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JOSEPH ROTH La leggenda del santo bevitore UN PICCOLO GIOIELLO DELLA LETTERATURA AUSTRIACA DEL ‘900 di Marina Caracciolo NO dei meriti dell’ editore Adelphi è senza dubbio quello di farci riscoprire, con ripetute ristampe, molti piccoli capolavori di autori celebri; opere spesso introvabili e da tempo esaurite nei più noti cataloghi editoriali. Uno di questi – giunto alla 39a edizione – è La leggenda del santo bevitore, bellissimo racconto di Joseph Roth, uno dei più valenti scrittori di lingua tedesca della prima metà del Novecento. Ebreo convertito, nato nel 1894 a Schwabendorf, in Assia, Roth visse tra la Germania e Vienna e prestò servizio come ufficiale durante la prima guerra mondiale. Dell’imperial-regio governo di Vienna vide da vicino tutto il fasto decadente come pure la successiva, disastrosa rovina: questo egli seppe raffigurare con capacità narrativa invero
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All’interno: Silonianamente, di Giuseppe Leone, pag. 5 Il D’Annunzio di Lionello Fiumi, di Ilia Pedrina, pag. 8 Per Gianni Rescigno, di Luigi De Rosa, pag. 12 Domenico Defelice Un poeta aperto al mondo e all’amore, di Giuseppe Leone, pag. 15 Alberto Frattini: le ‘Voci di dentro’, di Carmine Chiodo, pag. 19 Elisabetta Di Iaconi, di Domenico Defelice, pag. 21 Domenico Defelice: Eleuterio Gazzetti, cantore della Valpadana, di Tito Cauchi, pag. 24 Quel che resta del tempo, di Sandro Angelucci, pag. 27 Augusto Comte, di Leonardo Selvaggi, pag. 28 Riflettori sulla passerella scuola, di Noemi Lusi, pag. 32 Ma Andersen, chi era?, di Luigi De Rosa, pag. 34 Premio Città di Pomezia 2014 (Regolamento), pag. 36 I Poeti e la Natura (Matsuo Basho), di Luigi De Rosa, pag. 37 Libri ricevuti, pag. 50 Tra le riviste, pag. 52 Notizie, pag. 53 RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Donne e misteri, di Luciano Luisi, pag. 38); Aldo Cervo (Domenico Defelice Un poeta aperto al mondo e all’amore, di Anna Aita, pag. 39); Roberta Colazingari (Domenico Defelice Un poeta aperto al mondo e all’amore, di Anna Aita, pag. 40); Luigi De Rosa (Commiato, di Silvano Demarchi, pag. 40); Renata Laterza (Nel bosco, sulle orme del pastore, di Imperia Tognacci, pag. 41); Maria Antonietta Mòsele (Scaramazzo, di Rossano Onano, pag. 42); Maria Antonietta Mòsele (Forme d’apparenza, di Ciro Rossi, pag. 43); Maria Antonietta Mòsele (dal cuore, di Elena Mancusi Anziano, pag. 43); Maria Antonietta Mòsele (Nel taciuto la gioia, di Innocenza Scerrotta Samà, pag. 44); Maria Antonietta Mòsele (Realtà e fantasia, di Maria Elena Di Stefano, pag. 44); Liliana Porro Andriuoli (Commiato, di Silvano Demarchi, pag. 45); Andrea Pugiotto (Un’avventura per l’estate, di Rossana Guarneri, pag. 45); Andrea Pugiotto (Marco e Mattio, di Sebastiano Vassalli, pag. 46); Pietro Sebastico (Nuovi Salmi, a cura di Giacomo Ribaudo e Giovanni Dino, pag. 47). Lettere in direzione (Ilia Pedrina a Domenico Defelice), pag. 48
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Marco Carnà, Laura Catini, Mariano Coreno, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Biplab Majumdar, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi
straordinaria e con un epico quanto amaro rimpianto nei suoi romanzi, in specie nei suoi capolavori: La marcia di Radetzky e La cripta dei Cappuccini1. Con ancor più grande ama-
rezza Roth vide poi sorgere in Germania la nuova, nefasta corrente politica che avrebbe preso ben presto il sopravvento: il nazismo. Dopo l’Anschluss, perseguitato dalle leggi
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MITO ABSBURGICO NELLA LETTERATURA AUSTRIACA 1 MODERNA. Einaudi, Torino 1963 ; (Cap. VI, Un
Su questo scrittore e la sua parabola creativa si vedano le pagine, fondamentali per acutezza critica, a lui dedicate da Claudio Magris nel suo saggio IL
mondo di ieri, un mito di oggi; pp. 277-286).
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razziali, dovette emigrare in Francia. A Parigi fece parte dell’élite culturale che vi era convenuta, continuò a scrivere senza sosta, ma finì a poco a poco per perdersi come gli artisti cosiddetti maudits, che si trascinavano con pochi franchi in tasca fra una taverna e l’altra, in immancabili abbondanti bevute e precari soggiorni in squallide locande di dubbia fama. A soli 45 anni, nella primavera del 1939, Joseph Roth pose fine alla sua esistenza: certamente malato, depresso per l’abuso di alcolici, e forse troppo consapevole (per l’ acuminata lucidità tipica degli intellettuali) di tirare avanti una vita sempre più inutile e uggiosa, senza scopi e ingombra di delusioni. La leggenda del santo bevitore (di cui si è interessato anche il cinema) è come un suo breve testamento: un fragile e vagamente autobiografico canto del cigno. Secondo la testimonianza – riportata nelle ultime pagine di questo libro – del suo amico, critico e romanziere Hermann Kesten2, il racconto era finito poche settimane prima che morisse, e Roth aveva anche intenzione di farglielo leggere al più presto, dato che gli sembrava molto ben riuscito: una cosa proprio “graziosa”, aveva detto. La vicenda si svolge in quella stessa Parigi degli anni ‘30, e il protagonista si chiama Andreas Kartak: un povero clochard, ex minatore, che vivacchia con altri suoi compagni di sventura sotto i ponti della Senna, con vecchi giornali come coperte e molte sbronze di acquavite per dormire senza pensare. Ma il Cielo (i santi di lassù e quelli di quaggiù) hanno per lui una particolare benevolenza. Così in una sera umida sulle rive del fiume gli viene incontro un distinto signore di una certa età. Proprio a lui, chissà perché, vuole prestare un’apprezzabile somma: 200 franchi. «E come potrò restituirli?», obietta il barbone, che conserva, anche se povero, il senso dell’onestà. Quando ne sarà in grado, dovrà portarli presso la statua della piccola santa
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Diversi anni dopo la morte di J. Roth, Hermann Kesten ne curò l’opera omnia (Werke, 3 voll. KölnBerlin, 1956).
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Teresa di Lisieux, nella chiesa di Santa Maria di Batignolles. Lui promette, e il signore si dilegua nella nebbia. Da qui inizia a dipanarsi la storia, procedendo in modo del tutto singolare come un percorso all’interno di un labirinto: la ferma intenzione di uscirne si scontra di continuo con la disdetta di ritrovarsi sempre allo stesso punto. Il clochard vuole davvero restituire quei soldi, ma ogni volta un ostacolo glielo impedisce: donne del suo passato, o anche mai viste prima, con le quali spende non poco… oppure amici di un tempo, casualmente ritrovati, con cui è tanto bello bere un pernod dietro l’altro per festeggiare l’insolita ricchezza e la rinnovata amicizia. (Tanto le une come gli altri, però, riescono a derubarlo con l’inganno di buona parte della cifra). Eppure i miracoli di cui il Cielo ha cominciato a fargli grazia si susseguono e si intersecano uno dentro l’altro come un misterioso gioco ad incastro: un tale incontrato per caso gli offre un lavoro di cui ha urgente bisogno. Andreas accetta e – che strano! – la paga pattuita è ancora di 200 franchi. Somma che egli spreca poi quasi tutta con l’ottusa euforia del perdigiorno non abituato a gestire con prudenza il denaro. E tuttavia qualcuno lassù non smette di avere un debole per lui. Il vecchio portafoglio usato, avuto per pochi soldi, contiene ormai soltanto pochi spiccioli, ma un bel giorno, guardando bene in uno dei due scomparti, Andreas vi trova un biglietto da 1000 franchi (forse per sbadataggine dimenticati lì dentro da chi l’aveva rivenduto?). Ora sì che è ricco! Adesso può frequentare alberghi migliori e ristoranti che prima non si poteva nemmeno sognare. Anzi, poiché una fortuna tira dietro l’altra, viene a sapere per combinazione che lì a Parigi soggiorna in quel periodo un suo antico compagno di scuola, diventato un famoso calciatore e quindi assai benestante. Lo ritrova, e il vecchio amico d’infanzia per la felicità di rivederlo gli rifà nuovo il vestiario, prenotandogli pure una bella camera in un albergo di prim’ordine. Ma anche stavolta il nostro povero clochard non si smentisce: l’improvvisa
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agiatezza, si fa per dire, gli dà alla testa, e i 1000 franchi si riducono ben presto in sprechi goderecci e scompaiono come acqua di pioggia che si dilegua nei tombini delle strade. Però non lo si può proprio negare: davvero gli occhi di qualche santo devono essere fissi su di lui per metterlo ripetutamente alla prova: forse quelli della dolce Teresa di Lisieux, che gli è pure apparsa in sogno e con angelica pazienza lo aspetta da giorni e giorni nella cappella di Santa Maria di Batignolles… Così un mattino, mentre passa per via tra la folla, Andreas si sente afferrare per le spalle da un vigile. Faccia attenzione, diamine! non si è accorto d’aver lasciato cadere il portafoglio? Ma quello non è affatto il suo: perché mai il vigile glielo porge, sicuro che appartenga a lui?… Lo tiene, tuttavia, e quando guarda all’interno vi scopre due biglietti da 100 franchi. Il monito del Cielo è più che chiaro: è la somma che lui deve finalmente decidersi a portare in chiesa, la stessa prestatagli quella sera dal misterioso distinto signore, fra le brume leggere e oscure ai bordi della Senna… La conclusione – che non riveliamo – è malinconica, certo; e del resto un molle accoramento, percorso qua e là da una vena di sottile ironia, avvolge l’intero racconto. Una fine che l’autore definisce “lieve e bella”, augurandola a sé stesso e a tutti i bevitori. L’ancor giovane Joseph Roth, che sui tavoli dei Caffè di Parigi scrive, discute con gli amici e beve come una spugna, sempre più «cattivo, sbronzo ma in gamba», crea da ultimo una storia di redenzione, una vicenda personale quanto esemplare. La rete in cui il suo clochard si trova impigliato è un avvicendarsi di facili tentazioni che stranamente spuntano e spariscono per poi riapparire di nuovo come i suoi franchi in tasca; ma è un groviglio da cui infine riesce a districarlo una moralità fondamentale, rimasta indelebile anche nella sua affamata istintività di Naturmensch: la promessa fatta è debito d’onore, e allora il debito deve essere giustamente saldato senza tergiversare. Al di sopra di questa “lezione di lealtà”
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prevale tuttavia la certezza di uno sguardo dall’alto che può vigilare con insistente premura su un insignificante pover’uomo, un paria della società che nemmeno è capace di ricordare il proprio nome, se non quando lo riscopre fra le pieghe di un vecchio documento, sbiadito e scaduto da tempo. Il santo bevitore (o piuttosto uno sventurato che ha impietosito i santi) diviene allora un simbolo dell’ umanità oppressa: anonima, misera, santa perché afflitta, ignorata e lasciata fuori dal rassicurante cono di luce della provvidenza. Un’ allegoria degli ultimi, dunque. Gli stessi dei quali Nostro Signore aveva detto: “In verità, qualsiasi cosa farete per costoro l’avrete fatta per me”. Una figura di quei diseredati che anche nel più cupo avvilimento non smarriscono un imprescindibile senso di rettitudine, poiché tutto si può perdere al mondo fuorché l’onore. E questa nobiltà d’animo, umile e fiera ad un tempo, forse a un indulgente occhio divino vale pure qualche terrena fortuna. Marina Caracciolo La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth (trad. di Chiara Colli Staude). Piccola Biblioteca Adelphi. Milano, 2011. 39a ediz.; pp. 76, € 8.
DEDICA A R. Qualcuno ha voluto t’incontrassi, nella mia verde passione. Era una domenica d’inverno, mentre inseguivo un pallone. Tu mi catturasti in un lampo, perché all’amore, si sa, non c’è via di scampo. Peccato tu non comprenda questo mio atteggiamento cortese e scherzi sulle mie parole ritenendole offese; tu, che sogni ancora l’impossibile, che ancora sei bambina, tu che non sei pronta a maneggiare questa lama fina. Marco Carnà Reggio Calabria
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SILONIANAMENTE di Giuseppe Leone
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I è dispiaciuto non poco tornare da Pescina e dal festival siloniano (una tre giorni per ricordare Ignazio Silone) e non aver assistito, sabato 24 agosto, presso la sala conferenze del Teatro San Francesco, all’incontro culturale “Ignazio Silone e la Costituzione repubblicana”, con i relatori Paolo Cucchiarelli, giornalista parlamentare Ansa; Nicola Magrone, magistrato, giornalista e sindaco di Modugno; Walter Capezzali, storico e membro del comitato direttivo Centro Studi Ignazio Silone di Pescina, in veste di moderatore. Sono stato presente nei primi due giorni, prendendo anche parte, assieme a Liliana Biondi e al sindaco Maurizio Di Nicola, alla presentazione di Storia e Utopia, un saggio sul pensiero di Ignazio Silone di Leonardo Grimoldi; e assistendo, di seguito, a Notturno d’autore, un progetto di Federico Fiorenza e Antonia Renzella, con spettacolo teatrale itinerante per le vie del centro storico di Pescina, a cura dell’associazione culturale Acculae,
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con la partecipazione straordinaria di Giuseppe Pambieri, impegnato in un Memoriale su Silone nel cortile del Centro Studi, e attori e attrici come, Valerio Camelin, Mino Manni, Alessandro Loi, Ilaria Falini, Valentina Martino Chiglia, Antonia Renzella e Ilaria Micari, che hanno interpretato passi di autori contemporanei. La sera prima avevo anche assistito a “Silone maestro di vita”, memorie e ricordi degli studenti della VC liceo scientifico Paolo Lioy di Vicenza e proiezione del documentario Incontri Tv con Silone 1971 a cura di Romolo Tranquilli, con la presentazione del giornalista Angelo Di Nicola e il benvenuto del presidente del consiglio comunale Stefano Iulianella. Ma quella terza giornata, dedicata a Silone e la costituzione, la sento ancora oggi come un’occasione perduta per sempre. Solo in parte, però, perché ho fatto appena in tempo a incontrare Nicola Magrone, uno dei protagonisti di quell’Incontro, il quale mi ha fatto dono di un suo testo dal titolo Laici e cristiani “Il seme sotto la neve”, pubblicato nel 1996, dalle Edizioni dall’Interno, Modugno (Ba), dal quale, immagino, avrà preso i suoi spunti per la conferenza del giorno dopo. Si tratta di quattro conversazioni che ruotano, tutte, su Ignazio Silone. Questi i titoli: Al bar Silone, conversazione di Mario Dilio con Nicola Magrone 1991; Stalin, Trotzsky, Togliatti, Silone. Le ragioni della storia, i torti dell’eresia. Ma un bambino marionetta è di troppo. Conversazione di Nicola Magrone e di Clara Zagaria con Fabrizio Canfora, 1991; Utopia e profezia, scomodi ospiti della storia. Alle radici dell’occidente smarrito, scava ed interroga una talpa, Il sud del mondo. Conversazione di Nicola Magrone e di Clara Zagaria con Ernesto Balducci. 1992; “Anch’io a Saul gli ho scritto una lettera” conversazione di Nicola Magrone, di Clara Zagaria e di Guglielmo Minervini con Tonino Bello, 1994. Chiude il libro “Ma era questa la Repubblica che avevamo sognato?” un intervento in difesa della Resistenza e della Costituzione nel 1991 dell’allora Presidente
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della Corte Costituzionale, Ettore Gallo. Colpisce, sfogliando le 112 pagine del saggio, come queste conversazioni fra intellettuali laici e cattolici, avvenute anche in momenti differenti, trovino unità di tempi e di
luoghi, sfociando in una omogeneità e uniformità di toni, contenuti, pensiero e persino stile, tali che sembrerebbero ispirare al testo un ulteriore sottotitolo: Silonianamente, perché siloniano è il punto di vista dal quale gli interlocutori cercano di guardare ai problemi del nostro tempo. Alla maniera, cioè, di un “uomo inedito” - così Balducci definisce lo scrittore - “che mira ad esprimere se stesso, le proprie attese e che, a differenza dell’uomo edito che si conforma alle categorie, al cifrario, al codice della cultura esistente, egli vive con tutti i suoi fallimenti e con tutti i propri compromessi (51); di un uomo che è stato secondo Canfora - “persecutore del fascismo e non perseguitato dal fascismo” (37), per via di quel modo di ribellarsi che caratterizza i poveri di Silone, mai passivi spettatori delle ingiustizie, ma permanentemente in trincea per combatterle; di un uomo, ancora, “che non è mai stato un ideologo - scrive Magrone - ma uno che “si vive” come testimone, nell’azione politica e negli scritti (19); e di un uomo - nota infine Bello - che aveva murate all’interno della propria natura “il rispetto dell’altro, la valorizzazione dell’altro, il rispetto della verità, il rispetto della giustizia, l’ amore del prossimo” (75).
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Silonianamente, anche perché Magrone conclude le sue conversazioni, ricordando, ogni volta, l’aneddoto di Silone che riguarda la storia del bambino-marionetta. Lo pone come domanda ai suoi interlocutori, mettendo così, nel processo dialettico delle sue conversazioni, una notizia storica, ma marginale, una pratica che Silone ha molto seguito nei dialoghi della sua Scuola dei dittatori. E non solo, silonianamente appare ancora, in questo saggio, la prolusione appassionata con cui Ettore Gallo celebra il 45° anniversario della Repubblica, lontana dal linguaggio curiale delle celebrazioni, con frequente richiamo alla coscienza di coloro che hanno voluto e redatto la carta costituzionale, (anche Silone era fra coloro), frutto, sì, di un compromesso, ma ”sincero e dignitoso”, fra tre grandi movimenti spirituali e di pensiero del nostro paese (liberalismo, cattolicesimo e socialismo) che hanno saputo costruire la Repubblica di tutti e non del Presidente. Una costituzione democratica, da cui oggi non dipendono certo i mali che affliggono l’Italia, risultato invece degli “intrighi di potere, dei tentativi golpisti, dello stragismo impunito, delle associazioni criminali coperte da oscure complicità, della corruzione dilagante, dello spreco selvaggio e dall’appropriazione delle istituzioni da parte dei partiti” (105). Un saggio, allora, questo Laici e cristiani “Il seme sotto la neve”, condotto con intelligenza e pacatezza d’animo, silonianamente, in un momento, gli anni ’90, che intelligenti e sereni non sono stati affatto, in cui vecchi partiti corrotti si esercitarono in una non edificante e poco lodevole azione di trasformismo, tale da fare impallidire quello praticato dal Giolitti, cambiando improvvisamente bandiere e casacche; un testo, per me, anche consolatorio – si diceva sopra - e non solo nei confronti del dibattito intorno a Silone e la Costituzione repubblicana, ma anche riguardo all’ultimo appuntamento che chiudeva questo primo Festival Siloniano delle Arti: Suoni, ricordi e sapori siloniani, una cena all’aperto con cibi descritti nelle opere di Silone, con letture di Edoardo Siravo e un concerto con
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melodie di Tosti del baritono Daniele Antonangeli, accompagnato dall’Orchestra sinfonica Va’ pensiero diretta dal maestro Guido Ruggeri. Tutte prelibatezze della gola e dello spirito che accadevano nella serata di sabato 24 agosto, a partire dalle ore Venti, nella piazza del Duomo della cittadina siloniana, mentre io mi trovavo ancora in autostrada nella morsa dei rientri, e per di più sotto una violenta grandinata. Giuseppe Leone N. Magrone, E. Balducci, T. Bello, F. Canfora Laici e cristiani “Il seme sotto la neve” - Edizioni dall’Interno, Modugno (Bari), 1996. Pp. 112
ROSSA PERVICACE VOLUTTÀ Rosso infuocato era lo sguardo intrecciato dei due amanti distesi sul talamo, dove amor si compiva così perfetto, come il rosso del cuor loro che così furioso batteva, mentre un così dolce oltraggio, innocente oltraggio, nasceva ma così puro come pure eran le lor labbra di un rosso rubino che quasi a dispetto morte lenta assicurava al rosso del tramonto che da finestra si, si scorgeva. Laura Catini Roma
OGGI Oggi ho aspettato l’alba e piano, piano è giunta e mi ha donato nuove speranze. Loretta Bonucci
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LAS VOCES Las voces llegan sin ser llamadas porque son ecos de la memoria, sangre del pensamiento que hace llorar los fuertes en el reto a la vida. Sin embargo, nosotros tenemos alas y subimos al cielo en un soplo de inspiracion. Somos bipolares y siempre queremos luz cuando las tinieblas nos molestan. Con el tiempo aprendemos a vencer! Teresinka Pereira USA
DESTINO Una vita da emigrante una morte da straniero. Mariano Coreno Melbourne
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 7.9.2013 Il mondo va alla rovescia. Obama - il pacifista - s’è incaponito a voler bombardare la Siria; Putin - che disprezza i diritti umani - e la Cina - che ogni anno fucila migliaia di persone - vogliono negoziare; il Papa prega in San Pietro insieme ai Musulmani. Ci associamo a Francesco - l’unico che cammina dritto - è proponiamo come legge mondiale un bel digiuno per ogni crisi, giacché, ormai, siamo tutti, anche nel cervello, obesi! Domenico Defelice
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IL D'ANNUNZIO DI LIONELLO FIUMI PRIMA E DOPO L'IMPRESA DI FIUME di Ilia Pedrina
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IAMO nel 1912 e Lionello Fiumi ha diciott'anni. Ha da poco tempo superato una lunga malattia che l'ha visto prostrato dalla depressione. I genitori, preoccupati, lo mandano in Germania, ma la scelta, via privilegiata all'epoca per chi aveva denari, non sortì alcun effetto. Positivo invece fu il soggiorno a Göhren, sul Mar Baltico. Ci informa infatti Gian Paolo Marchi, curatore del volume 'Lionello Fiumi - Opere Poetiche', nelle pagine che aprono ad introduzione il testo: “... Nel 1911, afflitto da grave esaurimento nervoso, fu inviato in una casa di cura a Monaco di Baviera; qui, ma soprattutto a Berlino, dove soggiornò l'anno successivo, cominciò il suo noviziato letterario, traducendo liriche di Arno Holz e di Johannes Schlaf. Sempre in Germania, e in particolare durante il soggiorno a Göhren, scrisse le sue prime poesie. Nel 1913 tornò definitivamente a Verona e raccolse le sue precoci prove poetiche in un volume, 'Polline', che pubblicò l'anno successivo, premettendovi un 'appello neoliberista', una sorta di manifesto letterario da cui emerge chiaramente il rifiuto di seguire i futuristi 'sulle scogliere scabre dell'eccesso, dell'assurdo, del pazzesco': posizione collegabile tra l' altro con la forte tradizione puristica e classicistica operante sia a Rovereto che a Verona, ma che è d'altra parte accompagnata dalla dichiarata avversione nei confronti di chi sprimaccia 'i tarmati materassi ritmici su cui ha per tanto sbasito la poesia italiana...” (Lionello Fiumi: 'Opere poetiche', a cura di B. Fiumi Magnani e Gian Paolo Marchi, Verona 1994, pag. XII). Sull'appello neoliberista, che per diritto temporale viene prima di ogni altro manifesto che leghi il realismo nella lirica, diremo più
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dettagliatamente, citandolo e commentandolo come fondamento di progetti e prospettive che nel corso degli anni daranno ampio frutto nella 'stagione colma' del Realismo Lirico appunto. Alla ricerca della presenza di Gabriele D'Annunzio nella formazione e negli ideali poetici del Fiumi, dò ancora la parola al Marchi: “Il futurismo italiano è considerato nient'altro che ' la coda d'un febbrile movimento vers -libriste il quale ha agitato la poesia mondiale degli ultimi decenni' e ha dato poeti come Whitman, Kahn, Laforgue, de Régner, ViéléGriffin, Verhaeren: ad essi viene accostato D'Annunzio, 'poeta massimo della terza Italia', del quale Fiumi si dimostra fervido ammiratore, pur rivendicando nei suoi confronti una totale indipendenza per quanto riguarda il modo di trattare il verso libero, che viene sciolto da ogni regola metrica. Il verso libero, sostiene Fiumi, 'non è che un ritorno all'antico', 'alla primitiva spontaneità della melodia libera' del Cantico delle Creature; e rivela accortamente un'analoga tendenza verso il ritorno all'arcaico nelle arti plastiche e figurative. Con le poesie di questo primo volume, 'che sa di non esser polpa di frutto, sì manciata di polline', Fiumi offre un saggio di notevole virtuosismo, che è in funzione di una sensualità accesa e sempre vigile, attenta soprattutto ai colori (l'ut pictura poesis avrà certo tentato il giovane poeta amico di pittori): maestro e modello riconosciuto, D'Annunzio, dal quale desume in parte lessico e rime e magniloquenza descrittiva (Piazza delle Erbe, Lamento consueto, Il canto della luce); del resto, dal volume di Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, pubblicato dal Circolo filologico linguistico di Padova emerge chiaramente che D'Annunzio fu passaggio obbligato anche per quei poeti che programmaticamente intesero allontanarsene....” (op. cit. pp. XII-XIII). Vado direttamente al testo della raccolta poetica 'Polline', inserito nel volume: essa ha una dedica 'Allo scultore Ruperto Banterle che volle trattenere nella perennità della materia la fugacità dei miei diciannove anni.
