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Francesco Saverio Dalba
Attorno ad alcuni uccelli veduti a Castelfidardo
Mostra nazionale: “Triangolare ornitologico”
testo ed illustrazioni di FRANCESCOSAVERIODALBA, fotografie da Internet (libero dominio)
Il giorno 17 di ottobre 2021, lungo la strada statale che conduce da Ancona a San Benedetto del Tronto (recte da Padova ad Otranto: la più estesa di tutte le vie d’Italia) ebbi la ventura di assistere ad una mostra ornitologica nazionale organizzata dall’Associazione Ornitologica Recanatese Valmusone, dall’Associazione Ornitologica Sanbenedettese e dall’Associazione Ornitologica Umbra, denominata “Il Triangolare ornitologico”. Prima ancora di accedere ai locali della mostra comparve il signor Marino Cecchi. Quando egli è presente ad una manifestazione può dirsi per certo che saranno esposti animali inusitati o rari. L’esposizione che ha sempre contribuito ad organizzare a Macerata è rinomata per la varietà di specie, animali e vegetali, che vi sono esibite. Se Emilio Cecchi in Messico (1932, ed. Adelphi, 1987) e nel volume Et in Arcadia Ego(1936, ed. Mondadori 1942) ha così mirabilmente descritto i territori ellenici e della Nuova Spagna, che leggendo pare di trovarvisi, Marino Cecchi fa convergere in mostra specie tanto peculiari che ci si sente trasportati nei luoghi più esotici e remoti del pianeta. All’ingresso del parcheggio, in una zona che, dopo avere attraversato le colline umbre provenendo da Assisi, non poteva non apparire un poco disadorna e brulla, vi erano due laghetti artificiali, nei quali nuotavano due esemplari di Cygnus atratus. Un tempo i giardini pubblici d’Italia erano grandemente popolati da specie diverse di cigni, tra i quali non infrequenti erano quelli neri. Ora, col recedere della natura dai nostri centri urbani a vantaggio di una sterile avanzata dell’elettronica e della tecnologia, i cigni esotici sono sovente relegati all’archivio delle rimembranze d’infanzia. Nelle collezioni private è dato talora vedere il più chiaro tra tutti i cigni: Cygnus cygnus, privo di maschera nera attorno agli occhi e col becco giallo anziché arancione. Il suo bianco è supremo, come il manto dell’ermellino in inverno ed è così immutabilmente perfetto da ricordare un detto dei Moralia di Plutarco (Come distinguere l’adulatore dall’amico) per cui il camaleonte può assumere qualsiasi colore, tranne il bianco. Il suo areale si arresta alla penisola balcanica ad Oriente ma sui lidi d’Italia si può incontrare in libertà lungo le sponde orientali dell’Adriatico, mentre sverna. Potei udirne il canto nel 2018 a Legnago, assai più potente di quello del cigno reale, simile piuttosto al suono di una buccina romana. Mi fu riferito che una coppia ha un costo che si aggira sui 600,00 euro. È ilCygnus(non l’olor) protagonista del balletto messo in musica da Tchaikovskij, e vederlo nuotare porta sinesteticamente alla mente Finlandia di Sibelius. Nei laghetti comunali la presenza di Cygnus melancoryphus col corpo bianco, collo nero e caruncole rosse assai evidenti spingeva ad interrogarsi sul diffondersi della colorazione nera e sul suo progressivo sopravvento rispetto a quella bianca. L’epiteto di specie è riportato in varie forme, ma deriva da μελαγ-κορυφος, ossia “dal cappuccio nero”, ove gamma-kappa in greco è letto come “ng”, quindi correttamente traslitterato come melancoryphus. Caso non molto ricorrente, la descrizione scientifica del Cigno collo nero è in lingua italiana e la si trova alla pagina
Cygnus atratus del signor Baffetti
L’infaticabile Marino Cecchi
