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CON GRATITUDINE E GIOIA di Emerico Giachery
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ESTIERE affascinante, quello di docente di letteratura, come ha mostrato il celebre film L’attimo fuggente di Peter Weir con l’indimenticabile interpretazione di Robin Williams. Mestiere complesso, dalle molteplici e un po’misteriose sorgenti, che richiede letture, riflessioni, confronti mai bastevoli, ma che anche dai contatti con la vita e con la bellezza può trarre rigoglio, giovinezza. E che soprattutto, come ora si vedrà (e come del resto è ovvio), trae nutrimento e motivi di gioia dal contatto con gli studenti. Se mi volgo indietro, e getto uno sguardo sullo sgranarsi degli anni e dei decenni impegnati nell’insegnamento della letteratura, costruttivi e vivi mi appaiono anzitutto i molti incontri umani e scambi d’idee con i giovani, certi abboccamenti per le tesi e il piacere di “accompagnare” i candidati all’importante, solenne cimento dell’esame di laurea; e persino – strano a dirsi – certi esami di profitto, concepiti come opportunità di colloquio cordiale e sereno, mai come controlli “fiscali”. Specialmente quando, all’Università di Macerata o di Genova o di Roma II-Tor Vergata, non essendo obbligatoria la materia da me insegnata, potevo lasciare agli studenti un avvio più libero e personale, e da quello partire per un dialogo costruttivo che desse la misura della maturità intellettuale raggiunta, della passione, dei motivi delle scelte. Con la gratitudine che si deve a certi doni della vita, ricordo le occasioni di condividere con gli studenti il godimento di grandi testi di poesia: occasioni scan-
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All’interno: Valerio Massimo Manfredi: Il mio nome è Nessuno, di Domenico Defelice, pag. 4 Juana Inés de La Cruz, di Marina Caracciolo, pag. 7 Le cas Rousseau di Pascale Delormas, di Ilia Pedrina, pag. 10 Anna Aita: Domenico Defelice, di Orazio Tanelli, pag. 13 Lettura di Chatterton di Alfred De Vigny, di Nazario Pardini, pag. 16 Luigi Mancini, di Antonia Izzi Rufo, pag. 20 Filippo Corridoni, di Leonardo Selvaggi, pag. 24 Piera Bruno: L’Arca di Noè, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 26 Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago, di Giuliano Ladolfi, pag. 28 Per Giuseppe Antonio Camerino italianista, di Carmine Chiodo, pag. 29 Nicolaj Vaşlevic Gogol, di Leonardo Selvaggi, pag. 31 San Salvi - 4 ottobre 2013, di Anna Vincitorio, pag. 34 L’Ombra di poesia di Maria Grazia Bertora, di Luigi De Rosa, pag. 36 Luci della Capitale, di Noemi Lusi, pag. 38 Premio Città di Pomezia 2014 (regolamento), pag. 40 I poeti e la Natura (Nazim Hikmet), di Luigi De Rosa, pag. 41 Notizie, pag. 53 Libri ricevuti, pag. 60 Tra le riviste, pag. 62
RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Domenico Defelice Un poeta aperto al mondo e all’amore, di Anna Aita, pag. 43); Tito Cauchi (Il flauto dell’anima, di Silvana Andrenacci Maldini, pag. 44); Tito Cauchi (La donna dei Velcha, di Colombo Conti, pag. 45); Aldo Cervo (I simboli del mito, di Nazario Pardini, pag. 46); Mariano Coreno (Sguardo a ritroso, di Noemi Lusi, pag. 46); Elisabetta Di Iaconi (Domenico Defelice Un poeta aperto al mondo e all’amore, di Anna Aita, pag. 47); Antonia Izzi Rufo (I simboli del mito, di Nazario Pardini, pag. 48); Pasquale Montalto (Quaderno sgualcito, di Fulvio Castellani, pag. 49); Maria Antonietta Mòsele (Commiato, di Silvano Demarchi, pag. 49); Maria Antonietta Mòsele (Il mio zibaldone, di Andrea Pugiotto, pag. 50); Maria Antonietta Mòsele (Ubaldo Riva, di Liana De Luca, pag. 50); Maria Antonietta Mòsele (La donna dei Velcha, di Colombo Conti, pag. 51); Angela Maria Tiberi (La donna dai denti d’oro - Oltre lo scialle, di Sara Rodolao, pag. 51). Lettere al Direttore (Ilia Pedrina), pag. 62 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Giorgina Busca Gernetti, Domenico Cappelli, Elsa Cenaj, Mariano Coreno, Maria Luisa Daniele Toffanin, Domenico Defelice, Salvatore D’Ambrosio, Maria Teresa Epifani Furno, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Adriana Mondo, Walter Nesti, Teresinka Pereira
dite dai ritmi e animate dal fluire di corsi e seminari. Ricordo il fervore illuminante della ricerca che quegli eventi preparava e alimentava. Limitata, imperfetta, fu comunque ricerca di verità e di luce. È proprio inevitabile che
tanto lievito vitale sprofondi per sempre nel nulla e nell’oblio? Mi basterebbe poter coltivare la speranza che qualche minuscola fiammella, scaturita dal gran crogiuolo e cuore della cultura d’Europa, si sia accesa in
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qualcuno, specie in giovani, per il tramite del mio lavoro e della mia passione; e che il lume di quella auspicata fiammella possa essere anche spirituale, non intellettuale soltanto. So bene che spirituale è vocabolo inviso a molti. Non mi lascio certo spaventare dalle parole né da chi si spaventa per le parole, e vado dritto per la mia strada, tanto più cara quanto più personale e appartata. In questo caso la qualifica di spirituale condensa per me più d’ un aspetto della comunicazione didattica. Mi limito qui a chiarire un solo aspetto, centrale. Ciò che quel termine può significare nel momento dell’incontro col testo poetico, molto meglio di me lo fissano le parole di un indimenticabile pensatore e amico, Rosario Assunto: «sempre altro dice la poesia, ad ascoltarla e a leggerla; proprio perché eccede rispetto alla comunicazione, e per questo acquista quel senso [...], che ci solleva al di sopra della nostra umana caducità». Ecco: di quel “senso”, nell’interpretazione della poesia (ma non soltanto in quella!) vorrei essere stato, qualche volta almeno, docile e fedele messaggero. Da circa vent’anni anche questa lunga stagione di intensi studi, di insegnamento appassionato, si è conclusa. Ho continuato a studiare, a scrivere, ma mi è mancata la gioia della comunicazione diretta con i giovani. Tra i tanti corsi, ricordo con particolare nostalgia i corsi su Montale (al quale ho dedicato anche il nuovo libro appena apparso intitolato Per Montale). Testo dopo testo si percorreva insieme un itinerario di poesia, che era anche un itinerario di conoscenza e di apertura al mondo. Incontrare ex-allievi è per me sempre una gioia. Anche mentre visitavo il Castello di Praga mi capitò di incontrare una ragazza che si era laureata con me. Quel po' di luce che, con molte perplessità, mi sembra di esser riuscito a trasmettere e suscitare tramite le epifanie dei grandi testi poetici attivati, ma spero non sopraffatti, dall'atto maieutico dell'interpretazione, proviene, comunque, non dal mediatore-interprete, bensì
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dai testi stessi, e a sua volta perviene ai testi da aspetti e valori dell'esistenza. Ho detto qualche volta, in modo certo troppo semplicistico ma forse efficace, agli studenti, che noi siamo arpa eolia di un'arpa eolia: quella dei testi, la quale a sua volta fa vibrare folate del gran vento dell'esistenza. Se poi l'esistenza, come tendo a credere, si fonda e s'avvalora nell'Essere, un’eco sia pur tenue e remota di quell' Essere deve pur sussistere nelle grandi voci della poesia e del pensiero. A quell’eco, forse, al nostro sintonizzarci con esso mediante gli strumenti offerti dalla filologia, dalla sensibilità e dal gusto, si deve in parte la gioia che scaturisce dalla trasmissione interpretativa di un testo poetico che ci attraversa e trascende. Gioia, anche, di una vittoria sul silenzio e sul nulla, ottenuta col far rivivere attraverso il testo vita e storia in esso coagulate, gioia come di proustiano temps retrouvé. L'interpretazione (che è anche “esecuzione”) riuscita di un grande testo è sempre un rito, ha una sua liturgica sacralità. Di questo rito, il pubblico (e tanto più un pubblico di discepoli), come in ogni autentico rito, è partecipe, e a suo modo “ministro”. Quando mi sembra di essere riuscito a ufficiare il rito adeguatamente - e ciò avviene non senza una sorta di lucido rapimento - in me scaturisce un'onda di affetto e di gratitudine sia verso il testo sia verso il coro silenzioso degli ascoltatori. Mi è caro che questa pagina di memoria si concluda con una nota di gratitudine. Emerico Giachery AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 15.11.2013 Si indagan commercianti, preti e politici. Un vortice immane, tra tecnologia, orchi, denaro e minorenni. A scavar, tutti siam sudici e sporchi. Alleluia! Alleluia! Quando la mamma è mamma alla lontana, la figlia non è figlia, ma puttana! Domenico Defelice
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VALERIO MASSIMO MANFREDI IL MIO NOME È NESSUNO di Domenico Defelice
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HI ama la classicità, la storia, la leggenda, il mito, non può non apprezzare i due appassionanti romanzi di Valerio Massimo Manfredi: Il giuramento e Il ritorno, entrambi editi dalla Mondadori. Lo scrittore e archeologo, con semplicità e chiarezza, riprende e rimpolpa storie che ci hanno fatto sognare già sui banchi di scuola. Il personaggio di entrambi è Odisseo che, nel Prologo, ci viene presentato vecchio, in un paesaggio di ghiaccio, errabondo e poi in una grotta dalla “scarsa luce” e “inghiottita dal buio”. E’ in un tale ambiente che inizia a narrare in prima persona, a rievocare le proprie avventure, mentre fuori il vento ulula insieme ai lupi e la neve cade incessantemente. Ecco la sua nascita, ecco la sua infanzia con la nutrice, la madre Anticlea. Il padre Laerte, all’inizio, è lontano, sul mare, assieme a un pugno di eroi e di amici alla conquista del Vello d’Oro. Una infanzia, di Ulisse, simile a quella che, poi, forse più accentuatamente sola, vivrà suo figlio Telemaco, allorché egli sa-
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rà via per la tragica e lunga guerra contro Troia e poi per l’altrettanto tragico e lungo viaggio di ritorno; ecco la giovinezza trascorsa alla reggia assieme al suo primo maestro Mentore, a Femio, a Damaste che gli farà apprendere l’uso delle armi; ecco le visite al nonno materno. Storia e leggenda sapientemente mescolate dalla scienza, dalla conoscenza e dalla fantasia di questo affabulante scrittore, sicché Panorama può giustamente affermare che “Manfredi ha la capacità di portarti in mezzo agli eroi omerici come fossero persone vive”. E gli eroi ci son tutti, ognuno con la propria personalità, i pregi, i difetti, scolpiti con tale sapienza da radicarsi, nella nostra mente, anche coloro che, in realtà, non vengono mai incontrati ma solo nominati, evocati, come Ercole o Castore e Polluce. Storie meravigliose e quasi tutte tragiche, a volte inverosimili, di Alcesti, per esempio, che si consegna volontariamente alla morte per allungare la vita del marito e che poi viene strappata all’Ade proprio da Ercole per essere ricondotta ad Admeto e ai due figli. Avvenimenti tutti noti, perché Manfredi segue il canovaccio dell’Iliade e dell’Odissea. Nel primo romanzo, quindi, abbiamo tutta la vita di Ulisse fino alla distruzione di Troia per il rapimento di Elena da parte di Paride partendo dall’accordo tra i re della Grecia per distruggere l’odiata città - e le singole vicende degli eroi più importanti: Menelao, Agamennone, Patroclo, Achille, gli Aiace, Diomede e tantissimi altri; in sottofondo, anche gli dei con Giove e la sua corte, ma, in particolare, Minerva protettrice di Ulisse, al quale si manifesta spesso, sotto forme diverse, come la civetta, come Mentore, come Damaste... Esseri straordinari, grandiosi e quasi tutti apportatori di morte quelli che emergono dal racconto di Ulisse, nel quale, di tanto in tanto, si sente “risuonare più alto” dell’urlo della battaglia “il canto del poeta (...). Un canto che era un lungo pianto, un gemito desolato, ma pure una melodia sublime e struggente che tutto sovrastava, diversa com’era dalle
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urla di guerra e di morte”. Nell’ignoto protagonista, ci sembra adombrato il cieco Omero. Tutti gli episodi, sostanziati e dilatati dall’ arte dello scrittore, appaiono veri o verosimili. Un po’ forzati ci sembrano solo gli incontri tra Ulisse ed Elena, in particolare quello nella stessa città di Troia, perché Elena era pur sempre una regina - addirittura straniera - e, come tale, anche in quel tempo, difficilmente lasciata sola, a muoversi liberamente al di fuori delle proprie stanze e mentre il suo ex marito ferocemente combatteva fuori delle porte. Infine, condividiamo la scelta di Manfredi di non soffermarsi sulla morte di Ettore, eroe che ci ha sempre commosso, che ci ha fatto piangere allorché, per la prima volta, abbiamo letto e studiato il canto dell’Iliade in cui Omero narra del duello e della fine dell’eroe troiano. Allora, lo stesso Omero ci è sembrato pietoso. Se Manfredi avesse rivangato meticolosamente quel dramma, rileggerlo, anche oggi sarebbe stato come aggiungere dolore a dolore. Poiché “Non avrebbe (...) senso, come spesso invece accade, attribuire all’eroe vagabondo caratteri, vizi e virtù che appartenono a epoche, gusti e mentalità così lontani fra loro”, lo stesso Manfredi dichiara di essersi “attenuto essenzialmente alla figura omerica del personaggio” e “la storia - continua - è narrata in chiave (...) realistica proprio perché immaginata come un racconto non ancora filtrato ed elaborato dal canto degli aedi e dei rapsodi, e perché l’io narrante è il protagonista stesso della storia”. Anche l’ onomastica non è quella da noi qui usata, perché Manfredi riporta “in italiano i nomi più noti e adattati dall’uso, in greco quelli meno noti oppure quelli che, per motivi di ambientazione e di atmosfera, ci sono parsi più efficaci e suggestivi nella lingua originale”. *** Nel secondo romanzo, “Il ritorno”, si rivivono tutte le avventure di Ulisse durante il lungo e periglioso viaggio, con i mangiatori
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di loto, Polifemo, Eolo il dio dei venti. L’eroe con le sue navi si stacca da tutti gli altri perché, dopo essere partito, ritorna tra le macerie di Troia in cerca del simulacro della sua dea protettrice, Minerva, che aveva ammirato in un tempio. Il viaggio è pieno di tensioni e costringe Ulisse e gli altri a stare al timone e a vigilare per molti giorni e notti. Ma ecco Itaca, finalmente. Ulisse si rilassa, le pupille gli si chiudono e quando si sveglia, non si trova più sulla sua isola, ma in mezzo a una furiosa tempesta. I compagni, mentre lui dormiva, curiosi, avevano aperto l’otre dei venti contrari, dato in dono da Eolo, e la nave era stata risospinta in mare aperto. L’avventura ricomincia. Ecco i feroci giganti Lestrigoni, Circe l’ incantatrice (unico episodio rilassante, oltre la sosta, poi, solitaria nella reggia di Nausicaa), il regno dei morti, le Sirene, Scilla e Cariddi, i Buoi del Sole, l’ennesima tempesta che ingoia il resto dei compagni, Calypso - la cui vicenda è narrata come se fosse un sogno -, la zattera, e, ancora, prima di approdare da Alkinoos nell’isola dei Faiakes, il naufragio che lo priverà persino dei vestiti, metafora di come l’uomo, alla fine della sua parabola terrena, si troverà nudo come alla nascita e come alla nascita sporco: “Ero nudo, come quando ero nato lassù nel palazzo sulla montagna, non avevo più navi, né guerrieri, né armatura, né tesori predati nella città espugnata, non avevo nemmeno uno straccio per coprirmi. Ero sporco di salsedine, con la barba incolta e i capelli arruffati”. Finalmente accompagnato a Itaca, incontra il porcaro Eumeo, il figlio Telemaco, la reggia occupata dai Proci. Infine, prima dell’ abbraccio con Penelope, la vendetta contro i Proci in una battaglia spietata come una delle tante combattute sotto le mura di Troia. Anche in questo secondo romanzo ci sono cantori e poeti cantori; Demodoco, addirittura è cieco al par del mitico Omero. E non manca la poesia della Natura nella sua coralità (oltre il mare, cioè, il quale, dato il genere dei due poemi sui quali i romanzi sono impostati, non poteva che dominare): “Il sole scendeva in
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quel momento dentro il mare purpureo e il canto degli uccelli si spegneva piano tra le fronde dei cipressi e dei mirti”. Gli dei sono quasi assenti. Si intuiscono, non c’è una partecipazione diretta. La più presente è Minerva, che anche in questo secondo libro assiste Ulisse apparendogli spesso sotto mentite spoglie: “Solo? - dice la dea al suo eroe che si lamenta della sua assenza Eri tu che non mi vedevi più, non ascoltavi la mia voce. Chi credi che abbia mandato il giovane con il sole nei capelli nell’isola di Kirke e in quella di Calypso? E chi pensi che fosse il gabbiano con le piume arruffate sulla testa dell’albero? E il rospo che arrancava nella melma gelata al tuo fianco lungo la strada fangosa nel paese dei morti? E la folaga che usciva dall’abisso del mare per guidarti? E quella che volando fuori dalle acque del fiume ti dava la forza di uscire dal bosco, di rivolgerti a Nausicaa? Chi credi ti abbia fatto così bello agli occhi della piccola principessa?”. Insomma, i due immortali poemi: l’Iliade e l’Odissea, riproposti in una prosa limpida, da gustare anche da coloro che, per mancanza di studi o altro, non potrebbero mai comprendere ed apprezzare in pieno gli immortali versi di Omero. Poi, dopo aver trascorso qualche anno a Itaca con i suoi, con Penelope e Telemaco, Odisseo riparte per l’ultimo viaggio con un remo in spalla, per raggiungere una meta sconosciuta, incontrare un altrettanto sconosciuto uomo del tutto ignaro del mare, immolare al dio Poseidon e ritornare ancora a Itaca per trascorrervi gli ultimi giorni. Quest’altro viaggio, che occupa gli ultimi capitoli, è narrato da Manfredi come fosse un tragico sogno, più che una realtà di tempo e di spazio. Tentativo, secondo noi, di dare in qualche modo risposta a cenni leggendari presenti nei poemi, nella mitologia, poi, nel corso dei secoli, interpretati in modo diverso da studiosi e poeti, come la tesi svolta da Dante nella Divina Commedia e che vuole Odisseo inghiottito dall’oceano. Al di là della storia, al di là della leggenda e
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delle infinite finzioni, i due romanzi di Valerio Massimo Manfredi si leggono con ingordigia. La trama è nota fin dall’inizio, essendo nella conoscenza universale le traversie e le peripezie di Odisseo; il fascino sta tutto, allora, nella fervida fantasia che li impolpa e nel linguaggio. Domenico Defelice VALERIO MASSIMO MANFREDI - IL MIO NOME È NESSUNO - Due romanzi: Il giuramento (volume primo, pagg. 358, € 13,00, Numeri Primi Mondadori 2013) e Il ritorno (volume secondo, pagg.356, € 10,00, Mondadori , 2013).
INSEGUENDO L’AQUILA Io ti ho seguita in volo pei cieli della tua solitudine sperando la cima maestosa che s’alza dagli abissi del mare placata dalla tempesta. Io ti ho seguita in volo tra spessori di nebbia e di gelo sperando la vetta maestosa che s’alza al di là delle nuvole sull’immensa distesa di roccia. Io t’ho seguita lungo l’azzurro sentiero di nevi perenni di ghiacci pensando quel sole che affissi radiosa mentre ti scioglie le ali. T’ho seguita nel volo sopra l’arco del tempo lontana: tu eri l’aquila io, soltanto un poeta. Maria Teresa Epifani Furno Sorrento, NA Premio Speciale di “Poeta Europeo dell’Anno”, assegnato dalla Giuria del IV Premio Parthenope di Poesia 2012/2013, organizzato dall’Accademia Universale di Lettere e Scienze “Parthenope”, 1° gennaio 2013.
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UNA GRANDE POETESSA MESSICANA DEL SEICENTO: JUANA INÉS DE LA CRUZ di Marina Caracciolo
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UANA Inés de la Cruz (al secolo Juana Inés Asbaje y Ramírez de Santillana) nasce verso la metà del XVII secolo a San Miguel de Nepantla, un borgo situato a circa sessanta chilometri da Città del Messico. Per il giorno della sua nascita si è incerti fra il 12 novembre 1651 e – sulla base di un altro documento – il 2 dicembre 1648. A quell’epoca in Europa è da poco terminata la Guerra dei Trent’Anni, e al di là dell’oceano Atlantico il Messico continua a essere, fin dai tempi di Hernán Cortés, un vicereame spagnolo. Juana nasce da una madre nubile, la creola Isabel Ramírez. Suo padre, un gentiluomo di origine basca di nome Pedro Manuel de Asbaje y Vargas Machuca, non considera molto più che un’avventura la sua relazione con la giovane donna, e in breve si disinteressa di lei come di sua figlia. La piccola viene così allevata dalla famiglia materna e soprattutto dal nonno, Pedro Ramírez, che possiede una
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vasta tenuta a Panoayán, non lontano da San Miguel. Lì, nella sua ricca biblioteca, Juana legge avidamente e con facilità già a tre anni, e comincia a rivelare una passione esclusiva per la cultura, che non abbandonerà mai per tutta la sua pur breve vita. Nel 1656 il nonno muore e la bimba è ospitata dagli zii materni a Città del Messico. Divenuta adolescente, Juana acquista un aspetto decisamente affascinante ma soprattutto si dimostra geniale e superdotata: a quindici anni, presso la corte del viceré don Antonio Sebastián de Toledo, esaminata da quaranta dotti in varie discipline, sa rispondere con acume e competenza a domande concernenti le più diverse branche del sapere, suscitando ammirazione e meraviglia in tutti gli astanti. Questo ci fa sapere la didascalia di un bellissimo ritratto anonimo dell’epoca, che mostra un’incantevole fanciulla dai lunghi capelli bruni e dallo sguardo assai serio, sontuosamente vestita, con in mano un libro rilegato in pergamena, a simboleggiare la sua sapienza eccezionale. In quegli stessi anni Juana comincia a scrivere: il suo primo componimento noto è un sonetto funebre per la dipartita del re di Spagna Filippo IV. La giovane – che in quanto donna non può iscriversi, come tanto vorrebbe, all’università – non manca certo di corteggiatori, tuttavia dimostra ben presto di non avere alcuna propensione per il matrimonio (in uno dei suoi scritti rivela di essersi accorta che gli uomini erano molto attratti dalla sua bellezza ma non dalle sue doti di spirito). A quel punto, e per quei tempi, l’unica via che si apre per lei è quella del monastero: prima (1667) nell’ ordine delle Carmelitane Scalze, da cui esce dopo tre mesi di noviziato, non sopportando la sua regola troppo rigida; poi nel convento di San Jéronimo, a Città del Messico, dove prende il velo il 24 febbraio 1669, restandovi per 27 anni fino alla fine della sua esistenza. La vita del convento le permette soprattutto di dedicarsi senza molti intralci ai suoi prediletti studi (che spaziano dalle scienze alla musica alla poesia) e alla scrittura, cosa che le sareb-
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be stata quasi impossibile nella vita coniugale. Protetta prima dalla viceregina Leonor Carreto, marchesa di Mancera, Juana Inés stringe in seguito un’appassionata amicizia con María Luisa Manrique de Lara Gonzaga y Luján, consorte del successivo viceré di Spagna, don Tomás Antonio de la Cerda. Un’intensa e quasi amorosa relazione, per altro del tutto ricambiata, visto che María Luisa, una volta ritornata nella madrepatria, si occuperà con entusiasmo di far conoscere e di pubblicare a sue spese gli scritti della sua pupilla. Juana continua intanto a comporre poesie sacre e profane, testi celebrativi, piccoli trattati, numerosi villancicos (canti destinati alle grandi feste religiose) poi eseguiti nelle cattedrali delle principali città del Messico, opere teatrali (le commedie Los empeños de una casa, Amor es más laberinto, La segunda Celestina ecc.) da rappresentare nel teatro di corte vicereale, o poemetti come il celebre Primero sueño, composto verso il 1690 (975 versi), che a detta di tutti i critici è il suo capolavoro. L’instancabile desiderio di conoscenza nei vari campi del sapere la porta col passare degli anni a mettere insieme una biblioteca che supera i 4000 volumi (il più ricco fondo librario di tutta l’America coloniale) e a dare corpo – in opere purtroppo perdute – a straordinarie intuizioni, in particolare nell’ambito dell’astronomia e della musica. La poesia resta sempre, comunque, il suo interesse principale. Tanto nei suoi componimenti sacri come in quelli profani la poetessa messicana si mostra capace di raggiungere vette di altissimo valore espressivo e inoltre, sotto l’aspetto stilistico, di fondere armoniosamente il concettismo e l’ironia di Quevedo, la sontuosità di Góngora e di Calderón, l’ elegante scioltezza di Lope de Vega e l’eccelsa finezza del Petrarca. In specie per ciò che concerne la rappresentazione del paesaggio, si coglie in numerosi suoi passi una preziosità di immagini e una delicatezza di forma che la pongono nettamente al di sopra dei consueti moduli letterari barocchi.
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A poco meno di quarant’anni, Juana Inès ha già conquistato una fama di letterata e di dotta che va ben oltre le mura del suo convento e della sua città, dato che persino al di là dell’ oceano è definita «decima musa» e «fenice del Messico». Ma proprio da qui iniziano le sue disgrazie. Una donna, e ancor più una monaca, non è ben vista se si occupa di letteratura e di scienza, se studia, scrive e crea attorno a sé un circolo culturale. L’inveterato pregiudizio ha origine da un passo della prima lettera dell’apostolo Paolo ai Corinzi: “Le donne tacciano nelle pubbliche assemblee, non è infatti permesso loro di parlare” («Mulieres in Ecclesiis taceant, non enim permittitur eis loqui». I Corinti, XIV, 34) Se una donna non ha neanche la possibilità di parlare in pubblico (poiché ciò evidentemente è consentito soltanto agli uomini), figuriamoci se può discutere di vari argomenti con persone colte, far rappresentare opere di teatro, scrivere poesie e condurre ricerche scientifiche di varia natura… A Puebla, nel 1690, il vescovo don Manuel Fernández de Santa Cruz fa pubblicare a sue spese la Carta Atenagórica e vi antepone, firmato con il nome di Sor Filotea, un monito rivolto alla monaca studiosa perché tralasci le speculazioni teoriche e la scrittura di cose profane volgendosi piuttosto ad una vita interamente dedita alla pietà e alla preghiera. Lei controbatte egregiamente nella sua Respuesta a Sor Filotea, dove, discutendo il noto asserto dell’apostolo Paolo, rivendica a spada tratta non soltanto il proprio ma in generale il diritto di ogni donna ad accedere al mondo della cultura (argomento già sostenuto circa dieci anni prima in una lettera intitolata Autodefensa espiritual), rifacendosi opportunamente, inoltre, all’esistenza di una lunghissima tradizione di donne celebri, intellettuali e umaniste: dalla mitica Regina di Saba fino alla contemporanea Cristina di Svezia. Ma il vero persecutore di Juana, uomo assai più gretto di Manuel Fernández, è l’ arcivescovo di Città del Messico, il misogino don Francisco Aguiar y Seijas, che la plagia e la opprime per anni, riuscendo a farle credere di
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essere «la peor de todas», fino a riconoscersi colpevole di grave trascuratezza nei suoi doveri verso Dio e verso il prossimo: nel 1694 Juana Inés, convinta, prostrata, firma col suo sangue la rinuncia ad ogni attività profana e consegna a don Francisco i libri, gli strumenti scientifici e musicali e qualsiasi altro oggetto prezioso in suo possesso perché tutto sia venduto e se ne doni il ricavato ai poveri di Città del Messico. Da quel momento fino alla morte non scriverà che pochi componimenti religiosi di uso conventuale. Come in altri casi della storia, il potere e un astioso pregiudizio erano riusciti a far tacere l’eccellenza dell’ingegno. L’anno seguente una grave pestilenza dilaga nel monastero di San Jéronimo. Juana si prodiga con amorosa sollecitudine nella cura delle consorelle, ma il morbo non perdona: le religiose soccombono, nove su dieci. Anche Juana, già da tempo cagionevole di salute, è colpita dalla terribile malattia e all’alba del 17 aprile 1695 muore a soli 44 anni di età. Il giorno dopo i servitori dell’arcivescovo Aguiar y Seijas arrivano al convento per ritirare le ultime cose di proprietà della defunta. Riescono a portarsi via una piccola somma di denaro, qualche cambiale e alcuni gioielli. A cinque anni dalla scomparsa di Juana Inés de la Cruz, nel 1700, viene pubblicato a Madrid il III e ultimo tomo delle sue Obras completas (che, come già il II, arriverà a 5 edizioni). Nel medesimo anno il gesuita spagnolo Diego Calleja scrive la prima Vida de Sor Juana. Da allora, tuttavia, – complici anche un clima culturale e un orientamento di stile ormai del tutto mutati – su di lei cala il silenzio. Passerà ben più di un secolo e mezzo prima che la sua figura e la sua opera siano riscoperte e ristudiate, e si riconoscano oggettivamente il valore e l’eccezionalità di una voce poetica fra le più eccellenti ed ispirate di tutta la produzione letteraria dell’epoca barocca. *** BIBLIOGRAFIA ITALIANA OPERE
. Risposta a Suor Filotea, a cura di Angelo Morino (seguito da Suor Juana, di Dacia Maraini). La Ro-
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sa, Torino 1980. . Poesie. Introduzione, scelta, traduzione e commento di Roberto Paoli. Rizzoli, Milano 1983. . Il Sogno. Versione e nota introduttiva di Insel Marty. Prefazione di Antonio Melis. Piovan, Abano Terme 1985. . Risposta a Suor Filotea, a cura di Angelo Morino. Sellerio, Palermo 1995. . Versi d’amore e di circostanza. Primo sogno, a cura di Angelo Morino. Einaudi (Collezione di poesia), Torino 1995. . Libro di cucina attribuito a Juana Inés de la Cruz, a cura di Angelo Morino. Sellerio, Palermo 1999. SAGGI
. Paz Octavio, Suor Juana o Le insidie della fede. (Titolo originale: Sor Juana Inés de la Cruz o Las trampas de la fe. Fondo de Cultura Económica, México1982). Introduzione di Dario Puccini. Traduzione di Glauco Felici. Garzanti, Milano 1991. TEATRO
. Del Serra Maura, La fenice. Nota introduttiva di Mario Luzi. Ed. dell’Ariete, Siracusa 1990.
Marina Caracciolo
E HUMBUR E PUSHTUAR e humbur, e pushtuar nga ti, sikur jam bërë tjetër grua që kaherë ka humbur shkëlqimin e vajzërisë, nuk e di...!? kush ma vodhi kurajën... e ku më mbeti forcë e shpresës që dhembja ma mundi ndjehem e dobët si e pa ndjenië, e humbur, e pushtuar nga TI...!? Elsa Cenaj dal volume Loti i Akullt, Ed. “Fishta”, Prishtinë, 2012.