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(1913)' e le poesie vanno dal 1912 al 1913 appunto, dopo l'apertura, datata 'Verona, luglio 1913', che riporta tutto l' 'Appello Neoliberista', la cui sintesi può essere contenuta in queste sue parole, nel testo ben evidenziate in grassetto: “Si può trattare il verso libero e non essere affatto futuristi. Originalità, ma sagomata in linee di bellezza. Né passatismo, né futurismo, sì: Presentismo. Uniamoci almeno idealmente in un massiccio organismo che possa far valere un nome. Si sappia che esistono poeti d'avanguardia che non sono futuristi. Poiché il verso libero è la nostra caratteristica formale, chiamiamoci poeti neoliberisti. Neo, in quanto trattiamo il verso libero con criteri tecnici del tutto indipendenti da quelli per esempio del D'Annunzio. Padroni noi di adoperare infatti anche i versi monosillabi e bisillabi che la retorica non ammette come versi, che il D'Annunzio nelle Laudi non s'è mai concessi, ma che noi riteniamo talvolta d'efficacia magnifica, quasi ideografica, per dar nerboruto rilievo a un isolamento concettuale. Arbitri, noi, di adoperare versi, o se volete incisi, costruiti con delle compenetrazioni di ritmi, guidati nella costruzione e nella divisione dei versi da criteri non solo di musicalità ma altresì, e talora unicamente, di rilievo epigrafico. Arbitri, noi, di trattare quella delle tecniche del verso libero la quale meglio ci piaccia...” (L. Fiumi: 'Opere Poetiche' - Appello neoliberista - , op. cit. pag 7). Allora fin da subito il d'Annunzio per Fiumi entra a fare da punto di riferimento tecnico, da prendere in considerazione nella sua globalità, particolareggiando ogni investigazione, per poi percorrere altre avventure, nell'ispirazione e nello stile. Ma è del 1912 la lirica in tutto dedicata al Vate e che qui riporto per passi significativi. “ A GABRIELE D'ANNUNZIO 1. In faccia al riso liquido di questo mare di Germania
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che riempie di verde i miei occhi castanei d'italiano io, ritto nella luce poderosa e tentacolare del mezzogiorno, Ti penso, o Poeta. Passa un alcione. Io tengo nella mano il Tuo miniato volume e Ti penso. Sei degno, e Tu solo dei terzi poeti italici, ch'io Ti pensi in faccia a ciò ch'è Eterno e Immenso, ch'è luce e ch'è volo. Ho le labbra dorate di raggi solari e versi Tuoi. Bianco alcione che inghiotti gli azzurri tersissimi, là, piglia! Ti gitto il verso d'un alcione latino! Gli ho gittato il Tuo verso, Poeta! Imagini, o Imaginifico, un volo imperiale, ebrezza alla pupilla, il quale per prodigio nuovo, si sciolga, in melodia, ebrezza per l'orecchio? Tale oh spesso il Tuo verso! ….. Il Tuo nome breve ed enorme è fatto per l'Aria. È degno che si mesca il numero del ritmo Tuo, al ritmo selvatico del Mare, e che le rime echeggino a intervalli di su la Tua pagina come le schiume ad intervalli sulla pagina eterna del Mare. …. Io che mi dissi ieri e mi dirò domani Poeta in mezzo alla mandra opaca, io so che sono infimo nel Tuo cospetto come si è infimi in cospetto dell'Oceano e del Sole, so che il mio canto presso il Tuo è perla efimera e atona ….
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Perciò io infimo io efimero grido al pedagògo scialbo che io sono degno di scàndere il Tuo ritmo! Ecco, dal mio labbro sgorga il Tuo verso come dal labbro d'un orizzonte crepuscolare sgorga il volo imperiale. 2. Borghese ventroso, pedagògo agro, ingiuriate il Mare! Poiché egli è il Mare! … Indietro! Non guardate! Raggricchiatevi! Si lasci me col Mare e col Poeta! …. Il Tuo nome squilla l'Annunzio. Il Tuo nome squilla l'Adempimento. È fatto per Noi: Giovani. E il borghese ventroso e il pedagògo acido parlano di domani? di domani, loro? Ridiamo, poeta! Vedi?, loro son grigi, son bianchi: ma i capelli miei sono nerissimi; ma io ho diciott'anni; ma con me è coorte di giovani. Ma il domani siamo Noi. Sulle sabbie del Mar Baltico, agosto 1912”. (L. Fiumi, op. cit. pp. 51-56). I docenti delle aule 'murate' vengono beffeggiati perché non sanno respirare, cioè non sanno vivere e il d'Annunzio, che in questa lirica viene definito come 'Poeta che incorona sé', porta questi giovani, Fiumi in testa, fuori dalla banalità e li fa entrare nella Storia, e li fa essere e sentire Eroi, nelle imprese di terra, di mare e dell'aria, come in quelle, certo meno impegnative e perigliose, di alcova. Questo del Fiumi è come un passaggio obbligato per capire il clima che prepara l'aura innegabile che accompagnerà il d'Annunzio, affinché si realizzi compiutamente il suo intento 'Voglio essere e sono il Maestro'. Il Gozzano, in una bella lettera al Fiumi, da Torino, scritta il 17 Marzo 1915, e riportata nell'Introduzione del
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Marchi, coglie fin da subito che il d'Annunzio è Maestro di questo giovane che non vestirà mai il grigioverde, per ovvi motivi di salute: “Poeta! Sappia prima di tutto che io sono il più salvatico e il meno turibulario collega che esista. Premessa necessaria perché Lei dia qualche valore alla mia lode. Ho letto, riletto le sue poesie, scalfito con l'unghia certe immagini di bellezza compiuta e ho messo il suo volume tra i venti libri di poesia europea - vecchia e giovine – sui quali sento il bisogno di ritornare. Le giuro (è necessario, in questi tempi d'urbanità compiacente), Le giuro ch'io vedo in Lei l'unico 'poeta giovine d'un'arte giovine' degno di libertà.... Lei farà molto..... Ogni poesia sembra composta non di sillabe, ma di note musicali: e molte già mi sono nel cervello, mi perseguitano l'orecchio come i polimetri più belli del libro dell'Alcione.... Suo Guido Gozzano” (L. Fiumi, op. cit. pag. XV). Allora, in quel momento il d'Annunzio ha superato i cinquant'anni, il Gozzano ne ha trenta e non si sente bene e il Fiumi ha appena superato i vent'anni ed è ora in piena attività e vigore, dopo aver capito che l'origine della sua malattia era legata al clima frustrante e pernicioso di certa cultura borghese dell'epoca, troppo puritana per i suoi gusti. Infatti il suo campo di battaglia più articolato ed assiduamente attraversato sarà quello tra le lenzuola di una casa d'appuntamento o sull'erba della 'campagna circondariale', quella zona speciale, così da lui denominata, che si stendeva tutt'intorno a Verona. L'impresa di Fiume portata avanti dal d'Annunzio è del 12 settembre 1919, conseguenza del pesante smacco che il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson ha inflitto all'Italia, sotto gli occhi di tutti – la così detta 'Pace mutilata' del trattato di Versailles e il Vate in quel giorno guida quasi tremila militari ribelli appartenenti al Regio Esercito, i Granatieri di Sardegna, appunto, da Ronchi a Fiume, città che egli, quel giorno stesso annette al Regno d'Italia. Ognuno investighi come vuole anche sul ruolo del maresciallo Bado-
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glio, nominato alla bisogna per contrastare con ogni mezzo, ammazzando se occorre, la volontà del popolo di queste terre, a me interessa quanto D'Annunzio scrive a Mussolini, chiedendo aiuto concreto: “Mio caro Benito Mussolini, chi conduce un'impresa di fede e di ardimento, tra uomini incerti o impuri, deve sempre attendersi d'esser rinnegato e tradito 'prima che il gallo canti per la seconda volta'. E non deve né adontarsene né accorarsene. Perché uno spirito sia veramente eroico, bisogna che superi la rinnegazione e il tradimento. Senza dubbio voi siete per superare l'una e l'altro. Da parte mia dichiaro anche una volta che avendo spedito a Milano una compagnia di miei legionari ben scelti per rinforzo alla vostra e nostra lotta civica – io vi pregai di prelevare dalla somma delle generosissime offerte il soldo fiumano per quei combattenti. Contro ai denigratori e ai traditori fate vostro il motto dei miei 'autoblindo' di Ronchi, che sanno la via diritta e la mèta prefissa. Fiume d'Italia, 15 febbraio 1920. Gabriele d'Annunzio”. Ho ricavato questa lettera originale da Internet e me la sono fatta stampare ingrandita e dal colore senape chiaro, perché lui, il d' Annunzio, si firmava con la 'd' minuscola! Lionello Fiumi continuerà ad essere Poeta, aprendosi però al suo tempo con cipiglio e creatività nelle scelte come nella scrittura. Collaborerà con Talamini del Gazzettino e sarà a Venezia e al Lido incontrerà Giuseppe Antonio Borgese che lo intervisterà con grande interesse, poi partirà per la Francia, si stabilirà a Parigi ed anche qui aprirà contatti importanti e incancellabili dalla sua esperienza di vita, arrivando a sposare nel 1924 la giovane Martha Leroux. Viaggi, esperienze d'amore e di scrittura, vita e vita audace, come il suo Maestro, del quale dirà ancora e ancora, da critico letterario, per gli spedialisti, i cultori e gli appassionati d'Italia e d'altrove. Si, perché poi arriverà il Capasso e il Caprin e il Pedrina ed Elena Bono e la Lenisa ed il Gerini ed il Serra, il Fiumara e il Marchi, la Florette Morand-Capasso, che conoscerà Mauri-
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ce Carême e Fiumi a Bruxelles, prima che Aldo Capasso, divenuto poi suo sposo, con gran sofferenza della nostra amata Solange de Bressieux. Si, tutti questi e ancora tutti gli altri, tutti quelli di Realismo Lirico, tutti. Ilia Pedrina
LA PROCESSIONE Mai alloro sulla mia testa nemmeno nei giorni di festa quando vedevo la processione passare sotto la mia finestra. Nella piazza favellavan i giovani contenti nel sole della Madonna che portavan sulle spalle godendosi il momento con l’occhio aperto sul firmamento! Eran giovani, belli e forti e solo i più vecchi son morti! Pure nonna non c’è più: vestiva sempre di nero ed al cielo l’ha chiamata Gesù! Mariano Coreno (Melbourne, Australia)
STA TERMINANDO Sta terminando agosto, sta bussando settembre, sta terminando la bella stagione. Piangono gli alberi in processione e mesta è la natura. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi
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RESCIGNO
BISOGNA “LAVARE L'ANIMA”
( “Nessuno può restare”) di Luigi De Rosa
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'ULTIMO ( per ora) libro di poesie di Rescigno (il ventiduesimo, se non sbaglio) dal titolo “Nessuno può restare”, è uscito nel 2013 per i tipi della Genesi Editrice di Torino, che di lui ha edito anche altri sei libri, Tutto e niente (1987), Angeli di luna (1994), Dove il sole brucia le vigne (2002), Anime fuggenti (2010), Cielo alla finestra (2011) e Il soldato Giovanni (prosa) (2011) . Stavolta la silloge vanta una calzante prefazione di Giannino Balbis, con illuminanti “interventi critici” di Franca Alaimo e di Fulvio Castellani. In copertina, un'opera di Domenico Severino, pittore di Pompei “amico della poesia”. Mi fa piacere ritrovare qui riunite, per parlare della poesia rescigniana, queste tre “firme” che stimo molto. Recentemente avevo apprezzato, di Balbis, anche la curatela ( insieme a Fulvio Bianchi e Paola Salmoiraghi) di un libro tanto importante quanto difficilmente reperibile quale quello contenente gli “Atti del Convegno Nazionale di studi su Aldo Capasso” svoltosi al Liceo Calasanzio di Carcare (Savona) il 20 aprile 2012. Quanto a Franca Alàimo avevo letto a suo tempo, fra l'altro, un suo ottimo libro-saggio su Rescigno dal titolo “La polpa amorosa della poesia” (Lepisma, Roma). Mentre di Fulvio Castellani mi riesce difficile non ricordare , oltre alle sue sillogi poetiche (tra cui “Orme e penombre”, Ursini Edizioni), anche un' ”Intervista” sulla mia poesia, uscita un giorno sulla copertina di un numero di PomeziaNotizie. “Nessuno può restare sempre tra terra e mare ad aspettare. Bisogna lavare l'anima con le lacrime ed asciugarla alla tramontana di febbraio.” Così canta il poeta salernitano Gianni Rescigno, nato nel 1937 a Roccapiemonte (agro
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nocerino-sarnese) e residente a Santa Maria di Castellabate (Cilento) nella poesia eponima del libro. Non c'è tempo da perdere, non si può stare ad aspettare, dal momento che il Tempo, con il suo scorrere inarrestabile, domina e condiziona tutto, cose materiali ed anime spirituali. “Quest'ultima raccolta – scrive, tra l'altro Balbis nella sua prefazione intitolata “Il respiro di una vita” - dà ennesima prova dell'estensione e della raffinata qualità dei registri e delle forme liriche di Rescigno – fra idillio ed elegia, esplosioni di nodi emotivi e confessioni più distese, massima concisione espressiva... e slarghi da poemetto... - nonché dei suoi temi più congeniali, che qui sembrano annodati in percorso, sulla falsariga del viaggio stesso dell'esistenza, fino ed oltre il suo orizzonte terreno, e calati in un'atmosfera vagamente autunnale: quasi che il poeta fosse ormai estraneo alla scansione materiale dei giorni, delle rotte, degli approdi, esperto e saggio marinaio affrancato da fatiche e tempeste, serenamente pronto ad assaporare la mitezza del tramonto e i misteri della notte...” Concordo, particolarmente, con Balbis quando evidenzia l'importanza della Natura nella poesia di Rescigno, sia come compagna prima e fedelissima di questo viaggio poetico sia come presenza imprescindibile e inseparabile dall'uomo e dal poeta in tutta la sua pluriennale produzione . E' quanto mai esatto dire che “l'uomo... e il poeta Rescigno sono inseparabili dall'ambiente naturale in cui vivono totalmente e costantemente immersi e attraverso cui esprimono ogni piega del proprio sentire...”. Credo che la simbiosi profonda con la Natura e il fiducioso abbandono alla Bontà di Dio, che ne è il creatore, costituiscano due pilastri fondamentali ( anche se non gli unici) in tutta la costruzione artistico- letteraria di Rescigno. A partire dalla prima silloge, Credere, edita da Gugnali di Modica nel lontano 1969, fino ai giorni nostri, la sua poesia si snoda con soave naturalezza dallo scrigno del passato al rifugio consolatorio del sogno, fino alla speranza-certezza di Dio, l'u-
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nico che possa dare un senso e un significato alla vita dell'Universo e dell'uomo. La religiosità, intrisa di abbandono e fiducia in Dio, nella poesia di Rescigno è onnipresente. Non vorrei dare l'impressione di esagerare (una volta tanto !) se dico che questa è forse una delle poche volte in cui, leggendo e rileggendo Rescigno, e soprattutto i commenti critici ai versi di quest'ultimo volume, non ho sentito così acutamente la mancanza del grande Bàrberi Squarotti, il Nume tutelare, il grande Critico (e poeta egli stesso) che ha sempre capito a fondo e valorizzato questa poesia scrivendo le prefazioni, le introduzioni, i commenti, a quasi tutti i libri del poeta di Santa Maria di Castellabate. Un critico, in effetti, che si è posto all'estremità della diga foranea come un potente faro che scandaglia e illumina un vastissimo braccio di mare. La questione teologica o escatologica sembra risolta definitivamente, una volta per tutte. E questo da molto tempo, anzi, da molti libri. Della Natura s'è detto. Dove c'è lei c'è Rescigno, e viceversa. Anche se la poesia attuale di Rescigno non dipende esclusivamente dalla Natura, perché, come giustamente afferma Franca Alàimo, “si ha la sensazione che il poeta, che sempre ha cantato e continua anche qui a cantare paesaggi con la sua abituale nota elegiaca, sapendo che tutto si ripeterà per i vivi che verranno ad abitarlo, diriga preferibilmente il suo sguardo verso il luogo interiore dell'anima, nel quale le immagini sono di ben altra natura.” Anche se la Natura non sempre è limitata ai “paesaggi” ( ma il discorso meriterebbe un approfondimento in altro momento). Del sogno, anche, si è fatto cenno. Senza la Poesia (e il sogno) il mondo e la vita sociale sarebbero davvero una gran brutta cosa. Provate a leggere regolarmente i giornali e a guardare sistematicamente i telegiornali due volte al giorno per 365 giorni all'anno, e così via per anni. Con l'alluvione di cronaca nera, sempre più orripilante e disumana, che li condisce a dismisura per aumentare lo share e le vendite. “La negatività del mondo – la vio-
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lenza della storia e della cronaca - dice, tra l' altro Balbis - da cui si è costretti a prendere le distanze, è il tema da cui parte il viaggio di Nessuno può restare. Primo schermo a questa negatività, il silenzio...” E infatti, l'Autore si tiene lontano, si apparta, si “nutre di silenzio”: “Mi nutro di silenzio. Quando sarò padrone d' una stella nessuno si accorgerà della mia partenza”. Mezzo di trasporto nel viaggio della vita, la Poesia. Addirittura, per Balbis, Rescigno “vive di poesia, in una sorta di stato poetico perenne, come vivevano di immaginazione gli antichi di Leopardi, naturalmente e assolutamente poeti.” Leggiamo, a questo proposito, “ Saremo ancora uomini”: Verrà il tempo in cui di nuovo parleranno le parole e i poeti passeranno a cantarle per le strade. Così il cuore imparerà ad amare: sorriderà la gioia, piangerà il dolore. Saremo ancora uomini: una mano sull'anima dell'altro e a Dio col pensiero. Ciò che colpisce in modo immediato, nella poesia di Rescigno, è il linguaggio. Un effluvio ininterrotto di parole fresche, di immagini originali, in flessuosità e in dolcezza, senza sbattimenti di grancasse e di piatti. Linguaggio comprensibile per il lettore, ma mai sciatto. Senza orpelli inutili, ma mai disadorno. Aderente alla terra e alle fatiche aspre che essa può comportare; al destino di chi vive esclusivamente del proprio lavoro. Linguaggio alla perenne ricerca della bellezza non fine a se stessa ma come immagine del sentimento umano e della onnipotenza divina. Linguaggio di un poeta innamorato della vita sempre e comunque. Linguaggio naturaliter musicale, oltre che musicabile, al punto che oserei augurarmi che un grande musicista trasformasse in “canzoni” di altissimo livello molte poesie di Rescigno. La caratteristica della musicalità di questa
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poesia è evidenziata anche da quel critico dolce e profondo che è Franca Alàimo, che nel suo intervento intitolato “Tra i lembi estremi della vita lo stupore e il sogno” dice, tra l'altro : “ Partirò da due versi con i quali Gianni Rescigno definisce se stesso un uomo poco lontano dal mistero per leggere l'architettura compatta della silloge “Nessuno può restare” nella quale ancora una volta, ma con sfumature più dolenti, veicolate dalla forte musicalità del dettato, l'autore affronta il tema della vecchiezza e della sua prossimità al distacco dalle cose del mondo...La poesia di Rescigno – ribadisce la Alàimo – è davvero un gesto perentorio, forte e ostinato ed allo stesso tempo un ascolto, e forse autoascolto, musicalissimo.” In verità sono anche molti altri gli aspetti della poesia rescigniana ( che la Alàimo conosce molto bene) ad essere presi in considerazione, in un testo che mira a scandagliare la poesia rescigniana ben oltre i confini di “Nessuno può restare” ( pur essendo questa silloge una summa della produzione precedente). Non si è verificato il rischio paventato, in un lontano giorno, da Tombari. Infatti, l'artista salernitano sembra avere fatto proprio il timore-consiglio formulato con sincerità, a suo tempo, dall'indimenticabile autore di Frusaglia, Fabio Tombari, che praticamente contribuì a lanciarlo come poeta di primo piano: il timore, cioè, che il giovane poeta-rivelazione facesse come certi geniali pittori nei quali il gusto e la ricchezza dell' ”ornato” sembra soffocare la purezza e la forza del dipinto. Questo, per fortuna, non è avvenuto per merito dello stesso poeta, che alla fremente ricchezza naturale della sua sorgente di immagini ha messo i freni della mente e della cultura, da vero artista, lavorando anche molto di “lima”. Quanto a Fulvio Castellani, nel finale del suo “intervento”, intitolato “L'ora tarda, le ombre e le penombre dell'essere”, così conclude : “ E' stato scritto che i poeti, cercando il bello, riescono a trovare più verità che non trovino i filosofi cercando il vero. Ebbene, Gianni Rescigno è uno di quei poeti...lui rie-
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sce a navigare nella quotidianità, nel sogno e sopra le nuvole tonificando con estrema saggezza ogni incursione affettiva, ogni vibrazione dell'animo, ogni ossatura del tempo, ogni brivido di luce e dei sensi. Come a dire che se “nessuno può restare” in carne ed ossa sulla Terra, la poesia lo potrà fare. E la poesia di Gianni Rescigno ha tutte le carte in regola per resistere al tempo che inesorabilmente ci sfugge di mano.” Luigi De Rosa
LA FERIA DI MALAGA Sedici agosto. Un alone circonda i tre quarti di luna. Nel cielo non brillano stelle. Le stelle si muovono tutte sul mare: sono stelle le luci delle barche vaganti, in attesa come la folla che accorre alla spiaggia per vedere i fuochi artificiali. Come la folla che a gruppi ricopre la rena con tavolini e sedie, con bevande e viveri, per vivere la lunga notte di vigilia e attesa. Intanto il mare dolce spumeggia a riva. Più tardi al suo profumo si unirà l’aroma delle sardine alla brace. Si gremisce la spiaggia e sotto l’intensa luce dei fanali la rena è una lunga striscia bianca e nero è il mare, e nero è il cielo che con lui si confonde, mentre le onde instancabilmente sussurrano. Fra poco esploderanno i fuochi e sarà festa. Sarà l’inizio della Feria di Malaga. Mariagina Bonciani Milano
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DOMENICO DEFELICE Un poeta aperto al mondo e all’amore di Giuseppe Leone
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IBRO bello e soprattutto interessante, scritto in un stile limpido e accuratissimo, come di rado accade di constatare nella saggistica corrente, questo di Anna Aita dal titolo Domenico Defelice - Un poeta aperto al mondo e all’amore, edito nel giugno 2013 dall’Accademia Internazionale Il Convivio di Castiglione di Sicilia. Dopo i saggi di Sandro Allegrini, Leonardo Selvaggi, Orazio Tanelli, Eva Barzaghi, dedicati all’illustre letterato di origini calabresi, opportunamente ricordati e commentati dall’autrice in calce al volume, questa nuova monografia della Aita non solo accresce la bibliografia sull’autore, che pure comincia a essere corposa se si tiene anche conto delle numerosissime recensioni pubblicate su riviste letterarie, ma, fissando, per il momento, sul tre a due il risultato di misura a vantaggio dei maschi, fa riflettere come la poesia di Defelice desti interesse e fascino, quasi allo stes-
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so modo che negli uomini, anche nell’animo femminile. Si tratta di un libro di 96 pagine, corredate anche di foto che ritraggono il poeta dai tempi della sua infanzia ad Anoia in Calabria, dov’era nato nel 1936, agli anni della maturità che lo mostrano in compagnia dei figli e della moglie Clelia e di note personalità del mondo della cultura: da Francesco e Ilia Pedrina, a Solange De Bressieux, Orazio Tanelli, Ada Capuana, Saverio Scutellà, Sandro Gros-Pietro, Giulio Andreotti, Papa Giovanni Paolo II. Introdotto da un’attenta e acuta prefazione di Angelo Manitta, che, tra le altre cose, ne evidenzia il taglio storicistico della ricerca, scrivendo che: “la letteratura di Defelice è strettamente collegata alle vicende vissute e alla realtà in cui il poeta vive, alle lotte quotidiane e ai valori umani” (5), il libro è suddiviso in sei capitoli, attraverso i quali l’autrice ripercorre i momenti più significativi della vita del poeta. Dagli anni dell’infanzia trascorsa nel suo paese nativo, in mezzo a una natura agreste e pastorale, presto funestata dagli orrori della guerra; a quelli della giovinezza,
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vissuti in una Roma non ancora toccata dal boom economico, dove egli, ancora aspirante poeta e alla ricerca di un lavoro, conduce vita bohemienne fra occupazioni precarie e amori fuggitivi, confortati solo dai sogni di gloria letteraria; a quelli ancora delle sue prime raccolte di liriche come Piange la luna (1957), Con le mani in croce (1962), Un paese e una ragazza (1964), 12 mesi con la ragazza (1964), La morte e il Sud (1971); Canti d’ amore dell’uomo feroce (1977): tutte commentate alla luce del saggio di Allegrini, di cui la Aita si avvale, “nell’intento di dare una visione delle opere del Defelice più ampia possibile” dal momento che “le pubblicazioni risalenti agli anni giovanili” a lei “sono completamente sconosciute” (21). E non solo questi primi esercizi letterari, l’autrice commenta anche le opere della maturità, questa volta con letture di prima mano, puntando sul piano del loro ritmo dialettico onde giustificarne l’ispirazione, sempre oscillante fra peccato e redenzione, ma anche attenta a vagliare quanto la critica scrive su Domenico Defelice, come si verifica già a partire da Arturo dei colori (1987), una raccolta di racconti e novelle con introduzione
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di Michele L. Straniero, per il quale “le pagine di Defelice sono limpide portatrici di un messaggio “di vita e d’amore”, in cui è sempre presente “una delicatezza fiabesca” (40), mai disgiunte da insegnamento morale (42). Riprendendo, poi, da To erase, please? (1990), poemetto “delizioso” e dalla vena ironica, nonché “di sintesi del secolo e delle contraddizioni umane (sociali, letterarie)” per Maria Grazia Lenisa che ha curato la prefazione (43), l’autrice rilegge, una dietro l’altra, L’orto del poeta (1991), evocazione e metafora di un mondo scomparso, dove era solita riunirsi la famiglia per ascoltare i racconti del nonno (48); Alpomo (2000), poemetto satirico sulla politica degli anni ’90, che Andrea Bonanno, nella prefazione, definisce anche “dal tono burlesco” (51); Resurrectio (2004), poemetto satirico in versi “che ci accompagna fra corsie d’ospedale”, con prefazioni di Vittoriano Esposito, il quale pone “il dolore come elemento principe atto a stimolare l’ ispirazione poetica”, e di Maria Grazia Lenisa che vede ancora, nella presenza del dolore, l’ elemento che “sgarra la poesia”, che “le strappa i vestiti” (54-55); Pagine per autori calabresi del Novecento, saggio sugli autori
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della sua terra, attraverso le quali, la Aita può conoscere anche il Defelice saggista e definire meglio i criteri delle sue indagini, sempre
tendenti a cogliere le emozioni degli autori, “riuscendo così ad attuare una indagine psicologica di ciascuno” (60); Diario di anni torbidi, dove l’autore racconta gli anni che vanno dal ’63 al ’69; Alberi? (2010), un testo di poesie “apparentemente semplice, ma che semplice non è”, alberi come “incanto di una natura che diventa, di volta in volta, emblema maschile e femminile (68); Pregiudizi e leziosaggini (2008) e Silvìna Òlnaro (Eluana Englaro) (2009), due pièces teatrali, in cui, fra altri critici, tra cui Carmine Chiodo, l’autrice cita anche il sottoscritto, per sottolineare le ascendenze della prima ad autori come Ibsen e certo Durrënmatt e l’ispirazione satirica della seconda, assai più vicina ai versi di Resurrectio, che non a precedenti suoi scritti teatrali; e infine, la rivista letteraria PomeziaNotizie, fondata e diretta nel 1973 dallo stesso Defelice, quest’anno giunta al suo quarante-
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simo compleanno, ma che la Aita celebra come se si trattasse ancora di una ragazzina: “una creatura vispa e chiacchierona… talvolta… ridente, talaltra imbronciata. Sempre seria come si deve ma, qualche volta, anche monella” (74). Scrivere che il saggio sia esaustivo e completo, non rende totalmente giustizia a un libro che, invece, vuole essere anche altro che non un semplice catalogo delle vicende e delle opere di Domenico Defelice. Già il suo sottotitolo, Un poeta aperto al mondo e all’ amore, apre a pretese di questo genere, se anche Manitta sembra darne credito, scrivendo che da esso vien fuori “tutta la dimensione intellettuale e umana del Nostro, con particolare attenzione al connubio tra biografia e poesia, tra dimensione esistenziale e ricerca letteraria” (5). Ne è conferma il fatto che l’autrice, con questo suo saggio, ci consegna un indiscusso protagonista della vita letteraria italiana da oltre mezzo secolo, a cui le molteplici altre attività di scrittore, critico, editore, giornalista, grafico, pittore, non sembrano minimamente avere scalfito l’ unità della sua personalità, ne avrebbero anzi, favorito la completa esternazione di essa, mettendosi tutte quante al servizio della sua visione di poeta. E Anna Aita pare averlo seguito proprio su questo terreno, facendo emergere l’immagine di un uomo libero,
autentico, vero, appassionato alla lotta civile, che ha cercato di “scrostare”, dicendola ancora con Manitta, “la struttura fatiscente della società attraverso la parola.” (5) Giuseppe Leone Anna Aita - DOMENICO DEFELICE Un poeta aperto al mondo e all’amore - Editore Il Convivio,
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Castiglione di Sicilia (CT), Euro 12,00. pp. 96
Immagini: 1 - Ariccia (Roma), 6 febbraio 1966, da sinistra a destra:il Prof. Filippo Ferrara, lo scrittore Aldo Onorati, il corrispondente della Telekronos di Torino Domenico Defelice e lo scrittore e pittore Carlo Levi. 2 - Pomezia (RM), 22 ottobre 1983: Premio Internazionale Città di Pomezia. Al tavolo della Giuria, da sinistra: la scrittrice e poetessa Ada Capuana, Presidente della Commissione; Domenico Defelice, organizzatore; Gaetano Penna, in rappresentanza del Comune, mentre consegna il Premio Speciale (targa e diploma) al poeta dialettale calabrese Ettore Alvaro; il prof. Pasquale Blanco, presentatore della cerimonia. 3 - Sei ottobre 1984: Domenico Defelice - inviato come addetto culturale dal Comune di Pomezia insieme al poeta Francesco Cori davanti al Municipio di Singen (Germania Occidentale). 4 - Immagine ripresa da un televisore nell’ottobre 1984: Domenico Defelice durante una intervista da parte del direttore (al centro) di Teleitalia 41, con il corrispondente (a destra) del quotidiano Il Tempo, dott. Franco Di Filippo.
