50ISSN 2611-0954
mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.
Anno 27 (Nuova Serie) – n. 1
€ 5,00
- Gennaio 2019 -
RAFFAELE MANICA
PRAZ di Carmine Chiodo
R
AFFAELE Manica, cattedratico nell’università di Roma <<Tor Vergata>>, è il maggior contemporaneista oggi in Italia, come è ampiamente mostrato dalla sua intensa attività culturale e pubblicazioni: autore di vari saggi e volumi sulla letteratura novecentesca. Da ricordare un suo volume su Alberto Moravia. Inoltre ha curato per i Meridiani Mondatori le opere di Alberto Arbasino e di Enzo Siciliano; dirige <<Nuovi Argomenti>>, collabora ad <<Alias>>. Ha vinto il premio Napoli e l’altro intitolato a Francesco De Sanctis per la saggistica. Ora con questo libro, piccolo per le dimensioni tipografiche ma grande nella sostanza critica, mette bene a fuoco la personalità e l’opera del romano Mario Praz (1896-1982). Manica è saggista e critico fine che sa ben penetrare i testi, provvisto com’è di una solida preparazione e di un gusto che lo porta ad analizzare in lungo e in largo le opere, sapendole ben contestualizzare nella cultura e nella
di
Letteratura
Italiana
Contemporanea
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All’interno: Sermonti, La voce di Dante, di Luigi De Rosa, pag. 6 La invasiva parola dell’Angelo, di Rossano Onano, pag. 9 Il sanscrito ‘Manas’ si addice a Giuditta Podestà, di Ilia Pedrina, pag. 14 Emerico Giachery Viandante, di Marina Caracciolo, pag. 17 Amor di Roma, di Emerico Giachery, pag. 18 La Grande Enciclopedia Italiana di Dario Agazzi, di Giuseppe Leone, pag. 19 Riflessioni su due opere di Domenico Defelice, di Anna Vincitorio, pag. 21 Simone Weil ‘Héroïne racinienne’?, di Ilia Pedrina, pag. 23 La poesia di Renato Filippelli, di Tito Cauchi, pag. 26 Piombanti Ammannati e “Pomezia”, di Isabella Michela Affinito, pag. 30 Classicismo nell’opera di Silvano Demarchi, di Susanna Pelizza, pag. 33 La grande Torino, di Leonardo Selvaggi, pag. 34 I Poeti e la Natura (Giuseppe Ungaretti), di Luigi De Rosa, pag. 36 Notizie, pag. 45 Libri ricevuti, pag. 46 Tra le riviste, pag. 47
RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Andar per versi, di Patrizia Riscica, pag. 38); Tito Cauchi (Il significante stupore dell’esserci, di Fulvio Castellani, pag. 39); Tito Cauchi (Nuvole vagabonde, di Vittorio “Nino” Martin, pag. 39); Emerico Giachery (Poesie (1992 2018), di Giulio Di Fonzo, pag. 40); Manuela Mazzola (Carmine Manzi Una vita per la cultura, di Tito Cauchi, pag. 41); Liliana Porro Andriuoli (In specchi di crepuscolo, di Anna Gertrude Pessina, pag. 41).
Lettere in Direzione (Béatrice Gaudy e Ilia Pedrina), pag. 49 Le nuvole vagabonde di Vittorio “Nino” Martin, di Domenico Defelice, pag. 52
Inoltre, poesie di: Emilia Bisesti, Mariagina Bonciani, Anna Maria Bonomi, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Béatrice Gaudy, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Vittorio “Nino” Martin, Manuela Mazzola, Wilma Minotti Cerini, Teresinka Pereira, Gianni Rescigno, Leonardo Selvaggi
produzione artistica del tempo in cui videro la luce. Insomma il modo di fare critica di Manica è preciso, accurato, e coglie perfettamente il significato e i diversi momenti dell’opera o dell’autore. L’opera viene vista da varie angolazioni. Non pesanti note critiche, non ragionamenti critici lunghi o e ripetitivi ma annotazioni incisive che svelano i vari momenti di crescita dell’arte di quello scrittore o autore; la scrittura critica di Manica è essenziale e
rende quindi bene la sostanza dell’opera che si esamina, la sua portata, la cultura, la sensibilità di chi l’ha scritta come nel caso di Mario Praz. Qui con la massima chiarezza e perizia critica sono scrutate e investigate le varie opere del professore Praz, che per lunghi anni ha insegnato letteratura inglese nell’Università di Roma <<La Sapienza>>. A parte ciò, la critica di Manica va subito al cuore del problema, al nocciolo della questione, istituendo cosi tutta una serie di rap-
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porti e di divergenze tra l’autore trattato e gli altri coevi. Il <<librino>> porta come illustrazione una bicicletta, difatti per raggiungere l’ Università <<La Sapienza>> Mario Praz non usava prendere il tram ma si serviva della bicicletta: <<Il Dovere mi obbliga quotidianamente ad attraversare le strade intorno a piazza Indipendenza, e, confesso, la traversata, sebbene compiuta in bicicletta, era finora uno dei sacrifici più penosi impostomi dal mio Dovere>>. Comunque Manica ci spiega e mostra molto bene chi fu Mario Praz, ed ecco che delle spiegazioni che il dizionario Battaglia registra alla voce <<romanista>>, ciò che riguarda Praz è proprio quella di <<Cultore di studi sulla storia, la letteratura, l’urbanistica e l’aneddotica della Roma medievale e moderna>>: giusta – o come scrive lo studioso - <<perfetta per dire di quell’universo manierista e barocco, poi mutevole nel passaggio dalla letteratura alla storia>>. Orbene, ora passo ad illustrare più da vicino il libro che è strutturato in questo modo: <<Ingresso>>, <<L’elzeviro verso il saggio>>, <<Croce e il diavolo, <<Roma>>, e, infine, <<Riepilogo bibliografico>>. Come va qualificato, come va definito Mario Praz? Certamente egli non è solo un critico letterario e uno studioso di letteratura inglese ma è specialmente <<un artista>>, e <<nemmeno artista letterario perché i risultati delle sue attività come collezionista di mobili, quadri e ‘objets d’art‘ sono parte dell’opera né più né meno che i libri>>. Praz fu un saggista di alta qualità che <<può interessare non solo per ciò che dice ma per come ha consegnato a tanti libri le conoscenze accumulate nel corso di una vita>>. Sostanzialmente Praz è <<uno stile, oltre che un conoscitore nel campo vario che oscilla dagli oggetti alla storia delle idee>>. Ben delineata e classificata la sua prosa che è un <<modo conoscitivo in sé, recata come è da tratti spiccati e perfino abnorme, e dunque tale da farsi identificare a vista>>. Dapprima Manica sceglie lo scrittore Praz
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che scrive <<per capitoli dall’apparenza occasionale ma poi pronti a ricomporsi in un sistema [..]>> e poi l’attenzione critica si posa sul viaggiatore, diverso da Moravia, come osserva Manica: Moravia <<diceva che un viaggiatore ha bisogno di un bagaglio leggero: una metafora della disponibilità con la quale deve porsi di fronte a ciò che guarda; Praz è viaggiatore dal bagaglio colmo e forse stracolmo: letture di preparazione, ricordi che affiorano, improvvise agnizioni culturali: <<E ancora c’è il Praz cittadino e conoscitore di Roma e dei diversi aspetti della romanità: <<un campo erudito che gli si dispiega davanti e del quale coglie fiori e rovine: soprattutto fiori sulle rovine>>. Quando si parla di Mario Praz il pensiero subito corre al libro che <<gli diede gloria>>: <<La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica>>, <<quel libro segnato dal destino e che fu anche un titolo per l’ostracismo>>. Comunque leggendo le pagine di Manica ci si fa una giusta idea di chi fu Praz e del significato della sua opera e nel contempo lo studioso si chiede: <<Ci è diventato familiare Praz? Molti dei suoi libri vengono ristampati con ininterrotta fortuna, cosa non comune per un saggista: questo è un segno della sua permanenza>> […]. Ma se sia diventato familiare resta un enigma. Certamente è un conoscitore per conoscitori, per i pochi (si crede non pochissimi) felici>>. Di questo Autore lo studioso coglie il suo <<metodo>>, la sostanza e il significato delle sue pagine, i suoi modelli ai quali si è ispirato, e cosi sono esaminate le sue opere quali <<Fiori freschi>>, <<Motivi e figure>>, <<Panopticon romano>>, <<Voce dietro la scena>>, <<Gusto neoclassico>>, <<Filosofia dell’arredamento>> (1945), e poi ancora la monumentale illustrazione del 1964 <<Il mondo che ho visto>>, <<La casa delle vite>>, per esempio. Come ancora sono ben presentate le vicende critiche (Croce) e il significato del già nominato libro <<La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica>>, questo libro di un trentacinquenne professore di letteratura inglese che
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nel 1925 ha esordito con due monografie <<e nel 1928, […] ha pubblicato un volume dedicato alla Spagna, <Penisola Pentagonale>, destinato a divenire uno dei capitoli di una serie ideale da lui dedicata al <mondo che ha visto>: un libro di viaggio piuttosto inconsueto, assolato e funebre>>. Centrate risultano poi essere le pagine dedicate agli scritti di Praz su Roma, e al riguardo viene detto che tali scritti <<andrebbero forse collocati nel repertorio del <prazzesco> (dove infatti li raduna IL Meridiano);
però il reperto vero e insieme tra i più mentalmente impegnativi per Praz è proprio di <romanista>, nell’accezione diffusa dall’ almanacco dei cultori di cose romane, la famosa <Strenna dei romanisti> che implacabilmente esce dal 1940>>. Talvolta sono dedicate a Roma pagine <<con spezie ironiche o sarcastiche>>, ed ecco che viene citata quella pagina di <<Lettrice notturna>> che, <<a rileggerla oggi, ha dell’inverosimile per come la sede della Città Universitaria della Sapienza veniva giudicata di periferia, e
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raggiungibile soltanto disagiatamente come lavoratori pendolari: <Esiste alla periferia di Roma, isolato da ogni linea di filobus, e servito solo dal più proletario dei tram, che impiega un tempo considerevole ad ingurgitare ed eruttare la popolazione dei quartieri più poveri lungo il perimetro della città, esiste tra il camposanto e l’ospedale maggiore un gruppo d’edifici di stile Novecento, alquanto abortito e dilapidato, che si orna del pomposo nome di Città Universitaria. Dinanzi, un’irsuta Minerva alza le braccia in un gesto deprecatorio>>. Nell’articolo risalente al 1948, <<Professori universitari>>, si rimpiange la sede della Facoltà di lettere a Palazzo Carpegna. L’<<incipit>> viene ancora osservato - dell’ultimo pezzo (<<Bocca romana>>) di <Panopticon romano secondo> è la sintesi dell’atteggiamento di Praz quale cultore di cose romane e quale saggista in genere: <<Di ogni grande città ci sono aspetti minori, ai piedi della storia c’è l’ aneddotica. Lo stesso per i grandi uomini>>. Un antiquario di via del Babuino, Giuseppe Antonacci, racconta che un giorno vide estrarre dalla cartella di finta pelle del professore fogli da diecimila stretti <<fra due mozzarelline avvolte in carta oleata, una michetta di pane, due pallette di spinaci già cotte. Una colazione già pronta comperata, evidentemente, nella adiacente via della Croce>>. Come spiega Manica non è <<interessante il lato di solitudine che da quest’immagine è fin troppo facile pronosticare, ma l’altro aspetto del rapporto di Praz con Roma: da una parte i palazzi, il passato, le stampe di Pinelli <per illustrare i costumi del popolo romano incafoniva gli eroi di Omero> (<<Seconda Roma>>); dall’altra gli antiquari commercianti in mobili stile Impero, gli odori e gli usi di Roma quotidiana, con i latticini, la verdura strizzata (non sarà stata romanissima cicoria?) e la circola o lo sfilatino. Ci vorrebbe un Belli di vena occasionalmente non cinica per dire fino in fondo di questo atteggiamento>>. Orbene queste pagine di Manica sono esemplari, rigorose, stringenti e serrate criti-
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camente, ricche di intuizioni e di riferimenti culturali, e perciò ci offrono un preciso e accurato ritratto di un uomo e di un artista, di uno studioso che parlò pure, tra le altre cose, di arredamento, di mobili, portandovi anche in questi argomenti le sue conoscenze e sensibilità e gusto. Carmine Chiodo Raffaele Manica, Praz, Italosvevo, Roma 2018, pp. 81, € 12,50.
I DUE GEMELLINI Sono sbocciati all’improvviso nel cortile sotto il mio balcone. Ancora ieri dormivano tranquilli in carrozzina, in attesa di uscire per la passeggiata. Stamattina correvano diritti e un po’ impacciati nel cortile, ma già cadendo sorridevano rialzandosi da soli. Come due fiorellini sbocciati durante la notte: Giorgio e Giuliano.
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La contemplo estatica, rianimata, e con un verso la saluto del Leopardi, del suo "Pastore errante dell'Asia" : <<Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai? >>. Mi fissa benevola, e nel suo linguaggio, muto ma eloquente, m'invita a confidarle i miei sospiri, i miei sogni. <<Se potessi>> le sussurro <<vincere la mia impotenza e volare fino a te ! >>. Mi strizza l'occhio e l'immagine, mitica, m'addita d'una donna stupenda: una fata? Una dea?... Ma è lei, la riconosco, è la Fantasia, l' "imaginifica" dai mille volti, dai mille colori. Mi viene incontro saltellando, mi sorride, mi stringe tra le braccia e mi porta su, sempre più su, nel grembo mi depone di Selene. A far traboccare la mia felicità giunge, su un carro dorato (forse chiesto in prestito ad Apollo), la dolce Poesia, la mia Musa ispiratrice, "il mio alito vitale". Tra brividi di gioia, vertigini ed emozioni, iniziamo a percorrere le vie del firmamento, auriga del cocchio la più bella degli astri. Divertente, oltre che interessante, girare intorno alla terra; gratificante viaggiare con sì aulica comitiva. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volt. (IS)
26 novembre 2018 Mariagina Bonciani Milano
A ZONZO CON SELENE Tacita è la notte e immobile, deserta. M'aggiro cauta, timorosa, senza sonno nel suo vuoto, sola nel tormento della mia involuzione. La luna s'impone col suo fascino nel blu trasparente del cielo e la presenza cela delle stelle con l'eccesso del suo chiarore.
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 13/12/2018 Per Berlusconi, deputati e senatori di Forza Italia son tutti sardine, nessuno in grado di sostituirlo alla guida del partito e, gli esponenti del M5S, incapaci anche di pulire i cessi. Alleluia! Alleluia! Mi domando come mai, in presenza di tanta protervia e disprezzo, ci siano ancora Italiani che lo votino. Vuoi vedere che saranno per davvero sardine e pulitori di cessi? Domenico Defelice
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“LA VOCE DI DANTE” RICORDO DI
VITTORIO SERMONTI Fece riscoprire il Sommo Poeta al grande pubblico, con le sue Letture della Commedia. L'importanza del rapporto fra la parola “scritta” e quella “parlata” o “cantata”.
di Luigi De Rosa
L
O scrittore e regista della RAI Vittorio Sermonti era chiamato anche “la voce dei classici”, per i suoi studi e le sue “letture”, oltre che di Dante, di Virgilio (L'Eneide) e di Ovidio (Le metamorfosi). Sesto di sette fratelli, figlio di un avvocato di origini pisane, aveva perseguito per tutta la vita un sogno di letteratura ed arte attraverso la radio e il teatro, portandolo ad amare e curare i classici (soprattutto Dante) come un patrimonio prezioso della cultura italiana. E' morto a Roma il 23 novembre 2016, all'età di 87 anni. A Roma era anche nato (il 26 settembre 1929) e vi aveva sempre risieduto, salvo soggiorni, anche lunghi, a Milano, o a Brema nel 1956, o a Praga nel 1967. Mentre a Torino ha soggiornato dal 1975 al 1979 come Direttore del Centro Studi del Teatro Stabile. Pochi giorni prima di morire aveva “cinguettato” su Twitter “Cari amici, mi prendo qualche giorno di riposo. I vostri commenti
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mi terranno compagnia.” A Roma si era anche laureato, in Filologia Moderna, alla Sapienza, con relatori Natalino Sapegno e Giovanni Macchia. Aveva solo questa laurea, in quanto, come aveva precisato un giorno, non... godeva di lauree honoris causa. Come docente, ha insegnato italiano e latino al Liceo Tasso di Roma negli anni Sessanta, e Tecnica del verso teatrale alla Accademia Nazionale di Arte Drammatica negli Anni Settanta, alla scoperta dell'enorme possibilità di efficacia della voce umana nei testi letterari, o comunque dell'importanza del rapporto tra la parola scritta e quella pronunciata con la voce, parlando o cantando. Pensiamo, per esempio, ad un testo letterario non dozzinale o commerciale, ma poeticamente bello, che venga cantato con voce suadente e suggestiva, sull'onda di un motivo musicale attraente, magari dal cantautore che ha scritto anche le parole. Perché non può essere poesia? (Ogni allusione al cantautore Bob Dylan, insignito del Premio Nobel per la Letteratura, è naturale... E, indipendentemente dal suo comportamento extramusicale, comunque opinabile e discutibile in quanto a coerenza e contenuti extra-artistici, nei riguardi della Giuria e del Paese che gli ha conferito il Nobel, non possono, alcuni suoi testi letterariamente validi, essere considerati poesia e quindi letteratura?). La motivazione addotta dalla Giuria è quella “di avere creato nuove espressioni poetiche...” Sarebbe interessante riaprire un discorso secondo il quale per alcuni sono da considerare poesie anche i testi delle canzoni, le cui parole sono destinate ad essere cantate, e proprio per ciò soggiacciono alle regole del discorso musicale. Non è possibile che i testi dei cantautori siano sempre, per ciò stesso, poesie; poesie migliori e molto più efficaci nei riguardi del pubblico e del successo, e della presa su masse anche grandi di pubblico (cosa estremamente rara per la poesia scritta “tradizionale”). Ma, mentre nelle parole di quest'ultima ciò che conta è il significato, l'allusione, la meditazione e la commozione in-
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dividuale, nel secondo caso è quasi sempre la melodiosità o il tambureggiamento ritmico a prevalere. Ciò non toglie che possano esistere (come sono esistiti ed esistono) dei cantautori anche poeti. A puro titolo di esempio, mi diceva un giorno Bruno Lauzi, durante la pausa-pranzo di un Premio letterario in Liguria, che da tempo, nonostante il grande successo di pubblico delle sue canzoni, sentiva sempre di più l'esigenza di scrivere e pubblicare poesie, magari con una piccola casa editrice sua, personale, per approfondire il discorso del rapporto della sua vita intima con il mondo e gli altri uomini. (Poi ha pubblicato la silloge Tanto domani mi sveglio, con Gammarò Editori, di Sestri Levante, Genova). Tornando a Vittorio Sermonti, tra i vari riconoscimenti, l'ultimo gli è stato dato nel marzo 2016, col Premio Nazionale per la traduzione, a cura del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, con la seguente motivazione: “per aver tradotto con particolare acume interpretativo ed una scrittura agile ed elegante la letteratura classica e aver affrontato le letture dantesche riconsegnando alla contemporaneità la più profonda essenza dell'opera del Poeta.” E' stato, quindi, anche un “Traduttore”. E non, come troppo spesso accade, un “traditore” dello spirito di un testo. In particolare, mi piace ricordare che Sermonti ha cercato e reso, con tutte le sue forze e capacità, l'essenza profonda del sentimento di Dante nei confronti dell'Uomo e dell'Universo, al di sopra e al di là del particolare e del contingente, sia nel campo del pensiero che in quello artistico, sia nel campo poetico che in quello morale. Senza inseguire le cronache dei nostri anni dal dopoguerra in poi, alla ricerca di eventuali corrispondenze fra usi e credenze dell'Evo Antico e del Medio Evo con comportamenti e credenze della nostra epoca attuale. Sermonti non ha tenuto in primo piano la politica dell'oggi ma la cultura, la letteratura, la poesia di sempre. Eppure non era digiuno di politica dei nostri tempi. Era stato iscritto anche al P.C.I. Anche se per meno di un anno, perché con l'invasione russa dell'Ungheria
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non aveva rinnovato la tessera. In un romanzo pubblicatogli da Garzanti nel 2016 (Se avessero) aveva anche analizzato i complessi primordi e la faticosa nascita della nuova Repubblica Italiana, (memorabile l' episodio in cui a Milano tre o quattro partigiani, dopo il 25 aprile 1945, si presentano, armati di mitra, a casa di un fratello di Sermonti, ufficiale della Repubblica di Salò. Ma non hanno bisogno ...di minacciare di sparare, limitandosi il tutto ad una animata discussione sui rispettivi punti di vista...) . Per tornare a Benigni, senza nulla togliere alla bravura dell'attore e pur riconoscendo che la politica (o la vita dei partiti) entra direttamente o di straforo in tutte le manifestazioni della vita, quanto è meglio ciò che ha fatto Sermonti con la Commedia di Dante! Senza abbandonarsi a commenti furbetti e ammiccamenti fuori luogo, l'ha registrata per intero negli studi del Terzo Programma della Rai (dove era entrato come funzionario all'età di vent'anni dopo gli studi classici e l'esame di latino superato con Ettore Paratore). Forte della sua esperienza di oltre cento regie radiofoniche (dal 1958 al 1984), del suo lavoro come attore insieme a Renzo Ricci, Vittorio Gassman, Carmelo Bene e Paolo Poli, e della lettura di un saggio dello studioso Gianfranco Contini su Dante (definito “semplicemente strepitoso”) ha mandato in onda un primo ciclo di letture radiofoniche dal 1987 al 1992, introdotte da cento racconti critici. Ha trasmesso l'intera Commedia, poi il tutto è stato stampato in un libro da Rizzoli. Ma soprattutto, poi, sono venute le letture dantesche pubbliche di Sermonti, non in Senato come Benigni (no comment) ma in luoghi più “adatti” e suggestivi, come la Basilica di san Francesco a Ravenna, il Pantheon e i Mercati Traianei a Roma, il Cenacolo di Santa Croce a Firenze, Santa Maria delle Grazie a Milano, Santo Stefano a Bologna. Anzi, i Canti di Dante li ha letti non solo in tutta Italia, ma anche all'estero. Nella vicina Svizzera come in Spagna e Gran Bretagna, con puntate in Sudamerica (Argentina, Cile e Uruguay) o in Israele o in Turchia. Ad ascoltarlo erano in
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migliaia, tra cui moltissimi giovani, anche, se necessario, con un sistema di altoparlanti sui sagrati, e avvinceva in modo particolare l'uditorio perché non solo leggeva i Canti, ma li “spiegava”, con tutta una serie di qualificate e approfondite considerazioni di critica letteraria. I Canti della Commedia, com'è noto, sono pieni di personaggi, di fatti ed episodi storici. Ebbene, Sermonti quei fatti e quei personaggi li “raccontava”, aumentando di molto l'interesse degli ascoltatori, ammaliati e in “religioso silenzio”. Nel più assoluto silenzio spaziale l'avrebbe un giorno ascoltato anche l'astronauta militare italiana ingegner Samantha Cristoforetti (“Lo ascoltavo leggere Dante sulla ISS (Stazione Spaziale Internazionale) con la Terra che scorreva sotto gli occhi. Valeva la pena andare nello Spazio anche solo per quello.”) Anche lui si era messo in gioco di persona, favorito da una suggestiva presenza in scena, da una forte esperienza teatrale, da una voce ben impostata, profonda e suadente. Nella convinzione della immensa utilità, per un testo letterario, derivante dall'essere espresso da una voce appassionata e fedele al proprio Autore. Ma appoggiandosi, comunque, sul piano tecnico-letterario, a due indiscussi Maestri della dantistica, quali Gianfranco Contini e Cesare Segre. “Di Dante, come degli altri classici – come acutamente ha notato, fra l'altro, la scrittrice vigevanese Bianca Garavelli, dantista e collaboratrice de “L'Avvenire”, in una prima rievocazione subito dopo la morte dello scrittore, Sermonti “sapeva mettere in luce la natura profonda, in cui splende una vocazione narrativa che anticipa la scrittura moderna. Trasmetteva con la lettura quanto fossero centrali nella sua opera i personaggi, per la sua capacità unica di esprimere in poesia concetti propri della filosofia e della scienza attraverso la creazione di figure statuarie, eppure autentiche, scolpite nella storia prima che nei suoi versi.”. “ Non saremmo giusti e obbiettivi, comunque, se non ricordassimo che questa fortunata e meravigliosa attività di Lettore e di divulga-
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tore non si sarebbe manifestata in tale fulgore ed efficacia se non vi fossero state, dietro le quinte, la preparazione, la tenacia e la cura preziosa della poetessa e drammaturga Ludovica Ripa di Meana, sposata da Sermonti in seconde nozze nel 1992, e che, dal 2009 al 2012, ha curato, con grande amore, la regia e la versione definitiva di tutte le “letture” del suo Vittorio riguardanti Dante, Virgilio e Ovidio. Quanto al pensiero della Morte, a Sermonti “scocciava” pensare che un giorno o l'altro avrebbe dovuto morire. Aveva, anzi, teorizzato l'inesistenza della Morte. Ci sono solo organismi che nascono e muoiono, singolarmente, in solitudine, ma la Morte di per sé non esiste. Illusione d'artista ... Luigi De Rosa
Penso alle lacrime di mio padre dalla povertà costretto a 16 anni a lasciare la scuola per guadagnarsi la vita E penso a dei giovani di oggi che appiccano il fuoco alla propria scuola per mimetismo per divertirsi per affermarsi e soprattutto per mancanza di senno sotto l’occhio freddo delle telecamere di sorveglianza Ma quale luogo pretenderebbe ancora essere quello della trasmissione del Sapere quando tanti giovani hanno Internet su di loro in una tasca di uno dei loro vestiti ? Che cosa rappresenta la scuola all’era della disoccupazione dei laureati ? E dove è la stessa nozione di responsabilità quando non esiste più libertà che non sia sorvegliata ? Béatrice Gaudy Parigi
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La invasiva parola dell'Angelo GABRIELE BELLUCCI, ALDO GIORDANINO, MARIO FULVIO GIORDANINO, ANNA VINCITORIO
di Rossano Onano
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ON la poesia è più facile. Più difficile confezionare un volume antologico di narrativa, spiega in Nota Introduttiva Eugenio Rebecchi, curatore della collana “Ricerche”, Blu di Prussia Editrice. Qui, lo faccio perché mi imbatto in belle scritture, continua presentando l'ultimo volume edito: Come ruota di Pavone, colore e forma in libero spazio narrativo, 2018. Raccoglie i testi di quattro autori, eterogenei quanto a formazione e collocazione geografica: Gabriele Bellucci, Aldo Giordanino, Mario Fulvio Giordanino, Anna Vincitorio: i testi, quando di elevata caratura, assomigliano alla ruota del pavone che, per colore e forma, è sicuro segno di bellezza.