“Poetja e ngërthyer në situata të ndryshme shpirtërore e emocionale kërkon që me fuqinë e imagjinatës ta përqafoj Ylberin e jetës, që ta shijoj jetën me të gjitha bukuritë dhe dhuratat e saj.” Vilson Culaj
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'DE L'AUTOBIOGRAPHIE À LA MISE EN SCÈNE DE SOI. LE CAS ROUSSEAU' di
PASCALE DELORMAS Ouvrage publié avec le concours de l'Université Paris-Est Créteil. Editions Lambert-Lucas, Coll. Linguistique & Littérature, Limoges, 2012. di Ilia Pedrina
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EAN Jacques Rousseau suscita, al solo pronunziarne il nome, un balzo all'indietro nel tempo, nel clima ricco di innovazioni e di contraddizioni quale è stato quello dell'Illuminismo Francese, quasi un balzo della tigre direi, che dalle atmosfere regolate sulle luci della Ragione, per quegli intellettuali che si riuniscono nei salotti tra borghesia rampante ed aristocrazia annoiata ma in cerca di costante visibilità arrogante, arriva fino alle insoddisfazioni più profonde e provocatorie della massa, massa critica del popolo, guidata da studiosi e teorici della politica e dell'economia di allora, che se ne serviranno perché il sangue lungo le strade scorra copioso ed a galla emergano teste, regali o meno non ha importanza. Vivo male sia l'irrazionalità delle scelte e delle azioni, come l'ingiustizia lavata e levata a colpi d'accetta o di lama da ghigliottina, perché la violenza fa fare passi indietro alla Storia ed il meglio conquistato fino a quel momento se ne va, mentre trionfano parole da imprimere nella mente e da diffondere con ogni mezzo, basta che restino 'parole', come è il caso oggi del termine 'Democrazia'. Le parole di allora erano 'Uguaglianza', 'Fraternità', 'Libertà' e mi assumo tutta la responsabilità delle riflessioni fin qui sintetizzate, dato che questa monografia della studiosa Pascale Delormas non ne tratta, mentre invece, con tecnica quasi cartesiana, va a svelare molti importanti aspetti dell'analisi critica dei testi di questo filosofo illuminista francese. Due i grandi campi di indagine portata ad investigare la vita e le opere di Jean-Jacques Rousseau, che l'Autrice offre al lettore, orga-
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nizzati nel loro insieme da una sua ' Introduction' - importantissima, perché offre un quadro generale dei diversi approcci nel dare 'scrittura di Sé o 'del Sé', secondo le diverse Scuole di analisi critica del testo letterario e non solo, quali quelle di M. Raymond e di J. Starobinski e chiarendo come questi debbano di fatto affrontare non poche difficoltà ed arricchendo il quadro di altri importantissimi contributi internazionali su questi temi - : 1. POSITIONNEMENT ET PARATOPIE; 2. LA SCÉNOGRAPHIE DES ŒUVRES. Andremo a breve a chiarificare in sintesi le tre grandi ripartizioni che ciascuno di questi due settori implica ed approfondisce, perché quasi in maniera matematica, cartesiana direi, la studiosa conduce per mano il lettore ad impossessarsi delle tecniche linguistiche e di struttura letteraria che sottendono alle opere prese in esame: 'Confessions', 'Dialogues' e 'Rêveries', toccando tematiche di ricerca critica del significato del testo, sia esso di tono riservato, intimo, confidenziale, sia esso di respiro storico, filosofico, pedagogico, eticopolitico o di calibratura a strati di differenti scenografie, se si tratta di percorsi che viaggiano verso l'eternità della propria immagine. Diamo qui di seguito solo i titoli delle tripartizioni che queste due sezioni contengono, proprio per fornire un'idea della qualità e della raffinata precisione con le quali la Delormas affronta il non semplice argomento che si è proposta di scandagliare: I 1. République des Lettres et positionnements de Rousseau; 2. Les apories de la communication; 3. Autographie et vie de philosophe: vers un discours constituant. II 4. Questions de catégorisation; 5. Questions d'énonciation; 6. Des actes indirects. Certo in questa fatica intellettuale ella non è sola ma ha alle spalle un percorso professionale invidiabile, che le ha consentito di trarre vantaggio dagli orientamenti di ricerca del prof. Dominique Maingueneau, del quale mi
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aveva parlato fin dal nostro primo incontro prezioso e non superficiale a La Grave, nel corso del Festival Olivier Messiaen 2013. L'autrice spiega che J. J. Rousseau, il Ginevrino della classe 1712, dopo l'arrivo a Parigi, non scaltro né ricco, ma affabile e dai moti gentili, qualità queste che le dame salottiere apprezzano oltre ogni dire - diciamo pure che ve n'è un bell'elenco ai suoi piedi, da M.me d'Epinay, già amica di Diderot, a M.me de Besenval ed a sua figlia, a M.me de Broglie, fino a M.me Dupin -, è in grado di approfittare dell'amicizia per lui programmata con Diderot e con altri della corrente scientificoletteraria dell'Encyclopédie, consentendo loro di aprirgli un poco la strada: gli elementi del suo 'posizionamento' sono tratteggiati con vera accuratezza in questa monografia, anche se mancano dati sul suo 'periodo veneziano', al seguito di M. de Montaigu, che svolgeva l'impegno di Ambasciatore di Francia proprio a Venezia. L'acuta sensibilità del Rousseau assai male si adatta alle trame ed agli intrighi di salotti e corridoi, aristocratici o allargati alla ricca borghesia ben in ascesa, così si profila quanto è riassunto nel termine 'paratopie', ben difficile da tradurre in lingua italiana. Cito alcuni tratti significativi, che Rousseau stesso presenta di sé, riportati in nota: “Deux choses presque inalliables s'unissent en moi sans que j'en puisse concevoir la manière: un temperament tres ardent, des passions vives, impétueuses, et des idèes lentes à naître, embarrassées, et qui ne se présentent jamais qu'après coup. On dirait que mon cœur et mon esprit n'appartiennent pas au même individu” (Pascale Delormas, De l'autobiographie à la mise en scène de soi. Le cas Rousseau, ed. Lambert-Lucas, Limoges 2012, pag. 52, n. 1: J. J. Rousseau, 'Confessions', Livre III, pag 113). Le citazioni che l'Autrice porta a prova dei suoi rilievi critici e strutturali della scrittura di Rousseau sono tratti alla bisogna in particolare dai tre testi 'Confessions', 'Dialogues' e 'Rêveries', i cui contenuti chiave sono messi in ottimo risalto nel corso della trattazione. Allora il termine ' paratopie' sta ad indicare
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lo sforzo del filosofo francese di dettagliare la sua posizione marginale rispetto ai luoghi, ai tempi ed alla società che trova intorno a sé, a tal punto da sottolineare a più livelli disagio, rifiuto, ambiguità, ambivalenza, isolamento, ricerca di radici profonde nella sacralità dei legami delle società primitive, che l'attuale stato di cittadini sottoposti ad uno Stato di diritto e di fatto che li governa ed al lavoro spinge a violare totalmente, creando infelicità e noia e tradendo così l'intera umanità. Ma per capire in profondità il tipo di avvicinamento e di scrupolosa analisi dei testi che la Delormas porta avanti, è necessario addentrarsi nello scopo preciso della trattazione, quello che mette in rilievo le strategie adottate da J. J. Rousseau per essere contro corrente e per attirare a sé il lettore, con tecniche di scrittura ben adeguate a farne una figura di rilievo. Cito: “...Nous avons introduit le néologisme d' 'autographie' (Delormas 2010a) pour désigner les écritures de soi qui ont vocation à l'être; l'autographie se distingue de l'autobiographie dans la mesure où il ne s'agit pas d'exprimer une quelconque intimité, mais de faire valoir un 'grand auteur'. Les critères suivants nous ont paru à même de rendre compte de la spécificité de certaines mises en scène de soi: -L'autographie est une catéorie transverse, elle ne renvoie pas à un genre déterminé, elle s'appuie sur une combinaison de critères à la fois linguistiques (marques de l'enonciation) et communicationnelles. -Elle est agencèe et assumée par un locuteur qui revendique son autorialité. -Elle poursuit l'objectif déclaré de dévoilement de la personalité de l'auteur – ce qui sous-entend qu'elle présente un intérêt pour une collectivité. -Elle se fonde sur une injonction de vérité, sur un pacte qui suppose la verifiabilité des faits et engage la sincérité de l'auteur...” (P. Delormas, op. cit. pp.11-12). Ed in effetti tutto il lavoro, dettagliato e coinvolgente, citazioni specifiche dai tre testi di Rousseau che abbiamo evidenziato comprese,
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ma non solo, può essere utilizzato per approfondire meglio la costruzione intellettuale che questo scrittore intende portare avanti attraverso le sue opere, attirando a sé i lettori del suo e d'ogni tempo, perché colgano ciò che a loro serve, in una dimensione di temporalità che ha tutte le caratteristiche dell'umana eternità. Ilia Pedrina AMO LA QUIETE Amo la quiete. Mai di ricchezza cercherò sorgente. Correte... Correte... Correte!... Non desidero niente. L’oro mi basta che dai tralci pende quando l’autunno avanza, o che d’estate più lucente splende allor che il girasol fa la sua danza. A voi lascio i tesori in cassaforte, il portar armi per timor di rapine, il privilegio di possedere scorte, lascio le rose con tutte le spine. Mai bramerò le grosse cilindrate, né sfarzo d’altri mi darà livore, né antifurti, né porte blindate metterò mai a guardia del mio cuore. Sempre sarà aperto per chi soffre, per chi l’avversa sorte ha condannato ai soprusi del mondo; misera cosa questo cuore offre, alleviar non potrà disoccupato né la fame nel mondo. Gli umili, i deboli saranno miei fratelli, né contro chi, credendo alla giustizia fece terrore, lancerò coltelli; mai terrorismo partorì letizia, né mai giustizia sbocciò come un fiore. Amo la quiete ma con frenesia sparerò le mie armi con furore contro chi vincer si fa dall’apatia. Chi ogni scandalo pone a diritto, chi d’innocenza calpesta il seme, chi con l’abuso crea profitto, chi per potere giustizia non teme, come un aspide, senza alcuna pena, l’inietterò con il mio veleno,
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né risparmiar vorrò alcuna vena, né mai di morderlo mi porrò freno. Chi con le stragi tesse le trame, chi compiacente gli resse il gioco, chi comprò l’oro sapendolo rame, saprò distruggerlo con il mio fuoco. Già san di morte le logge segrete, né sarà utopico poter sperare che mafie e camorre cadano in rete, già di loro sangue debbon pagare. Amo la quiete ma tacer non posso su questi morti che non han più conta, contro chi teme lo stato rosso e resta inerte a subire l’onta. Amo la quiete ma non sono quieto, né potrei esserlo in questo stato; sarei un pazzo se fossi lieto ma ho l’animo sereno ed appagato. Domenico Cappelli da L’operario pentito Domenico CAPPELLI era nato a Rocca San Casciano (Forlì) nel 1946, ma, per lavoro, a partire dai 16 anni aveva girato un po’ l’Italia. A Pomezia era giunto nel 1969, lavorando sempre nelle fabbriche metalmeccaniche e nelle officine, con la qualifica di saldatore o saldo carpentiere. Pur svolgendo un lavoro duro, egli ha sempre amato e coltivato la poesia e la musica. E’ morto nel marzo del 2002. Uomo di Sinistra, convinto, fino all’ultimo. Lo incontravamo spesso per le strade e le piazze della nostra Città, a piedi o in bicicletta e - nelle cerimonie civili o religiose - col suo strumento e la divisa della Banda locale della quale faceva parte. Non c’era volta che non ci chiedesse consigli, che non ci leggesse una sua poesia; non la smetteva di ringraziarci per avergli dato, nei primi anni del nostro incontro, qualche indicazione circa la metrica, perché lui era anche bravissimo nel comporre versi classici e in rima. Alle sue composizioni non abbiamo mai modificato un verso - non ce n’era bisogno -, ma solo dato qualche insignificante tocco. Domenico Cappelli è stato un vero poeta; i suoi versi hanno contenuto e stile e trattano del civile e del sociale, di politica e di lavoro, della famiglia, della società frettolosamente imbarbaritasi rispetto agli anni cinquanta e sessanta, se non altro pieni ancora di entusiasmo. Merita che lo ricordiamo, di tanto in tanto, sulle pagine della nostra creatura di carta, intervenendo, s’è necessario, su qualche inezia, come in questa che qui pubblichiamo, nella quale abbiamo solo messo l’accento a quelle congiunzioni negative “né”. (ddf)
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DOMENICO DEFELICE VISTO DA
ANNA AITA di Orazio Tanelli
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A mia lunga amicizia e corrispondenza con Domenico Defelice iniziò nel 1980 allorchè dirigevo la centenaria rivista internazionale “La follia di New York” fondata dai fratelli Alessandro e Marziale Sisca nel 1980: il 18 luglio 1985 andai a conoscerlo nella sua residenza di Pomezia (Roma) dove egli viveva con sua moglie Clelia Iannitto e i due figli, Gabriella e Luca. Allora Domenico era già noto come poeta e scrittore ed aveva già fondato il mensile letterario “Pomezia-Notizie” nel 1973 che ospitava anche i miei articoli e le mie recensioni. A quel tempo entrambi eravamo collaboratori de “La Procellaria” di Reggio Calabria, fon-
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data e diretta da Francesco Fiumara. Inoltre, ci univa la nostra reciproca amicizia con Rudy De Cadaval, Solange De Bressieux, Rosario Carmelo Viola, Franco Calabrese, Saverio Scutellà. Maria Grazia Lenisa, Carmine Manzi, Paul Courget, Gino Raya, René Varenne e tanti altri poeti e scrittori che collaboravano con la Follia di New York e, dopo la chiusura di questa nel 1990, con il Ponte Italo-Americano. Ciò premesso, mi sento onorato che io sia il primo a scrivere un ampio saggio su Domenico Defelice (1983, pp. 160). In seguito, dopo 23 anni, molti si sono occupati del Poeta di Anoia e sono venuti i saggi di Sandro Allegrini (2006), Leonardo Selvaggi (2009), Eva Barzaghi (2009). La recente monografia di Anna Aita, bene strutturata e scritta con eloquenza, avvalorata dalla Introduzione di Angelo Manitta, fondatore e direttore del Convivio, contiene una dettagliata biografia (pp. 7-20) che io stesso,
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in parte, ignoravo. Il saggio è diviso in sei capitoli: La vita, Le opere, Pubblicazioni di Domenico Defelice, Opere teatrali, PomeziaNotizie, Monografie per Domenico Defelice. Non posso non elogiare Anna Aita per la curata ed elaborata critica letteraria e poetica dell’opera culturale di Domenico Defelice. Coscienziosa e sincera come sempre, la saggista partenopea ci tiene a specificare che molte informazioni le ha attinte dal saggio di Sandro Allegrini, “Percorsi di lettura per Domenico Defelice”. Ecco cosa Anna Aita afferma nei riguardi di “Pomezia-Notizie: “È una creatura vispa e chiacchierona che si rinnova mese dopo mese. Talvolta è ridente, talvolta imbronciata. Sempre seria come si deve ma, qualche volta, anche monella quando ad esempio, in fondo ad uno scritto e all’immancabile ironia c’è la firma Domenico Defelice. Un giornale puntuale, senza lusso e colori sgargianti; tutto scelto per evitare inutile dispendio e offrire al
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fruitore di tutto di più”. Mi è piaciuto molto ciò che la Aita ha scritto a proposito del mio saggio su Defelice, personalità complessa e poliedrica. I vari capitoli non si basano sull’analisi delle singole opere, ma sulla scelta di problematiche specifiche, presenti nell’ ideologia defeliciana: La questione meridionale, Religione e poesia, Poesia come pittura della natura, Amore e passione, Problematica sociale, ecc. “Secondo Orazio Tanelli – afferma Anna Aita – la poesia defeliciana è un inno all’ amore in senso generale: l’Autore canta il bene per la sua donna, per la famiglia, per gli amici; inneggia agli ideali di libertà e solidarietà umana; lamenta lo scontento contro le problematiche sociali, polemizza in campo religioso. Rimpianto e nostalgia lo riportano al mito dell’infanzia, povera di grandi avvenimenti ma ricca di esperienze umane, ed alla poesia come vocazione per redimersi e riconquistare quell’umanità che sembrava per-
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duta per sempre”. Questo saggio monografico di Anna Aita è scritto con un linguaggio comprensibile da ogni lettore e stimola all’amore della cultura in generale e della poesia in particolare. Dal tutto ne risulta un poeta sui generis che ha saputo elevarsi su un piedistallo letterario con ingenti sacrifici, ma anche con tanto amore e passione. Prescindendo da altri dettagli preziosi che arricchiscono questo saggio e ci fanno comprendere la personalità complessa di Domenico Defelice,, siamo d’accordo su ciò che Angelo Manitta scrive nella Introduzione: “
Anna Aita offre al lettore un volume in grado di soddisfare l’esigenza di approfondire un autore contemporaneo che ha fatto della poesia uno strumento di vita, un atto di riflessione e di contestazione contro i poteri marci… La poesia diventa impegno di coscienza, ricerca di un senso, anelito alla comprensione della condizione umana”. Orazio Tanelli Docente Universitario e Direttore della Rivista Il Ponte Italo-Americano, Verona, New Jersey, USA Anna Aita: Domenico Defelice Un poeta aperto
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al mondo e all’amore - Edizione II Convivio 2013, pp. 94 Immagini: Pag. 13: Domenico Defelice nella Redazione di Pomezia-Notizie, luglio 1985, davanti a un suo olio su compensato (cm. 74 x 76) intitolato “Aborto?”, assieme all’italo-americano Prof. Dir. Orazio Tanelli. Pag. 14: Orazio Tanelli e Domenico Defelice in casa di quest’ultimo a Pomezia, luglio 1985. Alla parete, opere del pittore Eleuterio Gazzetti e dello stesso Defelice. Qui sotto: Orazio Tanelli e Domenico Defelice seduti sul bordo dell’abbeveratoio nel castello di Pratica di Mare (Pomezia), luglio 1985.
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LETTURA DI CHATTERTON DI
ALFRED DE VIGNY Società, filosofia dell’utile, ruolo dei personaggi e difesa della poesia in Chatterton. di Nazario Pardini Sintesi dell’opera Acte I. John Bell ou la dureté des puissants ohn Bell, ricco industriale di Londra, è un padrone autoritario e uno sposo tirannico: si rifiuta di riassumere un operaio che si è spezzato il braccio in una sua macchina e rimprovera bruscamente sua moglie, la melanconica e dolce Kitty, per un errore nel libro dei conti. Chatterton un giovane poeta senza fortuna, ha affittato da lui una modesta camera; si intrattiene spesso con un suo amico, il Quaker, familiare della casa, e in una confidenza, contrappone al materialismo prosaico di John Bell il suo idealismo esaltato. E soffre di sentirsi incompreso e pensa al suicidio come a una liberazione.
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Acte II. Kitty Bell ou la pitié de la femme Durante il corso di una passeggiata con il Quaker, Chatterton incrocia Lord Talbot e alcuni giovani nobili, suoi vecchi compagni di Oxford. E si ritrovano presso John Bell, a cui Lord Talbot segnala la nobile origine del suo inquilino, e la notorietà della pubblicazione dei suoi poemi; aggiunge anche allusioni impertinenti sull’intimità che egli vede crescere fra il giovane e la moglie del suo locatore. Kitty Bell confessa al Quaker che la vista di Chatterton le provoca un turbamento. E il Quaker le rivela il male che logora il giovane poeta. Chatterton, comunque, si è deciso a scrivere una lettera al lord-maire per ottenere un impiego; attende con ansia la risposta. Acte III. Chatterton ou la misère du génie Chatterton, solo nella sua stanza fredda, medita e scrive. E si lancia in una diatriba contro la società, che obbliga il poeta a isolarsi. Nel momento in cui va ad acquistare dell’oppio, il
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Quaker lo ferma e gli rivela l’amore di Kitty. Rinasce per un momento la speranza di vita. Ma subito apprende che lo vogliono arrestare, perché un critico l’accusa di plagio e che lord-.maire gli offre un lavoro umiliante da valletto. A quel punto si sente del tutto sconfitto moralmente e fisicamente, e assume una quantità fatale di veleno. Kitty agitata da un oscuro presentimento, gli strappa il segreto del suo amore. Il poeta cade fra le braccia del Quaker e Kitty non può che seguirlo. Nota critica Chatterton viene messo in scena alla Comédie-Française nel 1835. Ed è un successo. La storia è ambientata a Londra negli anni 1770. Chatterton vive in affitto nella casa di un borghese benestante John Bell, ed è un giovane poeta povero, innamorato perdutamente della di lui moglie Catherine detta Kitty. Un amore romantico, reso impossibile dalla moralità della donna, che pure contraccambia il sentimento. La fine è tragica: il giovane si avvelena, e la donna muore di dolore sul suo cadavere. E’ un j’accuse al potere per l’incomprensione del ruolo del poeta nella società capitalista; a un potere che annienta la creatività e l’intelligenza; ne deriva un’analisi attenta della condizione sociale del tempo, della situazione familiare, e degli intrighi obliqui che inquinano la vita di coppia della borghesia. Ci sono già, qui, accenni a quel substrato di perversione psicologica, che sarà soggetto poi della grande drammaturgia europea fra Otto e Novecento, da Ibsen a Strindberg, da Čechov a Pirandello. Sembra che John Bell – da quello che si legge in Vigny – abbia un’età fra i quarantacinque e i cinquanta anni; e che Kitty Bell fra i ventidue e i ventitre. La povera Kitty appare “tremante al cospetto del marito”, un marito «avaro e geloso, brusco nei modi», ma in realtà di carattere servile e remissivo di fronte ai forti. Questo riporta Vigny: “John Bell è propriamente l’ egoista, il burbero calcolatore; servile con i grandi, insolente con i piccoli”. Sicuramente lo scrittore ha in mente di delineare il prototipo del capitalista negli anni della nascita della
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rivoluzione industrale in Inghilterra. Seguendo le indicazioni della poetica romantica, la divaricazione fra i personaggi è netta. Le loro posizioni sono o interamente positive, o interamente negative, almeno nei ruoli principali. I personaggi positivi sono fondamentalmente Chatterton e Kitty Bell che, non per nulla, spiritualmente vicini. Essi agiscono per la maggior parte del dramma isolati l’uno dall’altro, in intima armonia. Se la dicono più col silenzio e con l’ involontarietà dei loro gesti, che con l’espressione aperta del loro amore reciproco: lo scambio di una Bibbia sarà il solo loro messaggio. Dice Kitty Bell nella scena prima dell’atto primo: “Vous voyez que depuis trois mois qu’il loge ici, je ne lui ai même pas parlé une fois…”. Da questo rapporto di comprensione a distanza deriva una tensione tutta romantica che è il sottofondo dell’opera. In tale contesto si inquadra benissimo il carattere di modestia puritana e di gentilezza sentimentale prestato alla protagonista femminile. Tipicamente romantico è anche il modo di presentare in una figura di donna esile e indifesa una psicologia ricca e complessa (Cfr. le parole del Quaker: “Kitty Bell. Âme simple et tourmentée”). Divisa fra il dovere verso il marito violento e il sentimento di attaccamento sempre più forte per Chatterton, Kitty vive una dicotomica passione fra prudenza e slanci di cuore. Identico e opposto il sentimento di Chatterton per lei. Anche lui rimane su un piano di riservatezza e di nobile discrezione, come d’altra parte sente profondamente il suo conflitto con il marito. Ma vi è ancora un altro aspetto impalpabile di questo amore espresso da Vigny nell’opera Sur les rappresentations du drame: “Derrière le drame ecrit il y a comme un second drame que l’écriture n’atteint pas, et que n’ expriment pas les paroles. Ce drame repose dans le misterieux amour de Chatterton et de Kitty Bell, cet amour qui se divise toujours et ne se dit jamais, cet amour de deux êtres sì purs
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qu’ils n’oseront jamais se parler, ni rester seuls qu’au moment de la mort; amour qui n’ a pour expression que de timides regards, pour messages q’une Biale, pour messagers que deux enfants, pour caresses que la trace des lèvres et des larmes que ces fronts innocents portent de la jeune mere au poète” (Chatterton e Quitte pour la peur, Paris, Garnier, Flammarion, 1968. Pp. 108). Il conflitto amoroso è una delle componenti universali dell’ideale incarnato in Chatterton. Accanto vi è la rivendicazione del ruolo del poeta e la difesa della spiritualità in contrapposizione al materialismo di Jon Bell. Apologia che va oltre, nelle intenzioni di Vigny: l’esaltazione di una élite quale la categoria degli scrittori. L’opera gioca dunque sul contrasto tra una tesi astratta e rappresentata simbolicamente nei personaggi, e una espressione appassionata di sentimenti più profondi e universali. Possiamo dire con il Quaker che Jon Bell, l’ antideale che si oppone ad essi: “est une espece de vautour qui écrase sa couvée”. Questa similitudine è significativa della natura avida del personaggio, da cui non possono andare disgiunte sul piano negativo la vigliaccheria e la grossolanità: “Dans John Bell Vigny a voulu peindre à la fois la grossièreté de l’homme du peuple, l’insolence du parvenu et la duvet du bourgeois” (Chatterton ed. Friedman, Paris, Didier, 1968). John Bell “monarque au milieu de ses sujets” è l’espressione fortemente caratterizzata dall’amore borghese per il guadagno. La sua stessa donna è considerata come “une chose aimée” segno del materialismo senza scrupoli e dell’utilitarismo che si pongono come antagonisti all’ideale di chi della poesia fa la sua missione . Se da una parte Vigny dipinge questo contrasto fra Chatterton e John Bell come universale, dall’altra egli si riferisce anche, concretamente, alla situazione sociale che vede, sotto la monarchia di luglio, il trionfo della borghesia agiata dei banchieri e degli industriali. Antagonista della categoria dei letterati è questa stessa classe, portatrice di una morale
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utilitaristica del summum bomun come felicità del più grande numero di uomini e come somma di tutti i profitti individuali. Di questa morale sono esponenti i filosofi inglesi Jeremy Bentham e Johon Stuart. Ed è lo stesso mondo che inspira la lucidissima analisi della “Comedie humaine”. La stessa contrapposizione dei personaggi è metaforizzata ancora una volta dal Quaker: “Les hommes sont divisés en deux parts: martyrs et bourreaux” (F. Germain: Chatterton et Quitte pour la peur, Paris, Garnier Flammarion, pp. 15). Da una parte Kitty Bell e Chatterton, dall’ altra John Bell e Talbot. I primi due, i martiri, sono coloro che vengono sempre più respinti dalla società e che, pertanto, con tutta la loro fragilità, vanno incontro ad un destino tragico. Lo stesso amore fra i due appare come una comunanza di dolore che si esprime in termini elegiaci. Chatterton ha bisogno di Kitty e senza saperne il motivo egli la cerca perché soffre. Quindi la donna, all’infuori dell’intreccio materiale, all’infuori dei veri motivi costruttivi dell’opera, vale a dire la reazione di Chatterton, rappresentante dell’idealismo generoso di Vigny, è inutile alla tesi propriamente detta. I due personaggi si sostengono così a vicenda: l’ammirazione e l’amore di Kitty è un incoraggiamento alla fede che Chatterton nutre nella sua missione, così come l’esistenza di quest’ultimo è l’appiglio offerto alla situazione coniugale infelice della donna. Quanto al Quaker, non è solo il tramite attraverso cui si rivela l’amore reciproco dei due, ma anche il commentatore del conflitto. Attraverso questa sua funzione egli realizza l’esigenza di confrontare gli ideali di Chatterton con la realtà. Egli agisce, ma soprattutto osserva, e incarna la coscienza dell’autore. La difesa della poesia in contrapposizione al materialismo ormai dominante, costituisce l’aspetto principale della tematica di Chatterton. Per bocca del protagonista si esprime un concetto altissimo della missione del poeta che lo colloca al di sopra degli altri ma lo po-
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ne, per questo stesso fatto, in una posizione di solitudine e di isolamento. La concezione romantica, che Vigny fa propria, vede il poeta su un piedistallo da profeta la cui missione è di diffondere una virtù da far comprendere. Ma il risvolto di questo ideale di grandezza equivale anche all’ostilità che il poeta incontra. Da qui la solitudine di Chatterton esaltata dallo stesso Vigny nel “Journal d’un poète”. Août 1832: “Quand j’ai dit: la solitude est sainte, je n’ai pas entendu par solitude une séparation et un oublientier des hommes et de la societé, mais une retraite où l’âme se puisse recucillir en elle-même, puisse jouir de ses propres facultés et rassembler ses forces pour produire quelque chose de grande”. Un’altra conseguenza della condizione del poeta è il suo destino tragico che, in modo particolare in questa opera, mette in risalto il tema del suicidio. Il poeta si fa simbolo della propria decadenza storica, e con lui dello spirito. Questo aspetto della tematica di Chatterton, che ha il suo riscontro nella realtà e che produsse tante critiche a Vigny, non è l’apologia del gesto, ma la rappresentazione simbolica di un destino economico e ideale. La funzione di Kitty Bell e la sua fine conseguente al suicidio di Chatterton, sono, a questo proposito, significativi riguardo alla speranza nei valori positivi che il personaggio esprime. Non si tratta quindi di un’apologia del suicidio, ma di una condanna della società che rende impossibile la missione del poeta. E’ un gesto di protesta e di aggressione verso un mondo intollerante e ostile. Più limitato è il tema che riguarda l’ambientazione sociale di Jon Bell. Dalla condanna irremissibile del personaggio deriva una valutazione positiva degli operai che da lui dipendono. Gli operai fanno opposizione sulla scena presentando così un altro motivo di contrasto al materialismo. E’ una novità introdotta da Vigny e che risponde ai nuovi problemi suscitati e dibattuti dai Sansimoniani e dai socialisti “utopostici” dell’epoca. E’ evidente che questo motivo entra nell’
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opera soltanto come sentimento di solidarietà istintiva e puramente occasionale. Né la formazione dell’autore né la sua ideologia né le condizioni storiche rendevano possibile una partecipazione dell’artista al dramma dello sfruttamento. La monarchia di luglio è senza dubbio in opposizione agli interessi degli strati sociali più bassi, ma è dal contrasto con le posizioni più conservatrici e colla classe aristocratica che nasce la condanna di Vigny. Ciò non toglie che l’opera poté sembrare audace in questo senso e il personaggio del Quaker essere interpretato come un primo apostolo di un socialismo cristiano. Il problema del male nell’uomo e nel mondo è uno dei temi fondamentali che ricorre più sovente: “La maladie des hommes est incurable” dice il Quacquero. Chatterton è un “lepreux” un “pestiféré” e la sua sfortuna è una “contagion”. Quando Chatterton parla della sua malattia, chiama il Quaker “docteur”. E concluderei con questo scritto di F. Germain che raccoglie nella sua essenza l’ entusiasmo, il dramma, la spontaneità dei sentimenti, il significato profondo della posizione del poeta, espressi da Vigny in un linguaggio tanto sentito quanto visivo: “Si le Romantisme, comme aucun mouvement, a voulu voir dans la poèsie un absolu du bien e dans le prosaisme un absolu du mal, s’il a traqué la platitude avec une sorte de fanatisme, Chatterton, qui incarne cet enthousiasme et en accepte les consequences, nous renseigne incomparabilment sur la tragedie du poète, sur le drame d’un esprit qui cède à la tentation dèmesurée de ses rêves” (F. Germain: Chatterton et Quitte pour la peur, Paris, Garnier Flammarion, 1968, pp. 19). Nazario Pardini TRES VERSOS Aprecia la vida y la poesia como ves una rosa: no intentes entenderla. Teresinka Pereira USA
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ALLELUIA DEL NIMBY L'attore Raoul Bova: “Più di metà dei miei amici sono gay. E' per questo che mi fa ribrezzo questo modo razzista e retrogrado di usare l'etichetta di omosessuale come una macchia inconfessabile”. Lo stesso Raoul Bova, sospettato d'essere omosessuale: “Basta con queste maldicenze”. Come nella sindrome NIMBY per le discariche: non nel mio giardino. Rossano Onano Per una volta tanto, l’ironia spegnerò per questa lobby dotta d’ingiurie e di pettegolezzi. Due giovani suicidi solo a Roma! Ho pianto dal dolore e pensato all’bisso di tristezza nel quale son vissuti, alla brama d’esser considerati come tutti, al bisogno d’amore. Il NIMBY è nato altrove, ma di esso abbiamo fatto la più alta nostra splendida virtù. No alle centrali atomiche o a carbone! No! alla TAV vicino casa nostra. No! alla strada, al gassificatore. Guerra alla fabbrica, guerra all’antenna, come a discarica e a inceneritore. Blocca il Comune la Circoscrizione ed il Comune blocca la Provincia e la Provincia blocca la Regione. Chi s’azzarda a proporre è un disgraziato, in ogni borgo s’alzan gli blablà, sì che Comuni Province e Regioni immantinente bloccano lo Stato! Il NIMBY è il nostro karma. Eppure di tutto abbiam bisogno come ogni altra Nazione. Non respiriamo, noi, non ci muoviamo? Forse che ognun di noi un angelo è divino senza alcun attributo? Privati forse siam di bocca ed ano? D’ogni cosa ho bisogno, d’ogni cosa, ma non si faccia mai nel mio giardino! Domenico Defelice
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LUIGI MANCINI IL PRETE DEL VILLAGGIO di Antonia Izzi Rufo N due diverse disposizioni d’animo ci si accosta al romanzo: se è un forestiero a leggerlo, ossia una persona ignara dei luoghi in cui si muovono i protagonisti, del loro modo di vivere, della loro mentalità, delle loro tradizioni e del loro sapere, dei loro usi e costumi, si ricorre all’immaginazione e si ricreano, in maniera tutta propria, personaggi e situazioni; si procede così con interesse ma senza particolare emozione nello svolgersi delle vicende, per arrivare, infine, a conoscere la conclusione del racconto. Se, invece, il lettore è conterraneo dell’autore, egli s’immerge nella lettura con curiosità e una certa perplessità appena s’accinge a sfogliare le prime pagine, con avidità subito dopo, quando si rende conto che è entrato in un mondo a lui noto, in quello delle sue radici, della sua infanzia e della sua giovinezza, dei suoi avi recenti e lontani. Subentrano allora in lui interesse misto a commozione e stupore, brama di riappropriarsi di quanto, rimosso, è stato, è e sarà sempre suo perché legato alla sua vita, ai suoi ricordi, ai suoi affetti, alla sua formazione etica e culturale. Rivede nella fantasia paesi al suo vicino, com’erano nel tempo antico (Rocchetta, Castelnuovo, Castel San Vincenzo, Castellone, Colli, Fornelli, Cerro, Pizzone), del suo borgo le strade, le piazze, gli androni, i palazzi signorili e le casupole, le chiese, le fontane, le contrade, i monti e i ruscelli che da questi discendono (Viapiana,San Giovanni, Fonte vecchia, le chiesette di Santa Maria San’ Antonio San Rocco, la chiesa di San Giorgio, il Mulinello, le sorgenti del Volturno, la Badia, la Madonna delle Grotte, monte Marrone, il Matese), fissa i loro nomi e li pronuncia a voce alta per goderne il suono, per sentirli più suoi, suoi come nel passato, riascolta proverbi, modi di dire (cocozzelli, stracchi e strutti, avere il granchio alla scarsella, spiccia e perdi, essere mazza di scopa, ringraziare faccia a
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terra, concia per le feste, che ti piglia la quartana, gnernò, gnorsì, busillis), le imprecazioni degli uomini che giocano <<a palle>> (a bocce) <<corpo di San Giorgio>>,<<sangue della Madonna>>), le reazioni di gaudio o dolore o risentimento delle persone che a crocchi parlano in piazza e raccontano, a turno, i loro segreti…e si domanda: <<Ma è proprio vero? Sono proprio, io, nel mio ambiente?>>. Preda del rimpianto e della nostalgia, della commozione, gioisce perché catapultato in un tempo finito, chiuso alla realtà e riscoperto, perché il passato sepolto d’ improvviso torna ad emergere per lui. Quale la trama del romanzo? Siamo in un paesino edificato su un colle (Secondo il Mancini, e su indicazioni del Baronio, la sua nascita risale all’891) dal quale lo sguardo spazia in uno scenario senza orizzonte, dipinto di verde e d’azzurro, di monti in girotondo dai quali limpidi rivi scorrono a valle e confluiscono, poi, nel fiume Volturno, di borghi adagiati sulle pendici delle alture o sui cocuzzoli di esse, di case sparse cinte da orti vigneti e querceti, avvolti nel silenzio e nella pace. La terricciola di Scapoli, scrive l’autore, si scorge, in tutta la sua avvenenza, <<dai cementi ai quali è appoggiata la chiesetta della Madonna delle Grotte: di qui una contrada di poggi e valloncelli, spessa di ulivi, ciliegi, susini, ficaie e meli e peri e vigneti lussureggia in aspetto bello e ridente, finché arrivi alle falde del colle su cui s’innalza il villaggio>>. Così il Mancini nella dedica agli Scapolesi: <<Troverete (descritte) le condizioni civili, morali e religiose dei nostri padri di circa due secoli fa>>. L’autore è vissuto nella seconda metà del secolo diciannovesimo (1846-1898), si tratta quindi del milleseicento, sec. XVII. Ma non è il secolo de “I promessi sposi” nel quale si narrano le avventure corse tra il 1628 e il 1630 da due poveri popolani, Renzo e Lucia? Bello il paese, non bello viverci però, <<Non dar retta, lettore mio>> leggiamo nelle prime pagine <<all’immaginazione né a chi ti dica che la vita dei monti sia un’ armonia d’amore e d’innocenza… La vita delle
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terricciole non è un idillio… Nel contado, anche più che in città, dominano la malevolenza e l’invidia, il dispetto ed il compiacimento dell’altrui sciagura, perché, più che in città, vi si annidano l’ambizione e l’orgoglio, figli primigenii dell’egoismo e del privilegio>>. <<La terricciola di Scapoli aveva anch’ essa, secondo l’andazzo dei tempi, il suo barone o, meglio, il suo tirannello che spadroneggiava nel piccolo villaggio di seicento abitanti, rozzi, ignoranti ed incapaci di risoluzione>>. Il feudo, al barone in questione, non era stato tramandato dagli avi, ma gli era stato donato dal fratello. Alla sua morte gli successero quattro figli il primo dei quali (colui che vive ed opera al tempo del racconto) ereditò la baronia. Nel palazzaccio aveva dodici armigeri, <<ceffi matricolati, tutti forestieri, che obbedivano ciecamente agli ordini del signore>>. Tra le altre angherie, aveva emesso un editto nel quale rimetteva in vigore l’uso di menare <<ad libidinum del signore>>, la prima notte, la donna che si sposava (Per associazione, il pensiero va a “I promessi sposi”, a don Rodrigo e ai suoi bravi). In paese cinque o sei erano le famiglie meno rozze, << perché non attaccate alla creta>>, ma, come tutte le altre, <<cagnotte del barone>>. Tra queste era quella di Don Remigio, il prete del villaggio, il quale aveva con sé due nipoti, ignoranti e malefici come lui, e la moglie dell’ultimo suo fratello morto, Agnesina, sua concubina e complice di congiure e soprusi a danno della povera gente. Se il barone era cinico e spietato, Don Remigio lo era molto di più. Era un prete privo di preparazione adeguata al suo ministero, un essere senza moralità. La sua famiglia era povera e di umile origine ed egli era <<ambizioso d’ingrandirla>>. Per acquistare fortuna e rispetto tra il popolo, s’ ingegnava di accattivarsi l’animo del barone, di apparire generoso, onesto e devoto. Questo secondo intento lo raggiunse per l’ignoranza della popolazione, con l’astuzia il primo. Diabolico, spregiudicato, tessitore di inganni ed ipocrisia, gabbava nello stesso modo Dio e gli uomini. Se il barone Rodunti e Don Re-
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migio Gadini, con tutta la brigata, sono i cattivi per eccellenza che, insieme all’autore, anche noi lettori detestiamo, la famiglia Tonetti, in contrapposizione, si distingue, e assurge alla nostra simpatia, per onestà moralità sani principi di vita, riscuote la nostra comprensione per le tribolazioni subite, il nostro biasimo e la nostra condanna alle violenze fisiche e psicologiche che le vengono inferte. Perché questa famiglia è presa di mira calpestata, perseguitata? Perché non segue “il gregge”, perché reagisce alle vessazioni di coloro che si spacciano per “nobili” ma in realtà non lo sono né d’animo né per nascita, perché non tollera le falsità e le atrocità del prete. Raccapriccianti i sequestri e le torture inflitte ad Elvira, e ad altri protagonisti del suo gruppo, quello dei buoni, dai sicari del barone e da quelli dell’Inquisizione. Si rabbrividisce, ci si chiede come sia possibile, in un uomo, tanta efferatezza. E impossibile si ritiene che i sequestrati possano salvarsi, uscire vivi dalle torture. Eppure ce la fanno. Mancini vede in ciò l’intervento della giustizia divina che viene in soccorso dei bistrattati. Il suo risentimento e il suo profondo disprezzo per i prepotenti, gli sfruttatori e i preti ipocriti è legittimo, giustificato perché egli è un uomo morigerato che crede in Dio e nei valori umani, che nutre rispetto e stima per le persone che gli somigliano e non dissentono dal suo modo sano di pensare ed agire. Ben delineati i personaggi. Già dall’incipit c’imbattiamo nell’ <<allegra brigata>> che gioca <<a palle>> (a bocce), nella piazzetta della Viapiana, con <<da costa fiaschi di vino>>, e fa un gran baccano; sono tutti ubriachi e continuano a tracannare vino a fiumi. Tra gli altri Aminta Gavini (nipote del prete), << tarchiato e dal volto annerito pel troppo rosso>>, steso sull’erba il barone, alias Bacco, <<vermiglio sì che pare un cocomero fèsso>>, il prete, losco individuo, che incede a passo lento e invita il dottore, che spunta dall’androne (della Sportanova) con il bastone (viene da Rocchetta), a bere con gli altri: <<Un sorsetto, dottore, una tiratina: è coi
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fiocchi>>, ma il vecchietto rifiuta e prosegue per la sua strada. Lo stesso gruppo ritroviamo nel palazzotto dove si decide di disseppellire Achille, appena sepolto in chiesa, e buttare la bara fuori delle mura. E questo perché? Perché Achille non frequentava la chiesa, perché morto senza confessione: egli rigettava il comportamento del prete, biasimava la sua ipocrisia, la sua disonestà, la sua dissolutezza. E come Achille si comportava sua moglie Elvira, donna esemplare, dignitosa e onesta, presa di mira dai manigoldi e fatta morire di crepacuore. (Molto, ha Elvira, di Lucia Mondella) . Mancini giustifica la semplicità di Evelina, influenzata raggirata e abbindolata da Don Remigio, prende come modello di serietà, generosità, altruismo e cultura Ernesto Stoli, mostra simpatia e affetto per Federico (E’ in questi due giovani che vedo personificato l’autore, nelle virtù e negli ideali di entrambi). Come tutto era diverso a quei tempi! Il cambiamento è stato radicale in ogni campo, specialmente nei mezzi di comunicazione. Non c’era ancora il telefono. Per andare da Scapoli a Roma s’impiegavano minimo quattro giorni. Mancini ci presenta personaggi, scene, modi di vivere, luoghi, un quadro generale del secolo diciassettesimo. A pagina 130, ad esempio, è descritto, nei dettagli, il costume della donna scapolese d’allora, di Nina, <<una donna ricercata un pochino… una di quelle che vonno esser distinte nella lor condizione>>. Più volte egli racconta di viaggi che si facevano a cavallo o in carrozza su strade bianche, dissestate, sulle quali c’era pericolo di agguati. La posta impiegava mesi per arrivare a destinazione. La vita dei contadini era dura. Essi si sottoponevano a grandi sacrifici per sbarcare il lunario. Andavano a vendere la frutta ed altri prodotti della terra in Abruzzo, con gli asini, per racimolare qualche soldo. Il racconto si svolge in una serie di intrecci e coincidenze e, così come nelle fiabe, si chiude con il prevalere della giustizia; è il romanzo popolare, in voga prevalentemente nell’ottocento, ricco di avventure e colpi di
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scena, con molti personaggi in conflitto tra loro e divisi in buoni e cattivi, con vittoria finale del bene sul male. In ultimo i cattivi vengono puniti, i buoni premiati. Il barone Rotundi viene condannato a venticinque anni di ergastolo, Camilla a diciotto anni, Don Remigio muore assassinato sui gradini dell’altare; Ernestino ed Evelina realizzano il loro sogno d’amore, si sposano, Federico e i nipoti, dopo la vendetta, si rifugiano… Mancini non lo dice, ma fa pensare ad un posto sicuro dove nessuno li troverà, Elvira muore, ma è ciò che desiderava: voleva raggiungere il suo Achille. <<La tipologia del “feuilleton”>> scrive Francesco D’Episcopo nel saggio introduttivo <<opera in pieno dentro e fuori il romanzo grazie alla messa in opera di specifici congegni strutturali quali quelli che regolano gli intimi rapporti: rapimento-ritrovamento, delitto -castigo, danneggiamento-vendetta, matrimonio-vita>>. Come ho già scritto in precedenza, diversi episodi riportano al Manzoni de “I promessi sposi” e non solo: leggiamo avventure che richiamano i romanzi di Dumas e Hugo, realtà antropologiche che rinveniamo in Francesco Iovine, descrizioni idilliche che riconducono a “Il sabato del villaggio” di Leopardi il quale, a sua volta, attinge ad un sonetto del “Canzoniere” del Petrarca. Ancora Francesco D’Episcopo: <<A rinsaldare, in forma positiva e progressiva, la particolare estensibilità metodologica della lingua ideologica tracciata da Luigi Mancini, può intervenire, tra le molte proponibili, la emblematica esperienza di Felice Del Vecchio, la cui “Chiesa di Canneto” acquista in diacronia la sua dimensione critica nell’immagine di un ‘nuovo’ prete del villaggio, Don Duilio Lemme, valido antidoto storico …al romanzesco Don Remigio Gavini immortalato dal Mancini>>. Una certa affinità contenutistica, relativa alla scoperta del proprio territorio, fa pensare a “La chiesa di Canneto”, ma c’è, tra i due autori, molto distacco, sia per quanto riguarda la lingua e il modo di esprimersi (l’uno è vissuto nell’ottocento l’altro è vivente), sia per il sen-
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so critico con cui vengono esposti gli argomenti: Mancini racconta, grida il suo disappunto per l’ineguaglianza sociale dei tempi in cui si colloca il romanzo (tempi che, in realtà, mascherano i suoi tempi), condanna la prepotenza e l’ingiustizia dei signorotti; Del Vecchio si racconta, non divaga, osserva e descrive il mondo circoscritto nel quale egli si muove, non esce dal proprio ambiente ma lo esamina a fondo, lo seziona in tutte le sue parti per scoprirne le tare e le tarme, evidenziarne e recuperarne le parti sane, valide; dice le sue impressioni, le sue sensazioni e mostra le immagini (Sono tante e ricorrenti) create dalla sua fervida fantasia, si appropria di ogni particolare, anche il più insignificante. Mentre si sta leggendo “Il prete del villaggio”, una certa spinta interiore, anche di curiosità, ci induce a procedere in fretta per arrivare al “the end”, per sapere come va a finire la storia; in “La chiesa di Canneto” non c’è “suspense”: una breve pausa, di tanto in tanto, per riflettere, con l’autore, assimilare, trarre le conclusioni. Luigi Mancini nacque a Scapoli il 13 gennaio 1846 e vi morì, poco più che cinquantenne, il 20 giugno 1898. Studiò nell’Abbazia di Montecassino come seminarista, ma rifiutò i voti sacerdotali. Compì gli studi universitari a Napoli. Quando rientrò a Scapoli istituì, con la collaborazione delle sorelle,una scuola-convitto, a carattere privato, in cui confluirono giovani dei paesi vicini destinati a ricoprire importanti cariche pubbliche. La scuola sorgeva poco distante dalla “Schola monacorum” di San Vincenzo al Volturno. Don Luigi ricoprì la carica di Presidente onorario della “Società di Mutuo Soccorso” di Scapoli, “Sant’ Antonio di Padova”, di cui molti soci benemeriti risiedevano in America (La notizia è desumibile dal necrologio del notaio L. Izzi ”Versi letti sulla tomba di Luigi Mancini”, Castellone al Volt. Tipografia Notardonato,1899). Nel romanzo l’autore conduce un’analisi dettagliata, trasferendola in epoca retrodatata (due secoli prima), su due fami-
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glie rappresentative di Scapoli, quella dei marchesi Battiloro (il marchese Pietro Battiloro e suo fratello Domenico, parroco di Scapoli) e quella dei Mancini, sul conflitto tra una nobiltà acquisita con la forza del potere ed un’altra che si conquista con la cultura. Nella chiesa di San Giorgio martire di Scapoli si fronteggiano le lapidi di Anna Maria Ricci e Pietro Battiloro, marchesi di Rocchetta,morti nel 1883, e di Maria Iuliani Mancini, madre dell’autore, morta nel 1882. Don Luigi lasciò un solo figlio (morto diversi anni fa), don Manlio, che sposò una donna di Colli (una popolana). Don Manlio faceva il contadino. Abitata, con la famiglia, nella casa paterna. Ebbe un solo figlio, Luigino, che portava il nome del nonno. Era sposato. Risiedeva e lavorava a Cassino. E’ morto anche lui qualche anno fa. Lo ebbi alunno, quando si dovette preparare, privatamente, per sostenere l’esame di terza media. Antonia Izzi Rufo Luigi Mancini - Il prete del villaggio - (Ed. Marinelli, Isernia, 1982—I Edizione Pierro e Veraldi, 1897, Napoli)
NON C’È PIÙ Non c’è più l’ora serena della veste leggera degli anni quando la via lunga con pesi di piume si percorre con grinta. Un mattino triste forse verrei a chiederti dove ho nascosto gli anni tracotanti di sicurezze, con la sufficienza della purezza per cambiare il mondo. E forse mi dirai che per il veleno di troppe rinunce la storia prende vie insperate ma che il sasso levigato dal tempo anche senza gli spigoli per fare sanguinare ha il suo rumore nell’onda. Paziente forse ti confesserei che si aspetta la risacca più lunga per la voglia di farsi arenare. Salvatore D’Ambrosio Caserta
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FILIPPO CORRIDONI L’ARCANGELO DEL SINDACALISMO di Leonardo Selvaggi I ILIPPO Corridoni considerato il padre del sindacalismo italiano per essersi dedicato interamente nella sua vita con intensa e appassionata opera all’attività sindacale. Di famiglia contadina, nato a Pausula nelle Marche, oggi Corridonia, il 19 agosto 1887. Frequenta la scuola industriale di Fermo, lavora e nel contempo segue gli studi. Nel 1905 si trasferisce a Milano, è occupato come disegnatore in una officina. La sua sensibilità si accompagna con il carattere tenace e subito mostra interesse nelle lotte sociali. E’ nelle file del socialismo italiano sin dalle sue prime manifestazioni. Ancora si è nella forma puramente ideologica, il sindacalismo non delineato in quelle tendenze che si avranno costantemente: parlamentare-riformista e massimalistico-rivoluzionario. Filippo Corridoni abbandona il mazzinianesimo giovanile, decisamente prende parte al sindacalismo rivoluzionario di matrice soreliana. Conosce nel 1907 l’anarchica Maria Rygier, con questa fonda un giornale antimilitarista “Rompete le file” (1907 - 1913). La pubblicazione ha breve durata. Filippo Corridoni, l’arcangelo sindacalista, è in pieno ardimento, lascia il suo primo lavoro, passa da una fabbrica ad un’ altra. Il suo fervore è instancabile, organizza scioperi, movimenti di agitazione: lavoro e lotte sindacali lo formano, sempre più assumendo intraprendenza e impulsività. Conosce il carcere, qui, come è avvenuto per altri grandi personaggi, è un luogo di meditazione, di preparazione alle attività organizzative, oltre che di approfondimento di cultura politica. Si interessa dei problemi economici, si avvicina ai grandi filosofi. Gli sono di guida le opere di Michels, Sombart, Pareto, Sorel. Filippo Corridoni da una base di forti convincimenti e di riflessione si ostina con un carattere irruente che lo fa primeggiare fra tutti coloro che gli sono vicini. Le idee sindacali si consolidano sempre più attraverso pubblica-
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zioni e le diverse posizioni organizzative, oltre che con l’apporto dell’esperienza fascista. II C’è una maturazione di principi non solo di carattere economico e politico, ma anche morale. Uomini di grande sensibilità e di alta levatura culturale si trovano uniti. Il sindacalismo non mira solo al miglioramento del proletariato dal punto di vista delle condizioni di vita, ma soprattutto alla sua riscossa spirituale. Un processo di elevazione di livello sociale, di capacità nel senso di avere presenza e forza di partecipare con le altre classi alla vita storica, di progresso dell’intera Nazione. Importanti sono le lotte per migliorare i salari che sono una miseria, per rendere meno lacerante gli orari stressanti e disumani, ma si tratta principalmente di creare del proletariato una classe con una propria dignità, abile e pronta nel poter far parte del potere e della gestione della società che si evolve. Un progresso di tutto un popolo, ogni cittadino deve dare il suo contributo di intelligenza e di operatività. Filippo Corridoni entra ed esce dal carcere, nel 1908 riesce a rifugiarsi all’estero, prima lo troviamo a Nizza e poco dopo a Zurigo. In Svizzera, a contatto con gli emigrati italiani, si rende conto delle loro tristi condizioni di lavoro, molti sono i problemi irrisolti. Gli incidenti sono frequenti, non avendosi norme di sicurezza che garantiscono la loro salute. Corridoni, come Mussolini, fa ora il muratore ora il manovale. Gli operai edili si trovano in stato di abbandono, i rischi sul lavoro sono tanti, non essendo i mezzi e le strutture di sufficiente sviluppo per un regolare svolgimento operativo. Torna a Milano (1910) e negli anni che precedono il grande conflitto mondiale ha un periodo intenso di impegni che coincide con l’approfondimento del dibattito sulle nuove forme di organizzazione e di lotta sindacale del proletariato industriale. In seguito è dirigente dell’Unione sindacale milanese, ha un atteggiamento vivacemente polemico nei confronti con la Confederazione generale del lavoro (1912). Il sindacalismo si costituisce dapprima sotto
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forma di cooperative di lavoratori che esercitano lo stesso mestiere, si sviluppa poi con forme sempre più complesse: unioni interprofessionali, federazioni, confederazioni. L’ affermazione del sindacalismo è contemporanea a quella del socialismo e tra l’uno e l’ altro si instaura un rapporto di collaborazione e a volte di subordinazione del primo al secondo. Corridoni fa parte dell’Unione sindacale italiana (1913). E’ a capo dei sindacalisti rivoluzionari, protagonista di dure battaglie. Collabora intensamente con i sindacalisti che nella Federazione socialista di Milano stanno sempre più affermandosi. Scrive sui giornali sindacalisti milanesi “La conquista” (1910 11), “L’avanguardia” (1913) e “L’ internazionale” (1914). III Filippo Corridoni il 7 giugno 1914 è con Mussolini in un comizio movimentato all’ Arena di Milano in cui con grande accensione si sostiene la difesa degli operai che parallelamente alla crescita dell’industria si trovano con problemi sempre più complicati. La polizia interviene con violenza contro i manifestanti. Corridoni si batte con eroismo, non cede davanti alle minacce che mettono a repentaglio la propria vita. E’ per la tredicesima volta in carcere. Imprigionato per la sua partecipazione alle agitazioni milanesi della “Settimana rossa”. Avalla l’azione di Alceste De Ambris, segretario della Camera del lavoro di Parma, che conduce una parte dell’ Unione sindacale italiana sulle posizioni dell’ interventismo rivoluzionario. Uscito dal carcere inizia un’accesa campagna propagandistica per l’intervento nel conflitto contro gli Imperi centrali, perseguendola nei mesi seguenti all’interno dei Fasci di azione rivoluzionaria accanto a Mussolini. Corridoni è con Sorel, impedisce le idee borghesi che contrastano il proletariato. E’ per la guerra che costituisce la premessa necessaria per lo sviluppo, una maturazione e la futura grandezza della Nazione. Partecipa come volontario alla prima guerra mondiale. Fa parte dell’ala sinistra, sostenendo l’identificazione soreliana
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della rivoluzione con la lotta e la guerra. Da un lato così la guerra è rivoluzione, dall’altro la rivoluzione è guerra. Filippo Corridoni cade il 23 ottobre 1915, combattendo sul Carso, durante la conquista della “Trincea delle frasche”. Gli viene assegnata la medaglia d’ argento alla memoria, poi mutata in medaglia d’oro. Le idee e tutta la sua attività raccolte prima dalla Unione sindacale milanese e dal suo settimanale “L’Italia nostra”, diretto da Edmondo Rossetti, divengono poi patrimonio nazionale con la nascita, nel giugno del 1918, dell’ “Unione italiana del lavoro” che confluirà nel fascismo e nelle sue “Corporazioni sindacali”. Mussolini e il suo partito considera Filippo Corridoni fra i suoi eroi, un personaggio di fondamentale estrazione socialista, intesa la sua utilità al regime con i suoi proclamati principi ardentemente sostenuti politico-sociali. Diciamo subito che questa considerazione postuma dell’attività di Filippo Corridoni in certa misura è ingiusta nei confronti di una passione politica autentica, anche se non sempre guidata da una linea ideologica coerente. Leonardo Selvaggi
E RESTERÀ L’AUTUNNO Sul ramo d'Agosto sta l'ultima luce del sole. La rugiada fugge dal secco pergolato ormai libera, nel vento un fluttuar di foglie. Nuvola di piombo precipita con l'estremo abbaglio nella luce del mattino, il dondolio dei rami s'intrecciano alla solitudine del campo. Adriana Mondo Reano, TO
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PIERA BRUNO: L’ARCA DI NOÈ di Liliana Porro Andriuoli
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RIGINALE e complesso, pur nella sua linearità di sviluppo, è questo interessante e compiuto racconto di Piera Bruno, L’Arca di Noè1, ispirato da un quadro, L’ingresso degli animali nell’Arca, di Giovanni Benedetto Castiglione (detto il Grechetto), esposto nel Museo dell’Accademia Ligustica di belle Arti di Genova. I due protagonisti, se così li possiamo chiamare, sono una distinta e assidua visitatrice, di “età indefinibile”, con “una vistosa fasciatura” a un ginocchio (il postumo di un recente intervento), e un custode del Museo, di servizio proprio il giorno in cui l’insolita visitatrice (che si direbbe un alter ego dell’autrice) vi entra quasi casualmente (24 luglio di un anno imprecisato). Sarà infatti lui, il giovane custode, ad accompagnarla nelle varie sale del Museo, ascoltando i suoi commenti ai vari quadri; come sarà ancora lui a far convergere la sua attenzione sul quadro dell’Arca. Tutti fatti di cui prenderà nota e che trascriverà successivamente in un suo diario. E nel libro, che è appunto scritto in forma di diario, si parla appunto dei lunghi e silenziosi “monologhi” che la misteriosa visitatrice fa, durante le sue visite al Museo, sedendosi di fronte al quadro dell’Arca; “monologhi” che si ripeteranno come “un appuntamento … una o due volte la settimana” (Lunedì, 30 settembre, p. 19). Leggiamo ad esempio: “… è chiaro che in quella tela qualcosa la turba” (Mercoledì, 24 luglio, p. 15); e a proposito della visita successiva (Sabato, 27 luglio): “È seduta davanti alla grande tela del Grechetto. … Lo sguardo immobile fissa un punto”. Ciò da cui la Bruno viene immediatamente attratta nel quadro del Castiglione è un “gattino bianco e rosso” (p. 21), dipinto dall’ artiDe Ferrari Editore, Genova, 2013, € 10,00, prima ristampa.
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sta nella parte inferiore della tela, che risulta seminascosto “dalla smaltata livrea del pavone”: “Ma… quella creaturina è il mio Piccolo. Un giorno le racconterò la sua storia” dirà infatti la nostra autrice al giovane custode dopo tre mesi di visite (Martedì, 5 Novembre, p. 21). Ed è appunto la storia del loro rapporto (“il racconto, tra magia e follia, di una fiaba” - p. 21 -, per usare le parole della stessa Bruno), a fare da filo conduttore a tutta la narrazione, che sottende in realtà molte riflessioni critiche sulla vita in comune tra lei e il gattino in questione, durata poco più di un anno e conclusasi tragicamente: fatto questo che generò nella Bruno tormentosi sensi di colpa. Sono proprio queste riflessioni, sempre molto profonde, a costituire la parte più densa di significato di tutto il racconto, in quanto si tratta di riflessioni riguardanti il viaggio terreno dell’uomo e l’ineludibile meta verso cui tende. Il maggiore interesse del testo infatti non risiede tanto negli episodi della vita di “Piccolo” (nome datogli dalla Bruno perché, quando casualmente lo aveva trovato e raccolto, per portarselo a casa, era “un esserino palpitante così minuscolo da stare nella sua mano”, p. 22), cioè nella storia narrata, quanto “nella gravità delle tematiche ad essa sottese”2 e più precisamente nelle considerazioni che l’autrice fa, generalizzandole ed universalizzandole, sulla sua stessa vita e sul suo rapporto affettivo con un gattino: rapporto continuato anche dopo la sua scomparsa. Martedì, 10 dicembre ad esempio il custode del Museo annota: “Non mi è stato facile rendere il racconto della visitatrice dell’Arca alla lettera e senza trascurare gli andirivieni dell’ inconscio” perché, “in bilico tra spazio-tempo e Oltre, facendo vela in un suo segreto limbo, ella ha voluto svelare a sé e agli altri i trasalimenti, i ricordi, le oscure aritmie che scandiscono un ghetto di solitudine. […] Piccolo era stato l'occasione, fortuita e bruciata, per uscirne fuori. La sua morte aveva riportato quel ghetto a dimensione di metafora della negatività che ci sommerge un po' tutti; non
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Donata Ortolani, seconda di copertina.
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rinnegando le sue colpe e tenendo viva la memoria del gattino, ella pensa di volgerlo a luogo di espiazione". Qui le osservazioni che affollano la mente del lettore sono verosimilmente molte, dal momento che il racconto è in sostanza una metafora della vita dell’autrice, ma contemporaneamente quella di tutti gli uomini nel loro faticoso cammino terreno. Il che conferisce al libro un significato universale che va ben al di là del puro significato letterale della storia narrata. Come accade del resto in tutti i libri della nostra autrice. Di grande interesse risultano le illustrazioni di Elena Pongiglione che, con la sua consueta bravura, coglie i momenti più significativi della vicenda. Liliana Porro Andriuoli
NEGHITTOSA VITA AL CASTELLO Nel castello di Ermelindo che sposò la bella Alpomo, stagna, ormai, la sonnolenza, dorme pure il maggiordomo. Gli sbadigli del Signore van strisciando per le stanze già sonanti e rumorose dell’Italia dei Valori. Il computer è arrugginito; la corazza impolverata; una grossa ragnatela aggroviglia la celata, elmo, scudo e gambaletti, ginocchietti e la panziera, gli spallacci con la spada. Sugli spalti, sentinelle logorate dal torpore e cornacchie beccheggianti. Nel silenzio della notte la civetta, anch’essa stanca, lancia a tratti un cuccuì ed il gallo rimbambito non fa più chicchirichì. Sogna Alpomo i tempi andati, quando sul cavallo Moro per sentieri e per i prati
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cavalcava in mezzo al coro di fringuelli e passerotti; quando il conte spasimava; quando un baldo cavaliere, col computer di mestiere, venne tosto a liberarla da corrotti faccendieri; quando esplose, poi, l’amore e sul letto - or freddo e intatto combatterono battaglie da sentirsi ognuno stracco; quando giorni eran le notti... Or non sono che rimbrotti. Per sconfiggere la magra, or non bastano nemmeno il Prozan con il Viagra. Sogna Alpomo, chioma bionda, sul cammino della ronda, tallonata passo passo da una perfida fantesca dalla faccia come un sasso, quasi come Rosy Bindi, neghittosa a giochi e dindi. Nella noia si consuma. Le faccende delle donne nel Palazzo non più cura. Passa il tempo alla finestra a guardare la pianura ed i colli circostanti ammantati di verzura. Oh, l’incanto misterioso del vagare della luna! Il suo viso è neghittoso, ma ancor snella la figura e il suo cuore bellicoso sempre aperto è all’avventura. Domenico Defelice Frammento dal poema incompiuto La lunga guerra.
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GIORGINA BUSCA GERNETTI L’ANIMA E IL LAGO Il Croco, Pomezia 2010, pp. 20 di Giuliano Ladolfi
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ESSUN sentimentalismo, ma evanescenza e sospiri della natura in un paesaggio da favola, dove gli interlocutori sono il lago, il vento, le canne, contraddistinguono la breve, ma preziosa raccolta della Busca Gernetti. Gli elementi descritti, quindi, corrispondono a sentimenti dell’ animo e la tempesta sul lago in agosto altro non rappresenta che un turbamento interiore causato dal riaffiorare alla consapevolezza di una ferita che il passato ha nascosto ma non ha guarito. L’io poetico, infatti, si sente travolto dal “Mistero” di vicende che superano l’ umana comprensione e generano una sensazione di inconsistenza: «Sono una fragile donna che vive/nell’ostico, ferreo mondo/ senza trovare una risposta/che illumini il buio profondo,/che squarci la nube del dubbio». A poco a poco la percezione interiore si trasforma in angoscia, cui corrispondono le urla rabbiose del vento «che s’infuria» sul lago; sopraggiunge allora la percezione del vuoto con la conseguente disindentificazione del sé rappresentata dall’avida notte che «rapida rapisce e nasconde / nelle sue tumide pieghe del manto / anche quel poco barlume di bianco». Evanescenza personale, quindi, ma soprattutto evanescenza di una realtà che in modo impercettibile agisce sull’animo: «Lo scheletro biancastro / allunga su di me il suo braccio scarno». E proprio questa visione prelude, unitamente ad una travolgente sensazione di perdita: «Non odo più stormire / le verdi fronde amiche / di musica frementi / nell’ odorato viale». Quell’Oltre, quel Mistero, che si era affacciato alla coscienza, assume la fisionomia di una persona precisa: «“Padre, sei tu?” Pare esclamare fioca / l’anima spirito del lago grigio / […] / Ora gli abbracci / solo tra fredde ombre»; l’anima risponde: «Sorte amara per te, piccola mia, / e per me, che mi spensi nella morte / piangendo le mie bimbe abbandonate
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/ senza poter vedere / te, che crescevi ancora dentro il grembo / della madre piangente». Neppure Vittorio Sereni, da cui sono ripresi i temi del lago e del colloquio con i morti, giunge ad un’intensità affettiva di tale profondità. Ma l’Ombra vaga inconoscibile sull’ acqua come il motivo delle vicende umane: «Ma tutto è Mistero» e «Buio il Mistero». E nella dolente musicalità del verso dello sfondo mobile dell’acqua la poesia placa, in un’ accettazione trattenuta il ricordo, la ferita non rimarginata, il senso di un’esistenza non compiuta: «E se dal fondo lo spirito emerge / la luce pare opaca, pare spegnersi». Giuliano Ladolfi in AtelierBlog, 26 aprile 2011
LA SOGLIA SEGRETA Vaga lo spirito libero e lieve nell’aria del crepuscolo, nell’acqua del lago, sulle pietre della riva, pietre-macigni, pesi tormentosi per l’anima trafitta dal buio della vita appena spenta. Una porta di ferro nero sbarra la strada verso l’Oltre, verso l’ambita Soglia del Mistero segreta per gli umani, che nel buio del dubbio sulla sorte si trascinano. Lo spirito s’accosta… Soglia oscura, serrata. La chiave ov’è, per fendere quel ferro che acceca gli occhi acuti dello spirito, il comprendere nega, lo svelare il Mistero che domina nel mondo, oscura e fitta tenebra? La Soglia è impenetrabile. Sconfitto ed angosciato ora lo spirito vaga sul lago grigio senza sosta, nel lago oscuro senza meta vaga. Non luce vera illumina i suoi giorni, non luce sul Mistero. Giorgina Busca Gernetti da L’anima e il lago
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PER
GIUSEPPE ANTONIO CAMERINO ITALIANISTA di Carmine Chiodo
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O conosciuto Giuseppe Antonio
Camerino (Manduria, Taranto, il 9 agosto 1942) negli anni tra il 1968 e il 1969 nella Facoltà di Magistero dell'Università della "Sapienza" di Roma . La Facoltà ospitata in quel palazzo di Piazza Esedra (Terme di Diocleziano) ove hanno insegnato illustri italianisti come Umberto Bosco, Giorgio Petrocchi, il contemporaneista Gaetano Mariani. L'Istituto di Italiano era all'ultimo piano del palazzo di piazza Esedra, vicino alla fontana. Io da studente ho frequentato le affollatissime e seguitissime lezioni di Letteratura Italiana nella capiente aula 1O. Ebbene, in quel tempo Giuseppe Antonio Camerino era assistente di ruolo presso la cattedra di storia della letteratura italiana moderna e contemporanea del già nominato Prof. Mariani (ricordo di questo magnifico professore i suoi corsi su Montale, Belli, Gozzano, Luzi, Sinisgalli, ad esempio). Da assistente poi Camerino passò nel ruolo di Professore associato, sempre presso la Facoltà di Magistero, e nel 1984 vinse il concorso di Professore ordinario di Letteratura italiana e come tale insegnò nell'Università degli studi del Salento (Lecce) e nel 2011 il Ministro della Università e della Ricerca scientifica lo ha nominato professore emerito di Letteratura italiana dell'università del Salento. Camerino ha partecipato e partecipa a vari convegni nazionali e internazionali e poi ha tenuto pure corsi e lezioni di letteratura italiana in università, in molte università non solo italiane ma straniere: università australiane, americane, tedesche, ad esempio. Ha inoltre collaborato alla Enciclopedia italiana Treccani, ancora è consigliere del Centro Nazionale di studi Alfieriani. Comunque Camerino nei sui innumerevoli studi non ha solo guardato
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all'Italia ma anche alla Europa, alla mittleuropa. Famosi, fondamentali i suoi vari studi e libri dedicati a Italo Svevo. Altri suoi studi riguardano Leopardi, Alfieri, Montale, Foscolo prosatore, d'Annunzio, Pascoli, la letteratura del Settecento, la poesia del Novecento, anche qui per indicarne solo alcuni. Alcuni suoi interventi critici hanno visto la luce su riviste internazionali: inglesi, spagnole, statunitensi. Ricordo solo alcuni suoi libri: Svevo e la crisi della mittleuropa, edizione ampliata e completamente riveduta (Napoli 2002, prima edizione Firenze, 1974); Elaborazione dell'Alfieri tragico, Napoli,1977; e ancora Italo Svevo, Torino 1981; L'invenzione poetica in Leopardi:Percorsi e forme, Napoli 1988; Poesia senza frontiere e poeti italiani Il Novecento, Milano 1989. Vanno ancora segnalati i volumi che attengono al linguaggio tragico di Alfieri (2006), all'Arcadia e al "Conciliatore" del 2006, al romanticismo italiano del 2009, allo "scrittoio" di Leopardi del 2011, a Goldoni: Il "metodo" di Goldoni e altre esegesi tra lumi e Romanticismo (Congedo, Galatina, 2012). A Lecce Camerino ritorna alle sue origini, alla sua terra: a quel mondo psicologico e umano che non aveva mai dimenticato. Dapprima nell'Università di Roma "La sapienza" poi per venticinque anni presso l'Ateneo salentino Camerino ha sempre cercato nelle sue lezioni di spiegare che "lo studio della letteratura non è una scienza del più o del meno, (...) è una scienza esatta". Difatti in una opera letteraria che si rispetti niente succede o avviene per caso. Come ricordavo prima Camerino all'Università ha avuto come maestri il catanzarese Umberto Bosco (celebri i suoi studi su Dante, Boccaccio, Leopardi, Il romanticismo italiano, ad esempio), Giorgio Petrocchi (l'editore della Divina Commedia), Gaetano Mariani (famoso studioso di poesia e narrativa dell'Otto e Novecento). Questi maestri ci hanno lasciato da tempo ma vivono e sono ancora utili le loro opere, i loro libri. Ma anche a Lecce Giuseppe Antonio Camerino ha conosciuto personalmente (quella accademica, la cono-
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scenza, era di vecchia data) un altro grande studioso e maestro di critica e di filologia: Mario Martyi. Comunque Camerino si differenzia da questi suoi maestri per il fatto che egli nei suoi studi e indagini letterarie non solo ha fatto riferimento all'Italia ma all'Europa, a scrittori europei, alla letteratura appunto europea (per vario tempo Camerino ha insegnato pure Letteratura comparata), in particolar modo alla letteratura di lingua tedesca. Camerino è stato per ben due volte Gastprofessor ("Professore ospite") nella antica e prestigiosa università tedesca di Heildelberg, e poi ha condotto varie ricerche in biblioteche europee (Austria, Germania), portando alla luce lettere inedite di importantissimi autori italiani, per fare un solo esempio, quelle di Italo Svevo a d'Annunzio le ha reperite inaspettatamente al Literaturarchiv di Marbach am Neckar (dove è la casa natale di Schiller) e alla Fondazione Goethe di Frankfurt Mann (Francoforte). Camerino ha speso e spende molto tempo e energie allo studio e alla ricerca. Si sa non si va mai in pensione dallo studio ma da soffocanti e insulse pratiche o procedimenti accademici che uccidono lo studio. Camerino si dedica tuttora con tenacia e intensità alla ricerca, allo studio, che sono per lui giustamente le cose più belle dell'uomo. Camerino ha una "vocazione assoluata”, totale per lo studio della letteratura. Le cose più belle, più vere e più profonde per l'uomo sono quelle come dice giustamente Camerino - che ci hanno consegnato i classici di tutte le letterature: "E' quella italiana è incomparabile", la letteratura italiana è la "più ricca e importante del mondo" (v. per queste citazioni Un volume per i 70 anni del Professor Giuseppe Antonio Camerino, in “Il Bollettino - mensile di Cultura dell'Università del salento", n. 5, maggio 2013. Per i 7O anni dell'amico e Professore Emerito Camerino ecco apparire il libro già citato "Il metodo" di Goldoni e altre esegesi tra lumi e Romanticismo, pubblicato curato dal Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università del salento ed edito da Congedo di Galatina. In questo volume ricco e denso di stimoli culturali e di ricerca straripanti
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sono raccolti vari saggi del Professore Camerino che sono incentrati sull’esame profondo e preciso della Letteratura Italiana che va dal diciottesimo secolo ai primi decenni del diciannovesimo, e a questi due secoli lo studioso in precedenza ha dedicato vari studi e volumi. Qui Camerino privilegia i dati testuali come si vede dalle pagine dedicate a Goldoni, al Casti, al Bertola, All'Alfieri, al Berchet, a Francesco Algarotti ad esempio. Questo volume è ben prefato da Paolo Viti, direttore fino al 2012 del Dipartimento di Filologia Linguistica e Letteratura, e qui sono ricordate le tappe principali della carriera di Camerino, che sono sicuro ci darà altri contributi critici esemplari e importanti. Buon lavoro caro Professor Giuseppe Camerino e un caro saluto alla tua deliziosa famiglia. Carmine Chiodo
MOMENT DE BONHEUR La beauté d’un visage un mot, un sourire la douceur d’un regard et l’espoir me prend frappe à mon cœur choque mon âme: tant me suffit pour croire au bonheur… ce bonheur que je sais a la durée d’une étoile qui tombe. Walter Nesti Carmignano (PO), 1960
PASSEROTTO Passerotto da poco morto: sai dove ti porto? Sull’albero amico tra le foglie dove volavi quando eri vivo, dove ti ammiravo io! Mariano Coreno
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NIKOLAJ VAŞILEVIC GOGOL IL CREATORE DEL ROMANZO RUSSO (Sorocintzy, Poltava 1809 - Mosca 1852) di Leonardo Selvaggi I IKOLAJ Vaşilevic Gogol nato da una famiglia ucraina di piccoli proprietari terrieri. Suo padre studioso di tradizioni locali e noto scrittore di commedie. Gogol ha una infanzia felice in campagna, segue gli studi ginnasiali a Nezin. La sua passione si segnala con le doti di attore. Giovane meridionale, magro, dal naso appuntito, si trasferisce nel 1828 a Pietroburgo, dopo la morte del padre, pieno di ambizione non solo letteraria, ma di essere grande nel suo paese. Si impiega in un ministero, lascia subito gli uffici burocratici per dedicarsi alla recitazione drammatica e all’attività di scrittore. Come tutti gli Ucraini è umorista, sognatore, ricco di immaginazione e realista. Il suo carattere è irascibile, chiuso, poco sentimentale. Nella sua vita non ci saranno donne, credente, mistico. Si impone all’attenzione degli ambienti letterari di Pietroburgo e di Mosca con il suo primo libro di racconti “Le veglie alla fattoria di Dikanka” (1831), basato sui ricordi della sua infanzia in Ucraina e sul folclore della sua terra. L’incontro con il grande poeta Pusckin è molto importante per Gogol. Scrive “Fiera di Sorocinev”, “Vigilia di San Giovanni”. Fa un viaggio in Ucraina per rivedere i luoghi dei suoi ricordi. Ritorna deluso. La sua arte ha dato ai suoi scritti altre visioni, altre attrattive. Espressione ironica in “Come leticarono Ivan Ivanovic e Ivan Nikiforovic”. Abbiamo inoltre “Proprietari d’altri tempi”, un’opera di profonda tenerezza, parla di vecchi modi di vivere. “Taras Bulba”, un passato eroico dell’Ucraina in pagine molto romantiche, scritte con vivaci colori, stupende le descrizioni della steppa in fiore. Gli scritti sul passato gli fanno ottenere una cattedra di storia all’Università di Pietroburgo. Taras Bulba piuttosto che un romanzo, è un poema in pro-
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sa di carattere epico. Gogol dà ai personaggi e alle scene un tono di epopea omerica. C’è del romantico in quest’opera nata mentre il romanticismo impera in tutte le letterature. Gogol entusiasmato continua nella produzione narrativa. Dal 1834 si può dire che inizia la carriera di scrittore. Ricordiamo una nuova raccolta “Mirgorod” (1835), nello stesso anno “Arabeschi” contenente “Il ritratto”, “La prospettiva della Neva”, “Le memorie di un pazzo”, dove la vena satirica si fa più amara e polemica, tra realismo e trasfigurazione onirica della realtà stessa. Gogol convinto che Dio ha su di lui grandi progetti. Tiene presente Hoffmann. Nei racconti c’è del fantastico, dell’esuberanza, del comico, del macabro, del romantico e dell’espressività ricca di immagini e di lirismo. Gli argomenti si amplificano, parlano di Pietroburgo che lo tiene come in una prigione, con un clima che lo fa stare male, con una società miserevole dal punto di vista morale. II Lo smascheramento dell’ipocrisia e della mediocrità umana caratterizza la produzione teatrale con le commedie “Il matrimonio” (1833), “I giocatori” (1842), “Il revisore” (1836) che suscita polemiche nel pubblico non preparato al senso grottesco. La sua maturità letteraria depurata da ogni forma di romanticismo si esprime con amarezza realistica. Il suo stile piace al pubblico, ma non alle autorità costituite. E’ in modo irruente nemico della società zarista, da cui gli viene fatta una campagna di aspre opposizioni. “Il revisore” è una delle migliori e più pungenti opere che abbia il teatro di tutti i tempi, è causa, dopo la messa in scena a Pietroburgo, di forti critiche. Riproduce tutta una scelta di tipi rispecchianti i lati meschini, umoristicamente spregevoli della tanto complessa anima russa. Spirito di osservazione e vivacità del dialogo determinano il successo nel teatro. Di fronte allo sdegno dei reazionari e all’entusiasmo dei liberali Gogol afferma di non aver criticato le istituzioni del suo paese. Per sfuggire alle polemiche lascia la Russia nel 1836 e fino
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al 1848 conduce una vita errabonda, è in Germania, in Francia, che detesta per il suo liberalismo ateo, in Italia che ama per il suo sole e per l’atmosfera religiosa, per undici anni è a Roma, è felice, scrive Rim, un lungo brano incompiuto. Abbiamo il racconto “Il cappotto” (1842), considerato il suo capolavoro. Storia semplice e triste di un umile impiegato, al quale viene rubato la prima sera che l’indossa un cappotto nuovo, comprato dopo tanti risparmi. Dostoevskij afferma che da questo racconto deriva tutto il romanzo russo. Nel protagonista de “Il cappotto” si identificano tutti coloro per i quali la vita non è facile. Le ansie, i timori, la debolezza di Akakia Akakievic Basmackin sono comuni a molti. La sua sorte è in un certo senso esemplare. E’ la sorte dei deboli, di coloro che vengono oppressi senza reagire, che vengono nullificati da una società crudele. Nei viaggi Gogol lavora all’opera incompiuta nel 1835, un altro capolavoro “Le anime morte”, un poema che rappresenta la storia della sua anima. La prima parte viene pubblicata nel 1842. Presenti tanti caratteri, il gentiluomo indolente, il vicino brutale che difende ossessionato i suoi interessi, la vecchia donna astuta, l’avaro sordido, il prodigo truffatore. Tutti sono presi dagli interessi materiali. Il titolo dell’opera è suggerito da Puskin. Liberali e conservatori vedono nelle pagine de “Le anime morte” una triste descrizione della realtà russa. Gogol è un sostenitore della servitù della gleba. Nel suo realismo, che non manca di effusioni liriche, canta la sua fede nel popolo russo, nell’ avvenire della Russia che si vuole fra i primi paesi dell’Europa. Gogol nel suo volontario esilio questo culto della Russia lo fa sempre più grande, rivela, dopo le amare descrizioni con cui presenta la sua patria, a tutto il mondo le splendide qualità dell’anima russa. Fra il 1843 e il 1845 Gogol scrive la seconda parte de “Le anime morte” che viene distrutta nel 1848 e poi rifatta nel 1852. III “Le anime morte”, un romanzo di pagine critiche immortali. Si rivolge Gogol con fero-
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cia ai propri contemporanei, ai tiranni di qualsiasi specie. Una accusa terribile, che Gogol stesso non sopporta, la rende più lieve con una conclusione utopistica che si fa impossibile per le troppe contraddizioni che angosciano e umiliano. Considera aberrante l’ animo umano e se stesso un mostro. Le verità malvagie espresse ne “Le anime morte” lo tormentano, non ha il coraggio di portare avanti il suo grande lavoro. Si sente distrutto dalla sua stessa arte che rinnega, finendo nel misticismo più ottuso. L’animo di Gogol per la profondità dei suoi pensieri è preso da orrore. Quello che ha scritto ne “Le Anime morte”, criticato per le anacronistiche idee nazionalistiche, si ribella contro se stesso, lo ferisce in modo crudele. Ritorna in Russia per meglio conoscerla. Ha una crisi misticospirituale che gli detta il famoso libro “Brani scelti della corrispondenza con gli amici” (1847) che suscita l’indignazione degli ambienti democratici. Rivela le sue vere idee, Gogol è conservatore e mistico. La sua ambizione di guidare il suo popolo fallisce né vede più la sua grande speranza di avere una Russia rigenerata. I brani scelti sono rivolti all’ umanità sofferente, sono espressioni di senilismo a tutte le autorità costituite, politiche ed ecclesiastiche. In un viaggio in Terra Santa nel 1848 riconosce la sua aridità di cuore, deluso di poter rendere più forti le sue inclinazioni al misticismo. L’artista e l’asceta sono in contrasto, si considerano vane le ambizioni letterarie. Le crisi sofferte da Gogol sono di un uomo troppo solitario, non riesce ad uscire dalla propria atroce prigione. I suoi ultimi giorni sono di una nera tristezza. La sua coscienza rimane ottenebrata da tanta malvagità esistente, ha bisogno di scrollarsi dal pensiero di appartenere ad una umanità tormentata, vanamente tenta di avvicinarsi a Cristo, il suo animo è privo di ardore, le sue estasi sono in una confusa eccitazione. E’ inutile martirizzarsi con il cilicio, mortificare gli istinti. Cristo non gli sembra una fonte di vita, ma di inquietudine. Il 12 febbraio 1852 brucia tutta la seconda parte de “Le anime morte”, stanco e amareggiato muore alcuni giorni dopo, il 21
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febbraio per un lungo digiuno e per i troppi salassi cui viene sottoposto da medici ignoranti che pensano di guarirlo ad ogni costo. IV Gogol considerato fra i più grandi scrittori non solo della letteratura russa, ma di quella mondiale di tutti i tempi. Dall’intelligenza sottile, penetrante in tutte le realtà sociali, ha visto l’uomo in tutti gli aspetti, ha riscoperto nella sua natura contrasti di carattere, sentimenti di amore e malvagità diaboliche. E’ preso da senso di sperdimento, disperazione, infelicità, odiando se stesso, la sua stessa persona, le sue capacità di ricerca che lo hanno portato in vasti labirinti psicologici da generare orrore. Tante le contraddizioni che non fanno trovare il cammino dei giudizi esatti e definitivi. In Gogol realtà e fantasia si intrecciano in modo inestricabile nella bellezza e nella verità delle sue pagine migliori. La sua inventività è straordinaria, sa dare il senso doloroso della condizione dell’uomo dei suoi tempi, dell’uomo in sé, spesso prigioniero delle ingiustizie, della società. Gogol, nonostante la sua desolazione, la sua solitudine piena di angoscia, ha saputo instaurare un discorso, un colloquio umano e fecondo. Le sue pagine paradossali e realistiche insieme narrano sempre i contrasti di cui vive la società, ricchezza e miseria. Protagonisti delle opere di Gogol sono la burocrazia e la povertà. C’è l’uomo diligente che deve fare calcoli su calcoli per sbarrare in qualche modo il lunario, l’ uomo serio, attaccato al proprio lavoro, con affetti, con il senso dell’abnegazione, timido, dolce, incapace di protestare contro gli innumerevoli soprusi. L’uomo di Gogol, nonostante le sue buone qualità, viene stritolato tra gli ingranaggi del grande macchinario burocratico, maltrattato dalla crudeltà dei suoi capi. I miseri parlano sempre con il cuore, hanno il timore di perdere la propria integrità. La labilità dell’uomo è sentita con il suo eterno, tragico bisogno di invocazione, d’aiuto e senso di fine. Le pagine di Gogol sono umane e dolenti nello stesso tempo, piene di assurdità che fanno sconfinare nel regno fantastico del-
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la follia. La società è fatta di antagonismi, non c’è amore verso il prossimo. Gogol ha una ironia sottile, disegna figure e ambienti con capacità di abile caricaturista. Si muove fra realtà e fantasia. L’arte di Gogol espressa nei racconti, nei poemi, nelle commedie è di uno straordinario scrittore. Un osservatore, un critico della vita, fine, arguto ed amaro. Una delle caratteristiche più dominanti dell’opera del grande romanziere russo, precursore di Dostoevskij, di Turgheniev, di Tolstoi è l’ ironia, coperta di bonarietà e di innocua malizia, usata con intenti moralizzatori più o meno palesi. Leonardo Selvaggi
È TARDI E’ tardi: è l’ora di dormire e sprofondare in un sogno ristoratore che sia per me la speranza per un domani migliore. Loretta Bonucci
RITRATTO Garza di nebbia avvolge il mio pensiero, un accenno d'ala nel canto d'uccello, che si erge e rifluisce tra gli argini placidi nell'incontro segreto d'altro mondo. C'è il ricordo di uno scorrere che va sotto arcate d'acqua, con onde lievi nell'ora che narra la storia di una vita, e poi sarà quel che sarà. Adriana Mondo
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SAN SALVI - 4 OTTOBRE 2013 di Anna Vincitorio
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ELLE ore di buco della scuola comperavo la frutta sotto il cavalcavia. Il solito banco che faceva mostra: pomodorini, frutta, insalata dei contadini. Acquisti veloci alternati alle chiacchiere di Lello e Rossella che rimpiangeva il tempo in cui cuciva pellicce e vestiti. In fondo al banco, più in silenzio, Norvegia con la sigaretta penzoloni tra le labbra. Poi ritornavo a scuola passando davanti al grande cancello. Alla spicciolata qualcuno si vedeva uscire ma ormai ce n’erano rimasti pochi in quel di San Salvi. Devo ammettere che il luogo scatenava in me reazioni le più svariate. Timore, curiosità, ricordi di persone che avevano chiuso là i loro giorni. Dopo gli anni ’70 le cose erano cambiate, pur restando un luogo dove le parole dei richiusi non avevano peso. Anche nel silenzio di quei verdi meandri si potevano intuire i drammi insoluti che le sbarre alle finestre avevano in parte protetto. Ancora si scorgono scritte e murales a memoria di infelici dalla consistenza di ombre. Andando a ritroso nel tempo - anni ’40, ’50 - bastava dire che una persona era disturbata e che poteva presentare qualche rischio che, facilmente, veniva accolta oltre il grande cancello. Coloro che venivano internati, e molti, erano vigili e ancora consapevoli, subivano l’umiliazione di essere spogliati completamente. Alessio, uno dei tanti, aveva spessi occhiali. Gli furono tolti mentre lui con disperata mitezza diceva: “Ma io così non vedrò più nulla”. Alle donne venivano levate le mutande perché l’elastico che le sorreggeva avrebbe potuto presentare un rischio. Separati per padiglioni e settori, nelle ore d’aria si ritrovavano tutti nel grande spiazzo per lunghe ore e le pietre del selciato ribollivano d’estate. Ore di ozio forzato e la massa che si muoveva scoordinatamente a tratti copriva gli urli e i lamenti. Di festa, alla sera, veniva proiettato un film negli stanzoni della Tinaia. Chi li assisteva, spesso non aveva competenza ma buona volontà. Ci voleva cuore e coraggio a star lì. Gli
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anonimi stanzoni, le inferriate che sezionavano di giorno il sole e la notte la luna. L’acqua scarseggiava ma dovevano pur lavarsi quei poveracci. Veniva preparato un vascone dove in successione venivano fatti entrare, ovviamente nudi con un residuo di pudore nelle membra. Qualcuno si rifiutava perché l’ acqua, più volte usata, era sporca. Ai più agitati veniva praticato l’elettrochoc. Poi, col tempo, la terapia cambiò e veniva data importanza all’ascolto. In quella forzata solitudine il richiamo della natura li faceva incontrare e accoppiare. Quelle buie notti di follia si accendevano di amplessi e un contatto amico fugava le amare visioni di quei giorni tutti uguali agli altri. Non so se i ricordi affioranti del passato potevano aiutare in parte e curare le ferite dell’abbandono. Uscire di lì era un miraggio; i parenti che si erano liberati di quei malati non li volevano più. Solo qualche mamma con crocchia e grembiule si calava dalla campagna per visitare il figliolo e indagare in quei suoi occhi assenti. Suor Cecilia dalle ali bianche, era lì dal ’49 e si prodigava molto. Se una ragazza rimaneva incinta, la seguiva fino al parto adoperandosi perché il bambino che era nato venisse adottato e potesse vivere una vita migliore. Alla ragazza restava il ricordo del parto, il ventre ancora gonfio e un senso di straniamento. I suoi seni non avrebbero mai allattato e nessuna manina avrebbe potuto accarezzarli. Qualcuna stringeva al petto un vecchio bambolotto con la vestina celeste a cui cantava nenie. Quante verità in quelle dichiarate follie. Con la legge Besaglia del 1978 si sancì la chiusura dei manicomi. Franco Basaglia, direttore dell’ ospedale psichiatrico di Trieste, aveva visitato anche San Salvi ed era fortemente contrario all’internamento e alla segregazione dei pazienti. Li voleva liberi e seguiti come dovrebbero essere gli uomini. Purtroppo, morto nel 1980, non poté continuare la sua opera e, tuttora, manca una regolamentazione idonea ad una assistenza adeguata. Il peso è sui familiari disponibili. Indispensabili, persone come Suor Cecilia, infermieri, volontari che spendevano le loro energie, aiutando gli infelici a
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sfuggire follia e squallore. San Salvi, adesso, è luogo di memorie e di mostre. Sul cancello, ragazzi sorridenti che, nel settembre durante la festa, invitano gli ospiti a seguirli. I prati sono verdi, gli edifici accolgono fotografie del passato, si proiettano films e si ricorda che Mastroianni e la Bouchet proprio a San Salvi girarono alcune scene. Era difficile fingere la follia. Seduti in cerchio, da una parte un antico vagone poggiato su gigantesche ruote, vecchi infermieri, qualche poeta, suor Cecilia, ormai molto vecchia ma vigile, si raccontano storie del passato mentre cala la sera. Mi prende una malinconia struggente. E’ certo illusione, ma, come illuminati dalle torce, mi sembra di scorgere volti dietro le sbarre, labbra serrate, qualche gemito, agghiaccianti risate. Il passato rivive: sui muri son segnate frasi, nomi - Oriano, Isolina, Alberto, Giovanna... C’è aria di festa e al calar del buio si proietterà un film. Mi allontano. Avverto una strana oppressione e mi sento osservata da mille occhi... “Non ci dimenticare”. Anna Vincitorio
PASTORE DI MEMORIA Vivono tenerezze nel pastore di gesso, in casette di cartapesta ormai stinti i colori lise vesti pareti tenerezze da antiche madri ai figli migrate col pastore in mani bambine altre che devote ne fanno memoria consacrati gli oggetti da un alito d’eterno magia dell’infantile tempo dilatato a dismisura nel mito ! E il presepe si forma riforma storia infinita d’amore traversata da tante vite lontane unite nella festa.
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E la cometa da 2000 anni riattesa accendendo speranza in umili sguardi puri ora riflessa nei tuoi occhi è luce della Verità del cielo. Se l’ora rinnova nostalgia rinasco ai bagliori verdoro del tuo entusiasmo garante di nostra vita per sempre nel pastore amato insieme nei domestici riti del Natale tu, infanzia, custode del Prodigio. Maria Luisa Daniele Toffanin S.Natale 2012
È SERA E’ sera: il cielo si è ricoperto di un grande mantello scuro, ma dietro a una nuvola c’è una luna rotonda che sa darmi la speranza per un domani pieno di nuove illusioni. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi
L’ULTIMA GOCCIA L’ultima goccia del mio appassionato bacio si è annegata nella tua bocca di rosa! Mariano Coreno Melbourne, Australia
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Dicembre 2013
L' “OMBRA DI POESIA” DI MARIA GRAZIA BERTORA presentata a Genova da Luigi Surdich di Luigi De Rosa
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ABATO pomeriggio 5 ottobre 2013, nei vicoli del Centro Storico genovese, presi d'infilata da una tramontana insolitamente fredda e violenta per un principio d'autunno, eravamo in molti ( tra poeti e scrittori, appassionati, critici, amici) dentro la Libreria Books – In ( vico del Fieno) a stiparci, in mezzo ad un mare di volumi, per assistere alla presentazione del libro di poesie della socia Maria Grazia Bertora in Amalfitano, già docente di Lettere a Genova, all'esordio come autrice di libri ma già esperta da molto tempo nel campo della poesia, con all'attivo molte composizioni uscite in svariate pubblicazioni letterarie. Il compito di presentatore della sua prima silloge era affidato al critico Luigi Surdich, Docente all'Università di Genova. Quello di lettrice (partecipe e impeccabile) a Lucetta Frisa. Bruno Rombi, il giovane-ottantenne poeta e scrittore sardo-genovese, ha portato il saluto suo e della Presidente del Gatto Certosino, professoressa Rosa Elisa Giangoia, poetessa , scrittrice e critico letterario, presente in prima fila ma per una volta impedita a parlare da un raffreddore di stagione. Era presente anche l'editore del libro, Alessandro Prusso, il giovane titolare della “Editorialdeloimposible” di via del Campo ( via legata al nome di De André...). Nella sua Prefazione, Prusso, a proposito della poesia eponima e di quelle seguenti, parla di “...una particolare attenzione agli aspetti formali, quasi classici della poesia, che richiamano, in una certa maniera psicologica, l'accuratezza e la decisione stilistica dell'haiku giapponese... La poesia è nascosta nella mente di Maria Grazia come un'ombra che all'improvviso prende forma e assale...”. Acutamente Rosa Elisa Giangoia, nella sua Postfazione, ci ricorda che “ La poesia nasce dall'ombra, da quel riflesso che rappresenta
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un di più della realtà, impalpabile e ingannevole, e che solo il Sole sa far apparire sul terreno, e che la tradizione letteraria ci ha convinto di essere il vero e proprio simbolum nonché il significato e il segnale dell'esistenza... La Poesia non è solo un di più della nostra vita, e nello stesso tempo la sua conferma, ma è qualcosa che sta nell'ombra, perché partecipa del suo perenne e indissolubile accompagnarsi alla vita, anche se non si limita all'opacità e al grigiore, in quanto può vivacizzare l'opacità dell'ombra, con la diversità dei colori e la varietà delle situazioni che si sprigionano dal magazzino della memoria e con la profondità delle riflessioni che il cuore sa suggerire...” Quanto al prof. Luigi Surdich, egli ha parlato “magistralmente” del libro (tenendolo sempre sotto gli occhi, e leggendone ampi brani) con la sua puntuale e profonda analisi del testo letterario, seguendo la silloge verso per verso, con la competenza ed esperienza che gli deriva dalla lunga frequentazione con poeti ( per me, ad esempio, è rimasto memorabile il suo libro-ritratto su Giorgio Caproni, presentato a suo tempo da Antonio Tabucchi, e pubblicato dalle Edizioni Costa e Nolan...). Della poesia di Maria Grazia Bertora (visibilmente emozionata, e riconoscente per la calda accoglienza tributata alla sua opera) Surdich ha lumeggiato la nitidezza e precisione del linguaggio, il fascino liricamente puro dei suoi versi liberi, brevi e brevissimi, nei quali vengono rievocati, con commozione trattenuta dalla misura dello stile, momenti e ricordi nostalgici del passato. Poesia di memoria intrisa di emozione e dolcezza, in un chiaroscuro pullulante di “ombre” e di luci policrome. A proposito di “ombre”, ho chiesto direttamente all'autrice: “Perché “Ombra di poesia”? “ Intanto il riferimento diretto è nella poesia di prologo – mi ha risposto Maria Grazia un frammento che vagava in un mio quaderno; il frammento è diventato, con l'aggiunta dell'ultimo verso “Forse.”, composizione autonoma. Poi...professione di modestia forse:
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anche padre Dante nel primo Canto dei Paradiso (Canto I v. 23) si augura di riuscire a rendere nella sua opera almeno “l'ombra del beato regno”. Io mi auguro appunto che i miei versi siano almeno l'ombra della Poesia. Ma l'ombra è anche qualcosa – ha aggiunto Maria Grazia – che sempre ci accompagna finché viviamo, e allora faccio riferimento al mio “La poesia con battito leggero/ accompagna la mia vita...” e quindi è come l'ombra. Infine penso che in me e quindi nella mia opera ci siano ombre e luci, come in tutti.” E rileggiamola, questa composizione: “ Ombra di poesia Scorrono in sottili trasparenze remote immagini fini cascami di memorie. Ombra di poesia. Forse.” Seguono le sezioni Definizioni di poesia, I volti della memoria, Notturni, Paesaggi e stagioni. Dai Volti della memoria emergono nonna Clelia, il chiaro cielo estivo, il liquido specchio della sorgente, piazza Campetto ( col ricordo del padre). Dai Notturni emergono il paesaggio notturno ( reso in modo insolito, con pochi, delicati tocchi fascinosi), il “silenzio di attesa”, il crepuscolo che si inoltra nella notte ( con delicate e lievi pennellate di una natura intrisa di spiritualità). Come se Maria Grazia Bertora fosse, per una magica riedizione del Rinascimento, un'artista in cui sono fuse unitariamente le figure del poeta, del pittore, del musicista, dell'adoratore del paesaggio nelle sue manifestazioni più sensibili e delicate. Al contrario di certi poeti moderni che, in ossequio alla cosiddetta “vita moderna” ripudiano una volta per tutte la rappresentazione poetica del “paesaggio” (Vedi, ad esempio, la raccomandazione di poeti come Andrea Zanzotto, di non guardare più al paesaggio, ma “ a ciò che c'è dietro il paesaggio”). Commuove, comunque, la scoperta della fiducia che, nonostante tutto, Maria Grazia
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Bertora nutre nei confronti della Poesia, anche in tempi calamitosi come quelli che stiamo vivendo dal Novecento in poi : “Non l'ultima tenebra... Non l'ultima tenebra mi spaura ma di un inutile viaggiare l'angoscia. …............. Dalle mie ceneri nulla forse nascerà ma i semi di parole lungo il sentiero lasciati saranno forse filo d'erba, fiore o feconda pianta.”. A parte il “forse”, che un po' troppo spesso ricorre nella trepida voce della poetessa ( ma d'altronde, come si fa a professare certezze in un'epoca come questa?) resta il fatto che la speranza di una sopravvivenza della propria “poesia” possa avverarsi per il germogliare, in modi imprevedibili, di uno dei tanti “semi di parole” che cadono dalle mani di chi, di poesie, ne scrive ( e ne “vive” ). Luigi De Rosa Maria Grazia Bertora – Ombra di poesia – prefazione di Alessandro Prusso – Postfazione di Rosa Elisa Giangoia - Editorialdeloimposible – Genova 2013 – pagg. 84 – euro 11.
NEGLI ODORI DEL MATTINO Mi ritorni sempre nell’odore di inchiostro che avevi fretta la sera di cancellare subito prima del pane e della carezza scintilla di brace per futuri inverni. Dicono si memorizzi meno il padre mi cresci invece in questo odore con il giornale fresco ogni mattina che consola come i giorni con le valigie piene per partire. Salvatore D’Ambrosio
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Luci della Capitale di Noemi Lusi RACCOLTA DIFFERENZIATA Tra il dire e il fare…
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L quieto entusiasmo di tutte le donne, dalla casalinga alla manager in carriera, tutte interessate alla qualità di vita nella propria abitazione e nell’ambiente in generale, è stato sensibilmente vivificato al momento della consegna dei contenitori verdi e di un’abbondante scorta di rassicuranti buste di plastica, diversificate dalle indicazioni pacatamente sovrimpresse. Con lo spirito del cittadino ideale, disponibile al cambiamento, che ha a lungo sperato che il problema della raccolta differenziata fosse affrontato con fermo piglio e radicata convinzione, ognuno di noi ha subito alacremente partecipato, per prima cosa ritagliando, si fa per dire, un non minuto spazio fisico in cucina, adatto ai tre contenitori di dimensioni assolutamente non ridotte, per poi posizionarli in sequenza in base ad una personale logica che non ha, però, sempre immediatamente trovato l’approvazione degli altri componenti della famiglia, come se fosse loro la competenza e soprattutto l’incombenza... Finalmente! Si è, infatti, diffusa la convinzione che anche in Italia, più concretamente in questo caso nella capitale, si mostra sensibilità nei confronti della razionalizzazione dell’utilizzo dei rifiuti ed incalzante affiora la soddisfazione pensando che, in fondo, pian piano anche noi, storicamente abbastanza un po’ troppo ‘creativamente disciplinati’, stiamo raggiungendo lo stile che tanto apprezzavamo negli anglosassoni quando li vedevamo
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ritirare le bottiglie di latte, piegandosi garbatamente sul lato della porta d’ingresso, con l‘ atteggiamento compassato in quanto sereno di chi è soddisfatto di come funziona il sistema in cui egli ha la fortuna di spendere la propria esistenza. Ecco dunque che i romani si sono trovati a dover per forza di cose affiggere alla maiolica della parete della cucina, inizialmente con scotch, prima di decidere che forse sarebbe meglio plastificare le indicazioni, il leggero ma intenso opuscolo con la complicatissima indicazione dei giorni, alternati in modo non facilmente memorizzabile, in cui ogni tipo di rifiuto, un elenco a dir poco interminabile, assolutamente ostico anche al più avvezzo degli utenti a ricordarsi, sarebbe stato ritirato. Abituarsi non è stato così semplice come avevamo all’inizio civicamente sperato. Certamente il nostro procedere risulta un po’ rallentato per la continua necessità di dover dividere la miriade di componenti di diverso materiale in almeno tre parti da destinare ogni volta in tre diversi contenitori, quanto prima veniva appallottolato senza riflessione alcuna. Tre piccoli rifiuti come un pezzo di carta, un tappo della bottiglia di acqua minerale ed i resti di un frutto mangiato come snack in un’unica soluzione richiedono di rispettare tre diverse ‘civili’ destinazioni e come opporsi a tanta contemporanea adeguatezza… Quando si è giunti alla convinzione di aver ormai catturato le regole della ripetitività, siamo stati assaliti ad intermittenza da amletici dubbi che abbiamo potuto di volta in volta risolvere utilizzando… un ulteriore opuscolo, stavolta più consistente dove abbiamo scoperto, tanto per fornire un esempio, che un bicchiere di cristallo non deve essere gettato nel contenitore che da sempre ospita il vetro. Infatti nell’apposito opuscolo è posto vicino ad un rettangolino grigio che indica che deve essere depositato in un altro contenitore ‘materiale non riciclabile’. Lo stesso vale per la penna biro e per la custodia di plastica dei DVD che non vanno assolutamente ‘confusi’ con la plastica di cui sono composti. Dopo un breve tentativo di spiegare a se
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stessi la logica insita in tali indicazioni, benché armati di infinita buona volontà, si deve soprassedere perché numerosi altri rifiuti attendono di essere selezionati e destinati. E’ praticamente diventata l’occupazione principale del pochissimo tempo libero del cittadino medio, ormai oberato, se fortunato, da un ritmo di lavoro poco retribuito, ricco di burocrazia ed oltremodo incessante. Tutto ciò, però, non è stato del tutto traumatico in quanto, come all’inizio per l’ introduzione dell’euro si è avuto un lungo periodo di convivenza con la lira così in questo caso si è lasciato ai cittadini romani un periodo di transizione durante il quale depositare presso dei brutti, abbandonati, rovinati cassonetti ‘generici’ in via di smaltimento quanto non si aveva avuto la pazienza di dividere accuratamente, mediante accumulo nei tradizionali precedenti sacchetti. Divertente osservare come, specialmente nelle ore più calme della giornata, molti, di soppiatto, si dirigevano con fare apparentemente tranquillo, ma aria simpaticamente furtiva verso il quartiere vicino, in cui la raccolta differenziata non aveva ancora avuto inizio, e lì si aveva modo di incontrare varie altre persone convenute con lo stesso intento. In breve, nell’arco di un mese, anche i cassonetti, che costeggiavano ogni strada di Roma, sono stati civilmente raggiunti e su di essi è stata apposta una lunga striscia orizzontale di colore marrone, su cui è indicata l’ormai inesorabile, specifica denominazione di quanto è permesso ivi collocare. Dopo un breve periodo di più o meno sottinteso panico, è stato necessario disporsi con maggior piglio alla selezione di quanto è ormai giustamente necessario distinguere e depositare dal momento che non c’è proprio più via di scampo, riappropriandosi del ruolo di cittadino che comprende e collabora e che con convincimento procede al compimento del proprio irrimandabile, non delegabile dovere. Del resto ci ripetono da più parti che in tal modo stiamo facendo il nostro bene e quello delle generazioni che verranno ed è perciò
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che noi, incuranti dei gas di scarico delle macchine, delle energie non alternative prodotte su scala internazionale, dell’alcool distribuito nei supermercati aperti al largo pubblico, ci sforziamo con tutti noi stessi di credere che la nostra collaborazione su scala nazionale possa portare ad un effettivo, utile, conveniente e tangibile risultato. Noemi Lusi Roma, 9/11/2013
SOGNO DI NATALE E nei fragili silenzi ancora si accendono echi di cornamuse in strade lontane di giorni lieti nel poco grumi di vita lucentibacche rosse, al cuore pungente agrifoglio. Pastore al suono antico mi desto in rito sacro di doni e su orme di luce mi risento quasi presepe nel corpo tuo in me raccolto per difenderti dal tempo. E tu, madre-stupore, con mani fiorite di magia ancora a disegnarmi dentro con oro puro d’amore il Santo giorno, per sempre. Tu viva con voce di gioia fra noi rinati all’armonia dell’ora. Maria Luisa Daniele Toffanin S.Natale 1998
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 10.11.2013 Politica in frantumi, in mille schegge e mille partitini; ogni marpione farà il suo, avanti di questo passo. A muoverli, non ci sono ideali, ma soltanto potere e denaro. Domenico Defelice
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Comunicato STAMPA XXIV Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it organizza, per l’anno 2014, la XXIV Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, come sopra, lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2014. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in eu-
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ro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia-Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2013). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito.
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I POETI E LA NATURA - 26 di Luigi De Rosa
Disegno (1960) di Domenico Defelice
NAZIM HIKMET E LE FOGLIE CADENTI DELLA VITA
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azim Hikmet, poeta, scrittore e drammaturgo, nacque il 17 gennaio 1902 a Salonicco, Grecia, da genitori turchi. Sua madre era una pittrice con la passione per la poesia francese. Suo padre era un diplomatico. Nazim fu costretto, dal governo nazionalista, ad espatriare per aver denunciato il “genocidio armeno”. Andò in Russia, e studiando sociologia all'Università di Mosca ( dal 1921 al 1928) si infervorò per Marx e gli scrittori rivoluzionari. Diventò comunista, ateo dichiarato e “pacifista”. Dopo il ritorno in Turchia, trascorse una vita tormentata da molti anni di carcere e di esilio per motivi politici, contrassegnati da infarti, da solitudine e disperato attaccamen-
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to alla vita. Tornato in Russia, morì a Mosca, nell'ancora Unione Sovietica, il 3 giugno 1963. Morì da cittadino naturalizzato polacco, avendogli il governo turco toltogli la cittadinanza turca già nel 1951, a causa della sua attività politica. In Russia conobbe di persona sia Lenin che i poeti Serghei Esenin e Wladimir Majakowskij, di cui subì l'influenza in poesia. ( Quello stesso Majakowskij che poi si sarebbe suicidato in una stanza d'albergo...). Riuscì comunque a viaggiare molto, e non solo in Europa ma anche in Africa e nell'America del Sud ( gli Stati Uniti gli negarono il visto di ingresso). Si sposò e risposò più volte ( ebbe quattro mogli) e si innamorò di queste donne scrivendo per loro belle poesie, raccolte in Poesie d'amore, ma per le traversie causategli dalla politica non godette mai di un'autentica, continua tranquillità e serenità familiare. In poesia, Nazim Hikmet è considerato un innovatore della lirica turca, anche perché vi ha introdotto, per primo, i “Versi liberi”. Dicevo, poc'anzi, del suo “disperato attaccamento alla vita”. In effetti, non avendo nessuna fede in un mondo ultraterreno, non gli restava che aggrapparsi alla vita materiale, al mondo concreto e visibile. Il titolo di un suo romanzo, uscito per Mondadori nel 2011, suona così: “Gran bella cosa è vivere, miei cari !”. E ricordiamo la sua nota poesia “Alla Vita” : “ La vita non è uno scherzo. Prendila sul serio come fa lo scoiattolo, ad esempio, senza aspettarti nulla dal di fuori o nell'aldilà... ...ma sul serio a tal punto... ...che tu muoia affinché vivano gli altri uomini gli uomini di cui non conoscerai la faccia, e morrai sapendo che nulla è più bello, più povero della vita...” E' perfino troppo facile notare le contraddizioni sottili o plateali in cui si dibatte uno che si dice sicurissimo che dopo la vita ter-
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rena non esiste assolutamente nulla. “Carpe diem”, lo sappiamo già. Ma non è un po' patetico l'ammettere, come fa in un'altra composizione, “ Mia rosa, pupilla dei miei occhi non ho paura di morire ma morire mi secca è una questione di amor proprio.” Le contraddizioni fra l'uomo ideologizzato e il poeta con la sua sensibilità dubbiosa esplodono poi in modo stridente in questi altri versi, dedicati al mare: “Arrivederci fratello mare Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti arrivederci fratello mare mi porto un po' della tua ghiaia un po' del tuo sale azzurro un po' della tua infinità e un pochino della tua luce e della tua infelicità. Ci hai saputo dir molte cose sul tuo destino mare eccoci con un po' più di speranza eccoci con un po' più di saggezza e ce ne andiamo come siamo venuti. Arrivederci fratello mare.” Non si può dire quanto sarebbe stata gradita e apprezzata questa poesia da un gelido rivoluzionario come Lenin o da un tiranno come Stalin...ammesso che avessero la voglia e il tempo di leggere una poesia, magari di un turco-polacco come quel Nazim Hikmet. (Che a Lenin, comunque, aveva dedicato a suo tempo “Comunista! Voglio dirti due parole”. E per quanto riguarda Stalin, dopo la destalinizzazione, aveva scritto “Ma è poi esistito Ivan Ivànovic?”, un'opera in chiave satirica e contro la burocrazia sovietica). Non si può approfondire il ritratto di un poeta e di un'epoca storica in una o due paginette. Però un'idea abbastanza precisa ce la possiamo fare anche se solo leggiamo una poesia di Hikmet come la struggente, triste ( non so se disperata o, in fin dei conti, fiduciosa nei confronti dello spirito umano, giudicate voi) “Veder cadere le foglie”
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Veder cadere le foglie mi lacera dentro soprattutto le foglie dei viali, soprattutto se sono ippocastani, soprattutto se passano bimbi soprattutto se il cielo è sereno, soprattutto se ho avuto, quel giorno, una buona notizia soprattutto se il cuore, quel giorno, non mi fa male soprattutto se credo, quel giorno, che quella che amo mi ami, soprattutto se, quel giorno, mi sento d'accordo con gli uomini e con me stesso. Veder cadere le foglie mi lacera dentro soprattutto le foglie dei viali, dei viali d'ippocastani.” Forse anche per questo Nazim Hikmet è stato definito un poeta “comunista- romantico”. Ma siamo sicuri che in tale contesto la parola “comunista” abbia veramente un senso? Luigi De Rosa COME L’OSTRICA <<Non mi portate in ospedale, a finire i miei giorni>> implora il vecchietto impotente e malato <<Io sono come l'ostrica. Non mi staccate con la forza dalle pareti che mi protessero dal freddo e dal vento, che racchiudono i segreti di tutta la mia vita, che l'eco emettono ancora della voce dei miei avi. Sarà dolce, per me, uscire dalla mia casa, "partire", per sempre, con l'immagine negli occhi delle cose che mi furono utili, che mi fecero compagnia, di tutti voi, che amai, ricambiato>>. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS
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(Disegno di Serena Cavallini)
Recensioni ANNA AITA DOMENICO DEFELICE Un Poeta aperto al mondo e all’amore Ed. Il Convivio, 2013 Di Domenico Defelice, molto noto come direttore di “Pomezia Notizie” (una rivista giunta nel 2013 al suo quarantesimo anno di vita), nonché come poeta e scrittore di saggistica e di testi teatrali, si è di recente occupata Anna Aita con un suo libro intitolato Domenico Defelice, un poeta aperto al mondo e all’amore, nel quale ci offre un quadro completo dell’uomo e del letterato. La Aita inizia il suo libro parlando della vita di Defelice, dai suoi primi anni a quelli della maturità e oltre, con ricchezza di particolari che valgono a
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meglio delineare la figura dell’autore trattato. Così apprendiamo del corso dei suoi studi letterari e dei suoi interessi per le arti figurative: ma ciò che più conta del suo trasferimento dal paese natale (Anoia, in Calabria) a Roma, dove si trasferisce ed affronta mille difficoltà per trovare un lavoro, passando attraverso varie esperienze, non ultima quella dell’ insegnamento. Altre esperienze il giovane Defelice le fa in campo sentimentale, sinché conosce una ragazza, Clelia Iannitto, che sposa, trasferendosi a Pomezia, in provincia di Latina, dove fonda la rivista alla quale è legato il suo nome. Intanto, dopo la prova di esordio, Nuove voci, la sua produzione letteraria si va moltiplicando, con libri di versi, quali Piange la luna e Con le mani in croce che già dimostrano in lui maturità stilistica e buona capacità di sintesi poetica. Si nota inoltre in lui una varietà tematica che va dalle poesie d’amore a quelle nelle quali affiora una risentita problematica sociale. Seguirono 12 mesi con la ragazza, La morte e il Sud, Canti d’amore dell’uomo feroce (da cui emerge una forte tematica civile) e Nenie ballate e canti, dove alta si leva la voce del poeta nel denunciare i mali del nostro tempo, quali l’emarginazione, l’ egoismo, l’assenza di carità, ecc Tra i libri di Domenico Defelice è da ricordare anche una saggio dal titolo Temi umani e sociali in Carmine Manzi, dove è messa a fuoco la figura di questo letterato ed uomo di cultura, impegnato anche nell’educazione dei giovani. Si passa poi ai racconti di Arturo dei colori, definiti da Michele L. Straniero nella sua introduzione al libro “un messaggio di vita e di amore”. Divengono frattanto più assidui in questo periodo i rapporti di Defelice con alcune personalità molto in vista del mondo della cultura, quali Francesco Pedrina, insigne critico letterario e Solange De Bressieux, scrittrice e poetessa francese, nonché docente alla Sorbona. Sempre nell’esame delle pubblicazioni del nostro autore, Anna Aita passa poi a parlarci di un poemetto, To erase, please? nel quale Defelice “intreccia la sempre sorprendente bellezza della natura con il tormentone computer-TV”. Seguono L’orto del poeta, libro in cui si può trovare un “luogo di pace”, mentre altrove “dominano il caos e la violenza” e Alpomo, “un poemetto satirico sulla politica degli anni ‘90” e specialmente Resur-
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rectio, che costituisce un Viaggio nel dolore, accompagnandoci “tra le corsie di un ospedale” e fa-
cendoci toccare con mano la sofferenza. Tredici, come quelle del Calvario, sono le stazioni di questo poemetto, che raccontano del labirinto della malattia e della “resurrezione” o “rinascita” dell’autore. Scritto con notevole abilità compositiva e con un profondo sentire, questo libro costituisce una delle prove più riuscite di questo poeta. Defelice, osserva la Aita, si è occupato anche della poesia della sua regione, in un libro intitolato Pagine per autori calabresi del Novecento, nel quale ci dà una vasta panoramica di questo settore della nostra poesia, considerata in maniera molto penetrante e convincente. Segue il Diario di anni torbidi, dove Defelice descrive con acume di sguardo i suoi difficili anni giovanili. Alberi? e invece un nuovo libro di poesia di Defelice, nel quale egli compie come un’umanizzazione del mondo vegetale che appare strettamente legato all’uomo il quale da esso trae succhi e alimenti vitali, anche se non di rado li sperpera dissennatamente. E di un ritorno alla natura, per una “rigenerazione dell’umanità” parla Sandro Gros-Pietro nella sua postfazione al libro. Nella monografia di Anna Aita si fa anche un cenno ai lavori teatrali di Defelice, che dimostrano in lui versatilità d’ingegno e capacità d’intuizione delle esigenze sceniche. Tra questi testi assume un particolare rilievo Silvìna Olnaro, che propone il tema dell’eutanasia: argomento che solleva molte obiezioni di ordine etico e giuridico, oltre che religioso e sociale. Certo, un problema di difficile soluzione, ma che viene affrontato dall’autore con obiettività e con profonda umanità. Chiudono il libro un capitolo, il quinto, dedicato alla rivista fondata e diretta da Defelice per oltre un quarantennio con dedizione e con ottimi risultati e un esame delle monografie scritte su di lui, delle quali quest’ultima di Anna Aita costituisce un contributo veramente pregevole per la sua migliore conoscenza. Elio Andriuoli
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Immagini: Pomezia, Istituto Statale d’Arte, 24 ottobre 1987. Grazia Veloce Ligoli, a nome dell’artista impossibilita ad intervenire, fa omaggio a Domenico Defelice di una delle celebri Madonne con Bambino della pittrice Novella Parigini. A sinistra, la scrittrice e poetessa Ada Capuana, pronipote del romanziere siciliano. Pomezia, Istituto Statale d’Arte, 22 ottobre 1983. Da sinistra: Ada Capuana, Domenico Defelice e Gaetano Penna - in rappresentanza del Comune mentre stringe la mano al poeta e scrittore Dr. Amerigo Iannacone. In fondo, Mario Iannitto, segretario del Liceo Scientifico “B. Pascal”. Al microfono, il presentatore della cerimonia, prof. Pasquale Blanco.
SILVANA ANDRENACCI MALDINI IL FLAUTO DELL’ANIMA Ed. Universum, Rocca di Caprileone (ME) 2005, Pagg. 32, € 6,95 Il flauto dell’anima, di Silvana Andrenacci Maldini, si compone di due sezioni: un saggio sul Mitraismo, “Saggio, frutto di pazienti, lunghe ricerche delle memorie del passato”, e poesie. In rapporto alla concisa esposizione, dell’argomento religioso, ci accontenteremo di soli spiragli. Sul mitraismo, avvertiamo subito, ad ogni buon fine, che si tratta di religione monoteista sorta intorno al VI sec. a. C., nell’antica Persia, al tempo del profeta Geremia [perdurandovi fino al VII sec. d.C., lasciando spazio all’islamismo]. Religione che, transitata per la Grecia, raggiunse Roma, intorno al 100 a.C. Avvertiamo altresì che prende nome dal dio Mitra, il cui insegnamento è attribuito a Zaratustra, che significa “splendore dell’oro”, nome che, per successive modificazioni, ci giunge nella forma di Zoroastro, profeta mediorientale di incerta connotazione, il cui culto viene diffuso attraverso l’Avesta (libro e ritualità connesse). Avvertiamo ancora, che il profeta lo fa discendere da un Essere Supremo, denominato il Mazda, le cui prime tracce, attraverso scritti e bassorilievi, risalgono almeno al 1300 a.C. Il masdaismo è, quindi, un culto che si è esteso dall’Estremo Oriente. In sintesi, si equivalgono le denominazioni di masdaismo, mitraismo, zoroastrismo, che si basano su due principi: quello del bene e quello del male. Silvana Andrenacci Maldini espone una sorta di genealogia delle divinità di culto, secondo i riti sumero-assiro-babilonesi, la cui iconografia non è dissimile dai miti ellenici, da cui vari epiteti: per esempio congiungimenti anche con un toro, poiché
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esso è simbolo di fertilità e di potenza; così, Dio del Sole; nonché le denominazioni degli iniziati a seconda del grado di conoscenza dei misteri. Mitra sarebbe nato da una roccia, assunto a Guerriero Invitto, preposto al comando di tutta la milizia celeste, contro le forze del male comandate da Mainyù, che a sua volta era circondato da eserciti di Geni, gnomi e folletti. Tale culto richiedeva che i morti non dovessero decomporsi, per l’ “orrore della putrefazione”, ad opera delle milizie infernali, perciò si preferiva che i cadaveri venissero scarnificati ad opera degli animali (corvi, avvoltoi, cani). Il culto si praticava in luoghi denominati mitrei, ricavati da grotte, in analogia ai natali del dio, giungendo al deliquio. A Roma si conoscono 36 mitrei, di cui uno sotto la Basilica di San Clemente, e 18 ad Ostia Antica. La figura del dio, nei primi tempi veniva ammirata; più tardi, al tempo di Diocleziano nel 307 d. C., Mitra assurge a Dio protettore dell’Impero, costringendo i cristiani a creare i luoghi di culto, nelle catacombe (cimiteri sotterranei). Mi pare evidente l’ analogia con il dio Marte dei romani, o con il Dio biblico, attorniato da Arcangeli che contrastano i demoni; né sfuggono altre analogie: “Il festino più grande avveniva il 25 dicembre, Natale del Sole invitto.” (pag. 7), data fissata dalla Chiesa, intorno a IV sec., per la nascita di Gesù [come pure l’ abbandono delle spoglie terrene all’ età di 33 anni di Mitra]. In quanto alle poesie, esse costituiscono, in parte, una sorta di narrazione di carattere religioso; riguardano una raccolta di diciotto poesie generalmente premiate in vari concorsi, alcune delle quali in traduzione francese, a cura della stessa autrice che è versata in tale lingua. Silvana Andrenacci Maldini inizia con ‘Dall’ alto delle Torri’ dalle quali si assiste ad un deserto di scheletri disseminati nel corso dei secoli, richiamando il mitraismo di cui sopra. Ricorda Charles de Foucauld [Eugène, 1858-1916, beatificato nel 2005], fondatore della confraternita di monaci artigiani de “I Piccoli Fratelli di Gesù”, che fu ucciso da una fazione dei Tuarèg; ricorda ‘Le suore francesi’ dalle quali la Nostra ricevette formazione; e rammenta che “Alla bella spensierata età di/ quattordici anni” non desiderava il fidanzato, ma le piaceva canterellare alla maniera della Piaf; purtroppo la primavera le fu infelice, poiché la madre andò in ospedale. Adesso si vede le rughe sul viso, ma non le importa poiché aspira al Paradiso. Sotto questo cielo l’umanità è divisa fra gioie e dolori, ma lei si affida alla Madonna. Vorrebbe trovare rifugio “nel cavo segreto di un leccio/ o di un abete…”; ma tutto sommato la sua religiosità, la conduce a credere:
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“Attraverso il flauto dell’anima,/ invisibile e dolce/ passa la melodia/ di una preghiera.” (22). Tito Cauchi
COLOMBO CONTI LA DONNA DEI VELCHA Aletti editore, Villanova di Guidonia (RM) 2013, Pagg. 116, € 13,00 Colombo Conti è nativo di Tarquinia (Viterbo, 1951), ma risiede ad Albano Laziale (Roma), “architetto e artista eclettico”, è alla sua terza opera con La donna dei Velcha, il cui sottotitolo è dichiarativo: “100 poesie d’amore”. Tema su cui Angelo Del Cimmuto, nell’introduzione, precisa che i moti dell’animo, di chi è rapito da tale sentimento, sono in subbuglio; questo conduce a evocare, così come affiorano in superficie, ogni minima cosa che ci leghi alla persona amata. È vero: verifichiamo che la poesia evocativa, pur con le eventuali sofferenze, alleggerisce l’anima. La raccolta apre con il componimento eponimo, portandoci nella classicità degli etruschi, a Velcha [ovvero a Vulci], ove il Poeta invoca la Donna rapita dalla morte, perché ritorni indietro dal luogo, riprendendo la sua antica bellezza. Colombo Conti ne evoca la sensualità mista alla dolcezza, sospirando e soffrendo, in preda ad una febbre d’amore che lo vede trasformato. Mi pare di doverlo paragonare a un novello Orfeo che vuole strappare al regno di Morfeo, la sua Euridice. Ma nel Nostro non c’è un nome, una identità ben precisa: ella è la Donna dei suoi sogni. La figura femminile sbalza dagli antichi affreschi, sembra portare un tormento; ha il viso (maschera) bagnato dalle lacrime, che ne sciolgono i colori. Sottratta alla sua casa, per amore o per capriccio, è stata abbandonata e ancora è in attesa nei luoghi “tra gli amori sepolti di Antinea” (pag. 13); ma, ad attenderla, c’è il nostro poeta, novello cantore. Egli innamorato narra di tradimenti e di amori, immagina un dialogo con la Donna: “Ho bisogno di te ma non mi basti/ vorrei che andasti e mai più tornassi,/ così mi disse piangendo sconsolata/ mettendo a nudo la sua fragilità.” (22). Cospargendo i sogni di bellezza, di candore, di fiori; levando una continua ode d’amore; e quando è deluso finisce per ammettere che “Non fu un dialogo/ ma un monologo…/ interminabile,” (42). Colombo Conti ha una naturale musicalità nei versi, come: “Mai donna più bella io ebbi amato/ così preziosa e rara tra quelle del creato.” (88), di portata aulica; a volte in strofe rimate: “ti vedo in ogni volto della gente/ che mi passa accanto indif-
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ferente.” (106). Il Poeta definisce la donna invocata, ora ingenua e vittima, ora scaltra e furba. Egli si porta la sofferenza della propria ‘storia d’amore’, commentando: “È questa la nota dolente/ il pegno che deve pagare,/chi ha tanta voglia di scrivere/ la propria storia d’amore.” (47). La parola diventa ora espressione riflessiva sui desideri che nascono e si tengono nascosti, ora si fa lirica intima. In un’alternanza di sentimenti, ora la reinventa ninfa dei boschi, ora come un “piccolo fiore disidratato”, ora una impaurita fanciulla che deve sottrarsi alle insidie di un drago. E come Penelope ha atteso il ritorno dell’amata. Colombo Conti si interroga: “Che senso hanno queste schermaglie d’amore?/ Da tempo me lo chiedo./ Forse intendi sincerarti dei miei sentimenti/ verso di te?” (78). Apre un canzoniere d’amore, ha anche momenti di amarezza, ma ne è grato del travagliato percorso, perciò accetta la sua condizione umana di eterno innamorato: “Ora son qui e rimpiango…/ ma voglio allontanare la tristezza,/ venga la gioia con la sua freschezza/ mi conduca al presente e non al passato.” (105). La solitudine della donna evocata, abbandonata e tradita nei sentimenti, che rimane con il rimpianto, forse è allusione alla solitudine della donna dei nostri tempi, “malata di consumismo”, di cui Egli prende consapevolezza. E forse è anche la solitudine che riflette quella del Poeta. Tito Cauchi “I labirinti misteriosi del suo intimo sono manifestati attraverso una ricca versificazione che invera il consueto binomio poesia-vita con una sorta di autobiografia del quotidiano interiore ed esteriore laddove l’esplorazione metafisica s’appoggia a quella estetica con la ricerca della parola poetica connotativa, dunque esatta. L’Autore contrassegna con nuove e insistite mutevolezze di luce o con cromatismi la suggestione e la risonanza del bello con piccoli movimenti verticali e suggestivi spostamenti laterali”. Motivazione ottenuta al Premio Nazionale 2013, Poesia Edita Leandro Polverini - Anzio, all’ assegnazione del 4° posto nella sezione poesia metafisica. (NdR)
NAZARIO PARDINI I SIMBOLI DEL MITO 1° premio Città di Pomezia, 2013 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2013 In un generale contesto di sciatteria linguistica nel migliore dei casi adottata a rappresentazione della sciatteria morale nella quale si vive; più spesso –
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purtroppo! - esito di interiore aridità se non di conclamato analfabetismo, emerge la silloge di Nazario Pardini I simboli del mito, a buon diritto 1° premio Città di Pomezia 2013. Ed emerge perché attraverso i sentieri di un redivivo neoclassicismo, percorsi con eccellente perizia formale oltre che con sincero trasporto emotivo, ci fa riascoltare echi di Giganti della poesia di epoche lontanissime, candidati – indiscussi – a vincere con il loro ispirato verso “di mille secoli il silenzio”. E’ chiaro che la lettura de I simboli del mito va riservata a un selezionato numero di fruitori, e comunque va almeno sconsigliata, se non proibita, agli odierni scolaretti delle Neoavanguardie, del famigerato “Gruppo 63”, di quegli Sperimentalisti, insomma, che hanno cercato in tutti i modi di affossare la Poesia italiana del secondo Novecento. Che godimento potrebbero mai trarre costoro – disavvezzi a ogni forma di armonia, di musicalità, di grazia – dall’audizione di scansioni ritmiche da poemi quali il De rerum natura, le Bucoliche, l’ Odissea, o da frammenti saffici, catulliani, e via di tal passo fino allo stesso Dante? Non conosco la Giuria del Premio, ma sono certo che la scelta, in questa edizione 2013, non deve aver creato, come spesso avviene, casi di coscienza, così tanto alte erano le credenziali artistiche della silloge vincitrice. Aldo Cervo
NOEMI LUSI SGUARDO A RITROSO… Poesie - Il mio Libro It, 2013 Buona raccolta di poesie questa della scrittricepoetessa, Noemi Lusi, residente a Roma. “ Quando si segue un autore che decide di ripercorrere il suo passato attraverso l’esposizione delle sue sensazioni, emozioni e passioni, si intraprende un percorso che comporta un impegno arduo “ scrive nella INTRODUZIONE la Prof.ssa Vittoria Di Fabio. E’ vero e non potrebbe essere altrimenti poiché il poeta, quando compone le poesie, deve restare se stesso e per dare le emozioni giuste è costretto anche a spogliarsi con le parole. Il distaccarsi dai versi potrebbe creare una dose di freddezza non sempre apprezzabile dai lettori attenti ed esigenti. Noemi Lusi, in questa raccolta lo fa pure in certe occasioni; ma ne esce indenne grazie alla sua alta qualità linguistica, come in Azzardo: “Azzardo/ e l’azzardare/ si risolve in nulla./ Commenti sottolineano/ un crudo reale,/ annullando insegnamenti/ in esso intrisi./ Attività, al vuoto parallela,/ costituisce cellula/ in contesti troppo vasti./ Incomprensione/
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dovuta a/ finitezza.“ In questi tempi di nevrosi il tutto può passare ed essere giustificato se espresso con stile e buon gusto. Ma, sinceramente, a noi piace molto di più quando la poetessa mostra se stessa senza paura di venire fraintesa, come fa in Speranze Lontane: “ E’ come se dentro di me/ un fiume di lacrime vane/ inerti giacessero, stanche./ Soffro e soffrendo mi accorgo/ che vivo e vivendo mi vedo/ svanire in un vento di morte./ E sento una musica vana/ che ascolto non ha perché vera/ espressione di vuoti interiori./ E vivo momenti di pianto,/ invano cercando speranze/ accennate, lontane, fugaci.“ Vivere giorni di sofferenza non significa perdere la speranza! Proprio quando si soffre occorre invocare e pregare la speranza. Soffrire e sperare in qualcosa di buono o di bello ci aiuta a vivere. Amori, passioni, delusioni e vittorie, sono, assieme al linguaggio, l’ albero della poesia. La nostra Noemi ha qualità enormi e potrebbe toccare traguardi prestigiosi, sia come narratrice sia come poetessa. Crediamo nel suo lavoro letterario e siamo certi di non essere smentiti dai critici. Se il nulla non muta, muta la presenza delle cose che ci circondano, le cose che vediamo giorno dopo giorno. Dalla presenza dell’essere nasce il fiore dell’arte. E quando nasce bisogna curarlo, annaffiarlo. Soltanto così ne possiamo odorare il profumo ed esaltarci per il volo delle farfalle che lo corteggiano sotto i raggi del sole. I colori dell’infanzia si trovano ancora: se il corpo cambia lo spirito resta giovane. E siamo giovani quando scriviamo! Consigliamo ai nostri lettori di leggere SGUARDO A RITROSO… di Noemi Lusi. Un lampo nel cielo che avvolge la sua rosa poetica! Mariano Coreno Melbourne, Australia
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ANNA AITA DOMENICO DEFELICE un poeta aperto al mondo e all’amore Editrice “Il Convivio” giugno 2013. €12 Già la prefazione di Angelo Manitta ci introduce allo studio puntuale di Anna Aita sulla figura e sull’ opera di Domenico Defelice. Insieme alla saggista (giornalista pubblicista, volontaria ospedaliera che ha al suo attivo numerose pubblicazioni) osserviamo le foto dello scrittore calabrese bambino e conosciamo le sue prime attività lavorative in campagna ad Anoia, dove è nato da genitori contadini. Salvo miracolosamente da un bombardamento, Domenico, nonostante i pesanti impegni, riuscì a diplomarsi ragioniere e perito commerciale, inserendosi in faticose attività lavorative, prima a Ro-
sarno, poi a Roma, ove soffrì letteralmente la fame. Il fatto più stupefacente è che, proprio durante le terribili avversità, nasce il poeta sempre più apprezzato. L’amore, talvolta non ricambiato, gli ispira raccolte di successo. Lavora a ritmi impossibili in una scuola e in un ufficio, vince numerosi premi letterari, crea una casa editrice. Infine, nel ’70, sposa Clelia, si trasferisce a Pomezia, ove fonda (nel ‘73) la rivista “Pomezia-Notizie”; nascono i figli Gabriella, Luca. Stefano. Questa biografia, così minuziosamente indagata, è un prodigio, è l’ esemplificazione di una storia, ove risaltano volontà ferrea e un grande amore per la letteratura. L’autrice, coadiuvata dal parere espresso da Sandro Allegrini, disserta con mirabile profondità sulle opere di Defelice, a cominciare da “Piange la luna” dell’allora studente dell’Istituto Tecnico Commerciale di Reg-
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gio Calabria. Nei commenti inserisce versi scelti, che ci consentono di seguire l’evoluzione di uno stile e di una tematica, che diverrà sempre più di tipo civile. Circa i saggi e i racconti, sottolinea la piacevolezza del dettato e l’interesse dei contenuti, mentre per i poemetti come “Alpomo” e “Resurrectio”, evidenzia la vena satirica che ”mette in risalto i peggiori risvolti della gestione nel governo”. L’ Aita non trascura nessuno scritto di Domenico Defelice (dai diari alle opere teatrali), citando anche i saggi su Domenico Defelice (di Sandro Allegrini, di Leonardo Selvaggi, di Orazio Tonelli, di Eva Barzaghi). Angelo Manitta, in prefazione, afferma che questo saggio “permette al lettore di addentrarsi in questo diorama poetico e di leggere attraverso la produzione e la biografia parte dalla storia letteraria e sociale dell’Italia del Novecento”. Elisabetta Di Iaconi Immagine a pag. 47: Roma, aprile 1999. Domenico Defelice (al centro, accovacciato), con un gruppo di colleghi ed allievi, all’uscita, dopo aver visitato il Palazzo del Quirinale.
NAZARIO PARDINI I SIMBOLI DEL MITO Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2013 Il mondo della realtà, nel quale ci muoviamo, svolgiamo le nostre attività, c'impegniamo al massimo per realizzarci nei nostri ideali, per crearci intorno un ambiente favorevole dove vivere sereni e con tutti gli agi possibili, risulterebbe arido se esso non procedesse in sintonia col mondo della fantasia. I due mondi, proprio perché opposti, non si respingono ma si integrano e completano a vicenda. Se la realtà ci delude, per consolarci ripieghiamo nell'immaginazione e vediamo, così, appagati i nostri desideri; diradano le angosce, torna la serenità e con essa l'ottimismo, il sorriso sul viso, anche se nella consapevolezza che la nostra è solo illusione. Le prime letture che, da bambini, e non solo, ci hanno affascinato sono state le fiabe; i personaggi di queste li abbiamo presi come modelli per le nostre aspirazioni, ci siamo impersonati in essi e ci siamo emozionati, con essi abbiamo gioito e pianto, abbiamo auspicato le punizioni per i cattivi i premi per i buoni. Ed eravamo sinceri. Eppure sapevamo che erano creazioni immaginarie. Gli stessi sentimenti abbiamo provato per i personaggi della mitologia, e per la schiera degli dèi dell'Olimpo; ne abbiamo interpretato le allegorie, le metafore, ci siamo interessati ad essi come se fossero stati reali: perché ci permettevano di staccarci dalla materia, dall'effimero,e ci consentivano di
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immetterci nel regno magico dei sogni e delle illusioni, di realizzare quanto la realtà ci aveva negato. Chiedo scusa della digressione, ma non credo di essere uscita fuori campo. Nazario Pardini, nel suo "I simboli del mito", ricorda, condanna, esprime le sue riflessioni ed opinioni, traspone- per un confronto -l'antico nel moderno, confessa che vi sono comportamenti e idee simili tra gli uomini moderni e i personaggi del mito. "Egli non rispolvera " come scrive Defelice nella nota critica "figure mitologiche soltanto ma anche storiche; e non solo per il gusto della classicità, egli le innesta nel nostro tempo...ed è nel sorpassare 'la Storia' che consiste la sua vera novità". Seguiamolo nel suo percorso. "Tantum religio potuit suadere malorum", a tanto grandi mali poté indurre la superstizione religiosa! Il poeta prova sdegno, risentimento, dolore per il sacrificio di Ifigenia, e noi con lui. "Impallidir ti videro/ innocente/ quando impietoso il ferro/ tinse di corallo/ lo spaurito sguardo/ sopra l'ara". Perché tanta crudeltà? Perché l'uomo non aveva ancora un'intelligenza avanzata, una spiccata sensibilità, uno spirito critico, un'apertura mentale tale da indurlo alla riflessione, da fargli superare i limiti delle proprie esigue conoscenze, perché egli agiva guidato dall'istinto più che dalla ragione, da bruto. Il ricordo del passato involge di sé il Pardini ovunque. E' estate. Egli siede su un colle. Il paesaggio patriarcale lo riporta indietro nel tempo, mette in moto la sua fantasia: scene di mito gli si mostrano davanti e sembrano vere: il suono gli giunge d' un flauto, d'una lira, e un pastore scorge che intaglia un bastone. E' l'ora del crepuscolo. IL sole si nasconde dietro i monti, ma sul viale restano gli dèi e le ombre delle statue giganti, che si ergono dalle acque, "vedono morire/ ogni stagione/vite di giada bagnate/dal pianto del sereno/della rugiada". Le rocce, simili a templi divini, sono testimoni del passato:"Videro armenti/brucare sulle cime/quando pastori/...armati di archi e bastoni/ uccidevano..." animali; esse nascondono segreti sotto folti pruni dove si radunavano tribù. Ombre vagano nella notte, sono le anime dei morti: le loro voci, non attraverso parole si sentono, ma nell'aria che vibra. E' stato spesso con Ulisse il poeta, lo ha seguito nelle sue peripezie, ma non ha udito il suo canto; lo ha rincorso fino alle Colonne di Ercole e gli ha chiesto, prima che sparisse al di là di esse, se aveva scoperto il mistero, le soglie del vero: non ha ottenuto risposta perché l'eroe è scomparso, la sua voce, coperta alla foce dai venti, non si è fatta sentire. Quale il messaggio che egli lancia agli uomini? Ulisse non risponde, non fa sentire la sua voce perché non è riuscito a scoprire il mistero, dopo tanto girovagare, tanti pericoli af-
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frontati, tante volte scampato alla morte. Così come lui, l'uomo non potrà mai penetrare nell'enigma dell'universo. Non si deve per questo arrendere, ma perseverare nella lotta, nella ricerca, non deve dimenticare che il suo dovere è progredire nella conoscenza; egli deve prendere ad esempio Giovanna D'Arco, il suo eroismo, ricordare il suo olocausto e tener sempre presente l'ammonimento di Ulisse ai suoi compagni: "Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza" (Canto XXVI dell'inferno). Pardini è un sognatore e ci contagia. Io amo i classici e la mitologia quanto lui e non ho bisogno di sollecitazioni, ma per coloro che questo amore non nutrono, egli fa da sprone, invita a ricredersi. Antonia Izzi Rufo
FULVIO CASTELLANI QUADERNO SGUALCITO Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2012 Memoria e Esistenza nella poesia di Castellani Fulvio Castellani, poeta, scrittore, giornalista, attivamente impegnato nella critica letteraria e nella sistematizzazione della storia letteraria contemporanea, conta un’ampia produzione culturale e con varie forme di scrittura. Piena è anche la riconoscenza, che gli amici di penna gli esprimono, per l’ attenzione che riserva a coloro che lo interpellano su questioni letterarie, puntualmente analizzando e valorizzando ogni testo, edito o inedito, che riceve in lettura. Con Quaderno sgualcito ha ottenuto il primo premio nel Città di Pomezia – 2012 e ora edito nelle edizioni Il Croco – Quaderni letterari di Pomezia Notizie, mensile diretto da Domenico Defelice. Una silloge breve e densa, che raccorda passato e presente, memoria e realtà esistenziale quotidiana, entusiasmo e batticuori giovanili e maturità conseguita. In quest’altalenarsi di tensioni, stese tra i ritmi naturali di un mondo antico e le difficoltà stressogene della odierna società complessa, matura il verso poetico come indicazione e messaggio futuro (“… Oggi tutto si spegne/ con un concerto di gusci vuoti/ con scorie di parole rubate (…) Per questo cerco altri appigli/ e sollecito il vento/ a scaraventare il tempo usato/ oltre l’ossessiva unghiata del ricordo”, pg. 18). Il passato si configura allora come riserva energetica per ricaricarsi, luogo dove abbandonare le sfide immature e per trovare energie fresche con le quali sconfiggere timori e paure nella corsa verso il nuovo, per avanzare con fiducia e speranza ritrovata (“Non più riverberi e parole/ al soffio pigro del ri-
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sveglio (…) Mi piace l’ora d’oggi comunque/ … bussando all’uscio/ che socchiuso attende/ un sillabario nuovo”, pg. 11). Lo sguardo retrospettivo è l’espediente che Castellani usa per sviluppare e portare avanti la sua ricerca innovativa in campo umanistico, per trovare l’autenticità del contatto con la centralità del proprio essere, come riconferma del contributo fondamentale offerto dalla poesia al cambiamento sociale e culturale (“…Non sai che la storia continua/ e che trapassa esplodendo/ nel ventre disciolto di un possibile ritorno?; Vivrò abbastanza per riscoprire/ giorni, verità e passi ora nascosti?”, cfr. pgg. 14, 22). Un agile volumetto ma colmo di gioielli preziosi, che si avvale della sapiente prefazione di Domenico Defelice, infaticabile moltiplicatore di iniziative e sviluppi d’incontro a sfondo culturale, editore e direttore anche dei Quaderni letterari che, al numero cento otto, accolgono queste sentite parole poetiche di Fulvio Castellani, per come le leggiamo in Quaderno sgualcito, uscito come supplemento della rivista Pomezia – Notizie. Pasquale Montalto
SILVANO DEMARCHI COMMIATO Ediemme C.I.S., 2013 Mi piace la Prefazione di Antonio Crecchia sulla ventesima (!) silloge poetica di Silvano Demarchi “ Commiato” (Ediemme C.I.S., 2013, pagg. 64), sia perché interpreta il titolo come una licenza per cui ci aspettiamo dall’Autore nuovi altri lavori, sia perché sottolinea la grande sete di verità e di conoscenza dell’Autore nell’affrontare le più importanti realtà esistenziali dell’uomo: la vita, la morte e l’ oltre. Il “filosofo” Demarchi è affascinato dal mondo spirituale e dai grandi asceti e mistici che vedono in tutto il creato – esseri animati e non, spesso anche in compartecipazione - il “soffio di Dio”, e si sente trasalire: “Talvolta osservo/ l’orditura delle foglie/ dopo la pioggia,/ o l’ellisse della conchiglia/ lasciata sulla spiaggia:/ respiro una legge predisposta/ che sfugge al pensiero./ E nel pensiero più non rifuggo/ questa occulta divinità.” Ma, contemporaneamente, si chiede se, essendoci un Dio, proprio questo Dio/Buono abbandoni quei popoli che invece vengono esiliati, perseguitati, martoriati. Con la frase di Reiner Maria Rilke <In verità cantare è un altro respiro. / Un soffio nel Nulla. Un alito in Dio. Un vento>, Demarchi passa alla successiva sezione poetica, in cui ci fa entrare nello specifico dell’età “ odiosa vecchiezza” che egli sta vi-
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vendo, con i relativi umori contrastanti: il radicato incanto verso tutta la Natura - fiori, profumi, fiumi, cielo stellato, animali - e la vita che in essa palpita e che solleva l’animo dell’Autore stesso; l’osservare la gioia e la spensieratezza nei giochi di bimbi, nelle belle ragazze e nei giovani atleti; il sempre grande fascino dell’arte ( Venezia e altre città; musica; danza; poesia…); il riaffiorare dei ricordi con qualche rassegnato rimpianto, ma anche con l’ accettazione realistica che la Vita ha le sue leggi per tutti; le riflessioni sull’ ”autunno” della vita, sulla morte e sul suo “dopo”: “Nello sterminato succedersi/di nascite e di morti/ dove vanno le anime erranti/ e qual è il loro destino?/….”..nessun ricordo resterà/ di quaggiù nel trapasso oltre/il velo della materia”. Ma, come ci possono essere imprevisti nella natura, “Il mandorlo in fiore/ e l’inattesa neve d’aprile”, così, proprio in questa fase della vita, possono giungere gradite sorprese: nascita di bimbi (nipotini), o improvvise affinità di sentimenti ( il cuore non muore mai! ): “Non so perché/ nella luce del crepuscolo/ così a lungo e con ardore,/ i tuoi occhi si posarono// sul mio volto./ Tu, citiso di giovinezza, io/ con la neve già sul capo.” Ho riportato solo pochi cenni della sua opera affascinante come sempre. Leggetela tutta! Maria Antonietta Mòsele
ANDREA PUGIOTTO IL MIO ZIBALDONE Associazione Culturale Noialtri, 2012 Andrea Pugiotto ci presenta una sua “Antologia personale” dal titolo “Il mio zibaldone” (Associazione Culturale Noialtri,2012, pagg. 200, € 15,00). In Prefazione, Teresa Regna definisce l’Autore un eclettico per la versatilità dei suoi scritti, a volte umoristici, a volte fiabeschi, a volte erotici, i quali tutti offrono punti di riflessione sia a chi la pensa come l’Autore, sia a chi la pensa diversamente, <purché ai “diversi” venga concesso di esprimersi liberamente>. Tra i Racconti, alcuni trattano della fame nel mondo, di ecologia, di libertà; altri sono contro l’ odio, contro la corruzione, contro il progresso usato per il male; altri ancora sono a sfondo eroticosessuale. Con la fantasia, l’Autore auspica ad avere un “Regno dei Diversi e degli Emarginati”. Le Poesie parlano dei falsi poeti, dell’indifferenza tra la gente, e del perché l’Autore è contrario a certe nuove tecnologie. Ed aggiunge: “…Sognare/ volare, sparire,/ è la vita mia,/ perché la vera vita/ per me è la Fantasia…” In questo libro, Pugiotto riporta Recensioni su
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certi Autori – alcune pubblicate su Pomezia-Notizie – ove traspaiono la sua immediatezza, la sua spontaneità, la sua originalità, accompagnate da personalissime osservazioni – scritte come fossero parlate - (“Troviamo ciò che avremmo voluto esprimere anche noi: ma con parole altrettanto alate?”) e battute di spirito davvero simpatiche e divertenti. Gli piace, inoltre e giustamente, lasciare in sospeso il finale delle opere che recensisce. Anche certi suoi Articoli sono stati pubblicati su Pomezia-Notizie, come “Uno è nessuno”, “Pinocchio” e qualche altro. Nella sezione Grafica, l’Autore, dopo averci fornito alcune regole generali, ci porta consigli e spiegazioni di come il fumettista deve essere sempre in accordo con l’autore del testo, cosa che egli ha sempre fatto. Inoltre, ci confessa di trattare tutti i generi letterari, pure quelli pornografico-omofili, che egli illustra con vignette, disegni e fumetti. Infatti, nelle ultime pagine ne troviamo alcuni esempi, insieme con quelli nelle copertine della rivista dell’Associazione Culturale Noialtri. Maria Antonietta Mòsele
LIANA DE LUCA UBALDO RIVA Genesi Editrice, 2013 Liana De Luca ha scritto “Ubaldo Riva – alpino poeta avvocato” (Genesi Editrice, 2013, pagg.156, € 16,00), una accurata monografia di quest’uomo (nato in Valcamonica nel 1888; vissuto, e poi mancato, a Bergamo nel 1963, per un incidente d’auto) dalle poliedriche doti sia culturali che di amor patrio, ricco di ispirazione creativa e di grande umanità. L’Autrice ci tiene a precisare che il sottotitolo è quanto egli ha predisposto fosse scritto nella sua lapide, secondo l’ordine di importanza che egli ha dato di se stesso, in tutta la sua vita: - alpino, in guerra e in pace, e con una grande passione per la montagna. (Benché riformato, si arruola volontario nelle due Grandi Guerre, affrontando anche l’arresto e la prigione: fatti che racconta nei suoi numerosi scritti); - poeta, scrittore e avvocato: “Io sono un animale contemplativo: e ho fatto l’alpino: e ho fatto e faccio l’avvocato./ Quando poi la burocrazia mi ha imposto delle funzioni di ordine e di scartoffiare, ahi, l’anima mia piangeva…” Come avvocato, la sua carriera è stata tutta in salita: procuratore, poi giudice conciliatore. I suoi pilastri morali erano: verità/sincerità, libertà, carità/bontà. Egli era tutto studio e lavoro (anche di domenica per aiutare i suoi clienti poveri); andava a
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casa soltanto per i pasti. L’Autrice ci dice che solamente negli ultimi anni, e nei soli pomeriggi domenicali, per lui c’è stata “una gentile presenza”. Amante della musica di ogni genere (il padre era pianista e tenore oltre che medico; il nonno violinista e pittore; le zie coriste), alcune opere si ispirano ai Grandi della musica. Inoltre, colto com’era, negli scritti esprime puntuali giudizi e confronti sui maggiori Letterati classici. Liana de Luca, oltre a fornire dettagliate spiegazioni ed efficaci commenti, riporta i giusti apprezzamenti dei colleghi di Riva, fra i quali quelli dell’ avvocato Carlo Longhi Zanardi che di lui sottolinea: “Sempre animato dal genio del bene, immensamente felice di far felici gli altri, semplice, fanciullesco, sensibile, di efficace eloquenza, di una cultura eccezionale; ha in sé ricchezza di espressione e grande profondità - anzi un abisso - di pensiero, pur non mancando di sottile arguzia e di giocosità. Innumerevoli le sue opere (vedi la bibliografia) di cui, nel corso della narrazione, sono riportati alcuni passi di prosa ed alcune liriche, eloquenti per capire la sua espressività e il suo stile. Tra le poesie, personalmente, mi piace segnalare “Stellata” e l’unica lirica d’amore riportata: “Io presto dovrò”. A felice sorpresa, l’Autrice chiude questo importante suo lavoro con una delicata, ma appassionata poesia di sogno/sentimento/ricordo dedicata proprio a Ubaldo Riva. Maria Antonietta Mòsele
COLOMBO CONTI LA DONNA DEI VELCHA Aletti, 2013 Colombo Conti ha pubblicato la sua terza raccolta lirica: “La donna dei Velcha – 100 poesie d’amore” (Aletti Editore, 2013, pagg. 114, € 13,00). Angelo Del Cimmuto ne esalta la sensibilità e la ricerca dell’autenticità dei sentimenti d’amore, che siano smarrimento, sensualità, nostalgia, delusione: in un gioco, insomma, di luci ed ombre. Infatti, le innumeri poesie descrivono, in tutte le sue sfaccettature, la passione d’amore che l’Autore prova nelle varie situazioni (al mare, sotto un albero, nella tundra, ecc.) e nelle varie esperienze (“cercavo di convincermi, mai ne fui certo,/ che la migliore fosse sempre l’ultima…”), con la schiettezza propria della verità (“i capricci di lei, le stranezze di lui…”): una vera confessione scritta. Quanti aspetti ha l’amore! Esso è “miraggio,… istinto,… che palpita,… nascosto,… piangente,…
