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Crisi economica o crisi antropologica?
CRISI DI APPARTENENZA, UNA SPECIE DI ALZHEIMER Quando Traiano fermava l'esercito per ascoltare la vedova di Rossano Onano
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RISI economica, oppure crisi antropologica? Le parole chiave, economia e antropologia, mi sembrano onnicomprensive e quindi vaghe, ciascuno può intendere e sostenere ciò che gli pare. La cosa mi tranquillizza: anch'io posso dire la mia.
Crisi economica è locuzione riferita all'attività produttiva, l'unità di misura è il PIL. La crisi è caratterizzata da livelli di attività produttiva (PIL) più bassi di quelli che si potrebbero ottenere usando in maniera ottimale tutti i fattori produttivi a disposizione. Negli USA, la crisi diventa recessione quando il PIL reale diminuisce per almeno due trimestri consecutivi. In Europa, specialmente in Italia, gli economisti sembrano avere atteggiamento più elastico. A seconda dei canali informativi offerti al pubblico, la recessione è spostata al terzoquarto-quinto-anche sesto semestre negativo. Sembra che tutti possano alzare l'asticella a piacere. Crisi antropologica è locuzione ancora più difficile da definire, dal momento che antropologia è la →
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All’interno: Con Lionello Fiumi a spasso per Verona, di Ilia Pedrina, pag. 5 La Natura, l’Uomo e il Sacro, di Giuseppe Leone, pag. 9 Andrea Zanzotto, di Aldo Cervo, pag. 11 Vita e opere di Domenico Defelice, di Luigi De Rosa, pag. 14 Anna Magnavacca, di Nazario Pardini, pag. 18 Silvano Demarchi: Occaso, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 22 Ignazio Buttitta, di Nicola Lo Bianco, pag. 25 Gioacchino Belli, di Leonardo Selvaggi, pag. 27 Carlo Cipparrone: Il poeta è un clandestino, di Elio Andriuoli, pag. 30 Paola la piccola, di Paola Insola, pag. 32 Luci della capitale (Il cambiamento, Lizzani, Gemma), di Noemi Lusi, pag. 33 I Poeti e la Natura (Publio Virgilio Marone), di Luigi De Rosa, pag. 37 Notizie, pag. 54 Libri ricevuti, pag. 55 Tra le riviste, pag. 57 RECENSIONI di/per: Tito Cauchi (Diamanti al sole, di Silvana Andrenacci Maldini, pag. 40); Tito Cauchi (Ubaldo Riva Alpino, poeta, avvocato, di Liana De Luca, pag. 40); Tito Cauchi (Commiato, di Silvano Demarchi, pag. 42); Tito Cauchi (Percorsi, di Giuseppe Melardi, pag. 43); Roberta Colazingari (Eleuterio Gazzetti cantore della Valpadana, di Domenico Defelice, pag. 44); Mariano Coreno (I simboli del mito, di Nazario Pardini, pag. 45); Aldo De Gioia (Domenico Defelice Un poeta aperto al mondo e all’amore, di Anna Aita, pag. 45); Aurora De Luca (Barcollando nell’indicibile, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 46); Laura Pierdicchi (Domenico Defelice Un poeta aperto al mondo e all’amore, di Anna Aita, pag. 47); Andrea Pugiotto (Il grido della terra, di Fabio Clerici, pag. 48); Andrea Pugiotto (Storie di Forlì, di Umberto Pasqui, pag. 49); Roberto Tassinari (Lessico d’amore, di Paola Insola, pag. 49). Lettere in Direzione (Ilia Pedrina a Domenico Defelice), pag. 57 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Lorella Borgiani, Colombo Conti, Mariano Coreno, Domenico Defelice, Liana De Luca, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Giovanna Li Volti Guzzardi, Flavia Lepre, Adriana Mondo, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi, Serena Siniscalco Si ricorda che questo mensile può essere sfogliato sul link issuu.com/domenicoww/docs/
scienza che riguarda l'uomo in tutte le sue espressioni, dall' evoluzione biologica al progredire delle sue espressioni culturali. Fortunatamente, accorre a soccorso il Centro Studi Investimenti Sociali (CENSIS), che da qualche tempo licenzia relazioni tese a delineare ciò che definisce Fenomenologia di una crisi antropologica. Il prestigioso Istituto lamenta la mancanza di visione del futuro da parte de-
gli Italiani, che sembrano sempre più imprigionati nel presente, con uno scarso senso della storia e senza visione nel futuro. Al desiderio si è sostituita la voglia, alle passioni le emozioni, conta solo quello che si prova nel presente, non la tensione che porta a guardare lontano. I giovani italiani sarebbero così rattrappiti in un individualismo egoistico teso alla sopravvivenza, in attesa che passi la
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nottata. Ecco perché, spiega il CENSIS, oggi i giovani italiani sono anche quelli in Europa che meno hanno intenzione di avviare una propria attività autonoma. Del resto, ammette l'Istituto, è difficile che un giovane italiano possa avviare una propria attività autonoma quando manca un capitale di investimento iniziale e un mercato fiorente dove investire. Insomma, la mancanza di visione del futuro (crisi antropologica) è causa determinante gli scarsi investimenti e la bassa produttività (crisi economica). D'altra parte, gli scarsi in-
vestimenti e la bassa produttività (crisi economica) sono causa determinante la mancanza di visione del futuro (crisi antropologica). Il cane si morde la coda. Quando si parla dell'uomo e del tempo,
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prima e meglio del CENSIS sono arrivati gli artisti. L'uomo che ha perso tutto, tranne il futuro (Chagall). Ebreo, intellettuale e russo, Chagall abbandonò il paese natale a seguito della rivoluzione d'ottobre. Per tutto il resto della vita dipingerà la terra e gli affetti perduti. Il violinista verde (1923) suona alle porte del villaggio di Vitebsk, la sua anima vola sui tetti verso un futuro di libertà. Giobbe (1975): autoritratto nelle vesti del profeta biblico, il fantasma della moglie Bella alle spalle, il popolo in cammino su fondo di nuvole, l'angelo azzurro su cielo livido che lascia intravedere un percorso di speranza. L'uomo di Chagall vive nella dimensione futura. L'uomo della crisi attuale, incapace di futurizzare, non è l'uomo di Chagall. L'uomo che ha perso tutto, tranne il presente (Warhol). Il rapporto che l'uomo intrattiene con l'economia produttiva è illustrato da Warhol, anche per questo motivo forse il più popolare pittore contemporaneo. Pittore, per la verità, sarebbe termine improprio. Warhol utilizza fotografie, cui aggiunge pennellate o segni bizzarri su fondi policromi. Le fotografie utilizzate riguardano personaggi (Marilyn, 1964 e ancora 1967) oppure oggetti (bottiglie di Coca-Cola e zuppe Campbell's, 1962) serialmente ripetuti, a significare l'ossessiva presenza percettiva nell'uomo di oggetti riferiti all'attualità. L'uomo di Warhol non ha coscienza del passato, né proiezione futura. Si limita a consumare il presente. E' la sua salvezza, dalle brutture della storia. E' la sua condanna alla dipendenza dagli oggetti. Si chiamava consumismo, a partire dagli anni '60 di Warhol, quando gli oggetti sembravano, e forse erano, a portata di mano. L'uomo della crisi attuale, costretto a lottare per accedere ai beni primari di consumo, non è l'uomo di Warhol. L'uomo che ha perso tutto, tranne il passato (De Chirico). A cavallo della Grande Guerra, De Chirico licenzia i suoi quadri metafisici, ove l'uomo è sostituito da manichini con testa a birillo vestiti di peplo greco. Interrogato sul perché di quelle presenze, l'artista
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stentava a rispondere. Si limitava a dire che l'uomo muore, mentre i manichini restano. Nelle Muse inquietanti (1916), due manichini sono attorniati da oggetti che richiamano la storia collettiva (una statua antica, il Castello Estense di Ferrara) e personale (le scatole colorate dell'infanzia, un enorme bastone di zucchero filato). Ettore e Andromaca (1917) sono due manichini abbracciati. Siamo alle Porte Scee, la sposa saluta per l'ultima volta il marito prossimo a morire per mano di Achille. L'uomo di De Chirico ha perso tutto, tranne la memoria del passato. Ma i dati della memoria non sono più rapportati al presente, né rapportati al futuro: perché prossima è la morte. Nella Malattia di Alzheimer, siamo soliti dire, il dato patogeno consiste nella perdita della memoria. Non è del tutto esatto. L'uomo di Alzheimer, prima di affondare nel marasma conclusivo, conserva invece la memoria. Soltanto, non sa collocare i fatti e le persone del passato nell'esatta dimensione storica, personale e collettiva. Fatti e persone sono così rievocati caoticamente in un presente fittizio, una commedia rappresentativa che prevede falsi riconoscimenti, sovrapposizioni, lacune, deliri (“Le Muse inquietanti”). L'uomo di De Chirico ha perso tutto, tranne il passato: ma ha perso la capacità di utilizzarlo. L'uomo di De Chirico è l'uomo di Alzheimer. In attesa delle Porte Scee. De Chirico era un pensatore originale. Sosteneva che l'uomo finge di ragionare, in realtà si limita ad accostare le immagini che la memoria porta spontaneamente alla coscienza. Il quadro mentale precede, e condiziona, il ragionamento. Infatti, la scrittura di questo articolo è stata preceduta da due immagini mentali. La prima è riferita ad una trasmissione televisiva, uno dei tanti quiz tesi a premiare cultura e conoscenza dei concorrenti. Due giovani, un ragazzo e una ragazza, devono rispondere a una domanda: è più antica la Torre di Pisa o il Colosseo? I due giovani sanno benissimo che la Torre di Pisa è a Pisa, e ne mimano la forma disegnando con le mani una struttura lunga e storta. Il Colosseo è a
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Roma, ed è rotondo. Non sanno però rispondere: quale delle due strutture è stata costruita per prima?. Nella stessa trasmissione due giovani non sanno rispondere a questa domanda: è nato prima Giulio Cesare o Carlo Magno? Trasmissioni di questo tipo sono molto istruttive. Ci informano che l'uomo attuale conosce i personaggi e le opere dell' uomo, ma non è in grado di collocarli nella storia. Come l'uomo di De Chirico, come l' uomo di Alzheimer, ricorda caoticamente, la storia non esiste. Come nell'Alzheimer, la perdita delle coordinate temporali porta a falsificazioni, a falsi riconoscimenti. La seconda immagine mentale è riferita a un film, Il gladiatore, ove l'imperatore Commodo è rappresentato così cattivo da essere caricaturale. La cinematografia d'oltre oceano, del resto, ha sempre rappresentato gli imperatori romani come persone inette e forse avvinazzate, nell'atto di tramare nefandezza tenendo sempre una coppa di vino fra le mani. L'imperatore romano della memoria storica è una cosa diversa. E' Traiano che ferma l'esercito in marcia per ascoltare una vedova che chiede giustizia. La farò al mio ritorno, dice Traiano. E se non torni? Farà giustizia il mio successore. In questo caso, il merito sarà del tuo successore, e non tuo. Traiano smonta da cavallo, ascolta, amministra la giustizia. E' nato prima Traiano o Socrate?, prima Traiano o Gesù Cristo?, prima Traiano o Gandhi? In fondo non ha importanza. La storia propone continuamente personaggi che attribuiscono all'uomo i giusti attributi della grandezza d'animo, della giustizia, della pietà. Crisi economica o crisi antropologica? A me sembra una crisi di appartenenza alla storia. La ricetta dovrebbe essere questa: ritornare allo studio meticoloso della storia, allo studio delle materie umanistiche. Non è una ricetta originale. E' quanto, sul tema, sono in grado di dire. Rossano Onano Immagini: Pag. 1: Giorgio De Chirico: Ettore e Andromaca. Pag. 3: Marc Chagal: Il violinista verde.
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CON LIONELLO FIUMI A SPASSO PER VERONA di Ilia Pedrina
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RA prosa, poesia, critica letteraria e giornalismo culturale, Lionello Fiumi emerge ancora oggi con interessante rilievo e rappresenta per la città di Verona un punto di riferimento ineliminabile. Per le investigazioni di piccola geografia degli spazi e delle emozioni, che qui andrò a rilevare, mi servo del bel volume, donatomi dal dott. Agostino Contò, direttore del Centro Studi Internazionale intitolato a questo poeta: 'Lionello Fiumi - Opere poetiche', curato dalla vedova del poeta, Beatrice Fiumi Magnani, fino a quando è rimasta in vita e dal prof. Gian Paolo Marchi e pubblicato a Verona nel 1994, con in copertina il ritratto del poeta, alto e dalla folta capigliatura, fatto dal suo caro amico Angelo Zamboni. Il Fiumi nasce a Rovereto il 12 Aprile 1894, abita palazzi antichi e tra questi si insinua anche in un salone dove Mozart aveva dato il suo primo concerto in Italia, al piano nobile di Palazzo Todesco: sogna e si diverte e tra libri e giornali e forme colorate da copiare, viaggia con la fantasia e con il cuore. E' la nonna paterna Fanny a dargli forse quella forte attrazione verso il mondo femminile che mai lo abbandonerà e sarà la matrice primaria delle sue poesie in canto libero ed a lei si deve il lascito della villa di Roverchiara, sua proprietà ed ora sede del Museo di Casa Fiumi. Arriva a Verona da Rovereto all'età di
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quattordici anni e siamo nel 1909. I suoi parenti acquistano un palazzo in via Vescovado 9 e ne abitano un piano intero: il clima culturale è di livello importante e l'aspetto scientifico della conoscenza viene sempre privilegiato. Compagni di scuola ed amici sono spesso ospiti da lui e si suona musica e si recitano poesie. E' dichiaratamente contro il Futurismo e tali contenuti sono stati presentati in sintesi, stringata ancora, nell'articolo “Il D'Annunzio di Lionello Fiumi prima e dopo l'impresa di Fiume”, apparso nel mese di Ottobre su questa stessa Rivista. A Verona tanti i riconoscimenti, tante le imprese di giovanile ingegno, tanti gli studi di poesia, che lo affascina certo più delle scienze chimiche, specialità professionale del padre Giovanni, degli esperimenti di fotochimica delle immagini, che pure lo vedono al lavoro, delle ricerche di astronomia e di musica. Cito dall'Introduzione del prof. Gian Paolo Marchi, che ha curato il bel volume 'Lionello Fiumi: Opere Poetiche', Verona 1994': “ 1909-1910 . Frequenta, con ottimi risultati, l'Istituto Tecnico 'Lorgna', classe II, Sezione di Fisica e Matematica. Continua la sua collaborazione con le riviste citate sopra. Riceve un premio dal 'Corriere Fotografico'. Completa le ricerche di Fotochimica. Alcuni cartoncini mostrano l'evolversi dei vari esperimenti, come l' 'Autografia senza luce di un fregio eseguito su carta colofonia'. Ma l'interesse per la poesia sta prevalendo su quello per le scienze esatte: 'Davanti l'Arena di Verona' (Alcaica) è la prima poesia che ha il coraggio di conservare. Attento studio del vocabolario con esercitazioni mnemoniche delle parole che più colpiscono la sua fantasia. Studio del Rimario di Girolamo Ruscelli, Napoli, Stamperia Salvatz, 1824, che egli postilla ed integra...” (Lionello Fiumi: Opere Poetiche, Introduzione e Cronologia a cura di B. Magnani Fiumi e Gian Paolo Marchi, Grafiche Fiorini, Verona, 1994, pag. XLII). Lo studio assiduo lo fa ammalare ed i suoi si preoccupano: l'adolescenza necessita d'av-
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venture e così, dopo il fallimento delle terapie a Monaco di Baviera, la salute gli verrà restituita a Göhren, nell'isola di Rüghen, sul Mar Baltico, scrivendo poesie! Allora adesso ci possiamo fidare, perché il giovane Fiumi ama la vita, le ragazze e le compagnie dei coetanei, Verona e dintorni e con lui come guida possiamo arrivare fino all' “Avancittà”, quella zona di periferia che cinge dall'esterno il cuore della città scaligera e pure fino alla “campagna circondaria”, termine assai caro al Fiumi e da lui coniato per indicare tutta la zona geografica, libera e dai colori cangianti a seconda della stagione, posta al confine quasi con l' 'Avancittà', che egli ama e che obbliga gli amici, accompagnandoli quasi con una ritualità fissa, ad amare e ad apprezzare. E' dal 1912 che inizia la stesura di alcune liriche che passeranno poi ad essere inserite nella sua prima raccolta 'Pòlline', che sarà data alle stampe il 14 Luglio del 1914 per i tipi dello Studio Editoriale Lombardo di Milano, che già ha pubblicato lavori di Pirandello, Papini, Lucini, Panzini. In questo mio lavoro sciolto ed a passi veloci, mi intratterrò soltanto su alcune delle liriche che cantano Verona, perché contengono un fascino speciale, anche se certo oggi la città è di molto mutata. Parto da 'Impressione dopo una pioggia d'aprile, al tramonto, in Piazza Brà': “Che luccicore che freschezza e sfarzo di tinte pure! come quarzo è il cielo! Ed anche, là la vecchia Arena, mummia gialligna d'una civiltà, ha la schiena ringiovanita e si fa ròggia come porfido all'ultima luce violastra che vi s'ostina! Appresso, tra la mole smeraldina degli alberi s'accampana la fontana che aguzza spruzza come un giubilo di diamanti
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tremolanti! E per ovunque, al suolo, le pozzanghere, a miriadi, mute, sono intessute di cielo, cerule e liliali quali squamme d'onice! e un romore buono ha il carro che passa cricchiando, ha il carrozzone elettrico che scivola sprazzando verdi scintille! …. Verona, 28 Aprile 1913.” (Lionello Fiumi, Pòlline, op. cit. pag. 72). Tanti i colori evocati in parole per rappresentare il vero, tante le assonanze che dettano il ritmo vario e libero dei versi, tante le similitudini che accalorano l'immaginazione e che il giovane Lionello ci sciorina senza preoccuparsi di annoiare, perché all'epoca, e non solo allora, le emozioni si cantano così! Da Piazza Brà passo a 'Piazza delle Erbe', in quattro lunghe sezioni, quasi un dialogo tra l'antico luogo degli incontri e degli scambi da mercato e il poeta, che tutto osserva e per tutto vibra: “ 1 Volgo, e se tieni vana l'arte io t'irrido! Nell'antica piazza, qui, snido e t'agito sul grugno mercantesco un ramicello fiammeo di vecchi simboli del Canto, appunto mentre più il mercanteggiare fermenta in grasso bulicame!, e, come il letame liévita il lezzo, l'occhiuta violenta cupidigia del rame liévita rauca nelle gole coriacee del girovago e del merciaio le voci innumeri d'acciaio che si mischiano, s'arruffano ed a tratti fanno aspri grappoli di grida! 2 Nella cintura di case
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stupendamente disformi e maculose, sotto la superbia paonazza della torre, è pure una simpatica villanìa di colori, la piazza, ove la varia cibaria s'avvicenda sotto la bianca distesa d'ombrelli che la coprono come coorte di leggeri scudi a difesa dei raggi maschi e nudi d'un sole di maggio! …. S'inasta col possente respiro, e sovrasta, la superbia paonazza della torre dei Lamberti, quel trofeo d'un'età. Ma là!... Bellezza più gagliarda, là!, e m'inebria. Oh! Ch'io ti arda una strofa robustissima, o chioma di fili metallici che parli fulminëo idioma! lira vivace che l'Elettricità s'intesse pel suo canto superbo e che ha per fondo l'acerbo azzurrissimo d'un cielo italico! Elettricità, e mi glorio d'essere virgulto della tua età! Virgulto selvatico e gemmante ancor che occulto nel putidore del folto tumulto! Io passo nella piazza ove passa chino il vecchio contadino arrugginito, che sarà presto la Morte; ove passa come viva esca la popolana rotondetta e forte, ch'è l'Amore: fresca
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come germoglio, con gli occhi nerisssimi come gocciole di seppia, con le labbra rosse su cui il buon dialetto veneto è una fiorita grassa e indolente e iridata. Io passo, che sono il Canto.... ….. 3 L'Arte è necessaria. 4 Canto. Io sento i miei diciannov'anni come un fresco manto di petali primaverili, e tutto me come un pòlline d'oro! …. Verona, maggio 1913.” (Lionello Fiumi, Pòlline, op. cit. pp. 11-15). E' chiarissimo l'ardore del giovane a sentirsi Poeta a tutti gli effetti, perché ha letto il D' Annunzio e ne ha colto la vigorìa d'espressione, perché è come lui, il Vate, il Maestro, audace e deciso e sa cogliere da questo momento storico energie preziose per abitarne senza sforzo le trame: si, proprio come l'elogio all' Elettricità, personificata e resa quasi simbolo di una stagione frenetica ed in inarrestabile divenire, quale è quella che lui riesce a prevedere e a vivere, cavalcandola senza sforzo, fin dai primi decenni del '900. E poi esiste l'Adige, a Verona, che scorre inarrestabile come il tempo, da tempi immemorabili, è ampio e carico di verdi fiancate, in trasparenza: mi piace camminare a lungo e scoprire aspetti inconsueti dei profili che vi si innalzano oltre gli argini e di quelle chiese e campanili che, in gran numero, scandiscono ancora la vita di chi passa, anche senza sostarvi. Ponti eleganti lo attraversano e sono tanti perché la città, quella antica, è protetta da più porte. Ascolto il poeta: “ Lamento consueto Dittico 1. Molini sull'Adige. Immensità della sera queta!
