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UN CONVEGNO E UNO SPETTACOLO A GALLIPOLI in onore di
GARCIA LORCA e TITO SCHIPA di Giuseppe Leone stata una serata giocata nel segno delle identità locali e dell’europeismo a un tempo, quella intitolata Il Teatro Tito Schipa di Gallipoli: un ponte musicale e culturale tra il Salento e la Spagna”, che Massimo Mura, assieme a studiosi e artisti della compagnia di flamenco andaluso, da lui fondata e diretta, ha offerto nel Teatro Tito Schipa di Gallipoli il 29 luglio 2013. Davanti a un pubblico numeroso e attento, ha aperto i lavori lo scrittore Maurizio Nocera, moderatore del convegno, con una introduzione dedicata a Tito Schipa in cui ripercorreva le fasi più significative della sua lunga e prestigiosa carriera: dagli esordi della maturità alle esibizioni spagnole, a quelle d’Oltreoceano, in America, dove rimase indiscusso protagonista ancora per moltissimi anni. E via via tutti gli altri relatori che si sono intrattenuti sul grande cantante leccese e sul “forte legame intercorso tra l'artista e la propria città di origine, tra momenti esaltanti, entusiasmi e tradimenti, tra→
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All’interno: Gianni Rescigno e la vita del paesaggio, di Marina Caracciolo, pag. 6 Adriana Assini: sei storie e un solo personaggio, di Sandro Angelucci, pag. 8 Liana De Luca: Ubaldo Riva, di Domenico Defelice, pag. 10 Gabriele D’Annunzio a Parigi, di Ilia Pedrina, pag. 12 Tommaso Stigliani, di Leonardo Selvaggi, pag. 17 I poeti e la Natura (Charles Baudelaire), di Luigi De Rosa, pag. 21 Notizie, pag. 34 Libri ricevuti, pag. 38 Tra le riviste, pag. 38
RECENSIONI di/per: Silvana Andrenacci Maldini (Il calendario del poeta, di Tito Cauchi, pag. 23); Luigi De Rosa (Frammenti di sale, di Mariangela De Togni, pag. 24); Lino Di Stefano (Scapoli e il suo dialetto, di Antonia Izzi Rufo, pag. 26); Piero Genovesi (Le mie due Patrie, di Giovanna Li Volti Guzzardi, pag. 27); Giuseppe Giorgioli (La crisi dell’Impero Vaticano, di Massimo Franco, pag. 27); Giuseppe Giorgioli (I miei giorni a Baghdad, di Lilli Gruber, pag. 28); Nazario Pardini (Oltre il sipario dell’eco, di Fulvio Castellani, pag. 29); Andrea Pugiotto (Ogni angelo è tremendo, di Susanna Tamaro, pag. 31); Andrea Pugiotto (Anna nella jungla, di Hugo Pratt, pag. 32).
Lettere in direzione (Ilia Pedrina e Leonardo Bordin a D. Defelice), pag. 39 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Colombo Conti, Mariano Coreno, Domenico Defelice, Liana De Luca, Luigi De Rosa, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi Pomezia-Notizie è disponibile anche su: issuu.com/ domenicoww/docs/p._n._2013_n._9
riconciliazioni, delusioni e presunti o reali abbandoni”. Assente Carlo Alberto Augeri, docente di critica letteraria ed ermeneutica dell’ università del Salento, atteso a parlare, sul “Pensiero intonativo e poesia della voce: sull’eco tonale in Tito Schipa”, hanno preso la parola: Tito Schipa Jr., figlio del celebre tenore, che ha ricordato, tra le altre cose, come la Spagna scorra nel sangue della sua famiglia, sia per un’indubbia ascendenza da parte di madre, sia per la cultura spagnola che ha pervaso di sé il Salento già da tempi antichissimi e che è riemersa “nel personale di Tito Schipa”, predisponendolo a uno straordinario uso della lingua e a una certa musicalità; Gianni Carluccio, responsabile dell’Archivio SchipaCarluccio di Lecce e saggista, che si è sof-
fermato su “Tito Schipa: El Encantador”, seguendolo soprattutto sul terreno dei suoi successi in Spagna fino al 1922; Eraldo Martucci, musicologo e vicepresidente della Fondazione “Tito Schipa”- Ente Morale di Lecce, che ha lodato in Schipa non solo il cantante, “ma il musicista che spesso si sovrapponeva al tenore, grazie alla sua estrema disinvoltura con cui passava dal piano all’organo, dalla chitarra al podio di direttore d’orchestra”; Giovanni Invitto, docente di filosofia teoretica presso l’università del Salento, che ha illustrato il rapporto fra “Tito Schipa e Lecce, insistendo sulla questione del Museo Schipa, ancora oggi non realizzato a causa di non poche difficoltà burocratiche e amministrative sorte già a partire dagli anni ’90 del secolo scorso; Elsa Martinelli, musicologa e docente
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di “Poesia per musica e drammaturgia musicale” del conservatorio “Tito Schipa” di Lecce, che ha ritenuto gli Omaggi del Salento vernacolare e accademico in onore del cantante “né troppo, né troppo poco”, ma solo “dettati da meri atti formali e doverosi”; il sottoscritto Giuseppe Leone, che ha parlato dell’evento in proiezione europeistica e comparatistica, intitolando la sua relazione, “Prove d’Europa in Salento”; Massimo Mura, autore di opere letterarie e compositore, che ha chiuso il dibattito, soffermandosi su “Tito Schipa e Federico Garcìa Lorca tra Madrid e Granada, tra Granadinas e Cante Jondo”. Un omaggio a Tito Schipa, questa manifestazione a Gallipoli, che ha fatto emergere la figura di un cantante nel senso più ampio del termine, tale per la duttilità e versatilità del suo stile in grado di attraversare generi musi-
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cali diversi, dal melodramma, in particolare in quelle opere dove egli poteva esaltare le sue doti di tenore di grazia, alla musica leggera, al tango, un genere, quest’ultimo, in cui egli stesso si cimentò, componendo pezzi come El coqueton e El gaucho. Ma la serata, impreziosita anche dalla presenza, in platea, di Salomè Bene e Raffaella Baracchi, figlia ed ex moglie di Carmelo Bene, altra perla salentina, e del senatore Rosario Giorgio Costa, che, invitato sul palco, ha pure avuto parole di gratitudine verso il grande cantante meritevole di aver reso famoso nel mondo Lecce e il Salento, non rimaneva avvitata soltanto su Tito Schipa e la sua salentinità, si apriva anche a un confronto con l’ Andalusia e Federico Garcia Lorca, col quale Massimo Mura vi ha cercato pure una relazione storica, insinuando persino il dubbio (o la provocazione), che i due artisti si siano potuti conoscere dal momento che entrambi si trovavano nella capitale spagnola negli stessi anni. A chiusura del dibattito, il concertospettacolo con le canzoni spagnole di Tito Schipa e le canzoni popolari di Garcia Lorca - a cura della compagnia Mura, con lo stesso Mura alla chitarra; Michele Salvatore, pianista; Jole Pinto, soprano; Fausta Maiorino, bailaora di flamenco; Francesco De Palma, tamburo; Domenico Zezza, violino; Salvatore Coppola, clarinetto; Luigi Bisanti, flauto; Mattia Politi, voce fuori campo; Veronica De Luca, presentatrice – dava ulteriori emozioni e completezza a una serata già ricca delle sonorità “alate” di
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Schipa riecheggianti durante il convegno, fino a far rivivere l’immagine di due grandi artisti, così diversi all’ apparenza, eppure così simili per certi aspetti della loro arte, frutto di un’ispirazione popolare: tanto le canciones populares di Lorca quanto i tanghi schipiani non erano affatto espressione di vezzi aristocratici e borghesi, ma si ispiravano alla vita degli emarginati, dei gitani, dei “nomadi a cavallo” quali erano i gauchos argentini, e dei loro valori sempre improntati a onestà e sincerità di comportamenti. In calce allo spettacolo, apertosi con l’Inno d’Italia in omaggio a Giorgio Napolitano che ha conferito alla manifestazione la Medaglia Rappresentativa del Presidente della Repubblica con relativa lettera di trasmissione al prof. Massimo Mura, i saluti del comune e del sindaco di Gallipoli portati dall’assessore
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Felice Stasi, che ha consegnato a loro nome anche una targa a Tito Schipa Jr., e i ringraziamenti della presentatrice ai collaboratori del progetto, in particolare ad Arturo Vannelli, per l’assistenza organizzativa dello spettacolo; a Gianluigi Petrucelli, impresario del Teatro Tito Schipa di Gallipoli; ad Andrea Montinari, responsabile del management company Vestas Hotels& Resorts di Lecce, per aver sposato, coerentemente con le precedenti realizzazioni del progetto editoriale Tito Schipa, un leccese nel mondo, anche questa nuova iniziativa culturale; alla dottoressa Grazia Pia Licheri addetta Ufficio Stampa con la collaborazione di Sara D’Arpe; alle pittrici: Alessandra Melfi, autrice dei disegni riprodotti nella brochure-programma e di un ritratto estemporaneo a Tito Schipa Jr, abilmente eseguito all’interno di un palchetto mentre si svolgeva il convegno, e Maria Teresa Trinchera, autrice del quadretto collocato sul palco raffigurante Tito Schipa e una ballerina di flamenco. Ringraziamenti, infine, anche, ad associazioni ed enti che hanno concesso un contributo finanziario o solamente il patrocinio morale alla serata, tra cui: la Banca Popolare Pugliese; la Confartigianato Lecce; la Carofalo – Reale Mutua Assicurazioni; l’Ordine dei Consulenti del Lavoro della Provincia di Lecce; il Gruppo Caffè Quarta di Lecce; la Fondazione Tito Schipa. Ente morale Lecce; l’Istituto Cervantes di Napoli; la Libreria Spagnola di Roma; l’ Ambasciata di Spagna in Italia; gli Amici del Loggione del Teatro alla Scala di Milano; l’Università del Salento; Puglia Sound; Milella, la casa editrice del volume, a cura di Massimo Mura: Dal cante jondo di Garcia Lorca alle canzoni spagnole di Tito Schipa; il Conservatorio Tito Schipa di Lecce, la Regione Puglia - Asses-
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sorato Mediterraneo Cultura e Turismo; la Provincia di Lecce; la Città di Gallipoli; la Città di Lecce; l’Istituto di Culture Mediterranee della Provincia di Lecce; l’Agenzia per il Patrimonio Culturale Euromediterraneo di Lecce; la Camera di commercio di Lecce; l’ Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Lecce; l’Archivio Schipa-Carluccio di Lecce; CR Cartografica Rosato di Lecce; il Progetto Universitas; Vitaminas di Luca Quarta; Viaggi Rudie. Giuseppe Leone Immagini - pag. 1: il grande tenore Tito Schipa; pag. 3: il grande poeta spagnolo García Lorca; pag. 4: copertina dello spartito di due canzoni (una del nostro direttore) musicate da Tito Shipa insieme al Maestro E. Brizio e pubblicate, nel 1962, dalla Corradini di Roma.
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tornite cosce d’ambra, seni minuti e aguzzi di bambina, occhi tigrati di foresta vergine, scomparsa all’improvviso. Ora, al suo posto, un omaccio barbuto, capelli ispidi, occhiali neri, gambe e braccia spinose, labbra a sghembo da sovrano pazzo. Quante immagini in transito popolano Firenze in un istante come ogni altra città. Negativo d’un rapido passaggio o d’una breve sosta ciascun di noi, fugacità trasparente nel vortice del tempo. Domenico Defelice Firenze, 22 luglio 2013
COL PICCOLO DITO ALLELUIA per Il corpo della donna
Il mandorlo è già fiorito accanto alla mimosa che stanca si riposa.
Un gruppo di senatrici democratiche presenta un disegno di legge per bandire il corpo della donna da qualsiasi pubblicità. D' ora in poi, niente più Belen con la farfallina e Megan Fox che mette i jeans. Quando poi nasconderanno in cantina Paolina Borghese e la Venere di Botticelli, la dignità della donna sarà totalmente tutelata. Rossano Onano
Sta arrivando la primavera anche se l’aria è ancora fredda e gli uccelli hanno il volo breve sui tetti delle case in cerca di insetti e di briciole di pane nel cortile appena bagnato dalla pioggia inaspettata dopo la furia del vento di fine inverno Il mandorlo è già fiorito: mio nipotino me lo indica alzando il suo piccolo dito! Mariano Coreno Melbourne
IMMAGINI IN TRANSITO Donna maliarda sulla sedia regale nella hall d’un albergo di Firenze:
La Sinistra da sempre, caro Onano, da sola è abituata a farsi male e ci si mette di buzzo, superando il più triste talebano. Se la balorda idea andasse in porto, da Firenze a Parigi, da Madrid a Lisbona a Copenaghen, da Berlino, da Lampedusa alle Ande, a metà dell’Arte almeno in tutto il mondo si finirà col metter le mutande! Domenico Defelice
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GIANNI RESCIGNO E LA VITA DEL PAESAGGIO di Marina Caracciolo
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IANNI Rescigno scrive e pubblica da poco meno di mezzo secolo, ed ogni sua nuova raccolta poetica da un lato non smette di sorprendere sia il lettore sia il critico, dall’altro non fa che confermarne le alte aspettative. Già in altri casi abbiamo avuto occasione di affermare che la poesia del vate di Castellabate non conosce svolte concrete di contenuti o di stile: non ci si può aspettare in lui, per lo meno oggi, un’evoluzione radicale come quella di un Montale, per fare un solo nome (nel grande scrittore ligure sarebbe difficile riconoscere – per lo meno di primo acchito – leggendo il Diario del ’71 e del ’72 oppure il Quaderno di quattro anni, la stessa mano, l’ identica mente poetante che molti anni prima aveva prodotto capolavori come Ossi di Seppia o Le Occasioni). Eppure, come dicevo, Rescigno continua ad affascinarci per quell’ alta e immaginosa inventiva che gli permette, a getto continuo, di costruire – o forse meglio – di reperire sempre differenti sfaccettature, sempre inusitati aspetti di una tematica assolutamente costante, perennemente amata. Nella silloge di quest’anno, Nessuno può restare, ritornano tutte insieme le coordinate del suo universo compositivo: gli inalterati affetti, la memoria sempre viva degli amati scomparsi, l’amore e il rimpianto della giovinezza, il senso della vita e della morte, la prospettiva accorata ma fiduciosa dell’Oltre, le speranze coronate o deluse e, infine, la visione impagabile del paesaggio. Ecco, appunto, il paesaggio, questo grande e forse assoluto primo attore nella poesia di Rescigno. Sul suo variegato, vasto palcoscenico esso è sempre l’incontrastato protagonista. Come già a proposito de I salici e i Vitigni, raccolta risalente a trent’anni fa (1983), Bárberi Squarotti potrebbe ancor oggi scrivere (e sottoscrivere): “Mi piace di questa poesia il senso grandioso di paesaggi pieni di colori intensi, di forme compatte e certe, entro
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cui passa un senso di avventura quieta e misteriosa, che si muove sulle ali di un vento perpetuo, che porta con sé, negli spazi conclusi delle campagne, il turbamento del divenire, la misteriosità del tempo che non ha pace e non dà pace”.1 Questo è in poche, magnifiche parole, quasi tutto Rescigno. All’interno di questa passione per l’incredibile e sempre mutevole bellezza della Natura che ha di fronte, egli riversa e riconduce, come in un grande crogiolo, ogni altro sentimento che riempie di sostanza la sua poesia: quello per i propri cari, per l’amico e fratello, per le donne o per la donna tenacemente amata, per il solenne e inesorabile trascorrere del Tempo, per la Vita e anche per la Morte, per Dio. Il paesaggio è un elemento imprescindibile dell’invenzione poetica rescigniana: nessuno dei suoi componimenti sussiste come tale senza presentarsi come paesaggio con figure oppure come figure di paesaggio. Esso non è, come si potrebbe pensare, un contorno, un semplice fondale – per quanto ricco e dettagliato nei particolari – di una scena o di un dipinto: la poesia di Rescigno vive del paesaggio, ne assume movimento, forma e materia; e vi attorciglia, prendendovi radice come un rampicante, pensieri e sentimenti, meraviglie di tempi e di stagioni, sogni e ricordi, luci ed ombre, affanni e meraviglie dell’esistenza. Ancora e sempre, questa poesia è fatta così, di terra e di vento, di curve di colline, di lune e di cieli, di scogli e scintillii d’acque, di alberi e uccelli. Questo continuo ripetersi e variare, in essa, dei temi e delle immagini che vi compaiono è sorretto ormai da una compostezza di stile e una misurata sicurezza espressiva ardue da superare, e tali da darci ogni volta, senza alcuna forzatura, il senso dell’eterno e dell’illimitato, di qualche cosa di primordiale eppure sempre nuovo e inaspettato, in una incessante e miracolosa rigenerazione.
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Giorgio Bárberi Squarotti, Introduzione critica a: Gianni Rescigno, I Salici - I Vitigni. Antonio Lalli Editore, Poggibonsi, 1983; pp. 5-6.
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La Natura è in Rescigno paesaggio d’ anima: esiste dentro di lui più ancora che essere uno spettacolo esterno di fronte agli occhi. Il poeta la ingloba in sé come per un processo, romantico e verista a un tempo, di identificazione; la scompone, per così dire, per poi riproporla animata da un soffio di spirito e di fantasia che la impreziosisce e trasfigura. “Eri sempre tu /a vedere per prima la luna: /eccola è ancora gialla di sole. /Ci camminava davanti /finché l’assiolo non le apriva /col grido l’aria di bosco./Profumata dai biancospini /oltrepassava gli eucalipti./Lentamente andava giù /dietro le colline”. Pochi versi, solo un anonimo tu a raffigurare un’invisibile presenza che guarda; però è il paesaggio che regna, unico, solitario e dominante: a nulla il poeta lascia spazio, se non a un incanto che, nel momento in cui sorge (all’ interno e all’esterno della poesia) ammutolisce lo spettatore. Un’altra pubblicazione rescigniana di quest’ anno merita attenta considerazione: è la bella antologia di versi intitolata Sulla bocca del vento. Assortimento piuttosto corposo ed ampio rispetto alla ben più esile antologia precedente (Come la terra il mare, Guida Editore, Napoli 2005), questo libro raccoglie molte poesie tratte da cinque sillogi, tutte pubblicate dopo il 2000. Nulla di nuovo, si direbbe, e invece c’è una nota tutta speciale e assai gradita: la traduzione a fronte in francese (a cura di Jean Sarraméa e Paul Courget). Si afferma di solito che la poesia è intraducibile. È vero, per certi aspetti: il significante, cioè il suono della lingua, sostanza irrinunciabile del componimento originale, si perde del tutto; ed è di certo difficile – se non impossibile senza sbavature o indebiti allontanamenti – ricostruire con precisione i metri, i ritmi o tutta la valenza e ampiezza semantica del testo da tradurre. Qui tuttavia i traduttori scelgono un’altra strada, quella più valida, direi: semplicemente trasporre nella loro lingua il senso interno, la musica, lo spirito profondo della poesia italiana senza nulla aggiungere o togliere – salvo piccole, soggettive ma intelligenti interpretazioni – a ciò che, sul piano lo-
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gico e lessicale, nel testo originale è scritto. Il risultato è spesso più che positivo. Si veda, per es., un bellissimo passo di Sera rossa (dalla raccolta Dove il sole brucia le vigne): “ […] Guardo la strada del sole: /scende in picchiata all’orizzonte: /fiumi di cirri la percorre: /chiome d’alberi filari di viti /sagome d’uomini dissolti./ Gonfio di spine /ingrosso mare nello sguardo”. Ora rileggiamolo nella traduzione di Jean Sarraméa: « Je regarde la route que suit le soleil: /il descend en piqué sur l’horizon: /un fleuve de cirrus suit sa route: /des cheveloures d’arbres, des rangées de vignes, /des silhouettes d’homme dispersés. / Enflée d’arrêtes /la mer gonfle dans mon regard ». Qui come altrove, gli echi spesso nascosti dei poeti prediletti da Rescigno come Esenin ma soprattutto come Verlaine e Beaudelaire e altri, nella versione francese affiorano all’improvviso e divengono percepibili, lasciando sbocciare, come un fiore che spunti dalla terra, un fascino soffuso, diverso e sorprendente, che genera in chi legge un nuovo piacevolissimo incanto. Marina Caracciolo Nessuno può restare (Poesie. Genesi Editrice, Torino, gennaio 2013) e Sulla bocca del vento (Antologia. Traduzione a fronte in francese di Jean Sarraméa e Paul Courget. Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia, febbraio 2013).