234 del Saggio sulla storia naturale del Chilidell’abate Giovanni Ignazio Molina, pubblicato a Bologna il 1782. Il Molina era un gesuita cileno; nel 1774, quando era poco più che trentatreenne, i Gesuiti furono espulsi dal Cile e lui giunse ad Imola. La sua opera è simile per impostazione alla Bibliotheca di Fozio (in italiano una silloge in Adelphi, l’integrale edita più di recente dalla Normale di Pisa): l’erudito, distante dalla fonte della sua erudizione, la osserva nel teatro della sua mente e la descrive per i posteri. Così il Molina rammenta la natura del Cile, descrivendola dalla Romagna: “L’Attenzione dell’Europa è preferentemente rivolta all’America: si cerca con erudita curiosità di conoscere la diversità de’suoi climi, la struttura de’suoi monti […] e animali”. Vi si legge ancora: “Questo Paese, dirò così, è l’Italia, vale a dire il Giardino dell’America Meridionale, ove tutto ciò che può desiderarsi per passare una vita comoda, proviene colla medesima abbondanza, e perfezione, che nell’Europea” (pp. 3-4). A pagina 234 della storia naturale trovano dunque collocazione due descrizioni di Anatidi destinate ad essere considerate scientificamente valide. Così il Cygnus melancoryphus: “Il Cigno Chilese […]è a un di presso della grandezza del Cigno Europeo, a cui si rassembra di molto per la forma, ma si distingue pel colore delle piume che cuoprono la sua testa fino alla metà del collo, le quali sono di un bel nero, mentre tutte le altre sono di un bianco rilucente”; alla nota 3* sinteticamente in latino: “Anas rostro semicilyndrico rubro, capite nigro, corpore albo”. Il Molina è colpito dai costumi coi quali alleva i piccoli: “La femmina produce sei piccoli, che non abbandona mai nel nido, e quando va a procacciarsi il vitto, se reca tutti sul dorso”. Un tratto che salta spesso agli occhi dei naturalisti e dei viaggiatori antichi è la cura parentale per piccoli ed uova, allorquando portati sul dorso: un esempio
Perdicula asiatica in una tavola di J. Gould, Birds of Asia notevole è quello di Antonio Pigafetta, all’inizio del suo famoso diario, ove scrive di avere veduto varie specie di uccelli marini tra i quali “quando la femina vuol far li ovi, li fa sopra la schiena del maschio, e ivi si creano; non hanno piedi e sempre vivono nel mare”. Probabilmente è un tratto che li avvicina a certe cure prestate dai mammiferi (si pensi agli opossum o alle scimmie). Io stesso ho assistito, nel soggiorno della mia abitazione allo svezzamento dei Thallomys nigricauda (ratto arboricolo dalla coda nera), i cui piccoli restano costantemente attaccati alle mammelle materne durante tutta la prima fase di vita. I costumi arboricoli dell’animale hanno fatto evolvere questo tratto, per evitare le cadute dall’alto. Sempre nella stessa stanza ho veduto una Monodelphis domesticacon alcuni piccoli aggrappati alla schiena e posso confermare che tale abitudine è tale da procurare sempre un certo grado di innato interesse. Lo stesso varrà per gli uccelli. Piace riportare una curiosa notizia letta su The Secret Life of Wombats di J. Woodford: i koala sono evoluti da un antenato fossorio, simile al vombato, che ha il marsupio volto verso la coda, ad evitare che la terra rimossa nello scavo delle gallerie possa entrarvi. I piccoli dei koala, nei marsupi a terribili altezze, hanno dunque lo sguardo rivolto verso il basso. All’alinea che precede la descrizione del melancoryphus il Molina parla di un cigno particolarissimo, sin dal nome (un’onomatopea cilena per il verso che emette): il Coscoroba. Ve ne sono alcuni a Verona, presso il Parco Natura Viva, e probabilmente sono tra gli animali che passano più inosservati. Il loro laghetto sta di fronte ai più vivaci Cynomys ludovicianus ed a Cyclura cornuta; da lontano somigliano a delle oche bianche. Anche Molina li chiamò Anas: “La Coscoroba, Anas coroscoba, è commendabile tra le oche non meno per la sua grandezza che per la facilità con cui si addomestica, affezionandosi per modo a quelli, che le danno da mangiare, che li seguita da per tutto, ella è interamente bianca a riserva dei piedi, e del becco, che sono rossi, e degli occhi, che sembrano affatto neri”. In realtà, anche la punta delle prime sei primarie è nera. Il Delacour registra il loro primo
