetale a cui si riferisce. In un periodo posteriore Edouard Andrè (1840 – 1911), famoso paesaggista e botanico francese, raffigura alberi isolati, boschetti e aiuole riportando il profilo della chioma corredata

Fig. 1 Edouard Andrè: progetto per un giardino paesaggistico (dettaglio da Andrè 1984).

Fig. 2 Frederick Law Olmsted: progetto generale della Boone Square a Luoisville (dettaglio da Olmsted 1892).

Fig. 3 Thomas Hayton Mawson: dettaglio di un progetto (da Mawson 1907).

Fig. 4 Raffaele De Vico: progetto di massima per il Parco della Rimembranza a Villa Glori a Roma (dettaglio da de Vico 1985). di ombra propria e ombra portata. Interessante la soluzione adottata per l’ombra portata raffigurata mediante un sistema di linee parallele inclinate a quarantacinque gradi. L’impiego di lettere in planimetria rimanda all’individuazione dei soli elementi artificiali presenti (Fig. 1). Andrè sperimenta inoltre nei suoi disegni di progetto soluzioni per individuare gli interventi di rimozione o mantenimento degli elementi vegetali ed architettonici mediante una linea tracciata diagonalmente sull’elemento rappresentato9. I disegni e le opere di F. L. Olmsted (1822 – 1903), autore insieme a C. Vaux (1824 – 1895) del Central Park di New York, possono essere considerati non solo come rivoluzione concettuale dell’idea di giardino urbano nelle grandi città americane ma anche come uno stato embrionale del tipo di rappresentazione figurativa più moderno. Ad esempio nel disegno di un suo progetto per Boone Square,10 il volume delle chiome degli alberi e dei gruppi arborei è raffigurato con una linea morbida che si ripete verso l’interno come a guisa di curva di livello. Le linee sono maggiormente marcate nella parte in ombra e lasciano intravedere in trasparenza il perimetro e la delimitazione delle aiuole, rappresentati in questi casi con una linea tratteggiata (Fig. 2). È interessante notare che a distanza di oltre mezzo secolo gli alberi disegnati da Michele Busiri Vici (1894 – 1981) nel progetto per il parco di Ostia Antica riecheggiano la medesima caratterizzazione utilizzata da Olmsted. Con riferimento al giardino di stile inglese quale novità stilistica del secolo XVIII, divenuta quasi egemone nel XIX, i diversi autori che ne svilupparono il linguaggio grafico, tra i quali quelli citati nel presente scritto, ebbero come modello anche le ricerche effettuate nei primi anni del XVIII secolo da autori come P. Panseron e S. Switzer,11 e i progetti di L. Brown conosciuti e utilizzati da H. Repton. Nei primi anni del XX secolo il metodo di rappresentazione utilizzato da T. H. Mawson (1861 – 1933),12 paesaggista e urbanista britannico, si fonda sull’utilizzo di profili contornati aventi la sembianza di nuvole con la moltiplicazione di segni per conferire tridimensionalità agli stessi; soluzione adottata sia per gli individui isolati che per i clumps.13 Il riconoscimento degli individui è affidato a simboli e numeri che rimandano ad una legenda: i simboli (un cerchio per le querce rosse, un triangolo per i mandorli, ecc.) sono associati al nome comune mentre i numeri al nome scientifico (Fig. 3). Questa tendenza, che risente in parte del gusto dell’Art Nouveau, era peraltro condivisa, visto che la ritroviamo all’incirca nello stesso periodo in diversi disegni prodotti dai fellows dell’Accademia Americana a Roma,14 e, fra gli altri, nei disegni di J.-C. Nicolas Forestier (1861 – 1930), architetto paesaggista francese, nei disegni di R. de Vico (1881 – 1969) (Fig. 4) e nei disegni di G. A. Jellicoe (1900 – 1996). Una scuola di particolare interesse emerge poi attorno allo stesso periodo (primi del Novecento) in Germania. Di essa troviamo un ricco repertorio nell’opera di H. Koch (1883 – 1964).15 Nel disegno

per il progetto di un giardino a Zurigo16 realizzato dai fratelli Mertens17 compaiono, mediante un cerchio campito in nero, i fusti degli alberi disegnati fuori scala e le chiome vengono raffigurate in due soluzioni differenti a seconda se si tratti di conifera o di albero a portamento globoso: per i primi si ricorre all’utilizzo di un cerchio, per i secondi invece ad una linea continua irregolare e frastagliata. Entrambe le soluzioni sono di differente dimensione a seconda della grandezza dell’individuo vegetale (Fig. 5). Il disegno di un giardino privato a Seefled del 192818 realizzato da O. Mertens19 mette in luce un’esigenza comune nella rappresentazione dei progetti di giardini di quegli anni: riportare in proiezione verticale i diversi livelli mantenendo la reciproca visibilità. Si nota che gli alberi di prima grandezza, disegnati come masse trasparenti, lasciano intravedere la siepe sottostante raffigurata mediante una linea continua campita con tratteggi con differente inclinazione. Il disegno è arricchito da lettere che rimandano a una legenda in cui vengono indicate le piante erbacee presenti; una soluzione differente invece è adottata per gli elementi arborei ed arbustivi, il nome dei quali è riportato direttamente sulla chioma che lo identifica. Più vicini ai nostri tempi, i disegni dei giardini per l’E42 mostrano tracce dell’influenza culturale specifica tedesca. A questo proposito L. Piccinato (1899 – 1983) scrive «I tedeschi, più che i francesi e gli italiani, hanno saputo creare un giardino moderno introducendo, per così dire, gli elementi lineari del vecchio giardino all’italiana in composizioni più vaste e più paesistiche derivate dal giardino all’inglese»20 (Fig. 6).

Fig. 5 Fratelli Mertens: progetto per un giardino in Svizzera (dettaglio da Koch 1927).

Fig. 6 Luigi Piccinato: disegno del giardino Mandelbavm (Piccinato 1927). Questi disegni (Figg. 7 – 8), spesso di autori il cui nome ancora oggi non è noto, rappresentano i giardini sulla scia della scuola tedesca e americana e formano un ricco patrimonio di modalità rappresentative originali, costituendo un tema molto ampio e significativo che sarà oggetto di prossimi approfondimenti. Proprio a questo proposito, per quanto riguarda il Novecento ed in particolare l’Italia oltre alle influenze tedesche già segnalate, esiste un ricchissimo repertorio di informazioni costituito dai progetti dei parchi e giardini dell’EUR, dove è possibile riconoscere soluzioni ed espressioni che apportano novità interessanti.

1 All’Art. 4 si legge: Sono rilevanti nella composizione architettonica del giardino storico: la sua pianta ed i differenti profili del terreno; le sue masse vegetali: le loro essenze, i loro volumi, il loro gioco di colori, le loro spaziature, le loro altezze rispettive; […]. 2 a. J. rutledGe, Anatomy of a Park: The Essentials of Recreation Area Planning and Design, McGraw-Hill Companies, 1971. 3 W. J. MitChell, W. turnbull, Jr. Charles W. Moore, The Poetics of Gardens, Mit Press Ltd, 1993. 4 D. hennebo, Garten-Denkmalpflege Grundlagen der Erhaltung historischer Gerten end Grunanlagen, Eugen Ulmer, 1985 5 M. de ViCo Fallani, Osservazione sulla manutenzione dei giardini storici, in «Bollettino ingegneri», febbraio 1984, pp. 12-19 e M. de ViCo Fallani, La raffigurazione delle piante legnose nei progetti di manutenzione e restauro dei giardini e parchi di interesse storico-artistico, in Bollettino d’Arte, fasc. 13. Gennaio – marzo 2012, pp. 59-80; G. neGro, La rappresentazione grafica delle piante legnose per il restauro. Note illustrative, «Giardini e parchi storici elementi portanti del paesaggio culturale. Pluralità di aspetti e connotazioni» , Roma, 2021, pp. 131-134. 6 Si rimanda ad altra occasione l’indagine sulle rappresentazioni in prospetto, in assonometria e in prospettiva. 7 dezallier d ’arGenVille, La Theorie et la Pratique de Jardinage, Paris 1709, ristampa anonima Paris 1760, Hildesheim-New York 1972 8 J. C. loudon, An Encyclopedia of Gardening, comprising the Horticolture, Floricolture, Arboricolture, and Landscape…, London, Longman, Rees, Orme, Brown, Green, and Longman, 1865 9 edouard andre, L’art des jardins: Traite general de la compositions des parcs et jardins, Marseille, Laffitte Reprints 1984.

Fig. 7 E42: progetto per il Viale dell’Arte (E42) (dettaglio, Archivio Capitolino, fondo Raffaele de Vico, dis. 51, Serie 1.2/2).

Fig. 8 E42: progetto per Poggio Laurentino (E42) (dettaglio, Archivio Capitolino, fondo Raffaele de Vico, dis. 44, Serie 1.2/2).

10 G. Pettena - W. alex, Olmsted: l’origine del parco urbano e del parco naturale contemporaneo, Firenze, 1996. 11 Cfr. M. l. Gothein, Storia dell’arte dei giardini, edizione italiana a cura di M. De vico Fallani, M. Bencivenni, L. S. Olschki, Firenze 2006, Vol II, pp. 939 – 940. 12 Architetto paesaggista e urbanista britannico, nel 1880 fondò con i fratelli un vivaio a Windermere; tale scelta gli permise di applicarsi all’arte dei giardini. Nel 1923 divenne presidente dell’Istituto di Urbanistica e nel 1929 primo presidente dell’Istituto degli Architetti del Paesaggio. 13 Nel giardino di stile inglese vengono denominati clumps i raggruppamenti di alberi di piccole dimensioni composti da un numero limitato di individui. 14 Cfr. VinCenzo Cazzato, Ville e giardini italiani. I disegni di architetti e paesaggisti dell’American Academy in Roma, Istituto Poligrafico Stato, 2004. 15 Architetto e progettista di giardini tedesco e autore di diversi scritti sull’arte dei giardini. 16 Cfr. huGo koCh, Der Garten, wege zu seiner gestaltung, Berlino, Ernst Wasmuth, 1927. 17 Walter (1885 – 1943) e Oskar Mertens (1887 – 1976) architetti di giardini svizzeri, furono tra i più noti rappresentanti del giardino architettonico in Svizzera e dal 1907 al 1944 gestirono un’azienda orticola a Zurigo sotto il nome di Gebrüder Mertens (da https://de.wikipedia.org/wiki/ Gebrüder_Mertens, consultato il 07 luglio 2021). 18 Guido harbers, Der Wohngarten, München, 1933 19 Cfr. nota numero 11. 20 Cfr. luiGi PiCCinato, Giardini moderni, «Architettura e Arti figurative», fasc. VIII – Aprile 1927, pp. 348-373.

Julie Pellegrin Les Folies Siffait. Entre jardin historique et espace naturel sensible

Julie Pellegrin | julie.pellegrin@loire-atlantique.fr Grand Patrimoine de Loire-Atlantique, France

Julie Pellegrin

Abstract Built between 1817 and 1826, les Folies Siffait is a terrace garden giving wonderful sights on the Loire valley landscape and monuments around Oudon and Le Cellier (44, France). We have an important lack of knowledge about the intentions of its owners, Maximilien and Oswald Siffait. After years of neglect, the monument has been protected as an historical garden by the French state. But it is also considered by its present owner (Conseil départemental de Loire-Atlantique) as an « espace naturel sensible », i.e a special ecological protection area for protected species (fauna and flora). Can we mix the two points of view ? and what does the Florence Charter tells us about the preservation of biodiversity ?

Mots clés Espace naturel sensible, biodiversité, « cristallisation ».

Tout au long de la Loire, on peut observer en dehors des agglomérations et des châteaux, une architecture soignée de villégiature généralement construite aux XVIIIe et XIXe siècles bénéficiant, la plupart du temps, de magnifiques vues sur la Loire. Ces bâtiments ne sont séparés du fleuve que par de grands parcs qui, le plus souvent aménagés « à l’anglaise », révèlent au détour d’une allée sinueuse une perspective sur le fleuve. Le site de 3,33 hectares qui nous occupe ici est perché sur un éperon rocheux établi sur la commune du Cellier (Loire-Atlantique), en région Pays de la Loire, à 20 kms au nord-est de Nantes. Il est très singulier de par son aspect très construit lors même qu’on n’y trouve aucun lieu d’habitation. Il s’agit d’une succession de 39 terrasses dotées de bastions semi-circulaires, de tours prétendument ruinées et d’escaliers escarpés qui dévalent un coteau très arboré qui a 47 mètres de hauteur. L’ensemble frappe fortement par le contraste qu’il offre entre des masses maçonnées multiples et le fouillis végétal qui s’intrique entre celles-ci. Le mélange de ce bâti architectural complexe mais non habitable avec des plantations hétéroclites incite à s’interroger sur l’appartenance même du lieu à la catégorie des jardins historiques et leurs compositions paysagères alliant architecture et végétation. Actuellement en cours d’étude, car la documentation est mince et éparse, l’espace des Folies Siffait doit faire l’objet d’un vaste programme de restauration. Des choix fondamentaux vont devoir être

décidés pour orienter la lecture du site et sa qualification éventuelle en tant que jardin historique. Les principales difficultés qui se posent aujourd’hui ne sont donc pas d’ordre financier, mais bien d’orientation quant à la manière d’intervenir sur cet espace hybride. Avant même d’étudier les lieux, ces questions sont tangibles au regard des différents acteurs qui doivent intervenir dans le projet et qu’a associés le propriétaire actuel, le Conseil départemental de Loire-Atlantique : un service spécialisé dans les questions environnementales qui gère le site depuis de nombreuses années dans un souci de préservation de la biodiversité ; un service chargé du patrimoine bâti qui intervient ici pour la première fois et n’a d’expérience qu’en bâti, et non en jardins ; un service spécialisé dans le patrimoine historique (que je dirige) qui est leader du projet et futur gestionnaire des visites et animations futures. Notre interrogation portera donc sur la possibilité d’une fusion entre la notion de « jardin historique » et celle d’« espace naturel sensible ». Ces deux notions sont-elles contradictoires ou peuvent-elles cohabiter ? La proposition de « cristallisation » du site répond-elle à cette question ? Ce terme a été choisi dans le cadre de l’étude de programmation pour définir la manière dont la future équipe de maitrise d’œuvre interviendra ; il a été choisi par l’architecte du patrimoine, Laure Marieu1 . On ne connaît pas à ce jour d’archives liées à l’aménagement (une construction) du site. Un travail minutieux de recoupement est mené depuis deux ans par Pierre Mouchard, chargé d’études docu-

Fig. 1 Les Folies Siffait, Le Cellier, crédit : Conseil départemental de LoireAtlantique.