NEI CALANCHI Sarà franato nei calanchi o morto sotto le pareti spaccate delle case abbandonate, non riconosco più il mio paese. I tetti rialzati e l’asfalto hanno sfigurato il vecchio aspetto; la pennellata di vernice dando una sola copertura non lascia vedere ormai il secco muschio sugli embrici né le ossificate pezze di malta grigia. Non torno perché hanno squartato l’asino e buttato i suoi fianchi ai corvi; l’orecchio lungo distaccato, ultima suppellettile fra le cose rifiutate, invaso da mosche al sole con odore di marcio salato. Un cumulo di stracci schizzati di calce fresca hanno ammonticchiato ripulendo la casa rintonacata. Non più la pelle nodosa delle fanciulle
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che affiora furtiva dalla lana di pecora trepidante trabocca riempite le calze, né il piacere della mano sulle rade piume dei piccioni nel nido che aspettano il becco della mamma con le fave ingoiate. Le strade hanno perso i ciottoli che sanno la pianta dei piedi, nelle discese testoline lustre dopo la pioggia violenta. Non arriva più la locomotiva di una volta attraversando i lunghi piani e le alte montagne, i binari uniscono solo città ove mescolati sempre in mezzo nell’unico luogo frastornati si vive; né si viene più da lontano a rivedere le case basse dell’uomo su misura del suo respiro. Leonardo Selvaggi Torino
VARIAZIONE : UN NUOVO AUTUNNO, UNA NUOVA PIOGGIA... Anche gli steli più trasparenti godono, tremando, della frescura che ha intriso la terra, moscerini impazziti danzano a mezz'aria sullo sfondo celeste del cielo che si abbraccia, laggiù, col mare, chiocciole misteriose spuntano su muri gocciolanti, rorido muschio, lombrichi, foglie di fico a marcire al suolo dopo i giorni dell'opulenza, fiori inconsciamente felici di continuare ad esistere... E io, che sto invecchiando, alla tastiera di un computer, tra un mare di carte e di libri, affascinato dal caleidoscopio della Natura, a meditare sul perché di tutto questo e al perché di tutto il mondo impazzito, a noi tutti, agli Universi senza fine... Luigi De Rosa (Rapallo, Genova)
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ALBERTO FRATTINI: LE ‘VOCI DI DENTRO’ di Carmine Chiodo
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ASQUALE Tuscano delinea in modo esauriente la figura, l'attività e l'opera di Alberto Frattini (Firenze 1922 Roma 2007), docente universitario, poeta, scrittore, critico militante, infaticabile organizzatore di manifestazioni culturali, profondo conoscitore della poesia italiana contemporanea. Tuscano prima di parlare di Frattini analizza l'attività letteraria romana tra gli anni '50 e '80 del Novecento. Frattini si trasferì a Roma nel 1940 e dove si laureò in Lettere, nel 1945, discutendo una tesi su Leopardi e Rousseau, e, in Filosofia, l'anno successivo con una tesi su L'eudemonismo pessimistico dell'etica Leopardiana. Al nome di Frattini sono legati importanti studi leopardiani, tra i quali ricordo: G. Leopardi, I Canti, a cura di A. Frattini, Brescia, La Scuola Editrice, 1961; Studi leopardiani, Pisa, Nistri Lischi, 1956; Giacomo Leopardi, Bologna, V. Cappelli, 1969, e ancora: Giacomo Leopardi, Roma, Ed. Studium , 1986, nonché altri studi attinenti ai Crepuscolari, ai poeti romani, a Foscolo, a Manzoni, a Vigolo (per non citare i tantissimi articoli e recensioni apparsi su quotidiani e riviste letterarie). Per quanto riguarda la poesia qui si segnalano le raccolte: Giorni e sogni del 1950, Come acqua alpina del 1956, Caro atomo (1971 - 1976) del 1977, Stupendo enigma del 1988, Frattini/Leopardi ( Roma, ed. "Il Ventaglio " (Coll. Paso doble) del 1991, e infine Arcana spirale: Poesie 1943 - 1992 del 1994. Per la narrative si citano: Scoperta di paesi del 1969 e Foresta di giorni del 2009. Vari sono i commenti di Frattini a poeti e autori della letteratura italiana: i già citati Leopardi, Manzoni come pure restano tuttora valide le antologie Poeti italiani del XX secolo, a cura di Frattini e Tuscano del 1974 e ancora Poeti a Roma, a cura sempre di Frattini e Marcella Uffreduzzi del 1983. Tantissimi i saggi sparsi e pubblicati su varie riviste: Paidea, Scuola e cultura nel mondo, L'os-
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servatore romano, "Il Fuoco", "Italianistica", ad esempio. Delle opere e della critica di Frattini Tuscano ci offre una mappa ben precisa. Senz' altro Tuscano ha ragione allorquando scrive, al termine della sua fine e illuminante introduzione, che in cima ai pensieri di Alberto Frattini ci fu sempre l'etica e "ne pagò qualche prezzo e ne era consapevole" (p.90). Tutto sommato l'attività critica, poetica e d'instancabile operatore culturale, "può servire d'esempio e d'incoraggiamento a non disperare, a operare perché il sereno, quando che sia, possa ritornare" (pp. 90-91). Comunque "la vocazione alla poesia era in lui un dono naturale, cosi come l'attitudine all'interpretazione" (p. 24). Critico e poeta Alberto Frattini, il quale nel 1952, aveva fondato, e diretto insieme con Pietro Calandra, ad Alcamo, la rivista 'Poesia Nuova' (1955-1960) e il Centro Studi di poesia italiana e straniera (19611962), con la presidenza di Francesco Flora. Ancora nel 1974 fu tra i fondatori del Premio Nazionale di Poesia E Critica 'Città di Tahgliacozzo', del quale presiedette sempre la giuria. In Frattini poeta dominante è il tema delle memorie infantili, un tema che viene risolto "in sobri e incisivi accenti lirici": " Bicicletta
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leggera dei vent'anni ,/ primavera inventata in mezzo ai campi,/ lente sere sull'Arno, avaro tempo" (ho citato Casa d'infanzia, vv. 1-7, poesia appartenente alla raccolta già citata Come acqua alpina) e nei suoi paesaggi colpisce ad esempio un'energica tensione cosmica, astrale e pensosa un testo del 1954 dal titolo Notturno: " Il silenzio divora la vertigine /dei mondi, assurde restano /le pietre, le cose opache,/ le speranze assiderate /nel tuo indocile cuore sepolto." (Latomie: Notturno, vv. 10-14). La poetica di Frattini rifiuta ogni etichetta e il suo linguaggio è molto orchestrato e calibrato che, a volte, nota giustamente Tuscano, può apparire discorsivo, ma che il poeta Frattini eredita -attraversandoli in modo originale dai poeti da lui amati e studiati - da Leopardi, Saba, certo Cardarelli, l'ultimo Salvatore Quasimodo mentre si tenne lontano dalle neoavanguardie. Per quanto riguarda le prose di Frattini sono essenzialmente liriche, molto nitide che presentano qualità di alcune immagini poetiche molto preganti e incisive: 'Brezza che odora di scoglio'; "silenzio senza colori" "rovine, residui di crolli, muri isolati in un tragico stupore di finestre spalancate sul cielo", per citarne alcune. Frattini ebbe corrispondenza e amicizia con molti poeti del secondo novecento come attestano le lettere qui pubblicate e tra le quali spiccano quelle di Umberto Saba. Nell'archivio - Frattini" si conservano soltanto due lettere autografe di Umberto Saba, datate, rispettivamente, 5 ottobre e 15 ottobre, 'ore tre del mattino ', del 1955, su carta intestata 'Libraria Antiquaria Umberto Saba '. Mancano le minute di quelle rispettive del Frattini. Si tratta di due scritti sabiani di particolare rilevanza, sia per intendere, puntualmente il senso della sua poetica, quindi della sua poesia, sia come rigorosa, lucida analisi delle ragioni della 'deriva' della cultura italiana, con speciale riguardo della poesia" (p. 84). Qui il vegliardo poeta triestino indica a Frattini quello che è secondo lui il "segreto della poesia" vera, autentica: la "mancanza di autocompiacimento ", e ritiene di esserci, quasi sempre, riuscito. Cosa che, al contrario, am-
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morba" tutta la moderna poesia, italiana e straniera". Queste sono le persuasioni di Saba, sempre fedele ad esse e che poi nel 1911 scriverà quel saggio davvero memorabile Quello che resta da fare ai poeti ,vale a dire la poesia onesta. Tuscano ha voluto rendere note le lettere di Frattini allo scultore poeta Roberto Bellintani (1914-1999) in quanto, soprattutto quella datata 27 gennaio 1973, mostrano in Alberto Frattini un" temperamento energico che, data la sua estrema riservatezza, raramente gli capitava di esternare" (p. 89). Ancora le lettere di Sinisgalli, di Caproni, di Bigongiari, di Zanzotto, di Bonaviri, sono testimonianza dei rapporti di cordiale affabilità e di stima che li legava a Frattini mentre le lettere di Falqui, di Silvio Pasquazi, di Mario Petrucciani, di Aulo Greco, di Umberto Bosco, di Verdino, di Silvio Ramat sanno più delle "circostanze che le dettavano (...), che non di un autentico contributo alla dialettica culturale del momento. La loro presenza è importante per delineare l'area culturale romana di una ben determinata intesa, anche umana". Da questo libro di Tuscano, amico e collaboratore di Frattini negli anni della Università san Paolo di Assisi, balza fuori il profilo pieno di uno studioso serio e attento, di un poeta autentico, di un profondissimo conoscitore - lo ribadisco ancora - della poesia italiana appartenente a quasi tutte le regioni italiane (io calabrese ho scoperto e ho poi studiato poeti calabresi (quali Mastroianni, Calogero, Carchedi, Vitale ad esempio) grazie a Frattini, col quale collaborai negli anni '80 nell'Università di Macerata dove lo studioso fiorentino romano insegnò Letteratura italiana e poi di nuovo negli anni ‘90 ci ritrovammo a Roma, Università di Torvergata ove Frattini per un anno insegnò come Professore a contratto Letteratura italiana moderna e contemporanea). Carmine Chiodo Alberto Frattini (nella foto di pag. 19) - Le ' voci di dentro' dell'attività letteraria italiana tra gli anni '50 e '80 del Novecento Dalle lettere di Saba, Sbarbaro, Solmi, Quasimodo, Betocchi, Barile, Sinisgalli, Caproni, Valeri, Falqui e altri ad Alberto Frattini .Introduzione e a cura di Pasquale Tuscano, Roma, ioda, 2013, pp.240, € 24,00.
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ELISABETTA DI IACONI: la Natura, il Mare, la Storia dell’Uomo di Domenico Defelice
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EGGENDO i versi di Elisabetta Di Iaconi, spesso abbiamo pensato che nel suo DNA vi scorra, tra i vari componenti vitali, anche l’acqua salata! Tra i suoi ascendenti, lontani o prossimi, c’è forse da annoverare un qualche navigante di cabotaggio, non già di lungo corso; qualcuno, cioè, che abbia amato l’acqua più della terra, ma non al punto da allontanarsene per sempre; qualcuno che, pur preferendo vivere tra le onde, non abbia mai potuto rinunciare alla visione di spiagge, di alberi, agli effluvi che il terreno e il suo verde manto sprigionano specialmente nelle belle stagioni; condizioni proprie di chi fa cabotaggio, che scorrendo sempre lungo le coste, permette di vivere sull’acqua ma legati alla terra come da un cordone ombelicale. Il mare, in Elisabetta Di Iaconi, è presenza viva, ha atteggiamenti umani, è capace di avere e manifestare emozioni, di gioire e di soffrire, anche per quelle vicende che, legate
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all’esistenza, non sono, però, né possono essere addossate a entità, cose o chicchessia: è l’universo intero - non solo la vita - ad essere impostato su nascita e morte e, per esempio, il deporre delle acque sulla riva le creature estinte - come avviene con le conchiglie - non dipende né dalla volontà del mare, né tanto meno dell’uomo, ma dalle leggi sovrane del Creato che rimandano a Dio (almeno per il credente). Il mare - anche nelle sue metafore di spiaggia, riva, battigia, onda, risacca - è, quindi, contenitore e motore di tutto per la nostra poetessa, capace di incorporare anche l’uomo nella materia e nelle emozioni. Il suo camminare “assorta sulla riva” è estasi e scavo interiore, specie quando il “profumo acuto di salmastro/s’insinua nella mente” e “altera trame fitte di memoria”. E’ al cospetto del mare che lei assiste allo scatenarsi delle più tremende bufere - massime quelle interiori ed è anche alla sua presenza che può godere, poi, del divino rasserenamento, con acque, cielo e animo pacificati. E’ lungo la spiaggia che la poetessa ammira “lo scenario della notte” e si dispone alla “contemplazione delle stelle”. Può sconvolgerla come può darle quiete il “suono di risacca” e non si stanca mai di osservare le onde ricamate di spuma e la battigia che “assorbe/l’ultima ondata”, quell’onda, cioè, che, “con la sua lama d’ acqua trasparente”, cancella ogni orma e riporta la sabbia bagnata alla purezza dei primordi. La poetessa non si limita solo a guardarlo il mare, ma lo respira (“Un passo”). C’è, in Elisabetta Di Iaconi, un’acqua ancestrale che in lei proviene da altra vita, sicché “la paura antica/dell’uragano penetra nel cuore” e l’intera sua e nostra esistenza è come “nave,/sempre in balia dell’onda che ghermisce”; attrazione e ripulsa, insomma, anche se la prima ha più delle volte in sopravvento, in una vicenda in circolo perenne che, come il tempo foscoliano, tutto travolge, ma, in più, anche ricrea. Simile al mare è anche, in parte, la Natura nella poesia di iaconiana, essa pure espressa
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sotto una infinità di metafore, come i fiori, per esempio, dei quali troviamo quasi una rassegna: dalle “rose bianche “, alle rose rosse; dai “papaveri nel grano”, ai mughetti; dalle “ginestre d’oro in cime alla collina”, al glicine dai “fiori zuccherini,/ penduli”; dalla mimosa, alle pratoline che “danno il segnale della primavera”; dagli azzurri gigli di palude, che crescono “vigorosi sulla sabbia”, ai tulipani. Ma fiori sono anche le onde spumose del mare, fiori “allineati in candide ghirlande”. In tutti, la poetessa trova “un sigillo felice,/una lucida firma/dell’Eccelso Intelletto Creatore”. Essi scandiscono la vita nella felicità - come può esserlo l’estasi di un sogno d’ amore - o nel dramma, allorché la mimosa, per esempio, riporta - con la festa dell’otto marzo - al bruciante “ricordo di soprusi antichi”. I fiori ornano la terra e ingentiliscono gli angoli più impensati - nella Città Eterna, persino gli archi e le pietre sconnesse dei Fori -, o più estremi, come i “bordi delle strade” perennemente tormentati dalle polveri dell’ asfalto e dai vortici creati dalle macchine a tutta velocità. Una Natura magica che, spesso, fa da fondale e svela o nasconde: l’inverno, che “strappa/tutte le foglie agli alberi del viale”, permette alla poetessa, puntualmente ogni anno, nell’avvicinarsi del Natale, di rivedere “il campanile,/incorniciato in mezzo ai rami nudi”. Il viale è lo stesso che, a primavera, si veste dell’ “elegante seta delle foglie/d’un delicato verde”; lungo lo stesso, affacciandosi da un “mignanello”, si può ammirare la vita che si svolge sotto gli alberi o sulle panchine: l’andare e venire della gente comune, il ragazzo con l’innamorata, il vecchio che sfoglia il giornale, la “vecchietta sderenata//che porta er pane secco a li piccioni”, il barbone con le sue borse che, “de notte, pianta lì le tenne”. Sia le immagini che i colori sono sempre appropriati, dando quadretti che si imprimono negli occhi e nel cuore, come quei “rami,/denudati dal gelo invernale” e che prendono la tinta degli “antichi camini”; quadretti che richiamano fatti e storie e i giochi dell’ infanzia “all’aria aperta”, alla presenza di
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mamme non nominate, non specificate, eppure così concrete e indimenticabili nelle loro “vesti chiare”. Soggetto particolare di questa Natura è il vento, folletto vivo e delicato, odoroso (“percorriamo sentieri di tempo/tra profumi di vento”); metafisica divinità che coinvolge non soltanto le cose, che fa turbinare “le foglie staccate dal ramo”, ma anche intimità e sentimenti, come le “briciole dei pensieri”, le quali, al contrario delle foglie, che marciranno in un angolo, hanno il potere di rigenerarsi, sempre in “turbini nuovi”, in nuove tempeste, ma anche nella speranza e, quindi, in novella quiete. Un vento evocativo, sonoro, che “ha immesso nelle sue spirali” rumori e voci dalla poetessa impressi nel proprio intimo. La Di Iaconi afferma, infatti, che il vento, dopo aver radunati i pensieri, “li spinge nel pascolo del cuore”: il suo cuore, il giardino più bello, misterioso e vasto, in cui inebriarsi “del profumo dell’erba” e dove il lichene manifesta la sua bellezza allorché, a primavera, veste di verde anche le “pietre scabre”. Mare e Natura. Ma la poesia della Di Iaconi, così lucida e intensa, solo apparentemente è pacifica, edenica, idilliaca; essa reca, nella sua solare semplicità, priva di retorica e colorazione esuberante, la storia dell’uomo, gli echi di una società quasi sempre feroce: “fucilate ed esplosioni”, “rombi di tempeste” di una “terra incerta” che, dopo millenni, non ha saputo trovare ancora in sé l’equilibrio nella fratellanza e nell’amore. A qualcuno di questi echi tragici abbiamo già accennato: le mimose dell’otto marzo, lo sfruttamento del lavoro delle donne, la tragedia, la lotta per i loro diritti, per la loro completa emancipazione; il vecchio e la solitudine; la vecchia che vive solo dell’amore per i piccioni; il barbone e i propri stracci. Poesia del sociale, allora, quella di Elisabetta Di Iaconi, e non solo del mare e della Natura. Poesia che canta l’uomo stanco - il quale, lungo il viale dei platani, “trasporta il suo fardello di pensieri” - o “il buio delle menti”, che ottunde e ottenebra: una società frenetica
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e inumana, insomma. Poesia degli “uomini senza faccia”, dilaniati da “discordia e guerre”. Un vortice di ferocia belluina accompagna l’uomo dai primordi e dal quale non riesce a scrollarsi. Eppure, “La nostra sorte è altrove;/il nostro fine è un sogno d’armonia”, ammonisce la poetessa; il nostro è l’eterno sogno “iperuranio” che innalza e abbassa di continuo, che ci “spinge sulla terra”, che su di essa ci comprime, ma che, nel contempo, ci costringe ad rivolgere lo sguardo verso l’ alto “per assorbire forza dalle stelle”. Per certi aspetti, l’uomo della Di Iaconi è ancora quello di quando andava a caccia e, a sera, nella caverna, “Solo davanti al fuoco”, si lasciava invadere - e immalinconire - dai pensieri sul senso della vita, sul “fluire dei giorni”; il suo “nodo esistenziale” non è mutato da allora e ancora oggi il buio gli rammenta la “precarietà delle creature” e la luce la sola “fonte d’armonia nel nostro cuore”. Il cammino umano e poetico di Elisabetta Di Iaconi s’è fatto più teso in questi ultimi anni. Vicende varie le hanno procurato frustate intime e materiali e la sua poesia anche di questo si è imbevuta: è più scarna, più concettosa, più incardinata sullo sbocco fatale e tragico della nostra esistenza, in momenti in cui pare che neppure la fede possa bastare a salvaci, allorché “s’aprirà per noi una fenditura/nel tempo stabilito”. La vita - la sua, la nostra - non è, né è stata mai agevole, neppure allorché, nell’infanzia, ci sembrava di vivere “i giorni più felici”; essa continua ad essere una lucida lastra di ghiaccio sulla quale, o prima o poi, ci sarà la fatale scivolata della morte. Fortunatamente, l’uomo è portato a esorcizzare le negatività e a illudersi; così, i pochi anni che ci tocca vivere possono apparirci anche una eternità e un semplice arcobaleno - l’ effetto di una luce riflessa - può venire da noi accolto come un “disegno perfetto” che ci consola, quando, in realtà, è solo un “attimo ritagliato/nell’eterno fluire degli eventi”, da noi semplicemente subiti. Domenico Defelice Bibliografia:
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Associazione Nazionale Poeti e Scrittori Dialettali - Convegno di Primavera 7 - 11 maggio 2009, Cascia (PG), Convegno d’Autunno 9 - 12 Ottobre 2009, Arcidosso (GR) - Quaderno di Poesia Dialettale, n. 5 Anno 2009. Poeti al Caffè - L’armonia di un’amàca di rose - Nuova Impronta edizioni, 2010. Poeti al Caffè - Il suono delle parole perse Nuova Impronta edizioni, 2011. Poeti al Caffè - Un trapezio di parole - Nuova Impronta edizioni, 2012. Poeti al Caffè - Un volo di stelle - Nuova Impronta edizioni, 2013.