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Sarà, a me il pavone ricorda soprattutto che Trimalcione li serviva a tavola accompagnati a salsa rancida di pesce. E, comunque, è difficile che l'inconscio, che sempre guida le nostre scelte, si accontenti di criteri puramente estetici. Deve esserci per forza un filo rosso che accompagna la trama di scrittura dei quattro autori. Mi accosto alla lettura, col proposito di trovarlo. Gabriele Bellucci (Firenze, 1971- Fiesole, 1994). La biografia degli autori è posta in coda al volume. Ho quindi letto Gabriele senza la doverosa pietà suggerita dalla sua precoce scomparsa. Bene così, il giudizio è stato affidato alla sola qualità della scrittura. Rebecchi sottolinea la capacità di Gabriele Bellucci di saper disegnare il disagio esistenziale attraverso una storia di sofferenza e di amore, avvalendosi di un linguaggio lucido e preciso. La storia: “Sono affetto da depressione”, chiede aiuto l'uomo ancora giovane afflitto da dolore per la morte recente della moglie. Il guaio è che chiede aiuto a uno psichiatra evidentemente sprovveduto, mi sembra di capire al di là dell'intenzione narrativa dell'autore. Lo psichiatra si perde infatti nel narcisismo esplicativo, parlando in inglese (“crisis opportunity”) come i medici antichi parlavano in latino, per giunta perdendosi in distinzioni capziose (“Lei non mi sta descrivendo una depressione, bensì quella che io definisco una depressione psicotica”). Esaurito il cerimoniale verboso, lo psichiatra somministra i suoi farmaci, prenda così e così, e arrivederci. Fortunatamente, il vedovo ha una colf che lo indirizza verso una guaritrice, una specie di fattucchiera. La quale, sia pure con linguaggio alquanto retorico (“lei cerca la luce che sta al di fuori e ne rimane bruciato, non quella che proviene dal di dentro e che la può illuminare”) affronta in luogo dello psichiatra la psicopatologia del lutto (perdita dell'oggetto amato) e delle risorse psichiche necessarie per superarlo (progettare una immagine di sé, priva dell'oggetto amato). Il grado estremo della depressione è la Sin-
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drome di Cotard, una specie di delirio d'immortalità, ove l'uomo si sente condannato a soffrire eternamente. Il nostro vedovo, siano le pastiglie dello psichiatra, siano le parole della fattucchiera, riacquista la capacità di progettare, e progetta per sé l'azione risolutiva della morte. Il finale è catartico: l'uomo si butta da un dirupo; un ramo frena la caduta; l'uomo emerge dal dirupo incamminandosi verso casa, portando in cuore una serenità nuova eppure antica. Nulla di patetico: è appunto l'idea della morte che conferisce all' uomo la consapevolezza d'essere in vita. Heidegger: essere per la morte. Aldo Giordanino (Asti, 1966). Economia e Commercio, narratore e saggista. Curriculum da trafficante osservatore del mondo. Rebecchi: Aldo Giordanino pesca nella storia per stendere la sua narrazione su un piano di autenticità anche quando sorprendente e inaspettata. La storia: Ospedale di Messina, 1571. Il giovane Miguel rivive, nel delirio febbrile, la battaglia di Lepanto cui ha partecipato, riportando una ferita al petto e la mano sinistra squarciata. Pio V ha chiamato a raccolta la cristianità contro gli Ottomani. Hanno risposto Spagna, Genova, Venezia, Cavalieri di Malta e Savoia. La Francia no, già allora andava per conto suo. La flotta cristiana, e la turca, si approssimano alla costa greca detta “Punta della Scrofa”. La scrittura di Giordanino è secca, da storico, volutamente lontana dall'introspezione. La narrazione epica è da sempre soggetta a una regola aurea: descrive generosamente gli eserciti contrapposti, schierati a fronte della battaglia: Le navi alleate si disposero con un'ala sinistra comandata da Agostino Barbarigo, una destra sotto la regia dell'ammiraglio genovese Andrea Doria e un gruppo al centro dello schieramento ai diretti ordini di Don Giovanni d'Austria, guida dell'intero contingente cristiano. Innanzi allo schieramento alcune galeazze veneziane, dotate di potenti cannoni: artiglieria marina. Le navi turche sono più numerose, ma non così armate. L'ammiraglia cristiana innalza lo stendardo del Redentore, dono del
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Papa. Turchi e Saraceni pregano. Subito dopo le ammiraglie si scambiarono due salve in guisa di saluto. Oh gran bontà de' cavalieri antiqui! Bontà che finisce a termine della battaglia, perché l'epica è una cosa, l'umana ferocia è un'altra: I vincitori non esitarono a mozzare le dita dei cadaveri e degli agonizzanti, per appropriarsi di anelli e preziosi. Il giovane Miguel, in ospedale a Messina, ritorna con la memoria alla battaglia cui ha partecipato, commisera la propria mano sinistra sconciata. Di tanto in tanto appare una ragazza bellissima, aveva gli occhi fra il verde e il nocciola, insomma aveva gli occhi color pistacchio. La ragazza amorosa prendeva fra le sue mani la mano sinistra di lui oramai storpia, poi la destra pronunciando a Miguel la frase del commiato: Questa mano scriverà delle cose fantastiche. La ragazza amorosa scompare lasciando al letto dell'infermo alcuni fogli di carta, una penna e un calamaio. Il nome dell'infermo, per esteso: Miguel de Cervantes Saavedra. Il quale rivendicò per tutta la vita la propria presenza a Lepanto. Così come Eschilo la propria presenza a Maratona, prima che l'aquila sganciasse la tartaruga sopra l'eroica testa pelata. Mario Furio Giordanino (Asti, 1936). Libero professionista, professore di Geografia Generale ed Economia. E' il padre di Aldo. Anche il suo racconto è collocato in clima guerresco. Mario Furio appartiene, anno più anno meno, alla mia generazione. Sembra di capire che Aldo da piccolo giocasse liberamente con le pistole giocattolo che papà Mario Furio gli offriva, giocando amorevolmente con lui. La pedagogia attuale vieta ai bambini l'uso delle armi giocattolo, infatti scomparse dagli scaffali dei regali natalizi. Un atteggiamento pedagogico contrario, oggi minoritario, considera le armi giocattolo uno strumento salutare, atto a scaricare attraverso il gioco l'ontologica aggressività del bambino. La pedagogia, come tutte le scienze teoriche, procede per asserzioni assolute. Un fatto è questo: i bambini della mia generazione giocavano liberamente con le armi giocattolo, risul-
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tando da adulti meno aggressivi degli attuali ragazzini che maneggino lo smart phone. Rebecchi: Diverso (rispetto al figlio Aldo) è l'approccio che Mario Furio Giordanino ha con la storia che fa soltanto da sfondo ad un racconto i cui protagonisti sono anonimi personaggi di vicende moderne. La storia: 3 ottobre 1944. Isabel, 16 anni, diventa staffetta partigiana, porta messaggi ai compagni attraversando, in abito maschile, i deserti passi montani. Piero, l'innamorato, e Luigi, il fratello di Isabel, sono appostati nel passo attiguo, intenti a fare fuoco su chi portasse munizioni ai reparti repubblichini. Non riconoscono la ragazza e “spara!”, è lo stesso Luigi che incita Piero. La distanza è notevole, 300 metri. Quasi una macabra sfida alla giostra del tiro a segno. “Non ce la fai”, dice Luigi. “Ce la faccio”, dice Piero e fa fuoco. Fucile '91 a canna lunga, lento da ricaricare ma preciso anche alle grandi distanze. Isabel è abbattuta. Il suo corpo verrà riconosciuto il giorno dopo, e tumulato ai piedi della roccia. Piero e Luigi, ugualmente colpevoli, murano fra due pietre, in cemento, il bossolo che ha ucciso la ragazza. Data la posizione, il bossolo non è murato perfettamente, la parte forata esce obliquamente verso l'esterno. Quando tira il vento il bossolo, colpito dal soffio d'aria, emette un leggero sibilo, poco più di un sospiro. E' la voce di Isabel, insieme ammonimento e perdono: Isabel si lamenta, ci ama, non vuole sentire parole d'odio. Una cosa è il perdono, altra cosa è il senso di colpa, che permane. Piero e Luigi si separano, per sempre. Anna Vincitorio (nata a Napoli, oggi stanziale a Firenze. Per vezzo femminile non declina la data di nascita, ma semina in biografia indizi importanti: laureata in Giurisprudenza; si occupa attivamente di letteratura, poesia, critica letteraria dal 1974; docente di materie giuridiche ed economiche dal 1976). Rebecchi: (Anna) parla del dolore e della sofferenza umana; punta lo sguardo sulla cronaca vergando pagine di intenso realismo con il garbo dell'eleganza, ma con la risolu-
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tezza di una scrittura senza compromessi. La storia ha un incipit straniante: Giuseppe ha conseguito il diploma e passeggia, più rabbuiato che pensoso, lungo la sera estiva di Palermo, città stranamente descritta come fosse una tela di Magritte: case vuote senza porte né finestre, bianco l'interno, silenzio all'intorno. La prospettiva è Firenze, facoltà di Architettura. Ove Giuseppe approda portando per sé la fama di frocio, definita per lui dai liceali palermitani. I quali non esageravano in malizia, dal momento che già Liviana, volonterosa insegnante d'italiano, aveva intuito in Giuseppe una incerta definizione di genere. “Libera il tuo io”, gli suggeriva. Bella frase, utile soprattutto, da indirizzare a chi appunto è incapace di definire l'io. Giuseppe vive nascostamente la propria condizione. Nulla può dire al papà, fiero agente di Pubblica Sicurezza. Nulla può dire alla mamma che: cosa fai nel bagno?, chiede giulivamente complice, quando invece il figlio quasi tutte le sere prima di uscire si chiudeva nel bagno e con la ceretta scaldata a lume di candela si depilava il volto e le gambe. Meglio, in fondo, i compagni di scuola che: frocio! gli dicono, almeno definendo una sia pure dispregiata condizione esistenziale. Parere mio personale: sarebbe servito a Giuseppe, in luogo della brava Liviana, un valoroso insegnante di filosofia: il primo essere umano comparso sulla terra era nello stesso tempo uomo e donna, garantisce Platone, sotto questa forma perfettissima creato appositamente da Zeus. Ciò che nascostamente si fa, nascostamente si soffre. I lettori sospettosi, quorum ego, a questo punto sono attraversati dal timore che Anna possa cedere alle due tentazioni connesse a una tematica di questo tipo. Consiste, la prima, nell'adozione di un fastidioso patetismo introspettivo. La Vincitorio è di formazione giuridica, sa bene che l'uomo manifesta il mondo interiore (carattere: ciò che sono) attraverso le scelte comportamentali (personalità: ciò che agisco). Accompagna infatti il giovane lungo il corso di vicende che sembrano precipizio etico, e sono viceversa
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(anche) progressiva scoperta della propria autentica espressività affettiva, La seconda tentazione temuta dal lettore è il possibile approdo della Vincitorio all'orrida, seppure attualissima, narrazione dell'acting out, la fine del tormento omosessuale tramite la fiera proclamazione di sé che l'omosessuale fa al mondo. Come se il problema riguardasse il prossimo che non accetta l'omosessuale, e non viceversa l'omosessuale che fatica ad accettare se stesso. E' la madre che accompagna Giuseppe nel percorso di autocoscienza: L'uomo è il capo, bisogna seguirlo, a lui soltanto ubbidire, ci ripagherà più tardi della nostra dedizione nell'atto di amore. La madre insegna la sottomissione, Giuseppe si sottomette per essere come la madre, dapprima nascostamente in auto e poi apertamente nell'esercizio dell'omosessualità mercenaria. Per essere come la madre: la sua omosessualità è appunto ricerca e sottomissione al feticcio dominante della scomparsa figura paterna. Acquisita coscienza della propria diversità, resta a Giuseppe l'azione decisiva dell'accettazione. E' sparita di scena la brava insegnante Liviana e, parere mio, nessuno specialista dell'anima è comparso a sostituirla. L'accettazione interviene per via ineffabile. A ciascuno di noi tocca una personale via di Damasco, è sufficiente spalancare il cuore per cogliere il messaggio. Giuseppe, oramai arreso, segue in veste femminile la processione di Santa Rosalia, si commuove e prega, trattiene per sé le parole di Cristo nel Vangelo di Luca: I suoi molti peccati le sono perdonati, poiché ha molto amato. Una tenerissima ombra maschile lo raggiunge di notte nel sonno. La salvezza è, anche, una sofisticata operazione di narcisismo. Narciso non è bello perché è bello, è bello perché si piace. Giuseppe, pacificato e bello di sé, può finalmente consegnarsi all'amore del mondo. Come ruota di pavone, colore e forma in libero spazio narrativo, dice Eugenio Rebecchi apponendo appunto il fantastico uccello in copertina. Per la verità, la bellezza del pavone è addirittura ridondante Quando invece i quattro autori antologizzati hanno in comune
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la parola agile, attenta e sempre lodevolmente sobria Vale la pena annotare come tutti, ad eccezione del giovane Gabriele Bellucci, abbiano formazione o addirittura pratica di materie economiche o giuridiche. Nelle scienze psicologiche si chiama insight (intuizione) la capacità di cogliere il cuore di un fenomeno attraverso uno sguardo onnicomprensivo, “di prima intenzione”, per l'esclusivo supporto dei dati emozionali ricavati dalla percezione. L'insight procede per associazioni mentali inconsce, a volte caleidoscopiche e complesse (frammenti memoriali indotti), a volte elementari (semplici assonanze ideiche o verbali). Procedendo nella lettura degli autori antologizzati da Rebecchi, mi rendevo conto che la memoria mi rappresentava, a flash improvviso una prima volta e successivamente come immagine domestica e indotta, l'Annunciazione del Beato Angelico al Convento di San Marco. Anche quella di Simone Martini agli Uffizi, dove tuttavia la Madonnina è tanto gotica e sinuosa da sollecitare a me sensazioni non del tutto ineffabili, cosicché preferisco censurare l'immagine ritornando ogni volta alla composta Vergine dell'Angelico. In ogni caso, lo spazio compreso fra l'angelo annunciante e la donna è occupato dalla parola. “La parola dell'angelo” non è una parola qualunque: è la parola che totalmente invade e condiziona l'agire in vita del soggetto che ascolta. Ecco, i quattro personaggi messi in atto dai nostri autori hanno avuto a che fare, sotto diversa forma, con la parola dell'angelo. Nel racconto di Gabriele Bellucci la parola è pronunciata all'esterno del soggetto che ascolta, traslata sulla bocca di una fattucchiera stranamente esperta di filosofia esistenziale. Nel racconto di Aldo Giordanino la parola è posta sulla bocca di una misteriosa creatura femminile, che tutti noi immaginiamo giovane e bellissima. L'angelo di Mario Fulvio Giordanino si limita a fischiare dalla fessura di un bossolo d'arma non perfettamente murato; il fischio è tradotto in messaggio d'amore universale all'interno delle stesse persone che
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ascoltano. L'angelo di Anna Vincitorio è il più sofisticato: parla attraverso messaggi culturali coreografici (la processione di Santa Rosalia), oppure dolorosamente proverbiali (la remissiva cultura materna). L'angelo ha parlato, oppure ha fischiato, in ogni caso si è fatto sentire. I personaggi dei nostri quattro autori si sono comportati, tutti, come la Madonna dell'Angelico: hanno aperto la porta; hanno ascoltato; hanno, soprattutto, voluto capire. Eugenio Rebecchi avverte, in Nota Introduttiva: Gabriele Bellucci non è più fra noi. Gabriele è morto all'età di 23 anni. La sua descrizione della depressione, intesa come destrutturazione della dimensione temporale dell'esistenza, è tanto precisa da indurmi a pensare che di questa condizione il giovane Gabriele possa avere sofferto. Mi sono ritrovato a formulare una preghiera per lui, inter me ipsum, indirizzata a Colui che ascolta. Rossano Onano GABRIELE BELLUCCI, ALDO GIORDANINO, MARIO FULVIO GIORDANINO, ANNA VINCITORO: COME RUOTA DI PAVONE, colore e forma in libero spazio narrativo, a cura di Eugenio Rebecchi (Blu di Prussia, 2018)
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Parole, carezze, gesti quotidiani tornano senza fine alla mente; semplicemente mancano. Non bastano i ricordi, le fotografie, gli odori e le risate. Ti cerco nei miei sogni, nelle tradizioni contadine, nel desiderio di un museo per la città, nelle tele ora vive più che mai, nei valori che hai donato … ti inseguo nelle nuvole che scorrono all’orizzonte, nelle onde del mare che s’infrangono sui miei piedi, nel vento leggero che accarezza il mio viso, ma senza successo. Poi, quasi per caso, scruto i riflessi nello specchio, fisso la lastra gelida e ritrovo i tuoi occhi, il tuo sguardo eloquente anche se muto; solo che lo sguardo rivelato è il mio, lo stesso colore, la stessa intensità. Sbircio nell’anima e mi rincuoro perché sarai sempre con me. Io, sono una scheggia di te tutto il resto è solo rumore. Emilia Bisesti Pomezia, RM
AIR TOUT SOURIRE Le long du sentier de trèfle et chiendent j’ai redressé un escargot renversé. Merci semblait-il me dire de ses tentacules affolis. Soleil à l’improviste doux, air tout sourire et entre les cannes de bambou psalmodiant le rossignol en prière. Domenico Defelice Traduction de Béatrice Gaudy
RIFLESSI NELLO SPECCHIO L’estate interminabile ora innanzi avrà un nuovo sapore. Una saetta ha lasciato uno strappo nel cuore.