Fig. 2 Le cèdre du Liban, Les Folies Siffait, Le Cellier, crédit : conseil départemental de LoireAtlantique.

mentaires pour le département, qui a déjà réuni un ensemble significatif d’éléments sur la famille Siffait, ainsi que sur les interventions réalisées au XXe siècle2 . La famille Siffait est originaire d’Abbeville (Somme, Hauts de France) et s’installe au Cellier en 1816 dans la propriété de la Gérardière. Dès 1817, Maximilien Siffait commence à acheter des parcelles éparses sur le coteau qu’il regroupe progressivement. Il semble que le point de départ de son domaine soit des terrains peu coûteux surnommés localement « les Rochers », puis les ruines médiévales dites du Château-Guy, une ancienne tour de guet surveillant la Loire construite par Olivier de Clisson3. Maximilien acquiert ensuite peu à peu des parcelles de vignes dont il fait arracher les plants. L’aménagement lui-même se déroule de 1817 à 1826. Les travaux sont réalisés en deux phases principales : par le haut d’abord, le flanc nord-est, puis par le bas, le pied sud du piton et le vallon est. L’essentiel des constructions est constitué de murs et murets en pierre sèche d’origine locale. L’extraction se fait sur le site même, il s’agit d’un micaschiste qui se découpe en strates parallèles tendant parfois à se déliter en tranches sous l’action de l’eau et de la poussée des terres. La déclivité de la pente a dû rendre la construction très délicate. Il semble difficile d’en imaginer la réalisation sans un plan d’ensemble dessiné par un architecte, mais nous n’en avons pas de traces documentaires4. Concernant les plantations qu’auraient pu faire Maximilien, nous n’avons aucun élément non plus. Les terrasses sont là pour ménager des points de vue sur la Loire et les lointains d’un vaste paysage, et pour permettre des promenades pittoresques et variées. Les descriptions contemporaines ou juste postérieures à la construction sont souvent peu élogieuses. Les guides touristiques décrivent « la folie » de Monsieur Siffait5. Aucun de ces textes ne parle du couvert végétal ou des plantations, mais ils mentionnent plutôt des éléments décoratifs hétéroclites tels les murs peints de couleurs vives (des traces d’enduit de couleur vive subsistent encore ici ou là) et ils év-

oquent même parfois des « mannequins » animant les différentes terrasses. Il existe par ailleurs deux dessins de William Turner6 qui donnent à voir un site très minéral, semblable à une ruine de palais mauresque. À la mort de Maximilien, l’endroit n’aurait guère pu être considéré comme un jardin historique au sens que lui donne actuellement la Charte de Florence. On peut émettre l’hypothèse que le bâti a largement prévalu dans l’aménagement voulu par Maximilien. Il en va tout autrement de son fils Oswald qui hérite de l’ensemble des propriétés de son père. Oswald est un passionné de botanique. Il est président de la Société nantaise d’horticulture en 1848 et il est certain qu’il est intervenu à son tour sur le site. Il est probable qu’il ait confié à André Leroy, grand paysagiste ligérien, la responsabilité d’un plan d’ensemble de plantations en 1847. Ceci est avéré pour le parc de la Gérardière et c’est sans doute le cas pour les Folies Siffait. Nous n’avons malheureusement pas encore eu accès à l’intégralité des archives Leroy conservées aux Archives départementales du Maine-et-Loire. Un inventaire de la faune et de la flore est actuellement en cours et certains beaux sujets semblent bien avoir été plantés à l’époque d’Oswald, comme l’énorme cèdre du Liban, de grands chênes qui se dressent tels des vigies au sommets de tourelles, des marronniers aussi, un ginkgo sur une terrasse haute7. Une option de restauration du site pourrait consister à se laisser principalement guider par les traces de cet état Leroy de 1847, de remonter tous les murs et de poursuivre les plantations à la manière d’Oswald. La seconde moitié du XXe siècle a cependant porté un regard tout autre sur le site. Un de ses meilleurs connaisseurs aujourd’hui est certainement Gilles Clément, dont les prises de position ont orienté le devenir des lieux. En 1987, à la demande de la mairie du Cellier (alors propriétaire), il rédige une note pour la DRAE8. Il précise que le site est bien un jardin mais « n’appartenant pas

Fig. 3 Le grand escalier, Les Folies Siffait, Le cellier, crédit : Conseil départemental de Loire-Atlantique.

Julie Pellegrin à l’histoire traditionnelle »9. Il insiste sur le fait qu’aujourd’hui c’est la profusion du végétal qui fait son succès. En effet, des espèces endémiques se sont déployées partout et des espèces animales protégées y vivent désormais : nombreux chiroptères, gymphes, rosalies des bois, vipères, etc. C’est d’ailleurs une des raisons qui a prévalu lors de son classement au titre des espaces naturels sensibles par le Département10. Mis à part le cèdre, les visiteurs et visiteuses prennent avant tout en photo les nombrils de Vénus, les étendues de fragon petit houx en sous-bois et les racines insérées dans les murs. Gilles Clément préconise, après un inventaire précis, de ne supprimer que les sujets menaçant la solidité des maçonneries et de faire découvrir le site « comme on découvre une civilisation inconnue, au travers d’une épaisseur végétale, éventuellement renforcée, gardienne du lieu »11. Ces lignes font davantage penser aux grands temples cambodgiens dévorés par la végétation tropicale (d’ailleurs aujourd’hui combattue) qu’aux rêves de ruines féodales de Maximilien Siffait et des Romantiques de son temps. Selon l’article 17 de la Charte de Florence, ne serions-nous pas dans le cas de ce qu’elle nomme « Jardins disparus » et non dans la catégorie des « Jardins historiques » ? Mais paradoxalement, le site est classé depuis le 22 juillet 1992 à l’inventaire supplémentaire des Monuments historiques, rubrique « Parcs et jardins ». La dernière étude de La Folie Siffait, préalable aux travaux à venir, suggère la notion de « cristallisation » du site12. Ce terme semble en contradiction avec les catégorisations de la Charte de Florence. La question porte sur la notion de « maintien en l’état » qui, elle, est évoquée par l’article 11. Mais de quel état de référence doit-on partir pour la restauration et la valorisation de ce site ? L’état actuel, clairement déstructuré par rapport aux intentions premières des Siffait, doit-il être pris en considération ? Au moment de débuter des travaux d’ampleur, en grande partie consacrés à la restauration des maçonneries (certaines sont en très mauvais état), la relecture de la Charte de Florence pousse à s’interroger globalement sur la question de la Nature et de ses états successifs dans un lieu tel que La Folie Siffait où cohabitent espèces endémiques et espèces importées par les créateurs du jardin. Cette question se pose avec d’autant plus d’acuité que les effets du changement climatique deviennent de plus en plus palpables et que bon nombre de jardins historiques risquent de devenir des conservatoires d’espèces maintenues artificiellement en vie. L’article 12 qui mentionne les « espèces d’origine » doit-il alors être maintenu ? Peut-être pourrait-il être complété par l’idée d’une évolution possible des espèces pour des raisons de diversité biologique, d’évolution climatique, voire de redéploiements d’espèces endémiques.

1 Etude de programmation commandée par le Conseil départemental de Loire-Atlantique ; ce terme peut faire penser au phénomène chimique qui fige les éléments dans un état donné mais également bien sûr à Stendhal (De l’Amour, 1822). 2 Pierre MouChard, Les Folies Siffait, Grand Patrimoine de Loire-Atlantique, Nantes, 2021, à paraitre. 3 Une première observation archéologique a été réalisée en 2019 par Jérôme Mercier. Le couronnement actuel est moderne et date probablement de Maximilien Siffait. La question d’une fouille archéologique se pose dans le cadre du projet. 4 Les archives d’Ernest Siffait, dernier propriétaire du site, ont été volontairement détruites par sa veuve en 1904. 5 J. Forest aîné, La Loire de Nantes à Orléans : guide du voyageur par les bateaux à vapeur, ToursAigre, Nantes, 1845, pp. 8-9 : « Après le château de Clermont, viennent les Folies-Siffait, assemblage de tours, de tourelles et de terrasses de toutes couleurs, plantées de quelques cyprès. On dirait les débris de quelques vieux châteaux, qu’on se serait plu à réparer, ou pour mieux dire, on ne sait trop ce qu’on doit dire en songeant à tout ce qu’on a dû dépenser pour ne rien faire de beau ni d’utile, si n’est que c’est œuvre de folies, ainsi que l’indique son nom ». 6 Conservés à la Tate Gallery, Londres. 7 Il est à noter que certains sujets associés abusivement à Oswald sont plus récents comme les chênes verts à l’entrée du site ou les cyprès. 8 Ancien nom de la DREAL, direction régionale de l’environnement, administration territoriale de l’environnement du ministère de l’écologie. 9 Les Folies Siffait, Note d’intention abordant les problèmes de réhabilitation du site, juin 1987, p. 2. 10 Loi 76.1285 du 31 décembre 1976. Un espace naturel sensible est un espace « dont le caractère naturel est menacé et rendu vulnérable, actuellement ou potentiellement, soit en raison de la pression urbaine ou du développement des activités économiques ou de loisirs, soit en raison d’un intérêt particulier eu égard à la qualité du site ou aux caractéristiques des espèces végétales ou animales qui s’y trouvent 11 Gilles CléMent, idem, p. 5. 12 Étude préalable, les Maitres du rêve, 2020.

Gianfranco Pertot, Sara Rocco Caratteri e opportunità di tutela delle sistemazioni a verde realizzate dagli “architetti giardinieri” nei centri storici colpiti da distruzioni belliche. Due casi emblematici

Gianfranco Pertot | gianfranco.pertot@polimi.it Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano

Sara Rocco | sara.rocco@polimi.it Conservazione dei Beni architettonici, Politecnico di Milano

Gianfranco Pertot, Sara Rocco

Abstract After the Second World War, Milan and Pula, which were strongly bombarded, underwent a similar approach to reconstruction within their historical centres. In several cases ruins were totally demolished and substituted by architects and planners with green spaces, instead of building new constructions. Modernist culture guided these choices in order to thin out the urban fabric, considered unhealthy and overcrowded, and to valorize isolated monuments. In Pula politics also played an important role in the definition of demolitions and new urban arrangements. Anyway most of these gardens did not show a high level of design and now they sometimes appear as confused areas. This paper wants to focus the attention on these places, that are gaps left by the war and often filled up in a moot way, believing that enough time has passed in order to recognise them as historical gardens of memory and to improve their protection, starting from an appropriate expansion of the meaning within the two Charters on the restoration of historical gardens.

Parole chiave Pola/Pula, Milano, Restauro, centro storico, verde urbano.

Nel corso della ricostruzione che seguì alla seconda guerra mondiale, in non pochi centri storici, soprattutto in presenza di resti archeologici e nelle adiacenze di manufatti di conclamato valore storico-artistico, alla rimozione dei resti di edifici bombardati non fece seguito un progetto di nuova edificazione, ma si preferì destinare i vuoti generati dalle distruzioni “a verde”, più o meno progettato. Questa operazione trovò larga applicazione nelle città dove il peso delle distruzioni era stato particolarmente pesante. I casi studio che qui si presentano, Milano e Pola/Pula sono in questo senso emblematici. Le due città hanno molti caratteri in comune, nonostante le evidenti differenze, a partire dalla loro estensione: furono però fra le più colpite nel corso del conflitto e furono teatro di un profondo “cambio di passo”, sia politico che urbanistico, fin dai primi momenti della Ricostruzione.1

Gli “architetti giardinieri” Questa modalità di approccio, che vedeva nel progetto del verde l’unica alternativa possibile, è stata da alcuni reputata poco efficace. La definizione di “architetti giardinieri” venne, infatti, polemicamente conferita da Attilio Krizmanic´, figura di spicco nel panorama architettonico polese2 ai professionisti che dopo la seconda guerra mondiale operavano ricorrendo ad una sistemazione a verde, più o meno formalizzata, in luogo del progetto di ricostruzione di edifici distrutti o danneggiati dalla guerra. Nonostante sia stata una prassi diffusa in diverse città jugoslave, non può essere delineato un profilo teoretico comune di tale operare, né i risultati ottenuti presentano tratti compositivi comuni. Si attinse in genere alle nozioni di Arte dei giardini più o meno acquisite nel corso della formazione universitaria, e mai si giunse né agli intenti filologici di un Giacomo Boni o a quelli reinterpretativi di un Antonio Muñoz (peraltro prefigurati dallo stesso Boni nel 1914).3 La loro opera va valutata, per ragioni che si espliciteranno, soprattutto in base al ruolo significante che oggi può essere attribuito a quegli spazi verdi nei centri storici urbani, e alla loro configurazione caratterizzata dalla presenza vegetale, “materiale vivente”, e delle attrezzature utili alla fruizione.

A Milano L’immediato dopoguerra milanese vide innanzitutto lo studio di un nuovo piano regolatore che sostituisse il permissivo e indefinito piano del 1933-34 e guidasse la ricostruzione, traendo linfa dalla cultura modernista che era stata sino a quel momento relegata ai margini delle decisioni. Per redigere il nuovo piano fu realizzato un capillare Censimento urbanistico redatto da otto commis-

Fig. 1 “Stralcio del Piano particolareggiato della zona di Sant’Eustorgio e San Lorenzo … e Piano particolareggiato della zona dell’Arena” a Milano (da Milano. Il piano regolatore generale, Torino, Edizioni di Urbanistica, 1956.pp. 91-93).

Fig. 2 Sistemazione a verde di area bombardata, fra via Molino delle Armi e via Campo Lodigiano, a Milano (fotografia di G. Pertot, 2021).

Fig. 3 Giardino Aristide Calderini a Milano, realizzato su area bombardata attorno ai resti di palazzo Corio (fotografia di G. Pertot, 2021). sioni di quartiere alla fine del 1946. Le stesse commissioni parteciparono alla sua elaborazione sotto la direzione di una Commissione centrale, di una Commissione generale e di commissioni consultive (in tutto vi lavorarono oltre cento tecnici). Benché il Censimento prevedesse l’individuazione e la valutazione dello stato di conservazione dei giardini pubblici e privati, le commissioni si focalizzarono soprattutto sulle nuove sistemazioni a verde da inserire nel PRG, con tre obiettivi: impedire nuove costruzioni sui sedimi di edifici distrutti, o irrimediabilmente danneggiati, così da diradare il tessuto edilizio del centro storico (considerato in molti casi nulla più che un coacervo di edifici insalubri e di vie congestionate); valorizzare le aree archeologiche; garantire ampie zone di rispetto per i monumenti, esaltandone così il valore percettivo ed estetico. Il nuovo PRG non considerò però questi spazi come parti di un sistema cittadino, bensì come elementi anticipatori di una ricostruzione più o meno integrale del centro storico, da perseguire negli anni allargandone le strade e favorendo l’edificazione aperta. Delle previsioni del piano del 1948 (confermate nella versione approvata nel 1953) solo il cosiddetto Parco dell’Area archeologica (formato dal Parco delle basiliche e dal Parco dell’Anfiteatro romano, dove si scavava dal 1931) ebbe respiro e disegno a livello cittadino (fig. 1). Gli altri “giardini pubblici” di nuova formazione (individuati nell’ambito di piani particolareggiati)4 sono oggi ritagli urbani, occupati da aiuole e alberi con qualche seduta e percorso pedonale, di cui appare incomprensibile la genesi. Alcuni sono frammenti di interventi senza seguito, come il breve tratto a verde (non più di 400 mq, fig. 2) fra via Molino delle Armi e via Campo Lodigiano (tutta la parte sud-est della cerchia dei Navigli avrebbe dovuto avere, sul lato interno, una fascia sistemata a giardino in luogo delle antiche case sul terraggio), o il Giardino Aristide Calderini fra via Sant’Agnese e via Nirone (fig. 3) e il Giardino dei Gorani (recentemente sistemato, dopo un pluridecennale utilizzo a parcheggio), che dovevano affiancare e dare respiro a un segmento della famigerata “Racchetta”, così come la sistemazione a verde delle cosiddette Terme di via Brisa e della parte meridionale del lotto su cui insiste il civico Museo archeologico. Altri sono una mera sistemazione di scavi archeologici seguiti alle demolizioni post-belliche (via Circo) o di zone “residuali” (l’area dell’ex obitorio fra l’Ospedale Maggiore e San Nazaro). Carattere comune a questi spazi è la presenza del rudere, sotto forma sia di resto archeologico che di facciata cieca ai suoi margini, residuo di distruzioni e demolizioni. Solo Largo Richini (Giardini Camilla Cederna) ha trovato forma compiuta.