MONTAGNE DI TESORI “Di dove sei?” Mi sorprende nella hall dell’albergo la domanda fulminea e confidenziale dell’uomo abbronzato con la donna seduti a me di fronte. Non ci siamo mai visti, di loro neppure m’ero accorto. Alzo lo sguardo dal Corriere che piego sul cristallo del tavolo. Una faccia che sorride tutta la sua. Sorride anche la donna, agnellina mansueta e bella. “Pomezia? La città vicino Roma?. Che fortuna la tua, la vostra di Italiani”. Vaneggi? Mai tempi così bui e una crisi che picchia duro il maglio specie sulla gioventù. Anche la tua faccia è d’Italiano. “D’Argentino che l’italiano mastica a stento. Non parlare di crisi. Avete qui montagne di tesori, basta saperli vendere.” Non ne siamo in grado. “La vera vostra crisi: l’Italia che nasconde i suoi talenti, che al sole non sa esporli, farli fruttificare. Addio. Dieci giorni ho per Roma Napoli Palermo e non ne bastano mille” Domenico Defelice Firenze, 22 luglio 2013
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DOMENICO DEFELICE, ELEUTERIO GAZZETTI CANTORE DELLA VALPADANA di Tito Cauchi
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OMENICO Defelice con la pubblicazione di Eleuterio Gazzetti cantore della Valpadana (Il Croco/ PomeziaNotizie, maggio 2013), si propone di togliere l’artista, da un “immeritato oblio”, stimolando nel contempo le autorità ecclesiastiche e comunali modenesi, ove il più anziano amico ha esercitato il suo ministero sacerdotale, oltre che la Parrocchia e i cittadini di Sozzigalli (frazione del Comune di Soliera), nonché quanti l’abbiano conosciuto e gli abbiano “voluto bene”. La “calda fraterna amicizia”, come la definiva il religioso, si è cementata attraverso il telefono, almeno una volta a settimana, con la corrispondenza epistolare e con visite reciproche dal 1964 al 1998; ma il loro primo incontro è avvenuto il 2 giugno 1969, a Roma, presso un Istituto di Suore, ove il Nostro si era recato insieme con il grande amico poeta Geppo Tedeschi. Il Quaderno si articola in tre parti, illustrando rispettivamente il Saggista e Pittore, il Poeta e Scrittore, infine le Lettere inviate dal religioso al Nostro. L’illustrazione in copertina mostra, nello studio tappezzato di quadri, i due personaggi in cui sono evidenti la differenza di un ventennio di età e di stazza fisica in avanzo del sacerdote. Eleuterio Gazzetti
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nacque a Magreta di Formigine, nel Modenese, nel 1917, da famiglia operaia, discendente del venerabile Pietro Gazzetti (1617-1671), le cui spoglie riposano a Noto, in Sicilia, secondogenito di nove figli, fin da ragazzo amava dipingere su cartoni ed ogni sorta di superficie, ispirato dalla ricca natura della Valpadana. Egli, appassionato fin dai primi banchi liceali di storia locale, incominciò un lavoro storico che dopo anni di studio vide la luce solo all’affacciarsi del nuovo Millennio, a dimostrazione della sua tenacia, con il titolo di Cardinali, vescovi e abati nella storia delle diocesi di Modena e Nonantola (sec. IX – sec. XX), volume di trecento pagine, di scorrevole lettura. Prese i voti sacerdotali all’inizio della Grande Guerra (nel 1944); dieci anni dopo (nel 1954) diviene parroco della parrocchia di Sozzigalli di Soliera, terra di lambrusco, fino alla fine dei suoi giorni. Nella sua vita artistica ha prodotto oltre duemila dipinti ben accolti dalla critica e da personaggi pubblici notevoli che ne hanno acquistato, i cui guadagni gli hanno permesso di comperare terreni ed altro a beneficio dei parrocchiani, come ristrutturare la chiesa, mettere su un Asilo, edificare la nuova Canonica. Domenico Defelice richiama un’opera del Canonico, “Proverbi miei e passatempi tuoi”, che a suo tempo ebbe a rivedere, ma che a oggi non ha visto la stampa, e che intanto egli ne pubblicava, sulla propria rivista di Pomezia-Notizie, nel 1998, la prefazione approntata, esortando oggi come allora, che non rimanesse nel dimenticatoio. Rileva, nelle opere del Pittore, chiarezza delle rappresentazioni e colori accesi, che sembrano trasudare dell’ umore dei soggetti, indicando la presenza di simbolismo, così ne elenca alcune, e lo annovera fra gli impressionisti. La tematica è varia risentendo dell’età irruente giovanile, e più avanti, della posata maturità; così si va dal “Tramonto sul mare” alla “Desolazione della terra”, dal sacro della “Flagellazione” sanguinolenta, alla maternità, alla Madonna. Ma anche a temi sociali sensi-
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bili, oggi più che mai rilevabili soprattutto nell’elemento dell’ acqua, fluida sì, ma capace di rasserenare l’ animo. Eleuterio Gazzetti è stato un sacerdote concreto come uomo, limitandosi alla pubblicazione di quattro sillogi e di quattro saggi, lasciando in disparte il poeta in sé e lo studioso che era; propendeva per la pittura, più che altro, perché gli consentiva delle entrate per vivere e per la parrocchia; sapeva che la poesia non gli avrebbe permesso di coprire nemmeno le spese di stampa. Per ognuna delle sillogi, il Nostro in maniera diretta, fa un’analisi da cui emerge la semplicità d’animo e la capacità di sorridere ai bambini, come pure temi in cui dominano la fede, il sociale, il tormento dell’anima e l’anelito all’eterno, che si riflettono nella natura “specchio del divino”. Nel
contempo le note critiche mettono in evidenza l’evoluzione stilistica che va dall’iniziale metro classico con rima, fino all’abbandono della stessa, ma sempre coerente con il dettato poetico. Le lettere trascritte, nella loro interezza, riportano l’iniziale recapito postale del Nostro, di Roma, e a partire dal matrimonio, nell’ ottobre del 1970, con il recapito attuale di Pomezia. Sono meno di una cinquantina, compresa una sola lettera superstite del Nostro del 1971, riguardante la sua disapprovazione nei riguardi di un certo dott. Carloya, perché maldisposto verso i meridionali. La corrispondenza risulta conviviale, passa tra il ‘tu’ del più anzia-
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no, al ‘don’ del giovane, i cui argomenti riguardano piani di lavoro, opere pittoriche, confidenze sulla ristrutturazione della vecchia Canonica e cenni sulla precaria condizione economica del Nostro e sulle sue doti intellettuali che certamente la Provvidenza avrebbe premiato; ma soprattutto progetti letterari, così, incidentalmente, assistiamo alla nascita della rivista fondata e diretta da Domenico Defelice che ha ospitato più volte recensioni e poesie del sacerdote (nel 1973). Gazzetti è riconosciuto, attraverso le bibliografie specializzate, pittore di talento, i cui quadri vengono quotati sul mercato; il suo impegno profuso nelle mostre gli ha dato i meritati frutti. Essere recensito favorevolmente dal celebre scrittore Marino Moretti, è come respirare una boccata d’ossigeno; ma anche altri scrittori-critici se ne sono interessati, come Francesco Fiumara direttore de La Procellaria, cui Defelice collaborava, Nino Ferraù direttore di Selezione Poetica, Franco Saccà, Raffaele Frangipane, Solange de Bressieux. Le Lettere di don Eleuterio Gazzetti dirette a Domenico Defelice, ci fanno entrare nella quotidianità delle loro vite; lo fanno senza retorica, ci restituiscono la dimensione umana concreta dei due uomini, artisti-scrittori, il sacerdote accompagnato da una salda fede, e il giovane alla ricerca di una occupazione professionale più consona da rassicurargli tran-
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quillità economica. Don Erio, come qualche volta veniva chiamato, lamentava la mancanza di tempo; scriveva: “Ogni tanto, vengono alla mia canonica giovani scrittori e poeti per chiedere aiuto nella correzione o revisione di opere da stampare” (27.1.1965, dividendosi fra i vari impegni personali e l’ufficio pastorale. In quanto a se stesso, alle sue poesie, assicurava: “sono pensieri, stati d’animo, conclusioni di meditazioni, perciò non era tanto da cercare l’ispirazione poetica, quanto il concetto e lo stato d’animo nel cammino quotidiano dell’ uomo” (6.6. 1968). Sono lettere prive di retorica, ma tanto ricche di insegnamenti, che dovremmo tenere sempre presenti; come, per esempio, in merito alla recensione essa deve avere i seguenti requisiti: “deve dire qualcosa di vero (e bisogna leggere il libro), di saggio (e bisogna assimilarlo, per entrare nell’ animo e nella
mente dell’artista che scrive) e di utile (e perciò ci vuole riflessione)” (5.5. 1973). Del Defelice scopriamo la data del matrimonio (1970), il nome della la moglie (Cle-
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lia), assistiamo di striscio alla nascita dei figli. Percepiamo la sintonia fra i due, che hanno in comune origini operaie, entrambi cresciuti fra ristrettezze economiche, accomunati dalla passione letteraria e da quella pittorica; passione, quest’ultima, che in parte si evince da un’opera del Defelice citata nel corso della corrispondenza, “Andare a quadri”. Le Lettere emanano calore, trasudano d’ansia, lasciano riflettere noi lettori delle tante aspettative che in particolare gli artigiani della penna ripongono nelle loro fatiche. Ma rimane anche il timore che le attese vengano deluse, proprio da quelli che dovrebbero mantenere un rispettoso dovere; la preoccupazione che quello che viene considerato “balsamo per l’anima”, venga ignorato; senza con questo volere fare delle gratuite lusinghe. Ansia che ritrovo in altre precedenti carteggi di cui si è occupato Defelice (p.es.: de Bressieux, Paul Courget, Nicola Napolitano; scomparsi da qualche anno; per non citare il suo “Diario di anni torbidi”). Domenico Defelice aveva dedicato spazio sulla rivista Pomezia-Notizie, ad Eleuterio Gazzetti cantore della Valpadana, come il titolo richiama, poeta e pittore, fin quando nel 1998 gli è stato richiesto da Oddo Casalgrandi, nipote del sacerdote, tutto il materiale di cui era in possesso; interrogandosi sul perché sia stato il nipote e non il sacerdote a fargli la richiesta della restituzione; tuttavia credo che auspichi che esso non marcisca in qualche scantinato. Qui il Nostro, sicuramente, pensa, con gran dolore, ai tanti amici poeti, scrittori, artisti, le cui opere inedite o lasciate dopo la loro dipartita, rimangano nel dimenticatoio, o peggio, vengano distrutte. Credo che l’intero materiale del carteggio, costituisca oggetto di riflessione ed una fucina per molti militanti. Tito Cauchi Immagini: 1 - Eleuterio Gazzetti su tela 30 x 40. 2 - Eleuterio Gazzetti tela 30 x 40. 3 - Eleuterio Gazzetti truciolato 15,80 x 20,60. 4 - Eleuterio Gazzetti tela 30 x 24.
Vecchia borgata - Olio Natura morta - Olio su Studio (1967) - Olio su Studio (1967) - Olio su
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QUEL CHE RESTA DEL TEMPO: QUEL FELICE CONNUBIO TRA IL PASSATO E IL FUTURO di Sandro Angelucci O sostiene l’autrice stessa (v. la premessa al testo): “Queste considerazioni riflettono in fondo l’Ulisse che è in ognuno di noi: il desiderio della scoperta di nuovi approdi in cui trovare àncore di antiche certezze.”. E Aldo Forbice (nel suo intervento prefativo) parla - a sostegno della tesi - di una serie di racconti che, oltre a costituire un messaggio politico e sociale, riscoprono i valori della civiltà contadina “senza per questo auspicare un ritorno al passato, peraltro impossibile.”. Avverto di sentirmi in stretta consonanza con entrambe le riflessioni. Dell’ ulissismo, molte sono state, nel corso dei secoli, le interpretazioni ma quella che ne dà la Quieti esprime - a mio modo di vedere - l’ allegoria più rispondente della ricerca esistenziale umana che trova, nelle vicissitudini dell’eroe omerico, sua piena e veritiera rappresentazione. Mettere se stesso quotidianamente alla prova significa, per l’uomo, misurarsi con le proprie capacità; ma - chiediamocelo - quali sono queste potenzialità? Sono quelle insite in un progresso che pensa di poter fare tranquillamente a meno del passato consegnandosi a logiche di consumo, di sfruttamento esasperato delle risorse o, piuttosto, quelle che tengono nel debito riguardo l’ appartenenza, il cordone ombelicale che sempre ci legherà, nonostante la necessità di doverlo recidere, alle nostre radici? Quando ci troviamo di fronte “ai grandi dubbi, alle scelte fondamentali, alla disperazione o all’esaltazione” - scrive Daniela - chi ci viene in soccorso? L’esperienza, lo spirito di sopravvivenza al quale si affidano tutte le creature perché, ognuna per quanto le compete, porti avanti il progetto d’amore della vita.
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Ecco, allora, chiarito il senso del titolo che la scrittrice e giornalista abruzzese ha voluto per il suo florilegio: proprio così, Quel che resta del tempo perché molto, troppo, se ne sta bruciando con un’ accelerazione che cancella, ogni giorno, un pezzo di memoria. La soluzione - come saggiamente ha scritto il Prefatore - non consiste certo in un inattuabile ritorno alle origini, persino dannoso, ma in un altro genere di recupero, questo si, la salvaguardia di quei valori che non sono affatto desueti o anacronistici come lo sviluppo della società tecnologicoindustriale e consumistica ha voluto farci credere. L’augurio, invece, è quello che l’ umanità riesca - prima che sia troppo tardi a trovare in qualunque presente quel felice connubio che unisce il passato al futuro. Per non togliere al lettore il gusto d’ immergersi in queste atmosfere, non ho inteso addurre riferimenti testuali, tuttavia mi piace segnalare almeno due di queste storie nelle quali l’amore di Daniela Quieti per la propria terra ed i suoi costumi travalica il regionalismo per aprirsi all’universalità di quei principi di cui finora si è discusso. Mi riferisco a D’Annunzio e ’A Vucchella, dove i contadini abruzzesi - i siloniani “chill co’ ‘a fune” (i cafoni) - divengono il simbolo di un riscatto sociale di ben più ampie proporzioni; e al racconto che chiude il libro, Un album in rosa, del quale basterebbe citare un brevissimo pensiero: “Tutti i maschi sono figli delle donne” per rendersi di nuovo conto della portata antropologica dell’opera. Per rafforzare l’idea che, con questa raccolta, si porta un po’ di ossigeno agli asfittici polmoni dell’uomo moderno, concludo allo stesso modo in cui termina il narrato di pagina 81: “All’Ufficio Immigrazione degli Stati Uniti Albert Einstein, interrogato su quale fosse la sua razza, rispose: “Sono di razza umana”. Sandro Angelucci Daniela Quieti. Quel che resta del tempo. Ibiskos-Ulivieri Editrice. Empoli. 2013. Pp.96. € 13,00
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AUGUSTO COMTE E LA RELIGIONE POSITIVA di Leonardo Selvaggi A religione dell’umanità, la più religiosa e la più sociale di tutte le religioni, la sola che può divenire generale. Diis extinctis, Deoque, successit humanitas. Questa sentenza sintetizza le opinioni e le dottrine dei primi positivisti, seguite nelle nazioni considerate incivilite dell’Europa, Francia, Italia, Spagna, Inghilterra e Germania. L’ultimo posto è assegnato alla Germania protestante. Il cattolicesimo è visto dai positivisti come organico e più affine al positivismo che la religione protestante. Il fondatore del positivismo, religione positiva o religione dell’umanità è Augusto Comte, nato a Montpellier il 19 gennaio 1798, morto a Parigi il 5 settembre 1857. La parola positiva è scelta dal Comte per designare il suo sistema, fondato sulla realtà, sul senso dell’utilità. Molte sono le opere da lui scritte.
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Di famiglia cattolica intraprende gli studi di ingegneria al politecnico di Parigi, facendosi espellere per rifiuto a sottostare alla rigida disciplina (1816). Le matematiche sono il ramo particolare delle sue applicazioni. Tutto il sistema filosofico di Augusto Comte ha un carattere geometrico e aritmetico. A Parigi esiste una Società positivista, che fra i tanti temi, esamina dal punto di vista del positivismo la Repubblica francese del 1848 e la questione del lavoro. In Italia, Olanda, America, ove del Comte si hanno numerosi aderenti, vengono pubblicate le traduzioni di alcuni suoi scritti. Per lunghi anni vive nella sua patria senza notorietà né fama, avversari accaniti sono i teologi, gli eruditi e i metafisici. Precursori sono Aristotele, S. Paolo, S. Tommaso d’Aquino, Roggero Bacone, Dante, Descartes, Leibnitz, Diderot, Hume, Kant, Condorcet, G. De Maistre. Sappiamo che la storia dello spirito umano percorre tre grandi fasi: la religione propriamente detta o la teologia, la metafisica, il positivismo o la fase della scienza esatta, che comporta osservazioni numerose e difficili, suscettibili di illimitato sviluppo. Si realizza con il positivismo un processo di perfezionamento fisico, intellettuale e morale del genere umano. A. Comte si muove dalla scuola fisiologica di Francesco Giuseppe Broussais (1772 - 1838) per il quale il pensiero si spiega con l’eccitazione e la contrazione delle fibre e dalla scuola socialista di Enrico di SaintSimon (1760 - 1825) che considera l’ organismo sociale sulla base delle leggi della fisica, dando molto valore alla classe più povera e numerosa, il popolo. Del Saint-Simon il Comte è un appassionato allievo fino al 1824. Se ne allontana per aver sostenuto nell’opera “Piano dei lavori scientifici” (1822) contro la teoria del maestro la supremazia dell’aspetto intellettuale su quello materiale. Dal 1830 al 1842 viene scritto il “Corso di filosofia positiva”. Il Comte, nemico della metafisica, osserva le cose in sé, le cause e i fini, considera l’accaduto, che cade sotto l’ esperienza, legato ad altri fatti. Relazione di cosa a cosa, di fatto a fatto, non di soggetto a
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soggetto. Il positivismo non concepisce la teologia che di causa in causa arriva all’ assoluto né la metafisica che spiega i fatti con le entità astratte. I fatti sono più o meno complessi, i più semplici sono i più generali, i più complessi sono i più particolari. Delle scienze la più generale è la Matematica, la più complessa la Sociologia. La scienza sociologica è la scienza finale, di cui la Biologia costituisce l’ultima parte. La Biologia spiega l’azione e la reazione degli organismi e dell’ambiente fisico, la Sociologia spiega questa mutua azione nei confronti dell’ambiente sociale. La Filosofia non è una scienza autonoma, ogni scienza positiva ha la sua Filosofia propria che sarebbe un tessuto di relazioni che intercede tra i fatti di un dato gruppo. La filosofia nella sua pienezza potrebbe essere rappresentata come sintesi di tutte queste relazioni o leggi particolari. Altre opere di Augusto Comte: “Système de la politique positive” (1851 - 1854), “Discours sur l’ensemble du positivisme” (1848), “Catechisme positiviste” (1852), “Géometrie analytique” e “Astronomie populaire”. Tutte le istituzioni si pensa che debbano essere rigenerate dall’azione del positivismo: il culto di Dio surrogato dal culto dell’umanità. Un’ ampia esposizione del sistema e della vita del Comte si trovano negli scritti del suo medico Robinet, in cui si rilevano soprattutto capacità intellettuale e grande bontà di cuore. Con la massima evidenziazione si considerano l’amore, visto dalla nuova filosofia che trattiamo come impulso ad agire, come forza intrinseca rispetto alle facoltà umane, l’ordine come modo di procedere nelle ricerche e il progresso, come scopo ultimo di tutti gli impegni sociali e individuali, in tutta la loro irradiazione intellettiva dell’umanità. Dopo i lunghi anni di ricerca scientifica si dedica alla diffusione della nuova religione positiva. Abbandonato da tutti, vive in miseria. Ricordiamo altre opere: “Calendario positivista” ( 1849), “Appello ai conservatori” (1855). Augusto Comte vuole con le sue dottrine trovar modo di porre fine all’anarchia morale, intellettuale del suo tempo, alla grande crisi nella
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quale i popoli d’Europa si trovano immersi dopo la rivoluzione francese. Inoltre vuol porre rimedio alla decadenza del cattolicesimo che dura da secoli. Si mira ad un rinnovamento sociale, instaurando la religione dell’ umanità, che è religione dell’avvenire. Una religione intesa in senso lato, che armonizza gli aspetti personali e sociali dell’uomo, al di sopra di ogni credenza speciale e contenente la parte buona di tutte le religioni. L’idea della religione positiva non è nuova, data da tempo antichissimo. Vi hanno aderito i nomi più celebri della storia. Si può dire che si è lavorato da sempre al positivismo e si continua sempre, anche nell’epoca odierna. Il grande libro nel quale latente si trova l’origine del positivismo, che A. Comte legge continuamente e l’Imitazione di Gesù Cristo di Tomaso Kempis. Nel sistema positivista non è raro riscontrare idee cristiane. Contrasti non mancano tra positivismo e cristianesimo. Si polemizza contro l’egoismo cristiano. Già S. Paolo affermava che non bisognava considerarsi molto legati alla terra, si era stranieri ed esuli. Il positivismo sostiene che per influssi teologici e metafisici il sentimento religioso sia divenuto bigottismo e fanatismo, paganesimo, ipocrisia, orgoglio, causa di delitti, di guerre. Il positivismo di A. Comte è nemico dei dogmi cristiani. La metafisica è astrazione, scienza dei fantasmi. La morte del dogma è la nascita della morale, come dice Kant. Per il positivismo se ci sono dei dogmi, questi si riferiscono né alla teologia né alla metafisica, ma alle scienze positive che danno la base ad ogni impulso di vitalità e di azione. La religione positiva considera la Bibbia un libro che ha avuto valore solo nella sua epoca: i termini Dio, Creato, Provvidenza, Eterno costituiscono solo un artificio di logica. La religione positiva è atea, materialista, sensualista, poiché è legata alla concretezza del vivere, al progresso, alla felicità, all’ amore dell’umanità. Amore è uguale a verità, aderenza ai fatti drammatici della vita, compenetrazione, azione di amalgama, di corrispondenza ai bisogni, di incontro alle sofferenze umane. La religione positiva com-
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batte la menzogna, l’invidia, la gelosia, la pigrizia di tanta parte del cattolicesimo, sempre impaludato, appesantito, sclerotico, connivente in tempi di decadenza morale, permissivo, pronto a seguire le mode correnti per non perdere terreno. La religione positiva ha significato di movimento, di immediatezza, di conoscenza di realtà abnormi, deprimenti. Augusto Comte nelle sue ricerche filosofiche positive, che hanno debellato teologia e metafisica, raggiungendo altri livelli scientifici, quelli dell’ astrologia, dell’alchimia, astronomia, biologia, sociologia, divisa in statica (teoria dell’ ordine) e dinamica (teoria del progresso), mira alla vita nei suoi aspetti di talento, cultura, coraggio. Dio non è che una rappresentanza umana, gli attributi umani tolti dall’ente Dio debbono essere ridati all’umanità. Contro l’ esistenza di un Dio domina la legge della casualità, ogni cosa viene governata da leggi immutabili. Secondo la fede teologica l’uomo vive nell’ambito dell’intervento divino, multiplo od unico. Il positivismo afferma che l’uomo non è una creazione di Dio, ma Dio stesso è una creazione dell’uomo. Abbiamo il Teismo che considera Dio come un essere immaginario, creando l’Umanità, l’essere più reale e più elevato che sia mai esistito. Il termine ateismo non significa irreligione o empietà, si addice agli uomini dotati di severa morale. Gli stessi Enciclopedisti francesi, che ammettevano la negazione materialista di Dio, nella pratica e nelle riforme politico-sociali si attenevano a principi di dottrina spirituale. Augusto Comte riconosce al posto dell’ “Essere Supremo” il “Grande Essere”, di natura umana, che sintetizza tutti gli esseri pensanti, tutti i grandi pensieri, tutte le sensazioni e azioni umane passate e avvenire, tutte le opere generali dell’Umanità d’ogni tempo. La religione dei positivisti è materialista nel senso che tutti gli atti dello spirito, compresa la coscienza, sono legati alla materia. Il mondo può esistere da solo, ma l’uomo non può vivere se non nell’ambito terreno. Si è contro ogni astrazione. Vale il detto di Aristotele,
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confermato dai positivisti: Nihil est in intellectu quod non fuerit prius in sensu. Le buone opere effettuate nella vita sono perpetue, trasmesse dai viventi alle generazioni future. Gli individui sono organi dell’Umanità, in questo senso sono imperituri. La vita presa isolatamente non è nulla, ma è una parte costituente la vita comune. Non si mira un “cielo illuminato e glaciale”, l’anima umana perpetua costituisce l’insieme delle facoltà morali, intellettuali e pratiche a servizio dell’Umanità. Viviamo in noi stessi legati ai passati e ai futuri. La religione positiva costituisce un sistema di morale pratica e una forma socialista e politica in cui scienza, filosofia e religione si tengono uniti. Si superano le tendenze egoiste dell’uomo, domina la massima: vivere per gli altri. La morale, nell’ambito dello spirito umano, costituisce la parte primaria e più elevata, è un’arte, una scienza. L’elevazione personale dell’uomo è nello sviluppo dei sensi dell’Umanità: con l’educazione prescritta dal positivismo la natura umana si trasforma, gli istinti egoistici perdono il predominio e divengono virtù e tendenze sociali. tolte ovviamente le aberrazioni di pura spiritualità che non mancano nel sistema filosofico di Augusto Comte, sono principi questi salutari che darebbero una ventata di aria vivificatrice ai tempi nostri inclini ad un’esistenza idolatrica, inquinati, dispersivi, poco suscettibili di sentimenti generosi. Si vorrebbe un’esistenza attiva, illuminata, basata sulle affettività e inclinazioni collaborative, aperte al senso civico, comunitario. Certamente smussati gli istinti egoistici, avvicinati maggiormente a quelli sociali, facendosi i nostri atti più armonizzati e finalizzati a mete prestabilite. Anche il cattolicesimo va svestito di tante forme isterilite, sventrato e reso più movimentato, tolte le catene che lo irretiscono nelle sue antiche immobilità ed interessi di potere. L’Umanità è il “Grande Essere”, il vero Dio. Converrebbe essere materialisti e sensualisti come lo sono i positivisti capeggiati da Augusto Comte. Converrebbe essere atei, scrostati da certe chiusure mentali, una socialità più scorrevole, senza interferenze fatte di
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ipocrisie ingannevoli. Verrebbe tanta pace in quest’epoca tempestata, irrequieta, insoddisfatta, spersa, assuefatta a modi di essere anarchici e corrotti. I principi del positivismo potrebbero creare una certa contrapposizione davanti a una socialità dissolta, violenta, di transizione in seguito agli stravolgimenti di costumi e strutture dovuti ai pregressi tecnologici. Ci sentiamo rassegnati, quasi risollevati in altezze paradisiache, trasportati in un altro pianeta, leggendo certe espressioni positiviste. “Il più gran bene che v’abbia in questo mondo è l’amore per gli altri: amare val più che essere amato; dare val più che ricevere. L’uomo il più religioso è colui che è pieno di amore e dà a tutte le sue azioni uno scopo sociale e umano”: l’ideale dei positivisti è dunque amare, pensare ed agire simultaneamente. Alta moralità, piena di sublimi astrazioni e di nobile natura splende di immensa luce, in eterei, affascinanti spazi che fanno sognare l’ impossibile. L’Umanità, il “Grande Essere”, il Dio dei positivisti, “gradualmente ci eleva dalle miserie dell’animalità alla bellezza e alla grandezza della vita sociale. Il essa sta il nostro appoggio, in essa la nostra forza, in essa la consolazione, la speranza, la dignità della nostra esistenza”. Con una passione nelle ricerche che porta a conoscere, a considerare le cause dei fenomeni fisici e sociali la scienza positiva alimenta la saggezza, il senso del giusto e dell’equilibrio. L’uomo e il suo ambiente vengono a trovarsi in rapporti armonizzati secondo i fondamentali principi delle leggi naturali. Il positivismo ha creato un sistema filosofico, scientifico, religioso sulle basi di somme idealità per reagire allo stato di crisi in cui si vive all’epoca di Augusto Comte, contro le grettezze morali che corrompono e contaminano, contro l’ignoranza che comprime i settori più depressi. Si parla di rigenerazione dell’istruzione e di una più proficua organizzazione del lavoro. La guerra ed ogni discussione politica che generi confusione accentuando squilibri fra le classi e maggiori miserie dovranno scomparire dalla faccia del mondo. “L’uomo stenderà all’uomo la mano fraterna per benedire e fecondare questa terra