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E il frusciante fluire di seta dell'onda di quest'Adige, come una chioma profonda, bionda nel purpureo crepuscolare! E il fluire continuo continuo del fiume, che par tessere aureo il filo del Tempo, ne la sera queta, armoniosa d'una gamma di rosa! Su l'acqua l'ultima luce si squamma nervosa. Rigido contro l'ampia fiamma che orla il cielo, sta sul fiume un rozzo volume di baracche di legno nere di bitume; vecchi molini. Esce sul ponticello a quando a quando un uomo polveroso e zufolando guarda la riva ove per terra un bambino ruzza e s'impiastriccia. La grondante ruota nera del molino gira veloce e arriccia l'acqua d'un fermento lieto innumerevole e irrequieto d'argento. … Verona, aprile 1912. (Lionello Fiumi, Pòlline, op. cit. pp. 35-36) Nella seconda parte del 'Dittico', 'La clessidra maligna', il giovane Lionello s'abbandona a tristezze e malinconiche connessioni a cui sono avvezzi tutti i poeti, che associano Amore e Morte insieme, gioia spericolata e inetto senso d'un totale nulla. Così s'erge a cantare: “.... 2. La Clessidra maligna. Ma la Vita è un pugno di sabbia sanguigna pesato dal Fato
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e gittato dentro una Clessidra ben maligna: perché alla ghiotta boccia inferiore il tristo Inventore ha tolto il fondo. …” (Lionello Fiumi, Pòlline, op. cit. pag. 37). Quando gli è possibile, e le circostanze sono tante, in città nelle stanze a pagamento o nella 'Avancittà' o nella 'Campagna Circondaria', che ormai conosce benissimo, il giovane Lionello inebria di parole giovinette d'ogni tipo e le porta a coricarsi con lui, e le descrive nei suoi versi e le ama, solo lui sa come. Non ha né timore né tremore di comunicarlo a noi e a chi altro si inoltri negli ansimanti dettagli del suo dannunziano erotismo, più brioso e scaltro insieme però, ben s'intende, attento com'è a raccogliere tutto di sé, per mettersi in scena e darsi così ai giovani ed a tutti gli altri d'ogni tempo. Ilia Pedrina
OCCHIO DI LUNA Guardo in cielo e ti trovo Occhio di luna, tra due nuvole d’argento dalla forma di mandorla. Rimango d’incanto, svanisce ogni pensiero, la luce purifica il sentimento come il moto con l’onda che filtra e sedimenta. C’è solo pace in me è il frutto della tua magia che mi avvolge e protegge, che cancella tristezza, manifesta mestizia che apparve quando sei andata via. Ho bisogno di te, ma basta osservarti per rivivere ancora, per sentire calore in questa umida notte. Colombo Conti
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LA NATURA, L’UOMO E IL SACRO in una riflessione di Paola Ruminelli di Giuseppe Leone
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ON una dedica alla propria madre “per i suoi cento anni”, Paola Ruminelli, già docente di materie letterarie e autrice di articoli e saggi sul pensiero esistenziale, tra i quali “Per un nuovo Umanesimo, La ricerca filosofica, Tra finito e infinito, tanto per ricordarne alcuni, ha pubblicato nel luglio 2013 con la Armando Editore di Roma La natura, l’uomo e il sacro. Studi per una filosofia dell’esistenza. Si tratta di un “saggio che vuole essere” – sono parole dell’autrice – “un sia pur modesto contributo all’invito alla riflessione per il nostro tempo in cui i prodigi della tecnologia sembrano aver sostituito la realtà naturale, coinvolgendo l’interesse dell’ uomo in maniera totalizzante” (9). Un invito a riflettere che nasce dalla constatazione che l’uomo contemporaneo non si meravigli più davanti agli eventi naturali, ma solo davanti ai “miracoli” della tecnica. Ne discute nel corso di 80 pagine che suddivide in due parti: una prima, dove l’ autrice si sofferma intorno al mistero dell’essere, con un excursus sulla natura, alla luce ora delle concezioni sul cosmo e il caos quali ci sono giunte dall’antichità, ora delle ipotesi che filosofia e scienza hanno formulato in tempi più vicini a noi; e una seconda parte, dedicata all’uomo, alle sue origini e al suo linguaggio,
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alla sua autonomia fra trascendimento e trascendenza; e al sacro, con relativo discorso sull’esistenza di Dio e il senso della vita. Il tutto attraverso un’ esposizione chiara ed essenziale, frutto a un tempo di lucida razionalità e sincera passione, in uno stile affabile e colloquiale. Un pamphlet, si direbbe, con il quale la scrittrice esorta il lettore a riflettere per il nostro tempo, un modo di dire che sembrerebbe rimandare, per analogia s’intende, a un verso di una lirica di Vittorio Sereni, a quell’esortazione sussurrata da qualcuno alle sue spalle a pregar per l’ Europa mentre è prigioniero in un campo di concentramento, affinché l’Europa oppressa e in rovina possa essere finalmente liberata. Con la differenza che il poeta non può far nulla, perché morto alla guerra e alla pace, mentre l’autrice è ancora nella condizione di poterlo fare, appellandosi alla metafisica, quale è diventata, da Kant a Levinas, orientandosi nel segno dell’ etica. In nome di questa libertà del volere nell’uomo, allora, che nessuno può impedire e che la filosofia continua a rivendicare tra i suoi oggetti assieme all’immortalità dell’ anima e l’esistenza di Dio, ecco la studiosa invocare chi per lungo silenzio parea fioco, la metafisica, di cui inizia ad elencare subito i vantaggi, e non solo in quanto scienza ordinatrice e moderatrice di un dialogo altrimenti impossibile fra i sostenitori dello scientismo che vogliono spiegarsi ogni cosa alla luce delle conoscenze razionali e i sostenitori della fede che sostengono il contrario, riportando le ragioni di tutte le cose alla causa del divino, ma anche per il riverbero che ne potrebbe avere la fede, in difficoltà in momenti come questi di globalizzazione, “dal momento che essa non può essere più un dato acquisito per tradizione e come tale assolutamente certo, ma come un momento che per la sua maturazione non esclude l’inquietudine della ricerca, ma presuppone un avvio di pensiero che la fondi sulle strutture ultime della coscienza” (53). E ne giustifica anche la sua necessità, dicendo che “l’uomo può penetrare nella natura con gli strumenti della sua scienza e della sua tecnica, che gli permettono, sia pure in
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piccola misura, di dominarla e di adattarla ai suoi bisogni, ma la scienza e la tecnica non possono dare risposta alla sua più profonda ansia di conoscenza, che mira all’ essere stesso del mondo e della sua vita…” (55). Solo la metafisica come scienza che indaga sulle realtà ultime – risponde la Ruminelli - può pervenire alla risposta sull’origine del mondo, sul perché del divenire e del susseguirsi di forme mortali, nonché sul desiderio e l’ angoscia di vivere che tutti i viventi condividono. Stupisce, man mano che si va avanti nella lettura, come l’autrice accordi così tanta fiducia alla metafisica, dandola più che mai per viva, quando filosofi come Severino avevano fortemente dubitato dell’efficacia dei suoi rimedi contro il male di vivere; e ancora prima di loro, Nietzsche e la non trascurabile schiera dei materialisti ne avevano dichiarato la morte. Molti, per la studiosa, sarebbero ancora i doni che essa può elargire tra la gente. Tra questi, il sentimento della meraviglia che l’umanità postmoderna ha smarrito da quando il primato della conoscenza non è stato più riconosciuto al pensiero e la felicità, anch’essa perduta, ma che potrà essere recuperata se l’ uomo riprende ad affidarsi alla ragione. Meraviglia e felicità, a condizione che gli uomini ricomincino di nuovo a guardare lontano con il pensiero, oltre i piccoli recinti dove essi espongono i prodotti della loro tecnica, per scrutare gli interminati spazi e i sovrumani silenzi, la profondissima quiete, il nulla eterno, i campi eterni, luoghi virtuali che nessuno potrà mai raggiungere a piedi o volando. Mondi, che, dando a chi li immagina la misura di quanto è dentro di noi e quanto si estende fuori, forniscono le proporzioni della res extensa e della res cogitans, della natura, compresa la realtà corporea, e della realtà pensante. Fragile, quanto si vuole, quest’ ultima, rispetto al gigante dell’universo, ma prodigiosa perché oltre a fare avere all’uomo la coscienza del mondo, gli dà anche autocoscienza della propria finitudine, del provvisorio, della propria piccolezza di fronte al creato e dell’alterità della sua esistenza rispetto alla Natura e a Dio. E non solo, citando un pen-
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siero della Weil, che “la precarietà delle cose belle è preziosa, perché è rivelazione di esistenza”, la Ruminelli può aggiungere che “anche la morte può essere considerata un bene, in quanto facendoci capire la nostra provvisorietà, matura in noi la virtù dell’ umiltà radice dell’amore” (75). Un manuale sulla metafisica, allora, questo saggio di Paola Ruminelli, un illuminante testo che la studiosa propone ai lettori allo scopo non solo di “richiamare la loro attenzione sui problemi di fondo che inquietano l’umana coscienza, quali il mistero dell’essere e il senso della vita”, ma anche di far presente quanto sia necessario “il ricorso al Pensiero” affinché l’umano sopravviva alla sfida mortale della tecnica. Giuseppe Leone Paola Ruminelli - LA NATURA, L’UOMO E IL SACRO - Studi per una filosofia dell’esistenza Armando Editore Roma 2013, pp. 80. € 9,00
IL TELEFONINO E all’improvviso il silenzio. La voce che prima vibrava nel corpo robusto si tace, la luce che dentro l’illuminava si spenge. Resta il buio più nero e completo, il distacco dal circostante mondo, la perdita della memoria. E la disperazione. Ma basta un breve intervento. un semplice tocco di chi conosce i misteri che l’aria rinchiude e ritorna la luce, ritorna la voce. Il mio telefonino che era morto è gloriosamente risorto ed io ne riascolto felice il suo gioioso segnale. Sarà così un giorno Anche per me ? Lo spero. Mariagina Bonciani Milano
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Novembre 2013
ANDREA ZANZOTTO ATTI DI UN CONVEGNO di Aldo Cervo
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L volume è la raccolta degli Atti del convegno svoltosi il 6 ottobre 2012 presso l’Abbazia di Praglia, sulla produzione letteraria di Andrea Zanzotto, voluto e curato – il convegno - da Maria Luisa Daniele Toffanin, scrittrice nativa di Padova, con la qualificata collaborazione di Mario Richter, docente universitario, noto studioso del Rinascimento francese e italiano, nonché della stagione europea del Decadentismo, e del Surrealismo. L’iniziativa, concepita per il primo anniversario della morte di Andrea Zanzotto, patrocinata dall’Associazione LeviMontalcini, nasce dall’amore – condiviso – del poeta di Pieve di Soligo e della Toffanin per il paesaggio dei Colli Euganei, oltre che dall’amore – condiviso anch’esso – per la poesia, in virtù del quale fiorì e si protrasse negli anni un’amicizia “leggera”(secondo la definizione della poetessa di Selvazzano) ma feconda di idee e di reciproco, interiore arricchimento. Prefato dal Richter, il volume esordisce con la relazione di Antonio Daniele, ordinario di Storia della lingua italiana all’Università di Udine, nella quale si sottolinea – a volerci limitare all’essenziale - la sacrale incidenza del paesaggio dei Colli Euganei nella creatività poetica di Zanzotto. Il secondo intervento critico, di Silvio Ramat, docente ordinario, fino a qualche anno fa, di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Padova; ampio e curato
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– l’intervento - nei minimi dettagli, fornisce invece tutto quanto in termini di frasario è contiguo - nell’Opera del poeta - al Sacro in senso lato, o vi è di desunto dalle Sacre Scritture. A seguire poi, con Mario Richter, si accantona l’indagine estetica a favore di quella sull’uomo Zanzotto, sulla sua umiltà e sulla varietà della cultura posseduta, che diremo “a largo spettro”, che ne fecero un inesauribile quanto gradevole “affabulatore”. Ma l’analisi sull’ars scribendi di Zanzotto torna con Francesco Carbognin. Il critico, filologo ed italianista dell’Università di Bologna, affronta il problema della controversa fruibilità della parola poetica in Zanzotto; parola che si fa “ambivalente” per veicolare una duplice significanza, di “fisicità” e di “metafisica”. Ma non fu lo stesso già per Dante e per tutta la produzione letteraria d’ogni tempo connotata dall’allegoria e dal simbolismo? Le pagine di Padre Espedito D’Agostini, teologo, sono invece la testimonianza dell’ intenso rapporto amicale e culturale che intercorse tra il poeta e Padre David Turoldo, la cui idea di religione, che trascende – per così dire – i limiti di un rigido dogmatismo, conferì legittimità spirituale al “Sacro” di che si permea l’opera di Zanzotto. Bello, in proposito, il pensiero di Turoldo posto in apertura di relazione: Tu non sai che i poeti sono anche dei religiosi…? Il testo accoglie, in chiusura, il contributo umano, ma anche letterario, di Marisa Michieli, vedova dello scrittore, la quale, nel ricordare la visita resa ad Andrea da mons. Giuseppe Zenti all’indomani della sua nomina a Vescovo della diocesi veronese di Ceneda, ne ricava, sottolineandolo, l’interesse che il marito ebbe per la Chiesa Cattolica, ferma restando in lui l’assenza di “ogni forma di pedissequa e adulatrice acquiescenza nei confronti dei più diversi dogmatismi”. C’è poi – al testo – un’appendice dove, a conferma della vocazione sacra del mondo interiore zanzottiano, si pubblica – preceduta da
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una nota introduttiva del citato Richter – la traduzione che il poeta curò della Lettera di San Paolo ai Colossesi, cui fa seguito – e chiude per davvero il libro – il contributo dell’encomiabile organizzatrice del convegno, la poetessa Maria Luisa Daniele Toffanin, che riepiloga con accenti commossi quella che si può definire Storia di un’amicizia. Nata da un incontro, promosso dalla Toffanin, di Andrea Zanzotto con una scolaresca di un Istituto Superiore di Abano, l’amicizia, nella sua “levità”tutta interiore, non ebbe mai termine e non v’è dubbio che produsse positivi effetti nelle vicende letterarie di entrambi i poeti. Di tanto costituito, il volume si correda di un CD (non so se dico bene)contenente la declamazione da parte del bravo dicitore, Federico Pinaffo, di alcune liriche di Zanzotto, quelle, precisamente, che il volume stesso, pubblicandole, sistema – mi si passi l’ espressione latina – per intervalla sermonum. Il problema del “Sacro” come motivo dominante nella genesi della poesia di Andrea Zanzotto non si sarebbe nemmeno posto se fosse stato – Zanzotto - un credente collocato all’interno di una determinata Confessione. Senonché il Poeta, per un interiore bisogno di libertà, non prese – a volerla dire così - alcuna tessera di appartenenza, preferendo inseguire un’idea laica del “Sacro”che ne ha fatto uomo di fede, magari dubitante, ma di certo ipersensibile ai valori eterni dello spirito, che ha potuto coltivare senza l’assillo della precettistica ecclesiastica. Codesta religiosità di giorno in giorno ridiscussa e verificata gli valse l’amicizia e la stima di un altro Spirito libero della Fede, Padre David Maria Turoldo, cristiano di apertura ecumenica, che seppe leggere nell’opera e nella vita di Andrea Zanzotto i segni di una religiosità maturata attraverso itinerari personali, forse contraddittoria, sicuramente sofferta ma profonda tanto da non aver nulla da invidiare a quella che altri conseguono secondo i tradizionali tracciati delle religioni organizzate in gerarchie. Nell’interessante convegno di Praglia, i cui
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Atti – pubblicati - son destinati a diventare un passaggio obbligato per i futuri studi sul Poeta di Soligo, oltre al confronto sul “Sacro”- tema centrale dei diversi contributi critici – è emerso, come era prevedibile, anche quello sulla non immediata fruibilità della poesia (non di tutta, s’intende) del famoso Poeta veneto. Riferendosi infatti alla lirica “Sopra i Colli d’Este”, Antonio Daniele – a voler fare qualche esempio – scrive: Non si tratta di un componimento di facile interpretazione: un certo orfismo è connaturato a Zanzotto. Ma nessuno vorrà negare il senso di dolorosa partecipazione alla perdita del fratello… E Francesco Carbognin non dice cose diverse là dove, parlando del “tipo di scrittura” in Zanzotto, afferma: Si tratta, a ben vedere, del “sentimento” avvertito da chi si trova al cospetto di una dimensione sostanzialmente ineffabile, suscitato dalla consapevolezza dell’insanabile contrasto tra vita e linguaggio: tra quella che Zanzotto definisce “vita-ustione-immediatezza” e la cifra linguistica delegata, di volta in volta, a renderne testimonianza.. Tema non nuovo, quello della “impermeabilità”, che già da tempo divide contrapposti interpreti della poesia zanzottiana. Nel merito qualche anno fa, nel N° 105 di “La Nuova Tribuna Letteraria”, Stefano Valentini scriveva:Chi, tra i sostenitori, afferma di comprendere l’intera opera di Zanzotto, a nostro giudizio, non dice la verità, per studioso illustre e competente che sia. Dall’altro lato chi, tra i detrattori, afferma che poiché la comprensione è ardua o impossibile allora la sua poesia vale poco o nulla, o addirittura non è poesia, certamente non si è mai seriamente impegnato ad approfondirne la conoscenza, limitandosi ad una scorsa superficiale. E ancora il Valentini nello stesso articolo proponeva, per comprendere la genesi del linguaggio poetico di Zanzotto, di partire da una sua lirica degli anni sessanta, titolata “L’elegia in petèl”. Ma cos’è per Zanzotto il petèl? E’ – il petèl – quel linguaggio pregramma-
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ticale che ogni bambino inventa nell’età che precede le prime articolazioni foniche assunte poi per imitazione dagli adulti. Se ne potrebbe ricavare un vocabolario! E al petèl, a un petèl che – come il fanciullino del Pascoli – perdura anche nella creatura divenuta adulta, Zanzotto, prescindendo dalle codificate connessioni logiche e sintattiche del discorso, cerca di rimanere legato, nella prospettiva di conseguire un linguaggio primordiale che sia immediata traduzione in suono della percezione del paesaggio, di quel paesaggio fisicometafisico che è motivo dominante di larga parte della sua opera. Chi scrive ritiene, in tutta modestia, che il petèl, se è connaturato alla primissima infanzia, è poco immaginabile che lo si possa percepire e dargli forma con eguale “verginità” linguistica in età adulta, date le contaminazioni inevitabili della quotidiana comunicazione verbale. Ma se per assurdo fosse possibile, ogni poeta non potrebbe che creare per se stesso non potendosi ipotizzare un petèl convenzionale che nel farsi tale contraddirebbe se stesso! Quanto ad Andrea Zanzotto, è da ritenersi che, al di là di talune esasperazioni ellittiche pur presenti nelle sue sillogi, guardasse al petèl come al segno attestante l’esistere negli abissi del nostro subconscio (non a caso Padre David Turoldo definisce Zanzotto “rabdomante della parola”) di uno sterminato “giacimento”, stratificatosi a partire dalle primissime età preistoriche, di fonemi comunicativi, in cui scavare al fine di dar luogo a un rinnovamento linguistico, che superando tradizionali forme e schemi espressivi, gettasse le basi per un poetare nuovo, da mettere meglio a punto nei tempi a venire. Voglio tuttavia concludere fornendo un esempio di come Zanzotto sapesse essere immediato ed emotivamente coinvolgente anche senza ricorrere a soluzioni linguistiche necessariamente inedite. Vediamolo nel breve ricordo, in prosa, del suo “loco natio” non ancora irrimediabilmente deturpato da un irriverente progresso: D’estate, gli abitanti di quel mondo da fia-
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ba, ormai scomparso, si sedevano lungo la via improvvisando filò all’aperto; e il dialetto correntemente parlato dai suoi abitanti, sortiva l’incanto di un continuum che fondeva armoniosamente il linguaggio della natura al linguaggio umano… Lo stralcio è uno splendido esempio di poesia in prosa e nasce, a parer mio, da un petèl sotterraneo tanto più vivo quanto meno rimesso ad assemblaggi, per nulla evocativi, di artificiose costruzioni fonemiche. Esso mi fa venire a mente, per il tono malinconico che lo pervade, il diario - ricordato dal Leopardi a premessa del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia - di M. de Meyendorff, viaggiatore russo, titolato Voyage d’ Orenbourg à Boukhara, fait en 1820, pubblicato a Parigi nel 1826, dove si dice della consuetudine dei Kirghisi, popolazione nomade dell’ Asia centrale, di passare le notti di plenilunio seduti su dei massi a guardare la luna e a improvvisare versi tristi su motivi di pari tristezza. Aldo Cervo M. Richter – M.L. Daniela Toffanin (a cura di), Il Sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto, Ed. ETS, Pisa, giugno 2013
AVRÒ OCCHI D’ANIMA Eppur ci credo. Allora che il mio corpo si solverà nel tetro della terra e non avrò più occhi per vedere, come godrò le eterne meraviglie del nuovo mondo che mi fu promesso, oltre questo cielo su di me sospeso, oltre i voli silenti di rapaci, oltre i superni tetti del pianeta? Ebbene, avrò occhi d’anima, lo sento; pupille intente a voli sensoriali, vive d’intelligenza ed appagate da prodigi, immagini, visioni, trasalimenti edenici e stupori. L’apparizione, sempiterna grazia, gioirà l’approdo, senza più ritorno. Serena Siniscalco Aprica, settembre 2013
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VITA E OPERE DI
DOMENICO DEFELICE NELL'ULTIMO LIBRO DI
ANNA AITA di Luigi De Rosa
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UESTA recente monografia di Anna Aita, poetessa e scrittrice, “figlia d'arte”, si rivela quanto mai utile e preziosa anche per chi, come me, possiede nella propria libreria tutte le opere di Defelice. Si tratta di una monografia scritta con affetto ed efficacia letteraria, ma soprattutto con accuratezza e precisione. Il che facilita ulteriormente gli studi su Defelice, sulla sua attività poetica e artistica di una vita, sulla sua instancabile iniziativa di promozione culturale. Dopo una Introduzione di Angelo Manitta, critico e saggista, presidente della Accademia “Il Convivio” nonché direttore editoriale della omonima Rivista e di “Cultura e prospettive”, la monografia si articola, ordinatamente, in sei Capitoli: La vita 2) Le opere 3) Pubblicazioni di Domenico Defelice 4) Opere teatrali 5) “Pomezia-Notizie 6) Monografie per Domenico Defelice. 1) Il racconto della vita del poeta si snoda dalla nascita ad Anoia (Reggio Calabria), avvenuta il 3 ottobre 1936, fino al trasferimento a Roma, poi a Pomezia, alle porte di Roma, fino ai nostri giorni. Anzi, fino alla gioia immensa procuratagli dalla nascita e
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dalla crescita dell'adorato nipotino Riccardo Carnevalini Milano. Il capitolo si chiude con una toccante poesia (una delle tante già dedicate a Riccardo dal nonno poeta) intitolata In voi spontaneo, naturale che ci fa toccare con mano la rivoluzione-sistemazione avvenuta nell' animo e nel cuore del nonno, in uno scambio esemplare del “testimone” fra appartenenti a diverse generazioni: “T'incanta lo schermo del computer. Mi scruti digitare. Seduto sulle mie ginocchia cerchi imitarmi alla tastiera battendo le manine alla rinfusa. Tu e gli altri che verranno siete figli della tecnologia. Quel che imparato ho con fatica, è germe in voi spontaneo, naturale. Tu e gli altri che verranno digitate un mio verso fra cent'anni. Sarà il modo più semplice e discreto per dire, con il cuor, nonno ti amiamo.” Ho riprodotto questa poesia per un motivo ben preciso: Il Defelice di oggi è la prosecuzione naturale di quello che in realtà, è sempre stato: un uomo buono, innamorato della vita e delle cose oneste e positive, un cultore degli affetti sani, familiari, un cuore nobile, insomma. Un poeta estremamente sensibile “ offeso dall'andazzo di un'epoca violenta e deludente sotto tanti aspetti”. Proprio per questo nella sua produzione letteraria troviamo, così spesso, la rivolta dell' animo contro la malvagità e l'odio, l'invettiva o il sarcasmo contro le ingiustizie e gli imbrogli, sia ai danni dei singoli che ai danni dei popoli. 2) Le opere defeliciane passate in rassegna dalla Aita sono Piange la luna, Con le mani in croce (1962), Un paese e una ragazza (1964), 12 mesi con la ragazza (1964), La morte e il Sud (1971), Canti d'amore dell'uomo feroce ( 1977). Tali opere, più lontane nel tempo, sono rivisitate non con esame diretto ma grazie ad un prezioso libro di Sandro Allegrini ad esse de-
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dicato: Percorsi di lettura per Domenico Defelice, con prefazione di Angelo Manitta, edizioni de Il Convivio, 2006. Viene poi esaminato un altro libro importante del Nostro, forse fondamentale nell' impianto della sua produzione letteraria globale: Nenie ballate e canti, Ed. Le petit Moineau 1993. A proposito dell'atroce episodio della morte di Alfredino Rampi, caduto nel famigerato “pozzo di Vermicino”, la Aita scrive ( e condivido pienamente) . “ ...il Poeta sente di amare vivamente e profondamente questo bambino come suo e, oppresso dal dolore, lamenta in maniera forte il clamore incredibile determinato dai mass media e la disgraziata “cultura dell'apparire” che fa sì che un tragico evento si trasformi in un'orribile forma di spettacolo...” Purtroppo da allora i mass media, in serrata concorrenza tra di loro, non hanno fatto altro che “peggiorare” con la rappresentazione dell' orrore, allo scopo di aumentare lo share o la vendita. 3) Nel terzo capitolo, dedicato alle Pubblicazioni di Defelice, Anna Aita passa in rassegna, con diligente e approfondito esame diretto e personale, opere importanti e significative come Temi umani e sociali in Carmine Manzi (Ed. Gutenberg 1972), o come Arturo dei colori ( raccolta di racconti edita da Pomezia-Notizie nel 1987). La narrativa di Defelice è qui immersa nella delicatezza e nella levità, nella fiaba e nella magia. Segue il gradevole poemetto To erase, please ?sulla discrasia e presunta (o vera?) inconciliabilità tra la spontaneità della Natura e l'artificiosità...
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del computer e della Televisione... Con L'orto del poeta (Le petit moineau, 1991) senza esagerazione, siamo di fronte a un piccolo, autentico capolavoro. L'ho già scritto a suo tempo, in un pezzo uscito su un numero passato di Pomezia-Notizie, e non è il caso che mi ripeta. Col poemetto Alpomo (Ed. Pomezia- Notizie 2000) ricordo che a suo tempo mi divertii molto, ridendo tra me e me, ma di un riso amaro, perché così voleva quel geniale poeta satirico ( sì, in Alpomo Domenico è poeta satirico, e più graffiante che mai). “Alpomo” sarebbe la povera...Italia, aggredita e violentata dalla corruzione politica ed economica come non mai nella sua storia... Alle spalle della povera massa dei “cittadini” solo la nobiltà non sa che fare/ delle faccende umili del mondo/ blindata nel Palazzo./ S'arrovella a pensare/ a chi muovere guerra, chi defraudare/ e come suddivider le tangenti,/ con chi recarsi a letto/ come trascorrere giorni, mesi e anni / della noia al cospetto... All'inizio dell'analisi di un altro poemetto, “Resurrectio (viaggio nel dolore)”(Gènesi Editrice, Torino 2004, ( storia della disavventura ospedaliera del poeta per un intervento chirurgico) la dolce Anna Aita, che oltre ad essere una letterata e pubblicista è anche un' operatrice umanitaria, confessa candidamente: “Come scrissi in una mia recensione sul poemetto “Resurrectio”, il mondo proposto da Domenico Defelice, in questa sua raccolta poetica, mi è molto caro. Sono ormai circa trent'anni di volontariato in ospedale e ne ho visto di tutti i colori. Per questo ho avvertito un interesse immediato e speciale verso queste pagine...” Segue l'analisi illuminante di un altro libro di Defelice, definito da Rosario Viola “un tributo di affetto verso l'universo culturale calabrese”, e cioè Pagine per autori calabresi del Novecento (Ed. Il Convivio 2005), molto apprezzato, oltre che da Viola, da Francesco Fiumara, l'indimenticabile direttore de “La Procellaria”, e da Vittoriano Esposito. Altro libro importante di Defelice, non solo dal punto di vista letterario-culturale, è il Dia-
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rio di anni torbidi (Edizioni Associate, Roma 2009), scritto e vissuto, dolorosamente, proprio nella Roma degli anni intorno al 1966, notoriamente difficili, a ridosso del Sessantotto. Scrive acutamente Anna Aita : “ Un diario vero, così come il nostro Autore ce lo affida, potrebbe rischiare di essere banale, forse anche monotono. Quello del Defelice non lo è per niente. E', al contrario, una lettura gradevole, accattivante, pregnante; ti conduce e ti spinge per andare avanti per avere, alfine, la conferma del giusto approdo dopo tanti sacrifici...” La Aita aggiunge anche, in una delle tante note integrative a pié di pagina che corredano il suo saggio, che “...a parere di Marina Caracciolo (Pomezia-Notizie, agosto 2010) “ c'è tutto intero Defelice in questo libro: la personalità, la cultura, la fantasia, l'umanità”. E siamo al volume di versi Alberi? , uscito nel 2010 per i tipi della torinese Gènesi con la prefazione di Sandro Allegrini e la posfazione del critico-poeta-editore Sandro Gros Pietro. “Fin dalla prima poesia - scrive la Aita - il delizioso percorso poetico è un inno alla Na-
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tura. Ogni verso profuma di verde ed è tutto un fiorire di colori e di aromi, un trionfo della terra e della vita: il sospirato Eden”. Per il critico letterario Giorgio Bàrberi Squarotti questi Alberi? di Defelice sono “eroticissimi, fra emblemi e metafore, sono geniali, mirabili”. In Defelice il rapporto fra Natura e Uomo (poeta o no) è rappresentato dalla umanizzazione della pianta, anzi, dell'albero, creatura che assomiglia all'uomo anche per il suo destino finale. Ma è tutta la Natura a trionfare. Mi permetto di rimandare a quanto modestamente ho scritto, con entusiastica ammirazione, su questo libro, anche in una delle prime puntate della mia rubrica I poeti e la Natura, che ogni mese appare su “Pomezia-Notizie”. 4) Nel capitolo quarto, come già detto, la scrittrice si occupa delle Opere teatrali di Defelice. E lo fa con felice esegesi, sostanziata di puntuale documentazione, nei riguardi della commedia Pregiudizi e leziosaggini (v. Il Croco, settembre 2008). “Defelice è sempre stato affascinato dal teatro – scrive tra l'altro la Aita – Risiedendo a Roma, fino al 1970 ha avuto modo di assistere a tante rappresentazioni teatrali, anche come invitato in qualità di corrispondente di varie testate: La voce di Calabria, Il corriere di Reggio, la Voce del Mezzogiorno, Alla Bottega, e, per ben quindici anni, Avvenire...( specie nel celebre Teatro Ambra Jovinelli)... L'analisi della Aita si fa ancora più penetrante nei riguardi di Silvina Olnaro ( Il Croco, marzo 2009), un dramma in tre atti dedicato alla dolorosa storia di Eluana e di suo padre che, disperato, aveva staccato la spina in presenza di un “sonno” che sembrava ormai irreversibile. Un tremendo dramma di coscienza (si può decidere della vita o della morte di un altro essere umano? Specie se giovane?), che impegna al massimo la mente e la sensibilità umana e sociale del Defelice uomo e scrittore. Giustamente viene notato da Anna Aita che “la teatralità in Defelice ha sempre contaminato poesia e prosa. Teatrale infatti è pure il poemetto To erase, please? E, ancor di più, Alpomo, come teatro sono tutti i
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brani dei Dialoghi all'esca (Pomezia-Notizie 1989), lavoro apprezzato anche dal grande Indro Montanelli, che scrisse: soprattutto per la forma, l'ho trovato originale. I dialoghi dei personaggi mettono in risalto una ricerca di linguaggio molto accurata (…) Il tutto esalta storie che rispecchiano la società odierna; storie tristi e purtroppo ricorrentissime...” 5) Il capitolo quinto è dedicato alla Rivista Pomezia-Notizie. “Abbiamo parlato delle opere di Domenico Defelice – conclude la Aita – e non possiamo certamente prescindere da un altro grande capolavoro del nostro personaggio: il mensile letterario “POMEZIANOTIZIE, da lui fondato e diretto dal 1973.. .Un giornale puntuale, senza lusso e colori sgargianti, ma tutto scelto, per evitare inutile dispendio e offrire al fruitore di tutto e di più...Nata per la cronaca locale e distribuita gratuitamente, dopo pochi anni è stata dirottata completamente sulla cultura, mantenendo, però, la vecchia testata per non perdere il suo patrimonio storico. Nel 1990 ha modificato il suo formato tabloid per assumere quello attuale, più simile al libro e divenendo in pochissimo tempo una rivista di nicchia, apprezzata in ambito non solo nazionale...” La Aita riporta anche numerosi giudizi positivi espressi su Pomezia-Notizie da parte di
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gante. Ebbene, secondo NTL Nuova Tribuna Letteraria, “Pomezia-Notizie, nonostante la veste dimessa, è una delle riviste culturali e letterarie più interessanti d'Italia”, giudizio ulteriormente ribadito dal Direttore responsabile Stefano Valentini, secondo il quale “Pomezia-Notizie è una delle riviste migliori in assoluto che si pubblichino in Italia. La veste grafica è essenziale, d'accordo, ma la ricchezza e la qualità dei contenuti hanno davvero pochi eguali, come dimostra anche l'eccellenza dei nomi dei collaboratori...” 6) L'ultimo capitolo del libro della Aita è dedicato alle “Monografie per Domenico Defelice”, con l'esame delle opere di Sandro Allegrini (Percorsi di lettura per Domenico Defelice), di Leonardo Selvaggi ( Domenico Defelice e le sue opere etico-sociali) di Orazio Tanelli (Domenico Defelice) e di Eva Barzaghi (tesi universitaria intitolata Domenico Defelice: introspettivo coinvolgimento poeticoletterario dell'animo umano, con cui la Barzaghi si è laureata in Letteratura Italiana e Contemporanea nel 2009 presso l'Università di Roma-Tor Vergata. Ovviamente, all' elenco delle Monografie si dovrà ora aggiungere questo libro di Anna Aita. Luigi De Rosa Anna Aita - “Domenico Defelice, un poeta aperto al mondo e all'amore” - Ed. Il Convivio, Castiglione di Sicilia, Catania, giugno 2013, pagg. 94, € 12.