A Pola/Pula I volti delle città dell’Adriatico orientale furono profondamente sfregiati dai bombardamenti degli Alleati. La neonata amministrazione jugoslava, rappresentata dai responsabili statali della tutela ma anche da professionisti architetti ed urbanisti, in diverse occasioni reagì alle distruzioni con la demolizione totale delle rovine sopravvissute. Come a Milano prevalse in molti casi l’istanza modernista

incline alla ricerca, talora spasmodica, di luce e igiene. Parallelamente però, riferimento degli urbanisti jugoslavi era anche la città pre-novecentesca, caratterizzata da una minore densità edilizia e da una maggiore presenza di aree verdi (preconizzata peraltro anche dalla Carta di Atene del 1931). Vi era, inoltre, una non troppo celata avversione nei confronti dell’eredità architettonica delle amministrazioni austriaca e italiana che avevano governato questi territori nella prima metà del «secolo breve». Nella città di Pola/Pula5 il metodo adottato dagli «architetti giardinieri» degli anni Cinquanta è ben rappresentato dalla demolizione della palazzina degli uffici municipali, progettata durante il Ventennio dall’architetto Guido Cirilli e dall’ingegnere Guido Brass. Nonostante i profondi danni subiti dall’edificio situato nella piazza del Foro, rinominata dal 1948 Trg Republike (piazza della Repubblica), il porticato, il primo piano e la torretta avevano resistito alla furia delle bombe (fig. 4). Nonostante ciò, si procedette alla demolizione, che appariva un gesto chiaramente politico, di rimozione volontaria del passato italiano. Lo spazio precedentemente occupato dalla palazzina fu destinato a verde, con la progettazione di un’aiuola occupata da diversi esemplari di conifere; questa sistemazione è visibile ancora oggi e permette una visuale verso il mare direttamente dalla piazza (fig. 5). Altre simili trasformazioni hanno coinvolto interi isolati, come è avvenuto nei dintorni della Cappella di Santa Maria del Canneto, che erano precedentemente occupati da un numero cospicuo di abitazioni. Pesantemente bombardati durante il conflitto, sono stati completamente sostituiti da uno spazio verde. Il progetto originario di sistemazione paesaggistica, opera dell’architetto Zdenko Kolacio, prevedeva l’inserimento di vegetazione bassa e arbusti ornamentali in combinazione con alberi ad alto fusto, oltre alla costruzione di alcuni padiglioni; questi ultimi non trovarono realizzazione (fig. 6) e il Park grada Graza assume ancora oggi una forma disarticolata. Anche la chiesa di san Nicola lungo la via Sergia, divenuta nel 1952 ulica Prvog Maja (via Primo Maggio), subì gravi danni a causa dei bombardamenti e fu quasi interamente demolita nel 1953; i pochi resti conservati furono circondati da alberature di vario tipo, oggi rimosse. Come avvenuto anche nel contesto zaratino, il lungomare subì una profonda trasformazione dal 1954: si procedette infatti alla demolizione progressiva degli edifici asburgici, della caserma Francesco Giuseppe, divenuta poi Manifattura Tabacchi, dell’albergo e di un’ala della capitaneria di porto, per fare spazio a parcheggi e giardini commemorativi, con sculture dedicate alla lotta partigiana (Titov Park) (fig. 7).

Fig. 4 La Palazzina comunale a Pula a seguito dei bombardamenti; a fianco si nota il cantiere di messa in sicurezza del Tempio di Augusto (Archivio dell’Arheološki muzej Istre).

Fig. 5 Sistemazione a verde dell’area precedentemente occupata dalla Palazzina comunale (fotografia di S. Rocco, 2019).

La Carta di Firenze e la Carta del restauro dei giardini storici e l’opera degli “architetti giardinieri” A distanza di qualche decennio queste operazioni apparentemente rinunciatarie, che possono apparire una declinazione di comodo del diradamento giovannoniano di fronte alle emergenze poste dal “restauro di necessità” e di fronte al Monumento (con echi dalla Carta di Atene del 1931) restituiscono un patrimonio di aree verdi che possono e devono essere a pieno titolo considerate co-

Fig. 6 Sistemazione a verde dei dintorni della Cappella di Santa Maria Formosa a Pula nel 1957 (Fototeca del Konzervatorski Odjel u Rijeci, n. 268).

Fig. 7 Trg Oslobod -enja (attuale Titov Park) con il monumento ai caduti nella resistenza e alle vittime del fascismo di Vanja Radauš ancora in costruzione (Archivio dell’Arheološki muzej Istre, n. 3390). me giardini storici. Un riconoscimento conforme a quanto dettato dalla Carta di Firenze dei Giardini storici (in particolare dagli articoli 7 e 8), per luoghi per la conservazione dei quali è più che mai necessario auspicare l’applicazione delle raccomandazioni dalla Carta italiana del restauro (in particolare ai punti 2, 3 e 7). In questo senso si ha ragione di credere che le due Carte, di cui cade il quarantennale, manifestino appieno una incontestabile attualità, ma che sia anche opportuno introdurvi la definizione di “giardino della memoria”, per includervi tanto i giardini recentemente sorti per ricordare vittime di eccidi e di persecuzioni quanto quelli che, come a Milano, a Pula, e in molte altre città, sono andati a riempire i vuoti lasciati dalla guerra. In questo caso il riconoscimento contemporaneo è ancora più necessario, in quanto solo oggi, grazie a una lettura a posteriori, riaffiora il loro legame con atti bellici che al tempo si era inteso superare e dimenticare. Il che li accomuna in una categoria particolare di testimoni fra loro eterogenei, prove talvolta discutibili e contradditorie di disegno urbano ma in ogni caso ben consolidate dalla prova del tempo. Sono dunque a tutti gli effetti “complementi inseparabili” dell’”intorno ambientale urbano”(il rimando è ancora alle Carte di Firenze), che alla luce di quelle vicende richiedono oggi un opportuno ampliamento di senso.

1 Gli autori di questo contributo hanno condotto indagini sui due contesti con risultati proposti in: GianFranCo Pertot, roberta raMella (a cura di), Milano 1946. Alle origini della ricostruzione, Cinisello Balsamo – Milano, SilvanaEditoriale, 2018; sara roCCo, Politiche e pratiche di tutela in Istria nel “secolo breve”: il caso di Pola/Pula, tesi di Dottorato in Conservazione dei Beni architettonici, Politecnico di Milano, 2021. Per quanto il testo sia il risultato di un lavoro comune, le osservazioni tematiche relative al contesto milanese vanno ascritte a Gianfranco Pertot e quelle relative alla città istriana a Sara Rocco. 2 Attilio Krizmanić (Pola, 1935), architetto e urbanista laureato a Zagreb nel 1955, dal 1970 ha lavorato presso l’Istituto comunale di urbanistica polese, che ha diretto dal 1975, istituendovi tra l’altro la Sezione patrimonio architettonico. La definizione, pur priva di un assunto teoretico, è stata da lui utilizzata a più riprese, anche recentemente, nel corso di interviste e confronti, e rappresenta un’efficace caratterizzazione di un vero e proprio modus operandi non solo locale. 3 Si vedano tra gli altri, dello stesso GiaCoMo boni, Flora palatina, Roma, Tipografia Roma, 2013 e, su questi aspetti dell’opera di Muñoz, Paola Porretta, Antonio Muñoz e via dei Fori Imperiali a Roma, «Ricerche di Storia dell’arte», XXXII, 95, 2008, pp. 30-43, oltre naturalmente a antonio Muñoz, La sistemazione del tempio di Venere e Roma, Roma, Tumminelli, 1935. 4 Si veda, tra gli altri, Milano. Il piano regolatore generale, Torino, Edizioni di Urbanistica, 1956. 5 Le vicende del dopoguerra polese sono state ricostruite grazie al materiale d’archivio conservato nell’Arheološki muzej Istre (Museo Archeologico dell’Istria) a Pula e nel Konzervatorski Odjel u Rijeci (Dipartimento di conservazione di Rijeka).

Renata Picone Pause nel tessuto urbano: il ruolo del giardino nei palazzi storici napoletani. Caratteristiche e problematiche di restauro

Renata Picone | repicone@unina.it Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II

Renata Picone

Abstract Tracing the path of coexistence between the historical Neapolitan buildings and their gardens, looking at the architecture of the building and vegetation as an inseparable and systemic combination, is a useful exercise when trying to draw new tools for the restoration, enhancement and transmission to the future of the natural built heritage based on a union, often considered unimportant and in some ways problematic, between architecture and nature. The task of the discipline of Restoration is to identify the specificities of the coexistence between built and natural heritage, analyzing how the historical vegetation can be investigated, known and consciously restored as an integral part of the complex of transformations that have characterized the urban fabric of the city. Starting from some experiences of third mission, the essay will address the case studies of the historic gardens of the fifteenth-century Palazzo Penne and the sixteenth-century Palazzo D’Avalos in Naples. These gardens are configured as precious urban breaks in a built environment such as the Neapolitan one, characterized by the absence of large open spaces and large squares. The essay will deal with these themes from the point of view of the building site of knowledge, also outlining possible strategies of conservation, since in both cases the opening of the restoration site is near.

Parole chiave Restauro, Giardino storici, Napoli.

A Napoli si può ancora rimanere sorpresi dagli improvvisi squarci di giardini ombrosi e folti che compaiono oltre le grandi scale barocche, dai profumi, nella tarda primavera, degli aranci e dei limoni in fiore dietro le antiche cortine edilizie dei vicoli e delle gradinate che salgono verso la cintura delle colline, dalla presenza, tra le maglie di una struttura edilizia tra le più dense del mondo, di lecci, palme, eucalipti, lauri, canfora…resti di giardini di una villa, di un palazzo o di un convento1 .

Con queste osservazioni Vanna Fraticelli introduce nel 1993 il suo volume sul giardino storico napoletano, evidenziandone specificità e valori. Il presente saggio, a partire da tali studi generali, intende focalizzare l’attenzione su due complessi residenziali napoletani d’ impianto cinquecentesco, con importanti trasformazioni settecentesche come Palazzo Penne, nel cuore del centro storico partenopeo, e Palazzo D’Avalos, residenza nobiliare nel quartiere di Chiaia, sviluppatosi soprattutto nel XIX secolo: due complessi che l’attività di “terza missione”, condotta nell’ambito di accordi di collaborazione scientifica2 tra il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di

Fig. 1 Palazzo d’Avalos in Via dei Mille, planimetria con indicazione delle aree a giardino e rilievo del prospetto della corte interna di Palazzo d’Avalos realizzato con volo da drone.

Napoli Federico II ed altre importanti realtà del territorio, ha consentito di approfondire dal punto di vista sia del Patrimonio costruito che di quello relativo ai giardini ed al verde. Queste occasioni hanno messo in luce la necessità di includere, nel progetto e nell’intervento di restauro e valorizzazione di tali organismi edilizi, l’obiettivo di trovare possibili soluzioni ai problemi di conservazione, uso e gestione dei loro giardini storici. Si tratta di giardini concepiti e realizzati in un tutt’uno con le architetture, a testimonianza delle variazioni morfologiche e d’uso degli spazi abitati che si trasformano nel corso del XIX secolo, configurandosi come preziose ‘pause urbane’ in un costruito, caratterizzato da una forte densità costruttiva e dall’assenza di slarghi e piazze3. La presenza della natura ha influenzato fin dal periodo classico l’articolazione planimetrica dei palazzi signorili partenopei, nonché la disposizione interna delle abitazioni - con la presenza di ambienti panoramici, logge e porticati, stanze dipinte a tema naturalistico e trompe l’oeil, al punto che è possibile considerare il Palazzo e il giardino come un unico e sfaccettato spazio in cui si svolgeva la vita del signore, con temi anche iconologici che legano l’uno all’altro. Il giardino storico, in quanto palinsesto vivente, richiede di essere salvaguardato secondo lo spirito espresso nella Carta di Firenze4 e la sua tutela postula l’individuazione di linee guida e metodologie d’intervento specifiche che vanno dalla manutenzione, programmata e costante, al ripristino filologico delle specie vegetali storiche scientificamente riscontrate in situ. Per individuare una corretta metodologia per il restauro di questo insieme di elementi e condizioni in continuo mutamento assume fondamentale importanza la fase preliminare al progetto, in cui si concentra l’approfondimento conoscitivo condotto mediante attività di ricerca interdisciplinari, che vanno dalla lettura iconografica, cartografica e planimetrica, all’approfondimento botanico, con lo studio e la definizione delle specie storiche. Tali attività sono utili a guidare il complesso dei processi legati al restauro e alla valorizzazione dei giardini storici e del palinsesto vegetale sedimentatosi nei secoli, puntando a favorire la lettura di queste ‘pause verdi’ nell’affollato spazio urbano della città partenopea e a garantirne la fruizione. Il giardino napoletano attraversa la cultura architettonica e paesaggistica della città, declinato in diverse “tipologie” basate sul rapporto tra la città costruita e il paesaggio “teatrale” delle colline, modellato secondo la morfologia dei luoghi con fini estetici e con rimandi simbolici. Il panorama dei giardini partenopei si caratterizza anche rispetto a coevi scenari europei per la presenza di vere e proprie architetture pensili, come logge aperte sul golfo e camminamenti panoramici che seguono le curve di livello, spesso coperti da pergole per l’ombreggiamento. I loro caratteri permanenti sono riconducibili all’identificazione del godimento estetico con l’utilitas della natura, eredità dell’antico hortus conclusus. Nel decennio francese, parallelamente a una fondamentale riforma dell’agricoltura mirata a una rinascita economica dell’intero Regno delle Due Sicilie e all’istitu-