Scena del Brontosauro nel film di Zeman Amazona ochrocephala esposta dal signor Violini
arrivo presso lo zoo di Londra nell’anno della Breccia di Porta Pia, nidificarono ma le uova non schiusero. La prima riproduzione avvenne nel 1910 all’Abbazia di Woburn, sopravvisse un solo piccolo che, conformemente a quanto riferito dal Molina “divenne straordinariamente domestico e legato alla fu Duchessa di Bedford (Avicul. Mag., 1931, pp.62-63). Io conoscevo bene questo uccello straordinario ed ero assai divertito dalle sue bizzarrie, quando lo vedevo di anno in anno”. Proprio nell’occasione in cui udii cantare i Cygnus cygnusmi accompagnava un Cereopside della Nuova Olanda domestico, il quale mi precedeva prima di entrare nelle varie voliere ed era assai più domestico di un cane o di un cavallo. Terminato il confinamento per l’influenza, ebbi la ventura di visitare, a margine di un’udienza in Roma, l’appena riaperto Bioparco, semivuoto. Gli animali erano assai curiosi di vedere dei visitatori, così l’orso bruno venne al vetro e tentava di toccarmi la mano. Nel recinto degli animali australiani (Macropus rufogriseus ed emù) apparve un Cereopsis novaehollandiae. Ora, opsissignifica “simile a” e cere deriva da “kerinos”, ossia “cereo”, però prima di sincerarmene su un dizionario etimologico stimavo che “cere” fosse una differente grafia per “Choeros”, ossia “maiale” (il nome ormai desueto dell’ippopotamo pigmeo è Choeropsis liberiensis, ora Hexaprotodon: a Roma se ne può vedere una coppia). Ebbene, quando questo Cereopside apparve dal suo ricovero pioveva e vi era una leggera nebbiolina; esso comparve in tutta la sua maestosità e mi osservò; ricordai di aver letto che emetteva un verso simile al grugnito di un maiale. Cercai di imitarlo e dopo poco l’oca emise un verso potentissimo e terrificante: gli emù si allontanarono subito. Essa alzava il collo e prorompeva in un verso così cavernoso che è probabilmente quanto di più simile al verso di un dinosauro si possa sentire. Ebbene, dopo queste gradazioni incomplete di nero, a Castelfidardo vi erano due cigni interamente neri. Li troviamo descritti come come Cygnus atratus nell’Index ornithologicus del Latham (1790, vol II, p. 834). Nel diario del Capitano Phillips The Voyage of Governor Phillip to Botany Bay, pubblicato nell’anno della Rivoluzione francese, è riportato che nei pressi di Shell Cove, a meno di 100 Km dall’attuale Sydney, il giorno 15 aprile 1788 diversi ufficiali accompagnati da qualche marinaio visitarono un lago dell’entroterra, nel quale videro “per la prima volta un cigno nero, una specie che, nonostante sia nera solo nei proverbi in altre parti del mondo, qui non è per nulla rara, trovandosi in quasi tutti i laghi. Questo era un uccello assai nobile, più grande del cigno comune ed egualmente aggraziato nella forma”. Novant’anni prima, nel 1698, la sua esistenza era stata portata a conoscenza degli europei nella celebre lettera che Nicolaas Witsen inviò a Martin Lister attorno ad una spedizione Olandese nella Terra Australe, ove si legge: “Vi furono trovati cigni neri, pappagalli e molti trichechi. Anche un lago le cui acque sembravano rosse, poiché il suo fondo era rosso. […] Sull’isola, nei pressi della costa, sono stati visti dei ratti grandi come dei gatti, in una innumerevole quantità; tutti hanno una sorta di borsa o sacco che pende dalla gola e scende sul petto”. George Shaw lo descrive in latino, nella Naturalist’s Miscellany, vol. III (17911792), attribuendogli il sinonimo Anas plutonia, che purtroppo viene per secondo, essendo molto più suggestivo di atratus. “Il cigno comune è più candido della neve stessa; il suo colore fu sempre costante ed immutabile; apparirà cosa prodigiosa alle orecchie del popolo quello che già si diceva nei proverbi:il cigno nero”. Tuttavia, nessuna persona di buon senso mai ebbe a dubitare che nel numerosissimo genere delle anatre potesse esservi in qualche luogo della terra una specie in qualche modo distinta, che per forma e modo di vivere fosse assai simile al cigno bianco, ma fosse dotata dalla natura di un colore contrario. Essa è stata dunque scoperta nella Nuova Olanda e nelle isole adiacenti”. Nel 1848 il Gould lo descrive profusamente nel settimo volume dei Birds of Australia (a fianco della tavola VI) e riferisce che ha una disposizione partico-