DESIDERIO DI FUGA Che freddo dentro il cuore quando la solitudine, discinta e bugiarda musa, copre tutta la tua storia e un vuoto assoluto assurge a padrone della tua vita. Come un foglio scritto, dolorosamente accartocciato l’anima non ode più le antiche tenere parole. Un crescente desiderio di fuga appare sempre più vivido nel cupo cielo plumbeo. Anna Maria Bonomi Roma
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IL SANSCRITO 'MANAS' SI ADDICE A
GIUDITTA PODESTÀ di Ilia Pedrina
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NA ragazza di ieri, coltissima, dinamica e determinata, in viaggio dall'Italia verso l'Europa, verso il mondo, grazie alla sua predilezione per le letterature comparate e quindi per le lingue, messe a confronto a partire dai testi. Ringrazio, lo si capisce chiaramente, l'Amico Giuseppe Leone per avermi fatto dono del prezioso testo da lui curato 'L'ottimismo della conchiglia - Il pensiero e l'opera di Giuditta Podestà fra comparatismo ed europeismo, del 2014, per i tipi della Franco Angeli di Milano, un testo che apre orizzonti nuovi alla critica letteraria e alla metodologia della comparazione testuale anche in funzione delle traduzioni dalle lingue di partenza alle lingue d'arrivo. Giuseppe Leone firma la presentazione di questa protagonista intellettuale del nostro tempo, Giuditta Podestà, meritevole in senso assoluto di attenzione nel diffonderne opere, intendimenti rivoluzionari, progettazioni costruttive per avviare alla nuova dimensione interculturale di un'Europa dei popoli, delle culture, delle differenze. In circa cinquanta pagine suddivise in accurati paragrafi esplicativi, l'Autore ci offre il profilo della studiosa, spesso chiamata 'professoressa' e basta, perché il suo modo disinteressato di dare a piene mani tutta la ricchezza di contenuti che ella stessa ha vissuti come preziosi, era, è e rimane dono pedagogico insostituibile: Giuditta Podestà e la modernità del suo 'umanesimo' (pp. 15-17); Franz Kafka e il 'ramoscello d'olivo' (pp. 1722); Kafka e Pirandello: 'falsi filosofi o poeti falliti' (pp. 22-24); 'Image' e mito dei visitatori stranieri nel nostro Paese (pp. 25-27); Il comparatismo in Europa per una cultura di
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pace (pp. 27-30); L'image dell'Oriente nella letteratura romantica europea (pp. 30-33); Tanta avventura e poca fortuna del realismo in Italia (pp. 33-36); Una letteratura per l'Europa Unita (pp. 36-40); Conclusioni. Giuditta Podestà: una nuova figura d'intellettuale (pp. 41-47). Per questo primo approccio mi oriento subito su due aspetti che emergono come necessari dal contesto di sintesi, il contributo di Luigi Vittorio Ferraris 'Da Wolfsburg un ricordo di Giuditta Podestà' (pp. 109-115) e la mirabile stesura di Giuditta Podestà 'Arturo Farinelli e il comparatismo letterario' (pp. 203-220), inserito in Appendice. Da Olginate a Wolfsburg, affinché la cultura diventi concretamente condivisa. Prima di diventare adulti, si è sempre ragazzi. Non è così ovvio se oggi, in qualche conferenza, studiosi sottolineano che il genere letterario del carteggio è ormai scomparso perché il tempo si è compresso e la velocità dei messaggi in rete prende il sopravvento sulla stesura scritta a mano o a macchina ad amici, innamorati, studiosi, Maestri insostituibili. Giuditta Podestà, da ragazza, riesce quasi inconsapevolmente a tener testa ai mutamenti anche durissimi del nostro tempo perché sceglie percorsi dinamici, in modo deciso pragmaticamente ed ispirato coerentemente: dalle terre lombarde prende l'esempio di una concreta necessità di agire, senza mezze misure ad intervalli interminabili l'una dall'altra, restando quindi sempre 'mezze', a metà; dalle terre liguri prende vigore in lei il costante richiamo dell'altrove che il mare e tutto il vento che ne accompagna la sostanza portano sempre con sé; dalle terre d'oltre oceano cattura l'attenzione su quanto il continente Europa sa ancora mantenere in luce, quasi infinita miniera di valori, per avviare percorsi di letteratura e di letteratura comparata. Il primo aspetto è relativo al profilo che ne trae appunto Luigi Vittorio Ferraris, 'Da Wolfsburg un ricordo di Giuditta Podestà', attento osservatore ed interprete della realtà operaia italiana emigrata nella piccola cittadina tedesca di Wolfsburg, sede della Volkswagen, alla
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sua lenta e sofferta integrazione nel tessuto connettivo sociale della comunità tedesca, che in quella zona vicino ad Hannover aveva di storico solo il castello, fino alla costituzione, proprio grazie all'intervento concreto e illuminato della professoressa Giuditta Podestà, di un fitto insieme di eventi a coronare il duplice versante italo-tedesco della cultura e della vita di questa cittadina, resa così di respiro internazionale. In questo modo si precisa il percorso da Olginate a Wolfsburg, passando attraverso tutta l'esperienza, la preparazione, le scelte della studiosa Giuditta, certo affascinata dalla propria capacità di comprendere e condividere senza riserve tutti i patrimoni materiali e immateriali d'ogni tempo e d'ogni società identificata nella sua cultura d'appartenenza. Sostiene L. V. Ferraris: “... A me preme ricordarla non solo per quanto riusciva ad organizzare a Olginate - una grande esperienza personale sul piano umano e intellettuale - ma soprattutto per quanto ha saputo fare nel volgere di pochi mesi a Wolfsburg, in Germania, nell'assolvere un incarico affidatole dal Ministero degli Affari Esteri...” (L.V. Ferraris, op. cit. pag. 109). Toccanti tutti i riferimenti alla vita degli operai italiani nelle baracche e poi, via via, in condizioni sempre precarie anche a causa della dura conclusione del secondo conflitto mondiale, ai resoconti che lasciano non certo in ombra ogni dilatazione che la riflessione sia in grado di operare: “... Lentamente - troppo lentamente! - la comunità degli italiani, l'unica comunità straniera presente a Wolfsburg, diventa una vera e propria minoranza compatta in una città operaia in espansione. Gettano radici con alcuni matrimoni con tedesche e con l'arrivo graduale delle famiglie. Si abbandonano - finalmente! - le baracche e i dormitori e si mette su casa: si può finalmente mangiare meglio e si può trovare il modo di passare le serate e le domeniche; i bambini arrivano e vanno a scuola, la comunità italiana si consolida in una prospettiva non più provvisoria...” (Ibidem, pp. 110-111). Tre le ragioni fondamentali che lo studioso fa emergere affinché ci siano la forza e le circostanze per la
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costituzione di un ISTITUTO CULTURALE ITALIANO A WOLFSBURG, che Giuditta prende complessivamente in considerazione agendo di conseguenza, senza mezze misure e senza frapporre indugi: '… Il primo: l'impressione o persino la convinzione che le autorità diplomatico-consolari italiane in Germania poco si occupino della particolare natura di Wolfsburg e dei problemi dei suoi italiani: vengono apertamente accusate di mancanza di sensibilità...Un secondo aspetto:...nostalgia e insoddisfazione si mescolano e su questa incertezza psicologica e sentimentale le organizzazioni politiche fanno leva sostenute dai partiti di riferimento in Italia, che ben poco comprendevano dei problemi dell'emigrazione. Trovano in Italia, persino nel Ministero degli Esteri, una sponda demagogica, la quale si manifesta con provvedimenti legislativi irrazionali, anzi dannosi... Una ricaduta di questa evoluzione è sostenuta - terzo fenomeno – dal positivo inserimento dei lavoratori italiani nelle strutture sindacali tedesche. I sindacati tedeschi hanno avuto (e hanno) il grande merito di volere e sapere integrare i lavoratori stranieri senza alcuna discriminazione... I lavoratori di Wolfsburg si rendono gradualmente conto che ben diverso deve diventare il loro legame con l'Italia...' (op. cit. pp. 111-112). Sono così poste le basi tecniche e pratiche, culturali e programmatiche, politiche e professionali per la costituzione proprio a Wolfsburg e non nella vicina Hannover dell'Istituto Culturale Italiano, con alla guida, nel novembre 1985 proprio Giuditta Podestà '… una professoressa assai colta dalle 85 accattivanti maniere e dal tratto estremamente cortese e molto signorile. Vi si nasconde al tempo stesso una tempra energica e capace professionalmente, un'organizzatrice infaticabile. Tutti talenti molto preziosi e rapidamente apprezzati... Nel novembre 1986 per raggiunti limiti di età Giuditta Podestà lascia Wolfsburg ma il seme era stato gettato copiosamente e con grande acume e lungimiranza ed era destinato a crescere e a fiorire, sino ad oggi...' (ibid. pp. 113 - 114). Niente di più interessante, allora, è l'ascolta-
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re Giuditta stessa mentre prepara, pensa e scrive note profonde sull'intellettuale letterato e comparatista Arturo Farinelli: sa lottare, con prove tecniche di competente preparazione alla mano, e dimostra che lo studioso non si lascia superficialmente affascinare da una spolverata di romanticismo estetizzante e coinvolgente tutte le sfere dei sentimenti e degli approcci alla realtà, anche culturale: infatti '… il suo misticismo romantico viene profilando una moderna concezione umanistica di cultura che nulla ha a che fare con gli esiti irrazionali solipsistici orgogliosi del tardo romanticismo, ma che - se mai - attraverso l'influsso della scuola letteraria di Zurigo, da lui appassionatamente frequentata negli anni giovanili del politecnico, si può far risalire agli sviluppi svizzeri della scuola prussiana... W.von Humboldt con tutta la sua vita, con i suoi studi, con la sua poesia, con la sua cultura, per Farinelli incarna l'ideale dello spirito geniale, descritto così efficacemente nei versi dello stesso Humboldt... Farinelli mostra quanto sia nel vero questo studioso che sa far rivivere la civiltà dall'interno, ma che sa anche attingere alle testimonianze del mondo classico antico... L'indagine filologica sull'origine del linguaggio basco con tutte le implicanze che Humboldt ad essa connette, rappresenta secondo Farinelli l'anticipazione di un metodo rigorosamente verace, che scopre la segreta vita e le segrete origini delle verità storiche... Farinelli sottolinea come nello sviluppo semantico del linguaggio H. scopra gli sviluppi delle potenzialità storiche e via via nella linea evolutiva del linguaggio ravvisi il passaggio dal generico all'individuale, dalla preistoria alla storia, e sondando le fonti misteriose e sempre creative e rigenerative del linguaggio riveli le origini della libertà individuale nonché dello sviluppo morale e intellettuale, potenziali e intrinseche nel divenire del linguaggio...' (Giuditta Podestà, Arturo Farinelli e il comparatismo letterario, op. cit. pp. 204-206). Allora, dopo aver ben appreso le lingue antiche e moderne, con la mente ed il cuore uniti assieme in inscindibile fusione che appas-
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siona; dopo aver attraversato esperienze di alto livello conoscitivo ed etico; dopo aver aperto la propria dimensione domestica, familiare ed etica alla fruibilità sociale che allarga all'infinito gli orizzonti della critica letteraria e del comparatismo, Giuditta Podestà merita un approccio non superficiale, perché tutto il suo impegno nel diffondere cultura e conoscenza, nell'aprire occasioni dinamiche di contatti e di dialogo, nel mettere in movimento progetti preziosi e consistenti, sempre concretamente validi, è stato proprio frutto di profonda ispirazione spirituale: l'antico termine sanscrito 'manas', che sintetizza la forza della mente e del cuore in simbiotica amalgama, le si addice perfettamente e va ad animare le radici ancora vitalissime di tutta la sua produzione e dell'Archivio stesso delle attività intorno a quel mondo accogliente e privilegiato che è il Centro dell'ex Convento di Santa Maria la Vite in Olginate, invitando alla lettura dei suoi testi e dei suoi progetti portati a compimenti con strenua determinazione, affiancata dal fratello Giuseppe, ed ora dal nipote Dario, mettendoci in cammino per un ulteriore approccio ed approfondimento consapevoli. Perché l'Italia, l'Europa tutta, il mondo si aprano a questa generosa offerta, radicata nei territori dinamici dell'intuizione spirituale e dell'ispirazione progettuale mai vanificate. Ilia Pedrina
QUI AIME NE HURLE PAS Qui aime ne hurle pas. L’amour ne se nourrit pas de paroles, mais d’attentions et de silences. Quand l’âme chante les yeux et quelque furtive caresse disent les paroles. C’est la haine qui hurle, ainsi que la [vengeance, et, non toujours, la douleur. Domenico Defelice Traduction de Béatrice Gaudy
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EMERICO GIACHERY VIANDANTE di Marina Caracciolo un piacere del tutto particolare leggere le venti pagine di questa deliziosa operina, nitida ed elegante come un elzeviro, intrisa di avventure, di viaggi, di incontri, di personaggi e di memorie. Poesia in prosa che si dipana in una sorta di fatale andare nel tempo e nei luoghi, senza seguire un itinerario ben preciso, ma volendo piuttosto procedere per associazioni di idee, fra mutevoli incantamenti dell’anima, in un’ansia costante e bellissima di vedere, di conoscere, di assimilare: «Sulle tracce dei Cavalieri erranti, anch’io cercavo l’“avventura” (anzitutto dell’anima e della conoscenza) e cercavo il Graal». È la poesia del Wanderer, del viandante che possiede l’anelito struggente (vera e propria Sehnsucht romantica) del cercare, che vive del suo incessante cammino di esplorazione e gioisce della sua stessa sete di conoscenza: «Ma cercare e ancora cercare, interrogarsi, interrogare, ascoltare voci diverse, soprattutto le più aperte e impazienti, è pur sempre vita protesa, è partecipare a una storia dello Spirito in sotterraneo fermento e forse silente progresso». O wandern, wandern, meine Lust! cita Emerico, ricordandosi di un verso del poeta Wilhelm Müller, tratto dal ciclo di liriche Die schöne Müllerin (1821) al quale, tra gli altri, il sommo Franz Schubert diede magnifica veste musicale. E con armi e bagagli, volentieri ci mettiamo in viaggio con l’Autore: lo accompagnamo passo a passo nel suo lieto e pur malinconico vagabondare sul filo della memoria, nella bellezza del tempo giovanile (Gaudeamus igitur, juvenes dum sumus!), nel fascino indimenticato e intatto degli studi letterari, fra squisite divagazioni e puntuali rimandi agli amatissimi poeti (Dante in primis) come pure ai filosofi a lui più congeniali (dal medievale Duns Scoto a Nietzsche).
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E da per tutto ci piace seguirlo in questo frastagliato arcipelago, anzi, per meglio dire, in questo affascinante labirinto di luoghi (italici e non) che vengono contemplati con amorosa passione e interiorizzati per creare all’istante sublimi scenari dello Spirito. La Lunigiana, il Casentino, la Lucchesia... ed altri paesaggi incantatori, in un lento passare tra fonti cristalline e cupe foreste, indugiando in eremi e castelli silenziosi, in austeri conventi o in gradevoli taverne... Qua e là Emerico depone il suo sacco di viandante per fermarsi a dipingere una bellezza che colpisce gli occhi e afferra il cuore: «Certaldo mi mise allegria: i colori caldi delle case, l’area bonaria e casalinga del paese, e laggiù, nel centro più armonioso della campagna toscana, San Gimignano con la polifonia delle torri». Ed ecco che l’amena contrada gli rammenta un passo dell’inizio del Decameron: «Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di varj albuscelli, e piante tutte di verdi fronde ripieno, piacevoli a riguardare». Da Arquà a Fontaine de Vaucluse, da Ginevra alla favolosa Provenza, dalla francescana Assisi alla prediletta Barga, il passo del sognante pellegrino, alla ricerca dei suoi paesi dell’anima, non si ferma mai se non per sostare talvolta, rapito da dolci e immaginose suggestioni, «tra morbide colline, in una trama lieve di nebbie e di grilli». Quando alfine il Cavaliere errante termina il suo avventuroso racconto e posa la penna, ci accorgiamo che è stata anche per noi un’esperienza emozionante e indimenticabile, quancosa che ci ha davvero avvinto e conquistato... E vorremmo ricominciare oppure proseguire insieme a lui altrove, per immergerci ancora in questo «fecondo circuito fra letteratura e vita», per provare a possedere, in un’altra mirabile avventura, più vita di prima. Marina Caracciolo ANDANTE, di Emerico Giachery (Collana «VIAll’insegna dell’Occhiale». 150 copie numerate e firmate a mano dall’Autore. Edizioni Graphisoft, Roma 2011; s.i.p.).
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AMOR DI ROMA di Emerico Giachery
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UANDO ripercorro con affetto e gratitudine anni lontanissimi mi viene incontro, accanto alla memoria di altri amori (di immagini femminili, naturalmente, di poesia, di musica) l’amor di Roma nella tarda adolescenza. Non era, per lo più, amore per le illustri rovine, che invece avrei studiato con particolare impegno negli anni universitari, quando mi apprestavo a diventare archeologo, cambiando però idea un paio d’anni prima della laurea. Era soprattutto amore per certe chiese an-
tiche, mete di allettanti passeggiate solitarie. Santa Sabina, la prediletta, con lunghe soste assorte; gioia di salirvi per il clivo di Rocca Savella attraversando il Giardino degli Aranci. I Santi Quattro Coronati, con la placida facciata quasi campestre, il caro racco-
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glimento del suo antico chiostro; a volte angelici canti di suore oranti che giungevano dal contiguo convento. San Giovanni a Porta Latina. Fermiamoci a quest’ultima. Avrò avuto sedici o diciassette anni. Il primo giorno di scuola c’è lectio brevis e si è liberi in piena mattinata. Splendido il giovane
ottobre romano. Tutto invita a una passeggiata. Entro da Porta Latina, sosto nella chiesa (dal fondo un suono d’invisibile armonium). Continuo per quella strada pochissimo profanata (a quel tempo) dal traffico. Una rigogliosa vegetazione trabocca dalle mura degli Orti di Galatea. L’azzurro del cielo, perfetto. Una campana suona il mezzogiorno. Cosa mi accade? Mi sento immerso nel Tutto, ho coscienza che il cosmo è armonia, e io ne faccio parte. “La gioia è immensa”, mi canta una voce interiore. Trabocco di gioia. Rincaso quasi a volo. Emerico Giachery
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LA GRANDE ENCICLOPEDIA ITALIANA DAI SAVOLDI A TRECCANI nel libro di
DARIO AGAZZI di Giuseppe Leone
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ON una dotta, ragionata prefazione di Felice Accame, che affronta questioni vecchie e nuove relative alle Enciclopedie di ogni tempo, compresa quella di cui si parla in questo libro, Dario Agazzi, giovane compositore di partiture per il cinema di ricerca, già autore di testi, come il volume critico musicale Compendio Jim Grimm – Protocollo Walter Faith (Oèdipus, Salerno, 2017) e lo studio architettonico famigliare Storia del casino di caccia “Canaletta” a Nembro (Ed. del Casino 2017), ha pubblicato, allo scadere del 2018, nella collana La serratura e la chiave diretta dallo stesso Accame, nelle Edizioni Biblion di Milano, La Grande Enciclopedia Italiana. Dalla Società Savoldi a Treccani. Una vicenda editoriale e famigliare. Un volumetto, a sua detta, scritto a margine di ricerche ispirate dalla lettura di una lettera inviata a Renato Savoldi, nonno dello scrivente, dal cugino ottantatreenne Antonio Savoldi nel 1972, quattro anni prima che Renato morisse (85), con la quale lo informava che nel 1925 la sua Azienda Editoriale, nata tre anni prima, “aveva assunto l’impegno, dietro il suggerimento di suoi amici, di pubblicare una Grande Enciclopedia Italiana con la collaborazione di una cinquantina di esperti Professori (49), tra cui, anche i filosofi Giuseppe Lombardo Radice e Giovanni Gentile, l’archeologo Roberto Paribeni e il “sommo” giurista Giuseppe Chiovenda (67-68). Il tutto, in questo libello - così vien voglia di chiamarlo, dato il formato e l’agilità della lettura che lo caratterizza - che l’autore sud-
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divide in tre sezioni: la prima, relativa alla famiglia dei Savoldi, che ha origini seicentesche, tra le più antiche e conosciute di Nembro, che ha dato i natali a personaggi che si distinsero nelle arti, nelle industrie e nelle cariche ecclesiastiche (20); la seconda, destinata alla vicenda, propriamente detta, dell’Enciclopedia ad opera della Società Anonima Antonio Savoldi, trasformata nel 1928 in Società Anonima Ar.TI.CA Arti Tipografiche e Cartotecniche, con sede a Bergamo in via Vittore Ghislandi 41; la terza, dal titolo Appendici, comprendente un Catalogo alfabetico delle opere pubblicate dalla Società Anonima Antonio Savoldi; Uno schema genealogico dei membri della famiglia Savoldi di Nembro (83); Innocente (Nino) Galizzi. Il pittore Luigi Savoldi (87); Nicola Savoldi. Discorso in memoriam Alessandro Valli (91); Due lettere di donna Teresa Natalina Savoldi Badessa Priora di Santa Grata a Bergamo Alta al fratello Nicola Savoldi e alla di lui consorte Emilia Curnis (93); Una Bibliografia cronologica non citata nel testo (99); infine, un Apparato iconografico di 16 figure (101) e l’indice del volume (117). Ecco, allora, l’autore, da una parte, ripercorrere la storia di famiglia dei Savoldi, menzionando tra gli altri: Donna Teresa Natalina Savoldi, (1854 – 1929) e i di lei fratelli Nicola (1864 – 1952) bisnonno di chi scrive, nonché Luigi Savoldi (1856 – 1924), che studiarono entrambi Architettura e Ornato all’Accademia Carrara di Bergamo; Antonio, l’editore, nato a Nembro (1889 – 1977) … ; Bertoldo Belotti (1877-1944), insigne storico; e non solo, citando anche le fornaci e le aziende di foraggi, legnami e laterizi, a cui i Savoldi diedero vita nelle sedi di Nembro, Sedrina e Redona (quartiere di Bergamo); dall’altra, concentrarsi sulla vicenda editoriale dell’Enciclopedia: dai preparativi, che andarono avanti per tre anni e tanto velocemente che, in pochi mesi, il materiale per dar corso alla stampa del primo volume con la lettera A era già pronto”, al pieghevole con il Programma per una Grande Enciclopedia Italiana che prevedeva l’uscita in volumi di circa
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1000 pagine, a due colonne ciascuna. E poi, dall’ammontare del capitale sociale: i bilanci, i nomi degli azionisti, le quote delle azioni, “alla collaborazione di uomini di alta fama, … e di giovani di valore” (6566); dalla posizione dell’Enciclopedia, che doveva essere “apolitica e mantenersi rigorosamente neutrale nell’esporre fatti, opinioni, notizie, per non urtare suscettibilità, opinioni e credenze” (69), alle battute conclusive del 1928, quando, “al momento di andare in macchina”, Antonio Savoldi, accortosi con un anno d’ anticipo sulla gravissima crisi del ’29 che la sua industria non avrebbe potuto andare avanti, con un’ intuizione che non si può non considerare intelligentemente mefistofelica, ha sospeso il lavoro, cedendo tutto il materiale pronto al senatore Treccani, il quale era in procinto di pubblicare un’Enciclopedia come quella da lui ideata (69). Quello che colpisce, sfogliando le 120 pagine del libro, è come Dario Agazzi, compositore e critico musicale, non presenti timori di sorta davanti a ricerche d’altro genere, come dà a vedere, ora, in questa monografia su
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un pezzo di storia della sua famiglia, che egli conduce con ammirevole imparzialità attraverso una narrazione uniforme di linguaggio e di tono, quale si addice a uno scritto che abbia le pretese dell’indagine storiografica. Agazzi, insomma, pur parlando di cose che ineriscono alla sua famiglia, riesce a rimanerne distaccato, ma senza mai dimenticare se stesso. E con se stesso, ovviamente, fa rivivere tutto un mondo ormai perduto, che egli si limita a rappresentare oggettivamente, senza toni celebrativi, anche se non può nascondere la nostalgia delle dimensioni più umane che esso consentiva al vivere quotidiano. Così ad esempio, quando, tra i contenuti delle lettere, può cogliere la filantropia e la generosità di una famiglia che è sempre vissuta, more nobilium, nel segno di nobili costumi. Tutto bello, non c’è dubbio, in questo libretto, scritto - per dirla ancora con Accame – “con elegante e minuziosa cura” (11), sarebbe ben degno di essere letto nelle scuole dove un tempo sorgevano le aziende, e non solo per una questione stilistica, ma anche e soprattutto per gli avvertimenti etico-civili che il libro riesce a dare pur senza che l’autore assuma la veste del moralista. Impossibile immaginare quali sviluppi avrebbe avuto la Grande Enciclopedia Italiana Treccani, a quali risultati sarebbe pervenuta, se la Società dei Savoldi avesse portato a termine l’impresa. Ma, in fondo, si può credere che anche nella sua incompiutezza, questa iniziativa pur interrotta abbia tutto il fascino delle imprese migliori dell’illustre famiglia bergamasca: quella sua visione umanistica dell’economia, quel suo scrupoloso interrogarsi sulla sostenibilità degli impegni presi, quel rigore etico severissimo del lavoro, che fanno dei Savoldi una famiglia diversa, sicuramente inconfondibile nel frastagliatissimo panorama dell’industria italiana del primo Novecento. Giuseppe Leone Dario Agazzi: La Grande Enciclopedia Italiana: Dalla Società Savoldi a Treccani. Una vicenda editoriale e famigliare. Prefazione di Felice Accame. Biblion Edizioni, Milano. € 14.00. Pp. 120.
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DOMENICO DEFELICE Riflessioni su To erase, please? e La morte e il Sud di Anna Vincitorio
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OMO e natura in primitiva simbiosi, poi all’uomo ferito nel dolore presente e immanente nella natura, si contrappone l’ombra della morte; ancora un lirismo che è presente non più nella semplice persona ma assume valore corale. Viene studiato, criticato, si risale alle origini, all’ infanzia. L’io è mutevole, lotta, schernisce, aspira ad una complessa ascesa. Davanti a sé, Dio; in lui il rifugio dopo aver subito pesanti offese e ferite. L’uomo sbaglia e intorno a sé non scorge speranza. La sua indole dalle molteplici sfaccettature non può salvarlo; in lui il timore del male e scarse possibilità di salvezza. Si deve difendere, agire, allontanare il Male che potrebbe schiacciarlo…ma come? Fuggire fisicamente, viaggiare. Ma anche il viaggio è conoscenza e consapevolezza: il male è anche fuori di noi; la civiltà è assurda e consumistica; la cultura superficiale ed edonistica. Ogni viaggio ha un ritorno; anche l’errore può accrescere la conoscenza. Siamo peccatori anche se non sempre consapevoli. La solitudine apre le sue braccia; lo stesso terrestre disordine accresce la nostra consapevolezza e ci porta all’ordine. Se il contorno ci spaventa, possiamo fuggire ma la fuga è corsa verso la libertà e la vita sia pur nella trasgressione. Il mondo ha deluso il poeta che prega Dio di cancellarlo ma nel mondo c’è pur sempre lui stesso e la sua vita, il giusto, l’ingiusto, il tutto, il niente. La poesia può an-
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che perdere la sua vernice lirica ma resta realtà in tutte le sue forme e aspirare all’ascesi verso quel Tu, ambito, temuto, fortemente amato. La fuga del poeta preceduta dall’ urlo, poi la partenza: “Via, anche da te, nemica/ dagli occhi come ventose:/ dal seno/ li staccherò tuffandomi/ nell’acqua perlacea/ dell’isola lontana”. “Mare e cielo, cielo e mare/ e un gabbiano d’alabastro/…il blà-blà mi perseguita.// “Andreotti ha formato il governo/…/Veleni, maledetti veleni!”…“Eccomi, Signore, to erase il prete/ nerocangiante, la suora/ tutto fare, cerimonie dorate,/ attrippate colossali. To erase,/ Signore, to erase!…” Il poeta chiede disperatamente aiuto. Da solo non può cancellare tutto. L’isola può costituire salvezza, allontanare gli spettri. Compagna la solitudine, la natura. Gli antichi Dei nel sonno gli sorridono ma lo sveglia il maestrale. La scena idilliaca vagheggiata appare nella sua realtà: montagna d’alghe e di plastiche: “c’è tanfo nell’ aria/ …/Acqua, acqua! Alzo le braccia,/ ma neppure una stilla/ dalle nubi sterili”. To erase, to erase. Ma sarà possibile cancellare tutto? È un grido accorato, assurdo, ma non ha risposta. Il poeta è come nudo; ama il Sud ma ne è lontano. Anela a una terra ormai mito, memoria. Forti descrizioni di una natura che è Sud, quel Sud incollato alla pelle del poeta: “Danze di fuochi/ in tutta la campagna. Sui sassi/ e fra i dirupi, il serpe tende insidie/ al ramarro, fischia, apre le spire,/ schiocca al sole come uno scudiscio”…Il serpe, simbolo del male, annienta l’amore di un essere che fu amore. Là intorno solo silenzio e l’erba alta non permette liberazione di colei che fu vita: “santa reliquia”. Cosa diviene allora l’uomo? “Sono l’uomo feroce che solo/ quando l’ora
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scocca del dolore/ corale, veramente diviene/ mansueto, perché nell’agonia/ del corpo fragile ritrova il vero io,/ sincero è con se stesso e si ricorda/ dell’anima immortale”. Nota a La morte e il Sud Domenico Defelice è il Sud che si personifica in lui; Sud che ha lasciato ma che è presente nelle morti improvvise ammantate di mistero. Sud, malato di morte, Sud che trattiene Domenico lontano, Sud che avvelena l’amore che vive nel poeta. Come un video scorrono calde immagini, i ricordi del fratello contadino. In lui il dolore dell’abbandono sconfina nell’immensità del rimorso. Risuona nelle orecchie il canto delle cicale. Tutto col pensiero lo riporta indietro: la luce dell’alba, l’amore perduto, l’attesa, il bacio della speranza…un bimbo che non c’è più: “Aria di festa/ nel camposanto pieno di viole/ ti composero con le mani in croce./ Gigli e rose stringi tra le braccia”…”Il nome che ti pose il cantastorie/ al mondo parla della tua gaiezza: eri come un uccello a primavera/ tutto trilli e gorgheggi; nella tua casa/ solo nota di festa in tanto lutto”. In Domenico presenti immagini di morte forse ancora più vive perché lui ormai lontano, e la lontananza vissuta come un lutto. Morti per fatalità e morti crudeli in cui c’è un compiacimento, una nemesi come in Morte del seduttore. “Così, un giorno di maggio,/ in mezzo al prato, fu Ninì Fronda/ a tatuarti il petto col coltello/ e disegnò per tutti, con furore,/ tredici fiori aperti sul tuo cuore:/ tredici amori”. Ancora lirici accenti di dolore – Al morto della solfara…”Per questo te ne andasti alla solfa-
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ra,/ lasciando i campi molli, la rugiada,/ l’aria pura, il sole.//…Ora il capo ti preme una montagna,/ Ma il sogno che t’illuse/ il buio squarcia e giunge fino a noi/ pietrificato nelle tue pupille”. Ho accostato To erase, please? a La morte e il Sud perché mi sembra che dalla loro analisi possa meglio delinearsi la fertilità artistica ed emotiva di Defelice. Crudezza, rabbia, ironia, quasi fotografia di momenti di una realtà politica che ha sempre accompagnato e condizionato un testo, mentre nell’altro affiora il grande amore, i colori, il rimpianto per realtà struggenti che però, solo il Sud denuncia. Potrebbe sembrare un luogo comune ma le immagini, le testimonianze che più volte del Sud ci hanno tramandato, sono realtà traslucide, e avvolgenti. Affiora l’impotenza di fronte alla ineluttabilità degli eventi. Il Sud è come una delle pietà di Michelangelo. Il dolore trasuda dallo sguardo della Vergine e il corpo inerme e squarciato del Cristo, sono i suoi figli. Con questa ricchezza interiore è comprensibile che Defelice si ribelli. Le cose non cambiano ma il male va denunciato in tutti i suoi aspetti: morale, civile; nella violenza, follia, terrorismo, aborto… “Trovo qualche riposo nell’amore e sono quelli i versi meno duri e meno amari”. Parole tratte da una lettera del settembre ‘91 a Lucianna Argentino. Defelice è anche e soprattutto un amico. Il suo cuore è grande così come è grande la sua capacità di ascolto. Siamo di fronte a un gigante buono. Essere burbero è per lui una difesa. Lui poeta lirico, lui satirico, lui visionario nel senso che ha una visione profetica dell’esistenza, si rivolge agli uomini, quelli però che, come lui, vivono la poesia come un approdo. La poesia ci permette di sognare ancora e “muove il sogno di un nuovo avvento, connotato dalle leggi dell’Amore Universale che potranno creare l’homo novus1” Anna Vincitorio Firenze, 4 dicembre 2018 __________________________ 1 - In Alberi? Prefazione di Sandro Allegrini.