Fig. 2 Palazzo d’Avalos in Via dei Mille, rilievo dello stato di fatto con individuazione delle specie botaniche presenti in sito (2021). zione a Napoli del Reale Giardino Botanico, si inaugura, in ambito partenopeo, una stagione di ricerche sistematiche sull’acclimatazione, sulla riproduzione di nuove specie botaniche e sulla sperimentazione di pratiche agronomiche. Tali sviluppi conducono anche i giardini privati della Napoli di primo Ottocento a dotarsi di sistemi misti di verde, con intenti sia estetici che produttivi, acquisendo una dimensione “pittoresca” e ospitando episodiche micro-architetture di derivazione eclettica e orientale, di cui i giardini del Parco Grifeo, con la Torre a “rudere” di Lamont Young, e lo Chalet Svizzero, vicino al ponte di Niccolini, nel parco inferiore della Villa Floridiana, costituiscono interessanti esempi. Sul finire dell’Ottocento le cartografie cittadine mostrano la presenza consistente di giardini privati ridisegnati con caratteri “anglo-cinesi”5, assecondando il gusto dell’epoca e la diffusione dei principi di progettazione del “paesaggismo”. L’elemento di novità è l’introduzione di numerosi esemplari di specie “esotiche”, come l’araucaria imbricata, il Taxodium mucronatum, la lagerstroemia indica, cinnamomo, canfora e agavi americane, la magnolia grandiflora, la Broussonetia papyrifera e la Camellia japonica, spesso associate alle più diffuse specie di grevillee, araucarie, cedri, palme e camelie6. La pianta di camelia è senza dubbio la principale protagonista del giardino del cinquecentesco Palazzo D’Avalos, sito in via dei Mille, vera “reggia” privata di una delle più importanti dinastie partenopee e, solo da poco, in fase di restauro. La camelia è presente in diverse specie in quanto esito del collezionismo privato e di una sperimentazione “domestica” di coltura esotica7, importata probabilmente dalle sperimentazioni condotte dal paesaggista John Andrew Graefer nel giardino della Reggia di Caserta8, portata avanti anche dalla famiglia proprietaria del Palazzo D’Avalos, che presenta ben tre giardini di tipologie diverse. Il nucleo principale di quest’area nasce con un ampio ed interessante giardino pensile, sviluppandosi sia sul retro del corpo principale che lungo il corpo di fabbrica aggiunto a ovest durante i lavori di ristrutturazione realizzati nel Settecento dall’architetto Mario Gioffredo9. Dalla lettura della pianta di Giovanni Carafa Duca di Noja (1775) emerge che, sul finire del Settecento, Palazzo D’Avalos si presentava come un edificio a pianta quadrata, con l’appendice rettangolare che ne rappresentava il giardino, situato sul fronte meridionale ortogonale alla facciata principale. Sullo stesso fronte si apriva anche l’ingresso al cortile

interno, con impianto planimetrico a forma di “elle”, completamente circondato da giardini coltivati divisi in lotti rettangolari, presenti anche sul lato Est di vico Vasto, non ancora edificato, e verso il mare. Le aree verdi, dunque, rappresentano un punto strategico per la lettura dell’evoluzione morfologica e urbana della fabbrica architettonica ed è per questo che gli interventi previsti per il loro recupero sono da considerarsi tutt’altro che secondari, così come l’apertura delle aiuole su Via dei Mille con la rimozione della cancellata novecentesca, tra le operazioni prioritarie previste dal piano di interventi che stanno per avviarsi sul complesso. Lo studio degli spazi verdi di Palazzo D’Avalos, ancora in itinere, è stato finora significativo per comprendere il valore e le potenzialità del sistema dei giardini nel complesso e rispetto all’intero quartiere Chiaia, vero cuore pulsante della Napoli contemporanea. L’ approfondimento conoscitivo è partito dalla loro conformazione storica che li identifica come elementi architettonici a sé stanti, e dall’analisi delle specie storiche condotta da esperti di agraria e botanica della Federico II. Il rilievo grafico, effettuato mediante l’impiego di strumenti tecnologici avanzati come drone e laser scanner 3D, ha consentito di restituire informazioni sull’attuale consistenza degli spazi verdi, non solo riguardo i molteplici accessi e le diverse quote altimetriche, ma anche sulle micro-architetture storiche nascoste dalla vegetazione, per le quali si prevedono interventi di restauro e valorizzazione. Tale approfondimento conoscitivo, di concerto con lo studio botanico delle essenze arboree, ha consentito di individuare e distinguere le aree a verde di Palazzo D’Avalos in tre giardini distinti. Tra questi, il più noto e meglio conservato è il “Boschetto delle Camelie”, pertinenza diretta dell’appartamento sito al primo piano nobile del palazzo. Tale giardino, realizzato nell’800 per ospitare la collezione esotica di camelie della famiglia D’Avalos, presenta gran parte delle specie coeve ancora in sito e si presenta in buono stato di conservazione e anche il suo impianto architettonico, caratterizzato da aiuole mistilinee a sviluppo radiale, seppur spogliato degli elementi decorativi, è rimasto pressoché invariato nel tempo. Sul lato di Vico Vasto si colloca la scenografica sequenza degli altri due giardini terrazzati di Palazzo D’Avalos, collegati da un ampio scalone, i quali conservano, ancora leggibile, l’impianto delle aiuole rigorosamente geometrico e di origine più antica già presente nella mappa di Giovanni Carafa Duca di Noja. Le aiuole sono delimitate da conci in tufo giallo napoletano arrotondati all’estradosso e ospitano in prevalenza cespugli di piccole dimensioni, molti dei quali reinseriti in epoca contemporanea. La peculiarità dell’area consiste nella sua collocazione a una quota diversa rispetto agli ambienti interni del Palazzo e nella presenza, lungo il suo perimetro, di interessanti micro-architetture storiche come lo chalet tardo ottocentesco in legno presente nel giardino superiore. Tali elementi saranno inclusi nel progetto di restauro in progress, come consigliato dalla Carta italiana dei giardini10 che, all’art.10, prevede che le operazioni di manutenzione, conservazione, restauro debbano tener conto di tutti gli elementi che li compongono, evitando ogni operazione che possa alterare il legame che li unisce. Tale attenzione, insieme alla conformazione altimetrica che caratterizza i giardini retrostanti di palazzo D’Avalos, risulta determinante nella valutazione della migliore strategia di conservazione, al fine di aprire questo luogo dal grande valore artistico all’intero quartiere, senza danneggiare la vivibilità degli ambienti privati previsti all’in-

Fig. 3 Via dei Mille, cancello di ingresso all’area di Palazzo d’Avalos che “taglia” le aiuole storiche.

Fig. 4 Palazzo d’Avalos in Via dei Mille, Napoli. Il giardino delle camelie (2021).

Fig. 5 Palazzo d’Avalos in Via dei Mille, Napoli. Il giardino superiore (volo con drone, 2021).

Fig. 6 Il giardino storico di Palazzo Penne a Napoli – Ipotesi di rifunzionalizzazione (2017). terno della dimora storica. L’idea della possibilità di allargare alla collettività la fruizione di un giardino di tale valore, restituendo alla città un’area verde nel cuore della città, è alla base di un altro importante progetto di restauro promosso dalla Regione Campania sulla base delle linee metodologiche redatte dal Dipartimento di Architettura della Federico II e da me coordinato: quello su Palazzo Penne11, storico palazzo napoletano risalente ai primi anni del Quattrocento, considerato tra i più significativi esempi dell’architettura rinascimentale in Campania. Il suo giardino, difficilmente rilevabile e per il lungo abbandono e per la presenza di una folta vegetazione infestante, rappresenta uno spazio che connota fortemente l’edificio storico, raccontandone il palinsesto attraverso il riuso degli elementi di spoglio reimpiegati come bordatura delle aiuole. L’approfondimento della ricerca storica ha permesso di scoprire che il giardino fu rinnovato tra il 1747 e il 1748; in questa occasione, il treillage fu sostituito con nuove ginelle e i viali furono delimitati con capitelli ottagonali provenienti dal salone interno12. Nonostante le recenti acquisizioni, tale giardino necessita di essere ulteriormente indagato con una campagna diagnostica mirata alla riproposizione delle essenze storiche scomparse. Il progetto di fruizione allargata del giardino prevede due nuovi accessi: dal Pendino, mediante un ascensore che consenta la risalita verso la città storica e conduca al corridoio quattrocentesco e al giardino, e da Piazza Teodoro Monticelli, con la realizzazione di una piattaforma elevatrice che consenta l’accesso e la fruizione in sicurezza. Il progetto di valorizzazione, dunque, si articola sulla divisione in due percorsi separati, uno ‘pubblico’ ed uno ‘privato’, che garantiscano alla collettività l’accesso e la fruizione del giardino storico consentendo al contempo lo svolgersi delle attività legate alla nuova funzione di “casa dell’architettura”. L’apertura del cantiere di restauro dei casi studio illustrati sembra profilare tutte le condizioni per un recupero consapevole degli spazi verdi pertinenziali dei quali è possibile riproporre il ripristino, sulla base delle tracce ancora leggibili in situ. Il loro restauro, così come previsto all’art.15 della Carta di Firenze, potrà essere intrapreso solo a valle di uno studio approfondito che vada dalle indagini archeobotaniche alla raccolta dei dati storici e materici dei giardini, così da assicurare la corretta impostazione metodologica dell’intervento di restauro.

L’analisi dei due casi studio proposti ha altresì indicato la strada per l’elaborazione di “linee guida” che, a distanza di 40 anni dalla elaborazione della Carta di Firenze, tengano conto delle nuove tecnologie e dei più innovativi strumenti diagnostici utili a sostenere le scelte di intervento sui giardini, a cominciare dalle indagini archeobotaniche, come molti cantieri oggi avviati e conclusi nella città archeologica di Pompei hanno dimostrato.

1 Cit. VANNA FRATICELLI, Premessa, «Il giardino napoletano: Settecento e Ottocento», Electa Napoli, 1993. 2 L’attività su Palazzo D’Avalos è l’esito di una convenzione in corso tra il Centro Interdipartimentale di Ricerca per i Beni Architettonici e Ambientali e per la Progettazione urbana dell’Università degli Studi di Napoli Federico II (BAP), prof. arch. Renata Picone (coordinamento gruppo restauro architettonico), prof. arch. Fabio Mangone (responsabile scientifico). L’attività su Palazzo Penne è l’esito di un Accordo di collaborazione scientifica tra l’Arcadis (Agenzia regionale campana per la difesa del suolo), il Dipartimento di Architettura ed il Centro Interdipartimentale di Ricerca Urban/ Eco dell’Ateneo federiciano di Napoli nel corso del 2016 e del 2017, prof. arch. Renata Picone (responsabile scientifico). 3 roberto Pane, Il centro antico di Napoli, E.S.I., Napoli 1970. 4 Carta italiana del restauro dei Giardini Storici, documento approvato all’unanimità dai presenti alla tavola rotonda organizzata dall’Accademia delle Arti del Disegno a Firenze il 12 settembre 1981. 5 Cfr. Vanna FratiCelli, Il giardino “anglo-cinese” a Napoli, in V. Fraticelli, Il giardino napoletano: Settecento e Ottocento, Electa Napoli, 1993, pp.9197. 6 Cfr. CARMINE GUARINO, La diffusione delle specie esotiche, in V. Fraticelli, Il giardno napoletano... cit., pp. 114-127. 7 Cfr. CARMINE GUARINO, Tradizione e giardino eclettico: i caratteri e la manualistica, in V. Fraticelli, Il giardno napoletano... cit., pp. 139-155. napoletano, autore del teatrino del palazzo d’Afflitto (1748), dei palazzi Latilla (1754) e Cavalcanti (1762) e della Chiesa dello Spirito Santo (1774). Per approfondire la figura si veda: Benedetto Gravagnuolo (a cura di), Mario Gioffredo, con scritti di Renato De Fusco, Napoli, Guida Editori, 2002, ISBN 887188-629-1. 10 Cit. Carta dei Giardini Storici, detta “Carta di Firenze”, 1981, art. 10. 11 Su Palazzo Penne: anGela sChiattarella, La Chiesa dei SS. Demetrio e Bonifacio e l’insediamento dei Somaschi nei palazzi Casamassima e Penna, 1992; Gennaro borrelli, de Curzio Mario, Il Palazzo Penne: un borghese a corte, Arte Tipografica, Napoli, 2000;

MassiMiliano CaMPi, antonella di luGGo, renata PiCone, Paola sCala, Palazzo Penne a Napoli tra conoscenza, restauro e valorizzazione, Arte ‘m, Napoli, 2018.

12 Cfr. daniela PaloMba, MassiMo Visone, La conoscenza degli spazi aperti: sito, giardino e paesaggio in Palazzo Penne, in M. Campi, A. Di Luggo, R. Picone, P. Scala, Palazzo Penne... cit., p. 222; Cfr. Gennaro borrelli, Il Palazzo Penne. Un borghese a corte, Arte Tipografica, Napoli, 2000, p. 39

Fig. 7-8 Chalet tardo ottocentesco in legno presente nel giardino superiore di Palazzo d’Avalos (2021).

8 Si veda edMond auGustin delaire et al., Les architectes élèves de l’école des Beaux-Arts, 1793–1907; JaMes t. Maher, The Twilight of Splendor: Chronicles of the Age of American Palaces, Little Brown & Co., 1975. Sarebbe inoltre interessante approfondire l’influenza del paesaggista nel giardino delle Camelie del seicentesco Cenacolo Belvedere sulla collina del Vomero a Napoli. 9 Mario Gioffredo (Napoli 1718 - 1785). Architetto

Giuseppina Pugliano Scomparsa dei giardini storici tra consumo di suolo e sopravvivenze dei valori storico-ambientali: il caso delle Ville vesuviane

Giuseppina Pugliano | giuseppina.pugliano@uniparthenope.it Dipartimento di Ingegneria, Università degli Studi di Napoli ‘Parthenope’

Giuseppina Pugliano

Abstract The paper aims to provide a contribution to the central theme of the Conference, based on the rethinking of the two Charters on the restoration of historical gardens (Icomos-IFLA and Italian), drawn up in Florence, forty years ago, in light of the profound transformations that, in this period, have affected the natural and built environment, taking into exam the case study of the Vesuvian villas. In relation to the updating of the Florentine Charters, it is useful to reflect on proposed topic, for the understanding of one of the most relevant principles present in both documents, concerning the necessary preservation of the unity between ‘historical garden’ and ‘environmental surroundings’. This concept suggests, more generally, the urgent reaffirmation of the territorial dimension of conservation, formulated in the Charter of Venice, in the last century. In this logic, the ecological-environmental sustainability is the only identifiable perspective, to be pursued through the ‘integration’ of conservation and territorial planning policies, as already clearly expressed in the so-called Charter of integrated conservation and in the two Charters on the historical gardens in question. A notion that, forty years later, should therefore certainly be updated and reaffirmed in future documents.

Parole chiave Ville vesuviane, giardini storici, conservazione integrata, pianificazione, tutela.

Il contributo intende fornire un apporto al tema centrale del Convegno, fondato sul ripensamento delle due Carte del Restauro dei giardini storici (Icomos-IFLA e italiana) redatte a Firenze, ormai quarant’anni fa, alla luce delle profonde trasformazioni subite dall’ambiente naturale e costruito in questo periodo, prendendo in esame il caso studio delle Ville vesuviane. È noto, infatti, che quel patrimonio di dimore signorili, oggetto della significativa scoperta critica compiuta da Roberto Pane alla fine degli anni Cinquanta del Novecento,1 oggi riconosciuto come il ‘sistema’ delle Ville vesuviane,2 abbia subito, nel tempo, progressive modificazioni sia per la parte

architettonica che per quella inerente ai giardini storici, in gran parte scomparsi perché utilizzati come aree per la costruzione di nuovi insediamenti. Risultato della scelta effettuata da Carlo di Borbone, verso la fine degli anni Trenta del XVIII secolo, a seguito della creazione di un nuovo sito reale nella zona immediatamente a meridione della città partenopea, le Ville vesuviane3 divennero, ben presto, una delle espressioni più rilevanti in un contesto capace di attrarre un fervore di attività urbanistiche e architettoniche, proprio per la loro singolare e felice integrazione tra valori di ‘natura’ e ‘cultura’. Tale situazione venne, tuttavia, compromessa da un’intensa attività di trasformazione, avviata con la speculazione edilizia nel secondo dopoguerra e proseguita nei decenni seguenti, che provocò la saturazione di numerosi spazi verdi, la perdita di molti giardini storici, e, quindi, la frammentazione dei preesistenti insiemi insediativi, a causa della realizzazione di improvvide lottizzazioni edilizie. Sulla base di queste premesse, si ritiene che l’argomento proposto possa fornire un utile apporto alla riflessione sull’aggiornamento delle Carte fiorentine e sulla valutazione critica dell’attualità dei relativi contenuti, nei quali è possibile individuare il risultato di quell’iniziale e importante dibattito teorico degli anni Settanta e Ottanta del Novecento, che soltanto più tardi verrà esplicitamente arricchito con nuovi contributi.4 Il caso in esame risulta, infatti, interessante per la comprensione di uno dei principi più significativi presente in entrambi i suddetti documenti e concernente la necessaria conservazione dell’unitarietà tra ‘giardino storico’ e ‘intorno ambientale’. 5 Si vuole qui sottolineare, anche alla luce dei rapidi cambiamenti delle nostre condizioni di vita, come questo concetto suggerisca, a sua volta, più in generale, l’urgente riaffermazione della centralità della dimensione territoriale della conservazione, una delle più rilevanti acquisizioni della cultura del restauro, sancita nella Carta di Venezia (1964) e riproposta anche nella Convenzione Europea del Paesaggio (2000). In tale logica, l’unica prospettiva possibile per pianificazioni future, non può che essere individuata nella sostenibilità ecologico-ambientale, da perseguire, appunto,

Fig. 1 La Villa Buono a Portici, realizzata nella seconda metà del XVIII secolo, con l’esedra e giardini che giungevano al mare in una planimetria del 1849 (da R. Pane, G. C. Alisio, P. Di Monda, L. Santoro, A. Venditti, Ville Vesuviane del Settecento, Napoli, Edizioni scientifiche italiane 1959).