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dalla quale dipende la comune esistenza, per migliorarla ed abbellirla, per farne un soggiorno di felicità e di pace ove ciascuno possa compire degnamente il suo vero destino di concorrere liberamente alla conservazione e al perfezionamento dell’Umanità”. Sono principi di tanta e tale purezza da essere considerati lontani da una loro pratica realizzazione. Possono di certo essere di stimolo a creare limitati miglioramenti, a ristabilire certe connaturate facoltà umane, stimolatrici di benessere in situazioni sociali precarie del tutto opposte all’atmosfera di idillio che si vive con il positivismo. Si vuole l’uguaglianza dei privilegi, la chiarezza dei concetti. Tutta l’ astrattezza dogmatica della teologia e della metafisica portata al parossismo si vuole eliminare. Occorrono sistemi di interventi positivi, concreti che permettano applicazione, senza astruserie e aspetti arcani e mistici. Accettabili i metodi che portano alla interpretazione dei fenomeni reali invece delle verità assolute, ci si sforzi di raggiungere le verità relative. Se nulla possiamo sapere sulla causa fondamentale, sull’ essenza delle cose e sulla loro ragione di essere, possiamo però avere delle nozioni sul come siamo. Secondo Augusto Comte la teologia e la metafisica hanno cessato di vivere e sono ora sostituite da una crescente tendenza verso il metodo positivo, metodo che già fu introdotto nelle scienze naturali e che presto sarà adottato dalle morali e sociali. La scienza in sé stessa non è né idealista né materialista, suo scopo è di conoscere i fatti e i loro reciproci rapporti, orientandoci verso mete che lontane dalla metafisica siano soltanto antropologiche. Leonardo Selvaggi Stampare un giornale ci vuole coraggio, ma è più difficile farlo vivere: composizione, bozze, carta, stampa, buste, francobolli… se non volete che POMEZIA-NOTIZIE muoia, diffondetelo e aiutatelo con versamenti volontari (specialmente chi trova la propria firma, o scritti che lo riguardano, dovrebbe sentirsi moralmente obbligato. L’abbonamento serve solo per ricevere la rivista per un anno). C/c. p. n. 43585009 intestato al Direttore
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Luci della capitale
RIFLETTORI ACCESI SULLA PASSERELLA SCUOLA di Noemi Lusi
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ANNO riaperto le dighe. Intenso il flusso di gente che, a velocità variabile, percorre quel tratto di strada che conduce all’edificio scuola. C’è molto frastuono, tante le automobili che riempiono di nuovo le non sempre ampie vie dei quartieri di Roma. Alcuni professori sostano davanti all’ ingresso, in attesa dell’apertura. Unico è il docente all’antica che, per non affaticarsi, ancor prima dell’arrivo dei collaboratori scolastici che hanno le chiavi del cancello, si ferma di fronte all’entrata pedonale a leggere il giornale, per poter cominciare la giornata con tranquillità, senza sentirsi catapultato in classe. Numerosi sono i ragazzi che, a passo lento, malgrado il trillare della campanella elettrica, si appropinquano a fatica, trascinando un po’ gli arti inferiori come se l’estate fosse stata da loro trascorsa a studiare. Enorme è la quantità di macchine guidate da genitori che sembrano sentire la necessità impellente, non solo il primo giorno, di condurre i propri ‘figlioletti’ di età fra i 14 ed i 19 anni, proprio di fronte alla porta, né un centimetro prima, né uno dopo, forse per non farli stancare troppo o per assicurarsi che compiano il proprio dovere. Molti sono i clacson che suonano, protagonisti gli stessi genitori che, indugiando per assicurarsi che i pargoli siano veramente entrati, impediscono a coloro che seguono di poter fare altrettanto. Infiniti sono, ancora, gli studenti in motorino che, parcheggiando il mezzo regalato loro per il compleanno sul piazzale antistante l’ edificio, nonostante il segnale di entrata sia stato inequivocabile, trascorrono lenti il tempo, lucidando il casco e tirando fuori, con calma, i libri dal bauletto, togliendosi per un solo attimo gli occhiali da sole di noto ‘brand’ per ravviare la fluente capigliatura, sempre rigorosamente alla moda, per poi indossarli di nuovo e poter continuare a sentirsi
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protetti da quelle lenti ambrate che probabilmente conciliano la tranquillità del lento risveglio mattutino. Impazienti, nella fila interminabile di veicoli, scalpitano i professori i quali patendo a fatica, se non altro per puro principio, l’ impedimento regolamentare che loro ‘non’ consente di poter accedere all’ingresso del comodo parcheggio riservato invece all’utenza, sanno purtroppo di dover attendere i rallentati tempi di genitori ed alunni e tentano di dirigersi verso l’altra area, quella riservata alle loro vetture che, ovviamente, essendo per loro, dista quattro volte il percorso. Corrono i poveri docenti, affaticati dal lungo tratto di strada, dal peso della cultura simboleggiato dall’ingente e pesante carico di libri che devono portare ogni giorno da casa perché, malgrado un piccolo cassetto personale d’ordinanza sia disponibile a scuola, le lunghe lezioni, la correzione dei compiti, l’ arricchimento dell’offerta formativa, l’ innumerevole quantità di progetti impongono una necessaria, regolare e cospicua integrazione, cartacea e non. Le docenti normalmente adottano un comodo look ‘montanaro’ con scarpe basse e jeans, scuri per il ruolo, ideale per affrontare l’esuberante audience che le attende. C’è sempre chi, fra loro, tiene in modo particolare anche all’aspetto esteriore e non rinuncia ai tacchi alti, tentando a fatica di evitare buche, asfalto consumato e dislivelli, sembrando il più possibile naturale; c’è chi, poi, trascina un carrellino della spesa stile anni ’50 che invece di contenere cibarie racchiude tomi, vocabolari e quantità inenarrabili di fotocopie fatte a spese proprie perché ‘il toner a scuola è finito’, chi si affanna verso l’entrata ancora con la borsa aperta, la mano destra che cerca di selezionare in fretta la chiave del cassetto per sveltire le operazioni una volta entrati in sala docenti e la sinistra con il cellulare, per dare ai figli un ultimo saluto o una raccomandazione last minute prima di entrare… ‘Forza, è tardi… pedalare!’ , grida affettuosamente ma in modo perentorio il bidello ai ragazzi lenti … ‘Chiudo, eh? … Tu… Ti vuoi
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sbrigare? Te la sei messa la cinta stamattina? I pantaloni ti arrivano alle ginocchia… Vuoi stare attento che cadi…?’ Corrono i docenti, anche una volta entrati. Tante sono le incombenze… il registro da prendere perché malgrado sia strumento di lavoro non può, per legge, essere portato a casa, la firma da mettere sul foglio predisposto, che non serve perché fa fede il registro di classe, ma si continua ad apporre perché, malgrado si sia detto e deliberato più volte, quel foglio non scompare mai, i genitori di turno, spesso accompagnati dai rispettivi consorti, che attendono e chiedono, in corsa, di essere ricevuti prima che il professore entri in classe, perché in orario di ricevimento proprio non possono farcela… E che dire dell’ applicata di segreteria che richiede spesso al volo una firma per un adempimento di carattere burocratico, del collaboratore scolastico che insegue il docente per chiedergli insistentemente di redarguire gli alunni dell’ultima ora del giorno precedente che hanno lasciato l’ aula in condizioni indecenti… Fra tutte queste variabili il professore, imperturbabile, nel frattempo riesce a dirigersi verso l’ascensore che tre quarti delle volte è fuori servizio perché ‘ripararlo costa’ e che, quando funziona, ha la luce spenta il che evidenzia maggiormente i rumori del mezzo, efficiente ma… non sempre di ultima generazione. Prende, quindi, le scale per recarsi al terzo piano dove deve iniziare il proprio lavoro in classi non sempre ampie, pienissime di ragazzi, spesso trenta. In queste condizioni, trafelato e già provato da i mille ed uno stimoli che caratterizzano il mondo scuola, il docente entra nell’arena ed inizia, nonostante tutto con convinzione ed entusiasmo, un altro anno scolastico certo che, ancor prima di potersi dedicare a didattica, psicologia, pedagogia, principi educativi, competenze trasversali, ordine, socializzazione, integrazione, rischio di dispersione scolastica e così via, dovrà confrontarsi con una realtà che molto assomiglia ad un intricato percorso ad ostacoli. Senza rete. Noemi Lusi
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INSIEME A MITTENWALD Insieme siamo giunti a questa valle, insieme a sera abbiamo udito il suono delle campane, mentre si indorava nel tramonto, e quasi si arrossava, il grigio masso del Karwendel. Insieme abbiamo infine visitato il museo Mathias Klotz ed ammirato le belle forme, e il suono immaginato, dello strumento caro a te – il violino. Sono felice ora che ti sento dentro di me, contento. Mariagina Bonciani ALLELUIA DEL “Se” “Se un omosessuale cerca Dio, e vive bene, chi sono io per giudicare?” Il “se” ipotetico avrebbe una certa importanza: non risulta che i partecipanti al gay pride, sboccati e sculettanti, siano precisamente alla ricerca di Dio. I media, esultanti, hanno cancellato il “se” ipotetico dalla frase di Francesco. Comunque venga pronunciata la parola, ciascuno la intende come gli pare. Rossano Onano Francesco, nella sua semplicità, ci ricorda il Vangelo e non condanna i gay; non li condanno anch’io. Lasciamo che maturino in condotta e che alla loro Fede pensi Iddio. Continuamente intenti a provocare riuniti in congrega, agiscon da proterva maggioranza - entro la società di cui son parte da media compiacenti spalleggiati, che del “se” fanno un uso di bottega. Nella fregola d’essere notati, spettacol grasso danno a tutto spiano, da suore mascherandosi e da frati. Domenico Defelice
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MA ANDERSEN, CHI ERA? L'accoppiata Sestri LevanteAndersen fa ancora centro Alla fiorentina Donatella Bindi Mondaini la quarantaseiesima Edizione ( giugno 2013 ) di Luigi De Rosa
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ORTUNATI quei bambini (e quegli adulti) che anche in questo 2013 hanno potuto sognare ad occhi aperti, e divertirsi... di meraviglia e di paura, con le fiabe, in occasione del Festival e del “Premio Andersen-Baia delle Favole”. Premio e Festival che da quasi mezzo secolo, dal 1967, fanno conoscere, nel mondo della cultura e della letteratura, il nome di Sestri Levante e del Tigullio. Sestri Levante è una cittadina posta su una penisola, a una cinquantina di km. da Genova (direzione La Spezia) e le sue due baie hanno nomi poetici: una, la Baia del Silenzio, gliel'ha data il poeta sestrese Giovanni
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Descalzo. L'altra, la Baia delle Favole, gliel'ha data lo scrittore Andersen. Ma è letteratura per ragazzi ! No, amici, è Letteratura per tutti, anche se diamo un'occhiata a certi nomi di scrittori famosi che, negli anni, si sono uniti come Autori o membri di Giuria al Premio Andersen ( Italo Calvino, Alberto Arbasino, Alberto Moravia, Mario Soldati, per non parlare, da questa edizione del Premio, di Rosellina Archinto, la coltissima titolare genovese-milanese della omonima Casa Editrice siciliana...). Anche l'edizione di quest'anno, la Quarantaseiesima, ha visto numerosi concorrenti venuti da ogni dove, premiati da una qualificata Giuria, sotto l'egida del Comune di Sestri Levante e del suo Assessore alla Cultura Valentina Ghio, che le circostanze hanno visto eletta nuovo Sindaco di questa Città proprio in concomitanza della conclusione di Festival e Premio. Al primo posto assoluto è stata classificata la scrittrice per ragazzi Donatella Bindi Mondaini, di Firenze, con Il tempo delle cicogne. Ma lasciamo ai quotidiani, e a radio e tv, il loro compito specifico di “informare” dettagliatamente sul Festival e sul Premio. A noi oggi basta un “angolino”, per poter tentare di rispondere, anche se parzialmente, a una domanda che abbiamo sentito risuonare spesso e volentieri: Ma Andersen, chi era ? La risposta è tutt'altro che facile ( specie se dev'essere fornita, forzatamente, in pochissime righe) data la sterminata ampiezza di una produzione letteraria che ha messo radici anche nella cultura italiana. Lo scrittore Hans Christian Andersen era nato a Odense, in Danimarca, nel 1805. Sarebbe poi morto a Copenhagen , nel 1875. Figlio di un ciabattino che, più che fabbricare scarpe, amava il teatrino, Le mille e una notte e le passeggiate nei boschi (tutte cose che avrebbero affascinato il piccolo Hans), e di una lavandaia che aveva quindici anni più del marito e un debole per l'alcool, Hans aveva ben presto imparato a crescere da solo, e a
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quattordici anni se ne era andato da solo a cercare fortuna a Copenhagen. Dopo studi irregolari, aveva potuto compiere la propria formazione, fino a laurearsi, solo grazie a filantropi ricchi e influenti (soprattutto al suo mecenate Jonas Collinn) ed alla sua tenacissima volontà di diventare “un grande uomo”. Portato istintivamente per la letteratura, aveva cominciato come poeta, a venticinque anni, con il libro Poesie, per continuare come romanziere (L'improvvisatore,1835 – O.T., 1836 – Solo un suonatore, 1837 – Le due baronesse, 1849, etc.) Ma soprattutto, dopo il primo dei suoi quattro viaggi in Italia ( quello del 1833-34) aveva iniziato a scrivere fiabe con una vena fertile, una fantasia senza confini, un gusto del meraviglioso, un approccio simpatico, tra il disincantato e il fiducioso, e soprattutto con uno stile così perfetto, nel genere, che lo fece riconoscere, senza alcun dubbio, come uno dei più grandi scrittori dell'Ottocento. Ho detto “perfetto”, ma non accademico e pedante, anche perché accresceva, con l'introduzione nei suoi racconti della lingua parlata e delle sue sfumature, il fascino della narrazione. Così come ho detto “fantasia” perché in effetti quasi tutti i suoi racconti fiabeschi nascono dalla sua fantasia, quando non traggono ispirazione da fasi e dettagli della sua stessa vita. E questo, tra l'altro, lo differenzia da due famosi narratori di racconti popolari, i fratelli tedeschi Jacob e Wilhelm Grimm, che invece, per lo più, “trascrivevano” e abbellivano racconti non di propria esclusiva invenzione , ma racconti fiabeschi direttamente narrati dal popolo tedesco. Andersen elaborò liberamente, dalla propria memoria, fiabe, storie, leggende che aveva ascoltato da bambino, magari da anziani della Casa di Riposo di Odense. Oppure trasse ispirazione da fatti realmente accadutigli. Si veda ad esempio Il tenace soldatino di stagno, nella cui danzatrice Andersen rievoca quella che lo prendeva in giro da giovane perché aveva modi poco aggraziati (era molto magro e piuttosto bruttino, abituato a non ricevere
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vezzi e a cavarsela sempre da solo). Idem potremmo dire per Il brutto anatroccolo. Così La principessa sul pisello si ispira ad un litigio con un'amichetta, a sua volta derisa in Mignolina. Tra le moltissime altre fiabe di Andersen (che continuò a scriverne fino a tre anni prima della morte) non possiamo non ricordare La piccola fiammiferaia , La sirenetta, I vestiti nuovi dell'Imperatore, Le scarpette rosse. Non possiamo non ricordare, anche, che scrisse un libro intitolato La fiaba della mia vita, e che tenne per lunghissimi anni, giorno per giorno, un Diario (ben dodici volumi!). Così come scrisse molto anche per il Teatro. Da giovane avrebbe voluto diventare un attore, ma lo scartavano perché era... magro, bruttino, dinoccolato. Insomma, era un brutto anatroccolo ! Il suo destino era quello dello scrittore... Viaggiò molto per il mondo, era di una curiosità instancabile, la vita gli piaceva, anche se, a parte la letteratura, non gli aveva dato particolari soddisfazioni. Passò circa nove anni della sua vita fuori della Danimarca, studiando, ammirando, scrivendo. Conobbe di persona e frequentò molti personaggi famosi, tra cui gli scrittori Charles Dickens, Dumas padre e figlio, i fratelli Grimm, Victor Hugo, il filosofo Soeren Kierkegaard, lo scultore Thorvaldsen e i musicisti Félix Mendelssohn e Robert Schumann. Luigi De Rosa
SOFFERENZA Silenzio interiore, conforto migratore, un cappotto perso, stracciato, scolorito, vicino senti l’acqua fredda sfiorare la tua pelle, ghiacciai si svelano al tuo sguardo, tutti i ricordi profondi e gli affetti passati si perdono con un soffio di vento e ti senti Nullità del Nulla. Laura Catini Roma
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Comunicato STAMPA XXIV Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it organizza, per l’anno 2014, la XXIV Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, come sopra, lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2014. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in eu-
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ro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia-Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2013). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito.
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I POETI E LA NATURA - 24 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
MATSUO BASHO, UNO DEI PADRI DELL' HAIKU Per l'haiku, Natura e Poeta sono tutt'uno
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empre interessati ad indagare sul rapporto fra la Natura e i Poeti, spaziando in assoluta libertà attraverso i secoli e i continenti ci imbattiamo, questo mese, nella nascita dell' haiku, nel Giappone del 17° secolo. Prima o poi ce ne dovevamo occupare, perché non vi è forma letteraria al mondo in cui non vi sia un rapporto così stretto fra Natura e Poeta. Nell'haiku ci si avvale di immagini del mondo della Natura per fissare stati d'animo dell'uomo. Tra i padri fondatori di tale forma letteraria predomina il poeta Matsuo Basho, nato nel 1644 a Ueno e morto nel 1694 ad Osaka, al termine di uno dei suoi tanti pellegrinaggi attraverso il Giappone, affrontati da solo e quasi senza mezzi per sopravvivere.
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Basho è un soprannome, che secondo alcuni il poeta prese da un banano che cresceva nel giardino annesso alla modesta casetta regalatagli da un discepolo ricco ( uno dei suoi tanti discepoli). Secondo altri, invece, il suo pseudonimo deriverebbe da basho, una piantaggine delle cui foglie era costruita la capanna in cui viveva. Il vero nome del poeta, comunque, era Jinshiro Munefusa Matsuo. Anch'egli era nato in una famiglia ricca, una famiglia di samurai, ma aveva ripudiato il genere di vita della propria nobile casta. Si era dato allo studio del buddismo e dello zen, alla povertà assoluta, alla poesia, e in seguito aveva aperto una “Scuola di Haikai”. La parola Haikai, che indicava un genere metrico di composizione di sole diciassette sillabe proveniente da una modifica del tanka, prese poi il nome di haiku, col quale è universalmente nota e che sta ad indicare, però, una specifica, singola poesia appartenente al genere haikai. Le diciassette sillabe sono contenute in tre versi, di cinque, sette e cinque sillabe ( ma questa sequenza può variare nei singoli casi). Anticamente, l'haiku era un gioco di società, una specie di poesia a catena. Fu portata al livello di arte da poeti lirici come Buson Yosa, Kobayashi Issa, Masanka Shiki. Dall'età di trentotto anni, particolarmente negli ultimi dieci anni della sua vita, Matsuo Basho si diede, come sopra detto, ai viaggi e alle peregrinazioni solitarie. (Senza morire/ dopo molte notti di viaggio/ in un tramonto d' autunno). La poesia di carattere contemplativo diventò ancor di più la sua attività preminente, e gli studi a suo tempo fatti in un monastero buddista diedero, insieme al taoismo, una linfa spirituale profonda alle sue poesie ( naturalmente haiku). Principio basilare della sua visione artistica e filosofica era l'unione inscindibile fra l'uomo e la Natura, per cui l'uomo può capire e gustare intimamente la Natura solo se si pone al suo stesso livello. E questo non in un mondo lambiccato e sofisticato, ma
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nella semplicità dell'esistenza quotidiana. Il suo insegnamento ai discepoli poteva essere sintetizzato in quello di tornare alla Natura, di seguirne le leggi e lo spirito. Si noti: “Tornare alla Natura” nel diciassettesimo secolo ! E che cosa dovremmo dire noi del ventunesimo secolo ? Basho arrivava addirittura a consigliare di imparare la filosofia essenziale della vita... dai pini e dai bambù... senza dimenticare le nuvole e gli uccelli, le rane nello stagno, le albe e i tramonti, i fiori e i colori, il gocciolìo dell'acqua ( Un banano nel temporale/ il gocciolìo dell'acqua nel catino/ scandisce la mia notte.) Raccomandava di evitare le apparenze e le false ostentazioni ( se rivivesse, condannerebbe in blocco tutta la civiltà occidentale...) mirando all'essenziale, al profondo, più nel silenzio della solitudine che nel fracasso delle folle rumorose. Oltre ai versi delle sue numerosissime haiku, Matsuo Basho scrisse anche brevi prose ( haibun ) o quaderni di viaggio come Alle intemperie, o come Manoscritto nello zaino o come Lo stretto sentiero di Oku. Luigi De Rosa
LA MIMOSA CADUTA Caduta è la mimosa vittima della furia del vento! Coricata sull’erba giace con le lagrime negli occhi gialli chiedendo invano aiuto! I passanti la guardano indifferenti; non più l’ammirano come quando era in vita tutta alta e sorridente! Tutti pensano che una volta morta la mimosa non vale niente! Mariano Coreno Melbourne
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(Disegno di Serena Cavallini)
Recensioni LUCIANO LUISI DONNE E MISTERI Editore Carabba, Lanciano, 2013, € 15,50 Donne e misteri è il titolo di un libro di racconti di Luciano Luisi, apparso nel 2013 presso l’Editore Carabba di Lanciano, che a prima vista ci ripropone quelle che sono le virtù dello stile di questo autore, lucido e avvincente. La raccolta si suddivide in tre parti delle quali la prima ha per lo più un contenuto amoroso; la seconda si ispira al paranormale e la terza è di argomento poliziesco. Apre il libro L’appuntamento, definito da Roberto Pazzi “forse il più bello” della raccolta, per la forte carica di seduzione che contiene. Qui il rapporto amoroso ha un andamento sottile e ambiguo, sino a giungere alla rinuncia di Franco, il quale non riceve Carla, che viene a trovarlo dopo lungo tempo, e che ama, per conservare l’immagine che di lei aveva serbata negli anni. Spiccano tra gli altri racconti della prima parte del volume, Il quaderno, dove un quaderno trovato in un cassetto dalla figlia di un uomo da poco defunto, le rivela risvolti ignorati della sua personalità e un episodio che aveva per sempre segnata la sua vita; Il bivio, storia della presenza di una morta che si frappone tra due amanti; L’omicida, in cui la passione conduce al delitto; L’onorevole, squallido raggiro ordito ai danni di un ingenuo candidato alle elezioni del Parlamento Nazionale da parte dei suoi avversari politici; ecc. La seconda parte del libro, quella in cui domina il
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paranormale, è aperta da un racconto intitolato Visioni nella notte, dove compaiono due donne, travolte dallo stesso destino di morte ed accomunate da un’identica enigmatica storia che le perseguita oltre la vita. Un uguale ritorno di anime dai regni dell’Aldilà compare ne La castellana; mentre ne Il pittore di angeli sono i volti degli angeli dipinti da un giovane artista ad assumere le sembianze della sua compagna defunta. Nozze a Rio è la storia dell’amore tra un giovane botanico, venuto da lontano in un paese esotico, e una ragazza nella quale la passione e i riti magici si alternano sino al tragico finale. Un’alternanza di passione e magia si ha anche ne La quercia. La terza ed ultima parte del libro contiene racconti ai quali fa da sfondo un delitto, come avviene non soltanto in quello introduttivo, Jasmine, dove malattia e passione si intrecciano, ma anche ne La governante, dove l’ingenuità e la buonafede portano il protagonista a cadere nella trappola perfidamente orditagli dal nipote. Delitto a Livorno è un’efferata storia di omicidi che viene sviluppata con grande sapienza; così come con grande sapienza vengono sviluppate le vicende de La donna del tassì, Le buste rosse, Tre palle nere. Un libro avvincete e scritto con quella bravura e incisività di stile che da sempre caratterizzano l’arte di Luciano Luisi nelle varie forme in cui essa si va sviluppando. Elio Andriuoli
ANNA AITA DOMENICO DEFELICE Un poeta aperto al mondo e all’amore Ed. Il Convivio, giugno 2013 Pagine che grondano non di sola ammirazione, ma anche di umano affetto, quelle che Anna Aita scrive per la figura e l’opera letteraria di Domenico Defelice. Nativo di Anoia, comune in provincia di Reggio Calabria, lo scrittore vive già da lungo ordine d’anni a Pomezia, dove a tutt’oggi dirige il mensile Pomezia-Notizie ed annualmente organizza un ben noto e partecipato premio di poesia. Dopo la ricostruzione delle vicende di vita, per le quali s’è avvalsa delle annotazioni autobiografiche di cui si costituisce il Diario di anni torbidi, e di una cospicua documentazione fotografica, l’ Autrice procede con la presentazione delle opere del Defelice, di cui è conosciuta la varietà dei generi praticati, andando – i generi – dalla poesia al-
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la narrativa, dalla saggistica al teatro, ovunque conseguendo esiti unanimemente apprezzati. Il lavoro dell’Aita tiene in gran conto quanto s’è già scritto sull’estroso pometino entrato negli ambienti accademici per via di una brillante Tesi di Laurea realizzata da Eva Barzaghi. E i nomi più ricorrenti sono quelli di Sandro Allegrini, Leonardo Selvaggi, Maria Grazia Lenisa,Orazio Tanelli etc. Ma le note di cui il testo si correda riportano stralci desunti da tantissimi altri recensori, tra i quali figura persino chi scrive, limitatamente a quanto dal medesimo osservato sulla silloge poetica Alberi? che – a parer suo - rimane tra i capolavori della poesia italiana contemporanea. La monografia sul Defelice è prefata da Angelo Manitta, editore e scrittore anche lui, il cui riferimento al Marziale, da sottoscrivere senza riserve, mi fa venire a mente il richiamo perentorio dell’ Autore degli Epigrammata a colui che mostra di privilegiare letture – per così dire – d’ evasione: Hoc lege, quod vita possit dicere: meum est! Aldo Cervo Immagine: Il pittore, scrittore e poeta Saverio Scutellà con Domenico Defelice nel salotto di quest’ultimo, a Pomezia, il 29 aprile 1989.