PENSARTI VIVO Pensarti vivo, anche se lontano, e immaginarti camminare per le strade di Londra o suonare in una sala di concerti o esercitarti nella tua stanza in fianco alla mia… Pensarti vivo così mi fa sentire come se fossi in tua compagnia e illumina il mio vivere d’un raggio - se pure temporaneo – di poesia e di felicità. Così io ora vivo con te, così tu ora continui a vivere in me. Mariagina Bonciani Milano
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I RACCONTI DELL’OMBRA DI
ADRIANA ASSINI: SEI STORIE, UN SOLO PROTAGONISTA di Sandro Angelucci E sei storie, raccolte dall’autrice e date alle stampe nella medesima pubblicazione, hanno diversa ambientazione sia spaziale che temporale. Eppure, un bisogno essenziale, un’esigenza di addentrarsi nel vivo della ricerca esistenziale le tiene insieme. Adriana Assini le chiama I racconti dell’ ombra, dove l’oscurità - a parer mio - può fa-
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re da complemento di specificazione ma, anche, e non meno, da vero e proprio complemento d’agente. Dirò di più: se la si osserva sotto questa angolazione, se viene riconosciuta come tale, ben presto ci si rende conto che protagonista non di uno ma di tutti gli episodi è sempre quell’entità inafferrabile che ci segue e muove, di nascosto, i nostri passi. Fantasmagorica o fantomatica la sua presenza? Intendo: frutto di fantasia o, al contrario, concreta, quantunque sfuggente, cognizione della realtà? Io propendo decisamente per la seconda ipotesi perché Adriana - le cui opere ho avuto il piacere di leggere - non è scrittrice che immagina; certo, il suo narrato (come i suo acquarelli) ribolle di magia, ha il
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profumo delle fiabe ma il fuoco dal quale è alimentato, gli aromi di quei vapori sono il fuoco e gli aromi della vita che si sono tramandati e continueranno a farlo attraverso i secoli. Sono le aspirazioni, le domande eterne e inevase di ogni uomo che cerca se stesso nella nebbia che offusca la vista ma affascina per la sua attrazione ad essere penetrata. È in quella fitta foschia che s’ inoltra ciascun personaggio e, chi in un modo chi nell’altro, spera di trovare le risposte ai quesiti che turbano la quiete dei suoi pensieri. Così, Werner parte alla volta del piccolo “borgo isolato dal mondo”, dove vive soltanto “la stirpe di Eva” e dove Medea, “figlia della misteriosa Colchide”, possiede “la chiave per accedere agli arcani dell’ universo”. Per godere dell’abilità narrativa della Assini mi piace riferire il passo in cui la stessa descrive la maga: “Dritta come un fuso, Medea. . . indossava un vecchio abito color della cenere, tra i capelli, viole secche e farfalle, foglie di alloro e nastri di seta rossa che le mettevano in risalto la pelle candida. . .”. È una rappresentazione bislacca, che lascia presagire un finale ancor più stravagante: Werner, con un sortilegio, sarà per sempre imprigionato “tra i rami odorosi di un biancospino”. In questa maniera, Medea tratterrà non solo il suo amore ma anche la sua ansia, la sete di conoscenza che lo rende smanioso di cercare altrove un segreto che, in fondo, vive dentro di lui. Diversamente, ma animato da analoghi desideri, si comporta Vlad Dracul, l’ impalatore, che, perduta tragicamente la moglie, non si deprime (“se ne fosse stato capace ora avrebbe pianto ma lui non aveva mai avuto lacrime. . .”) e decide di sfidare, di prendere di petto le insidie: “Il diavolo non si spaventa quando attraversa l’inferno!”. E potrei proseguire tirando in ballo gli altri personaggi e le loro complessità tipicamente umane: Manfredi e la fuga nel tradimento;
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Lukas Huber, vittima della follia del conte Bencz (in realtà di Margaretha Wogel); Duccio, il figlio del bicchieraio della Val d’Elsa, ed il suo scetticismo che, messo alla prova, perde vigore fino a farlo ricredere (“Col sudore della fronte e un po’ d’ingegno l’avrebbe scoperto da solo il gran segreto per fare il rosechiero); Belle e l’assillo di Bertrand, il trovatore che ne racconta l’incredibile vicenda calandosi egli stesso nel mistero della morte (“E adesso provate a riflettere. . .: sono io un morto che crede d’essere vivo? O invece vivo pensando d’essere morto?”). Quello che ho appena citato è l’ultimo dei sei racconti: significativamente - ritengo di poter dire, e concludo - Adriana l’ha voluto al termine della raccolta, perché si confronta con l’enigma degli enigmi, con ciò che ci separa e ci unisce, che fa finire e rende interminabili i nostri desideri, che ci lascia in bilico nostra naturale condizione - mentre, insieme al piccolo poeta ed al suono della sua viella, ci chiediamo: “Chi può affermare con certezza quale sia il confine tra la realtà e l’ illusione?”. Sandro Angelucci Adriana Assini. I racconti dell’ombra. Scrittura & Scritture Ed. Napoli. 2012. Pp.96 € 8,00
Pag. 8: Adriana Assini - Mille e una notte (acquarello).
BOMBA ATOMICA, NUNCA MAS! 68 anos despues. Llamas, fuego y un gran hongo de humo en el espacio, en la tierra y en el agua. Fue como el fin del mundo para 220 mil japoneses muertos y millones de heridos de por vida por la radiacion. Como una estrella sangrienta la bomba explotó sobre la gente inocente, por falta de sentimiento de humanidad de un presidente* elegido para llevar su pais al mayor poder del mundo.
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Ahora esperamos que el remordimiento y la memoria nunca mas deje prender fuego a las raices del odio de un pueblo contra otro y que los deseos de paz hagan eliminar del planeta todas las bombas existentes así como todas por existir. Teresinka Pereira USA *El Presidente Harry Truman, de los Estados Unidos autorizó el lanzamiento de la bomba atomica sobre Hiroshima el 6 de agosto, 1945 y sobre Nagasaki el 9 de agosto del mismo ano.
LA NOSTRA AVVENTURA Le farfalle volano sui fiori, si fermano sui girasoli e si accoppiano gentilmente mentre nel cielo splende il sole e due piccole nuvole portano a spasso gli Angeli sotto gli occhi del Signore padrone della natura e della nostra vita, della nostra avventura la quale dura dalla nascita alla morte come il giorno e la notte. Mariano Coreno Melbourne Australia
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 1.08.2013 Berlusconi definitivamente condannato. Napolitano: “Ora la riforma della giustizia”. Che vergogna. Confessa, insomma, che, da decenni, nulla si è potuto fare per il bene della Nazione e solo per il timore che ne potesse godere quest’uomo! Domenico Defelice
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LIANA DE LUCA UBALDO RIVA alpino poeta avvocato di Domenico Defelice
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OMO e artista estroso e quasi futurista, questo Ubaldo Riva della scrittrice Liana De Luca. Futurista è il suo metodo di lavoro di composizione da lui stesso descritto: “In testa ho l’indistinto e il fine del lavoro. Poi comincio magari dalla coda: o dal centro: faccio copiare, taglio, incollo: la coda diventa capo: mosaico, aggiungo, tiro di pomice: e vien fatto.” Quasi futurista, perché, nella realtà - come afferma la De Luca - “Riva non poteva intrupparsi in nessun limitante indirizzo”. Il bel saggio - agile per il dettato assolutamente privo di nebbie, completo da dare concretamente, in pienezza, il ritratto dell’artista - è suddiviso in tre parti: L’alpino, Il poeta (e lo scrittore), L’avvocato. Un alpino, anche qui, per certi aspetti, fuori dagli schemi usuali, se è vero che, prima del servizio militare, egli era solito affrontare la montagna vestito “come in città”. Ma la montagna amò veramente e senza sconti, al par della donna e con sentimenti che, in genere, si riservano alla divinità. Ecco una delle sue tante definizioni: “Le montagne sono cose/di gravità e paura.//Pésano come un cipiglio/sul volto alla natura”. Liana De Luca ha il dono del riporto, quello che tanto piaceva al nostro maestro Francesco Pedrina. Così, fin dall’inizio, posiamo partecipare direttamente con il poeta e lo scrittore alla prima guerra mondiale, ai combattimenti, alle lunghe veglie e alle attese sotto il ghiaccio e temperature a meno 30°, alle ferite, alla convalescenza, al ritorno in trincea e, infine, al congedo, che non ha avuto mai il significato di distacco dal corpo degli alpini, al quale Riva fu fedele fino alla morte, partecipando sempre alle adunate e alle diverse cerimonie in ogni parte d’Italia, prendendo all’ occorrenza la parola che, in lui, è stata sempre ala-
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ta, per i saluti e gli sproni. Egli considerava quel corpo “una cara famiglia”, nella quale si trovava benissimo, anche se - confessa - veramente a suo agio si sentiva solo allorché aveva la possibilità di “guardare in aria e fare (...) il poeta”. Essere alpino vuol dire anche amare profondamente la Natura. Ecco una delle tante note delicatele: “La rugiada sull’ erba/al sole della mattina/è tutta una trina/tra d’oro e d’argento.//Odòrano i prati/le foglie degli àlberi/e gli aghi dei pini/d’odore di terra e di selva”. La De Luca dimostra come tra l’alpino e il poeta Riva non ci sia stata, poi, tanta differenza. Ci sono, in “Scarponate, poesie rievocanti la guerra e inneggianti le riunioni alpine; Bambinate, esprimenti quello che di fanciullesco resta nell’animo di tutti; De la musique..., transfert di brani musicali; Interni, sentimenti e stati d’animo; Esterni, descrizioni di paesaggi e di luoghi con particolare attenzione alla sua Bergamo; Intimismi, sulle più sofferte meditazioni”... . Riva ci dà, in Bergamascherie prime e seconde, forse senza intenzione, una lezione di critica onesta: “Non essere scortichini e stroncatori feroci: pensare quanto sangue e sudore di sangue costi l’opera: non essere venduti per adulazionismo conformismo di scoletta o di interesse (oggi a te domani a me): ma franchi e leali: sempre però con carità: con amore”.... Lui si riferiva all’arte, ma anche la critica, in qualche modo, s’è fatta onestamente, senza saccenteria o invidia, se fatta “con amore”, è arte. Senza enfasi e volontà di dar lezione, lo scrittore sa essere lieve e aspro, gentile e duro, all’apparenza superficiale o profondo, svagato e sentimentale: è se stesso senza forzature, cioè, senza il troppo belletto dell’ aggiustamento, che uccide la spontaneità; usare la pomice è d’obbligo, ma con parsimonia, se non si vuole cadere in ciò che lui stesso definisce il “chimismo aritmetico”. Il suo modo di scrivere lo sintetizza in Bergamascherie prime e seconde: “Si tratta di una velocissima sintesi: ma sotto c’è - oltre la predisposizione - lo studio la meditazione il patimento di de-
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cenni e soprattutto una meditazione subcosciente”. E’, il suo, un “parlar quotidiano” (Ettore Cozzani). A volte ci sembra di leggere i versi del futurista e nostro grande amico Geppo Tedeschi, il quale, con Marinetti, fu anche estensore di manifesti, come quello, per esempio, sulla poesia sottomarina. Riva scrive: “Suonava - diceva del nonno - con un sentimento che accorava: rosignolava”. Riva è stato, non di professione, anche lui, come i suoi antenati, un vero musicista. “Nelle raccolte poetiche di Ubaldo Riva il ‘musicismo’ è una componente non occasionale, e neppure esornativa”, afferma Gianandrea Gavazzeni. Molto di più, insomma, di un musicofilo. Poeta e scrittore ironico, inoltre, Ubaldo Riva. Quello che ci compisce di più in lui, anche come avvocato, è l’aspetto sociale. Eccone un tocco nell’accostamento tra l’innocenza e la sacralità della natura e la calcolata violenza dell’uomo: gli agnelli che felici saltellano e “bevono la vita” “come il latte sincero/dalle materne mammelle” e “l’uomo nero/che aguzza i coltelli”. Egli guarda con amore la povera gente, vittima e colpevole, a volte, della necessità. Come avocato deve difendere l’assistito, ma non può fare a meno di stendere il suo occhio pietoso su tutta quella autentica “Corte dei Miracoli” che è la Pretura in occasione dei processi, “...poveraglia mascolina e femminina. La malattia, la bassezza, la deformità, i parassiti...: facce gonfie, vinose, stampelle, fetore, cenci, toppe, alcool, malattia: e se non piangi...”. A questa pletora di bisognosi, Riva il più delle volte non chiedeva parcella. Colpevoli o non colpevoli, erano per lui tutti meritevoli di pietà e della sua solidarietà. E la giustizia, ieri come oggi, spesso ha il volto e la sostanza della ingiustizia. Ubaldo Riva aveva sofferto per tutta la vita della perdita prematura della madre. Il giorno prima della morte, a causa di un incidente, scrive una poesia a lei dedicata in cui parla di esilio. Sicuramente è stata lei a chiamarlo. Anime così legate da tanto amore non potevano stare ancora a lungo separate. Domenico Defelice
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LIANA DE LUCA - UBALDO RIVA alpino poeta avvocato - Genesi Editrice, 2013 - Pagg. 158, € 16,00
LA BIONICA La sua parrucca a fili d’argento nasconde la bianchezza dei capelli. I nuovi cristallini scoprono rinnovate prospettive. Protesi e chiodi sostengono i femori e un busto tenta di drizzare la curva della colonna. I piedi distorti cercano invano spazi nelle scarpe e il polso dolente si appoggia al bastoncello in cerca di equilibrio. Ma il cuore, il cuore matto! Invece del gabbiano il pigolare c’è d’un maialino il grufolare. Liana De Luca Torino
DE PRONTO... Se trasciende mi deseo de belleza y me encierro en el cansancio. Sin embargo la poesia me sostiene con reliquias perfumadas y ciegos amores. !De pronto se resucita la alegria! Teresinka Pereira USA
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 13.08.20\3 Condanne più severe per il femminicidio, ma il dramma non si arresta, perché non è questione di denunce e di anni di galera, ma di educazione e non si educa solo con l’inasprimento delle pene. Domenico Defelice
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GABRIELE D'ANNUNZIO A PARIGI, IN FUGA DALL'ITALIA, INCONTRA CLAUDE DEBUSSY E NE NASCE UN MYSTÉRE.... di Ilia Pedrina
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ABRIELE D'Annunzio sintetizza in sé, orgogliosamente, elementi forti della cultura occidentale in relazione all'arte teatrale e poetica, caricandosi di un'eredità che pochi saranno in grado di fronteggiare e di superare, dopo di lui. Parlo di consapevolezza panica, pagana, mitica e rituale, arcaica, perché sacra è ancora per lui l'Ellade; parlo di competenza su temi biblici e cristiani, dai quali viene attratto quasi fisicamente, portando all'eccesso la peccaminosa e voluttuosa possibilità di trasgredire e per ciò stesso di opporsi alla legge che vuole virtù, nei pensieri come negli atti; parlo di attrazione insopprimibile verso la costruzione del mito di sé, nell'opera d'arte letteraria come nelle azioni concrete interne ai ben noti eventi storici, attraverso pericolosi e spesso contrastati, condannati sincretismi fra paganità e cristianità, facendo di sé mito e rito ad un tempo. Siamo agli inizi del 1910 ed io, testimone indiretta ma carica d'intenso, acuto, curioso fervore, cito direttamente dal testo di G. B. Guerri, mentre coglie il D'Annunzio in fuga dall'Italia verso Parigi: “Prima della trasferta parigina d'Annunzio era ritornato in Abruzzo. Forse fu la visita alla madre malata, insieme al ricordo della gioventù, a provocargli un doloroso senso di
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morte: 'Tutto m'intenerisce e tutto mi ferisce qui. Sento in tutte queste creature il mio medesimo sangue, e sono infinitamente lontano da loro. La mia vecchia casa è pur sempre impregnata della mia vita puerile come se pur ieri ne fossi uscito fanciullo. Oggi sono andato a rivedere la foce del fiume, là dove voglio essere sepolto (…) non ho mai avuto tanto terrore del mio destino velato (…). Sono senza coraggio. Vorrei stendermi su quel piccolo letto dove ho sognato i miei primi sogni di gloria, e pacificarmi nel sonno senza risveglio. Sono stanco di questa perpetua ansietà'. A Parigi cambiò idea, nelle mille tentazioni della città che lo amava da quasi vent'anni. Trascorse tre mesi nel costosissimo Hotel Meurice, dove si era trasferita anche Nathalie, ricevendo i molti ammiratori che volevano incontrarlo. La sua fama si era accresciuta e per la prima metà del 1910 Gabriele non perse una festa, un appuntamento, un invito salottiero.... La depressione delle settimane precedenti fu subito accantonata anche perché oltre a Nathalie/Donatella cominciarono ad occuparsi delle sue pubbliche relazioni Maria Hardouin, che da anni viveva a Parigi, e Robert de Montesquiou, il letterato snob, arbitro delle eleganze francesi, omosessuale dichiarato, ispiratore di Joris Karl Huysmans, di Oscar Wilde e infine di Marcel Proust. Il primo l'aveva immortalato nelle vesti di Des Esseintes, il protagonista di A rebours, il secondo ne aveva fatto il memorabile Dorian Gray; al terzo suggerirà le movenze raffinate del barone di Charlus, indimenticabile personaggio della Recherche. È Robert che si fa avanti, sognando chissà quali ménage estesi e triangoli amorosi. È lui a inserire Gabriele negli ambienti letterari, artistici e politici della città. Robert lo chiama Beneamato Maestro, Divino amico, Porfirogenito e quando d'Annunzio tace gli sembra spenta la voce del mondo. Lo invita nel suo castello e fa coprire con tappeti persiani il ponte levatoio. Gabriele detesta che Montesquiou, con ambizioni di poeta, gli legga i propri versi all'Hotel Meurice...” (G.B. Guerri: 'D'Annunzio - L'amante
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guerriero', Ed. Mondadori, Milano, 2008, pag. 169 e pag. 171). Il Capitolo relativo a questa citazione è il Sesto del bel volume, dal titolo 'L'esilio: “Io sono la puttana d'Italia che si odia per amore” (1910-1914) e come si può ben notare, il Guerri ci lascia soffocare nella nostra ignoranza, perché in questo caso le note e le fonti d'informazione non sussistono, ma a lui basta ed avanza e ne gode, per accendere in noi curiosità insaziabile e costruttiva a saperne di più! Perché se io dico a me stessa : 'Aspetta, intanto andiamo a vedere dove è citato Debussy, dopo con calma mi leggerò tutto il resto..', è tale il rebus che si deve dipanare, che si è obbligati a gironzolare per tutto il libro. Vengo a sapere allora che alla Capponcina, tra donne, forcine, cani, cavalli e creditori soffocanti, Gabriele non ne può proprio più! Eleonora Duse ne soffre e la gelosia interiorizzata e distruttiva non le lascia tregua. Si, lei, l'Eleonora dal passato radioso e dalla intensa bellezza: Gabriele, che ha detto di sé 'Voglio essere e sono il Maestro', ne ha altre e la trascura, fino a darsi alla fuga, verso Parigi. Perché oltre alle altre, nella capitale francese c'è anche Romaine Brooks, da lui soprannominata 'Cinerina', che gli fa spazio in uno chalet ad Arcachon sulle coste atlantiche della Guascogna, lesbica. Così ci informa lo storico Guerri: “... le sue fattezze efebiche ebbero un ruolo nella nuova opera drammatica del Vate, ispirata a quella figura di san Sebastiano che lo seduceva dai tempi delle sue prime fantasie a metà tra eros e peccato, sacro e profano. L'idea gli era sgorgata dopo la rappresentazione di Cleopatra, uno dei balletti russi che spopolavano a Parigi e di cui era appassionato, come del tango; andò a trovare nel camerino la magnifica protagonista, Ida Rubinstein, e agì subito: 'Con la solita temerarietà, vedendo da vicino le meravigliose gambe nude, mi getto a terra - senza sentire l'abito a coda di rondine – e bacio i piedi, salgo su pel fasolo alle ginocchia, e su per la coscia fin all'inguine, con il labbro abile e fuggevole dell'aulete che
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scorre sul doppio flauto. Alzo gli occhi. Vedo il volto di Cleopatra, sotto la grande capellatura azzurra, chino verso di me, con una bocca abbagliante. Mi rialzo, in un silenzio ottuso, e mormoro, come trasognato: Saint Sébastien? Ecco la genesi dell'opera nefanda'. Anche per Ida, al culmine del successo, l'incontro è fatale.... Quando va a trovarlo a Arcachon, scopre che la casa è piena di immagini di san Sebastiano, ancora ignara del rigoroso lavoro di ricerca che il poeta aveva svolto alla Biblioteca Nazionale di Parigi sulla figura del santo martirizzato dalle frecce. Ne uscì un dramma, scritto in francese, nel quale la figura del santo somiglia a una creatura di Algernon Swinburne o di Oscar Wilde, tanto è intrisa di sadismo e di contaminazioni peccaminose. La Rubinstein accettò subito di interpretare il ruolo di Sebastiano e Claude Debussy di scrivere le musiche per Gabriele, che chiama 'Mon irrésistible Tourbillon'. La prima del Martyre fu preceduta da un coro di disapprovazioni, soprattutto da parte cattolica. L' Arcivescovo di Parigi, monsignor LéonAdolphe Amette, si lamentò che il santo fosse incarnato da una donna – per di più ebrea, famosa per i suoi spogliarelli – e proibì ai cattolici di assistere alla rappresentazione. D' Annunzio, spalleggiato da Debussy, replicò che l'opera aveva un profondo significato religioso e, anzi, costituiva una glorificazione dell'eroismo cristiano. L'argomentazione accentuò il dissidio, piuttosto che placarlo, e il Vaticano, prima ancora della rappresentazione, mise l'intera opera di d'Annunzio nell'Indice dei libri proibiti; altri decreti di condanna seguiranno nel 1928, 1935 e 1939. Tutto quel chiasso finì per accrescere l'interesse intorno al Martyre, rappresentato - per l'interminabile durata di cinque ore - al Téâtre Le Chatelet di Parigi il 21 maggio 1911. La stampa parigina si accanì con un fervore che ne faceva sospettare la malafede, e dalle critiche si salvarono solo le scenografie di Léon Bakst e, in parte, le musiche di Debussy. Al testo furono riservate ironie, superate in acredine dagli insulti indirizzati alla povera Rubinstein, privata della sola cosa che sapeva fare, cioè ballare: le-
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gata al palo di tortura, le frecce incollate al corpo, lo sguardo caricato di un erotismo troppo fittizio per conturbare. Solo Montesquiou, seduto in prima fila accanto all'adorato Proust, si produsse in lodi sperticate. In Italia le reazioni furono di altro tenore. Il 'Corriere della Sera', sempre pronto a elogiare il suo più celebre collaboratore, parlò di 'successo trionfale'. Così fu di sicuro per le repliche degli anni a venire, che in Italia avranno sempre la stessa ottima accoglienza, in particolare quella del marzo 1926 alla Scala con, di nuovo, Ida Rubinstein e la direzione d'orchestra di Arturo Toscanini. C'è da considerare, però, che il poeta era da anni un mito, un eroe intoccabile della nazione, e poté anche togliersi lo sfizio di introdurre la rappresentazione con un discorso di circa quaranta minuti....” (G.B. Guerri, op. cit. pp. 173-175). Ora è così giunto il momento, facendo un certo silenzio intorno, di lasciare spazio a tracce prese dall'introduzione che Gabriele D'annunzio ha scritto in francese, con dedica a Maurice Barrès e con quel dettato sciolto ed elegante che talora veniva invidiato dai francesi stessi: “Un jour d'eté, au pays des Marses en ma terre d'Abruzzes, j'écoutais sous le portail d'une église un charmeur de serpents jouer son air magique, sur un os de cerf à cinq trous qu'un arcêtre avait retrouvé parmi des cendres, des venoteries et des orges, dans un de ces sauvages sépulcres qui sont les milliaires de la route romaine... C'etait le dernier descendant d'une lignée sacerdotale qui de siècle en siècle avait fourni à la citerne du Sanctuaire les couleuvres sacrées. Seul il connaissait le 'mode' que ses aȉeux lui avaient trasmis avec la flûte ett avec la vertu. Au son du charme, la gent reptile s'agitait dans le sac de cuir en forme d'outre, suspendu à la dure épaule marquée du signe tutélaire. Et, dans le tremblement de la splendeur et de mon ressouvenir, je decouvrais sur le montagne dangereuse comme le promontoire de Circé la citadelle rouinée des rois devins; et j'entendais le vent bruire dans les mêmes herbes que les magiciennes marses avaient broyées pour les
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matrones de Rome; et le sentais refluer du fond d'un exil infini, sur les diviers et sur les rochers, la melancolie du despote macèdonien qui mourut captif dans la forteresse ardue. Et il me semblait de rentrer dans ma patrie primitive, avec une âure plus vaste que toutes mes pensées et les notes grêles de la flute funèbre me semblaient accompagner ce chant immortel des mortes que tant de fois vous avez éccouté àtravers la plaine messine ou dans le souffle léger de la rivière lorraine ou sur la hauteur de Saint-Odile entre la murraille druidique et le castel latin. (….) Qu'on me pardonne si plus aventureux, j'ai voulu pour une fois me donner le plaisir magnifique de travailler avec mes outils le plus aiguisés une belle matière d'outre-monts. Dirai-je que j'ai travaillé sans aide? Maa muse nouvelle paraissait avoir le visage ardent et melancolique de Valentine Visconti, duchesse de Touraine, dans la miniature de l'Apparicion de maître Jehan de Meun. En commençant mon Mystère, j'aperçus dans une lueur de présage la Milanaise sur son palefroi richement harnaché s'arreter devant le Châtelet pour voir la sainte Allégorie représentée 'par signes et sans paroles'. (…) Voici donc le livre, sauvé et pardonné. Je vous offre mes vers de France parce que j'aime vos proses d'Italie, mon cher Maurice Barrés. Ce poème, composé dans le pays de Montaigne et de la forte rèsine, je vous le dédie parce que vous avez trouvé vos cadences le plus mèlodieuses à Pise, à Sienne, à Parme, dans le sèpulcre de Ravenne, dans les jardins de Lombardie. Mon Sebastien - que j' ai dessiné ayant sous les yeux cette plaquette d'Antonio del Pollaiuolo, òu un svelte centaure domine du portrait les archers à deux pieds – mon Sébastien parle, quelque part, du tendon de bête qui s'ajuste au fût de son arc doublé et qui s'y colle de façon à ne faire qu'un avec lui. Je pense au nerf animal dont se double la spiritualitè de votre art. Je pense aussi, devant certaines de vos paroles, à ces divines abeilles prises dans l'ambre claire, qu'un de mes humanistes semble aoir célébrée en l' honneur de votre Muse dans un épigramme votif. Aucun ne pourra, certes, comme vous,
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comprendre le singulier plaisir que me donnèrent ma hardiesse et un si haut danger. Un soir, aux approches de Sparte, en vue du Taygète et de l'Eurotas, un seul mot rayonna sur l'heroȉsme de votre esprit: 'le plus beau de l' Occident'. Il y a un autre mot de la grande espèce latine, qui ne me semble pas moins beau, puisque je veux le voir toujours coloré de mon meilleur sang et du sang de mes pairs: l'intrepidité. Gabriele d'Annunzio” (Le Martyre de Saint Sebastien - Mystére composé en rythme français par Gabriele d'Annunzio et joue a Paris sur la scene du Chatelet le XXII Mai MCMXI avec la musique de Claude Debussy – Paris, chez Calmann - Levy Editeurs, pp. I/VIII). Maurice Barrés, classe 1862, è scrittore, ama viaggiare nei luoghi fondativi della cultura occidentale, si lascia affascinare dall'occultismo, ma è anche impegnato in politica, nazionalista ed antidreyfusiano senza mezze misure: a lui faranno riferimento tanti, quasi tutti gli adolescenti francesi che negli anni Venti e Trenta del secolo scorso vorranno entrare nella vita poetica, politica e letteraria di Francia, per poi, ovviamente percorrere altre strade e tra loro Bernanos, Maurras, Aragon. La sua trilogia, 'Le Cult du moi' nelle parti 'Sous l'oeil des Barbares (1888), 'Un Homme libre' (1889), Le jardin de Bérénice (1891), scandaglia il rapporto tra l'Io, il culto della letteratura e della spiritualità, il fondamento territoriale dei miti e dei riti, che soli hanno forza per fornire ai giovani identità e contenuti non sradicati. Vedrò meglio i rapporti tra i due, tra d'Annunzio e Barrés, intendo, soprattutto a partire dalle documentazioni presenti nella ricchissima biblioteca del Vate, interna al Vittoriale, grazie anche al consenso che direttamente mi è stato dato dal suo Presidente, lo storico G. B. Guerri appunto. Ed andrò ad investigare tutto il testo del Martyre, per verificare e chiarire, perché, alla luce dei lavori del prof. Guy Stroumsa sulla formazione dell'identità del cristiano e sui fondamenti della sapienza antica, potrò rilevare prospettive di più ampio respiro. Cito dal Mystere, in cinque 'Mansons' (I. Le cour des
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Lys; II. La chambre magique; III Le concile des faux dieux; IV. Le laurier blessé; V. Le Paradis) con tantissimi personaggi e fondali: “La Vierge Epione Je fauchais l'Epi de froment, oublieuse de l'asphodèle; mon âme, sous le ciel clément, était la soeur de l'hirondelle; mon ombre m'était presqu'une aile, que je traînais dans la moisson. Et j'étais la vierge, fidèle à mon ombre et à ma chanson...” (G. d'Annunzio, op. cit. pag. 8) Questa brevissima citazione è tratta dalla Manson I 'Le cour des Lys' e di vergini, oltre ad Epione, ce ne sono altre quattro, Flavie, Junie, Telesille, Chrysille e poi ancora i quattro compagni di queste ed i fratelli gemelli Marc e Marcellien. Cito: “Marc O Christ, je souffre pour ton nom! Mais tu l'as dit: 'Si quelqu'un vient a moi et ne hait pas son pére, sa mére, ses fréres, ses soeurs, plus encore, sa propre vie, il ne peut être mon disciple.' Seigneur Christ, je suis ton disciple, je suis ton hostie. Je suis prêt. Exauce-moi! (…)” (op. cit. ibidem, pag 37). Trovo ancora Theodote e poi 'Le Prefet' e poi 'Les archers d'Emese' e l' 'Archer aux jeux vairons' e 'La femme muette' e poi ancora 'La femme aveugle'. E i citaredi e le orfiche e le donne di Biblo ed il coro siriaco e l'Imperatore e altri ancora. Su tutti loro, 'Le Saint': “Le Saint ...Je suis l'esclave de l'Amour, Je suis le maître de la Mort, femme, et je te connais. Je sais que je toucherai le coeur rouge...” (op. cit. ibidem, pag 61) Ma ancora più intensa diventa la carica spirituale del Santo nel testo e dell'immaginario che lo fonda, quando si tratta di toccare con la propria carne il sangue della sofferenza nel nome di Cristo: “Le Saint ...Or toi, considére
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la figure de l'arc, archer, puisque tu es marqué par Dieu qui t'a fait deux yeux divers, l'un bleu, l'autre noir, comme jour et nuit... Je t'ai vu. Regard. Cet arc figure la Trinité sainte. Le fût est le Pére, la corde est l'Esprit, la flèche empennée est le Fils qui donna son sang...” (op. cit. ibidem, pag 87) Poi, nella danza estatica, tutto ruota intorno ad una irresistibile, affascinante ritmica ritualità. Fatta di musica e d'aurora: 'Je t'aime, Roi', in dantesche movenze da Paradiso. Claude Debussy scioglierà in seguito la sua composizione dal testo dannunziano, formulando così un 'Le Martyre de Saint Sebastien' in quattro sezioni sinfoniche. Ilia Pedrina
RITORNO ALLA VITA Non voglio vedere il sole al tramonto, diventa un essere che ti ha tradito. Immobile astro nel punto più alto di mezzogiorno, mistero cosmico irradiatore di vita a tutti i mondi. Poi con i cerchi incandescenti ultimo fuoco, seminascosto con la guancia che ammicca folgorante dentro la curva dei monti. Ti butta nel baratro togliendo con dolcezza il respiro fino ad oscurarti, brancoli a tentoni, hai perso te stesso, neppure le cose che per tutto il giorno sono state vicine. Non si riconosce nessuno, il sole ti chiude con modi lievi e inavvertibili, taglia i piedi, le braccia ferme, un tronco nelle tenebre. Non voglio vedere il sole tramontare, il cammino del tempo. Voglio che resti immoto fino a quando mi sento frantumato ancora e le viscere sono languide di angoscia. Deve aspettare fino a quando sarò rinnovato, non voglio consumazione su consumazione.
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Allora felice rimarrò abbracciato a tutte le cose, immobile il mio essere intatto nelle forme. Tutto il mondo attorno, e il minuto particolare slargato nella diafana larghezza. Spazio amplificato, le lame affilate non vedrò il mio corpo ridurre a pezzi. Leonardo Selvaggi Torino
HO ANCORA CANTI Ho ancora molti canti nel mio cuore da donare a chi li voglia udire per ritrovarsi in essi con stupore; ancora ho versi in fieri nella mente per esprimere quelle sensazioni che possa condividere la gente. Ho ancora desiderio d’aiutare e d’essere aiutata in questa vita, e di essere amata e di amare. Perciò chiedo ogni giorno al mio Signore di conservarmi ancora molti anni con quel po’ di salute che mi basti per far fronte agli impegni ed agli affanni. Mariagina Bonciani Milano
IL GRANO Il grano è già alto e prega con le spighe al cielo con la sua immensità pane che i poveri e i ricchi consumeranno insieme dimenticando ogni loro incomprensione. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
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L’ANTIMARINISTA
TOMMASO STIGLIANI NATO A MATERA di Leonardo Selvaggi I OMMASO Stigliani, come padre Serafino da Salandra, autore dell’ ”Adamo Caduto”, è la maggiore personalità del Seicento lucano. La sua opera assume importanza nazionale, si inquadra nel periodo dell’antimarinismo, è legata alla crisi che pervade tutto il XVII secolo che si muove tra religiosità mistica e irrequietudine, tra insoddisfazioni, esaltazioni e bisogno di vita avventurosa, senso della fragilità umana, coscienza del peccato e bisogno di espiazione. Stati di angoscia, stravaganze e aberrazioni. Come tanti contemporanei Tommaso Stigliani è un intellettuale professionista, scrive per affermarsi, primeggiare negli ambienti culturali, per rendere facile la via dei vantaggi economici e quella della notorietà presso Corti e alti personaggi religiosi. Vive le rivalità, le polemiche frequenti nel suo tempo di cui sono protagonisti tutti i maggiori letterati, poeti e artisti, presi da arrivismo e da moti di sopraffazione. Giambattista Marino litiga a Torino con Gaspare Murtola, al servizio dei principi sabaudi, autore del poema religioso “Creazione del Mondo” (1608). Pier Paolo Sarpi è colpito con una pugnalata, Caravaggio lo troviamo omicida in una rissa. Il Nostro si batte in duello con Caterino Davila, letterato di Corte a Parma il 9 agosto 1606. Gli autori del ‘600 acquistano un’autonomia e una libertà di espressione tali da renderli arbitri del rinnovamento culturale, incidendo fortemente sulle trasformazioni sociali e sul costume. Tommaso Stigliani ha tutte le doti che lo fanno emergere, il temperamento spavaldo, feroce, impetuoso. Di carattere vanitoso, il suo desiderio era che tutti parlassero di lui. Ebbe oppositori continui alla sua attività di critico e letterato. Venendo da una cittadina dell’estremo Sud, isolata e nell’estrema arretratezza, si sentiva gloriato e orgoglioso di
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trovarsi nel vivo ambiente secentesco nazionale. II Tommaso Stigliani era nato a Matera nel 1573 da famiglia agiata. Dopo i primi anni di istruzione nelle scuole locali, si trasferì a Napoli. Subito sentì l’avversione nei confronti degli studi di medicina cui era stato avviato. La sua passione è la poesia. Frequenta gli ambienti letterari di Napoli, qui conosce per la prima volta il Marino del quale, negli anni degli ardori della sua giovinezza, diviene amico e ammiratore. Nella città partenopea conosce anche Torquato Tasso. Da questi viene apprezzato per i primi suoi scritti. E’ un periodo di preparazione. Si trasferisce a Roma. Siamo nel 1598. Lo Stigliani ambizioso, spirito fremente è impaziente di trovare una stabile sistemazione. Le difficoltà sono molte. Dopo la pubblicazione a Milano del poemetto pastorale “Polifemo” (1600) e della prima parte delle “Rime” (1601) a Venezia fu alla corte di Carlo Emanuele I e successivamente a Parma nel 1603 dove rimarrà fino al 1621 presso la Corte di Ranuccio Farnese. E’ il periodo più attivo, quello della maturità. Si sposa con una certa Lucia, è legato da affetto con il figlio Carlo che diviene sacerdote. L’ attività di Tommaso Stigliani si intensifica, è nominato Presidente dell’Accademia degli Innominati, è entusiasta delle “Rime” ed è alla ricerca di successo. Nella prefazione si parla di opera eccezionale. Il Nostro ha appena ventotto anni. Siamo lontani dalla poesia, si tratta piuttosto di imitazioni, di mediocrità, di virtuosismo, di esercitazioni seguendo il Marino. Non c’è originalità, solo qualcosa di personale e di piacevole si nota nella musicalità dei versi. Apprezzabili le Rime di occasione che rientrano nella moda seicentesca: hanno una certa vivacità, naturalezza espressiva, capacità inventiva, arguzia, licenziosità. Si distinguono le poesie dedicate alla bellezza della donna. Abbiamo, inoltre, le Rime a carattere religioso che si inquadrano nel clima del tempo, ci si muove tra profanazione e misticismo. Siamo con la Controriforma e l’ au-
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tore ha bisogno di ottenere i favori dai cardinali. Per Tommaso Stigliani la religiosità è tutta un’esteriorità, processioni, pellegrinaggi, santuari. Siamo nel pieno barocco, alla ricerca sempre di produrre effetti su chi legge. Altra trattazione delle Rime è data dalla fugacità della vita. In realtà nella ricca produzione non esiste vocazione poetica, si sostiene formalmente il classicismo, m’anca l’ispirazione, c’ è un puro secentismo senza originalità. Questo si riscontra nel “Polifemo” in cui si parla dell’amore per la ninfa Galatea. Siamo lontani dalla trattazione di Teocrito e Ovidio sullo stesso tema. Si notano alcuni aspetti tasseschi, come gli intrecci d’amore, chi ama spesso non è riamato. Erminia amava Tancredi e questi innamorato di Clorinda. Nel Tasso c’è del patetico e drammatico, momenti di profondo sentimento poetico. Nel Nostro solo gioco di parole, espressioni meccaniche. Manca la delicatezza dei sentimenti d’amore originati dal contrasto fra la forza del gigante e la fine interiorità di un’anima triste, come si nota in Teocrito, non abbiamo accenti puramente poetici, c’è prosaicità, difficile trovare passi che destano emozione. In Ovidio, espressioni amorose più umane e sentite. Nel 1605 abbiamo la seconda edizione delle “Rime”. Vengono riunite e ampliate quelle giovanili in un “Canzoniere” che è messo all’ indice per l’indecenza di alcune parti. III Le “Rime” e il “Polifemo” costituiscono preparazione al capolavoro che Tommaso Stigliani pensava di scrivere per conquistare la gloria e l’immortalità su un argomento di grande interesse: la scoperta dell’America e la sua conquista da parte di Cristoforo Colombo. Fu iniziato il 1601. Nel 1608 alla presenza di G. Marino furono lette alcune parti. Allusioni provocatorie all’autore dell’ ”Adone” presenti nel canto XVI originarono polemiche che andarono sempre più inasprendosi. Il Marino addirittura tentò di impedire la stampa del poema e di farne sopprimere le copie. Nel 1611 il poema era composto di 20 canti. Nel 1617 pubblicato a Piacenza. Le più
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feroci critiche vengono sempre da Giambattista Marino. L’ambiente letterario si rende ostile, tanto che diviene difficile stampare per la seconda volta il poema. Tommaso Stigliani ormai è il principale rappresentante dell’ Antimarinismo, avversato da Accademie e da letterati, deve lasciare Roma e rifugiarsi a Parma. Siamo nel 1621. Qui trova protezione presso Virginio Cesarini e Scipione Borghese, negli ultimi anni presso il principe Pompeo Colonna. Nel 1625 accresciuto e riveduto viene pubblicato in Roma e Venezia il “Canzoniere” distinto in otto libri, cioè amori civili, pastorali, marinareschi, giocosi, soggetti erotici, morali, funebri e familiari. Di questa edizione esiste una copia manoscritta nella Biblioteca nazionale di Napoli, preparata per una ristampa che non ebbe mai luogo. IV Nella polemica contro l’”Adone” ha un posto notevole il famoso libretto “L’occhiale” (1627) in cui si muovono critiche generali e particolari, non tutte prive di fondamento. Tommaso Stigliani servendosi di metaforici occhiali mette in risalto con sottile acrimonia e violenza tutti i difetti del grande poema del Marino. Secondo lui manca di sostanza e ha imperfezioni di locuzione, non rispetta l’unità d’azione, non è un solo poema, ma un ammasso di poemi, farraginoso, pieno di digressioni. L’”Adone” appare un gigante con un’ ossatura nana. Monotono, senza un ordine logico di sviluppo. I contenuti inverosimili e i personaggi falsi. Una congerie di fatti empi, diseducativi, di nessuna utilità alla vita civile. Tanta diversità tra l’opera del Tasso e l’ ”Adone”. Nella prima, stile solenne, equilibrato, nel poema del Marino stranezze, stravaganze, con uno stile arcaico, barbarico, con espressioni volgari e dialettali. V Tommaso Stigliani riafferma la sua decisa inclinazione al classicismo: conduce ricerche sulle forme stilistiche e metriche scrivendo “Arte del verso italiano”. Continua intanto a perfezionare e ad ampliare il “Mondo Nuo-
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vo”, nel 1628 conta 34 canti. Pensa illusoriamente di avere emulato il Tasso e l’Ariosto. Quest’opera viene ad aggiungersi ai numerosi scritti sull’argomento, apparsi nel ‘500 e ‘600, i quali, oltre a parlare del viaggio e degli aspetti scientifici, mettono in rilievo il significato divino della missione svolta da Cristoforo Colombo, considerato l’uomo di Dio, chiamato ad ampliare gli orizzonti della fede, consacrando il trionfo di Cristo su tutta la terra. Nel Mondo Nuovo si sarebbe costituita la “Città del Sole” secondo le aspirazioni di Tommaso Moro e Tommaso Campanella. L’ America era vista come il paese dell’ abbondanza e della libertà, un vero Eden. L’opera epico-storica dello Stigliani ha toni didascalici e celebrativi, risponde alle esigenze della Controriforma. Nella prefazione sono significati gli aspetti morali e la glorificazione del Cattolicesimo. Il “Mondo Nuovo” si costituisce di 40.000 versi, ricco di divagazioni, minuzie, curiosità; si parla di forze soprannaturali, di straordinarietà, di strani animali. Si conclude con la vittoria di Cristoforo Colombo contro gli indigeni. Tommaso Stigliani mostra ambizioni classicistiche, in contrapposizione alla sregolatezza pagana di G. Marino. Si osservano anche aspetti tasseschi, donne guerriere che seguono il loro amore; Colombo è il capitano buono guidato dagli angeli, combattuto dai diavoli. Il “Mondo Nuovo” in un certo senso è paragonabile con l’ ”Adamo Caduto” di Padre Serafino da Salandra. Trionfa la bontà, la giustizia. La monumentalità e la scenografia in piena espressione barocca. Non mancano riferimenti a fatti della vita contemporanea, ad esperienze personali, alla nostalgia del Nostro ricorrente per la lontana Matera, il luogo natio sempre presente nel suo animo durante le continue peregrinazioni. Tutti gli anni vissuti con spirito di avventura, con il morboso attaccamento al figlio Carlo, che negli ultimi tempi si trova nell’ Abbazia di Vaglio di Lucania. VI L’attività letteraria di Tommaso Stigliani ha comportato estrosità, turbolenze, rivalità e
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miserie, una vita drammatica ricca di ferite profonde, di disagi sopportati da sradicato: tormentato dalla lontananza dei luoghi amati, dalle lacerazioni di vario genere, sempre con l’animo diviso, infelice e con tanti vuoti psicologici, insoddisfatto nonostante le sue dannate voglie di affermazioni. E’ stata la sua nello spirito del ‘600 una vita chiassosa, di inconsistenze, che ha fatto soffrire, non vivere. La sua sensibilità di meridionale rimasta martoriata. L’ambiente del ‘600 aveva tutto esteriorizzato, opprimendo i sentimenti più profondi. A Roma cominciano i suoi stenti, le difficoltà di ogni tipo aumentano. Viene aiutato per un certo periodo da un barone romano, altri aiuti vengono dal cardinale Scipione Borghese e dal papa Urbano VIII. Vive in uno stato di massima provvisorietà. Preso dalle strette economiche, torna a Matera nel 1636. La Civica Amministrazione lo aiuta riconoscendogli gli alti meriti culturali acquisiti: gli è grata per aver contribuito nella battaglia impegnata contro Acerenza, nel momento in cui la sua città diventa sede della diocesi. La permanenza a Matera dura fino al 1643, anno in cui subentrano orgoglio e intolleranza nei riguardi di un ambiente incolto. Tommaso Stigliani torna a Roma anche se preso da struggenti nostalgie, il suo luogo natio ormai non può soddisfarlo, incompreso, si sente soffocato, abituato a vivere in città evolute e ampie. La sua ambizione lo mette contro i suoi concittadini. Ritorna a chiedere soccorsi alle Corti di Roma, ma la situazione per lui non si presenta più favorevole come un tempo. Non ha sostegni sicuri. Il suo carattere impulsivo, vanitoso, il suo egocentrismo esasperato che hanno sempre portato con maggiore irruenza alle acerrime polemiche contro il Marino gli rendono ormai l’esistenza difficile. Si chiudono tutte le possibilità di incontrare aiuti. Rimasto isolato, unico amico Prospero Colonna, cui per riconoscenza viene dedicato il volume delle “Lettere”, pubblicate nel 1650. Tommaso Stigliani muore a Roma il 27 gennaio 1651. VII
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Tommaso Stigliani è stato antimarinista non per convinzioni letterarie, ma per un ostinato orgoglio di mettersi in mostra. Non ha sopportato la grandiosità della fama di Giambattista Marino. Ha avuto bisogno di spazio venendo dall’ambiente oppresso, chiuso della Basilicata, il suo spirito ribelle ha voluto fuggire. Ha voluto vivere smanioso di gloria in un secolo di contraddizioni, di violenza. Opposizioni continue tra marinisti e antimarinisti. Tommaso Stigliani si è considerato petrarchista, ma sempre con disorientamento tra affermazioni teoriche e realizzazioni concrete. Quando ha sostenuto i principi evolutivi della storia ha riconosciuto inavvertitamente che le norme seguite dal Rinascimento e dal Classicismo erano fuori del tempo. La poesia in tutti i secoli dopo un inizio incerto ha avuto il momento di perfezione. Come il Bembo è stato fermo nel sostenere che il modello linguistico era quello petrarchesco, ma nel contempo diceva che tutto andava accettato con moderazione. La guida migliore per i letterati costituiva, secondo lui, il vocabolario della Crusca per completezza e aderenza all’epoca in cui si viveva. In un’altalena continua per vanità, per carattere battagliero. Antagonista per natura. Marinista e antimarinista in tutta la sua vita. Per il Marino la perfezione della poesia era indicata dal successo, per il Nostro era nella bellezza e nel diletto che procurava. Al popolo piaceva la poesia affettata, ricca di metafore. Tommaso Stigliani ha avuto nemici dappertutto. Con la diffusione della stampa poetastri marinisti sorsero in quantità per il gusto di fare confusione, di scontrarsi e di generare schermaglie. Leonardo Selvaggi
LA TRASCURATEZZA Mamma, noi figli, veniamo poche volte a trovarti dove riposi nel cuore della terra. Sbagliamo a pensare
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che se con te del tempo spendiamo piacere non ti rendiamo! Tu in vita tanto ci hai donato: noi come possiamo dimenticarlo? Eppure, da quando sei morta trascuriamo di visitarti come facevamo quando eri viva per noi sempre pronta ad aiutarci! Adesso che più nulla puoi donarci ti lasciamo sola con la speranza che tu possa perdonarci. Oh, mamma, mamma cara: prega pure per noi tuoi figli peccatori! Mariano Coreno Melbourne, Australia
A TUTTI GLI AMICI CHE SE NE SONO GIÀ ANDATI A quanto pare si sono lasciati andare senza rimedio come degli alberi confitti in un letto di gelo e tedio. Ma non può essere vero e a primavera cosparsi di fiori tutti gli amici già scomparsi rinasceranno a vita nuova. E' grazie al fascino stregone di questo mare troppo bello perennemente in movimento che nell'inverno io sopravvivo senza stancarmi mai di aspettare come un coriaceo ulivo di poterli nuovamente incontrare... Luigi De Rosa ( Rapallo, Genova)
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I POETI E LA NATURA -23 di Luigi De Rosa
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nata la “Poesia Moderna”. In effetti, con lui la Natura cessa di sostenere – almeno ufficialmente - un ruolo millenario : quello di rappresentare la “Realtà” concreta e materiale, semplice e schietta, diversa dall'Uomo, anzi, spesso, a lui opposta. Cessa, cioè, di rappresentare se stessa per quello che appare. Con Baudelaire nasce il Simbolismo. La Poesia consisterà, d'ora in poi, secondo i Simbolisti, non tanto nell'arte di descrivere le apparenze, quanto nell'arte di intuire e decifrare la rete di rapporti e legami segreti che avvincono tutte le cose “reali” fra di loro, al di là di ciò che “appare” all'occhio umano. Scrive Baudelaire, ne Le corrispondenze : “ La Natura è un tempio dove incerte parole mormorano pilastri che sono vivi, una foresta di simboli che l'uomo attraversa nei raggi dei loro sguardi familiari.
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
Come echi che a lungo e da lontano tendono a un'unità profonda e buia grande come le tenebre e la luce i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi.
CHARLES BAUDELAIRE E LA NASCITA DEL SIMBOLISMO Il poeta è un albatros
Profumi freschi come la pelle d'un bambino vellutati come l'oboe e verdi come i prati, altri d'una corrotta, trionfante ricchezza
C
che tende a propagarsi senza fine – così l'ombra e il muschio, l'incenso e il benzoino a commentare le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi.”
harles Baudelaire nacque a Parigi il 9 aprile 1821. Rimasto orfano a soli sei anni, e in perenne dissidio col patrigno, un rigido colonnello, fece studi irregolari per indisciplina e fu imbarcato su una nave per l'India. Ma neppure un anno dopo fece ritorno in Francia, dandosi alla bella vita di bohémien di lusso, grazie alla ricca eredità paterna. Nel frattempo era nata in lui la passione per l'esotismo, che avrebbe poi trasfuso nel suo libro più conosciuto, Les fleurs du mal ( 1857). Morì a Parigi il 31 agosto 1867, a soli quarantasei anni, dopo una vita scapestrata ma con una fama che lo avrebbe consegnato alla storia della letteratura francese e mondiale. Si dice, addirittura, che con Baudelaire sia
Il Poeta, a sua volta, d'ora in poi sarà colui che scopre ed incarna in sé questa intuizione, e attraverso un nuovo linguaggio la rivela e trasmette agli altri uomini. Dietro il “reale” quindi si nasconde una “foresta di simboli”: Ogni cosa è simbolo di un'altra cosa o di un concetto ( qualità, stato d'animo, etc.). E per esprimere tutto ciò non serve più il vecchio linguaggio della poesia, della letteratura ( in una parola, dell'Arte). Ma ne occorre uno nuovo. Non trasparente, levigato e freddo, ma opaco e allusivo, sensuale,
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evocativo, musicale, indefinito e variante. Che sappia scoprire e illuminare significati reconditi, relazioni segrete. Il poeta, in tal modo, non appare più tanto un uomo comune come gli altri. Egli dà il meglio di sé, come l' àlbatro quando vola in alto sopra le distese del mare aperto, incurante delle tempeste, e non quando si deve strascicare, goffamente, in mezzo agli uomini comuni, sulla plancia di una nave. Penosamente impacciato dalle sue ali, maestose per volare ma imprigionanti per camminare normalmente come i marinai che lo hanno catturato. Chi, degli amici lettori, non ricorda quei famosi versi ( ne riporto solo alcuni, per motivi di spazio) della poesia “L'Albatros” in cui il Poeta ( con la P maiuscola!) viene paragonato a quel fantastico uccello marino d'altura, dall'apertura alare di oltre tre metri, che segue le navi urlando, e che va sulla costa solo quando si riproduce, altrimenti vola senza mai stancarsi... ? Quello stesso uccello che, se costretto a terra, è così penosamente impacciato da non potersi muovere ? “ Souvent, pour s'amuser, les hommes d'equipage prennent des albatros, vastes oiseaux des mers qui suivent, indolents compagnons de voyage, le navire glissant sur les gouffres amers. …...................... …...................... Le Poete est semblable au prince des nuées qui hante la tempete et se rit de l'archer. Exilé sur le sol au milieau des huées ses ailes de géant l'empechent de marcher.” Luigi De Rosa
SONO AL PAESE Gonfio di some l’asino esce fumigante di letame; gli prudono le narici ai soffi limpidi del mattino. Con il respiro dilatato raglia pazzo di voglie
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comprimendo la groppa sugli zoccoli, verso gli aspri maggesi incolti, i sonori richiami dell’allodola fra le stoppie. Disciolta la cavezza sotto il pero rimane senza bardatura: al rezzo l’animale è in camiciola, col nero inguine scoperto e le parti esuberanti del deretano ispido. La campagna fra le siepi e le terre lavorate, la scorza dura dei tronchi contorti, del contadino il fustagno resistente, la quiete greve che spazia sul suolo. Quando il crepuscolo è per le strade l’asino ha il fiato stretto dalla museruola e l’occhio amaro. Porta il peso frusciante delle frasche che strano addobbo trascina tutto difilato al casolare. Nei cesti rustici fra le palmate foglie i fichi odorano di pampini; l’erba falciata nei prati ha il vespertino canto del grillo. Leonardo Selvaggi ASCOLTANDO IL MARE Aliti caldi il vento porta, con un sottofondo di rumore. Il mare lo ascolti dalla conchiglia, lo senti dentro di te, vivo… t’illudi di vederlo, calmo… arrabbiato… spolverato dal libeccio, minaccioso… ruggente tra gli scogli, intento a riprendersi la terrena vita per ricondurla alle origini, negli abissi. Colombo Conti Albano Laziale
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(Disegno di Serena Cavallini)
Recensioni TITO CAUCHI IL CALENDARIO DEL POETA Accademia Internazionale Il Convivio, Castiglione di Sicilia (Catania) 2005 Per dichiarazione dell’autore, Tito Cauchi, Il Calendario del poeta, del 2005, da calendario a muro, è stato ricomposto in un quaderno di formato A/5, nella convinzione che lo scadenzario non debba esaurirsi nel corso del solo anno di riferimento. Così presenta, a pagina pari il mese con i relativi giorni, con la particolarità che nelle domeniche sono citati pensieri di autori notevoli del panorama letterario nostrano e internazionale, che da soli conferiscono pregio, basta sceglierne qualcuno per ogni mese; e a fronte, in basso, illustrazioni di F. Vizzari in consonanza del mese di riferimento, merito della scelta editoriale; sempre a fronte, 13 liriche (solo ottobre ne contiene due) oggetto della nostra attenzione. Prima di leggere l’opera di Tito Cauchi il pensiero del fruitore va ai 12 mesi dell’anno, generosi di fenomeni naturali. Il Calendario contiene poesie accurate nello stile, dense d’amore, nelle varie tonalità delle emozioni. Dopo avere letto e commentato il canzoniere d’amore Prime emozioni, raccolta di esordio, l’ammirazione verso il Poeta è sempre nuova e convinta. Gennaio, Sipario. L’ode si presta ad una molteplicità di interpretazioni. La mia attenzione si posa sulle finzioni necessarie ai protagonisti della vita terrena. Si devono nascondere lacrime vere, quando il dolore opprime l’anima e la realtà è dramma. Siamo quei pagliacci che debbono interessare il
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pubblico ingannando sé stessi. Poesia interessante il cui titolo è appropriato all’anno che si apre e che si ripete, e anche alla vita che ci costringe a indossare una maschera tutti i giorni dell’esistenza: “Mi fingo un dolore/ per celare quello intero,/ applaudono, ma nessuno sa che è tutto vero.” La prima domenica dell’anno ha questa voce: “Sono un’ombra anch’io che danza fra polvere di stelle e rugiada” (Anna Addis). Febbraio, Giorno di San Valentino. Mese notoriamente consacrato agli innamorati: “Solo il pensiero di te mi fa vivere/ e ogni momento che trascorre si traduce/ in una carica esplosiva che è racchiusa/ in un detonatore suggellato come puoi fare tu.// Persino il mio spirito si confonde con il tuo.”; il Poeta dichiara una struggente passione erotica non disgiunta da intensa spiritualità. Ben si adatta il pensiero della prima domenica del mese: “La pazienza è una breve parola, ma di una profondità abissale” (Anna Caruso). Marzo, Dissidio eterno. Mese incerto: “Ho una carne che mi pesa/ ché ha tanta fame di passioni/ ho lo spirito che interroga/ ché ha tanta fame di sapere./ …/ È dunque questo il gioco/che l’umana specie subisce?”, a significare la conflittualità interiore dell’uomo. La seconda domenica recita: “O giorno … non stancarti mai di ascoltare. Noi stiamo sempre con Te” (Franca Littera). Aprile, Messaggio d’amore. È festa danzante; la Fata Primavera è applaudita dai bei trifogli bianchi, da cellule e gemme di betulle, ormoni e germogli di pioppi e di olmi. Che bello scrivere fra le mimose mentre fioriscono mandorli, biancospini, ciclamini! Ma l’intero carme del N. rivela orgia selvaggia dei sensi, segnalati da muggiti, ruggiti, barriti, nitriti, cinguettii del mondo animale che parlano di riproduzione … Corpi avvinti e vibranti, umani, negli spasmi dei desideri e del piacere, stanno “comunicando un messaggio arcano// linguaggio non ancora deturpato/ dalle parole che non hanno spiegato.” L’ultima domenica ci ricorda: “Non c’è canzone più bella che quella del Mare che mi culla, sull’ incavo dondolante” (Maria José Fraqueza). Maggio, Miti moderni. Il progresso sveltisce rapporti culturali e commerciali, ma si diventa automi per le novità tecnologiche, che ci distraggono dai veri valori. Tito Cauchi immagina l’incontro fra due fidanzatini, che distorcono il significato del vero amore. Amareggiato il Poeta commenta: “mentre ti stringo fra le braccia/ il cuore una nota marca traccia.”, come se riguardasse la degustazione di continue bevande e merende alla moda. Nella terza domenica leggiamo: “L’opera d’arte ha una sua autonomia assoluta che non deve essere condizionata dalla vita” (Maria Luisa Spaziani).
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Giugno, Sorella sposa. Questo mese è, in molte parti d’Italia, quello dei matrimoni, come quello celebrato dal Nostro (ciò egli ebbe a confidarmi). Sorprende la tenerezza fraterna: “Ci teniamo per mano/ poi m’accorgo d’improvviso/ che asciutto è il tuo viso/ e bagnato è solo il mio.”; ma il cambiamento di stato non turba la coppia, nella condivisione di lacrime dolci e di gioie. Nella terza domenica leggiamo: “Felice il cuore ascolta respirare favole nella notte e lanterne e lucciole accendono i silenzi” (Mina Antonelli). Luglio, Vera mia moglie. Tito Cauchi è molto triste. Non può chiedere venia all’amata consorte. “Perdonami se ti carico solo/ di profonda tristezza/ è la mia pelle che si sgretola.” Il N. è turbato dall’indifferenza del prossimo … Fortunatamente ama ed è riamato. La domenica di mezzo ci assicura: “L’estasi è un punto fisso che annulla la coscienza” (Michele Albanese). Agosto, Mamma no. Una donna non ha portato a termine la gravidanza. Come lei ce ne sono molte. La sottoscritta si chiede: “I figli che cosa sono? Giocattoli da fracassare?” La donna chiede pietà del suo dramma … “la nostra vita mutilata/ fate che non sia/ ancora violentata.” Sa perfettamente di essere giudicata da Dio. Questo è il mese di nascita del Nostro, così è nella biografia. La terza domenica: “Ammira estasiato le bellezze dell’ Universo e inchinati a Lui” (Iole Tuttolomondo). Settembre, Poesia o vetrina. Il Poeta esalta poesia classica e moderna, sia in lingua che in dialetto. Si rivolge a Lei, personificandola in una amante fedele, chiedendole capolavori di cui essere fiero … pregandola così: “Concedimi il dono della freschezza/ ispirami con passione e tenerezza/ fammi sentire l’amore con una carezza.” La seconda domenica ci conforta: “Lasciatemi accoccolata sulla riva del fiume, nel grembo di quest’ora folta di silenzi” (Rina Dal Zilio). Ottobre, Un uomo finito, Rifugio. Poesie brevi di alto concetto. “Un uomo finito è sempre/ qualcosa che sprofonda/ nel vuoto.”, ma il Poeta trova rifugio: “Dopo tante/ peregrinazioni amorose/ il cuore smarrito/ torna a te,/ come al suo arenile.” La seconda domenica: “Io brucio nell’inutilità del mio libero arbitrio che ha perso l’orizzonte” (Giacomo Paternò). Novembre, Francesco mio figlio. Questo mese è notoriamente dedicato ai Morti. La poesia fu resa nota in occasione del primo anniversario del quattordicenne vittima di bullismo (22 novembre 1995), finito sotto i binari di un treno, considerato dal N. figlio suo. Segna una tragedia che ci dovrebbe fare sentire come figli nostri, tutti i ragazzi. “Correrva, correva, trattenuta la mano./ …/ Ferri appaiati
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scorrono come/ due corde di un violino stridulo/ per l’ultima funesta ballata./ …// Sul viso incredula smorfia ‘perché?’/ svanisce all’ultimo conforto/ aleggiando sereno tutt’intorno./ Era mio figlio Francesco.” L’ultima domenica si intona perfettamente: “Tu, viandante, senti la mia voce nel silenzio terribile dell’Immenso” (Giuliana Milone) Dicembre, Natale incerto e invisibile. Questa poesia piacerebbe a Papa Francesco, in quanto francescana. Nonostante la generosità, Tito Cauchi si avvicina a Gesù Bambino invocando la redenzione per sé e per tutti gli uomini in un contesto politico storico attuale cruciale: “Signore, qual è il mio Natale: quello dei poveri/ o quello dei ricchi; quello sotto le bombe/ o quello sotto l’albero. Incerto e invisibile.” Sembra che l’ultima domenica dell’ anno, giorno di Natale, dia la risposta: “La vita spesso dopo breve riverbero si spegne simile a candela” (Maria Stella Brancatisano). Interessante la nota critica nell’ultima di copertina, a firma di Franco Dino Lalli, che già anni prima affermava: “In tutto ciò si vede come il Poeta tenti di cogliere il trascendente nell’immanente contraddizione della vita, facendosi tramite per individuare il tentativo di salvezza ed offrire conforto a questa dolorosa percezione.” Il calendario annuo eterna costumi d’epoca, storia di avvenimenti, inquietudine dei sensi. Tito Cauchi con Il Calendario del Poeta, ha fermato momenti della vita come istantanee, che, fatte scorrere, mese per mese, mettono a nudo un vissuto intimo e sincero con quella costruzione estetica che alleggerisce la tensione dei giorni bui. Silvana Andrenacci Maldini
MARIANGELA DE TOGNI FRAMMENTI DI SALE Fara Editore – Rimini 2013 Mariangela De Togni, di origine savonese, è una suora orsolina che vive tra Piacenza e Rapallo, e fa parte dell'Associazione genovese “Il Gatto Certosino” presieduta da Rosa Elisa Giangoia. E' insegnante, musicista, studiosa di musica antica, e dal 1989 ( ma direi da prima!) è anche un'apprezzata poetessa. Con questa sua ultima silloge, di 36 poesie, suor Mariangela continua nel suo discorso poetico iniziato circa una quarto di secolo fa col libro Non seppellite le mie lacrime. In totale più di una dozzina di libri, con i quali partecipa ai lettori la propria felicità ( pur tra le inevitabili pene della vita) per la presenza nel suo cuore del Dio che consola, che si manifesta attraverso la Bellezza della Natura.
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Anche lei soffre nel suo animo i problemi grandi e piccoli che, in varia misura e con forme diverse, assillano le creature umane. Solo che lei non cerca la soluzione ai misteri della vita ricorrendo alla vita stessa , non si spiega l'immanente con l'immanente. Non ricorre ai modi terreni di pensare e cercare la verità, ma di fronte al mistero, che non può non toccare anche il suo cuore e la sua mente, ella, fiduciosamente, aspetta. Un aiuto che non può non venire che dall'alto. “ Beduini dell'eterno Vestiti di foschia come fantasmi d'una carovana di sabbia siamo anche noi. Beduini dell'eterno accampati sotto le tende della vita. E attendiamo. Che la stella ricompaia nella notte a guidarci sulla pista del nostro destino” Lei scrive poesie ( salmodie?) perché non riesce a farne a meno, con lo slancio e il trasporto di chi a Dio si è dedicato. Ho detto “salmodie” intendendo le sue liriche come salmi da cantare e accompagnare con strumenti musicali, ma le sue parole sono già impregnate di ritmo e di musicalità. Renzo Montagnoli pone l'accento. La poetessa ligure Maria Grazia Bertora, dal suo canto, ha scritto che la lettura delle composizioni di suor Mariangela “ andrebbe fatta nel silenzio perché la musica dei versi, il “salmodiare”, si colga come nella sacralità di un tempio o dell'arco del cielo, andrebbe fatta in sequenza, di composzione in composizione, per ritrovarsi in una vasta luce, in cui i poetici oggetti sono immersi...E' una poesia che con colta e raffinata sapienza pacifica l'anima, la prepara e la conduce all'incontro col Sacro.” Per il critico letterario Rosa Elisa Giangoia, già docente al prestigioso Liceo classico D'Oria di Genova, narratrice e poetessa oltre che critico, che si è espressa più volte favorevolmente sulla poesia di questa autrice ( in Internet, con recensioni e presentazioni in pubblico a Genova, Roma, etc.) questa “incessante salmodia percorre tutto il dire poetico, in cui la sensibilità dell'autrice penetra nello spirito profondo della natura, nelle sue pluralità fenomenologiche di mare, terra, aria, flora e fauna, per percepire con immenso stupore...le sensazioni di manifestazioni del divino ed esprimerle attraverso parole che abilmente costruisco-
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no le liriche, sempre pervase di una soffusa musicalità...” Mariangela De Togni è in perenne ammirazione di fronte alla bellezza meravigliosa della Natura nella quale siamo tutti immersi ( anche se a volte ce ne dimentichiamo...). Ella vede nella Natura una trasparente epifanìa della bellezza e onnipotenza di Chi, questa Natura così meravigliosa, l'ha creata dal Nulla. (Anche se non nelle forme visibili e sperimentabili oggi, ma come frutto di un'evoluzione alla Théilard de Chardin...mi permetto di aggiungere). Anche Renzo Montagnoli pone l'accento sulla “continua meraviglia che sgorga dalla penetrazione della natura” e sulla “ profonda devozione per Chi ha creato questa meraviglia. E le parole fluiscono armoniose, si susseguono, si concatenano, intrise di stupore, dando luogo a un'atmosfera sospesa che avvince e convince il lettore. Sembra che sia l'anima a parlare, a raccordarci con lo spirito immenso della natura, un'energia inesauribile da cui è piacevole farsi travolgere...” E qui non si può trattenere il pensiero dal correre indietro negli anni, fino agli albori della Letteratura Italiana, al Duecento e a Francesco d'Assisi, e al suo “Cantico delle Creature” con cui viene esaltato il Creatore attraverso l'esaltazione delle Creature. Ma la temperie storico-culturale è del tutto diversa. Suor Mariangela vive oggi tra di noi, in mezzo a noi e ad una Natura che è anche violata e calpestata, in nome di una tecnologia che per servire l'uomo ha finito, in gran parte, col deturparla e inquinarla. Nella poesia di Mariangela De Togni non c'è quasi la figura umana. Se si fa un'eccezione per un richiamo alla propria madre e, in un'altra poesia, alla povera infelice ragazzina di nome Yara ( emblematico richiamo, del resto, ad un certo comportamento umano spregevole imperante), nella poesia della De Togni ci troviamo di fronte ad un “paesaggio senza figure”, come nei quadri di certi deliziosi pittori che dipingono quasi esclusivamente paesaggi o nature morte, ignorando la figura umana. In certi casi ( ne conosco personalmente) si tratterebbe di un rifiuto programmatico, culturale, di rappresentare una certa umanità che si sarebbe venduta anima e corpo alla tecnologia fine a se stessa, inquinatrice e distruttrice. Ma credo che nel caso di questa poetessa si tratti soltanto della conseguenza della forza esclusiva del rapporto diretto fra la donna consacrata a Dio e lo stesso Dio, che resta pur sempre il salvatore dell' Umanità tutta intera. Luigi De Rosa
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ANTONIA IZZI RUFO SCAPOLI E IL SUO DIALETTO Ed. EVA, Venafro, 2013 Bene ha fatto l’’ancipite’ scrittrice e saggista molisana – scapolese e castelnuovese, ad un tempo – a redigere il grazioso ed interessante libretto – ‘Scapoli e il suo dialetto (Ed. EVA, Venafro, 2013) – dal quale si evincono tantissime notizie non soltanto sull’idioma dialettale, ma anche sulla storia del suo paese di nascita, Scapoli, appunto, in provincia di Isernia. Prefato da Amerigo Iannacone, noto linguista della nostra regione, il quale pone, giustamente, l’accento sulla considerazione secondo cui “sì c’è tanto da scoprire, da conservare, da riportare alla luce, da riproporre. Il dialetto, le tradizioni locali, usi e costumi che si vanno perdendo, oscurati se non cancellati da una tecnologia spesso eccessiva e ossessiva”, il volumetto – dopo l’esordio con una lunga lirica, dall’Autrice dedicata al paese natìo e alla “Catena montuosa,/ ricca di boschi” - entra subito nel vivo del suo lavoro con alcune doverose osservazioni grammaticali e di pronunzia relative al vernacolo in oggetto. Antonia Izzi inizia, opportunamente, a nostro giudizio, la propria fatica, con l’enumerazione di alcuni proverbi, presenti un po’ in tutto il Molise – e se vogliamo, con qualche variante, un po’ in tutt’Italia – che, com’è noto, rappresentano il sale della vita e la sapienza della gente, spesso quella più umile, e proprio per questo più schietta. Inutile rilevare che, pur essendo nato in un altro paese della medesima regione, mi sono trovato a mio agio nel gustare le massime popolari riportate dall’Autrice; sentenze identiche nella sostanza, in entrambi gli idiomi, salvo il suono della ‘e’, quasi sempre muta, e qualche comprensibile differenza di pronuncia. Insomma, il linguaggio è abbastanza uniforme in tutto il Molise e su tale considerazione ho avuto modo di parlare, in altre occasioni, usando l’espressione ‘unità linguistica’ della regione. Naturalmente, l’Autrice ha riportato solo una parte dei proverbi e delle espressioni gergali del suo paese, ma è chiaro che essi risultano assai più numerosi sebbene, oggi, la fonte di tale sapienza popolare sia in mano, speriamo ancora per molto tempo, ai più anziani, considerato – e il fenomeno, purtroppo, è presente in tutta la penisola – che i giovani, da una parte, ignorano il proprio dialetto e, dall’ altra, si esprimono in maniera ibrida – in una neolingua, cioè, che è un innaturale impasto d’italiano e di dialetto oppure una congerie di segni presi dalla matematica ( +, -, =, ×, etc., specie negli sms). Leggendo il saggio della Izzi, ho rivissuto – risie-
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dendo in un’altra regione – tutti i termini e i modi di dire appresi nell’infanzia, e mai dimenticati, visto che conosco bene il mio vernacolo quantunque spesso e volentieri, lo parli mentalmente interpretando il duplice ruolo degl’interlocutori ‘io’-‘tu’. Ad un certo punto, l’Autrice cita il proverbio “Chi ze fa abbe…” ; ebbene, anche nel mio paese di nascita quando qualcuno si meraviglia di alcunché esclama: “Ze ne fa abbe ” (le tre ‘e’ sono mute), oppure “Ienne menenne” (andando, tornando) scapolese, nel mio dialetto resta sì “Iènne menènne”, ma con l’aggiunta – gioco di parole - “genecchiùne, melùne, cuegliènne” (ginocchioni, meloni, cogliendo); nella fattispecie, si leggono solo le ‘e’ accentate, cioè aperte, mentre le altre restano mute. Anche il detto scapolese “Me so ‘nginguita” (mi sono rattrappito), nel mio idioma diventa “Me so ‘ngenquite”; in questo caso, le due ‘e’ restano mute. Qualche altro esempio. “Che cazze, nen te putive cumbenà ne puche meglie?” (non potevi aggiustarti un poco meglio), scapolese, nel mio resta quasi uguale anche se un po’ più breve:” Che cazze nen te petive vesctì mèglie?”. Ancora, ”Nen me ne tè” (non ho voglia, che resta identico); “Statte attint’a glie citre” (attenzione al bambino), scapolese, diventa nel mio dialetto “Statt’éttiénte ‘u cìtele”. ‘Cìtele, vocabolo usato anche da D’Annunzio nei suoi ‘Racconti’ . Infine, alcuni altri modi di dire, visto che i proverbi sono tanti, ma non tutti, riportati dall’ Autrice per ovvi motivi. “Quigli’ome nen z’abbotta mai”, scapolese, diventa nel mio “Quill’ome nen z’èbbotte mai” e cioè non si sazia mai. A questo punto, la scrittrice elenca alcune parole che per la loro pregnanza sono quasi intraducibili. “Glie làpeze”, diventa nel mio “ ‘U làpeze” (lapis, matita), “Glie sceciature,” diventa “ ’U hiehhiefuoche” (soffietto), con tutte le ‘acche’ aspirate e di difficile pronunzia. Qualche altro esempio. “La lena” diventa “A léne” (legna), “La cuttora” diventa “A cuettore” (la conca per l’acqua), “Glie frusce” diventano “’I frusce” (le foglie secche), “Maccatùre” diventa “Macchéture” (largo fazzoletto), “A zeffunne” diventa “E’ zeffùnne” (in grande copia), “Petrezìnere” diventa“ Petrezénnele” (Prezzemolo, l’accento cade sulla ‘é’ acuta) ,“Ciammaruca” diventa “Ciammériche” (lumaca) e così via. Sono, inoltre, elencati nel libro termini di particolare significanza come, ad esempio, “Iettecà”, nel mio dialetto “Iettecà” (le due ‘e’ sono mute) e vale a dire sorprendersi all’improviso. Esempio: “Mè fatte iettecà”, mi hai fatto spaventare), “Mbonne’”, bagnarsi, spesso per la pioggia: nel mio vernacolo, “Me so tutt’’mbusse”, ovverosia mi sono tutto bagnato.
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Altre espressioni significative scapolesi: “Puzz’ esse ‘mpise”, nel mio gergo “Pozz’esse ‘mbise” ( ti possano impiccare), “Te puzze spatellà” (Che tu possa precipitare in un burrone), diventa, in maniera più estensiva, “Te puozze spatellà”, le tre ‘e’ sono mute (Che tu possa cadere e romperti una gamba o un braccio) .Un ultimo detto molto usato, ancora oggi, dagli anziani del mio paese, suona testualmente: “Falle pe l’àneme du Purghétorie” (solo la ‘é’ con l’accento acuto si legge) che non ha bisogno di traduzione. In scapolese diventa, ma è praticamente identico, “Falle pe l’anema de le Purgatorie” Chiudono l’interessante volumetto della nostra scrittrice, alcune filastrocche ed alcune storielle, sempre in dialetto scapolese, che fannno bella mostra di sé a conferma dell’importanza di tali iniziative che, a dispetto della pravità dei tempi, cercano di salvare il salvabile in questo mondo che tutto travolge e tutto distrugge. Un consiglio alla nostra scrittrice: rediga, in una speriamo prossima seconda edizione, un testo più ricco e più corposo affinché i lettori, scapolesi e molisani in genere, possano abbeverarsi ad una fonte più ricca e più profonda costituita dall’ indispensabile patrimonio culturale della lingua dialettale. Lino Di Stefano
GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI LE MIE DUE PATRIE Il Croco, I quaderni letterari di Pomezia-Notizie, dicembre 2012. Ricevo via posta celere, di prima mattina, il libricino di Giovanna Guzzardi e cedo alla tentazione dell’immediata lettura. Esercizio interessante questo di Giovanna, in cui compaiono una serie di lavori che già conoscevo ma che ora, ordinati in nuova veste editoriale, evidente frutto di precise urgenze e sequenze espressive, vengono ad assumere nuove e più definite valenze. In sé il saggio antologico (perché tale è a mio avviso più che ‘opera’), fra compiuto e incompiuto, rappresenta ciò che dobbiamo intendere come ‘letteratura d’emigrazione’ nel senso più lato del termine. Un percorso di venti poesie in cui identifichiamo un susseguirsi di tematiche proprie di questa letteratura che ancora oggi, ad oltre mezzo secolo di distanza dalle realtà che prime la generarono, mantiene inalterati tutti quegli elementi tipici degli scritti d’emigrazione, elementi da molti, se non dai più fra gli ‘addetti ai lavori’ considerati negativamente ma senza i quali quella stessa letteratura non avrebbe modo di esistere in quanto ne sono peren-
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nemente l’anima. Quello che Giovanna Guzzardi ci presenta è anche un percorso progressivo che vive dei riflessi dell’esistenziale, dell’ormai acquisito. Ciò che lega Australia bella ad Alzheimer al di là di esoteriche valutazione è soprattutto quotidianità, realtà vissuta da migliaia di quei forti, uomini e donne, che ebbero a loro tempo il coraggio d’affrontare l’ emigrazione ed andarsi a costruire un’esistenza al di là degli oceani. Oggi la tragedia di una dignità acquisita e tragicamente rubata all’individuo dall’impietosa malattia, testimoniata dagli spenti sorrisi di chi assiste, dal vuoto che leggiamo negli occhi di chi vede senza più vedere. Ogni poesia diviene così tessera dell’infinito mosaico esistenziale. Memorie, nostalgia, rimpianti e tragedie qui non sono parte di inventiva ma di riferimenti autobiografici radicati nel reale del quotidiano che resiste imperterrito all’usura degli anni misurata sulla memoria dei volti delle persone amate, conosciute, nostre. È la poesia del comune vivere assieme, di quella presenza per cui tutto viene condiviso e vissuto in prima persona, in cui tutto ci appartiene incluse le giornate degli altri. Il mondo dell’emigrazione traspare nei versi antologici di Giovanna Guzzardi senza più avventare: la linearità di pensiero a cui corrisponde una parimente lineare geografia linguistica sono il segno maturo che sottintende alla scelta. Piero Genovesi La Trobe University Melbourne
MASSIMO FRANCO LA CRISI DELL’IMPERO VATICANO Mondadori Edizioni 2013, pagg 140, 17,50 € Attraverso il volume “La crisi dell’Impero Vaticano” (Edizioni Mondadori, 2013, pagg. 140), vengono analizzati sotto vari aspetti i motivi che hanno fatto prendere al Papa Benedetto XVI la grave e straordinaria decisione di dimettersi. Nella copertina del libro è riportato il seguente commento: “Le clamorose dimissioni di Benedetto XVI avvengono alla fine di una lunga sequenza di scandali che hanno travolto il Vaticano dalla morte di Giovanni Paolo II a oggi. Un Vaticano spinto quasi a forza dalla parte opposta di un simbolico confessionale. Costretto a difendersi, a confessare "peccati" veri e presunti. E non solo davanti a se stesso ma anche ai suoi fedeli disorientati, al tribunale dell'opinione pubblica occidentale e a quello delle istituzioni finanziarie internazionali. La Chiesa, "maestra di vita" per antonomasia, rischia di essere con-
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finata dalla propria crisi di identità nella posizione scomoda e inedita di "imputato globale". Gli scandali e i veleni che hanno toccato alcune delle persone più vicine a Benedetto XVI sono dunque percepiti come il sintomo di una decadenza allarmante. Al punto che fra gli avversari si parla del Vaticano come di un "secondo Cremlino", destinato alla stessa rovinosa caduta dell'impero sovietico dopo la guerra fredda. Massimo Franco analizza le cause profonde e le implicazioni di un affanno emerso con il tramonto della Seconda Repubblica berlusconiana, legata alle gerarchie ecclesiastiche da una lunga alleanza di fatto: una stagione da cui il cattolicesimo politico riemerge diviso e debole, dopo avere cercato invano di ricompattarsi.” Il libro è composto da un introduzione e da 9 Capitoli. Le dimissioni di un Papa sono un fatto insolito tanto che bisogna risalire al 1294 per trovarne uno analogo, cioè le dimissioni di Celestino V, che Dante considerò all’Inferno come colui che “per viltade fece il gran rifiuto”. Eppure il precedente Papa Giovanni Paolo II aveva in alcune sue lettere scritto circa la possibilità per un Papa di dimettersi, e cioè in caso di malattia gravissima o in caso di impossibilità a svolgere in maniera adeguata il suo ministero. Molto probabilmente un motivo scatenante per le dimissioni di Papa Benedetto XVI rimane la sensazione sgradevole che dietro le Sacre Mura abbiano trovato un habitat ideale i cosiddetti “Corvi”: personaggi spregevoli che in certi tribunali malati di faide e intrighi fanno uscire in modo anonimo notizie riservate e diffamanti, e che in Vaticano hanno agito per danneggiare l’uno o l’altro Cardinale e perfino Benedetto XVI. E quando a fine maggio del 2012 fu arrestato Paolo Gabriele, “l’aiutante di camera” di Benedetto XVI, si ebbe la sensazione netta che fosse stato trovato “forse” un colpevole, ma certo non “i” colpevoli delle fughe di documenti arrivati di volta in volta al giornalista Gianluigi Nuzzi, ad alcuni quotidiani e settimanali, alle tv. In più la sua carcerazione avvenne a ridosso del siluramento di Gotti Tedeschi. Nel Capitolo 2 “Lo spread, un peccato cattolico” si tratta della diversa concezione (che si tramanda fin dai secoli passati e precisamente dall’epoca di Martin Lutero) dell’economia da parte dei Paesi del Nord – Europa, a prevalenza di religione protestante luterana, e quelli del Sud – Europa di religione cattolica. I paesi del Nord Europa sono risparmiatori, mentre quelli del Sud Europa sono cicale. Il cattolicesimo viene considerato come colpevole e produttore di debito pubblico. E’ in atto una guerra economica fra Nord e Sud Europa, dopo la Guerra
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Fredda in cui il contrasto è stato fra Est e Ovest dell’Europa. Nel Capitolo 3 “La lobby anti-Obama” vengono trattati i rapporti sofferti per le diverse visioni ideologiche fra gli U.S.A. ed il Vaticano: come esempio di noti che Obama è favorevole all’aborto, alle coppie di fatto… Poi in America sono emersi vari casi di pedofilia da parte di preti cattolici. Nei capitoli 4 “Nel torrione dello Ior” e 5 “Il mistero di Gotti Tedeschi” si tratta delle attività finanziarie dello Ior, Ente no-profit, fondato da Pio XII nel 1942, ed in particolare viene trattata la vicenda di Ettore Gotti Tedeschi, nominato Presidente nel 2009 al posto di Caloia, vista la sua vicinanza a Bertone, al Ministro Tremonti, all’Opus Dei, presente nel Consiglio di Amministrazione della banca San Paolo Imi, ecc.., e poi dimissionato con un documento ai limiti dell’insulto il 24 maggio 2012. Era come se allo Ior non ci fosse stato un semplice avvicendamento, ma fosse combattuta una guerra di liberazione contro un nemico. Eppure Gotti Tedeschi aveva tentato il salvataggio dell’Ospedale San Raffaele di Don Luigi Verzè, aveva preparato un rapporto riservato per risolvere il problema della tassazione degli immobili della Chiesa, sui quali l’Unione Europea chiedeva all’Italia provvedimenti rapidi, minacciando multe multimilionarie in euro. Aveva plasmato con altri la legge di riforma dello Ior, per accompagnare il Vaticano nella “lista bianca” degli Stati affidabili sul piano internazionale: il Vaticano nel 2011 chiese di essere sottoposto alla valutazione del Comitato Europeo di antiriciclaggio, Moneyval. Nel Capitolo 6 “Sindrome italiana” emerge che nella Chiesa vi sono varie fazioni, collegate alle vicende politiche italiane sia di destra che di sinistra. Nel Capitolo 9 “Primavere arabe e pulizia religiosa” la Chiesa entra in crisi in quanto al fine di garantirsi una protezione contro le persecuzioni aveva rapporti diplomatici consolidati con i regime precedenti alle rivoluzione, come con Gheddafi, Mubarak. Le crisi arabe hanno minato gli equilibri di civile convivenza della Chiesa in queste regioni. E’ un libro che si legge piacevolmente e rapidamente per l’attualità degli argomenti trattati. Giuseppe Giorgioli
LILLI GRUBER I MIEI GIORNI A BAGHDAD Versione rilegata: Rizzoli Edizioni 2003, pagg 324, Euro 16,00 €, ISBN: 88-17-87317-9 //Edizione brossure: Rizzoli Edizioni 2004 - Collana: BUR Saggi, Pagine: 336, Prezzo: 8,50 euro ISBN: 17002738
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Igor Man lo definisce: “Un asciutto controreportage di guerra che rompe i vetri del conformismo giornalistico”. Il libro è composto da una introduzione, da 27 Capi toli e da un Epilogo. La giornalista Lilli Gruber il 23 gennaio 2003 arriva a Baghdad come inviata speciale del Tg1 e vi rimarrà per quasi tre mesi, raccontando nei suoi servizi gli ultimi sviluppi della crisi irachena e i giorni drammatici della guerra. E’ il primo grande conflitto del terzo millennio nella ricostruzione di una testimone d’eccezione, che come in un diario racconta gli avvenimenti di quei giorni drammatici. "La guerra ha assunto una nuova forma: finita la carica vittoriosa del più potente esercito del mondo attraverso il deserto, nella primavera del 2003; finita l’avanzata trionfale in un paese che avrebbe dovuto accogliere i soldati stranieri come liberatori; finite le ombre verdi che entravano ogni sera nei nostri salotti attraverso i piccoli schermi televisivi per mostrarci una guerra senza cadaveri filmata all’infrarosso da intrepidi giornalisti. Le immagini che ci giungono dall’Iraq sono di tutt’altro genere. Ostaggi trucidati. Corpi fatti a pezzi da autobomba. Città assediate e bombardate. Prigionieri torturati. Liberatori, con elmetti e giubbotti antiproiettile, asserragliati nelle loro basi. Un’esplosione continua di violenza." Così ha dichiarato Lilli Gruber, luglio 2004. Nel suo libro, Lilli Gruber racconta tutto ciò che ha visto in Iraq. Parla della paura che ha provato davanti ai bombardamenti e alla minaccia di una carneficina, e della passione per la notizia che è più forte della paura. Approfondisce l'antefatto di questa guerra, dall'ascesa del nazionalismo arabo del partito Baath ai lunghi anni dell'embargo, e affronta alcuni temi decisivi: la guerra come metodo per risolvere le controversie internazionali (o per esportare la democrazia), l'atteggiamento degli Stati Uniti, superpotenza unica, e le conseguenze sull'intero Medio Oriente della nuova situazione in Iraq. Nella sua lucida analisi, fatta con imparzialità, il conflitto iracheno diviene lo spartiacque che segnerà per molti anni la politica mondiale. Nel Capitolo 6 “Nel mirino di Bush” è descritto in maniera precisa e puntuale il discorso di Bush del 29 gennaio 2002 in cui Bush dichiara che l’asse del male è costituito da Corea del Nord, Iran e Iraq. In questo discorso Bush preannuncia la guerra contro l’Iraq perchè dotato di armi di distruzione di massa. Nelle settimane di dibattito che precedono il voto del Consiglio di sicurezza dell’8 novembre 2002 si assiste ad uno scontro diplomatico senza precedenti fra gli Stati Uniti e la Francia. Si insinua
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il sospetto che Bush voglia fare una guerra per il petrolio anziché per il pericolo che costituisce l’Iraq dal punto di vista delle armi che possiede. Nel Capitolo 20 “Hotel Palestine” si descrive l’attacco degli Americani all’Hotel Palestine, quartiere generale dei giornalisti, fra cui la Gruber, e tutte le polemiche che seguirono. E’ una ricostruzione drammatica: alcuni giornalisti perdono la vita. La notizia che l’albergo è stato colpito dagli americani fa presto il giro del mondo. I militari statunitensi fanno dichiarazione arroganti anziché scusarsi affermando falsamente che sono stati colpiti da fuoco nemico proveniente dall’Hotel. Lilli Gruber, giornalista e scrittrice, prima donna a presentare un telegiornale in prima serata, dal 1988 ha seguito come inviata per la Rai tutti i principali avvenimenti internazionali. Dal 2004 al 2008 è stata parlamentare europea. Dal settembre 2008 conduce la trasmissione di approfondimento Otto e mezzo su La7. Gli ultimi bestseller pubblicati con Rizzoli sono Chador (2005), America anno zero (2006), Figlie dell’Islam (2007), Streghe (2008), tutti disponibili anche in Bur, e Ritorno a Berlino (2009). Giuseppe Giorgioli
FULVIO CASTELLANI OLTRE IL SIPARIO DELL’ECO Ursini edizioni. Catanzaro. 2012. Pp. 104. € 10.00 Oltre il sipario dell’eco, divisa in due parti una in lingua e l’altra in vernacolo friulano, è un’opera vasta, complessa, intrecciata di versi assuefatti a narrare storie di vita, ben costruiti su schemi di ampia sonorità, dove si alternano misure varie ad accompagnare le oscillazioni del sentire. Quaternari, ottonari, novenari o settenari, anche endecasillabi spezzati in versi di minor quantità, a tradursi in musicalità di piacevole avvicinamento; di simbiotica fusione per dare forma al logos della poesia, dove l’ armonia del verso contrasta, spesso, con lo stridore di una filosofia che denuncia la ruggine dell’ esistere: Ogni stazione è un branco di lupi, di croci di flauti rochi. E la mia corsa diventa un cappio, un fumigante incendio d’assenze che brulicano zoppe sulla bianca infinità di un nulla insistito (pp. 26). Sì!, perché, alfine, emerge una visione amara sulla vita, sul nostro esser/ci, sulla nostra vicenda, sul
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rapporto col tempo, e persino sulla poesia e sulla parola. Un tempo inaffidabile, incontrollato e incontrollabile, che fugit verso il vuoto, e fagocita tutto con la sua caparbia, e la sua irrefrenabile costanza. D’altronde il presente è inafferrabile, e determina un senso di sconforto per l’impotenza dell’uomo di fronte al tutto. Non è detto, però, che il nostro cada in un nichilismo assoluto, o in un pessimismo senza soluzioni. Si può dire che la sua storia è fatta di ascese e discese, di andate e ritorni. C’è in Castellani una forza reattiva, una reazione, appunto, alle sottrazioni dei giorni e alle insoluzioni di questo breve tratto che ci è toccato. E lo troviamo lì a scalare le vette superbe dell’esistere disposto anche al tu per tu con le questioni esistenziali, azzardando lo sguardo oltre Il sipario dell’eco, oltre la vita stessa, nel tentativo di trovare un’alternativa – anche se improbabile - all’amara soluzione del fatto di nascere umani. E anche se la parola impegnata in nessi per combinazioni elevate non è altro che “cenere, e ancora cenere”, e anche se la poesia stessa è una risultante di tanti slanci emotivi desinati a finire nel calderone dell’oblìo, l’autore, in fin dei conti, dà tutto se stesso a che quelle creature, quelle polisemiche significanze, o quelle tensioni orfiche, si embrichino in risultati di concreta resa poetica per sottrarre la bellezza agli annichilenti artigli del tempo. Prima d’aprirsi al canto si dilata la parola al profumo ultimo e primo di un respiro trasparente, ondulato… (…) E il passo diventa semina, attimo perenne, racconto gioioso, sinfonia di primavera… Quasi un’arpa che traduce germogli di memorie, effluvi caldi di un plenilunio che lievita inusuali ebbrezze di stupori e d’azzurro (pp. 37). E’ quello che ci appare da un impatto emotivo e prosodico col verso. Un verso nutrito di forza evocativa che sottintende intenti di memoria foscoliana, di ambizione storicistica e di dolci illusioni. Perché alfine è questo che si chiede ad una buona poesia, soprattutto quando si è coscienti della sua validità, e del grande lavoro impiegato per la sua realizzazione. Una scrittura poetica che è il risultato di una ricerca continua, attenta, puntigliosa nell’ uso del verbo e delle sue iperboliche allusioni. Non si può lavorare tanto per ciò in cui non si crede. E il poeta lo sa che l’atto creativo è frutto di questa ricerca. Non è che sia opera di una ipotetica musa
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vagante che ispira quando uno e quando un altro dei tanti fortunati. E’ l’inverso. L’atto creativo è frutto di cesellature ed intarsi costanti, di tanti accorgimenti che determinano la storia di un autore. Ne danno un’idea chiara. Naturalmente la tecnica e il lavoro devono essere affinati dalla unicità artistica. Ed è ciò che dimostra il nostro con i suoi versi di affabulante sonorità e di una tessitura di alto spessore significante. Sì, di importante significante metrico. Dacché il pensiero, qui, trova sempre la sua netta equivalenza col dire; un dire che si fa corpo, involucro aderente a rivestire ogni palpito interiore. Ed è qui l’aspetto principale, la maggiore rilevanza a cui attendere: la parola, il sintagma, gli stilemi, la versificazione: tutto ciò che contribuisce a stilare il tessuto formale di questa scrittura. Intendendo come forma quell’insieme desanctisiano, inscindibile insieme fra corpo e anima. E quando il poeta si sta: chiedendo perché il tempo se n’è andato e l’alba ora sia soltanto una carezza assente un fruscio di foglie secche di alberi spogli, di colori stinti (pp. 31), e si accorge che i giorni si sono persi in un mare d’ indifferenza, non è che si lasci contaminare da quei geometrici messaggi striminziti di un pallido autunno residuale di generose stagioni, ma reagisce aggrappandosi ad un memoriale che si fa alcòva, alba rigenerante, in cui rifugiarsi, e da cui trarre nuova linfa per nutrire la vita: E allora sfrondo il pensiero e aspetto che l’erba rinasca avvinta all’indugio del tempo. Così il mio approdo al sorriso ritorna col flautare del vento e non ferisce l’infanzia impigliata all’ingobbirsi della sera (pp. 50). Certo c’è in questa plaquette una strisciante malinconia e più ancora una visione negativa del mondo e del concatenarsi dei fatti. E la natura stessa affianca il poeta venendogli in soccorso nella concretizzazione degli stati d’animo. Ed il gallo, il cane, le campane, il buio, gli autunni, la sera, le nude case, si fanno involucri di segmenti d’animo che trovano forza in simboli di grande impatto visivo. Linguaggio altamente simbolico quello di Castellani. Un realismo lirico di grande resa. E forse è proprio in Passi leggeri che il poeta evidenzia, con maggiore presenza, l’energia rappresentativa dei messaggi naturali; c’è qui tutto l’ esplodere di un panismo esistenziale di evidente impatto umano; di una pièce dai toni epico-lirici: E’ uno stormire di fronde
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il canto del vento a sera. Coro di profumi che sale dai prati sfalciati al caldo brusio dell’estate. Attende la luna e contempla da lontano, dubbiosa alla soglia della notte… Si è fatta breve la mia strada e l’angoscia mi assale avvelenando passi leggeri di bimbe che sorridono al nonno (pp. 46). Non vi è certo niente di pastorelleria agreste o di arcadico ozio letterario. Ma tutto è finalizzato ad un’analisi psicologica intima e profonda. Ed ogni elemento è componente inscindibile di tale introspezione: dalla luna a contemplare dubbiosa alla soglia della notte, dalla brevità della strada, al sorriso delle bimbe. Quanto vicino questo quadro con tutti i suoi componenti al dipanarsi della vita e alle perplessità dei tanti suoi perché irrisolti. Ma forse sta in questi versi, che mi piace citare per ultimi, tutto il patema esistenziale di Castellani: la realtà, il rimpianto, la memoria, l’assenza del sole: Potessi almeno ora riscrivere il diario correndo per prati e spiagge con l’aquilone del nonno e i piedi scalzi, rossi di gioia. Ma il nonno l’hanno ucciso ed io zoppo ormai di luce, di sole, d’amore (pp. 19). Conclusione amara, ma, se si vuole, indice di grande attaccamento alla vita. A questa vita che ci sfugge, ma pur sempre vera e sacrosanta, anche quando si fa memoria. Anche quando t’investe con tutta la sua eccessiva portata di affetti e profumi giovanili. Nazario Pardini
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 13.08.20\3 Governo al palo per mesi per l’IMU: abolirla o riformularla? E che non si vogliono prendere accordi nero su bianco, a livello locale o nazionale. Per gli inetti politici, i problemi non vanno risolti, ma lasciati aperti, affinché ci si possa sguazzare dentro per convenienza, al momento opportuno. Domenico Defelice
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SUSANNA TAMARO OGNI ANGELO È TREMENDO Bompiani edizioni, 2013 - Pagg. 268 Intitolare un’aurtobiografia è la cosa più difficile di questo mondo. Il titolo di un libro, non importa a quale genere appartenga, può determinare il destino stesso dell’opera che ci si appresta a leggere. In ogni modo, che il futuro del testo sia un successo planetario o un fiasco di portata storica, la sola cosa che conta è che il titolo del libro deve dire tutto senza dire niente, dando un’idea più o meno precisa dell’argomento, ma senza svelare il finale, incuriosendo i lettori sin da subito. La scelta può essere facile o no per un romanzo, d’amore o d’avventure, o per un’antologia di racconti o per un testo di saggistica… ma un’ autobiografia? Ci sarebbe il precedente, da non sottovalutare , di S. Agostino: Le mie confessioni. Ma a parte che è stato replicato anche nel titolo di un celebre romanzo (Le confessioni di Felix Krull, capitano d’industria), resta comunque un titolo forse troppo pesante ed impegnativo. Un’autobiografia significa offrire al pubblico una fotografia di sé stessi nudi innanzi allo specchio. E’ già difficile guardarsi nudi allo specchio da soli, notando – ed accettando! – tutte le imperfezioni del nostro corpo e della nostra anima… figurarsi fare una foto in tal senso e distribuirla in giro a parenti, amici, vicini di casa e colleghi d’ufficio! Anche limitandosi solo al nostro corpo, non è affatto detto che lo specchio (e con esso, chi riceverà la foto) stabilirà, senza discussioni di sorta, che chi si riflette è il più bello del mondo, lo strafico per eccellenza! Pertanto, la scelta del titolo di questa autobiografia è davvero notevole, da parte della gentile Autrice (tanto più che ci sono osservazioni interessantissime circa il Dio della Bibbia), anche se, leggendo questa storia, non è facile stabilire chi è l’angelo cui la Tamaro si riferisce. Nipote di Italo Svevo (La coscienza di Zeno; Senilità) ed ebrea per linea materna, Susanna Tamaro ha avuto un’infanzia ed una giovinezza tali da far sembrare Dallas e Falcon Crest, celeberrime saghe familiari made in USA degli Anni Ottanta, delle semplice favolette per bimbi dell’asilo. E mentre un autore, premiato con lo Strega in anni recenti col la storia La solitudine dei numeri primi, ha scritto solo un romanzo, l’ottima Susanna l’ha vissuto in prima persona! Si trattava di una famiglia di soli figli unici: la madre, egoista e indifferente, che aveva una vita personale da vivere e non intendeva dividerla con figli e marito; il padre, che aveva la colpa di non essere morto al posto di una sua sorella, amatissima in famiglia, e che non concepiva una vita normale,
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con un lavoro onesto da fare in ufficio o al negozio, per portare i soldi a casa; un fratello maggiore, De Sade in erba, pronto agli esperimenti più mostruosi per vedere quanto e come la sorellina Susanna avrebbe potuto sopportarlo e sopravvivere in una casa che, in definitiva, era un semplice motel ove si mangiava e si dormiva… Siccome, nonostante le convinzioni universali, esiste davvero un Dio amoroso che si occupa dei più deboli, Susanna un po’ d’affetto lo trovò, grazie alla nonna e ad una bambinaia che si occupò di lei e del fratello per tre anni e a un paio di cani che le diedero tanto amore, finché, come la bambinaia, non furono considerati di troppo ed eliminati… Vivere la vita infernale che ebbe la Tamaro (poco cibo da mangiare e un gelido deserto spirituale, quale surrogato della mancanza di affetti) non è cosa auspicabile nemmeno al peggiore dei nemici. Sembra un romanzo dell’Ottocento, con solo figure negative intorno al protagonista, o un romanzo moderno, dell’orrore, per meglio impressionare i lettori… Eppure è storia vera! Ma nonostante tutto ciò, la Tamaro è sopravvissuta e invece di finire alla neurodeliri o all’istituto Muccioli, è diventata, nonostante tutto, un’adulta equilibrata, assennata e ricca, interiormente, di osservazioni interessantissime, che ha cercato di esprimere nei suoi testi, mettendo a nudo la sua anima e riproponendo le sue esperienze di vita, in questo o quel racconto, quale spunto di riflessione per i lettori. L’illusione di Rousseau – cioè dell’uomo che nasce naturalmente buono – la lascio agli spiriti ingenui, a tutti coloro che non sono stati mai costretti a guardare in faccia la vera natura dell’essere umano. Il male ha natura volatile, leggera, incolore e invisibile, penetra ovunque senza alcuno sforzo, invade le persone senza che se ne accorgano. Da questa assenza di contemplazione interiore, nasce il ricorso al capro espiatorio. Il male non è in me, ma nell’altro, per questa ragione va perseguitato e annientato (dalla pag. 199). Aborriva (qui parla di sua nonna) come me il moralismo e, come me, detestava l’obbligo di volersi bene per pura convenzione (dalla pag. 201). Ho estrapolato queste frasi dal testo (ma non sono le sole interessanti) per dare un buon promemoria ai semiti e ai globalismi. I primi vivono di certezze assolute e certo un Primo Levi o una Anna Frank non ammetterebbero MAI queste verità, che pure esistono e sono sotto gli occhi di tutti. I globalismi, sempre pronti a dare addosso ai razzisti, non ammetteranno mai che l’ amore dovrebbe essere un dono, liberamente offerto e liberamente accettato, e non un obbligo sociale
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per dimostrarci tutti fratelli. Sono stati frasi come quelle testè riferite che mi hanno colpito nel profondo. Perché Susanna Tamaro è un’esponente del vero Popolo Eletto, gli artisti, forgiati dal Dio creatore nella fucina del Dolore, attraverso mille difficoltà, per provare la forza della tempra di ognuno dei suoi figli prediletti. E il sedicente Popolo eletto di Dio? Ma quelli NON sono esseri umani! Dopotutto, hanno inventato il Capro Espiatorio per giustificare i loro genocidi! Questo libro che consiglio non è assolutamente consigliabile per i deboli di cuore, gli ipocriti ed i baciapile. In compenso, è ottimo per chi volesse viaggiare nel Paese delle Meraviglie più strano e misterioso dell’Universo: l’animo umano. Fatevi la vostra idea! Andrea Pugiotto
HUGO PRATT ANNA NELLA JUNGLA Oscar MNondadori, 1973 - Pagg. 227 Le quattro avventure contenute in questo albo, della vecchia serie Oscar Mondadori a Fumetti, sono le sole vicende inerenti Anna Livingston e Daniele Doria, due simpatici quindicenni, di stanza a Gombi, Africa Occidentale, nell’anno 1913. Gombi è uno dei tanti piccoli forti insediati dalla perfidia Albione qua e là per tutto il mondo per vegliare sui Protettorati (leggi: colonie asservite) della cosiddetta Union Jack. Al comando, il maggiore Randall, coadiuvato dal capitano Mac Gregor e dall’ineffabile tenente Tenton, nullità assoluta di professione. Anna e Daniele, invece, sono dei ragazzi svegli ed audaci, in tutti i sensi, e sanno sbrogliarsela meravigliosamente nel corso delle avventure che capitano loro un anno prima dello scoppio della Grande Guerra. Al loro fianco, c’è spesso e volentieri Luca Zane (di Venezia!!), un Corto Maltese in nuce. In effetti, Pratt creò queste vicende a fumetti a metà circa degli Anni Cinquanta, attingendo a molti dei suoi ricordi personali, giacchè era stato davvero in Africa quando era più giovane, anche se queste storie somigliano forse un po’ troppo alle vicende di Cino e Franco o fanno pensare ad un’Africa da libri per ragazzi, come avrebbero potuto parlarne Collodi, Yambo e Vamba ai loro lettori. Tuttavia, qualche cosa di buono c’è, in queste vicende, al di là del fatto che non si riesce a distinguere un adulto dall’altro, sia nel fisico che nella mentalità: la pulizia di Anna e Daniele. Sa-
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ranno anche due adolescenti ma, viva la faccia!, sono ancora due fanciulli, in vena di sogni e di avventure! Ciò che più desiderano, avventure a parte, è… leggere le birichinate a fumetti di Bibì e Bibò, figli del Capitano Cocoricò (un fumetto alla moda, a quei tempi)! Il vero neo (almeno, dal mio personale punto di vista) è che non esiste quasi affatto la Scala dei Grigi (o c’è Bianco o c’è Nero… e si eccede davvero col nero di China!!) e, soprattutto, i personaggi sono del tutto inespressivi! Le bocche sono chiuse il 99% delle volte oppure sono appena dischiuse! E’ impossibile stabilire così il sentimento che anima i vari personaggi! Questo è il maggior difetto che io ho riscontrato, sia come lettore che come fumettista. Però c’è a chi piace questo stile. Del resto, chi si accontenta (perché è mediocre), gode. E allora lasciamo che le nullità godano! Io mi sono fatto la mia idea. Voi fatevi la vostra. Buona lettura. (Questo libro va cercato nelle librerie dei fuori catalogo). Andrea Pugiotto
NEL CERCHIO DEI PARENTI a Riccardo Carnevalini Milano “Siamo in campagna, Nonno? Mi aiuti a piantare e innaffiare?” Tu, a strappar piccole bacche dalla siepe e spargerle tra l’erba. Giornata memorabile. Antica Fattoria Paterno, a Montespertoli. Dalla balconata, sole rosso al tramonto, melograni in fiore, ulivi degradanti verso la valle nebulosa. Piazzetta Giubileo: musica e “Mezzelune di pasta fresca al Pecorino di Pienza con vellutata di pere Williams e pinoli tostati; Risotto Carnaroli del Principato di Lucedio con ragù bianco d’anatra e fumé di rosmarino; Filetto di manzo sfumato al Chianti Classico, Covoncino di asparagi e fagiolini;
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Sformatino di patate dolci al tartufo e Torta Nuziale; Gourmandises calde, praline artigianali e tartufini. Caffè al Samovar...”. Io il tramonto, tu l’aurora. Felici, nel cerchio dei parenti e degli amici. Domenico Defelice Montespertoli, 21 luglio 2013
COLPI D’ARCHIBUGIO a Riccardo Carnevalini Milano Starnuti a raffica, a mitraglia stamani, colpi d’archibugio al vecchio mio cuore, che mi straziano nell’intimo come un tempo per i miei tre figli. Allergico sono alla polvere e al pelo del gatto, mi dici guardandomi fisso. Ho voglia di abbracciarti a lungo, tenerti stretto, ma non oso, all’affetto ancora oggi blindato, come lo sono stato allora. Domenico Defelice 2.08.2013
MANO NELLA MANO Portò via il sole le tue lacrime lasciando solo il sale sulla pelle, il cielo rimase senza stelle quel giorno che uccidesti la speranza. Eppure sento un alito di vita che vibra dentro e mi da emozioni, lo scrivo spesso nelle mie canzoni l’amor rinasce dopo che è finita. Con te non finirà questa passione, ci puoi giurare, io ne sono certo, si rinnova ogni giorno, ogni momento e accenderà di nuovo il firmamento, portandoci sempre più lontano, solo noi due, mano nella mano. Colombo Conti Albano laziale
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LA NOCHE 2/3 de agosto, 2013 En Ohio son las tres de la mañana. Todavia no ha terminado el dia la noche la vida... Cumplo con mis compromisos y pago mis cuentas de amor, pero amaso los sueños y los cubro con mi piel: este mundo me aburre. Teresinka Pereira
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prepara l’autunno quando anche le rondini voleranno in altri paesi lasciando nidi vuoti e la rondine vecchia priva di vita. Loretta Bonucci
USA
PER ROSETTA Ricordi quelle volte quando ti sfogliavo come libro sui prati verdi della primavera nei pressi del piccolo lago? Gli uccelli volavano bassi per evitare il forte vento e tu, con la mano sul mento, ti aprivi dolcemente con un gentil sorriso. Ed io, incantato, mi smarrivo a guardare negli occhi tuoi il più bel paradiso. Mariano Coreno (Melbourne, Australia)
LUGLIO Luglio, iniziano a correre le giornate; Dio piano piano
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE ANCORA AUGURI PER I 40 ANNI! - E-mail del 27.07.2013: Carissimo Domenico voglio associarmi anche io, alle già tante persone, negli auguri per il favoloso traguardo dei tuoi primi quaranta anni di direzione di una rivista che è "tua" anche un poco "nostra". Anzi voglio dirti che è soprattutto nostra per il fatto che la tua impostazione di pura ed assoluta libertà di ospitare chiunque voglia dire la sua in fatto di letteratura o di altre espressioni artistiche, ha trovato per la tua apertissima intelligenza tutto lo spazio di cui aveva bisogno e che tu generosamente hai messo sempre a disposizione. Inoltre libero da ogni vincolo di carattere pubblicitario hai potuto gestire la rivista senza nessun obbligo in confronti di terzi. Anche se questo, forse, ti è costato qualche piccolo sacrificio economico. Ma questo per te non conta come quanto l'uscita sicura ogni mese. Il lavoro fatto con l' impo-
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stazione di realizzare una rivista per chi ama scrivere e non per fare "soldi", dà alla fine i risultati che oggi abbiamo e che ci permettono di festeggiare il quarantennale. Ti saremo sempre vicini per fare crescere maggiormente Pomezia Notizie e farla diventare sempre più un punto di riferimento nel panorama dell'editoria del settore. Un caldo abbraccio Salvatore D'Ambrosio Caro D’Ambrosio, “libero da ogni vincolo”, un editore coscienzioso non lo è mai completamente, se non altro perché “l’obbligo” ce l’avrà sicuramente verso i propri lettori. I quali non mancano di critiche. Per esempio, che Pomezia-Notizie - pur essendo arrivata al livello di essere stata definita “The Best Magazine of the Year” dalla IWA (USA) nel 1999 e,più di recente, dalla International Poetry Translation and Research Centre (Cina), “The International Best Poetry Magazine of the Year 2007” - non manca di ospitare, sulle sue pagine, “poeti scadenti”! A rivolgerci l’appunto sono coloro che si sentono quasi Dante Alighieri (e forse lo sono realmente) e che non hanno mai aiutato economicamente il mensile: che lo ricevono gratis, insomma! Noi non riteniamo alcuno scadente; ognuno porta alla cultura le pepite che ha; siamo come gli alberi, che non raggiungo tutti la stessa altezza e la loro preziosità non si giudica da essa. Dico questo perché, caro D’Ambrosio, neppure ospitando “chiunque voglia dire la sua in fatto di letteratura o di altre espressioni artistiche” si vive tranquilli: la nostra Repubblica delle Lettere non è aperta, né comprensiva, né assolutamente pacifica. Grazie a te, allora, e a quanti desiderano che la nostra creatura di carta vada avanti ancora per molti anni. D. Defelice E-mail del 31 luglio 2013: Caro Domenico, tornata dalla lunga vacanza di luglio, ho trovato la bella sorpresa della recensione in Pomezia di Tito Cauchi. Ti prego di ringraziarlo di cuore a mio nome. Inoltre, mi è arrivato oggi il numero di luglio e ne approfitto per farti anch’io i complimenti più sinceri per i quarant’anni di Pomezia. E’ un traguardo molto importante e soprattutto difficile da raggiungere. Io sono felice e onorata di contribuire , poiché per me la tua rivista è ormai un incontro familiare. Purtroppo, con gli anni ho perso tanti amici scrittori e poeti e restano ben poche le persone con le quali parlare di poesia. Pomezia è uno stupendo ritrovo nel quale posso arricchire la mia conoscenza e soddisfare un interscambio culturale. Grazie dunque di avermi coinvolto, e con gli auguri di ancora tanti anni di lavoro, ti abbraccio fraterna-
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mente. Laura Pierdicchi Cara Laura, mi commuove il sapere che Pomezia-Notizie sia per te “ormai un incontro familiare”. Continuiamo a voler bene a questa quarantenne. Ospitarti sulle sue pagine è per me una gioia e un onore. D. Defelice E-mail del 3.08.2013, da Valter Nesti: Caro Domenico, di ritorno da un breve soggiorno ho trovato il numero 7 luglio 2013 di P.N. e con sbigottimento mi sono accorto che sono trascorsi 40 anni da quando un tale (tra parentesi mio carissimo amico) ebbe la temeraria idea di dare alla luce una rivista "Pomezia Notizie", all'inizio come tabloid, "con un occhio rivolto alla cronaca cittadina e l'altro sbarrato sulla cultura all'interno del territorio nazionale e nel mondo", raccogliendo sin da allora intorno a sé uno stuolo di amici, alcuni notissimi scrittori, che nel corso di questi lunghi quaranta anni gli sono stati vicino, lo hanno sostenuto, incoraggiato, e anche loro sono stati da lui sostenuti, incoraggiati, diffondendo i loro nomi e pubblicizzando oltre ogni dire i loro libri. Io ne so qualcosa. E così questo numero mi è piombato in testa come una mazzata, perché, preso in questi ultimi mesi da problemi gravi di famiglia, pur leggendo tutti i mesi P.N., traendone come sempre profitto, non avevo posto mente a quel "mensile (fondato nel 1973)" che campeggia subito sotto il titolo della rivista e, per associazione di idee, non avevo calcolato che essendo questo l'anno di grazia 2013, erano trascorsi 40 anni. Guarda un po', metà del mia vita. Si, perché 40 nel avevo nel 1973, 80 ne ho oggi. Facciamo che ci ritroviamo nel 2023 a festeggiare i cinquant'anni? Io i novanta e mi farebbe piacere. A quel tale non posso far altro che dire grazie, grazie grazie e abbracciarlo calorosamente, anche se mi sento un po' in colpa per aver lesinato, in questi ultimi tempi, la mia collaborazione. Facciamo che... arrivi una seconda giovinezza? A presto Walter Ps. Rovistando fra le mie vecchie carte ho trovato questa poesia di Mauriac da me tradotta. Non mi risulta di averla mai pubblicata. Se credi... L’Infedele marea Ne tuo corpo dalle mia braccia assalito come dall’edera dove ancora è la traccia di gesti furiosi non sento nulla che batte come al tempo delle sieste
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quando fanciullo l’orecchio appoggiavo alla terra. Io che nulla chiedevo alla terra muta se non ai pugni una ruvida carezza del muschio avrei voluto quando mi eri soggetta questa passione del mare dalla luna respinto. Amori reticenti sempre indietro risospinti non spruzzerete mai sulla mia arida sabbia la rombante fedeltà delle maree il ritorno dell’amarezza nell’ora inevitabile. Braccato dal tuo flusso se volevo esser casto invano fuggivo la schiuma proibita Ma quando ti chiamavo per essere devastato fingevi di dormire mare stanco e assorto. da Les mains jointes (1909) di François Mauriac (Traduzione dal francese di Walter Nesti) Caro Walter, ricevere auguri da colui che ha diretto egregiamente Pietraserena è il massimo che mi potevo aspettare. Grazie dal profondo del cuore. Quella tua bella creatura, vissuta - purtroppo! - solo sei o sette anni, conserva più meriti della mia quarantenne. Per me è indimenticabile. Se tu mi permettessi di ospitarti più spesso, se non mi lesinassi la tua collaborazione, dandoci cioè la mano, forse riusciremmo davvero a raggiungere e a superare i traguardi da te auspicati. Ti abbraccio. Domenico E-mail del 9.8.2013 da: Carissimo Domenico! Anche da me ti giungano vivissimi auguri per i 40 anni della tua bella Pomezia-Notizie. Da parte mia non potrei che ripetere quanto già scritto nel 2008 per i suoi 35: felicemente compiuti e splendidamente portati. È invero come una bella donna che non cura troppo la forma esteriore, veste magari un po’ da Cenerentola, mirando a coltivare altre bellezze non immediatamente visibili. Talora essa è dagli sciocchi o dagli invidiosi poco apprezzata e anche criticata. Ma… noi sappiamo come andò a finire la favola, no? Sarà proprio lei la prediletta del principe! Un affettuoso abbraccio e lunga vita a te, Domenico, a P.-N. e alla prospettiva di continuare a scrivere cose belle e intelligenti per tutti gli Autori che pubblicano a loro volta cose intelligenti e quindi belle. Prospettiva, quest’ultima che ci fa sempre un grande onore. Marina Caracciolo
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Cara Marina, nella vita ho avuto tante esperienze e ho potuto rilevare pure che, a volte, la “bella donna”, che curava “troppo la forma esteriore”, nascondesse, sotto le vesti, corpo flaccido e con marcati segni del tempo; dalle “Cenerentole”, invece, ho avuto sempre giovinezza vera, energia, entusiasmo, saggezza e tantissimo calore. Sono certo che se non farai mancare il tuo affetto e la tua collaborazione, Pomezia-Notizie continuerà ancora per decenni ad essere e a comportarsi come una Cenerentola, con la sua grinta, la sua ironia e la sua grande forza interiore. Domenico *** ASSOCIAZIONE CULTURALE “PRO TERRA” - Via Vittorio Emanuele I,n.1 - 89050 FIUMARA (RC) - Premio di Poesia “Giovanni Cianci” - L’ Associazione Culturale “PRO TERRA”, in collaborazione con l’Associazione Culturale “CALABRIA e CALABRESI” e con il sostegno dell’AVIS Comunale di Fiumara, indice la XI Edizione del Premio Poesia “Giovanni Cianci”. Il concorso, riservato ad opere inedite, si articola in due sezioni: a) Liriche a tema libero in lingua italiana; b Liriche a tema libero in vernacolo calabrese. Ogni autore potrà partecipare con un massimo di 2 poesie per ogni sezione. Le opere dovranno pervenire, entro il 22 Settembre 2013 alla Segreteria dell’Associazione Culturale “PRO TERRA” (Via Vittorio Emanuele I n. 1 – 89050 FIUMARA (RC)) redatte in 6 copie (4 copie per la sezione in vernacolo), di cui una debitamente firmata dovrà recare in calce nome, cognome, indirizzo e numero telefonico dell’autore e quanto previsto dal successivo art.. È possibile inviare le opere tramite e.mail all’indirizzo premiogiovannicianci@gmail.com (va inviata la scansione della copia debitamente firmata e con i dati sopra indicati e la ricevuta del versamento di cui al punto 6). I partecipanti dovranno sottoscrivere l’autorizzazione all’utilizzo dei dati personali, ai sensi del Decreto Legislativo n. 196/2003, nonché l’attestazione con cui si dichiara che le opere presentate sono inedite e non sono state premiate in altri concorsi. Non è prevista alcuna tassa di lettura ma un contributo di 10,00 Euro da versare sul c/c postale n 89789762 intestato all’ Associazione per spese di segreteria e corrispondenza. Il premio per il vincitore della sezione in lingua italiana consiste in una Targa ed in un gettone di presenza di € 300,00. Ai 2°, 3° classificati sa-
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rà consegnata una Targa ed un gettone di presenza di € 100,00. Il premio per il vincitore della sezione in lingua dialettale consiste in una Targa ed in un gettone di presenza di € 250,00. Al 2° e 3° classificato sarà consegnata una Targa. Le spese di soggiorno e viaggio (viaggio max 150,00 Euro) per i finalisti di entrambi i concorsi sono a carico dell’ organizzazione. Gli autori finalisti saranno avvisati in tempo utile per poter essere presenti alla premiazione del 19 Ottobre 2013 alle ore 17,00 a Fiumara (RC). I premi dovranno essere ritirati il giorno della premiazione dagli interessati o da persone espressamente delegate. Gli elaborati inviati non si restituiscono. L’Associazione Culturale “PRO TERRA” si riserva il diritto di un’eventuale pubblicazione delle poesie pervenute. La partecipazione al Premio impegna all’accettazione di tutte le clausole del presente regolamento. Presidente di Giuria: Rodolfo Vettorello *** CHI È L’AMANUENSE? CHI HA COPIATO? - Nell’autentico mattone (784 pagine) che è l’ antologia L’evoluzione delle forme poetiche. La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (19902012), a cura di Ninnj Di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo, Kairós edizioni (2013), a pag. 468 Nunzio Festa (Matera 1981, residente a Pomarico, MT) figura con la lunga poesia “Pater”; a pag. 474, Gilberto Finzi (Mantova, residente da molti anni a Milano) figura con la stessa lunga poesia “Pater”. Può darsi che Festa e Finzi siano la stessa persona, perché, altrimenti, uno dei due avrà copiato dall’ altro. Ma è solo una delle tante - diciamo - “stranezze” presenti in questo librone. Sauro Albisani, per esempio, Lino Angiuli, Luigi Ballerini, Dario Bellezza, Giovanna Bemporad, Alberto Bevilacqua, Giorgio Bonacini, Franco Buffoni, Rodolfo Carelli, Dino Carlesi e tantissimi altri, pur figurando nella “Sezione Bio-bibliografica”, non sono presenti nella “Sezione antologica”. Sono stati usati come specchietti per le allodole? Una iniziativa editoriale commerciale, ben riuscita solo dal lato dell’introito (ogni autore - e sono ben 287 - sembra sia stato costretto ad acquistare non meno di tre copie a 20 euro cadauna), ma non per tutto il resto, compreso il contenuto, anche se vi figurano amici come Elio Andriuoli, per esempio, Sandro Angelucci, Giorgio Bàrberi Squarotti, Franco Campegiani, Giovanni Dino, Sandro Gro-Pietro, Nazario Pardini, Gianni Rescigno, Guido Zavanone eccetera. Se togliamo, però, questo manipolo - e altri - di poeti eccellenti, la maggioranza lascia perplessi; siamo in presenza di lavori di cervello, non certo di cuore. Perciò, se davvero l’antologia dovesse contenere “La migliore produzione poetica
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dell’ultimo ventennio (1990-2012)”, ci affrettiamo a pregare chi ci conosce di non usare più, rivolgendosi a noi, la voce “poeta”. Un’antologia grondante spocchia (bastava intitolarla solo “L’evoluzione delle forme poetiche”; ”La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio” - il tutto sottolineato!suona offesa anche per noi, che poeti non siamo ), con due curatori, i quali, forse, non hanno avuto, dall’editore, neppure il tempo di leggere quel che dovevano “curare”, perché se avessero letto quello che stavano “curando”, almeno il... Festa/Finzi e gli specchietti per le allodole li avrebbero evitati!. D. Defelice *** CONDOGLIANZE - Riceviamo, via e-mail, il 22.08.2013, dall’Accademia Collegio De’ Nobili e da L’Eracliano, suo organo mensile: “Carissimi Accademici Cavalieri e Dame, Ieri alle ore 14, Romana, l'amata madre del nostro Depositario Accademico Dama Patrizia Rossini ci ha lasciato ed è stata chiamata alla Casa del Padre. Domani alle ore 15 avranno luogo i funerali. nella chiesa parrocchiale di Sesto Fiorentino (FI). Preghiamo per la sua anima. Il Gran Cancelliere Claudio Falletti di Villafalletto Condoglianze dalla direzione e da tutta la grande famiglia di Pomezia-Notizie. Il direttore Domenico Defelice
Domenico Defelice - Scaffale (1964)
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LIBERI RICEVUTI GIUSEPPE MELARDI - Percorsi - Poesie - Introduzione di Giuseppe Manitta - In copertina, a colori, “Nevicata in un borgo di Milano”, di Renzo Tonello - Ed. Il Convivio, 2013 - Pagg. 50, € 10,00. Giuseppe MELARDI nasce a Bronte, in provincia di Catania, nel 1940. Dopo il servizio militare, si stabilisce in Veneto e, conseguito il diploma di Scuola Superiore, fa l’operaio in fabbrica, l’ insegnante di Scuola Elementare in vari paesini della provincia di Treviso e l’impiegato nell’ Amministrazione scolastica. Ha scritto un libro di poesie dal titolo “Parole in sordina”, che si è classificato al terzo posto al Premio Letterario Nazionale Le nuvole ‘Peter Russell’ 2010 e che ha ricevuto le segnalazioni di merito al X Concorso Nazionale di poesia ‘Italo Carretto’ 2011, al “Premio Golfo di Trieste - Il salotto dei poeti” 2011 e al “Gran Premio Symposiacus 2011”. Al libro segue la silloge “Appunti” edita da “Il Croco” Quaderni Letterari di Pomezia-Notizie, che ha ottenuto il II posto al “Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia “ 2010. Dal 1967 è vissuto a Montebelluna, in provincia di Treviso. Da qualche anno è ritornato in Sicilia. ** COLOMBO CONTI - La donna dei Velcha - 100 poesie d’amore - Introduzione di Angelo Del Cimmuto - In copertina, a colori, “Velia Spurinas” moglie di Arnth Velcha, tratto dalla Tomba dell’Orco (IV secolo a. C.)”, opera di Colombo Conti - Aletti Editore, 2013 - Pagg. 114, € 13,00. Colombo CONTI è nato a Tarquinia (VT) e vive ad Albano Laziale (RM). Architetto e artista eclettico, ha la passione per la pittura, la musica, la poesia e la scrittura. Ha pubblicato due raccolte di poesie: “Via dal cassetto”, nel 2007 e “L’Elfo nero” nel 2009, nonché il romanzo “Il Bandolo della matassa” nel 2012. Suoi componimenti sono presenti in numerose raccolte poetiche di autori vari.
TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) n. 53 (aprile-giugno 2013). Tra le centinaia e centinaia di Autori, evidenziamo le firme di: Orazio Tanelli, Andrea Pugiotto, Leonardo Selvaggi, Loretta Bonucci, Enza Conti, Giuseppe Manitta,
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Angelo Manitta, Antonia Izzi Rufo, Guglielmo Manitta. Alla rivista è allegato il n. 19 dell’ antologia CULTURA E PROSPETTIVE, firmata da Carmine Chiodo (“Giorgio Caproni e due poeti calabresi del Novecento: Lorenzo Calogero e Franco Costabile”), Emilia Cavallaro, Angelo Manitta, Giuseppe Manitta, Angela Lo Passo, Raffaele D’Orazi, Enza Conti, Salvatore Agati, Giuseppe Cappello, Bruno Sartori, Guglielmo Manitta, Antonina La Menza, Alba Pagano, Giovanna Sciacchitano, Rosanna Bardari Grieco, Francesca Luzzio, Leonardo Selvaggi, Pippo Pappalardo, Silvana De Carretto, Orazio Tanelli, Giovanni Chiellino, Peter Kovačič Peršin. * ntl LA NUOVA TRIBUNA LETERARIA - Rivista fondata da Giacomo Luzzagni, dir. resp. Stefano Valentini, dir. editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - Casella postale 15C 35031 Abano Terme (PD). n. 111 (3° Trimestre 2013). Tra le tante firme, ricordiamo: Natale Luzzagni, Luigi De Rosa (“Giovanni Boccaccio il padre della prosa italiana”), Pasquale Matrone, Elio Andriuoli (“Genio e follia: Friedrich Hölderlin”), Liliana Porro Andriuoli (“Anna Achmàtova”), Rosa Elisa Giangoia (“L’elmo di Scipio”), Stefano Valentini. * IL CENTRO STORICO - organo dell’ Associazione Progetto Mistretta, diretto da Massimiliano Cannata, Presidente Nino Testagrossa - via Libertà 185 - 98073 Mistreta (ME) - n. 6-7 (giugnoluglio 2013): Editoriale di Massimiliano Cannata (“La rivoluzione 2.0 tra ottimismo e paure”) e firme, tra le altre, di: Rosalinda Siri, Valentina De Caro, Mariano Bascì eccetera. * L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili - fondata nel 1689 -, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (FI) - n. 183-184-185 (IV-VIMMXIII). Segnaliamo l’ampio editoriale, arricchito da numerose foto a colori, “Accademici in pellegrinaggio al Santuario Mariano di Montenero”, nonché “Apophoreta”, rubrica di Marcello Falletti di Villafalletto in cui vengono recensiti diversi volumi. * FIORISCE UN CENACOLO - mensile fondato nel 1940 (forse la più longeva rivista oggi in Italia) da Carmine Manzi e diretta da Anna Manzi - 84085 Mercato s. Severino (SA) - Nel n. 4-6 (aprilegiugno 2013), firme, tra le altre, di: Anna Manzi, Orazio Tanelli, Leonardo Selvaggi, Aldo Cervo. *
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LA RIVIERA LIGURE - quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro - Responsabile Maria Novaro - Corso A. Saffi 9/11 - 16128. n. 1 (70-71), gennaio/agosto 2013. * ILFILOROSSO - semestrale di cultura diretto da Pasquale Emanuele - via Marinella 4 - 87054 Rogliano (Cs). n. 54 (gennaio-giugno 2013), sul quale notiamo le firme di Luigi De Rosa e Maria Luisa Daniele Toffanin, anche nostri collaboratori. * KAMEN’ - Rivista di poesia e filosofia diretta da Amedeo Anelli - viale Vittorio Veneto 23 - 26845 Codogno (LO). Riceviamo il n. 43, giugno 2013. * IL FOGLIO VOLANTE/LA FLUGFOLIO - mensile diretto da Amerigo Iannacone, resp. Domenico Longo - via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro (Is). n. 8 (agosto 2013( sul quale troviamo anche le firme di Fryda Rota, Loretta Bonucci, Adriana Mondo.
LETTERE IN DIREZIONE Da Ilia Pedrina, E-mail del 20.08.2013: Carissimo, eccomi a te da La Grave, a ridosso del massiccio/ghiacciaio di La Mejie, innevato, con tutt'intorno il Parc Natural des Ecrins, estesissimo. Mi ha atteso, la sera del 22 luglio la dolce e forte Marivie, che ho visto l'anno scorso con la sua piccola Mercedes, e l'anno avanti incinta di lei, con il pancione sempre nudo e in bella mostra di sé. E quest'anno, sorpresa inattesa, ancora un pancione doppio, perché mi dice che ne aspetta due, adesso, e due femminucce, che come lei e Mercedes nasceranno sotto il segno della Bilancia. Il giovane chef Simon, alto, slanciato, bello e gentile, prepara pietanze squisite e così alla Gite 'Le Rocher' si mangia alla sera dall'entrée, che è l'antipasto, fino al dessert, perché lui sta attento ai sapori, ai colori, agli abbinamenti salutistici ma l'olio extra-vergine d'oliva langue e gli spaghetti ed ogni sorta di altra pasta, poi, non ne parliamo: tavolate comunitarie ornate da vassoi colmi di verdure e poi 'le canard' con
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salsa densa agrodolce e riso alle verdure e cus-cus e la razza, pesce buonissimo, cotto al vapore, pure con verdure, e poi le torte al cioccolato, una vera ghiottoneria, o un 'tiramisu' ai frutti di bosco che il nostro mascarpone l'ha visto solo da lontanissimo, perché qui lui, Simon, alla linea fa tenere proprio tutti e si usa lo yoghurt! Al mattino la vista dal salone è mozzafiato, perché le finestre danno proprio sul ghiacciaio di La Mejie e le rocce coperte di neve sono uno splendore, in contrasto netto con il verde dei boschi e l'azzurro del cielo. Con queste premesse meravigliose mi sono messa in linea anch'io, tra passeggiate e vita nei boschi, per pochi giorni però, perché ai concerti ed alle conferenze si deve stare seduti e fermi e zitti e perché per lavorare sui libri che mi son portata via, di Boulez, di Carême e del nostro teologo-compositore Pierangelo Sequeri, che insegna alla Facoltà di Teologia a Milano e di cui ti dirò ancora e ancora, bisogna pure stare seduti, a leggere, a scrivere, a dettagliare. Ma c'era anche Pomezia Notizie nella mia valigia, il numero di Giugno, per via di Carême e del suo 'Le Jongleur': l'ho mostrato a Marivie e mi sono fatta stampare la versione francese del lavoro su 'La voix du silence', uno dei più bei testi di Carême, che tu hai pubblicato così caramente e dedicato a sua madre, e l'ho consegnato al prof. Lionel Couvignou, esperto di Olivier Messiaen e di sua madre, la poetessa Cécile Sauvage, da lui amatissima. Si, perché qui si svolge da anni il Festival Olivier Messiaen, ora giunto alla XVI edizione, ed il suo Direttore responsabile, Monsieur Gaëtan Puaud, energico, affascinato e gioviale, coinvolge intorno a sé ed al musicista francese Olivier Messiaen, che qui veniva a comporre i suoi lavori nei mesi estivi, un gran numero di preziosi musicisti e compositori che hanno ruotato intorno a lui, come Pierre Boulez, Tristan Murail e, come tema di quest'anno, 'LE JARDIN ANGLAIS DE MESSIAEN', con la straordinaria presenza del suo allievo e compositore Alexander Goehr affiancato dal giovane George
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Benjamin: ti manderò il programma, perché così potrai renderti conto, tu poeta e scrittore che ami così in profondità la lingua francese, come poesia e musica siano legati intimamente pur restando linguaggi differentissimi. Tanti i giovani di talento che si sono esibiti in cornici intime ed antiche come l'Eglise de La Grave, o la chiesetta su su a Les Terrasses o ancora tra le piccole volte della chiesa di Le Chazelet. Alla fine dei concerti, chi lo desidera può incontrare, come è consuetudine qui, i musicisti alla 'tisane', un'occasione semplice ma cordialissima dove giovani pieni di gioia ti offrono bevande calde o vini francesi. Prima di partire ho detto espressamente a Monsieur Puaud che uno dei prossimi temi dovrà essere legato a Olivier Messiaen nei suoi contatti con la musica italiana del Gregoriano e di Monteverdi, che lui adorava, perchè qui da noi, nei Conservatori, Messiaen lo si studia e bene e ci sono musicisti impegnati a portare avanti gloriosamente il suo nome come il pianista Emanuele Torquati, il musicologo Raffaele Pozzi, il compositore Pierangelo Sequeri appunto e tanti altri studiosi ed esecutori di organistica liturgica, come il giovane Diego Bassignana, che su Messiaen organista ci ha lavorato sodo: il Maestro Enrico Pisa, direttore del Conservatorio di Vicenza, mi ha detto proprio che forse per il 2014 gli allievi di fiati e percussioni potrebbero mettere in cantiere ed eseguire, guidati dai loro insegnati, la composizione di Messiaen 'Et expecto ressuretionem mortuorum' commissionatagli dal ministro Malraux, uomo politico che Pierre Boulez veramente contestava alla grande, con quel cipiglio attivo, intelligente, palese che lo caratterizza. Ed io ho colto l' occasione ed ho riferito questo piccolo 'scoop' a Monsieur Puaud, così tutta la squadra dei giovani musicisti italiani potrebbe arrivare qui a La Grave ed eseguire il pezzo all'aperto, come è già stato fatto nel 2008 con tanti altri giovani venuti da ogni dove. Tornerò ancora ed assai meglio su questi temi, carissimo, e sui preziosi incontri che si
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sono intrecciati in quest'occasione, intanto ti abbraccio con tanta gioia nel cuore. Ilia Carissima, a me sembra che con tante leccornie e con tante pietanze che ti stanno davanti e ti dicono mangiami mangiami, non si possa parlare di linea! E le camminate, i paesaggi, il fresco non bastino a smaltire le calorie. Né si mantiene la linea facendo “languire” “l’olio extra-vergine d’oliva” o tenendo lontani “gli spaghetti ed ogni sorta di altra pasta” e usando lo yoghurt, anzi! Fingi di non sapere niente della sana, salutare dieta mediterranea? Ma non è tu mi stia a piantar carote, con un po’ d’ironia sottopelle? Alcuni lettori hanno rilevato che, con la tua collaborazione, Pomezia-Notizie ha allargato lo spazio al tema della musica. E’ vero. Questo numero, per esempio, si apre anche con un pezzo del bravissimo e coltissimo Giuseppe Leone (di Pescate, Lecco) su un convegno riguardante il tenore Tito Schipa (il quale, nei primi anni sessanta, assieme al Maestro E. Brizio, ha musicato una mia poesia. E a proposito: perché non fai conoscere ai tuoi amici musicisti i miei versi? Chissà che non venga a qualcuno la voglia di servirsene...). La musica, quando è vera, è canto anche senza essere cantata; è lenimento dell’ animo; antica o moderna, classica o leggera, è alla base della vera civiltà perché scava e si dirama nel profondo sentire, come la poesia. Come la poesia, a chi come noi l’amiamo, versa “tanta gioia nel cuore”. Ed a proposito di lingua francese, di musica e di poesia: il pensiero corre a Solange De Bressieux, che anche tu e il tuo Papà avete conosciuto, praticato, ospitato. Pure io l’ho ospitata tante volte, a Roma, a Marino, a Pomezia. Era il tempo in cui dolorava per l’ improvviso abbandono da parte di Aldo Capasso, il quale, senza dirle nulla, aveva troncato il fidanzamento (avevano già deciso di sposarsi) per convolare a nozze con una bella creola. Solange, nel 1987, ha vinto anche il Città di Pomezia con l’opera
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Pioggia di rose sul cuore spento, dedicata al suo compagno del momento - da poco morto -, l’attore Hubert Jean Victor Gravereaux. Nei convegni, negli incontri letterari con amici e scrittori (all’Assolatella della cara Ada Capuana - pronipote del grande scrittore siciliano Luigi -, al Centro Letterario del Lazio di via Merulana eccetera), dopo la conferenza, dopo la recita di versi, Ella amava sedersi a un pianoforte (che io mi adoperavo, senza che lei lo sapesse, di farle trovare) e suonare e cantare. Diceva che francesi e italiani hanno nel sangue musica e poesia, che per tutti e due i popoli, anche tra i meno colti e gli affamati, esse sono linfa vitale. Ti abbraccio. Domenico *** E-mail del 16.08.2013 da Vicenza Egregio Direttore, siamo tornati in Italia il 14 Agosto, dopo aver trascorso due settimane in Africa, al confine tra la Namibia e l'Angola, presso il popolo Himba. La linea aerea che abbiamo utilizzato porta da Francoforte a Johannesburg per poi collegarsi con Windhoek. Devo dire che per me questa esperienza, che si sta ripetendo da anni, sempre con mamma, papà e Gregorio, il mio fratellino di sette anni, mi ha particolarmente colpito, perché questo per loro è un periodo di grande siccità e le loro mucche trovano poco da mangiare e stanno via via morendo, con grande strazio della gente. Il popolo Himba, che gli anni scorsi incontravamo "al naturale", liberi e padroni del loro territorio, anche con tante limitazioni, quest'anno si trova a condividere con altre tribù una forma di civilizzazione, mai vista prima: è arrivato il supermercato con ogni ben di Dio,anche il superfluo, con relative casse dove bisogna pagare con denaro contate, come da noi (in dollari namibiani). I bambini Himba, che gli altri anni incontravamo piacevolmente nudi e felici, ora hanno i pantaloncini, le gonnelline e non sembran più loro, non sembran più Himba.
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Questo era un piccolo popolo di poeti e poe-
tesse, con la loro lingua, le loro tradizioni, i loro canti, ora i bambini devono adeguarsi alla nuova scuola, dove un maestro di etnia Herero insegna a loro l' inglese, il far di conto e la lettura con colori e disegni. Le manderò alcune fotografie, caro Direttore, perché questo maestro arriva in giacca e cravatta, li saluta in inglese, loro devono rispondere in inglese per poi recitare insieme una preghiera a Gesù! Se loro fossero qui, capirei molto meglio questo tipo di intervento, mentre così noto una grande differenza che potrebbe provocare situazioni difficili. Il
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mio papà mi ha spiegato che quando sono arrivati i colonizzatori tedeschi in queste zone hanno esercitato opera di conversione, così quelli che entravano nel Cristianesimo dovettero adeguarsi e vestirsi, chiamandosi etnia Herero, mentre quelli che volevano rimanere fedeli alle loro tradizioni hanno potuto scegliere di fare vita nomade, dediti alla pastorizia e tutti nudi. Sul confine tra la Namibia e l'Angola, lungo il corso del fiume Kunene abbiamo incontrato due ragazze Himba molto magre che chiedevano un frutto, nude ed affamate, ma bellissime. Purtroppo questa volta al nostro piccolo gruppo si sono uniti dei "turisti" ed io ho visto che uno di loro dava del denaro ad una ragazza: è così che inizia una catena che li farà dipendere dal denaro, proprio loro che fino adesso si scambiavano felicemente solo i prodotti secondo i loro bisogni? Ho sentito il bisogno di scrivere a lei perché è molto saggio e la mia amica Ilia mi ha detto che è anche nonno: ho visto il suo nipotino in fotografia ed è proprio simpatico. Quando le manderò le fotografie dei bambini Himba gliele potrà fare vedere. La ringrazio di tutto perché la Rivista mi arriva sempre regolarmente e mi piacciono anche le poesie. Intendo impegnarmi e conoscere meglio tutti voi. Intanto la saluto cordialmente. Leonardo Bordin Caro Leonardo, il cambiamento imposto agli Imba è simile (non so se meno violento) a quello subito nei secoli da moltissimi altri popoli, compresi gli Indiani delle Americhe. Anche allora, il “progresso” è stato imposto brutalmente e anche la Fede. Turba sapere che i bambini al maestro devono rispondere in inglese (non sarebbe meglio che l’inglese fosse una lingua da parlare e scrivere insieme alla propria?), ma ancor di più che debbano “recitare insieme una preghiera a Gesù!” La storia ci dice che i più feroci nemici di Cristo hanno avuto simili imposizioni: Gesù è amore. Se presentato come tale, se non imposto, tanti Lo sceglieranno e mai più Lo
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abbandoneranno. Al tempo di Cristoforo colombo e di Cortés, i poveri Indios, se non si convertivano, venivano passati a fil di spada, massacrati, impiccati, arsi vivi. Voglio credere che questo “devono” verso gli Imba oggi sia solo una distorsione mentale dovuta a rigidità di carattere (non a metodi oppressivi), a retaggi di “colonizzatori tedeschi”, esente del tutto da interventi fisici. E’ da innalzare lodi a Dio se - come tu scrivi “quelli che volevano rimanere fedeli alle loro tradizioni” non siano stati torturati e abbiano “potuto scegliere di fare vita nomade, dediti alla pastorizia e tutti nudi”. Una violenza morale, psicologica, c’è stata, ma via, caro Leonardo: rispetto a Cortés e compagni è un bel passo avanti, non credi? Perdonami l’ironia! “Tutti nudi”. La nudità della purezza edenica, della ingenuità della quale molti “turisti” riempiono i loro occhi impudichi per accrescere i loro istinti bestiali. Il denaro fa il resto nell’uccidere l’innocenza e perverti-
re anima e corpo. I cambiamenti sono inevitabili, ma sarebbero civili se graduali e senza imposizione e la presenza del super-
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mercato fosse in relazione alle possibilità della popolazione di godere di quei beni, altrimenti la loro esposizione diventa una ennesima insopportabile e inaccettabile violenza. Perciò, tra Hermán Cortés e compagni e questi moderni “conquistatori” del corpo e dell’anima, tra costoro e la Santa Inquisizione e il rogo, io non vedo poi tanta differenza. Riccardo ha solo tre anni e mezzo, non in grado, quindi, di apprezzare come si deve le splendide tue fotografie. Ma sono certo che crescendo mai diventerà uno di quei “turi-
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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) composti con sistemi DOS o Windows su CD, indicando il sistema, il programma ed il nome del file. E’ necessaria anche una copia cartacea del testo. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute. Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario). Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I testi inviati come sopra AVRANNO LA PRECEDENZA. I libri, possibilmente, vanno inviati in duplice copia. Per chi usa E-Mail: defelice.d@tiscali.it Il mensile è disponibile anche sul sito www.issuu.com al link http://issuu.com/ domenicoww/docs/p._n._2013_n._9
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__________________________ sti” che danno “del denaro a una ragazza” per i fini che sappiamo. Perché tutto dipende dalla educazione e meno dalle occasioni; dipende da certi “paletti” - così li definivano mia madre e mio padre - inviolabili, dalla vera civiltà piantati al confine tra l’uomo e la bestia. D. Defelice
POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio
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STEFANO DEFELICE e EMANUELA VIGNAROLI SPOSI
Il Matrimonio verrà celebrato nella Parrocchia di San Benedetto Abate Pomezia il 14 Settembre 2013 - ore 10,00 Dopo la cerimonia gli Sposi riceveranno parenti e amici a Rocca di Papa (RM) presso il Ristorante “La Foresta” Auguri! Auguri! Auguri!Auguri! Auguri! Auguri! Auguri! Auguri!