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SIMONE WEIL 'HÉROÏNE RACINIENNE'? di Ilia Pedrina
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IMONE Weil! Mi sto occupando di questa pensatrice e filosofa francese, di nette ascendenze ebraiche, con quell'attenzione che va riservata a chi impegna la propria vita, proprio tutta, a far conoscenza ed esperienza che abbia valore di messaggio, là dove la scrittura diventa strumento e metodo per farne dimostrazione concreta. Mi fido della studiosa Sabina Moser, che da anni percorre tutti i testi della Weil, dandone interpretazioni ed attualizzazioni illuminanti, semplici, suffragate a specchio dalle prove testuali indubitabili perché circostanziate. Mi metto al lavoro. Sabina Moser: Essere nell'eterno per vivere nel tempo - Gli “Scritti di Londra” di Simone Weil, con nota introduttiva di Giancarlo Gaeta, altro studioso di gran vaglia della Weil, fresco di stampa per la Lorenzo de' Medici Press, Collana La Lucerna. In copertina il LAISSEZ-PASSER n. 1663, rilasciato dalla FRANCE COMBATTANTE, firmato da Le Chef du Service de Sécurité, con il volto in riquadro della giovane con occhialini rotondi, in un sorriso che reclama attenzioni e coccole: Nom... lle WEIL Prenoms... SIMONE ; Grade ou Profession... REDACTRICE ; Bureau ou Service... C. N. I ;Londrès le... 30 Mars 1943. “...Nei quattro mesi in cui visse a Londra - dal dicembre 1942 al 15 aprile 1943, data del suo ricovero in ospedale- scrisse un'enorme quantità di pagine...La cosa più impressionante di questi testi, raccolti postumi col titolo di 'Scritti di Londra', non è però la quanti-
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tà, ma la qualità: essi appaiono scaturiti da una fonte di ispirazione continua e sicura...” (Sabina Moser, Premessa dell'autrice, in op. cit. pag. 13). Simone Weil morirà il 24 agosto dello stesso anno ad Ashford, in un sanatorio. Nello stesso tempo, per dotarmi di conoscenza intorno alla cultura sovrana del Seicento francese, mi rivolgo a Racine ed alla sua Andromaque, del 1667 e l'abbinamento, mi si creda, è stato del tutto casuale! Che la Weil abbia letto Racine è fuori d'ogni dubbio, tale era la sua passione intellettuale per la cultura, dall'antico Egitto, alla Fenicia, alla Grecia e poi su su, fino ai nostri giorni e a quello che leggeva Adolf Hitler da adolescente, il Lucio Silla di un autore che lei non riporta. “... Tanto più che, osserva quasi con una punta di compassione, quando egli lesse quel libro, era un adolescente 'povero, sradicato, che vagava per le vie di Vienna, affamato di grandezza'. La capacità di compatire il giovane Hitler per quella sua smania è dettata dall'onesta: dobbiamo infatti riconoscere che la 'grandezza' da lui conseguita è la medesima alla quale 'noi tutti ci inchiniamo quando volgiamo gli occhi al passato'...” (S. Moser, op. cit. pag. 58). Racine si leggeva a scuola e faceva parte di quelle necessarie conoscenze della lingua, della letteratura poetica e teatrale, della storia culturale di una Nazione Sovrana, appunto, che ha già al suo attivo un ottimo passato di guerre e di sangue versato, anche per via delle minuscole differenze religiose a far da pretesto. Quando la Weil, sfinita, arriverà a Londra per vivere i giorni più intensi del suo percorso e per scrivere sempre, a bagliori di luce, in note ed appunti, ben sapendo che sono tutte tracce del suo testamento spirituale, anche Charles De Gaulle sarà là, forse poco distante da lei, per via di Radio Françe e della France Combattante, appunto: ha le spalle ben coperte, lascia la Francia divisa in due, per guidarla poi, a guerra finita, verso la Gloire, la forza militare e nucleare di un potere che di sovrano ha ancora tutto, così le impedirà di arruolarsi come infermiera in prima linea con le
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truppe dei soldati in guerra. D'ufficio si rimedierà per lei, dato che i suoi erano molto ricchi e si trovavano già oltre Atlantico, il ruolo di Redactrice. La Moser, con la passione in riverbero che la contraddistingue, cita la studiosa francese: “...Vi è stato un tempo in cui tutti i muri di Francia erano ricoperti di scritte che dicevano: 'Noi vinceremo perché siamo i più forti'. E' stata la parola più sciocca di questa guerra. Il momento decisivo è stato quello in cui la nostra forza era pressocché nulla. La forza nemica si è arrestata perché la forza, non essendo divina, è sottoposta al limite”(S. Weil in Sabina Moser, op. cit. pag. 97). Ma perché proprio Racine? Perché, come il suo maestro d'arte Corneille, all'epoca di Luigi XIII, Racine, d'una generazione più giovane del suo conterraneo e sotto il governo di Luigi XIV, ama radicare le proprie opere nell'antica storia greca, nelle vicende che l'Iliade e l'Odissea hanno portato verso il futuro, grazie a studiosi greci e romani, ma anche arabi ed ebrei: l'Andromaque, la sua prima grande tragedia a tema greco, è un vero trionfo! Lui perde la mamma da piccino, poi a quattro anni anche il papà, così è cresciuto dalla nonna e dal 1655 frequenta le Petites Ècoles de Port-Royal, da cui si staccherà idealmente, per poi riconciliarsi, quando sarà nominato biografo del re. Ritengo che Racine, nel tratteggiare le differenti femminilità sulla scena delle sue tragedie, abbia rappresentato per Simone un punto di riferimento privilegiato con Andromaca in testa, a parte le studiose e i loro amici di Port-Royal, tra cui ci sarà anche Blase Pascal, ben s'intende! Cito dal testo della Moser, tutto segnato in lungo, in largo e ai lati: “...Una giovane donna felice, incinta per la prima volta, che sta cucendo un corredino, pensa a cucire bene. Ma non dimentica nemmeno un momento il bambino che porta dentro di sé. Nello stesso momento, in qualche laboratorio carcerario, una condannata cuce, pensando anch'essa a cucire bene perché teme altrimenti di venire punita. Potremmo immaginare che le due donne facciano lo
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stesso lavoro e che siano attente alla stessa difficoltà tecnica. E nondimeno esiste un abisso di differenza tra l'uno e l'altro lavoro...” (S. Weil in S. Moser, La paideia come terapia, in op. cit. pag. 113). Il lavoro non libera se non è scelto liberamente, opprime e sradica. Nell'opera tragica di Racine Andromaca, libera e di statura regale a Troia, può incarnare quella giovane donna incinta per la prima volta che la Weil qui coglie con profonda simbiotica empatia mentre lavora per il suo piccolo che porta nel ventre, Astianatte o Scamandrio, per il quale Ettore si toglie l'elmo e chiede agli dei protezione, prima di entrare in battaglia e di essere ucciso e poi trascinato nella polvere, con le corde a trafiggere le caviglie: “ANDROMAQUE … J'ai vu mon père mort, et nos murs embrasés; J'ai vu trancher les jours de ma famille entière, Et mon époux sanglant trainé sur la poussière, Son fils, seul avec moi, réservé pour les fers. Mais que ne peut un fils? Je respire, je sers... … J'ai cru que sa prison deviendrait son asile. Jadis Priam soumis fut respecté d'Achille...” (Racine, Andromaque, Act III, scene VI, avec des notes par Robert Faurisson, Nouveaux classiques illustrés, Hachette, Paris, 1979). Racine la coglie vedova, schiava pur sempre regale, quasi in carcere perché in terra straniera, dopo che tutto della sua città è stato reso macerie, con Phyrrus, figlio di Achille che in fondo la vuole proteggere, a farle da padrone. Ne sono certa: per la Weil questo è stato il cuore pulsante delle sue riflessioni rispetto ad Achille eroe della forza e testimone dell'aver pietà, vera compassione che condivide sofferenza e destino: credere l'altro magnanimo potrebbe togliergli di dosso la malvagità, sempre figlia della forza, affinché anche il destino della storia possa prendere l'altro corso, quello del rispetto per i vinti. Torno al testo della Moser.
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La nota 42 a pagina 55, intorno ad una traccia del testo di Simone Weil, è per me un vincolo forte a procedere senza sosta anche sui percorsi di riflessione da lei tracciati. Cito: “Simone fu testimone delle manipolazioni della verità operate dai vincitori della Prima guerra mondiale, ma non poté vedere quelle ancora più grandi operate dopo la Seconda, che attribuivano agli sconfitti tutti i mali, occultando le responsabilità dei vincitori. Per fare solo qualche esempio, il bombardamento aereo delle città come obiettivo civile fu iniziato dagli inglesi con il bombardamento di Monaco e proseguito sistematicamente negli anni successivi, con l'intento di fiaccare la resistenza morale della popolazione. Il culmine fu raggiunto nel febbraio 1945, col bombardamento di Dresda con bombe al fosforo, in cui, insieme alla distruzione della bellissima città, furono arsi vivi 130.000 civili, per lo più anziani donne e bambini sfollati dall'est...” (S. Moser, op.cit.). Commossa, con un nodo alla gola, ho ringraziato l'Autrice. Ilia Pedrina
DENTRO LE DELIZIE DEL CUORE I Scrivere poesie è come entrare nelle delizie che saziano di ebbrezza il cuore, sopra tappeti d’erba svolazzando come uccelli di primavera, andare per spontanei incontri con l’ampio [ respiro che fa spaziare, dilatati gli arti. I cristalli degli occhi prendono gli estremi delle lontananze. La poesia viene da tutte le parti, la tenerezza della pelle arroventata si apre: le sensazioni traggono dal fondo le preziose [ essenze. È come riversarsi nella folla, amare a prima [vista senza scelta, un qualsiasi sorriso assale. Le dure realtà spaccano l’uomo che reclama [ amore,
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la sua essenzialità piange dentro le piegature dove è difficile penetrare. Nei recessi dove purificati si sta come pazzi incatenati le voracità ferme non arrivano dilaniate ad affiorare. È come tuffarsi in un mare o slanciarsi uguali a piastrine di luce, sentire suoni, sfiorare superfici. La poesia ha naturalezza di movimenti, fa vedere diverso. Non ha barriere con i sentimenti né remore andando dove vive l’uomo che predilige altezze e dignità. Con fine occhio indovina le virtuosità delle piccole cose che non si [ vedono, sempre presenti e non capite intorno a noi. II La poesia imperturbabile non teme catene, ha la libertà inafferrabile: la senti addosso, la porti con tutto quello che hai. Ha le sfuggenti linee della figura rincorsa nei sogni, romantico il volto, capelli dissolti sulla fronte, rannodati di dietro. Faccia languida di carne tenera macerata. Il estasi fermentante di piacere mantenendosi fra le braccia come fuggendo dall’aria di fuori in tempesta per la porta subito ritornata. Vede con i pensieri in astrazione portati, con il bizzarro folle amore, delicato e dolce si aggrappa come fantasma, senti diafane le dita che passano tra i capelli, ti assale quando gli occhi sono chiusi. Il calore delle braccia che si allacciano. Leonardo Selvaggi Torino
VITA L'aria che mi circonda profuma d'ipocrisia, più in là, l'oblio. Se facessi un passo riuscirei a dimenticare tutto, ma preferisco rimanere nell'ipocrisia della vita ed esserne cosciente! Manuela Mazzola Pomezia, RM
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LA POESIA DI
RENATO FILIPPELLI di Tito Cauchi
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L volume Tutte le poesie riunisce le otto sillogi poetiche di Renato Filippelli (1936-2010) di Cascàno di Sessa Aurunca (Caserta), residente a Formia (Latina). Penultimo di quattro figli: il padre, Carlo, aveva avuto esperienza dell’emigrazione in America come figurinista e il fallimento di un precedente matrimonio; la madre Adele Martone, possidente terriera. Ammirevole è che la primogenita, Fiammetta, docente di Lettere, ne ha curato l’edizione; e che il secondogenito, Pierpaolo, giudice, ne ha vergato la nota in chiusura; Chiara, terza e ultimogenita, sarà motivo ispiratore nelle ultime raccolte. Sono raffigurate le copertine; quella dell’esordio
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reca tracce di usura, già questo è poesia: raccogliere le testimonianze per non disperderle e tramandarle. Cito stralci delle brevi note critiche riportate sulla bandella di prima copertina. Romano Luperini parla di “grande dignità letteraria”; Raffaele Nogaro assicura che “la sua semantica si fa ontologia”; Giuseppe Limone afferma: la meditazione “sulla memoria che resiste al dolore, sul dolore che resiste alla speranza”; Mario Sansone rileva “l’esistenza che sempre traspare bella nella malinconia in cui il poeta l’avvolge”. Arricchisce il volume un album fotografico di 22 scatti. Il Cd allegato fa sentire la voce del Poeta, accompagnato dal M° Mauro Niro, per circa un’ora. Notevoli sono la prefazione di Emerico Giachery, che assicura che nel Nostro la poesia è sentita “come responsabilità esistenziale e mai come puro compiacimento estetico”; e la postfazione di Francesco D’Episcopo che, esaltando la personale amicizia, evidenzia l’autenticità d’ispirazione in coerenza della espressione poetica. Dalla cronologia biobibliografica, apprendiamo che il Poeta fin dall’adolescenza rivela la sua dote creativa, ricevendo riconoscimenti da noti critici, tra cui Corrado Govoni per la sua prima raccolta, Vent’anni. Qualche anno dopo avere conseguito la Laurea in Lettere Moderne, si trasferisce in provincia di Latina; inizia la carriera di insegnante e sposa Mimma. Padre di tre figli intraprende la carriera universitaria. Parallelamente continua l’ attività di promotore culturale, pubblica libri, fra cui testi scolastici ricevendone sempre apprezzamenti, riconosciuto privo di populismi, senza forzature ideologiche, riconosciuto guida etica. Risentirà molto della perdita del padre (1974) e della madre (due anni dopo). Colpito da infarto (1996) e sentendosi vicino alla fine affida alla primogenita Fiammetta la pubblicazione dell’ultima raccolta. Nella nota introduttiva Fiammetta Filippelli spiega che: “ancora più ricca di riverberi è la configurazione di una macroraccolta, in cui il percorso dell’evoluzione creativa mostri una fitta trama di rinvii, anticipazioni, rimandi”
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ecc. L’opera non è solo la somma delle singole raccolte; ma viene accompagnata da una riflessione a ciascuna silloge per evidenziarne i collegamenti nel complesso dell’intero corpus; e dalla nota di Pierpaolo Filippelli, a chiusura. Passiamo alle sillogi; a fianco dei titoli ne ho indicato gli argomenti, con estrema sintesi [entro parentesi quadre], meriterebbero essere ampliati, ma per ragioni di spazio sono limitati. *** Vent’anni (1956). [Tenerezza e maturità] Renato Filippelli mostra fin da adesso una maturità espressiva poetica sorprendente. Dedica poesie alle persone care: la sorella Giovanna, allora bambina; la madre “ancor mi scorre un sangue/ vergine, e ancora sono quel tuo pargolo” (pag. 41); il padre, il fratello. Ancora: Elisa Arces “al brivido dei baci”, Angela “carezze/ sagaci sulla tua supinità.”. E altresì l’amico Tommaso Daniele: “Oggi,/ già la vita ti nega/ le gemmule della primavera;/ a me reca rimpianti,/ e non ho ancora vent’anni.” (43), la maestra Elena Anfora Bova, Claretta, Liliana, l’amico Peppino Messa, la signorina Edy La Francesca. E, inoltre, del tempo dell’ultima guerra: il soldato irlandese Mike a Cassino, la nonna Battistina, il nonno Michele, un tedesco e una madre che muore. In un religioso silenzio, dialoga con naturalezza con i trapassati, per esempio: “Bella la morte che la giovinezza/ corona d’un’immagine pura.” (pag. 34). Sono ricorrenti il richiamo dell’albero, delle origini e l’ansia che giunga la pioggia che irrori il terreno per fare crescere il grano, come metafora della famiglia solidale. Il cinto della Veronica (1964). [Sua madre] Trovo freschezza di ispirazione, genuinità di sentimento, rievocazione di bimbi allegri, paesaggi marini di Gaeta, prati del Volturno, logge di Monte d’oro, il colle di Munazio. Il Poeta si sente trasportato nel giardino degli ulivi del Getsemani, osserva il rinnovarsi delle stagioni. Il pensiero sulla morte lo porta a un lungo dialogo con la madre: “O madre, esile madre, colma/ fu questa notte la pietà
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dell’ombra.” (pag. 84) che riconosceva nel figlio il poeta e che lui considera la madre, la sua Veronica. Ed anche: “O padre, e poi fu vera/ l’amara profezia di quei tuoi occhi” (95). Associa al nome del poverello Francesco il nome di Chiara, pensando alla figlia. Nella prefazione Edoardo Gennarini, giudica questa, vera poesia. E Giachery indica anche qui soffusa tenerezza; oltre ai temi della raccolta precedente quale la “trasfigurazione mitica del padre” e Fiammetta Filippelli spiega che adesso subentra il senso di colpa perché “distaccato dalle proprie origini”. D’Episcopo afferma che nel Filippelli è “consapevole l’eco della poesia ermetica contemporanea, qui si avverte la solitudine del poeta”. Ombre dal Sud (1971). [La sua gente] Renato Filippelli evoca i suoi luoghi a iniziare dall’ inverno 1944, con gli inglesi nel suo territorio e il tedesco che rovinava la vigna del padre. Troviamo riferimenti autobiografici: il padre in America e la madre che gli “portava due moggi di terra”. Ricorrente è il pensiero grato alla sua gente, dei trenta borghi. Ricorda Edoardo Gennarini un “Cristo vagante come luna”. Il padre che lamenta che per le mutate condizioni sociali “Nessuno più che venga a lavorare;/ gente che ti strisciava ora ti sghigna” (121 e poi anche a pag. 247). Ricorda il padre di quando si recava nei campi, “Fa notte e gelo dove mi richiami./ Hai seminato le ombre/ della mia infanzia su queste maggesi.” (150), dove il padre gli indicava le costellazioni; poi la nascita di Fiammetta, la madre, la sorella. Alcuni personaggi come Giuseppe Leggia “Mastropadreterno”, Pasquale Verre che “fece mala morte”; il Massico, suo luogo dell’anima. Troviamo anche una licenziosità su Paoletta che al lavatoio si fa “sbattere”. Ritratto da nascondere (1975). [Il Sud] Dall’erba che cresce ai limiti delle strade, soggetta a piegarsi, si risale alla metafora della gente del Sud. Invoca il Signore che salvaguardi le donne della sua gente. L’avo Clementino, demente, uomo di sogni. Delle sue genti ricorda: “Porto con me la loro morte, chiusa/ nella mia scorza: frutto che matura”.