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ANNA AITA DOMENICO DEFELICE Un poeta aperto al mondo e all’amore Ed. Il Convivio, 2013 - Pagg. 94, € 12,00 Un omaggio completo a tutta l’opera di Domenico Defelice, questo è quanto regala alle stampe Anna Aita con il volume “Domenico Defelice, un poeta aperto al mondo e all’amore”. La giornalista-scrittrice divide il suo lavoro in sei capitoli, analizzando la vita, le opere scritte, le diverse pubblicazioni, le opere teatrali, fino ad arrivare alla “creatura” Pomezia-Notizie, per finire con le monografie già scritte su di lui. Un’opera completa che nel sottotitolo spiega quanto Defelice sia uno scrittore aperto al mondo e all’amore, avendo occupato la sua vita a divulgare il verbo. Sin da giovanissimo appassionato alla cultura,
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con le sue mani la sua cultura, fino ad arrivare a diventare uno degli esponenti storici della letteratura calabrese. In quello che scrive sin da giovane c’è la vita vissuta, soprattutto la sua, oltre a quella del mondo che lo circonda. Ci sono le fatiche, le piccole gioie, la famiglia, gli innamoramenti, le malattie, la natura: un vortice di emozioni che attingono al presente e al passato, qualche volta capace anche di “predire” il futuro. Tutto condito da una grande ironia, un’ ironia amara e mordace. La sua è una scrittura di riflessione, un modo per costatare anche le brutture di questa nostra società e cercare di risvegliare gli animi della “brava gente” che da tempo, purtroppo, ha smesso di “combattere” (in modo pacifico, si intende!) accettando passivamente il più delle volte i soprusi. Defelice disprezza la violenza e la cattiveria umana, ama invece la fraternità, la pace e i valori morali e religiosi. E pensare che per risollevare le sorti di questo mondo corrotto, che fa male al Defelice, basterebbe che ogni essere umano si volgesse alla cultura e che guardasse alla natura con semplici occhi: le armi più potenti per sconfiggere qualsiasi bruttura e sopruso! Roberta Colazingari Immagine: Domenico Defelice sulla spiaggia di Nicotera (CZ), nell’agosto 1960.
SILVANO DEMARCHI “COMMIATO” - Poesie ( con prefazione di Antonio Crecchia) Ediemme – Cronache Italiane, Salerno, luglio 2013
nonostante le sue umili origini e il duro lavoro nella campagna calabrese che gli ha fatto subito conoscere la parola sacrificio, non ha mai mollato. Attraverso la sua vita in salita, ha fatto come la formichina, ha sofferto si, ma pian piano si è costruito
“Prendere commiato” può equivalere al “salutare”, al “congedarsi” proprio di chi si vuole accingere a partire spiritualmente preparato per un inevitabile viaggio piuttosto lungo. E siccome l'etimo è commeatus, l'andare e venire, si può pensare al salutare con la (viva) speranza di tornare, anche se non si sa né quando né come, a meno che non si creda nella metempsicosi e quindi nella reincarnazione in un altro organismo vivente ( magari, scherzando, nella propria cagnetta...). Resta il fatto che il mistero ( e, perché no, il timore?) della morte rimane davanti al poeta, come ad ogni uomo, alla guisa di un muro altissimo e minaccioso, che ci nasconde pervicacemente quello che c'è (se c'è) al di là del muro stesso. Ed allora non resta che aggrapparsi ai ricordi. Facendo rivivere vecchie poesie, o scrivendone di nuove, con le quali si rievocano nostalgicamente luoghi, persone, stati d'animo, eventi lieti o tristi
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appartenenti al passato. E' un'operazione-nostalgia dovuta anche alla non accettazione, a livello intellettuale e sentimentale, di una morte o sparizione ( totale e definitiva) di tante manifestazioni di Bellezza e di bontà. E' vero che un poeta autentico e pluripremiato, uno di quelli ancora sulla breccia da una vita come Silvano Demarchi, bolzanino del 1931, non ha bisogno di continuare a pubblicare libri di poesia a ripetizione per mantenere desta l'attenzione dei propri lettori e dei critici, che ormai hanno letto l'essenza più dolce della sua produzione poetica, a partire da Una stagione, edito da Bino Rebellato nel 1968. Per i tipi dello stesso Rebellato, caro maestro elementare poeta, erano poi usciti Gli anemoni, due anni dopo, mentre il terzo libro, Il paese dell'anima, aveva visto la luce ben otto anni dopo l'uscita del primo, e cioè nel 1976. Ma l'elenco dei titoli delle sillogi demarchiane, molte delle quali bellissime e coinvolgenti, è particolarmente lungo, e non è questa la sede per riproporlo. Basti qui ricordare che questo “Commiato” è il suo ventiduesimo libro di poesia. Altri undici libri sono di prosa, e altri dodici sono di saggistica. Per non parlare della “cura” di importanti antologie, nonché delle sue importanti “Traduzioni”, specie in materia di Lirica tedesca. Però è vero anche che ogni nuovo libro di Demarchi rappresenta una prova di grande vitalità artistica del poeta filosofo di Bolzano che, se pur fiaccato da dolori e dispiaceri aspri ( come la morte della sua amata moglie Càrmina) non cessa di credere ( e di esortarci a credere) nei valori della Bellezza e della Poesia, nell'arte della Parola, l'unica che possa (tentare di) affrancare l'uomo dalla schiavitù della sua precarietà ( specialmente in mancanza di una fede religiosa tetragona a qualsiasi Dubbio). E qui debbo confessare che non posso non ricordare le conclusioni cui giunge lo studioso Antonio Crecchia nella sua Prefazione a “Commiato”. Conclusioni che gettano un sasso nel lago e dovrebbero suscitare animate discussioni ( O no ?): “ Un Commiato, questo di Demarchi, che riflette la sua condizione esistenziale attuale, compressa tra problemi fisici, determinazione a mettere fine alla carriera artistica per motivi di età, delusione per un mondo che “cambia” in peggio, avendo perso la bussola della “ragione”e della lucidità a seguito dello scatenamento delle peggiori forme d'irrazionalità e malvagità umana. Il Poeta e il Filosofo, pur convinti che la poesia ha avuto, ha e deve avere, un ruolo vivificatore, catartico, rigeneratore, di promozione culturale e spirituale in ogni epoca e in ogni contesto storico-sociale, di
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fronte al quadro torbido e controverso dell'attuale momento di “globalizzazione” e recessione mondiale, si trovano loro malgrado a fare i conti con il declino e la dissoluzione di una civiltà, immersa in un misero relativismo storico, in un precipitoso allontanamento da quel progetto razionale di civiltà europea originato dalla lucida speculazione di Socrate e Platone, per radicarsi sempre più nell'individualismo, nell'egoismo e nella volontà di dominio e di prevaricazione del soggetto (mal)pensante...” Luigi De Rosa
IMPERIA TOGNACCI NEL BOSCO, SULLE ORME DEL PASTORE Edizioni Giuseppe Laterza, 2012 - Pagg. 80, € 10,00 Con questo poemetto Imperia Tognacci giunge all'acme della sua parabola artistica ascendente, che si è snodata attraverso cinque pubblicazioni dal 2001 al 2011. Nella prima delle due scansioni in cui è suddiviso il poemetto. II bosco, la Poetessa percorre un lungo cammino, prima andando a ritroso nel tempo, smarrendosi nel ricordo, ma cogliendo la forza della Natura che l'ha forgiata, simile al maglio che, nelle antiche fucine, batteva e trasformava il ferro. Il bosco, le foglie, il vento, le montagne, la neve, l'autunno alimentano il fuoco del ricordo, che consente di procedere nel cammino della vita, "voci soliste, noi, nel grande coro". Per l'uomo vale ciò che scorre attraverso la memoria e si disperde in ciclica eco. Il tormento dell'Autrice consiste nel rintracciare quell'anello mancante che interruppe l'unione dell' Uomo con la Natura: pure figlio di cotanta Madre, l' Uomo distrugge la Natura, distrugge i boschi (dove una sega intrisa d'odio condanna a morte senza processo), riducendoli a campi di battaglia disseminati di giganti centenari ormai stesi a terra. E non si accorge che più ci si rivolge alla terra, più vicina possiamo sentire la paternità del cielo. Nella seconda parte, Incontro Aristeo, il pastore, Imperia Tognacci sottolinea come l'umanità non ceda al ciclico rinnovo della Natura, ma preferisca andare incontro ai nuovi proseliti dell'avventura della vita. Essa si perde nella polvere. La passione delirante degli uomini è solo impeto che travolge e fa smarrire in nebbie dove tace la musica dell'Universo. Le moderne migrazioni sono piene di inganni e
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di speranze disattese. I nostri passi muovono dietro ad una processione che si perde nel buio del tempo. Le vesti mutano, ma i veli che rivestono le nudità dell' anima sono sempre gli stessi. Aristeo è l'Uomo che si pone domande, l'Uomo che ricerca la verità per schiarire il buio. Indifeso rispetto all'ingordigia umana, comprende che l'anima, per guardare in alto e risalire, deve vedere l' insidia dell'abisso, per apprezzare l'amicizia, deve patire la nebbia della solitudine. Può intravedere l 'umana realtà solo nella luce del proprio simile. Ma Aristeo è anche la metafora del "Buon Pastore", che non smette di cercare le pecore smarrite e le raccoglie sull'orlo dell'abisso. È Colui che "chiama noi, liberi, ma fragili nell'obbligato ordine del tutto, ... mentre camminiamo sterminando la pace". "Ciascuno si interroghi sull'epocale esodo, e varchi il confine del proprio bosco, senza paura d'incontrare il diverso". Sono un accorato invito, queste ultime parole che la Poetessa ci rivolge, e che rappresentano la prova più difficile da compiere per l'Uomo: varcare il confine del proprio bosco, che sembra così accogliente e sicuro, pieno di sussurri e di velate promesse, illuminato qua e là da raggi di sole che trapassano il fogliame, solcato da ruscelli in grado di spegnere qualunque sete. Ma il Pastore/Uomo oggi non ha più agnelli sulle spalle e le sue mani sono vuote. Cosa ha ricevuto in cambio di tutto quello che ha perso? "Non ha nome né perché la misura che ci è chiesta", risponde/ "nello staio ho messo tutta la fatica del mio cammino, la tramuterò con qualcosa che mi sfugge, ma che ho visto tralucere al di là delle cose". È un presagio di brividi d'eterno, di pulsioni d' immenso, di riunione con l'Infinito. Un presagio di luce che brilla al di là delle cose. Un presagio che Imperia Tognacci consegna al lettore, un dono di immenso valore, come la sua poesia, che permea l'anima e ci fa sentire parte dell 'immensità.
ROSSANO ONANO SCARAMAZZO Genesi Editrice, 2012 Rossano Onano ci presenta una ricca antologia delle sue poesie/racconto – scelte fra quelle pubblicate dal 2001, ed altre inedite – dal singolare titolo “Scaramazzo” (Genesi Editrice, 2012, pagg.
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200, € 15,00). Già la figura di copertina ci impressiona: è un groviglio confuso di parti di un organo o di organi assemblati: occhi? vene? interno del cuore? parte del fegato? o cos’altro? In seconda copertina, la foto ci mostra l’Autore preoccupato, sbigottito, quasi spaventato; ma lo sfondo è un bellissimo paesaggio naturale che è quello che egli ama e desidera. Il contenuto del libro è un’amara, sofferta descrizione, unita a una ferma denuncia, del degrado di tutti i valori, e in tutte le direzioni, che oggi esiste. Nel sociale: i ricchi sfruttano i poveri (<Torino Lingotto>); nella religione, ci sono dubbi, strumentalizzazioni, disonestà, scandali; nella politica, le Convenzioni di pace non vengono rispettate, e la guerra porta sterminio, crudeltà, violenza; inoltre, attualmente è in atto una preoccupante invasione selvaggia di immigrati nel nostro Paese; nella cultura, non si leggono più i libri dei grandi e saggi pensatori; non c’è serietà, né impegno nell’istruzione, per cui ci troviamo proprio in un “evo medio manageriale”. Non c’è più pudore: le donne “animalesse terribili”, “divorano il maschio”; l’infanzia non ha più innocenza, né purezza, né virtù: è stata tradita, violata e corrotta dagli adulti che, sfruttando le bambine fin da piccole, le hanno fatte diventare prostitute, preparandole a diventare “onnivore”. Per non parlare di droga, Aids, pedofilia, aborti, sesso esasperato o malato o deviato (<Appunti ragionati..> <Il passatore>, ecc.), che causano tutti un’infinità di patologie fisiche e psichiche (e il Nostro, che è psichiatra e terapeuta, ne sa pur qualcosa!). La storia di Alissa, qui raccontata, è un esempio di disgregazione del nucleo famigliare e delle relative gravi conseguenze per figli, genitori e allargamenti vari delle convivenze. La giustizia non funziona, così come la burocrazia. Nei rapporti umani, non c’è più sentimento d’ amore, o di amicizia, o di buone relazioni, perché tutto viene spersonalizzato dalla telematica. Non esiste la compassione. Non si rispetta la natura. L’Autore, per denunciare più fortemente questa bolgia generale, e per colpire direttamente le coscienze, come sa usare toni drammatici, altrettanto usa – con fine intelligenza - l’ironia, lo scherno, il simbolismo e l’allusione, l’irrealtà, nella ricchezza di espressioni originalissime (persino nei titoli delle poesie!), di figurazioni ed immagini a volte paradossali o fantasiose o bizzarre o scherzose, oppure con scene crude, orride, macabre.
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Libro tutto da leggere per poter dare una scossa altamente positiva ai nostri comportamenti. Maria Antonietta Mòsele
CIRO ROSSI FORME D’APPARENZA Bastogi Editore, 2009 Anche il volume “Forme d’apparenza” (Bastoni Editore, 2009, pagg. 78, € 7,00) di Ciro Rossi, è una raccolta di poesie/racconto che sono presentate da Anna Gertrude Pessina la quale sottolinea la trasparenza e l’onestà dell’Autore nel descrivere i suoi sogni, i ricordi e i sentimenti presenti e passati; inoltre, riconosce che egli sa inveire aspramente contro la corruzione dei politici che hanno tradito istituzioni e cittadino, mentre il popolo si trova inerte, impotente, incapace di reagire per cambiare le cose. Nella prima parte, infatti, leggiamo degli amici e degli amori di gioventù del nostro Poeta; e questi ricordi gli portano tristezza, specialmente di sera,”quando più vivi i tormenti del cuore/ fan vibrare parole e confessioni”. Egli si sente sconfitto da varie delusioni, “dai tanti naufragi”, depresso: “…mi perdo nel mare tempestoso/ di chi è presente assente”, spento: “Non c’è luce nel mio mondo”. Egli cerca serenità, attraverso le bellezze della natura, attraverso l’arte ed anche attraverso la poesia: “La poesia non tradisce;/ la poesia salva, fa vivere,/ fa sognare il mondo che vuoi,/ il mondo che tutti vorremmo.” E pensa ai tanti problemi attorno a noi: povertà, incendi dei boschi, inquinamento, ladrocini, sopraffazioni, violenze, guerre, genocidi, ecc. Nella seconda parte, egli denuncia le tante ingiustizie sociali causate dai politici “predatori mai sazi, coccodrilli,/ mangiano i loro stessi figli”, “animali che nella melma/ si crogiolano senza vergogna”, “usurai e criminali immuni/ legalmente autorizzati”, “vampiri/ (che) succhiano sangue!” i quali con l’euro hanno tagliato al cittadino stipendi e viveri, per cui, dice: “moriamo di fame”. E si associa al poeta Martiniello usando “la frusta della parola” contro questi nostri dirigenti nulla facenti, “con paghe da lingotti d’oro”, dalle promesse mai mantenute. L’Autore, pur riconoscendo che i nostri sono “urli spenti, parole di rabbia/ repressa” e non vede sbocco, ci sprona con tutte le sue forze a non stare zitti, bensì a riunirci tutti per rilanciare uno Stato giusto, custode dei valori più alti. Parole dirette, veritiere, schiette. A noi, ascoltar-
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lo e darci da fare! Maria Antonietta Mòsele
ELENA MANCUSI ANZIANO DAL CUORE DPNET sas, 2013 Presentata da Vincenzo Rossi – che qui vede espresso l’amore di coppia costante, velato da un pudore quasi sacro - è la raccolta poetica “dal cuore” (DPNET sas, 2013, pagg. 126) di Elena Mancusi Anziano. L’Autrice precisa che quest’opera è l’insieme di due sillogi, di cui la prima esprime i passaggi interiori dell’anima, mentre la seconda vuole essere un incitamento a respingere fortemente il Male. Come, bambina, dalla nonna ha ricevuto il consiglio di seguire sempre i dettami dell’Amore, così ora, nonna lei stessa, invita i nipoti a credere nei sogni e ad ascoltare Dio quando parla al cuore. Poesie di affetti di famiglia, ma anche di amore con le sue luci e le sue ombre, con le sue gioie (“Insieme a vapori di luce/ ti vidi arrivare,/ ogni passo era l’alba più chiara/ e fu in quel nulla di tempo,/ che il primo raggio di sole/ ci chiuse in un cerchio”) e i suoi drammi (“un fiore calpestato/ che il selciato divora”), con voli d’Assoluto e crude violenze (“ i confini varcò la cieca belva/ e inermi trovò le prede”), con felici presenze e dolorose assenze (“un tuffo nel cielo,/ poi dolce/ si compie il mistero”; “un’ombra… scompare/… e nell’aspro silenzio è il vuoto inerte/ senza luce, il nulla.”), con realtà ed illusione. Bellissima una sua definizione dell’amore:”è l’ attimo sublime che stringi e trema tra le dita/ come i petali di rosa,/ che timorosi di affidarsi al vento,/ rabbrividiscono al soffio che scuote il ramo”; “intessiamo di parole e carezze,/ una trama d’amore”. E della vita:”un correre d’acqua/ sopra gli affanni/ e non ci sono argini/ alla piena del dolore,/ se non l’ amore forte, sublime…” Intanto, il tempo inesorabilmente passa (“era nel conto, sai…”), lasciando nostalgie, ricordi e solitudine, ma anche speranze e incoraggiamento a se stessa per continuare da sola:”lotta e spera” e “basta poco, briciole,/ per ricominciare”. Forte è l’incanto di fronte alla natura ammaliatrice (vedi “Estasi”, “Arsa di sete”, “Ancora autunno”ecc.). E chiude – da donna a donna – sollecitandoci a credere nei sogni: “…la realtà si vive già tutta/ e fino in fondo, brutta com’è,/ i sogni sono quello/ che vorremmo che fosse,/ quello che è bello e santo e giusto,/ quello che a volte,/ se lo desideriamo mol-
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to, ci accade.” Grazie dell’augurio che ci fa in queste poesie così sovrabbondanti di creatività, di osservazioni inusuali, di espressioni che volano alto, di meditazioni esistenziali. Maria Antonietta Mòsele
INNOCENZA SCERROTTA SAMÀ NEL TACIUTO LA GIOIA Edizioni Polistampa, 2013 Presentata da Giuseppe Panella e da Rossano Onano, e commentata poi da Anna Balsamo, è la raccolta lirica di Innocenza Scerrotta Samà: “Nel taciuto la gioia” (Edizioni Polistampa, 2013, pagg. 62, € 6,00). Per Panella, il “taciuto” , qui, è l’incontro fra gioia e verità; è ciò che non viene detto e che conta più delle parole, perché manifesta l’Assoluto, tramite la Poesia che è l’espressione delle possibilità inespresse. Onano redige un’analisi profonda di questo <diario d’amore>, un privatissimo esercizio d’amore che rappresenta il connubio dell’anima intellettiva con l’anima desiderante dell’Autrice, in senso ascensionale e discensionale. E Anna Balsamo, di questa poesia di un minimalismo esasperato, interpreta il “taciuto” come estasi che fa vibrare, come emozione d’amore sentito reciprocamente, eppure ancora inconfessato. Sono poesie brevissime, lapidarie, parole come pietre, un concentrato di concetti e significazioni, tutti riguardanti il tema enunciato nel titolo. Ma cos’è questo “taciuto”? Non è il silenzio vuoto, bensì un silenzio denso di sentimenti, di emozioni, di angoscia e desiderio, di amore e morte, di luce e tenebra, di sottomissione e di ebbrezza; è l’invito d’amore erotico e anche divino, con altezze dello spirito e bassifondi dei sensi; è il godere immenso che si intensifica e diviene prodigio; è una gioia che riempie; è sogno, noia, freddo, tortura, estasi, volo, pianto, ricordo. E’ il cuore che non giudica, ma “guarda” e ode; è maldicenza; è riso sull’amante illuso che resta male e forse si vendicherà. Ed ancora, è il cuore assetato d’amore; il conflitto tra Es-Ego-Super Ego; è sfida, finzione; è mano spietata che “si posa/ lieve/ sul capo/ del bambino”; è grido d’aiuto; è amore che si perde e si ritrova; è mare che ruba la spiaggia e canta nenie; è vento, cielo sereno, profumi di ginestre, nidi, foglie, attimi di eternità dell’essere. Mentre la parola può essere tagliente, o sussurro d’amore, o sogno. Così, aggiunge l’Autrice, “mi vedrai/…mi senti-
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rai/…mi perderai/… Tornerò/…e/ tu/ mi vestirai/ di giovinezza./ Nella pace/ dei sensi/ mi amerai/ al di fuori/ del tempo/ e dello spazio./ Scoprirai/ la tenerezza/ annegherai/ nel mio candore.” E proprio all’ultimo, ella ci svela tutto il senso del titolo: “Nel taciuto/ la/ gioia/ dell’incontro.” E’ l’amore che vince sempre, al di sopra di tutto, di ogni parola. E la potenza di queste liriche risalta ancor più nel leggerle de visu. Maria Antonietta Mòsele
MARIA ELENA DI STEFANO REALTÀ E FANTASIA Edizioni Nuova Impronta, 2011 “Realtà e fantasia” Storie di animali e fiabe (Edizioni Nuova Impronta, 2011, pagg. 80, € 12,00) è quanto ci viene a proporre Maria Elena Di Stefano. Sono brevi racconti che riguardano il comportamento dell’uomo verso gli animali, specialmente quelli domestici. A volte, per provare pietà per certi animali e difenderli ( l’esempio qui è di un colombo), si crea invece, guerra fra persone: il che non è giusto. Per cui, se un’azione direttamente è buona, spesso si tramuta in una reazione cattiva. L’Autrice studia pure il diverso carattere degli animali stessi: c’è quel canarino che preferisce scegliere la libertà – anche se probabilmente piena di pericoli - fuggendo dalla gabbia, mentre invece la sua compagna preferisce la vita casalinga, pur rinchiusa in gabbia, da sola, però in compagnia della sua padrona. Come, del resto, quel cane randagio che rifiuta il cibo della gente di passaggio perché preferirebbe vivere con un padrone stabile. L’Autrice nota che molto spesso animali e uomini hanno intelligenza e sentimenti simili: come quegli animali che, addestrati nei circhi, si esibiscono in evoluzioni difficoltose; o come quel cavallino che soccorre il ragazzo aiutandolo a rialzarsi dalla caduta. In tutto ciò, ella dimostra grande sensibilità verso gli animali e il saperli comprendere. Nelle fiabe, la Scrittrice vuole dar prova di cosa significa aver fede in Dio (“Il pastorello e il ladro”), e quanto sono importanti l’amicizia e l’armonia fra le persone (bimbo) e la natura (albero), e pure fra persone di classi sociali differenti (artista e contadino). Inoltre, ci porta esempi di come può essere utile l’aiuto nelle diverse età (donna e bambino in “L’alluvione”). Qualche altro racconto è davvero fantasioso, ma il finale è sempre apportatore di accoglienza, amicizia, solidarietà, amore: i più nobili valori dell’ u-
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manità. Il linguaggio è molto chiaro, semplice, comprensibile Maria Antonietta Mòsele