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che uccide,… infinito,… ma forse non esiste…” (vedi Sembianze d’amore). Ed è altalenante, che ora dà entusiasmo, ora tristezza; e a volte non si capisce se si tratta di un addio (“Accarezzandoti il volto/ si allontanò da te…” – “Quando ti sentii mia già ti avevo persa…”), oppure di un ritorno (“…fu per caso/ dopo averti persa, che ti ritrovai…”). E quando credi che esso si sia spento, invece rinasce: “L’amore che andò/ si fuse con quello che venne”. E’ tutto un inno all’amore gioia/ dolore/ resurrezione: perché l’amore è volubile, specie nell’età della giovinezza: “…lo sai è finita/…sei corsa lontana/…sei adesso da me/ sperando il perdono.” Intanto il tempo passa: riaffiorano dolci ricordi, ma anche qualche rimpianto. L’Autore ci vuole confidare che ha amato la sua donna, ma anche un po’ illusa, ed ora gli è dolce pensarla (vedi Quando soffia tramontana). Adesso sono tristi entrambi: lui ancora la cerca, ma non la trova (Era il tuo pianto), e si illude di voler stare ancora con lei (Venere). Egli conclude dicendo che è mistero come nasce l’amore; e si chiede se è finita, inizia, o c’è sempre l’attesa d’amore. Da sottolineare nuovamente la grande capacità del Poeta nell’esprimere con ricchezza di parola e di immagini ogni più sottile mutamento dell’animo di ognuno dei due innamorati. Maria Antonietta Mòsele
SARA RODOLAO LA DONNA DAI DENTI D’ORO OLTRE LO SCIALLE Centro Editoriale Imprese, 2013 - Pagg. 152, € 15. L’autrice Sara Rodolao ama esplorare l’animo umano con le sue potenzialità e limitazioni nell’ ambito territoriale dove vive in “ Liguria” ed ama ricordare la sua fanciullezza della sua terra natia: “Calabria”. Sara è molto sensibile ed ha una penna leggera nel dipingere le emozioni umane carpendo con la sua caparbia le amarezze e le gioie umane senza eliminare la speranza di un futuro migliore che esiste nel cuore umano sofferente ma vincente. Il suo componimento “La donna dai denti d’oro” e “Oltre lo scialle” è stato pubblicato dalla Casa Editrice Imperiese nel mese di luglio 2013. Sono due romanzi di notevole intensità che invita il lettore a non smettere di leggere la sua opera fino al traguardo del finale. Sara Rodolao è molto amata dai lettori, dai critici e dalle scuole pubbliche ricevendo notevoli trofei come la medaglia d’oro dell’operosità nell’arte del-
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la Legion D’Oro di Roma, nell’ambito del concorso Città di Sant’Agata dei Goti a Benevento. La sua affermazione : “ Scrivere è una sensazione meravigliosa a cui non si può rinunciare”, è bene sostenuta in questo suo componimento. “La donna dai denti d’oro” è sensazionale perché l’autrice ha voluto comunicarci le ragioni dei pregiudizi verso i rom e la diffidenza che la società prova verso questo popolo perseguitato mai macchiato di sangue nelle guerre come le altre etnie. Non voglio raccontare il romanzo perché un film va solo annunciato ma non interamente raccontato così la bellezza dello scrivere di Sara voglio coglierla in queste preziose parole di testo. “… Valli a capire i grandi. Non appena tornata a casa, mi affrettai a raccontare a mia madre che la nonna mi aveva proibito di giocare con un amichetto che avevo conosciuto sulla spiaggia. Mia madre chiese spiegazioni e così, senza tanti preamboli, mia nonna le mise al corrente che non dovevo perché quel bambino era uno zingaro …” La bellezza della seconda parte “Oltre lo scialle” la colgo nella dedica dell’autrice :“ Al coraggio delle donne di tutti i Sud del Mondo” e in queste parole: “Il segreto di Elvira … prigioniera senza catene di un tempo e di uno spazio che odiava, ma non aveva i mezzi per cambiarli … Il motto migliore dei paesani era: la parola migliore è quella che non si dice … La vita è una partita complessa, vince chi riesce a districarsi nei suoi meandri con astuzia … Era diventata anziana senza aver mai potuto dare a nessuno il suo corpo e il suo cuore. Almeno, questo è quello che pensano gli altri! Il suo segreto lo hanno portato nella tomba sua madre e sua nonna. Ha amato, una sola volta, ma ha amato! Aveva solo quindici anni; era così piccola che a stento riesce a ricordare il volto del ragazzo che aveva preso il suo cuore. Solo il dolore ricorda. Il tremendo dolore del suo corpo snello che si apriva in due come un ‘anguria matura per far passare un bambino. Si, era madre. Madre di un figlio che non aveva mai visto ed era stato cresciuto lontano da un’altra donna. In mezzo alle capre, in alta montagna, senza mai sapere la verità. Non sapeva di essere figlio di donna Elvira, perché le sue nonne lo avevano portato lontano da lei appena venuto al mondo, per evitare lo scandalo di una ragazzina cresciuta troppo in fretta che si era data prima delle nozze ad un giovane villano che lavorava come ragazzo di stalla. Per lei avevano fatto progetti di altro tipo …” Questo segreto sarà svelato al lettore soltanto con la lettura dell’opera. L’autrice è una attenta e sensibile penna che per-
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mette ai suoi personaggi di apparire e vivere la vita come è nella realtà di ogni giorno senza cadere nel Verismo e nel Decadentismo perché ha una sua realtà letteraria impregnata nella sua vita vissuta con la bellezza , le gioie, tormenti, dolori e vittorie. Solo uno spirito libero e profondamente riconoscente verso la sacralità della vita come l’ ineguagliabile autrice Sara Rodolao poteva imprimere queste splendide emozioni a tutti i lettori dei suoi componimenti. Stimo questa amata autrice perché mi avvolgo nelle emozioni che il mio amato Sud che mi sa veramente donare divenendo un simbolo fra i grandi scrittori della mia adolescenza. Angela Maria Tiberi
PRIMERO DE NOVIEMBRE, 2013 Por un día de cumpleaños avanzado y mal esperado se me olvidó el sueño. ¿ Qué más buscar dentro de los bolsillos del tiempo? La soledad es la primera estación que vislumbramos en la plataforma de este viaje. Después vienen las heridas adquiridas en la juventud y la nieve en el corazón sustituyendo el coraje. La vida va pasando como el paisaje hermoso que vemos desde la ventana. De poco a poco nosotros mismos nos imponemos el silencio para no molestar a los más jóvenes que nos acompañan los pasos en el destierro. Teresinka Pereira USA
SHEHERAZADE E’ grande la potenza descrittiva di questa Sheherazade di Rimsky Korsakov che con dolci suoni dell’oboe, del flauto e degli archi ci trasmette il misterioso fascino dell’India
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e con le melodie dell’arpa e del violino solista ci trasporta nell’incanto sentimentale di un fiabesco incontro. Ma il poderoso tutti dell’orchestra si impone infine sull’allegro intrecciarsi di festosi motivi ed evoca con laceranti e cupi suoni la tragedia del naufragio. Poi lentamente si perde nell’assolo del violino, come acque che ormai calme si richiudono sui resti della nave che scompare. Ma oggi in questa sala di concerti non è la nave del marinaio Simbad che scompare: si sovrappone alla sua immagine quella di un’altra nave carica di poveri emigranti. Mariagina Bonciani Milano
È FREDDO Un refolo di vento ha sconvolto il cielo turchino di oggi. Tutto è diventato nero e pioggia e vento han portato via ciò che di tenero e di gentile gioiva nel sole qualche minuto prima. È freddo e sibila il vento, lo sento mentre mi trastullo con un libro che è il mio solo divertimento. La mia stanza ha le pareti delicate e sento sbattere gli alberi divelti sul selciato, il mio libro trema tra le mani e la storia che leggo non ha senso in questo tormento. ‘Quanto sole e quanto splendore in quell’estate piena d’amore...’ Questa è la storia del libro che mi dà un po’ di calore, mentre aspetto che il tempo migliori. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE LA NASCITA DI POMEZIA - Nel pomeriggio del 22 ottobre scorso, nell’Aula Consiliare del Comune di Pomezia, è stato presentato il volume La nascita di Pomezia testimonianze orali e fonti d’ epoca, a cura della professoressa Daniela De Angelis (Gangemi Editore, 2013 - Pagg. 192). Ha porto il saluto il Sindaco della Città dott. Fabio Fucci, precisando che il libro raccoglie, tra l’altro, le sofferenze e le speranze, non solo dei coloni fondatori, ma di tutti i cittadini che hanno sognato e sognano una città grande e veramente a misura d’uomo. Dopo aver letto alcune delle testimonianze, ha ricordato come alcuni degli intervistati hanno espresso perplessità sulle Amministrazioni passate, esprimendo la speranza, per esempio, che venga finalmente ripresa la costruzione del Teatro*, portandola finalmente a termine. Anche in questo egli intende impegnarsi. La curatrice del lavoro, Daniela De Angelis, nel suo intervento, ha espresso il desiderio di interessarsi ancora della storia della nostra città e di voler privilegiare quello che finora anche lei ha trascurato: l’elemento umano inerente il nostro territorio, sia rispetto al passato che al presente, precisando che, attraverso le interviste, Ella non ha trovato trionfalismi nei figli dei pionieri, come non ce n’erano nei protagonisti della fondazione; il credo di quelli di allora era “Andare avanti”, lo stesso degli attuali discendenti. E’ seguita la premiazione dei protagonisti delle interviste, attraverso la consegna di copia del libro e di una targa ricordo. La presentazione vera è propria è iniziata con l’intervento dell’architetto Valerio Palmieri, il quale, tra l’altro, ha ricordato come la città fu co-
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struita - al contrario di come avviene normalmente senza conoscere le persone che poi l’avrebbero abitata, che avrebbero occupato i suoi spazi. Anche lui ha ricordato la fabbrica sconcia del nostro teatro, iniziato nel 2001 ed ancora ridotto ad un manufatto del tutto incompleto e quasi soffocato dalle erbacce. E pensare che la città di prospettive lavorative proprio nel territorio della costituenda Pomezia. Ha ripreso la parola la De Angelis Pomezia fu ideata e costruita nell’arco di appena 2 anni! Ha lamentato pure che oggi la vera architettura è quasi uscita di scena, almeno nel nostro ambito. Sono intervenuti, quindi, il dott. Valerio Palumbo e il dott. Andrea Pavia, ex alunni della professoressa De Angelis, il primo lumeggiando i coloni che sono pervenuti dalla Bosnia Erzegovina (tra i quali i Bisesti e gli Aldrighetti) e il secondo quelli dalla Romania. In Bosnia - ha precisato Palumbo - la comunità italiana era la meno numerosa, eppure si deve, per esempio agli Aldrighetti - la costruzione della chiesa di S. Francesco; Mussolini ha favorito, nel 1938-1939, il rientro dei coloni dalla Romania - ha ricordato fra l ‘altro Pavia - attraverso incentivi economici e, lumeggiando sugli emigranti dalla Francia, dalla Corsica e dalla Romagna. A quelli provenienti dalla Francia, il Fascismo ha assegnato terreni di minore estensione, più adatti, però, a certe culture, come, per esempio, gli ortaggi. Ma furono gli emigranti provenienti dalla Romagna “il cemento per unire le varie popolazioni”. Ultimo ad intervenire, lo storico Fabrizio Astolfi, che ha evidenziato come Pomezia sia stata e continua ad essere “territorio di emigrazione perenne”, che i pionieri hanno avuto sogni solo in parte realizzati per una enorme quantità di fattori, tra cui la guerra, ma che “le generazioni successive non sono state all’ altezza delle potenzialità e delle necessità del nostro terri-
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torio”. Pubblico attentissimo, sala stracolma. (dd f) * Le notizie che ci giungono sulla sorte di quest’ opera, però, non sono rassicuranti, anzi! Si parla, addirittura, di abbandono definitivo del progetto, perché, per completare l’intero manufatto, occorrerebbero ancora ingenti finanziamenti, non solo per la copertura dell’intera struttura, ma anche per il parcheggio multipiano, per gli arredi e le macchine di scena. S’è proprio necessario, si accantoni per adesso il parcheggio, ma si realizzi il resto. L’ attuale scheletro non va lasciato ancora alle intemperie - col rischio di pregiudicarlo definitivamente - e l’ idea del teatro a Pomezia non va affatto abbandonata. Noi siamo tra quelli che si sono battuti perché il manufatto dell’ex Consorzio Provinciale e terreno circostante non andassero a finire nelle mani di uno dei tanti palazzinari che si sono arricchiti disastrando il nostro territorio e non vogliamo credere alle sussurranti voci di popolo che, dietro alle infinite remore e ostacoli ad arte che hanno finora impedito la realizzazione del teatro, ci siano interessi poco puliti e anche l’intenzione di cambiare, o prima o poi, la destinazione d’uso dell’intero manufatto. Il Sindaco Fucci non casca nella pania. Il Teatro va realizzato. Per questo abbiamo lottato in passato e per questo lotteremo ancora. Pomezia non ha bisogno di altri palazzi abitativi, ma di sistemazione e valorizzazione dell’esistente, di opere aggreganti, di più cultura, più spazi comuni, di decoro. E’ vero o non è vero che, nel suo programma di insediamen-
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to, il Sindaco aveva inserito un “decisivo impulso alla Cultura e al Turismo”? Il Teatro va in questa direzione e va realizzato. L’Italia è il paese in cui le opere si iniziano e non si concludono mai per far lievitare i costi, perché ci si possa arricchire illecitamente su di esse. Si faccia un contratto senza scappatoie con l’impresa appaltatrice, vigilando e denunciandola se poi non dovesse rispettarlo. In Francia, in Germania, in Inghilterra, eccetera, le opere si progettano, si incominciano e si finiscono nei tempi e nei termini stabiliti, senza aggiunte o lievitazioni di costi. Perché in Italia non deve essere così, perché non deve essere così anche a Pomezia? Il Movimento di cui fa parte Fucci afferma di voler cambiare l’Italia: non sarebbe questo un bel cambiamento? Sindaco, lavori perché si finisca di costruire il Teatro, non perché lo si abbandoni; leghi il suo nome a quest’opera, la Città gliene sarà grata. (D. Defelice) *** ANCORA SUI 40 ANNI DI POMEZIANOTIZIE - E-mail del 4/11/2013 da Emerico Giachery, Roma: Caro Domenico, tornando, in ottobre, dal lungo soggiorno elbano, spiccava, tra la molta posta che giaceva in portineria in attesa, il libro su di te, che si aggiunge all'ampio interesse critico sulla tua opera che comprende, se ben ricordo, anche una tesi di laurea. Ti rigrazio del dono. In seguito ho ricevuto "Pomezia-Notizie", e mi associo al grande coro di auguri e congratulazioni, provenienti con entusiasmo persino dalla lontana Australia, per il quarantesimo compleanno (traguardo che poche riviste raggiungono) , della tua rivista che fu salutata anni fa come "the best News Magazine of the year". E che non si limita alla letteratura, ma s' impegna in polemiche civili, e incoraggia anche onesti giovani che vogliono impegnarsi a lavorare per il Paese. Quanti anni sono trascorsi da quando hai lasciato la terra natia, dove "Dall'aereo balcone della villa / l'ampia valle / si perde nel mare incendiato"! Quanta strada hai fatto, con fede e coraggio, da allora! Auguri affettuosi per l'avvenire a te e alla rivista da Emerico Un affettuoso salto a Pomezia-Notizie per i suoi quarant’anni di attività - La Rivista “PomeziaNotizie”, diretta da Domenico Defelice, in quarant’anni ha realizzato un’intensa attività promotrice di cultura, di progresso etico, civile letterario con tenacia e coerenza. Una Rivista nazionale e internazionale con una varietà di scritti, una documentazione letteraria sempre più amplificata e lodevole con frequenza mensile per aver saputo seguire il nostro tempo, interpretando tutti gli aspetti negativi e positivi nel suo cammino di trasformazioni nel
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costume e nelle travolgenti strutture tecnologiche. Domenico Defelice ha riscosso plausi e ammirazione per senso critico e profondità riflessiva. La sua presenza ha dato luce con energia intellettiva e volontà indomita, rendendo sempre più ampio il campo letterario di “Pomezia-Notizie”, dando ai collaboratori il giusto sostegno per le loro assiduità di contributo. Ogni autore con la propria sensibilità ed esperienza culturale ha intensificato le pagine di “Pomezia-Notizie” dalla vitalità continua che mai ha conosciuto arresti. Un mensile culturale di grande notorietà, in quarant’anni ha accentrato attorno a sé nella sua complessità il panorama letterario del 2° Novecento. Una ricchezza di incontri e di partecipazione, una intercomunicabilità ininterrotta di idee e di vedute; una vera palestra di cultura l’ amata Rivista, la più importante, la più letteraria, piene le sue linde e chiare pagine di espressività improntate a purezza di stile e a ricerca di verità. Attraverso recensioni, articoli di varia umanità, poesie si sono raggiunte varietà di toni, di prospettive, profondità di sentire. Un’atmosfera letteraria in estensione, soffusa di sentimenti e di realismo. Il direttore Domenico Defelice con la sua personalità ha dato a “Pomezia-Notizie” un’impostazione compatta, con senso pratico e naturalezza, mirando con ostinato vigore a idealità, sempre con prontezza critica nel controbattere le aberrazioni di una modernità eccentrica e spesso corrotta. Ha fatto sentire con i suoi scritti il suo carattere di indipendenza morale, di intraprendenza, rendendo la Rivista sempre viva con i tempi, attiva, seguendo tradizioni ed esemplarità letterarie nel loro storico cammino. “PomeziaNotizie” e i quaderni letterari de “Il Croco” hanno creato una vera scuola letteraria con autori che hanno espresso dignità professionale, rigorosa fermezza verso mete che in quarant’anni si sono raggiunte sempre con sviluppi evoluti, in ampiezza e varietà di temi.. Domenico Defelice il campo letterario di “Pomezia-Notizie” con fatiche inesauribili e ostinatezze l’ha sempre tenuto come un giardino dissodato, ben curato, estirpando erbe malevoli, seminato di principi morali, vi ha lavorato con passione, con razionalità, ha fatto sentire la sua voce di perspicace equilibrio, ha saputo tenere insieme, in una grande pubblicazione, collaboratori che si sono avvicendati per tanti lunghi anni, di varia provenienza e di diversificata formazione culturale. Lunga vita alla rinomata, importante Rivista “Pomezia-Notizie”, presente in ogni luogo, in Italia e all’estero, con la sua spontaneità e immediatezza di linguaggio: una pubblicazione semplice di aspetto, ma ricca di sostanze, diretta ad un avvenire con idee fragranti di umanità, in lotta contro le adulterazioni e le eccessività materialistiche: un vero e battagliero stru-
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mento di progresso civile, di promozione culturale in un’epoca di crisi di valori, una luce di sicura guida, di libertà espressiva, secondo i principi della più alta vitalità letteraria. Leonardo Selvaggi Torino, 10 Agosto 2013 Pomezia Notizie Mi è giunto in mano, qual prezioso dono, il “Pomezia Notizie, la rivista che in gloria ha chiuso il suo quarantennale, condotta con perizia e con sapienza da Domenico il dotto Defelice. ”Piccola botte, vino sopraffino” antico detto ancor valido e saggio. L’apprezzo invero questo libriccino, in veste tipografica modesta, volutamente sobrio, disadorno, pur pregno di notizie, poesie degne, giudizi critici, storie ed eventi di noti personaggi e pur d’ignoti. I nostri auguri d’ancor lunga vita alla rivista e al Nostro fondatore. letterato, saggista e pur poeta, immerso nel mensile colto impegno, da tempo divenuto più oneroso per l’appendice del quaderno “Il Croco”, a celebrazione dei più degni vati, dei sommi letterati più valenti. E complimenti. Serena Siniscalco *** ACCADEMIA COLLEGIO DE’ NOBILI - Istituzione storico-culturale fondata nel 1689 - Il Legato Italia Centrale - Prot. n. 20/LG/13 - Ponte Buggianese, 2 novembre 2013, Commemorazione di tutti i fedeli defunti Carissimi Accademici Cavalieri, Dame e Amici, anche a nome del nostro Preside, della Giunta Accademica e del Gran Cancelliere sono a comunicare la scomparsa di S. E. Rev.ma Acc. Honoris Causa mons. Vasco Giuseppe Bertelli, Vescovo Emerito di Volterra. Le esequie saranno celebrate Lunedì 4 novembre alle ore 16.00 nella Cattedrale di Volterra. Vi invito alla preghiera di suffragio per la perdita di questo Pastore, tanto erudito quanto amabile e instancabile portatore della Buona Novella di Cristo. Mi permetto unire le seguenti due pagine per ricordare la figura di mons. Bertelli e il commento del Sindaco della sua città, Pontedera.
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Colgo l’occasione per salutarvi fraternamente. Luca Parenti Legazione Italia Centrale: Legato Provv. Acc. di Gr. Comm. Luca Parenti, Via Doccia, 8 – 51019 Ponte Buggianese (PT) Cell. 347.3844102 E.Mail: parentiluca@alice.it - Sede/Corrispondenza: C. P. 39 - via G. da Verrazzano, 7 - 50018 Scandicci, Firenze/Italy – Cell. 339 1604400 - Cod. Fiscale: 94058800486 E Mail: accademia_de_nobili @libero.it - S.E. Mons. Vasco Giuseppe Bertelli, Nato a Pontedera (PI) il 23 Gennaio 1924, è stato ordinato presbitero il 5 aprile 1947. Il 25 maggio 1985 è stato eletto vescovo di Volterra e fu consacrato il 29 giugno dello stesso anno dall' arcivescovo di Pisa Benvenuto Matteucci. Il 23 settembre 1989 accolse nella sua diocesi la visita di papa Giovanni Paolo II. Nel 1992 diede riconoscimento canonico all'Opera pellegrinaggi Foulards bianchi, un'organizzazione che opera a livello nazionale per l'assistenza ai pellegrinaggi verso Lourdes e verso altri santuari mariani.[1] Nel 1994 fu amministratore apostolico della diocesi di Massa MarittimaPiombino. Nel decennale della sua visita papa Giovanni Paolo II indirizzò al vescovo Bertelli un messaggio. Accolta la sua rinuncia al governo pastorale della diocesi per raggiunti limiti d'età il 18 marzo 2000, è tornato nella sua parrocchia natale di Pontedera. Nel 2002 è stato nominato presidente del Collegamento mariano toscano, un'istituzione di collegamento dei gruppi mariani nell'ambito della Conferenza episcopale toscana, e delegato per il tempo libero lo sport, i pellegrinaggi, il turismo della stessa Conferenza episcopale[2]. Nel 2008 è stato riconfermato negli stessi incarichi[3]. È stato anche presidente dell'Associazione italiana di Santa Cecilia, un'associazione che si occupa di liturgia e di musica sacra fondata nel 1584. Il 14 gennaio 2009 l'arcivescovo di Pisa Giovanni Paolo Benotto lo ha nominato canonico onorario del capitolo metropolitano della Chiesa primaziale pisana. Pontedera, muore monsignor Vasco Bertelli: era stato vescovo di Volterra. Bertelli è morto all'età di 89 anni in un convitto ecclesiastico di Firenze dove
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si era ritirato negli ultimi tempi. Dopo aver lasciato l'incarico di vescovo, nel 2000 era tornato a Pontedera, la sua città che ora piange uno dei ' pontaderesi' doc. Redazione 2 novembre 2013: Se ne va uno dei simboli di Pontedera, una persona che era riuscita a farsi amare da tutti, anche da chi non era vicino alla chiesa, grazie a quel suo modo di fare sempre scherzoso e per i suoi amorevoli 'nocchini' che distribuiva come carezze sulle teste dei più giovani. E' morto monsignor Vasco Bertelli, 89 anni, ex vescovo della diocesi di Volterra e dal 2009 canonico onorario del capitolo metropolitano della Chiesa primaziale pisana. Negli ultimi tempi Bertelli, da sempre punto di riferimento della vita religiosa e sociale di Pontedera, si era ritirato in un convitto ecclesiastico di Firenze. Diventò vescovo di Volterra nel 1985 e nello stesso anno fu consacrato dall'allora arcivescovo di Pisa Benvenuto Matteucci. Il 23 settembre 1989 accolse nella sua diocesi la visita di papa Giovanni Paolo II, che nel 2000 accolse la sua rinuncia al governo pastorale della diocesi per raggiunti limiti d'età. Da allora tornò nella sua parrocchia natale di Pontedera. Nel 1992 monsignor Bertelli diede riconoscimento canonico all'Opera pellegrinaggi Foulards bianchi, un'organizzazione che opera a livello nazionale per l'assistenza ai pellegrinaggi verso Lourdes e verso altri santuari mariani. Nel 1994 fu amministratore apostolico della diocesi di Massa Marittima-Piombino e nel 2002 fu nominato presidente del collegamento mariano toscano, un'istituzione di collegamento dei gruppi mariani nell'ambito della Conferenza episcopale toscana e delegato per il tempo libero lo sport, i pellegrinaggi, il turismo della stessa Conferenza episcopale. Fu anche presidente dell'associazione italiana di Santa Cecilia, l'associazione che si occupa di liturgia e di musica sacra fondata nel 1584. "Apprendo con profonda tristezza della scomparsa di Monsignor Don Vasco Bertelli afferma il sindaco di Pontedera Simone Millozzi - è una grave e pesante perdita per tutta la città di Pontedera. Una persona dotata di grande umanità, di grande intelligenza, di grande spessore, che sapeva ascoltare tutti e trovare parole di conforto in ogni momento. Un punto di riferimento insostituibile per tutto il nostro territorio. La città perde uno dei 'pontaderesi' doc, come lui amava definirsi. Ciao Don Vasco, ci mancherai!!!". *** SONO MORTI VINCENZO ROSSI E SILVANA ANDRENACCI MALDINI - E-mail del 9/11 /2013 da Castelnuovo al Volturno (Is): Strana convinzione. Quando ho letto il manifesto che annunciava la morte di Vincenzo Rossi <<Possibile! >> ho esclamato incredula <<così presto, d'improvvi-
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so? >>. Avevo una strana convinzione: che Vincenzo Rossi non morisse mai. La morte colpisce chi e quando vuole, senza preavviso, senza discriminazione. Era pieno di vitalità, produceva senza interruzione... Antonia Izzi Rufo Lo scrittore e poeta Vincenzo Rossi era nato il 7 giugno 1924 a Cerro al Volturno (Is), ove è morto il 6 novembre 2013. Ci uniamo nel dolore delle figlie e dei parenti tutti, assicurando che non mancheremo di ricordarlo adeguatamente nel prossimo numero, non potendo farlo adesso per assoluta mancanza di spazio. Silvana Andrenacci Maldini è stata affezionata nostra collaboratrice per più di un decennio. Poetessa e scrittrice anche in dialetto romanesco, era nata a Roma il 28 novembre 1924 e nella Capitale è deceduta il 17 novembre 2013. Anche Lei ricorderemo nel prossimo numero, porgendo, intanto, le nostre sentite condoglianze ai parenti tutti e ai tanti amici che la stimavano e le volevano bene. (ddf) *** Acri … la poesia … verso il Premio Nazionale Vincenzo Padula 2013 - Il Premio Nazionale “Vincenzo Padula”, indetto dalla Fondazione V. Padula di Acri (CS), nella sua sesta ed.ne, si è arricchito della sezione di poesia, presentando, per tre intere serate, Autori meritevoli di approfondimento, per la loro costante presenza nel dibattito culturale del comprensorio cosentino, per l’impegno nello spazio editoriale e lo sviluppo delle tematiche che portano avanti, di scavo esistenziale, di recupero della memoria e di risvolto sociale. Un’apertura verso il mondo poetico importante che, come ha espresso il Presidente della Fondazione Giuseppe Cristofaro, si intende inserire a pieno titolo nel respiro della valenza nazionale del Premio Padula, coniugando cultura del territorio e attualità del Paese, nello svolgersi degli avvenimenti politico sociali e con uno sguardo privilegiato al mondo giovanile e relativi rapporti con le Istituzioni. Ad avviare l’ iniziativa sono stati i poeti Francesco CURTO, Pasquale MONTALTO, Anna ALGIERI, Angelo SPOSATO, Maria Vittoria MARCHIANO’, presentati da: Eugenio Maria Gallo, Giuseppe Abbruzzo, Gianni Mazzei, Emanuela Guido, Giulia Ferraro, Angelo Feraco. In una suggestiva atmosfera, a mo’ di Caffè Letterario, e con l’eleganza offerta dal luogo di Palazzo Sanseverino – Falcone, dove è anche collocato il Museo comunale di Arte Contemporanea, il coordinatore delle tre serate inaugurali Piero Cirino, si è egregiamente adoperato a equilibrare i tempi e dare il giusto spazio agli interventi e letture di brani poetici, scelti e declamati dalla brava artista Laura MARCHIANO’, accompagnati
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dalle note musicali, suonate al pianoforte da Lorena GACCIONE. La risultanza è stata la felice distensione di aver trascorso un tempo d’armonia in compagnia della poesia e del movimento dell’ anima che essa inevitabilmente sempre apre, nell’interscambio tra gli Autori e l’attento pubblico presente. Nella serata d’apertura Giuseppe Abbruzzo, direttore del mensile locale Confronto, ha usato parole autentiche verso la sensibilità espressa dalla poesia d’amore e di risvolto spirituale della poetessa Anna Algieri; Eugenio Maria Gallo di Bisignano, introducendo il poeta Pasquale Montalto, ha sottolineato l’importanza della memoria e degli affetti familiari, mentre Emanuela Guido ha diretto l’ attenzione ai risvolti esistenziali, nell’incontro col femminile e la bellezza dell’incontro con l’eros della vita, per evidenziare, con lo scrittore Gianni Mazzei di Tre bisacce, i punti innovativi che si possono cogliere negli elementi simbolici del gufo e della goccia, espressi da Montalto poeta. Giulia Ferraro e Angelo Feraco hanno nell’incontro della successiva giornata puntualizzato il ruolo che il luogo natio di Padia ha svolto nella poetica di Francesco Curto e la dimensione sociale che il poeta continua a sviluppare; con Angelo Sposato è stato invece possibile volgere lo sguardo anche alle attività poetiche del coinvolgimento politico sociale e il correlato uso della parola, che con la scrittura di Maria Vittoria Marchianò raggiunge l’armonia della vita, per come raccolta nella quotidianità del vivere, vera essenza di una poetica esistenziale. In ordine al Premio Padula, sviluppato nelle due giornate conclusive dell’otto e nove novembre 2013, uno spazio importante è stato riservato alla presentazione del libro: V. Talarico Cardarelli e dintorni della Rubbettino ed.re e a cura di Giuseppe Cristofaro e Santino Salerno. Il tema portante di quest’ edizione “Mediterraneo: opportunità o minaccia? Mare di clandestini o di migranti?” è stato sviluppato attraverso la premiazione di personalità d’ eccellenza come Tahar Ben Jelloun, la Ministra per l’integrazione Cècile Kashetu Kyenge, il giornalista Riccardo Iacona, gli scrittori Lidia Ravera e Manuel De Sica, il cinema di Rocco Papaleo e Pupi Avati. Tra le personalità politiche regionali e locali che hanno accompagnato quest’edizione del premio l’Europarlamentare Gino Trematerra, l’Assessore regionale Michele Trematerra, il Presidente della Provincia Mario Oliverio, il Sindaco di Acri Nicola Tenuta. ( Dhaler ) *** MOSTRA DI PITTURA - Il 14 ottobre pomeriggio, invitata da Cecilia Gallian, sono stata all’ inaugurazione della mostra artistico-letteraria dedicata a suo padre, Marcello Gallian (Roma, 1902-1968),
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presso il Complesso dei Dioscuri al Quirinale, a Roma. Promossa e organizzata da Giampiero Gallian, altro figlio dell’Autore, la mostra è iniziata con un’interessante conferenza tenuta da esperti di letteratura (Nicoletta Trotta, Cesare De Michelis, Silvana Cirillo, Paolo Buchignani) e di arte (Claudio Crescentini). Settanta i dipinti esposti per la prima volta, insieme ad una selezionata documentazione (carte autografe, lettere, fotografie, ecc.) proveniente dal “Fondo Gallian” conservato nel Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia. Scrittore, drammaturgo, pittore, Marcello Gallian, artista oggi quasi dimenticato, merita una rilettura per la spregiudicatezza e lo sperimentalismo del suo linguaggio artistico e letterario. Attivissimo nel mondo culturale dell’avanguardia romana degli anni Venti e Trenta, su di lui hanno espresso vivo apprezzamento molti critici e intellettuali, da Enrico Falqui a Giuseppe Ungaretti, da Curzio Malaparte e Indro Montanelli a Sibilla Aleramo, Cesare Zavattini e Massimo Bontempelli. Dei suoi trentasei libri, ricordiamo “Il soldato postumo”, “Comando di tappa”, “Nascita di un figlio”, “Pugilatore di paese”, “La donna fatale”, “Quasi a metà di una vita” e “Bassofondo” censurato dal Fascismo e uscito un anno dopo col titolo “In fondo al quartiere”. Espressionista dal colorismo esasperato, le sue opere pittoriche dimostrano una ricerca personalissima di modelli drammatici e tragici, i cui temi figurativi riguardano soprattutto le donne (“perdute”), la Crocifissione, il circo. Maria Antonietta Mòsele *** FUGA DEL TEMPO, il nuovo libro di Luigi De Rosa - Quando ormai questo numero della rivista era in chiusura abbiamo avuto notizia dell'imminente uscita del nuovo libro di poesie del nostro collaboratore Luigi De Rosa, dal titolo “Fuga del tempo”, prefazione di Sandro Gros-Pietro, per le Edizioni Genesi di Torino, nella Collana “I frombolieri”. Tale silloge, vincitrice del Premio “I Murazzi – Città di Torino 2013”, fa seguito a quella dal titolo “Approdo in Liguria” uscita con la stessa Genesi nel 1966 con la prefazione di Maria Luisa Spaziani. In questi sette anni, De Rosa si è dedicato a tempo pieno all'attività di scrittore in prosa e di critico letterario, collaborando, oltre che a Pomezia-Notizie, a numerose altre Riviste letterarie. La “Motivazione di Giuria del Premio I MURAZZI” recita : “Nell'uso di un linguaggio tanto cristallino quanto rigoroso per il rispetto della forma e dei contenuti, Luigi De Rosa mette a fuoco il dramma del poeta moderno che ha acquisito la coscienza storica dell'inadeguatezza della parola letteraria a raccontare il movimento e la densità del mondo reale, ma che tuttavia non abdica al suo
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ruolo di anima sensibile e vigile della storia degli uomini e dei suoi drammatici eventi personali e collettivi.” Nel prossimo numero ci occuperemo del libro. *** TAVOLA ROTONDA SULL’ANGELOGIA, a Cava de’ Tirreni il 19 novembre 2013 - Martedì 19 novembre, alle ore 18, nell’Aula Consiliare del Palazzo di Città di Cava de’ Tirreni, l’ispettore scolastico Agnello Baldi e il professor Francesco D’ Episcopo dell’Università di Napoli hanno parlato sul tema “L’angelologia negli scritti di Attilio Mellone”. Moderatore della tavola rotonda è stato Paolo Gravagnuolo. Ha introdotto il presidente della Lectura Dantis Metelliana., Fabio Dainotti. Erano presenti il sindaco di Cava de’ Tirreni, Marco Galdi e le Autorità di Montesano sulla Marcellana, paese nativo di Padre Attilio Mellone.