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(pag. 191). Lamenta l’atteggiamento di ‘un critico ostile’ “possa sentire sul tuo cuore i nudi/ piedi dei morti del mio Sud, i morti/ di fame e solitudine nei secoli” (198). Ancora al padre. A sé: “o mio seme che avrei forse dovuto,/ per disincanto di durare,/ sperdere in mercenario/ grembo e dimenticare.” (200). Rievoca Valeria del Tirrone, quando spogliava “il fiore del sesso”; Maria La Cavalla donna terragna “data sposa/ a Domenico Leggio, ‘cavaliero’/ detto a dileggio del suo fallo/ equino” (209); e Michele Orsillo che negli anni Cinquanta si dà la morte fra le rotaie; una festa di paese a Sessa degli Aurunci. Accusa i politici del Sud che promettono. Fernando Figurelli nella prefazione dice: “parrebbe ripetere l’antica concezione catartica della poesia”, immagini o quadri etici della civiltà contadina della sua gente. La salvaguardia della memoria attraverso l’ evocazione dei morti. D’Episcopo vi evidenzia la terra del sud con le sue donne faticatrici. Requiem per il padre (1981). [Suo padre] Si rivolge al genitore, in religioso silenzio: “Fa notte e gelo ove mi richiami./ Hai seminato le ombre/ della mia infanzia su queste maggesi.” Un richiamo a critici e poeti che fanno uso della parola. Adesso che il padre non c’è più, lo sente come un figlio, ancor di più dal momento che il Poeta è diventato padre. Ne rievoca la presenza, l’allegria nel canto durante i lavori nei campi, la crescita delle piante e le stoppie in estate. “Nessuno più che venga a lavorare;/ gente che ti cercava ora ti sghigna” (247 e 121); sente la voce ironica della gente, adesso che sono mutate le condizioni di lavoro. Rievoca gli anni della guerra e la presenza del tedesco che “batteva la vigna” e il padre rimaneva impassibile guadagnandosi il rispetto del tedesco. Si chiede a chi lascerà la memoria del genitore. Rosario Assunto nella prefazione afferma che la poesia non è contaminata da retorica e da ideologie, il poeta si identifica con il suo popolo che vive le ansie delle alterne sorti (ora su, ora giù). Plenilunio nella palude (1997). [Dio Cri-
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sto] Rivolto al Padre Celeste, nell’incipit: “Quando saremo, oltre il confine, io ombra/ e Tu Persona”. Si pone in ascolto della voce di Dio attraverso il vento, la pioggia; rievoca luoghi evangelici. Lui figlio prega Iddio per accoglierlo dopo la crocifissione. In assenza del genitore soffre il suo stato di “orfanezza”. Richiama i suoi luoghi geografici Monte Massico, Monte D’Argento assurti a Golgota. Parla al padre chiedendogli della madre. Nel Natale del 1987 scrive: “Io sono stato un padre senza doni/ di tenerezze, arreso ai miei pudori./ Ma questa notte ho il cuore/ del vecchio contadino” (pag. 300). A causa del suo ricovero in cardiologia a Formia e dell’ansia della sua famiglia, riconosce che dopo l’ infarto è rinato con l’anima bambina. È come una sorta di invocazione affinché la luce della luna (Luce Divina) svegli nelle coscienze la consapevolezza del degrado raggiunto. Dai fatti alle parole (2006). [Vari soggetti] Tutti i titoli delle poesie iniziano con puntini di sospensione, come dire dall’esperienza “di” soggetti di cui ai titoli stessi, alle parole. È “tripudio di verde e di respiri./ Ma la mia poesia/ dell’eterno ritorno/ s’è arresa alla muraglia della mia/ solitudine incredula e senile.” (pag. 374). Dopo l’infarto del 1996, dice al figlio Pierpaolo: “Ora tu parti giudice a Catania…// sii umano verso il crimine che nasce/ dagli oscuri grovigli del dolore.” (351). Renato Filippelli assicura che la sua poesia non fu “catarro di stagione”; rievoca la pietà provata per un gatto sbranato dalle volpi, il rimorso per avere “staccato alla lucertola” il codino; la cagnetta di nome Grinta, il pianto della moglie Mimma. Ad Adriana di Vanna: “lasciasti alla vita/ l’ombra di un fiore”; al pittore amico Cristoforo Sparagna rimprovera lo scherno di cui è stato fatto oggetto un contadino che fischiettava imitando il verso d’uccelli nell’auto degli studenti; al vescovo Raffaele Nogaro parla di morte. Ancora: un vecchio kosovaro, un ambulante del Senegal, il nonno brigadiere che soleva dire “I figli li potrai baciare/ soltanto quando dormono.” (393); un compagno di scuola,
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Nino da Gusti, cacciatore di tordi; un altro, Achille di Barba, “passato” a miglior vita. Una citazione di Čechov sulla felicità. Infine al pronipote Renato junior dice: potresti “fermare il cammino dell’ombra/ verso il mio resto di cuore.” (410). Spiritualità (2012). [Religiosità] La “suocera in convivenza,/ allevava alla gabbia/…/ Quando l’uccello morì,/ la donna lo raccolse nelle mani/ …/ che ricorda i suoi gesti/ di tenerezza verso i miei tre figli” (426). Ha la speranza di sé poeta che vada “un’eco oltre confine”. Evoca il fratello morto Carlo (omonimo del padre), la pronipote Adele di due anni che “restò rigido fiore”; la pronipote Chiara che apre alla vita. Ricordando il ricovero: “Dormivo per i farmaci ma udivo/ voci sommesse di compianto.” (442). La moglie Mimma. In chiusura gli ultimi due versi “sono un vecchio/ carretto chiuso/ nella rimessa con le stanghe all’aria.”. Temi prevalenti sono: affetti familiari e dialogo con la morte (Raffaele Nogaro) una “tenerezza evocativa inusitata”. Pierpaolo Filippelli [Amore filiale] nel suo intervento di conclusione ricorda gli insegnamenti, gli esempi etici ricevuti dal genitore, “L’infanzia turbata e dalle sue sofferenze […] Non credo che mi faccia velo l’ attaccamento alla memoria di mio padre”. *** Conclusioni. Tutte le poesie [Poetica degli affetti]. Renato Filippelli mostra spirito inebriato dalla bellezza della natura e degli affetti fin dalla prima silloge. Provo stupore per le espressioni di inusuale tenerezza verso persone e natura; trovo levità nel riferirsi al sesso e consapevolezza della sua poesia. A parte la voce ‘terra’, su cui tutti gli intervenuti concordano, il termine forse molto più ricorrente, mi pare essere ‘ombra’, in tutte le sue declinazioni. Per il Poeta la poesia è emozione vissuta, un continuo dialogo contenente l’oggetto che ho indicato, con estrema sintesi, vicino ai titoli [entro parentesi quadre]. I temi sulla sua gente, le serpi, il Sud, la morte, l’ombra, il sopore, sono metafora del richiamo delle proprie origini;
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in cui descrive il proprio percorso umano con costanza narrativa; forse anche per superare il suo distacco ombelicale di appartenenza. Tito Cauchi RENATO FILIPPELLI, TUTTE LE POESIE, Gangemi Editore, Roma 2015, Pagg. 528, € 24
PAURA E ANSIA di Teresinka Pereira La scena è sempre la stessa: la stanza prossima del mio ufficio. Lì io cerco me stessa pensando in orizzonti e nella vastità di un paesaggio in cui ho perso la mia anima ... Cammino avanti e indietro mentre la notte diventa giorno di vacanza e l'insonnia mi porta una mattina persa _________ Trans. by Giovanna Guzzardi, Australia
FEAR AND ANXIETY The scene is always the same: the room next to my office. There I look for myself thinking in horizons and in the vastness of a landscape in which I lost my soul... I walk back and forth while night becomes day break and insomnia brings me a lost morning of solitude. Teresinka Pereira USA
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PIOMBANTI AMMANNATI E POMEZIA in un saggio di
Domenico Defelice di Isabella Michela Affinito ’esigenza di unire la figura dello scultore docente pittore silografo, nato in provincia di Firenze nel 1898 e morto nel capoluogo toscano nel 1996, Giuseppe Piombanti Ammannati con la cittadina di Pomezia, nata invece nel 1938, è quasi un obbligo per l’impegno artistico svolto dal maestro fiorentino nei confronti di questo exborgo rurale strappato alle paludi Pontine grazie alle colossali opere di bonifiche del periodo fascista. Il direttore della testata “Pomezia-Notizie”, Domenico Defelice, non ha mai dimenticato – e non dimentica nessuno – chi a modo suo ha fatto qualcosa per Pomezia, anche se, ricordiamolo, non è il luogo natio del direttore ma cittadina d’adozione dal
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1970 quando lui ha lasciato il primigenio caos romano per venire a stabilirsi nel «[…] nostro attuale appartamento, al secondo piano del palazzo su via Fratelli Bandiera – allora appena un viottolo –, angolo via Virgilio, dalla finestra si scorgeva scintillare il mare di Torvaianica.» (A pag. 4). In questo prezioso saggio defeliciano, è stato da lui messo in evidenza l’amore incalcolabile per questo luogo apparentemente senza storia e cresciuto troppo alla svelta, anche per il boom economico degli anni ’60, tanto che in breve tempo il numero della popolazione è stato esponenziale dalla data d’inaugurazione pometina dell’ottobre 1939. In effetti, gli abitanti di Pomezia sono stati come lui, ovvero provenienti da altre regioni, oriundi, e nella topografia col passare degli anni si sono distinte le due ‘Pomezie’: quella del Nord e l’altra del Sud; modo quasi divenuto convenzionale per distinguere la zona più prestigiosa da quella più modesta; un po’ come ai tempi del Far West c’erano, in America, i nordisti con il presidente Abraham Lincoln e i sudisti che erano a favore della schiavitù di colore, quindi antiprogressisti. «[…] Il mondo agreste va scomparendo. Ancora sopravvive in qualche fattoria nei dintorni, ove si vedono pascolare liberi armenti e cavalli che qualche pittore locale tenta d’immortalare sulla tela.» (A pag. 10). Dicevamo che solo in apparenza Pomezia è senza fasti storici, in quanto nei dintorni ci sono dei posti che addirittura sono entrati tra i versi dell’Eneide, come Ardea e l’antica Lavinium oggi conosciuta come Pratica di Mare, luogo che, tra le altre scoperte archeologiche, possiede l’Heroon di Enea, la sua mitica tom-
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ba coi XIII (o XIV?) altari che fungono da sentinelle fuori da ogni misurazione temporale, per come sono antichissime. La presentazione geografica, storica e fotografica di Pomezia – nel gennaio 2014 è stato presentato il libro fotografico di Pietro Bisesti in occasione del 75° anniversario della nascita di Pomezia, Storia di Pomezia attraverso le foto storiche dei coloni – Dalla Fondazione alle industrie –, da parte del Nostro direttore, è soprattutto un chiarimento per poi capire le ragioni che hanno legato lo scultore Ammannati a Pomezia. E attraverso la nostalgica e particolareggiata ricostruzione del suo passato, Defelice colloca la ‘sua’ cittadina sul piano della riconsiderazione soprattutto da parte delle Amministrazioni locali. «[…] A noi tutti, naturalmente, ma ai politici in particolare, a chi ci governa, perché si trovi un sentiero che ci porti finalmente fuori dalla palude economica, che è peggiore di quella ambientale, un tempo presente in questi luoghi. I tanti volti, che da questo libro ci guardano e che noi guardiamo, invitano, spronano a non arrenderci, a riprendere il nostro orgoglio e a contribuire, ognuno nel proprio campo, a rendere grande e bella la nostra Città.» (Alle pagg. 15-16). Stabilisce anche un raffronto artistico che vede in relazione Pomezia con la città di Giorgio De Chirico, Ferrara sede della famiglia d’Este, entrata metafisicamente nei dipinti del pittore, nato in Grecia da genitori italiani, con il rosso castello Estense all’ orizzonte insieme alle ciminiere, passato e presente cristallizzati insieme ai manichini in attesa. Anche Ferrara realizzò, ancor prima, delle bonifiche perché c’erano le paludi infe-
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stanti. L’incontro di Domenico Defelice con Giuseppe Piombanti Ammannati avvenne per caso ad Alanno, in Abbruzzo, nel novembre 1974 per delle cerimonie finali di concorsi. «[…] Quei due giorni sono stati per noi memorabili e assai intensi, una magnifica occasione per fraternizzare con molti artisti, con i quali eravamo già in corrispondenza, o lì conosciuti per la prima volta, come, per esempio, il grande scrittore veronese Rudy De Cadaval.» (A pag. 19). Un uomo che nel 1974 aveva settantasei anni e aveva già svolto la sua professione d’insegnante di Storia e Arte della Ceramica, e di direttore della Scuola d’Arte di Urbino, con numerose esposizioni artistiche delle sue opere in ceramica e dipinti ad olio. La sorpresa è stata nello scoprire che il maestro fiorentino, per realizzare alcuni suoi esemplari artistici, si sia ispirato proprio alla florida e genuina città di Pomezia! «[…] Si spiega così perché in quasi tutte le opere della serie ci siano particolari di frutta, di grano; perché gli stessi personaggi, donne e bambini, siano di corporatura solida, di espressione volitiva, ma con un certo non so che di gentile e di nobile, espressione tipica di un mondo contadinesco ancora non contaminato.» (Alle pagg. 24-25). Al che iniziò da quel momento una corrispondenza tra il direttore Defelice e Ammannati, le cui lettere del maestro sono presenti a chiusa di codesto saggio, riportanti le date dal 1975 al 1991. Le opere dedicate alla cittadina laziale, sono Le frutta di Pomezia, Le api di Pomezia, Il mito di Pomezia ossia «[…] una statua maiolicata di cm. 90 di
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altezza, anch’essa in pezzo unico. Il colore predominante è il ruggine divertito da tonalità varie. Rappresenta un bambino corpulento che trattiene sul capo e sulle robuste spalle una gran quantità di mele, di uva e di altra frutta. Su una fascia a tracolla porta scritto “Il mimmo di Pomezia”.» (A pag. 26). Già in quegli anni Defelice si è battuto molto, con l’arma della penna soprattutto, per sensibilizzare l’amministrazione pometina per l’ acquisto della statua, dedicata appunto a Pomezia, e nacquero dissensi ed equivoci atti a confondere le carte in tavolo tanto che il sogno di Ammannati di vedere la sua ‘creatura’ artistica anche in un angolo del Palazzo Comunale di Pomezia svanì del tutto. Tante le telefonate e le lettere in cui si discuteva proprio di questo, ma non c’era la volontà di valorizzare, da parte di chi governava in loco, un artista che si era prodigato a mettere sul piedistallo, nel vero senso del termine, una giovane promettente cittadina come Pomezia. «[…] La pubblicazione delle lettere di Giuseppe Piombanti Ammannati ha, oggi, lo scopo di rinverdire la vicenda, nella flebile speranza che qualcuno la possa riprendere e portarla finalmente a compimento, perché le opere dell’autore fiorentino rientrerebbero di diritto nel decoro di Pomezia; e perché documenti e, come tali, tasselli di una Storia presente e futura della Città.» (A pag. 54). Isabella Michela Affinito Domenico Defelice: “GIUSEPPE PIOMBANTI AMMANNATI e <POMEZIA>“, Il Croco Supplem. al n° 9 (Settembre 2018) di “PomeziaNotizie”, pagg. 60.
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L’ANNO NUOVO MI ABBRACCIA Centellinando goccia a goccia i giorni trascorsi durante l’anno, batuffoli di ricordi germogliano e la mia mente diventa un giardino, a volte verde e tutto fiorito, a volte secco e tutto ingiallito, un giardino che ha bisogno di essere amato e ben coltivato. L’anno vecchio è andato via e come sempre mi auspico che questo Nuovo Anno sia un giardino sempre verde e tutto un manto di sogni fioriti. Cinquantacinque anni che coltivo un giardino di pensieri in fiore in questa splendida Australia, che mi fa volare ogni attimo nella mia dolcissima lontana Italia! E il cuore piange di meravigliosi ricordi e non trova pace. E l’Anno Nuovo mi abbraccia, mi consola, mi veste di gioia, m’incoraggia, mi prende per mano e tace! 4 – 12 - 2018 Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
CHIAVE SEGRETA L’URLO DEL CUORE Prorompe nell'oscurità il mio urlo alla solitudine. Sospeso nel nulla il mio grido combatte senza armi il mondo. L'eco ossessionante mi perseguita e se non avessi cuore mi distruggerebbe. Manuela Mazzola Pomezia, RM
La lettura della poesia è una chiave Che io legga un buon poema e si apre la porta del cofano nel quale erano rinchiusi sugli argomenti più diversi dei miei poemi non ancora concepiti. Béatrice Gaudy Parigi, Francia
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CLASSICISMO NELL’OPERA DI
SILVANO DEMARCHI di Susanna Pelizza
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NSEGNANTE di materie letterarie e preside della Dante Alighieri di Bolzano, l’autore si è distinto in molteplici e svariati florilegi (per l’accurata biografia si rimanda al libro “Personaggi per la storia” A.G.A.R., Segnali e interventi 2012). Inserito in diverse antologie poetiche, ha riscontrato notevoli consensi critici da importanti personalità del mondo della cultura, come G. Bàrberi Squarotti, Vittoriano Esposito, Elena Frioridi, Renzo Francescotti ecc. Lo stesso Squarotti afferma “Le sue poesie aprono una prospettiva veramente nuova di esperienza poetica… Vi ammiro, soprattutto, la singolare capacità di narrare vicende, d’inventare situazioni e personaggi, di giocare, in poesia, il gioco sublime della parola acuta e rinverdita” (da note critiche, G. B. Squarotti in Personaggi per la storia, op. cit.). In un articolo “Il bello secondo Platone” (su Le Muse, dicembre 2013) S. Demarchi afferma “L’anima solo il bello può amare, data la sua condizione con il corpo e di rapporto con il sensibile. È l’unica che partecipa al sensibile, realizzando con esso un’intima unità: il bello è un carattere intellegibile che si manifesta in immagini percepite dai sensi. (…) Bello di natura e bello d’arte si congiungono in Plotino” (S. Demarchi, op, cit.). Le poesie di Demarchi risentono di questa influenza Plotiniana, insieme all’arte di un Petrarchismo Italiano, appartenente a un altro
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mondo, che non rispecchia la realtà se non idealmente e che sembra manifestare un’ esigenza di cambiamento, in una dimensione dove umanesimo e modernità interagiscono in sintonia. Come un novello Eraclito, si esercita nella descrizione di mondi perduti e trascorsi, che pur non essendoci più, trasformano e restituiscono un presente diverso. Privo di qualsiasi ansia “d’orror vacui”, fa valere il suo essere, come esserci in piena coscienza. Poetica malinconica, misteriosa, la lirica s’insidia al centro dell’uomo, scava nelle secolari domande sulla nostra esistenza, traendo quegli interrogativi che da sempre segnano il passo dell’umanità, pieni di quel senso di profondità che ci aiuta “maieuticamente” a ricevere saggezza. Come per il Manzoni, “La poesia completa la storia”, nel mondo attuale la storia e la narrazione mancano di poesia, l’autore dà un’impronta poetica alla sua storia personale, con quella vena di distacco saggio da renderla classica, in un fermo immagine Apollineo dove, però, è nascosta la tragedia di un Nietzsche: il nitore Apollineo è dizione del travaglio Dionisiaco” (da I Contemporanei, Antologia di Autori Italiani. Susanna Pelizza, Amazon.it Pubblicato il 12 Aprile 2018). Susanna Pelizza
ERANO IN TANTE A PARLARE Erano in tante a parlare. Ad ogni fatto una risata. L’immagine dell’allusione nei segni delle dita nel batter delle ciglia nel lampo dello sguardo. Erano quasi tutte vestite di nero: lutto ereditato senza funzione di dolore. Si tirava il giorno nella noia. Scendeva il buio sulle tracce dei cani: latravano al vento appena uscito da spalliere d’uva. Gianni Rescigno Da Sulla bocca del vento, Il Convivio Ed., 2013
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LA GRANDE TORINO STORIA TRA IL 1930 E IL 1961 di Leonardo Selvaggi
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UTTO un trentennio di grandi avvenimenti che hanno determinato trasformazioni profonde sociali e di costume. Un recente passato che è rimasto radicato nella memoria di tanta gente diventato testimonianza storica, ancora palpitante nelle vivide perfette tavole fotografiche. Un trentennio che è stato matrice feconda del nostro presente; non possiamo dimenticarlo, le sue radici sono insopprimibili in questa epoca di grandi dimensioni civili. La mostra suscita attenzione e riflessione, evidenzia idealità storiche di un tempo che rimane per la città di Torino monumento di ricordi e di fatti, di tappe significative nel cammino delle generazioni. Dalle fotografie balzano immagini di personaggi e di popolo: quadri drammatici di distruzione di interi quartieri durante la guerra. Trionfalismi e nuovi miti, miseria, periodi di crisi, benessere economico. La visita di Mussolini a Torino nell’ottobre del 1932 trova la borghesia fedele al regime, refrattaria, invece la massa degli operai. La ricostruzione di via Roma e la povertà stagnante in vari strati della popolazione: Torino che risente la grande crisi del ’29 di Wall Street, disoccupazione, dissesti e fallimenti. La Juventus del quinquennio d’oro, protagonista di primo piano per l’ideologia fascista che inneggia ai concetti di forza, coraggio e vittoria, strumenti alla base di ogni attività sportiva. Torino fascista dà vita ad edifici pubblici, istituzioni sociali e servizi di interesse collettivo: il Palaz-
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zo della Moda al Valentino, il nuovo mercato ortofrutticolo, il completamento dell’ospedale delle Molinette. La mostra ci porta attraverso gli anni destando curiosità e commozione; una realtà sociale in una molteplice varietà dinamica di avvenimenti, ricca di risonanze sentimentali per le persone che l’hanno vissuta. La Fiat Lingotto viene potenziata con la costruzione del grandioso stabilimento di Mirafiori. Siamo nel 1942, Torino viene più volte ferita dai disastrosi bombardamenti; le immagini dilanianti della notte dell’8 dicembre. Finalmente la caduta del fascismo, l’esultanza dei cittadini riversati per le strade liberi ormai da quella morsa di paura da cui erano rimasti angustiati per mesi e mesi. La liberazione di Torino si inserisce con tutta la sua irruenza nel più vasto fenomeno insurrezionale che inizia subito dopo l’8 settembre, ma è nella primavera del 1944 che si diffonde e assume vaste dimensioni di movimento popolare di resistenza. Le immagini nella loro icasticità ci fanno vedere una mobilitazione assoluta degli abitanti della città, sembra un risveglio dopo una lunga pausa di trepidazione: 1946, 2 giugno si vota a tutte le età. Le tappe del trentennio sono state stravolgimento di brutali metamorfosi: Torino esce dai limiti tradizionali, straripa con forme di società moderna, con tutti i tipi di problematicità correlati. Nel 1950 può dirsi compiuta la prima fase del faticoso cammino della ricostruzione: per la Fiat si ha il grande balzo in avanti che si chiamerà “miracolo economico”. Il grande movimento migratorio, mezzo Sud si trasferisce al Nord, una specie di esodo biblico per fuggire la miseria e la fame di regioni rimaste nella più profonda arretratezza. L’ occupazione tra il 1951 e il ’58 salita del 33%. Il flusso migratorio è straripante, va a cozzare contro la inadeguatezza delle strutture. Il trentennio si chiude con il 1961 che è per Torino un anno di fierezza nazionale, di grandi realizzazioni industriali: la Fiat ha superato i 500 miliardi di fatturato con 93.000 dipendenti, provenienti da ogni parte del paese. In questo arco di tempo ha vita luminosa
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una intensa attività culturale che, superando le pastoie del regime, riesce a difendere i principi della libertà di pensiero. La casa editrice Einaudi è stata qualcosa di più di un puro riferimento culturale; un impegno serio e perseverante, una rigorosa coerenza nelle scelte e una qualità perseguita nei contenuti. L’Utet, la Paravia, La S.E.I., la Lattes, la ERI, tutte nel proprio ambito in una sempre attiva opera di diffusione ed elevazione della cultura. La mostra “La Grande Torino” si arricchisce di una rassegna bibliografica che a grandi linee esprime tutti i significati di vita nazionale che nei vari momenti del trentennio hanno avuto manifestazione. L’editore Frassinelli e il letterato Franco Antonicelli pubblicano la collana “Biblioteca Europea” con traduzioni da Kafka, O’Neil. Pietro Fedele organizza il lavoro di compilazione del “Grande Dizionario Enciclopedico”. Abbagnano pubbica “La struttura dell’esistenza”. Le riviste della casa editrice Einaudi: “La cultura, Riforma sociale, Rivista di Storia Economica”. Ernesto Rossi, Leone Ginzburg, Pavese, Bobbio. “Studi per un nuovo razionalismo e Fondamenti logici per la scienza” di Ludovico Geymonat. Nella sintesi bibliografica non possono mancare Fenoglio, Natalia
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Ginzgurg, Calvino, “Se questo è un uomo” di Primo Levi. “Cristo si è fermato ad Eboli”, che ci fa scoprire la realtà arcaica dei contadini del Sud, in tutta la sua drammaticità di miserie e frustrazioni, contrapposta per schiettezza e genuinità all’altra civiltà, quella tecnologica con i suoi vertiginosi progressi e gli aspetti negativi dell’alienazione, della solitudine, della dissacrazione, del materialismo. Leonardo Selvaggi
LUOGHI I luoghi del tempo dello spazio della mente della carne e dell'anima i luoghi per i quali a lungo perdutamente ho sognato vagheggiato i luoghi della nostalgia della conoscenza del mistero e della poesia i luoghi dove fosse possibile trovare ancora una briciola di felicità i luoghi che mi sembra di meglio conoscere e amare sono i luoghi nei quali non sono mai stato. Luigi De Rosa (Rapallo)
ULTIMA LIBERTÀ Il mio ultimo volo su un vascello con le ali. Sotto di me feste sfavillanti di luci, gente ridente. La mia anima va via sospinta dal vento. Non mi rimane niente. Manuela Mazzola Pomezia, RM
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I POETI E LA NATURA – 87 di Luigi De Rosa
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le varie fasi della sua vita riconoscendole nelle loro caratteristiche essenziali e abbinandole, di volta in volta, al Serchio, al Nilo, alla Senna e all'Isonzo. Il Serchio in ricordo del padre e della madre, cresciuti e vissuti in provincia di Lucca fino a quando il padre sarebbe andato a lavorare al Canale di Suez. Il Nilo in ricordo dell'infanzia e della prima giovinezza, La Senna in ricordo degli amici di Parigi, della formazione artistica e intellettuale. L'Isonzo, con la pace e la guerra, la vita e la morte, la dolcezza e la violenza. I fiumi, nel loro insieme, con la loro acqua, simboleggiano l'armonia e la felicità del Creato. Almeno, l'aspirazione, irrinunciabile, all'armonia e alla felicità. “Questi sono i miei fiumi questo è il Serchio al quale hanno attinto duemil'anni forse di gente mia campagnola e mio padre e mia madre
I FIUMI DI GIUSEPPE UNGARETTI (Alessandria d'Egitto 1888 Milano 1970)
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i siamo già occupati di Ungaretti nella puntata n. 14, sul numero del dicembre 2012, e dovremmo farlo per tante altre volte, in considerazione della grandezza del poeta tosco-egiziano-parigino ed, infine, italianissimo fante nelle trincee del '15/18. Il titolo della puntata n° 14 era Il sereno della Natura in Giuseppe Ungaretti. Questo mese scegliamo un'altra perla da quel bellissimo libro dei Meridiani Mondadori 2005, dedicato a Ungaretti e intitolato Vita d'un uomo – Tutte le poesie. Affrontiamo quella mirabile autobiografia che è rappresentata da I fiumi. Una composizione in cui il poeta riconsidera
Questo è il Nilo che m'ha visto nascere e crescere e ardere di inconsapevolezza nelle distese pianure Questa è la Senna e in quel suo torbido mi sono rimescolato e mi sono conosciuto Questi sono i miei fiumi contati nell'Isonzo Questa è la mia nostalgia che in ognuno mi traspare ora ch'è notte che la mia vita mi pare una corolla di tenebre. Poesia limpida, che affronta i rischi di
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un'autobiografia senza orpelli retorici o autocelebrativi. Che costruisce una mirabile reductio ad unum delle varie e contrastanti esperienze di vita e di arte vissute dal poeta, che ha celebrato con estrema sincerità il rapporto con la Natura vista come una compagna fedele, come un possibile specchio consolatore. Poesia del tempo di guerra scritta in trincea il 16 agosto 1916, aggrappato ad un albero mutilato e nei pressi di una dolina carsica. Poesia che nonostante la violenza ineludibile e feroce che ha provocato “l'inutile strage”, si apre al godimento della pace e all'inseguimento perenne dell'armonia fra Uomo e Natura. Anzi, è proprio sull'Isonzo che il poeta si è meglio riconosciuto come una docile fibra dell'Universo... Qui il rapporto fra poeta e Natura si rivela stretto e vitale. Più che di descrizioni del paesaggio a se stante, per un'opera di ambientazione dei propri sentimenti, dei propri pensieri e delle proprie sensazioni, si vive e si scrive per sentire, palpitare e pensare insieme. Luigi De Rosa
I MIEI, I VOSTRI ANNI 1 - MAESTRA M’inviti al gran reame del tuo computer e ti offri a guida. Sconfinata, enigmatica è la terra che mi dischiudi, mille strane porte apri davanti a me, mille soglie da varcare. E forse mi sgomenta l’avventura, non ho le chiavi d’oro che tu possiedi : l’avida gioventù il sogno del futuro. Ma tu stringi la mia mano nella tua, sorridi ai miei stupori di vecchia Alice. E’ dolce, bambina, strano e dolce, che la tua età sia maestra alla mia.