Immagini:
altre Riviste letterarie italiane, prima fra tutte “La Nuova Tribuna Letteraria”, di Padova ( fondata da Giacomo Luzzagni, un valoroso insegnante siciliano trapiantato in Veneto, ed ora diretta dal figlio Natale e da Stefano Valentini) una rivista che offre i suoi ricchi contenuti in una veste graficamente molto ele-
1) Roma, Sala dell’Immacolata, Piazza SS. Apostoli: Domenico Defelice e lo scrittore e poeta Angelo Manitta, il 28 ottobre 2006. 2) Roma Eur, Palazzo delle Esposizioni: Domenico Defelice mentre firma un suo volume alla poetessa e scrittrice Rosangela Zoppi Tirrò, il 10 dicembre 2004. 3) Pomezia, Aula Magna dell’Istituto Statale d’Arte, 18 ottobre 1986: Domenico Defelice premia la poetessa romana Patrizia Fontana Roca. 4) Roma, Centro Letterario del Lazio, in via Merulana, il 27 gennaio 1987. Da sinistra a destra: il Preside prof. Giacomo Mangano, la scrittrice e poetessa Ada Capuana - pronipote di Luigi Capuana e Domenico Defelice.
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Le promesse dei giorni di
ANNA MAGNAVACCA di Nazario Pardini
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vventure verso significanti che vanno oltre gli etimi.
Mi piaceva la luna d’avorio che baciava prima del sonno i fiori del ciliegio Plaquette di due sillogi, questa nuova avventura letteraria di Anna: Le promesse dei giorni e altri versi e Madre; trae il titolo dalla raccolta eponima. Devo dire innanzi tutto che il dipanarsi del dettato lirico si mantiene su livelli di alto spessore per architetture tecnico verbali e per varietà di contenuto. Un’opera che evidenzia gli stilemi tipici della vis creativa della poetessa, e che segna una tappa di continuità nel percorso artistico della stessa. Percorso connotato da una maniera di sentire e di dire che rende unica, inconfondibile, e personale la sicurezza del ductus poetico. Silloge arrivante, quindi, coinvolgente per il tatto delicato con cui l’autrice mette a nudo il suo essere donna, il suo vivere e il suo vissuto. Per la coscienza inquietante di veleggiare su un fiume segnato da correnti ora ripide, ora placide e trasparenti, ora rilucenti di guadi da cui appaiono ristagni di antiche memorie. E l’ anima di questa poesia è tutta in una simbiotica fusione fra abbrivi meditativi e versificazione che, per contenere tanto pathos, si avventurano in iperboli di acribia speculativa che vanno oltre le stesse regole della comune sintassi. Il verbo si fa ora duttile, ora nervoso, ora placido, ora audace in questo suo adattamento, in questo suo farsi corpo per abbracciare l’anima del canto. Veri azzardi linguistici, dunque. Elegie semantiche colorite da tanto sentire. Avventure verso significanti che vanno oltre gli etimi. E’ così che prendono forma tante figure care. Evocazioni ad invadere gli spazi sottostanti del pensiero: “(…) Coperta il mio cuore su pezzi di dolore, vento la mia voce.
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Oltre il sole messaggi a mia madre, a mio padre, a quanti ho amato e perso e mi tocca contare – aggiungere le perdite in questo cerchio mai chiuso…” ( Un giorno d’autunno), in un linguismo che fa della semplicità l’arma vincente. Linguismo che si avvale di incastri e di nessi creativi che raggiungono “pointes” di grande valenza partecipativa. Con un ardore allusivo di metafore che si apre ad una polisemica significanza ora di tensione orfica, ora, anche, dai toni epico-lirici: “(…) Resto sola, sento lo scricchiolio di una stella che s’arrampica sull’alba” (Un sabato); “(…) Sento il silenzio chiede di bere al calice di madreperla della notte” (Una domenica); “(…) Avanza il buio. Voglio pensarti libera barca in cerca di un faro di bianco corallo” (Un giorno di lutto); “(…) Appoggio il mio cuore sull’orlo di una pietra” (Un giorno di primavera). E tutto si svolge in forma ampia e narrativa. Come se la poetessa sentisse la necessità di un modus dicendi disteso per ri/vestire un resoconto di totale intimità. Un resoconto da redde rationem, zeppo di vicissitudini umanamente infinite. Umanamente troppo umane nel loro aveu diretto. Nel loro sperdimento evocativo. Nel loro abbandono ad una realtà osservata, captata, e decantata in un animo disposto a farla rivivere contaminata del suo patema. Del suo senso della vita. Di una certa stanchezza, anche, per come corrono le cose:
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“Non devo, non voglio oggi giorno qualunque fare bilanci della mia vita altrimenti lancerei tutto su un arcobaleno, uno di quelli che vedi un batter d’ali e poi ti chiedi dove può essere finito così, senza avvisaglie. Negli occhi quei colori scomparsi così in fretta…” (Un giorno qualunque). Qui presente, passato, e futuro si embricano indissolubilmente in una soluzione di reale impatto quotidiano: “… Sul tavolo alta la zuppiera dall’orlo d’oro bollicine nei concavi bicchieri. Fuma e crepita il caldo intingolo, accese sono le luci il melo ha messo i fiori (…) Il gatto ha già mangiato e si è addormentato” (Un giorno di festa); “(…) Questa mia vita non mi dà grave avviso ma quell’insistente corrosiva stanchezza delle stesse notti…” (Un giorno qualunque). Una consuetudine quasi scontata. Un vivere i fatti come se si succedessero senza novità alcuna, come se si presentassero con quella abitudinaria quotidianità a cui è d’uso partecipare. Ed è da questi fatti che la Nostra sente la necessità di svincolarsi per azzardare voli oltre, oltre certi spazi che segnano il limen del nostro vivere, che segnano notti che laceranoconsumano: “(…) E’ un cielo con l’arcobaleno fermo che io cerco, mi sussurra di una farfalla su un ramo della pensierosa bianca fronte della luna
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dello sposalizio della sera con il silenzio e salire salire salire…” (Un giorno qualunque). Sì, è là che la Nostra vorrebbe volare, oltre la terra, in cuore all’azzurro, in braccio ad un arcobaleno da cui mirare la terra rimpicciolita nei suoi travagli e nelle sue sottrazioni. Ed è l’imperfetto che spesso domina con il suo fervore nostalgico, per cui tutto sembra lisciato e ingentilito da una memoria che fa persino presente un tempo sfuggito. Che fa di un confronto, una lirica di struggente richiamo: “Mi piaceva avere capelli rossi labbra vermiglie occhi di canto sbavati di rimmel, sentire il passo pieno, il fiato caldo della vita. Mordere sulla pelle il vento il fuoco (…) Mi piaceva sdraiarmi nella rugiada (…) Mi piaceva la luna d’avorio che baciava prima del sonno i fiori del ciliegio. Adesso mi offro da bere latte caldo metto all’orecchio una conchiglia bruna, profumo d’incenso il mio scialle (labirinto di rose)…” (Donna ieri – oggi). Realtà cruda, di cui la poetessa si ciba per concludere bilanci di amare sottrazioni. Ma reagire con il sogno è forza umana. Ed il sogno fa parte della vita, ne è nerbo essenziale. Ed è meravigliosamente umano abbandonarsi ad orizzonti senza confini: “Mi piace inventare primavere improvvise sognando aperti orizzonti. Vorrei fare collane di pietra” (ibidem). C’è in questi versi la piena coscienza del senso eracliteo del tempus fugit, della fuga del giorno. Ed è così che la Nostra si intrufola nei minimi particolari, nelle cose più semplici, nelle piccole occasioni dell’esistere per farne poesia a pieno titolo etico-estetico. E’ la vita con tutta la sua portata che si fa serbatoio
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di un realismo lirico convincente, votato a sottrarre le bellezze agli annichilenti artigli del tempo con la poesia. Poesia in cui una malinconia sotterranea fa da terreno fertile per la fioritura di un canto sintonizzato alle corde di ogni cuore: “Oggi non ride il mio mare, nere vele stendono parole ferite. (…) Arrivano battono chiudono… volto mani cuore madre mia. Ultimo appuntamento. Senza pietà . Avanza il buio. Voglio pensarti libera barca in cerca di un faro di bianco corallo” (Un giorno di lutto). Sì, le cose semplici, quelle di ogni giorno: la camicia di lino, il treno, il gatto, le fette biscottate, una ninna nanna, il latte caldo, tacchi a spillo, un fazzoletto bianco ad animare e a rendere umile questo messaggio di vita e di amore che tiene in sé la complessità dell’ esser/ci: il tempo, i luoghi, i perché, il memoriale, il rimpianto e la piena coscienza di questo breve spazio che impietoso logora e consuma anche quelle bellezze che pensavamo eterne. Bellezze che la natura potente, colorita, irruente, dolce, di pulcritudine ammaliante, contribuisce a rendere visive, pronta a favorire l’ effusione sentimentale della poetessa. A rendere patologico il di lei mondo interiore, avvolgendolo ora di un mare che non sorride, quando si fa più triste il pathos del canto, ora di rivoli di neve e rosse case, di fusione di cielo e ciliegi, quando il verso è frutto di una tale esplosione estatica da fare appoggiare il cuore sull’orlo di una pietra. Sì, un mondo di amore, soprattutto. Quell’amore che si vive a pieno leggendo les pièces più crude, più amare; perché la Magnavacca ama la vita, ed un risentimento è umano quando la vita stessa sembra tradirci. Risentimenti che, però, non esistono nelle liriche rivolte a “una madre”
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che “Nel mistero della vita/ in sconosciuti labirinti/ sa andare/ giada e sole”, o a madri che “sognano aquiloni colorati/ per i loro figli” anche se “soltanto pochi/ riescono poi a tenere l’aria”. Una serie di liriche rivolte alla madre senza cadere nella retorica. Riuscendo la poetessa a non scivolare in quel campo minato in cui potrebbe portare questo tipo di argomentazione. E lo dimostra in quel X Intermezzo della II sezione (Madre) che nella sua essenzialità condensa il focus di un Poema: “Ancora madre chiamerò nella memoria gli anni belli” XXI poesie dal sapore elegiaco, anche queste, che si snodano su un tessuto confidenziale e intenso di riflessioni e repêchages di quadri e spaccati che mettono in gioco madre e madri senza mai cadere di tono sia a livello emozionale che strutturale. Una andatura etimo-fonico, di euritmica musicalità che prende sostanza e vigoria lirica ex abundantia cordis. Che sboccia nei giardini ora del reale, ora del sogno per decollare verso dolci e delicati approdi a convertire in gaudio le lacrime. Con il solito dire narrativo, dal respiro ampio e meditato, espanso ad abbracciare un’anima tutta volta all’amore, la poetessa sviscera tutto il suo sentire, sostanziato da fatti ed episodi che la memoria riporta a galla con grande trasporto. Ed è in questi ritorni che la Nostra trova tutto il riposo del suo essere. Che trova l’ alcòva dei suoi spazi esistenziali. Perché sono proprio le immagini che assumono connotati e dimensioni completamente rielaborate in seno alla scrittrice. D’altronde la realtà è una cosa, ma l’immagine viene dopo, dopo anni, ingrandita, trasformata, a lievitare dentro per farsi vera poesia: “(…) Anche mia madre mi aspettava ma come i figli delle amiche di mia madre molte volte restavo impigliata in sogni di mare
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mentre mia madre riempiva la mia assenza di dolce stupore. Amavo mia madre e adesso ancora amo mia madre che non è più (Erano tutte madri…). Ed è questa semplicità sconcertante, trapunta di impennate creative, a nutrire un “Poema” monotematico che riprende fra le mani il bandolo di un passato, cristallizzandolo in poesia. Memorialità, stupefazione, un po’ di tristezza, anche, per dei propositi incompiuti: “Dicevo a mia madre che l’avrei portata con me in viaggio – Parigi o Vienna o Londra. (…) Mia madre non ha visitato né Parigi né Vienna né Londra. Le è bastato il sogno. (…) E’ stato avaro il tempo… esalava umido odore di terra e in mano stringeva un mazzo di crisantemi” (Dicevo…). E si succedono liriche di grande intensità umana, di grande coinvolgimento emozionale: un climax tematico che tende ad ampliare sempre più gli orizzonti forse non completamente ultimati, irraggiunti; orizzonti di una vita in cui le sottrazioni, anche se arginate dal sogno, vincono sulle realizzazioni: “(…) Mia madre aveva il respiro nelle sue mani, un respiro fatto di fatica di anni di dolore e di quell’esplosione di bellezza delle madri. E le sue lentiggini… Impietoso il tempo. Quelle lentiggini le ritrovo oggi nelle mie mani (Non posso
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dimenticare). Quel tempo che ritorna impietoso nei versi della nostra a logorare le cose più sacre. E quando si tratta di vedere questa decadenza negli occhi e nel viso di una madre ancora più forte, quasi indicibile, il sentimento d’ impotenza che proviamo di fronte al potere perentorio dell’ora e del giorno sulla materialità del nostro esistere. Sul naturale evolversi dei processi naturali. Ed essere madre a sua volta permette ad Anna, forse, di comprenderne con più tensione e maggiore intensità il ruolo. Anche se resterà sacro nel nostro cuore, insuperabile, esemplare nella nostra mente, quello di una mamma scomparsa, la cui immagine continuerà a brillare di una luce diamantina sui percorsi del nostro vivere: “(…) Figli che amo, forse ricambiata ma a volte li sento lontani-stranieri come fiori in un sogno invernale (…) Riusciranno poi a rubare musica all’oscurità, luce alle stelle voce all’aurora? (…) E’ difficile essere madri, anch’io lo sono e so quanto è tortuosa la strada di una madre” (Anch’io sono madre). Nazario Pardini Anna Magnavacca: Le promesse dei giorni e altri versi - Edizioni Helicon. Arezzo. 2013. Pp. 66
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SILVANO DEMARCHI
Occaso di Liliana Porro Andriuoli
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CCASO (Salerno, Edizioni Cronache Italiane, 2012) è il titolo di una recente raccolta di versi di Silvano Demarchi, un titolo che esplicitamente allude al momento del “tramonto” della nostra vita: evento per tutti carico di intensa drammaticità. Demarchi, infatti, che negli anni giovani era portato, in quanto uomo, a guardare alla morte come cosa estremamente lontana, quasi non lo riguardasse, ora, giunto al suo “occaso”, prende coscienza che la parabola terrena assegnatagli sta ormai per completarsi e che tra non molto dovrà scomparire dalla scena del mondo. Ed è appunto quello della tristezza per la brevità della nostra vita (insieme a quello del rimpianto per gli anni della giovinezza, che con tutti i suoi beni sempre più si allontana) che costituisce uno dei motivi fondamentali di questo suo nuovo libro. Emblematici risultano a tale proposito i versi di Friedrich Hölderlin, da Demarchi posti in esergo al volume: “A noi non è concesso / posare in nessun luogo. / Scompaiono, cadono / i miseri mortali, ciecamente / travolti da una in altra ora, come l’acqua / che precipita di roccia / in roccia nell’ignoto, / per sempre” (Quando il sole tramonta). Allo stesso motivo del veloce fuggire del tempo, e quindi della precarietà e labilità del nostro esistere, è ispirata anche la poesia d’ apertura della silloge, Fiore solitario, nella quale la visione di un magnifico fiore all’apice del suo “splendore” (ancora più bello per il suo ergersi “solitario” sopra i “bassi arbusti” che gli stanno intorno) ricorda al poeta che, fra pochi mesi l’estate sarà finita ed anche quello splendido fiore (come, d’altra parte, “ogni altro fiore”) comincerà “ad avvizzire”. È questo un pensiero che lo rattrista, in quanto sa perfettamente che, simile a quella del fiore, è la vita dell’uomo, costretto a “nascere, splendere nella giovinezza / e lentamente appassire…”: un destino che incom-
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be su tutti noi. Un concetto, questo, che d’altra parte s’ affaccia pure in altre poesie della silloge; si veda ad esempio Tutto è scomparso, dove il poeta, dopo aver rievocato momenti felici un tempo vissuti, tristemente constata come “col volgere degli anni” tutto sia andato perduto; o si vedano ancora Franz e Declino, due poesie nelle quali a rattristare Demarchi è l’aspetto irrimediabilmente mutato che hanno assunto, a causa dell’avanzare dell’età, due suoi cari amici. Avviene così che, incontrando per la strada Franz, l’amico che un tempo gli era più caro1, quasi non lo riconosca e non abbia nemmeno “il coraggio” di fermarlo: “Ti tenevo/nella memoria giovane, snello/e di sorridente aspetto./…/Ed ora che ti ho visto passare/così diverso da allora, dolce amico, / non ho avuto il coraggio di chiamarti” (Franz). Sorge spontanea la domanda, qui come altrove, se a Demarchi manchi il “coraggio” di accettare la vecchiaia dell’amico oppure, a fargli paura, sia invece la propria, riflessa in quella dell’amico. Difficile a dirsi: innegabilmente viva (anche se forse non completamente scevra da un senso di immedesimazione nell’altro) è, però, la sua tristezza; e altrettanto sincero, il sentimento di umana simpatia che prova di fronte a colui che da giovane “Si guardava compiaciuto allo specchio” per prepararsi “alla gara”, mentre “Ora”, che il tempo lo ha irrimediabilmente cambiato e il suo aspetto ha perduto il passato splendore, “allo specchio non si guarda più” (Declino). Tuttavia accanto a queste poesie in cui prende campo la tristezza per ciò che la vecchiaia irrimediabilmente comporta (in verità numericamente inferiori a quelle di alcune sue precedenti sillogi, quali ad esempio Foglie d’autunno2 e Luci al crepuscolo3), ne troviamo altre in cui il nostro poeta dimostra di possedere ancora una sorprendente vitalità, che si manifesta non solo nel fluire limpido e “Du bist mein enziger Freund”, “Tu sei il mio unico amico”. 2 Cassino, Ed. Centro studi “Eugenio Frate”, 2003. 3 Recco, Genova, Le mani 2006. 1
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sicuro del verso, ma anche nel modo in cui affronta una tematica vasta e differenziata. Così, da vero poeta quale egli è, Demarchi sa nuovamente darci, anche in questo suo recente libro, testi nei quali predomina l’aspetto luminoso del mondo. Si veda in proposito l’esultante gioia che ci comunicano gli “agili pattinatori” di Feldkirche (“… nel bosco di betulle / su uno specchio di cristallo / agili pattinatori esultano / nell’ora della gioia”)4. Si veda anche la serenità che emana dai versi di Limpido lago, una poesia che si apre con una splendida visione naturalistica: “Passeggiando nel bosco / di carpini e pini, d’improvviso, / si dischiuse un limpido lago”, dove bimbi “saltellavano vispi / con gridi di gioia” e giovani si pavoneggiavano trionfanti, mentre alcune fanciulle, “adagiate” in riva al lago, prendevano il “sole del mattino”. Tutti erano lieti di poter godere del dono di una serena giornata estiva (“Per tutti si annunciava / una giornata di calma felicità”). E la gioia che può far vivere la natura a quanti sappiano apprezzarne l’eloquente fascino s’incontra sovente nei versi del nostro autore. Neve ad esempio si apre con la descrizione della profonda pace comunicata dalla visione della neve di recente caduta sul paesaggio circostante: “Questa notte a sorpresa / è caduta la neve, / si è posata sui tetti, / ha coperto i campi e le vie”. Unico desiderio del poeta in quel momento così tranquillo è di poter “Dormire come il pino / incappucciato” e “silente” e “godere la pace di quest’aria / immobile e fredda…”. D’altra parte, come il motivo dell’amore per la natura, affiorava sovente in molte poesie di Demarchi fin dalle sue prime prove, così anche ora corre sotterraneo in molte di questa sua nuova silloge. Si leggano ad esempio aperture quali: “E’ gremito di stelle il cielo / in questa notte di agosto” (Notturno) o “Sulla costa protesi i lecci guardavano / l’abisso del 4
Può essere divertente ricordare che Feldkirch, una cittadina medioevale situata nell’Austria occidentale, è famosa per il suo team di hockey su ghiaccio, vincitore della Coppa dei Campioni nel 1997/1998.
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mare” (Capri), che ci rendono intatti il suo stupore e la sua meraviglia di fronte alla natura. Quasi con prepotenza lo stesso motivo ritorna in Vita nel bosco, un testo suddiviso in sei strofe, dove il rispecchiarsi dell’animo dell’autore nel mondo esterno dà luogo ad esiti di freschissima resa poetica, come: “Sulla soglia ascolto / il frusciare delle fronde / e tutto si placa dentro di me” (Ho affittato una capanna); “Rivedo gli alberi, il sentiero / che lo scorso autunno ho lasciato / nella loro muta presenza” (Filtrano i raggi del sole); “Un bagliore di fiamma / è il tramonto” (Un bagliore di fiamma); ecc. La perdurante vitalità di Silvano Demarchi si manifesta inoltre intatta nel suo “irrefrenabile” desiderio di viaggiare: nel suo insopprimibile desiderio, tuttora immutato, di conoscere terre nuove e nuove genti: “Esilaranti sorprese / ci riserva il domani / e forte è il richiamo / di terre lontane, / perché / conoscere è vivere” (Andiamo!). Una delle sue poesie più riuscite in tal senso è Istanbul, nella quale il suo pensiero corre a questa città da lui visitata anni addietro e nella quale ebbe modo di ammirare non soltanto i meravigliosi tesori d’ arte, ma anche di godere lo splendido panorama sul Corno d’oro, come avvenne a Topkapi: “Vorrei tornare a Topkapi / su quell’ aerea terrazza / da cui si apre la vista / di Istanbul coi suoi tetti / che diventano oro al tramonto / e la tremula marina del Bosforo”. Sempre viva s’affaccia poi in lui la suggestione delle memorie che la visione di quei luoghi gli ha saputo suscitare: “… ci apparvero / nel cielo di ardesia galoppanti / guerrieri saraceni e cristiani / e opulenti sultani attorniati / da splendide schiave, Gran Visir / astuti e potenti, ed anche / gli Armeni condotti in catene / a morte”. Anche altri sono tuttavia i motivi, da Demarchi abitualmente sviluppati in passato, che vengono qui felicemente ripresi, quale ad esempio quello della solidarietà verso il prossimo, che emerge però in questa silloge in
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modo un po’ diverso dall’usuale (forse più paterno) in una poesia come Georg, nella quale l’autore racconta di come riuscì a salvare un giovane tedesco inesperto da una brutta avventura in cui stava cadendo ad Alessandria d’Egitto: “Ti salvai parlando nel tuo idioma / e portandoti via. Era un’afosa / sera d’estate dall’aria tremolante, / dal colore di perla”. Oppure in poesie come Girovagare di notte, dove incontriamo “uomini / che hanno stampata sul volto / la solitudine” e, senza alcuna precisa meta, si aggirano nella notte, i quali molto da vicino ci ricordano alcuni indimenticabili clochard di precedenti sillogi e soprattutto l’“umanità rassegnata, gettata alla deriva”5 che il poeta era solito incontrare nottetempo girovagando per gli “angiporti” delle città visitate (che erano quasi sempre città di mare). In un libro dalla varia tematica come Occaso non potevano mancare poesie di ispirazione religiosa. Ad esse è infatti dedicata l’ ultima sezione, intitolata L’Amato, che si sviluppa in sette testi. Qui la Divinità assume vari aspetti e la sua spasmodica ricerca dà luogo a liriche ricche di una forte tensione e portatrici di felici esiti, com’è specialmente della seconda, nella quale Essa appare nella veste di un pellegrino che, “lacero e stanco”, beve “l’acqua alla fontana / dal cavo della mano”. Egli è addolorato per tutti coloro che lo hanno abbandonato nel suo faticoso cammino, fatto di notti trascorse all’addiaccio e di percorsi che lo hanno condotto a varcare “il limite viola dei monti”, inoltrandosi su vie che andavano “contro tramonti d’oro”. Ora egli è solo, ma sa che il suo destino è quello di dover andare avanti, anche se nessuno lo segue. Particolarmente significativa appare inoltre la quarta di queste poesie, nella quale l’autore così si esprime: “Ogni mattina / Lo attendo / sulla sponda / vestita di rugiada. / E mentre stremato passa / (esile zattera / che uno stuolo di nere / anatre sorvola) / segretamente Lo 5
Stupore, Cerro al Volturno (IS), Ed. Centro studi “Eugenio Frate”, 2000.
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guardo, / finché le pupille / bruciano. // Per questo / l’anima trema / quando fa giorno”. Com’è evidente il Dio incontrato da Silvano Demarchi è un Dio sofferente a causa dell’ indifferenza degli uomini; ma il poeta che ne avverte la presenza Lo ama e a Lui si affida, attendendo con ansia che Egli giunga. Così nella settima ed ultima composizione può confessargli: “E ora che dei miei giorni / sono giunto alla fine, / aspetto paziente / il Tuo abbraccio mortale” (Tu sei il Signore a cui mi sento). “Allora, Tu sarai sulla soglia, / ad aspettarmi” egli dice: e sarà quello il giorno del suo ingresso nell’Eternità. Come sempre, un libro di alto livello, questo Occaso di Silvano Demarchi, ed anche di profondo sentire, che degnamente viene ad aggiungersi ai suoi numerosi già editi. Liliana Porro Andriuoli
VIOLETA PARRA 4 de octubre* "Por suerte tengo guitarra para llorar mi dolor." Violeta Parra No te olvidamos, reina de la canción chilena, musa de cuantos te han oído cantar por la revolución socialista. No la alcanzaste a ver, pero inundaste la tierra de poetas y cantautores revolucionarios y tu destino ha sobrevivido en la patria fecundada con tu canción. Algún día despertaremos con el ideal de la justicia para todos y viviremos sin las clases económicas que separan el pueblo y las naciones. Violeta Parra, ¡feliz cumpleaños! Teresinka Pereira USA *La cantautora chilena Violeta Parra nació el 4 de octubre de 1917 y se suicidó el 5 de febrero, 1967.
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IGNAZIO BUTTITTA Il poeta in piazza di Nicola Lo Bianco
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UANDO si pensa a Ignazio Buttitta, la prima immagine è quella di una piazza, di un pubblico, di un attore che occupa prepotentemente la scena. Si pensa ad un evento teatrale. L’immagine dell’evento teatrale è immediata, spontanea, non solo e non tanto per la figura del “poeta in piazza”, ma perché la poesia di Ignazio Buttitta nasce essenzialmente per essere, come dice Contini, “eseguita”, cioè teatralmente rappresentata. La strofa, la misura del verso, il ritmo, non sono dettati dalla ricerca di una formalizzazione lirica, ma rispondono ad una esigenza teatrale. La poesia per Buttitta non sono parole con le quali riempire la pagina. La parola è un semplice flatus vocis, fino a quando non si fa corpo, gesto, voce, fino a quando non si trasferisce viva e vibrante in chi ascolta. Potremmo dire, come accade nei momenti magici che il teatro riesce a produrre, che la poesia di Buttitta è corale, nel senso che è poesia in atto, creazione, che per reggersi presuppone una componente indispensabile, un co-autore:lo spettatore. Come ben sapevano i Greci, anche per questo nostro poeta poesia è poiéo: fare, agire, suscitare. E vien fatto di pensare a Lu Hsun, il grande scrittore rivoluzionario cinese, al suo rovello per il tragico/ridicolo della parola “spettro”, della parola che rimane al di qua dell’azione, e non è nulla finché, appunto, non diventa azione. C’è un passo nella prefazione a “Il poeta in piazza” molto significativo. Dice il poeta:<Pensavo tutte le volte alla possibilità di trasformare la recita in un discorso più nettamente politico, ma non riuscivo a trovare il linguaggio adatto>.
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E si capisce:prima di ogni altra avventura intellettuale, Buttitta, come Lu Hsun, è un poeta. E’ vero, se avesse potuto, non avrebbe scritto un solo rigo. Ma naturalmente non poteva. Non poteva ingannare se stesso e con se stesso quel popolo, dentro il quale era capace, come ebbe a dire, di “pescare pesci vivi”. Eppure il dubbio, il cruccio, forsanche il rimorso del privilegio di essere poeta, di tanto in tanto percorreva il suo fare poetico: ”U rancuri”, scritta nel ’69, è la più alta e commovente testimonianza di questo suo stato d’ animo. L’essere il “poeta in piazza”, possiamo supporre, fu un nobile, incoercibile compromesso. Sappiamo del suo amichevole dispetto quando, ad es., Sciascia o Vittorini gli chiedevano di poter leggere con gli occhi in silenzio il componimento, prima di ascoltarlo dalla sua viva voce. In questo senso e più profondamente, anche rispetto all’essere poeta che sta dalla parte del popolo, Buttitta è poeta popolare, l’ultimo grande poeta popolare, figlio legittimo della secolare cultura orale del mondo contadino, quando, come dice Sciascia, “il poetare coincideva con l’esistere”.Cioè, con la vita quotidiana, nell’alternanza di gioie e dolori, di accadimenti seri o buffi, entro un orizzonte forse meno ampio (ma è assunto questo tutto da verificare), ma sicuramente più autentico e profondo nel delineare lo stile e il destino di un popolo. Non a caso, la più grande poesia di Buttitta trae spunto dalla cronaca, dalla tragedia di Portella al ridicolo delle corna del marito tradito. Il grande merito, la modernità e la grandezza di questa poesia è nell’avere innalzato, trasfigurandola, la cronaca a evento storico, nell’avere tramutato la storia particolare di questo o quel personaggio, che non fanno storia, in un emblema di una civiltà superiore, in simbolo di un riscatto umano e civile. Turiddu Carnivali o Rosa Scordu, sarebbero nomi, come i tanti oggi, soprattutto oggi, di-
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menticati. Il poeta li ha tolti dall’oblio della cronaca e ne ha fatto portavoce della parte migliore dei siciliani. E di loro il popolo si ricorda come epopea che gli appartiene. Questo volevamo dire per dire che uno spettacolo su Buttitta ci sembra l’omaggio più conveniente per onorare la sua memoria. Nicola Lo Bianco
canta come un bell’uccellino, un uccellino che vola tra l’azzurro cantando l’inno australiano e l’inno italiano, sotto questo sole che scaglia i suoi raggi sulle pagine del nostro capolavoro, per ricordarci che è il nostro tesoro. Giovanna Li Volti Guzzardi
POMEZIA-NOTIZIE E I SUOI 40 ANNI
L’INCONTRO
40 Anni di splendore, 40 Anni d’amore donato dal nostro amato Direttore. Tutti i suoi numerosi lettori ogni mese gioiscono e s’immergono col batticuore tra le fosforescenti pagine di POMEZIA-NOTIZIE che vola con le ali delle parole dappertutto, per regalare la gioia della meravigliosa lettura, in pagine consacrate alla festa della letteratura. Una semplice Rivista, creata 40 anni fa da un Poeta, Scrittore, Pittore e ammiratore delle buone notizie che a braccia aperte diffonde, il Nostro Insuperabile Domenico Defelice, che tanta felicità ha sparso per il mondo con POMEZIA-NOTIZIE e il suo girotondo. Son 40 anni che POMEZIA-NOTIZIE circola a tutto tondo, da molti anni arriva pure in Australia, l’isola più grande e più lontana, ma con la nostra Lingua Italiana, più vicina che mai alla nostra Italia.
In quella Londra che io tanto amo e che giorno per giorno io scoprivo a me vicina per il suo rispetto di usanze e tradizioni e per l’immensa varietà di interessi che mi offriva; in quella vecchia Londra dove allora mi sono conosciuta ed ho provato la gioia di vagare alla scoperta di nuove genti e usanze e nuova lingua; in quella vecchia Londra ove ogni giorno in una sala da concerto oppure in una chiesa o un parco o per la via sempre ascoltavo musica … Là ti ho trovato un giorno, forse in mia attesa dietro una finestra, at number 90 di West Cromwell Road. E anche se molto tempo è ormai passato sempre ricordo il nostro primo incontro, il tuo sorriso e la tua voce dolce, e ancora in me rivive oggi il lampo che illumina da allora la mia vita. Mariagina Bonciani
Arriva col cinguettìo del kookaburra e del parrot, dei picchi, delle gazze e dei pappagalli e il venticello ballerino, POMEZIA-NOTIZIE
Melbourne, Australia, 5 – 9 – 2013
Milano
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 26/9/2013 Mentre a New York Enrico Letta rappresenta l’Italia, a Roma deputati e senatori del PdL minacciano le dimissioni in massa per difendere Berlusconi. Non ci sono più statisti né patrioti, da noi, ma solo buffoni. Domenico Defelice
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GIOACCHINO BELLI E LA PLEBE ROMANA di Leonardo Selvaggi I IOACCHINO Belli nasce a Roma nel 1791 da famiglia piccolo-borghese. Si riflettono nella sua tormentata personalità le tracce lasciate dai contrastanti caratteri dei genitori, che perde nel giro di pochi anni. La madre vivace, elegante, il padre rigido e scontroso. L’infanzia e l’ adolescenza vissute con periodi alternati di benessere e di miseria. La fuga da Roma occupata dai Francesi e la miseria trovata a Napoli, l’agiatezza subentrata al ritorno del Papa. Rimasto orfano, ha una vita di stenti e di desolazione. Si adatta ai più umili impieghi, pubblici e privati. Per molti anni è impiegato in un ufficio della curia. Inizia la sua attività letteraria. Frequenta le accademie romane, l’ Ellenica, l’Arcadia, la Tiberina. Si dedica soprattutto alla poesia dialettale. Conosce il Porta, quan-
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do si intensifica la sua opera di poeta. Il fortunato matrimonio con la vedova Maria Corti gli assicura benessere, la possibilità di viaggi, di nuove conoscenze. Entra nell’ambiente ufficiale della società romana. La produzione dei sonetti in romanesco si concentra dal 1831 al 1837, con qualche ripresa fino al 1849, mentre procede in concomitanza con quella in lingua arcadica e raffinata. I sonetti in dialetto sono 2279, tutti dedicati alla plebe romana, pubblicati dopo la morte dell’autore. Opere minori del Belli sono poesie in lingua, varie traduzioni, un vasto Zibaldone e un Epistolario. II Dopo il ’48 la sua attività di censore teatrale, esplicata con esagerato rigore. il Rigoletto, il Macbeth e il Mosè. Arriva con esasperata critica a rinnegare gli stessi suoi sonetti. La sua è una sensibilità di grande umanista con minuto verismo, nei sonetti ritrae la vita romana prima del 1849. Contro i vizi, i soprusi, l’ignoranza dei grandi e del clero. Fuori dai pregiudizi e dagli schemi vede il reale. Con il linguaggio violento, spietato del popolo denuncia l’ingiustizia e la miseria che dominano in Roma papale. La sua è una voce di ironia, di scetticismo, di ribellione, di rassegnazione senza speranza, solo nel turpiloquio vede la via di liberalizzazione dalle esulcerazioni di un animo esasperato. Nella sua opera si parla del papa, della bibbia, della religione, della ricchezza smodata e della povertà diffusa nel popolino che è interlocutore, primo protagonista. Si espongono le condizioni di un popolo negletto, superstizioso. Il Belli non interviene mai né commenta né trae conclusioni, fa agire i vari personaggi. Il giudizio morale come risultato delle considerazioni che si fanno sui falsi, antiquati, abominevoli ordinamenti politici e sociali. La raccolta dei sonetti si ispira soprattutto ai sentimenti di amore e di pietà per gli umili. Uno stato di abbandono, i riflessi di un’epoca in rovina. Il lato moralistico è quello che costituisce la nota dominante della letteratura del Risorgimento. Gioacchino Belli è un popolano come il Por-
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ta, ma è più amaro. Gli scandali e i modi di essere delle classi privilegiate formano quadri delineati con cinismo. Il suo odio è inveterato, la sua indignazione è fredda, racconta con linee essenziali, con una voce rabbiosa, avvelenata. Nei sonetti è descritto il Papato che ha perduto ogni decoro, senza principi, corrotto, immorale. Un malcostume che penetra negli strati più bassi della società. Come il Porta, il Belli va in fondo alle verità, ma con osservazioni più minute e metodiche. E’ un raccoglitore di documenti umani. III La vita della Roma contemporanea in tutti i suoi aspetti con la violenta capacità di giudizio. Spirito anticlericale contro il governo pontificio, presentato con macchiette e figurazioni caricaturali. Una vita stagnante, in putrefazione, in pagine fra le più naturali e satiriche della nostra letteratura. Con il Belli una abbonante e molteplice quantità di scene, siamo lontani dalla sinteticità di Carlo Porta milanese, che in un numero minore di componimenti delinea più numerose figure di personaggi inconfondibili. Anche il Belli ha una sua originalità in un’opera troppo diffusa e particolareggiata. I grandi personaggi e la gente umile formano un tutt’uno. L’odio per le classi ricche è giustificato dal loro perverso comportamento e dalle tristi condizioni in cui si trovano i popolani abbandonati a se stessi, affamati e disperati. Con estrema oggettività trattati sia i plebei che i patrizi, i fatti parlano da sé, davanti agli uni il tono è squallido, davanti agli altri è irruente. Gioacchino Belli, un grande poeta, con acutezza vede la sua amata città in un’atmosfera afosa, immobile, ottusa, tumultuosa. Siamo nell’ultimo periodo del potere temporale. IV I sonetti del Belli costituiscono un monumento di poesia, una testimonianza che rimane fissa nella storia dei costumi della capitale. Un narratore il Belli di grande efficacia espositiva, coglie le fasi culminanti, un ritrattista che sa penetrare in tutti i particolari. C’è della
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tragicità nell’espressione violenta. uno stato di avvilimento si comprime nella sua interiorità di elevata sensibilità davanti alle tante deprecabili disparità sussistenti fra le classi sociali. Contraddizioni che non si concepiscono. Il Belli si è formato sugli illuministi francesi settecenteschi riformisti. Tanto anacronismo in tempi di romanticismo. Impiegato discretamente retribuito, vive con una sua dignità, per un ventennio con agiatezza, sostenuto da una moglie ricca. Se il Porta è in pieno accordo con l’ambiente culturale in cui si muove, il Belli, invece, è costretto a vivere in modo sotterraneo nella Roma papalina che attraversa una delle fasi più deprimenti della sua storia sotto il pontificato di Gregorio XVI (1831 - 1846). Gioacchino Belli è vicino alla vita, alla mentalità, alle concrete situazioni della plebe romana, trova in mezzo a questa quasi un rifugio. L’ambiente è monotono, non si può agire per niente, oppressive sono le presenze di alcuni cardinali, reazionari, tirannici. Abbrutimento accanto al popolino abbattuto, si rendono possibili una saggezza amara, sconsolata, o una protesta fatta di disperazione. Si ritiene opportuno abbandonarsi al riso, senza riuscire a liberarsi da certi presagi di fine, di completo catastrofico dissolvimento. Senza remissione ci si scaglia contro il falso, il convenzionale. V Il Belli è autentico poeta, la sua arte è spontanea, rifiuta artifici e ogni forma di ipocrisia, si sente popolo con uno spirito di osservatore risentito e implacabile. La vita della Roma del suo tempo la vede come un gran carnevale, sostanzialmente tenebroso, anche nei momenti di baldoria. Trae aspetti lugubri, surreali con espressività sofferta e drammatica. Gioacchino Belli è a volte conservatore, a volte ribelle, ora anarchico, ora favorevole al patriziato, ora plebeo. Reazionario e sostenitore dell’uguaglianza. Il tempo della Repubblica Romana del 1849 lo trova sconvolto, nemico di ogni novità, in piena contraddizione con se stesso, vuole che i suoi stessi sonetti vengano bruciati, è il canonico Tizzani che
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riesce a mantenere salva un’opera letteraria importante per il momento storico che rappresenta. Diverse sono le interpretazioni che si danno alla sua opera. Alcuni la considerano fuori del suo tempo, quindi moderna: la mediocre Roma di Gregorio XVI non può dare contenuto alla sua poesia, il suo genio poetico si sottrae agli aspetti razionali e storici. Altri critici la legano all’ambiente che si vive, vedendo i sonetti realistici. Il Belli si trova in una Roma arretrata, fuori di ogni novità e progresso, vuole per il popolo riforme in modo passivo, senza la sua partecipazione. Una società meno ingiusta, più confacente alle esigenze degli umili. Al contrario del Porta, non sa vedere lo sviluppo di una società in modo integrale. C’è una contraddizione tra ragione e istinto. La sua satira, quando si avventa nella sua volgarità, nell’insulto è frutto di repressione interiore, viene non da un atteggiamento ideologico, ma da un gusto spontaneo di schernire, da un senso di spirito anarchico, in piena irruenza personale, con acerrima avversione alle norme di una società organizzata. Al popolo plebeo romano il Belli attribuisce i suoi stessi istinti e i suoi sentimenti di acrimonia ferocia e di comprensione. La ribellione che si manifesta nella risata, in espressioni audaci non costituisce azione. E’ un ribellismo dell’immaginazione. I sonetti non costituiscono solo un mondo profanatore, hanno una realtà che va ad incontrarsi con l’ umanità di Gioacchino Belli, la cui arte non è inerte, ma esprime sete di verità, prende il sopravvento sugli istinti, si fa sostanziale oggettività, diventa autentico realismo. Il Belli, rattristato da un umiliante conformismo nei sonetti ha la forza di una satira bellicosa contro lo stato miserevole in cui la Roma papale da secoli si trova condannata a vivere. Gioacchino Belli muore a Roma il 1863. Leonardo Selvaggi
ESSERCI Esserci anche quando
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indifesa ... impotente anonima tra insignificanti pensieri cammino su un binario d’incertezze furente lascio le mie lacrime calde di dolore a scorrermi sul cuore pochi i battiti … che intensi si arrendono alla sorte fatta di un’assurda realtà dove la vita è morte e la morte è vita. Lorella Borgiani Ardea (RM)
SOGNI Vanno, vengono si trattengono come treni veloci, lenti, in sosta, abbandonati in vecchie stazioni. Curiosi si affacciano al crepuscolo entrano, escono, si scambiano trasportando emozioni, amore, angoscia, tristezza, gioia. Agitano, paralizzano, cullano, illudono, la ragione eludono. Svaniscono come miraggi non appena apri gli occhi. Colombo Conti Albano Laziale
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 6/10/2013 La strage di Lampedusa “una tragedia immane” secondo la Rosy Bindi, non colpa del Governo in carica - come per il passato -, ma della Bossi-Fini e di Berlusconi non del tutto ancora sotterrato. Domenico Defelice
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CARLO CIPPARRONE: IL POETA E’ UN CLANDESTINO di Elio Andriuoli
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AUSTICO nei giudizi ed essenziale nella forma, il nuovo libro di versi di Carlo Cipparrone, Il poeta è un clandestino (Edizioni Di Felice, Teramo, 2013, € 12,00), si rivela come una penetrante riflessione sulla poesia dei nostri giorni, della quale coglie i mali alla radice in maniera lucida e convincente. La raccolta ha un valore essenzialmente satirico, dato che tende a rivelare tutto ciò che di falso e di arbitrario è stato fatto nel Novecento in nome della poesia. Si tratta però di una satira pensosa e sofferta, perché Cipparrone ama intensamente l’arte del dire poetico e si duole per tutto ciò che la ferisce e la soffoca. Il libro si articola in diverse sezioni: Le parole non bastano; Il disordine delle parole; Le parole non cadano dall’alto; Poesie sulla poesia di questi anni; Invettive; La comune strada, ognuna delle quali affronta un argomento nel più ampio discorso sulla poesia e sulla sua condizione attuale, che dimostra nel nostro autore una sicura attitudine critica, capace di scandagliare a fondo l’argomento trattato. Così, sin dalle prime poesie s’incontrano versi quali: “Scrivere è opporsi, resistere” (Scrivere è opporsi) che possono essere intesi sia come la capacità del poeta ad opporsi alle intimidazioni di chi vuole arbitrariamente dettar legge in poesia sia come la sua capacità di opporsi al nulla mediante la parola poetica. La penna “è un’arma sottile / al servizio del bene e del male” dice Cipparrone, così come possono esserlo un bisturi o un coltello, capaci di salvare una vita o di distruggerla. E la poesia può essere per chi la pratica un “amore taciuto” e persino un vizio; mentre per i più nasce da un “desiderio di comunicare”, di tendere le mani verso gli altri. L’autore ci parla in questo libro di quella che è la sua idea di poesia e del suo modo di
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coltivarla. Egli, ad esempio, ci dice che scrive “per dar voce ai pensieri” (Scrivo dimenticandomene) e che a volte distrugge le sue “vecchie carte” perché le ritiene superate (Vecchi versi). E ci dice anche che scrive e riscrive “non per lasciare il segno / ma per stanare il tarlo / dalle fibre del legno” (Togliere i chiodi) e che vive rinchiuso in se stesso, sporgendo cauto la testa dal guscio, come la tartaruga (Come la tartaruga), consapevole che “la vita ha refusi incorreggibili”. D’altra parte egli sa che “dalla deriva del corpo / a salvarsi è solo l’anima / e una tardiva saggezza” (L’ora precipita), che “la poesia è un’immensa casa senza pareti” e che “è privilegio vivere nella sua libertà”. Mentre però nella prima sezione, Le parole non bastano, Cipparrone parla essenzialmente di sé e della sua concezione della poesia, nella seconda, Il disordine delle parole, passa a criticare aspramente coloro i quali “impastano parole / come creta informe” (Ci sono poeti). Si tratta in verità di letterati più che di veri poeti, i quali all’ordine logico contrappongono “il disordine delle parole”, affastellando immagini e frasi prive di senso e usando frasi “asfittiche”, zeppe “d’oscure metafore” ed “ermetiche allegorie”, sicché alla fine pervengono ai “funerali della poesia” (Il cadavere del significato). Contro costoro Cipparrone lancia i suoi strali, osservando che per fare della vera arte “non vale abolire le virgole, / punti, cambiare accenti, / scardinare grammatica e sintassi” (Se il cielo ha le cateratte), e che non è lecito “violentare il linguaggio” per conquistare notorietà (Sperando che la semplicità torni ad essere stile). Nelle sezioni terza e quarta della raccolta, Le parole non cadano dall’alto e Poesie sulla poesia di questi anni, Cipparrone approfondisce la sua analisi della poesia dei nostri giorni, nella ricerca della poesia eterna, senza determinazione di tempo e di luogo. Interessanti sono a questo proposito alcuni versi di questi testi che costituiscono un invito alla consapevolezza da parte del poeta di quelli che sono i propri limiti: “Se il nostro vero compito/è
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quello di scrivere,/svolgiamolo con umiltà” (Le parole non cadano dall’alto). E’ noto infatti che ci sono molti avventurieri della poesia che credono di avere un grande talento: “Ci sono troppi poeti/a screditare il mestiere” (Resterà calvo il mondo). Cipparrone esorta poi i poeti a non usare “la metafora per viltà / per sospetto d’intelligenza” e a non pretendere troppo dai propri versi (Altri verrà). Nelle Invettive, che costituiscono la penultima sezione, la parole del nostro poeta si fa più pungente e più acuminato il suo verso, come avviene in Epitaffio per un poeta libertino, che così termina: “Cambiò spesso metro e stile / così come mogli e amanti” o in A un poeta logorroico, che così si conclude: “C’è chi ha il vizio / di fumarsi cento sigarette al giorno, / chi di scrivere migliaia di versi all’ anno”. Cipparrone però, da vero poeta, è capace di fare anche dell’ironia su se stesso: “Poesia, sono un tuo figlio, / spurio, illegittimo, indesiderato / che tuttavia esiste / e invano cerchi di nascondere; / sono la tua vergogna, / prova del tuo giovanile peccato” (Anch’io t’ appartengo). Da ultimo La comune strada, dedicata a Carlo Betocchi, conosciuto da Cipparrone in occasione di un viaggio compiuto da questo noto poeta a Cosenza. Durante il suo soggiorno in questa città Betocchi confidò a Cipparrone che “c’era nell’italica triade / dei sommi poeti del tempo / chi godeva d’eccessiva fama” (Betocchi) e gli diede anche altre notizie su Piovene e sul suo Viaggio in Italia, oltre a fargli intuire il suo animo di uomo appartato e schivo. Cipparrone conclude: “Capii allora che il destino / dei poeti è nascondersi, / che il poeta è un clandestino” (Ivi, 4). Un libro profondo quest’ultimo di Carlo Cipparrone, Il poeta è un clandestino, che, pur ribadendo il valore incontestabile della poesia, pungola e ridimensiona molti che la praticano forse abusivamente, dandoci tuttavia delle linee guida per coltivarla nel modo migliore, al fine di raggiungere risultati non effimeri. Elio Andriuoli
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IL COLORE DEL VUOTO Attimi di cecità o di silenzio. Poi, l’arrotolarsi su di sé di ogni cosa, il dissanguarsi della memoria, il sonnambulismo e l’amnesia, lo specchio uniforme e immemore che sta tra la vita e il sogno, tra il sogno e il sonno-morte... E il pensare al domani con distacco. E la gelida solitudine e il vuoto... Soprattutto, il colore del vuoto, che è, di tutti, il più indelebile... Il colore del vuoto immaginato come espansione di ghiaccio sulla vita dell’uomo. Una vera e propria glaciazione, che assume varie trasparenze in questa esistenza che tende, ora al gomitolo, ora alla spirale, ora alla martellata lentezza, ora alla mirabile contemplazione del nulla... Il colore del vuoto! Il più triste, il più amorfo, il più spento dei colori. Un sogno negativo ed esasperante. Un vento che fa evaporare i sogni. Un distruttore violento di ogni recidiva speranza. Flavia Lepre Arona, NO
LA COMETA Allarmò la notte la sfera di fuoco che emerse lacerando il buio metallica luminosità, regina del silenzio un balsamo lento, rugiada d'argento fino a che l'occhio contemplò il corpo celeste, la nutrì il tenero cielo, fra costellazioni afflitte, vibrò il suo regno di suoni celesti e pianse sola nell'immenso spazio. Adriana Mondo Reano, TO
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PAOLA LA PICCOLA di Paola Insola
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AOLA non sapeva che il suo nome significasse “piccola”, ma aveva pochi anni e già la sua fantasia si era rifugiata in quel giardino che si affacciava su una stradina sassosa, percorsa, due volte al giorno, dalle pecore in periodico andare verso il pascolo. Un mondo, il suo, circoscritto da un cancello e, dentro, i fiori e, tra i fiori, tante vite per la sua immaginazione. Spesso si chiedeva come facessero le rose, che in boccio avevano i petali ben distesi a formare un cono rovesciato, a sbocciare piegando la corolla all’esterno. Forse, concluse, per accogliere la rugiada, perché ogni mattina lei potesse ammirare l’incanto di quelle goccioline sul ricettacolo del fiore. Spesso, con le manine a conca, accoglieva una rosa e vi affondava le labbra per dare un bacio alla bellezza. Si chiedeva pure dei garofani rosso porporino e del perché dei lembi dentati del fiore. Da crochi, bianchi e violetti aveva il primato dell’emozione a primavera, quando i loro petali si schiudevano tra le foglie secche che avevano scaldato la terra in inverno. Amava la pudica riservatezza delle violette che facevano capolino tra i fili d’erba. Così piccola, si era impratichita a riconoscere i profumi del giardino; chiudeva gli occhi per trovare fino in fondo il cuore dei suoi fiori. Quando venne il tempo andò a scuola, ma non si distingueva per profitto. La sua fantasia volava sui numeri, per lei connessi alle foglie, ai petali dei fiori, alle zampe degli insetti... Solo le poesie erano studiate con particolare devozione e recitate con garbo. Qualche volta cambiava una parola del testo e quando veniva ripresa dalla maestra, diceva semplicemente che la sua versione della poesia aveva un “suono migliore”. Spesso l’ insegnante sorrideva, ma non sapeva comprendere quella bambina che nei componimenti non trovava le parole. Paola aveva difficoltà a descrivere la grande emozione che ogni giorno viveva nel suo giardino, ad occhi aperti, ad occhi chiusi, a mani
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aperte sul velluto dei petali. Lei, ancora così piccola, sapeva entrare nel talamo dei fiori foggiati a coppa, nel turbante del tulipano, nella vanità del narciso, nella voluttà della calla. Le rose erano le sue inseparabili, preziose amiche. Si fermava incantata su ogni girandola di corolla, ne fissava le sfumature e con le dita seguiva la delicatezza dei lobi, fino agli stami dai lunghi filamenti. Immaginava di poter entrare nel fiore lungo il pistillo e di trovare riposo tra i peli cotonati dei semi. Il nido, nell’ ovario della rosa, era la sua immaginaria piccola dimora, dove poteva trovare la ragione per restare minuta e visitare la bellezza. Un giorno trovò le parole, ma la strada oltre il cancello era stata asfaltata. Dietro la siepe di ligustro il giardino continuava ad offrire un fantastico indizio di bellezza che i libri non contenevano. Paola e il suo piccolo mondo. Paola che non voleva crescere perché fuori dal cancello le automobili passavano veloci. Dentro il cancello la quiete, i petali che s’inarcano, coccinelle sui calici dei gigli... Cresceva la sua emozione in un viaggio sempre nuovo con la bellezza. Incominciò a contemplare i pensieri, unirli in corimbi per farne dono. Continuò a credere nella fedeltà delle piccole cose. Imparò ad uscire dal silenzio e ritornare al silenzio e poi compose il tempo che ha un inizio e una fine. Si nutrì, assaporando a lungo le parole prima di consumarle. Compose l’accordo tra il senso e tutti gli altri suoi sensi e armonizzò molecole di suoni per cantare l’incanto. Quando scoprì il significato del suo nome, già sapeva coniugare i pensieri, ma comprese la realtà velata nel “tragitto di volo di una parola”*. Come la piuma fuggita al passero, così la parola s’allontana, si impenna, si eleva, ritorna... si posa, s’innalza ancora. Se non si appiglia a qualcosa il suo volo può essere incessante. Solo un piccolo cuore può catturarla nella griglia dell’armonia. Paola. Nel suo piccolo mondo ancora la trovate. Offre poesie a quelli che passano sulla strada asfaltata. Paola Insola * “Chi può prevedere il tragitto di volo di una parola?” Virginia Wolf
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Luci della capitale di Noemi Lusi
IL CAMBIAMENTO... INVOLONTARIO
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UANDO usciamo per andare al lavoro può capitare che siamo parzialmente addormentati, lievemente preoccupati o fortemente stizziti tanto che percorriamo il nostro tragitto con il distacco apatico che ci pervade al risveglio. Le macchine scorrono intorno a noi, ci precedono o ci seguono come ogni giorno da anni e soltanto un atteggiamento scomposto o scorretto ci riporta al reale, ma proprio e solo per il tempo necessario per chiedere scusa se da noi è dipeso o per incrementare il tasso di fastidio che langue nel nostro subconscio. Non diamo occhiate attente né ai negozi che dovrebbero essere già aperti, né all’edicola dove qualcuno di fretta scende, paga, prende e riparte. Insomma ciò che ci circonda ci risulta ovvio, non stimolante, immutabile, in qualche modo e quindi non oggetto della nostra attenzione. Dunque, potremmo dire superficialmente e avventatamente che in fondo tutto intorno a noi svolge la sua funzione in una serie senza numero di puntate ripetitive che talvolta sono dirette da persone semplici, ma che sanno mantenere il ritmo della normale, pacata vitalità. Se ci concentriamo un attimo di più, se usciamo dal nostro semi-isolamento quotidiano, non sfugge al nostro sguardo che le vetture in strada sono certamente diminuite, perché altrimenti continueremmo a rimanere invischiati sul raccordo anulare con maggiore frequenza di quanto non accada ormai da tempo. Posto, poi, che allargando lo sguardo si conferma in modo netto questa ipotesi, non è difficile dedurre che forse l’aumento del prezzo del gasolio e della benzina esercita un ruolo non marginale.
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Poiché l’attenzione attivata si amplia e si rigenera, si comincia a notare anche che l’ immagine del ristorante di medio livello, che ancora si sceglie di frequentare anche se molto più raramente di quanto non fosse possibile nel recente passato, non è più caratterizzata dall’affollamento di prima. Sovviene allora che ai molti camerieri che sfrecciavano nella sala da un tavolo all’altro, se ne sono ora sostituiti due soltanto, in piedi eretti come si conviene, ma tendenzialmente inerti. Diversamente da prima, inoltre, sfila, nel tempo, personale di ogni età, dal non più giovane trentacinquenne ai vari immigrati, che vengono evidentemente chiamati occasionalmente, al dignitoso, attento, attempato signore che lavora con una precisione nei modi e nelle intenzioni che costituiscono quasi esclusivo retaggio di un ormai non più recente passato. Quando ciò o altro è stato notato, si aprono scenari frequenti a conferma di queste osservazioni. Andando a fare la spesa al supermercato di zona, mi accadeva quotidianamente in passato di incontrare una persona, presumibilmente padre che, accompagnato da una bambina, chiedeva l’elemosina davanti alla porta d’ingresso del grande magazzino. Certe immagini si ricordano soltanto quando vengono sostituite e quando si nota che al posto di una persona ce ne sono quattro – anche un giovane di colore, una adolescente, un anziano discreto nell’approccio e qualche passo più in là, forse per timidezza o sperando di colpire di più l’attenzione o, anche questo è possibile, perché non gli viene permesso di avvicinarsi in prossimità degli altri vista la forte concorrenza in questa attività, si rimane decisamente scossi. Sicuramente ad ognuno di noi non è sfuggito il vuoto inquietante negli scaffali che corrisponde all’offerta particolarmente vantaggiosa di cui evidentemente si avvalgono i clienti molto mattinieri. Ci capita, ancora, di rilevare che non tutti i negozi al mattino aprono per un lungo periodo. Non sappiamo il perché ma, da quanto poi si ha l’occasione di sentire dai vari servizi
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radiofonici e televisivi, deduciamo che forse quando saranno riattivati non ci saranno gli stessi venditori, ma altri che a loro volta tentano di avviare un piccolo esercizio commerciale per guadagnarsi la sopravvivenza. Con l’osservazione della realtà che ci circonda non si intende tracciare un quadro pessimista, ma soltanto evidenziare comportamenti cui gli italiani sono costretti ad attenersi non riuscendo a modificarne la causa. Il dibattito sulla ‘responsabilità’ è sempre aperto ma, talvolta, si ha l’impressione che non si giungerà prossimamente ad una soluzione accettabile in tempi brevi. Nel frattempo, i giorni passano e ci vedono operosi tessitori di una tela che, per quanto ben lavorata, risulta sempre troppo corta, malgrado l’impegno, le competenze e la volontà. Non ci resta che continuare a ‘fare’, osservando e fortemente sperando di non rimanere, come spesso accade quotidianamente al telefono con servizi di comune utilità, in lunghissima, estenuante, demotivante, assolutamente sterile, anche se operosa, attesa.
“CIAK - C’ERA UNA VOLTA UN GENIO... AZIONE...” UALCHE secondo e scompare un’ anima… Un microsecondo e proprio non c’è più un punto di riferimento per il cinema intero, una pietra miliare del firmamento dei grandi di un’ Italia talvolta divisa, ma sempre unita dal e nel coraggio, sempre coesa nel dolore, sempre solidale con chi soffre… Incommensurabile tristezza in Via dei Gracchi. Il grande Carlo Lizzani, noto regista dei nostri tempi, non c’è più. Dicono che scompare per sua volontà, ancora una volta, come sempre, abile artefice del suo destino, ancora sceneggiatore del suo copione, tristemente direttore di sé… Era una persona che avrebbe voluto diventare scrittore e si è proclamato regista, che
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spesso, in più di un’occasione, amava sottolineare che un ragazzo dei suoi tempi viveva il cinema come dominato dalla figura dell’ attore o da quella della casa di produzione, ma non certo da chi il film lo dirigeva. Era un giovane della sua epoca che, appartenente ad una famiglia della media borghesia, si era avvicinato a questo mondo, per sua stessa dichiarazione, attraverso frequentazioni domenicali del cinema Barberini di prime visioni di film a prezzo ridotto. Era amante della scrittura anche, ma non solo, perché abituato a vivere la passione nutrita dal padre che aveva il piacere di redigere articoli che venivano pubblicati sul Giornale d’Italia, la Tribuna, il Messaggero, giornali del tempo e perché aveva, da anima sensibile, saputo percepire il dispiacere vissuto dal genitore per non essersi potuto dedicare, a causa del suo lavoro, a questa attività in modo più intenso. Avrebbe voluto in qualche modo, per sua stessa asserzione, poter portare a compimento il suo desiderio. Era una uomo che ad un’intervista del marzo 2009 aveva risposto che di progetti ne aveva tanti, sia cinematografici che per la televisione che riteneva un veicolo di prodotti di qualità e di ricerca. Era un individuo consapevole che alla domanda relativa alla sua esperienza di partigiano rispondeva che, durante l’occupazione tedesca a Roma, già in contatto con amici più grandi di lui, provò a svolgere un’attività di resistenza, nell’ambito dell’organizzazione studentesca clandestina, diventando dirigente, organizzando scioperi e bloccando anche l’ università, attività che fece maturare in lui interesse verso questa tematica tanto da costituire l’oggetto, nel 1951, del suo primo film ‘Achtung! Banditi!’ sulla situazione a Genova. Era una figura che vedeva il cinema come qualcosa che richiede amore sviscerato e notevole sacrificio, forse proprio per la precarietà ad esso inevitabilmente connessa, che consigliava ai nuovi registi, per poter produrre a livelli di eccellenza, di rimanere assolutamente in ‘collegamento con gli altri linguaggi’,
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con quello dei pittori, dei musicisti, di curare la scrittura dei copioni per assicurarsi la possibilità di trovare consensi, di leggere molto, per poter scrivere in maniera ‘corretta, affascinante’… ‘Una persona serena, distesa, ti mette a tuo agio’ fu la definizione di Dario Fo di un paio di anni fa, ‘uno che conosce il cinema, che ama il cinema, non solo ma anche proprio un grande storico del cinema’ quella di Giancarlo Giannini, ‘un uomo colto e sensibile’ quella di Giuliana De Sio, ‘soprattutto un uomo vero’ quella di Giovanna Ralli, ‘mi piacque subito il suo stile, il suo modo di girare…’, quella di Michele Placido, un uomo che ‘ti dà una grande tranquillità’ nelle parole di Franco Nero, che ha ‘una classe tutta sua, tutta particolare’ secondo Stefania Sandrelli, ‘un regista che sapeva dirigere gli attori molto bene’ come asseriva Virna Lisi… E’ questo uomo che oggi è venuto a mancare e che ha lasciato e lascerà un grande vuoto non solo presso i suoi familiari, il cui dolore rispettiamo e cui vanno le nostre più sentite condoglianze, ma anche presso il suo pubblico, non più giovanissimo, i suoi ammiratori, che ne hanno osservato le gesta, i suoi collaboratori che hanno avuto il privilegio di vivere ed assorbire la sua enorme esperienza, la gente comune che ne ha apprezzato il valore, gli studenti che hanno avuto modo di ascoltare le sue conferenze, il popolo italiano che è fiero di poterlo annoverare fra i propri grandi. Ciao, Carlo! Grazie e … sarai sempre con noi.
UNA “GEMMA” D’UOMO, UN SIGNORE ATTORE 07 ottobre 2013
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RA un appassionato del cinema americano, ragazzo nell’epoca in cui le storie avventurose erano portate sul grande schermo proprio da attori come Gary Cooper, Burt Lancaster o, più tardi, da Marlon Brando… La generazione del dopoguer-
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ra, finito il fascismo, visse il periodo in cui il film statunitense ruppe gli argini per inondare gli italiani di novità e modernità. Giuliano Gemma si definiva uno del dopoguerra, la cui infanzia era stata travagliata, divisa fra studio e necessario lavoro, lo sport, la ginnastica artistica, il pugilato e fu proprio la base atletica in suo possesso che gli permise di farsi notare come valido stuntman dal cinema italiano, giungendo perfino ad essere scelto, poi, da Billy Wilder in ‘Ben Hur’, comparendo quindi fra attori del calibro di Charlton Heston e Stephen Boyd. Successivamente lavorò con Blasetti, poi con Tessari nel famoso film Cult ‘Arrivano i Titani’, sempre grazie alle sue doti acrobatiche procedette nella sua carriera con tanti registi che lui stesso asserì essere stati suoi grandi maestri. Si distinse poi nel Gattopardo di Visconti, a lato di Alain Delon ed in un’intervista asserì che essere su quel set risultò estremamente interessante anche per il modo di procedere del regista, così esigente, come ogni grande professionista. Si fece notare nel genere del western all’ italiana, prima snobbato, oggi recuperato a livello mondiale, ma non volle accontentarsi, continuando a cambiare genere per l’esigenza di esprimersi in modo diverso, per la curiosità di cimentarsi in qualcosa di nuovo. Era un uomo di indubitabile bellezza che viveva la sua elegante avvenenza con estrema sobrietà, come se non lo riguardasse. Era un professionista di indiscutibile talento che navigava lungo i sentieri del cinema, senza fare rumore, con classe e stile unici. Tante le personalità di spicco presenti ieri al Campidoglio, da Carlo Verdone a Nino Benvenuti, Stefania Sandrelli, Franco Nero, Alessandro Haber a Carla Gravina che, insieme a tanta gente del popolo, hanno sentito l’ esigenza di rendere omaggio a Giuliano Gemma nella camera ardente allestita nella Sala della Protomoteca a Roma. Sul grande schermo, nella stessa sala, scorrevano le immagini dei film più noti dell’ attore. Erano quattro i picchetti d’onore allestiti
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fra cui quello del Presidente della Repubblica. Nel salutarlo per un’ultima volta, Benvenuti lo ha oggi descritto così: "un marito irreprensibile, un amico generoso, per me un fratello, che non avrei mai pensato di dover lasciare in questo modo. Non ti dico arrivederci, a presto, ma credimi, lo vorrei. Buon viaggio e un abbraccio forte, forte, forte... ciao". Ciao, Giuliano, attore, gran signore, uomo che ha saputo, sottovoce, esprimere talento, fierezza, dolcezza, coraggio, passione, volontà e tenacia con estrema, dignitosissima pacatezza. Mancherai molto anche a noi… Noemi Lusi
FINESTRE ACCESE Da quattro fili tesi ha ritirato Liliana i panni stesi ormai asciutti. Ceci, l’altra vicina appresso, i gerani ha irrorato sul balcone. Io ceno presto. E la tovaglia ho scosso per i merli e pei fringuelli del querulo mattino. Ed è già sera. Dalla finestra sul retro della casa, oltre il giardino dal sontuoso cedro, vedo il palazzo che mi sta di fronte, dalla facciata con cento finestre, in parte accese a rischiarar ritorni dall’opra usata, la famiglia unita, e fumante la cena sopra al desco. E poi parole, i soldi per la spesa, con l’ansie ed i timori, i pianti, i drammi che pure sempre questa vita impone. Poi s’annera la sera e si fa notte: a poco a poco rabbuian le finestre, la quiete cala nel giardino, mentre i lampioni accesi levano spettri d’alberi e cespugli. S’alluna il nero. Le luci spengo delle mie finestre: con l’ombre par s’aggravino i pensieri.
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Su quattro note l’usignolo amico, fido compagno della nera insonnia, sul ramo di magnolia mi rinnovella il canto suo notturno che in parte m’asserena e mi consola. Serena Siniscalco Milano, settembre 2013
NUOVA CANZONE DELL'AZZURRO Sembra che il mondo sia fuori di testa come non mai, e soffra di antichi e nuovi mali o comunque, imperterrito, vada per la sua strada, senza ascoltare poeti ed artisti ( coi quali, al massimo, ci si “diverte”). Dopo decenni di telegiornali ho ancor più bisogno di una pausa d'azzurro, di respirare aria normale e di ascoltare musica celestiale, di fare indigestione di turchino e di glauco, di zaffìri e lapislazzuli, di volare a perdifiato in un cielo banalmente, dolcemente, ceruleo, di sprofondare in un crepuscolo chiazzato di indaco, in un mare turchese, o cangiante in tutti i toni di blu. Basta con le troppe falsità mediali, coi colori ed i fiori artificiali, lasciatemi ogni tanto sognare, in giardino, tra agapanthos e petunie, convolvoli e fiordalisi, primule e spadoni, anemoni e giacinti, borragine e rosmarino ! Luigi De Rosa ( Rapallo, Genova) ( dalla nuova silloge, di imminente pubblicazione, “Fuga del Tempo”, vincitrice del Premio “I Murazzi-Città di Torino” - prefazione di Sandro Gros Pietro – Gènesi Editrice, Torino )
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Novembre 2013
I POETI E LA NATURA - 25 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
PUBLIO VIRGILIO MARONE Il poeta dell' “Eneide” è anche l'autore delle “Bucoliche” e delle “Georgiche”
I
l poeta latino Publio Virgilio Marone nacque ad Andes (Mantova) nel 70 a. C. e morì a Brindisi nel 19 a. C. Visse quindi per cinquantuno anni, tutti immersi (ovviamente) nella cultura pagana, con un approccio e un'interpretazione della Natura lontani ( ovviamente) dal messaggio cristiano, e quindi lontani da quello spirito che avrebbe animato, invece, nel Milletrecento, un Francesco d'Assisi, che avrebbe adorato la Natura acriticamente e misticamente, come riflesso terreno di un Altissimo e Onnipotente Signore. Virgilio può essere avvicinato ai filosofi greci che trattarono della Natura, e ad Epicuro, e soprattutto a Tito Lucrezio Caro, che avrebbe tradotto nella poesia del De rerum natura la filosofia di Epicuro. Ma grandi sono le diffe-
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renze tra Virgilio e Lucrezio. Mentre questi, per esempio, dichiara senza remore il proprio sostanziale ateismo ( non c'è un unico Dio creatore, ma ci sono vari Dei, che per giunta passano il tempo immersi nei fatti loro, disinteressandosi sia della Natura che della vita umana), Virgilio canta nei suoi Poemi una religiosità sana e “ragionata”, una pietas a fondamento della famiglia e dello Stato, senza eccessi né in un senso né nell'altro. Virgilio visse e crebbe in un ambiente agreste, di contadini proprietari e benestanti, dediti all'agricoltura in un ambiente naturale fertile e generoso. Fece studi elevati, prima a Cremona e a Milano, poi a Roma. Conobbe importanti uomini di cultura tra cui Vario Rufo, e conobbe il poeta Orazio, nonché il giovane Ottaviano, che sarebbe in seguito diventato Augusto, il primo Imperatore romano. Contemporaneamente all'accrescersi della cultura, nacque e si rafforzò sempre più, in lui, la vocazione poetica. I tumulti politici seguiti all'assassinio di Cesare, la battaglia di Filippi, lo fecero cadere in disgrazia agli occhi di Augusto. I suoi terreni nel Mantovano vennero confiscati e distribuiti ai soldati veterani. Per consolarsi di queste gravi sventure, che lo avevano particolarmente afflitto, scrisse le Bucoliche, dal 42 al 39 a. C. Il libro piacque molto a Mecenate e allo stesso Augusto, che presero l'Autore sotto la loro protezione ( con annessi e connessi vantaggi). In un clima di ritrovata tranquillità politica e privata, Virgilio potè comporre in sette anni ( fra il 37 e il 30) una seconda opera poetica, le Georgiche, ampio e approfondito poema didascalico, che, insieme a Mecenate, lesse all'imperatore Augusto. Maturavano, così, i tempi e le condizioni per la concezione e la stesura del poema capolavoro dell' Eneide, che avrebbe cantato le peripezie dell'eroe troiano figlio di Venere e Anchise, fuggito dall'incendio di Troia e sbarcato nel Lazio, con un destino da “progenitore” di Roma. Le Bucoliche ( sottinteso Càrmina, canti, canti di pastori) sono dieci ecloghe o egloghe ( poesie scelte, in esàmetri) ambientate nella regione montuosa del Peloponneso chiamata
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Arcadia. Si tratta di un genere di componimento che ricorda gli Idillii pastorali di Teocrito. I paesaggi non sono reali, ma immaginari e statici, frutto di fantasia, al di fuori di un tempo e di uno spazio ben definiti. La poesia “bucolica” e il fenomeno letterario dell'Arcadia significheranno anche in seguito uno stile di vita semplice, secondo natura, un mondo poetico di amore e di amicizia, di pace e di consolazione dello spirito, lontano dalle amarezze della realtà quotidiana della vita e del mondo. Nelle loro forme più estreme di astrattezza, rischieranno di sfociare in rappresentazioni di affettazione e di inautenticità. Siamo comunque lontani dalla “scientificità” e dalla drammaticità dei paesaggi e dei fenomeni naturali del “De rerum natura” lucreziano. Escono da questo quadro due egloghe, la Prima e la Nona, nelle quali Virgilio accenna a dati reali della propria vita, a carattere autobiografico. Ma in generale le Bucoliche richiamano un mondo di dolce consolazione dell'angoscia ( già allora ! ) di cui è intrisa la vita degli umani. Questo concetto di angoscia umana che viene lenita dalla vita pastorale e agreste costituisce comunque una nota di indubbia originalità, se si pensa che l'angoscia ( Angst) e Sigmund Freud verranno solo molti secoli dopo. Prima verranno il razionalismo del Settecento e il pre-romanticismo del Baretti e di Vittorio Alfieri a respingere con decisione la letteratura e la poesia dell” Arcadia”, che erano state accettate e seguite, invece, da altri letterati, fra cui Pietro Trapassi detto Metastasio. La seconda opera poetica di Virgilio, come accennato sopra, è rappresentata dalle Georgiche, un poema didascalico articolato in quattro libri per complessivi 2188 versi esametri. Nel poema (il cui nome deriva dal verbo greco gheorghèin, coltivare i campi) Virgilio descrive i vari tipi di coltivazione e di allevamento conosciuti e praticati nell'antichità. Il primo libro è dedicato al lavoro dei campi, il secondo all'arte e tecnica di coltiva-
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re le piante ( specie l'ulivo e la vite), il terzo libro tratta dell'allevamento del bestiame nobile ( come cavalli e buoi ) e del bestiame minuto. Infine, il quarto libro è dedicato specificamente alle api e all'apicoltura. Ciascuno dei quattro libri comincia con un prologo e finisce con una favola mitologica. Gli “insegnamenti” non sono noiosi, ma esposti con uno stile poetico assai piacevole, e inframmezzati da immagini e personaggi del Mito. Le Georgiche sono un'opera di poesia pura (didascalica, appunto. Non c'era soltanto la poesia lirica, ma anche quella didascalica, quella gnomica, quella elegiaca, etc.) Poesia sì, ma anche nozioni utili e pratiche. Per poter scrivere un tale tipo di opera, Virgilio si dovette documentare accuratamente, per anni, su una vasta bibliografia, tra cui ci limitiamo qui a ricordare il De agri cultura di Catone, il De re rustica di Marrone, Erga kai emèra ( Le opere e i giorni, del greco Esiodo, “fondatore” del poema didascalico), le Georgiche del poeta greco Nicandro. Dobbiamo pensare alla Natura generosa e “semplice” di oltre duemila anni fa; agli strumenti e attrezzi agricoli di allora ( in assenza di meccanizzazione); alle condizioni ambientali e alle conoscenze teoriche e pratiche di quei contadini e allevatori; al rispetto e all'amore per la Natura, della quale la società industrializzata e civilizzata di Ottocento e Novecento hanno poi fatto, troppo spesso, scempio... Nelle Georgiche la natura è rappresentata nella sua semplicità quotidiana, senza le stilizzazioni e le astrattezze delle Bucoliche. A differenza che in queste ultime, le piante e gli alberi, gli animali, gli agricoltori e allevatori sono visti e resi poeticamente nella loro terrestrità concreta, non già inquadrati in uno schema astratto e predeterminato. La coltivazione e l'allevamento mirano non solo al benessere materiale dell'uomo, ma alla sua elevazione spirituale. Le doti dell'ingegno e della forza fisica non sono disgiunte ( anzi!) da quelle di carattere morale. L'elevazione morale dell'uomo attraverso la Natura, è questo l' obbiettivo del poeta ed artista Virgilio. Que-
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sto metodo spirituale e morale rende il poema un unicum nonostante l'eterogeneità delle fonti e dei materiali occorsi per forgiarlo. Se pensiamo che il tutto è pensato e sentito in un'epoca così lontana, anteriore al Cristianesimo, non possiamo non ammirarne con cuore sincero la potente originalità. Luigi De Rosa
IL GRIDO Quando si fa sera arriva dagli angoli bui della casa un’ostile angoscia, che ti attanaglia l'anima, il tuo corpo è quasi indifferente a quel freddo gelido che s'insinua nelle tue membra. Ora si fa tardi, prepari la cena senza entusiasmo, i tuoi movimenti sono dettati dalla noia quotidiana che non ti lascia mai. I tuoi pensieri si accavallano in tante paure che salgono dalle tue viscere e vanno al cuore e si sciolgono in un grido di aiuto, inascoltato. E',già qui, senti girare le chiavi nella toppa,
IL TUO PADRONE E' ARRIVATO
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LA NOTTE La notte si aggira per la casa attraverso i riflessi; conosce tutti i posti, si ferma vicino ai vetri limpidi, alla penombra che fascia le finestre. Riempie gli angoli, sul marmo del pavimento è leggera appena coperta da una veste discinta. Quando sembra fuggita allora più vigile la sua presenza viene accanto impudica vedendoti ogni momento; s’affaccia per sorridere alle cose che si vogliono nascoste. L’occhio tacito vaga per la casa, le righe sulla parete sono nette; l’ombra si intensifica, la notte ti è addosso ti sveste. Sente la mente il velo della trasparenza. I pensieri della notte sono setacciati, le scorie sono rimaste vicino alla porta sulla pelle delle scarpe. La notte vuole le parole vere, è un’amante drammatica, guarda sulla pupilla afferrandoti per le mani. Leonardo Selvaggi Torino
E' torvo inviso, ti apostrofa subito in modo violento. Tu neppure lo ascolti, avvolta come sei nel tuo manto gelido, e non rispondi, tanto è inutile. Contro la sua malvagità non c'è che l'indifferenza. Tu pensi già a domani.... Certamente qualcosa farò, lo denuncerò, lo dirò a tutti, si domani.....domani
NOCHE
E ti ritrovi a terra, ferita quasi morta di dolore e paura, botte sul tuo corpo inerte, tante botte da quella bestia feroce, che tutto vuole e nulla dà. Il tuo futuro, la tua salvezza è nelle tue mani, coraggio forse domani risorgerai... Adriana Mondo
Empiezo a vivir cada noche, esperando olvidar las tormentas del día. En alguna parte del mundo sé que alguien traspasa el tiempo con un vendaval igual que el mío. Yo sólo quisiera darle mi mano compañera esta hora en que las sombras amenazan el propio verso... Pero escribo. Teresinka Pereira
Reano, TO
USA
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(Disegno di Serena Cavallini)
Recensioni SILVANA ANDRENACCI MALDINI (e altri) DIAMANTI AL SOLE Ed. Universum, Rocca di Caprileone (ME) 2005, Pagg. 28 Diamanti al sole, titolo attraente, di una pubblicazione collettanea, a firma di Silvana Andrenacci Maldini, di Giovanni Campisi e di Lisa Choi. Senza nulla togliere ai singoli poeti, la mia attenzione è indirizzata alla poetessa Silvana. La collana è curata da Renza Agnelli nelle Edizioni Universum alle quali la Nostra ha collaborato per diversi anni quale critico letterario, curando, a sua volta, la rassegna libraria internazionale “libri in vetrina”. La piccola raccolta di Silvana Andrenacci Maldini, comprende sette componimenti che palpitano del sentimento d’amore, pur in presenza di una sottile amarezza. Ama la sua Roma, tanto che la prima poesia, che si intitola Sonetto a Papa Giovanni Paolo II, è scritta in romanesco, in cui riporta una frase d’esordio del Pontefice: “Damose da fa, volemese bene.”, aggiungendo, ella: “Sto concetto l’hai detto ner dialetto/ de noantri, che, pe’ carmà le pene” ecc. Ma soprattutto, amore di incanto dinanzi a un quadro del pittore Ennio Maldini, in arte Maldén, contemplando il quale recita: “C’è un cavalletto/ con la tela bianca;/ non c’è l’Artista…/ Ma il Fuoco Sacro/ riscalda la stanza!”. Grande è il senso di solitudine per l’assenza del pittore, ingigantita dall’ellissi dei puntini di sospensione, che, comunque, ha lasciato l’impronta della sua “fiamma che lo
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brucia!”. E non poteva essere altrimenti, la perdita del legame terreno, il cui spirito non è mai sopito. Compenetrandoci nei suoi versi avvertiamo le ferite dell’anima che vengono lenite dalla Poesia, cui l’Andrenacci fa esplicitamente appello, immaginando la sofferenza come un fiume sempre in movimento eppure capace di dare serenità, o i frutti della terra che si rinnovano, o gli innamorati che si scambiano promesse ravvivandone la passione. Un comprensibile velo di malinconia ricopre i sogni della Nostra all’ombra di querce, in una distesa verde e fra i campi curati dei contadini. Ma certamente non l’abbandona l’amore per la sua Città Eterna, navigando fra le sue strade e i suoi numerosi monumenti; o spaziando con lo sguardo nella campagna romana, non meno ricca di reperti archeologici e di storia: “Gli orizzonti sono cheti e dorati,/ i monti come Numi par truccati,/ la pace di Vejo è antica e perenne.” Silvana Andrenacci Maldini mostra grande interesse per la storia romana, di cui qui sono appena tracciati dei segni, e altrove soffermandosi diffusamente. Mostra, altresì, la sua formazione classica e l’attaccamento al proprio dialetto a dimostrazione di volere rinvigorire, o di non lasciare morire, le tradizioni; né i sentimenti di cui si è nutrita. Tito Cauchi
LIANA DE LUCA UBALDO RIVA alpino poeta avvocato Genesi Editrice, Torino 2013, Pagg. 160, € 16,00 Liana De Luca, autrice di origine illirico- partenopea, è docente di Lettere; in precedenza vivendo a Bergamo per molto tempo, vi ha fondato il Cenacolo Orobico di poesia; attualmente ne è presidente onorario e risiede a Torino; ha al suo attivo diverse opere di ricerca storica; collabora a quotidiani e periodici, come recita la bandella di copertina della monografia dedicata a Ubaldo Riva alpino poeta avvocato, di cui ci occupiamo. Il libro nasce sotto il patrocinio di una dozzina di enti amministrativi, culturali e di credito, nel cinquantenario della scomparsa dell’illustre personaggio, all’età di settantacinque anni (nato in Artogne in Valcamonica, Brescia, alla fine di dicembre 1887, ma registrato il 3 gennaio 1888-deceduto il 5 gennaio 1963). L’opera presente è suddivisa in tre sezioni, rispecchiando le caratteristiche del titolo, è corredata di ampi riporti in prosa e in versi su cui Liana De Luca ricalca la sua esposizione sui contenuti e sulle caratteristiche stilistiche; arricchita da alcune iconografie, generalmente legate alla pas-
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sione dell’uomo-alpino. Inutile dire che lo scopo è quello di diffondere la conoscenza dell’Uomo, che personalmente ritengo esemplare, come si vedrà. Mi soffermo solo su aspetti umani e letterari; meriterebbero un commento a parte le poesie e i brani in prosa riportati. Ubaldo Riva si definiva “eterno monello”, ma dispose che la sua epigrafe sarebbe stata “Alpino Poeta Avvocato” (ecco quindi la sua connotazione); era un giocherellone e un caotico apparente, come dimostrano, fra l’altro, le sue varianti sulle sue generalità, tanto in lingua italiana, quanto nel dialetto bergamasco. Scherzando si ribattezzava Ribaldo Uva; Uba, troncamento del nome di battesimo Ubaldo, che ha assonanza con Uva, diventa Öa; ma affettuosamente era anche chiamato Dino, terminazione di Ubaldino. Giudicava il proprio nome di battesimo “paladinico”, alla maniera di Orlando, Rinaldo e simili. Amava e promuoveva il dialetto e il folclore bergamaschi sostenuti dall’Associazione culturale denominata Ducato di Piazza Pontida, fondata nel 1924, della quale divenne organo ufficiale il Giopì (“maschera bergamasca trigozzuta”, 1928-1949). Era divertente e arguto, racconta che amava accostarsi alle bancarelle, così che una volta ebbe la sorpresa di ritrovarvi la copia di un suo libro, con dedica autografa. Amava intimamente Bergamo, le montagne e il corpo degli alpini; così, benché fosse stato scartato alla leva militare, alla prima occasione si arruola partecipando alla Grande Guerra vestendo la divisa dell’alpino (1915-1919). Della esperienza di alpino, Ubaldo Riva lascia varie testimonianze. Ne La canzone de l’alpino (1926, poesia), parla della sua convalescenza in Val Camonica, che rinominava Canonica. In Scarponate (1930, prosa) con riferimento agli scarponi degli alpini, abbiamo descrizioni sciolte e accattivanti, dei luoghi e dei commilitoni, ma sempre in modo semplice, lapidario ed efficace quanto basti, come per esempio: “Il primo ricovero dal gelo dei 30 sottozero: e resistere lassù, invetriati dall’algore, nel deserto senza limiti, squassati come fuscelli dalle tormente,” (pag. 21); e seguendo, riferendosi alle Dolomiti, poeticamente così descrive: “la lussuria esasperata di guglie dai toni di perla di opale rubino di topazio di alabastro. Le colorazioni trionfali dell’ aurora i cromatismi vendemmiali i neroniani incendi del tramonto”, ove si può osservare l’uso limitato delle virgole. Entusiasta della sua divisa, della sua immersione fra quei luoghi confacenti alla sua natura. Ferito con mesi di degenza in ospedali (medaglia d’argento con motivazione da medaglia
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d’oro), si attivava con la propaganda alla Resistenza stendendo bandi. Di guerra e di pace (1934, poesia) è raccolta che Liana De Luca giudica tra l’allegro e il tragico: “sempre con toni fra l’epico e l’elegiaco, il rievocativo e il presago, il realistico e l’ immaginifico” (pag. 28). In Gli alpini son fatti così (1935, prosa) oltre che a riprendere le stesse tematiche di guerra, si sofferma su “scarponi” come venivano soprannominati gli alpini, sui quali egli stesso vanta il seguente “epifonema di èpico sapore: Quando passano gli alpini trema la terra” (35). Richiamato alla Seconda Guerra Mondiale con il grado di tenente colonnello, per alcuni mesi; congedato, prese parte alla Resistenza trasformando il suo studio professionale in un “centro di attività clandestina” e nei raduni annuali degli alpini non mancava la sua voce patriottica di conferenziere. L’esordio poetico di Ubaldo Riva, risale alla raccolta Passatismi (1925). Egli stesso scriveva di sé: “Io sono un animale contemplativo: e ho fatto l’ alpino: e ho fatto e faccio l’avvocato.” (47), con ciò intendeva esplicitare in lui la convivenza delle due o tre anime. In Bambinate (1935), lascia spazio alle descrizioni paesaggistiche e agli affetti. Egli aveva una certa predilezione per la cabala perciò Quasi quasi una fantasia (1937), è raccolta che connota il suo “primo mezzo secolo”, tratta degli affetti familiari e dell’amore per la montagna; così l’ultima raccolta, A 3/4 di secolo (1963), rimarca l’età raggiunta dei 75 anni, uscita postuma. Pure postumi furono pubblicati i Sette saggi (1988) articoli a tema musical-letterario come specifica la Nostra, che riguardano scrittori di vaglia internazionale: i francesi Baudelaire, Rimbaud, Mistral; l’inglese Edgard Allan Poe; la polacca Mickiewice; e i nostri Di Giacomo e d’Annunzio, intorno alla loro musicalità espressiva e richiamando nei raffronti altri personaggi della cultura, come Verlaine, Nietzsche, intrecciandosi con gli eventi storici, come nel caso che ci riguarda più da vicino, con la partecipazione di volontari polacchi alla Repubblica Romana del 1848. Ubaldo Riva, dal suo lavoro di avvocato, trae occasione di dialettica forense e investigativa. Così in Due saggi (1960) imbastisce. Nel primo tre arringhe su le ‘Ultime lettere di Jacopo Ortis’, tripartito nei processi politico, alla vita, a Teresa; uno dei suoi giudizi sul poeta di Giacinto è il seguente: “Ugo Foscolo è un Jacopo Ortis che non muore e Jacopo Ortis è un Foscolo che si uccide. Il motore psichico tanto in Jacopo che in Ugo è uguale, ma in Jacopo evade nella morte, in Ugo evade nella vita.” (pag. 126). Nell’altro saggio
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abbiamo l’arringa sulle figure di Verdi-CarducciS. Francesco. In Bergamascherie prime e seconde (1957, prosa), racconta delle sue esperienze professionali, a tal proposito la nostra scrive: “in Riva c’è anche la pietà per i poveri che avevano commesso colpe di poco conto, magari sospinti dal bisogno, e che venivano giudicati.” (130) e nota era la generosità dell’ Avvocato che nondimeno non richiedeva la parcella e per giunta aiutava. Egli rifletteva sulla considerazione negativa in cui fosse tenuta la professione, da parte dei clienti e più in generale da parte della gente, reagendo con L’avvocato Patisce (testo non rinvenuto, avverte la Nostra), e con Io… e Pecora mio (1931, saggio) ove le due P al maiuscolo personificano stati d’animo di Riva, il suo patimento o la sua sopportazione di matti e furiosi. Con Ubaldo Riva alpino poeta avvocato, Liana De Luca ha fatto opera meritoria, per averci fatto conoscere una persona esemplare. È esaltante l’ umanità dell’Uomo che pur non si professava religioso praticante, ma certamente aveva un alto senso etico e morale che si evince da molte occasioni. Rileva come Egli si schermisse della sua “vigoria d’ ingegno”; afferma che aveva “una certa ritrosia a mettersi in mostra”, così dopo essere stato fondatore e presidente di una sezione a Bergamo, non volle più rivestirne la carica. Lo giudica uomo dai molteplici interessi, spiritoso, innamorato della montagna; ironico ed autoironico, dalla vasta cultura letteraria e conoscenza personale di artisti notevoli, amante e appassionato di musica. Saggista e critico onesto, ancora in Bergamascherie, Riva scrive: “Non essere scortichini e stroncatori feroci: pensare quanto sangue e sudore di sangue costi l’opera: non essere venduti per adulazionismo di scoletta o di interesse” (58). La sua onestà gli faceva scrivere di Marinetti, a proposito del ‘Futurismo’: “Mi ha trattato benissimo e mi ha, con grande cordialità e amicizia, proposto di entrare nel Movimento. Io dovetti dirgli di no” (50); e pur godendo della stima del “divino Gabriele” d’ Annunzio, interpretandola come indulgenza, rispondeva: “Adorare il semidio sì: farsi prendere in giro no” (53). Apprendiamo della passione per la musica e il canto, a partire dal nonno, zio, padre, madre, e quanto egli fosse fine conoscitore dei compositori come pure dei pittori; temi della musica hanno ispirato alcune poesie. La Nostra riferisce che Ubaldo Riva “aveva espresso il desiderio di morire ascoltando l’intermezzo della ‘Cavalleria rusticana’ che non è stato possibile esaudire (ma questo lui non lo saprà). In chiusura gli dedica, con consonanza del sentire, il componimento ‘Memory’. Tito Cauchi
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SILVANO DEMARCHI COMMIATO Ediemme-Cronache Italiane, 2013, Pagg. 64, s.i.p. La prefazione al Commiato di Silvano Demarchi, a firma di Antonio Crecchia, si rivela ricca di interessi, per i contenuti e per la forma espositiva. Riconosco subito trattarsi di due autori di talento: entrambi docenti di lettere. Il primo è stato anche preside, ha all’attivo “venti sillogi poetiche pubblicate nell’arco di 45 anni di militanza letteraria”; il secondo è critico di vaglia. Si richiama la vita sociale deludente in generale; il tentativo del nostro Presidente, Giorgio Napolitano, per quanto abbia potuto fare per il Paese. Il Nostro, nauseato dalle stanze del Potere, ha trovato nella poesia l’equilibrio mentale, anelando alla pace, avendo compassione dei popoli alla ricerca di una patria. Il Poeta ama la natura in tutte le sue manifestazioni, ma questo non gli impedisce di stare con i piedi per terra e di provare l’estasi mistica, lenitiva di ogni sofferenza. Il Critico rileva gli scampoli di memoria attraverso i richiami frequenti alle immagini di bambini gioiosi che giocano e alla sosta esistenziale del Poeta, nella metafora del cielo rabbuiato o delle ombre. Definisce poesia apollinea per la grazia stilistica, il cui spirito affonda le radici nel pensiero di PlatoneSocrate su cui si basa la civiltà occidentale. La stazione di arrivo, dopo tanti itinerari, reali e metaforici, farebbe affermate al Demarchi viaggiatore, di prendere ‘commiato’. Nella prima parte, breve, troviamo descritti alcuni viaggi. Le località citate fanno da substrato al pensiero di uomini che vi vissero esortando al bene, e a uomini che sono alla ricerca di una Patria, o che continuano a morire per le ingiustizie sociali. Nei viaggi del Demarchi, infatti, ritroviamo quel Gandhi, “il più povero dei poveri”, di cui avrà avvertito sulle rive del Gange, sul viso, il soffio che gli “sfiorò le guance”; troviamo i kurdi in cui egli si immedesima o la “Anatolia, terra di mistici abbandoni!” Così commenta che tutt’intorno, fin dalle origini, uomini e natura siamo fatti di “un’unica Sostanza”, che è l’afflato divino. La seconda parte, molto più ampia, è anticipata da una citazione di Rainer Maria Rilke, ed è una immersione nella libera natura, a cominciare dal ‘giardino’ che varca in apertura, in cui sogna di “restare per sempre”. Respirare l’atmosfera festosa, assistere “Allegri sul sagrato/ si rincorrono i bimbi.”, con un senso di amarezza alla ‘Pasqua’ dei nostri giorni. Osservare la natura nel volgere delle stagioni: l’orizzonte, ora freddo, di alberi “incappucciati di neve”; ora ondulato da fogliami, da chiome fiorite simili ai capelli fluttuanti di una bella
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donna. Silvano Demarchi pensa alle acque del Passirio ove “spensierati adolescenti si abbandonavano/ al flusso delle onde ed io con loro”, confessando quanto debba essere odiosa la vecchiezza. Osserva il proprio “crepuscolo” e commenta la distanza tra il profumo dei giovani e i propri capelli bianchi. È il mondo della giovinezza il paradiso, e i bimbi ne sono gli angeli. Nei campi, a fine raccolto, “bruciano gli sterpi;/ anche il lento morire/ ha il suo fascino.” (pag. 31). Si affaccia con discrezione il desiderio sentimentale “fulvi come rena i capelli/ gli occhi azzurri come il mare” (54) di Casablanca. Il Poeta osserva lo scorrere della vita, fuori dalla propria: il venditore di meloni Emanuele, che rende colorito l’invito all’acquisto; Ilario, giovane albanese, che “per guadagnarsi la vita/ posava all’ Accademia dell’Arte.” (41); o una coppia di turisti stranieri su una gondola a Venezia; ascolta le note di Beethoven provenire da una finestra. I viaggi sono occasione per arricchire lo spirito, così i tuffi nelle piscine a Tenerife, o “i giovani mulatti di Tucumàn,/ gettano le camicie al vento/ e ballano scalzi, paiono indiavolati.” (40). Ma osserva anche le gru che volteggiano, il cormorano che pesca un pesce: il loro movimento è espressione di vita, di libertà. La silloge Commiato, di Silvano Demarchi, per certi aspetti si presenta come un inno, è rivolta alla natura in ringraziamento al suo Creatore, per la delicatezza dei versi, pur in presenza di un velo di malinconia che tradisce la maturità inoltrata del Poeta. I suoi sguardi delusi e mortificati, per le disparità sociali e per le guerre che martirizzano alcune aree geografiche, sembrano stonature nell’impalcatura poematica; ma che, invece, hanno lo scopo di denunciare le infrazioni sociali e rendere noto lo stato d’animo dell’uomo, la sua genuinità che lo porta al ‘commiato’. Tito Cauchi
GIUSEPPE MELARDI PERCORSI Il Convivio, 2013, Pagg. 52, € 10,00 Giuseppe Melardi nativo di Bronte (Catania), nel 1940, vive in provincia di Treviso, ha diviso l’ esperienza professionale tra la fabbrica e l’ insegnamento nella Scuola elementare; con Percorsi, è alla sua terza raccolta. La silloge ha l’introduzione di Giuseppe Manitta, il quale ne rileva lo stile che si accompagna agli stati d’animo del Poeta, in un andamento narrativo, utilizzando strumenti come l’ enjambement, assonanze, anafore e iterazioni; richiama altresì l’essenza della poesia della memoria, con riferimento a un passo dello Zibaldone leopar-
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diano: la mente indaga sulle proprie esperienze di vita scavando nella coscienza, rasserenandola. Giuseppe Melardi nell’incipit descrive lo stato psicologico che si accompagna alla emersione dei ricordi: “Rapidi risalgono/ dei flash/ dal fondo alla memoria/ con lo stridio della segheria.”, la memoria va ai luoghi dell’infanzia, vecchie strade, vicoletti, agli aromi della cucina misti agli odori del fieno; alberi secolari; le feste locali, le sagre. Il paesaggio muta colorazione con le stagioni, ma rimane un gran silenzio di abbandono. La nostalgia è struggente, si radica nel più profondo dell’anima. Il titolo trasparente preannuncia soste di meditazioni; le descrizioni si sono decantate del residuo materico per divenire purezza dell’anima. Le pagine emanano profumi e suoni, palpitano dei sensi umani, hanno belle le chiuse. Il Nostro ama la notte, mostra padronanza stilistica, usando un linguaggio dall’ impronta personale. Si ha nostalgia di un mondo quasi totalmente perduto: le persone erano più aperte e disponibili, tutta la famiglia si riuniva intorno al desco nell’ora dei pasti, mentre oggi di quelle tradizioni sono rimaste solo briciole. Il tempo è un po’ come il vento che “scoperchia il passato,/dispiega crudele il presente/ nasconde sornione il futuro.” (pag. 14). Si disponeva di poco e lo si faceva bastare, non si sprecava nulla e si aveva il sorriso ugualmente; mentre oggi disponiamo di tante cose e non siamo contenti, né siamo capaci di scambiare un sorriso aperto, invitante. Metafore frutto di osservazioni geopoetiche, ci portano alla campagna aperta che odora di terra fresca e di erba bagnata, ci fanno assistere alle rose che si aprono, alle lucertole che fanno capolino al sole, vediamo la scia luminosa che lasciano le lumache trascinando la propria casa. È come se ci provenisse l’eco di un lontano racconto, che sa di fantasmi. Se si vuole amore, occorre darlo, occorre nutrirsi di questo sentimento, spogliarsi di cattivi pensieri, dei livori. Il Poeta commenta: “La sete d’ amore/ si spegne bevendo l’amore./ La siccità lo uccide,/ non l’odio.” (26). Non vorrei citare Papa Francesco, ma è proprio di questi giorni che il Santo Padre, invita ad andare a letto la sera rappacificati con se stessi, spogliati da ogni misera incrostazione morale. Oggi si continuano ad affilare le armi sempre più sofisticate, cosiddette intelligenti, ma il Nostro vuole schiacciare queste paure, così le esorcizza con la sua poesia. I percorsi hanno le proprie tappe e i propri protagonisti; ora indicano risalite, vecchie strade, fili d’acqua, l’acqua della fontana che scorre, il vento e le nuvole, sorrisi aperti all’ accoglienza, le rondini in volo, pescatori che rientrano; ora abbiamo come una pietra miliare un vecchio eucalipto che faceva da
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faro di riferimento, tra la campagna e la strada asfaltata, “sentinella alle porte del paese.”. Giuseppe Melardi chiude con sgomento, si chiede se il mondo non si sia capovolto “Ascolto più voci dal coro/ e note distinguo stonate./ Il gatto che abbaia,/ che miagola il cane.” (47). Sembra che i sui ‘percorsi’ l’abbiano condotto alla considerazione che tutti quanti nasciamo destinati a morire, a perpetuare l’originaria avventura del genere umano, iniziata con Adamo ed Eva: l’uomo ripete le tragedie, Caino che risorge e commette il fratricidio di Abele. Melardi ha battuto degli itinerari che per molti di noi costituiscono i percorsi interiori. Tutto sommato costituiscono una sorta di catarsi, o se si vuole, una sorta di autocoscienza; e quando manca questa, ci sentiamo un po’ più smarriti. Tito Cauchi
DOMENICO DEFELICE ELEUTERIO GAZZETTI Cantore della Valpadana Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2013 Il numero di maggio 2013 de Il Croco si sofferma, grazie a Domenico Defelice, sulla figura di Don Eleuterio Gazzetti. I più si chiederanno, cosa ci fa un semplice parroco della Valpadana, su un foglio letterario. O per lo meno cosa ha fatto di così importante per finire “sulle stampe”. E’ presto detto. Oltre a curare lo spirito e le anime dei suoi parrocchiani, cosa che gli riusciva benissimo vista la vocazione, ha lasciato scorrere in sé anche
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un’altra vena: quella artistica. Don Eleuterio Gazzetti ha divulgato la parola di Dio, non solo attraverso le messe domenicali ai suoi fedeli, attraverso la Comunione, la Confessione etc…, ma ha lasciato anche che penna e pennello riportassero il suo intenso amore, la sua fede, il sacro.
Già da molto piccolo cominciò ad assecondare la sua passione nello scrivere e nel dipingere. Molti gli scritti che sono rimasti inediti, perché per gli editori si sa la parola “gratis” anche quando si tratta di un umile parroco di campagna non esiste. I suoi scritti guardano sempre alla natura che lo circonda, alla fede e naturalmente all’uomo con i suoi tormenti, speranze e vita. Un po’ meglio gli è andata con la pittura, per la quale nella sua vita è riuscito ad organizzare una ventina di personali. Alla base delle sue creazioni c’è l’ Impressionismo. Nelle sue tele, comunica il suo amore per ciò che lo circonda: alberi, case dai tetti rossi, piccoli borghi e verde sullo sfondo. Ed ancora neve ombrata, rive di fiumi, il rosso mattone delle case in costruzione, piccole barche vuote. Verso l’età matura Gazzetti si rivolge a Maria. Nascono così le pennellate “La Madonna dei Pargoli innocenti”, “Omaggio alle madri della Parrocchia” e molte altre in cui si ritrova l’omaggio alla maternità. In tutta la sua opera, comunque, predomina sempre il richiamo all’acqua: sotto forma di piene, di piccoli rivoli e molto altro, quasi a simboleggiare lo scorrere della vita con tutti i suoi alti e bassi che gli esseri umani sono chiamati ad affrontare e a percorrere ogni giorno. Roberta Colazingari Immagini: Eleuterio Gazzetti - Studio per figura (olio su tela 30 x 40). Eleuterio Gazzetti: Paesaggio umbro (olio su tela 30 x 40).
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NAZARIO PARDINI I SIMBOLI DEL MITO Il Croco , I quaderni letterari di Pomezia-Notizie, 2013. Nazario Pardini, con la raccolta I SIMBOLI DEL MITO, Primo Premio Città di Pomezia 2013, ci offre delle poesie interessanti come contenuto e come stile. Nei suoi versi c’e’ ritmo, suono, fluidità e tocco di classicismo, senso spirituale e storico dove spesso il passato si mescola col presente legando il tutto attorno ad un solo ramo, ad un solo centro di vita. Niente corrosione decadente; ma viaggio sicuro con la fune che tiene e regge i simboli del mito lungo il percorso forse una volta tracciato dagli dei, da Apollo, Saffo e compagnia bella. “ Amara svenava/ la tua vita, Ifigenia,/ per propiziare l’armata degli Achei./ Poteva di cotanto male/ convincere la fede! “ Ifigenia, figlia di Agamennone. Quando i greci mossero alla volta di Troia furono trattenuti, dalla mancanza di vento, nel porto di Aulide per volere di Artemide, offesa da Agamennone. Calcante, interrogato, rispose che la dea poteva placarsi solo col sacrificio di Ifigenia. E mentre si apprestava il sacrificio, Artemide, mossa a pietà, la sostituì con una cerva e la trasportò in una nube nella Scizia dove ne fece una sacerdotessa! Nei componimenti del Nostro c’è tanta mitologia, a partire dall’Odissea di Omero. E non manca, naturalmente, Ulisse: “ Siamo andati sui mari,/ a cercare nuovi lidi,/ abbiamo visto perire/ eroi arsi ed arditi/ nati/ per conoscere mondi;/ abbiamo sfidato gli dei/ per avversi sentieri,/ persi compagni / divorati/ da mostri o prodigi./ Turbini di grigi cieli,/ scogli di sirene,/ amene voci di malie,/ nostalgie su labili gusci di bosco. “ Ottima la lunga poesia “ Oltre quel muro” che ci fa ricordare DEI SEPOLCRI di Ugo Foscolo: “ All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne “ endecasillabi sciolti di alto livello! Pardini canta: “ La notte/ ai flebili lumi/ e fra le stelle/ belle le mie anime/ sul prato al cimitero;/ all’ora tarda,/ quando i viventi / sono nei giacigli,/ s’incontrano tra i tigli / ed i cipressi.“ E cosa fanno quando s’incontrano tra i tigli? Escono dai “marmi freddi” per parlare di affetti e di ricordi ai bordi dei sepolcri. Invece, secondo il Foscolo, i morti non sentono nulla ed è illusione dei superstiti che i morti sentano e possono essere consolati dall’affetto dei loro cari. Cosa può alleviare il lungo sonno dei morti? Con la morte l’oblio cancella ogni cosa? Difficile, impossibile, rispondere a queste domande se la speranza fugge i sepolcri!
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In ogni modo, I SIMBOLI DEL MITO sono versi possenti e le figure mitologiche vengono trattate bene, con rispetto, le quali in fondo danno colore e calore alla visione poetica di Pardini Ulisse ritorna alla sua amata Itaca. Al ritorno dalla lunga guerra di Troia, incorso nello sdegno di Nettuno, per avergli accecato il figlio Polifemo, andò errando per dieci anni prima di rivedere la patria e le sue peregrinazioni formano, come sappiamo, argomento dell’ODISSEA. Leggendo I SIMBOLI DEL MITO di Nazario Pardini, abbiamo fatto anche un tuffo nel mare della bella mitologia, tanto cara ai poeti. Afrodite, dalla spuma del mare, tutta festosa, ci sorride. Mariano Coreno Melbourne, Australia ANNA AITA DOMENICO DEFELICE Un poeta aperto al mondo e all’amore Il Convivio, 2013 - Pagg. 94, € 12,00 Domenico Defelice, narratore di ampio respiro si pone tra i migliori scrittori dei nostri giorni. Ancora molto giovane inizia amicizie importanti per il suo destino di scrittore, sia a contatto con ambienti popolari, sia esercitando vari mestieri per vivere, sia dedicandosi a stimolanti letture, intrecciando rapporti con esponenti della vita intellettuale. Oggi, notevole esperienza e vasta preparazione si compendiano nei suoi scritti ricchi di trame sempre ideate sulla base di concreti concetti. Gli ambienti realizzati sono il risultato di un profondo e minuzioso studio che gli permette di inserire, in ogni più piccolo dettaglio, una inventiva originale e, nello stesso tempo, aderente allo spirito della sua opera. Anche nella poesia Defelice si pone in alte sfere e il suo discorso si identifica nel tessuto connettivo tra lo svolgersi degli eventi, la successione degli episodi raccontati e le immagini che ne derivano. I diversi piani, in cui si realizzano i vari elementi narrativi, sono resi ciascuno nella sua preziosa inte-
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razione e si evidenziano sia nel senso descrittivo, che in quello narrativo. Pertanto, i motivi autobiografici, sono assunti a verifica di una inchiesta esistenziale, illuminata dalla segreta ansia del destino soprannaturale dell’uomo. Non aggiungo altro perché mi è mancato il tempo di studiare a fondo l’opera di Domenico Defelice e della sua arte. Mi sono fatto un’idea seguendo il saggio dell’ ottima Anna Aita che, al suo attivo, ha una lunga e rilevante esperienza narrativa, approdata ormai a più sicure e mature prove di successo con romanzi rappresentativi della cultura del nostro tempo. Anna, con squisita e delicata sensibilità, ha saputo molto bene illustrare le qualità letterarie del Defelice, scrittore calabrese, che onora la strada del nostro sapere. Aldo De Gioia Immagine: Domenico Defelice a Roma, il 21 aprile 1970 nel Chiostro di S. Giovanni in Laterano. SALVATORE D’AMBROSIO BARCOLLANDO NELL’INDICIBILE Bastogi, Collana di Poesia Il Liocorno - 2009 Pagg.55, € 7 “Le lacrime non possono/ l’arido eletto a sostanza del tempo tuo,/ essere lavacro per rinsanguare/ di anni esultanti il rimasuglio./[..]” A spasso tra i versi del D’Ambrosio, senza che inizialmente ci si cimenti in una lettura approfondita, il lettore va avanti sbandando, per l’appunto “barcollando”. L’equilibro che manca non è quello della poesia, ma quello della quotidianità della vita, dell’ esistenza giorno per giorno. Questo squilibrio del passo umano, che ormai si appende alle spalle del mondo, è ciò che ispira il poeta, essere chiamato a vedere oltre e vedere profondamente. Il poeta diviene qualcuno che sembra delirare. I suoi testi parlano d’amore, ma l’amore soffre e spacca in due l’anima; parlano di vita, ma la vita si disfa e ammuffisce, perde la bussola e va delirando; parlano di profumi e ricordi, ma ben presto essi si fanno metafora di abbandono e oblio. Da qui l’ incertezza, il disorientamento, il barcollare in una materia che diventa poesia indicibile, la profezia di cose che il poeta vede e che lo sovrastano. Egli le ama e le odia e diventano così quel qualcosa che non andrebbe detto. Ad una lettura più attenta, però il disorientamento, ci accorgiamo, non finisce, non si torna affatto all’equilibro né delle cose né tanto meno dei temi.