larmente tranquilla, gentile e domestica, se non molestato o se non ci si addentra nei suoi recinti. Poiché si domestica facilmente, alcuni aviari in Europa sono adornati dalla sua presenza. Ma “Ha trovato nell’uomo bianco, da quando l’Australia è stata posta sotto il suo dominio, un nemico così mortale che in molti luoghi dove era numeroso è stato quasi, se non interamente, estirpato; e ciò è il caso di alcuni grandi fiumi della Terra di Van Diemen (Tasmania) […] in altri fiumi è numeroso e continuerà ad esserlo sintantoché i suoi territori non saranno invasi dall’uomo civilizzato, con la naturale conseguenza della sua immediata diminuzione”. A questo proposito, proprio tornando da Castelfidardo, ho terminato la lettura del volume fresco di stampa “Le Regine dell’abisso. Come la vita delle balene ci svela il nostro posto nel mondo” di R. Giggs, volume che tratta delle ancora attuali conseguenze degli innumerevoli eccidi di animali del XIX secolo. A prova del fatto che anche i cigni neri siano particolarmente domestici, qualche anno fa mia moglie vide lungo la statale di Altavilla un cigno nero che camminava nel mezzo della corsia; arrestate le vetture che seguivano, prese il cigno in braccio e lo riportò nel lago vicino, senza che l’animale desse segno alcuno di nervosismo o ritrosia. Appena visti i cigni a Castelfidardo, uno di essi alzò il collo dall’acqua, con un movimento tanto simile ad una celeberrima scena del film cecoslovacco Cesta do praveku di Karel Zeman, in cui un Brontosauro (oggi Apatosauro) solleva il lunghissimo collo dall’acqua o l’altrettanto famosa immagine dei Brachiosauri di Zdenek Burian [Amazona ochrocephala]. Passati i cigni, si aveva accesso alla mostra. Qui erano circa mille uccelli, tra i quali spiccavano i seguenti: uno Psittacus erithacusdalle perfette proporzioni, una assai loquace Ara araraunae quindi una Amazona ochrocephalamolto giovane ed assai pacata. Ochrosin greco è il giallo chiaro, tant’è che in italiano viene detta Amazzone testa gialla, ma l’animale esposto aveva la notevole caratteristica di presentare due minuscole punte di un rosso vivissimo, come quello del sangue appena
Cereopside della Nuova Olanda che precede l'autore in una visita ad un allevamento
stillato, nei pressi delle narici. Si tratta mi conferma un noto allevatore laziale – di una ricorrenza abbastanza frequente nelle ochrocephala giovani. Si dibatte delle abilità oratorie dell’ochrocephala; secondo il Russ, in I pappagalli parlanti: un manuale scientifico, “Gli indiani, che la considerano tra i pappagalli più facili da addomesticare, si dice che le allevino e le allenino con una cura speciale. Le Amazzoni del Suriname possono spesso essere vedute volare semi- selvatiche sopra le capanne degli Indiani, con le remiganti accorciate, ma alla sera rientrano sempre a casa. Da noi è molto frequente, più del doppio delle oratrix. Sono stimate come buoni parlatori, poiché alcune di esse sviluppano in maniera notevole non solo la capacità di parlare bene e chiaramente, ma anche di ridere, piangere e cantare elegantemente. Alcune, tuttavia, si comportano in modo del tutto opposto, ma non di frequente, poiché la maggioranza di esse sono uccelli di media capacità locutoria”. Ebbene, questa amazzone era tanto domestica di carattere e pareva così rattristata dal fatto