Fig. 2 Il complesso di Villa Buono in una fotografia aerea dell’I.G.M. del 1943, dalla quale si scorgono ancora i giardini e la villa prima delle demolizioni e trasformazioni della fine degli anni Sessanta del Novecento. Dall’altro lato della strada, l’esedra che sarà unica superstite degli invasivi lavori (da A. Formicola, E. De Martino, Portici 1943. La città vista dal cielo, Portici, Effegi 2019).

Fig. 3 La lottizzazione realizzata sui giardini scomparsi della Villa Buono in una foto degli anni Settanta del secolo scorso (da G. Fiengo, La tutela delle ville vesuviane del Settecento, in «Restauro», a. II, n. 10, dicembre 1973).

Fig. 4 La Villa Buono demolita per fare spazio alla nuova edificazione (da Il Vesuvio e il Miglio d'Oro. San Giorgio a Cremano, Portici, Resina, Torre del Greco a cura di V. Proto, testo di M. Carotenuto, Napoli, Electa Napoli 1995).

mediante l’‘integrazione’ tra politiche conservative e di pianificazione territoriale, come già chiaramente espresso nella cosiddetta Carta della conservazione integrata (1975) e nelle due Carte sui giardini storici in questione. Nozione che, a quarant’anni di distanza, andrebbe, quindi, certamente attualizzata e ribadita nei documenti futuri. Appare del resto evidente, maggiormente nel caso vesuviano, come solo con un approccio che unisca tutela territoriale (escludendo forme di consumo di suolo), e permanenza dell’autenticità materiale del notevole patrimonio architettonico e paesaggistico presente, si possa immaginare un futuro per un’area altrimenti votata alla progressiva scomparsa dei valori ambientali (naturali e culturali) e, soprattutto, al definitivo peggioramento della qualità di vita, in pieno contrasto anche con uno degli obiettivi centrali della citata Convenzione Europea del Paesaggio. E tutto ciò, da otte-

nersi nel pieno rispetto degli strumenti pianificatori di tutela già esistenti, troppo spesso elusi, come segnalava Roberto Pane già all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento.6 Va, inoltre, aggiunto come il tema della conservazione dell’unitarietà della preesistenza ambientale non solo ricorra in entrambe le Carte fiorentine ma anzi ne costituisca, come osserva Lionella Scazzosi,7 uno dei «punti qualificanti», riscontrando anche una «notevole convergenza» delle due distinte elaborazioni, sulla «salvaguardia dell’unitarietà del complesso, formato da giardino, edifici e arredi e del suo rapporto con il contesto paesistico, il collegamento con gli strumenti di pianificazione territoriale».8 Bisogna, tuttavia, ricordare come nella riflessione teorica italiana, la ‘questione ambientale’, abbia assunto un ruolo centrale, fin dalle formulazioni della Carta di Atene del 1931, confluite nell’art. 21 della legge di tutela n. 1089 del 1939 e più in generale, nella previsione dello strumento del ‘piano territoriale paesistico’ per le cosiddette ‘bellezze d’insieme’, nell’art. 5 della legge n. 1497 dello stesso anno. E ancora, come i successivi avanzamenti teorici della Carta di Venezia non siano stati mai pienamente acquisiti nella legislazione di tutela, con la conseguente definizione di una difficile situazione territoriale, aggravatasi ancor di più negli anni Settanta del Novecento con il decentramento delle competenze in materia urbanistica e paesistica dallo Stato alle Regioni. Condizione che, anche dopo la legge n. 431 del 1985, attende ancora una positiva evoluzione con l’applicazione della nuova pianificazione paesaggistica del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio del 2004. In tal senso, è, senz’altro, emblematico l’iter del Piano Territoriale Paesistico dei Comuni Vesuviani, che, approvato con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, una prima volta, soltanto nel 1998 (D.M. del 28 dicembre 1998) e, nuovamente nel 2002, a seguito di numerosi ricorsi giurisdizionali avversi (D.M del 4 luglio 2002), risulta molto spesso disatteso con vari artifici.9 La denuncia della progressiva perdita dei valori ambientali delle ville vesuviane nel dopoguerra, su di un’area peraltro già frazionata dal tracciato delle infrastrutture ferroviarie e autostradali e ancora danneggiata dal conflitto mondiale, venne segnalata da Pane, già nel 1959,10 e poi, agli inizi degli anni Settanta, da Giuseppe Fiengo,11 che lamentò, a fronte delle crescenti e incontrollate edificazioni, l’assenza di un «piano paesistico unitario» che potesse arginare tale difficile condizione, venutasi a creare «sulla scorta di sommari regolamenti locali e con il rassegnato beneplacito della Soprintendenza».12 Tra i casi più significativi di lottizzazioni edilizie realizzate sui giardini storici delle antiche dimore signorili, richiamati dallo stesso Autore, in uno scritto più recente,13 sono da menzionare gli episodi di Villa Buono a Portici e Villa Pignatelli di Montecalvo a San Giorgio a Cremano, come è possibile desumere da alcuni stralci cartografici e confronti fotografici qui riportati (Figg. 1-8). La creazione dell’Ente per le Ville vesuviane nel 1971 e la successiva proposta di un piano di coordinamento,14 non migliorò lo stato del patrimonio e dell’insieme ambientale delle ville.15

Fig. 5 La settecentesca Villa Pignatelli di Montecalvo a San Giorgio a Cremano e l’annesso fondo agricolo in una fotografia aerea dell’I.G.M. del 1943 (da A. Formicola, E. De Martino, Portici 1943…, cit.).

Fig. 6 L’ingresso al fondo agricolo della Villa Pignatelli di Montecalvo prima della sua scomparsa a seguito della lottizzazione degli anni Sessanta del Novecento (da R. Pane, G. C. Alisio, P. Di Monda, L. Santoro, A. Venditti, Ville Vesuviane del Settecento…, cit.).

Fig. 7 Lo stato di gravissimo degrado in cui versa oggi l’importante villa settecentesca (foto G. Pugliano 2021).

Il caso vesuviano rimanda, quindi, alla necessità dell’attuazione di una rigorosa politica di tutela territoriale che garantisca, insieme alla conservazione del già precario equilibrio ecologico, le sopravvivenze dei residui valori storico-ambientali con azioni di restauro di un paesaggio così stratificato ma anche notevolmente degradato. Quest’ultime, da fondarsi, secondo un approccio critico-conservativo, sulla ricostituzione di relazioni funzionali e visive, oggi non più esistenti, tra contigue porzioni di territorio, allo scopo di facilitarne una lettura organica e favorire, in definitiva, un incremento della cultura della tutela.

1 Cfr. roberto Pane, Gian Carlo alisio, Paolo di Monda, luCio santoro, arnaldo Venditti, Ville Vesuviane del Settecento, Napoli, Edizioni scientifiche italiane 1959. 2 Per recenti contributi sul sistema delle Ville vesuviane, cfr. eManuele roMeo, Frammenti e memoria dei luoghi: permanenze del sistema delle Ville Vesuviane, in L. Sabrina Pelissetti, L. Scazzosi (a cura di), Giardini, contesto, paesaggio. Sistemi di giardini e architetture vegetali nel paesaggio. Metodi di studio, valutazione, tutela, vol. II, Firenze, L. S. Olschki 2005, pp. 619-630 e VinCenzo Cazzato, Il sistema delle ville vesuviane, in Ville e giardini medicei in Toscana e la loro influenza nell’arte dei giardini. Atti del Convegno internazionale (Accademia delle Arti del Disegno - Firenze, 8 novembre 2014), a cura di Luigi Zangheri, Firenze, L. S. Olschki 2017, pp. 125-139. 3 Tra l’estesa letteratura sulle Ville vesuviane, segnalando l’ancora scarsa presenza di contributi fondati su di un rigoroso approccio storico-critico, con solidi apparati filologici e attente analisi dirette della consistenza materiale del patrimonio in questione, si vedano, tra gli altri: GiusePPe FienGo, Vanvitelli e Gioffredo nella Villa Campolieto di Ercolano, Napoli, Arte tipografica 1974; Cesare de seta. leonardo di Mauro, Maria Perone, Ville Vesuviane, Rusconi, Milano 1980; Giuseppe Fiengo (a cura di), Architettura napoletana del Settecento. Problemi di conservazione e valorizzazione,F. Di Mauro editore, Sorrento-Napoli 1993; Gaetano aModio, Ville vesuviane tra Ottocento e Novecento. Introduzione di Cesare de Seta, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane 2002; ernesto de Martino, L’architettura, il paesaggio e l’ambiente delle ville vesuviane nelle fotografie di Vittorio Pandolfi (1956 - 1959), Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013. 4 Si vedano, in particolare, i seguenti studi: VinCenzo Cazzato (a cura di) Tutela dei giardini storici. Bilanci e prospettive, Ministero per i Beni culturali e ambientali, Ufficio Studi, Roma 1989; lionella sCazzosi, Il giardino opera aperta. La conservazione delle architetture vegetali, Firenze, Alinea Editrice 1993; Maria adriana Giusti, Restauro dei giardini teorie e storia, Firenze, Alinea Editrice 2004.

Fig. 8 La nuova lottizzazione realizzata sul fondo agricolo (da Il miglio d'oro. Itinerario fotografico attraverso le ville vesuviane di P. Grimaldi. Testi di R. Di Stefano e A. Trione, Napoli, Il Laboratorio 1979).

5 I riferimenti per la Carta Icomos/IFLA sono gli articoli 7 e 14; per la Carta italiana, l’articolo 3. 6 Cfr. GiusePPina PuGliano, L’Istanza ecologica nel pensiero di Roberto Pane, in S. Casiello, A. Pane, V. Russo (a cura di), Roberto Pane tra storia e restauro. Architettura, città, paesaggio, Atti del Convegno nazionale di studi Roberto Pane tra storia e restauro. Architettura, città, paesaggio (Napoli, 27-28 ottobre 2008), Marsilio, Venezia, Marsilio editore 2010, p. 471. 7 Cfr. sCazzosi, Il giardino opera aperta…, cit. 8 Ivi, pp. 38-40. 9 Cfr. GiusePPina PuGliano, Identità e conservazione della Costa vesuviana: valori, criticità attuali e nuove ipotesi di intervento, in La Baia di Napoli. Strategie Integrate per la Conservazione e la Fruizione del Paesaggio Culturale, A. Aveta, B.G. Marino, R. Amore (a cura di), vol. II, Napoli 2017, Artstudiopaparo Editore, p. 237. 10 Cfr. roberto Pane, Le ville e la strada costiera,

in roberto Pane, Gian Carlo alisio, Paolo di Monda, luCio santoro, arnaldo Venditti, Ville Vesuviane del Settecento…, cit., pp. 1-18. 11 Si veda, in particolare, GiusePPe FienGo, La tutela delle ville vesuviane del Settecento, in «Restauro», a. II, n. 10, dicembre 1973, pp. 75-84. 12 Ivi, pp. 75-76. 13 Cfr. id., F. La Regina (a cura di), Conoscenza e conservazione delle ville vesuviane del Settecento, in Restauro conservazione e valorizzazione delle ville vesuviane. Materiali, documenti, iniziative, Napoli, CUEN 2004, p. 15.

14 Cfr. urbano Cardarelli, Paolo roManello, arnaldo Venditti, Ville vesuviane. Progetto per un patrimonio settecentesco di urbanistica e di architettura, Napoli, Electa Napoli 1988; Le ville vesuviane settecentesche. Piano di coordinamento e gestione delle risorse ambientali e territoriali in rapporto allo sviluppo delle aree urbane nel comprensorio vesuviano, Dipartimento per le Aree Urbane, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria 1993. 15 Si veda, in merito, la condivisibile osservazione di Emanuele Romeo (id., Frammenti e memoria dei luoghi: permanenze del sistema delle Ville Vesuviane…, cit., p. 623).

Laura Ferlito, Attilio Mondello, Giulia Sanfilippo Rapporto tra natura e archeologia. Restauri e valorizzazione di un giardino storico sui resti dell’anfiteatro di Catania

Laura Ferlito | laura.ferlito@hotmail.it Attilio Mondello | attilio.mondello@unict.it Giulia Sanfilippo | giulia.sanfilippo@unict.it Dipartimento di Ingegneria Civile e Architettura, Università di Catania

Laura Ferlito, Attilio Mondello, Giulia Sanfilippo

Abstract The 1981 Florence Charters define a historic garden as a vegetal and architectural organism to be protected as a monument, especially in archaeological remains. However, when there are hypogeal ruins below a garden, preserving the assets is difficult. The Charters do not provide explicit indications. About the conservation of historic gardens in an archaeological context, the paper analyses the restoration that tried to resolve the relationship between the garden of an 18th-century residence in Catania (UNESCO heritage site) and the hypogeal ruins of a Roman amphitheatre. Finally, possible design solutions are proposed to re-establish the link between garden and hypogeal remains.

Parole chiave Architettura romana, giardino pensile, centro storico, degrado, fruizione.

Introduzione La carta ICOMOS-IFLA del 1981 definisce il giardino storico «una composizione architettonica e vegetale che dal punto di vista storico artistico presenta un interesse pubblico. Come tale è considerato come un monumento»1 che pertanto «deve essere salvaguardato secondo lo spirito della Carta di Venezia».2 Come per il patrimonio costruito, va seguito un iter metodologico per riconoscere i valori formali (organizzazione geometrica degli spazi, disposizione delle essenze, rapporti tra pieni e vuoti, profilo del terreno) e i contenuti (flora, acqua, rocce affioranti, terrazzamenti, piccole architetture, arredi, elementi decorativi). Se presenti resti archeologici, essi formano insieme alla natura un organismo «polimaterico»3 innalzando il valore del medesimo spazio ‘atemporale’. Quando le preesistenze sono ipogee, esse rimangono separate e ignorate. In più, gli apparati radicali delle essenze arboree e le acque di superficie possono confliggere con le istanze di conservazione archeologica mettendone a rischio la sopravvivenza.4 Uno dei casi più emblematici è costituito dal parco del Colle Oppio a Roma sopra la Domus Aurea. 5 Il cantiere pilota del Progetto definitivo per il risanamento della Domus Aurea (2014/15) ha sostituito il paesaggio naturale esistente (formato anche da alberature ad alto fusto)6 con un giardino contemporaneo a protezione del sito. Attraverso segni di superficie, l’intervento fornisce un piano di

lettura dell’area archeologica che lo sorregge. Il terreno sabbioso è stato sostituito con un ‘sistema integrato di protezione’ costituito da un nuovo strato impermeabile e un’intercapedine tra le volte, riempita di materiale coibente e poroso, che permette un facile passaggio dell’aria e dell’acqua. La gestione della difficile convivenza tra aree archeologiche e giardini storici soprastanti è una problematica che si presenta spesso nei parchi archeologici urbani, come nel caso del Parco Archeologico e Paesaggistico di Catania, dove il giardino di una dimora tardo barocca insiste su una parte dei resti dell’anfiteatro romano.

