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Direttore responsabile Andrea Fagioli Coordinatore diocesano Nicola Sangiacomo Reg. Tribunale Firenze n. 3184 del 21/12/1983
17 marzo 2013
di mons. Alberto Ablondi
Noi non possiamo annunziare la fede se, contemporaneamente alla fede che annunziamo, non facciamo sorgere la pienezza dell’umanità. Prima della evangelizzazione c’è l’umanizzazione. Se io non porto quest’uomo ad essere equilibrato non potrà mai diventare un cristiano; se non lo porto ad avere il senso della gioia non potrò mai annunziarli la Buona Novella: non sarà in grado di riceverla. La Buona Novella non è una notizia qualunque, significa gaudio. Dovrò metterlo in condizione di avere il senso della gioia. Se quest’uomo non è giunto alla possibilità della distensione morale, di poter dire "grazie", ma vive in una continua irritazione o odio inculcato o di ingiustizia vissuta, quest’uomo non potrà mai celebrare l’Eucarestia: sarà sempre uno spettatore dell’Eucarestia; l’Eucarestia non gli dirà mai niente, perché l’Eucarestia è il grande "grazie" del Figlio al Padre attraverso il Figlio della Trinità. “L’uomo di oggi e la fede, 1971 - Una missione d’accoglienza”
“Un’impresa intellettuale meno difficile che spedire un uomo sulla luna”
Il convegno organizzato dall’Associazione Italiana Persone Down, per trovare speranze di una nuova terapia per le persone affette dalla Trisomia 21
L’INTERVISTA AL prof. Strippoli
Essere «medici nell’animo» DI
MARTINA BONGINI
no sguardo diverso, uno sguardo attento e vivo, che non ha niente da invidiare alle cosiddette persone "normali". Chi sono le persone down? Esattamente persone che semplicemente possiedono una quantità di materiale genetico maggiore rispetto a quelle considerate "sane". A questa spiegazione scientifica però ci si è arrivati passando per innumerevoli pregiudizi e ignoranza, che troppo spesso prendono il posto della ragione e del buon senso. Fino alla metà del ventesimo secolo, infatti, si riteneva che le persone affette dalla sindrome di down, fossero il frutto di malattie come la sifilide, o di persone che facevano abuso di alcool ovvero concepiti da uomini e donne dal comportamento morale inadeguato. Nel 1958 però il prof. Jerome Lejeune, uno dei più grandi scienziati al mondo di cui però non si sente parlare spesso, fornisce una causa organica a questa sindrome, già scoperta a fine diciannovesimo secolo da John Langdon Down, ovvero la presenza di un cromosoma in più nel corredo genetico. Questa spiegazione così rivoluzionaria però non ha avuto troppa risposta nella ricerca; nonostante la sindrome della trisomia 21 sia quella più diffusa nel mondo è stata ed è la meno studiata. In questi ultimi anni, grazie anche allo studio e alla dedizione del prof. Pierluigi Strippoli (responsabile del Laboratorio di Genomica del Dipartimanto di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna) è in atto una ricerca per una terapia che possa migliorare le condizioni di vita delle persone down e piccole scoperte si stanno facendo largo nel mondo
U
scientifico. L’incontro organizzato al Parco del Mulino, dall’Associazione Italiana Persone Down (AIPD), al quale hanno partecipato oltre al prof. Strippoli anche il prof.Francesco Donato Busnelli (Professore emerito di Diritto Civile nella Scuola di studi universitari e di perfezionamento S. Anna di Pisa), il Sindaco di Livorno, Alessandro Cosimi e il Vescovo monsignor Giusti, aveva come intento quello di dare una nuova speranza alle persone down.
L’obiettivo però non è tanto quello di “prevenire” la sindrome attraverso test prenatali col fine ultimo di eliminarla, quanto quello di migliorare lo stile di vita di chi è affetto da questa malattia, raggiungendo già quegli obiettivi che l’AIPD si prefigge con l’autonomia, l’inserimento nel mondo del lavoro, il sostegno scolastico e tanti altri L’obiettivo però non è tanto quello di “prevenire” la sindrome attraverso test prenatali col fine ultimo di eliminarla, come
spiega il dott. Daniele Tornar, presidente e anima dell’Associazione, quanto quello di migliorare lo stile di vita di chi è affetto da questa malattia, raggiungendo già quegli obiettivi che l’AIPD si prefigge con l’autonomia, l’inserimento nel mondo del lavoro, il sostegno scolastico e tanti altri. Purtroppo tutelare la vita dei più deboli però non è sempre facile: se da una parte la ricerca tenta di fare passi in avanti, spesso la realtà della "giustizia" ci pone davanti a decisioni sconcertanti e particolarmente disarmanti che di certo molte volte lasciano con grandi dubbi e dilemmi. Chi è l’uomo? Forse è la domanda alla quale dovremmo iniziare a rispondere, una domanda fondamentale che troppo spesso non ci facciamo e che porta ad un duro scontro con la civiltà di oggi, come sottolinea monsignor Giusti, dove i valori si stanno smarrendo sempre di più a si sta perdendo di vista l’uomo, l’individuo. La speranza come diceva Jerome Lejeune, è quella di riuscire a trovare una terapia perché “Se trovo come guarire la trisomia 21, allora si aprirà la strada verso la guarigione di tutte le altre malattie di origine genetica”.
Trovare una terapia per la sindrome di Down "E’ una impresa intellettuale meno difficile che spedire un uomo sulla luna:" quando pensa che si arriverà a questo risultato? «È difficile fare una previsione. La storia della scienza ci insegna che si arriva ad un rimedio nel momento più impensabile. Negli ultimi anni, c’è stata una ripresa della ricerca sulla sindrome di Down e questo ha portato a grandi contributi; il clima culturale e scientifico ha rivalorizzato questa materia e se il problema può essere risolto si può lavorare per cercare un esito positivo ma i tempi rimangono un mistero». Cosa spinge un ricercatore ad occuparsi di una materia così trascurata? «Sicuramente gli incontri. A partire dal mio incontro con la famiglia di Lejeune, sua moglie i suoi figli, fino al mio ritorno in clinica per conoscere i pazienti. Mi sono accorto che il ricercatore ha bisogno di conoscere le persone da curare, il lato umano è fondamentale. Se prima pensavo di trovare semplicemente una terapia, adesso penso a trovare qualcosa che aiuti Andrea, Anna Chiara a stare meglio». Cosa ha imparato dallo studio della figura del professor Lejeune? «Lui era un esempio in tutti gli aspetti della medicina. La disponibilità e l’attenzione che rivolgeva ai suoi piccoli pazienti e alle loro famiglie, un ricercatore completamente coinvolto. Come mi disse una volta sua figlia Clara "mio padre era medico fino in fondo all’anima" e credo che noi medici dovremmo seguire il suo esempio, accompagnando il malato e non semplicemente abbandonarlo da solo con la sua terapia». m.b.