che mi allontanassi che se fosse stato possibile acquistarla, la avrei presa immediatamente. Il modo in cui noi guardiamo gli animali e come essi ci guardano è oggetto di un interessante saggio di J. Berger, Perché guardiamo gli animali (Il Saggiatore), mentre se ci si interroga su quel che pensi l’amazzone andrebbe letto il saggio di Nagel, Che cosa si prova ad essere un pipistrello?, pubblicato anche da Adelphi nel saggio L’io della mentedi D. Dennet e D. Hofstadter. Dopo l’amazzone vi erano dei krameri mutati, alcune Pyrrhuraparimenti mutate (invero, nei pappagalli la forma ancestrale è sempre la più bella), sino ad arrivare, in fondo alla sala, ad uno degli uccelli più inattesi, che mai avrei immaginato di potere osservare a Castelfidardo [Quaglia della giungla, Perdicula asiatica]. Presso una notevolissima Turtur tympanistria, stava -col solo nome italiano –una quaglia della giungla. Il nome è il calco dall’inglese jungle bush quailed identifica la Perdicula asiatica. La descrive, per la prima volta come Perdix asiatica, il Lathamin Index ornithologicus, vol. II, pp. 649-650 sulla base di esemplari del museo di Londra raccolti nel Maharastra. Della Quaglia della giungla colpiscono due caratteristiche: la prima è il canto, simile a quello di un canarino. Una canarina sta sul tavolo dove scrivo e immancabilmente risponde ai richiami della Perdicula asiatica che possono udirsi su xenocanto. Se ci si avvicina alla gabbia (le asiaticadevono preferibilmente stare in voliere con la parte superiore coperta, perché tendono a prendere il volo verticalmente e con una certa veemenza) iniziano ad emettere dapprima un mormorio sommesso, ma già musicalmente gradevole, per poi, una volta aumentato il volume, cinguettare propriamente. Il loro verso ricorda anche quello di Psilopsiagon aymara. A proposito di volo verticale, va rammentato un curioso episodio: nell’ultima fiera di Sacile tutte le gabbie da 120 cm dei pappagalli erano in piedi e poste sul lato più piccolo. La strana circostanza era dovuta al fatto che taluni presunti conoscitori dell’etologia dei pappagalli avevano costretto tutti a girare le gabbie, sulla base dell’assunto che i pappagalli “volassero in verticale”. J. Gould tratta proprio del colore di P. asiatica, nel settimo volume di Uccelli d’Asia,alla p. 4 “Non vi sono altri uccelli più enigmatici, quanto al colore, di due specie di quaglia che abitano l’India, per le quali il signor Blyth ha proposto il nome di genere Perdicula. La variazione nei loro colori e marcature è pressoché infinita, e
si mescolano l’una nell’altra a tal misura che è impossibile separare in una collezione gli esemplari di una specie da quelli dell’altra con un certo grado di sicurezza. Ma ogni ornitologo, comunque, ammette che vi siano due distinte specie che abitano la penisola indiana – una, l’asiatica, generalmente sparsa sulla gran parte della nazione; l’altra, P. argoondah, solo a Madras ed in alcune delle province del sud est”. Una vicenda simile interessa anche alcuni mammiferi, come i Thallomys che mi stanno di fronte ora: i nigricauda ed i paeduculussi distinguono sicuramente solo facendo appello al cariotipo. Secondo alcuni autori, la Quaglia della giungla si trovava solo sui pendii montani, secondo altri solo nelle valli. Si possono incontrare anche alle pendici dell’Himalaya. Un allevatore mi ha riferito che, se cresciuti in grandi voliere (ne aveva veduti alcuni in Olanda, in una voliera lunga oltre 20 metri) sono selvaticissimi e tendono a fuggire da notevole distanza; se invece cresciuti in incubatrice oppure dai genitori, ma in voliere più piccole, restano abbastanza tranquilli. L’animale di Castelfidardo era sommamente pacifico, si limitava a deambulare nella gabbia con un passo assai enigmatico. Ricordava nell’andatura quello della Gracula che negli anni ‘40 appariva nei cortometraggi Inki the