Un giardino pensile sulle rovine romane a Catania. Intersezioni negate La villa Cerami nel contesto dei giardini sui bastioni Dopo il sisma del 1693 che rase al suolo Catania, la ricostruzione della città etnea concepì le aree verdi solo come elemento decorativo nelle corti interne dei nuovi monumentali palazzi e monasteri, confinando i giardini privati a ridosso del perimetro della cinta muraria.7 La maggioranza di tali fondi vennero tuttavia lottizzati già a metà del Settecento per trarne profitto e facilitare l’espansione urbana con la demolizione delle fortificazioni. È questo il caso del grande giardino Paternò-Asmundo che un tempo occupava una vasta area sul lato nord-orientale delle mura. Nei pressi, è invece sopravvissuta parte del giardino pensile del principe Manganelli sul bastione di San Michele (Fig. 1). Un altro giardino pensile sulle mura cinquecentesche è quello della residenza Russo-Scammacca, principi di Cerami, in via dei Crociferi (Fig.2). Il primo nucleo della villa era

Fig. 1 Il giardino pensile di palazzo Manganelli sul bastione di San Michele. A sinistra, S. Ittar, Pianta Topografica di Catania, 1832 (Archivio DICAR, Università di Catania); a destra, la configurazione attuale (elaborazioni di A. Mondello).

Fig. 2 La villa Cerami ed il giardino pensile sullo Sperone Penninello. A sinistra, S. Ittar, Pianta Topografica di Catania, 1832 (Archivio DICAR, Università di Catania); a destra, la configurazione attuale (elaborazioni di A. Mondello).

Fig. 3 Il giardino di villa Cerami. In alto, ripresa aerea del 2006 (Archivio del Parco Archeologico e Paesaggistico di Catania). In basso, scorci del giardino pensile (L. Ferlito). costituito da un casino terraneo8 in un’area agricola nei pressi del bastione del Santo Carcere sullo ‘Sperone Penninello’. Da un elegante portale in pietra attribuito a G. B. Vaccarini,9 si accedeva ad un cortile (baglio) a quota stradale; quindi, uno scalone a cielo aperto conduceva al livello dell’abitazione. A nord della scalinata, il forte dislivello del lotto era mitigato da terrazzamenti che degradavano fino alla quota del giardino pensile, un tempo dotato di una gibbiola e un gibbione e arredato con fontane in pietra (Fig. 3).10 Come documentato da un’incisione del 1785 di P. G. Berthault, l’angolo nord-orientale del terrapieno si concludeva con un pergolato ligneo sorretto da pilastrini in muratura (Fig. 4). La veduta mostra anche la via pubblica a ridosso del terrapieno del Penninello (oggi via del Colosseo) e un ingresso ad un sito archeologico che corrisponde alle rovine ipogee dell’anfiteatro romano, sino ad allora rimasto sepolto sotto la città settecentesca. Nel corso del tempo la residenza è stata ampliata saturando gradualmente le aree del lotto ancora libere. Nel 1957 la villa è divenuta proprietà dell’Università di Catania e la porzione settentrionale del giardino “del Barone” è stata occupata dai padiglioni realizzati dagli architetti S. Boscarino e F. Basile;11 è rimasto libero invece il giardino pensile “del Principe” nell’ala nord-est (sebbene modificato e parzialmente sostituito).

L’anfiteatro romano L’anfiteatro di Catania fu costruito tra il I e il II secolo d.C. con un impianto ‘a struttura scavata’ interamente in spiccato,12 caratterizzata da un ambulacro esterno su due ordini con pilastri cruciformi e da una cavea tripartita con due precinzioni. Le caratteristiche orografiche del sito, adiacente alla collina di Montevergine (area residenziale patrizia in epoca imperiale), hanno condizionato l’impostazione del sistema dei percorsi interni e degli accessi, alcuni dei quali posti anche al secondo ordine per collegare la cavea al colle e all’altura del Penninello.13 Dalla seconda metà del IV secolo d.C., l’edificio, ormai in disuso e in parte inglobato nelle mura difensive, subì spoliazioni fino allo spianamento delle restanti strutture in elevazione.14 Il sisma del 1693 cancellò l’architettura urbana preesistente, sostituita da un palinsesto di palazzi, chiese e monasteri. Nella parte nord, il nuo-

vo impianto fu dunque sovrapposto alle strutture dell’anfiteatro. Come già accennato, i primi scavi condotti nel 1748 dal principe Biscari15 diedero impulso ad altre indagini promosse nel 1841 dalla Commissione per le Belle Arti e Antichità per la Sicilia, fino alla messa in luce della porzione sotto piazza Stesicoro ad opera di F. Fichera tra il 1904 ed il 1907.16

La villa ‘ri-scopre’ l’anfiteatro: crolli e restauri del XX secolo Il giardino di Villa Cerami non ha avuto “consapevolezza” della preesistenza sulla quale sorgeva fin quando, nel 1973, l’apparato radicale di un albero secolare sfondò la volta di un fornice del settore sud-occidentale dell’anfiteatro (Fig. 5), facendo scivolare il manto terroso alluvionale a circa otto metri di profondità. Nel 1997 fu redatto un primo progetto per ripristinare la facies originaria del giardino.17 Il muro di contenimento del terrapieno in via del Colosseo fu ricostruito in pietrame lavico, mentre per isolare l’anfiteatro dal giardino fu progettato un solaio galleggiante sorretto da pilastri in acciaio posti sui resti delle murature dei fornici del secondo livello. In questo modo, il carico del giardino gravante sul monumento romano sarebbe stato notevolmente ridotto rispetto al precedente assetto stratigrafico. In questa prima proposta si nota la volontà di far emergere le rovine in superficie, grazie ad un lucernario in vetro posto al centro del giardino (Fig. 6). La preesistenza romana sarebbe stata così visibile e parzialmente visitabile grazie all’intercapedine tra il nuovo orizzontamento e l’estradosso delle volte dell’ambulacro; una scala a chiocciola metallica avrebbe poi collegato la via del Colosseo al giardino. Il progetto subì in seguito una variante e fu realizzato nel 1998, rinunciando al collegamento diretto tra resti romani e giardino settecentesco. Il nuovo impalcato (in travi di acciaio, lamiera grecata parzialmente armata e getto in conglomerato leggero) è stato posto sui setti murari dell’anfiteatro (Fig. 7), integrati con elementi in mattoni pieni per distribuire il carico concentrato delle travi su una superficie di appoggio più ampia. Il solaio è protetto da una membrana impermeabile e da uno strato di tessuto-non tessuto per arginare l’apparato radicale della vegetazione di superficie; il volume di terreno è disposto per strati di circa 30 cm, intervallati da geogriglie di rinforzo ed è integrato con blocchi di polistirene espanso ad alta densità. L’area calpestabile è stata ricoperta da uno strato di ghiaietto di fiume. Le aiuole furono riconfigurate come le preesistenti e secondo la tradizione etnea (con un’orlatura di scorie laviche “cappellaccio dell’Etna”18), mentre il pergolato settecentesco (non più esistente) illustrato da Berthault è stato riproposto, nella medesima posizione e forma, in legno di castagno.

Restaurare per instaurare le corrette relazioni Per la tutela e la valorizzazione della coesistenza di giardini in superficie e siti archeologici ipogei bisogna ponderare in modo sistemico ed interdisciplinare le esigenze di entrambi i luoghi, analizzando minac-

Fig. 4 La via del Colosseo in un’incisione di P. G. Berthault, 1785, da J. C. R. Saint-Non, Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicile. Chapitre troisième, Paris [1781-1786], p. 61 (ETH Bibliothek Zürich, Public Domain Mark).

Fig. 5 Il terrapieno del Penninello dopo il crollo del 1973 (Archivio del Parco Archeologico e Paesaggistico di Catania, 1978).

Fig. 6 Sezione del giardino. A sinistra, lo stato di fatto dopo il crollo del 1973; a destra, la prima proposta (non realizzata) del progetto di ricostruzione del 1997 (rielaborazioni tavole di progetto).

Fig. 7 Intradosso del solaio galleggiante del 1997 (L. Ferlito). ce e opportunità. Senza far prevalere una specifica fase storica, come ribadito dalle Carte di Firenze, bisognerebbe focalizzarsi sulle connessioni tra i due beni creando, anche solo sul piano formale, ‘intersezioni’ che valorizzino le istanze storico-culturali di tutte le stratificazioni. Sul piano tecnico sono necessarie misure per mitigare rischi provenienti anzitutto dal patrimonio di superficie (radici, infiltrazioni, eccesso di carico). Per conciliare e rendere visibili diverse epoche dello stesso palinsesto, si suggerisce in questa sede una nuova sistemazione del giardino di Villa Cerami. A livello formale, il ridisegno della pavimentazione, con lastre in pietra bianca (dello stesso litotipo impiegato nell’anfiteatro) che seguono la pianta dei fornici, definirebbe un nuovo percorso di accesso al giardino pensile. Le permanenze di epoca romana sarebbero così evocate in un suggestivo giardino di origine settecentesca ma ormai contemporaneo (Fig. 8).19 Ogni nuovo elemento «leggibile come componente del sistema ‘giardino’ potrebbe così trovare declinazioni diverse nel suo rapportarsi alla presenza archeologica»,20 in una connessione “virtuale” con le tracce del passato. L’intersezione fisica tra l’anfiteatro romano e giardino non è stata ancora risolta; per arginare gli ingenti percolamenti21 e le spinte degli apparati radicali sulle porzioni dell’ambulacro non coinvolte dai lavori del 1997, sarebbe auspicabile estendere l’impalcato galleggiante all’intera area ipogea sopra il giardino, sull’esempio dell’intervento per il Colle Oppio.

Conclusioni Superando il concetto di giardino storico come “composizione architettonica e vegetale” (Carta ICOMOS-IFLA), la Carta italiana del restauro dei giardini storici amplia, in maniera più esaustiva, il significato, definendolo “un insieme polimaterico”. Restaurare tale delicato unicum in continuo divenire implica preservare tutte le istanze e garantire anche “l’apertura alla fruizione culturale e ricreativa”22 soprattutto quando vi sono differenti stratificazioni di interesse archeologico. Pur mettendo “al centro della sua attenzione il sito nella sua specificità”,23 la Carta italiana non fornisce specifiche raccomandazioni su giardini storici al di sopra di spazi archeologici ipogei. Intervenire su tali palinsesti comporta modifiche e nuovi assetti con esiti non sempre positivi. Nel caso di Villa Cerami, i restauri non hanno pienamente protetto le strutture dell’ambulacro. Sul piano culturale, l’assetto attuale dello spazio verde è il frutto di un restauro à l’identique, basato su informazioni perlopiù acquisite da documenti iconografici. Il terreno delle “relazioni analogiche” potrebbe essere scivoloso se non ben calibrato «sul gioco delle metafore, delle visualizzazioni, delle similitudini ma anche del pensiero logico nello strutturare il territorio con complessi sistemi idraulici, movimenti di terra, impianti vegetali».24 Per questo, il contributo propone una strategia per superare quel limite che genera una barriera fisico/visiva tra le epoche,25 all’interno di giardini stratificati e complessi.

Fig. 8 In alto, sezione e dettaglio progettuale. In basso, pianta dello stato di fatto (tratteggiato in rosso, l’area di intervento del 1997) e proposta progettuale.

Il contributo è stato finanziato con fondi del PIAno di inCEntivi per la RIcerca di Ateneo 2020/2022 - Università di Catania. Il paper è stato scritto unitariamente. Tuttavia, per ragioni redazionali, si attribuiscono a G.S. i paragrafi 1, 2, 3; le conclusioni sono a cura di G. S. e A. M.

1 Carta ICOMOS-IFLA dei giardini storici, 1981, art. 1. 2 Ivi, art. 3. 3 Carta italiana del restauro dei Giardini Storici, 1981, art.1. 4 Cfr. luiGi Marino, Il restauro dei siti archeologici e manufatti edili allo stato di rudere, Firenze, DidaPress 2019. 5 Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area archeologica di Roma, Progetto definitivo per il risanamento della Domus Aurea. 2011-2015. Soprintendente: F. Prosperetti; Direttore del monumento: I. Sciortino; Coordinatore della progettazione: F. Filippi. 6 «Il peso della terra del parco del Colle Oppio, ancora gravante sul manufatto archeologico, si aggira, per difetto, sui 2.500/3.000 kg/mq senza contare il peso delle alberature che può variare significativamente a seconda della specie e della grandezza dell’esemplare vegetale [...]. Il peso attuale del giardino sostenibile è di750 kg/mq. Il confronto tra lo stato attuale e quello precedente è immediato». Cfr. Domus Aurea un futuro sostenibile, Roma, Electa 2015, pp. 32-33.