SILVANO DEMARCHI COMMIATO Salerno, Edizioni “Cronache Italiane”, 2013 Commiato, il titolo della ventesima raccolta di versi di Silvano Demarchi, sembra voler accennare a un addio da parte dell’autore al mondo e all’arte del dire poetico. Un sentimento, in realtà, del quale si era già avvertita un’avvisaglia nei titoli di alcune sue precedenti sillogi, quali ad esempio Foglie d’ autunno (2003), Luci al crepuscolo (2006) e Occaso (2012). Pur tuttavia, malgrado tale persistente stato d’animo, la fertilità di Demarchi è rimasta invariata e la vitalità della sua vena capace di sempre rinnovarsi: fatto che ci fa ben sperare che alla presente possano far seguito ancora molte altre sillogi. Ciò che qui come altrove più colpisce è infatti la capacità di Demarchi di trovare sempre nuova linfa al suo estro, nell’ambito di alcune tematiche di fondo, che vanno dall’esaltazione della pacifica convivenza tra i popoli, emergente ad esempio dalla poesia dedicata a Gandhi (“Atleta della non violenza / dai sandali di legno, / dal bastone di bambù, / il più povero dei poveri…”, Gandhi) e da quella dedicata ai Kurdi (“Esuli / accomunati dal destino / d’una patria calpestata / da piede straniero”, Kurdi) alla riflessione di stampo filosofico (“Vi è un’unica Sostanza, / eterna e infinita / che si evolve in forme ricorrenti… / Il filo d’erba, la selce, / l’astro adamantino / nella trama ordinata degli esseri / palpitano d’ una stessa vita”, Vi è un’unica Sostanza); dallo sguardo di affettuosa simpatia rivolto ai propri simili, come avviene ne I giovani mulatti: “Dai bar della periferia / musica rock, / improvvisano danze sulla strada / i giovani mulatti di Tucunán…” al ricorrente vagheggiamento della natura: “Svettanti le cime degli abeti / e un occhieggiare di luci folte / tra i rami, / all’ostinato coro delle rane / rispondono / lo scompigliato grido della quaglia / e di lontano / il cuculo che chiama”, Scorcio. Tra le numerose poesie ispirate al nostro poeta dal fascino della natura (un tema che sempre in lui è stato fonte di profonde riflessioni) ricordiamo Autunno, dove “il fruscìo delle foglie cadute / che il vento solleva”, “l’afrore delle vigne” ormai spogliate dei loro turgidi grappoli, “i cachi rosseggianti” gli fanno percepire la suggestiva bellezza della stagione che muore (“anche il lento morire / ha il suo fascino”). Si vedano poi Il paese gelato, che recita:
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“Una lastra di ghiaccio il laghetto, / come fantasmi gli abeti / incappucciati di neve. / Muti gli uccelli che solevano / salutare l’avvento del giorno. / Non è questo un anticipo / del paese gelato dove tutto / nel placido sonno per noi / sarà spento?”. Sovente si nota infatti anche in queste più recenti liriche di Silvano Demarchi il soprassalto della mente che si sofferma a riflettere sul nostro essere al mondo: “Nello sterminato succedersi / di nascite e morti / dove vanno le anime erranti / e qual è il loro destino?” (Nello sterminato succedersi). Ma ecco ricomparire ancora in lui l’immagine della bellezza dei corpi nel pieno fiorire della gioventù, che da sempre lo ha affascinato: “Giorno declinante di settembre / dalle scialbe luci. / Lasciano la spiaggia i ragazzi / recando sul volto la gioia / di una giornata di giochi e di risa, / perché questo vuole la giovinezza / di nient’altro paga” (Settembre). Anche il tema del viaggio (uno dei più proficui della sua poesia), viene qui ripreso, seppure nella proiezione del ricordo, in poesie che, come osserva Antonio Crecchia nella sua diffusa prefazione, sono “legate alla memoria delle sue esperienze di turista”. Si vedano poesie quali Anatolia: “Fu a Kòrama in un monastero / dimenticato, davanti a un altare / sopra cui campeggiava sbiadita / la figura di San Basilio, / che mi trovai assieme ai confratelli / inginocchiato a pregare e cantare / le lodi del Signore…”; si vedano inoltre: Anche là e A Casablanca stamane. Molto ancora si potrebbe dire su questo compiuto libro di Silvano Demarchi, che indubbiamente rappresenta un’ulteriore testimonianza della finezza alessandrina della sua poesia, che assume sovente la dimensione dell’epigramma, del quale contiene il giro veloce e compiuto: “I cachi, le mele cotogne / e le castagne, ultimi doni / d’una stagione che muore, / riempi, amico il calice, / del nuovo mosto, / brindiamo!” (I cachi, le mele cotogne). Certo è comunque che Commiato è un libro nel quale Demarchi ci ripropone pensieri e visioni che sono suoi da sempre, ma con quella novità di accenti e con quella freschezza di voce che pure da sempre lo contraddistinguono, rinnovando ogni volta il miracolo antico e sempre nuovo che è proprio della poesia. E la sua è certamente una poesia autentica. Liliana Porro Andriuoli
ROSSANA GUARNIERI UN’AVVENTURA PER L’ESTATE Edizioni Capitol, 1968, 150 pagg. Figlia di un medico di città, trasferito in un pae-
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succio sulla marina per surrogare il predecessore, Ilaria, che compirà 13 anni nel corso di quell’estate, conosce Mariana e Luca, figli del brigadiere dei carabinieri di stanza al paese, ed i gemelli Poldo e Gino, 12 anni, figli del farmacista. Quattro ragazzi suoi coetanei, o quasi (Luca ha solo 5 anni), che non sanno come ammazzare il tempo, durante le vacanze estive. E’ dura, vivere in un paesino da nulla, sulla riva del mare, con la scuola media inferiore da dover raggiungere nel borgo più prossimo, e quassi tutti i ragazzi del paese, figli di pescatori, a passare i mesi caldi sulle barche di padri e zii, allo sgobbo da mane a sera!... Ma l’avventura, in qualche modo, viene incontro ad Ilaria ed ai suoi nuovi amici. Il paese sorge presso la Torre dei Saraceni, usata nel XVI secolo per avvisare la gente dell’arrivo dei pirati barbareschi che, ogni volta, tanto per cambiare, dopo aver usato violenza alle donne e fatti schiavi uomini e ragazzi, incendiavano il villaggio per festeggiare. Ma intanto… non è che avevano lasciato qualche tesoro, sepolto nei paraggi? Così, cercando il tesoro dei pirati (il XX secolo, fra i tanti difetti, non prevedeva più i Fratelli della Costa in perenne, feroce attività sui 7 mari!), i ragazzi scoprono che, tutto sommato, dei pirati ce ne sono ancora… ed anche un tesoro di grandissimo valore, lì nei paraggi! Solo che si tratta di pirati e di tesori molto particolari… Per saperne di più, leggetevi questo romanzo per ragazzi, scritto da Rossana Guarnieri e pubblicato per i tipi della Capitol edizioni (collana Betty), nel lontano 1968. Certo, è da cercare nelle librerie con testi usati a metà prezzo e, sotto molti riguardi, è un testo datato a tutti gli effetti… ma non è poi così disprezzabile quanto si possa immaginare! Lo stile è abbastanza scorrevole ed accattivante ed i personaggi più che verosimili, tenuto anche conto dell’epoca e dei gusti di allora. Del resto, la gentile Autrice aveva scritto anche altri testi per la Capitol (Tre ragazzi alGrand Hotel; Alice e Jill, piccole amazzoni; Il sole sorge a Coppetello, solo per citare tre titoli), dimostrando una versatilità ed una abilità non malvagie e pertanto solo gli spacca capelli professionisti potrebbero trovarci da ridire su tutta la linea. Da parte mia, ho notato che questa storia assomiglia un po’ troppo a Il gabbiano azzurro, come avventura marina per ragazzi, ed ha i toni anche troppo ammorbiditi ed assai poco avventurosi tipici delle storie al femminile. In tal senso, è stata un po’ deludente. Almeno per me. Ma è solo il mio modesto parere.
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Fatevi la vostra idea e buona lettura. Andrea Pugiotto
SEBASTIANO VASSALLI MARCO E MATTIO Einaudi editore,1999 - pagg. 314 Ecco un’altra storia strana quanto rimarchevole ad opera di Sebastiano Vassalli (classe 1941), già autore de La chimera (premio Strega 1990). Stavolta, l’azione si svolge nella seconda metà del XVIII, a Zoldo, che è sia il nome di una valle (Veneto) che del paese ove si svolgono le vicende. Zoldo è sottoposta all’autorità di Bulluno, che orbitava nell’ egemonia di Venezia, la Dominante per antonomasia. I protagonisti di questa strana storia, corredata di parecchie date ed intersecantesi con la grande Storia (la Campagna d’Italia di Napoleone, la fine della Serenissima e la consegna di questa, da parte del Bonaparte, a Giuseppe II, Imperatore d’Austria) sono Mattio (ovvero, Matteo), figlio primogenito del calzolaio Marco Lovat, e don Marco, prete tedesco di religione protestante. Ufficialmente, don Marco giunge a Zoldo nel 1775 (Mattio aveva quasi 14 anni) per ordine del suo medico curante. Solo i climi caldi del Sud Europa avrebbero potuto migliorare la sua salute cagionevole. Raccomandato dal Vescovo di Belluno in persona, che era stato a sua volta pressato da un altro, alto prelato, don Marco si alloga presso il reverendo Fulcis, ben più attento ai tesori terreni ed alle gioie della vita che a quelle del Paradiso, e fa parecchie escursioni in giro, studiando erbe e minerali ed esplorando, da speleologo, le caverne dei dintorni. Un uomo dal multiforme ingegno, che attira alcuni adolescenti di Zoldo, incuriositi da un prete sì fuori del comune, e che vogliono da lui apprendere quanto sa delle curiosità del mondo. Don Marco è visto male da don Fulcis e soprattutto da don Giuseppe, assassino legalizzato della comunità, che tanti sterminò a forza di clisteri e salassi, pretendendo di curarli dai loro malanni fisici e spirituali. Quando don Marco se ne va, don Fulcis è trovato morto e la sua nipote Rosa, bella e scema, che avrebbe dovuto maritarsi in primavera, viene trovata stuprata e sezionata. Il tesoro di don Fulcis, una cassetta colma d’oro e gioielli, celata dietro un quadro rappresentante la Madonna, è sparito. Solo testimone del furto è Mattio, che ha riconosciuto, o così crede, in uno dei tre assalitori notturni, nella notte del 31 dicembre 1775, don Marco in persona… che però rivedrà, con gran sorpresa, a Venezia, molti anni dopo, padrone di una casa ove,
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ufficialmente, si curano i “mal di capo ed altre malattie gravi” e dove invece… si fan giochi d’ azzardo! E ancora, altro tempo dopo, Mattio rivede don Marco in un celebre quanto ricco avvocato di Belluno, consultato dai montanari per risolvere, una volta per tutte, la questione sempre aperta di dazi pesantissimi imposti dai nobili a tutti i lavoratori del bellunese e valli limitrofe. Chi è davvero don Marco? Qual è il suo mestiere vero? Forse non lo sapremo mai. Ma tanto, neanche Mattio è una figura psicologicamente molto chiara. Figlio primogenito (classe 1761) del ciabattino Marco Lovat, conobbe le gioie dell’omosessualità in montagna, mercé l’amico Michele De Fani, figlio d’un fabbro e fabbricatore di carbone di legna, allorché l’accompagnò per imparare a fare il carbonaio ed arrotondare i magri guadagni di famiglia. Anni dopo, divenuto maestro di scuola domenicale dei bambini di Zoldo, ebbe deliziosi piaceri coi più grandi di loro, finché, altro tempo dopo, non decise di fuggire un giovane frate ortolano, residente nel convento veneziano ove s’era fatto frate Antonio, il figlio minore (il sesto!) dell’ottimo Marco Lovat, e che a tutto pensava fuorché alla pace dei sensi. Per queste sue inclinazioni naturali, egli si credé posseduto dal diavolo e decise di applicare alla lettera un passo del Vangelo di S. Matteo… tagliandosi pene e palle, con abile operazione chirurgica, per non dar più scandalo! E tutto questo, perché suo padre Marco era un gran donnaiolo e lui, Mattio, aveva avuto due delusioni d’amore: una certa Giovanna, donna del popolo, brutta e gigantessa, che gli aveva messo gli occhi addosso (ma lui non se la filava) e la bella Lucia, figlia di un riccone di Canal, che voleva la patente di nobiltà ed aveva sacrificato la figlia ad un giocatore d’azzardo… ma col blasone!... pur di non cedere all’amore puro di Mattio, onesto ma figlio di calzolaio! Legati direttamente o indirettamente a questi fatti, la grande Storia e le ambizioni personali di Napoleone ed i sogni e le delusioni personali di molti di questi personaggi (Michele De Fani trova una cassetta piena d’argento, retaggio d’un antico segreto, e, pur di diventare ricco, si mette a coniar monete false… finendo impiccato!) si intrecciano fra di loro in un affresco ordinato e ricco di dettagli, a volte meravigliosi e a volte orribili, espressi con stile accattivante e mano felice. Soprattutto, Vassalli è una persona spietatamente sincera e le osservazioni che fa circa la carità cristiana o il cordoglio ufficiale per questa o quella disgrazia, mostrano che conosce bene il mondo e sa come vanno davvero le cose, nella vita reale. Un
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disfattista, insomma, secondo il giudizio della maggioranza, mediocre e miope. Fatevi la vostra idea. Ne varrà la pena. Andrea Pugiotto
(a cura di) GIACOMO RIBAUDO GIOVANNI DINO NUOVI SALMI I Quaderni di CNTN 28, 2012 - Pagg. 374, s. i. p. Lo Spirito soffia dove vuole… - I Nuovi Salmi La letteratura che si occupa a vario titolo di spiritualità è sterminata e, come una volta ebbe a dirmi il Cardinale Anastasio Ballestrero, di qualità disomogenea. Si pensi a tutti i testi scritti sul Cantico dei Cantici, che hanno visto come autori da Origene a San Gregorio Magno fino a Guido Ceronetti, sulle creste dell’onda, per scadere in meri esercizi retorici e autocelebrativi che avevano come corpo solo l’oblìo, calma piatta. Così accostarsi ai Salmi è un compito che fa incespicare comunque, ma lascia qualcosa di veramente importante: la possibilità di riuscire a rialzarsi con poesia. Poi l’ intelligenza riscopre la sua dignità e intus-lege, e coglie dentro all’anima degli scritti quel succo che dà vera ebbrezza. E’ immediato il rimando ad una fondamentale mistica del XIIIXIV secolo, martirizzata sul rogo nel 1310, che insegnava: “Non importa all’ ubriaco di qualsiasi cosa gli accada, in qualsiasi forma la sua avvenuta avvenga, non più che se non gli avvenisse…Così, se quest’Anima ha qualcosa da volere, vuol dire che è mal radicata e che può ancora cadere, se è assalita da avversità o prosperità…tutti quelli che dal desiderio di interiorità sono invitati e chiamati alle opere di perfezione…se volessero quello che potrebbero essere…sarebbero signori di se stessi, del cielo e della terra” (Margherita Porete, Lo Specchio delle anime semplici, a c. di G.Fozzer, R. Guarnieri e M. Vannini, ed. San Paolo, 1994, pp.358-359). La poesia è proprio questo: l’ablatio alteritatis. Trovare quel vino, celebrato tanto dai maestri Sûfi quanto da alcuni mistici cristiani, è poesia. E’ stato il caso del recente testo che ha raccolto lo sforzo d’amore di alcuni poeti nel vero senso della parola. Il libro “Nuovi Salmi”, a cura di Giacomo Ribaldo e Giovanni Dino (I quaderni di CNTN, Palermo 2012), è appunto permeato di poesia come azione, di intuizione come preghiera, di ebbrezza come di necessità di perdersi per ritrovarsi, parafrasando Meister Eckhart. Leggendo questa pubblicazione con attenzione
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non sono pochi gli spunti di riflessione e di meditazione. E’ un testo bello e utile, radicalmente utile per chi non voglia baloccarsi con sentimentalismi assortiti ma veda come stella polare quanto Angelo Silesio augurava: amare senza sensazione e sapere senza conoscenza (Il pellegrino cherubico, a c. di G. Fozzer e M. Vannini, ed. Paoline 1989, pag. 171). Ancora una volta si mette a nudo il vero animo della poesia: come quando nasce un bambino le poesie vanno portate al sole, alla luna, posate sulla terra sub specie interioritatis. Molti autori dei testi di quest’opera ci hanno messo vita, un figlio che deve essere benedetto. Un figlio che regala l’attimo che si cela nel tempo, l’ eterno presente. “Nuovi Salmi” è un libro di studio, studiamolo! Pietro Sebastico *** " È la prima volta che poeti e artisti si accostano ai Salmi non solo per leggerli meditarli ma per abitarli e viverli secondo il proprio sentimento la propria dimensione umana poetica e spirituale sfidando il Salmo assegnato e la storia dei Salmi. “Chi canta prega due volte” diceva Sant’ Agostino, riferendosi ai Canti del Salterio. E chi compone oggi canti, canzone, poesie da mettere in bocca all’umanità che vuole accogliere e meditare Dio nel proprio cuore, quante volte prega? Il poeta oggi più che mai è uomo libero e libertario che viaggia nell’anima attraverso le ali della poesia e con essa interroga l’uomo i suoi sentimenti interroga la vita i suoi misteri. È l’esploratore per antonomasia sui tanti perché che tormentano l’ uomo. Oggi più che mai è il poeta che tocca con la parola i meandri più nascosti e misteriosi dell’ anima riuscendo qualche volta a tradurre in una ragionevole inquietudine i grandi temi che tra la ragione e fede, tra certezze e zavorre logiche agitano il nostro pensare. Il poeta va controcorrente egli esce dagli schemi egli trascende l’ anima e ogni dubbio e le sue percezioni vengono dal dolore dal grido dalla sofferenza , il suo canto spesso si avvia alla denuncia alla protesta all’ introspezione ai bollori della passione ma anche all’ incanto dell’innocenza e alle meraviglie che iniziano all’alba e che percorrono le luci del giorno fino al tramonto, la sua parola ha la sostanza dell’ intuito il sudore della ricerca, il cuore che contiene la lacrima e ogni viaggio fino alla ruga alla solitudine e al silenzio. Nei suoi versi alloggia la vera voce dell’ umanità, l’intima verginità dell’io più nascosto. La crudele essenza, nella sua spudorata innocenza". Giovanni Dino
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LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina a Domenico Defelice) Carissimo, questa tua creatura, Pomezia Notizie, ha già quarant'anni sulle spalle e tanti sono stati gli elogi, i complimenti, i segnali sinceri di un ben giusto e meritato apprezzamento che hai ricevuto, nel numero di Luglio. Si, perché si mirano ed ammirano soprattutto le cose d'arte: i contenuti di bellezza e di poesia, in essa, sono fondamentali e fanno crescere poi, su questo terreno, i più consistenti approcci storici, di etica politica, di riflessione sull'esistenza e sulla critica letteraria. Da quando collaboro con te, sotto la tua guida, ho viaggiato in lungo ed in largo, in Italia ed in Europa, come ben sai, in ricerca e con risultati incredibili perché ho raggiunto obiettivi che aprono il dialogo serrato su temi forti della nostra contemporaneità. Ho passato in rassegna con gioia tutti i numeri di Pomezia Notizie, sciorinati sul letto ad una piazza e mezza, mentre la gattina Dalia saltellava di qua e di là, perché giorni fa ho dovuto mandare l'elenco delle pubblicazioni alla Commissione Cultura del Comune di Verona, per via proprio di Lionello Fiumi, grande firma di Realismo Lirico, perché a Verona è stato fondato da anni il Centro Internazionale 'Lionello Fiumi', a guida del dott. Agostino Contò, che tante volte ho citato nei lavori che tu mi hai pubblicato. Ma adesso c'è anche il Sindaco Flavio Tosi che deve valutare il tutto e dare il consenso per il Patrocinio del mio lavoro sull'amicizia documentata tra Lionello Fiumi e Maurice Carême. Così anche le 'Lettere in Direzione', a te personalmente, oltre agli articoli specifici, prendono un peso importante e sono testimonianza di una cura per le relazioni originali e le fonti che segnala prima di tutto passione: tu per primo, dopo il mio Papà, mi hai dato testimonianza, con 'Pomezia Notizie', di costanza ed appassionata dedizione al tuo lavoro, agli inizi come Docente poi come Preside e
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poi sempre e sempre come poeta e come scrittore dalla penna affilatissima ed instancabile. Ed ora che ho scelto il compito di tracciare scrupolosamente le radici ed il profilo complessivo di Realismo Lirico, mi sarai custode ed angelo benefico, testimone concreto d'una eredità che dovrà arricchirsi via via di sempre più intensi contributi. Proprio oggi, 12 settembre 2013 ricorre il 94esimo anniversario dell'impresa di Fiume e da oltre Adriatico l'Italianità era sentita come un privilegio! Non così all'estero, non così per l'allora presidente americano Woodrow Wilson.... Allora mi sono passati in rassegna i numeri delle diverse annate, quelle almeno tra le cose raggiungibili nella confusione generale delle mie stanze, dal 2008 in poi, con immagini che rimangono indelebili dietro il fondo della retina: il Mazzini in azzurro, per l'articolo sul Fiumara; la bella foto di noi tre, tu ed io al centro ed il Papà alla mia sinistra, al Colosseo, lì a Roma, per l'ottimo lavoro di Rossano Onano 'Domenico Defelice: l'autorità magistrale di Francesco Pedrina'; poi tu con il tuo caro Amico Paul Courget; e poi ancora la foto scattata da Giulio Petrocco a L'Aquila, nel momento del terremoto, e poi Pasolini e Ruffilli e Spagnolo e Rescigno e la Bono; e il numero di Agosto 2012 con la foto di Shlomo Sand che ho scattato ad Edimburgo e che mi è costata una cifra! Adesso che ho in mano il numero di Settembre 2013, con la bella immagine di Tito Schipa e con all'interno anche la lettera a te del giovane Leo Bordin, con le immagini del popolo Himba che tu hai scelto e con la tua risposta a lui, lucida, senza incertezze e senza veli, chiara ed orientante comportamenti lontani da ogni ipocrisia e malvagità, perché negli occhi e nel cuore hai anche il presente ed il futuro del tuo piccolo nipotino Riccardo; adesso che ho in mano questo numero di Settembre che alla fine porta la foto del tuo Stefano con la sua giovane sposa Emanuela, due giovani baciati da grazia e bellezza; adesso dico, sento questa tua creatura neces-
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saria come l'antica Anànke, ben diversa però nella sostanza, perché questa Nuova Anànke ha radici nella volontà e nella libera scelta, senza più dipendere da profili di fatalità destinale, che tanto hanno tolto al retto procedere del nostro senso di responsabilità, individuale e collettiva. Ti abbraccio, in gioia compiaciuta e riconoscente. Ilia Carissima Ilia, ricevere da te, come da altri amici e collaboratori, gli elogi per la mia quarantenne creatura di carta, è un “Marsala” che stimola e accresce le mie forze e mi fa scordare le tante amarezze, che non mancano, giacché anche la boria è tanta nella nostra - per certi aspetti - pazzoide Repubblica delle Lettere. Ma, se mi sono miele la stima e l’ incoraggiamento dei “vecchi” collaboratori, ancor di più apprezzo quelli dei giovani e dei giovanissimi, il nostro futuro. Il tuo Papà mi è stato maestro anche in questo: nell’ apprezzare i giovani, cioè, nell’accordare loro la fiducia. L’ultima parte della sua indimenticabile Storia della Letteratura Italiana (Trevisini, 1964) è testimonianza ed esempio di come Lui fosse aperto ai giovani, ricca com’è di autori che, in quegli anni, erano ancora - come suol dirsi alle prime armi, o poco o per nulla conosciuti. E mi riferisco, in particolare, al capitolo LXIX: “I “Poeti nuovi” e i “Realisti lirici”, con nomi quali Lionello Fiumi, Elpidio Jenco, Aldo Capasso, Giuseppe Gerini, Elena Bono. Ma tantissimi altri (tra i quali anche il sottoscritto, forse indegnamente) Egli aveva in mente di inserire in una successiva ristampa, non realizzata, poi, a causa della sua morte. [Ora spetta a te, sua figlia, aggiornare quest’opera e rimetterla in circolazione!] Se do spazio, dunque, a Bordin, ad Aurora De Luca, a Laura Catini, a Marco Carnà - da questo numero - e a tanti altri, è perché, come già in passato il tuo Papà, anch’io penso che siano loro l’aria fresca di cui ha bisogno il nostro mondo e non solo quello culturale. Può darsi che molte delle nostre speranze
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andranno deluse, ma rimarrà sempre un bene l’aver provato a stimolarli, a incoraggiarli. Se Pomezia-Notizie viene apprezzata dai giovani, è segno che non la trovano troppo lontana dal loro modello di vita, dalle loro aspettative. Perciò, questo 2013 è per me, oltre che per la mia testata - come afferma Giuseppe Leone - “un anno così importante, quando la rivista compie quarant’anni. “Portati bene”, scrive Aurora De Luca; e c’è da crederle, se una poetessa, che di anni ne conta solo poco più della metà, giudica una quarantenne ancora fresca e giovanile”. Ti sono grato di tutto cuore, carissima Ilia: la tua collaborazione è preziosa anche per i tanti validi autori che hai lumeggiato o intendi lumeggiare sulle nostre pagine. Tra questi non potevano mancare Fiumi e Capasso e il “Realismo Lirico”, quest’ultimo anche Testata di una rivista famosa - sulla quale è apparsa, non ricordo se una o due volte, anche la mia firma - e che la brava Gemma Licini, dopo la morte del Capasso, aveva tentato di farla sopravvivere. Ecco, la Licini: un’altra poetessa, cara Ilia, un altro autore che meriterebbe di essere tolto dall’oblio. Domenico
Domenico Defelice - Scaffale (1964)
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LIBRI RICEVUTI Suor MARIUCCIA ACUTO - Ti sento, Signore Poesie a cura di Nina Valenti Lo Iacono - Testimonianze e interventi di Sebastiano Lo Iacono, Suor Maria Inzinna, Mons. Michele Giordano - In copertina, a colori, “Piantine”, quadro di Silvia Acuto; all’interno, sempre a colori, foto di Padre Nunzio, Papa Francesco, Alessia (la nipotina), Suor Maria Acuto, Silvia Acuto e 9 opere di Giovanni Acuto, nipote di suor Mariuccia - Stampa “Giotto - Arte della stampa”, 2013 - Pagg. 120, s. i. p.. Suor Maria ACUTO è nata il 9 gennaio 1942 a Bolognetta, in provincia di Palermo, da Giovanni e Santa Rinaldi. Unica femmina di 5 figli. Compiuti i 20 anni, nel giorno della Candelora, lascia la famiglia per rispondere alla chiamata del Signore e diventa religiosa presso l’Istituto Figlie della Croce di Palermo. Il 6 ottobre 1963 presso la casa madre “Istituto San Giuseppe” di Corso Tukory fa la sua professione religiosa e tre anni dopo pronuncia i voti solenni di povertà, ubbidienza e castità. Frequenta la Scuola Magistrale di Cefalù, dove nel 1971 consegue il Diploma di Maestra Elementare. Desiderosa di approfondire la cultura religiosa, si iscrive alla Facoltà di Teologia “San Giovanni Evangelista” di Palermo e nel 1985 ottiene il Diploma di Scienze religiose. Durante i 50 anni trascorsi nell’esercizio del suo apostolato nella scuola e nelle parrocchie ha svolto diverse mansioni, tra cui quella di educatrice assistente per le universitarie del convitto dello stesso Istituto. Si è sempre adattata a qualsiasi attività al servizio di chi avesse la necessità di assistenza, senza disdegnare anche i più umili lavori, come quello di cuciniera e di lavandaia. Ha alternato la passione per lo studio con quello per la pittura e la scultura, come mezzo per esprimere una potenza interiore di spiritualità da mettere al servizio di Cristo nella Chiesa per l’umanità, attività che svolge con amore e dedizione dal 2001 a Mistretta. Il Dott. Nino Testagrossa, Presidente del’ Associazione “Progetto Mistretta” e de “Il Centro Storico”, organo della stessa Associazione, afferma che il libro “è scritto con il cuore da una anima semplice e vocata al bene”. ** GIANNI RESCIGNO - Storia di Nanni - Romanzo, con una breve presentazione di Giorgio Bárberi Squarotti - I tascabili/R Galzerano Editore, 1981 Pagg. 70, L. 2000. Gianni RESCIGNO è nato nel 1937 a Roccapiemonte (SA) e risiede a Santa Maria di Castellabate. Ha pubblicato: “Credere” (1969), “Questa elemosina” (1972), “Torri di silenzio”
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(1976), “I salici - I vitigni” (1983), “Le ore dell’ uomo” (1985), “Tutto e niente” (1987), “Un passo lontano” (1988), “Il segno dell’uomo” (1991), “Angeli di luna” (1994), “Un altro viaggio” (1995), “Le strade di settembre” (1997), “Farfalla” (2000), “Dove il sole brucia le vigne” (2003), “Lezioni d’ amore” (2003), “Le foglie saranno parole” (2003), “Io e la Signora del Tempo” (2004), “Come la terra il mare” (2005), “Dalle sorgenti della sera” (2008), “Gli occhi sul tempo” (2009), “Anime fuggenti” (2010), “Cielo alla finestra” (2011), “Nessuno può restare” (2013), “Il soldato Giovanni (romanzo, 2011). Nel 2001 è uscito a Torino il saggio critico sulla sua trentennale attività poetica “Gianni Rescigno: dall’essere all’infinito”, di Marina Caracciolo. Un altro saggio è stato scritto da Luigi Pumpo: “Gianni Rescigno: il tempo e la poesia”. Pure Franca Alaimo gli ha dedicato uno studio intitolato “La polpa amorosa della poesia”, come anche Menotti Lerro: “La tela del poeta (amicizie epistolari di G. Rescigno)”, 2010 e Antonio Vitolo: “Il respiro dell’addio (la poesia dell’attesa e il rapporto madrefiglio in G. Rescigno), 2012. ** ALDO GUERRIERI - Il Poeta Guerriero - Presentazione di Beatrice Gori - All’interno, numerose foto in bianco e nero - Stampa Moderna, La Spezia, 2013 - Pagg. 128, s. i. p.. Aldo GUERRIERI nasce a La Spezia il 25 aprile 1959, ha conseguito il Diploma di Maturità presso l’Istituto “Malaspina” di Pontremoli nel 1978. Nel 1984 il Diploma di Laurea in Pedagogia presso il Magistero di Genova, con la tesi “Il Mimo come strumento didattico”. Nel 1982 frequenta a Parigi l’Ecole du Mime St. Leonard, fondata da allievi di Etienne Decroux, e segue seminari di bioenergetica, training autogeno e massaggi. Nello stesso anno diviene presidente dell’Associazione A.S.P.E.I. (Associazione Pedagogica Italiana) per la provincia della Spezia ed è sostenitore dell’A.I.C.E. Associazione Italiana contro l’Epilessia. Nel 1987, grazie ad una Borsa di Studio, partecipa ad un seminario organizzato dall’ “Art Council Interculture Dublin”, sul teatro a Dublino. Nel 1988 organizza incontri di spettacoli, Mimo, teatro, disegno ed altre attività manuali presso la Casa di Riposo “U. Mazzini” di La Spezia, in cui alla fine dei laboratori gli anziani ospiti della casa elaborano uno spettacolo teatrale. Nel 1988, con la convenzione del carcere minorile di Alessandria, lavora con i ragazzi dell’istituto. Partecipa anche al Meeting Internazionale di Teatro di Strada e Mimo a Viterbo. Svolge, al Piccolo teatro di Siena, un seminario finalizzato al lavoro con i detenuti del carcere giudiziario di Massa Carrara al quale hanno partecipato anche le allieve del Teatro Picco-
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lo di Siena. Questo spettacolo porta il nome di “Spostamenti di Memoria”. I testi e le coreografie sono stati scritti dagli stessi detenuti; tale lavoro è stato finanziato dalla provincia di Massa Carrara e dalla Comunità Montana della Lunigiana. Nel 1991 viene invitato dal Sindacato UIL a presentare la SIC (Spettacolo, Informazione, Cultura) provinciale di La Spezia. Il 1° maggio dello stesso anno partecipa a Montecatini ad una manifestazione organizzata dalla CGIL/CISL/UIL, per la categoria Teatro Mimo, dove ottiene il primo premio. Il 29 settembre dello stesso anno al Festival della “Fonte D’Ora Artisti” per la categoria del mimo riceve il primo premio. Nel 1993 partecipa al “Maurizio Costanzo Show”. Nel 2001 tiene un Laboratorio al Carcere Giudiziario di Pontremoli (MS). Nel 2004 presso il carcere giudiziario di Bolzano organizza con il Comune e con la Direzione dello stesso carcere, un incontro con i detenuti. Nel 2012 organizza spettacoli per le Scuole Elementari di Timişoara (Romania). ** SILVANO DEMARCHI - Commiato - Poesie, Prefazione di Antonio Crecchia - In prima di copertina, a colori, “Terrazza del caffè la sera”, di Vincent van Gogh (1888); in quarta, foto dell’autore Ediemme - Cronache Italiane Salerno, 2013 - Pagg. 64, s. i. p.. Silvano DEMARCHI è nato a Bolzano, dove risiede, il 15 febbraio 1931. Poeta, scrittore, saggista, giornalista e pubblicista, ha compiuto gli studi liceali a Rovereto e quelli universitari alla Università degli Studi di Milano, dove nel 1956 ha conseguito la laurea in filosofia. Già professore di filosofia e materie letterarie negli istituti superiori, è stato Preside e Presidente della “Dante Alighieri” di Bolzano. In attivo sul piano culturale, è conosciuto non solo in Italia, ma anche all’estero. Membro delle Accademie: “Buon Consiglio” di Trento, “Tommaso Campanella” di Roma, “Agiati” di Rovereto, “Bronzi” di Catanzaro, “Burckard S. Gallo”, “Ligure apuana” di La Spezia, ha conseguito nel 1981 il Premio Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La sua attività si svolge nel campo della saggistica letteraria e filosofica e traduzioni dal tedesco, della poesia e della narrativa. Centinaia i volumi pubblicati. Saggistica: Il pensiero estetico di Platone (1960), Vita e poesia di Vincenzo M. Rippo (1975), Guida allo studio di Ungaretti (1976), L’orizzonte platonico dell’ estetica (1980), Valori ritmici e tonali nella poesia di C. Pavese (1979), L’ esperienza estetica (1983), La parola pura - Studi sulla poesia del ‘900 (1983), La poesia di Rosa Cimino Lomus (1987), Aspetti e poeti del Romanticismo tedesco (1988), Il pensiero teosofico nella filosofia antica (1989), Il sé superiore (2009), Poesia e
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iniziazione da S. Francesco a Dante (1989), Di religione e di etica (2002), Oltre la soglia (2002), Luce d’Oriente (2003), Cristianesimo e Islamismo (2004), Poeti del Novecento (2005), Duecento letterario (2005), Pensiero Positivo (2005), Prospettive etico-religiose - Zoroastrismo religione dimenticata (2006), eccetera. Poesia: Una stagione (1968), Gli anemoni (1970), Il paese dell’anima (1976), La luce oltre il sentiero (1981), Il senso perduto delle cose (1985), Il mito e i giorni (1989), Poesie scelte (1990), Radici lontane (1993), Echi profondi (1995), Il battello d’argento (1996), Tra il serio e il faceto (1996), Le strade alte del cuore (1995), Stupore (2000), Foglie d’autunno (2003), Luci al crepuscolo (2006), Momenti (2007), Poesie scelte 1990-2006 (2008), Sogno e realtà (2009), Miraggi (2011), E poi la notte (2011), Occaso (2012). Narrativa: Quasi una fiaba e altri racconti (1978), Gli anni di Lucio (1981), L’incanto del bosco (1982), I frutti dell’Eden (1989), Il richiamo della montagna (1983), Incomunicabilità (1989), Incontri (1994), Vocazioni - racconti (1999), Racconti e aneddoti burleschi (2009), L’arco e le frecce (2009), Il lato buffo delle situazioni (2011). E poi antologie, traduzioni. Ha vinto premi importanti. ** FILOMENA IOVINELLA - Traccia di vita. Via maestra nel risveglio di un’anima persa - Racconto - L’Autore Libri Firenze,2012 - Pagg. 88, € 7,60. Filomena IOVINELLA è nata a Frattaminore, in provincia di Napoli, e vive a Torino. ** FRANCESCO DE SANTIS - Verso l’arcobaleno - Vistosistampi, Campobasso, 2012 - Pagg. 182, s. i. p.. Una vicenda dolorosa - fortunatamente a lieto fine -, che ha sconvolto una intera comunità: una nonna che si ammala di cancro e quindi la trepidazione, il dramma del marito, dei figli e delle rispettive famiglie, il dolore dei nipoti nei giorni in cui la nonna giaceva nel letto d’ospedale e, finalmente, poi, il rivederla per casa, intenta alle sue usuali faccende, a preparare il pranzo, a dispensare il suo affetto. Il genero Francesco ha voluto raccontare tutto ciò, in un libro che commuove dalla prima pagina all’ultima, esempio di famiglia unita nell’amore e nel reciproco aiuto, come ogni giorno è sempre più difficile trovare; un viaggio nel dramma più cupo, un’andata e - per fortuna - anche un ritorno dall’ inferno, sicché, giustamente, Francesco De Santis cessa la sua narrazione con il famoso verso di Dante: “...e quindi uscimmo a riveder le stelle”. A colori, in prima di copertina e nelle due bandelle, disegni dei nipoti Simone, Davide, Camilla, Giuseppe, Antonio; all’interno ancora qualche disegno, qual-
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che letterina e numerosi documenti. Un bel libro testimonianza, un bel dono d’amore. (D. Defelice)
TRA LE RIVISTE VOICE OF KOLKATA - Dir. Biplab Majumdar 3/34, Surya Nagar, Kolkata - 40, INDIA - E-mial: biplab66@gmail.com Riceviamo il Vol. 14, issue 01 (Jan - Jun 2013). Tra le tante *firme, rileviamo quella del nostro direttore Domenico Defelice (con la poesia “My hometown” nella traduzione in inglese di Simona Rughini), di Teresinka Pereira e di Mariano Coreno. Ecco, del Direttore della rivista: DEATH “Tearing the womb of darkness An innocent little deer Jumps out on the vast Lea of lonesong Under shower of sunshine Magnanimity of magic moonlight Her every move Is followed stealthily by A shadow of wolf One day she becomes adult Time comes when She gets aware of the wolf And she starts to run With break-neck speed To leave him behind But alas! the deer Cannot shake off the chase, Gets dead-tired someday, She gasps for air... And the inevitable wolf Pounces upon her, Satiates his tongue, Then goes away For another hunt On grassy verdance of time Bloody torn-head of The deer of life Is left abjectly One of her dumb lifeless eyes Stares at the azure sky With an endless thirst... Biplab Majumdar
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Kolkata, India Se qualche lettore la traduce, pubblicheremo la versione italiana. * IL PONTE ITALO-AMERICANO - Rivista internazionale di cultura, arte e poesia diretta da Orazio Tenelli - 32 Mt. Prospect Avenue, Verona, New Jersey 07044, 973-857 - 1091, USA - Riceviamo il n. 3 (luglio 2013). Tra le firme (per lo più sono pezzi del direttore), rileviamo quella di Gabriella Frenna. * BRONTOLO - Mensile satirico umoristico culturale fondato e diretto da Nello e Donatella Tortora - via Margotta 18 - 84127 Salerno. Riceviamo il n. 213-214 (luglio-ottobre 2013). Tra le firme, quella di Luigi Anziano per Elena Mancusi Anziano che presenta il suo volume “dal cuore”, Maria Coreno, Andrea Pugiotto. * LATMAG - Rivista Culturale diretta da Franco Latino, responsabile Eugen Galasso - via Torino 84 - 39100 Bolzano. Riceviamo il n. 70 (marzo 2013). Tra le firme, quella di Silvano Demarchi, Eugen Galasso (per le “Poetesse liguri” di Piera Bruno e di “L’anima e il lago”, di Giorgina Busca Gernetti), Luigi De Rosa, Edio Felice Schiavone. * SENTIERI MOLISANI - Dr. Antonio Angelone via Caravaggio 2 - 86170 Isernia. n. 2 (38), maggio-agosto 2013, sul quale, tra le tante firme, troviamo quelle di Tito Cauchi, Ciro Rossi, Leonardo Selvaggi, Aldo Cervo, Luigi De Rosa, Nazario Pardini, Giorgina Busca Gernetti, Loretta Bonucci, Antonia Izzi Rufo, Silvana De Luca.
NAZARIO PARDINI
I SIMBOLI DEL MITO (1990 - 1994) (1° Premio Città di Pomezia 2013) Presentazione di Ninnj Di Stefano Busà Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie Pardini non rispolvera figure mitologiche solo per il gusto della classicità, o per amore tout court verso il passato; egli le innesta al nostro tempo ed è nel sorpassare “La Storia” che consiste la sua vera novità. (D. Defelice)
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D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE - 14 settembre 1986 – 14 settembre 2013 - Festa per la fondazione de L’ERACLIANO - Il nostro Preside Marcello Falletti di Villafalletto nel 1986 ebbe la geniale idea di fondare il giornale L’ERACLIANO; doveva riportare tutte le attività della nostra antica Istituzione, poi dal secondo numero divenne non solo un informatore, ma un giornale culturale: storia, fede, letteratura, poesia, arte e pittura, teatro, vite di santi, presentazioni di libri, cultura varia, interviste ecc. Se si pensa che in principio uscivano 3 pagine ciclostilate, poi aumentate a 6 e 12, sempre ciclostilate, fino ad arrivare alla stampa tipografica in bianco e nero; ne abbiamo fatta di strada! Le pagine sono poi aumentate, ma il formato era troppo grande e scomodo sia per spedire che per rilegare. Siamo arrivati al 1997: L’Eracliano è stato registrato al Tribunale di Firenze al n. 4698 in data 23.05.1997 ed il Preside, diventato ufficialmente il Direttore Responsabile, si è dovuto iscrivere all’Ordine dei Giornalisti per poter continuare il suo operato. La rivista ha preso, pochi anni dopo il 1997, la forma attuale ed oltre ad immagini e foto in bianco e nero, abbiamo inserito in qualche pagina anche foto a colori. In seguito si è provata a farla stampare tutta a colori e così è andata avanti fino ad oggi. Negli anni passati riuscivamo ad avere più abbonamenti e contributi anche dagli Accademici,
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oltre che dagli amici de L’Eracliano e dell’ Accademia, ma adesso è molto difficile sopravvivere perché le spese di spedizione sono più che triplicate alcuni anni fa e la stampa a colori è veramente costosa. Auspichiamo che questo anniversario porti più attaccamento e dedizione all’Accademia e a L’ Eracliano e qualche mano generosa in più. Il nostro santo patrono Giovanni Gualberto, i nostri coprotettori San Michele Arcangelo, San Giorgio M. e la Beata Maria Domenica Brun Barbantini e la Vergine Maria “Mater Boni Consilii” certamente ci aiuteranno, col loro aiuto divino, ad andare avanti. Confidiamo, comunque, nel vostro aiuto e nelle vostre offerte: Ccp N. 31214505. Adesso, la spiegazione del nome L’Eracliano. Molti Accademici e Lettori, in questi anni, ci hanno chiesto il significato di questo nome ed il Preside ripetutamente ha scritto un articolo per spiegarlo. Poiché spesso ci viene richiesto e non possiamo ripubblicarlo, vi educo sull’ argomento: “Secondo la tradizione, Elena, madre dell’ imperatore Costantino, durante un pellegrinaggio ai luoghi santi nel 326 rinvenne la vera croce di Cristo; ne avrebbe portata una parte a Roma e collocata nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme da lei fondata. La parte rimasta a Gerusalemme fu compresa nel bottino di guerra che Cosroe II di Persia pretese dopo l’ occupazione della Città santa nel 614, ma fu recuperata dall’imperatore Eraclio I, nella crociata intrapresa contro i persiani e riportata trionfalmente a Gerusalemme nel 628. La festa odierna fu istituita a memoria di quella vittoria. La croce è simbolo del trionfo d’amore.” Quindi da Eraclio I: L’Eracliano. Fraternamente con sentiti auguri e che la Croce di Cristo ci salvi! Claudio Falletti di Villafalletto Gran Cancelliere Accademia Collegio de’ Nobili *** PREMIO BRONTOLO - XVIII Concorso Nazionale “Brontolo” di Satira, Umorismo, Poesie, Pittura, Scultura, Foto, (nell’occasione del Ventesimo Anniversario della Rivista) che dà diritto all’ Inserimento nella Speciale Antologia Annuale. Sez.A) Disegni umoristici, Caricature, Foto artistiche. Sez.B) Racconti satirici o umoristici o Sillogi di Barzellette o Romanzi umoristici. Sez.C) Poesia satirica o umoristica in lingua. Sez.D) Poesia satir. o umor. vernacola (con traduz. se non napoletana). Sez.E) Teatro umoristico Sez.F) Liriche in lingua (edite o inedite). Sez.G) Liriche vernacole (edite o inedite, con traduz. se non napoletane). - Inviare,
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meglio se per Computer o con CD, disegni, foto e testi inediti o pubblicati, in unica copia firmata, con breve curricolo, recensioni e foto personale, entro il 30/Giugno/2014, alla Redazione: Via Margotta, 18 - 84127 Salerno. Tel.089/797917 - E-mail: brontolo8@libero.it - L’abbonamento alla Rivista (Ordinari 20 euro; Sostenitori 30; Benemeriti 50) dà diritto alla partecipazione gratuita al Concorso. - Il versamento può essere fatto a mano, con lettera, con vaglia o sul ccp N. 20456844, al Mensile “Brontolo”- Satirico Umoristico.Culturale - 84100 SA. - Premi: Inserimento nell’Antologia (che verrà spedita gratis) -Pubblicazioni sulla Rivista - Libri umoristici di Nello Tortora. *** PRESENTAZIONE LIBRO - Il volume del Preside Prof. Marcello Falletti di Villafalletto, dal titolo "CANTON GLARUS, Cento anni della Missione Cattolica Italiana (1912-2012)" pp. 152 corredate di foto a colori e in bianco e nero, Edizioni Anscarichae Domus, Accademia Collegio de' Nobili, è stato presentato ufficialmente a Glarus, Svizzera domenica 29 settembre 2013 dallo stesso Autore. Presentazioni di S. Ecc.za Rev.ma Mons. Vitus Huonder, Vescovo di Coira; Hans Mathis, Decano; Don Carlo de Stasio, Coordinatore nazionale MCLI in Svizzera e Prefazione di Padre Pierpaolo Lamera, Missionario. Erano presenti autorità religiose, civili e militari, fra cui il Console generale Dott. Mario Fridegotto. Claudio Falletti di Villafalletto Gran Cancelliere Accademia Collegio de' Nobili *** ANCORA SUI 40 ANNI DI P.N. - E-mail del 18 settembre 2013 di Giuseppe Leone, da Pescate (Lecco): Grazie, caro Domenico, per la pubblicazione della recensione sul convegno-concerto di Gallipoli messa in così bella posta sulla prima di copertina. E non solo, permettimi anche di ringraziarti per l’ulteriore arricchimento che hai dato a questa serata di Gallipoli, rendendo nota la copertina dello spartito di due canzoni musicate da Tito Schipa ( di cui una con il tuo testo). Saranno contenti gli amici e i convegnisti di Lecce per la visibilità data all’evento di quest’estate. E sono contento anch’io, per la mia firma, che compare in prima pagina su questo numero di un anno così importante, quando la rivista compie quarant’anni. “Portati bene”, scrive Aurora De Luca; e c’è da crederle, se una poetessa, che di anni ne conta solo poco più della metà, giudica una quarantenne ancora fresca e giovanile. Auguri a Stefano ed Emanuela, e a te, per quanto hai dato, dai e potrai continuare ancora a dare a questo cenacolo culturale che è la nostra Pomezia-Notizie. Un affettuoso saluto a te e Clelia,
POMEZIA-NOTIZIE da parte mia ed Emanuela, Giuseppe.
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IMMAGINI DA UN MATRIMONIO: EMANUELA VIGNAROLI e STEFANO DEFELICE (14 settembre 2013)
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*** SOTTO OGNI CIELO, di Aurora De Luca (Genesi Editrice), ha ricevuto i complimenti di Giorgio Bárberi Squarotti: Torino, 16 settembre 2013 Cara e gentile De Luca, sono rientrato ieri dopo l’estate (una parola che non sono riuscita a tradurre), e trovo piacevolmente la sua lettera tanto cordiale e fervida e la sua raccolta di rime. Grazie, di cuore. Mi congratulo con lei per la molta e fruttuosa attività letteraria. La sua poesia è fondamentalmente lirica, sempre elegante e appassionata. Originali e valorosi sono i componimenti festosamente amorosi, sostenuti da ritmi veloci e sapienti. Eviti sempre il patetico. Spero in qualche occasione d’incontro. A Rocca di Papa fui un anno fa, in compagnia di un amico di Albano, che è un eccellente narratore. Con i più affettuosi saluti e auguri, Giorgio Bárberi Squarotti
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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) composti con sistemi DOS o Windows su CD, indicando il sistema, il programma ed il nome del file. E’ necessaria anche una copia cartacea del testo. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute. Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario). Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I testi inviati come sopra AVRANNO LA PRECEDENZA. I libri, possibilmente, vanno inviati in duplice copia. Per chi usa E-Mail: defelice.d@tiscali.it Il mensile è disponibile anche sul sito www.issuu.com al link http://issuu.com/ domenicoww/docs/p._n._2013_n._10
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MATRIMONIO di Alessio CERIONI e Laura SORDINI, il 6 Ottobre 2013, alle ore 12,15 nella Chiesa Parrocchiale di San Benedetto Abate di Pomezia (RM). Per festeggiare l’evento, Alessio e Laura hanno riunito gli amici il 28 settembre scorso, alle ore 20,30, presso il ristorante Saint Tropez di via Ardeatina 103 Anzio (Roma). Agli Sposi e ai Parenti, gli Auguri più affettuosi e sinceri della Direzione, della Redazione e di tutta la grande Famiglia di Pomezia-Notizie.
ABBONAMENTI Per il solo ricevimento della Rivista: Annuo... € 40.00 Sostenitore....€ 60.00 Benemerito....€ 100.00 ESTERO...€ 100,00 1 Copia....€ 5,00 e contributi volontari (per avvenuta pubblicazione): c. c. p. N° 43585009 intestato al Direttore. SPECIFICARE SEMPRE CON CHIAREZZA LA CAUSALE
__________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio