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PAOLO AMATI Impegno nel sociale di un credente:
ZACCARIA NEGRONI di Tito Cauchi
V
ENERDÌ 29 novembre 2013, presso la sala consiliare “Mario Centini” del Comune di Nettuno (Roma), è stato presentato il libro del prof. Paolo Amati, Impegno nel sociale di un credente: Zaccaria Negroni. La sala si è presentata gremita di un centinaio di persone, vedendo avvicendarsi laici e religiosi, negli interventi che in parte si accomunano, e che pertanto evito di duplicare, semplici nei contenuti e dalle parole sobrie, anche se queste ultime mi giungevano disturbate dal sottofondo dei ventilatori di aria calda. L’evento s’è svolto sotto il coordinamento della signora Emanuela Miocchi, la quale ha presentato il prof. Paolo Amati dichiarando che conosceva personalmente Zaccaria Negroni, un uomo che profuse il proprio impegno di cristiano laico nel sociale, sia nella Diocesi di Albano, sia in ambito nazionale. Amati è stato Vice Presidente Diocesano dell’ Azione Cattolica dal 1970 al 1974, a fianco del Presidente
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All’interno: Pascale Delormas - Le cas Rousseau, di Ilia Pedrina, pag. 8 Intervista a Pascale Delormas, di Ilia Pedrina, pag. 10 La mostra “Vice versa” di Bartolomeo Pietromarchi, di Andrea Bonanno, pag. 17 Germana Marini: Ultima chiamata ai passeggeri, di Giuseppe Leone, pag. 19 Bruno Rombi: La saison des misteres, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 21 Nazario Pardini. L’aria che vibra sfiorando i sepolcri, di Sandro Angelucci, pag. 26 Alber Camus nel centenario della nascita, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 28 Fuga del tempo, di Luigi De Rosa, di Domenico Defelice, pag. 30 Il soldato Giovanni di Gianni Rescigno, di Nazario Pardini, pag. 32 La Romania tra storia e condizioni attuali, di Leonardo Selvaggi, pag. 35 Il Marocco dalla preistoria alla colonizzazione romana, di Leonardo Selvaggi, pag. 37 Di là dalla notte, di Walter Nesti, pag. 40 Anna Aita: Domenico Defelice Un poeta aperto al mondo e all’amore, di Tito Cauchi, pag. 43 I Poeti e la Natura (Giosuè Carducci), di Luigi De Rosa, pag. 48 Notizie, pag. 60 Libri ricevuti, pag. 65 Tra le riviste, pag. 67
RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Una notte in Paradiso, di Rocco Salerno, pag. 50); Pasquale Balestriere (Affari di cuore e Natura morta, di Paolo Ruffilli, pag. 51); Tito Cauchi (La lunga notte, di Aldo De Gioia - Anna Aita, pag. 52); Tito Cauchi (Sogni lontani, di Aldo De Gioia, pag. 54); Carmine Chiodo (Qui la meta è partire, di Giuseppe De Marco, pag. 54); Roberta Colazingari (Fuga del tempo, di Luigi De Rosa, pag. 56); Roberta Colazingari (I simboli del mito, di Nazario Pardini, pag. 56); Luigi De Rosa (Ubaldo Riva. Alpino Poeta Avvocato, di Liana De Luca, pag. 57); Elisabetta Di Iaconi (I simboli del mito, di Nazario Pardini, pag. 58); Laura Pierdicchi (I simboli del mito, di Nazario Pardini, pag. 58); Gianni Rescigno (Fuga del tempo, di Luigi De Rosa, pag. 59); Innocenza Scerrotta Samà (I simboli del mito, di Nazario Pardini, pag. 59).
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonuci, Rocco Cambareri, Colombo Conti, Domenico Defelice, Paola Insola, Antonia Izzi Rufo, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi, Geppo Tedeschi
Negroni; dopo la morte del quale, avvenuta nel 1980, ha sentito il desiderio di saperne di più. È così che intraprende a Roma gli studi di Magistero in Scienze Religiose, e proprio su questo “credente” scrisse la sua tesi di laurea, non priva di difficoltà, per mancanza di documenti. Amati ha svolto ricerche storiche e grazie a ciò, ha fatto una ricostruzione delle scelte e delle campagne sociali riguardanti questo personaggio, sottolineandone la ricor-
renza dell’anniversario della morte, avvenuta il 1° dicembre. Così consegue nel 1986 il titolo di Maestro di Educazione Religiosa, dopo di che lascia la sua attività professionale, presso una multinazionale, per dedicarsi all’ insegnamento della Religione cattolica negli Istituti superiori di Anzio e Nettuno, per 30 anni, fino al pensionamento nel 2007. È stato promotore della iniziativa presso il comune di Nettuno, riuscendo, recentemente, a fare inti-
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tolare una strada a Zaccaria Negroni. La coordinatrice riferisce che mons. Dante Bernini, Vescovo emerito della Diocesi di Albano, che ha curato la prefazione del libro di cui alla presentazione, racconta del suo incontro nel 1971 con l’allora on. Negroni, Presidente diocesano dell’Azione Cattolica, in occasione di un incontro con i giovani, giudicandolo uomo di “umana ricchezza di varia natura: solidale, culturale, professionale”, del quale rimase abbagliato per la sua “illuminata e illuminante maturità cristiana”. Il Monsignore ha dichiarato, inoltre, di avere goduto dell’amicizia che l’Autore ha voluto ricambiare con questo libro scritto con “discrezione e misura”, anche compiaciuto di avere ritrovato, nel libro, un suo intervento, “primo affettuoso saluto ai Giovani Albanensi”. La signora Emanuela Miocchi commenta come le opere belle prendano consistenza e diventano patrimonio della comunità; ed è ciò che è avvenuto per il Negroni che non si è chiuso nelle segrete stanze o nelle chiese, ma che è sceso in mezzo alla gente. E di conseguenza avviene per le parole di Amati che, del “credente”, rileva la semplicità e la pazienza, che disegnano il tratto umano dell’ uomo a beneficio del tratto esistenziale. E questa presenza, di tipo parrocchiale, sta a testimoniare un impegno nel sociale; ed oggi costituisce una sfida scrivere testi in concorrenza con la rete informatica. Passa la parola all’Autore. Il prof. Paolo Amati ricorda il suo primo incontro con Zaccaria Negroni, avvenuta ad una Assemblea Diocesana nel 1959. Personalità di grande spessore che aveva conosciuto all’età di 10 anni quando l’allora neodeputato, ne aveva sessanta, rimanendone affascinato per la spiritualità che irradiava. La madre l’aveva prescelto come padrino di cresima, convinta che le doti della degna persona sarebbero germogliate nel figlioletto. Negroni organizzava conferenze e incontri, facendo opera di evangelizzazione. In uno degli incontri, raccontava che le squadre fasciste entravano nelle tipografie mettendo tutto sottosopra alla ricerca di eventuali stampati contro
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il Regime, al tempo in cui firmava i suoi articoli con lo pseudonimo di Ambrogio Campanaro, e a chi gli chiedeva “e chi te lo fa fare?”, lui rispondeva che lo faceva per amore verso Dio e il prossimo, come spiega nel libro “Marino sotto le bombe” (1971). L’Autore racconta che il Monsignore Bernini nel 1985 aveva costituito una commissione con l’intento di dare corso alla beatificazione di Zaccaria Negroni, ma le fonti, cui Amati avrebbe potuto attingere, si presentavano asciutte; la documentazione era assolutamente scarsa; al di là della monografia di Aldo Onorati (1985) non esisteva altro. Intanto procedeva negli studi universitari e disponeva solo del titolo della tesi: Impegno nel sociale di un credente: Zaccaria Negroni. Rimuginando pensa di cercare, a breve, nella casa di famiglia, fra i mucchi di libri e di carte sue e di suo fratello, entro un armadio, ma senza fortuna, tranne alcune lettere indirizzategli dal Negroni; e a vasto raggio, prova sui fronti nei quali il Negroni aveva svolto le sue molteplici attività (Zeropiù, il giornalino degli anni ’70 da lui fondato, Azione Cattolica, associazione Discepoli di Gesù da lui fondata, Istituti religiosi di studi). Comunque sia, rintraccia gli atti parlamentari del periodo senatoriale (1953-1958) e di quello alla Camera (1958-1963), trovando tutte le leggi di cui era stato relatore: una cinquantina tra interrogazioni e proposte per disegni di legge. Più fortuna ha avuto presso l’Istituto Paolo VI, ove si è recato con la moglie: accolto dal Sig. Sulis rintraccia, non senza fatica, una scatola contenente 15 sue lettere autografe. Così decide di contattare storici e biografi viventi per attingere dallo loro viva voce. Amati ha tracciato un breve excursus biografico: Zaccaria Negroni nasce nel 1899 a Marino, figlio di Giuseppina Paglia e di Tito Negroni, una fra le famiglie più ricche dei Castelli Romani. Il giovane Zaccaria, come discepolo di Gesù, ha fatto suo l’esempio di San Francesco d’Assisi; fin da ragazzo rientrava a casa privo di scarpe o di qualche indumento, perché li donava a persone che ne avevano maggiore bisogno; e portava perfino
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le lenzuola del letto in parrocchia, venendo scambiato per matto. Dopo le Elementari, frequentò a Roma l’Istituto Tecnico Inferiore, e dopo, al Politecnico di Torino, si iscrisse alla facoltà di Ingegneria, sottosezione Elettrotecnica. Partito per il fonte nel 1917 come allievo ufficiale con la famosa “classe ’99 dei ragazzi del Piave”, al rientro riprende gli studi a Torino laureandosi nel 1923. Sul versante religioso, fra le altre cose, emulando mons. Guglielmo Grassi che alcuni anni prima aveva fondato l’associazione “Le Piccole Discepole di Gesù”, Egli in collaborazione con lo stesso abateparroco, e con Emilio Giaccone, fonda nel 1925 l’associazione ‘I Discepoli di Gesù’, istituzione laica di umili collaboratori al servizio dei Parroci e dei Vescovi. Discepoli che il Negroni definisce “portatori di pace”, di serenità e di letizia nella comunione ecclesiale. In quegli anni Venti il Fascismo voleva scardinare la struttura dell’Azione Cattolica, ben consolidata nella società italiana, le cui origini risalgono al 1867 ad opera di due giovani Mario Fani, di Viterbo, e Giovanni Acquaderni, di Bologna, con finalità apostoliche, distinta sia da partiti politici, sia dai sindacati. Cosicché il Regime, nel 1927, fece pressione per chiudere i Circoli Scout, che impedivano il rinfoltirsi delle file dei Balilla e degli Avanguardisti con i quali il Duce intendeva monopolizzare la formazione dei giovani. Nel 1929 fu condannato a cinque anni di confino, ma avvertito da amici riuscì a riparare presso il Monastero dei Benedettini di S. Paolo fuori le mura di Roma; in seguito trascorse due notti al Regina Coeli. Nondimeno dovette subire le angherie da parte del Regime Fascista nel 1931, con la chiusura dei Circoli di Azione Cattolica, poiché essi allontanavano i giovani dalle adunate fasciste e dal culto della guerra. Zaccaria Negroni, si è adoperato in prima persona per le sorti dei suoi concittadini e della città, durante tutta la sua vita, assolvendo ai doveri civici con vero spirito cristiano. Era sempre pronto e disponibile, rivestendo nel contempo compiti di responsabilità in asso-
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ciazioni cattoliche a livello sia locale, sia nazionale. Era tenuto in grande considerazione fra le personalità ecclesiastiche e politiche di alta responsabilità. Numerose sono le collaborazioni ad Associazioni, Fondazioni e Riviste, alcune anche sorte grazie alla sua pertinacia, di natura laica e con finalità religiosa; intensa l’attività letteraria e giornalistica anche sotto pseudonimo. Preghiere e lavoro erano la sua attività, tanto che pur indaffarato in progetti, ne cercava altri. In breve traspare la vicinanza profonda di questo uomo impegnato per la comunicazione civica e dei credenti, sempre con serenità e letizia, perciò veniva soprannominato Ingegnere Sorriso. Giornalista attento lo troviamo nelle pagine di Avvenire e sulla pagina diocesana Castelli Romani 7; scrittore curò biografie, storiografia locale e libri di meditazione. Fondò la casa editrice ‘Anonima Veritas Editrice’, nota con l’ acronimo AVE, in lode alla Madonna. Su designazione del Papa Pio XI rifondò l’Aspirante, il giornale della Gioventù Cattolica firmando i suoi pezzi con lo pseudonimo Ambrogio Campanaro. Nel contempo fonda la Casa Editrice Fede-Arte dei Discepoli di Gesù, con l’ acronimo CEFA, come ricalco del nome aramaico di Pietro, preso come simbolo di ubbidienza alla Chiesa. Segue l’intervento di Padre Giuseppe Zane, il quale si sofferma sul processo di canonizzazione di Zaccaria Negroni, affermando che su di lui sono stati scritti libri; fra i più recenti segnala gli autori Gianni Cardinali, Aldo Onorati e lo stesso Paolo Amati. Riferisce che Amati cerca di scandagliarne la personalità, attraverso documenti ritrovati, che erano stati destinati alla distruzione, secondo la sua volontà. Sottolinea le virtù cristiane, la fede in Dio, la devozione alla Madonna e la fiducia nel prossimo, definendolo modello da imitare. Spiega che l’immagine di copertina del libro, lo raffigura in preghiera, volendone significare il mondo spirituale che lo rapporta con Dio. Il Religioso augura che il Signore ne confermi la santità attraverso un miracolo. Un viaggio spirituale che ha visto l’uomo sempre sul fronte dei diritti dei più bisognosi, sempre
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a difesa dei giovani, alla educazione alla preghiera, con la sua specchiata condotta. Durante il regime fascista Zaccaria Negroni si era opposto manifestamente contro le leggi razziali. Ha avuto l’audacia di affrontare tanti ostacoli frapposti dal Regime. Nel giugno 1944, a Marino, si mette contro l’ordine prefettizio di sfollamento della città; per questa sua presa di posizione, cristiana e civile, il Governo Militare Alleato, giunto, lo nominò primo cittadino. Nell’immediato dopoguerra si prende la rivincita istituendo Comitati Civici con lo scopo di incalzare i cattolici a prendere posizione in campagna elettorale. La Provvidenza l’ha aiutato diventando Sindaco del suo paese, Marino. Negli anni 1948-1974 fu Presidente Diocesano dell’Azione Cattolica di Albano, continuando ad interessarsi di organizzazioni nazionali rivolte a lavoratori e a studenti universitari come la FUCI, e nel contempo accetta l’ agone politico, divenendo uno dei fondatori del Partito Popolare. Il suo impegno nella costituzione o attività in associazioni a tutela degli artigiani, dei giovani e degli strati più bisognosi della popolazione locale e nazionale, gli ha fatto guadagnare credibilità presso la gente e presso le autorità ecclesiastiche. Intanto accade che don Guglielmo Grassi, dopo sei anni a Roma, viene destinato dal Vescovo di Albano, Cardinale Agliardi, a prendersi cura della Parrocchia di Marino ridotta in condizioni tristissime per mancata manutenzione e per apostasia; doveva trattarsi di una collocazione “provvisoria”, ma perdurò ben quarantasei anni, tutta la vita. Riferisce che Negroni accetta per obbedienza la competizione fra le file della Democrazia Cristiana venendo eletto in un primo tempo senatore, nel collegio di Velletri, dato per impossibile, e nella successiva campagna, poiché il collegio era diventato appetibile, s’era fatto da parte venendo eletto deputato. Dopo tale parentesi accetta di ricoprire l’incarico di PresideDirettore della Scuola Magistrale “Guglielmo Grassi”. Padre Giuseppe Zane continua riferendo che Negroni assolve con assoluta umiltà e
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con dovere le cariche politiche attraverso disegni di legge; operando con senso di carità, anche spicciola, come privarsi del cappotto, prima di rientrare a casa. Fonda Istituti Secolari consacrati finalizzati ai principi evangelici (povertà, castità, carità, obbedienza), da diffondere nella realtà temporale umana. In prima persona vive e diffonde i principi evangelici. Il Concilio Vaticano II ne recepisce le istanze, di cui al Lumen Gentium, con un Nuovo Statuto nel 1969, dell’Azione Cattolica, che vanta la presidenza nel 1970 di Vittorio Bachelet. Nel 1975 Zaccaria Negroni fonda e dirige l’Associazione “Amici dei Discepoli”. Nel 1977 lascia le attività in gran silenzio, fin quando esala l’ultimo respiro, il 1° dicembre 1980. Infine spiega che la seconda parte del libro occupa circa i due terzi del volume con la riproduzione di scritti spirituali del Negroni, questo per toglierli dal dimenticatoio. Zaccaria è diventato per molti, punto di riferimento, educando alla preghiera, con semplicità, come capacità di esternarsi, vedendosi dentro. Laico, cristiano cattolico, se non pregava stava in fermento attivo frenetico; usciva dagli schemi del conformismo. Stava dietro le file, non si metteva in vista, erano gli altri che lo esortavano a compiti di rilievo o di visibilità. Diacono, emanava intorno alla sua persona una santità insondabile, ma verificabile nelle virtù che troviamo nell’Ingegnere Sorriso. Don Angelo Guarcini, riconfermando alcuni passi precedenti, ricorda quanto Zaccaria Negroni si infervorasse nelle aule parlamentari, nominando il nome di Dio. Al contrario di come si presenta raffigurato sulla copertina del libro, la sua preghiera a Dio, era un movimento di tutto il corpo, un gesticolare animato come se stesse effettivamente a tu per tu con il Signore. Racconta che negli anni dal 1939 al 1945, nel Seminario, alle conferenze di politici, fra cui Nenni, a favore dei lavoratori, non mancavano le parole di Zaccaria Negroni, che richiamava l’importanza da riconoscere alla parte spirituale degli uomini. Ricorda il suo insegnamento, che possiamo paragonare al testamento spirituale, quello di
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vivere senza rimpianti, di non guardare indietro, nell’accezione di potere vivere senza avere nulla di cui vergognarsi. Fa sua la domanda dell’autore Paolo Amati su chi siano i testimoni di Cristo, sì da ritenersi Santi, giungendo a determinare che occorra dimostrare le virtù al massimo grado, perfezione della carità, rifiutando ogni forma di consumismo, di spreco e di arrivismo, sotto l’aspetto della esistenza concreta, cioè dimostrando assimilazione della spiritualità come emanazione della Santissima Trinità. Il prof. Giuseppe Combi, vice sindaco, facendo gli onori di casa, ricorda come Zaccaria Negroni abbia fatto storia in questa zona territoriale, avendo scelto la cultura per dare un segno di sé che ci completa. Ringrazia e invita il pubblico a dare testimonianza, così in chiusura, si fa avanti Edmondo Balboni, poeta nettunese che ha letto il componimento “Marino”, che ripropone l’augurio a suo tempo rivolto in onore di Zaccaria Negroni in occasione di una cerimonia svoltasi nella città che ne vanta i natali. Mentre il prof. Paolo Amati firmava dediche, ho avuto il tempo di mettere a punto alcuni nomi e riferimenti, approfittando della presenza di un sacerdote che occupava il posto avanti al mio. Meritano meditazione queste parole di cui abusiamo nel parlato corrente. Mi pare di dovere tenere presente che quando la predisposizione al bene sia eccelsa possa definirsi virtù e la virtù quando raggiunga il massimo grado costituisca santità. Certo che l’argomento non si esaurisca qui, anzi meriti un approfondimento, rimando al libro, Impegno nel sociale di un credente: Zaccaria Negroni, che non mancherà di fornire chiarimenti. Tito Cauchi PAOLO AMATI - Impegno nel sociale di un credente: ZACCARIA NEGRONI [17 febbraio 1899 – 1 dicembre 1980] ***
Siamo grati all’amico Tito Cauchi per la relazione sulla presentazione del libro dedicato a Zaccaria Negroni. Abbiamo conosciuto questo illustre personaggio, umile quanto famoso. Umile, perché
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non amava mettersi in mostra; famoso, perché, costretto dalla necessità e pungolato dai superiori e dai collaboratori del gregge della Chiesa, ha fatto cose importanti e durature, come l’istituzione dei Discepoli di Gesù. L’abbiamo conosciuto a Marino, proprio nella sede di questa Comunità. Eravamo amici della superiora Madre Agnese delle Piccole Discepoli di Gesù, conosciuta grazie a una suora molisana. Madre Agnese dirigeva, anche, dei Corsi di Formazione Professionale, finanziati dalla Regione Lazio e noi, lavorando in quel campo e militando nella rappresentanza sindacale UIL, ci siamo recati diverse volte per colloquiale con lei su problemi inerenti i corsi stessi. Si istaurò, così, tra noi, una salda amicizia, anche con la nostra famiglia; ci sentivamo spesso per telefono; più di una volta, su nostra richiesta, Madre Agnese diede ospitalità alla nostra grande amica Solange De Bressieux, in occasione di ripetuti viaggi in Italia e, in particolare, a Roma e a Pomezia. Presso i Discepoli di Gesù è stato ospite una volta anche il compagno di Solange: l’attore e commediante Hubert Gravereaux, al quale, dopo la morte, la De Bressieux ha dedicato la silloge di poesie Pioggia di rose sul cuore spento, vincitrice, nel 1987, dell’VIII Edizione del Città di Pomezia, volumetto edito, nello stesso anno, da Pomezia-Notizie. Non ricordiamo più, se sia stato per loro tramite - di Madre Agnese e di Zaccaria Negroni - che abbiamo conosciuto, all’inizio, i vescovi Dante Bernini e Gaetano Bonicelli, incontrati, poi, più e più volte, da soli o con il Presidente dell’Azione Cattolica - Vicaria di Pomezia, parrocchia di S. Benedetto -, Sig.Angelo Belletri, o, ancora col sindaco di Pomezia, Pietro Bassanetti. E’ certo, comunque, che dobbiamo a questi vescovi la nostra quindicinale collaborazione al quotidiano Avvenire. Quando ci recavamo a Marino da Madre Agnese, ne approfittavamo per incontrare anche Zaccaria Negroni, in uno stabile poco
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distante. Non si negava mai, anche se, spesso, ci toccava sostare a lungo perché, ci dicevano, era in preghiera. Lui aveva fondato l’Editrice AVE ed era questa a pubblicare il bellissimo e mai dimenticato settimanale per ragazzi Il Vittorioso, che ospitava i fumetti di straordinari disegnatori e gli autori di trame appassionanti, di racconti, di romanzi (ricordiamo quelli di Vittorio Emanuele Bravetta, per esempio), e di indimenticabili dispensatori di allegria. Tra i fumettisti, non possiamo non citare Benito Jacovitti. A tale straordinario settimanale (costava, allora, lire 30 la copia), abbiamo collaborato anche noi, negli anni 1953 - 1954, con barzellette e vignette (nella rubrica curata da Vittò), qualche poesia, qualche disegno. Negroni ci faceva dono dei suoi libri, da noi letti con la massima attenzione, alcuni, come Marino sotto le bombe e la biografia Guglielmo Grassi - La vita - Le opere, anche recensiti, rispettivamente nel luglio e nel settembre 1975. Dopo la sua morte, siamo stati anche alla cerimonia di commemorazione, svoltasi ugualmente a Marino, il 21 febbraio 1981, con l’intervento di relatori illustri, tra i quali Giulio Andreotti. Nella speranza che possa avvenire assai presto la sua beatificazione, il libro di Paolo Amati contribuisce, tra l’altro, a tener viva la sua figura, a non dimenticare un grande uomo, di azione e di preghiera, quale è stato Zaccaria Negroni. Domenico Defelice
y vamos sembrando promesas de exigir justicia con coraje y valor: no descansaremos de la lucha hasta que, otra vez juntos los cinco héroes cubanos nos den la mano desde ese lado de la libertad. Teresinka Pereira
BIENVENIDO, RENÉ*
Stanco, di danza, un satiro riposa accanto a pietre, fresche, di fontana. E’ quasi nudo. La fanciulla estate volge altrove, pudìca, le pupille.
En la patria elegida se puede cantar con el pueblo en noches ardientes hasta el brillo de la aurora. Regresar a la patria es poner diamantes de sol en un corazón trascendente con esperanzas sin tregua. Los compañeros esperan
USA *René Gonzalez Schwerert es uno de los cinco cubanos que fueron condenados a prision en los Estados Unidos por haber denunciado las acciones violentas de los grupos terroristas de origen cubano basificados en la Florida. Él acaba de salir de la prision y ha regresado a Cuba en donde se junta al pueblo en la lucha para libertar sus cuatro compañeros que todavia estan en prision. Teresinka Pereira Il 28 dicembre scorso, a Oppido Mamertina (RC), è stato tenuto un Convegno in onore di Geppo TEDESCHI, a 20 anni dalla scomparsa. Daremo notizia nel prossimo numero. Intanto, ecco due sue belle poesie:
TRA CAREZZA DI PIOGGIA Tra carezze, di pioggia, ora s’addorme questa bruciante siccità d’agosto. Tocca remoti d’anima la ripresa parlata del torrente e in deterso rilievo tu mi torni. AL LIMITE DEL BOSCO
Geppo Tedeschi
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PASCALE DELORMAS 'DE L'AUTOBIOGRAPHIE À LA MISE EN SCÈNE DE SOI. LE CAS ROUSSEAU'. Ouvrage publié avec le concours de l' Université Paris-Est Créteil. Editions Lambert-Lucas, Coll. Linguistique & Littérature, Limoges, 2012. di Ilia Pedrina
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EAN Jacques Rousseau suscita, al solo pronunziarne il nome, un balzo all' indietro nel tempo, nel clima ricco di innovazioni e di contraddizioni quale è stato quello dell'Illuminismo Francese, quasi un balzo della tigre direi, che dalle atmosfere regolate sulle luci della Ragione, per quegli intellettuali che si riuniscono nei salotti tra borghesia rampante ed aristocrazia annoiata ma in cerca di costante visibilità arrogante, arriva fino alle insoddisfazioni più profonde e provocatorie della massa, massa critica del popolo, guidata da studiosi e teorici della politica e dell'economia di allora, che se ne serviranno perché il sangue lungo le strade scorra copioso ed a galla emergano teste, regali o meno non ha importanza. Vivo male sia l'irrazionalità delle scelte e delle azioni, come l'ingiustizia lavata e levata a colpi d' accetta o di lama da ghigliottina, perché la violenza fa fare passi indietro alla Storia ed il meglio conquistato fino a quel momento se ne va, mentre trionfano parole da imprimere nella mente e da diffondere con ogni mezzo, basta che restino ' parole', come è il caso oggi del termine ' Democrazia'. Le parole di allora erano ' Uguaglianza', 'Fraternità', 'Libertà' e mi assumo tutta la responsabilità delle riflessioni fin qui sintetizzate, dato che questa monografia della studiosa Pascale Delormas non ne tratta, mentre invece, con tecnica quasi cartesiana, va a svelare molti importanti aspetti dell'analisi critica dei testi di questo filosofo illumista francese. Due i grandi campi di indagine portata ad investigare la vita e le opere di Jean-Jacques Rousseau, che l'Autrice offre al lettore, orga-
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nizzati nel loro insieme da una sua ' Introduction' - importantissima, perchè offre un quadro generale dei diversi approcci nel dare 'scrittura di Sé o 'del Sé', secondo le diverse Scuole di analisi critica del testo letterario e non solo, quali quelle di M. Raymond e di J. Starobinski e chiarendo come questi debbano di fatto affrontare non poche difficoltà ed arricchendo il quadro di altri importantissimi contributi internazionali su questi temi - : I. POSITIONNEMENT ET PARATOPIE; II. LA SCÉNOGRAPHIE DES ŒUVRES. Andremo a breve a chiarificare in sintesi le tre grandi ripartizioni che ciascuno di questi due settori implica ed approfondisce, perché quasi in maniera matematica, cartesiana direi, la studiosa conduce per mano il lettore ad impossessarsi delle tecniche linguistiche e di struttura letteraria che sottendono alle opere prese in esame: 'Confessions', 'Dialogues' e 'Rêveries', toccando tematiche di ricerca critica del significato del testo, sia esso di tono riservato, intimo, confidenziale, sia esso di respiro storico, filosofico, pedagogico, eticopolitico o di calibratura a strati di differenti scenografie, se si tratta di percorsi che viaggiano verso l'eternità della propria immagine. Diamo qui di seguito solo i titoli delle tripartizioni che queste due sezioni contengono, proprio per fornire un'idea della qualità e della raffinata precisione con le quali la Delormas affronta il non semplice argomento che si è proposta di scandagliare: I-1.République des Lettres et positionnements de Rousseau; 2 Les apories de la communication; 3 Autographie et vie de philosophe: vers un discours constituant. II 4. Questions de catégorisation; 5 Questions d'énonciation; 6 Des actes indirects. Certo in questa fatica intellettuale ella non è sola ma ha alle spalle un percorso professionale invidiabile, che le ha consentito di trarre vantaggio dagli orientamenti di ricerca del prof. Dominique Maingueneau, del quale mi aveva parlato fin dal nostro primo incontro prezioso e non superficiale a La Grave, nel
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corso del Festival Olivier Messiaen 2013. L'autrice spiega che J. J. Rousseau, il Ginevrino della classe 1712, dopo l'arrivo a Parigi, non scaltro né ricco, ma affabile e dai moti gentili, qualità queste che le dame salottiere apprezzano oltre ogni dire - diciamo pure che ve n'è un bell'elenco ai suoi piedi, da M.me d'Epinay, già amica di Diderot, a M.me de Besenval ed a sua figlia, a M.me de Broglie, fino a M.me Dupin -, è in grado di approfittare dell'amicizia per lui programmata con Diderot e con altri della corrente scientifico-letteraria dell'Encyclopédie, consentendo loro di aprirgli un poco la strada: gli elementi del suo 'posizionamento' sono tratteggiati con vera accuratezza in questa monografia, anche se mancano dati sul suo 'periodo veneziano', al seguito di M. de Montaigu, che svolgeva l' impegno di Ambasciatore di Francia proprio a Venezia. L'acuta sensibilità del Rousseau assai male si adatta alle trame ed agli intrighi di salotti e corridoi, aristocratici o allargati alla ricca borghesia ben in ascesa, così si profila quanto è riassunto nel termine 'paratopie', ben difficile da tradurre in lingua italiana. Cito alcuni tratti significativi, che Rousseau stesso presenta di sé, riportati in nota: “Deux choses presque inalliables s'unissent en moi sans que j'en puisse concevoir la manière: un temperament tres ardent, des passions vives, impétueuses, et des idèes lentes à naître, embarrassées, et qui ne se présentent jamais qu'après coup. On dirait que mon cœur et mon esprit n'appartiennent pas au même individu” (Pascale Delormas, De l'autobiographie à la mise en scène de soi. Le cas Rousseau, ed. Lambert-Lucas, Limoges 2012, pag. 52, n. 1: J. J. Rousseau, 'Confessions', Livre III, pag 113). Le citazioni che l'Autrice porta a prova dei suoi rilievi critici e strutturali della scrittura di Rousseau sono tratti alla bisogna in particolare dai tre testi 'Confessions', 'Dialogues' e 'Rêveries', i cui contenuti chiave sono messi in ottimo risalto nel corso della trattazione. Allora il termine ' paratopie' sta ad indicare lo sforzo del filosofo francese di dettagliare la sua posizione marginale rispetto ai luoghi, ai
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tempi ed alla società che trova intorno a sé, a tal punto da sottolineare a più livelli disagio, rifiuto, ambiguità, ambivalenza, isolamento, ricerca di radici profonde nella sacralità dei legami delle società primitive, che l'attuale stato di cittadini sottoposti ad uno Stato di diritto e di fatto che li governa ed al lavoro spinge a violare totalmente, creando infelicità e noia e tradendo così l'intera umanità. Ma per capire in profondità il tipo di avvicinamento e di scrupolosa analisi dei testi che la Delormas porta avanti, è necessario addentrarsi nello scopo preciso della trattazione, quello che mette in rilievo le strategie adottate da J. J. Rousseau per essere contro corrente e per attirare a sé il lettore, con tecniche di scrittura ben adeguate a farne una figura di rilievo. Cito: “...Nous avons introduit le néologisme d' 'autographie' (Delormas 2010a) pour désigner les écritures de soi qui ont vocation à l'être; l'autographie se distingue de l'autobiographie dans la mesure où il ne s'agit pas d'exprimer une quelconque intimité, mais de faire valoir un 'grand auteur'. Les critères suivants nous ont paru à même de rendre compte de la spécificité de certaines mises en scène de soi: -L'autographie est une catégorie transverse, elle ne renvoie pas à un genre déterminé, elle s'appuie sur une combinaison de critères à la fois linguistiques (marques de l'enonciation) et communicationnelles. -Elle est agencèe et assumée par un locuteur qui revendique son autorialité. -Elle poursuit l'objectif déclaré de dévoilement de la personalité de l'auteur – ce qui sous-entend qu'elle présente un intérêt pour une collectivité. -Elle se fonde sur une injonction de vérité, sur un pacte qui suppose la verifiabilité des faits et engage la sincérité de l'auteur...” (P. Delormas, op. cit. pp.11-12). Ed in effetti tutto il lavoro, dettagliato e coinvolgente, citazioni specifiche dai tre testi di Rousseau che abbiamo evidenziato comprese, ma non solo, può essere utilizzato per approfondire meglio la costruzione intellettuale che
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questo scrittore intende portare avanti attraverso le sue opere, attirando a sé i lettori del suo e d'ogni tempo, perché colgano ciò che a loro serve, in una dimensione di temporalità che ha tutte le caratteristiche dell'umana eternità. Ilia Pedrina
IN DIALOGO CON
PASCALE DELORMAS, RICERCATRICE FRANCESE SULL'ANALISI DEL TESTO LETTERARIO E FILOSOFICO di Ilia Pedrina
T
UTTI noi, lettori e collaboratori di questa Rivista, con il suo Direttore in testa, amiamo la lingua francese, i suoi scrittori, i suoi poeti, i suoi filosofi, e tutti quelli che da secoli vogliono fare un 'viaggio in Italia', come ad esempio Montaigne, che verrà a sperimentare l'efficacia delle cure termali e dei bagni ristoratori per le sue affezioni urinarie. D'Annunzio se n'è andato dalla sua tenuta alla 'Capponcina', trova protezione, conforto e divertimento assicurato a Parigi e vi incontra Debussy; Lionello Fiumi se n'è andato da Verona, ha sostato a Parigi e vi trova la prima vera compagna della sua vita, che gli diverrà sposa ed apre la sezione parigina della 'Dante Alighieri', abitando in Rue de Lauriston, dove gli vengono recapitate anche le lettere di Giuseppe Antonio Borgese, persino dall'America (sulle quali sto lavorando non poco e reperite dall'Archivio del Fondo Fiumi a Verona); io me ne sono andata da Vicenza, per pochi giorni però, alla fine del 1972, ed a Parigi ho incontrato Louis Althusser e Claude Lefort e Guy Tosi e la carissima, indimenticabile Solange De Bressieux: ne sono nati materiali inediti per la mia tesi di laurea su Maurice Merleau-Ponty ed una passione profonda per la lingua francese, che ancora permane inattaccabile. Questa la premessa per parlare di un incontro sincero la sua parte ed assai importante, quello con Pascale Delormas, esile, graziosa e delicata, provetta
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camminatrice tra le alture del Ghiacciaio di La Mejie, a La Grave, in occasione delle varie edizioni del Festival 'OLIVIER MESSIAEN': quel panorama mozzafiato ha fatto da cornice al nostro rendez-vous, a sorpresa, perché io stavo lavorando 'in solitaria' al testo 'Pli selon Pli' al Cafè des Alpes e mi sono sentita appoggiare una mano sulla spalla. Era lei. La conversazione si fa intensa, Stéphane Mallarmé e poi Verlaine e poi Pierre Boulez, con le sue composizioni investigative proprio sui testi poetici di Mallarmé, come lo è la composizione 'Pli selon Pli', e poi i concerti, il commiato, la promessa di darle meritato spazio su questa preziosa Rivista, perché in essa molti sono i veri intenditori di analisi critica del testo letterario, in primis proprio il nostro Direttore. I. P. Eccoci a noi, cara Pascale. A nome del nostro Direttore, prof. Domenico Defelice e di tutti i lettori di Pomezia Notizie, che sono poeti, scrittori, studiosi delle Lettere, delle dottrine del Diritto, delle Scienze, e delle Arti, e di molti altri campi del Sapere, ti chiedo di fornirci alcune prospettive sul tuo profilo intellettuale e professionale. In questa direzione, quale è stato il ruolo svolto dal prof. Dominique Maingueneau nel formulare i tuoi personali punti di vista nell'approccio alla ricerca su testi francesi di Letteratura e di Filosofia? P. D. Dominique Maingueneau, Professore di Linguistica alla Sorbona, è molto noto in Europa ed in Brasile all'interno della comunità dei ricercatori nel campo delle Scienze del linguaggio, per ogni tipologia di lavoro sull'analisi del discorso. E' coeditore di un 'Dictionnaire d'analyse du discours' (con P. Charaudeau). Il suo contributo è essenziale e decisivo in materia di analisi del discorso letterario. La sua elaborazione teorica raggiunge risultati ambiziosi e la presentazione che ne fa è assai didattica: anche se tutti si trovano d'accordo nel ritenere il suo approccio all'analisi del discorso letterario molto convincente, la sua prospettiva si scontra con diversi ostacoli. Il primo è quello della incomunicabilità o 'chiusura' disciplinare. I letterati ed i filosofi
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mal sopportano che ci si accosti a quello che loro considerano come proprio 'dominio' con strumentazioni che sono a loro estranee. Il secondo ostacolo consiste nel rimettere in discussione la loro identità ed il loro concetto di opera letteraria e di 'autorialità'. In relazione e nei confronti dell'analisi del discorso, il testo letterario è desacralizzato. La distinzione tra testo e contesto appare fragile e gli interrogativi che vengono posti non sono più affatto gli stessi: essi riguardano la dimensione sociostorica, pragmatica ed enunciativa, che ora divengono di interesse cruciale. La rivendicazione d'un tale taglio netto ('regard surplombant') è molto difficile da accettare da parte degli specialisti di letteratura o di filosofia, tanto quanto l'approccio di Bourdieu (1), considerato dai suoi colleghi 'condiscendente'. Per quanto mi riguarda, mi è sembrato opportuno cogliere la possibilità che offre l'analisi del discorso di sfuggire ad una tradizione troppo spesso ammessa come irrefutabile. La mia formazione iniziale di germanista e di linguista, insieme con la lunga permanenza nell'Africa dell'Ovest, che ha contrassegnato la prima parte della mia vita, mi hanno consentito di adottare la distanza critica che permette di considerare gli scritti come manifestazioni marcate culturalmente, collegate ad una particolare visione del mondo. Inoltre ho trovato interessante rimettere in discussione la definizione di un ipotetico “genere autobiografico” ed il carattere molto convenzionale delle interpretazioni che si sono solitamente espresse su Rousseau nell'ambiente universitario. Intellettualmente stimolante e ricca di promesse, l'analisi del discorso apre una breccia e svela nuovi orizzonti dai quali si può assumere una posizione di estraneità favorevole al giudizio. Questo fatto presuppone di ammettere la trasversalità degli approcci e di rinunciare a considerare gli scritti letterari o filosofici come dei testi, per affrontarli invece come dei discorsi: si deve allora tener conto dell'interdiscorso, vale a dire di tutti i discorsi che li mettono in essere, la configurazione del campo - nel senso di Bourdieu, vale a dire i con-
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flitti, le lotte che gli hanno conferito la sua identità -, gli effetti delle produzioni discorsive, l'ordine antropologico al quale esse rinviano, così come la vita degli individui in carne ed ossa che li utilizzano. Deve essere sottolineata la differenza con l'approccio dei sociologi della letteratura: nel momento in cui si interessano al contesto di produzione delle opere, è proprio la dimensione linguistica ad assumere una posizione centrale per l'analista del discorso. Egli tenta parimenti di non disgiungere il livello linguistico dal livello socio-storico. Il punto di contatto tra questi due livelli d'analisi è il genere. È così che in un primo tempo mi sono concentrata sulla nozione controversa di “genere autobiografico”. I. P. Nel catalogo della Casa Editrice Lambert-Lucas sono presenti molti studiosi che pongono in essere nuovi percorsi nell'esaminare criticamente autori e loro opere. Sei al corrente di quali sono alcuni importanti obiettivi raggiunti dal punto di vista editoriale? P. D. D. Maingueneau ed io abbiamo pubblicato due libri (il primo con Inger Ostenstad, il secondo con Frédéric Cossutta) presso l'Editore Lambert-Lucas, la cui sede è a Limoges ed il cui catalogo sta per divenire un punto di riferimento per le Scienze del Linguaggio. Le quarte di copertina mettono in luce in modo conciso l'intendimento: il libro 'Se dire écrivains' riguarda i gesti, i comportamenti attraverso cui un individuo si mette in gioco come scrittore. Negli approcci tradizionali della letteratura, una tale problematica non trova posto: da un lato ci sono i testi, dall'altro un certo numero di fattori sociali e psicologici che permettono di chiarire la loro genesi. Invece, a causa dell'approccio discorsivo di cui si vanta quest'opera, è necessario dare importanza all'attività di tipo istituzionale attraverso cui gli scrittori legittimano il modo singolare con cui assumono la loro condizione. Così, 'dirsi scrittore' è come mettere in campo un'opposizione spontanea tra il testo ed un'istanza esteriore, 'lo scrittore', che non riguarda direttamente la letteratura. In realtà, questo 'scrittore' non è né all'interno
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né all'esterno delle opere ed è necessario definire costantemente la posizione ch'egli intende occupare nel grande scenario della letteratura. 'La vie à l'œuvre. Le biographique dans le discours philosophique' è il secondo lavoro collettivo che ho coeditato. Esso esplora un aspetto particolare della produzione in campo filosofico, la scrittura biografica. Proviene dal Gradphi (Groupe de recherche sur l'analyse du discours philosophique), che riunisce filosofi e linguisti preoccupati di concepire la filosofia come un'attività discorsiva che non potrà essere ridotta ai soli monumenti scritti depositati nel pantheon della tradizione. Interessarsi alla biografia dei filosofi è troppo sovente come opporre la vita e l'opera, essendo la prima ridotta a chiarificare la seconda. Questo libro collettivo propone una rivalutazione di questo rapporto, restituendogli la sua complessità. La vita, vale a dire la biografia propriamente detta, fatta di eventi collegati ad un nome e ad un individuo in situazione, un modo di vita specifico, consistente nel vivere secondo precetti teorici e pratici, ma contemporaneamente anche le forme narrative che sintetizzano, perfino tentano di oggettivare scientificamente la vita nella biografia. Queste tre modalità s'intrecciano, si compenetrano, si richiamano o si oppongono. Mostrandosi sensibili alle dimensioni discorsive ed istituzionali dell'attività filosofica, gli autori s'impegnano a dimostrare che l'analisi non deve dissociare riferimenti di vita e riferimenti di metodo, l'emergere dei generi biografici ed il costituirsi dell'identità di filosofo. In questo modo la vita si vive nello scriversi, tanto quanto la scrittura si fa vita, in un perpetuo gioco d'intrecci. I. P. Alcune chiarificazioni intorno al termine 'constituant' ed al suo senso, come dimensione interessante di una particolare prospettiva sui testi di J. J. Rousseau. P. D. Il termine 'discours constituant' (discorso costituente) ha una storia recente. Questa nozione, introdotta da D. Maingueneau e da F. Cossutta in un articolo del 1995, rinvia ad un insieme di discorsi che “servono da garan-
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zia agli altri discorsi e che, non avendo per se stessi dei discorsi a monte che li convalidino, devono gestire nella propria enunciazione il loro statuto, in un certo senso 'autofondato'”, secondo il Dictionnaire d'analyse du discours (op. cit.), “i discorsi costituenti si appropriano di due dimensioni, una dimensione sociale ed una dimensione testuale ed enunciativa. L'ipotesi che sostiene una tale categoria è che questi discorsi - che possono essere tanto dei testi letterari quanto filosofici o religiosi – hanno un modo particolare di gestire il loro sistema d'inserimento nella società, la loro scenografia e la loro modalità di organizzazione testuale. Tale nozione associata a quella di 'costituzione' sfrutta due dimensioni inseparabili: la costituzione come organizzazione testuale e la costituzione come atto giuridico. Questa autolegittimazione permette loro di servire da garanzia ad altri discorsi”. Io cerco di dimostrare come gli scritti di sé quali sono le 'Confessions', 'Rousseau juge de Jean-Jacques', 'Rêveries' di Rousseau s'impongono in quanto pretendono di essere costituenti, spingono alla costitutività. Questa tensione verso la costitutività si manifesta d'altronde esplicitamente quando Rousseau scrive che essi saranno i soli testi a manifestare la verità su un uomo e che questa impresa sarà unica nel suo genere. Naturalmente tutti i tipi di metodi di scrittura convergono verso la stessa meta, con questa stessa intenzione. I. P. Siamo arrivati ora al tuo lavoro importante, 'De l'autobiographie à la mise en scène de soi. Le cas Rousseau', pure edito da Lambert-Lucas, che ho ben volentieri recensito qui, su Pomezia Notizie. È quasi come viaggiare con lui, con i suoi scritti ed all'interno della sua vita nel medesimo tempo e tu ci accompagni per mano, in modo calmo e competente. Quando ti è venuta l'idea di scrivere questa investigazione, che va a toccare tutti gli ambiti specifici della Cultura Europea del XVIII secolo, l'Età del Lumi, e non solo in Francia? P. D. Quando ho avvicinato D. Maingueneau per quanto concerne la prospettiva d'un progetto intorno ai generi della messa in scena di
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sé, avevo consapevolezza d'essere la prima a voler sperimentare su un corpus importante la validità e robustezza di tutto il suo apparato concettuale concernente il campo letterario. Ciò rappresentava una vera e propria rivoluzione intellettuale per quanto concerne il modo di leggere Rousseau e le sue autobiografie. Il circuito di proiezione che queste scatenano è massiccio, anche se è molto difficile per il lettore rinunciare a rappresentarsi un'altra persona dietro le parole rispetto a quella che il filosofo stesso ha così abilmente costruito. Tuttavia, come immaginare seriamente che Rousseau ci consegni una qualche sorta di intimità negli scritti su di sé? Perché questa tendenza 'da lettore', cioè lettoriale così innocente in essi, quando si tratta di Rousseau? Si tratterebbe allora d'una vera sfida che bisognava condurre contro il maggiore ostacolo che rappresenta l'evidenza... Era necessario ricontestualizzare i suoi scritti per arrivare a decostruire l'immagine che egli ha elaborato per i posteri. Dunque io ho orientato un nuovo sguardo sul filosofo di lingua francese che ha influenzato marcatamente il preromanticismo e, più in generale, su ciò che viene definito il “genere autobiografico”. Ne è risultato uno studio che rimette in gioco un certo numero di presupposti e di categorie di tipo generico. L'originalità del punto di vista dell'analisi del discorso risiede in realtà nella definizione ch'ella ci offre dei generi e della loro funzione. In egual misura nel mio libro ho inteso mostrare quanto pesi nella configurazione discorsiva la relazione che unisce una comunanza di espressione del discorso ed i suoi membri. Nel caso della figura paradigmatica di Rousseau, si tratta di comprendere che gli scritti su se stesso sono un mezzo per prendere posizione all'interno della comunità ch'egli frequenta; i suoi amici arriveranno a diventare i suoi 'nemici' e lui stesso andrà ad adottare un atteggiamento paradossale che gli consentirà di farsi capire. I. P. Pensiamo ora a J. J. Rousseau da Ginevra a Parigi, giovane e di bell'aspetto, forse amato dalle ricche cortigiane dei vec-
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chi regnanti di Francia, nel più importante contesto di intellettuali e filosofi del tempo. I circoli ed i salotti privati dell'aristocrazia sono le cornici più importanti del suo soggiorno parigino. Che dire del suo legame amicale con Diderot? Perché è finita questa relazione letteraria e filosofica al tempo stesso? P. D. Con Diderot c'è una relazione ambigua. Questi lo invita a partecipare al grande progetto collettivo dell' Encyclopedie, affidandogli degli incarichi. Rousseau stesso racconta nelle Confessions come Diderot l'abbia spinto a radicalizzare le sue posizioni politiche e sociali, incoraggiandolo nel momento in cui egli ha voluto concorrere all'Accademia di Berlino con il suo primo discorso. Ma era necessario che Rousseau evidenziasse la sua differenza e fornisse delle indicazioni circa la sua autonomia. In effetti, le figure di Diderot e di Voltaire sono strumentalizzate: poco importa che i rimproveri di Rousseau contro di loro si riferiscano o meno alla realtà della situazione; nel sottolineare i dissensi, nell'inveire contro le abitudini dei salottieri, nel criticare le loro usanze di 'filosofi' che li frequentano, Rousseau arriva a far comprendere tanto più chiaramente le sue scelte, ritenute più giuste, più conformi all'etica di un filosofo degno di questo nome e da qui tutti i suoi numerosi riferimenti all'antichità. I.P. E che dire della relazione tra J. J. Rousseau e Voltaire, anche avendo presente la tragedia di Lisbona, il tremendo terremoto avvenuto l'1 Novembre 1755, nel quale il numero dei morti è stato impressionante? In quello stesso momento Casanova era nella Prigione dei Piombi a Venezia ed ha visto muoversi tutto su e giù, in quella sua piccola stanza! P. D. Di nuovo voglio precisare che non mi interessa se Rousseau pensa veramente ciò che scrive e nemmeno affronto nella mia analisi la dimensione dottrinale, in quanto questo non è il mio obiettivo. Vedo nella pubblicazione del poema di Voltaire su 'Le tremblement de terre de Lisbonne' l'occasione propizia per Rousseau di prendere le sue debite di-
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stanze. Oltre alla possibilità di un posizionamento politico, si può leggere la sua 'Lettre sur la Providence' con data 18 agosto 1756, come una risposta a Voltaire. Questa prima manifestazione pubblica di disaccordo è il momento propizio, legato ad un evento che aveva scosso le persone sensibili di tutta l'Europa, che Rousseau sceglie per far conoscere una prospettiva che non sarà più quella di Voltaire. In seguito i due uomini non cesseranno affatto di porsi l'uno contro l'altro attraverso scritti interposti, radicalizzando così dei 'partiti presi', che concorrono alla loro visibilità. Tuttavia Rousseau afferma di provare una grande ammirazione per l'illustre pensatore e nelle 'Confessions' si rammarica di essere stato ignorato. I.P. Passiamo adesso ai concetti sviluppati nella struttura stessa della tua investigazione: il concetto di 'autografia', il concetto di 'paratopia' e la dimensione del 'se stesso', ovvero 'la messa in scena di sé', all'interno delle opere specifiche di Rousseau, 'Confessions', 'Dialogues', e 'Rêveries'. P. D. Il concetto di 'autografia' ha il vantaggio di distinguersi dall'autobiografia in quanto non si va a trattare il 'bios'. Con questo nuovo termine voglio spiegare che, dato che la vita è stata presa dentro dalla scrittura che ce ne ha fornito solo un'immagine, bisogna andare ad esaminare un artificio di scrittura che permetta l'incorporazione suggerita dall'autore, vale a dire questa convergenza immaginaria tra un'istanza di scrittore che si lascia leggere come autore - con tutto ciò che questo termine implica come ricerca di riconoscimento – e un lettore disposto a rispondere all'ingiunzione autoriale. Io propongo che il termine di 'autografia' indichi non un genere ma una categoria discorsiva, utilizzata nelle forme generiche molto diverse di 'scritti di sé', e che intenderà farsi leggere come un'opera. La prima funzione di accompagnamento delle opere di un autore per orientare la lettura viene allora ridotta a tutto beneficio di questa ambizione superiore. Ne do nel mio testo una definizione precisa ed il suo fondamento dettagliato poggia proprio sull'analisi degli scritti
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'autografici' di Rousseau. Il concetto di 'paratopia' è una proposizione teorica di D. Maingueneau che dimostra la tensione paradossale che caratterizza l'attività creativa: si tratta d'essere riconosciuto come membro della comunità - e questa lo promuove direttamente o indirettamente – pur sottolineandone la differenza. Tale distinzione si realizza in forme diverse: protagonisti marginali, rifiuto d'appartenenza sociale, rifiuto della norma sessuale, della norma familiare come pure della norma linguistica, queste sono le manifestazioni di scrittura più frequenti. Ora Rousseau fa della propria marginalità la sua bandiera, ma i fatti sono lì a contraddirlo. In realtà, in vita, egli ha una vera notorietà: il suo nome è conosciuto in tutta Europa, i suoi scritti sono ampiamente tradotti e non si conta il numero dei suoi fedelissimi. Ciò che stupisce è che la distorsione tra ciò che egli scrive di sé e la realtà vera della sua situazione non provoca nessuna meraviglia. È precisamente questo aspetto che mi ha coinvolto e spinto ad analizzare i suoi scritti. Nel mio libro esploro le procedure della 'messa in scena di sé', nei tre scritti di Rousseau, le 'Confessions',i 'Dialogues' e le Rêveries'. Io mostro quali sono i diversi sistemi di linguaggio impiegati che danno luogo al tipo di fascinazione da loro esercitata. Cerco di scoprire non un senso nascosto come si fa con un testo criptato, ma una maniera di scrivere che inserisce le opere nella posterità attraverso una presentazione di sé ambigua. Così Rousseau si mostra, lo si voglia o no, perfettamente a conoscenza delle strategie di scrittura del suo tempo e se sostiene la sua estraneità, ciò avviene nella prospettiva di guadagnarne in riconoscimento. I.P. Qual è il ruolo, da ieri a oggi, che il lettore può svolgere e gestire con questo particolare Autore e con i suoi testi complessi? P. D. Se si adotta il punto di vista critico dell'analisi del discorso, si guadagna in chiarezza. In ogni caso questa è l'esperienza che ho fatto e numerose testimonianze vanno in questa direzione. Ciò rappresenta un certo investimento cognitivo e questo comporta di
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accettare l'eventuale sospensione delle vecchie rappresentazioni, sacrificate sull'altare della chiarezza. Tuttavia il lavoro di ricercatore può essere completamente distinto da quello di lettore, coinvolto nella relazione intersoggettiva che i testi promuovono. Certamente l'analisi del discorso oppone il proprio punto di vista teorico all'ermeneutica, ma nessuno ignora il fatto che la nostra riflessione è indifferente a questo tipo di contraddizione e che il lettore semplice può coesistere molto bene con il lettore addentro all'analisi del discorso. I livelli di lettura evidenziati non mobilitano le stesse competenze né la stessa sensibilità. I.P. Che ruolo svolge Michél Foucault e la sua prospettiva nella tua analisi di Rousseau e della società in cui ha vissuto? P. D. Se l'analisi del discorso rimette sul tappeto la questione dell'autorialità e fornisce un posto importante alla vita dell'autore, in opposizione al senso comune della lettura concreta dei testi, questo non accade certo per ritornare alla vecchia tradizione che vedeva una relazione essenziale nel rapporto vita/ opera. La prospettiva dell'analisi del discorso è per questo aspetto vicina alla concezione foucaultiana della morte dell'autore; la nozione di 'strati testuali' e la definizione dell'autore che ne dà Foucault nel suo celebre articolo 'Qu'est-ce qu'un auteur?” rendono ragione d'una concezione del 'letterario' che l'analisi del discorso ha fatto suo. L'autore è interpretato da Foucault come funzione; il suo nome è associato ad una icona e circola come referenza. Il nome dell'autore è la garanzia che dà consistenza alla realtà delle finzioni. I lavori che ho portato avanti sulle manifestazioni linguistiche dell'autorialità nelle opere autografiche di Rousseau danno dimostrazione fondata d'una tale concezione e ne sviluppano le conseguenze. I.P. Hai costruito la tua investigazione come un'esposizione semantica di stadi e livelli interni alla vita ed alle opere di Rousseau: connessioni logiche e sezioni consequenziali con cui noi possiamo andare a costruire un bell'edificio intellettuale ed ar-
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tistico. Vi è qui un certo qual elemento che viene da Wittgenstein e dalla sua esperienza sul linguaggio e sul suo uso? Vi sono anche altri punti di riferimento che hanno illuminato la tua passione ed abilità nella scrittura? P. D. Riconosco una certa affinità dei miei lavori con la critica del modello rappresentativo della conoscenza in Wittgenstein. Dato che per Wittgenstein non esiste il concetto di verità indipendentemente dal nostro comportamento linguistico, si possono effettivamente ritrovare nel mio libro delle indicazioni che mostrano una prossimità con questo filosofo, ma essa è diluita. Si può tentare un accostamento chiarificatore tra Wittgenstein e Foucault, che è un pensatore inevitabile nell'analisi del discorso. Quando egli scrive nella 'Archéologie du savoir', alla pagina 153-154, che la pratica discorsiva è “un insieme di regole anonime, storiche, sempre determinate nel tempo e nello spazio che hanno definito, in un'epoca data e per un dato clima sociale, economico, geografico o linguistico, le condizioni d'esercizio della funzione enunciativa”, si può pensare ch'egli riprenda l'enunciato (lapidario) di Wittgenstein, secondo il quale “un gioco (linguistico) si realizza seguendo una regola data” (Philosophische Untersuchungen, op. cit. § 54, p. 270). I.P. La società e le sue tecniche di comunicazione sono sempre terreni in movimento nei quali chiunque scrive può trovare la sua strada per arrivare al futuro? J. J. Rousseau stava ricercando una particolare forma di eternità... P. D. Certo la ricerca d'eternità di Rousseau è leggibile nei suoi scritti, ma io mi guardo bene dall'usare l'immagine retrospettiva che ci viene data abitualmente. Non dimentichiamo che Rousseau è un uomo del XVIII secolo e che obbedisce a dei sistemi di comportamento che sono quelli dei suoi contemporanei. Ciò che m'interessa è precisamente la fabbricazione del discorso, non certo il montaggio delle procedure retoriche - che è l'oggetto di studio della stilistica e che coinvolge soltanto la dimensione testuale - ma l'articolazione del
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linguaggio e della sua inscrizione sociostorica, cosa che implica di osservare le interazioni degli individui e delle comunità discorsive che gli danno corpo. L'analisi del discorso contribuisce ad esplorare i segreti della circolazione del linguaggio, chiamando in causa tutti i parametri che gli conferiscono il suo spessore. Ilia Pedrina (1) Nella quarta di copertina del suo 'Méditations pascaliennes', Pierre Bourdieu si presenta come '...anthropologue, sociologue, professeur au Collogé de France' (Éditions de Seuil, Paris, 1997), evitando accuratamente di far rilevare il territorio della Filosofia, al quale in realtà apparteneva, per porre il più pieno accento sul legame stretto tra scrittura e vita sociale negli Autori da lui presi in considerazione, sullo sguardo da antropologo, da sociologo appunto.
FRA QUA E L’ALDILÀ Immerso fra qua e l’aldilà, mi sento nocchiere in bilico tra ricordi lacrimosi, delizie frante e chimere perdute. Sì, il trasloco è imminente: poi, che sarà degli occhi miei rinsecchiti, del mio corpo piagato, dei miei pochi canti sofferti alcuni ancora intonsi? E’ tanto dolore il silenzio. Il prossimo valico è sterposo e misterioso. E’ questa frontiera ispida l’ultraterreno? Intanto il travaglio della morte scava e scava, mentre io attendo la Luminosità brulicante degli abbagli. Ma Signore, se fioca sarà la luce bramata, io volentieri tornerei al buio della terra, ai trastulli dell’ignara fanciullezza, candida,
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povera, sognante. I miei passi intanto sdrucciolano su pietre biancastre consunte di vari lustri e mi pare udire rosari e preghiere di dame popolane, bagnate di stille di sale. Sta per estinguersi ormai anche il cuore, raggio di sole che a spicchi lento si eclissa dentro il velluto della bocca del vulcano. Cos’è la morte? Forse la pace tutta quiete o un fardello di piombo che appena si smuove o forse un cumulo enorme di piume leggere leggere, o forse il serpente nero che con l’aspide mi striscia accanto o forse ancora è la bilancia di Dio che di ciascuno disvela la doppia partita del bene o del male. E mi chiedo, qual è il saldo della inquieta mia aspra vita? Quale? Rocco Cambareri AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 25/11/2013
Il giudice Grattieri paventa che Papa Francesco possa venire assassinato. Non direttamente da ‘Ndrangheta e Camorra - dice -, ma da chi, in Italia, detiene il vero potere economico e politico. Dio non voglia, ma se dovesse succedere, il colpevole è già noto a tutti: Silvio Berlusconi! Domenico Defelice
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LA MOSTRA "VICE VERSA" DI
BARTOLOMEO PIETROMARCHI ALLA 55ESIMA EDIZIONE DELLA
BIENNALE DI VENEZIA di Andrea Bonanno
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OPO la variegata schiera propinataci dal Gioni, con il titolo de "Il Palazzo enciclopedico", in salsa psicanalatico-junghiana, di esoterici, di spiritisti, di cartomanti astrali, di visionari di ogni sorta, di "outsider", nonché di quanti si dimenano fra il trendy e l'ossessiva maniacalità, si è avuta la mostra del direttore del MACRO di Roma Bartolomeo Pietromarchi. Se il Gioni declina l'arte come una patologia esclusivista che privilegia visioni stralunate e schizoidi, elucubrazioni e deliri di tanti veicolatori passivi delle emergenze dell'inconscio e dei detriti sottoculturali a carattere esoterico del primo novecento, ciò che non convince di siffatta retroguardia è il voluto misconoscere le terribili problematicità del reale e la penosa condizione in cui versa l'arte contemporanea, ridotta ad una estetizzazione di un neodadaismo che affibbia simboli oscillanti1 a degli oggetti estrapolati dalla realtà, considerati dei "ready-made", con la scandalosa sparizione della vera pittura, ridotta a peregrine apparizioni estetistiche e decorative, Il Pietromarchi presenta una sua teorica partitura incentrata su concetti generici e formalistici, che non riguardano la ricerca di nuovi significati culturali, politici e sociali. Tutto sembra scivolare nelle trite risoluzioni del già visto e saputo. Eppure, nell'intervista del 5/10/2012 2, il suddetto curatore aveva espresso la volontà di far respirare l'arte aprendola ad esperienze nuove e di verificarne alcune sue linee. Così, attraverso dei concetti indicativi ed oppositivi "polarmente coniugati", richiamandosi al filosofo Giorgio Agamben di "Le categorie italiane. Studi di poetica" (1996), vuole ricercare la definizione della nostra vera identità e della medesima essenza dell'arte. Si direbbe un bel progetto filosofico e an-
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tropologico, oltre che politico e sociale in teoria, ma ci si accorge ben presto che tutto frana in un manieristico neodadaismo gratuito e, a volte, da cabaret, in una clonazione inerte di qualche aspetto della realtà, mancando spesso alle operazioni estetiche presentate un vero spessore poetico che caratterizza una vera opera d'arte. I concetti antinomici proposti (corpo/storia, veduta/luogo, suono/silenzio, prospettiva/superficie, familiare/estraneo, sistema/frammento e tragedia/commedia) si offrono come degli indicatori generici e delimitatori del contenuto delle opere presentate da ben sette coppie di operatori estetici, le cui opere sovente si originano da spunti didascalici, da abbrivi di un rarefatto con- cettualismo libresco e didattico o da una banale e paradossale trovatina di un pessimo luna park. Non vi è allora alcun dubbio che la partitura teorica dei binomi tematici proposti si rivela opportunistica e uno stratagemma di comodo per annoverare alcuni dei suoi operatori estetici, che ha già presentato al MACRO di Roma, di cui è direttore dall'agosto del 2011, bypassando ancora una volta l'importante distinzione tra rappresentazione e presentazione, fra la commistione di tanti codici linguistici delle differenti discipline dell'arte e l'autonomia di ognuna di esse, fra una gestione democratica connessa al riconoscimento del valore dell'opera e la sua becera e truffaldina manipolazione clientelistica. Ad una diversa tematica proposta si raffrontano di volta in volta allora due operatori estetici. Per la sezione "corpo/ storia" viene riproposta una performance del 1973 di Fabio Mauri (19262009), dal titolo "Ideologia e natura", in cui una "giovane italiana", in divisa fascista, si veste e si spoglia di continuo, per volere esorcizzare l'incubo di un ritorno delle ideologie totalitarie e la conservazione in torri lignee della terra rimossa dalle fosse comuni di noti eccidi storici da parte di Francesco Arena (1978). Per il "suono/silenzio", si ha con Massimo Bartolini (1962) il rifacimento di un corridoio stretto senza uscite, cosparso di terra e pietre in bronzo, la cui terribilità del silenzio viene scandita dalle parole/musiche di
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Giuseppe Chiari, mentre per il suono, Francesca Grilli (1978) emette vocalizzi che vogliono infrangere la monotonia raggelante di una goccia d'acqua che, cadendo su una grande lastra di ferro, forma delle striature di ruggine. Per "familiare/estraneo", Flavio Favelli (1967) presenta una grande cupola tardorinascimentale, enigmatica e grottesca, tentando di far coincidere la sua visionarietà con quella degli "altri", mentre Marcello Maloberti (1966) dà luogo ad una performance in cui dei ragazzi alzano e abbassano dei teli azzurri su un monolite. Per il binomio "sistema/ frammento" si ha un omaggio a Gianfranco Baruchello (1924) con la presentazione del suo laboratorio di ricerca e della sua stanza per dormire. L'impossibilità del "furor" classificatorio sussiste anche nel rifacimento di un pavimento costituito da diecimila mattoni, recanti ognuno il nome di un satellite o di un ordigno spaziale ancora in orbita da parte di Elisabetta Benassi (1966). Per "Prospettiva/superficie", si hanno le forme essenzializzate, come ombre scaturite dalla memoria, di Marco Tirelli (1954), che insieme ad oggetti ed assemblaggi vari formano delle particolari stanze mentali, mentre le proiezioni prospettiche di Giulio Paolini (1940) , ambigue ed ingannevoli, sembrano incrinare il concetto stesso di una vera percezione, che rimane utopica ed illusoria. Per la sezione "tragedia/commedia" si ha la strampalata performance del kosovaro Sislej Xhafa (1970), consistente nella performance di un vero barbiere che riceve i suoi malcapitati clienti su un albero, Piero Golia (1974) invece presenta un cubo di cemento in cui è stata mescolata della polvere d'oro, che chiunque può ricercare e portare via, se ci riesce. Un richiamo alla realtà, se pur flebile, è costituito da quell'odore che accompagna, nella sezione "Veduta/ luogo" le foto del "Viaggio in Italia" di Luigi Ghirri (19431992), ma anche dall'opera di Luca Vitone (1964), ossia di una "scultura olfattiva", consistente in un odore molto aspro che si può ovviamente solo annusare, con il quale tenta una rievocazione immaginifica dell'o-
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dore letale dell'Eternit. Siffatta presunta opera d'arte di certo s'apparenta alla nota scatolina di Sib Legeru, dal titolo Olfatto Numero Uno, descritta da Hilaire Belloc3 e riportata dal Praz, emanante i più sconcertanti e disgustosi maleodori. Allora appare evidente di essere giunti ad una situazione scandalosa, in quanto ciò che era una parodia si è tramutata in un avanguardistico capolavoro nei nostri giorni, trattandosi di operazioni estetiche per lo più inani e scontate; paradossali, astrattizzanti e didascaliche del già risaputo, che di certo non approdano alla vera arte, mancando a siffatti neodadaisti, in veste concettuale, la possibilità e la capacità di permettersi una inedita rielaborazione sintetica ed artistica della realtà.4 Andrea Bonanno Note 1
Interessante è quanto scrive Francesco Correggia nel suo articolo "A proposito della 55esima edizione della Biennale d'Arte di Venezia, del 31/ 07 /2013, comparso ne "La Stampa", nel punto in cui parla di "catalogazione delle cose", del carattere simbolico della rappresentazione del mondo, sorretti da un "sincretismo generalizzante" e, soprattutto delle metafore che "hanno valore soprattutto quando riescono a delineare un intero sistema semantico, vale a dire un nuovo e inconfondibile cosmo intellettuale, materiale e sociale del linguaggio". 2 Intervista, a cura di Marco Vallora, ne "La Stampa" del 5/10/2012. 3 Hilaire Belloc, The Missing Masterpiece, pubblicato nel 1929. Cfr. Mario Praz , Perseo e la Medusa, Milano, 1979, pp. 373-374. 4 In tale senso, il concettualismo e il neodadaismo da decenni hanno apportato un'immane confusione sul vero significato dell'arte, il cui iniziatore malefico resta quel Duchamp con quella sua assurda e verbosa ri-nomazione di un reale orinatorio in opera d'arte. L'oggetto allora non esisteva più, essendo diventato la simbolizzazione di un evento nominalistico. I nuovi esteti, facenti parte dell'attività curatoriale, perseguono testardamente sulla fallace strada del modernismo, per i quali l'arte consiste nella presentazione di scarni oggetti che parlano da soli, rischiarati da qualche bagliore a carattere simbolico. Del resto, il Bonami non è da meno, se scrive, nel suo articolo (La Stampa, 27/05/2013, che l' "Arte può essere un po' tutto dipende da come si guarda e da come e dove si mostra".