Caveman di Warner e Bros, sempre con la musica dell’overture “Le Ebridi” di Mendelsshon e massimamente disinteressata a tutto ciò che le stava intorno. Ebbene, anche la quaglia, ma aveva una sorta di fiamma ardente nell’occhio. Lì dappresso c’era qualche sua piuma, staccatasi, di un colore indefinibile: una fase di transizione tra rosso e marrone, ma evocante anche il colore dei mattoni di Pompei e il macis della noce moscata. Era a tal punto mutevole ed indefinito da ricordarmi l’indaco che O. Sacks descrive in Allucinazioni. La Quaglia della Giungla è dimorfica: il maschio ha il petto con una fine zebratura simile a quella di Neochmia modesta, ma estesa anche alla parte centrale del petto stesso, mentre la femmina è an-
teriormente di un colore quasi ipnotico, una sorta di rosaceo virante al carnicino, che forse può essere visto unicamente nella parte interna di alcune conchiglie, ma solo se osservate sott’acqua. Il dorso ha una picchiettatura come quella del giaguaro, ma più variegata, come se un acquerello che rappresenta il mammifero fosse stato passato con un panno bagnato. La semplice osservazione del disegno delle ali può essere tale da fare perdere la nozione del tempo e del luogo; pare, in effetti, di trovarsi in una giungla primordiale, donde il nome dell’animale. Ai giorni nostri si alleva anche in gabbie di idonee dimensioni, con l’ausilio di una incubatrice o di una gallinella che funga da balia. All’inizio del secolo passato il signor Norman F. Cockell, residente a Calcutta, scrisse su Avicultural Magazine alcune Note sulla riproduzione della Quaglia della Giungla(Avicult. Mag. 1909, p. 234). Le quaglie stavano in un aviario sul terreno di 24 piedi quadrati, recintato e chiuso da rete e con un riparo in un angolo, punteggiato da alcuni cespugli e Quaglia della giungla esposta dal signor L. Carusio dall’erba alta ed abitato da vari estrildidi e varie specie di quaglia. Tra queste, tre maschi e nove femmine. Lungo i lati e negli angoli della voliera aveva posizionato alcuni piccoli cestini, riempiti di erba soffice. Due delle quaglie avevano deposto insieme dieci uova in uno di essi e le covavano congiuntamente, lasciando il nido alternativamente ogni due o tre ore per sfamarsi e fare i bagni di terra. I maschi non si avvicinavano mai al nido, ma, al diciottesimo giorno dall’inizio della cova, fu possibile notare l’intero storno di dodici quaglie attorno al nido e, due ore più tardi, le quaglie lasciarono il luogo seguiti da nove pulcini. Tutti gli adulti, ma soprattutto i maschi, si presero cura dei pulcini, i quali iniziarono a sviluppare i disegni sul dorso solo dopo nove settimane. L’autore ricorda che il cibo morbido è una condizione indispensabile per lo svezzamento e conclude: “I maschi della quaglia della Giungla sono ordinariamente uccelli oltremodo pugnaci, ma appena appaiono i piccoli, essi accantonano le proprie animosità per fare luogo al sistema di allevamento patriarcale congiunto, sopra descritto”.
L’allevatore padovano con il quale ho conferito quest’anno ha riprodotto ottanta Perdicula asiaticae le alimenta con erbe prative, semi, mais spezzato ed un alimento per quaglie fornitogli da un mulino.
La Quaglia della giungla aveva preso tutta la mia attenzione, tanto da farmi disattendere la cerimonia che si era svolta nella stanza a fianco con i Presidenti delle varie associazioni. Nondimeno, in seguito, sono stato recuperato e mi è stata donata una mascherina con lo stemma della
Federazione e quello dell’associazione recanatese (che ho lietamente indossato in tribunale l’indomani) e due interessanti volumi sulla città di Osimo. Oltre agli uccelli, è stata grande l’emozione di potere assistere nuovamente ad una esposizione di animali, poiché durante il periodo di forzato fermo non si poteva che riviverle nel teatro della memoria, quando nottetempo si fantasticava di visitarle.