7 Fabio basile, euGenio MaGnano di san lio, Orti e giardini dell’aristocrazia catanese, Messina, Sicania 1997, p. 63. 8 Cfr. CristoForo Cosentini, Villa Cerami-La Facoltà di Giurisprudenza, Catania, Tip. Università 1993. 9 Idem. 10 ASCT, I versamento notarile, b. 2295, c. 617; in F. basile, e. MaGnano di san lio, op. cit., p.79. 11 Cfr. C. Cosentini, op. cit. 12 Cfr. Jean-Claude GolVin, L’Amphithéâtre Romain., Essai sur la theorisation de sa forme et de ses fonctions, Paris, Diffusion de Boccard, 1988. 13 Cfr. Edoardo Tortorici (a cura di), Catania antica. La carta archeologica, Roma, L’Erma di Bretschneider 2016. 14 Cfr. Cesare sPosito, L’anfiteatro romano di Catania. Conoscenza, recupero, valorizzazione, Palermo, Dario Flaccovio Editore 2016. 15 Archivio Parco Archeologico di Catania, Relazione tecnica generale: “Interventi urgenti ed indagini finalizzate alla redazione di un progetto esecutivo di restauro conservativo e valorizzazione dell’anfiteatro di Catania”. Approvazione in linea tecnica, rif. n. 2631 del 21-06-2005. 16 Cfr. annunziata Maria oteri, Tutela dei monumenti antichi e trasformazioni urbane a Catania, «Storia urbana», n.124, 2009, pp. 153-186. 17 Archivio Storico Università di Catania, Relazione di progetto “Ricostruzione del giardino pensile su via del Colosseo”, 1997, p.6. Progettisti: prof. ing. F. Motta, arch. S. Malerba, Consulente per la sistemazione a verde: prof. arch. G. Pagnano. 18 Ivi. 19 Maria antonella Chiazza, Andreina Ricci: archeologia e città tra identità e progetto, «Agathòn», n. 1, 2011, pp. 61-62. 20 Cfr. roberta bartolone, Dai siti archeologici al paesaggio attraverso l’architettura, «La rivista di Engramma», n. 110, 2013, pp.58-90. 21 Giulia sanFiliPPo et alii, Anfiteatri e contesti urbani: una riconciliazione necessaria. Il ‘Colosseo’ di Catania, in G. Minutoli (a cura di), Simposio internazionale REUSO 2020. Restauro: temi contemporanei per un confronto dialettico, Firenze, Didapress 2020, pp. 590-599. 22 Cfr. Carta di Napoli o Carta del Paesaggio (Mozione approvata al convegno La trasformazione sostenibile del paesaggio, FEDAP-AIAPP, Napoli, 8 ottobre 1999). Cfr. Convenzione di Faro, Parte III: “Responsabilità condivisa nei confronti dell’eredità culturale e partecipazione del pubblico”, 2015. 23 lionella sCazzosi, Giardini e paesaggi “opera aperta”. I limiti delle trasformazioni, in L. Scazzosi, L.S. Pelissetti (a cura di), Giardini storici. A 25 anni dalle Carte di Firenze: esperienze e prospettive, I, Firenze, Leo S. Olschki 2009, p. 134. 24 Maria adriana Giusti, Restauro dei giardini: côté archéologique e contemporaneo, in M.A. Giusti (a cura di), RICerca/REStauro. Sez. 1B. “Questioni teoriche: tematiche specifiche”, Roma, Edizioni Quasar 2017, p. 238. 25 keVin lynCh, L’immagine della città, Padova, Marsilio 1964, p.64

Rosario Scaduto I giardini storici di Bagheria fra abbandono, complice distruzione, conservazione e valorizzazione

Rosario Scaduto | rosario.scaduto@unipa.it Dipartimento di Architettura, dell’Università di Palermo

Rosario Scaduto

Abstract The essay investigates the heritage of historic villas and gardens, arranged with parterre, avenues, scultptures, pavilions, fountains and rich flora and in some cases even exotic fauna that were created since the second half of the seventeenth century, in Bagheria, near Palermo. Even the processes of transformation, abandonment and destruction (second half of the 20th century) are presented, evaluating at the same time, the new intervention policies based on the need for a census of surviving historic gardens and parks. The essay also provides the essential bases to contribute to the action of knowledge, protection, maintenance, restoration and enhancement. It is ascertained a correct intervention, in particular in the light of the Florence Charters, for some of the restoration works, already carried out on historic gardens, such as Villa Cattolica and S. Cataldo. At the same time and with the same methodological approach and attention to the principles of the Florence Charters, there are studies and project proposals that are proposed for other examples: the unique stone zoo of the so-called “monsters” and parterre of Villa Palagonia, and the same exceptional garden at the of the villa S. Cataldo.

Parole chiave Bagheria, giardini storici, conservazione, restauro, fruizione, valorizzazione.

Premessa Dalla seconda metà del Seicento, il territorio di Bagheria, vicino Palermo, fu prescelto dall’aristocrazia per realizzare le sue ville. Prima questo territorio era stato puntellato da torri, bagli, cappelle e coltivato per produrre derrate alimentari, come vino, olio e per allevare bestiame, per i mercati di Palermo. Invece dal 1650 fu un susseguirsi di adattamenti e modifiche di preesistenti edifici e nuove realizzazioni per la villeggiatura, costituite dall’abitazione del committente, dai corpi bassi con chiesa, case dei famigli, teatri, magazzini, scuderie, “fosse della neve” e giardini ornamentali. In particolare si ricordano la villa–castello Branciforti Butera, 1658 e villa Serradifalco, 1669, alle quali nel sec. XVIII se ne unirono molte altre, come ad es., villa Cutò e Valguarnera, 1712, Palagonia, 1715, Cattolica, 1736 e S. Cataldo, 1750. La maggior parte delle ville di Bagheria possedeva e in parte possiede dei giardini con parterre, viali, arredi, padiglioni, voliere e ricca flora e fauna. In generale, le ville barocche e tardo barocche esistenti a Bagheria, pur non raggiungendo il numero delle più note ville italiane, ad es., Vesuviane, Venete e della Lucchesia, possiedono ugualmente ricchezza di

soluzioni architettoniche, posizione ambientale, e bellezza, frutto delle scelte progettuali. A consacrare l’importanza di alcuni giardini delle ville di Bagheria, fu la presenza delle loro immagini nella Mostra del giardino italiano, 1 tenutasi a Firenze nel 1931. Nella mostra furono presentati i giardini di villa Valguarnera, Palagonia, Butera e S. Cataldo. Dagli anni cinquanta del sec. XX, molti studiarono le ville di Bagheria, inserendole nel contesto dell’architettura periferica di Palermo, e fra i tanti Bellafiore2 che cominciò a denunziare lo scempio che si stava perpetuando nei loro confronti. Margherita De Simone per prima, nel 1968, pubblicò organici rilievi delle ville,3 pure se l’autrice idealizzò l’architettura indagata, liberandola dalle alterazioni, all’epoca coeve; peraltro ai rilievi delle ville non legò quello dei loro giardini, e questi, come nel caso di villa Butera o Valguarnera sono solo accennati in planimetrie a grande scala.4 Con i successivi testi di Norberg-Schultz e Fagiolo le ville di Bagheria furono inserite nel contesto dell’architettura barocca italiana ed europea. Il primo in particolare riconobbe che nella Sicilia occidentale, e in particolare a Bagheria, si trovano significative manifestazioni dell’architettura barocca dell’isola, e che si era di fronte a dimore di campagna e giardini che posseggono «piante originali, basate su complessi schemi geometrici, usati anche per integrare l’edificio principale con l’ambiente circostante»,5 come nel caso delle ville Palagonia e Valguarnera.

Giardini distrutti: villa Branciforti Butera e Valguarnera Villa Butera, oggi palazzo Butera, nasce dalle modifiche di un baglio seicentesco, formato da un corpo, a tre piani, posto al centro di due cortili con basse case e torri. Oltre alla residenza G. Branciforti (1614-98), uno dei maggiori aristocratici siciliani, costruì e ingrandì la chiesa e il teatro di corte, scuderie, e altri edifici. Invece E.M. Branciforti, nel 1735, vi impiantò un giardino con viali, parterre e vi dimorò piante di agrumi, mentre i viali, bordati da mirtillo e bosso, furono definiti con “tufina”, polvere della locale calcarenite. Nel giardino era facile incontrare pavoni, mentre, in riferimento allo stemma di famiglia, era esibita una leonessa. 6 Al centro del giardino fu collocata una vasca

Fig. 1 K.F. Schinkel, Villa des Principe Butera an der Bagaria, 1804, disegno su carta, in M. Giuffrè, P. Barbera, P. Cianciolo Cosentino, a cura di, The time of Schinkel and the age of Neoclassicism between Palermo an Berlin, Villa S. Giovanni, Biblioteca del Cenide, 2006, p.32. An.; foto del giardino Butera, s. d., ma degl’inizi del sec. XX, con viste sul complesso, della vasca con l’Abbondanza e la Certosa, prima della loro distruzione.

Rosario Scaduto con la statua dell’Abbondanza e nel 1797, in fondo fu realizzato la Certosa - museo delle cere (Fig. 1). Già venti anni dopo la mostra sul giardino italiano, che aveva consacrato le ville di Bagheria, si assiste alla distruzione di alcuni di questi, come quello Butera, divorato, assieme ad altri, dallo «sfascio urbanistico»7 della città. Infatti, nel 1955 i proprietari avevano ceduto al Comune di Bagheria, le aree del giardino vicine alla Certosa, per realizzarvi 55 alloggi popolari,8 mentre la restante parte fu lottizzata e venduta per la costruzione di case dei proprietari dei redditizi “giardini” limoni,9 esclusa l’area libera centrale: la croce dei viali, ceduta al Comune, secondo il piano di lottizzazione. Gli arredi più pregiati furono trasferiti in altre proprietà dei Butera, mentre il giardino fu distrutto. Negli anni ottanta del sec. XX, e nel XXI, nello spazio centrale è stata creata una piazza di calcestruzzo di cemento con aiuole e gradinate disposte secondo un disegno avulso dalla storia del sito (Fig. 2). Villa Valguarnera, costruita dall’arch. T.M. Napoli, si caratterizza per il corpo centrale a due piani e per le simmetriche ali curve dei corpi bassi, ma anzitutto per l’unicità della posizione, in quanto ubicata al centro di due golfi, Palermo e Termini Imerese. La villa appare in una stampa del 1761, quasi manifesto delle ville del Sud d’Italia e non solo, con la residenza del dominus, viali, archi di trionfo, giardini all’italiana, coffee house, peschiere, una collina con «vari e dolci viali ombrati da alberi di manna, mandorli e pistacchi; e […] erbe aromatiche».10 Anche in questo caso, nel 1956, il Comune di Bagheria, espropriò ad alcune delle eredi Alliata, parte di un giardino, posto a valle del complesso, per realizzare una scuola, mentre la sua quota maggiore dalle stesse proprietarie fu lottizzata per l’edificazione di case.11 Sempre i proprietari, nel 1968, vendettero la quota più grande dell’agro storico della villa. Oggi parte dell’agro è interessato da edifici realizzati senza concessione e poi in parte sanati (Fig. 3). In definitiva, dagli anni cinquanta del sec. XX, il Comune e alcuni dei proprietari delle ville furono complici e determinarono l’assetto urbano di Bagheria, con espropri per costruire case popolari e scuole, la distruzione dei giardini e la lottizzazione selvaggia di vaste aree.

Interventi per la conservazione di alcuni giardini di Bagheria: villa Cattolica, S. Cataldo e lo zoo di pietra di villa Palagonia L’iniziale censimento, basilare per l’azione conservativa dei giardini scampati di Bagheria, risale al 1990.12 Invece i primi restauri furono condotti, alla fine del sec. XX, a villa Cattolica e S. Cataldo. Nella prima, oggi sede del Museo Guttuso, nel giardino erano stati distrutti gli arredi e flora, con i parterre coltivati a orto e usati per allevare animali, mentre rimanevano poche piante di agrumi. Nel 1992 chi scrive ha redatto un progetto di restauro, approvato dalla Soprintendenza BB.CC.AA. di Palermo, per il recupero del giardino con l’impianto di bosso lungo il perimetro dei parterre, la realizzazione di un cancello, secondo un disegno semplice e intonato ai preesistenti. Anche per la scelta delle piante da integrare, si è applicato quanto suggerito dalla Carta di Firenze, e in particolare agli artt. 12 e 16 «tenendo conto degli usi stabiliti e riconosciuti», e nel rispetto dell’«evoluzione del giardino in questione». Sono stati eliminati alberi, piantumati da poco, come eucalipti, per la loro estraneità e ripiantati gelsomini e oleandri, per ri-creare il giardino degli odori

Fig. 2 Palazzo Butera, piazza Butera e Certosa, Bagheria, 2021 Google Maps 3D. Si nota il palazzo soffocato dall’edilizia seriale, la nuova piazza Butera con aiuole e in fondo la Certosa occlusa dalle case. Un progetto di restauro del giardino, frutto di una ricerca portata avanti anche nei Laboratori di Restauro del Dipartimento di Architettura di Palermo, prevede la liberazione di alcune abitazioni, ubicate a ridosso dello scalone che dal piano nobile della villa portava al giardino, la ricreazione della croce dei viali al centro e la liberazione di parte dell’edilizia in prossimità della Certosa.

Fig. 3 Area di villa Valguarnera (con accanto la villa e giardino Moncada Trabia), Bagheria, 2021, Google Maps 3D, 2021. Il quartiere a forma di quadrato irregolare sorge al posto del giardino geometrico che si concludeva in un coffee house. Nell’immagine si nota che i vincoli di tutela della Soprintendenza BB.CC.AA. di Palermo hanno preservato il viale di villa Valguarnera, così come i giardini accanto alla villa e parte dell’agro storico posto a centro della foto e alla sua sinistra.

e delle emozioni. Ancora, è stato realizzato un impianto di illuminazione, per la fruizione serale, con elementi moderni inseriti tra la flora, quale segno stratificato (Fig. 4). Invece, villa S. Cataldo, realizzata nella metà del sec. XVIII, si distingue per il corpo di fabbrica padronale a tre piani, e per il magnifico giardino all’italiana, ancora esistente anche se bisognoso di cure. Questo, raro in Sicilia, nacque dall’accostamento di due quadrati, con i viali rivestiti da tufina, ed è arredato con elementi realizzati con pietra locale. Nella villa, oggi concessa al Comune di Bagheria, agli inizi del sec. XXI, sono iniziate le operazioni di censimento sia degli arredi che del patrimonio botanico, costituito primariamente da alberi di agrumi e frutta.13 Il Dipartimento di Architettura dell’Università di Palermo, con i Laboratori di Restauro dei monumenti e il Comune di Bagheria, indagano il patrimonio architettonico e in concorso, quello floristico, per redigere un progetto di restauro (Carta di Firenze, art. 15), per l’accessibilità fisica, culturale e valorizzazione del complesso (Figg. 5-6).14 I restauri delle architetture e degli arredi, come detto nell’art. 3 della citata Carta, sono pensati «secondo lo spirito della Carta di Venezia», come le azioni sull’essenze, che vanno dalla manutenzione continua, al risarcimento della lacuna della flora, giudicando «caso per caso, l’effetto d’insieme, il valore storico, decorativo, estetico e architettonico».15 Infine, villa Palagonia deve la sua notorietà alla decorazione dei cosiddetti “mostri”, e alla rilevanza dell’impianto architettonico,16 legato alla cultura del Centro Europa. Siamo di fronte ad uno zoo di pietra, che dialoga con i parterre chiusi e testimonia dei tanti zoo veri che nel passato, esistevano nelle ville d’Europa, come a Bagheria. I “mostri” e i corpi bassi dove sono collocati, non sono tutelati e solo dal 2002 hanno un vincolo di PRG, mentre le statue versano in un umiliante degrado (Figg. 7-8). Chi scrive coordina una ricerca per il loro censimento, legandoli ai corpi bassi, e prepara l’iter per il vincolo di tutela della Soprintendenza BB.CC.AA. Dal censimento nasce un piano pilota per il restauro, da estendere a tutto il patrimonio scultoreo e ai parterre, che diventano il luogo della conoscenza consapevole.

Bagheria, Fig. 4 Bagheria, villa Cattolica, Museo Renato Guttuso, Scaduto, 2021, prospetto e parterre sud dove si nota il mantenimento di alcune specie di palme dattifere e di cycas e l’integrazione di quelle scomparse. Queste piante, considerate esotiche, erano presenti nei giardini storici di Bagheria e in genere della Conca d’Oro. Si intravede il sistema di illuminazione, per le visite serali e per la sicurezza, integrato fra la vegetazione.

Fig. 5 Villa San Cataldo, Bagheria, 2021, Google Maps 3D. Si nota il complesso della villa, formato da un baglio seicentesco, dalla villa del Settecento ‘riammodernata’ nella seconda metà del sec. XIX con una veste neogotica e dal giardino all’italiana discretamente conservato, sia nell’architettura che in parte nella flora, anch’essa però bisognosa di interventi

Fig. 6 Bagheria, giardino settecentesco di villa San Cataldo, G. La Rocca, 2021, vista sul viale principale disposto nella direzione e.o. Si nota il viale ricoperto di “tufina”- polvere compattata di calcarenite locale e gli arredi fatti della stessa pietra, e i parterre con soprattutto alberi di agrumi, bisognosi di cure.

Rosario Scaduto Conclusioni Il processo avviato a Bagheria per la conservazione del patrimonio delle ville ha inizio nei primi decenni del sec. XX con il vincolo dei soli corpi di fabbrica principali, come villa Butera, Palagonia e Cattolica. La mancanza di tutela dei giardini ne ha causato lo scempio, mentre vincoli più completi e estesi, come quello per la quota maggiore di villa Valguarnera, hanno prodotto effetti benefici, oggi evidenti. Il Comune di Bagheria, come proprietario di molte ville, desidera favorire buone pratiche per tutti, e pertanto oggi si lavora per l’istituzione di un organismo per la loro gestione. Base di questo processo è il censimento dei giardini superstiti attraverso l’uso delle più moderne tecniche,17 come il GIS e la catalogazione aperta, che mirano alla conoscenza-catalogazione del patrimonio culturale e sua georeferenziazione, per l’attività di ricerca e redazione dei progetti di restauro e sviluppo.

1 CoMune di Firenze, Mostra del giardino italiano, Palazzo Vecchio, Firenze 1931, pp. 7, 132-133. 2 Cfr. GiusePPe bellaFiore, Le ville di Bagheria, «Bollettino di Italia Nostra», n. 39, lug.-ago. 1964 3 Cfr. MarGherita de siMone, Ville palermitane dal XVI al XVIII, Genova, Vitali e Ghianda 1968. 4 Cfr. rosario sCaduto, Il patrimonio delle ville di Bagheria, fra storia, conservazione e valorizzazione, M.A. Giusti a cura di, Ville Lucchesi, d’Italia, del mondo. Conoscenza e cura delle dimore di campagna e dei loro giardini, Lucca, Pacini 2016, pp. 303-309.

5 Cristian norberG-sChultz, Architettura Tardobarocca, Milano, Electa 1989, pp. 173-174 6 AsPa, Fondo Trabia, vol. 35, f. 110, 1735. 7 salVatore bosCarino, Sicilia Barocca, Architettura e città (1610-1760), Roma, Officina Edizioni 19811, p. 270. 8 Carlo triPoli, Dalla foresta al PRG del 1976 Crescita urbana di Bagheria, Bagheria, Falcone 2005, pp. 117-120. 9 Così nella Conca d’Oro di Palermo si chiamano i terreni coltivati ad agrumi, in quanto questi sono geometrizzati e irrigati. 10 Cfr. Gaetano bentiVenGa, Descrizione della Villa Valguarnera, Palermo 1785, p. 31. 11 C. triPoli, op. cit., pp. 120, 123. 12 Cfr. Gianni Pirrone et alii, Palermo detto Paradiso di Sicilia (Ville e giardini XII-XX secolo), Palermo, Storia e Arte dei Giardini 1990. Risultano studiati i giardini di villa Cattolica, S. Cataldo, Valguarnera, Villarosa e Trabia. 13 Giannantonio doMina et alii, Il giardino di villa Galletti San Cataldo a Bagheria (Palermo), «Quaderni Botanica Ambientale Applicata», n. 14, 2003, pp. 221-231. 14 Cfr. convenzione sottoscritta dal Dipartimento di Architettura di Palermo e il Comune di Bagheria, 19.11.2019. 15 GioVanni Carbonara, Avvicinamento al restauro Teoria, storia, monumenti, Napoli, Liguori 1997, p. 507. Cfr. Osservazioni sul restauro dei giardini, pp. 497-509. 16 Cfr. r. sCaduto, Villa Palagonia storia e restauro, Bagheria, Falcone 2007 e M. FaGiolo, Villa Palagonia e l’Europa, in M. Guttilla (a cura di), Il Settecento e il suo doppio. Rococò e neoclassicismo, stili e tendenze europee nella Sicilia dei viceré, Palermo, pp. 139-147. 17 Utili sono le ricerche sviluppate ad. es. per la Lombardia da alberta Cazzani, A geo-referenced database to monage the landscape in Lombardia Region, in A. Cazzani et alii, The international Archives of the photogrammetry, remote sensing and spatial information, «Sciences», vol. XLII, fasc. 2/W11, 2019, pp. 387-394.

Fig. 7 Villa Palagonia, corpi bassi lato sud-ovest, Bagheria, 2021. Lo zoo di pietra dei cosiddetti “mostri” è costituito da animali fantastici, caricature, personaggi mitologici ecc. realizzati con la calcarenite locale e un tempo rivestiti di stucco bianco. Si osserva che la non cura della vegetazione dei parterre non consente un corretto godimento dell’apparato scultoreo (foto R.Scaduto).

Fig. 8 Villa Palagonia, particolare di “mostri” posti nei corpi bassi lato est, Bagheria, 2021. Fra gli animali dello zoo di pietra della villa, molte statue rappresentano draghi, che nella cultura orientale erano considerate figure apotropaiche. Il restauro del giardino deve necessariamente tenere in considerazione il mantenimento della flora, come pure la sua cura. Nel caso di villa Palagonia, il restauro dei parterre è anche funzionale ad una corretta visione dei “mostri”, immersi in un giardino stratificato (foto R.Scaduto).

Luigi Cappelli, Mariarosaria Villani Giardini storici perduti nel centro antico di Napoli. Nuovi percorsi di conoscenza tra restauro ed evocazione

Luigi Cappelli | luigi.cappelli@unina.it Mariarosaria Villani | mariarosaria.villani@unina.it Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli Federico II

Luigi Cappelli, Mariarosaria Villani

Abstract The historic gardens of ancient centre of Naples have suffered, over the centuries, the common fate of alteration or complete elimination. Many of these lost gardens remain today within articulated architectural palimpsests although having lost its formal and botanical identity. The two examples illustrated into the paper open the reflection to two different cases of conservation possibilities that follow the principles of the Florence Charter. On the one hand, the garden of renaissance Palazzo Penne, documented and with still evident traces that was analysed in the perspective of a conservation project; on the other, the lost garden of the Scorziata complex, where remains only the spacing track, considered into the aspect of ‘evocation’ rather than a restoration. These spaces, born as private pertinences, now aspire to open up to the city, representing an important resource for the use of the green areas of the ancient centre of Naples. A reflection enlargeable to many of the ancient gardens of the old Neapolitan centre still abandoned and useless in order to preserve their resilient cultural message.

Parole chiave Centro antico, Napoli, Architettura rinascimentale, Giardino storico, digital humanities.

Il centro antico di Napoli ha ospitato, per molti secoli, una rigogliosa presenza botanica o agricola che, dentro e sopra le mura, all’interno di edifici sacri, palazzi nobiliari, recinti cimiteriali o spazi pubblici, ha abbellito l’intera città almeno fino all’Ottocento. Nella loro accezione di ‘composizione di architettura’, i giardini storici del tessuto cardo-decumanico partenopeo, nel tempo, definiscono ed integrano la maglia urbana, talvolta interrompendone la regolarità talora sottolineandola con rapporti prettamente stereometrici. Tale variegata composizione si sviluppa entro un’ampia porzione di città che presentava scoscesi terrazzamenti che, dopo una prima fase di diffusione del giardino pensile, sorto quale naturale adattamento all’orografia partenopea, vennero riconfigurati con pendii più morbidi che da Sant’Aniello a Caponapoli giungevano fino alla costa1 . Gran parte degli antichi giardini napoletani fu sacrificata a partire dal Settecento, alla luce di ampliamenti o riconfigurazioni di gusto, con la cancellazione di ampie porzioni di tessuto urbano in

seguito agli interventi previsti dal Risanamento della città e, nel Novecento, in favore della costruzione di infrastrutture di servizio. Le funzioni diverse susseguitesi nel tempo, inoltre, hanno spesso snaturato i valori identitari dei giardini napoletani, a testimonianza di come i mutamenti di destinazioni d’uso, laddove non compatibili con la preesistenza e non affrontati con la necessaria consapevolezza tecnica, alterino irreversibilmente le relazioni tra spazi aperti e costruiti. Di fronte a tali manomissioni, i dettami della Carta dei Giardini Storici del 1981 prevedono la possibilità di un ripristino, «dopo uno studio approfondito che vada dallo scavo alla raccolta di tutta la documentazione concernente il giardino e i giardini analoghi»2 nel rispetto dell’evoluzione del giardino in questione. In tal senso il cantiere di restauro costituisce un prezioso momento di riscontro sul campo, nonché di verifica delle conoscenze sul giardino, documento materiale della propria storia3 . Più ardua, invece, appare la via da seguire nel caso in cui il giardino storico sia «totalmente scomparso», poiché «non si potrà allora intraprendere un ripristino valido»4. Si parla allora di “evocazione” o di “creazione”, «escludendo totalmente la qualifica di giardino storico». Uno studio intrapreso ai fini del restauro di due palazzi nobiliari rinascimentali del centro antico di Napoli - Palazzo Penne5, ubicato nei pressi del largo Banchi Nuovi, e il complesso della Scorziata6, sito in vico Cinquesanti, a ridosso di piazza San Gaetano – ha consentito da un lato di rintracciare le configurazioni storiche dei loro giardini, in relazione al rapporto diretto che essi avevano con i rispettivi edifici, e dall’altro di valutarne l’evoluzione, il grado di conservazione e le possibilità di recupero. Sorti entrambi in epoca rinascimentale e fortemente mutati con addizioni sette e ottocentesche, i due complessi analizzati hanno subito la comune sorte dell’abbandono e del conseguente degrado nella seconda metà del Novecento. Il giardino di Palazzo Penne (Fig. 1) a cui si accede da un loggiato quattrocentesco, rappresenta uno spazio che caratterizza fortemente l’edificio storico cui è connesso. Il giardino presenta alcuni elementi di reimpiego che ne testimoniano l’evoluzione, quali capitelli e frammenti di cornici rina-

Fig. 1 Pianta del Piano terra di Palazzo Penne, con rilievo di massima del Giardino storico.

Fig. 2 Il giardino storico di Palazzo Penne allo stato attuale (Foto di Mariarosaria Villani, 2018). scimentali in piperno, riutilizzati come bordature di aiuole leggermente sopraelevate su cui è possibile salire mediante gradini in tufo. Completamente rinnovato tra il 1747 e il 1748, quando l’edificio divenne sede dei padri Somaschi, il giardino di Palazzo Penne fu dotato di un nuovo graticolato e i viali furono delimitati proprio mediante il reimpiego dei capitelli ottagonali rimossi dal salone interno al palazzo7 . Palazzo Penne, esemplare testimonianza dell’architettura rinascimentale napoletana, vanta una fiorente fortuna critica ma, ciononostante, il suo piccolo giardino «è sempre sfuggito alla storiografia di settore, probabilmente per le trasformazioni subite nei secoli e per lo stato di abbandono»8 . L’invaso che ancora conserva i rapporti spaziali con il Palazzo, consente la progettazione di un intervento di restauro e ripristino che permetta di restituire il giardino alla fruizione pubblica, anche in vista della destinazione d’uso quale Casa dell’Architettura prevista per l’edificio (Fig. 2). Lo studio dell’architettura, approfondito dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” nel corso dell’ultimo decennio9, ha fornito delle indicazioni operative per il restauro del giardino che, tuttavia, dovranno essere integrate in corso d’opera in seguito ad analisi diagnostiche ed archeologiche sui terreni per evidenziare possibili riproposizioni di essenze storiche. Il complesso della Scorziata, ricavato nel XV secolo dal palazzo nobiliare De Scorciatis, al contrario del caso precedente, non possiede più tracce dell’antico giardino. Tuttavia, come si può vedere anche dalla Carta Carafa del 1775 (Fig. 3), secondo Roberto Pane, «il palazzo aveva già in origine un vasto cortile, a compenso dell’angusto spazio esterno e, sullo sfondo, si apriva probabilmente un giardino, nell’area di un antico orto, già presente nell’impianto urbanistico medievale»10 . A metà del Settecento il complesso fu restaurato11 e fortemente alterato soprattutto per ciò che riguarda le aree verdi12 (Fig. 4). La planimetria attuale del complesso della Scorziata, infatti, mostra delle aree verdi interne ben diverse dal giardino originario sia per posizione che per dimensioni (Fig. 5). Seppur ormai completamente alterato spazialmente e formalmente, nella fase di progettazione del restauro del complesso, avviato all’interno degli interventi previsti dal Piano Unesco per il centro antico di Napoli, si sono ipotizzate alcune azioni volte alla restituzione del rapporto masse-spazi che definiscono i valori storico-formali dell’edificio. Alla luce dei dettami della Carta di Firenze del 1981 le questioni di restauro, dunque, appaiono diverse: se nel caso di Palazzo Penne è possibile proporre una configurazione storica, che sia basata sull’approfondimento di indagini archeobotaniche incrociate con la cartografia storica, nel caso della Scorziata, «non si potrà allora intraprendere un ripristino valido dell’idea del giardino storico». L’operazione culturale del progetto di conservazione si orienta dunque, in questo caso, sull’“evocazione”, sulla restituzione al fruitore di una unità potenziale dello spazio antico, che seppur

ormai alterato spazialmente e formalmente, permane a testimonianza di una genesi simbiotica dell’architettura verde con quella ‘di pietra’. In entrambi i casi illustrati difatti, anche se con scarse testimonianze botaniche nel caso di Palazzo Penne e con la forte alterazione per la Scorziata (Fig. 6), il giardino permane comunque nella sua essenza spaziale quale “complemento inseparabile” dell’edificio. La conservazione del verde, d’altronde, non riguarda solo “le esigenze dettate dalla vita biologica e dai vantaggi del turismo, ma qualche cosa che ha sede nella nostra interiorità e che risponde ad un profondo bisogno della vita psichica”. Così Roberto Pane nel 1966 definì l’operazione culturale di recupero della memoria storica del giardino, anticipando molti dei temi che saranno poi trattati nelle successive carte del restauro. Egli affermò che «il verde non è solo un ornamento, esso è un servizio pubblico e, in quanto tale, una componente inseparabile del quadro urbano», anticipando le definizioni dell’articolo 1 della carta di Firenze13 . Il rinnovato interesse per i giardini storici perduti nel centro antico di Napoli ha condotto la ricerca ad un’attenta rilettura delle fonti, ad un intreccio tra cartografia storica e rilievi moderni al fine di rendere intellegibili le relazioni del giardino con il suo Palazzo, con il suo contesto ambientale ed urbano prossimo. Sebbene in casi quali quello della Scorziata, il restauro del giardino miri principalmente alla conoscenza ed alla restituzione evocativa piuttosto che ad un recupero operativo, tale percorso risulta in ogni caso foriero di una maggiore consapevolezza ambientale dei tipi di culture e colture storiche, con un risvolto operativo anche sulle linee di intervento sul paesaggio urbano. Le linee compositive, le direzioni di percorrenza, la successione delle specie arboree, le caratteristiche microclimatiche, possono essere ricostruite, in casi quali quello della Scorziata, anche me-

Fig. 3 Individuazione sulla Carta Carafa (1775) del Palazzo de Scorciatis (1), dell’ex ritiro della Scorziata (2) e della chiesa della Scorziata (3) (Elaborazione grafica degli autori).

Fig. 4 Palazzo de Scorciatis, il reimpiego delle arcate rinascimentali nel nuovo edificio in cemento armato realizzato dopo la Seconda Guerra Mondiale (Foto di Giuseppe Albano, 2014).

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