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GERMANA MARINI ULTIMA CHIAMATA AI PASSEGGERI di Giuseppe Leone
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distanza di un quarantennio esatto dal suo esordio, avvenuto con Disincanto (1973), Germana Marini pubblica, con la presentazione del Cardinale Giovanni Lajolo e l’introduzione di Andrea Tornielli, vaticanista de La Stampa, la sua dodicesima raccolta di liriche: Ultima chiamata ai passeggeri (l’accorato appello a un mondo che ha sostituito l’Io a Dio), edita nel novembre 2013 dalla Cantagalli di Siena. Un titolo che evoca Vi supplico, convertitevi! (un’altra silloge della poetessa), a cui sembrerebbe accomunarlo un identico stato d’animo, frutto di una intensa e appassionata perorazione del culto mariano. Si tratta di una settantina di liriche, che potremmo suddividere in tre parti, per via di tematiche divenute, ormai da tempo, stabili e ricorrenti nella lirica religiosa della Marini: il già ricordato culto di Maria, l’attenzione all’ operato dei papi, lo sguardo, sempre vigile e attento, sulla cronaca mondana. Il tutto in uno stile epigrammatico, con un lessico scarno e disadorno, a volte anche spoglio, fino a conferire alle sue liriche la forma dell’aforisma, tipica della poesia gnomica o sentenziosa. Sono temi che vanno dall’eutanasia alla mafia, dai giovani barboni pankabestia all’ esasperante delirio dell’io, alla crisi delle vocazioni al sacerdozio, al moderno mercato degli schiavi, al femminicidio: tutti argomenti che non vengono mai elusi o nascosti, perché il canto mistico di Germana non annulla mai l’ io, ma lascia spazio anche alla ragione, consentendo che anch’essa partorisca la sua realtà. Non avviene mai di non ritrovare fra le pieghe della preghiera un riflesso di ciò che accade nel mondo o un riverbero dei fatti della storia. Per cui la sua poesia religiosa appare subito come una mirabile sintesi fra il misticismo cristiano di San Bernardo di Chiaravalle, integralista e chiuso a ogni esperienza sensibile, e il razionalismo cattolico di Abelardo,
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aperto alla filosofia e alla storia. Ecco, allora, lo spazio che la sua poesia mistica concede ai papi, in particolare la riflessione sui più recenti: dall’encomiabile esempio di Benedetto XVI, che ha privilegiato, secondo la Marini il nascondimento / e il silenzio, rispetto a un potere / temporale, cui mai aveva ambìto, per riaccendere la speranza di un ritorno della Chiesa / alla Sua primitiva credibilità / e grandezza (22), facendo di lui un novello Celestino V, anch’egli dimessosi dal pontificato nel dicembre del 1294, “per rimanere un buon cristiano”; a papa Francesco, anch’egli votato alla causa del rinnovamento della coscienza religiosa, con i suoi messaggi dirompenti come l’uomo non è riducibile a ciò che produce / e consuma oppure il vero pastore deve portare addosso / l’odore delle pecore (23). Germana, intitolando la lirica a lui dedicata: Francesco. El papa del pueblo, sembrerebbe voler adombrare la realtà della Chiesa nell’America Latina, dove la sacra istituzione, per una particolare condizione storica, è stata sempre più vicina alle tesi del marxismo rivoluzionario e alle attese della gente comune che non alle posizioni del potere politico ed economico dominante. Un magistero, questo di papa Francesco, che la poetessa descrive alimentato da una miscela esplosiva di più culture: quella medievale nostrana dei francescani che sognano una chiesa povera per i poveri (22) e quella del clero dell’America Latina che vuole continuare a credere che l’uomo non sia cifra esatta nel libro dei conti della società consumistica. Anche la figura di Maria ha nella poesia della Marini un’ispirazione realistica. Il volto della Madonna non è soltanto quello delle tele della tradizione cattolica o bizantina che sia, come vorrebbe far credere il dipinto di una Madonna del Rosario del Caravaggio posta sulla prima di copertina del libretto, ma è quello di Asia Bibi, la donna pakistana, condannata a morte per blasfemia / e da quattro anni detenuta / in attesa della definitiva sentenza; è quello di Fatima, piccola cameriera marocchina, torturata per ore con la brace
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viva (42); e delle 2200 donne che dall’inizio del nuovo secolo ad oggi sono state uccise in Italia dalla violenza degli uomini (49). Una poesia religiosa, allora, questa di Germana, che dà poco spazio ai temi liturgici della Crocifissione o della Pasqua, così tanto cari alla poesia religiosa di Fra’ Jacopone, per “affrontare appassionatamente” - così scrive Giorgio Barberi Squarotti nella aletta della prima di copertina - “i problemi dell’etica attuale”. Per porvi rimedio, la poetessa non sogna una sottomissione dell’uomo “per vendicarsi d’essere state / a lui subordinate da sempre / perché non farebbe che perpetuare / la bieca logica del dominio (47); né di sostituire, al vertice del governo del mondo, Dio con una dea. Chiede solo un mutamento di rotta nella morale cristiana, tale da indurre a perdonare il peccatore, / non, assolvere il peccato! (58). E questo è il fine al quale mira la poesia di Germana Marini. Ne dà impulso, insistendo nella polemica contro quei cristiani che ancora seguitano ostinatamente / a negare – o minimizzare - / la valenza delle Dottore della chiesa o di Santa Caterina da Siena “patrona d’Europa” (49); che non vedono in Maria una corredentrice assieme a Cristo delle imperfezioni dell’umana natura e contro i quali, ora, lei esprime tutto il suo disappunto, chiamando la loro posizione una misoginia / deprecabile e assurda (18). Una polemica che Germana non conduce ancora nel segno di un femminismo cristiano. La sua poesia forse vi giungerà, ma al momento riteniamola solo una nostra scommessa per il futuro. Certo, è ancora impensabile accostare questo sfogo al radicalismo del femminismo cristiano di una Mary Daly o di una Betty Friedan e neppure alla contestazione di una scrittrice laica impegnata come Simone de Beauvoir. Quello che sappiamo e scriviamo di lei, per ora, basta e avanza, per giustificare tutto il valore di una poetessa che continua a ricordarci che gli appelli di Maria, come acutamente osserva Tornielli, nella già citata introduzione alla raccolta, “sono davvero un’ultima chiamata ai passeggeri, un appello all’umanità intera”, uno sprone a non essere passeggeri ad-
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dormentati, “ma consapevoli viaggiatori in un treno che marcia a gran velocità verso il baratro dell’autodistruzione” (7-8). Giuseppe Leone Germana Marini - Ultima chiamata ai passeggeri. (l’accorato appello a un mondo che ha sostituito l’ Io con Dio). Edizioni Cantagalli, Siena, 2013. € 6. pp. 72.
NATALE IN CITTÀ Odore di asfalto bagnato illuminato dalle luci delle vetrine, musiche di falsi zampognari all’angolo della strada, vagabondi abbrutiti dall’alcol sotto i portici della stazione, schiave d’amore si vendono sulle strade di periferia, escrementi di cani sui marciapiedi, luminarie barocche, rumore di traffico, puzza di smog, caos, questo è il Natale in città. Odore di muschio appena strappato alla terra, solo un dolce ricordo. Colombo Conti ORIENTE D’INCANTO Che bello l’oriente stamane, non so definirlo, è più bello di sempre. Sulla tela vorrei imprigionarlo se fossi un pittore, ma sono un poeta e parole non trovo per dirne l’incanto che intorno esso espande e che già... (Peccato!) si va diradando. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno (Is)
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BRUNO ROMBI: LA SAISON DES MYSTERES di Liliana Porro Andriuoli
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NA denuncia dei mali del nostro mondo attuale può definirsi il nuovo poemetto di Bruno Rombi La saison des mysteres, apparso in edizione francese nel 2013 nella Colletion Encre Blanches dell ’Editrice Encre Vives, con la traduzione di Monique Baccelli e una nota critica di André Ughetto. In verità non è questa la prima volta che Bruno Rombi scrive poesia a sfondo civile. Infatti buona parte della sua produzione (e già altrove ho avuto occasione di metterlo in luce1) ha questo intento, come può rilevarsi sin da uno dei suoi primi libri, Canti per un’isola (1965), che affronta il problema della diaspora sarda; e poi, successivamente, da Enigmi animi (1980), un libro a carattere sperimentale quanto alla forma, nel 1
Liliana Porro Andriuoli, Poesia intimistica e civile in Bruno Rombi, Savona, Editrice Liguria, 1999.
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quale, accanto a poesie di stampo intimistico (specie quelle ispirate dall’affetto per la moglie e i figli), si trovano poesie di polemica sociale. Ed è anche ciò che può rilevarsi da Otto tempi per un presagio (1998), un poemetto nel quale Bruno Rombi si scaglia contro la perdita dei valori della nostra società
con accenti forti e vibranti e da Tsunami Oratorio per voce solista e coro (2005), che prende lo spunto dalla catastrofe naturale del maremoto avvenuto nel 2004, con epicentro
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in Indonesia, per denunciare colpe e responsabilità di molti uomini, nonché il loro egoismo e la loro ingordigia di denaro e di potere, che li conducono persino al delitto. In questo suo più recente poemetto, La Saison des Mysteres, l’intento civile del poeta, che qui emerge con particolare evidenza, non si disgiunge da un profondo e costante sentimento religioso, che tutto lo percorre e che è presente fin dal suo incipit, come appare sia dal titolo (in cui troviamo l’espressione Mysterium2 tremendum che ci rimanda al Mysterium tremendum et fascinans di Rudolf Otto) sia dall’epigrafe, Ventum seminabunt et turbinem metent, una citazione da Osea3, profeta biblico. Il poemetto inizia con un Introibo, in cui compare l’Angelo di Rilke4, una creatura che in seguito ad una metamorfosi si trasforma in un giovane uomo che va “in cerca della vita” (“en quête de la vie”), sicché, Inseguendo il mistero/En traquant le mystère5, intraprende 2
Il vocabolo latino Mysterium, usato da Bruno Rombi anche altre volte nel corso del testo, mi porta ad ipotizzare che la sua non sia una scelta casuale, ma deliberata, e pertanto volta ad accentuare il senso religioso, quasi sacrale, del poemetto; rendendo così il percorso del protagonista un percorso non solo di redenzione ma soprattutto di ascesa verso Dio. Mysterium infatti, che nel Vecchio Testamento stava ad indicare i segreti divini, nel Nuovo indica, invece, e prevalentemente, la Rivelazione di Cristo, cioè il piano della Divina Salvezza prima nascosto presso Dio ed ora manifestato. 3 Osea, in ebraico Hoseah (VIII secolo a.C. – ...), fu il primo dei cosiddetti profeti minori ed è l'autore dell'omonimo Libro del Vecchio Testamento. Il suo nome significa «il Signore salva» o «il Signore viene in aiuto», in perfetta sintonia con il testo del poemetto. 4 Interessante il richiamo all’Angelo di Rilke, un angelo di assoluta trascendenza e perfezione, che nel corso delle dieci Elegie Duinesi subisce però (come già da altri è stato notato) una trasformazione, finendo con l’accettare il compito assegnatogli dal poeta, che è quello di ascoltare la parola dell'uomo, il quale col suo canto esalta la bellezza della vita, della natura e dell'universo. 5 Espressione posta in posizione di evidenza subito dopo la fine dell’Introibo che richiama il titolo del
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un viaggio sulla Terra, per giungere, dopo aver attraversato i tortuosi percorsi del Male e dell’errore che vi regnano, a trovare una via di salvezza. Che sarà contemporaneamente la via della sua redenzione perché anch’egli, suo malgrado, è stato contaminato dal peso della condizione umana: anch’egli, infatti, “Confuso dalla sua prosopopea / e convinto di potere tutto osare / avanzò a sfidare il Padre Santo” (“Leurré par sa prosopopée / et certain de pouvoir tout oser / il alla jusqu’à defier le Saint Père”). Numerosi sono i nemici “contro Dio schierati” (“ligués contre Dieu”) che il giovane incontra lungo il suo cammino: molti dei quali sono annidati “spesso anche nel Tempio del Signore” (“souvent jusque dans le Temple du Seigneur”) e “con arroganza, astuzia ed il livore / di chi vuole il potere amministrare” (“avec l’ arrogance, la ruse et la rancore / de qui veut exercer le pouvoir”) sfidano la Volontà Divina, dimenticando che solo “l’ obbedienza è ciò che loro compete” (“l’ obéissance est ce qui lui revient”). Infatti, in seguito a “un contenzioso grave sulla fede” (“un grave débat sur la foi”), apertosi tempo addietro, la nostra epoca è caratterizzata da una terribile tensione, che fa avvertire i suoi effetti sia “in cielo” (“au ciel”) che “in terra” (“sur la terre”). Ben presto il giovane se ne avvede ed ha timore di questa minaccia che incombe sulla Cristianità: si è giunti addirittura al punto di insidiare il “trono / che un tempo era stato di San Pietro” (“trône / qui jadis fut celui de Saint Pierre”), che ormai è divenuto preda di uomini corrotti, in cerca soltanto del potere e di una nuova Babilonia (“nouvelle Babylone”)6. Anch’egli però, suo malgrado, è incorso in gravi errori; e ne ha piena coscienza e ben avverte tutta la propria responsabilità (“ Quando del suo cammino ebbe coscienza / e aprì gli occhi a ritrovarne il senso” / “Quand poemetto stesso. 6 E’ evidente nel poemetto l’allusione al potere dell’IOR (l'Istituto per le Opere di Religione, comunemente conosciuto come Banca Vaticana) e alla pedofilia di parte del clero.
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de sa voie il prit conscience / et ouvrit les yeux pour en retrouver le sens”) per essersi lasciato trasportare dall’andazzo generale delle cose e per non aver reagito in tempo al dominio del “gran potere degli affari” (“grand pouvoir des affaires”); così come alla cattiva politica e all’inganno, che hanno ridotto il nostro pianeta a un “regno del peccato” (“royaume du péché”). In tal modo anch’egli, quasi novello Dante, si trova immerso in una “Selva Oscura”, dove gli si parano innanzi alcune Fiere, simbolo dei peccati capitali, che torvamente lo minacciano e gli sbarrano il cammino: “Corvi, cani, giraffe e pur leoni / con serpenti, dragoni, idre e centauri / gli si opposero in massa sulla via” (“Corbeaux, chiens, girafes et lions / avec serpents, dragons, hydres, centaures, / se dressèrent en masse sur son chemin”)7. Molte sono le difficoltà che egli deve affrontare, sicché di fronte allo spettacolo di devastazione a cui assiste, il giovane si sente smarrito ed è timoroso per il suo futuro e quello di tutta la terra. Ma ecco che, proprio nel momento in cui più non spera di avere alcuno scampo, gli appare la figura paterna (“gli venne incontro il padre” / “Vint à sa rencontre le père sur la voie”), la quale, come già Virgilio aveva fatto con Dante, lo conforta (“Avanti e non temer la sorte / né le voci che senti e non comprendi” / “En avant, ne crains ni le sort / ni le voix que tu entends sans les saisir”) e lo ammonisce, invitandolo a cercare e seguire la retta via, quella che sola conduce a Dio (“Non accettar l’inganno del più forte / che ti lusinga oppure ti minaccia” / “N’accepte pas du plus fort tromperie / qu’il te flatte ou qu’il te menace”). Ma il padre lo informa anche, e fra le lacrime, come non diversa da quella che ha din7
Frequenti sono in questo poemetto, come già in Otto tempi per un presagio, i riferimenti danteschi. Basta leggere “La foresta si fece presto oscura / e le radici antiche delle piante / in ammassi sempre più intricati / opposero una gabbia al suo errare” (“Très vite la forêt se fit obscure / et les vieilles racines des arbres / en noeuds de plus en plus enchevêtrés / opposèrent à son errance une cage”).
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nanzi sia purtroppo la situazione nella sua isola, (“l’isola … bella, / quell’isola felice nel passato” / “… l’île belle, / cette île heureuse dans le passé”), la Sardegna, dove ora, nelle esercitazioni militari l’impiego di ordigni radioattivi sta mettendo in serio pericolo la salute dei residenti8. E ciò molto lo addolora. Preoccupato per il desolante panorama che gli si è presentato, il giovane si tormenta ancor più al pensiero del futuro, dal momento che proprio “sul rigo del passato è scritto / ciò che può accadere nel futuro” (“sur la ligne du passé s’inscrit / ce qui peut arriver dans le futur”); il che non è per nulla rassicurante, offrendo il passato unicamente uno spettacolo di “bombe terremoti e carestie” (“bombes, tremblements de terre, famines”); e ancora di “morti con violenza e con orrore” (“morts violentes ou plus horribles encore”). Indeciso, quindi, sul da farsi (“Indeciso sostava sul confine / tra l’una o l’altra delle mille porte” / “Indecìs, il restait à la limite / entre l’une et l’autre des mille portes”), il giovane avverte la presenza del Maligno che lo fissa, mentre mille demoni, in veste di clown e di saltimbanchi, gli si fanno intorno e lo minacciano, invitandolo “ad infilar la porta del peccato” (“à franchir la porte du pèchè”). Ma il vecchio padre ancora interviene in suo soccorso, confortandolo, aiutandolo e spiegandogli chi sono coloro che ci conducono alla “città del male” (“cité du mal”). Il padre gli fa inoltre intendere che i peggiori peccati del nostro tempo sono “la villania, l’orgoglio e l’arroganza / insieme ad ogni scandalo sessuale, / al furto del lavoro e della speranza / insieme agli attentati contro il Vero” (“la lâcheté, l’orgueil et l’arrogance / en plus de maints scandales sexuels, / de vol du travail et de l’ espoir / sans compter les atteintes à la Vérité”). E così il giovane, comprendendo quale sia la retta via, prende la decisione di seguirla, Evidente è qui l’allusione al “Poligono sperimentale di addestramento interforze” di Salto di Quirra, nella provincia dell’Ogliastra. Evidente è qui anche l’identificazione di Bruno Rombi, sardo di origine, con il giovane. 8
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dato che, ormai “sciolto il cappio di menzogne / Che legato l’avevano al peccato” (“desserrée la corde de mensonges, / qui l’avait lié au péché”), può finalmente entrare “Nello spazio proibito ai peccatori / ormai da ogni colpa reso puro” (“Dans l’espace interdit aux pécheurs / désormais pur de tout péchér”). Ma ciò avviene non prima di aver nuovamente gettato uno sguardo sulla sua amata isola ed averne compianto i mali, dovuti all’ incuria o peggio ancora al “dominio di imbelli governanti” (“la domination de lâches gouvernants”), ed aver levato al suo angelo una preghiera: “- Angelo – allora disse – fa che l’ erba, / l’erba più salutare trovi un vaso / per far fiorire ancora la speranza / nell’ Isola…” (“- Ange – dit – il alors – fais que l’herbe, / l’ herbe la plus salutaire trouve un vase / pour faire fleurir encore l’espérance / dans l’Île…). Man mano che si procede nella lettura del poemetto il discorso di Rombi si fa più complesso e maggiormente teso verso l’Alto e al contempo più viva diviene in lui la speranza di un Oltre in cui ogni dissidio si componga e si raggiunga la pace sperata. Il giovane comprende infatti che “Ora è di nuovo tempo di emigrare / e vagare cercando spazialmente / l’ ora e l’era propizia del Non-Dove” (“maintenant il est de nouveau temps d’émigrer / et d’errer en cherchant l’espace / l’heure et l’ère propice du Non-Où”) e s’incammina sulla via del Bene, nella premonizione del momento in cui volerà anch’egli “verso l’altro mondo, / dov’è la vera vita che ci attende / a compenso di come abbiam vissuto / ipotecando il sito del Non-Dove / e sperando nel tempo del Non-Quando” (“vers l’autre monde / où est la vraie vie qui nous attend / pour compenser la façon dont nous avons vécu, / hypothéquant le site du Non-Où / en èspérante dans le temps du Non-Quand”). E’ a questo punto che egli supplica la Madre affinché lo aiuti; così come chiede l’intervento dell’“Angelo della Vita e della Morte” (“Ange de la Vie et de la Mort”), quello che ha “pietà della Vergogna” (“pitié de la Honte”) e “misericordia del Dolore” (“pitié de la Douleur”). Certo, noi siamo soli di fronte al Mistero e
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consapevoli della nostra fragilità, dal momento che siamo mortali: “Noi non possiamo esiliar la Morte” (“Nous ne pouvons pas exiler la Mort”) - dice Rombi – “perché è in noi così com’è la Vita” (“parce qu’elle est en nous comme l’est la Vie”); ma possiamo “Capir la Morte come va compresa” (“Comprendre la Mort comme elle doit être comprise”): il che significa “avere anche possesso della Vita” (“posséder la Vie”). Richiamando poi un detto di Epicuro, egli soggiunge: “La Morte è in quanto io più non sono, / ma io e la Morte mai ci incontreremo” (“La Mort n’est là que lorsque moi je ne suis plus, / mais la Mort et moi ne nous rencontrerons jamais”). Dopo aver attraversato la sua Waste Land, di Eliotiana memoria, Bruno Rombi perviene dunque ad una visione meno tragica della vita, nella quale intravede una pur fievole possibilità di salvezza: “Piccola, piccola, e molto lontana / c’è un’altra stella, piuttosto arcana. / Forse si chiama soltanto Speranza” (“Petite, toute petite, et très lointaine / il y a una autre étoile, plutôt secrète. / Peut-être s’appelle-telle seulement Espérance”). A confortarlo gli giunge anche l’immagine della moglie Rosa, ormai morta da parecchi anni, che sembra inviargli cenni dal cielo, quale stella purissima. Così come gli giunge l’immagine di una testa mozza di cemento, frammento di una statua di Cristo, da lui raccolta sul greto di un torrente, a lungo conservata con grande pietà nella sua casa e successivamente posata sulla tomba dell’amata moglie: “Mi parve un fratello ucciso da poco / che avesse bisogno del nostro aiuto, / o forse di un segno, anche se muto, / di semplice e umana nostra pietà. / A casa a lungo l’ abbiamo ospitato…” (“Je le vis comme un frère depuis peu tué / qui aurait eu besoin de notre aide, / ou peut-être d’un signe, fût-il muet, / de notre simple et humaine pitié. / Á la maison nous l’avons longtemps hébergé…”). E’ a quel simulacro – ci dice il poeta – che si rivolgerà, invocandolo, nel giorno della morte; e da esso trarrà conforto e speranza. Qui il poemetto si chiude, con un chiaro moto di fiducia in Dio, che implica il superamento
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del dolore e degli affanni che il giovane protagonista, così come l’autore, avevano attraversati. Ed in ciò sta la loro definitiva conquista. Va notato dal punto di vista dello stile come verso la fine del poemetto il verso tenda a farsi più liricamente effuso e disteso: “Ô terre, ô terre, tes doux printemps / languissants et non sans soleil, / ne seront pas la ricompense de ma vie” (“O terra, o terra, le tue primavere, / dolci, languenti e non prive di sole, / non saranno di premio alla mia vita”). Si vedano anche versi quali: “Las, je repars vers mon désert, / dans l’immense espace du silence / où s’enclot mon vécu” (“Stanco mi riconduco al mio deserto / e nell’immenso spazio del silenzio, / nel quale sta racchiuso il mio vissuto”) e ancora: “Dans chaque étoile il y a toujours une mère / à invoquer à l’heure du besoin: / la grande Mère de notre Douleur” (“In ogni stella c’è sempre una madre / da invocare nell’ora del bisogno: / la grande Madre del nostro Dolore”). Da notare è anche l’ottima resa della traduzione che, pur in una stretta fedeltà al testo (l’ originale è in endecasillabi, sovente resi più incisivi dalla rima), ne renda ottimamente anche i valori formali. Del che non c’è da stupirsi, essendo la traduttrice Monique Baccelli, di cui ricordiamo le felici trasposizioni in francese di numerosi poeti sia odierni che del nostro glorioso passato. Liliana Porro Andriuoli BRUNO ROMBI: LA SAISON DES MYSTERES (Encre Vives, Colomiers 31770, France, 2013, € 6,00)
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 27/11/2013 Cielo plumbeo e gelo su Roma. All’ annuncio della espulsione di Silvio Berlusconi, un silenzio imbarazzato “assorda” il Senato. Il mostro è sazio dopo aver, finalmente, divorato il pasto. Alleluia! Alleluia! Per le strade, pianto degli amici del Cavaliere, brindisi del popolo viola. Domenico Defelice
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CAPRIOLE NEL VUOTO Capriole nel vuoto, lanci di arance, succo sprecato che arde la gola, piccoli versi di animali incantano. Sorrisi… rosse sono le gote di timidezza tinte, sbucciate le ginocchia da casuali cadute. Inebrianti discese lungo declivi di erba bagnata, che lascia l’odore di ancestrale natura. Cercavo l’amore ad ogni risata, trovai invece te mia solitudine, fedele compagnia tra le spirali del tempo. Colombo Conti Albano Laziale (RM)
THE DIGNITY OF THE POET Lord, I go to the restaurant only at the death of the Pope; at the disco since I was thirty. I travel with the imagination, little on trains and highways and I fear the flight. I do not have suvs or iPhone, the iPad I do not have. Nothing prebends, I am not a knight. I dress modest, I do not have bank accounts, I do not have a house with a swimming pool. The beauty enchants me at my age - And still the woman! -. I have the poet's dignity. Domenico Defelice Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi
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I SIMBOLI DEL MITO: “L’ARIA CHE VIBRA” SFIORANDO I SEPOLCRI di Sandro Angelucci ’È una lirica, tra quelle contenute nell’opera vincitrice del “Città di Pomezia, 2013”, che fornisce - a mio parere - la chiave di lettura migliore per entrare nel vivo di una fatica letteraria tutt’altro che agevole. Intendo riferirmi al testo di pagina 12, A Domnery sui Vosgi, nel quale Pardini compie un’operazione difficilmente eguagliabile, unica se presa in considerazione sotto l’aspetto creativo. Proprio così: perché, immergendosi completamente nell’evolversi di questi versi, è possibile assistere “in diretta” (mi si passi il termine televisivo) ad una nuova nascita, al (ri)sorgere di Giovanna dalle sue stesse ceneri: novella araba fenice, non riproposta però, bensì reinventata. È la mitopoiesi: siamo di fronte alla parola che crea, non a quella che ripete, ripete e ripete fino all’esaurimento del sogno che incarna, molto spesso portandolo all’ annichilimento come si svuota del sangue un’arteria. Ecco, insistendo sull’allegoria, qui si verifica l’esatto contrario: un cuore prende a pulsare e irrora le vene; qui, incredibilmente - ma è vero - si capovolge la storia: il rogo che bruciò quelle giovani carni, ora, sta incendiando la pelle aggrinzita, ormai disidratata, del corso degli eventi. Ed eccoli quei battiti: “Quanti anni / che bruciò questa ragazza!” - canta, illuminato, il poeta -; sono queste le palpitazioni autentiche, quelle soltanto attutite dal crepitio della legna che arse realmente e che adesso sovrastano ogni altra risonanza, ogni tragico rumore proveniente dal passato: “vanno oltre gli eroi”, oltre l’idolatria, “vincono la vita” perché sono più forti della morte. Non è la mitologia che conta, è il mito: di più, non è neppure il mito ma la sua simbologia. “La memoria vaga, / resta per sentito dire” ma la metafora è immortale, permane come una forza che cova “dentro i tronchi”
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degli alberi che innalzano magri “stecchi” verso il cielo; è il simbolo la foglia nuova, “prova di voglia” a sfidare i venti per un’altra primavera. Sono note, Note di mito, quelle che si ascoltano leggendo, e provengono da strumenti che fanno parte dell’orchestra sinfonica della natura: è tramite il suo concerto che si propaga l’armonia, anima del sogno e del futuro. Nella prova di cui si sta parlando gli elementi naturali - sempre presenti e fonte prima d’ispirazione per l’intera poetica del Nostro assurgono ad un ruolo determinante: s’ incaricano di trasmettere l’energia primordiale dei miti divenendone essi stessi simboli; in questo modo la leggenda è messa a nudo e si rivela al mondo come se fosse la prima volta. Ne deriva un racconto che non può che essere perennemente attuale - I simboli del mito, allora, (sostiene a ragione Domenico Defelice) anche per contenuto è opera impostata più sull’oggi che sul tempo delle leggende e delle favole belle...” -; l’antichità classica, cui si ricorre, è motivo di spinta dinamica e non di statico ristagno. Per questo, ‘i segreti’ sono affidati alle Rocce possenti, i “divini templi” della Terra, in grado non solo di custodirli ma, cosa ancora più importante, di ridisegnarne i contorni o, meglio, di tenerli in vita demolendoli e facendoli rinascere nello stesso momento. Oltre quel muro - a mio avviso, vetta più alta della plaquette - è esemplare al riguardo: non sono defunti quelli che “escono dai marmi freddi”, sono persone reali; ma come possono, come fanno a risorgere? È molto semplice: perché sono morti per chi altro non sa percepire che “parole di spiriti”; non lo sono di certo - per chi coglie la beatitudine della vita e della morte nell’“aria che vibra”, “che tocca le fronde” pendenti sulle “soglie dei sepolcri”. Si resta senza fiato a guardare da lassù gli inimmaginabili e sconfinati confini che si aprono alla vista dell’anima: “se guardi sotto l’ombre / dei cipressi, / i tramonti attendono l’oscuro, / il puro regno / oltre quel muro / dei nostri cimiteri.”. Mi permetto d’invitare a soffermarsi su questi versi di rara e sorprendente bellezza: la
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capacità poetica di Pardini è fuori discussione ma, qui, davvero, egli supera se stesso: in tutti i sensi, sia sul piano contenutistico sia sul versante formale. Del primo si è detto poc’anzi ma vale ribadirlo: non ci sono muri così alti da impedire la fuga dai “nostri cimiteri”; della creazione versificatoria vorrei porre, appunto, in evidenza l’estrema armoniosità: si notino i richiami delle assonanze e delle consonanze interne ed esterne, l’ accentuazione felice ed impeccabile che induce chi legge a sostare sulle parole-chiave, la spezzatura dell’endecasillabo (misura fortemente amata), più che altrove, con grande resa fonico-costruttiva, viene qui, più che sperimentata, inventata, l’elisione - licenza poetica attualizzata - della ‘e’ nell’articolo delle “ombre”: inconfutabile ed appropriato recupero di stilemi tradizionali. Tutto questo (ma molti altri sono gli esempi che si potrebbero addurre) nel breve spazio della conclusione di una chiusa che, a lungo, resta impressa negli occhi e nella memoria. Una chiusa che rimanda immediatamente ai versi finali della raccolta, nei quali i simboli del mito si legano indissolubilmente all’amore, alla sua visitazione terrena dell’ uomo: “La mano ancor più stretta / mi tenesti .../porgendo sguardi teneri/al mio viso,/ed un sorriso di pianto,/è l’ultimo dono che mi resta”. Sandro Angelucci
aveva eluso l'allarme degli esperti per quell'enorme crepa nella struttura elevata in terreno paludoso e instabile dichiarando l'agibilità ad oltranza senza scelta né scampo per gli operai.
Nazario Pardini. I simboli del mito. Il Croco Pomezia-Notizie. Ottobre 2013.(testo apparso su Alla volta di Leucade: blog di Pardini)
Torino La poesia ha ottenuto il Primo Premio alla XXI Edizione (Piossasco, 9 Novembre 2013) del Concorso Internazionale Antiche come le Montagne, organizzato dalla Associazione Piossaschese di Cultura, Turismo nel Mondo e dagli Amici della Poesia, Gruppo di Piossasco.
SETE (Ispirata ad un fatto di cronaca, avvenuto a fine aprile 2013) Attingeva al sopore della morte l'arsura dell'operaia bengalese intrappolata da ore tra le macerie del Rana Plaza, alla periferia di Dacca stabilimento tessile capace di vestirci a prezzi ragionevoli sulle piazze del mondo. Sohel Rana, proprietario aguzzino garantito dal partito di governo
È crollato, l'edificio, sulla sete dei diritti per l'abuso di vite sacrificate al sopruso legalizzato da partigiani vincoli faziosi per l'utile stravagante tracannato alla sòrte degli umili. Aveva sete l'operaia bengalese era ardore che prosciuga e brucia le vene era ansioso desiderio di bere alla fonte che disseta le fauci era legittima smania di riscatto da una vita di stenti. Era solo sete. A pochi metri l'udiva la compagna in sventura condivisa, imprigionata tra macerie e arnesi di lavoro. Strisciando, faticosamente la raggiunse. Era solo sete. Salvifica saliva per due bocche riarse in petali di lingue unite d'Amore vero. Era solo sete. Paola Insola
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Riflessioni su
ALBERT CAMUS nel centenario della nascita (1913-1960) di Salvatore D’Ambrosio
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ASCEVA cento anni fa Albert Camus, scrittore franco-algerino insignito del Nobel per la letteratura nel 1957. Nato nel 1913 e morto a soli 47 anni nel 1960, fu per la generazione nata nel secondo dopoguerra un riferimento culturale importante. Imparai ad amare le opere di Camus, come tutti i giovani della mia generazione, negli anni a ridosso del “68. In modo particolare fu il film che Luchino Visconti nel 1967 trasse dal suo romanzo migliore: Lo Straniero, che lo fece conoscere a noi giovani. Questo film mi stregò letteralmente, tanto che non ricordo più quante volte l’ho visto e rivisto. Seguì anche la lettura del libro, così come fecero tutti quelli del mio gruppo che si precipitarono in libreria ad acquistarlo. Erano gli anni in cui iniziava a germogliare il seme dell’anticonformismo e della denuncia delle ingiustizie e prevaricazioni che non si era più disposti a subire. Erano anche gli anni in cui s’inaspriva la guerra nel Vietnam. Quante diserzioni a scuola e cortei in favore del Vietnam angariato facevamo. Eravamo la nuova generazione che andava sempre più acculturandosi. Combattevamo tutti gli autoritarismi e le ideologie di supremazia di stati nei confronti di altri, in modo particolare eravamo contro l’imperialismo americano. Questo humus ci porterà poi verso la contestazione generale e mondiale del 1968. Eravamo giovani fragili, inquieti, sentivamo l’ostilità di un mondo che si professava innocente, ma che in effetti era assurdo e orientato sempre nella direzione dei più forti. Definiranno la mia generazione “ribelle”, in fondo non era vero. Eravamo solo pieni di solitudine. Nati a ridosso degli anni “40 eravamo diventati figli del boom economico, che però non lo era stato per tutti. Questa mancanza di opportunità globale era letta come esclusione, ingiustizia, ineguaglianza: tutte cose che rendevano la gioventù
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indifferente, insoddisfatta, inadeguata. La scoperta della scrittura di Camus, che in fondo era morto solo nel 1960, dava qualche risposta ai nostri interrogativi. Le problematiche sull’esistenza da lui trattate erano quelle di noi giovani, e ci davano spunto per le nostre discussioni. La sua narrativa filosofica – esistenziale ci interessava moltissimo, anche in considerazione del fatto che, insieme a Sartre, era considerato il padre dell’ esistenzialismo ateo novecentesco. E in quegli anni per reazione naturale e anche ideologica, eravamo tutti un poco atei. Basta ricordare che si cantava: “ ..Dio è morto..”. Il lavoro di Camus, dunque, è teso a studiare i turbamenti dell’animo umano di fronte all’esistenza o per meglio dire dell’assurdo che incombe sull’ esistenza dell’uomo. Lo scrittore è convinto che un profondo e autentico legame tra gli esseri umani è difficile, anzi impossibile non ostante le buone intenzioni. Nell’uomo qualsiasi iniziativa dura poco perché ogni sforzo che egli compie lo porta sempre allo stesso punto di partenza. Come dire che non riesce ad essere fermo nei suoi propositi: prima o poi ricade nei suoi errori. L’unica via da percorrere per superare l’assurdità, che occupa prepotentemente l’esistenza e il legame tra gli uomini, è la solidarietà. Camus crede nella lotta sociale contro le ingiustizie e che la fede in questa idea è l’unica che dà scopo alla vita. Lo scrittore franco-algerino riflette filosoficamente nelle sue opere sulla possibilità che dovrebbe avere ogni uomo di potersi sollevare allorché condannato. Questa parola implica ogni tipo di condanna, non quindi esclusivamente quella a morte. Non si può essere condannato alla miseria, alla malattia, alla solitudine, all’agnosticità. L’uomo ha bisogno dell’uomo tanto che la condanna a morte dell’uomo per mano di un altro uomo, è per lo scrittore di un’assurdità e di una disumanità inconcepibili. Sarà influenzato in queste sue concezioni filosofiche e spirituali dal Plotino e da S. Agostino, che studia profondamente tanto da farci la sua tesi di laurea in filosofia nel 1936. Il suo pensiero, per il quale vive e studia,
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sulla importante necessità dell’unità della gente, lo porta a staccarsi profondamente dal partito comunista. È troppo importante per lui la dignità dell’uomo che non deve piegarsi a nessuna ideologia, per cui si allontana dal partito comunista che considera di parte. Un partito popolare che non si batte per la gente, ma solo per mitizzare un’ideologia non è degno di essere seguito perché in questo modo è come gli altri. Lo stesso discorso vale per il suo ateismo. Se Dio c’è deve essere, pensa il Camus filosofo, dalla parte dei più deboli e dei senza speranza sempre e in qualsiasi momento. Non solo quando, come nel caso del condannato a morte Meursault del romanzo Lo Straniero, si vuole stigmatizzare la diversità tra la giustizia dell’uomo e quella divina, prospettando in questo caso la diseguaglianza tra le due giustizie. Una è infatti relativa (quella dell’uomo) e l’altra è assoluta (quella divina). L’uomo dei suoi romanzi è l’ emblema dell’assurdo, dell’irrazionale: come il delitto che il protagonista Meurasult nel romanzo Lo Straniero, compie senza giustificazione reale, vera o apparente. L’atto delittuoso è la prova dell’irrazionalità dell’uomo e delle sue azioni, che spesso sono attuate nella più completa indifferenza e insignificanza. L’ uomo, ci sembra di capire, nella visione di Camus è una miniera di assurdità in quanto è incapace di affrontare il destino o per meglio dire di dargli un senso. I fatti della vita accadono accidentalmente e l’uomo vi è protagonista accidentale. Camus è il narratore cronista di un male di vivere che spinge all’ indifferenza, alla passività, alla mancanza di emozioni. L’uomo di Camus può avere sensazioni come il percepire il caldo, il freddo, il fastidio di un rumore. Non avrà mai emozioni che implicano l’uso del sentimento o della ragione. Attraverso le sue opere il Camus filosofo cerca, senza trovarla, una giustificazione all’ esistenza. La mancanza di una soluzione, anche se minima, lo porta a considerare tutto privo di senso. C’è però un piccolo spiraglio che si manifesta allorquando l’uomo prende coscienza della sua inconsistenza e assurdità. La difficoltà consiste nell’entrare in questo
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processo mentale. Una volta entrati tutto diverrebbe relativamente più facile e forse accettabile. Il narratore Camus affronta nelle sue opere collateralmente anche i temi che si affacciano, nel secondo dopo guerra, sulla scena filosofica internazionale. Così che Nell’ uomo in rivolta il tema è la violenza; nel La peste la solidarietà; l’egocentrismo della solitudine nel La caduta; infine l’estranietà dai fatti e dalle persone di un uomo che è estraneo a se stesso e agli altri, nel Lo straniero. Una riprova dell’assurdità della vita o di quella assurdità di cui Camus si fece voce filosofica, fu il modo in cui morì. Sebbene fosse malato gravemente di tisi, egli non morì per questo motivo ma per lo scoppio di un pneumatico dell’auto sul quale viaggiava insieme al suo editore Gallimard. L’auto fuori strada si schiantò contro un albero, che il caso volle mettere sulla sua strada. Forse questa fine assurda fu la sublimazione del suo pensiero? Mi piacerebbe in un’ intervista impossibile con Albert Camus conoscere il suo parere. Certamente ne avrei una risposta ironica perché, contrariamente a quanto si diceva, non era un pessimista ma una persona dotata di una possente carica d’ ironia. Salvatore D’Ambrosio I HAVE ALWAYS HAD A DREAM I always had a dream, dear Stephen, Today realized it in part yes, you got married with your Emanuela. Gabriella has already done it from which a beautiful flower also has blossomed. Luke has to close it although he too has its rooms. I've always had a dream and I worked on it for a long time. The hope is that the good Lord in his gardens doesn’t call me right away, before I see at least are your homes all flourished with children’s eyes. Domenico Defelice Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi
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LUIGI DE ROSA E LA FUGA DEL TEMPO di Domenico Defelice
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soffermarsi sul titolo o sulla lettura del solo primo brano - con quel quasi ironico invito agli amici a non tormentarsi, a non lasciarsi erodere dall’ansia della fine, per ciascuno di noi inevitabile -, parrebbe che Luigi De Rosa non faccia altro che meditare sul tempo che scorre veloce, sulla sua corrente incessante, a volte torbida, che tutto e tutti conduce al “mare aperto/e profondo”. Parrebbe, quindi, una contraddizione. Andando avanti nella lettura, però, si scopre che abbiamo di fronte un poeta ancora battagliero, indomito, saldamente attaccato alla vita e deciso a lottare per il miglioramento del “caleidoscopio infinito/della Natura” e gli stessi amici vengono spronati ad essere tolleranti, a non agitarsi troppo e a dedicarsi “a questo pianeta/ed a questa esistenza,/per renderli più equi,/godere sanamente/della bellezza, dell’arte e dei sogni”. Ci accorgiamo, allora, come anche il primo brano reca la spia di questo suo intenso amore per l’esistenza: quando la definisce in tutta la sua tensione, “trasparente/come filo gelato di sorgente”. Vengono, poi, l’intima e dolente sua partecipazione ai drammi che giornalmente straziano il mondo (lo scorrere del “sangue degli innocenti”, il “fracasso delle armi”, Auschwitz, Cernobyl, Fukushima, le alluvioni sempre più frequenti con i “Rigagnoli che si trasformano/in mostruosi torrenti impazziti”) e la sua viscerale avversione verso gli ingordi, che oggi appaiono sempre più sfrontati, ma che, in verità, lo sono sempre stati, nel passato remoto e prossimo, se perfino un dittatore come Mussolini, nel 1944, li definiva sanguisughe: “Non ho mai potuto capire quelle sanguisughe che, pur possedendo già molto più di quanto non possono consumare, non si sentono sazie prima di avere aumentato ancora di milioni o di miliardi il loro patrimonio”. Oggi, in Italia, sono politici, imprenditori, magistrati eccetera, che per-
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cepiscono stipendi miliardari all’anno e pensioni di decine e decine - se non di centinaia di migliaia di euro al mese. De Rosa non li specifica, ma il lettore intelligente non può fare a meno di ripassarseli mentalmente uno per uno questi “troppi personaggi ipocriti/esaltati da giornali e tivù”. Gente - questa - che certamente non ascolta “poeti ed artisti”, che, anzi, disprezza, considerandoli quasi dei buffoni “coi quali, al massimo, ci si <diverte>”. Ingordi, che, mentre “esseri umani /lottano contro la fame e il degrado”, “stravivono/ senza ritegno”. Il poeta invita ad essere “in sintonia con la Natura” e partecipi della “umana solidarietà”. La Natura di De Rosa è simile alla foscoliana “bella d’erbe famiglia e di animali”: un “verde picchiettato di papaveri,/capellini finissimi di pioggia/da nuvoloni orlati di rosso” - niente bombe d’acqua, insomma, ma pioggerellina leggera -; un tripudio di “moscerini impazziti”, che “danzano a mezz’ aria”; “chiocciole misteriose/(...) su muri gocciolanti” e fiori, tappeti di “fiori inconsciamente felici/di esistere”. In questa specie di Eden, “lente le mucche tornano dal pascolo,/guidate da un’allegra brigata/di cani scodinzolanti,/di allegre ragazze ridenti,/di nonne sorridenti a mezza bocca/e di bambini vocianti”. Nessuna tristezza allorché De Rosa gode la Natura, ma solo gioia panica. In questi autentici momenti di grazia, egli non si lascia condizionare neppure dalla vecchiaia e persino ciò che, generalmente, si presenta tetro, si veste di fantastici colori: “la nuvolaglia inghiotte la foresta/d’oro e smeraldo”. Particolare attrattiva ha per lui il mare, che definisce dal “fascino stregone” e che lo aiuta, con l’eterno pulsare, a superare l’annuale inverno. Ma, pur adorando la Natura, De Rosa non è contro la tecnologia - anche se, osserva, in molti campi “ha preso il sopravvento” - e dice “benedetto” “il telefono cellulare” che ci “raggiunge in ogni luogo dell’anima”, riportandoci le “parole affettuose” di amici e parenti.
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In Fuga del tempo non manca il richiamo a Dio e al mistero della fede e, riferendosi a versi del suo amico scomparso Giorgio Caproni, esprime la convinzione che, essendo noi incapaci di spiegarci “l’essenza di una piccola cosa” - quale può essere un fiore, una rosa -, non possiamo “capire la Vita” e, tanto meno, “il Dio che sembra assente”. Che sembra, non che lo sia veramente. I versi più toccanti e intimi, in Fuga del tempo, sono quelli che richiamano la propria infanzia e la figura del padre. La sua famiglia, frantumatasi quando lui era ancora un bambino, gli detta quel capolavoro che è “Occhiali neri da sole”. Tema straziante dei nostri giorni, se è vero che almeno sette famiglie su dieci vivono l’amara condizione. De Rosa trascorrerà fanciullezza e giovinezza all’ombra del solo papà e a lui, in questa opera, dedica più di una poesia. Il poeta confessa di aver apprezzato il padre solo negli anni maturi, mentre in gioventù ha cercato di rendersi quanto più possibile a lui “dissimile”, perché si sentiva “incompreso”. Legato al tema del sociale e delle difficoltà esistenziali è pure la figura del pendolare, di colui che, per lavoro, è costretto a trascorrere l’intera vita sui treni, sempre “in attesa/di una felice coincidenza”, naturalmente destinata ad essere costantemente frustrata, visto come funzionano i trasporti in Italia. In lui ci par di sentire la stessa tristezza che dominano certi convogli del calabrese Franco Saccà abbandonati su un binario morto. Luigi De Rosa è un poeta sempre più accomunato agli “uomini reali,/tutti alle prese (...) coi mali/dell’esistenza”. Ma ha speranza nella rigenerazione e nel riscatto. Finché torneranno le rondini - egli afferma - e “sfrecceranno/zigzagando sicure”; finché eroi come Sandro Usai daranno la vita per gli altri, è sicuro che non prevarranno le sanguisughe, né tutti coloro che ogni giorno ammorbano e avvelenano il mondo. E’ certo, cioè, che l’ empio verrà sconfitto dal giusto. Domenico Defelice LUIGI DE ROSA - FUGA DEL TEMPO - Poesie - Prefazione di Sandro Gros-Pietro - Genesi Editrice, 2013 - Pagg. 62, € 11,00.
Pag.31 PREGHIERA PER IL POETA Non accecarlo, Signore: il poeta ha pupille di cristallo che riflettono le lacrime del mondo. Non zittire il poeta: per tutti ha un magnificat, un miserere per tutti. Con il poeta il despota è fragile, forte l’inerme. Tinge di blu l’amore e il fuoco dell’inferno è paradiso, d’immagini colma la solitudine. E’ tuo fratello, il poeta: crea dal nulla, rompe il mistero, l’invisibile rende visibile. Proteggilo. E se muore trasformalo in allodola sazia di luce e d’azzurro”. Rocco Cambareri
UN PASSERO Un passero, solo, beccava briciole di pane vicino alle case e guardava in qua e in là, insicuro. Aveva, nel becco, un piccolo insetto per i suoi piccoli passeri. Poi è volato via protetto da Dio che l’aveva creato. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi
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LA PROSA POETICA IN “IL SOLDATO GIOVANNI”
DI GIANNI RESCIGNO di Nazario Pardini
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I sono occupato con più recensioni della scrittura di Gianni Rescigno. Della sua poesia calda, generosa, emotivamente coinvolgente, e metaforicamente allusiva da coprire con la sua plurivocità tutti gli spazi delle questioni umane, degli interrogativi esistenziali. E qui, dopo la lettura di queste pagine di narrativa, sinceramente ho ritrovato il poeta: la sua capacità esplorativa, il suo tratto deciso e sicuro in un romanzo in cui gli avvenimenti coprono uno spazio storico di ampio respiro: guerra di Libia (2011), la prima e la seconda guerra mondiale. Ci narrano di un uomo del popolo vissuto fra due secoli: il soldato Giovanni. L’ interprete principale di un film che ci pone di fronte a scene storicamente efficaci, realistiche, anche se di quelle sotterranee di cui la storia poco ci parla: amore, amicizia, sventura, odio, vendetta, dolore, vita, vita, vita… E tutto verte a delineare la psiche di questo soldato; una grande operazione di scavo, di analisi più che di descrizione psicologica; tanti tasselli a costruire una piramide la cui struttura precipiterebbe se si togliesse uno, uno solo di quei tasselli. Gli ambienti, i panorami, gli sguardi ora pietosi, ora disincantati, ora oggettivi, sulle vicende si inanellano fra loro in un susseguirsi compatto e realisticamente attraente. Una narrazione che fa della storia un mezzo per nutrire la vita, i suoi intrighi, il tanto patibolato nostro segmento terreno. E il tutto ha una funzione precisa: ritrattare il carattere del soldato Giovanni. E’ lui che deve venir fuori, il suo mondo, la sua moralità, la sua indole sana e semplice di popolano che vive, che ama, che odia, come tanti, capitato in uno dei momenti storici più tragici. Tutto ruota attorno a lui: passato, presente, e futuro: Giuseppa, la sua sagacia popolare, la sua imponenza fisica (mammella), la sua spontaneità: “La terza moglie di mio nonno si chiama-
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va Giuseppa. Una matrona, vedova del custode del camposanto, con mammelle sovrabbondanti, dai muscoli virili... Dedita al vino fin dalla giovane età passava le giornate dividendosi tra casa, campagna e cimitero...”, la realtà descritta con occhio attento al particolare; gli altri personaggi di supporto, pur sempre altrettanto singolari; gli ambienti. Ma dove è che ritroviamo il poeta. Dove è che il poeta si trasferisce con tutta la sua creatività in queste pagine di narrativa. La ricerca non è certamente difficoltosa; ed eccolo il poeta: è qui nella sua terra, è nel respiro della soglia di casa, in questo confluire dell’uomo e del suo mondo nello stesso rigagnolo che porta al grande mare dell’opera; è nella sofferenza del vivere, in quella visione che il poeta ha della vita, della sua fragilità, commisurata al tempo, al suo scorrere. Motivi centrali nella poetica del Nostro, che riesce a vedere le cose dall’alto con nel cuore la speranza di un mondo migliore. E Giovanni è senz’altro un personaggio positivo in tutta la sua ruvidezza, un personaggio come uno di noi di fronte ad episodi ora straordinari ora di normale andatura familiare. E nonostante tutte le difficoltà lo viviamo come un essere che ama vivere. Che ama tutto ciò che di buono ci offre il nostro esser-ci. Ed i caratteri, gli ambienti, i motivi che ispirano la poesia di Rescigno sono semplici; e anche se traslati, non di rado, dalla sua forza emotiva, pur sempre ambienti che traspirano l’aria della sua terra; sta qui in gran parte la grandezza del suo poema: nel saper spicciolare la sua cultura, il suo patrimonio memoriale: emblematico il personaggio di Giuseppa dedita al vino. E lo si vede nel momento della sua morte. Niente di tragico, di spacca cuori, tutto si svolge con naturalezza, perché trasuda dalle pagine di Rescigno poeta l’idea che l’inizio e la fine, la fine e l’inizio, sono due misure facenti parte della vita: inquietudini umane, troppo umane come la morte e la nascita. E l’autore, pur invischiato nelle vicende, ne sa uscire con spirito contemplativo, dacché è convinto che niente finisca nel nulla e che la morte stessa sia l’ origine di una storia più pura e luminosa. Ed è
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proprio per questo, forse, che la sua narrazione non assume mai un carattere estremamente pessimistico, anche se gli avvenimenti spesso ne darebbero motivo. D’altronde si dice al mio paese che dall’oro non nasce niente ma dallo sterco può nascere un fiore. Ed i fatti lo dimostrano. Fatti su cui non si dilunga troppo. Spesso sono pennellate sintetiche, essenziali. Descritte con un’efficacia verbale da cesellatore di parole. Descrivere e rappresentare con l’animo del poeta, quindi, che arriva a sforzare la grammatica per ampliare gi spazi verbali con allusioni incisive ed espanse. E necessitava proprio una figura come quella di Nicola all’economia del romanzo, l’antieroe, l’amico del cuore, il ferracavalli, il nemico di tutte le ingiustizie, l’altro volto della medaglia che contribuisce a mettere in risalto l’apparente ruvidità di Giovanni, una ruvidità che nasconde, in effetti, un animo umano, soggetto ad impulsi emotivi, a cambi umorali, ma pur sempre capace di slanci di generosità. E’ dalle loro discussioni che fuoriescono due figure distinte, ma complementari, soprattutto quando alla sua morte Nicola si fa emblema di quella sagacia popolare alimentata da un pizzico di visione melanconica e negativa sulla natura degli uomini: “Tutti gli uomini tirano l’acqua al proprio mulino”. E Nicola, dopo la morte, diverrà l’anima gemella di Giovanni. Il suo buon consigliere. Sarà il suo spirito a dettargli i sani comportamenti estranei alle passioni più irrazionali: come quello di non uccidere, di non cadere nel degrado della vendetta. Ci sono momenti di alta poesia, di immensa vicissitudine umana, che un poeta come Rescigno può cogliere e trasferire in qualsiasi genere di scrittura. E, in particolare, in quella che tratta di una storia con tutte le sue vicende belle e meno belle. Con figure altamente simboliche ed emozionanti: Sisina (l’ amore), la morte del figlio (la tragedia), la nascita di Gianni (il ritorno alla vita), Lella (la puerpera, la donna che dà vitalità), in più la perfidia della selezione naturale: c’è chi muore per denutrizione, e c’è chi sopravvive perché più forte. Insomma tutto il sale e il pepe del vivere in un ambiente estremamente po-
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polare, fertile di ruvidezza e generosità che sfugge all’occhio dello storico. Ciò che è umano, familiare, ciò che è vero. In un ambiente dove l’uomo mostra più direttamente le facce ambivalenti della sua permanenza terrena. Il periodo della II Guerra mondiale appare ancora più realistico, più succinto e incisivo nella narrazione e nelle descrizioni. Un vero realismo di memoria macchiaiola, fatto di tocchi essenziali, ma emblematici che allargano il semplice accident a significati più ampi. E’ il quotidiano con tutti i suoi minimi accadimenti che colpisce l’occhio di Rescigno. Una verità portata agli estremi della sua naturalezza, come quella di pisciarsi addosso dalla paura da parte di don Pacifico. Povertà e miseria. Ma tanta umanità, quella schietta, in tutte le sue forme, anche animalesche, ma anche infinitamente poetiche in slanci di amore e di amicizia, di confronti e sfronti, epici, direi, e che non falsificano il succo della vera esistenza. Ed è qui la virtù di questo grande scrittore: saper far suo ogni episodio, e per tale intendo anche ogni apporto del memoriale; ognuno di noi vive o ri-vive frammenti che rievocano una storia contornata da un certo sentimento; ma Rescigno va oltre, ricorrendo ad un mélange di commozioni e riflessioni intellettive, che lo conducono ad una sua filosofia, ad un suo pensiero preciso e perentorio sul fatto di esistere in questo spazio ristretto di un soggiorno. Quindi ogni racconto popolare ed ogni tradizione familiare decantano nelle segrete del suo animo, segrete come quelle dove anche il buon vino, invecchiando, assume colore, tono e bouquet saporosi di una cultura che invita alla poesia. E il tutto, arrotondato dal pensiero e dagli spazi sottostanti del pensiero stesso, si rovescia sul foglio nei momenti di un caldo equilibrato riposo. Insomma, dal fluire del romanzo emerge “l’invadenza” di questo autore, la sua massiccia presenza disseminata nelle pagine di Giovanni (soprattutto), di Giuseppa, Nicola, Bettina, Sisina, Gioacchino, Lella, don Pacifico… Disseminata in tutte quelle rielaborazioni ambientali che costituiscono il valore aggiunto dell’arte
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di Rescigno: “Improvvisamente, quando incominciò a respirare la sua aria, quando gli apparvero le familiari cime dei monti, avvertì il desiderio immenso dell’affetto dei parenti…”; “Appena l’alba gli s’annunciò dagli scudi socchiusi fu pronto…”; “Dove finiva la strada Giovanni vide una specie di capanna. Bassa. Coi muri di pietre a secco. Il tetto in lamiera. La porta era chiusa. Trattenuta da un chiodo vi penzolava un ferro arrugginito di cavallo. Cigolava ai colpi del vento. E al vento sembrava lasciare un lamento…”. Chi vi dice che queste “poesie” non siano verniciate dei colori della sua terra. “Poesie” affidate ad una scrittura asciutta, segmentata, essenziale, incalzante, dialogica, che poggia su periodi brevi, di stile giornalistico, direi, dai risultati estremamente attuali e redditizi. Dove sequenze narrative, descrittive, ed analitiche si alternano, in maniera compatta, inanellate da una vis morfosintattica di perspicace sapidità disvelatrice. E dove la figura di questo soldato spicca, alla fine, con tale energia da lasciarci commossi; commossi da riprendere le pagine per rileggere i momenti salienti della sua storia. Sì, perché, il soldato Giovanni, alla fin fine, non è altro che il padre di tutti noi italiani: mio padre, vostro padre, un padre come tanti che ha avuto la malaugurata sorte di vivere il tremendo periodo delle guerre; che ha sofferto, ma che è riuscito ad andare avanti con dignità. Che ha insegnato a tutti noi il valore dell’onestà, della disciplina, e del rispetto della vita. Basterebbe che noi tutti acquisissimo una minima parte dei suoi insegnamenti. Ma perlomeno ricordiamoci di questi padri, dei nostri padri che hanno lottato nelle trincee, che hanno vissuto lontano dalle famiglie, che hanno pianto su delle foto logore e consumate dalla pioggia, e che sono stati ripagati con la miseria e le macerie. In una recensione ad una sua opera di poesia dal titolo Sulla bocca del vento ebbi a concludere: “… Sì!, questo è Rescigno, questo è il suo mondo e questa è la sua poesia. Una versificazione che abbraccia ogni ambito dell’animo umano. E anche se il suo discorso appare spesso terreno, troppo terreno e anche
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se si aggrappa con slanci spirituali all’oltre, pur tuttavia, è il profondo senso della sacralità della vita a fare della sua arte un poema edificante. Tanto è vero che sente questo bisogno continuo di ripescare il passato, di riattualizzarlo, quasi per annullarsi, e riprendere fiato dopo una corsa senza respiro; sì!, per annullarsi in stormi di primavere…”. Penso che anche il soldato Giovanni, da là, sia contento di leggere questa mia conclusione. Ed è così che mi piace concludere. Nazario Pardini Gianni Rescigno: IL SOLDATO GIOVANNI Genesi Editrice - Torino. 2011. Pp.112. € 14,50
UOMINI E ANIMALI La faccia larga di sguardo degli uomini e degli animali, uno spettacolo di sera al ritorno dai campi. La faccia uno specchio, vedi subito dentro, il corpo molle e sudato per le fatiche tutte fatte a mano. Pronti a offrirti i fichi nell’estate attorno le foglie ruvide vischiose di gocce dolci. Gli asini massacrati dagli anni moderni, la loro ubbidienza meccanica sembrava intelligente a sopportare sotto le some di tutti i giorni. Sono venuti i presuntuosi, tutti uomini importanti sacchi pieni di lardo, gli occhi piccoli affossati dalla carne dell’ingordigia di animali egoisti che stanno bene e più vogliono. Ho nostalgia delle mamme, figure oggi da leggende: le mani dure per i panni lavati al fiume, le caldaie di lascivia poggiate sulle pietre a bollire. Le persone del condominio non ti vedono neppure moribondo, talpe fuggitive, l’ipocrisia crudele. Turlupinatura sfacciata della democrazia feroce divoratrice del prossimo. L’uomo che amava vederti negli occhi affinato nella dolcezza calda, le lacrime facili per le tue miserie. Leonardo Selvaggi Torino
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Due Paesi che, in passato, hanno sentito l’influenza di Roma: la Romania e il Marocco
LA ROMANIA TRA STORIA E CONDIZIONI ATTUALI di Leonardo Selvaggi I A Romania situata tra il Mar Nero, i Balcani e l’Europa centrale, percorsa nella parte meridionale da uno dei più grandi fiumi d’Europa, il Danubio. E’ stata in ogni epoca la via seguita dai popoli che dall’oriente si sono riversati verso occidente, oppure dal Nord si sono diretti verso il Sud. Anche punto di incrocio della civiltà latina con quella ellenica. Nel II millennio a. C. popolazioni indoeuropee occupano quasi tutta l’ Europa, tra queste i Geti, più noti come Daci, stazionatisi nella Romania, più propriamente nella bassa valle del Danubio, nei Carpazi e nell’area della Transilvania. Vengono a contatto con i Greci che avevano fondato colonie sull’attuale costa romena del Mar Nero. Ricordiamo la dorica Callatis, le ioniche Tomis presso Costanza e Histria, fondate dai Greci di Mileto. La loro influenza arrivò fin dove oggi sorge Odessa. Tomis assunse particolare importanza, conosciuta subito e raggiunta dai Romani, che vi esiliarono il poeta Ovidio. Negli anni 101 e 106 d. C. la Romania sotto la guida dell’imperatore Traiano conquistata e colonizzata. La testimonianza di tale presenza è data dal nome della nazione, dalla lingua e da numerosi resti monumentali, tra questi il “Vallo di Traiano”, che ora si trova oltre il confine, nel territorio che la Russia si è ripreso dopo la seconda guerra mondiale. La Romania è come un’isola latina in mezzo al mare slavo. Rovine romane anche a Drobeta, presso Turnu Severin ai confini con la Jugoslavia.
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II L’opera di colonizzazione e di popolamento
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della Romania forse senza precedenti nella storia dell’Impero romano. Con un alto sviluppo economico la Dacia venne dotata di città, strade, di un’ottima amministrazione interna, di una solida cultura e soprattutto di una lingua, il latino, che, non più dimenticata dalla popolazione, con successive evoluzioni si sarebbe trasformata nel romeno moderno e sarebbe assurta a elemento essenziale nell’ origine nel sentimento nazionale del Paese. Il suo idioma è prettamente romanzo, anche se non mancano presenze lessicali slave. La latinità delle classi colte sempre coltivata, mantenendosi relazioni con la Francia e l’Italia. Dopo due secoli arrivano i Visigoti. L’ imperatore Aureliano (270 - 275) arretrò le legioni sul Danubio e in piccole parti dei paesi balcanici. Le invasioni da Oriente e le pressioni germaniche spingono le colonie romane a rifugiarsi nei territori transilvano-carpatici. Qui l’etnia romana diviene compatta e darà la spinta al movimento di indipendenza di tutta la Romania, che dopo secoli di dominazione turca nasce come Stato nel 1878, in seguito al congresso di Berlino. Durante la prima guerra mondiale alleata dell’Intesa (Italia, Francia, Gran Bretagna), allargò i confini ottenendo la Dobrugia, appartenente alla Bulgaria, la Transilvania, il Banato (già ungheresi), la Bessarabia, tolta alla Russia. Con la seconda guerra mondiale la Romania, alleata della Germania e dell’Italia, occupata dai Tedeschi, liberata nel 1944 dalle truppe sovietiche l’ URSS si riprende la Bessarabia e la Bucovina settentrionale, che oggi formano il nuovo Stato della Moldavia. Nel 1947, abolita la monarchia, viene proclamata la Repubblica Popolare Romena. Nel 1996 il partito comunista è messo fuorilegge, si ha l’affermazione delle opposizioni moderate. III La Romania si distingue per una certa regolarità della sua figura, simile ad un pentagono, raggiunta negli ultimi tempi, dopo le varie contese affrontate con gli Stati confinanti. La regolarità di forma garantisce funzionalità e facile difesa. La superficie racchiusa in un
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piccolo perimetro riduce le distanze e offre una minima linea di attacco ai nemici. La Romania è divenuta l’area più orientale della latinità. Il cattolicesimo scompare di fronte alle chiese greco-ortodosse. L’ampia valle del Danubio è stata un corridoio di passaggio di Popoli che premevano da est verso l’Europa. I Carpazi e l’altopiano della Transilvania sono stati, come accennato già, di riparo alle popolazioni danubiane nelle epoche delle invasioni. Una regione di frontiera e di insediamenti di popolazioni. Le zone pianeggianti a Nord del Danubio e il bacino transilvano sono state aree di colonizzazione, di utilizzazione delle risorse agricole e minerarie e di conservazione di culture. IV Dall’Europa occidentale diretti a Bucarest si prova una strana impressione dopo alcuni giorni di viaggio, si pensa di trovarsi in pieno Oriente, invece, si vedono vie ampie, come i boulevards parigini, palazzi dall’architettura moderna, senza carattere e senza armonia, parchi sontuosi. Non si vedono persone avvolte in costumi pittoreschi, invece un gran numero di caffè e di trattorie rigurgitanti di folla. Uscendo da centro di Bucarest, si incontrano nelle stradine interne gruppi di contadini coperti di pelli, con berretti a cono, simili agli antichi Traci. Sulla collina si vedono chiese dalle cupolette a tamburo, caratteristiche dell’architettura bizantina. Sui parapetti in esposizione tappeti e rovine di monasteri. Ci si dimentica dell’Occidente e ci sentiamo trasportati in pieno Oriente. Bucarest sviluppata dopo il XVI sec., con la famosa via Callea Victorei, lunga parecchi chilometri, che non ha nulla da invidiare alle più belle strade delle capitali europee. Di notevole importanza il palazzo delle Scienze e il grandioso edificio del Teatro Nazionale. In gran parte ricostruita dopo che nel 1847 venne per due terzi devastata da un tremendo incendio. Bucarest, centro importante di comunicazioni, vi si annodano le principali linee ferroviarie provenienti da Vienna-Trieste-Budapest, da Varsavia e tutte fanno capo al porto di Costanza.
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V La ricchezza della Romania in tutti i settori è in grande abbondanza. Importanti le colture cerealicole nella più grande pianura della Valacchia, del frumento e granoturco, barbabietola da zucchero, lungo il Danubio il tabacco. Sul Mar Nero la coltivazione della vite. La Romania è il dodicesimo produttore mondiale di vino. Il legname un principale prodotto venduto all’estero. Produzioni notevoli orticole e di frutta, mele, pere, prugne, da queste ultime si distilla il liquore nazionale, la zuica. Diffuse come piante da fibra di lino, la canapa. L’allevamento è un’attività fiorente, per numero primeggiano le pecore che sfruttano i pascoli molto pingui delle zone ai piedi dei Carpazi. Fra i Paesi europei, la Romania è uno dei più ricchi di risorse minerarie, in particolare il petrolio e metano che scarseggiano in tutti gli altri Stati, ad eccezione della Norvegia e della Gran Bretagna per il petrolio e dei Paesi Bassi per il metano. I maggiori giacimenti di idrocarburi romeni si trovano nelle aree pianeggianti ai piedi dei Carpazi. Abbiamo anche miniere di piombo, zinco, argento, oro, bauxite. L’energia elettrica, un’altra ricchezza della Romania, in massima parte termoelettrica, data l’abbondanza di combustibile. Le grandi risorse della Romania poco valorizzate, in passato si è avuta un’economia semicoloniale, strettamente dipendente da potenze estere. I tentativi di rinnovamento hanno proceduto sempre con estrema lentezza, per l’opposizione dei ceti dominanti, per mancanza di capitali, per i diversi episodi bellici in cui la Romania è stata coinvolta, per l’ instabilità delle frontiere. Attualmente ancora persiste una crescita disordinata. Strutture economiche abnormi hanno deformato la natura reale del Paese, creando movimenti diffusi di decadenza. La Romania favorita dalla Natura non è mai riuscita ad avere periodi di floridezza. Un Paese votato a fornire merci agricole e minerarie piuttosto ad aggiungere valore alle proprie risorse e a produrre ricchezza al proprio territorio. Ha mantenuto caratteri prevalentemente di ruralità e assetti socio-
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economici di tipo feudale. La forza lavoro ha una caratterizzazione preindustriale, superata da tempo in tutti i Paesi sviluppati. Leonardo Selvaggi
IL MAROCCO DALLA PREISTORIA ALLA COLONIZZAZIONE ROMANA di Leonardo Selvaggi I A preistoria del Marocco va considerata insieme con quella del Nord Africa, chiamato dagli Arabi Maghreb, che significa tramonto o Occidente, è legata al ritrovamento dei reperti archeologici relativi all’Homo erectus, primate antecedente dell’Homo sapiens, cioè la forma di passaggio tra la scimmia-uomo e l’uomo moderno. Siamo ad almeno 200.000 anni fa, quando nel Sahara, ricoperta di foreste, era presente la vita animale. A partire dal 6000 a. C. le piogge incominciarono a diradare finché la vegetazione scomparve. Si pensa che due razze umane fecero la loro comparsa tra il 15000 e il 10000 a. C., il gruppo oraniano, così detto dalla città e importante sito archeologico algerino di Orano e quello capsiano, il cui nome deriva dall’antica Capsa, ora in Tunisia. In seguito fuse con le popolazioni indigene, dando vita alla Nuova Età della Pietra. Le principali notizie di questo periodo arrivano dalle pitture rupestri dell’Hoggar in Algeria e da ricerche effettuate nel Marocco. E’ da questi popoli primitivi pare che discendano il Berberi, dediti alla pastorizia e alla caccia, conosciuti anche come guerrieri, mai assoggettati ad alcun sistema di organizzazione sociale che non fosse quello della tribù.
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II Il Marocco è lo Stato maghrebino per eccellenza, trovandosi nella parte più occidentale del mondo arabo e islamico. Quando nell’ VIII sec. abbiamo i primi invasori dall’Est, gli abitanti del luogo sono ormai stabilmente
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insediati nel loro territorio, nella parte meridionale i Getuli e in quella settentrionale i Mauri. La colonizzazione dei Fenici si ha sulla costa mediterranea e su quella atlantica. In cerca di porti in cui impiantare le basi per il commercio di metalli grezzi che conducevano con la Spagna. In Marocco i Fenici li abbiamo a Tamuda, vicino all’odierna Tetouan, a Tingis (Tangeri), a Lixus, questi possedimenti tenuti sino alla fine del III sec. a. C.. Zone splendide, nei giorni limpidi, da Tangeri si vede la costa della Spagna, Paese considerato da sempre dagli Europei la porta per raggiungere l’Africa e da Arabi e Africani per entrare in Europa. Dopo i Fenici succede la dominazione di Cartagine, durante la quale i popoli africani sottoposti sono oppressi da tasse molto pesanti. Ci sono ribellioni da parte di indigeni, costituiti da Libici, Numidi e Mauri, che sconfitti sono costretti a ritirarsi verso il deserto del Sahara e i monti dell’alto Atlante. Dopo la caduta di Cartagine nel 146 a. C. e durante i primi cento anni dell’occupazione del Marocco Roma si limita a conservare le guarnigioni che aveva fondato allo scopo di proteggere i porti e rotte commerciali. Verso la fine dell’era precristiana vengono inviati i primi coloni. Marginalmente viene toccato il Regno mauretano, comprendente l’odierno Marocco e gran parte dell’Algeria settentrionale. Costituita dal II sec. a. C. e destinata a durare fino al 40 d. C. la Mauritania, terra dei Mauri, antica regione dell’Africa settentrionale che si estendeva dall’Atlantico al fiume Ampsaga. In gran parte montuosa, era adatta alla pastorizia, alla coltura dei cereali e dell’ ulivo sulla costa e nelle poche pianure. Era il tramite naturale attraverso cui giungevano al Mediterraneo le merci provenienti dal Sahara. III Il Regno mauro, retto al tempo della guerra contro Giugurta, dal suocero di questi Bocco I, il quale ebbe una parte importante nel conflitto, prima in appoggio del genero e poi contro di lui, dalla parte dei Romani, che lo compensarono riconoscendogli il posses-
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so del territorio. Verso la metà del I secolo a. C. vi erano due Regni, retti rispettivamente da Bocco II e da Bogud. Nel 38 Bocco II riunì la Mauritania in un unico Regno, alla sua morte senza eredi Augusto lo assegnò a Giuba II, dopo avervi fondato una dozzina di colonie. Altre città romane importanti erano Volubilis, Sala, Lixus, Saldae ed Icosium. Legale a Roma Giuba II diede impulso allo sviluppo economico e culturale del Paese, favorendovi la diffusione della civiltà greco-romana e facendo della sua capitale Cesarea, una splendida città. Con l’ uccisione del figlio e successore Tolomeo, ordinata da Caligola nel 40, la Mauritania passa sotto il diretto dominio romano. Nel 44 viene divisa in due province distinte: la Mauritania cesariense con capitale Cesarea nell’attuale Algeria e la Mauritania Tingitana con capitale Tingis. I Romani non avendo alcun interesse per la regione continuano a mantenere la loro presenza lungo le coste. Nel caso del Marocco questo fatto acquista particolare rilevanza. E’ risaputo all’ epoca che i Berberi, nome con il quale sono designate le popolazioni autoctone, non si lasciano sottomettere facilmente. Quando si sentono minacciati da un’invasione si ritirano nell’ immenso Sahara che dà sicurezza. L’ intera storia del Marocco è contraddistinta dalla separazione rimasta sempre inalterata tra gli originali abitanti berberi e i conquistatori. Cartagine, Roma, gli Arabi hanno obbligato i Libici, i Numidi e i Mauri (Mauretani o Mori, popolazioni delle estreme regioni occidentali) all’emarginazione, cacciati all’ interno verso il deserto e i monti dell’Alto Atlante, dove vivono da seminomadi. Da qui, luoghi selvaggi e inaccessibili, continui attacchi contro qualsiasi potenza straniera. IV Il Marocco costituisce uno dei più remoti avamposti dell’impero romano. Viene praticata una vasta deforestazione per consentire la coltivazione di frumento su larga scala. La seconda metà del III secolo si rivela un’epoca di conflitti, rimangono in mano
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romana parti della Tunisia, l’Algeria settentrionale, la Libia e l’Egitto, mentre la Mauritania Tingitana è abbandonata alle popolazioni indigeni, ad eccezione di Tingis, destinata alla difesa dello strategico stretto, di collegamento tra il Nord Africa e la Spagna. La colonia di Volubilis rappresenta un grande centro del dominio di Roma. Antica città della Mauretania occidentale. Importante per l’agricoltura, fiorente, con Giuba II che vi raccolse tesori d’arte. Eretta a municipio da Claudio per la sua fedeltà, abbandonata al tempo di Diocleziano. Gli scavi hanno riportato alla luce buona parte della città. Abbiamo il foro con due templi e la basilica dedicata a Giove, a Giunone e a Minerva, il campidoglio che risale al 218 d. C., l’arco di trionfo costruito nel 217 d. C. in onore dell’imperatore Caracalla, varie terme, frantoi, forni, mulini e molte case private, riccamente adorne di mosaici. Trovati numerosi pregevoli pezzi di scultura in bronzo, tra i quali il cosiddetto Efebo coronato e il presunto ritratto di Catone Uticense. Si trova a circa 33 km a Nord di Meknès, Volubilis, il sito romano più esteso e meglio conservato del Marocco. Nominato patrimonio culturale dell’Umanità dall’Unesco nel 1997. La popolazione di Volubilis composta da Berberi, Greci, Ebrei e Siriani continuò a parlare latino e praticare il Cristianesimo fino all’ arrivo dell’Islam. Diversamente da Lixus, che si trova in direzione Nord-Ovest e fu abbandonata poco dopo la caduta dell’Impero romano, Volubilis continuò ad essere abitata fino al XVIII secolo, quando i suoi marmi vennero utilizzati per la costruzione di imponenti palazzi a Meknès. Suggestivo visitare i resti romani al crepuscolo, quando gli ultimi raggi del sole illuminano le antiche colonne, questo luogo appare magico. I capitelli corinzi di Volubilis sono guardiani silenziosi di 2000 anni di storia. Le cose più belle sono gli stupefacenti mosaici, particolarmente apprezzati anche perché sono stati lasciati sul posto, questo, tuttavia, ha causato lo sbiadimento dei colori. La casa di Orfeo era la sontuosa residenza di uno degli
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abitanti più ricchi della città. Ha ancora due mosaici, di cui uno rappresenta il mito di Orfeo e l’altro il carro di Anfitrite. I mosaici costituiscono una testimonianza dell’alto livello raggiunto dai Romani in campo artistico. Inoltre la casa di Efebo che contiene un bel mosaico che raffigura Bacco su un carro trainato da pantere. Mosaici splendidi Le fatiche di Ercole e Le ninfe al bagno. Nella casa di Venere altri mosaici: il Ratto di Ila da parte delle Ninfe e Diana al bagno. V Il Marocco dal punto di vista morfologico somiglia in qualche modo alla Spagna. I due Paesi si trovano nella parte occidentale del Mediterraneo, i loro promontori terminali a Nord formano le due mitiche colonne d’ Ercole. Si affacciano entrambi sul Mediterraneo e nel tempo stesso sull’Atlantico. Come la Spagna per lungo tempo è rimasta proiettata verso il nuovo mondo colonizzandolo, vivendo un certo isolamento dall’Europa, il Marocco ugualmente ha avuto per la posizione geografica delle sue caratteristiche proprie, rispetto agli altri Paesi maghrebini, ha subito minori influenze esterne, poco ha sentito la colonizzazione fenicia e quella romana, come poco è stata arabizzata, mantenendo profondamente il carattere originario, quello berbero. Il Marocco ha una sua storia nazionale ricca, una sudditanza coloniale limitata, una lunga indipendenza e istituzioni politiche proprie. Monarchia costituzionale, con una superficie di 458.730 kmq e una popolazione di 29.776.000 abitanti. E’ fra i Paesi maghrebini più aperti ai mercati europei. Mantiene altresì una sua identità di Stato islamico. Ha una sua strada da percorrere, con risorse particolari, quali i giacimenti di fosfati, riconosciuti in ambito internazionale. Il territorio marocchino ha aspetti mediterranei e insieme atlantici. Prevalentemente montuoso con quattro grandi sistemi, Rif, Medio Atlante, Alto Atlante, Anti Atlante che con altipiani e pianure costituiscono un Paese dagli aspetti multiformi. Leonardo Selvaggi
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LE DONNE NEI CAMPI L’aria delle piante, l’odore delle stalle, la libertà felice degli animali. Le allodole che hanno il volo a tratti dondolato, spezzato dall’alto in basso e viceversa; Il canto che pare fischio al profumo delle stoppie e delle spighe ammonticchiate. Le musiche delle cicale a ripetizione, dal ritmo meccanico per i campi vuoti assolati, allargano le distese aride. Rare le querce al centro, i ripari dei muri sgretolati fuggono sui rialzi circondati dalle vigne. Il mulo testardo e forte all’ombra del casolare sfodera la sua esuberanza vibrando in tutto l’intestino e il massiccio suo corpo. Le donne accaldate, leggere camiciole, la testa legata dal fazzoletto lavorano tutto il giorno e cantano sbizzarrite per gli aperti spazi di terra e di verde. Avvenenti piegate si spostano, muovendo la groppa quadrupedi al pascolo, per riordinare i solchi delle viti. Attorno la siepe di rovo e di sambuco densa di foglie ruvide e spinose. La calura che cuoce gli umori marciti, lievi flussi di frescura, fruscii dentro le ombre del fico. L veste pende davanti, la mano stringe le radici alla gramigna. La testa quasi radente irrorata dal caldo madido, i capelli si rovesciano in basso davanti alla faccia. Leonardo Selvaggi
IL CROCO I Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE Il numero 113, di questo mese, è dedicato alla silloge di ANTONIA IZZI RUFO PAESE 3° Premio al Città di Pomezia 2013
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Il Racconto
DI LÀ DALLA NOTTE di Walter Nesti
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ERDONAMI. Con gesto a te incomprensibile ho respinto seccamente la tua mano che con amore tentava esplorare il mio corpo. I tuoi occhi più veri del suono della voce che sgomenta chiedeva il perché. Non saprai mai il perché. Il tuo cervello innamorato non afferrerebbe il nesso fra il tuo gesto e quello di un uomo compiuto in un tempo che ormai si perde nella preistoria della mia vita. Ero molto giovane allora. Lui non era più tanto giovane. E poi c’eri tu. Si, anche allora c’eri tu. Per qualche tempo ci foste entrambi. Tutti e due cari e importanti. Tu, l’amore che in quella tarda estate cominciava a popolare di sogni l’avvenire, la possibilità di una vita a due, il matrimonio come fine ultimo di un’esistenza maturata nel sentimento certo che leggevo nei tuoi occhi; lui, l’esperienza forte e intensa di qualcosa che ormai stava per finire e che non avevo avuto il coraggio di chiamare amore. Perché, vedi, forse il mio primo grande sbaglio è nato da una incapacità a penetrare il senso delle cose, ad afferrare la somma di esperienze che fluivano da quel volto che ormai cominciava a perdere i segni della giovinezza, di sottovalutare l’importanza dei tesori che cadevano sopra la mia persona quasi fossi un idolo, tesori di cui ammiravo la bellezza e di cui, forse, disponevo con troppa leggerezza, a mio piacimento. Con capriccio. “Sono nato troppo presto, ripeteva spesso, con ironia ma anche con monotonia e le pieghe agli angoli della bocca denotavano un’amarezza profonda, che solo ora intendo e vedo, dove già v’era la consapevolezza del proprio destino, non solo, ma anche di come si sarebbe compiuto. Perdonami. Mi dispiace aver respinto la tua mano leggera che tentava di forzare il santuario del mio corpo. Ma non posso farci nulla. Non riuscirò mai a farci nulla. So che questo è il preludio a una fine che prima o poi ci fra-
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nerà addosso con tutta l’intensità delle cose lasciate troppo a lungo a covare. *** La sua mano leggera e pur grave sopra il mio corpo. La mia voce aspra, crudele, troppo giovane (oh quanto troppo giovane) “lasciami stare”. E l’ombra che avanzava su quel volto come quando una nuvola passa veloce davanti al sole. Gli occhi erano gli ultimi a spegnarsi. I suoi occhi grigi che tanto mi avevano ammaliato due anni prima. (Il mio corpo era sbocciato sotto lo sguardo amoroso di quegli occhi; le sue mani avevano tolto ad uno ad uno i veli dell’inconoscienza, mostrato alla mia esuberante giovinezza gli stupendi segreti della vita, avevano fatto provare al mio corpo ignaro i primi singulti del piacere. Il mio corpo tremante sotto l’esperte carezze delle sue mani). Ma già allora l’immagine irridente del tuo volto si insinuava tra me e lui, la mia retta coscienza inalberava il paravento del torto all’ amore giovane e puro, doveva operare una esclusione, a tutti i costi. Nessun triangolo poteva essere ammesso nella linearità di una coscienza intatta. Così allora credevo. Abituata da secoli, incapace di difendermi dagli assalti retorici della linearità degli affetti. Il cuore non è divisibile. E la mia voce si alzava, giovane, crudele, la voce della coscienza operava la scelta secondo le convenienze e sbranava impietosamente il feticcio del proprio corpo; respingeva lontano la mano che diventava sempre più stanca e sempre di meno aveva il coraggio di tendersi per ritrovare un equilibrio ormai compromesso. Con giovane, cocciuta voce ripetevo “lasciami stare”. *** Perdonami. A te e a lui devo chiedere perdono. Sto ripercorrendo a ritroso la medesima strada. Ora sono le pieghe amare della sua bocca che mi vedo davanti quando la tua mano avanza felina sulla mia pelle nuda. Il mio corpo si contrae. Non sono più capace di provare piacere. Sento allargarsi nel petto un urlo che vorrebbe esplodere “lasciami stare”, ma ho troppa paura con te di gridare, il volto tri-
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ste ormai composto in perfetta serenità ammonisce alla mia incoscienza. (Solo allora le pieghe erano sparite e vidi quanto bella fosse la sua bocca. Tu mi tenevi la mano. Tremavo. “Gli volevi bene?”, la tua voce leggera, comprensiva, senza dubbi; e quel corpo rigido improvvisamente si anima, ne vedo i gesti consueti, lo spasimo mi dilacera, sento la forza della sua passione premere contro il mio corpo “capirai” rispondo e ti trascino via per non gettarmi su quell’ ammasso inerte, per non cercare con frenesia sotto i vestiti funebri i segni della virilità che mi aprì alla vita, che rivelò me a me, chi ero, di dove venivo, dove andavo. L’orrore era troppo grande per dare un senso alle mie parole. Staccai per la prima volta quasi con rabbia la tua mano dal mio braccio). Ho fatto male a lui, a te, a me. Ho dilacerato le nostre tre vite per obbedire a un ideale di perfezione morale ricevuto in eredità da secoli di antenati imbecilli. Ho portato il seme della corruzione nella purezza inattaccabile del diamante. Ho cominciato a sognare le sue mani quando ho saputo di averle perse per sempre. Prima credevo bastasse dire “lasciami stare” per difendermi da lui e da me, ma la sua presenza era già una sicurezza, il gioco poteva essere spinto oltre il necessario, tanto lui era là, un fischio, correva con gli occhi accesi, tenero come forse a te non è accaduto di essere mai. Amavo quella tenerezza. Ma non gliel’ho mai detto. Quanti errori si commettono anche amando. Forse se una volta gli avessi detto “Sapessi quanto amo la tua tenerezza. Abbracciami”, avrei visto fiorire le stelle nel grigio dei suoi occhi buoni e quella mano stanca di essere respinta non avrebbe trovato la forza di premere il grilletto. *** Perdonami. Non so più a chi chiedere perdono. Ma sento il bisogno di un’assoluzione. La pietà di me fissa le tappe del mio tormento. So che non potrò più possedere il tuo corpo perché non mi sarà più possibile possedere il suo. E’ un anello che si è saldato con la sua morte e che ci ha imprigionati tutti e due. Tu
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vittima innocente. Io meno. Lui vittima delle vittime. L’abbiamo ucciso tutti e due. Tu ed io. Il mio amore per te lo ha ucciso, ma non perché ti amavo, bada bene, era superiore lui a queste cose, sapeva perfettamente che il cuore non è un abitacolo stretto, e il corpo può fremere in modi diversi quando diverse mani amate ne sollecitano le corde; non perché ti amavo, ma perché non volevo ammettere di amarlo quando tutte le fibre del mio essere lo chiamavano, quando la più trascurata cellula del mio corpo vibrava al suono della sua voce, perché insistevo nel respingere il carisma delle sue mani mentre pretendevo avere la sua presenza. Si può amare e cessare di amare. Si può desiderare e cessare di desiderare. Ma non si può pretendere che un uomo innamorato ti stia vicino e impedire alle sue mani di esplorare un corpo che rappresenta l’essenza stessa della sua vita. Il mio corpo. (Il fumo delle sigarette rendeva l’aria irrespirabile. Io parlavo di te. Ti accettava. Scusava anche i tuoi difetti. Ti voleva bene attraverso di me. Ma sperava che il mio amore per te non lo lasciasse in balìa della sua solitudine. Vedeva le cose con la larghezza del suo amore. E io con la mia crudele giovinezza pretendevo la lealtà a un ideale di purezza astratta. Per te, capisci. Per te. Eppure il mio sangue si accendeva al tocco delle sue mani, la sua presenza quasi giornaliera era ossigeno alla mia vita. Lui era il rifugio di tutte le mie pene. Anche di quelle che tu mi procuravi, allora. Era capace e grande il suo cuore. Sapeva accogliere tutto. E poi, quel giorno, l’umiliazione atroce del suo volto. “Non dobbiamo più vederci. Se non vuoi che ti abbracci, se non desideri più il contatto del mio corpo non dobbiamo vederci. Cerchiano di dimenticare. E’ stata una cosa bella finché è durata”. “Ma perché?”. Non capiva. Non si capisce mai quando si deve capire). Spesso ora mi desto di soprassalto ed ho l’ impressione che non tu ma lui mi sia vicino in questo letto. La sua presenza invisibile è la
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mia sola compagnia. *** Perdonami. Forse affretterò la frana che prima o poi dovrà travolgerci. Tu non fai nulla per impedirlo. E non potresti fare nulla. Perché non sai e non saprai mai. Solo guardandoti dormire posso parlartene, alla luce del giorno le parole cercherebbero nella menzogna l’aiuto all’evasione. Lui fu il primo a possedere il mio corpo. Il suo sesso di uomo fu il primo sesso di uomo che vidi. La sua bocca fu la prima bocca che baciai. Tu venisti dopo. Lui era già in me, radicato come un male maligno, quando tu venisti. Era già in me da due anni. E un altro grande errore fu quello di credere, di voler credere ad ogni costo, che il tuo amore avesse cacciato il suo amore. Lui sapeva che non era vero. Vedeva giusto. Capiva che c’era posto per tutti. Perché l’amore che avevo per te non era uguale all’amore che avevo per lui anche se era lo stesso amore; non meno intenso, non meno grande, ma non lo stesso. E non potevano contrapporsi. Non dovevano. L’uno non poteva cacciare l’altro. Io credetti di sublimarlo relegandolo nella sfera della pura amicizia, masochisticamente privandomi di quei contatti che pure desideravo, ma non si può levare l’olio alla lampada e pretendere che continui a brillare. (Il volo umiliato, le mani che stringevano spasmodicamente la sigaretta fino a sbriciolarla fra dita inconsapevoli, la voce dimessa, ormai atona “non lo desideri?” - “no, non lo desidero” - “ora, in questo momento, o per sempre” - “per sempre” - “bene, allora ti prego, per favore, non vediamoci più” - “sei il solito stupido”. Accolse l’offesa come un dono, come l’unico estremo dono che potesse provenire dalla mia persona e borbottò qualcosa che allora non capii o non volli capire. La mia leggerezza armava la mano che poco prima si era tesa fremente, in carismatica offerta, verso il mio corpo). Fui anche l’ultima persona a baciare la sua bocca. Estremo e inutile omaggio a chi non poteva più apprezzare il mio gesto. Prima che i duri martelli inchiodassero il legno della
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cassa la disperazione aveva spinto nuovamente il mio corpo verso quelle membra ormai rigide. Volevo racchiudere nel mio sguardo l’ immagine di quel volto placato prima che la notte lo coprisse per sempre. Guardai la sua bocca così distesa, serena, e mi sembrò immensamente bella. L’istinto fu forte e racchiusi nella mia disperazione il rigido freddo di quelle labbra tante volte respinte. Perdonami. Devo confessarti che su quelle labbra implorai “Ti amo”. Walter Nesti ALLELUIA DELL’ALLERTA Dall'alluvione in Sardegna abbiamo appreso, per via mediatica, quale sia il corretto iter burocratico-operativo in caso di allerta climatica. L'Aeronautica avverte la Protezione Civile. La Protezione Civile avverte il Prefetto. Il Prefetto avverte i sindaci. I sindaci non sanno cosa fare. Quando il Po esondava, Don Camillo suonava le campane. Tanto vale che l'Aeronautica avverta direttamente i parroci. Il problema è che non ci sono più le campane. Rossano Onano Nel nostro Bel Paese, caro il mio amico Onano, i guai della Civile Protezione han radici che vengon da lontano. Sono, intanto, lo scarica barile. E’ un porto per politici e volponi, non certamente un luogo deputato per sagge strategie e per le azioni. Un porto permanente, ove galleggia il servilismo puro e l’intrallazzo; palestra estremamente raffinata per passere di lusso e per il ...mazzo. (Fra i tanti, ti ricordo un Bertolaso). Quale ateneo di studiosi e saggi! Un sodalizio bene organizzato di escortine allegre e di massaggi! Non bastan l’Aeronautica e il Prefetto, e i Sindaci alla Civile Protezione; né mancano soltanto le campane, ma pure i don Camillo ed i Peppone! Domenico Defelice
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ANNA AITA DOMENICO DEFELICE Un poeta aperto al mondo e all’amore di Tito Cauchi
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NNA Aita è una scrittrice campana con all’attivo diversi libri, nonché è operativa, da molti anni, quale volontaria ospedaliera e responsabile dell’ Associazione “Megaris”. Appare evidente la sua ammirazione verso un uomo di cultura, artista, di grande impegno, che si è fatto da sé, al quale intitola la monografia Domenico Defelice - Un poeta aperto al mondo e all’amore. Fa sempre piacere partecipare all’incontro di persone di cultura, intelligenti e generose: è come fare parte di un simposio; ed entrare, attraverso gli scatti fotografici, nella vita ora spensierata del giovanissimo sognatore, ora in compagnia di letterati (Francesco Pedrina con la figlia Ilia; Rudy De Cadaval; Solange De Bressieux; Orazio Tanelli; Ada Capuana; Saverio Scutellà; Sandro Gros-Pietro), ora nella veste di giornalista in varie occasioni (on. Giulio Andreotti), ora mentre consegna un suo libro a Papa Giovanni Paolo Secondo; ma
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anche nell’intimità della famiglia, con un primo piano del nipotino Riccardo. L’opera è introdotta da Angelo Manitta, che la giudica, fin dal titolo, esplicativa della natura dell’uomo e poeta Defelice strettamente legato al contesto che lo circonda e al suo vissuto. Il critico siciliano giudica la struttura del libro, organica, tale che offre un ampio ventaglio di giudizi esegetici sulle opere dello scrittore seguito nella evoluzione artistica, dal singolo componimento alle raccolte che si innestano nel tessuto sociale e civile della denuncia di ogni abuso, affermando che nello scrittore calabrese “La poesia diventa impegno di coscienza, ricerca di un senso”. Anna Aita, con molta onestà, dichiara di attingere per l’esposizione delle opere di Domenico Defelice, oltre che alle proprie letture, sia allo studio di Sandro Allegrini, come di una bussola, Percorsi di lettura per Domenico Defelice, in particolare al “Florilegio Minimo” ivi inserito, sia alla “Antologia Minima” inclusa in To erase, please? dello stesso scrittore di Anoia. Inoltre avverte dell’uso fatto dal defeliciano Diario di anni torbidi, incentrato nell’anno 1966. La presente monografia si struttura in sei capitoli, che caratterizzano altrettanti risultati
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del multiforme scrittore, ad iniziare dalla Vita: bambino-adolescente, giovane adulto alla ricerca di una sistemazione professionale e matrimoniale, fino a diventare padre (e adesso anche nonno). Anna Aita ne esalta la figura, come di un eroe-contadino-pastore, del giovane uomo sempre alle prese per come sbarcare il lunario compresso fra due passioni, quella letteraria e quella per le donne. Penso che tutte le vite possono raccontarsi, ma se non conoscessi l’amico calabrese, direi che la biografia rappresentata assomiglia ad un romanzo. A dire il vero l’itinerario biografico mi sembra molto coinvolgente perché restituisce una figura piacevole e accattivante, che per i risultati raggiunti diventa un esempio nel porsi degli obiettivi e una esortazione per combattere contro le ristrettezze economiche; perciò mi soffermo ampiamente, seppure non in modo esaustivo. Le opere esaminate riflettono l’Autore, si sa, e ne costituiscono una trasposizione letteraria e poetica; ma sappiamo che la lista delle stesse potrebbe prolungarsi; tale sosta sulle opere non va intesa come mero catalogo, ma serve a comprendere l’ evoluzione dell’Artista capace di usare la penna ora come una piuma, ora come uno spadino. Proviamo a sostare sulle sei facce del poliedrico cultore. Domenico Defelice nasce ad Anoia nel 1936, in provincia di Reggio Calabria, da una famiglia di origine contadina. Ancora bambino, Mico, come amorevolmente la madre lo chiamava, doveva partecipare alla conduzione dei lavori di famiglia per il sostentamento della stessa. Così dopo una moderata colazione, doveva badare ad un maialino, portare al pascolo pecore e capre, affrontare fatiche superiori alla sua età. Nondimeno l’indole si modellava ai cicli naturali agro-pastorali, alla visione bucolica che lo faceva sognare; tutto ciò sotto i rigori meteorologici che dovevano temperare il carattere del futuro uomo feroce del sud. Si tenga presente il periodo storico bellico, che non ha risparmiato esperienze traumatiche nell’animo del bambino. Naturalmente lo
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studio passava in secondo o terzo piano, gli impegni lo vedono sottoposto alla cura anche della terra; tuttavia a dodici anni conclude il ciclo delle Elementari (1948). E sempre lavorando, giocando e sognando, riesce a conseguire la Licenza Media. In qualche occasione visita la grande città di Roma che accelera la costruzione fantastica di un mondo a propria misura. Gli studi di media superiore, lo vedono in trasferta a Reggio Calabria, ove prende una camera in affitto, prima presso una famiglia di pescatori e successivamente nel rione urbano di Santa Caterina. Ricorderà tale iter come un periodo ricco di sogni e di innamoramenti, di ansie e di angosce per Teresa, amata e rapita dalla morte; ma anche, in particolare, la più volte decantata Marcella che farà rivivere nelle sue opere. Gli immaginabili sacrifici della famiglia, e quelli dello stesso Domenico, si coronano con il conseguimento del Diploma di Ragioniere. Agli inizi degli anni Sessanta, il giovane adulto è pronto per dare un assetto alla propria esistenza: lavoro e famiglia. Ma la sistemazione economica tarda a consolidarsi e così esperimenta varie attività, tra cui una presso lo stabilimento di Rosarno quale responsabile di magazzino, tra macchinari rumorosi e fumi sgradevoli. Ma la sua verve artistica multiforme non si scoraggia, anzi va all’ attacco: dipinge, collabora a riviste e ad alcuni giornali, scrive poesie e pubblica raccolte; gli viene musicata la canzone “Voglio stringerti così” da Tito Schipa e E. Brizio. A metà degli anni Sessanta, nel trentenne poeta, si fa pressante il desiderio di conquistare la Capitale, attratto dal fascino che la Città Eterna esercitava. Gli inizi, che poi durano anni, sono assai faticosi. Abbiamo cenni in alcune sue opere ove si descrive il giovane sempre in bolletta che si nutre di poesia, si riempie gli occhi delle pitture, fa critica letteraria e artistica, respira aria di cultura, mentre gli intestini si nutrono di se stessi, sicché un giorno sviene cadendo per strada. E una volta per eludere la tristezza si affida ad una bottiglia di vino da cui, invece, viene ingannato. Orgoglioso fino all’inverosimile, quando la
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padrona di casa gli chiede un piccolo prestito, Defelice non si tira indietro, procurandosi la somma a sua volta. Alla fame dello stomaco si somma quella di avere una donna accanto; così, come in un carosello, incontriamo ora Lisetta, con la quale non ci prova più di tanto perché il caro amico Rocco le faceva la corte; ora appare Gisella, con la quale trascorre ore di tenerezza, ma la ragazza è fidanzata in Sardegna, così si sente lui meno impegnato; ma sempre più il giovane arde dell’antica fiamma di Marcella che non riusciva a spegnere, fin quando, al rifiuto della ragazza, si mette il cuore in pace. Tra un tormento e l’altro appare Rosita che non è proprio il suo tipo di donna, così inventa la bugia di essere già sposato. Alle notizie poco confortevoli che giungono dalla famiglia, fra cui la rottura del fidanzamento della sorella Carmelina (allora la si valutava come una avversità seria), fanno da unici momenti di svago quelli trascorsi con gli amici, fra cui il citato Rocco (Cambareri), Nino (Pensabene), Michele e Germano. Intanto i genitori, ritenendo di agire a fin di bene, tentano di combinare il matrimonio con una brava ragazza (mi pare una maestrina), ma di ritorno al paese il giovane Defelice rimane deluso della sorpresa. Così rientra a Roma con altra grinza; intanto si iscrive all’ Università, in Economia e Commercio e per tentare una sorte migliore, bussa a più porte: la sorte sembra migliorare, pur ugualmente sotto pressione, venditore di elettrodomestici, contabile, insegnante di materie di indirizzo per ragionieri, presso un istituto parificato, su chiamata del preside Becattini, che gli assegna anche lezioni di Italiano, Francese e Storia; inevitabile, per il neo-insegnate, qualche iniziale inciampo. E per timidezza, Domenico incespica pure durante la lettura delle sue poesie quando trovava spazio letterario in pubblico. Irrequieto fonda una editrice “Le petit moineau” (1967) che gli permette uno scambio culturale con letterati francesi (Solange De Bressieux, Paul Corget ed altri) e trova finalmente il grande amore in Clelia, che sposerà nel 1970. Il volo è spiccato, da lì a qual-
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che anno fonda e dirige la rivista PomeziaNotizie (1973) che, fra difficoltà economiche, continua nonostante la fatica, ancora oggi, a dirigere; uno dietro l’altro ha tre figli Gabriella, Luca e Stefano (1982); e gli impegni letterari volano alto, come autore e critico, editore e direttore, operatore culturale di incontri e relatore di libri. Intrattiene corrispondenza con tanti autori e pittori in Italia e all’estero. Innumerevoli sono le recensioni che lo riguardano e le citazioni che lo riportano. Delle opere di Domenico Defelice (cap. II), Anna Aita rileva, sulle orme di Allegrini, quanto le creazioni giovanili, comprensibilmente, risentano dell’influsso scolastico. Così avviene, all’età di 21 anni, al tempo di Piange la luna (1957); ebbene l’Autrice sottolinea come “qualche difettuccio di espressione eccessiva o sdolcinata” o qualche lacuna siano perdonabili, in un esordiente, come suggerisce l’Allegrini. In Con le mani in croce (1962), il Poeta lamenta le violenze sugli animali, ma anche la deturpazione della natura, gli esperimenti nucleari, le problematiche che investono la famiglia dei nostri tempi; l’ auspicio alla pace e l’amore onesto. Un paese e la ragazza (1964), esprime la passione amorosa per Marcella dello studente al tempo di Reggio Calabria e la raccolta 12 mesi con la ragazza (1964), esprime nelle metafore dei colori le forme della passione amorosa, mentre nella finestra chiusa il diniego dell’amore. Con la maggiore maturità del Defelice, la presa stilistica si fa più personale, egli si incanala nella introspezione psicologica, nella valutazione sociologica e antropologica delle azioni umane; è maggiormente legato alla realtà in una sorta di ossimoro. È quanto riscontriamo ne La morte e il Sud (1971), con un linguaggio che dosa dolcemente nel cantare le bellezze naturali del suo paese e nel contempo un linguaggio aspro, quanto basti, per il doloroso fenomeno della criminalità, l’altra faccia del paese. E in Canti d’amore dell’ uomo feroce (1977) è sì, atroce, ma anche fiero, nella duplice valenza del vocabolo, ancora una volta per la sua terra amata per un verso e
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odiata per un altro verso, prendendo netta posizione contro mafiosi, delinquenti e tutti coloro che abusano del potere sia per proprio profitto, sia per mera angheria sul più debole. Domenico Defelice, non è monocorde, così in Nenie ballate e canti (1993), gioisce per la bellezza, prorompe per la passione sessuale; ma si fa particolarmente partecipe delle sofferenze che investono la comunità, facendole proprie, trasformando la voce in una nenia per la morte del piccolo Alfredino Rampi (inghiottito da un pozzo artesiano in località di Vermicino, nelle campagne romane, nel 1980). Un evento che ha tenuto con il fiato sospeso tutta la Nazione; ma, in opposizione alla grande tragedia, si commerciavano bibite e panini. Il dolore si impadronisce del Poeta a tal punto che raffigura il sonno del piccolo in una pittura che gli fa da copertina alla stessa raccolta, dopodiché non prenderà più un pennello; il pensiero della morte lo ammutolisce. Alcune pubblicazioni (cap. III) su cui ci soffermiamo brevemente, sono diversissime fra loro per il taglio. Degna di nota, a parte, merita lo studio che Domenico Defelice ha dedicato a un personaggio notevole, Temi umani e sociali in Carmine Manzi (1972), uomo non comune di Mercato San Severino (Salerno), operatore culturale, poeta e scrittore, dalla semplicità disarmante e profonda nel contempo. Lo scrittore, che aveva trasformato la sua dimora di Paestum in un tempio della cultura (l’Eremo Italico), è fatto oggetto di innumerevoli consensi. Oltre a soffermarsi sul pensiero e le opere, dello scrittore, il poeta calabrese si sente particolarmente vicino a lui, in occasione della vicenda personale che riguarda l’anziano maestro campano, durante un intervento chirurgico subito a Roma, evento che porta entrambi a riflettere sulla precarietà della vita. E con ricchezza di metafore che riportano al suo originario impegno sociale, letterario e artistico, risultano le opere della maturità che man mano si consolida, caratterizzate da una prosa scorrevole e accattivante ma anche di seria gravità; miste di ossimori e di dicoto-
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mie. Defelice con Arturo dei colori (1987), si rivela narratore di racconti fiabeschi, non disgiunti da risvolti pedagogici; si scopre ‘poeta della vita’ e uomo di fede; in un racconto fantascientifico riconosciamo in tre astronauti i figli (Luca, Gabriella e Stefano). Dal fantastico passa a un senso di nausea per quanto avviene nel mondo, così in To erase, please? (1990), con terminologia da computer; il nostro Poeta feroce, contro tutti e tutto, è molto deluso, perfino delle notizie quotidiane che sono un ammasso confuso e inadeguato, perciò dichiara, che sarebbe tutto da cancellare e rifare. Potremmo dire che il nostro poetacontadino trova l’agognata armonia ne L’orto del poeta (1991), fra alberi, arbusti e ortaggi, nel verde, che lo portano alla primigenia natura; ivi conversa con le piante, di tutto, ed è felice. Altro sconcerto si rivela in Alpomo (2000), poemetto burlesco, allusione all’Italia dilaniata dai politici arraffa - tutto, litigiosi e inconcludenti. Defelice riesce a trarre spunto dalla vicenda personale del ricovero ospedaliero per denunciare il disservizio sanitario che trasforma la fatalità in una sorta di viaggio nel dolore, Resurrectio (2004), lo fa in modo dilettevole ma anche austero tanto che al suo interno le sezioni sono denominate stazioni e sono in numero di tredici, come a rimarcare l’analogia con la Passione di Cristo; per fa apprezzare di più la vita. Un taglio del tutto letterario ha il libro Pagine per autori calabresi del Novecento (2005), in cui offre la panoramica di un numero considerevole di autori della sua regione, alcuni appena tratteggiati, altri diffusamente studiati, dimostrando la capacità critica di investigazione; in tutti i casi i loro profili letterari risultano tutti ben delineati; per tale ragione il libro può essere inteso come un esempio di critica, corretta e onesta. Ha un taglio autobiografico il semplice Diario di anni torbidi (2009), semplice perché scritto di impeto, appunto è un diario, non elaborato, ma trasuda di realtà e di sogni che costellano il percorso di vita del giovane Domenico, fonte a sua volta di varie riflessioni e citazioni di autori. Infine ritorniamo al poeta-contadino
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con Alberi? (2010), il cui punto interrogativo vuole mettere sull’avviso il lettore che le piante del suo orto-giardino sono come persone, hanno un nome e un’anima, l’ascoltano e gli rispondono; sono la madre, la moglie, gli amici più cari; un’opera all’apparenza leggera, ma ricca di contenuti di vario genere. La vena teatrale di Domenico Defelice (cap. IV), non è disgiunta da una profonda conoscenza di psicosociologia come nel caso di Pregiudizi e leziosaggini (2008), commedia che disegna una società in cui i malintesi sensi di onore e di eccessivo manierismo nocciono ai rapporti personali. Oppure solleva la problematica sulla eutanasia come nel dramma di Silvìna Òlnaro (2009), che risente del noto evento di Eluana Englaro, che, in antitesi all’azione-dramma, presenta una stasi comatosa, appunto, consona alla circostanza; anche qui, sotto i nomi dei protagonisti, apparentemente buffi, si celano personaggi reali coinvolti e della politica, ed amici. Il nostro drammaturgo non prende posizione, ma lascia spazio agli attori. Pomezia-Notizie (cap. V) è la sua creatura primaria, la rivista mensile fondata e diretta dal 1973, che raggiunge i confini del mondo e ospita firme collaudate, costituendo una fucina per esordienti come Aurora De Luca, che già si è affermata, e ne ha celebrato il quarantennio. In essa Domenico Defelice continua ad esprimersi liberamente, non limitandosi ad una cerchia ristretta e consentendo anche ai collaboratori di uscire dagli schemi imposti, sempre nel rispetto della civiltà. Le Monografie per Domenico Defelice dell’ultima sezione (cap. VI), comprendono il già citato Percorsi di lettura per Domenico Defelice (2006), di Sandro Allegrini, il quale pone l’accento sull’interesse di una critica onesta e sull’utilità reciproca che la lettura comporta tra autore e recensore; Domenico Defelice e le sue opere etico-sociali (2009), di Leonardo Selvaggi, in cui l’autore lucano richiama l’urlo sincero del Defelice avverso ogni ingiustizia, reclamando la pace; il semplice titolo Domenico Defelice (1983), del
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molisano docente USA, Orazio Tanelli, che ne evidenzia l’amore per la natura; quindi Domenico Defelice introspettivo coinvolgimento poetico-letterario dell’animo umano (2009), di Eva Barzaghi, la quale ne ha fatto tesi di laurea all’Università di Tor Vergata di Roma, rivela la religiosità del nostro poeta. E, adesso, aggiungiamo l’ottimo lavoro di Anna Aita: Domenico Defelice - Un poeta aperto al mondo e all’amore. Giunto fin qui, non posso esimermi dal costatare la chiarezza espressiva di Anna Aita, unita alla partecipazione umana che valorizza le opere e l’uomo, non certo per le belle parole di critica, che pure non guastano, ma per avere evidenziato i risvolti psicologici sondati e le aspirazioni del poeta-scrittore-giornalista e del bozzettista-pittore in fieri che evolve fino all’affermazione. Nell’esposizione delle opere, in generale, abbiamo citazione di brani delle rispettive prefazioni; altresì le note a piè pagina, unite ai riferimenti entro il testo, consentono ulteriori approfondimenti, e ci fanno incontrare personaggi noti e meno noti come in un simposio senza tempo, ove alcuni di essi, pur scomparsi, continuano a stare in mezzo a noi: Francesco Fiumara, Maria Grazia Lenisa, Vittoriano Esposito, Carmelo Rosario Viola, Indro Montanelli, Michele Frenna, Adriana Mondo, Laura Pierdicchi, Elisabetta Di Iaconi, Silvana Andrenacci Maldini, Loretta Bonucci, Maria Antonietta Mòsele, Carmine Chiodo, Marina Caracciolo, Liliana Porro Andriuoli, Pasquale Matrone, Silvano Demarchi, Guido Zavanone, Aldo Cervo, Asteria Casadio, Franco Saccà, Ottavio Carboni e altri ancora che, per ragioni di spazio, non cito (nemmeno il sottoscritto, modestamente). Tito Cauchi ANNA AITA, DOMENICO DEFELICE Un poeta aperto al mondo e all’amore, Il Convivio, Castiglione di Sicilia (CT) 2013, Pagg. 96, € 12,00 Foto di pag. 43: Tito Cauchi, la moglie Signora Concetta e Domenico Defelice ad AnzioNettuno, nel 2012, in occasione del Premio Polverini, del quale Cauchi è Presidente.
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I POETI E LA NATURA - 27 di Luigi De Rosa
Disegno (1960) di Domenico Defelice
I “CIPRESSETTI” DI GIOSUE' CARDUCCI
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ra il 1874, e la “vaporiera” correva attraverso la Maremma toscana, riportando il professor Carducci a Bo-
logna. Carducci aveva allora circa quarant'anni. Era nato nel 1835 a Valdicastello, in Versilia, nella provincia di Lucca ( Quella “Versilia che nel cuor mi sta”). Letterato già noto, docente, ogni tanto faceva questo viaggio dalla Toscana a Bologna, città nella quale insegnava ed era già un'autorità in campo letterario. Fu una visita a Castagneto, località nella quale aveva trascorso l'infanzia, a donargli la felice ispirazione dell'ode “Davanti San Guido”. Mentre il treno correva, agli occhi e al
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cuore del Poeta si ripresentarono l'oratorio di san Guido e il Cimitero di Bòlgheri, nel quale era sepolta l'amatissima nonna paterna Lucia. “I cipressi che a Bòlgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar, quasi in corsa giganti giovinetti mi balzarono incontro e mi guardar...” Stupefacente, in pieno Ottocento, questa “umanizzazione” di alberi, paragonati a dei giganti giovani e pieni di vita ( allora! Prima dei parassiti moderni che li avrebbero attaccati!). Essi si rivolgono all'uomo barbuto e serio che era stato a suo tempo un bambino scapestrato in mezzo a loro. Lo riconoscono, e addirittura gli parlano: “Ben torni omai” bisbigliano verso di lui abbassando il capo, “Perché non scendi ? Perché non ristai ? Fresca è la sera e a te noto il cammino. Oh siediti a le nostre ombre odorate ove soffia dal mare il maestrale: ira non ti serbiam de le sassate tue d'una volta: oh non facean già male! Nidi portiamo ancor di rusignoli: deh perché fuggi rapido così ? Le passere la sera intreccian voli a noi d'intorno ancora. Oh resta qui!” Non mi sembra il caso di fare, qui, una lunga e dettagliata paràfrasi dell'intera ode, che è lunga ben 116 versi. ( Fu ripresa, e portata a termine, solo nel 1886, per essere poi pubblicata, un anno dopo, nella raccolta “Rime nuove” ) . Mi basta notare, insieme agli amici lettori, che già in questi primi versi è messo a fuoco il concetto di un'equazione fantastica e nostalgica tra infanzia dell'uomo e purezza della Natura. Ai ricordi della vita del bambino sono collegate le tenere immagini della sera fresca, del soffio del maestrale ( quel maestrale di un'altra poesia carducciana, sotto il quale “urla e biancheggia il mar”), dei voli dei passerotti felici, di un'atmosfera che l'austero professore non respira più nell'austera città. I cipressi vengono accolti dal cuore del poeta addirittura come degli amici coi quali abbandonarsi a confidenze e confessioni:
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“ Bei cipressetti, cipressetti miei, fedeli amici d'un tempo migliore, oh di che cuor con voi mi resterei... Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire: or non è più quel tempo e quell'età...” Oggi la mia età è diversa, dice il poeta. Ma anche il tempo, l'atmosfera generale della vita è cambiata. E poi non tiro più sassate, specialmente alle piante ( alle persone, agli avversari, sì... E' risaputo quanto fosse focoso e generoso nelle sue polemiche, il Carducci...). E poi, aggiunge il poeta, “...Se voi sapeste!...via, non fo per dire, ma oggi sono una celebrità. E so legger di greco e di latino, e scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù: non son più, cipressetti, un birichino...”. Ma qui il grande Poeta casca male, e viene subito rimbeccato, e si accorge con rincrescimento che i cipressi e il sole hanno di lui una gentil pietade... “...E presto il mormorìo si fé parole: _Ben lo sappiamo, un pover'uom tu sé, ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse che rapisce de gli uomini i sospir, come dentro al tuo petto eterne risse ardon che tu né sai né puoi lenir...” La pace e la bellezza, la serenità e l'armonia non stanno, quindi, nella società degli uomini, palestra di continui combattimenti. Ma stanno nella Natura. Delle caratteristiche proprie dell'Uomo viene salvata la Poesia, con la sua capacità di far capire all'uomo la realtà delle situazioni, e con la sua forza consolatoria e beatificante. Si pensi alla rievocazione della novella di lei che cerca il suo perduto amor...: “...Deh come bella, o nonna, e come vera è la novella ancor ! Proprio così. E quello che cercai mattina e sera tanti e tanti anni in vano, è forse qui, sotto questi cipressi, ove non spero, ove non penso di posarmi più... …..... Ansimando fuggìa la vaporiera mentr'io così piangeva entro il mio cuore...” Luigi De Rosa
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L’UOMO NARRANTE Luce e tenebre stagliano linee lungo la costa, isole emergono con contorno di lancia mentre le vele si calano al vento. Luce lunare risplende negli occhi dei pescatori lontani alla spiaggia, verdi colline ora sono nascoste da bianche lenzuola di nebbia autunnale. Sento il freddo che mi entra nelle ossa e penso al caldo del piccolo ovile, ti vedo correre sulle stoppie di grano gioiosa fanciulla dagli occhi celesti. Ne è passato del tempo da quel turbamento quando il mio cuore cantava l’amore. Ora che gli anni mi han segnato la faccia, solo i ricordi mi invitano a vivere in questi luoghi dove ebbi coraggio di rimanere tra morsi di fame. Ho pochi amici ma mio è il paesaggio, un orchestrare di poggi e dorsali, a cui fa sfondo il colore del mare. E questo mio mondo mi dona la forza, la speranza di scrivere ancora questi versi che danno la gioia, l’ultimo dono di un uomo narrante uno dei tanti , un orchestrale… che vive nel sogno e fa forse sognare. Colombo Conti Albano Laziale, RM
CANTO LA LUCE Canto la luce, la bellezza, l’amore perché il loro ricordo mi consoli nelle giornate scure del dolore; canto la luce, la bellezza e il sole, canto d’autunno le malinconie, le dolci musiche senza parole, canto ogni cosa bella perché penso che solo la bellezza può salvare l’anima e il mondo da un dolore immenso. Mariagina Bonciani Milano
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Gennaio 2014
(Disegno di Serena Cavallini)
Recensioni ROCCO SALERNO UNA NOTTE IN PARADISO Edizioni Lo Spazio III Millennio, Fondi, 2013 E’ da poco apparso, un libro di versi di Rocco Salerno, in edizione bilingue italo-spagnola dal titolo Una notte in Paradiso. E’ questo un libro dall’andamento poematico, che si sviluppa con un movimento veloce e incalzante, dando luogo a momenti di felice resa, quali: “Cerco la tua assenza / in questa tarda sera / che più non è”; “Angelo della notte, / dormi, riposa, / sii il sonno / che si distenda sui miei occhi”; “Per una notte anch’io sono stato in Paradiso / e della luna ricordo il sorriso timido / su di me giglio e il vento del nostro Giardino”; ecc. Salerno compie in questi versi un’assidua e laboriosa ricerca di un Bene che gli sfugge e che lui insegue in un paesaggio irreale, che può assumere l’aspetto di quello cittadino (“E’ morta a quest’ora la città / e non spira nessun’aura”; “Strade impolverate / scale consumate / e battute dal rimorso / nel silenzio del cuore”), ma che sintomaticamente è un paesaggio nel quale domina la solitudine: “Ombra che ti aggiri sola / per angoli remoti / e case stipate dal pianto…”. Una figura risalta però da questi versi e si fa luminosa presenza: quella della madre del poeta, il quale così la ricorda: “Per una notte sono stato anch’io in Paradiso / a vegliare il sorriso di mia madre”. Quello nel quale Rocco Salerno si aggira è co-
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munque per lo più un ambiente notturno: “Di notte il Tempo non ha velo, / tutto incerto tutto etereo, / solo tu sei che ancora balzi / e protendi lo sguardo / verso l’Eterno”. La notte diviene così il regno delle ombre e il luogo dal quale si può muovere alla ricerca dell’Assoluto, quasi in un’ascesa mistica: “Per una sola notte, angelo, ho carpito la tua favilla / e ho fatto mia la tua voce”. C’è quindi l’incontro con l’angelo; ma c’è anche l’incontro con una divinità pagana, Apollo, che non per nulla è il dio del canto e della poesia: “… sorgi, Apollo, / che visitando vai i nostri affanni / e stemperi le nostre lacrime”. L’angelo ed Apollo divengono pertanto gli interlocutori del poeta, il quale ad essi si rivolge nella sua ricerca di Verità: “Ora sono solo a casa / angelo, / … / e tu ancora consumi sotto arcate / o strade impolverate / il tuo ieratico sguardo”; “Conosco, Apollo, altri giorni, / altre tempeste / che mai mi porteranno alla Certezza, / alla Salvezza che mi apre il Mistero”. Ma ecco, dietro ad essi, comparire il Dio cristiano, al quale Salerno si rivolge con fervidi accenti: “A te anelo, mio Dio / … / Non ho respirato, Signore, / fino in fondo la mia morte; / la Tua morte”. In un assiduo e tormentoso esame della sua condizione esistenziale il poeta si contempla e si scava: “Non sono mai stato certo / di essere su questa terra / uomo fra gli uomini / cosa fra le cose”; “Sono solo il bambino sempre più solo”; “Sono dentro la rete del tuo silenzio, / del tuo abbandono…” / Cammino e mi ascolto / cammino e ti ascolto”. Nitida, in questo susseguirsi di presenze, affiora quella della madre del poeta, alla quale egli si rivolge con fidente abbandono: “Non telefono e so che mi attendi / … / So che sei certamente scontenta / del figlio che ha soltanto sogni / da involare all’ Eterno”. Nella seconda parte del libro la voce di Salerno pare farsi più incisiva e più serrato il suo discorso poetico, volgendo alla conclusione il suo dire: “E oggi Sirio veleggia la sua bellezza / silenziosamente ammiccando nel cielo / furtivamente sulla terra”; “Dispiega le ali come uccello sul grano, / concediti alla primavera dei tuoi ruscelli. / La tua armonia, Sirio, non è più un grido / da trattenere sulle nostre ciglia”; “Oggi dopo duemila anni di storia / anche noi decidiamo le sorti dell’uomo, / anche noi, Sirio, illuminiamo l’ombra”. Con queste invocazioni a Sirio, fatte con un linguaggio alto e fiorito di immagini, il poema di Rocco Salerno si chiude, lasciando in noi l’impressione di aver incontrato un poeta dalla forte personalità, teso nella volontà di cogliere qualcosa del segreto del mondo, che il velo delle apparenze ci preclude.
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Efficaci le traduzioni, le quali rendono compiutamente il testo originale. Elio Andriuoli
PAOLO RUFFILLI AFFARI DI CUORE Einaudi Editore, 2011 PAOLO RUFFILLI NATURA MORTA Aragno 2012 Già al primo approccio con la poesia di Paolo Ruffilli il lettore può notare come essa riponga gran parte delle sue potenzialità nel tentativo sostanzialmente gnoseologico e definitorio dei fondamenti e delle espressioni della vita. Si tratta innanzitutto di uno sforzo di penetrazione, comprensione e circoscrizione della “cosa” poeticamente indagata con le armi di un’acutezza mentale, di una raffinata sensibilità e di una disponibilità emotiva sempre nuova e feconda. Dunque poesia come processo creativo ma, prima ancora, come atto cognitivo. E perciò indagine, enquête, ricerca, investigazione; poi rivelazione o svelamento, illuminazione non clamorosa, grimaldello per ulteriori approdi. Il resto viene dopo, da sé, perché Ruffilli, come tutti i veri poeti, dà voce all’ineffabile, anche nel significato di cosa che gli altri non osano trattare. Già in “Affari di cuore”(Giulio Einaudi Editore, Torino, 2011, pp.139, € 12,00) si mostra “scandaloso”: ma non per la capacità di dire l’amore direttamente e senza veli, anche se il linguaggio spesso attutisce, quanto per essere spudoratamente nuovo e inedito nel dire dei sensi e dei sentimenti, di impulsi e di battaglie, del cuore gonfio di sangue vitale, di vene e arterie che pulsano impazzite. Crudo e delicato, dichiarato e allusivo, il dettato poetico di Paolo Ruffili significa la natura ossimorica dell’ amore, dopo averne scardinate le difese e acquisite contezza e ragione in modo quasi autoptico, se non fosse che l’aggettivo richiama qualcosa di freddo e inanimato, mentre qui urge un fervore inaudito: i corpi s’incontrano e si scontrano, si respingono e si fondono ferocemente, si prendono con assoluta voracità, con spasmi di piacere e di dolore. Siamo di fronte a una esplosiva e insieme raffinata fisiologia, anzi a un’anatomia, dell’amore pervicacemente indagato, scoperto, gustato, patito attraverso un’ esplorazione che si configura come una vera e propria descensio ad inferos fin nel magma tumultuoso della passione da cui , avvolto e sconvolto, l’io poetante viene infine eruttato in una situazione di sostanziale sazietà o, se si vuole, di matura consape-
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volezza di “ chi ha / già avuto tutto / e non si aspetta niente”. A dire l’intensità emotiva di questi “affari di cuore” è deputato il verso breve, talvolta scolpito in tre/quattro sillabe, che dice l’ansimo della passione, lo scoppio dei sensi. Eppure questo verso è, sì, breve, ma solo all’occhio; perché è lungo alla mente e al cuore per la dilatazione provocata dall’ enjambement, per la portata semantica e per la tensione gnomica. Certo la lingua è sottoposta a severa pressione da uno scavo verbale che non fa sconti, con il supporto di un gioco di rime disegualmente disposte e con un corredo suppletivo di richiami assoconsonantici a tessere ricami di corrispondenze allusive e suggestive. È significativo poi che l’ultimo verso di ogni componimento rimi quasi sempre con un verso precedente (spesso con il quartultimo): ciò può avere valore, sia pure momentaneamente, conclusivo, cioè può rappresentare la fine del frammento di esperienza espresso nel componimento, il punto fermo di un attimo intensamente vissuto: oppure può legare fonicamente due o più parole in profili segnici che rimandano a significati e aspetti fonosimbolici e metatestuali. “Affari di cuore” offre una percezione inedita e ardita dell’amore vissuto con straripante sensualità dall’io poetante che si pone anche come puntuale notatore di ogni pur minima vibrazione del cuore e dell’intelletto. In “Natura morta”(Nino Aragno Editore, Torino, 2012, pp.123, € 10,00) il primo impatto non anodino viene dalla materia poetica disposta in versi scarni, irti, verticali. Il colpo d’occhio grafico allarma, invita a preparare gli ordigni giusti per entrare in simbiosi con i testi, o almeno a porsi sulla stessa lunghezza d’onda. A mano a mano che avanza tra le pagine, il lettore non tarda a maturare la consapevolezza che Ruffilli sia tanto smisurato nel sentire quanto asciutto nell’esprimere, convinto com’è che la poesia non possa essere altro che sottrazione estrema, anche feroce. Condizione dalla quale scaturisce un dettato conciso e distillato, come è evidente, prima ancora che nell’opera di cui si parla, in quelle precedenti, in prosa e in versi; un dettato antilirico, con radicamenti filosofici nel pensiero antico e moderno rivissuto in modo personale e maturo. Siamo di fronte a una poesia che si fa cosa, che cerca di annullare la distanza tra ciò che è e la sua incarnazione verbale, tra significato e significante; e sotto la veste logica e rassicurante, essenziale nel suo vago sapore lucreziano , il percorso creativo è disseminato di intuizioni e scatti, di dissacranti svelamenti e di assunti quasi imperiosi che scarnificano la realtà
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fenomenica e puntano al nucleo del reale, oggetto della conoscenza, e alla professione del principio. È questa la ragione per cui il tono ha connotazioni meditative, sentenziose, definitive. E i diffusi richiami fonici (rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, ecc.) tessono fitte tele di corrispondenze non solo intratestuali e forniscono insostituibili chiavi interpretative soprattutto per quanto attiene al ritmo e alla musicalità della versificazione. Di questa raccolta, sostanzialmente poematica, deve essere sottolineato un aspetto non secondario che riguarda la sezione finale dal titolo ”Piccolo inventario delle cose notevoli”. Qui Paolo Ruffilli, magistralmente, offre al lettore un tipo di poesia che ri-crea e fa rivivere, o quanto meno riecheggia, in personalissima interpretazione, il Regimen sanitatis Salerni, ossia quella raccolta di precetti medici riconducibili all’antichissima Scuola medica salernitana; e quindi mette in campo un tipo di poesia vivace e brillante, prescrittivo e ironico. Segno di arte sicura e matura. Pasquale Balestriere
ALDO DE GIOIA - ANNA AITA LA LUNGA NOTTE le quattro giornate di Napoli Rogiosi editore, 2012, Pagg. 80, € 12,50 La lunga notte – le quattro giornate di Napoli, è opera di due scrittori campani, appassionati di ricerche storiche, accomunati dall’amore verso la propria terra. Aldo De Gioia, docente e poeta fa leva sulla sua competenza storica e sulla sua partecipazione emotiva che, sapientemente, Anna Aita fa discendere dalla sua penna. Ricca si presenta l’ apertura di Aldo De Gioia, che dichiara che avrebbe preferito non scoprire la ferita segnata su una pagina che, nell’immediato, si voleva dimenticare e che nella rivisitazione dell’evento storico dell’ultima Guerra Mondiale, ritrova la sua infanzia: luoghi ove era possibile rinvenire munizioni inesplose e graffiti, gli sembra di udire gli echi delle grida strazianti e i rumori delle bombe. Un rumore al quale si oppone la poesia di Igor Man, ‘Ragazza anonima’, sulla pace. Mentre Anna Aita paragona la città di Napoli ad una araba fenice risorta dalle ceneri, commentando con la filosofia caratteristica dei napoletani: “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato!...”. La prefazione è di Vincenzo Rossi che fa un breve richiamo storico e giudica commovente l’ excursus narrativo. Infine anche la postfazione di Giustino Gatti chiude approvando la scelta stilistica degli Autori, che hanno incardinato la storia delle Quattro giornate entro la struttura romanzata di una
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vicenda d’amore tenera e appassionata. L’opera si articola in sette capitoli con parti scritte in corsivo, che riportano le parole di un diario ricevuto da un uomo, in un incontro fortuito, e parti in carattere comune che riguardano le riflessioni della voce narrante femminile. Possiamo pensare agli alter ego dei rispettivi autori. La narrazione scorre in prima persona, a voce di una giovane donna di Napoli, Lidia Varelli, che in un giorno piovoso di fine estate, a settembre, di questi anni, si reca al museo di San Martino, al Vomero, per seguire una conferenza sulle “Quattro Giornate”; ma trova la sala vuota, con la sola presenza di un anziano che si rivela essere un testimone, Mario Barzini, poiché la conferenza era stata annullata. In considerazione della pioggia battente la giovane si intrattiene con l’anziano signore al bar vicino, succo di frutta per lei, caffè per lui. Nel felice incontro l’anziano accenna ai bombardamenti indiscriminati da parte dei nemici anglo-americani; la popolazione nel periodo bellico (1941-1944) trovava scampo negli antichi sotterranei. La situazione si acuisce con l’armistizio dell’ 8 settembre 1943, poiché i tedeschi, con a capo il colonnello Scholl, sentitisi traditi dagli italiani, sferrano duri colpi di stampo terroristico. Quando la pioggia diminuisce Lidia s’affretta a salutare l’ uomo, quando questi le affida il proprio diario di quei lontani giorni. Lidia rientrata a casa viene accolta dalla gattina Giada che a sua volta s’aspetta le coccole. Viveva da sola dopo l’esperienza di una convivenza con Claudio, ormai si era abituata alla sua autonomia, in una sua casa piena di colori a riflettere il suo carattere, ma andava a casa dei genitori una volta a settimana. Ansiosa di leggere il diario dell’anziano Mario che all’epoca del 43 aveva 26 anni. Inizia dalla data di nascita 20 marzo 1917, gli studi di ingegneria, le manifestazioni pre-militari del sabato nello stadio del Vomero che per l’occasione era stato denominato Campo Littorio, a seguito di un suo articolo scritto contro Hitler fu espulso dall’Albo finendo in galera ed inseguito con l’obbligo di non circolare per le strade durante le cerimonie fasciste. Ciò gli rese difficile la vita, tuttavia riusciva a sopravvivere grazie a lavori precari e all’aiuto dei suoi genitori benestanti. Il racconto mette in evidenza la strategia adottata dagli americani, pur di avere la meglio sui tedeschi “non esitavano a esacerbarci sottoponendoci a bombardamenti a tappeto”. Terribile è stato lo scoppio di una imbarcazione contenente “nella stiva mille tonnellate di benzina, mille di esplosivo e portava a bordo diversi carri armati provvisti di armi.” Che ha provocato 900 morti e innumerevoli feriti. Una sera un ex collega
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universitario lo porta in un locale per svagarsi. “Dal grammofono si diffondevano le note di ‘Ma l’ amore no’…” intanto aveva notato una bella ragazza che cantava in tedesco, lui le si avvicina, ben presto ne viene attratto e ricambiato. Marilù, questo è il nome della ragazza, dice di essere “prossima alla laurea in scienze naturali e che suo padre, vedovo, viveva a Roma per impegni di lavoro”. Fra i due nasce un tenero amore ed una passione avvolgente, entrambi mostrano di non potere fare a meno l’uno dell’altra. A teatro si esibivano artisti illustri come Emma Grammatica, Maria Melato e Wanda Osiris che però aveva dovuto omettere la esse finale per volere del Regime. Alleggeriva la tensione della guerra. Aldo De Gioia e Anna Aita, continuano attraverso Lidia. La proclamazione dell’armistizio induce i tedeschi a commettere angherie sulla popolazione già sofferente; la miccia scatenante ha avuto come detonatore l’assalto a due camion di farina da parte dei germani; confiscano rifornimenti alimentari, ma nel caso specifico della farina, ciò aveva lo scopo evidente della provocazione. Al che, qualche giorno dopo i napoletani si prendono la rivalsa uccidendo quattro soldati. Emblematico è l’episodio di un giovane marinaio che, spaventato, attira l’ira dei tedeschi, i quali lo uccidono costringendo gli astanti ad applaudire; un interprete fascista, per evitare il peggio, invita ad assecondare l’applauso: “Parla per il loro bene, per evitare una stage.”, è l’annotazione riportata sul diario. Avvengono saccheggi di ogni sorta e distruzione di intere biblioteche della Università date alle fiamme e impedendo ai vigili del fuoco di intervenire; distruzione di casse di antiche pergamene. L’uccisione anche di 14 carabinieri disarmati. La voce narrante interrompe la lettura turbata per la gratuità di quegli atti gratuiti. Del Comitato di Liberazione, da poco costituito, di cui Mario faceva parte, un componente di spicco era l’ avvocato antifascista Vincenzo Ingangi. La popolazione insorge, donne e bambini si mobilitano con pari eroismo degli uomini, fronteggiando i tedeschi che avevano rastrellato molti uomini e ragazzi fatti salire su un camion, il tumulto costringe la truppa tedesca a desistere . le quattro giornate sono le ultime del mese di settembre 1943 (dal 27 al 30). Napoli è un immenso campo di battaglia, morti ovunque, obitori improvvisati, ricoveri di fortuna. Tra un’azione e l’altra l’autore del diario trova conforto fra le braccia della sua Marilù. Un giovane ufficiale dell’esercito italiano mutilato di un braccio, Enzo Stimolo, prende il comando in un’azione nel Vomero. Molti sono gli atti di eroismo e le persone annotate, per esempio il prof Moscati che all’insaputa nottetempo si curava dei feriti.
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Fra quelli che hanno dato la vita ci sono il tenente Musella, il diciassettenne Gennaro Iannuzzi. Si segnalano la ventenne Maddalena Cerasuolo; al Vomero il prof Antonio Tarsi guida i suoi alunni. A Poggioreale, a Capodichino, ovunque. Atti eroici del ragazzino di otto anni Gennarino Capuozzo. “Il giorno 30, alla Doganella, scendono altri carri armati che si spingono verso Sangiuvanniello… Dalle finestre, le donne versano sui carri armati litri di benzina.”. Ma nelle periferie gli scontri sono più cruenti avendo, i tedeschi, mano libera: nondimeno il colonnello germanico Scholl, vistosi assediato, “in cambio di 47 ostaggi si prepara a fuggire con i suoi soldati.” Uno scugnizzo prima di spirare raccomanda di riferire ai suoi genitori di avere combattuto per “Napule e l’ Italia!” Marilù è scomparsa lasciando un messaggioconfessione a Mario: era una spia tedesca che doveva tenerlo d’occhio, ma che lo amava; adesso era divisa da lui dall’odio verso i partigiani che a Roma le hanno ucciso il padre, agente del servizio segreto. Zilda Keller, suo vero nome, lo aveva sottratto all’arresto in diverse occasioni, soprattutto quando c’è stato lo scoppio nel porto di Napoli della Caterina Costa. È facile per gli americani adesso entrare; per le strade si sente parlare americano, ma continuano le morti e i feriti a causa di ordigni lasciati dai tedeschi apparentemente innocui. La fame e la disperazione portano sulle strade molte donne, ma questo è il prezzo da pagare in ogni guerra. I ragazzi diventano dei ‘sciuscià’, lustrascarpe, nomi americanizzati e viceversa parole inglesi rese in dialetto; sigarette e costumi di importazione. Il Generale americano Clark, comandante d’armata, riceve la laurea ad honorem dal Magnifico Rettore come simbolo di pace e di giustizia. Mario annota che senza la sua Marilù non può amare altra donna. Aldo De Gioia e Anna Aita concludono con la narratrice che riceve una lettera dall’anziano Mario, con la quale egli la invita con una certa urgenza a recarsi da lui perché vuole togliersi un peso confessandole la verità su quello scoppio; ma era stata assente per alcuni giorni e quando si avvia per l’ incontro, per strada trova il carro funebre all’indirizzo del quale dirige un segno di croce inconsapevole che sta salutando l’anziano amico, che non le ha potuto rivelare il suo segreto. Si conclude così lasciando un vuoto; ma quello che importa sono i protagonisti che ebbero la meglio ne La lunga notte scrivendo per i posteri le Quattro giornate, di cui possono andare orgogliosi i napoletani. Una storia che è giusto ricordare. Tito Cauchi
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ALDO DE GIOIA SOGNI LONTANI RCE Multimedia, Napoli 2013, Pagg. 124, € 12,00 La quarta di copertina del libro Sogni lontani, contiene una foto tessera in bianco e nero del suo autore, Aldo De Gioia, d’altri tempi, e scarne notizie che ci restituiscono il poeta e giornalista, che fra i tanti meriti “è stato nominato cittadino onorario di Atella (NA), Benemerito dell’Università degli Studi di Salerno, Grande ufficiale della Repubblica Italiana.” Non abbiamo notizie biografiche, ma egli si connota attraverso alcuni componimenti che si riferiscono a Napoli. La raccolta si presenta in tre sezioni: la prima molto corposa, seguita da Intermezzo Napolitano e conclusa con Sensazioni a Sorrento. La voce di Aldo De Gioia è elegiaca e piana, fa capolino nei ricordi e si rivolge ad una interlocutrice silenziosa, anzi assente, che assume diverse identità; in seconda persona: ora al singolare, ora al plurale alla maniera francese. In apertura evoca la Musa: “ti cercai./ Come una dea/ ti accolsi nell’animo,/[ …]/ Al tuo passare/ ritrovo tutti i fiori/ che non colsi./[ …]/ Nel mistico splendore/ del tuo volto,/ l’anima mia s’incanta”. Canta la bellezza della donna, dagli occhi luminosi come le stelle; si amarono a vent’anni, ma fu breve l’incontro e senza storia. La tenerezza si estende verso le piccole creature- Rimane l’ anelito e nulla di più. Il Poeta torna indietro, ai sogni lontani, quando la natura intorno sussurrava in coro un canto d’amore e le sue muse erano belle donne; così “Floriana il vostro nome,/ mi rubaste il cuore./ Bella signora/ di quel tempo andato,/ dov’è finito/ il nostro grande amore?” (pag. 21), al tempo della ‘Belle Epoque’ con lo sfondo incantevole di Sorrento. Un tempo andato che torna struggente, in un continuo alternarsi di gioia e dolore, dai contorni sfumati o logori. Il pensiero del sorriso di lei lo fa stare bene. Ne invoca il nome: “Armida, fanciulla del mistero,/ mi è giunta/ la tua lettera d’amore/ che avevi scritto/ prima di morire…” (34, puntini nel testo). La sofferenza non viene sbandierata. Ma la vita si presenta come un palcoscenico ove le persone si comportano come attori, con tante parti, in mezzo alla gente; il sipario si abbassa e nessuno conosce la vera storia. Rubiamo i sogni a noi stessi e ci rifugiamo in un dualismo che ci fa ora attori, ora spettatori. Nella realtà quotidiana emergono prepotenti la cronaca dei naufraghi, il balletto delle responsabilità e la cattiva politica; nauseato e deluso trova serenità nel volto della “signorinella bruna” che si identifica con la poesia. Il fantasma della morte gli ricorda la destinazione di Dachau: “Fabiana, bella
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biondina, candida e innocente,/ perdesti i tuoi vent’anni senza sole,/in quella primavera senza fiori.” (62). Un pensiero va ai “Cavalleggeri d’ Alessandria, Eroici Combattenti della Cavalleria Italiana”, ai caduti della Prima Guerra Mondiale, ricordati nel sacrario di Redipuglia, nel Friuli. Sono sempre più sogni lontani, che vagano nel liberty della Belle Epoque nelle visioni di contatti appassionati; l’ anima di Lavinia lo tormenta ancora. Ritroviamo un ventenne emigrato, sognante e affascinato dalla bellezza francese: il Café chantant, il Varietà, il Mulen Rouge e le Follie Berger. Il Nostro vede nel cielo di Napoli pagine di poesia, e nelle sue pietre squarci di storia come per le famose ‘Quattro jurnate’ in cui gli scugnizzi, sotto i cannoni e le mitragliatrici, esalavano con l’ultimo respiro la volontà: “Primma ’e murì te chiammano:/ ‘Napule!’. E l’urdemo risciato/ s’astregne ‘ncopp’ ’o core!” Ricorda la bella bruna Marimba che l’aveva tradito. E istantanee di vita quotidiana, in cui il Nostro, immaginando di rivolgersi alla signora dirimpettaia di balcone, dice: “So’ pensionato, so’ stato professore,/ ho lavorato a scuola quarant’anni,/ ho scritto sempre nella vita mia:/ componimenti e fatti della storia/ articoli di fondo e poesie.” (103). In chiusura ex allievi, oggi tutti o in parte anche loro pensionati, gli dedicano componimenti: uno lungo di Gianni Maiello, che lo chiama “Te voglio dì:/ ca ’a vera voce ’e Napule, si’ Tu!”, uno breve dei fratelli Franco e Alberto Merenda e un caro ricordo di Maria Sapio. Aldo De Gioia si presenta con alcune espressioni oniriche, con traslazioni e metafore del tempo lontano, appunto, o senza tempo, con episodi giovanili che emergono spontanei o richiamati, un po’ per il desiderio di riappropriarsi del tempo perduto, un po’per rivedersi; nostalgia che tradisce l’età raggiunta. Perciò conclude con “Rantoli d’amore/ disperdevano il silenzio./ Notti lontane/ vissute insieme/ sulle morbide coltri/ all’ombra dei tuoi baci.” Tito Cauchi
GIUSEPPE DE MARCO QUI LA META È PARTIRE Scritture di viaggio e sguardi di lontano nel Novecento italiano Marisilio,Venezia 2010, pp155 Il compianto Giuseppe De Marco ci ha lasciato vari libri che attengono a vari temi e autori della letteratura italiana generale e moderna e contemporanea, tra di essi ricordo solamente: Caproni poeta dell'antagonismo e altre occasioni novecentesche (Il Melangolo 2004); Le icone della lontananza.
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Carte di esilio e viaggi di carta ( Salerno Editrice 2009); Il sorriso di Palinuro. Il visibile parlare nell' invisibile viaggiare di Ungaretti (Studium 2010). Questo libro che qui esamino è chiaro e mostra come l'interprete sa leggere nei testi, saputi ben indagare nei loro contenuti, stile. Ci troviamo davanti a un libro compatto, unitario. Ciò che ancora si ammira è la fluidità del linguaggio critico e il modo preciso e convincente che lo studioso usa nel mettere a fuoco temi, stile, significati delle opere dei poeti e scrittori trattati nel volume. De Marco si sceglie quei testi di Ungaretti (prose di viaggio), di Piovene poco osservati dalla critica, oppure focalizza la sua attenzione su altri testi importanti di Gadda e di Elio Vittorini (Le città del mondo, opera incompiuta dello scrittore siciliano). L'analisi è stringente e pertinente, e chiarisce la poetica, i punti chiave, i motivi ricorrenti, lo stile del poeta Ungaretti e degli altri autori, sopra richiamati. Il titolo del libro è emblematico come pure il sottotitolo: il primo è un verso, quello della poesia Lucca di Ungaretti che appartiene alla silloge poetica Allegria di naufragi. Nel libro si insiste giustamente sulle scritture di viaggio degli autori prima richiamati e non si parla di letteratura di viaggio come genere, e lo studioso fa bene in quanto lo stile del viaggio è vario, instabile, correlato all'io poetico (nel caso di Ungaretti), a quello del narratore, dello scrittore, ai fantasmi della sua mente (sempre Ungaretti) ,alla sua cultura e sensibilità . A voler guardare bene i protagonisti del libro sono lo sguardo, gli sguardi di lontano, e l'interprete sa descrivere e analizzare lo sguardo di questi scrittori .Le loro opere non sono per nulla guide turistiche e non hanno nulla di folcloristico. Il libro è aperto da una citazione di Mario Soldati: "Un luogo lontano (...) non è illusione inutile; ma distanza colmabile, fascino immediato. Possiamo infatti metterci in viaggio. Ma mentre la meta si avvicina e diventa reale, il luogo di partenza si allontana e sostituisce la meta nell'irrealtà dei ricordi; guadagniamo una, e perdiamo l'altro. La lontananza è in noi, vera condizione umana": queste parole di Soldati mi richiamano alla mente Le città del mondo di Vittorini. Alla fine del volume troviamo un'altra significativa citazione di Carlo Levi che riguarda lo sguardo,gli occhi. Eccola: "Gli occhi, guardano. Lo sguardo pesa sulle cose, le tocca, le modifica, le assimila, le forma, le trasforma in parole, in immagini parlanti ed espressive, le distingue da sé e le fa vere: si rispecchia in esse e vi si ritrova, stabilisce la doppia eterna realtà della vita". Giuseppe De Marco analizza minutamente il viaggio e le sue varie dinamiche e come poi è diventato scrittore. Si sa che nel novecento il
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viaggio ha un ruolo importante e assume varie connotazioni. Comunque il critico in modo perfetto individua le coordinate utili per orientarsi su alcune specifiche rotte della "geografia letteraria" che è cosi scandita: La rosa di Pesto, Il viaggetto in Etruria di Ungaretti; Le meraviglie di Carlo Emilio Gadda, Il viaggio in Italia di Piovene, Le città del mondo di Vittorini, e in questi testi il viaggio ora si configura come esperienza conoscitiva o come nomadismo senza meta o ancora come fuga (l'opera di Vittorini). Inoltre sono esaminate molto bene alcune figure nelle quali la lontananza si trasfonde e si modella, tramutandosi in ritmo e trasporto, in calore e in colori, in lingua e in ponderazione. Questi viaggiatori scrittori e poeti disegnano paesaggi, profili e figure capaci di creare intorno al luogo percorso misure dotate di vasto e profondo respiro immaginario e poetico: quindi lo sguardo, l'immaginazione hanno una funzione fondamentale nell'ambito della lontananza. La parola ha un potere evocativo indispensabile soprattutto quando chi ha percepito con gli occhi si rivolge a coloro che non hanno visto: è questo, per ricorrere a un latinismo appropriato, il mirabile e nel mirabile c'è la visione, il vedere ma pure l'altra connotazione di senso, legata allo stupore, alla meraviglia (in italiano meraviglioso è il plurale latino di "mirabilia". Il volume presenta saggi che attengono a Ungaretti, al suo viaggio nel Cilento, e poi il suo viaggio in Etruria. Seguono poi le pagine attinenti a Gadda alle sue "Meraviglie d'Italia". Qui il viaggio si configura come gnosologia. Allo scrittore milanese segue quello vicentino: Guido Piovene e in queste pagine De Marco analizza molto bene l'arte di viaggiare di questo scrittore attraverso l'Italia. Come pure viene indagata la genesi dell'opera "Viaggio in Italia", la concezione del "viaggiare", l'occhio metaforico del viaggiatore-scrittorevisitatore; e infine sono esaminate le "bipolarità pioveniane" e poi seguono le pagine che attengono alle campionature e alla struttura dell'opera. Ma ancora De Marco di questo scrittore esamina La Campania appunto nella sue pagine e qui si parla di "Religio dello sguardo"; poi di Elio Vittorini viene presentata e esaminata la più volte citata opera Le città del mondo e in queste pagine Giuseppe De Marco esamina il viaggio e la scrittura dello sguardo come pure ancora viene esaminata la versione scenica di quest'opera di Vittorini. Giuseppe De Marco ci ha lasciato dei libri fondamentali e chiari, utili agli studenti e anche agli studiosi. Carmine Chiodo
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Gennaio 2014
LUIGI DE ROSA FUGA DEL TEMPO Genesi Editrice, 2013 La vita che passa, che ci scappa dalle mani; il mondo che, mentre siamo intenti a vivere noi stessi nel nostro piccolo, continua a girare vorticosamente. Luigi De Rosa, con questa sua pubblicazione intitolata “Fuga del tempo” prova, con i suoi versi, a fermarlo il tempo. E come, vi chiederete? Mettendolo in poesia, cercando di fissare prima i suoi ricordi, le sue sensazioni, la sua “piccola” vita di sofferenze e poche gioie, poi, nella seconda parte, allargando il suo orizzonte su ciò che ci accade intorno, alle brutture del mondo a cui non possiamo rimanere indifferenti. La sua prima poesia è quasi un ammonimento verso se stesso e l’umanità. “Verso la foce” equivale a scrivere verso la morte, ovvero nel momento in cui dopo il lungo (o corto) percorso della vita (attraverso il fiume della vita con i suoi alti e bassi) tutti siamo destinati a sfociare a mare “…senza più limite…di un orizzonte”. L’apertura, quindi, la dice lunga su quello che seguirà: “Lo scrigno dei ricordi”, ovvero il piccolo tesoro di esperienze che ognuno di noi ha e che non deve trascurare se vuole lasciare qualcosa di buono alle giovani generazioni. La capacità che ha l’uomo di vivere in sintonia con la Natura (anche se a volte cerca di prevaricarla con il cemento, ma poi la Natura si vendica con alluvioni e devastazioni) è l’ altro messaggio che ognuno di noi dovrebbe tenere a mente per evitare “che questa si trasformi subito in cenere”. Quella di De Rosa è una poesia ricca di armonia, sole, natura e nostalgia. Canta l’amore per i viaggi, per la libertà, per la giustizia e nello stesso tempo, come poeta si sente inadeguato. Anzi, quasi in colpa perché secondo lui non riesce a descrivere pienamente con l’uso dei versi ciò che la vita gli pone davanti. Una colpa che lui ad un certo punto pensa di punire, bruciando i suoi libri. Però, si rende quasi subito conto, che la cultura non si può bruciare, perché è l’unico mezzo che abbiamo per tramandare qualcosa di noi, per far si che il nostro “passaggio” lasci tracce di ciò che di buono abbiamo fatto. La Poesia è utile a migliorare la condizione collettiva della società. Una società che ha delle tematiche urgenti, e mai più prorogabili, da risolvere: le grandi questioni internazionali, gli immigrati clandestini che sbarcano in condizioni disumane sulle coste, il nucleare, la fame nel mondo e le guerre sparse. Forse De Rosa si è quasi rassegnato, ma nell’ ultima poesia che dà il titolo alla raccolta, secondo
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chi scrive, c’è ancora un barlume di speranza e di voglia di continuare a poetare. Forse un giorno arriveranno i rimpianti, perché ci si renderà conto che la “cultura non rende felici” creando nell’animo delle persone troppa sensibilità (mentre il mondo mostra la sua faccia più crudele) che fa solo soffrire. Questi rimpianti ci porteranno verso la tentazione di redigere (sempre per le future generazioni) una mappa che mostri loro il giusto percorso vitale, ovvero senza errori, trappole e compromessi. Ma De Rosa capisce che la mappa sarebbe inutile, perché è nella naturale predisposizione dell’uomo vivere la vita, amarla con tutto ciò che di bello e di stonato essa ci offre. Roberta Colazingari
NAZARIO PARDINI I SIMBOLI DEL MITO Il Croco/Pomezia-Notizie, 2013 Va oltre i simboli del mito, la piccola raccolta di impianto classico pubblicata su Il Croco di ottobre 2013. Nazario Pardini, non è nuovo a questo amore per il mitologico, ma in questi versi che hanno vinto il 1° Premio Città di Pomezia 2013, c’è molto di più. Egli non solo ricorda figure mitologiche come ad esempio Bacco, Elettra, Giove e tanti altri, Pardini inserisce nei suoi versi anche tanta natura quasi a creare un legame con l’attualità che ci circonda. Tra le foglie, il cielo rosso, le cicale, i rospi, le libellule, lo scorrere dei fiumi etc… si legge l’ intreccio del mito con la nostra vita attuale. Non si accontenta, però, di riportarci da Saffo, da Dionisio e altri intrecciandoli con il mondo d’oggi; egli si sofferma anche sulla storia: quella di Giovanna D’Arco, quella di Ulisse, Penelope e Telemaco. Addirittura omaggia Foscolo e i suoi “Sepolcri” in “Oltre quel muro” descrivendo tigli, cipressi, marmi freddi e odore di cera che fanno parte di quel “…puro regno…dei nostri cimiteri”. Alla fine chiude con tre liriche significative. La prima “Meridione” un omaggio al sud, ai poeti della Scuola Siciliana, a Lentini, al sommo Dante e al Salento. La seconda “Al lauro”, ovvero l’alloro che cingeva le teste dei grandi poeti; la terza “L’ultimo dono” vede protagonisti Orfeo ed Euridice nella famosa scena dell’Ade con il mistero della morte, dove “un sorriso di pianto è l’ultimo dono che mi resta…”. Guardando al passato e omaggiando il mito non fa altro che parlare di noi, dei nostri giorni, scandagliando momenti bui, solari, arcani, tranquilli. Roberta Colazingari
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LIANA DE LUCA UBALDO RIVA, alpino poeta avvocato” Genesi Editrice, 2013 - Pagg. 160, € 16,00 Ubaldo Riva volle dettare la propria lapide funeraria : Alpino – poeta - avvocato. Perché egli stesso, di nascita bresciano (Artogne, Valcamonica, 3 gennaio 1888) ma cresciuto e vissuto a Bergamo, si sentiva innanzitutto un alpino, uno “scarpone”, innamorato della montagna e del Corpo che affonda le proprie origini nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi. Poi, in secondo luogo, si sentiva un poeta ( e che poeta!), uno scrittore con i suoi libri originali, profondi senza volerlo dare a vedere... Infine, visto che, di regola, carmina non dant panem, ecco l'avvocato con le sue comparse, memorie, arringhe. E che avvocato! Di fine cervello ma anche di cuore generoso verso i suoi assistiti in precarie condizioni economiche. Morì il 5 gennaio 1963, quindi nel gennaio 2013 si è compiuto un cinquantennio dalla sua scomparsa, ricordata anche con questo libro. Liana De Luca, poetessa e saggista di riconosciuto valore, è una scrittrice di razza dalla tecnica consolidata. Ha studiato e capito il suo personaggio, lo ha amato, come ha capito e amato Bergamo, la città nella quale ha insegnato e scritto per anni. Non è bergamasca. La sua origine, come ama dire lei stessa, è “illirico-partenopea”, ma con la sua intelligenza e generosità di cuore e di mente si è affezionata ai tradizionali valori, sani e schietti, di Bergamo, l'ha studiata e rappresentata come se fosse la sua terra. Ha fondato e presieduto il Cenacolo Orobico di Poesia ( ne è ancora Presidente Onorario, pur abitando e lavorando a Torino). E l'ambiente culturale bergamasco che conta si è ricordata e si ricorda sempre di lei. Nessuno avrebbe potuto rappresentare meglio di lei, nella sua essenza di uomo e di scrittore, quell'Ubaldo Riva che proviene da una famiglia ricca di artisti, musicisti, uomini e donne di cultura e profonda umanità ( In una poesia, Ubaldo ricorda con affetto suo nonno che suona il violino : Il leggero esile strumento così elegante, che rammenta il galante Settecento, appoggia sotto il mento che non è più saldo come fu. Ma l'occhio è umido ed estatico l'occhio azzurrino dietro gli occhiali mentre rosignoleggi sul violino tra il pianto e il riso “Tu che a Dio spiegasti l'ali” del tuo divino Donizetti...”)
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Il libro si è avvalso del patrocinio di dodici fra Enti, Associazioni e organismi pubblici e privati : Comune di Bergamo (Assessorato alla Cultura e Spettacolo) – Provincia di Bergamo – Ordine degli Avvocati di Bergamo – Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Bergamo – Associazione Culturale onlus Elogio della Poesia, Torino – Circolo Artistico Bergamasco – Cenacolo Orobico di Poesia – G.I.S.M. Gruppo Italiano Scrittori di Montagna - ANA, Associazione Nazionale Alpini, Sezione di Bergamo – Ducato di Piazza Pontida – Banca Popolare di Bergamo – Credito Bergamasco. Lo stesso è strutturato in tre parti : L'alpino, Il poeta ( e lo scrittore), L'avvocato. Seguono un elenco delle opere edite ed un Indice iconografico. Benché riformato, Riva volle partecipare come volontario alla Guerra 1915-18. Prima del servizio militare andava in montagna – ci ricorda la De Luca, riprendendolo da Gli alpini son fatti così – in vestito e scarpe da città ( come avrebbe fatto in seguito Dino Buzzati...). Ma egli andò a guerreggiare in montagna proprio come alpino. E diventò uno “Scarpone”... Per far comprendere meglio l'atmosfera del racconto, bisogna lasciare la parola all'Autrice, secondo la quale fu consistente il di lui apporto letterario alla guerra stessa : “...Scarponate fu un libro fortunato che entrò nella triade del Protopremio Bagutta assieme a Scarpe al sole di Paolo Monelli. La prosa caratteristica...di Riva...così scattante e arguta, trova in questo volume una delle migliori espressioni. Riva non traccia il dipanarsi degli eventi bellici, ma si limita a raccontare episodi da lui vissuti, a rievocare compagni noti e meno noti, a descrivere i luoghi nei quali combatté. Tutta una prospettiva particolare, un modo personale di rivivere i giorni della guerra ne traspare. Le pagine alternano le lunghe penose attese fra le nevi a due tremila metri con gli scontri gloriosi o no...” Scriveva tra l'altro Riva : “ Un telo da tenda o un cappotto erano il primo ricovero dal gelo dei 30 sotto zero : e resistere lassù, invetriati dall'algore, nel deserto senza limiti, squassati come fuscelli dalle tormente rabbiose, esposti alle valanghe, voleva dire – anche durante la tregua della fucileria e della cannonata – avere cuore di bronzo come i battagli delle campane...” E per dare un assaggio della capacità di scrittore dell'alpino Ubaldo Riva, basta riportare questa sua descrizione paesaggistica : “ Io amo di più il romantico pittoresco, l'orgia coloristica delle Dolomiti. Ivi alla adamantinità delle nevi e dei ghiacciai ( dai quali il sole trae fontane di luce ed
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arcobaleni) si associa la lussuria esasperata di guglie dai toni di perla di opale di rubino di topazio di alabastro. Le colorazioni trionfali dell'aurora i cromatismi vendemmiali i neroniani incendi del tramonto, sono spettacoli e miracoli da strappare urli di ammirazione : perfino in trincea, perfino in azione”. L'originalità del libro “ Scarponate”, come giustamente rileva la De Luca, consiste nel fatto che non si tratta solo di un diario di guerra di un alpino della Prima Guerra Mondiale, ma un diario alla Riva, dove le grandi vicende del conflitto fanno da sfondo al curriculum personale. La stringatezza del racconto mette anche meglio in risalto la ricchezza del sentire : “ Il cammino era duro : con quel macigno sulle spalle ( zàino) 55 minuti di marcia : fatica, affanno, polvere, sudore, aspettare l'alt di cinque minuti per non scoppiare, come la goccia l'assetato. Ma il contatto diretto con la natura, il sempre nuovo ammaliava. Lo sforzo fisico l'essere un minuscolo ingranaggio in una grande macchina verso una grande meta, l'essere in pace con se stesso, il non avere pensieri preoccupazioni responsabilità, essere spiritualmente liberi puri buoni, non avere torture intellettualistiche, che beatitudine.” Il resto del libro ( che non possiamo riassumere in una semplice recensione, anche perché il fascino insolito che promana dallo stesso esige che venga letto, non raccontato) è dedicato a Ubaldo Riva poeta, avvocato, saggista, uomo pubblico, uomo di ideali. Uno dei meriti di Liana De Luca è quello di consentire al lettore di entrare non solo nell'anima di un grande Italiano, il protagonista, ma anche di una parte importante dell'Italia in una determinata epoca, per molti versi migliore di quella attuale. E non solo con le proprie raffinate doti di scrittrice, ma anche con la sagacia nello scegliere i testi letterari più significativi dello stesso Ubaldo Riva poeta, scrittore, uomo di cultura. Sono molte le poesie belle e riuscite, fra tutte quelle contenute nelle raccolte Passatismi, Bambinate, Quasi quasi una fantasia. Si noti : “Passatismi”. E cioè l'opposto di Futurismi. A Marinetti che con grazia e calore gli chiedeva di entrare nel Movimento Futurista, Ubaldo Riva rispondeva che preferiva restare libero, restare se stesso : “...Cosa vuoi ? Se io mi sento – in un certo attimo fuggente – filomacchinista ( ! ) ebbene sarò tale ! Ma se in altro...tempuscolo mi sento crepuscolare elegiaco sentimentale io non posso e non voglio sbattezzarmi di me stesso. Prima e soprattutto libero io sono”. Luigi De Rosa
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NAZARIO PARDINI I SIMBOLI DEL MITO (1° premio città di Pomezia, 2013) Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2013 L’autore della silloge che ha ottenuto il primo premio al concorso “Città di Pomezia 2013”, è Nazario Pardini, un intellettuale noto nell’agone letterario. E’ inserito in antologie e dizionari di autori contemporanei: critico, prefatore, animatore del blog “ Alla volta di Leucade”. Ha vinto importanti premi letterari. La prefazione di Ninnj Di Stefano Busà e la postfazione di Domenico Defelice guidano il lettore alla fruizione di questi originali testi che prendono spunto dal mito, ma .al tempo stesso, se ne discostano per le riflessioni riguardanti l’attualità. Molte le figure ispiratrici: Ifigenia, sacrificata “per propiziare l’armata degli Achei”,diviene il simbolo di una religione illogica e fanatica; Semele (la madre di Bacco) è incenerita per l’ingannevole amore di Giove (“eterno èl’amore/quando non scherno”); Saffo ed Edipo che hanno sofferto dolori”gradi, smisurati/che la storia ripete”; Ulisse a cui l’autore chiede se scoprì “le soglie del vero”. Oltre agli dei, statue “bianche di gesso/logore di tempo”, Pardini rievoca anche una figura più moderna come Giovanna D’Arco. L’autore è attratto da atmosfere vibranti come quella che si respira in un cimitero di notte (nella poesia “Oltre quel muro” dagli echi foscoliani), o quella assolata della classicità, ove “un flauto arieggia note/o arie da una lira/o forse la mano di un pastore/che intaglia tocchi /sopra il suo bastone”. Chi legge questi versi si sente avvolto da una sorta di magia che l’armonia del dettato sapientemente crea. Elisabetta Di Iaconi
NAZARIO PARDINI I SIMBOLI DEL MITO Il Croco – I Quaderni di Pomezia-Notizie - 2013 La silloge che ha vinto quest’anno il Premio Città di Pomezia si distingue per originalità di scrittura e di contenuto. Nazario Pardini con I simboli del mito ci fa entrare in un’atmosfera “altra”, nella quale rivivono figure mitologiche e storiche in un intreccio continuo con la realtà odierna quale simbolo appunto della continuità del tempo. Si coglie subito lo spessore poetico/linguistico, nonché dotto, di questo importante poeta. Le liriche hanno un sapore classico e i versi si dipanano fluidamente creando una perfetta musicalità. La voce
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però è moderna e i temi trattati rispecchiano problematiche attuali che si concatenano con i personaggi “simbolo” del passato; quella mitologia che tanto ci ha coinvolto aprendoci a un mondo diverso. In questo modo viene a crearsi una particolare suggestione e il dettato, pur affrontando problematiche universali in modo intenso, non assume mai un tono sapienziale o pesante; al contrario, cattura l’attenzione. La natura accompagna le vicende e Pardini ci dona delle immagini superbe: “Sui greti del mio fiume / segreti si nascondono i messaggi; / si levano / ai raggi della sera, / poi volano alle golene, / alle schiene degli argini / e vanno dove le acque / gorgogliano alle secche.”, e ancora “Dall’alto del balcone / dei templi sui salmastri, / su mura di castelli / sguarnite di ricami / vola un falcone / sui rami imbiondati di ginestre / tra spine di fichi / ed il sapor di zagare e limoni”. Molto particolare anche il suo approccio con i defunti. Pardini li fa rivivere alla notte in modo da incrociare la vita con la morte, e il regno dei morti diviene un luogo beato, dove si può trovare la gioia: “… ecco mio padre con mia madre / ed ecco mio fratello / che sorridente / per l’agognato arrivo / vola di gioia.”. Ci sarebbero svariati punti da approfondire, ma ci vorrebbe più spazio. Ninnj Di Stefano Busà ha ben colto l’animo del poeta e l’intento di questa raccolta nella sua dettagliata prefazione, lo stesso ha fatto Defelice nella postfazione, e chi avrà modo di leggere I simboli del mito sarà d’accordo senza dubbio che Pardini abbia meritato questo Premio. Laura Pierdicchi
LUIGI DE ROSA FUGA DEL TEMPO Genesi Editrice, Torino, novembre 2013 ( prefazione di Sandro Gros Pietro). Carissimo Luigi, nella tua poesia, contenuta nella raccolta “ Fuga del tempo” … ho incontrato la sottile sofferenza del tuo nobile animo e ho visto sull'albero della vita i fiori secchi e anche quelli vivi nella magia dei colori. Ho visto l'uomo ferito dalle ingiustizie vacillare, ma subito raddrizzarsi sotto le invisibili spinte della speranza. Ho visto sbocciare la rosa rossa nel fuoco di luglio, che pensa di rivivere domani nello sboccio di altre rose. La tua poesia mi dice che ai morti bisogna parlare, e che il tempo siamo noi che, senza saperlo, camminiamo nell'eternità.
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Auguri. Un abbraccio fraterno da Gianni Rescigno Santa Maria di Castellabate, Salerno, 5 dic. 2013 FUGA DEL TEMPO E può arrivare il giorno del rimpianto per frammenti di vita autentica perduti a miliardi in illusioni inconsistenti. Chi ci restituisce i nostri anni migliori, e i diamanti, e le perle che abbiamo gettato nel vortice banale del giorno dopo giorno ? La cultura non rende felici, la sensibilità fa soffrire. Forse il bulbo della nostra vita è rimasto lo stesso, ma i delicati fiori, seccati sui gambi, sono innumerevoli. Potremmo disegnare un'intera mappa degli errori da evitare per non svenarsi in cento melodie, per non regalarsi in cambio di un avaro, freddo sorriso. Ma questa mappa sarebbe sempre inutile perché continueremmo ad amare la vita per continuare a viverla. Luigi De Rosa ( Rapallo, Genova ) ( dal volume omonimo, Gènesi 2013, Premio per l'inedito “I Murazzi – Città di Torino 2013” )
NAZARIO PARDINI I SIMBOLI DEL MITO Il Croco – I Quaderni di Pomezia-Notizie - 2013 Sono molto legata all’universo greco, la cui sopravivenza ai nostri tempi sembra più che mai necessaria. Ecco uno dei motivi che mi ha fatto apprezzare il lavoro di Nazario Pardini: lavoro molto impegnativo dove poesia, mito, storia e filosofia s’incontrano e ritrovano la loro affascinante immediatezza, ubbidendo ad un preciso filo conduttore di forte significato simbolico. Dalle figure mitiche, descritte con occhio moderno e una visione che annulla i secoli, emergono gesti ricondotti alla misura umana (essendo immersi nella quotidianità) e i simboli delle nostre passioni, dei nostri desideri, di quelle forze misteriose e imprevedibili che guidano la nostra vita. Ora gli dei dell’Olimpo sono rinchiusi in carceri di marmo, di bronzo e di gesso, ma le loro statue sembrano animate da una vita segreta, da una scintilla del tempo perduto. Escono dal freddo della loro prigione come i nostri morti “dal marmo freddo”; come i nostri morti
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“parlano di affetti e di ricordi”. E se il pensiero o la memoria non ci abbandona, è facile incontrarli mascherati da gente comune, in preda al delirio di Dioniso, all’ebbrezza di Bacco, al canto di Apollo, alla sete insaziabile d’Ulisse, vagante nel mare aperto e impetuoso con “la mente rivolta a Calipso”, noi con “lo sguardo proteso ai fondali/a memoria di quei marinai” e d’altri naufraghi a cui non fu concesso approdare all’Itaca sognata o ad altri lidi. Innocenza Scerrottà Samà
MANDELA MURIÓ... ¡VIVA MANDELA! Africa del Sur 18 de julio, 1918 - 5 de diciembre, 2013 D. Defelice: Il microfono (1960)
La vida de Mandela abarca todo amor en que respira el Continente Africano y todo el mundo que aprendió a convivir en un arco-iris de colores solemnemente en honor de la humanidad sin prejuicios raciales. Frente a Nelson Mandela la paz ha sido y será centellante, labrada en esencial justicia. El hecho ha transformado el planeta permitiendo la luz de la razón perfeccionar el sentimiento y engrandecer el alma humana. Mandela no murió: ¡sigue sembrando esperanzas! Teresinka Pereira USA
TRAMONTA Tramonta il sole e la natura è grigia e scura. E’ tempo autunnale. Gli alberi sono incamminati mentre le foglie danzano nel vento autunnale. Loretta Bonucci
NOTIZIE CORDOGLIO PER LA MORTE DI SILVANA ANDRENACCI MALDINI - E-mail di Tito Cauchi del 19.11.2013: Caro Domenico, ho provato a telefonarti, senza trovarti; perciò per ogni eventualità ti comunico una triste notizia. Ieri mattina, 18 novembre, è venuta a mancare la cara amica Silvana Andrenacci Maldini. Da qualche anno ci sentivamo con una certa frequenza; dopo qualche giorno dall’ultima telefonata, avvenuta circa dieci giorni fa, già indebolita negli arti, è caduta in casa senza riuscire ad alzarsi e a chiedere aiuto. A seguito del suo silenzio, su segnalazione della sorella, sono intervenuti i vigili del fuoco; da lì a poco, è stata ricoverata, senza avere la forza di tenere il telefono in mano. Qualche giorno fa l’ho chiamata al cellulare, senza fortuna, lasciandole un messaggio alla segreteria: chissà se qualcuno glielo abbia fatto ascoltare. Silvana teneva molto alle recensioni; l’ultima che le ho fatto riguarda Il flauto dell’anima, che ti ho già inviato. Spero che il flauto l’accompagni nel suo ultimo viaggio. Quanto è brutto vivere di rammarico: quante cose non dette e non fatte in tempo! Silvana si aggiunge ai molti amici che ci hanno lasciati. Questo è un monito, per sollecitarci a non rinviare le cose sine die. Ciao, a voi tutti. Tito Addio Silvana Il giorno 18 novembre u.s. la nostra amica Silvana Andrenacci Maldini ci ha lasciato. Era nata a Roma il 28 novembre 1924, nel quartiere di S. Lorenzo, per sempre rimasto suo cuore. Da moltissimi anni era presente con i suoi saggi, le sue recensioni
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e le sue poesie (in lingua e in dialetto romanesco) nelle pagine di “Pomezia notizie”. Frutto delle sue ricerche letterarie fu il volume intitolato “Itinerari”; ma la sua vera passione era il dialetto di Roma, amorevolmente approfondito presso il Centro Romanesco “Trilussa” da lei frequentato per decenni insieme all’adorato marito, il genovese Ennio Maldini (scomparso nel 2002) apprezzato pittore, nonché valido poeta nel dialetto romanesco, in cui volentieri si esercitava. Silvana ha prodotto pregevoli rielaborazioni di opere classiche in chiave dialettale. Citiamo “Enea e Didone”, “La raggion de stato” (sulla leggenda del duello tra Orazi e Curiazi), “Filemone e Bauci” (un bel “Croco” del 2004) e non si contano i premi che ha vinto dagli anni Ottanta dello scorso secolo. Preziose le recensioni a lei dedicate dal fondatore del Centro Trilussa, il grande poeta Giorgio Roberti. Soffrì molto per la morte del suo Ennio; ma sapeva reagire facendo ricorso alla Fede, all’impegno poetico, e collaborando a varie testate (“Il Corriere di Roma”, “Voce Romana”, ecc.). La sottoscritta ha frequentato l’Andrenacci dagli anni novanta in poi. Da quando le sue precarie condizioni di salute l’avevano costretta in casa, teneva con me contatti telefonici pressoché quotidiani. Quella telefonata mi manca terribilmente. Voglio salutare Silvana con una quartina scritta nel nostro amato dialetto Sirvà, mo come faccio quann’è sera, senza quer “bonanotte” doppo cena che m’aguravi co amicizzia vera? Te ne sei annata e m’ hai lassato in pena. Elisabetta Di Iaconi *** ANCORA SUI 40 ANNI DI POMEZIA-NOTIZIE - E-mail del 20.11.2013: POMEZIA-NOTIZIE: UNA RIVISTA CULTURALE AL SERVIZIO DELL’UOMO - Sinceri auguri e sentiti ringraziamenti vadano all’ ottimo Poeta e Direttore Domenico Defelice per aver fatto raggiungere alla sua rivista “Pomezia- Notizie”, nata nel lontano luglio del 1973, come un mensile locale, e divenuta una vera rivista letteraria nel 1993, l’ambito traguardo del 40° anno di vita. La rivista, che si è arricchita di anno in anno, dando voce a tanti poeti e letterati, si è posta fin dal suo inizio al di là di una chiusa casta improntata al clientelismo e all’incentivazione di teorie intellettualoidi dense di una obsoleta ascendenza ideologica. La stessa rivista, tutt’oggi, respira di una ragguardevole obiettività e di una larga libertà espressiva riconosciuta a tutti quei poeti, letterati e saggisti che le hanno danno la collaborazione e continuano a farlo, ampliando gli spazi di un dialogo e di un arricchimento culturale notevole.
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La rivista in fondo si è sempre proposta come un invito rivolto al lettore di amare la vitalità della poesia considerata come un sismografo della nostra più intima sensibilità vissuta al cospetto delle amare contraddizioni e delle orrende brutalità del nostro tempo. In fondo, è stata questa la fede professata dal grande critico Francesco Flora per il quale la poesia “ha sempre la fonte nel cuore dell’universo e non in un programma”. E ciò vale soprattutto anche oggi, nei riguardi dei vari ed innumerevoli consorzi intellettualoidi che la deviano e la dirottano verso delle aberranti analisi scompositive e giochi metaforici assurdi ed insulsi. Di fronte ad una società, mostrante i suoi limiti negativi e le sue incongruenze profonde, la rivista, che si avvale di molti poeti e letterati noti a livello nazionale, offre i suoi spazi alla ricerca e all’ attivazione di un umanesimo inedito, coincidente con il considerare la mente umana come un inviolabile spazio della libertà, come culto della dignità umana e di una volontà rivolta al potere intendere meglio l’ intima interiorità e profondità spirituale del cuore dell’uomo. Se Petrarca affermava che lo scrivere fa diventare migliore l’uomo, nessuno può negare che l’ espressione poetica, comunicata ad un altro essere umano, non dia luogo ad una elaborata e verificata intuitiva riflessione e non diventi fonte di un arricchimento spirituale ragguardevole. Per tali ragioni, la rivista è netta e vivida, proponendosi come vitale e vitalizzante, e fra le più importanti e brillanti a livello nazionale per il suo promuovere quella vera poesia che mira alla continuazione ed affermazione di quei valori spirituali che più contano per la salvaguardia delle medesima essenza spirituale dell’anima umana. Andrea Bonanno *** DOMENICO ANTONIO TRIPODI INCONTRA DANTE - Dal 28 novembre all’11 dicembre 2013, presso Tornatora Art Gallery di Via del Serafico 108 - Roma, Domenico Antonio Tripodi ha presentato 50 opere in una eccezionale Mostra patrocinata da: Società Dante Alighieri - Comitato di Roma; Società Dantesca Italiana - Firenze; Comitato Ravennate della Soc. Dante Alighieri - Ravenna; Società Dante Alighieri - Comitato di Conegliano; Movimento Internazionale Neoumanista - III Millennio - Roma. Relatori sono stati: il Prof. Giuseppe A. Martino; il Prof. Luigi Tallarico; il M°. Domenico A. Tripodi; l’attore Salvatore Puntillo, il quale ha letto i versi del XXXIII Canto del Paradiso. Domenico Antonio TRIPODI nasce in terra di Calabria: Sant’Eufemia d’Aspromonte, in una fami-
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glia dove la musica, la pittura e la scultura sono pane quotidiano per cui il suo giovane animo assimila le più alte forme di espressione, retaggio di quella Magna-Grecia la cui civiltà pulsa ancora nelle vene della sua gente. Lasciata la “bottega” del padre Carmelo, pittore, scultore e musicista, nella quale apprende i primi rudimenti dell’arte, Tripodi, giovanissimo, parte per la Toscana (Certaldo, Firernze e Siena) e, poi, per Torino. Approda a Milano nel ’55, trova lavoro e studia pittura alla Scuola Superiore d’Arte del Castello Sforzesco e in altri Istituti d’Arte lombardi; con i maestri Archimede Albertazzi e Franco Milani sviluppa la decorazione antica e l’arte del restauro pittorico; Collabora ampiamente con Giulio Fiume e i fratelli Angelo e Mario Zapettini, quest’ultimo: cognato dello scultore Giacomo Manzù. Tripodi opera in Piemonte e in Lombardia principalmente a Corbetta e a Milano ove risiede per ventisette anni. Così, l’artista acquisisce un eccezionale bagaglio di cognizioni teorico- pratiche nei campi della composizione pittorica e del restauro che gli consentono di padroneggiare la forma e le più disparate “materie” al punto da inserirsi presto nel campo dell’insegnamento artistico superiore. Edotto sull’esito dei “grandi” dell’arte, Tripodi decide di non seguire Scuole o Correnti anche perché sente, dentro di sé, copiosi flussi entelici che gli permettono di respirare il moderno insito nel “creato”, di entrare in sintonia con l’universale e di enucleare lo spazio-tempo dell’eterno. Affascina
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l’estrema capacità di sintesi con la quale riesce a rappresentare anche eventi di grande coralità e dramma come, per esempio: “La visione di Gioacchino da Fiore”, “La morte di Ettore”. Queste peculiarità e la grande comunicativa fanno di questo artista, a buon diritto, una delle voci più alte dell’arte contemporanea (Giorgio Tellan). “Tripodi, da tempo, si cimenta con Dante. Con la sua pittura, egli è entrato nello spirito del Poeta regalandoci la spiritualità e la materialità della Divina Commedia. Con Tripodi, Dante non è più un ricordo, ma una viva e sanguigna presenza anche nel nostro tempo. Lode quindi all’artista che è entrato in sintonia col “cenere di Dante”, mettendo in debito di gratitudine il mondo dell’arte e della cultura”. (A. Trivellini). “Di Tripodi restano memorabili le mostre di Tokio, di Parigi, di Atene e quella di Mosca con la Dante Alighieri, alla Biblioteca Centrale per celebrare il 740° Anniversario della nascita del sommo poeta” (A. Trivellini). *** MATRIMONIO - Domenica 1 dicembre, primo giorno d’estate a Melbourne con una temperatura di 33 gradi, si è unita in matrimonio Vanessa Falcone, nipote di Giovanna Li Volti Guzzardi, con Steve Demos, ore 14 nella chiesa di St. John’s in Carlton. Il ricevimento dalle ore 18.30 a mezzanotte, nella villa antica Quatt Quatta Reception, Ripponlea. 150 invitati hanno applaudito gli sposi Vanessa e Steve Demos al loro arrivo in sala, due paggetti i primi, poi la coppia di due damigelle e cavalieri e infine gli sposi sorridenti e felici. È stata servita una squisita cena di 5 portate, oltre alle bevande analcoliche, vino bianco e rosso, shampaghe e Whisky. Bellissimi i discorsi delle damigelle e cavalieri e degli sposi, prima del taglio della torta. Ballo con tanto divertimento e tanta gioia. A mezzanotte gli sposi hanno salutato tutti con tanto affetto e sono andati via con tanti auguri e allegria. Viaggio di nozze a Los Angeles, Messico, Las Vegas. Auguri agli sposi dai nonni, genitori, parenti e amici e da tutta la Direzione e Redazione di POMEZIA-NOTIZIE. (g.l.v.g.) ***
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RINGRAZIAMENTI - E-mail del 18/12/2013: Caro direttore, è trascorso un anno dalla pubblicazione di “Sotto ogni cielo” Genesi editrice. Ha avuto due buoni “padrini”; Lei come curatore e prefatore, Sandro Gros Pietro, editore e critico letterario ,e autore della post –fazione. Subito “Sotto ogni cielo” lo abbiamo visto presente sui cataloghi della fiera nazionale del libro di Roma “Più libri più liberi” e alla fiera internazionale Lingotto di Torino. Il 15 dicembre 2012 debuttò “ufficialmente” per la prima volta all’Aula Consiliare del mio paese, alla presenza del sindaco e di volti familiari, amici e ospiti, nonché dal nostro amico comune Franco Campegiani, che stilò una relazione di livello alto come è il suo sapere di critico. Da quel giorno si sono susseguite molte recensioni che hanno reso la mia pubblicazione degna di essere Menzionata ai premi; Voci di Abano Terme VIII ed., 54° ed. del San Domenichino,. 21° premio internaz. Letterario dell’A.L.I.A.S., e Gradiva- Newyork trovandosi tra i sedici finalisti su 142 libri presentati! Con tali premi “Sotto ogni cielo” ha viaggiato sul territorio nazionale, oltrepassando l’oceano. E’ stato presentato a Roma, alla libreria “Rinascita” il 15 settembre 2013, con il Circolo culturale IPLAC (insieme per la cultura) da Maria Rizzi scrittrice e moderatrice della serata insieme ai relatori Antonella Pagano scrittrice e artista eclettica e Alessandro Da Soller musicista. Sarà presentato a Roma, al Vip Club da Fiorella Cappelli, scrittrice e organizzatrice di numerosi eventi. Il 14 dicembre sarà presentato a Cattolica, alla rassegna internazionale dell’editoria seconda edizione; Claudio Fiorentini, scrittore e recensionista presenterà gli autori dell’IPLAC , presidente Roberto Mestrone, con l’associazione “Pegasus Cattolica”, presidente Roberto Sarra. Il 1 febbraio si vedrà presentato a Napoli, dall’ associazione Habeas Corpus gemellata con l’IPLAC. Presidente dell’associazione e moderatore della serata lo scrittore Umberto Schioppo e i relatori saranno Mariella De Luca e Salvatore Castiello . “Sotto ogni cielo” è presente oniline sulla rivista letteraria “Il Convivio” con la relazione di Enza Conti e Angelo Manitta, e sui siti “Letteratura e dintornI”di Dianora Tinti, sull’’atlante letterario literary e sul sito Harbeas Corpus. Troviamo recensioni anche sulla rivista “Vernice” Genesi editrice, diretta da Sandro Gros-Pietro, critico eccellente. Anche il professor Giorgio Barberi Squarotti mi ha
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onorato di una sua nota augurale. Mi sembra un grande onore per una pubblicazione al suo primo esordio. E’ doveroso- un dovere che sento morale e gradito!- ringraziare le firme di scrittori come Aldo Cervo, Silvana Andreacci Maldini, Roberta Colazingari, Tito Cauchi, Laura Pierdicchi, Fulvio Castellani, Sandro Angelucci, Giovanni Cianchetti, Innocenza Scerotta Samà, Elisabetta Di Iaconi, Salvatore D’Ambrosio, Luigi De Rosa, Giovanna Li Volti Guzzardi, Maria Elena Di Stefano, che hanno pubblicato sulla rivista di Pomezia –Notizie la loro recensione. Ogni loro parola è arrivata a me come un tesoro. Spero di cuore di non aver dimenticato nessuno di loro! Aurora De Luca Siamo felici del successo della nostra cara amica Aurora. (la quale, socia dell'IPLAC, desidera far recapitare questa nostra rivista a Maria Rizzi, di Roma, e a Umberto Schioppo, di Napoli). Lei, pur così giovane, è molto brava anche come investigatrice di sillogi poetiche. Ecco, per esempio, quanto le scrive Corrado Calabrò: “Cara Aurora De Luca, che profondità psicologica, che sensibilità poetica nella sua recensione! E’ incredibile il modo di comunicare della poesia: il poeta affida il suo messaggio alle onde in una bottiglia e non ne sa più nulla. A distanza un intenditore lo raccoglie, lo reimmerge nella sua capacità percettiva e nel suo vissuto, e lo fa suo e di tutti. Grazie, grazie! Direi, se potessi permettermelo, non solo a nome mio, a nome della poesia.” Corrado Calabrò *** IL NATALE È TRASCORSO, ma questa bella pagina, suggeritaci dall’amico e collaboratore Dott. Giuseppe Leone, è sempre viva e non vogliamo farla mancare ai nostri lettori: Così Rainer Maria Rilke scriveva il 23 dicembre del 1903 al ventenne amico poeta Franz Xavier Kappus, allora Cadetto alla scuola militare e costretto a trascorrere le feste natalizie lontano da casa, per motivi di servizio. Caro signor Kappus, Il mio saluto non deve mancarvi nel periodo di Natale, quando, in mezzo alle feste porterete, più duramente che in altro tempo, la vostra solitudine. Se sentite che allora essa e` grande, rallegratevene. Dite a voi stesso: Che cosa sarebbe la solitudine, che non fosse una grande solitudine? La solitudine è una: per la sua essenza essa è grande, e grave è il
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suo peso. Quasi tutti conoscono ore che baratterebbero volentieri con un’amicizia qualunque, per quanto banale e mediocre essa fosse, contro l’ apparenza del minimo accordo col primo venuto, perfino col più indegno... Ma forse, queste ore, sono precisamente quelle in cui la solitudine ingrandisce e la sua crescita è dolorosa come quella dei bambini, triste come il primo sentore della primavera. Non ne siate turbato. Una cosa sola è necessaria: la solitudine. La grande solitudine interiore. Andare con se stessi, e per delle ore, non incontrare nessuno; è a questo che bisogna giungere. Esser soli come il bambino quando le persone grandi vanno e vengono, mescolate a cose che ad esso sembrano grandi e importanti solo perché i grandi se ne interessano e il bambino non capisce niente di ciò che fanno... Applicate, caro signore, i vostri pensieri al mondo che portate dentro di voi, chiamate questi pensieri come vorrete. Ma si tratti del ricordo della vostra infanzia o dell’appassionato bisogno del vostro perfezionamento, concentratevi su tutto quello che sorge in voi, fatelo passare avanti a tutto quello che osservate fuori di voi. Che cosa dunque vi impedisce di proiettare la sua venuta nel divenire e di vivere le vostra vita come uno dei giorni dolorosi e belli di una sublime gravidanza? Non vedete dunque che tutto quello che succede a voi è sempre un principio? Non potrebbe essere il suo stesso principio? C’è tanta bellezza in tutto ciò che comincia... Festeggiate il Natale, caro signor Kappus, in questo pio sentimento... Rainer Maria RILKE *** È MORTO ROCCO CAMBARERI- L’amico della nostra giovinezza, il poeta e scrittore Rocco Cambareri non c’è più. Nato a Gerocarme (cz) il 28 febbraio 1938, è morto a Vibo Valentia il 6 novembre 2013, ma l’abbiamo appreso soltanto adesso, da una lettera della moglie Mimma. Da anni non lo leggevamo più sulle riviste che continuamente ci giungono. A quanto pare, circa tre anni fa ha subito un incidente “quasi mortale”, dal quale non si è più ripreso. Tra “sofferenze incredibili”, specie negli “ultimi sette mesi” - ci scrive la moglie - e “il cuore che si andava dilatando sempre più”, Rocco ci ha lasciato. Il nostro cuore è stracolmo di dolore. Gli volevamo un bene più che fraterno. Il primo nostro saggio monografico - “Un silenzio che grida” - l’abbiamo proprio de-
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dicato a lui, nel lontano 1968, segno della nostra stima. E’ nostra intenzione ricordarlo ancora sulle pagine della nostra creatura di carta. Intanto, nel porgere le condoglianze alla moglie e a tutta la famiglia, pubblichiamo, in altra parte di questo nostro mensile, due sue belle poesie, una delle quali: “Fra qua e l’ Aldilà”, “scritta pochi giorni prima di entrare in rianimazione dove è stato per un mese intubato”. Addio, Rocco. Non sei più tra noi, è vero, ma continui a scrivere versi tra i cori celesti, trasformato “in allodola sazia/di luce e d’azzurro”. (D. Defelice) Nelle immagini: Ostia Lido, Roma, febbraio 1966: Domenico Defelice e il poeta Rocco Cambareri sul terrazzo (La Rotonda) prospiciente il mare. Il pittore Antonino De Pace nel suo studio, con il poeta Rocco Cambareri, a Roma, nel dicembre 1965.
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Domenico Defelice - Scaffale (1964)
LIBRI RICEVUTI CARMINE CHIODO - Fortunato Seminara e altri scrittori e poeti calabresi del Novecento - UniversItalia, Roma 2013 - Pagg. 480, € 18,00. Carmine CHIODO insegna da molto tempo come professore aggregato Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Tra i suoi libri si ricordano: “La poesia bernesca del ‘700” (1987), “La satira nel Risorgimento italiano. Noberto Rosa e Domenico Carbone” (1987), “Il gioco verbale. Studi sulla rimeria satirico-giocosa del ‘600” (1990), “Poeti calabresi tra Ottocento e Novecento” (1992), “Ottocento minore (Pananti, Borsini, Fusinato, Baravalle)” (1995), “La poesia di Francesco Curto” (1998), “Da Francesco Dall’Ongaro a Fortunato Seminara. Studi di letteratura italiana fra Otto e Novecento” (2001), “Su alcuni poeti del Novecento. Saba, Alvaro, Montale, Quasimodo, De Michelis, Calogero” (2012), “Letture di poeti. Vittorelli, Sestini, Gnoli e Guerrini” (2012). Inoltre, si è occupato di vari scrittori e poeti a partire da Dante fino ai tempi nostri, studiati in moltissimi saggi che hanno visto la luce in varie riviste letterarie italiane e internazionali, in diversi atti di convegni. In collaborazione con Antonio Piromalli è autore della “Antologia della letteratura calabrese” (2000); ha curato la ristampa de “Il vento nell’oliveto” di Fortunato Seminara, In-
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troduzione e nota filologica al testo”. Collabora con articoli e recensioni a varie riviste e giornali, tra i quali si segnalano “Giornale Italiano di filologia” e “Critica letteraria”. ** LUIGI DE ROSA - Fuga del tempo - Opera vincitrice del Premio “I Murazzi” di Torino - Prefazione di Sandro Gros-Pietro - Genesi Editrice, 2013 Pagg. 62, € 11,00. Luigi DE ROSA, poeta e scrittore, saggista e recensore, di genitori partenopei ma cresciuto in Liguria, vive a Rapallo (Genova), in pensione dal 2001. Tra i suoi libri di poesia, “Risveglio veneziano ed altri versi” (1969); “Il volto di lei durante” (1990 e 2005), “Approdo in Liguria” (2006), “Lo specchio e la vita” (2006). Sulla sua poesia sono usciti saggi e recensioni su numerose riviste (tra le più recenti “Poesia”, “Vernice”, “Nuovo Contrappunto”, “Ilfilorosso”, “Paidèia”, “Nuova Tribuna Letteraria”, “Le Muse”, “PomeziaNotizie”, “Sentieri Molisani”, “Veia gianca”. Nel corso della sua lunga militanza letteraria ha scritto numerose recensioni, prefazioni e presentazioni, oltre a saggi e articoli su Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro, Giorgio Caproni, Giovanni Descalzo, Umberto Saba, Giovanni Giudici, Giovanni Pascoli, Antonia Pozzi, etc. Mentre della sua poesia si sono occupati, oltre ai prefatori (Diego Valeri, Giorgio Bárberi Squarotti, Sandro Gros-Pietro, Graziella Corsinovi), molti altri critici e poeti, tra i quali Neuro Bonifazi, Francesco Fiumara, Giovanni Cristini, Liana De Luca, Paolo Ruffilli, Rodolfo Tommasi, Elio Andriuoli, Rosa Elisa Giangoia, Piera Bruno, Domenico Defelice, Roberto Carifi, Fabio Simonelli, Guido Zavanone, Liliana Porro Andriuoli, Silvano Demarchi, Viviane Ciampi, Francesco De Napoli, Pasquale Matrone, Claudia Manuela Turco, Francesco Graziano, Fulvio Castellani, Lia Bronzi, Mauro Decastelli, Elvira Landò Gazzolo, Danila Boggiano, Angelo Manuali, Tito Cauchi. “Nell’uso di un linguaggio tanto cristallino quanto rigoroso per il rispetto della forma e dei contenuti - scrive la Giuria del Premio “I Murazzi” -, Luigi De Rosa mette a fuoco il dramma del poeta moderno che ha acquisito la coscienza storica dell’inadeguatezza della parola letteraria a raccontare il movimento e la densità del mondo reale, ma che tuttavia non abdica al suo ruolo di anima sensibile e vigile della storia degli uomini e dei suoi drammatici eventi personali e collettivi”. ** RENATO GRECO - La parola continua - Poesie inedite 1998 - 2001 - Prefazione di Marcello Ariano - Sentieri Meridiani Edizioni, 2013 - Pagg. 316, € 18,00. Renato GRECO è nato nel 1938 a Cervinara (Av) e vissuto fino alla maturità classica ad Ariano
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Irpino. Nel 1955/56 a Matera istitutore del Convitto “Duni”. Dal ’57 al ’67 a Milano dove lavora alla Olivetti di Adriano e dove abita con la moglie dal ’66. Dal ’67 tre anni a Napoli un anno a Firenze e due anni in giro per l’Italia con tappe a Firenze e a Milano. Nell’intanto si laurea in legge. Dal ’71 a Bari quadro nella filiale di questa città. Nel ’77 è di nuovo a Milano dopo altri periodi a Firenze. Fino al 1987 a Milano quadro marketing centrale. Ritrasferito a Bari va in pensione nel 1992. Ha vinto molti concorsi in Italia e legge poeti del ‘900 presso due Università Popolari a Modugno e a Bari. Redattore della rivista “La Vallisa” dal 1997. Ha scritto più di 45 volumi di poesia, oltre che numerose Raccolte Antologiche, alcune pubblicate anche all’estero. Autore anche di molti saggi su Salvatore Quasimodo, Vittorio Bodini, Cristanziano Serricchio, Enzo Mandruzzato, eccetera. Tante le antologie in cui figurano sue poesie. Tra i critici che si sono interessati di lui, citiamo solo alcuni: Pasquale Martiniello, Michele Coco, Enzo Mandruzzato, Stefano Valentini, Vittoriano Esposito, Daniele Giancane, Lia Bronzi, Donato Valli, Sandro Gros-Pietro, Renzo Ricci, Giorgio Bárberi Squarotti, Giuliano Ladolfi, Emerico Giachery, Roberto Carifi, Gianni Antonio Palumbo, Daniele Maria Pegorari, Roberto Coluccia, Ettore Catalano. ** CATERINA FELICI - Fogli di vita - Poesie - Longo Editore Ravenna, 2013 - Pagg. 96, € 10,00. Caterina FELICI ha pubblicato i libri di poesia: “Reciproco possesso” (1975), “Vastità nei frammenti” (1978), “Oltre le parole” (1982), “Poesie scelte” (1992), “Labili confini” (1994), “Confluenza” (1997), “Tessere di vita” (2004), “Tratti d’insiemi” (2007). Sue poesie sono presenti in antologie. La Felici ha pubblicato anche il libro di narrativa “Il vecchio e altri racconti” (1987). Ha ricevuto vari primi premi in noti concorsi letterari nazionali. Tra coloro che si sono interessati di lei, si ricordano: Cesare Segre, Giacinto Spagnoletti, Giuliano Gramigna, Giorgio Bárberi Squarotti, Walter Mauro, Bruno Maier, Giorgio Cusatelli, Claudio Toscani, Maria Lenti, Paolo Ruffilli, Antonio Piromalli. ** MONICA FIORENTINO - Lettera Ventuno Raccolta di poesie haiku - Ed. Carta e Penna, 2013 - Pagg. 48, € 7,00. Monica FIORENTINO è nata il 3 ottobre 1976 a Sorrento in provincia di Napoli. Sue opere di poesia haiku sono state premiate in concorsi letterari in Italia e all’Estero. Molte sue raccolte di poesia haiku sono on line su vari siti. Altre sue pubblicazioni (sempre “raccolte di poesie haiku”): “I diari del principe Desiderio”, “Cenere di rose”, “Luna stonata”, “Lunascarlatta”,
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“Sua maestà e l’esercito di cavallette”. E’ stata tradotta in spagnolo e in francese. ** SANDRO ANGELUCCI - di Rescigno il racconto infinito - Saggio, Prefazione di Giorgio Bárberi Squarotti e, in calce, nota dell’editore Eugenio Rebecchi - In copertina, a colori, “La lettura del poeta”, di Raffaele Ferriello - Edizioni Blu di Prussia, 2014 - Pagg. 96, € 12,00. Sandro ANGELUCCI è poeta, critico letterario e saggista. Vive a Rieti, dove insegna ed è nato. Ha pubblicato: “Non siamo nati ancora” (2000), “Il cerchio che circonda l’infinito” (2005), “Verticalità” (2009), “Controluce” (2009), silloge, questa ultima, con la quale ha vinto il Primo Premio al Città di Pomezia dello stesso anno. Intensa la sua collaborazione con riviste culturali nazionali, di alcune delle quali è anche membro del comitato di redazione e collaboratore fisso. Ha ottenuto, per la poesia, numerosi riconoscimenti, tra cui molti primi premi per l’edito, risultando spesso nella terna dei vincitori. Un suo profilo critico è inserito nel IV volume della “Storia della letteratura italiana. Il secondo Novecento” per Guido Miano Editore in Milano; con lo stesso ha poi dato alle stampe una breve plaquette contenuta in “Alcyone 2000”, quaderni di poesia e di studi letterari. Il suo nome figura inoltre in altre antologie e storie della letteratura. Del suo lavoro si sono occupati autorevoli critici, poeti e scrittori. ** TEODORO LORENZO - De vita beata - Racconto, Prefazione di Vincenzo Jacomuzzi - In copertina, a colori, “Barca solitaria” di angelo De Monti Edizioni Progetto Cultura, 2013 - Pagg. 88, € 12,00. Teodoro LORENZO è nato a Torino il 4 marzo 1962. Di professione avvocato, ha pubblicato la raccolta di racconti di argomento sportivo “Saluti da Buenos Aires” (2009) e il romanzo “Campus Marie Curie” (2012). ** AA. VV. - L’economia italiana 2014-2018. Uscire dalla crisi. Riprendere la crescita. Come? Quando? Previsione, analisi, proposte di Mario Baldassarri, Roberto Mazzotta, Dino Pesole, Pierluigi Ciocca, Alberto Quadrio Curzio, Alberto Bisin, Sergio Rizzo, Luca Rizzuto, Piero Giarda, Stefano Manzocchi, Alessandro Barbera, Maurizio Meloni, Eugenio Gaiotti, Stefano Folli, Giuseppe De Rita, Carmen Lasorella, Richard Heuze’, Alessandra Migliaccio, Tobias Piller, Bruno Costi, Luigi Casero, Matteo Colaninno, Mario Monti - Il Sole 24 Ore, 2013 - Pagg. 160, s. i. p. ** PAOLO AMATI - Impegno nel sociale di un credente: Zaccaria Negroni - Prefazione di Mons.
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Dante Bernini - volume ricco di documenti - Tipografia Legatoria “S. Lucia”, Marino, 2013 - Pagg. 216, s. i. p.. Paolo AMATI nasce a Nettuno nel 1949. Sposato con Antonella, ha due figli: Eloisa e Simone. Dal 1970 al 1974 è Vice Presidente Diocesano dell’Azione Cattolica, settore giovani, durante la Presidenza dell’Ing. Zaccaria Negroni. Consegue il Magistero in Scienze Religiose presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino con una tesi di laurea su Zaccaria Negroni nel 1986. Lo stesso anno interrompe la sua attività lavorativa presso una multinazionale per dedicarsi all’insegnamento della religione cattolica negli Istituti superiori. Termina l’attività di docente nel 2007, dopo 30 anni d’insegnamento nelle scuole di Anzio e Nettuno. Da sempre promotore di iniziative di raccolta fondi a sostegno delle missioni in Africa guidate da Padre Carlo Andolfi, collabora per lungo tempo con i Vescovi della Diocesi di Albano Laziale per l’apertura di una nuova Parrocchia a Nettuno, nel quartiere S. Barbara. Grazie alla sua iniziativa, il Comune di Nettuno intitola una strada a Zaccaria Negroni, alla presenza del Sindaco Vittorio Marzoli e benedetta da S. E. Mons. Dante Bernini. Attualmente è Vice Presidente dell’A. C. di S. Giovanni di Nettuno e referente per la Diocesi di Albano nella Fondazione Azione Cattolica Scuola di Santità “Pio XI”.
TRA LE RIVISTE VERNICE - Rivista di formazione e cultura, edita dalla Genesi Editrice - via Nuoro 3, Torino e diretta da Claudio Giacchino, redattori Liana De Luca, Sandro Gros-Pietro, Rossano Onano ed altri. Anno XIX, n. 49, di ben 336 pagine (€ 20). Sappiamo di farci dei nemici (coi tempi che corrono!), ma non possiamo citare tutti gli argomenti e rispettivi autori, lo spazio a nostra disposizione essendo limitato. Ricordiamo soltanto, allora, le firme di: Sandro Gros-Pietro (intervista a Guido Davico Bonino), Silvano Demarchi, Adriana Mondo, Laura Pierdicchi, Rossano Onano (La barzelletta più comica del mondo: Vieni avanti, cretino e Perché non credere (ma anche credere) all’astrologia), Nicola Lo Bianco, Elio Andriuoli, Tito Cauchi, Giovanni Dino, Guido Zavanone, Liana De Luca (Dante e l’Islam), Piera Bruno. Ma rivolgiamo l’invito ai nostri lettori di abbonarsi. Ne vale la pena. * ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Rivi-
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sta fondata da Giacomo Luzzagni, direttore responsabile Stefano Valenini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - Casella Postale 15C - 35031 Abano Terme (PD). Riceviamo il n. 112 (4° Trimestre 2013). Tra le firme, segnaliamo: Luigi De Rosa (Norman Mailer, il contestatore del sogno americano), Elio Andriuoli (I mille volti di Fernando Pessoa), Liliana Porro Andriuoli (Abelardo ed Eloisa, una storia sempre attuale), Pasquale Matrone (tra l’altro, recensisce il saggio di Anna Aita: Domenico Defelice, un poeta aperto al mondo e all’amore), Rosa Elisa Giangoia, Sandro Angelucci. * IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT). Riceviamo il n. 54 (luglio-settembre 2013), ricchissimo di argomenti e moltissime firme, tra le quali: Giuseppe Manitta, Giuseppe Manitta, Orazio Tanelli, Enza Conti, Andrea Pugiotto, Leonardo Selvaggi, Loretta Bonucci, Vittorio Martin, Antonia Izzi Rufo, Aurora De Luca, Maristella Dilettoso (che recensisce Eleuterio Gazzetti, cantore della Valpadana, di Domenico Defelice). Allegato, il n. 20 di CULTURA E PROSPETTIVE, un volume di 176 pagine, con interventi di: Otilia Dorotea Borcia, Carmine Chiodo, Emilia Cavallaro, Silvio Minieri, Giuseppe Cappello, Giuseppe Manitta, Orazio Tanelli, Franco Pignotti, Leonardo Selvaggi, Paolo Scarano, Luigi De Rosa, Lucio Zinna, Salvatore Agati, Elisabetta Bogăţan, Pippo Pappalardo, Aldo Marzi, Gaetano Zummo, Silvana Del Carretto, Franco Orlandini, Giovanni Tavčar, Antonio Crecchia, Giarmando Dimarti, Gabriella Rossitto, Francesca Luzzio, Alba Pagano, Armando Dittongo. La rivista organizza i premi “Filoteo Omodei” e “Pensieri in versi”, con scadenza 31 gennaio 2014, per poesie edite e inedite, libri editi, pittura e scultura, racconti. Chiedere regolamenti completi all’indirizzo di cui sopra. Tel. 0942-986036, cell. 333-1794694, e-mai: enzaconti@ilconvivio,org * L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (FI). Riceviamo il n. 186/188 (luglio/settembre 2013). Segnaliamo il saggio del direttore responsabile: “Sant’Alessio Falconieri. Canonizzazione e Culto” e, dello stesso Marcello Falletti di Villafalletto, la rubrica “Apophoreta”. * RIVISTA ITALIANA DI LETTERATURA DIA-
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LETTALE - trimestrale fondato e diretto da Salvatore Di Marco - via Veneto 16 - 90144 Palermo. Riceviamo il n. 2-3 (aprile/settembre 2013). Tra le firme, oltre quella del direttore, segnaliamo Carmine Chiodo (Una nuova raccolta di versi in dialetto di Pietro Civitareale). * SOLOFRA OGGI - La voce di chi non ha voce Periodico diretto da Angelo Picariello - via Casapapa 1 - 83029 Solofra (AV). Riceviamo il n. 10, ottobre 2013. * IL FOGLIO VOLANTE/LA FLUGFOLIO - mensile letterario e di cultura varia, diretto da Amerigo Iannacone, responsabile Domenico Longo - via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro (Is). Riceviamo il n. 12 (dicembre 2013), sul quale, tra l’altro, troviamo le firme anche di nostri collaboratori come Pasquale Balestriere e Loretta Bonucci. Seguiti sono sempre gli “Appunti e spunti”, annotazioni linguistiche di Amerigo Iannacone.
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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) composti con sistemi DOS o Windows su CD, indicando il sistema, il programma ed il nome del file. E’ necessaria anche una copia cartacea del testo. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute. Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario). Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I testi inviati come sopra AVRANNO LA PRECEDENZA. I libri, possibilmente, vanno inviati in duplice copia. Per chi usa E-Mail: defelice.d@tiscali.it Il mensile è disponibile anche sul sito www.issuu.com al link http://issuu.com/ domenicoww/docs/
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Domenico Defelice - “Foglie sparse” (1982), disegno a china e pennarello.
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