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Capiamo perciò che il disorientamento, questo “ barcollare”, è un espediente voluto e pensato dal D’ Ambrosio. Il lettore viene messo in condizione di indossare le scarpe del poeta per poter camminare tra le macerie ideali e concettuali di questa epoca, viene messo in condizione di calzare i suoi occhiali e portato e vedere il mondo nel modo in cui Egli lo scandaglia. La parola è il mezzo supremo di porre in un corpo solo finito ed astratto: le parole di questa raccolta sono il mezzo con cui l’autore mette l’ uno di fronte all’altra follia e ragione, certezza ed incertezza, il primo e l’ultimo, ordine e disordine. Brandisio Andolfi afferma “ L’Autore, allora, si rivela in questa raccolta veramente figlio del suo tempo e , come poeta, cantore fedele di tutti i moti [..]”. Ed è così che accanto a questi versi di immensa carica quanto mai realistica e che descrivono lo sfacelo di una città e della sua dis-umanità “ [..] Intanto guardi il duro delle tue mani/ e aggiungi a questo/ la nostalgia di un tempo incorrotto/ che forse non ti avrebbe consegnato chiodi / dietro le porte sgangherate/ dove appendere panni consunti/ profumati di sudore e lavoro/ della vita tua.” ( da Alle cinque si ferma il cantiere) seguono versi di sogno e di speranza “[..] non sarò più/ senza l’approdo/ disperato naufrago.” ( da Avrò il mio giardino?) e anche versi d’amore e di ricordi di felicità come in “Di te questo” . Ma ogni tema, che il lettore può annoverare tra quelli cantati, è in realtà la porta d’accesso ad altri temi e spigoli da arrotondare: l’ amore è l’amata, ma anche la madre che scalda, in un corpo che brucia ( vedi Neve), il ricordo della gioventù e della città amata ( vedi “E ancora altri profumi”) diviene lo stendardo del poeta , la sua spada di penna e la sua firma “Lunghi profondi respiri/ di chi ha cose infinite da dire”. Una scrittura metaforica ed intrinseca, che cura la forma esterna perché sia l’accesso a quella interna e profonda delle parole, scrittura che sa essere morbida e descrittiva ma anche rude e spoglia; innalza il lettore attraverso rari e vibranti versi per poi spegnerlo nel nero giornaliero. Aurora De Luca Stampare un giornale ci vuole coraggio, ma è più difficile farlo vivere: composizione, bozze, carta, stampa, buste, francobolli… se non volete che POMEZIA-NOTIZIE muoia, diffondetelo e aiutatelo con versamenti volontari (specialmente chi trova la propria firma, o scritti che lo riguardano, dovrebbe sentirsi moralmente obbligato. L’abbonamento serve solo per ricevere la rivista per l’intero anno). C/c. p. n. 43585009 intestato al Direttore
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ANNA AITA DOMENICO DEFELICE Un poeta aperto al mondo e all’amore Il Convivio – 2013 Pag. 96 € 12,00 Credo che per uno scrittore o artista in generale, una delle gratificazioni più importanti sia quella che altri s’interessino di lui e del suo lavoro; ciò determina che per il valore delle sue opere ha acquisito una gran notorietà. Di questo può vantarsi Domenico Defelice, che ha dedicato la sua vita alla letteratura e all’arte, non solo per se stesso ma aprendo la porta a tutti gli amanti della cultura, come attesta la sua Rivista Pomezia-Notizie, in vita (e ancora prospera) sin dal lontano 1973, dove moltissimi poeti e scrittori hanno avuto la possibilità di collaborare e farsi conoscere. Ciò che distingue Defelice da altri nomi altisonanti sono proprio la disponibilità e la cordialità che lo rendono semplice e umano, quindi, una persona squisita. Ormai si perde il numero delle tante sue opere, che denotano inoltre una versatilità non comune. Defelice è poeta, prosatore e scrittore di testi teatrali, critico e saggista, collaboratore di numerose testate; inoltre, ama la pittura (e in Rivista si possono ammirare sovente i suoi disegni). Un artista dunque completo. Ai numerosi personaggi che gli hanno dedicato un saggio monografico, si aggiunge Anna Aita con
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questo suo volume “Domenico Defelice – Un poeta aperto al mondo e all’amore”. Già dall’inizio si comprende l’impegno di Aita, che presenta Defelice sin dalla nascita e lo segue a passo a passo per dar modo al lettore di comprendere appieno la sua personalità. Possiamo quindi immaginarlo negli anni infantili, al pascolo delle pecore, per aiutare i genitori che vivevano grazie alla coltivazione della terra. Sono anni poveri e di guerra, ma decisivi per il suo connubio con gli amici animali e la natura. Lo troviamo ragazzo, a seguire gli studi a Reggio Calabria, dove incontra una giovane per la quale scriverà “Un paese e una ragazza”, ma il primo vero amore sarà Marcella, conosciuta tempo dopo, alla quale dedicherà molti versi e un poemetto. Seguono altri incontri (uno di questi finito tragicamente) finché non trova la donna della sua vita, la sua sposa, ancora oggi felicemente al suo fianco. Anche le occupazioni sono diverse: lavori che gli permettono di seguire gli studi ma non gli offrono certamente una vita agiata, anzi, molti sono i disagi e le costrizioni. La sua ispirazione artistica però è ben viva e Defelice continua a scrivere e a collaborare con varie testate. Quando deciderà di stabilirsi definitivamente a Roma avrà modo di far amicizia con importanti letterati e nonostante le varie vicissitudini, la lontananza dai suoi cari, lo stipendio esiguo d’ insegnante (che dopo, grazie alla sua bravura, aumenterà sempre di più), Defelice impronterà la sua vita sia sul piano professionale sia su quello artistico. Molte sono, infatti, le sue opere scritte con i relativi successi letterari. Riguardo all’amore vi sarà un cambiamento radicale: il matrimonio con Clelia e il trasferimento definitivo a Pomezia, dove fonderà il periodico Pomezia –Notizie. Terminata l’analisi dettagliata della storia biografica di Defelice, Aita svolge un’esegesi sulle sue opere, pubblicazioni e testi teatrali; si occupa inoltre di Pomezia-Notizie e delle varie monografie scritte per lui. Un’indagine senz’altro impegnativa vista la sua copiosa produzione. In questo modo il lettore può seguire gradualmente l’ispirazione e la maturazione di Defelice, ammirarne la scrittura, la fervida immaginazione, la versatilità, la costanza di tenere in vita il suo periodico anche in tempi difficili come il nostro, nonostante gli anni che avanzano e un continuo assillante lavoro. E’ impossibile soffermarsi su ogni edizione di Defelice, poiché ci vorrebbe un vasto spazio, e non si può nemmeno generalizzare sul suo operato poiché ogni lavoro è diverso dall’altro e meriterebbe un suo approfondimento; si può soltanto affermare che Aita, con questa sua esaustiva monografia, ha
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sviscerato il mondo di Defelice dando la possibilità al lettore di conoscere appieno sia l’uomo sia l’ artista. E’ un’altra importante attestazione che avvalora l’importanza di questo personaggio, già d’ altronde tradotto in nove lingue e conosciuto in campo internazionale. Sono da rilevare inoltre le interessanti fotografie di Defelice, dalla prima infanzia in poi, che delineano l’evolversi della sua immagine nel corso degli anni, il suo ambiente familiare, momenti di relazioni pubbliche ecc., che nell’insieme rendono l’ atmosfera del testo ancor più pregnante. Laura Pierdicchi Immagini: - Pomezia, 18 ottobre 1986, palestra Istituto d’Arte: Domenico Defelice, con accanto il Sindaco della Città Filippo Walter Fedele, stringe la mano all’ad della Sigma-Tau, dott. Pietro Annesi, sponsor del Premio Internazionale Città di Pomezia, VII Edizione. Pomezia, settembre 1985: Domenico Defelice con il corrispondente del quotidiano Il Tempo, Franco Di Filippo, presso la Tomba di Enea, sito archeologico nella tenuta del principe Borghese in località Pratica di Mare (RM).
FABIO CLERICI IL GRIDO DELLA TERRA Missione Emilia Associazione Culturale TRACCEPERLAMETA, 2013, pagg. 136 L’Italia è una terra a rischio. Non certo dal punto di vista politico (diecimila bocche che masticano e nessun cervello che pensa davvero), ma da quello fisico-geologico sì. Considerando che è la terra vulcanica per antonomasia, nel Sud Europa, essa è perennemente a rischio sismi, con debite conseguenze per l’ambiente e gli abitanti dello stivale. Purtroppo, i terremoti in Italia sono come i western di Sergio Leone e Bruno Corbucci: visto uno, visti tutti.
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La terra trema, senza preavvisi di sorta, il panico si diffonde ovunque, le case ed i monumenti crollano (due cose delle quali l’amministrazione se ne frega, mussolinianamente: le case si rifanno, in economia, ed i monumenti non sono che Cultura del passato), la gente muore o resta ferita in modo più o meno grave. Chi non ha avuto la fortuna (!) di finire al cimitero o all’ospedale, è costretto a vivere da sfollato senza casa, in baraccopoli d’emergenza provvisorie (niente è più duraturo del provvisorio, in Italia!), mentre le Autorità continuano a latrare che non si dimenticheranno dei poveri cittadini e si provvederà presto e bene (e cioè: il commissario Ambrosio si ammazza di fatica sul posto, mentre l’ onorevole De Ficiente va a far fine settimana a Porto Cervo). Ci sono poi atti di valore o umanitari fatti effettivamente dalle forze dell’ordine o da gruppi di volontari ed i giornali fanno servizi di due, tre, quattro pagine, con moltissime foto. Ma tutto questo è solo Storia, in via ufficiale. Ma cos’è davvero un terremoto e quel che ne consegue? Fabio Clerici (classe 1961), scrittore, poeta, viaggiatore appassionato e grandissimo amatore della montagna ci racconta la vera storia del terribile terremoto che colpì l’Emilia il 20 maggio 2012 (poco più di tre anni esatti dopo la tragedia analoga che colpì L’Aquila).. E ce la racconta con voce appassionata, da essere umano, non da scrittore professionista o da giornalista d’assalto, sperando di fare uno scoop che gli valga un Pullitzer (l’Oscar dei giornalisti). Io dico che è una storia VERA in quanto che quanto ho affermato sopra è solo un terremoto IN VIA UFFICIALE, raccontato in terza persona, dall’ esterno, con tono gelido e professionale. Nessun coinvolgimento emotivo e tutte le virgole al posto giusto. Un servizio completo di tutto che ignora il dolore di chi ha perso un parente o un amico nella tragedia, che ignora il pianto dei bambini, terrorizzati da un evento imprevisto, o i versi delle bestie, non meno spaventate dei cuccioli d’uomo. Questa è una storia vista “da dentro”, narrata in prima persona attraverso le azioni di un gruppo di agenti della Polizia Locale (già Vigili Urbani), in trasferta sul luogo della disgrazia per prestar soccorso, in ogni modo (materiale e spirituale) alle vittime ed ai sopravvissuti, non importa se bestie o umani. Può piacere oppure no, questa storia, ma certo non è una vicenda da prendersi alla leggera. Non è un servizio televisivo da godere, attendendo L’Isola dei Famosi, sgranocchiando patatine e pensando, con indifferenza: Povera gente (meglio loro che i-
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o)! Stavolta è un fatto personale e nel momento in cui lo si legge si capisce che questo è Dolore vero, autentico sangue caldo, disperazione non di frutto letterario. Un vero schiaffo in piena faccia. Può piacere o no, ripeto. Dipende dalla natura e dal temperamento del lettore, ma non è un libro da prendere in sottogamba. E’ una testimonianza effettiva, diretta e personale, fatta sulla pelle nuda. E non per modo di dire. E, inoltre, è un libro che vale il doppio, in quanto che Clerici è innanzitutto ed essenzialmente un poeta (ha firmato numerose, bellissime sillogi in passato. Il risvolto di copertina ne dà ampia lista) e questo suo sforzo letterario, in prosa, è un raro e non disprezzabile esempio di abilità e di sensibilità artistica. Non è facile davvero, come argomento da presentare ai lettori, vecchi o nuovi che siano. Non intendo commentare oltre. Troppo ci sarebbe da dire e questa è sempre e solo una recensione. Ma chi leggerà questo testo non rimarrà deluso e dovrà rendersi conto che le tragedie mostrate dalla tv non sono un lavoro teatrale a firma Goldoni o Brecht. Qui si fa sul serio! Buona lettura. Andrea Pugiotto
UMBERTO PASQUI STORIE DI FORLÌ Non c’è bisogno di presentare Pasqui. Tutti i lettori dell’ottima rivista Poeti nella società lo conoscono già, mercé le accurate recensioni da lui redatte su testi dei generi più diversi. La sua professionalità, come recensore, non è certo messa in discussione. Ma stavolta l’amico Pasqui è dall’altra parte della barricata, come si dice, poiché stavolta è nel ruolo di scrittore. Anzi, di curatore. Storie di Forlì ci parla di questa bellissima metropoli emiliana, vecchia già di 2.200 anni (portati benissimo, in verità), che ne ha vedute, sentite e vissute di tutti i colori. Il titolo del testo potrebbe far supporre ad un’ antologia di fiabe popolari inerenti Forlì o di novelle di Autori nati in quella bella città. Tutti sarebbero autorizzati a pensarla in tal senso, giacché precedenti, nell’uno come nell’altro senso, non ne mancano davvero. E invece, questa antologia fa parte del genere Favole vere del grande fiume, di guareschiana memoria. Storie meravigliose, realmente accadute a Forlì ed immediati paraggi, che ci parlano di santi e di guerrieri, di strade e di piazze, di gente piccola e meschina ed anche di grandi fatti che mutarono il corso della Storia.
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Pasqui offre un ritratto a tutto tondo di Forlì dalle prospettive più diverse: Luoghi; Personaggi; Aneddoti; Dintorni, trattando ogni argomento con dovizia di particolari… a costo di essere reputato odioso, dovendo anche presentare persone discutibili e che si preferirebbe dimenticare! Ma Pasqui vuole cantare Forlì nel Bene e nel Male, senza negare le ombre né esaltare in modo ipocrita e sperticato le luci, facendo apparire bellissimo ciò che è solo passabile. Forlì è sotto gli occhi di tutti i lettori, nuda e scoperta in ogni dettaglio. Può piacere o no, può essere considerata una gran signora o una puttana di origini incerte. Dipende sempre dal punto di vista del lettore. Pasqui – rendiamogli giustamente questo merito – è stato meravigliosamente obiettivo: non ha né aggiunto né tolto nulla. Forlì è sulla bilancia, nuda così com’è. Il giudizio spetta al lettore. Ma nel criticarne i difetti, non scordate i pregi. Dopotutto, si dovrebbe essere sempre grandi, nel Bene e nel Male. E Forlì forse lo è stata. Io, come recensore, ne sono rimasto affascinato. Come lettore, posso solo dire: il giudizio a chi lo leggerà dopo di me. Il mio parere, pur se modesto, qui non vale nulla, giacché ogni testa la pensa a modo suo, diversa l’una dall’altra. Per fortuna. Da leggere con attenzione, per non farvi sfuggire le più incredibili meraviglie riposte negli angoli più impensabili. Andrea Pugiotto
PAOLA INSOLA LESSICO D’AMORE Lorenzo Editore, 2012 - Pagg. 96, € 18 Cara Paola, Ho letto con piacere il tuo Lesico d’amore (Lorenzo Editore, Torino 2012), raccolta antologica destinata ad abbracciare ben trentacinque anni di attività poetica (1977 - 2010). La prima sezione, non a caso intitolata Il segreto della crisalide, è giocata sullo sfiorarsi e talvolta sull’incontrarsi di tematiche quali l’immersione totale nella natura e una religiosità ora palese, ora sottesa. La lirica introtuttiva, alla quale la sezione è debitrice del titolo, unisce mirabilmente lo stupore di fronte all’ eterno miracolo di una nuova vita che sboccia alla presa di coscienza di quella precarietà destinata a permeare l’intera esistenza mentre la successiva Basterebbe un colpo d’ala canta la contraddizione del nostro viver perennemente sospesi tra umano e divino: “Percorriamo/sentieri poveri di slanci/poi stupiti reggiamo nuvole/per la sosta dei gabbiani”. Di fronte all’errore, alla caduta sempre in agguatto
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la lirica Cronaca ci indica l’unica vera via d’uscita: “...il Vangelo/è ancora Speranza/e la Parola/ dissipa dubbi/oltre la giungla/delle contraddizioni./ DIO perdona / ubriaco d’AMORE”. Ritorno propone la metafora della poesia intesa come pane (“Sarà vittoria di braccia/aggrappate alla ragione /a scrivere un paragrafo/sul pulviscolo del grano /che stagiona nei versi: mio pane per un giorno”). Una delicata sensualità permea infine Momento d’ amore e Sogno. Anche nella seconda sezione, Confluenze, introdotta da una citazione tratta da Goethe e da un frammento critico del compianto Silvio Bellezza, la natura è protagonista, palcoscenico di una umanità afflitta dal “male di vivere”: “Il mare aveva il colore/della luna e il vento smarriva/un cammino di offerte/aggrappate ai polsi/nel sopore di vite stremate” e ancora “Nessun rancore per il tributo /della resa, solo l’aggrottare/di ciglia per fierezza grande./Misuri il cielo tra gli orli/discreti delle foglie/ti pieghi sul fieno, mentre/sul tuo corpo rotola la luna”. Il messaggio è chiaro: andare avanti nonostante tutto come attesta la lirica Navigare necesse est abbinata all’acquarello proposto in copertina, realizzato da Annamaria Zerbetto: “Per i naviganti dell’ora saremo/diafane vele trafugate alla notte/ ma dell’intreccio di una logora tela/siamo l’ordito che resiste/al gorgo del destino:Navigare/(o amare?) necesse est”. Lo spirito di ricerca, la voglia di saper ascoltare Oltre le note animano la quarta sezione, sino a quella summa di tematiche insoliane costituita da Incontro: “Nel colmo cesto delle labbra/furono il dolce e l’asprigno/dei giorni che vorticano infinite ipotesi./Nuovo fermento ci prese per mano./Poi il vento scompaginò le rime/e il racconto si fece minuto/liberando polvere d’amore”, con lo sguardo comunque proteso, ancora una volta, verso il futuro: “Staremo bene sottovento/dopo aver guardato indietro e concluso/senza darci il tempo di capire/quali giorni salvare e quanti gesti/reinventare sui rintocchi/che segnano ore nuove” (Dentro il vento). A Una manciata di parole fanno seguito i Corimbi, sezione nella quale talvolta sei onirica, talvolta contemplativa (Non muove sul mare) e a tratti quasi maliziosa (Fu l’improvvisa ventata). A volte emerge la fisicità del rapporto (La tua bocca, Amore sudato e Dopo la parola: “parlarono i nostri corpi/al consenso della notte/vestita di fragranze. Ci destammo/al singulto dell’alba/lievitati d’amore”). Alcune liriche si ammantano di spiritualità (Traspari) e forte si avverte ancora una volta il contrasto tra il timore che tutto possa presto finire (Abita-
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vi nei miei occhi) e lo stupore di fronte alla genesi di nuovi sogni, sbocciati da quella necessità d’ amare unico baluardo in grado di fronteggiare l’ inesorabile scorrere del tempo: “Sei nel mio stupore/nel viaggio che fiorisce/dal deserto: miraggio/nel lento miracolo/dell’alba”; “Proveremo a tenerci stretti/nel balenio/di notti generose/disposte a stemperare/la curva/delle ore in fuga” (Il bisogno di ritrovarti), camminando in precario equilibrio sul filo “che separa promesse/calde d’estate/da svoli incauti/di falena” (Questa sera inseguo). Infine, la trilogia del Lessico d’Amore; Mia cara Turin, innanzi tutto, scritta in piemontese con la riuscita immagine di quella collina che “...desfend motobin/ij seugn ed j’innamorà” (“...difende molto bene/i sogni degli innamorati”), quindi la poesia Per Gaia, composta l’8 marzo 2010 in occasione della nascita della tua nipotina, ideale trait d’union con la lirica conclusiva, Lessico d’Amore, dedicata passando dalla sfera privata a quella di respiro universale “alle donne del mondo” nella certezza che “Può accadere/guardandoci allo specchio/di smarrire/le certezze degli opposti/incapaci/di trovare differenze”. Complimenti! Roberto Tassinari
ACCAREZZARTI DI PAROLE Nel fluire del tempo mi persi navigando nei giorni lenti i passi … mi accompagnavano con furore per il cuore. Sentivo la mia voce percorsa da brividi accarezzarti di parole suadenti … persuasive sino all’inverosimile. Come foglia non lasciavo mai il mio ramo in attesa dell’inverno cercavo di eludere l’autunno per non staccarmi da te che eri linfa per la mia essenza. Generosa la stagione ascoltò con compostezza il mio volere turbando i colori previsti
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dal suo proposito si accostò a me ricercando comprensione che subito accolsi per smarrirmi in un’emozione. Lorella Borgiani Ardea (RM)
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per i misfatti che succedono ogni giorno e piangono gli alberi incamminati per la via per questo giorno che si oscura. Loretta Bonucci
TRA POCO È NATALE Tra poco è Natale. Gesù è già in cammino per venire in soccorso all’Umanità perché non si perda in cose vane e nel giorno di Natale ritorna bambino per rallegrare i bambini di tutto il mondo. E suoneranno le campane vicine e lontane per far festa a Gesù nel giorno di Natale.
ALLELUIA DELLA CREATIVITÀ Brent, uno scimpanzé artista di 37 anni, ha composto un quadro astratto e vinto 10.000 $ a un concorso di pittura. Al posto del pennello, lo scimpanzé usa la lingua per applicare i colori. Niente da fare. La brava scimmia Brent ne deve mangiare, di pastasciutta, per raggiungere l'originalità creativa dell' uomo. Andy Warhol, già negli anni '70, dipingeva orinando affettuosamente sulla tela. Rossano Onano
Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi
TRA POCO È SERA Tra poco è sera. Il cielo è in preghiera e le rondini tornano al nido con il grido esterrefatto
Anche s’è antigienico i colori spalmare con la lingua e se si ostina a non usar la zampa, io sto con Brent, caro il mio amico Onano. Che sia sempre così: scimmia giocosa, estrosa, al naturale, eternamente scimmia, giammai essere umano, se negli anni settanta Andy Warhol pisciava sulla tela. Ma non fu il primo e solo originale, ché già, alla romana Galleria d’Arte Moderna, una Palma Bucarelli, sfrontata ed arrivista, circondata di bonzi, col mio e col tuo denaro, comprava per esporre un po’ di stronzi: l’ormai celebre assai Merda d’Artista! Domenico Defelice
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DEL POETA LA DIGNITÀ Signore, al ristorante non vado che ad ogni morte di papa; in discoteca da che avevo trent’anni. Molto viaggio con la fantasia, poco su treni ed autostrade e paura ho del volo. Non ho Suv, né iPhone, non ho iPad. Niente prebende, non son cavaliere. Vesto modesto, non ho conti in banca, non ho la villa con la piscina. La bellezza mi incanta alla mia età - ed ancora la donna! -. Ho del poeta la dignità. Domenico Defelice
SEMPRE HO AVUTO UN SOGNO Sempre avuto ho un sogno, caro Stefano, in parte oggi da te realizzato: sì, da te che convoli a giuste nozze con la tua Emanuela. L’ha già fatto Gabriella, dalla quale un bel fiore anche è sbocciato. Chiuderlo spetta a Luca, sebbene pure lui ha le sue stanze. Ho avuto sempre un sogno ed a lungo per esso ho lavorato. L’augurio è che il buon Dio nei suoi giardini or non mi chiami subito, prima ch’io veda almen le vostre case tutte fiorite d’occhi di bambini. Domenico Defelice Pomezia, 14 settembre 2013
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nella bellezza corrosa. In punta di piedi il desiderio entra in scena e la fine non svela il suo sorriso nell'oblio di perenne canto Adriana Mondo
POEMAS SUELTOS Mis poemas nacen del espanto pero son pensamientos palpitantes de razón. Después de echar los versos en el papel en blanco mi ser reposa en las sombras mientras en mis venas corre la noche vacía en busca del alba. Anhelo volar a la distancia, visitar amigos con quienes mirar la luna triste que muere sola esperando el sol. Teresinka Pereira USA
PICCOLI FUOCHI Odore pungente di stoppa bruciata, si alimenta al calar della sera, piccoli fuochi nella notte stellata avanzano lenti tra la fresca brezza. E’ un lasso di tempo tra l’estate e l’autunno in cui si sente odore di terra, primordiale profumo che penetra le narici, ossigena il sangue rendendoti vivo, creativo, così da dar senso alla vita. Colombo Conti
AD ALESSANDRO UN ALTRO CANTO DI SAFFO Da questo scoglio lambito dall'acqua, il vento canterino delle onde fa vibrare l'aria vela oltre vela veleggiar io sogno
Il viola voluttuoso della viola è il viola del velluto dei tuoi occhi mentre vibrante al verso della viola vagheggio il tuo veleno che violenta.
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Vendicativa per un voto violo viziosamente la vergine viola e mi vesto di viola e intreccio viole per il tuo ventre dalle vene viola. Viola di vaso viola di vallata, ti voglio vaporosa di violetta. Vieni vessillo veloce nel vento dalla tua viola vedova d’amore. Liana De Luca Torino Nota – Le tre parole che non iniziano con la lettera V, una per strofa, cioè occhi – intreccio –amore aggiungono n ulteriore significato al testo.
IL VENTO A Melbourne tira vento: chiudo porte e finestre e resto dentro! Mariano Coreno QUANDO… Quando chiuderò gli occhi vi prego, figlie mie, di mettere nella bara anche le mie poesie! Mariano Coreno
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e le vedo ancora lì nascoste non schiuse. Braccio sulla fronte gioco a nascondino numerare correre risate argentine allontanarsi. Il fuoco di mia madre attizzato che dentro ancora brucia, le silenziose stanze senza echi di voci alterate,chiamare. Non so se mio padre sapesse gridare non l’ho mai sentito solo caldissima la mano stupore ancora oggi, come la mia. Mano nell’insistenza dei richiami prigioniera in una fotografia con la piccola dagli occhi imbronciati. Intrepida cerchia di quattro felici e perfetti nell’attesa per tornare all’attacco e conquistare i tempi originari perduti. Un profumo rincorre un suono, un suono una voce che dall’invisibile ridona illusione d’ossa e di carne pensiero che si sfalda dove fiato in gola si perde. Sognai ero nella casa prima quella che più amai. Salvatore D’Ambrosio Caserta
NIENTE È MIO
PERDUTI SEGNI
Quel poco che ho e’ soltanto mio fino a quando vivo.
Non si perde sotto palpebre chiuse senza notti l’appreso. Rimane come di candela tenue lume a farsi al riaffiorare in superficie improvviso abbaglio.
Mariano Coreno Melbourne, Australia
CASE Uova come i pigri insetti ho lasciato nelle crepe dei muri delle tante abitate case. Mi torna a volte qualche profumo-invito
Nulla è rimasto o è rimasto poco quello che non c’è più però e più manca come una preghiera all’accendersi delle luci al crepuscolo il buona sera.
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L’ostilità del giorno rotta dal gesto in accordo con le voci a consumare la pace nelle case come per dire:questa è l’eternità. Consapevole canaglia tenue lume m’incendi la notte di perduti segni mentre cresce sotto il silenzio di palpebre concerto d’irrealizzabili promesse. Salvatore D’Ambrosio
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e scultura (si partecipa inviando due foto chiare e leggibili di un’opera pittorica o scultorea). 6) Alle sezioni precedenti possono partecipare anche gli studenti delle scuole primarie e secondarie. Il premio “Filoteo Omodei” è diviso in tre sezioni: 1) Poesia inedita in lingua italiana a tema religioso. 2) Poesia inedita a tema religioso in lingua dialettale. 3) Racconto inedito. Premiazione: a Verzella, in provincia di Catania, nel mese di giugno 2014. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Gli elaborati vanno inviati in cinque copie (tranne per la sezione libro con tre copie e sezione pittura con due copie), di cui una con generalità, indirizzo e numero telefonico, alla Redazione de “Il Convivio”: Premio “Filoteo Omodei”, Via Pietramarina–Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio e per gli studenti che partecipano tramite scuola. È richiesto invece da parte dei non soci, per spese di segreteria, un contributo complessivo per partecipare a tutte le sezioni di euro 10,00. Per informazioni tel. 0942986036, cell. 333-1794694, e-mail: enzaconti@ ilconvivio.org; angelo.manitta@tin.it. Sito: www. ilconvivio.org
*** D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE Premio “Filoteo Omodei” e “Pensieri in versi” 2014 - Scadenza 31 gennaio 2014. L’Accademia Internazionale “Il Convivio” bandisce la quinta edizione del premio “Filoteo Omodei” e la dodicesima edizione del premio ‘Pensieri in versi’, cui possono partecipare autori sia italiani che stranieri nella propria lingua o nel proprio dialetto. Per i partecipanti che non sono di lingua neolatina è da aggiungere una traduzione italiana, francese, spagnola o portoghese. Il premio “Pensieri in versi” è diviso in sei sezioni: 1) Poesia inedita a tema libero in lingua italiana. 2) Silloge di poesie senza limiti di versi, ma che comprenda almeno 10 liriche, (ordinate in 5 fascicoli, pena l’esclusione). 3) Poesia inedita a tema libero in lingua dialettale (con traduzione nella lingua nazionale). 4) Libro edito in lingua italiana o in dialetto: poesia, romanzo o raccolta di racconti, saggio (inviare tre copie, di cui una con generalità). 5) Pittura
COMUNICATO STAMPA DELLA LECTURA DANTIS METELLIANA - Primo appuntamento per gli appassionati e gli studiosi dell’Alighieri. Martedì 15 ottobre alle ore 18, nell’Aula Consiliare del Palazzo di Città di Cava de’ Tirreni, nell’ambito del 40° ciclo di letture dantesche organizzato dalla Lectura Dantis Metelliana, Eugenio Ragni, dell’Università di Roma Tre, “ha letto” il canto XXVII del Paradiso. Ha introdotto il presidente dell’Associazione, Fabio Dainotti. Ha coordinato i lavori il direttore Paolo Gravagnuolo. Il canto 27° è l’ultimo dei canti ambientati nel Cielo Stellato; in esso S. Pietro esprime un violento biasimo contro i suoi successori, che si servono della Chiesa per i loro bisogni materiali. Nel canto si assiste anche all’ascesa di Dante e Beatrice al Cielo Cristallino. Il professor Ragni, che ha firmato numerose voci per l’Enciclopedia dantesca, si è occupato anche della letteratura del Novecento; attualmente dirige i suoi interessi agli aspetti numerologici della Divina Commedia. In occasione dell’evento è stato conferito il Premio di laurea “ Fernando Salsano” e sono state esposte opere di un artista contemporaneo.
*** PREMIO ALIAS, VENTESIMA EDIZIONE Nella foto: Console Dr. Marco Maria Cerbo – Angelo Mario Cianfrone – Giovanna Guzzardi - Da-
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niel D’Appio - Premiazione 30 settembre 2013. Melbourne – Giunto alla sua ventunesima edizione, il concorso letterario internazionale dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori ha premiato la siciliana Enza Sangiorgio con la Medaglia d’ Argento del Sommo Pontefice e Angelo Cianfrone con la Medaglia d’Argento del Presidente della Repubblica. I due hanno partecipato e vinto grazie a due toccanti composizioni. L’ Accademia ha selezionato la poesia di Enza Sangiorgio, intitolata Salsedine, per il lirismo con cui l’autrice si relaziona al mare, elemento a lei familiare in virtù delle sue origini isolane. La poetessa, infatti, è nata a Melbourne e attualmente vive a Perth, nell’ Australia Occidentale, ma ha origini siciliane. Angelo Cianfrone, invece, ha ottenuto il riconoscimento del Presidente della Repubblica per un racconto, L’ Alpino, che narra la storia di un soldato di ritorno dalla campagna di Russia, il quale, pur cadendo in disgrazia, non abbandona il proprio sentimento patriottico. Angelo Cianfrone è nato in provincia di Chieti ed ora risiede ad Adelaide. I premi sono stati consegnati nel corso di una serata di gala dal Console Generale d’Italia a Melbourne, Marco Maria Cerbo, che si è complimentato con gli autori vincitori per aver mantenuto forte il legame con la terra e la lingua d’origine. Foto di Lorenzo Cambieri.
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Domenico Defelice - Scaffale (1964)
LIBRI RICEVUTI VALERIO MASSIMO MANFREDI - Il mio nome è Nessuno - Il giuramento - Romanzo, Numeri Primi Mondadori, 2012 - Pagg. 354, € 13,00. ** VALERIO MASSIMO MANFREDI - Il mio nome è Nessuno - Il ritorno - Romanzo, Mondadori, 2013 - Pagg. 336, € 19,00. Valerio Massimo MANFREDI è un archeologo specializzato in topografia antica. Ha insegnato in prestigiosi atenei in Italia e all’estero e condotto spedizioni e scavi in vari siti del Mediterraneo pubblicando in sede accademica numerosi articoli e saggi. Come autore di narrativa ha pubblicato con Mondadori quindici romanzi: “Palladion”, “Lo scudo di Talos”, “L’ Oracolo”, “Le paludi di Hesperia”, “La Torre della Solitudine”, “Il faraone delle sabbie”, ”Alèxandros” (trilogia), “Chimaira”, “L’ultima legione”, “L’Impero dei draghi”, “Il Tiranno”, “L’armata perduta”, “Idi di marzo”, “Otel Bruni”, “Il mio nome è Nessuno - Il giuramento”, nonché raccolte di racconti e saggi. Ha vinto prestigiosi premi, Dino De Laurentis ha tratto un film da un suo ro-
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manzo, conduce programmi culturali televisivi e collabora con “Il Messaggero” e “Panorama”. ** MARIO RICHTER - MARIA LUISA DANIELE TOFFANIN (a cura di) - Il sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto - Indagini e testimonianze a firma di: Francesco Carbognin, Padre Espedito D’ Agostini, Antonio Daniele, Silvio Ramat, Mario Richter, Maria Luisa Daniele Toffanin - allegato CD-Rom dei testi di Federico Pinaffo - Edizioni ETS, 2013 - Pagg. 126, € 14,00. Francesco CARBOGNIN lavora come Assegnista presso il Dipartimento di Filosofia Classica e Italianistica dell’ Università di Bologna. Autore dei volumi “<L’ Altro spazio”>. Scienza, paesaggio, corpo nella poesia di Andrea Zanzotto” (2007); “Le armoniose dissonanze. “Spazio metrico” e intertestualità nella poesia di Amelia Rosselli” (2011) e di studi sulla poesia del Novecento. Organizzatore di diversi Convegni nazionali e internazionali, curatore dei relativi Atti, di Andrea Zanzotto ha curato l’edizione di “Sull’Altopiano” (2007), di “Il mio Campana” (2011) e di diversi altri saggi a stampa e video. Ha collaborato all’edizione e al commento dell’”Opera poetica” di Amelia Rosselli (2012). Con N. Lorenzini ha curato “dirti “Zanzotto” “ (2013). Padre Espedito D’AGOSTINI è nato a Moriago della Battaglia (Treviso) nel 1944. Licenza in teologia presso gli istituti dell’Ordine dei Servi di Maria. Ha vissuto nei conventi di Venezia fino al 1990, promuovendo iniziative culturali legate al ruolo e alla vocazione secolare della Serenissima. Nel 1990 si trasferisce presso il Priorato di S. Egidio in fontanella di Sotto il Monte (BG), dove, fin dal 1964, David Maria Turoldo aveva fondato una comunità aperta all’incontro, al dialogo, all’impegno civile ed ecclesiale di rinnovamento. Ed è tramite Turoldo che egli conosce Zanzotto. Al Priorato tuttora conduce i quaderni di spiritualità “Servitium”. Antonio DANIELE è nato a Padova nel 1946 e ha insegnato nelle università di Vienna, Padova e Cosenza. E’ ordinario di Storia della lingua italiana all’ Università di Udine. Autore di numerosi saggi e monografie sulla lingua e la letteratura dal Trecento al Seicento e un’attenzione al più recente Novecento. Silvio RAMAT è nato a Firenze e dal 1976 al 2012 è stato professore ordinario di letteratura italiana contemporanea all’università di Padova. Premiato dall’Accademia dei Lincei, ha pubblicato: “L’ ermetismo” (1969), “Storia della poesia italiana del Novecento” (1976), “Protonovecento” (1978), “La poesia italiana 1903 - 1943. Quarantuno titoli esemplari” (1997), “I passi della poesia” (2002), “Il lungo amore del secolo breve” (2010). Poeta fin dall’età di vent’anni, nel 2006 ha riunito in “Tutte
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le poesie” (1.400 pagine, 2006) i libri editi a quella data. Sono apparsi, poi, “Il canzoniere dell’amico espatriato” (2009 e 2012) e “Bachi di prova” (2011). Mario RICHTER è nato a Valdagno nel 1935, libero docente dal 1966 e professore ordinario dal 1972, ha insegnato letteratura francese nelle università di Lecce, Parma, Milano e per 30 Anni a Padova. Fa parte di alcune fra le maggiori accademie venete. Autore di numerosi studi sul Rinascimento franco-italiano e sulla poesia moderna, da Baudelaire al Surrealismo. Al suo commento delle “Fleurs du Mal” (1990 - 1997), pubblicato anche in Francia (2001) è stato assegnato il Premio “Natalino Sapegno”. Tra i suoi libri ricordiamo “La formazione francese di Arderngo Soffici” (1969. Recentemente ha curato una nuova traduzione italiana del “Port-Royal” di Sainte-Beuve. Maria Luisa DANIELE TOFFANIN è nata a Padova, docente di italiano e storia negli istituti superiori. Dedita alla poesia e alle attività culturali, promuove, nell’ ambito dell’Associazione Levi-Montalcini, nelle scuole incontri letterali, momenti di poesia, laboratori di scrittura. Partecipa a convegni organizzati dall’ Università di Udine. Pubblica poesie su riviste nazionali e internazionali. Ha pubblicato: “Dell’azzurro ed altro” (1998, 2000), “A Tindari” (2000, 2001), “Per colli e cieli insieme mia euganea terra” (2002), “Dell’amicizia - my red hair” (2004 - 2006), “Iter ligure” (2006), “Fragmenta” (2006), “E ci sono angeli” (2011), “Appunti di mare” (2012). ** LEONARDO SELVAGGI - Antonio Angelone e il suo mondo ideale - EdiAccademia, Isernia 2013 - Pagg. 44, s. i. p. Leonardo SELVAGGI è nato a Grassano (MT), ma vive a Torino, dove è stato dirigente superiore del Ministero per i Beni Culturali. Collaboratore di svariate Riviste, ha ottenuto premi e riconoscimenti. Curatore di importanti Antologie di Poesia contemporanea, ha pubblicato diecine di volumi tra prosa, poesia e saggistica, tra i quali si ricordano: Le ombre; Diario Poetico; Frammenti; Desiderio di vivere; Venti anni di Poesia; La transizione; Lo sradicato e altri scritti; Pagine di un anno; Le radici dell’essere; La croce caduta; L’ ultimo dei romantici; Le feste degli altri; Franti pensieri d’autunno; Il mattino dell’ufficio; Immigrato a Torino; Poesie in due tempi; Eterne illusioni; Stimolazioni e colloqui; I giorni del baratro; Realtà e Poesia; Francesco Lomonaco; Saggi sulle “poesie” di Ferruccio Brugnaro; Le ultime pagine del Duemila; Lontano è il tempo della notte; Andrea Bonanno pittore e saggista dell’uomo nella sua essenzialità primordiale; L’amore sopra il precipizio; Poesie nella tempesta; Nicola Festa il classicista sommo della Basilicata; Vita e Pensieri; Sugli asse-
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tati di Ordine e Giustizia; Noi e il Terzo Millennio; I tempi felici; L’altra valle; La terra tutta ci prende; L’anima e gli echi lontani; Ruggero Bonghi; La poesia di Carmine Manzi nella sua ultima evoluzione; Luigi Pumpo – Poeta della vita e della natura; Domenico Defelice e le sue opere etico-sociali; Pantaleo Mastrodonato nella vita e nell’arte. Profilo critico di scrittore e poeta; eccetera, dei quali si sono interessati numerosi critici. Nel 1988, il Centro di Studi e Ricerche “Mario Pannunzio” gli ha conferito il Premio Speciale del Presidente della Repubblica per la letteratura e il 2 giugno del 1989 gli è stata conferita l’ onorificenza di Ufficiale dell’ Ordine “Al merito della Repubblica Italiana”. ** AA. VV. - Presentazione dello Scrittore Antonio Angelone Chiostro del Comune di Forlì del Sannio 2 Agosto 2013 - All’interno, fotografie in bianco e nero - EdiAccademia, 2013 - Pagg. 44, s. i. p. ** ALDO DE GIOIA - ANNA AITA - La lunga notte. Le quattro giornate di Napoli - Rogiosi editore, 2012 - Pagg. 80, € 12,50. ** ALDO DE GIOIA - Sogni lontani - Poesie RCEMultimedia Communication Company, 2013 Pagg. 124, € 12,00. Aldo DE GIOIA, storico di Napoli, poeta, giornalista. Ha scritto su importanti quotidiani italiani: “La Repubblica”, “L’Avanti”, “Napoli Notte” e “Libero” quando la prima redazione era diretta da Aldo Bovio. Ha collaborato con giornalisti di vaglia come Arturo Fratta, Max Vairo, Mimì De Simone e Pietro Gargano. Ha fatto parte della Commissione Toponomastica del Comune di Napoli, ha dettato lapidi commemorative e varie. Per motivi storici è stato nominato cittadino onorario di Atella (NA), Benemerito dell’Università degli Studi di Salerno, Grande Ufficiale della Repubblica Italiana. ** ANNA AITA - Aldo De Gioia. Quando la storia diventa poesia - In copertina, a colori, ritratto di Aldo De Gioia; all’interno, a colori e in bianco e nero, 98 foto, più numerosi documenti - RCEMultimedia Communication Company, 2013 - Pagg. 158, € 18,00. Anna AITA è nata e vissuta in un ambiente di musica e poesia. Suo padre era pianista, lo zio paterno tenore del S. Carlo, mentre al nonno materno, Antonio Cinque, poeta, fondatore e direttore de “La piccola Fonte” (primo cenacolo letterario), è stata intestata una strada a Napoli. Aita ha pubblicato: “Riflessi dell’anima” (poesie), “Sul filo della memoria” (narrativa), “Soltanto una carezza” (poesie), “Trasparenze” (quaderno di poesie ottenuto in premio con votazione nazionale), “Il co-
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raggio dell’amore” (romanzo verità), “In tre andando verso” (poesie), “Così la vita” (poesie), “Sintesi e commento di alcune opere di Carmine Manzi” (monografia), “Don Giustino tra storia e poesia” (biografia), “La lettera smarrita, La lunga notte”, “Domenico Defelice. Un poeta aperto al mondo e all’amore” (monografia).
TRA LE RIVISTE IL CENTRO STORICO - Organo dell’ Associazione Progetto Mistretta, Presidente Nino Testagrossa, responsabile Massimiliano Cannata - via Libertà 185 - 98073 Mistretta (ME) - Riceviamo il n. 8 - 9 (agosto-settembre 2013) e rileviamo gli interventi di Massimiliano Cannata (“Cocchiara e l’ Inghilterra: mondi ed esperienze a confronto”), Francesco Saverio Modica (“La chiesa di Santa Caterina”), Aldo Antonio Cobianchi (“Bianca di Villamena, di Francesco Rampolla Del Tindaro”), Lucio Bartolotta (“Pirandello e Sciascia: la “sicilitudine” “). * IL FOGLIO VOLANTE/LA FLUGFOLIO - mensile di cultura varia, direttore Amerigo Iannacone, responsabile Domenico Longo - via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro (IS) - Sul n. 10 (ottobre 2013), poesie di Loretta Bonucci. * SOLOFRA OGGI - Dr. responsabile Angelo Picariello - via Casapapa 1 - 83029 Solofra (AV) - Riceviamo il n. 8 - 9 (agosto-settembre 2013).
LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina a Domenico Defelice) Carissimo, mi hai permesso su Lionello Fiumi uno spazio importante nel numero di Ottobre della tua 'bella creatura' Pomezia Notizie, ora più che mai splendente nei suoi primi quarant'anni ed oggi, Domenica 13 Ottobre, mi lascio sbalzare a Roverchiara dalla 'Peugeot' del mio Amico Gianluigi, di colore verde metallizzato: con lui alla guida mi sento sicura e talora volgiamo lo sguardo su queste terre lungo il
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corso dell'Adige, carta stradale alla mano, perché non si sa dove sia. Si pensa, si riflette, le parole non bastano a segnalare il nostro stato d'animo perché tanto, troppo rimane solo nel pensiero, per pudore e per rabbia insieme, perché gli italiani non sono solo 'brava gente', ma hanno anche, prima di tutto una dignità, che va rispettata. Anche lui, il prof. Gianluigi Bellin, docente all'Università di Verona nei Corsi di Logica, Matematica e Filosofia della Scienza, ha trovato spazio nella tua Rivista, per temi che riguardano la Giustizia e con una 'Lettera Aperta', concentrata sul problema dei ricercatori universitari e non solo: ama la Poesia, quella d'Italia e d'ogni dove, è musicista e Monteverdi lo prende dentro, con i suoi madrigali. 'Tu sei Poeta clandestino', gli dico spesso io, usando un'espressione che Giulio Caprin ha utilizzato per designare se stesso all'amico Fiumi e che lo scrittore Gianfranco Casaglia ha così bene evidenziato nell'opera 'La scoperta di un Poeta Il poeta clandestino scrive al poeta giu-
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stamente palese - Lettere di Giulio Caprin a Lionello Fiumi presenti nel Centro Studi Inter nazionale 'Lionello Fiumi' Biblioteca Civica di Verona' che ti farò mandare, un'intensa corrispondenza fra i due, ma mancano le lettere di Fiumi al Caprin e il dott. Contò ne ha curato la Prefazione. Qui, nel piccolo Comune di Roverchiara, nella casa dei nonni paterni, il Fiumi veniva a passare le vacanze, dopo essere stato a Parigi ed altrove e qui, proprio oggi si svolge la cerimonia della premiazione dei vincitori del PREMIO LIONELLO FIUMI POESIA E TRADUZIONE. Arriviamo in ritardo, tutti sono già seduti e la sala del Municipio è gremita, alle pareti foto che non ho potuto guardare. Il Sindaco Loreta Isolani è Presidente Onorario e siede al centro, alla sinistra del dott. Contò, che è il responsabile del Centro Studi di Verona e Presidente del Premio, poi Cinzia Bigliosi, traduttore, Enzo Saggioro, critico letterario, e poi l'Assessore alla Cultura della Provincia di Verona e Stefania Guerrini, responsabile della Biblioteca 'Lionello Fiumi' di Roverchiara, Segretaria del Premio e sua anima pulsante, perché carica di entusiasmo e di intelligenti emozioni. La presentazioni dei premiati viene intercalata da esecuzioni musicali per pianoforte e violino, brevi ma intense, partendo da Vivaldi, attraversando Dvorak per arrivare a Massenet. Ti manderò tutto il materiale pubblicato su Fiumi ed il Premio, perché ne ho fatto precisa richiesta proprio alla signora Stefania che, slanciata ed elegantissima in una mise Chanel, ha ricordato commossa il suo contatto telefonico con Alberto Bevilacqua, quando lo ha avvertito, poco prima che morisse, che aveva vinto il Premio: con questo intervento lei lo ha voluto 'rassicurare', si, perché verrà ricordato ed il suo mondo d'anima vivrà ancora. Anche in questi tempi di 'resa dei conti pubblici' strettissima ed assillante, il Sindaco Isolani ha fatto in
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Novembre 2013
modo tale da trovare i fondi per la XIII Edizione del Premio, perché nulla viene chiesto ai partecipanti, che sono stati moltissimi, suddivisi nelle tre sezioni, le poesie in raccolta edita, premio vinto da Giovanni Trimeri, le poesie in raccolta inedita, vinto da Ivan Fedeli ed il Premio 'Martha Leroux' per un'opera edita in versi o in prosa tradotta dalla lingua francese, vinto da Francesco Bergamasco. Si, caro Direttore, perché Martha era la prima moglie parigina del poeta ed è morta prematuramente: ne abbiamo visto la dolce bellezza quando il dott. Contò, a conclusione dell'incontro ed alla presenza del nipote del Fiumi, Giovanni Fiumi, ha mostrato una selezione di immagini che loro due hanno scelto, tra esse un 'interno' familiare raffinato e tristissimo ad un tempo perché coglie Martha e Lionello, con alle spalle il padre di lui, Giovanni ed in primo piano un bambolotto di celluloide, di quelli grassocci e nudini di una volta... Mi ha preso un nodo alla gola! Puoi immaginare il mio imbarazzo quando, poco prima dell'inizio della premiazione e della lettura delle poesie degli Autori selezionati, lui, il dott. Contò, mi ha citata pubblicamente come colei che sta portando avanti uno studio sull'amicizia tra Fiumi e Carême ed io ti ho pensato subito perché è solo grazie a te che ho potuto pubblicare le prime importanti tappe di questo percorso coinvolgente che mi ha colto da anni in ricerche, viaggi e lavoro: sei stato tu darmi il coraggio, costantemente scandito mese dopo mese dalle pubblicazioni su questi temi, utilizzando materiale del Fondo Fiumi di Verona, e segnalato con emozione forte nelle 'Lettere' a te, perché si sappia che un'opera è esperienza di vita e non solo di studio; perché si vibri ancora di fronte al fenomeno estetico della Poesia; perché si capisca che un legame profondo scaturisce tra due Amici ed è la Poesia stessa che li unisce e ne alimenta la linfa vitale. Tu, Poeta illuminato e in palpito, tu che guidi da ventitré anni, si, da ben ventitré anni, il PREMIO CITTA' DI POMEZIA, tu sai che la Poesia non è solo 'dono' di rime e ritmi ma è esperienza e vita e abbandono e risorgiva ad un tempo... Quando
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ho mostrato la tua Rivista al prof. Francesco De Piscopo, docente di Letteratura Italiana all'Università di Napoli Federico II, mi ha detto che ti stima tantissimo e sa cosa vuol dire coordinare lavori ed autori in tempi così difficili! Ma torniamo a noi. La cerimonia si è poi conclusa e tutti si sono spostati nella villa del Fiumi, posta di fronte al Municipio di Roverchiara e da lui donata al Comune, per un buffet all'aperto, tra vini delle terre veronesi, vivande in piccoli piatti ed un risotto alla salsiccia che ci ha lasciato sapore antico in bocca, sacro. Torneremo qui ancora, per tutti i dettagli fotografici sulla vita del Poeta, ma intanto ti abbraccio, riconoscente. Ilia Ilia Carissima, Roverchiara (somiglia tanto alla mia “Quercia” in Alberi?: “Sulla collina/ solitaria/le braccia ampie stendeva/in un canto altissimo di foglie,/turbinio di specchi solari”) è ancora - a quel che sembra - una speciale isola felice, se Sindaco - e non poteva che chiamarsi Isolani! -, assessori di provincia, studiosi, critici letterari e d’Arte, innamorati della Bellezza, collaborano in armonia e portano avanti il Premio intestato a Lionello Fiumi. Pomezia è, invece, mare comune della corruzione e dell’intrallazzo. Città sorta dal nulla nel 1938 ad opera del Fascismo, è divenuta improvvisamente, negli anni 1960 - 1970 attraverso la Cassa per il Mezzogiorno, il polo più industrializzato del Lazio (solo da Roma, giungevano a prestare la loro attività, ogni giorno, 25 mila pendolari). Aggredita e poi divorata a brani da politici e impresari disonesti e d’assalto, oggi (e conta circa 70 mila abitanti), Pomezia è ridotta a un agglomerato di case sorte alla rinfusa in cui vive - si fa per dire! -, accanto a un gruppo assai consistente di facoltosi che meriterebbe di godere della sorveglianza costante della Guardia di Finanza - gente disperata per mancanza di lavoro. Pomezia, deserto desolato in fatto di cultura: la sua biblioteca non è in grado di conservare e di valorizzare neppure quello
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che ha richiesto e che i cittadini le hanno donato; il suo teatro è solo una fabbrica mangiasoldi, da decenni in costruzione. Pomezia, dalle migliaia di capannoni vuoti, soffocati dalle erbacce e dalle spine. Pomezia,il cuore mio lacerato per i tanti giovani e i tanti vecchi a rovistare nei cassonetti anche in pieno mezzogiorno. Il Comune è gravato da più di 150 milioni di euro di debiti e il Premio Internazionale Città di Pomezia, da me fondato e diretto, grava totalmente sulle mie misere spalle. Vivendo con una pensione da mille euro, non posso permettermi lussi; viaggio solo con la fantasia e ho dovuto ridurre il Premio al solo editoriale, abolendo, cioè, la bella cerimonia di premiazione che, negli anni passati, riuniva migliaia di persone dall’Italia e dall’estero. Dico migliaia, perché la cerimonia si svolgeva in due tempi, intervallati da avvenimenti come, per esempio, la sfilata degli abiti da sposa o dei gruppi folcloristici nazionali, che richiamavano autentiche folle. Un Premio conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo (tra i vincitori stranieri si ricordano, Solange De Bressieux, della Sorbona di Parigi e Orazio Tanelli della Rutgers University, N. J., USA), riportato anche nel volume Premiopoli di Cinzia Tani, edito dalla Mondadori. Opera legata al Premio era pure l’Antologia Pometina (tre volumi: 1985, 1986, 1987), della quale il 21 settembre 1989 è stato omaggiato anche SS. Giovanni Paolo II. Allora, un applauso futurista-lirico* e meritatissimo al Sindaco Loreta Isolani, al dott. Agostino Contò, a Cinzia Bigliosi, Enzo Saggioro, Stefania Guerrini. E un grazie anche a te, dal cuore, perché, amando svisceratamente la Cultura, corri da un capo all’altro l’Italia, vai all’estero e leghi d’amicizia e di fattiva partecipazione studiosi di vaglia. Darti spazio sulle pagine della mia creatura di carta è, dunque, non soltanto un dovere, ma un vero godimento dell’anima. Stimo anch’io il prof. De Piscopo e gradita mi sarebbe la sua collaborazione. Un fraterno e caloroso abbraccio. Domenico
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*Non credere - cara Ilia - al Fiumi quando si dichiara antifuturista: certi suoi versi e immagini, se proprio non lo sono, del Futurismo hanno ...odori e sapori! AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) composti con sistemi DOS o Windows su CD, indicando il sistema, il programma ed il nome del file. E’ necessaria anche una copia cartacea del testo. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute. Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario). Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I testi inviati come sopra AVRANNO LA PRECEDENZA. I libri, possibilmente, vanno inviati in duplice copia. Per chi usa E-Mail: defelice.d@tiscali.it Il mensile è disponibile anche sul sito www.issuu.com al link http://issuu.com/ domenicoww/docs/p._n._2013_n._11
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