*** IL SIGNIFICATO E IL TEMPO NELLA POESIA DI SALVATORE D’AMBROSIO - La Feltrinelli librerie di Caserta, da qualche anno, ha dato origine ad una interessante iniziativa culturale nell’ambito della diffusione e della conoscenza della Poesia e della Narrativa con pubblicazione e presentazione di Scrittori e Poeti anche regionali, oltre che nazionali e mondiali. Nella sezione “Poeti in libreria” pertanto, fra i tanti, il poeta Salvatore D’ Ambrosio ha tenuto una lettura al pubblico di poesie sue scelte, dal titolo significativo ” della vertigine il tempo “: una plaquette di appena sette componimenti incentrati sul tema del tempo come momento-spazio di rivisitazione di vita vissuta senza sosta, senza possesso, senza riappropriazione, perché non c’è stato più la possibilità di restituirlo “fuori tempo … per chi non l’ha conosciuto”. Tutta l’esistenza si misura sul tempo anche se è prodotto, per un attimo, dal rumore causato dal sasso levigato col suo tonfo nell’onda. Esso non ha spigoli con i quali far sanguinare il fragile corpo dell’essere, né decide che “ la storia prende vie insperate “, solo “ tiene conto preciso di tutte le stagioni ”, compresa quella del sonno (eterno). Ed ecco, allora, dal fondo della nostalgia ripescato ”il tempo dei giochi” dentro gli stridii delle rondini, “l’eco dei gridi delle garrule danze”, “pronte a dissolversi solo nell’ abbandono della sera”. Nulla distrugge o fa dimenticare il tempo; basta che lo memorizzi negli (antichi) odori del mattino che subito ti riporta all’odore dell’inchiostro dei primi giorni di scuola, a quello del pane fragrante e profumato, al ricordo della carezza incoraggiante e consolatoria della madre, meno quella del padre, per avere una visione confortante della e per la vita, come quando sei pronto per
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partire “ con le valigie piene” per raggiungere una fortuna certa e ben sperata. Giacché, dice bene il poeta Salvatore D’Ambrosio, “ non cambia il cammino tracciato/volgendo l’inconsistente argine delle spalle / al dilagante esercizio del destino”, quando “volemmo credemmo fummo coppia..” “ di un bisogno d’anima legata ad altra”. Il tempo, allora, detta le sue leggi inesorabili e ineludibili attraverso i momenti – spazi di vita vissuta dall’uomo, fin da bambino, curioso di spiegarsi i segnali che gli vengono dall’esterno: con l’adolescenza - turbamento del “nuovo” inesistente, con ”il primo sudore della fatica”, e poi l’avvertimento della “velocità della discesa” verso la fine “dell’attimo goduto/fatto fossile e /gemma opaca seppellita”. Ecco quanto ha voluto dire il poeta D’Ambrosio, al pubblico attento, con la sua poesia in cui ha stigmatizzato il chiaro significato del turbamento esistenziale a cui è soggetto e sottoposto l’uomo come essere, anima, persona sociale e spirituale. E per ciò sottoposta ai capricci del destino: volere predeterminato da una forza superiore alla volontà e al potere umano o ai poteri umani operanti nello spazio-tempo. Il poeta Salvatore D’Ambrosio, dobbiamo ammetterlo, ha saputo nei suoi versi, ben focalizzare e descrivere questi momenti temporali in cui l’uomo sa e deve sottostare al volere del destino e accettarne il “turbamento” durante la propria esistenza terrena. La sua è poesia consolatrice ed ammonitrice nello stesso tempo. Brandisio Andolfi
Domenico Defelice - Scaffale (1964)
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LIBRI RICEVUTI DANIELA DE ANGELIS (a cura di) - La nascita di Pomezia testimonianze orali e fonti d’epoca Gangemi Editore, 2013 - Pagg. 192, volume edito con il contributo della Regione Lazio e del Comune di Pomezia. Contiene interviste a: Maria Cerbara, Felice Savioli, Attilio Bello, Romeo Mengozzi, Pietro Guido Bisesti, Maria Savioli, Lorenza De Giorgio, Agostino De Giorgio (da Pietro Bassanetti), Goffredo Casadei, Vitaliano De Lellis, Maria Faeti, Angelo Faeti, Anna Ponticelli, Venerina Pasqual, Giovanni Giovinazzo, Irene Bassanetti, Alberta Tonelli, Irene Aldrighetti, Claudio Spadi, Angelo Saietti, Giovanni Saietti, Odilla Loatelli, Eugenio Chiaradia (da Antonio M. Arrigoni), Giuseppina Tenti, Romano Urbani, Flaminia Petrucci, Onda Di Crollalanza, Ninetta Ferrazzi, Venanzo Crocetti. Oltre l’ampia presentazione di Daniela De Angelis (“La nascita di Pomezia: testimonianze orali e fonti d’epoca”), ci sono “Commiato del dott. Agostino De Giorgio”, e “La lingua dei poveri. Note sull’ architettura di Pomezia”, di Valerio Palmieri. ** AA. VV. - Diario 2013 - 66° Ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico di Vicenza - I Quaderni del Teatro Olimpico, n. 34. Il volume di 120 pagine, riccamente illustrato, inviatoci dalla nostra collaboratrice Ilia Pedrina, contiene saggi a firma di: Gianfranco Capitta, Alessandro Grilli, Milena Massalongo, Dino Piovan, Gianfranco Ravasi e Daniela Rossella. Gianfranco CAPITTA, giornalista, scrive su “Il Manifesto” e su altri periodici. Si occupa da sempre di spettacoli e cultura, anche in radio, sul web e in tv. Ha curato progetti e manifestazioni (come le Orestiadi di Gibellina dal 1999 al 2004) e ha scritto saggi su artisti e intellettuali della scena contemporanea (fra gli altri, Harold Pinter, Luca Ronconi e Toni Servillo). Alessandro GRILLI è professore di filologia classica all’ università di Pisa, dove insegna Ermeneutica e retorica e Letterature comparate. Si è occupato soprattutto di letteratura antica e moderna, di teoria dell’ argomentazione, di studi di genere. Oltre a numerosi studi di critica letteraria, ha curato Le nuvole e Gli uccelli di Aristofane per la BUR e scritto, con Carmen Dell’Aversano, un trattato di teoria e pratica dell’argomentazione (La scrittura argomentativa, Le Monnier, 2005). Milena MASSA-LONGO, dottore in germanistica, attualmente insegna Letteratura tedesca all’Università degli Studi di Padova e collabora come consulente drammaturgica a progetti teatrale. Tra il 2010 e il 2012 ha preso parte a un progetto internazionale a cura della Volksbühne di
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Berlino e del Teatro Stabile di Torino culminato nella prima messa in scena italiana de La rovina dell’egoista Johann Fatzer, frammento di un testo teatrale di Brecht, di cui ha curato nel 2007 per Einaudi la traduzione nella versione drammaturgica di Heiner Müller. Dino PIOVAN è dottore di ricerca in filologia classica, docente di lettere e collaboratore alle pagine culturali di quotidiani locali e nazionali. Si è occupato di storiografia, retorica e pensiero politico della Grecia classica e della loro ricezione. Tra i libri recenti, Lisia, Difesa dell’accusa di attentato alla democrazia (Antenore, 2009) e Memoria e oblio della guerra civile (ETS, 2011). Gianfranco RAVASI è Cardinale, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Esperto biblista ed ebraista, è stato Prefetto della BibliotecaPinacoteca Ambrosiana di Milano. La sua vasta opera comprende moltissimi volumi, riguardanti sopratutto argomenti biblici: edizioni curate e commentate dei Salmi, del Libro di Giobbe, del Cantico dei Cantici e di Qohelet. Molto noti al grande pubblico i libri: Breve storia dell’anima (Mondadori, 2003), Le sorgenti di Dio (San Paolo, 2005), Ritorno alle virtù (Mondadori 2005), Le porte del peccato (Mondadori, 2007), 500 curiosità della fede (Mondadori, 2009), Questioni di fede (Mondadori, 2010), Le Parole del mattino (Mondadori, 2011), Guida ai naviganti (Mondadori, 2012), L’incontro, Esercizi Spirituali in Vaticano (Mondadori, 2013). Daniela ROSSELLA si è laureata in Lingua e letteratura sanscrita presso l’Università degli Studi di Milano e addottorata presso l’ Università “La Sapienza” di Roma. Insegna Indologia presso il Conservatorio “Arrigo Pedrollo” di Vicenza e Filosofie, religioni e storia dell’India e dell’ Asia presso l’Università di Potenza. Ha tradotto dal sanscrito numerose opere ed ha scritto vari saggi sulla posizione della donna in India. ** GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI - Amore mi manchi - A.L.I.A.S., Antologia 2013 - Volume di grande formato, Pagg. 340, AUD $ 40,00. A colori, in prima di copertina opera di Jacqueline Osuna; in seconda, di Liliana Ianni, Kathryn Aprile, Piero Balthazar Rosai, Adriana Malfitana, Rina Arfì Fameli, Maria D’Appio; in quarta, di: Angelina Velkovski, Ivette Muratti, Rina Rosi, Liliana Malfitana, Domenico Guida, Anna Acts Caporale; in quarta, di: Giovanna Pesapane, Ann Warr, Vittorio Di San Domingo, Angelo Mario Cianfrone. All’interno, in bianco e nero o a colori, quasi 300 immagini, tra cui opere di: Francesca Franzè, Giovanna Li Volti Guzzardi, Aldo Acts Caporale, Frank Malfitana, Maria Raffaela A-
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gricola, Silvana Eadie, Angelo Mattucci, Cindy Xue, Carlo Maria Giudici, Giovanna Pisacane, Giuseppe Cardella, Franco Coppola, Giovanni Teresi, Nicola Rampin Pedalino, Matilde Calamai, Domenico Defelice, Sime Skitarelic, Angelo Ruggeri, Clara Giandolfo, Antonio Angelone, Edoardo Grecò, Sergio Actis Caporale, Pina Leonardi Piedimonte, Giuseppe Giuliani, Liana Borrello, Francesca Dono, Adriana Repaci, Gillian Moffatt. Delle numerosissime poesie, racconti e note critiche, ricordiamo quelli di: Enza Sangiorgio, Angelo Mario Cianfrone, Mariano Coreno, Angela Maria Tiberi, Aurora De Luca, Noemi Lusi, Giuseppe Crapanzano, Giovanna Li Volti Guzzardi, Daniel D’Appio, Maria Teresa Liuzzo, Domenico Defelice, Aurora De Luca, Maria Antonietta Mòsele, Luigi De Rosa, Antonia Izzi Rufo, Tito Cauchi, Aldo Cervo, Laura Pierdicchi, Teresinka Pereira, Elisabetta Di Iaconi, Salvatore D’Ambrosio, Roberta Colazingari, Silvana Andrenacci Maldini, Orazio Tanelli, Leonardo Selvaggi, Innocenza Scerrotta Samà, Giuseppe Manitta, Nello Tortora, Angelo Manitta, Enza Conti, eccetera, scusandoci con gli altri, perché l’elenco occuperebbe più di una pagina del nostro mensile. Giovanna LI VOLTI GUZZARDI è nata il 14 febbraio 1943 a Vizzini CT. Nel 1964, insieme al marito pensò di visitare l’ Australia come secondo viaggio di nozze e vi rimasero, affascinati da questa grandiosa isola, che ha alimentato la sua grande passione per lo scrivere. Ha pubblicato i libri di poesie: “Il mio mondo” in Italia nel 1983; “Isola azzurra” in Australia nel 1990; “VOLERÒ” maggio 2002 – Editrice A.L.I.A. S. Melbourne; “Le mie due Patrie” (Il Croco/ Pomezia-Notizie, 2012). Nel 2007 “IL GIARDINO DEL CUORE”, Milano. Nel maggio 1992 fonda l’ ACCADEMIA LETTERARIA ITALO AUSTRALIANA SCRITTORI – “A.L.I.A.S.” Giovanna ha avuto tanti riconoscimenti, tra i più importanti: nel 2003, Medaglia del Centenario della Federazione Australiana assegnata dalla Regina Elisabetta II, con gli auguri del Primo Ministro e del Governatore d’ Australia. 2004, invitata in Italia (una settimana a Palermo) per partecipare al Work Shop di Partenariato indetto dal Ministero degli Esteri, Roma. Maggio 2005, giorno della Festa della Repubblica Italiana in Melbourne, il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, e controfirmato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, le assegna l’alta Onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana OMRI per aver diffuso la lingua italiana in Australia, Italia e nel mondo, tramite il Concorso Letterario Internazionale A.L.I.A. S. e per aver insegnato la lingua italiana con amore e
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passione per 25 anni. Sempre nel 2005 a Palermo le viene consegnato dalla REGIONE SICILIANA l’ importante riconoscimento: SICILIANI NEL MONDO AMBASCIATORI DI CULTURA, e invitata a ritirarlo di persona con grandi festeggiamenti. Dicembre 2006 dagli USA: the Board of Directors, Governing Board of Editors and Publications of the Board American Biographical Institute do hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi Professional Women’s Advisory Board. Maggio 2007, riconoscimento dal Primo Ministro d’Australia the Hon. John Howard MP. Settembre 2007, premio “Carretto Siciliano 2007”, definito l’ Oscar della Sicilianità. Maggio 2008, The American Biographical Institute, does hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi INTERNATIONAL WOMEN’S REVIEW BOARD, FOUNDING MEMBER. 2008 International Writers and Artists Association, Pres. Teresinka Pereira: Diploma to certify Giovanna Li Volti Guzzardi is recognized as THE BEST DAME OF POETS OF AUSTRALIA. 27 Maggio 2009, invitata in Italia dal CRASES: Centro Regionale Attività Socioculturali all’Estero ed in Sicilia. Presidente Gaetano Beltempo e Vice Presidente Ezio Pagano, in occasione del 40mo Anniversario del CRASES e assegnato l’importante riconoscimento, delegata del CRASES. Ha insegnato italiano ai bambini di ogni nazionalità, come volontaria per 25 anni. Ma la sua gioia più grande è stare in mezzo a poeti e scrittori, per questo è riuscita a riunirne tanti, italiani e da ogni parte del mondo, creando un punto d’incontro nell’Antologia A.L.I.A.S. Ed è felice di lavorare duro per far sì che la nostra Cultura e la nostra Madre Lingua venga portata sempre avanti in quella lontana, ma stupenda Terra Australe. ** MARIA MESSINA - La casa nel vicolo - Romanzo, a cura di Dacia Maraini - I classici della letteratura, Grandi autrici, Corriere della Sera, RCS MediaGroup, 2013 - Pagg. 148, € 7,90. Maria MESSINA nasce a Palermo nel 1887 e a poco più di vent’ anni comincia a pubblicare romanzi, novelle e libri per bambini. Gira l’Italia a seguito del padre e trascorre gli ultimi anni a Pistoia, vittima della sclerosi multipla. Dopo aver avuto un certo successo di pubblico e di critica, muore dimenticata nel 1944. Tra le sue opere ricordiamo “Pettini fini”, “Piccoli gorghi”, “Le briciole del destino”, “Ragazze siciliane”, “L’ amore negato”. “La casa nel vicolo è del 1921 e dal Dott. Nino Testagrossa - Dr. del “Progetto Mistretta” Il Centro Storico - è definito “il miglior libro di Maria Messina”. Nella casa nel vicolo, regolata dal sordo ordine degli oggetti, domina tristezza fredda, che impedisce la gioia e inghiotte la giovinezza. Lo
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sa bene Nicolina, venuta a Palermo dalla ridente serenità di Sant’Agata ad accompagnare la sorella più grande Antonietta, data in sposa a don Lucio. Chiuse tra quelle quattro mura, le due ragazze invecchiano succubi del sadico dominio di lui, che presto le trasforma, da compagne che erano, in rabbiose rivali. A pagarne il prezzo sono i figli, tanto amati dalla mamma e dalla zia quanto ignorati e frustrati dal padre. Incapaci di rassegnarsi al dolore in cui sono costretti, Alessio, Carmelina e Agata cercano la breccia che lasci trapelare un’emozione, un gesto, un colore. Perfino la tragedia, a ben vedere, nasconde, nel profondo, l’ odore del mare. ** ELSA CENAJ - Loti i Akullt - Poezi - In appendice, nota critica di Vilson Culaj - Shtëpia botuese grafike “Fishta” Prishtinë, 2012 - Pagg. 148, s. i. p. . Elsa KOXHA CENAJ, Lindur më 15 prill 1975 në Macukull të Matit. Arsimin fillor e të mesëm i kreu në Qytetin Krastë, të rrethit të Bulqizës. Përfundoi shkollimin e lartë me kohë të pjesshme, në Tiranë, ku u diplomua më 2004 për mësuesi në degën Histori-Gjeografi. Ka punuar një kohë si mësuese, më pas punoi si ekonomiste në një bankë. Është e martuar dhe ka tre fëmijë, dy vajza dhe një djalë dhe është shumë e lumtur me jetën e saj, si grua e si nënë. Shkruan për jetën, problemet në përgjithësi, duke u përballur me rrymimet e hallet e njeriut. Jeton e vepron si emigrante në Caserta Itali. Libri me poezi “Loti i Akullt” është libri i parë i kësaj autoreje.
TRA LE RIVISTE FIORISCE UN CENACOLO - Mensile fondato da Carmine Manzi e diretto da Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (SA) - Sul n. 7-9 (lugliosettembre 2013), firme anche di nostri collaboratori come Antonia Izzi Rufo, Leonardo Selvaggi, Loretta Bonucci, Gabriella Frenna, Anna Aita. * IL FOGLIO VOLANTE/LA FLUGFOLIO - Mensile diretto da Amerigo Iannacone, resp. Domenico Longo - Via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro (Is) - Sul n. 9 (settembre 2013), firme di Adriana Mondo, Loretta Bonucci, Teresinka Pereira, Fryda Rota, anche nostre collaboratrici. * BRONTOLO - Bimestrale diretto da Nello e Donatella Tortora - via Margotta 18 - 84127 Salerno Riceviamo il n. 215 (novembre 2013), sul qule troviamo anche le firmei dei nostri collaboratori Mariano Coreno e Andrea Pugiotto. *
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ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Rivista fondata da Giacomo Luzzagni - Dr. responsabile Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - Casella Postale 15C - 35031 Abano Terme (PD). Del numero 112 (4° Trimestre 2013) citiamo: “Norman Mailer, il contestatore del sogno americano”, di Luigi De Rosa; “I mille volti di Fernando Pessoa”, di Elio Andriuoli; “Abelardo ed Eloisa, una storia sempre attuale”, di Liliana Porro Andriuoli; l’intervista “Giuseppe Marotta”, di Pasquale Matrone; “Miti classici”, di Rosa Elisa Giangoia. Tra le recensioni, Elio Andriuoli si interessa di Donato Danza (“Sensi di poesie”), Giovanni Sale (“Rosso tramonto”, Sante Valentino (“Paese mio...”); Sandro Angelucci, tra l’altro, di Giovanni Caso (“Trilogia di possibili eventi”); Pasquale Matrone, tra l’altro, di Dionisio Da Pra (“La coda del diavolo”), Arnaldo Colombo (“Ragazza di risaia”), Anna Aita (“Domenico Defelice. Un poeta aperto al mondo e all’amore”), Olga Tamaini (“I Tamanini”); Stefano Valentini, tra l’altro, di Innocenza Scerrotta Samà (“Nel taciuto la gioia”), Laura Pierdicchi (“Voci tra le pieghe dei passi”) eccetera. Una rivista tra le migliori d’Italia, alla quale i nostri collaboratori e i nostri lettori dovrebbero abbonarsi.
LETTERE AL DIRETTORE (Ilia Pedrina a Domenico Defelice) Carissimo, eccomi a te da Venezia, ieri Serenissima Repubblica dei commerci marittimi invidiabili, delle Lettere, delle Arti, della Musica e dell' Architettura che rispecchiano se stesse tutte in una Laguna mai silente, nemmeno a notte fonda, oggi città globale e globalizzata, invasa e staticamente sempre in ascolto ed in offerta di sé, anche quando urla acqua alta da ogni lato e le sue vie strette, d'un colore verde azzurro cangiante protestano per i giganti da crociera, mastodonti per gli umani curiosi ed indifferenti al tempo stesso. Si, oggi è l'8 Novembre e l'occasione è assai speciale, perché è arrivato da Tel Aviv il prof. Aron Shai, con la sua Signora, invitato dal Rettore dell'Università di Ca' Foscari, prof. Carlo Carraro ed accolto dalla prof. Tiziana Lippiello, direttrice del Dipartimento di Studi di Cina e Nord Africa! Puoi ben immaginare la mia emozione quando, poco distante dall'Auditorium di Santa Margherita, quasi vicino alla omonima Piazza, ti incrocio il prof. Aron Shai con la graziosa moglie al fianco! Ci siamo salutati con tanta cordialità, dan-
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doci appuntamento dopo pochi minuti nella sala grande, dove lui ha tenuto la Conferenza 'SINOISRAELI RELATIONS – CURRENT REALITY AND FUTURE PROSPECTS'. Il Rettore, accogliendo il Relatore con un fare amicale e compiaciuto, ha sottolineato l'importanza della sua prestigiosa presenza per la Facoltà di Ca' Foscari e per quel suo indirizzo di Studi Internazionali che ha sede in San Servolo: la gestione dello orientamento tecnico-manageriale degli interventi innovativi legati alla cultura, all'imprenditoria ed alla creatività della progettazione che i suoi percorsi formativi propongono è assai ghiotta e quindi è chiaro che c'erano molti studenti ad approfittare di un'occasione del genere. Certo l'affabilità della prof. Lippiello nell'accogliere 'in casa' il prof. Shai e nel tratteggiarne il profilo personale, professionale ed internazionale di storico e di Rettore di una delle più interessanti ed importanti università del pianeta, come lo è quella di Tel Aviv, mi ha fatto subito tornare alla mente la tua piena disponibilità a 'lasciarmi lavorare' per Pomezia Notizie su questo personaggio chiave della nostra contemporaneità, prima, nel Mese di Febbraio 2013 con la Recensione del suo 'ZHANG XUELIANG – THE GENERAL WHO NEVER FOUGHT', poi nel numero di Marzo con la mia prima intervista a lui, rilasciatami per telefono e quindi nel numero di Aprile, con la seconda intervista e con la sua fotografia, in piccolo! Queste pubblicazioni, uniche per tale argomento su tutto il territorio italiano, sono state tappe cruciali, ineliminabili, preziose ed assai significative perché hanno dato l'avvio ad un interessamento più concreto e storicamente più consolidato delle mie investigazioni sull'Italia e sull'Europa nell' immediato ieri ed oggi nel mondo, non solo di contenuto politico: il punto di vista ' orientale' che il prof. Shai ha enucleato con la sua biografia storica su Zhang Xueliang e lo svolgersi accurato dei fatti prima e dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale devono arrivare ad insegnarci parecchio, anche sulle future relazioni in prospettiva che non solo Israele ma l'Occidente tutto intratterranno con lo Stato di Cina. Il prof. Shai, inviandomi via e-mail l'invito e la locandina dell'evento, mi aveva detto che il tema della relazione non avrebbe toccato l'argomento della sua biografia storica, mentre, in realtà, dopo una prima interessante introduzione all'argomento della relazione tra i due Paesi, egli non ha potuto non citare la figura del grande Zhang Xueliang, sottolineando come proprio attraverso gli eventi della sua vita e delle sue personali scelte ed azioni, prima di essere costretto alla prigionia forzata ed in continua mobilità, noi tutti siamo obbligati a rivedere, studiandolo in profondità, il periodo fra le due
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Guerre Mondiali, all'interno del quale sono da portare alla luce tutte le radici che servono a comprendere con chiarezza questo nostro periodo attuale. Ed ha citato anche Galeazzo Ciano ed Edda e tante delle altre cose che i lettori di Pomezia Notizie hanno avuto 'tra le idee e le mani' e si è interrogato pubblicamente se i giovani in sala sapevano chi erano questi personaggi.... Bella preoccupazione questa, dico io, perché in effetti il fascismo non è stato il male assoluto e perché per legge costituzionale ai docenti di lettere e storia è stato proibito di parlare del Fascismo a scuola, altrimenti si sarebbe fatta 'Apologia del disciolto Partito Fascista' (ma adesso va un po' meglio, ben inteso, anche grazie alla futura edizione italiana di questa biografia storica, che io caldeggio con energia e che andrà ad aprire un dibattito ben essenziale e necessario, per tante ragioni che non sto qui ad elencare, ma la prima e la sola che cito è quella di dare una risposta alla pubblica 'perplessità' dei giovani di fronte ai nomi storici tirati in campo dal prof. Shai!). I temi trattati hanno toccato altri ed ancor più significativi punti storici importantissimi nella evoluzione delle due Nazioni, anche perché, diciamoci la verità, caro Direttore, qui ci troviamo di fronte a due Stati Sovrani, che non chiedono certo permesso ad alcuno per qualsivoglia scelta politica, strategica, economico-finanziaria: agiscono e basta, diplomazia internazionale all'anticamera, e gli altri Stati Sovrani o si conformano ed accettano questi risultati o 'lasciano perdere', per dir così, senza far balenare la terza ipotesi, che è quella di dichiarare loro guerra! Certo l'Italia non è uno Stato Sovrano ed il perché va chiarito una volta per tutte: spero, carissimo, di arrivare a mandarti, a tempo debito, la recensione del testo 'IL GOLPE INGLESE – DA MATTEOTTI A MORO. LE PROVE DELLA GUERRA SEGRETA PER IL CONTROLLO DEL PETROLIO E DELL' ITALIA' di M. J. Cereghino e G. Fasanella, se qualche altro tra noi di Pomezia Notizie, appassionato, non lo farà prima di me! L'Impero Britannico via via si sgretola mentre la potenza degli Stati Uniti d'America sorvola ad enormi falcate l'Atlantico da un lato ed il Pacifico dall'altro, cercando di condizionare il mondo intero in nome di una Democrazia, che manca o meglio langue ora in casa loro: questo lo dico io, perché il prof. Shai ha solo sottolineato la singolarità degli eventi dopo la fine della II Guerra Mondiale rispetto al Regno Unito, la formazione dello Stato Sovrano d'India, nel 1947, con a fianco quello pure sovrano di Pakistan; la formazione dello Stato Sovrano d'Israele nel 1948 e quella dello Stato Sovrano di Cina nel 1949. Egli ha chiarito una volta per tutte che lo Stato di Israele ha riconosciuto la Repubblica
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Dicembre 2013
Popolare di Cina, Stato Sovrano appunto, prima che lo facessero le Nazioni Unite e che ora l'interesse della Cina per le innovative tecnologie israeliane si sta intensificando, senza peraltro che Israele volga ora le spalle agli Usa! Spero di entrare in possesso, caro Direttore, di tutta la relazione, perché tante sono le sollecitazioni anche sul piano etico che questo grande storico ebreo ha messo in campo. Per ora, a volo di gabbiano, che qui a Venezia impera, ti abbraccio e ti ringrazio, consapevole del ruolo prezioso che ti è stato dato nelle mani! Ilia Ilia Carissima, anche stavolta lo spazio manca e alla tua lettera posso dedicare solo due rapidi accenni. La bellissima e delicata Venezia avrebbe diritto a più rispetto da parte di tutti. I cosiddetti “inchini” sono inutili e, a volte - come nel caso della Concordia -, disastrosi per persone, cose e paesaggio. Le grandi navi che passano a ridosso di Piazza San Marco, hanno la brutta figura di quei giovani muscolosi che non tralasciano occasione di mettersi in posa, in mostra, anche nei momenti e nelle situazioni più critiche, recando danni a se stessi e agli altri./ Non mancherò di ospitare ancora tuoi interventi a favore dell’opera del Prof. Aron Shai. Il mio augurio è che, attraverso le ricerche di un tale studioso - ma anche di altri -, si possano approfondire gli avvenimenti italiani ed europei del secolo scorso, il quale ci ha “regalato” dittature e ben due guerre mondiali. Il Fascismo, “male assoluto” o no, sempre dittatura è stato. Renzo De Felice ha messo in chiaro suoi difetti e pregi (per esempio, nel campo delle assicurazioni, delle prevenzioni, della protezione dell’infanzia e della donna, quel ventennio ha dato apprezzabili studi e applicazioni), ma resta ancora molto da portare alla luce e investigare. Perciò, continuerò a dare risalto, su queste pagine, ai tuoi interventi in proposito e a quelli degli altri./Un fraterno abbraccio .Domenico
BUON NATALE 2013 ! e... FELICE ANNO 2014 !
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