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2 - LE VOCI DAI SECOLI Francesco, sul tuo computer oggi non navighi il mare delle favole, non veleggi con Stevenson lungo le rotte esotiche dell’avventura. Più non t’incantano i dinosauri i samurai dalle spade fiammanti. Un mondo tecnologico oggi illumina d’interesse i tuoi occhi irretisce i tuoi giochi i tuoi racconti. Ed io faccio voti per te: forse il giorno che a questo nostro giorno succederà, il tuo futuro, ore meccaniche ti prepara gelida geometria levigata di plastica e metallo. Tu guarda i gabbiani e l’erba ascolta voci dai secoli Virgilio e Mozart. Salva la tenerezza, sempre, ragazzo mio. Salva con gelosia Il battito arcano e libero di quello che chiamano “cuore”. Ada De Judicibus Lisena Da “Omaggio a Molfetta”, 2017
È ORFANO IL BRACIERE Ora che l’ava guarda, fidente, d’altro cielo, è orfano il braciere. Era più dolce d’una adolescente, sposa sull’altare. Tra i suoi sussurri, le fate tingevano di sogno gli inverni lacrimosi. Al mondo che non ama serberò in reliquia le meraviglie delle sue carezze, mentre con gli ultimi suoi tremiti il tempo mio fanciullo, fuggendo tra baleni, se ne muore. Rocco Cambareri Da Versi scelti - Miano Editore, 1983
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Recensioni PATRIZIA RISCICA ANDAR PER VERSI Biblioteca dei Leoni, Venezia, 2018, € 12 La metafora del viaggio, che sta a significare il percorso della vita, è molto diffusa in poesia, dove sovente la si ritrova. Anche Patrizia Riscica ha voluto servirsene, in un suo libro di poesie intitolato Andar per versi, apparso nella Biblioteca dei Leoni di Paolo Ruffilli nel luglio 2018. La silloge si divide in quattro parti, la prima delle quali s’intitola L’andare dell’amore; ed in essa le varie fasi di questo sentimento sono analizzate con acutezza di sguardo ed efficacia espressiva. “L’amore rimase che, / nonostante i suoi stracci / i suoi buchi, gli strappi e / i pochi rammendi, / copriva ancora il corpo / e scaldava l’anima” (Amore); “Alla fine ritorno / ai tuoi occhi che sanno guardarmi” (Ritorno); “Voglio imparare questo amore / arrivato improvviso” (My Baby). Ma si vedano anche, per la loro efficacia, certe visioni paesaggistiche, come quella di questo notturno lunare, che tuttavia s’avviva dei riflessi di una limpida luce estiva: “E la luna sale veloce / oggi è rossa / gonfia di estate, / bagnata di mare” (Luna). L’andare delle donne è la seconda sezione della silloge ed in essa la donna emerge netta, nelle più immediate espressioni del suo animo e della sua femminilità. “Mi chiamano Sciamana, / donna che viaggia con gli spiriti, / ho il potere dell’estasi, / ho il potere sulla pura essenza, / conosco l’altra realtà dell’anima” (Sciamana). Si leggano anche altre poesie di questa sezione, quali Solitudine: “Donna, rimani e ascolta: / è la so-
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litudine del pensiero, / quella dedicata a te, solo a te” e Zaino Rosa: “Raccoglierò il tuo dolore / così impenetrabile e grave”. Particolarmente significativa appare, tra le liriche qui raccolte Madre-Figlia, nella quale il rapporto tra queste due figure femminili è rappresentato con particolare verità ed efficacia. “Ho spiato ogni tuo gesto, bevuto ogni tua parola / per poter scoprire come diventare donna”; “Rincorrevo la tua bellezza. / Ho fumato le tue sigarette, ho indossato i tuoi vestiti”; “Mi guardo invecchiare e lo specchio / mi rimanda anche il tuo volto”; ecc. L’andare dell’andare, la terza sezione, contiene poesie dalle quali la meraviglia per l’essere al mondo e per il manifestarsi delle apparenze si fa più assidua e sì afferma con maggior vigore. “lascio / volo via / prendo il viaggio / sciolgo l’andare / solo per andare” (Esagramma 56); “Treviso ha oggi il cielo azzurro / che incanta il pomeriggio e avvolge / case e palazzetti dipinti del passato” (Urbs Picta); “La luce del mare / m’illumina…” (Sirena). E si vedano anche certe sue intuizioni improvvise, espresse in forma epigrammatica, quali “Solo il vento dà voce / alla sacralità del silenzio” (Monte). L’andare della vita, l’ultima sezione del libro, degnamente lo conclude, con testi che ci parlano del dolore e della fatica del vivere, percorrendo giorno per giorno il viaggio nel tempo che ci è concesso. “Gli spazi della vita lasciati vuoti / così deserti di pensiero / da passare senza traccia” (Spazi); “E il freddo della vita che mi passa addosso” (Freddo); “Vagare alla ricerca di un pensiero / per giorni giorni e giorni / e trovare solo piccoli mucchietti di mediocrità / accumulati in un angolo buio degli anni” (Pensiero). Anche l’amore, che pure s’affaccia in questa sezione, non è gioioso, ma segnato da una profonda tristezza: “l’ultimo pensiero d’amore / attraverserà ignaro la mia mente? / o esploderà improvvisa la coscienza? / l’ultimo sguardo al mare sarà intenso / o distratto e perso nell’orizzonte?” (Ultimo). La poesia eponima conclude la silloge con un movimento che è di ripresa, come se un moto vitale avesse colto l’autrice e l’avesse spinta a parlare. “Oggi le parole si srotolano / una dopo l’altra, ordinate e obbedienti / seguono il cammino senza protestare / guardano smaniose la tastiera” (Andar Per Versi). È come una ventata di giovinezza che investe la poetessa e la conduce su nuove strade. “Accelera il passo – gioia improvvisa - / un piede dopo l’altro, sempre più veloce, più veloce, / ho tanta voglia di correre accanto alla poesia”. Sono anche questi i miracoli che l’arte dello scrivere in versi può fare. Elio Andriuoli
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FULVIO CASTELLANI IL SIGNIFICANTE STUPORE DELL’ESSERCI Indagine critica sul poeta Pietro Nigro Nicola Calabria Editore, Patti-Messina 1999, Pagg. 64, s.i.p. Fulvio Castellani è poeta, scrittore e critico friulano della Carnia, classe 1941, collaboratore di riviste culturali. Dedica il saggio Il significante stupore dell’esserci, Indagine critica sul poeta Pietro Nigro, al siciliano, di cui al titolo, classe 1939, nativo di Avola, già docente di inglese, residente a Noto. L’opera è strutturata in sei capitoli con tocchi letterari dotti di cui il quinto è eponimo; riporta alcune strofe e giudizi critici anche di altri autori, quattordici foto che ritraggono il Poeta durante cerimonie letterarie. Dopo l’iniziale quadro biografico, in forma di intervista, seguono le analisi riguardanti le singole cinque opere prodotte e una interessante appendice critica. Apprendiamo della precocità letteraria e artistica di Pietro Nigro, mostrata fin dai banchi di scuola, la distanza dai riflettori, dai salotti-bene e dalle passerelle. Il suo stile si presenta elegante e misurato. Suoi autori preferiti classici e contemporanei sono, fra gli inglesi: William Wordsworth, Samuel Taylor Coleridge, Percy Bysshe Shelley; tra i francesi: Charles Baudelaire, Paul Verlaine, Jean-Arthur Rimbaud, Stefane Mallarné, Paul Valéry; senza dimenticare i nostri Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi, Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo. Il sottoscritto, essendo conterraneo del Poeta, si prende la libertà di estendere l’interpretazione di alcuni suoi stati d’animo. Quanto alla crisi della poesia il Nigro l’attribuisce alla “carenza di sentimento e di spiritualità, nell’ assenza di valori essenziali a vantaggio di un arido cerebralismo contenutistico e formale”, si dichiara contro lo sperimentalismo, gli “scherzi verbali, i giochi di parole” cui faceva uso Edoardo Sanguineti. Apprezza alcuni autori e meno altri, ma aggiunge che “tuttavia nel calderone mentale tutto viene lavorato, rielaborato, dopo averlo accettato o meno. E da questa operazione nasce una ‘propria’ poesia” (Nigro), oppure esiti non poetici. Pietro Nigro dichiara di seguire due intenti, “il bene comune e la ricerca dei valori metafisici”, di non scrivere per diletto o per compiacere, bensì di compartecipare i suoi intimi sentimenti, di fare sentire il suo pathos. Echi di vita (1981) è la silloge compresa in un volume collettaneo. Fulvio Castellani va in profondità descrivendo i moti dell’anima di Pietro Nigro che vanno dai “turbamenti esistenziali evidenti e palpabili anche laddove si sofferma a dialogare
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con il certo”, si riveste di malinconia per la sua “Trinacria, mitica, smarrita e grondante attese”. Infine prende corpo la nostalgia per le antiche vestigia; ma nel contempo avviene un travaso nei valori sociali. Il deserto e il cactus (1982) è la silloge che rappresenta metaforicamente, i simboli della sua terra arida e aspra, della solitudine e dello strazio, di quanto cova dentro e dei problemi che serrano la sua Sicilia. Il Critico mette a nudo il “tema ricorrente della tristezza esistenziale che però si riscatta”; il senso dell’ignoto, della nostalgia che si esprimono con “toni a volte crepuscolari e tal altri foscoliani”. Una poesia dialogante tra l’io e il tu, tra la terra e il sole che rivendica il diritto di amare, amare la sua donna e la sua terra. L’amarezza gli sprigiona una gioia inspiegabile. Versi sparsi (1988) comprende componimenti degli anni tra 1960 e il 1987. La sua Sicilia è “un luogo ideale in cui sistemare e far vivere l’antico e il nuovo, le attese e le incertezze.” Miraggi (1989) rappresenta il desiderio della purificazione. Credo che sia questa raccolta ad esprimere in modo particolare il senso dell’appartenenza alla sua terra, luogo dell’anima. Poesia alta che fonde il sogno e il sublime. L’attimo e l’infinito (1995) è la raccolta che più marcatamente connota Pietro Nigro poiché concretizza l’espressione emotiva più autentica che sta a base della vera poesia “oltre e attraverso” per varcare il mistero. Fulvio Castellani si è soffermato su alcune strofe che meriterebbero una riflessione in più da parte del lettore, ma basti richiamare l’accostamento a Salvatore Quasimodo prima maniera. P.es.: “Io chiudo gli occhi/ e sono infine/ nell’infinito” Pietro Nigro attraversa un crescendo di emozioni fino al rimpianto che, tuttavia, non gli tarpa le ali del sogno, lo stupore dell’esserci in simbiosi totale con i dubbi e i motivi esistenziali dell’uomo di sempre. Perciò osserva che la Poesia rischia di morire nella stretta di “una prosodia anonima, aritmica e generalizzata” come scrive il Nostro. Tito Cauchi
VITTORIO NINO MARTIN NUVOLE VAGABONDE Prefazione di Isabella Michela Affinito, Cenacolo Accademico Europeo, Napoli 2018, Pagg. 96, e, f. c. Dalla quarta copertina a firma di Francesco Galasso, su Nuvole vagabonde, apprendiamo che l’ autore della raccolta, Vittorio Martin soprannominato Nino, friulano, nasce a Caneva nel 1934; il pa-
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dre era calzolaio e il giovane non ha seguito un percorso di studi prestigioso, ma ha preso un pennello da imbianchino. Presto emigra in Svizzera e Francia; il passo è breve: la mano è quella di un pittore e di un poeta, nell’uno e nell’altro caso, è libero e ribelle. La prefazione è di Isabella Michela Affinito, merita un discorso a sé per il tocco didascalico perché ci facilita la compenetrazione nell’Autore. Pittrice e poetessa, esperta di entrambe le arti, per formazione ha sviluppato il senso dell’estetica, rileva nel poeta friulano la libertà dei versi che si presentano come la descrizione paesaggistica del suo luogo dell’ anima, che è Stevenà. La nota procede per analogia con Renée François Magritte, per il quale le nuvole erano motivo ricorrente, tema surreale, che aveva segnato la vita del pittore belga per via della morte misteriosa della madre. Spiega inoltre che le Nuvole, considerata la loro natura, per essere viste richiedono di volgere lo sguardo in alto, come alta deve essere la poesia, e che l’essere esse vagabonde, vuol dire che non ubbidiscono ad alcuna regola e possono variare in vari modi, come è la condizione umana. I giudizi riportati in appendice ne allargano la conoscenza: Susanna Pelizza, ne definisce la poesia, impegnata, come poteva essere “quella della Neoavanguardia”; Andrea Pugiotto ne indica la “semplicità disarmante”; e poi ancora Marco Dabbà, Pasquale Francichetti e Fulvio Castellani. I versi di Vittorio Nino Martin si aprono su temi vari, ma sempre con la dovuta misura. Rileviamo l’isolamento di cui all’incipit: “Nei giorni di solitudine/ mi abbandono alla bellezza,/ lontana una voce quilia/ intona canzoni popolari,” L’ emarginazione ci fa smarrire, i rumori delle auto e i “concerti dei rockettari” ci stordiscono; finiamo per disumanizzarci, dimenticare costumi e solide tradizioni che univano le comunità, gli antichi mestieri che si esercitavano con l’abilità delle mani e che acuivano l’ingegno; tutto ciò a favore dei falsi miti moderni. Il sapere popolare che non costa nulla, “Il dialetto parlato/ gestito con le mani,/ crea movimento/ variazioni sul tema,” (Zero). La nostalgia per i luoghi dell’anima, diventa malinconia e amarezza, nondimeno il Poeta si bea. Antiche botteghe animavano le “viuzze”, con i suoni degli strumenti da lavoro che si accompagnavano canticchiando, e il sorriso non mancava neppure davanti alle ristrettezze economiche. Le contrade costituivano comunità che rinsaldavano le famiglie e le amicizie, i valori tramandati, anche se si guardavano gli spazzacamini sporchi di fuliggine “creatori di sogni e risate/ mai una carezza.” La gente si soffermava in religioso silenzio dinanzi alle statuette dei Santi, specie “nel-
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la Calle della Madonna”. Paesi poveri dove i carri servivano per e funerali, per trasportare merci, come il carbone, gente in festa, come novelli sposi, scolaresche. L’ambiente naturale è violentato nonostante i buoni propositi propagandati dagli imbonitori, “si parlava di sistemi sicuri/ mentivano sapendo di mentire.” L’ umanità è diventata “merce di scarto”, come d’altronde accusa il Santo Padre, Papa Francesco. Il Poeta muove la sua protesta contro i profittatori che speculano sul bisogno dei più poveri. È ricorrente in alcuni componimenti un medesimo tema ora riguardante il suo paesaggio Stevenà; ora i “venditori di fumo” sotto vesti diverse, che si impadroniscono del pensiero unico come i politici poco onorevoli che “cercano più poltrone” da cui poi non vogliono staccarsi; ora si schiera in difesa delle donne spesso brutalizzate dagli uomini o rese schiave dalle droghe. Vittorio Nino Martin, con Nuvole vagabonde, rivela il suo profilo umano dall’impronta umanitaristica e invita ad alzare lo sguardo dalle cose terrene. Egli osserva, riflette, commenta e dipinge anche scene che mettono buon umore come nel caso di un “pacchiano del paese/ di buzzo buono,/ onnipresente ai pranzi/ offerti gratuiti e non”, oppure si abbandona ai suoi pensieri e, nonostante la tristezza, assapora l’antica gioia dell’età della spensieratezza,. Tito Cauchi
GIULIO DI FONZO POESIE (1992 - 2018) Croce, Roma 2018 Per avviarsi alla lettura delle poesie di Giulio Di Fonzo, è proficuo prestare attenzione alle raffinate e sintoniche note introduttive di Roberto Mosena, suggestivamente intitolate Leggerezza, del risveglio, ombra del silenzio, quasi invitando a leggere “poeticamente” questo libro. Mosena indica la “forma canzoniere” di questo libro, nel senso soprattutto di “forma omogenea”, improntata a “una profonda unità che si viene determinando e specificando, pagina dopo pagina, in un blocco di significati che si rispondono e si richiamano di continuo”. È infatti un omogeneo libro di compagnia, da tener vicino e ogni tanto aprire qua e là, per assaporarne il dono e la grazia. “Solo i grilli ora cantano/in questa lenta solitudine”. “Così leggero il mondo in una notte”. “Nella notte del mondo/il tuo amore illumina il sentiero”. “Il tuo cuore vicino è così lontano,/verso orizzonti di lontani approdi”. La misura del verso è sempre quella giusta, sia
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nel più breve (“Pochi petali in mano/ed una stella in cielo”), sia nel più largo respiro (“I grandi alberi cominciano a imbiondire,/fiammeggiano le viti in foglie ventilate/fiammeggiano i chicchi d’aperti melograni”). Quanto verdeggiare e fiorire di natura, e fluire di stagioni, quanto “cielo stellato sopra di noi”, per dirla col caro vecchio Kant. Di Fonzo sente ed esperisce la poesia come una sorta di “ecologia dell’anima”, in un libro la cui fine è un principio. È un risveglio nella luce e nella quiete, significativo accostamento: “Radioso mattino. Diffuse/di luce acque cullate.//E del mare pacato la gran quiete”. La luce è il lessema di gran lunga dominante nel libro, col suo corteggio di lessemi convergenti e concomitanti. Mi è caro ricordare qui l’avvincente notazione di un poeta della luce come Mario Luzi, il quale, in un suo caro volumetto intitolato La luce, commentando i canti “luministici” del paradiso dantesco, scrive: “la luce è insieme l’evento e il linguaggio”. Che è implicito riconoscimento di un rapporto quasi “ontologico” tra motivo e parola, in base al quale sembrerebbe impossibile parlare della luce se non luminosamente. L’osservazione fa forse capire meglio perché questo libro mi è caro, e perché continuerò a tenermelo vicino. Emerico Giachery
TITO CAUCHI CARMINE MANZI Una vita per la cultura Editrice Totem 2016, pagg. 140, e. f. c. Questa volta Tito Cauchi ci presenta un saggio critico su Carmine Manzi, scrittore, poeta, giornalista e saggista. Il volume vuole essere un omaggio all'artista, uno spirito indomito, un uomo moralmente corretto che ha lasciato un'impronta profonda nel mondo della letteratura e dell'arte italiana. La poesia e la narrazione dell'artista non si allontanano mai dal contesto sociale e storico: è presente il senso civico e la memoria come valore umano indispensabile ad una vita condivisa con l'altro; è presente l'attaccamento alla terra salernitana e ad un realismo che diventa poi impegno culturalepopolare. Esprime il suo rammarico e la sua tristezza per i fatti che accadono nel mondo, ma non ne rimane schiacciato ed angosciato perché mettendo in discussione i progressi dell'uomo, percepisce i malumori ed i malesseri delle nuove generazioni. Ogni argomentazione, ogni problematica la risolve nella fede, la quale gli rende il cuore più leggero e più in pace . Ed ecco che in lui la precarietà e l'incertezza si tingono dei colori della speranza. Il poeta avverte il vuoto provocato dalla mancata
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presenza dei valori nell'epoca attuale e ricorda, invece, la vita di un tempo, nella quale c'erano fiori da raccogliere, uccelli da ammirare sui rami, più stelle da contare nel cielo e più amore nel mondo; i suoi versi evocano una realtà, un modo di vivere che non esiste più: “Non c'è più nulla che ti appaga/ vai in cerca di cose che più non trovi/ fanno parte di un mondo ch'è passato”. Nelle sue opere denuncia la mancanza di tempo, la mancanza di ascolto, le campagne oramai incolte, tutte cose che portano l'uomo alla sofferenza ed alla solitudine dell'anima. Carmine Manzi, però, trova la sua forza nelle fede divina: leggendone i versi si percepisce che la sua anima è in pace con se stessa. Così scrive Tito Cauchi: “Il sottoscritto non è che voglia indugiare su una persona che coltiva questi sentimenti; ma è la convinzione che la sua poesia è fatta di gemme ed il minimo che si possa fare è continuare a spargere i semi perché non finisce oggi il giorno della fioritura”. Il poeta è in armonia con tutti gli elementi che lo circondano, non si chiude al mondo, è un promotore della cultura. Egli guarda al passato per comprendere il presente che osserva con serenità d'animo; non segue l'esteriorità, ma soffre per il modo in cui la nostra società vive. Tutto ciò che scrive fa riflettere. Tito Cauchi: “Carmine Manzi, in questo mondo tormentato, di guerre e di fame, avverte che “è la pace dell'anima/ quella che ci manca”. [...] “Un senso di solitudine l'investe perfino fra gli alberi, nel buio”. […] “Confesso che la scrittura di Carmine Manzi mi aveva conquistato, per la sua cultura e competenza, per l'assenza di ampollosità e assenza di risentimenti; e, al contrario, per la presenza di semplicità espressiva”. Manuela Mazzola
ANNA GERTRUDE PESSINA IN SPECCHI DI CREPUSCOLO Editore Manni, Lecce, 2017, € 14,00 Una poesia, che sembra voler trasmettere il suo messaggio, oltre che attraverso il significato proprio delle singole parole, anche attraverso la disposizione grafica da loro assunta sul foglio, si direbbe quella di Anna Gertrude Pessina, quale appare dal suo nuovo libro di versi, In specchi di crepuscolo, uscito nel 2017 presso l’Editore Manni di Lecce, nel quale la stessa disposizione dei singoli vocaboli sulla pagina vale a conferire un maggiore risalto e una maggiore pregnanza espressiva a tutto il contesto. È la sua pertanto una poesia che trova i suoi antecedenti nei Calligrammes di Apollinaire e in un
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certo Futurismo nostrano, nel quale la parola conta più per ciò che suggerisce allo sguardo che per il suo diretto significato. Il che assume poi una maggior rilevanza in un mondo come il nostro, dominato dall’immagine, nel quale, in molte delle sue manifestazioni, la parola mira più ad attirare l’ attenzione ed a stimolare la fantasia di colui che la contempla, che ad essere ascoltata o addirittura meditata. Non a caso la parola per Anna Gertrude Pessina, «oltre ad essere scritta, pretende, non a torto, di essere vista»! Piuttosto inusuale è infatti il modo col quale la poetessa presenta in questo suo libro alcuni testi nei quali i vocaboli a cui vuole attribuire un particolare significato vengono scritti non solo con caratteri maiuscoli (fatto che già di per sé tende a conferire loro un maggiore risalto), ma sovente addirittura in modo che la singola parola venga ad acquisire una disposizione sulla pagina in più righe. In altri termini le singole sillabe di taluni vocaboli (ed in alcuni casi addirittura le singole lettere che li compongono) vengono collocate dalla Pessina su livelli differenti del foglio, e pertanto non posizionate, come normalmente accade, su una stessa linea orizzontale. La parola acquista in tal modo sulla pagina una sua particolare fisionomia grafica, che può tradursi talora semplicemente in una linea discendente lungo la verticale, talaltra in una forma geometrica arcuata, così da creare un «semicerchio» o forse meglio una cuspide, oppure, in certi casi, addirittura in una poligonale chiusa. Ma si tratta comunque sempre di un’immagine idonea a meglio captare l’ attenzione del lettore ed a suggerirgli qualche ulteriore significato ai versi che sta leggendo. Non a caso nella Nota dell’autrice, posta a conclusione del libro, la poetessa parla di una sua predilezione per un «messaggio verbale orientato alla rappresentazione icastica dei corsivi, delle finestre all’interno del verso, dei grafismi disposti in verticale, semicerchio, ottagono, timbro e sigillo di un vivismo espressivo, atto a connotare la parola che, oltre ad essere scritta, pretende, non a torto, di essere vista», in un mondo, che come quello odierno è dominato dalla sovranità dell’immagine, come sopra si è già osservato. Difficile fare qualche esempio, data la complessità dell’intero contesto, senza ricorrere alla riproduzione grafica di un’intera pagina. Vorrei però ugualmente provarci, anche se limitatamente alla riproduzione di qualche parola o di qualche verso. Si prenda ad esempio una delle prime poesie, Autunno dell’io, in cui la parola AU-TU-N-NO, ripetuta due volte nel testo, viene scritta (entrambe le volte) con le sillabe TU e NO disposte a livelli di-
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versi: rispettivamente più elevato quello della prima sillaba TU e più basso quello della seconda NO (il riferimento è ovviamente la riga dove sono collocate AU e N). Tale disposizione genera una forma romboidale, che sembra voler attirare l’attenzione del lettore per concentrarla al suo interno, quasi imprigionandola. E ciò si ripercuote sull’intimo significato che viene ad acquisire la poesia, in quanto viene così a generarsi un paragone fra l’AUTUNNO che sta vivendo la «sfiorita / foglia» dei primi versi e l’ AUTUNNO che sta vivendo l’autrice stessa, che ora ci viene incontro prepotentemente, affacciandosi all’improvviso da quell’«IO» a lettere maiuscole e, forse non a caso disposte verticalmente, proprio in chiusura della lirica. Come la foglia infatti è in attesa di staccarsi dall’albero e cadere al suolo, unendosi al tappeto di foglie morte, già esistente, anche l’autrice sta ora vivendo una stagione della sua vita senza prospettive, senza intravedere nulla che possa darle conforto, né nel presente né nel futuro: come la foglia, dunque, sta vivendo, anche lei una stagione autunnale della sua vita (autunnale, ovviamente, va qui inteso più in senso psicologico che cronologico). Ma non è tutto, dal momento che quelle due, quasi gigantesche parole (AUTUNNO), che inizialmente avevano captato tutta la nostra attenzione, la fanno ora convergere verso un’altra parola, scritta normalmente, della quale inizialmente non ci eravamo nemmeno accorti; una parola senza alcuna lettera maiuscola, che tuttavia (e sicuramente non a caso) occupa però la posizione centrale della lirica; la parola è: «vegetalizzo». Un semplice verbo, ma che con grande efficacia accentua, anzi meglio concretizza, la similitudine fra lo stato d’animo della poetessa e quello della foglia appassita. L’«I/O» con quella stessa disposizione verticale delle lettere compare anche in altre poesie, come Afa e solleone, dove, non a caso, è ancora un Io che «aggroviglia / crespi / di tristezza», in una torrida, ma stranamente silenziosa estate: «Afa e solleone / ovattano silenzi». Mentre un «IO» orizzontale compare in Stanzialità, a proposito del ricordo del giovane Serafino, a cui è dedicata la poesia. En passant, vorrei notare come anche la parola «vita» compaia nel testo talora scritta normalmente con caratteri minuscoli, talaltra con caratteri maiuscoli, sempre ovviamente, con diversi intenti espressivi. Certo, la visione del mondo che scaturisce dal libro della Pessina non è propriamente ottimistica, anche se talora si accendono in lei degli sprazzi di sole, come avviene in Primo giorno d’estate, dove l’inizio è sereno («Sole e zeffiro leggero / gironzolo
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/ la città») e stupita la chiusa di tanta pacificata armonia («Gioia! Serenità! risa! / VITA! / L’ho mai vissuta così?). In realtà, più spesso, le sue poesie hanno però un andamento sofferto e autunnale, come avviene in Un nulla fatto di nulla («L’uomo / è pur sempre / un / atomo»). Né dischiusa alla speranza appare una poesia come Il Dio dei vecchi, dove un anziano è così raffigurato: «Sguardo assente / occhi muti di sorriso / animo grigio» e viene colto mentre si trascina «aspettando / il dio dei vecchi» che lo soccorra. Del resto la stessa autrice, in una sua Nota al libro, definisce questa sua sesta silloge «scaturita dal movēre interiore, perturbato e commosso da atomi di fuggente felicità; dalla tristezza dei ricordi … dalla solitudine, muta e granitica, di cariatide del Novecento, senza più smalto in un Duemila dissacratore dell’ieri». E nella poesia Pensieri tristi, che apre l’omonima sezione del libro, ci confessa: «Sempre / nelle veglie / insonni / navigo / pensieri tristi». Si legga anche In fuga la Fenice, una poesia nella quale si trovano questi versi: «Spettro tra gli spettri / sono … / sono … / un nulla / sommerso dal suo nulla». Momenti di serenità si trovano invece in certi incipit, come quello di Incanto-disincanto, che suona: «È bello sapere che esisti / che godi la luce del sole / la carezza del vento / il fruscio delle fronde / la vita di oggi veloce / che m’ami col tuo rinviare», anche se poi la poesia prende una ben diversa direzione. Così è pure di altri testi, come Milano delirava quella notte che, dopo un incipit spensierato e lieve («Milano delirava quella notte / impazzava di applausi e di festa»), rivela poi tutta la sua tragicità. Questo divario tra un incipit sereno, cui fa seguito la descrizione di un dramma, è tipico del libro della Pessina, trovandosi anche in diversi altri suoi testi: Senza arcobaleno, Asolaia, Tonia e molti altri, dove sono contenute delle assorte meditazioni sulla vita e sul male del mondo. Più distesa è invece Divina indifferenza, che inizia: «Tra gomitoli / di vicoli / scoppiettavano / falò» e così termina: «Nel mio / a ritroso / il passato / le pene / naufragano / lontananti / il mar morto / della / ………. / divina indifferenza». È quella della Pessina comunque una poesia che, come osserva ancora la stessa autrice nella sua Nota, «dalla sfera intimistica. sconfina sul reale, giorno dopo giorno, lacerato da rabbia, delusione, corruzione, cainismo…». Una poesia dai diversi nuclei ispiratori, che vanno da quello di matrice crepuscolare di Fisarmonica lontana, a quello schiettamente civile di Ad un’abortiente. Sono differenti aspetti della poesia di questo libro, che in esso compiutamente coesistono e che si accompagnano al senso
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del mistero che troviamo ad esempio in Eclissi, dove si legge: «Universo / di / mistero / e / di / spavento / la / materia / che torna / alla materia». Un libro complesso, dunque, In specchi di crepuscolo di Anna Gertrude Pessina, che si caratterizza non soltanto per l’aspetto formale, ma anche per la varietà delle tematiche, trattate sempre in maniera compiuta e coinvolgente. Liliana Porro Andriuoli
LUCE SULLA STRADA Luce d'argento diffuso sopra i sogni di chi sta passando. Nemmeno la pioggia rovina il suo splendore ... Il poeta ci guarda e va per la sua strada tra gli alberi con la sua canzone al galoppo nella notte Teresinka Pereira USA - Trans. by Giovanna Guzzardi, Australia
La stagione notte è la stagione bianca Alleanza dei contrari Gli alberi notte la neve bianca le ombre nere dal bianco alito E i colori vivi delle risa dei pattinatori sulla trasparenza del ghiaccio Béatrice Gaudy Parigi, Francia
Era un altro mondo dove uscivi per la strada dove compravi un francobollo dove prendevi il treno senza essere sorvegliato - a dall’Alta Tecnologia Era un altro mondo dove le strade erano libere dove la vita era libera dove la libertà era libera
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Era un altro mondo dove era bello vivere Béatrice Gaudy
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porta echi di voci lontane. Qualcuno cammina sul sentiero con roridi fiori di campo.
Parigi, Francia
DORMIENTE Tu non puoi dormire! Il temporale passò da alcune ore saettando e tuonando con fragorosi schiocchi. Con sordo brontolio, se ne andò corrucciato oltre la valle ancora gonfio di nubi corvine tra folate di vento. Tu non puoi dormire! Al limitare del bosco improvvisato ovile, il gregge bruca ancora l'erba tenerella fragrante di odorosa terra e il candore del vello rischiara il manto erboso. Anche i gigli reclinano al tuo sonno ricolmo il calice per la copiosa pioggia Svegliati! Tu non puoi dormire questo sonno infinito! Guarda, il sole irraggia ancora oltre le cime sulle sparute schiere di bambagia rosata che nell'aria tersa veleggiano scomposte. E' una bella sera, l'aria dilavata
Tu non puoi dormire indifferente alle stelle che appaiono. Wilma Minotti Cerini Pallanza - Verbania (VB)
IL PENDOLO E L’AFORISMA Là nella sua oscillazione senza anima tic toc tic toc tic toc segna un tempo, che non è il mio che è troppo tardi se ti attendo che è troppo presto se te ne vai. I secondi sono un’eternità nel dolore la giovinezza che non assapori è sciapita quando la rammenti Il tempo del perditempo Il tempo dell’amore il tempo della lettura quando ridendo andavo su e giù con Jerome e Jerome col cane in canotto sul fiume e ancora rido per la sublime avventura Il tempo delle vita e degli aforismi di Charles Bukoswki quando pensava: forse mi ci abituerò, ma non ci abituai mai o quando ancora: mi hanno piantato così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore all’inizio non capisco neanche cos’è. Ci vuole tempo E allora pensai ad una nostra forte litigata al mio sguardo feroce su ti te, uomo che amavo sopra ogni altra cosa, e tu che uscivi, per tornare poco dopo con uno di quei mazzolini di fiori che prendono colore dall’inchiostro, proprio quelli che io detesto,
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e lo gettai nella spazzatura. e allora mi venne in soccorso Dan Brawn: “ i luoghi più caldi dell’inferno sono riservati a coloro che in tempi di grande crisi morale si mantengono neutrali” Mai ferire la jena che è in me perché risorgo come la Fenice. Ma poi ti guardai meglio e il bene spazzò via ogni cosa Wilma Minotti Cerini Pallanza - Verbania (VB)
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE RITORNA NELLE SCUOLE D’ITALIA L’ EDUCAZIONE CIVICA? - Sarà ripresa, in tutte le scuole italiane, dalla materna alle superiori, cioè fino ai 19 anni, l’insegnamento dell’Educazione Civica, che s’era abbandonata per anni. Diverrà una materia curricolare, obbligatoria. Lo hanno annunciato il Ministro dell’Interno Matteo Salvini, il Ministro dell’Istruzione Marco Bussetti e il Ministro della Famiglia Lorenzo Fontana. Il testo di legge è del leghista Massimiliano Capitani. Decisione saggia, che Pomezia-Notizie non può che condividere in pieno. L’Educazione Civica - assieme al Diritto del Lavoro e al Diritto Pubblico - è stata insegnata dal nostro direttore Domenico Defelice per decenni e il suo volumetto I.S.E. (Informa-
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zioni Socio-economiche) - tradotto anche in Braile per i ciechi - è stato adottato in diversi Centri di Formazione Professionale di Roma e di Aprilia ed è giunto, nel 1994, alla quarta edizione. L’Educazione Civica è fondamentale per l’ educazione del cittadino, anche se essa dovrebbe procedere passo passo con la moralizzazione dell’ individuo in genere e del politico in particolare. Perché, fino a quando l’Italia rimarrà uno dei principali Paesi al mondo per corruzione e per delinquenza, nessuna Educazione Civica sarà sufficiente ad evitarci il baratro. L’istruzione deve procedere strettamente con l’esempio, da sola è solo astrattezza. *** GRAZIE PER AVER APPREZZATO IL NUMERO DI DICEMBRE - Riceviamo, il 14 dicembre 2018, una e-mail da Mariagina Bonciani di Milano: Carissimo Domenico, interessante come sempre il numero di dicembre di POMEZIA-NOTIZIE, dove ho subito letto il tuo scambio di corrispondenza con Ilia Pedrina, apprendendo molto su tutte le tue attività oltre a quelle di poeta e scrittore, (…). Molto ho anche appreso su Pomezia città leggendo la recensione di Laura Pierdicchi al tuo lavoro comparso nel quaderno IL CROCO di settembre, (…). Ho anche subito letto Luigi De Rosa nel suo Shakespeare, argomento che non cessa di interessarmi. (…). Ed ho molto apprezzato il messaggio di Emerico Giachery a tutti i lettori di POMEZIA-NOTIZIE. Lo ringrazio e ricambio sinceri auguri. Infine, ti invio anche una poesia per gennaio ed i miei migliori e più sentiti auguri per un Natale Sereno e un Felice Anno Nuovo a te, tutta la tua famiglia e la famiglia di POMEZIA-NOTIZIE. Con affetto, Mariagina Cara Mariagina, il nostro periodico è tra i migliori d’Italia. Non tocca a me affermarlo, sono altri a testimoniarlo. Scrive, per esempio, L’Eracliano del marzo 2018: “Gli argomenti trattati in ogni numero spaziano dalla cultura generale (politica, economia, attualità, letteratura, storia, poesia, narrativa, pittura, musica ecc.) a tutto quello che può e dovrebbe racchiudere uno strumento d’informazione e di approfondimento”. “Un periodico fondato ben quarantacinque anni fa, merita tutta la nostra attenzione”. Senza pubblicità e senza finanziamenti, sta uscendo in dodici numeri all’anno, agosto compreso, mese durante il quale tutte le testate non quotidiane in genere riposano. Collaboratori di valore e contenuto ottimo e basta rimanere alle copertine del 2018 per dimostrare il suo volare alto: la prima è stata dedicata al Premio Strega; la seconda a Vit-
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toriano Esposito; la terza a Amara Al-Tavel e, poi, Gianni Rescigno, Ermanno Olmi, Prezzolini, Giachery, Demarchi, Marquez, Erri De Luca eccetera. Come direttore, la mia soddisfazione è piena e il mio grazie va a tutti voi, collaboratori e lettori, perché è a voi che si deve tanto successo. (ddf) *** QUANDO UN ERRORE APRE PROSPETTIVE - Dom Franco Mosconi, Monaco Camaldolese, già per anni Priore all'Eremo di San Giorgio in Bosco, a Bardolino. Prof. Franco Mosconi, docente di Finanza Internazionale e tanto altro all'Università di Parma. Questa omonimia ha portato l'inserimento a pag. 16 (Pomezia Notizie Nov. 2018) della foto in rete del professore al posto di quella del nostro Maestro dell'Anima: questo errore mi ha spinto all'audacia e mi sono messa in contatto con il professore, telefonicamente. È stato gentilissimo e qui pubblicamente lo ringrazio, perché riflettendo su questo scambio mi sono resa conto che al fondo delle cose il nostro tempo, qui in Italia ed altrove, può essere contenuto entro questi due poli, nell'omonimia: quello spirituale, spinto ad un illuminato rinnovamento anche dall'interno delle istituzioni ecclesiastiche e delle riflessioni dei singoli, e quello temporale, pratico, statistico, finanziario, spinto ad altissimi livelli nell'interpretazione dei dati e nell'analisi delle loro conseguenze per la vita pratica di ciascuno, in questa dura epoca di globalizzazione. Ho già acquistato il testo a cura di Franco Mosconi e Fabio Montella Dal garage al distretto - Il biomedicale mirandolese. Storia, evoluzione, prospettive, ed. Il Mulino, Collana Percorsi/Economia, 2017 e ne darò traccia nel prossimo numero, in febbraio. Ringrazio il Direttore per questo scambio provvidenziale di omonimia, che porta, oltre il previsto, le mie riflessioni su un ambito importantissimo al quale dare appropriata attenzione. Questo anche per ubbidire all'invito di Ludwig Wittgenstein: se non si sa bene di che cosa si sta parlando, è meglio stare zitti! Ilia Pedrina *** BIBLIOTECA COMUNALE APERTA ANCHE IL SABATO - Da 15 dicembre 2018, la Biblioteca Comunale di Pomezia, intestata all’attore Ugo Tognazzi, è aperta anche di sabato, dalle 8,30 alle 18,30. Decisione che salutiamo con piacere, anche perché il sabato i cittadini in gran parte non lavorano e si dedicano alla spesa, alla famiglia e, speriamo, anche alla cultura. La Biblioteca è frequentata in buon numero dagli studenti universitari; non abbiamo dati, però, per quanto riguarda la lettura in genere e la consultazione a scaffale. Ci
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uniamo, comunque, alla soddisfazione del sindaco pentastellato Adriano Zuccalà, al quale chiediamo che si adoperi affinché vengano adeguati, alle esigenze dei cittadini, altri orari di uffici pubblici, come, per esempio, quelli dell’Anagrafe. Assurdo che si apra al pubblico alle nove, quando tutti iniziano a lavorare almeno un’ora prima.
LIBRI RICEVUTI CARLO DI LIETO - Letteratura, follia e non-vita In principio era l’Es - Postfazione di Emerico Giachery, Premessa di Sandro Gros-Pietro, numerose illustrazioni a colori e in bianco e nero nel testo; in prima di copertina, a colori: “Giovinezza di Bacco” (1884), di W. A. Bouguereau - Genesi Editrice, colana Letteratura & Psicanalisi, 2018 - Pagg. 896, € 40,00 - Carlo DI LIETO vive e lavora a Napoli. Docente di Letteratura italiana presso l’ Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, è assiduo collaboratore delle riviste “Ariel”, “Misure Critiche”, “Riscontri”, “Silarus”, “Vernice”, “Nuova Antologia” e fa parte della Redazione di “Gradiva”, oltre che di “Vernice” e de “Il Pensiero Poetante”. Ha a suo attivo pubblicazioni inerenti al rapporto Letteratura/Psicanalisi e saggi critici, in chiave psicanalitica, sulla produzione pirandelliana, su Carducci, Leopardi e Pascoli, sulla poesia OttoNovecento e su quella contemporanea. Critico militante, collabora a quotidiani con articoli letterari. Inoltre, ha scritto saggi su Papini, Bonaviri, Colucci, Mazzella, Calabrò e Fontanella e le seguenti monografie: “Pirandello e <la coscienza captiva>” (2006), “La scrittura e la malattia. Come leggere in chiave psicanalitica <I fuochi di Sant’Elmo> su Carlo Felice Colucci” (2006), “L’identità perduta”. Pirandello e la psicanalisi” (2007), “Pirandello Binet e “Les altérations de la personnalité” (2008), “Il romanzo familiare del Pascoli delitto, “passione” e delirio” (2008), “Francesco Gaeta la morte la voluttà e “i beffardi spiriti” “ (2010), “La bella Afasia”, Cinquant’anni di poesia e scrittura in Campania (1960 - 2010) un’indagine psicanalitica” (2011), “Luigi Pirandello pittore” (2012), “Psicoestetica” il piacere dell’analisi” (2012), “Leopardi e il “mal di Napoli” (1833 - 1837) una “nuova” vita in “esilio acerbissimo” (2014), “La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò” (2016), Corrado Calabrò e “La materia dei sogni” (2018). Vincitore per la saggistica del 1° Premio del XLI Premio Letterario Nazionale, “Silarus” 2009, del 1° Premio Letterario internazionale 12a edizione
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“Premio Minturnae” 2009 e del 1° Premio Letterario Internazionale per la saggistica “Emily Dickinson”, XVII edizione 2013-2014. Componente della giuria del “Premio Corrado Ruggiero”, per la poesia e la narrativa italiana; socio dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” e dell’Unione Nazionale Scrittori e Artisti. I suoi testi sono in adozione presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, l’ Accademia di Belle Arti di Napoli e presso la Cattedra di Lingua e Letteratura italiana dell’Università Statale di New York. Dirige la collana “Letteratura e Psicanalisi” della Genesi Editrice e dal 2013 è componente la giuria del Premio Nazionale di Poesia, Narrativa e Saggistica “I Murazzi”. ** TITO CAUCHI - Domenico Defelice Operatore culturale mite e feroce - In prima di copertina, a colori, immagine di Defelice nel suo studio (la foto è del figlio Luca Defelice); in quarta, sempre a colori, altre foto, di Domenico Defelice e di Tito Cauchi; altre immagini in bianco e nero all’interno Editrice Totem, 2018 - Pagg. 360, € 20,00. Tito CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Il Calendario del poeta” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2015). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010), “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (monografia a cura di Gabriella Frenna, 2014), “Profili critici” (2015), “Salvatore Porcu Vita, Opere, Polemiche” (2015), “Ettore Molosso tra sogno e realtà. Analisi e commento delle opere pubblicate” (2016), “Carmine Manzi Una vita per la cultura” (2016), “Leonardo Selvaggi, Panoramica sulle opere” (2016), Alfio Arcifa Con Poeti del Tizzone (2018), Giovanna Maria Muzzu La violetta diventata colomba (2018). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’aperto. E’ incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013), in “World Poetry Yearbook 2014” (di Zhang Zhi & Lai Tingjie) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e
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all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita Leandro Polverini, giungo alla quinta edizione (2015). Ha avuto diverse traduzioni all’estero. ** ANTONIO SORRENTINO - Carmine Manzi Le radici dell’anima - Presentazione del Dott. Giovanni Romano, Sindaco di Mercato S. Severino All’interno, numerose immagini in bianco e nero Gutenberg Edizioni, 2013 - Pagg. 320, s. i. p. Don Antonio SORRENTINO, parroco della Chiesa “S. Michele Arcangelo” di Sant’Angelo, è autore di ricerche e studi anche su Mercato S. Severino e numerosissime sono le opere pubblicate, tra le quali: Cristiani in preghiera (1975), Cristiani in preghiera cantando (1975), Vangelo vivo (1979), Celebriamo il Giubileo (1983), S. Gregorio VII dalle sue lettere (1985), Con Maria incontro a Gesù (1987), Recitals catechistici (1989), L’arte di presiedere le celebrazioni liturgiche (1997), Sant’Angelo “a macerata” (2000), Corticelle (2000), Incontri con Gesù (2000), Canti per l’adorazione (2001), Celebriamo con gioia (2004), Incontri eucaristici (2005), L’Eucarestia: rito e vita (2006), Salmi responsoriali (2010). ** AA.VV. - Natività Le più belle incisioni Dal XV al XX Secolo - Presentazione di Paolo Bellini - Interlinea Edizioni, Novara 2009 - Pagg. 120, € 12,00. Una carrellata (quasi 50 immagini) di capolavori di arte grafica; un bel libro d’arte, inviatoci in omaggio dall’amico e collaboratore Salvatore D’ Ambrosio, di Caserta, che ringraziamo per la finezza del dono.
TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) e-mail: angelo.manitta@tin.it; enzaconti@ ilconvivio.org - Riceviamo il n. 74, luglio-settembre 2018, dal quale segnaliamo le firme di: Giuseppe Manitta, Carmine Chiodo (“Marcello Vitale: La donna della panchina”), Corrado Calabrò, Angelo Manitta, Gianni Rescigno, Filomena Iovinella, Antonio Crecchia, Loretta Bonucci, Enza Conti, Orazio Tanelli che recensisce Mariagina Bonciani, Antonia Izzi Rufo, Isabella Michela Affinito eccetera. Ricordiamo che il 31 gennaio scade il ter-
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mine per la presentazione dei lavori al Premio per Silloge inedita “Pietro Carrera” 2019 (chiedere regolamento alle e-mail già indicate o a Giuseppemanitta@ilconvivio.org). Allegato, il n. 40 di CULTURA E PROSPETIVE, luglio-settembre 2018, di 200 pagine e gli interventi di: Vittorio Capuzzza, Stefano Cazzato, Monica Ramò, Orazio Tanelli, Giuseppe Cappello, Pina Ardita, Claudio Guardo, Giovanni Tavčar, Domenico Cara, Angelo Manitta, Antonio Crecchia, Giuseppe Giampaolo Casarini, Pippo Virgillito, Vincenzo Vallone, Carmine Chiodo, Fabia Baldi, Silvana Serafin, Daniela Cecchini, Isabella Michela Affinito eccetera. * L’ERACLIANO - Organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili, fondata nel 1689, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (Firenze) - E-mail: accademia_de_nobili@libero.it -. Riceviamo il n. VIIVIII-IX del luglio-settembre 2018, dal quale segnaliamo il lungo articolo d’apertura sulla presentazione, al Circolo Culturale Fanin di Figline-Incisa Valdarno (FI), dell’interessante volume Davvero costui era figlio di Dio, del Direttore Marcello Falleti di Villafalletto. Poi, oltre le tante rubriche, son da leggere “San Matteo Apostolo ed Evangelista”, di Carlo Pellegrini e “Collezionisti in asta”, di Gian Giorgio Massara. La pagina 12 si può dire ch’è quasi completamente occupata dalla riproduzione fotostatica delle pagine di Pomezia-Notizie con due articoli di Tito Cauchi e, infine, non si può non citare la rubrica “Aphoreta”, curata da Marcello Falletti di Villafalletto, nella quale vengono recensiti tre lavori, tra cui il “Giuseppe Piombanti Ammannati e <Pomezia>” del nostro direttore Domenico Defelice. + IL FOGLIO VOLANTE/La Flugfolio - Mensile di cultura varia, fondato da Amerigo Iannacone, direttore responsabile Raffaele Calcabrina, direttore di redazione Giuseppe Napolitano - via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro (IS) - e-mail: napolitano.giuseppe@ymail.com - Riceviamo il n. 12, dicembre 2018, l’ultimo, perché ha cessato la pubblicazione. Le firme sono di Americo Iannacone che lo ha portato avanti con amore fino alla morte, avvenuta tragicamente il 12 luglio del 2017 -, Aldo Cervo, Salvatore Rinaldi, Carlo Minnaja, Giuseppe Napolitano, Manuel Vanni, Renato Corsetti, Orazio Tanelli, Vincenzo Rossi, Antonio Vanni, Gerardo Vacana, Gilda Antonelli, Maria Giusti, Chiara Franchitti, Rocco Viccione, Irene Vallone, Nicoletta Torrice, Simone Principe, Loredana Punzo, Tania Cantone. Ma, in tanti anni,
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sulle sue pagine sono apparse anche le firme di tanti nostri collaboratori, come Antonia Izzi Rufo. La fine di una rivista è sempre un danno per la cultura e getta in cuore la malinconia. Il Foglio Volante era nato nel gennaio del 1986 e ad esso si erano affiancate le Edizioni EVA, che hanno stampato un numero assai grande di autori. Ci auguriamo che almeno queste possano continuare, che non chiudano pur esse assieme alla rivista. Il Foglio Volante era pure organo dell’Esperanto (il suo sottotitolo è stato, infatti, La Flugfolio), lingua della quale Iannacone era espertissimo: non solo la parlava e la scriveva, ma la insegnava e la diffondeva anche attraverso una semplice e chiara grammatica. Giuseppe Napolitano, ch’è stato sempre vicino ad Americo Iannacone, ch’è stato addirittura il suo primo abbonato, alla morte del suo caro amico si è “assunto il compito di sostituirlo alla conduzione del “Foglio”: l’ho fatto - scrive - per questi ultimi diciassette mesi di vita del giornale - una esperienza al tempo stesso esaltante (per tenere in vita il “figlio” di un amico) e dolorosa (per la stessa ragione), ma ci ho messo amore”. Ma, a quanto pare, neppure l’amore è bastato a far continuare a vivere Il Foglio Volante, perché, portare avanti un periodico senza pubblicità e senza finanziamenti, è più di un atto eroico e lo sappiamo assai bene noi che, da 45 anni e passa, portiamo avanti pazzescamente PomeziaNotizie. Morta una testata, però, non è morta, né morirà, l’idea per la quale è nata ed è andata avanti per 396 mesi. E questo in parte ci consola. (D. Defelice) * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha voce mensile diretto da Raffaele Vignola - via A. Giannatasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it - Riceviamo il n. 11, novembre 2018, con articoli vari che non concernono soltanto la città di cui porta il nome, ma di un vasto territorio e quindi di Fisciano, Serino, Montoro, Corigliano, Mercato S. Severino, S. Andrea Apostolo eccetera. Numerose le foto.
IL CROCO I Quaderni letterari di
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LETTERE IN DIREZIONE (Béatrice Gaudy, da Parigi; Ilia Pedrina, da Vicenza) Parigi, 6 Dicembre 2018 Buongiorno caro Domenico, Grazie tante per il numero di novembre di “Pomezia-Notizie” che ho scoperto con un grande piacere, piacere da autrice, piacere da lettrice. Ci sono sempre varie poesie che mi seducono. Le mie preferite in questo numero sono la Sua “Aria tutto sorriso”, “La danza delle api” di Mariagina Bonciani, “Terra” e “Oh, mondo!” di Salvatore d’ Ambrosio, “Dubbi” di Wilma Minotti Cerini, e altre - di Corrado Calabrò, di Rocco Cambareri, di Gianni Rescigno, di Caterina Felici, di Francesco Fiumara, di Elisabetta Di Iaconi, di Franco Saccà, ecc. L’articolo di Luigi De Rosa dedicato a Gabriel Garcia Márquez dà voglia di scoprire le sue poesie ed anche di rileggere “Cien años de soledad”. L’avevo letto nella sua traduzione francese, ma ora mi piacerebbe leggerlo in spagnolo. “La crisi della Sinistra italiana” di Giuseppe Leone mi ha interessata. Anche in Francia c’è una crisi della Sinistra, e più generalmente una crisi dei partiti di governo. Capisco benissimo l’indignazione degli Italiani nei confronti della Francia, è legittima! Invece stento a capire davvero il modo di percepire il proprio paese e gli altri paesi dell’Unione Europea di Macron. Ho l’ impressione, forse erronea, che per lui l’ Unione Europea sia un paese. Questa tendenza o volontà di pensare l’Unione Europea come un paese di cui la Francia, l’Italia eccetera, sarebbero solo delle regioni potrebbe spiegare certe cose. Ad esempio, durante i primi mesi dell’esilio del Presidente catalano Carles Puigdemont, varie volte la Guardia Civil spagnola ha varcato la frontiera per fermare in Francia degli automobilisti francesi ed ispezionare la loro macchina - la Guardia Civil
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temeva che Carles Puigdemont tornasse in Spagna nascosto nel bagagliaio di una macchina! -. I mass media francesi sono rimasti quasi silenziosi su questi atti, e in nessun giornale ho letto che la Francia avesse protestato, quindi non si può sapere se l’abbia fatto o no. Forse Macron pensa che gli Italiani debbano accettare le stesse violazioni di frontiera, ma fatte dalla Gendarmerie francese. Tuttavia, da parte del Presidente della Repubblica francese, ci sono soprattutto numerose “provocazioni”, Lei usa davvero la parola giusta, a parer mio. Ma gli Italiani non sono gli unici bersagli di queste provocazioni: varie leggi hanno scandalizzato i Francesi e varie volte le parole di Macron sono state percepite quali insulti da una grande maggioranza di Francesi. Ora Lei conosce il risultato di tutte queste provocazioni rivolte ai Francesi: è il movimento di protesta dei Gilet Gialli. E poi, se le frontiere non importano a Macron per certe cose, le sembrano invece importantissime per lottare contro l’ immigrazione. Per questo, non è diverso dal suo predecessore né da molti altri politici francesi. Mi pare che gli autunni che tanto piacciono a Lei sono soprattutto quelli delle regioni più meridionali di Parigi. Dapertutto i fogliami autunnali sono belli, ma il freddo e il grigiore talvolta giungono presto nella regione parigina. Tuttavia quest’anno i Parigini sono stati fortunati: abbiamo avuto delle numerose giornate autunnali soleggiate, perfino un poco calde, e abbiamo potuto goderci i giardini pubblici. È stato un piacere! Ora le temperature sono basse, ma la “stagione notte” possiede anche il proprio fascino. E poi, è il tempo dei preparativi festivi per chi ha figli e nipoti da vezzeggiare, e questo è una gioia. Le auguro una piacevole fine di autunno e un caloroso Natale. Con amichevoli saluti. Béatrice Gaudy Carissima Amica Béatrice, mi ha fatto tanto piacere che Lei abbia tradotto in francese due mie poesie apparse sul numero del novembre scorso; ma Le confesso
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che la mia gioia è sempre più grande quando, ad essere tradotte, siano le poesie di altri, perché, come direttore, è giusto ch’io metta al vertice degli interessi i miei lettori e i miei collaboratori. I partiti della Sinistra sono in crisi irreversibile dappertutto, perché si sono imborghesiti, proni a un Mercato più potente e spietato di quello che una volta combattevano; i loro dirigenti non stanno più in mezzo al popolo, non lottano più per gli operari (anch’essi scomparsi, ingoiati da una tecnologia sempre più aggressiva), ma cianciano da mattina a sera nei salotti, in giacca e cravatta, truccati come damerini. È proprio come Lei scrive: Macron considera i Paesi europei colonie di una Francia vastissima con capitale sempre Parigi! Non è il primo dei presidenti francesi ad avere un tale concetto, strambo e provocatorio; ricordo le vignette dei giornali satirici francesi che accusavano Charles de Gaulle (1890 - 1970) di considerare la Francia da Dunkerque a Vladivostok! Tutto il mondo conosce il senso di grandeur di tanti politici francesi, ma non bisogna mai esagerare, si rischia grosso, non tutti e non sempre gli altri Paesi possono accettare di venire considerati come zerbini. Violare i confini degli altri e poi sprangare i propri per difendersi dalla immigrazione; pretendere che sia sola l’Italia a dover accogliere e mantenere milioni di stranieri che premono da ogni parte dell’Africa e dell’ Asia, è la più grande ipocrisia che disonora la Francia. Quale vera grandezza, invece, se la Francia si sedesse intorno a un tavolo, con gli altri Paesi europei, umilmente e civilmente, per risolvere insieme i grandi problemi che attanagliano l’Europa e il Mondo, che non sono solo problemi di immigrazione. Amica Carissima, l’autunno è bello dappertutto, ma è naturale che mi riferisca, spontaneamente, naturalmente, a quello che vivo da vicino, quello “delle regioni più meridionali di Parigi”. Un tale autunno mi veste, mi compenetra. Anche la “stagione notte” - come Lei la definisce -, cioè l’inverno, ha i suoi fascini, i suoi colori splendidi, dominati dal
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bianco che richiama la purezza; ma io non sopporto il freddo; le mie ossa son maciullate dall’artrosi ed è per questo che, a incominciare dai primi giorni di gennaio, freddi ma, a volte, luminosissimi, amo abbandonarmi al sogno di un’incipiente primavera. Lo so, ci vorranno ancora mesi perché essa giunga e ci inondi di caldo sole, ma questo sogno mi aiuta a vivere, a superare la “stagione notte”. Un fraterno abbraccio. Domenico *** Carissimo Amico, ti devo dare questa soddisfazione, perché tu e tutto il tuo team lo meritate. Oggi 16 dicembre sul Domenicale de IlSole24Ore, in prima pagina due brevi colonnine in riquadro a firma di Mephisto Waltz, 'Demonietti e Vedova': “Qui nell'Ade, un uccellino mi svela in preparazione una grande mostra monografica su Emilio Vedova... Il venerato pittore veneziano tra l'altro firmò costumi, scenografie e luci per il Prometeo di Luigi Nono: evento indimenticabile, alla Biennale di Venezia 1984, su cui un mio collega deve davvero averci messo la coda, dal momento che non esiste più alcuna testimonianza video o audio del famoso spettacolo... Il Prometeo, spettacolo innovativo, non opera lirica ma frammentazione musicale...”. Emilio Vedova che lavora con Nono per i tondi e gli sfondi del Prometeo, per la prima realizzazione assoluta a Venezia nella Chiesa di Santo Stefano, studiata dal compositore in tutti i suoi angoli a rifrazione sonora, con Renzo Piano a costruire l'arca gigantesca che occupa dal basso all'alto tutta l'architettura in pietra, in cui a diversi livelli vengono dislocati i gruppi dei solisti, mentre la direzione d'orchestra è affidata a Claudio Abbado. I testi poetici, dal greco antico giù giù fino al tedesco e all'italiano, vengono scelti da Massimo Cacciari e ben possiamo immaginare i contatti diretti, le prove, gli intrecci di comunicazione che si vengono a creare, prima della 'prima'! Gli ascoltatori sono avvolti dai suoni e la tragedia dell'ascolto consiste proprio nell'aprirsi ad ogni possi-
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bile avventura, dilatando la capacità d'ascolto e de-formando nel nuovo il risultato percettivo: il live-electronics si avvale del giovane Alvise Vidolin, che punta sulla circolarità delle onde acustiche rispetto alle loro altezze e fonti di provenienze, fino alle superficie riflettenti delle strutture fisse, in riverbero. Tu mi hai consentito, per il GiGi veneziano e per questa su Opera straordinaria, di pubblicare e quindi di rendere noti i percorsi di questo generoso testimone della conoscenza quando si fa ricerca rivoluzionaria, attiva e coinvolgente, non solo in campo musicale perché nulla si è cancellato dal suo animo delle sue precedenti composizioni, come nell' approccio e nella selezione dei testi: cambiamenti mai senza fondamento, dilatazioni che colgono il risvolto delle emozioni e lo appassionano vincolandolo via via al futuro; esplorazioni che mantengono alto il livello della innovazione che chiama tutt'intorno gli Amici a lavorare con lui, a provare, a dare di sé ogni possibile variazione sul tema del suono, della parola nel suono, del suo dirsi in poesia che è canto, del suo darsi come senso dell'anima, sonoro e silenzioso ad un tempo, perché l'oltre possa essere colto come trasposizione dell'attimo, dell'istante, dell'Augenblick, di quel 'colpo d'occhio' o battito di ciglia che si coglie in rete, quando si vedono Cacciari, Vedova e Nono a girare intorno ai tondi, a dire impressioni, a dare motivazioni. '...Ascolta! ...Ascolta!': l'effetto dal vivo è incredibile, smuove dentro, chiede fluidità osmotica, quasi come se fosse una preghiera! Si, carissimo, Prometeo è diventato, nella forza che rimane dentro come fondale indelebile per chi ascolta l'Opera, un nuovo compagno del nostro camminare, per essere in grado di alzare gli occhi verso quel cielo che la Weil vive come spazio del sole e luogo da cui arriva a ciascuno, giù giù fino alla radice delle piante, nascosta dalla terra, la fonte del vivere e della trascendenza; Prometeo è diventato quel lavoro di Luigi Nono che mi ha messo in cammino verso l'Archivio Luigi Nono alla Giudecca, a lavorare con i guanti sulla partitura Ricordi, grandissima, e verso la sua ese-
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cuzione ad Amsterdam nel 2014 e a Parigi nel 2016, proprio a dicembre, dopo i fatti del Bataclan, e che testimonia incredibili innovazioni testuali, quanto alla scelta delle vocalità dei solisti, dei cori, della compagine orchestrale e del live electronics e quanto allo stile mantenuto in un continuum a sostegno del suo processo creativo compositivo; Prometeo è diventato la forza artistica che esce dal mito per cogliere nuova forma, corrente e fluido percorso a scardinare consuetudine e ad aumentare i riverberi, non solo acustici, che l'anima pretende per sé, volgendosi al sole. L'Europa allora, se si accorgerà di questi frammenti di grazia nel lavoro umano, troverà nuova forza per affrontare le sfide che l'attendono e con esse un nuovo modo di vivere le proprie radici, antichissime, nordiche, indo-orientali e mediterranee ad un tempo, perché è nelle radici del linguaggio che il pensiero trova la sua forma successiva, il suo potere di trasposizione nel senso che comunica significato. Grazie, perché dai concretezza alle mie avventure ed attraverso te grazie a tutti quelli che come il nostro amato Emerico Giachery, con la bella e gioiosa Noemi al fianco, si aprono a questi straordinari mondi. Ilia tua, in cammino. Cara Ilia, i tuoi interventi, che si riferiscono alla Musica - a volte in modo diretto, a volte marginale -, sono stati sempre apprezzati da collaboratori e lettori. Io non posso che esserne contento e stimolarti a proseguire. Pomezia-Notizie non ha mai trascurato la Musica. In passato e per un certo tempo, la cara Marina Caracciolo ha condotto una piccola rubrica. Mi piacerebbe ripristinarla se ci fosse un autore/una autrice di buona volontà. Caratteristica delle tue note è che leghi sempre Musica e musicisti ad altra arte e ad altri artisti. Oggi, per esempio, la miscela è tra Nono ed Emilio Vedova. La Musica, infatti, non è solo suono, armonia timbrica, ma immagine, sensazione, impasto incande-
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scente tra spirito e materia, sicché contiene e ben concilia Poesia, Narrativa, Pittura, Scultura. La Musica è trascendenza e, come tu affermi, aiuta l’uomo a proseguire sulla terra nel faticoso, impervio cammino. Mi piace che le pagine del mio mensile possano continuare ad essere mobile tappeto alle tue “avventure” e farle giungere “a tutti quelli che, come il nostro amato Emerico Giachery, con la bella e gioiosa Noemi a fianco, si aprono a questi straordinari mondi”. Tu che stai a contatto quasi continuo con musicisti e musicologi - so che frequenti l’Olimpico -, adoperati affinché la rubrica possa ritornare in vita, tenendo presente, però, che musica è anche quella leggera, purché buona, di livello, e non soltanto la classica. Pavarotti l’ha dimostrato in tante occasioni, nei suoi ormai mitici concerti. Domenico
LE NUVOLE VAGABONDE DI
VITTORIO “NINO” MARTIN di Domenico Defelice oesia narrativa, quella di Vittorio “Nino” Martin, raramente intima, mirando, egli, a raccontare gli altri e le cose che gli stanno intorno, più che le sue interne emozioni. Ciò non vuol dire che queste siano assenti, ma semplicemente riversate in gente, animali, cose e paesaggi. Martin è pittore prima che poeta. Ma sia che si esprima in versi o con i pennelli, il suo animo è sempre macerato dal contrasto tra le bellezze del creato e i tanti drammi umani, animali e vegetati, che la bellezza, con la sua
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spinta esuberante, accentua. Perché, o Dio qualcuno ha scritto-, ci hai messo a soffrire in questo paradiso di suoni e di colori? Vecchi intabarrati, cadenti o ancora agili; donne anziane o giovani quasi mai nell’aspetto di gioia; bambini che non nascondono qualche problema e paesaggi, dove a dominare non è il possente osannare di marmi e di stucchi, né di alberi da foresta vergine, ma casette di paese o di periferia, alberi quasi scheletrici, al massimo il verde cupo di un pino sulla som-
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mità di una collina. Perché preziosità d’ingegneria, marmi, ornamenti “dal bugnato ai cornicioni,/archi, stipiti, fontane” son sempre edificati con sudore e sangue di lavoratori poveri e misconosciuti, oppressi da “lunga sofferenza” e anelanti un solo “tozzo
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di pane”. Allora, il suo, è un paesaggio “selvaggio, semplice, pacato/confidente senza pretese”. Martin è poeta e pittore sociale. Si leggano i versi di “Spazzacamini”, tutti percorsi da intensa commozione. Le sue figure son sempre declinate alla “cultura dello scarto”, per affermare, con forza, il suo amore, la sua vicinanza. Il contrasto tra il vecchio seduto sulla fredda panca - dietro, lungo la strada, poveri alberi appena accennati - e l’elegante signora a passeggio - capelli lisciati di fresco, occhiali, cappotto, borsetta -, è stridente: la miseria sfiorata dalla ricchezza (o, quanto meno, dall’agiatezza). Scontato per chi patteggia l’artista. Il suo cuore e i suoi occhi sono sempre sui derelitti, sui frustrati, persone ma anche animali, come quei cavalli che “arrancavano sudati” sotto la sferza impietosa. A parte il fascino della sua grafica nel pastoso nero di china, la sua tavolozza va “dal verde intenso/ad un pallore giallo,/l’ocra rossastro/(…),/un canto cromatico/di contemplazione”, sulla quale “l’assedio di sterpaglie resiste” (pag. 28) e “le colline/sono pennellate verdi e marrone”. Artista tutto ancorato alla bellezza, troppo spesso umiliata per una scelta imposta; è il caso della donna seduta nei pressi di un albero scheletrico e afflitto, dai rami cascanti come scarne braccia
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abbandonate (la natura compenetrata dal dramma umano); è il caso dell’uomo solitario e dolorante (quanti disoccupati odierni gli somigliano!), seduto con la testa fra le mani, emblema della più nera disperazione, immagine che fa il paio con quella della donna dai lunghi capelli, anch’essa seduta, le braccia incrociate sulle ginocchia, terribile maschera depravata e consunta dall’abbandono e forse anche dalla droga. Abbiamo solo accennato - non approfondito come sarebbe stato necessario - e mischiato pittura e poesia, perché, in Martin, sono la stessa cosa. Noi, comunque, siamo particolarmente attratti dalla sua grafica. Cariche di pathos ci sembrano la panchina solitaria; l’incontro tra la donna di spalle e l’uomo reso quasi un’ombra - disegno particolarmente carico di tensione; il nonno e il nipotino, anch’essi visti di spalle; il pitocco con il lungo bastone, che ci richiama la statua di un San Rocco in una chiesa della nostro infanzia; e, poi, le tante donne, alcune assolutamente belle, pulite e procaci quanto basta. Domenico Defelice VITTORIO “NINO” MARTIN - NUVOLE VAGABONDE - Prefazione di Isabella Michela Affinito - Cenacolo Accademico Europeo Poeti nella Società, 2018 - Pagg. 96, e. f. c.
POESIE DI VITTORIO “NINO” MARTIN (Dal volume “Nuvole vagabonde”)
NUVOLE Osservo divertito le nuvole vagabonde, bianche, cotonate, sospese rosa pallido, azzurre, avanzano le grigie quelle plumbee, si rincorrono veloci trasportate dalle correnti, vagano nel cielo cambiando direzione, momenti di sosta
Pag. 54 con qualche assolo, danzano la primavera si scatenano minacciose, scappano frettolose sembrano inseguite, coreografie meravigliose spettacolo del creato.
SPAZZACAMINI Urlavano a squarciagola non chiedevano elemosina, sporchi senza mai lavarsi affamati e spesso cacciati via, per lo più bambini venduti orfani o figli illegittimi, trattati come schiavi a razioni di cibo ridotte, dovevano essere smilzi per infilarsi nei camini, quel bruciore in gola dalla fuliggine ingoiata, si faceva largo negli occhi un velo di tristezza, creatori di sogni e risate mai una carezza.
PANE Le pietre mute parlano da sé, della sudata opera fatta dagli scalpellini, squadrate a mano con semplici attrezzi, lavorate sul posto nella vicina cava, precisione ed esperienza dal bugnato ai cornicioni, archi, stipiti, fontane per palazzi e campanili, delle tante decorazioni elogiati in ritardo, la lunga sofferenza valeva un tozzo di pane.
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umilia la bellezza, usando una logica la costringe a scegliere, bruciando le ambizioni sul cupo futuro precario, dove i valori reali non hanno più importanza, resta inconsciamente travolta nel complesso, imprevedibile destino.
MERIDIANA
TRAVOLTA La partita della vita con le mosse sbagliate, è una potente metafora della società emancipata, quando il sesso diventa merce di scambio, discrimina una donna
La droga rende le ragazze come bambole di pezza, una adolescenza confusa cerca quello che non c’è, nei vicoli ciechi immagini di ombre grondanti dalla nebbia, c’è la presenza di voci stralci di quotidianità, la vita scorre, anzi fugge inghiottita inesorabilmente, un deserto li separa dal sottile filo di speranza, le mura di pietra parlano ascoltarle è un privilegio,
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Pag. 56 sotto qualunque nome siete vermi inutili, le vostre gesta sono ingiustificabili, inci-vili, proponete il disfattismo non esempi costruttivi, inaudito il vostro modo di una giusta protesta. AI COLLABORATORI
trattengono e sognano l’irreale luce viva, l’impassibile meridiana segna il tempo terreno.
INCI-VILI Un manipolo di teppisti gli eroi del nulla, incappucciati e mascherati sono vigliacchi anonimi, dei boia violenti devastatori imbecilli, contro cose e persone solo per distruggere,
Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (copia cartacea) Annuo, € 50.00 Sostenitore,. € 80.00 Benemerito, € 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia, € 5,00 (in tal caso, + € 1,28 sped.ne) Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio