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Oppido Mamertina, 28 dicembre 2013:
Convegno di Studi su
GEPPO TEDESCHI (1907 - 1993) a vent’anni dalla scomparsa dell’Usignolo dell’Aspromonte L 28 dicembre 2013, presso l’Auditorium del Seminario Vescovile di Oppido Mamertina (Reggio Calabria), si è svolto un Convegno di Studi su “Geppo Tedeschi (1907 - 1993). A vent’anni dalla scomparsa dell’Usignolo dell’Aspromonte”, organizzato dall’Associazione
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All’interno: Geppo Tedeschi e il silenzioso treno dei ricordi, di Domenico Defelice, pag. 4 Giuseppe Bonaviri visto da Sarah Zappulla Muscarà, di Carmine Chiodo, pag. 10 L’atomismo di Epicuro e di Lucrezio in Piergiorgio Odifreddi, di Luigi De Rosa, pag. 13 Carmine Chiodo: Fortunato Seminara, di Domenico Defelice, pag. 16 Il poema “cosmico” di Angelo Manitta, di Luigi De Rosa, pag. 22 Padre Pio. Ricerca di Dio vicinanza di Cristo, di Leonardo Selvaggi, pag. 24 Maria Messina: La casa nel vicolo, di Tito Cauchi, pag. 29 Liana Millu: una scrittrice testimone dell’Olocausto, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 34 Le grandi domande e la tovaglia del Madagascar, di Raffaele Cecconi, pag. 39 Due prose, di Colombo Conti, pag. 40 La mia mamma, di Walter Nesti, pag. 40 Premio Città di Pomezia 2014 (regolamento), pag. 42 Luci della Capitale, di Noemi Lusi, pag. 43 I Poeti e la Natura (Guido Zavanone), di Luigi De Rosa, pag. 44 In dialogo con Carlo Goldstein e Francesco Esposito, di Ilia Pedrina, pag. 47 Notizie, pag. 63 Libri ricevuti, pag. 66 Tra le riviste, pag. 68
RECENSIONI di/per: Sandro Angelucci (La mano e la prua, di Innocenza Scerrotta Samà, pag. 52); Elio Andriuoli (Cuore spaccato, di Sandro Gros-Pietro, pag. 53); Marina Caracciolo (“di Rescigno il racconto infinito”, di Sandro Angelucci, pag. 53); Tito Cauchi (Fuga del tempo, di Luigi De Rosa, pag. 54); Tito Cauchi (Piange la luna, di Domenico Defelice, pag. 55); Tito Cauchi (Fogli di vita, di Caterina Felici, pag. 56); Tito Cauchi (De vita beata, di Teodoro Lorenzo, pag. 57); Domenico Defelice (Storia di Pomezia attraverso le foto storiche dei Coloni, di Pietro Bisesti, pag. 58); Domenico Defelice (Fogli di vita, di Caterina Felici, pag. 60); Giuseppe Leone (Perle, di Vittoriano Esposito, pag. 61); Nazario Pardini (Nel taciuto la gioia, di Innocenza Scerrotta Samà, pag. 62).
Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 69
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Lorella Borgiani, Raffaele Cecconi, Colombo Conti, Mariano Coreno, Domenico Defelice, Rosa Frisina, Giovanna Li Volti Guzzardi, Adriana Mondo, Nazario Pardini, Teresinka Pereira, Serena Siniscalco, Guido Zavanone
Culturale “Geppo Tedeschi” e con la collaborazione dell’Associazione Aspromare e il Patrocinio della Provincia di Reggio Calabria Assessorato alle Attività Produttive -. A porgere i saluti sono stati Maria Frisina Presidente dell’Associazione Culturale “Geppo Tedeschi” -, Bruno Barillaro - Sindaco di
Oppido Mamertina - e Domenico Giannetta Assessore Attività Produttive e Politiche Sindacali della Provincia di Reggio Calabria . Gli interventri sono stati di: Fortunato Aloi, scrittore, già Sottosegretario alla Pubblica Istruzione (“Linee di cultura e storia italiane nel messaggio del futurismo lirico-dinamico
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del poeta calabrese Geppo Tedeschi”); Antonio Roselli, giovane scrittore e studente universitario (“Ruralismo magico e bozzettistica aspramontana nella poesia di Geppo Tedeschi”). Non è stato presente al Convegno, invece, Pierfranco Bruni - scrittore e responsabile Progetto Etnie-Letteratura del Ministero Beni Attività Culturali, già componente Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all’estero. Avrebbe relazionato su: “Geppo Tedeschi - Il Realismo tra metafora e Futurismo”. Le testimonianze sono state di: Susanna Paparatti - giornalista di “Repubblica” e “Il Mattino” (“Geppo Tedeschi e Sandro Paparatti, un’amicizia dal lessico marinettiano”. Impossibilitata, per impegni col giornale “La Repubblica”, in suo nome ha letto la relazione la Professoressa Iole
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Niglia) - e Domenico Defelice, scrittore e direttore di Pomezia-Notizie. Moderatore è stato l’avvocato Vincenzo Barca, coordinatore Assessorato Attività Produttive, Personale e Politiche Sindacali della Provincia di Reggio Calabria. Nel suo intervento, Maria Frisina ha definito Geppo Tedeschi, per certi aspetti, “iperbolico” e ha confessato che, in gioventù, di lui aveva quasi un timore reverenziale. Secondo lei, è necessario approfondire ben tre aspetti della personalità tedeschiana, e ha auspicato che si arrivi subito alla intitolazione a Geppo Tedeschi della piazza antistante la sua antica abitazione. Il Sindaco ha ricordato Geppo Tedeschi come uomo di stato che ha rappresentato degnamente a Roma la sua città Oppido Ma-
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mertina. Il Dott. Giannotta ha evidenziato come Geppo Tedeschi sia stato impegnato nel campo sociale, quale, per esempio, podestà della stessa città, confessando che, finora, la stessa sia stata ingrata nei suoi confronti. Ha lodato il giovane Antonio Roselli, auspicando che possa eguagliare, in futuro, lo stesso Tedeschi, visto che, come lui, si è votato alla cultura. Il giovane Nuccio Gambacorta Morizzi, a questo punto, ha letto alcuni brani da Ruralismo calabrese (1942), di Geppo Tedeschi. Fortunato Aloi, dopo aver ampiamente trattato di Tedeschi e il Futurismo, ha stigmatizzato l’ormai celebre frase di un nostro politico, secondo il quale con la Cultura non si mangia, concludendo che Geppo Tedeschi non ha mai condiviso certi eccessi della corrente letteraria alla quale pure apparteneva. E’ stata la volta di Domenico (Mimì) Frisina a leggere poesie di Geppo Tedeschi. Antonio Roselli ha precisato che Geppo Tedeschi si colloca in una fase storica della nostra poesia e che, per certi aspetti, viene influenzato dal decadentismo e dal futurismo. Il poeta ha dovuto però vivere il suo amore verso la Calabria e il proprio Paese, stando nella città di Roma, la quale è spesso disincantata e cinica. Tedeschi era stanco della vita cittadina. Susanna Paparatrti (relazione letta da Iole Niglia) ha ricordato come suo padre, Sandro Paparatti, ha avuto un rapporto assai amichevole e fraterno con Geppo Tedeschi e come entrambi erano rimasti innamorati, pur vivendo a Roma, del proprio paese e della Calabria. Qui, di seguito, riportiamo l’intervento del nostro direttore Domenico Defelice, che ha chiuso il Convegno. Sala gremita e attenta. Ricordiamo solo la presenza del prof. Vincenzo Russo, venuto da Polistena (RC) - appena andato in pensione da Direttore della Biblioteca Comunale della sua Città - e del prof. Nicola Catalano, di Cannitello (RC), scusandoci con tutti gli altri che avrebbero meritato uguale citazione. (n.s.p.)
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GEPPO TEDESCHI E IL SILENZIOSO TRENO DEI RICORDI di Domenico Defelice
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L profilo di Geppo Tedeschi lo troviamo netto nei suoi stessi versi. Sentiamolo: “Era magrigno e spesso si incantava, come un ragazzo seduto davanti a una bella favola”1. E’ quanto lui ha scritto per un ritratto di artista, ma gli calza a pennello. Noi così lo ricordiamo, esile e svagato, per le strade più vecchie e intime di Roma, quando ancora, negli anni sessanta, esistevano le botteghe degli artigiani e si udiva il rumore della loro inesausta operosità. Erano quelle le strade che più amava, perché gli ricordavano gli artieri del proprio paese: falegnami, fabbri, cordai, meccanici, saldatori, orologiai. Lo incontravamo spesso alle fermate dell’ auto, come quel lunedì 3 ottobre 1966 nei pressi della Stazione Termini, un po’ piegato, il cappello a sghimbescio che lo faceva apparire quasi un punto esclamativo rovesciato e artritico; o - parecchie altre volte (insegnavamo, allora, all’Istituto Nuova Italia di viale delle Province) -, a piazza Bologna, seduto a un tavolino sul marciapiede, di fronte al bar. Non consumava, né lo interessava il traffico e il vocio dei passanti. Navigava con la fantasia per le campagne della sua Calabria e si notava benissimo che “Sul ponte della fronte” gli caracollava “silenzioso/il treno dei ricordi”2. La sua mente di poeta viveva un eterno galoppo, portata a tutto esasperare, a dilatare ogni cosa. Stava sempre concentrato al massimo, in cerca di un verbo, un aggettivo, una parola che dessero il là a un suo verso lapidario, che esprimessero pienamente l’immagine che gli cavalcava la mente come un cavallo imbizzarrito. Diceva che impiegava, a volte, anche mesi in un tale esercizio, prima di sentirsi appagato. Amava stare all’aperto, la fantasia sempre a navigare nell’azzurro, come il vento, gabbia-
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no senza pace. L’amore, verso il sole e il giorno, in lui era più intenso di quello che portava a suo Padre e, addirittura, più di quello che riservava alla Poesia, dalla quale si sentiva costantemente abbracciato3. Ma, l’amore verso il sole, è amore verso la Natura e, Tedeschi, quest’amore l’ha professato fino a quando non ha chiuso definitivamente gli occhi. Anche in una delle sue ultime opere: Non chiudete i cancelli, egli lancia un invito/ preghiera polisignificante a tutti noi: che non chiudiamo mai la mente e l’anima alla bellezza che ci circonda, alla tenerezza del Creato, ma anche alla fraternità verso coloro, che, con noi, il Creato condividono e, ancor di più, alla luce e alla speranza. Un invito utopia. Un invito a lasciar libera l’immaginazione, perché galoppi sfrenata lungo le praterie del sogno, senza il quale la vita non può mai essere del tutto apprezzata. E questo ci viene suggerito, dal Tedeschi, attraverso un termine tra i più poetici e squillanti: il cancello, anch’esso polisignificante, evocante limite, prigione, sbarre e, perfino come voce verbale -, cancellazione di tutto ciò che sta oltre; ma anche il bello metafisico e il mistero, il non conosciuto e il desiderato. Tramite la metafora del cancello, l’uomo può crearsi immensità soavi nelle quali dolcemente e leopardianamente naufragare, o popolate di mastini ringhianti, di mostri e fantasmi terrificanti. Il cancello porta a spazi imprigionati, a celle, a cimiteri, a territori che serrano il popolo dei morti. Non chiudere i cancelli di questi luoghi, è lasciare ai morti un legame con la vita, una metaforica via di fuga, è non farli sentire isolati in eterno, ma è anche un invito ai vivi perché vadano spesso a trovarli e a parlare con loro, perché “i morti - come scrive Gianni Rescigno - non si lasciano soli”. La verità è che, per i poeti, non esistono i morti. Lo stesso Tedeschi, non ha, forse, nel 1932, scritto e pubblicato “La terra dei vivi”? Termini altamente poetici, come cancello, sono, per Tedeschi, anche vento e gabbiano. Il vento è un gabbiano. Ma, gabbiano e vento,
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nel contempo, sono la sua fantasia, sempre librata al di sopra delle tante miserie che travagliano i poveri cristi. Egli ama fasciare di tenerezza e d’ironia i suoi, a volte, ingenui personaggi. Il servitore, al quale il vento leva di continuo il cappello, raccoglie e trasporta sassi per fracassargli la testa! Il sorriso e il divertimento del vento sono il sorriso e il divertimento del poeta. Perché Tedeschi l’abbiamo incontrato quasi sempre sorridente, pieno di bonomia. Era un positivo. Ma, anche nel dolore, o nella mestizia, c’era sempre nei suoi occhi un brillio come l’apertura di un flash e sulle sue labbra una virgola, un tic, che diluivano e stemperavano ogni cosa. L’interno di un palazzo non può essere abitato dal gabbiano o dal vento. Così, i versi più belli, egli soleva crearli per strada, lungo la quale se ne andava assente alla folla e ai rumori. La casa - diceva - gli assassinava l’estro. E a ragione, forse. Le tante volte che siamo andati a fargli visita, da soli o con l’amico comune Rocco Cambareri, abbiamo trovato quasi sempre un ambiente movimentato e non solo per un piccolo e, per noi, antipatico cane che ci abbaiava a mitraglia dall’inizio alla fine.... Un po’ di confusione, insomma. Più di una volta ci siamo sentiti a disaggio e abbiamo affrettato la fine dell’incontro. Lui non perdeva mai la calma, fingeva d’ignorare il trambusto, sorrideva, muovendosi agile e saltellante come un fringuello. Per le strade di Roma, Tedeschi respirava appena, riposava, come “il gregge delle pietre/del ruscello”4 della sua Calabria, sognata più che reale. In quei momenti d’apnea, la folla chiassosa e caotica cessava di avere voce e movimento, proprio come i sassi del suo fiume. Diceva che, quando a casa non ne poteva più, afferrava pennello e colori e dava colpi arrabbiati sulle tele. Colpi quasi futuristi, pennellate rabbiose dalle quali scaturivano paesaggi tragici, di austera bellezza, o il “Complotto in Aspromonte”, o, disoccupati disperati, o, vecchi abbandonati e privi di
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pensione e d’assistenza, bambini malnutriti, capelloni, esaltati da alcool e droghe, miserabili, spiantati, disabili: insomma, una società di emarginati ch’egli sparava sulla tela per calmare il proprio tormento interiore. Lui, che aveva conosciuto Boccioni e Viani, usava la pittura come farmaco per fluidificare la disperazione. Di Segantini asseriva che le “tele più belle” le avesse create “sulle montagne, come i canti, corali, degli alpini”5; lui, nell’appartamento di via Livorno, creava tele rapide e, all’aperto, i ritratti poetici dell’aratore, del famiglio, del boscaiolo, del pastore e di un mondo bucolico nella realtà ormai quasi scomparso, popolato di lucciole, cavalli, fringuelli, lucertole; e profumi, e canti e nenie e melodie. Quasi sempre, nel piccolo andito dove ci riceveva - non abbiamo mai visitato il resto della sua casa -, apriva, sopra un tavolinetto, una grossa cartella, da lui denominata “Barabissaglio” e ci leggeva le ultime composizioni o le bozze dell’articolo che andava preparando per Il Secolo d’Italia. Per lui, quella cartella sostituiva il classico cassetto e ci domandiamo se ancora esiste e se siano rimasti degli inediti in quella specie di voluminoso e caotico raccoglitore. Politicamente eravamo distanti, ma ci portavamo reciproco rispetto e di politica parlavamo raramente. Lui era di destra e collaborava a testate legate a quell’area. Noi, in quegli anni, scrivevamo su giornali quali Libertà e Lavoro, Il Corriere di Reggio, La Voce di Calabria, La Voce del Mezzogiorno Il Gazzettino del Jonio, il veneziano Minosse, e, in particolare, su La Procellaria, la bella rivista reggina fondata e diretta da Francesco Fiumara e che aveva come motto: “Noi terremo accesa la fiaccola della ribellione contro la disparità, l’ ingiustizia, l’asservimento, e saremo orgogliosi di far ciò anche nel campo letterario e artistico... ché anche questo è umanesimo”. Ci rispettavamo perché anche lui, legato al Movimento Sociale Italiano, in realtà, nel pro-
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fondo del cuore, credeva agli stessi principi. Negli ultimi anni non nascondeva d’essere stanco della realtà e della società e non soltanto della politica. Vedeva il mondo sempre più incrudelito, egoista, rapace e si radicava con sempre più forza nella vana utopia della Natura. Si sforzava di credere ancora che tra i contadini, i pastori, nei campi, nei boschi, ci fosse un barlume d’umanità: “Facciamo tutti di tutti i metalli strumenti da lavoro, aggioghiamo agli aratri le colombe e seminiamo amore”6. Versi belli, ma ormai privi dei ritmi e delle armonie d’un tempo. Si illudeva - consapevole - che quell’ ambiente fosse ancora vivo, perché in esso era nato; non voleva, né poteva, rinunciare al sogno, perché, da esso, aveva tratto le più belle immagini. Tedeschi è poeta che attrae, infatti, anche per la sua elegia agreste. Fuori della campagna e dei campi - “Nel vanare”, come scrive con espressione affabulante e seduttiva -, egli si sente smarrito, perso al par del contadino inoperoso, frastornato, travagliato come nave che beccheggia, in balia della tempesta e del fato; lo stesso aratore, invece, in attività, nel suo mondo, è talmente sicuro di sé da fare, del lavoro dei campi, un meraviglioso “ricamo”, una vera e propria opera d’arte7. Non è giusto e si rischia di venire fraintesi, definendo Geppo Tedeschi poeta campagnuolo. Ma è da quel rustico ambiente che gli vengono le figure più subitanee, i flash che impressionano attimi, come lo svampare dei sarmenti che illumina “Il gatto, il fuso,/il volto della vecchia”8 raccolta intorno al camino. E’ solo quello lo stato in cima ai suoi pensieri, il mondo agricolo-pastorale e, per l’ ambiente rurale e le sue fatiche, le sofferenze millenarie - le sole umane -, hanno compassione perfino le case e gli astri. Si pensi al giorno, il quale, avendo pietà dei mietitori, stanchi morti, sfiancati da tante ore sotto la
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calura, decide finalmente di tramontare e di mandarli a casa, chiudendo così i battenti e facendo “punto e basta”9! Tedeschi è poeta moderno eppure classico. Basta unire due dei suoi versi per ottenere un sonante e solare endecasillabo: “Si fermò un poco/dietro le montagne” (sono due versi da “Luna campagnola”10); “Vampe su vampe,/respirando appena” (due versi da “Pomeriggio agostano”11); “Sei ricco di speranze/quando sorgi” (due versi da “Al sole”12); “questa bruciante/siccità d’agosto” (due versi, infine, di “Tra carezza di pioggia”13) ... Classicità di chiarezza e d’armonia: chiarezza mai venuta meno, smalto un po’ appannato nell’ultima produzione. Ma il solo smalto è formalità. Ascoltiamolo nella bellezza delle chiuse: “Gli si dava riposo a giorno estinto. Lo svegliavano, in fretta, a mattutino. Fu taciturno sempre. Ebbe a compagni, la raganella e il grillo del mulino”. (Garzoncello di mugnaio14); “Smetteva di lavorare quando il globo del sole, rosso rosso, pareva cadergli addosso. Fu, sempre, brontolone. Come un fidato cane amò il padrone”. (Famiglio15). Questa armonia si attenua nelle composizioni più recenti, sopraffatta dal sociale. Ascoltiamolo in “Vecchia via romana”16: “E’ già alta la luna e ancora batte il vecchio fabbro. Tinni tinni tinni. Signore, non è giusto, non è giusto”.
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Ed ecco “Consiglio di contadino”17: “Lascia i perigli della via maestra, e imbocca, in tutta fretta, quel sentiero zighizzagante, e in meno di mezzora giungerai, sano e salvo, alla frazione”. Niente più svampate, insomma, ma, qua e là, carboni spennellati dalla cenere degli anni, o dalla pietà. Perciò riteniamo meno solare l’ultima sua produzione e un errore, solo dal punto di vista della estetica, alcuni suoi rimaneggiamenti di vecchie composizioni. La classicità della poesia tedeschiana non siamo stati solo noi a rilevarla con l’ accostarla a quella di Leonida da Taranto. La somiglianza tra i calabrese e il tarantino la si riscontra, in particolare, nei protagonisti dei loro versi, vecchi macilenti e contemplativi in entrambi, privi di grandi ambizioni, amanti non della ricchezza e del lusso, ma della luce e della campagna rigogliosa e profumata. Sotto un albero che, attraverso le foglie, filtra in filigrana la luce del sole; nel folleggiare degli insetti, il cui appena percepibile ronzio sembra soltanto un componente del silenzio, gli ascetici dei due poeti si saziano di un solo piccolo tozzo di pane e si abbeverano con una sorsata alla fonte che gorgoglia o alla serpeggiante corrente del ruscello e si sentono beati. Beati si addormentano. A volte, anche muoiono beati. Il bovaro, di Leonida, termina i suoi giorni sotto una quercia; il viandante, di Tedeschi, si spegne sotto un olmo. Il Tèrite del tarantino sembra un lumicino mentre, nel misero capanno di giunchi, cessa di far luce per mancanza d’olio; il pescatore tedeschiano chiude gli occhi sopra una rete piena solo di malasorte e di lichene. A noi non sembra ci siano nobili, gente di sangue blu, nei versi del Tedeschi e non siamo stati gli unici a definirlo poeta delle piccole cose e degli umili.
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Ma - abbiamo sempre precisato -, non si deve fraintendere, perché pure i crepuscolari furono detti tali, e questi, però, abbassavano, a piccole, anche le cose grandi e straziavano qualunque personaggio. Così, per loro, il re non era che un saltimbanco, la regina aveva i capelli di stoppa e la reggia non differiva da una misera stamberga. Quelli di Tedeschi, non sono nobili umiliati - di nobili, nei suoi versi, ripetiamo, non se ne incontrano -, ma piccoli personaggi davvero, dall’animo e dal cuore grandi: contadini, pastori, pescatori, carpentieri, cenciaioli, mendicanti, che poeti e pittori sanno isolare nel loro misero mondo, in mezzo alle piccole cose, nelle comuni vicende di ogni giorno e, in tal modo, ravvivati, riscaldati, innalzati per la divina potenza dell’arte. Tedeschi, anche con la penna, è un luminoso pittore e mette a fuoco e valorizza personaggi e cose che, per la gran massa degli uomini, naufragano nelle più banali normalità. La storia, che interessa Tedeschi, è la storia degli umili. Era sempre felice e consenziente quando lo invitavamo a qualche incontro (come con il poeta e pittore Eleuterio Gazzetti, venuto a Roma da Sozzigalli di Soliera il 2 giugno del 1969) o a qualche pomeriggio culturale (all’ Antenna Letteraria, per esempio, diretta, in quegli anni, dal siciliano dott. Rosario Lo Verme). L’Antenna era ospitata nella Sala degli Specchi del celebre Caffè Fassy, sul Corso d’Italia, nei pressi di piazza Fiume (la stessa proprietaria del caffè, Fernanda Regalia Fassy, era una brava poetessa, dal verso squisitamente classico). Ed è a Piazza Fiume che abbiamo avuto il primo incontro, assieme a Tedeschi, con Sandro Paparatti. Entrambi, avevano intenzione di mettere su una rivista, della quale dovevano essere direttori editoriale e responsabile; noi dovevamo far parte del Comitato di Redazione. Il progetto, poi, non venne realizzato (non ne abbiamo mai chiesto i motivi, anche perché, nel settanta, ci siamo trasferiti a Pomezia, mettendo su, nel luglio del 1973, il mensile Pomezia-Notizie, trasformandolo, poi, nel 1990, in rivista lettera-
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ria, con l’aumento delle pagine, ma riducendolo nel formato). Negli anni sessanta, Tedeschi era assai attivo. Tra l’altro, faceva parte di Giurie e presiedeva quella del Premio Astra. Non l’abbiamo mai sentito sparlare di alcuno, neppure di chi riteneva una assoluta nullità. Alle nostre provocazioni, si manteneva nel vago, sorrideva, cercando di svicolare; ma, messo alle strette, rispondeva con battute taglienti, lapidarie, come quando, presentandogli L’Aurora - periodico fondato, a Roma, da un comune amico calabrese, l’Editore Vincenzo Lo Faro -, con insistenza, chiedevamo il suo parere sul contenuto, sul taglio, sulla prospettiva di vita della rivista: “Avremo, fra poco, il tramonto!”, sentenziò secco. E tramonto fu, assai presto. Chiudiamo con un aneddoto, raccontatoci, il 27 maggio 1966, dal portiere del palazzo di via Livorno: “L’altra sera, Geppo Tedeschi, rientrando a casa, prese, come al solito, l’ascensore. Entrò, chiuse la porta e premette il pulsante. L’ ascensore non si mosse. Premette ancora: niente! Provò e riprovò con forza e a lungo, ma l’ascensore rimase inchiodato. Al colmo della rabbia, uscì e mi chiamò. “Ma cosa fa lei qui, tutto il giorno, se non si accorge neppure che l’ascensore non funziona e non provvede a metterlo a posto?” “Sono sceso da poco dal terrazzo, dottore, e l’ascensore funzionava benissimo”. “E io le dico che non funziona! E’ quasi un quarto d’ora che tento di farlo partire, inutilmente”. “Impossibile, l’ ascensore funziona. Ci riprovi, Dottore”. Rientrò in cabina, rosso dalla bile, richiuse la porta e, guardandomi attraverso il vetro e continuando a gridarmi: “Le dico che non funziona, non funziona!”, premette il tasto e l’ascensore partì a razzo. Per tutto quel tempo - concludeva ridendo il portiere -, Tedeschi aveva premuto il pulsante di Terra!”. Ancora oggi ci domandiamo se, per caso, pure la mente del portiere di via Livorno, come quella del caro Geppo, che lì abitava, non fosse un cavallo imbizzarrito, in perenne galoppo!
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Quasi tutte le poesie di Geppo Tedeschi sono epigrafiche. Ma lo sono anche quasi tutte le sue lettere. Nel 1970 - come già ricordato da Roma ci siamo trasferiti a Pomezia. Abituato che lo incontrassimo più di una volta a settimana, accolse il fatto con sofferenza, gli sembrava che l’avessimo abbandonato, dimenticato. Lo dimostrano le sue lettere, come quelle che qui, ora, vogliamo donare alla Associazione che porta il suo nome. E siamo certi che a Geppo farebbe piacere se, almeno una volta, non si facesse un convegno su di lui al chiuso, ma sopra una verde collina, magari seminata a grano e rosolacci. O, forse, basterebbe, anche, che, semplicemente, all’aria vespertina d’una giornata limpida, si leggessero, come preghiere, le sue tante liriche campestri. Non dimenticatelo, non dimentichiamolo: lui era poeta che amava stare all’aperto. Oppido Mamertina (RC), 28 dicembre 2013 Domenico Defelice 1 - “Artista”, a pag. 22 di E’ un gabbiano senza pace il vento - Presentazione di Augusto Giordano, nota critica di Maria Teresa Santalucia Scibona Edizioni Bresciane, 1990 - pagg. 40, L. 5.000. 2 - “Sul ponte della fronte”, idem, pag. 23. 3 - “Splendi e risplendi”, idem, pag. 37. 4 - “Pomeriggio agostano”, idem, pag. 24. 5 - “Montanaro Segantini”, idem, pag. 25. 6 - “Non vediamo che sangue”, idem, pag. 27. 7 - “Orgoglio di contadino”, idem, pag. 29. 8 - “Caminetto campestre”, idem, pag. 30. 9 - “Erano tanto stanchi”, idem, pag. 33. 10 - In E’ un gabbiano senza pace il vento, pag. 16. 11 - Già citata, pag. 24. 12 - Idem, pag. 34.
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13 - Da La Nuova Sorgente, n. 3 (maggio-giugno 1962). 14 - Da “Trenta liriche epigrafiche”, in Canne d’organo - Gastaldi, Milano, 1951. 15 - Idem. 16 - In E’ un gabbiano senza pace il vento, pag. 11. 17 - Idem, pag. 36.
SEI TU QUEL PETTIROSSO a Geppo Tedeschi Eccomi. Chi l’avrebbe mai detto, dopo vent’anni, a parlare di te, nella tua terra e mia, nel tuo Paese! Appena sveglio, in albergo, dalle persiane socchiuse, udire m’è sembrato il verso d’un fringuello. Sei tu, lo sento. Sei tu che mi saluti. Sei tu quel pettirosso che la sua danza esegue sopra il pruno deserto. Sei tu e il borbottio dei colombi il nostro antico conversare. E’ vero. L’inverno è appena incominciato e tu non ami il chiuso d’una stanza. Ma sopra la collina di già s’agita il vento e la campagna verde freme sotto la volta d’azzurro screziato. La stagione s’appressa propizia, il cielo a pregare coi tuoi veri, fra rosolacci e grano. Domenico Defelice Oppido Mamertina (RC), 28 dicembre 2013. Nella foto: Nuccio Gambacorta legge poesie del Tedeschi. Al tavolo, da sinistra: Aloi, Frisina, Barca, Roselli, Defelice.
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GIUSEPPE BONAVIRI in un volume a cura di SARAH ZAPPULLA MUSCARÀ di Carmine Chiodo
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L libro collettaneo sullo scrittore di Mineo (CT) Giuseppe Bonaviri (L’eredità letteraria di Giuseppe Bonaviri, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, la Cantinella, Catania 2013) è curato da Sarah Zappulla Muscarà. Professoressa ordinaria di Letteratura italiana nell'Università di Catania, autrice di moltissime pubblicazioni di pregio è anche una delle massime studiose dell'opera di Luigi Pirandello. La Muscarà si è occupata di moltissimi autori siciliani sia antichi e sia moderni e contemporanei, e con alcuni di quest'ultimi ha avuto rapporti d'amicizia e culturali. Tra questi il poeta e lo scrittore e il saggista, il giornalista Giuseppe Bonaviri (1924-2009), autore di tantissime raccolte poetiche e opere narrative, tradotte in varie lingue estere. Candidato al Nobel, sulla sua opera esiste una sconfinata bibliografia e senza alcun dubbio nella narrativa contemporanea lo scrittore cardiologo siciliano (ma vissuto per tanti anni a Frosinone ove svolse l'attività di cardiologo) occupa un posto di assoluto rilievo. Come già ho avuto occasione di dire lo scrittore nasce in un paese del catanese, molto presente nella sua narrativa: Mineo (detto Menre dai Siculi, Menàion dagli Elleni, Menae dai romani, Qalàt-Minàw dai saraceni e i suoi abitanti Minèi). A proposito del suo paese lo scrittore ha scritto: "Mi raccontava mio nonno, Salvatore Casaccio, panettiere e padre di mia madre, che se le campane delle chiese suonavano, come in occasione di grandi festività, all'unisono, da queste si partivano flussi sonori - i più delicati considerati di natura femminile, e i più forti maschili - che, se il vento levante o il tramontano fossero stati favorevoli, erano trasportati dall'altura del paese, o dai contadini vicini per valle vallette, per burroni e siepi di fiori detti di maggio, o salivano per picchi e montuose catene, spandendosi per decine di chilometri verso i paesi
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vicini di Vizzini, Militello, Grammichele, Caltagirone, Palagonia, Licodia Eubea, dove i contadini e gli stessi artigiani restavano muti ad ascoltare." Ho citato dall'opera bonaviriana L'infinito lunare del 2008. Bonaviri è senz'altro tra le voci più singolari del Secondo Novecento. Nel marzo (il 19), giorno dedicato a San Giuseppe, presso la casa della Cultura di Palazzo Platamone di Catania, erano in tanti ad attenderlo per festeggiare la riedizione del suo giovane romanzo, a lui tanto caro, La ragazza di Casalmonferrato. Ma lo scrittore in quell'occasione non fu presente e difatti qualche giorno dopo, il 21, Bonaviri già lungamente provato dalla malattia, ci ha lasciati, ma "non siamo rimasti orfani, eredi come siamo di un inestimabile patrimonio, letterario e a un tempo umano" ( Giuseppe Castania, L'eredità di un figlio illustre, in questo volume che sto analizzando, p. 59). Il libro raccoglie gli scritti che si riferiscono al Convegno Internazionale di studi su Bonaviri, tenutosi a Mineo il 18 e il 19 dicembre del 2010. Ecco i loro titoli: "Il già citato Giuseppe Castania, L'eredità di un figlio illustre, Sarah Zappulla Muscarà, "Tra mandorli in fiore", Maria Attanasio, esistenza e nominazione (nota in margine a Il dire celeste), Dominique Budor, La sincerità etica di Giuseppe Bonaviri, medico-scrittore, Biagio D'Angelo,"Siamo tutti usciti dal "Cappotto" di Gogol" anche Bonaviri, Loreta de Stasio, Giochi metalettici nel primo Bonaviri, Dante Marianacci, Luzi e Bonaviri:un'amicizia a distanza di vite parallele, Massimo Maugueri, La ragazza di Casalmonferrato di Giuseppe Bonaviri, Teodora Nicolewta Pascu, Figure femminili e memoria autobiografica ne Il sarto della stradalunga di Giuseppe Bonaviri, Maria Valeria Sanfilippo, Giuseppe Bonaviri e la magia della fiaba: al di là della realtà, al di qua della fantasia, Domenico Seminerio, Il sarto della stradalunga di Giuseppe Bonaviri, Massimo Struffi, L'eredità di Giuseppe Bonabiri, Domenico Trischitta, Silvinia di Giuseppe Bonaviri, Enzo Zappulla, Bonaviri giornalista, Andrea Tricomi, La primavera, "ondata di magia, di
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luce, di petalizzazione". Nel suo illuminante intervento critico la Zappulla Muscarà (la studiosa ha dedicato allo scrittore vari studi e in collaborazione con Enzo Zappulla una esaustiva monografia) chiarisce molto bene quale ruolo ha avuto il suo paese Mineo nella narrativa di Bonaviri e l'importanza di tutta la sua opera. La studiosa nota che dal realismo magico delle origini al favoloso, all'elegiaco, al picaresco, al dionisiaco, al drammatico, al surreale, lo scrittore " intona un canto alla terra-madre nel quale sono evocati l'Ellade e il mondo saraceno, il variopinto e glorioso palcoscenico dell'opera dei pupi e quello umbratile e tenace degli uomini comuni. Scrittore sine exemplo, uomo di scienza dotato di habitus pragmatico e fanciullo in grado di percepire le segrete energie della natura ed il tenuo alitare delle cose, arroccato nelle memorie del natio luogo e insieme proiettato verso una dimensione panica, Giuseppe Bonaviri esorcizza la morte, 'aspura nera', valicando le barriere del tempo e dello spazio, sublimando la materia. La vita infatti consiste e si eterna nelle sue infinite possibilità di essere" (p. 9). Parole che rendono alla perfezione il senso dell'arte di Giuseppe Bonaviri che - come ancora osserva la studiosa - " più volte nella rosa del Nobel, autore di oltre quaranta volumi (fra romanzi, racconti, poesie, saggi, opere teatrali), tradotto nelle principali lingue, Giuseppe Bonaviri per quell'allegria fantastica straordinaria', per quell'invenzione e libertà continue' di temi e di lingua, di cui parla Italo Calvino, è da annoverare tra i classici" (p. 10). Nella sua narrativa è presente ovviamente la sua Sicilia e al riguardo si citano per esempio le Novelle saracene, di cui uno studioso (Franco Zangrilli) ha scritto: "La Sicilia delle Novelle saracene è una Sicilia arcana della storia millenaria (siculi, greci, romani, arabi, normanni, francesi, spagnoli), nella cui cultura si sono aggregati tutti i miti dell'umanità, i quali ora si presentano in veste nuova, in seguito a nuove combinazioni di loro elementi compositivi, inclusi 'il tempo e lo spazio' (...) di Bonaviri (...) il tema del tempo è una delle componenti più costanti, più fecon-
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de, più universilizzanti". Comunque Giuseppe Bonaviri è uno scrittore molto originale per temi e per linguaggio, quest'ultimio sempre chiaro e cristallino. La sua narrativa riflette la sua cultura (scientifica e letteraria), le sue esperienze, il suo mondo interiore. Bonaviri è di quegli scrittori che guarda non solo la terra ma pure il cielo e non dimentica mai la sua terra, il suo paese, l'infanzia li trascorsa, i suoi genitori, il padre sarto, la madre, i suoi figli, la sua famiglia e antenati. Vasto e significativo è l'universo immaginario di questo scrittore intimamente e ineludibilmente "siciliano, partecipe senza pentimenti di quel mondo che egli descrive, anche quando s'è dedicato alla scienza, anche quando ha cumulato altre esperienze e altre filosofie di vita." (p. 96, le parole sono dello scrittore Domenico Seminerio). Come già detto lo scrittore ci ha lasciati nel marzo del 2009 ma prima di morire il 23 marzo del 2009 vede la luce sul "Corriere della Sera" l'ultimo articolo che lo scrittore aveva inviato al quotidiano di via Solferino. Primavera un'ondata di vita in cui rinasciamo. Lo scrittore era felice tutte le volte che vedeva apparire la sua firma su questa testata e poi teneva molto alla sua attività giornalistica, saputa ben indagare in questo libro da Enzo Zappulla. Comunque non è certamente un caso -come osserva Andrea Tricomi, p111- se Bonaviri sia scomparso il giorno dell'ingresso della primavera, la stagione da lui più amata, a cui è dedicato l'ultimo suo sofferto articolo, scritto quando aveva perduto la vista, distrutto dalla malattia ma grato a "Iddio che ci ha concesso di vivere questa fetta di realtà cosmica e multirigenatrice", poeticamente proiettato in quell' "ondata di magia, di luce, di petalizzazione "che è poi la "caratteristica fondamentale della primavera". Ecco alcuni passi dell'articolo: "La primavera è la stagione in cui tutto rinasce, tutto si risveglia come da un sonno profondo . (...) La mia prima memoria della primavera è la presenza in tutto il territorio di Mineo di una grande successione di petali che si alzavano dagli alberi e portati dal vento si posavano sui balconi, sulle finestre o con leg-
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giadria estrema sui capelli dei contadini che andavano a cercare, lungo l'intreccio delle vie, un posto per sedersi al sole mangiando del pane casereccio con una felicità che si diffondeva dai loro occhi. Nel mio ricordo, i petali che avevano maggior fascino erano quelli dei mandorli; per la loro estrema bianchezza davano il senso di un Dio che ci trascendeva e nel nostro animo profondo ci portava il senso di una deità sconosciuta". Ed ecco la conclusione: "Vivendo noi sotto questa enorme cupola galattica dobbiamo essere felici che arrivi questa ondata di magia, di luce, di petalizzazione che resta, checché si dica, la caratteristica fondamentale della primavera". Colgo l'occasione che da non molto è apparso sullo scrittore mineolo-frusinate un chiaro e importante volume scritto da Camilla Pulcinelli (che è una finissima analisi della "poetica scienza" dell'opera dello scrittore e poeta Giuseppe Bonaviri in cui medico e scrittore sono fusi e sono intercorrenti tra di loro e formano un blocco unico e ciò dà maggior valore e fascino all'opera di un autore che non amava i salotti ma lavorava in silenzio e sodo e ci ha lasciato opere ancor oggi valide e interessanti, attuali per ciò che dicono e come lo dicono. Carmine Chiodo
AD UN MANICHINO Inchiodata alla vetrina, Signorina, tutto il giorno guardi attorno quell’eterna visuale sempre uguale: quattro case, la piazzetta con la vasca e con le aiuole; facce tristi, facce liete e l’abete col pinnacolo che svetta ora al nembo ed ora al sole. Dal tuo carcere di vetro grigio e tetro, guardi i piedi al marciapiedi; quale inedia, quale affanno:
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dove vanno? E ti pare che ci sia qualche cosa oltre la svolta, qualche cosa che non sia, una via, una casa, un alberello, un ridente o mesto volto, sotto un raggio od un ombrello? Rosa Frisina (Taurianova, 3 settembre 1916 - Oppido Mamertina, 19 luglio 2007) da: Miraggio Statico, silloge a cura di Mimì Frisina e Antonio Roselli, Ed. Barbaro, 2011.
DESPUÉS DE LA NAVIDAD ¡Se acabó! Terminó la fiesta, el Viejito Pascal ha pasado con su bolsa de cosas inútiles, dejando algunas bajo el árbol iluminado. Mis pensamientos están cansados de desear falsas "Santas Navidades" llenas de falsa paz y falso amor... Mi ser está cansado de pasar por el comercio insoportable donde todos tienen neurosis, están estresados, locos, como si tuvieran una cuerda en el cuello. Se acabó la farsa, pero el año pasa rápido, y ¡luego estaremos otra vez en el comercio navideño! Teresinka Pereira USA
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 30/12/2013 Laura Boldrini dichiara che, nei “giorni di pausa” da Presidente della Camera, si dedica ai suoi gatti, diventati due proprio nelle feste natalizie. Alleluia!| Alleluia! Ormai, i politici si dedicano solo a cani e gatti - ai loro simili, insomma -, trascurando del tutto gli Italiani che, oppressi e immiseriti, sempre più si suicidano. Domenico Defelice
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L'ATOMISMO DI EPICURO E DI LUCREZIO PIACE MOLTO ALLO SCIENZIATO ATEO PIERGIORGIO ODIFREDDI di Luigi De Rosa
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ELLA vita del poeta-filosofo Tito Lucrezio Caro non si sa quasi niente, a parte che sarebbe nato nel 98 avanti Cristo a Pompei (o Ercolano, o secondo altri a Roma) e sarebbe morto, a Roma, nel 55 a.C. (ma secondo san Girolamo nel 50). Comunque egli viene citato, negli anni successivi, da molti autori, oltre che da Cicerone, e cioè da Marco Aurelio, Seneca, Vitruvio, Ovidio, Quintiliano, Plinio il Vecchio, per avere scritto il poema didascalico dal titolo De rerum natura ( Sulla natura delle cose). Poema che avrebbe reso il suo nome famoso nei secoli. Un cenno sulla sua vita si trova in san Girolamo ( Chrònicon) secondo il quale nel 94 a.C. “nasce il poeta Tito Lucrezio che, divenuto folle per un filtro d’amore, dopo aver scritto negli intervalli della pazzia alcuni libri di cui Cicerone curò poi la pubblicazione, morì suicida nel quarantaquattresimo anno di età”. In una lettera inviata da Cicerone a suo fratello Quinto nel 54 a. C. (Ad Quintum fratrem) prima di accingersi a editare l’opera di Lucrezio, c'è la conferma del fatto che l’ opera esistesse e che della stessa si occupasse Cicerone in persona. Ma non esiste conferma
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del fatto che Lucrezio fosse impazzito a causa di una pozione afrodisiaca, e tanto meno che si fosse suicidato. Probabilmente queste due circostanze sono state introdotte da san Girolamo per screditare la figura di un poeta che univa, secondo Cicerone, una notevole abilità artistica ad uno splendido ingegno, ma che sosteneva e diffondeva, col proprio poema, le teorie atee, distruttrici di ogni religione, proprie di Epicuro e degli altri atomisti. La critica di Lucrezio, ovviamente, non poteva che appuntarsi contro la folla di Dei della sua epoca, dato che Gesù Cristo sarebbe venuto al mondo solo un mezzo secolo circa dopo di lui. Nel 98 (o 94) a.C. i Romani, al pari dei Greci, credevano in una florida ed eterogenea Mitologia, ma soprattutto in una folla di Dei che condizionava abbastanza la loro vita, pubblica e privata. Il “ De rerum natura” di Lucrezio è un poema composto di sei libri raggruppati in tre diadi. Esso illustra in forma poetica le teorie filosofiche atomistiche di Epicuro (specie nei Libri I e II.). Il I Libro si conclude con la trattazione dello spaventoso crollo del mondo a causa dell'equilibrio precario degli aggregati di atomi, che collassano senza rimedio. Alla terrificante epirosi dovrebbe fare seguito un' immensa palingènesi. Nel III e nel IV Libro viene esaminata la natura dell'anima e delle sensazioni. Il V e il VI si occupano della formazione del mondo, della storia del genere umano e delle caratteristiche dei fenomeni naturali. Il poema nel suo complesso tende a dimostrare che tutto ciò che esiste (Mondo, esseri umani, Universo) è formato della stessa Sostanza infinita ed eterna, cioè di atomi che, muovendosi nel Vuoto, si aggregano e si disaggregano tra loro, generando, per mezzo del clinàmen (la parenclìsis di Epicuro) le varie cose e i vari eventi, soprattutto la vita e la morte. In tutto questo, gli Dei non c’entrano proprio niente. Quindi, non ha nessun senso il
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vivere nell'angoscia e nel timore degli Dei e della Morte. Le religioni, per Epicuro (e quindi per Lucrezio) ottundono l'intelligenza dell'uomo, ne impediscono la piena realizzazione e lo fanno vivere perennemente nell'infelicità, nel dubbio e nella paura. Tutto sarebbe nato, per aggregazioni spontanee, dal calore e dall'umidità dei primordi della Terra. Nulla nasce dal nulla, né finisce nel nulla, ma tutto si trasforma. Non c’è mai stata alcuna Creazione, non c’è nessuna Provvidenza, non c’è nessun fine o scopo. Gli Dei esistono, ma solo negli intermundia, e non si occupano né di questo mondo né dell’Umanità (figuriamoci dei singoli individui ! ). Gli Dei sono indifferenti, essendo indaffarati in tutt’altro (!). Quindi, come detto, l’uomo non ha più motivo di temere la morte, né un Aldilà che... non esiste. Ma il fatto che non esista un Aldilà non significa che, oltre ad un corpo, non esista anche un'anima. Dice infatti, Lucrezio: “ Così è difficile rescindere da tutto il corpo le nature dell'animo e dell'anima senza che tutto si dissolva. Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall'origine, si producono insieme fornite di una vita di eguale destino: ed è chiaro che ognuna di per sé, senza l'energia dell'altra, le facoltà del corpo e dell'anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente comuni spira dall'una e dall'altra quel senso acceso in noi attraverso gli organi”. Anche l’anima è composta di particelle indivisibili dette “atomi”, e quando l’uomo muore questi atomi si dissolvono nell’ Universo, per tornare, un giorno, chissà per quali vie e con quali forme, a far parte della sostanza vivente. Il che significa che l'anima esiste, ma non è immortale ( almeno, nel senso di anima individuale, personale e immutabile...). Ma mi rendo conto che siamo su un terreno molto “scivoloso”. Anche se ci mettiamo a discutere parola per parola non si arriva a nulla di certo e definitivo, accettabile da tutti. Non a caso ho detto “chissà per quali vie”, perché nella concezione atomistica domina la Necessità, è vero, ma non viene negata la Ca-
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sualità. Per cui ciò che appare è il risultato di uno scontro o fusione tra Necessità e Casualità. In fin dei conti, anche senza voler semplificare ad ogni costo ( ma in questa sede è necessario) atomismo significa materialismo e, in definitiva, ateismo ( spiegazione e interpretazione del mondo senza l'intervento di un Dio). La Teoria atomica, nata nell'antica Grecia, sia nella visione di Leucippo che in quelle di Democrito di Abdèra e di Epicùro di Samo, nega la distinzione tra immanente e trascendente, dal momento che tutto viene considerato immanente. Il più acceso avversario di questa teoria, già nell'antichità, fu il filosofo greco Platone, che, in nome del suo Idealismo, avrebbe voluto bruciare tutti i testi dei filosofi atomisti, per non farli giungere ai posteri. Anche Aristotele si dichiarò fermissimamente contrario all'atomismo, particolarmente a quello di Democrito. Le idee di Democrito, l'atomista più conosciuto, così come quelle degli altri atomisti, in seguito verranno combattute senza quartiere dalla Chiesa Cattolica, mentre verranno riprese da Galileo Galilei nel Milleseicento, secolo della nascita della Scienza Moderna. Ma torniamo alla Teoria Atomica di Epicuro, filosofo greco che era nato nel 341 a.C. a Samo da padre ateniese, per poi trasferirsi ad Atene ed aprirvi una famosa scuola di atomismo - in versione epicurea - chiamata, in greco, Il Paradiso, cioè “Il Giardino”. Come abbiamo visto sopra, la filosofia atomistica di Epicuro era, appunto, quella abbracciata e propagandata dal romano Lucrezio nel suo “De rerum natura”. Tra i punti deboli di questa concezione vi è , oltre alla spiegazione piuttosto vaga del clinàmen, la mancanza di uno scopo. Domina, in realtà, il Nonsenso, l’Inutilità di tanti sforzi. Si scacciano gli Dei da una parte ma si lascia spazio al Caos dall’altra, al pericolo incombente di un’Apocalisse che può distruggere tutto e tutti da un momento all’altro. Non
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si spiega la presenza, innegabile, del Male nel mondo. Si alternano, nella poesia di Lucrezio, paesaggi bucolici e felici ad altri terrorizzanti, con la descrizione degli effetti causati da elementi atmosferici in assoluta libertà. (Per Lucrezio gli eventi atmosferici sono spiegabili esclusivamente con le leggi della Fisica, e non con interventi divini). Noi uomini d'oggi sappiamo che gli stessi fenomeni ed eventi sono condizionabili e determinabili, pur se solo in parte, anche dall'attività ( o inattività) dell'Uomo che si crede il padrone della Terra e dell'Universo. Lucrezio incomincia con l’irridere gli uomini per le loro stolte superstizioni ma finisce poi col commiserarli per il loro destino comunque iniquo. Alla fine crede di trovare la soluzione: la tanto vagheggiata serenità e imperturbabile felicità non può essere raggiunta da tutti, ma solo da quegli uomini “aristocratici” che si isolano dalla massa. Nel finale dell’opera, Lucrezio, che non è solo un filosofo ma è anche un poeta, finisce col trepidare però per tutti gli uomini, rendendosi conto dell’assoluta impossibilità per ognuno di essi di penetrare il mistero, rivelatosi impenetrabile, della Vita e del Mondo. Ed è proprio qui che Lucrezio, come filosofo, si contraddice. E' proprio la constatazione della onnipotenza della Natura e della situazione miserevole e soggetta al Fato in cui nasce, vive e muore l'uomo, che viene da lui riconosciuta, anche se involontariamente, la presenza di un Mistero assoluto, inspiegabile e insondabile, che sovrasta l'uomo, il mondo e gli universi. Si tratta, come è evidente, di una concezione che pretende di spiegare tutto senza in realtà spiegare niente. Quanto ai poeti è assai difficile per essi (grandi, piccoli o...microscopici che siano, ma comunque poeti) dal loro punto di vista, una volta posti di fronte alla Natura ( non solo al paesaggio, ma a tutto ciò, vivente o non vivente, che non provenga dalle mani dell’ Uomo) accontentarsi di una visione secondo la quale ogni uomo, paesaggio, microbo, Universo, etc. siano fatti tutti della medesima
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sostanza, nati per puro caso... senza arte né parte. Soprattutto, senza nessun senso. Così come è difficile accettarlo anche per coloro che non sono poeti. Senza andare a ricuperare il Simbolismo, secondo il quale la Natura non è tanto quella che appare, quanto il “simbolo” di qualcos’altro, non ci si può accontentare di una visione così piatta e massificante. E’ vero che le Scienze, come la chimica, la fisica, la biologia molecolare, etc. dell’era moderna tendono ad “assimilare” tutto, ma non possiamo esimerci dall’obbiettare che alla Ragione (Ratio) non si oppone soltanto la Religione ( Religio). A parte il fatto che Ragione e Religione dovrebbero marciare di pari passo per aiutarsi l'un l'altra, perché hanno bisogno l'una dell'altra, è indubitabile che alla Nuda Razionalità si oppongono anche il sentimento, la coscienza, l’irrazionale e il passionale, il caso, la psicologia, le scale valoriali e la docimologia, l’esigenza teleologica disperata di uno Scopo, la necessità di distinguere tra un Bello e un Brutto, tra un Bene e un Male, tra un Relativo e un Assoluto. Di fronte alla massa dell’indistinto e dell’ indifferenziato, e alle minoranze “aristocratiche”, che capiscono e chiariscono tutto, facciamo meglio a stare all’erta, e a continuare nella ricerca instancabile. Recentemente il famoso libro di Lucrezio è stato tradotto dal latino, in prosa, per i i tipi di Rizzoli Editore, dal noto matematico Piergiorgio Odifreddi, sedicente ateo, che si è dichiarato entusiasta delle idee di Lucrezio e di Epicuro, esaltandone la modernità, la preveggenza stupefacente, la conferma della assoluta non necessità della religione per spiegare il mondo e l'Uomo. Ma qui occorrerebbe molto tempo, molto spazio, per parlare, anche se solo di sfuggita, del libro di Odifreddi “Caro Papa ti scrivo” e della lettera di undici pagine con la quale il Papa Emerito Benedetto XVI ha risposto, dalle pagine di Repubblica, allo scienziato, comprendendo le sue idee ma confutandole alle radici, punto per punto. Luigi De Rosa
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CARMINE CHIODO FORTUNATO SEMINARA e altri scrittori e poeti calabresi del Novecento di Domenico Defelice
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ON si può sintetizzare un volume così corposo e che abbraccia sei grossi nomi della letteratura calabrese del Novecento (Vittorio Butera, Corrado Alvaro, Fortunato Seminara, Mario La Cava, Lorenzo Calogero e Franco Costabile) e, di certo, la migliore recensione all’intero lavoro è l’Introduzione, vergata dallo stesso critico: “Di ognuno di questi autori si è cercato di mettere a fuoco le caratteristiche di fondo della loro opera - scrive Carmine Chiodo -: lo stile, i contenuti, in altre parole si è tentato di offrire di essi un “medaglione” critico il più possibile completo, esaminando punto per punto le loro opere”. Vittorio Butera è nato a Conflenti (Catanzaro) il 23 dicembre 1877 ed è morto a Catanzaro il 25 maggio 1955. Si può dire che ha trascorso l’intera sua vita in Calabria, ma non isolato, come si potrebbe pensare. Ha avuto relazioni di amicizia con molti poeti e scrittori, in particolare con il romano Trilussa. Tra i due ci fu scambio continuo di opere e Butera ha pure tradotto, in dialetto calabrese, molte poesie del romano. Entrambi hanno usato le bestie a protagonisti dei loro versi, ma differenziandosi per il loro utilizzo e per i risultati ottenuti. Il romano mira più all’uomo “in generale, più precisamente al benpensante che non vuole che l’ ordine tradizionale sia sovvertito”; mira più all’aspet to politico. Tri-
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lussa “vuole divertirsi e far divertire”; Butera, invece, non si discosta mai dal suo paese; i suoi personaggi sono tutti di Conflenti, pure le bestie, comprese quelle che gli derivano dall’ amico romano. “Il poeta calabrese non usa mai l’arguzia, egli prende scopertamente di petto quel che vuole riprovare e rigettare”. Raramente scrive di politica (per esempio, la poesia sul Duce); a lui “interessa molto” “il comportamento umano”, “la sua è una poesia socialmente e umanamente impegnata”, nella quale “la verità nasce spesso dal dialogo tra uomini e animali, ed è una verità che colpisce sempre nel segno e che ci dà l’esatta fisionomia, l’essenza delle azioni e dei vari comportamenti”. Butera - afferma ancora Chiodo - è “il poeta dell’animo vibrante di amore e assetato di canto” ed è esente da “ispirazione letteraria”. Tra le sue conoscenze, è da annoverare quella di Gehard Rohlfs, il glottologo tedesco, che ha percorso in lungo e in largo l’ intera Calabria per studiare i suo tanti dialetti. Butera l’ha conosciuto di persona; noi, con Rohlfs, abbiamo avuto solo qualche scambio epistolare, avendogli fatto conoscere alcuni poeti dialettali, tra i quali Ettore Alvaro. Tra Alvaro e Rohlfs si è, poi, istaurata una profonda amicizia, documentata nel volumetto Il Maestro e il discepolo. Il mio carteggio con Gerhard Rohlfs, edito, nel 1990, da “Il Nuovo Provinciale”. I dialetti, in Calabria, sono tanti, variano a volte profondamente da paese a paese. Noi non conosciamo quello di Conflenti, eppure ci sembra di aver notato alcune inesattezze nella traduzione di versi in italiano. Per esempio, a pag. 62, i due versi “M’arriva ru trajinu e tte l’arrota.../’A ciuccia nu’ ffo’ mmancu muoticata” vengono tradotti “Arriva il traino e lo travolge/L’asino non si muove”. A parte il fatto che si tratta di un’asina e non di un asino, il secondo verso per noi andrebbe reso in “L’asina non fu neppure toccata”, cioè, ad essere investito è solo il padrone. *** Corrado Alvaro era nato a San Luca di Calabria nel 1895 ed è morto a Roma nel 1956.
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Di lui, Carmine Chiodo, come egli stesso precisa, esamina articoli che “riguardano Parigi, la cultura, l’arte francese (...), poi (...) quelli in cui si parla di letteratura e di teatro, infine altri in cui si parla di varie situazioni e aspetti legati alla vita e alla politica italiana”. Ne viene fuori il ritratto di un giornalista di primordine - antifascista, collaboratore dei quotidiani più importanti, come Il Corriere della Sera, La Stampa, oltre che Il Mondo -, ma anche dell’uomo e dello scrittore. Attraverso l’esame dei suoi lavori di corrispondente, Corrado Alvaro risulta il testimone - almeno a livello europeo - di tutto ciò che lievita, nel bene e nel male, il modo di quel tempo e che coinvolge anche coloro che, apparentemente o realmente, stavano lontani dai giochi politici. I lettori dei suoi articoli si sentivano fortemente coinvolti. Sono sempre pezzi dal taglio di racconti, che investono non solo il sociale e il politico, ma anche gli aspetti artistici e geografici, architettonici, cinematografici, teatrali, della moda, dei club e, a volte, persino del meteorologico. Un grande affresco, dunque, nel quale si muovono scrittori, pittori e ragazze che non sanno “né come né perché” si tro-
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vino in certi luoghi; un mondo spesso triste, a volte, addirittura stralunato, altre, allegro, come quando racconta dei balli per le strade della capitale francese il 14 luglio. Spesso egli, descrivendo i luoghi in cui si trova, viene preso dalla tentazione di far paragoni con quelli italiani e così definisce Parigi una “Napoli riuscita”. Si nota, negli articoli dell’Alvaro - scrive Carmine Chiodo -, “la perizia che ha lo scrittore nel saper leggere nelle cose e negli uomini, mostrandone di quest’ultimi i comportamenti, i vari momenti e istanti di vita”. Non manca l’ironia - assente quasi del tutto nei romanzi -, come quando afferma che “L’ Italia è la terra delle sezioni di partito”, sicché lo scrittore, l’artista precisa Chiodo -, “oltre a scontare di suo d’essersi così mal imbarcato, deve fare i conti coi partiti e coi governi”. Tale e quale oggi, niente è, da allora, cambiato! A volte vien da pensare - e di certo sbagliando - che il meglio di Alvaro stia nei suoi tantissimi articoli, chiari e penetranti, più che nei suoi romanzi, dove spesso l’atmosfera è cupa. “Alvaro ci fa sentire l’atmosfera, lo svolgersi di certi fatti e avvenimenti - afferma ancora Carmine Chiodo - e anche ci mostra le sue idee e riflessioni su di essi, le sue ansie, i suoi timori, le sue concezioni sull’arte, sulla cultura, sulla funzione dello scrittore, su alcuni momenti importanti della storia italiana”. *** Fortunato Seminara (Maropati, 12 agosto 1903 - Grosseto, 1° maggio 1984) è l’autore più ampiamente trattato in questo volume di Carmine Chiodo. Oltre a dare il titolo all’ intera opera, lo scrittore maropatese viene lumeggiato da ben tre saggi, ognuno a se stante: “Da <Le baracche> a <Il mio paese del Sud>: società e stile”; “Fatti, personaggi, stile in Terra amara”; “Fortunato Seminara e la critica”. Qualche richiamo con gli altri autori lo si può trovare. “Ma mentre Corrado Alvaro - afferma, per e-
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sempio Chiodo - riproduce una Calabria mitica e favolosa, Seminara invece guarda con crudezza (...) a un mondo (...) fuori dalla civiltà moderna, quasi arcaico nelle sue strutture sociali e nella sua vita, e rappresenta un mondo di affamati, di miseri, di vinti”. In alcuni personaggi Seminara adombra un po’ di se stesso. In don Gabriele Caporale de La Masseria, per esempio, abbiamo uno che “da giovane si era laureato in legge; aveva esercitato per qualche tempo la professione, poi “l’aveva abbandonata e si era ritirato a vivere in una casa di campagna, trovando più convenevole e comodo badare alle sue possessioni”. Don Gabriele non era sposato; Seminara era quasi nella stessa situazione, avendo divorziato. Seminara non maschera, ma adombra tale e quale se stesso. Come qualche suo personaggio, egli ha fatto il Sindaco, come i suoi personaggi egli è stato pignolo in fatti di terra tanto da effettuare querele...
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Abbiamo richiami al Vangelo e alla vita di Cristo. La sepoltura, dopo la morte, di Agostino Scala, è simile a quella di Cristo: viene avvolto in una coperta (rimando al sudario) e il cadavere deposto in una caverna (la grotta del Vangelo). Seminara, insomma, usa poco la fantasia e si serve della realtà e della storia. Attraverso una rilettura puntigliosa e comparata di “Le baracche”, “Il vento nell’ oliveto”, “Disgrazia in casa Amato”, “Diario di Laura”, “La masseria”, “Donne di Napoli”, “Terra amara”, eccetera, Chiodo dimostra qual è lo stile, quale il contenuto e il linguaggio di Fortunato Seminara, “grande e appassionato scrittore e poeta”. Di “Terra amara”, oltre lo stile e il contenuto, Chiodo approfondisce ciascun personaggio calato nella “desolazione dell’ambiente sociale”. Come in altri lavori, anche in questo Carmine Chiodo riporta molti brani delle opere in esame o di critici sulle stesse, sicché il lettore si trova quasi davanti ad un’antologia, oltre che ad un saggio. E, alla critica su Seminara, dedica circa sessanta pagine. Quello che più l’ha approfondito, oltre ad Antonio Piromalli, è, secondo noi, Erik Pesenti Rossi, se non altro perché non ne ha nascosto, né attenuato, i difetti. Fortunato Seminara aveva molti spigoli e, anche secondo G. Vecchietti, prendeva le cose troppo sul serio, era poco incline all’ironia, che, poi, è il sale della vita. Ma era poco incline anche “agli svaghi, all’ amicizie improvvise; era disadatto a tenere i contatti, come si dice, con questo o con quello”. E se si considera che, per tutta la vita, è rimasto “puntigliosamente legat(o) (...) alla terra del Sud”, il mondo narrato dallo scrittore maropatese oggi incontra qualche limite, perché quel mondo da lui raccontato è finito pure in Calabria, si sono perse, anche lì, pure le tracce. Perché - come scrive Pasquino Crupi, la sua “geografia è quella della Calabria pastorale e contadina, ricca di miserie e di varie selvatichezze”. I
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contadini sono finiti; sono finiti pure i pastori; forse sono finite anche le selvatichezze. A rimanere, eterna, inamovibile, è solo la miseria. O forse no: a rimanere eterna, inarrestabile, in crescita ogni giorno in ricchezza e potere, è solo la ‘ndrangheta! *** Quello su Mario La Cava (nato a Bovalino - RC -, l’11 settembre 1908 e ivi morto il 16 novembre 1988), è il saggio più breve del libro, ma non per questo meno chiarificatore della sua vita e della sua opera. E’ anche il solo saggio privo del tutto di note, segno che su di lui la critica, negli anni, si è interessata meno di quanto non abbia fatto, per esempio, per Seminara. La Cava - afferma Chiodo citando Vincenzo Paladino - “ha rastrellato i suoi temi (...) dal suo piccolo entroterra provinciale, tra contadino e piccolo borghese.” Si nota una certa differenza, dunque, tra i personaggi di Seminara e Mario La Cava. Quelli di quest’ultimo, come, per esempio, Stefano, sono meno primitivi e meno legati al perimetro in cui si svolgono le loro vicende; aspirano ad altri ambienti, a cambiare attività, magari imparando un mestiere, diventando degli artigiani. Anche quando nulla di questo verrà realizzato, in loro ci sarà sempre, nel loro agire, perché presente nella loro coscienza, l’istinto del cambiamento. Anche se, apparentemente, Stefano e altri, negano di avere tali aspirazioni, e solo perché si rendono conto, sono intimamente consapevoli, delle enormi difficoltà nel realizzarle, nel tradurle in azio-
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ne. Ma come quelli di Seminara, anche i personaggi di La Cava sono quasi sempre lo specchio dell’autore. Seminara è più radicato alla terra; La Cava, che ha viaggiato più del maropatese, crea soggetti più mobili, pure nella condizione altrettanto tragica, ma più intimamente desiderosi di aprirsi al mondo. La Cava, più che creatore di situazioni sociopolitiche, lo è “di situazioni interiori, di uomini e di donne che sono descritti nella loro psicologia, nella loro mentalità, e lo scrittore fa tutto ciò con rapide e sobrie pennellate”. E, quando tratta il paesaggio, è sempre particolarmente efficace: “il paesaggio tetro e triste caratterizza le situazioni drammatiche, quello sereno e armonico le situazioni tranquille.” Il paesaggio, cioè, la Natura, è partecipe alla vita del personaggio, è parte della sua componente. Continuando ad accostarlo a Seminara, notiamo che entrambi hanno guardato alla Toscana e alla Toscana di Tozzi; ma Seminara è più regionale; La Cava, anche se meno conosciuto, ha maggiori aperture. A Seminara giovò molto avere avuto un parente critico affermato come Antonio Piromalli. La Cava è “uno scrittore moderno e classico”, “che ha saputo cogliere il senso della vita e della storia”. Meno legati al localismo, i personaggi lacaviani sono a un passo dalla vita più problematicamente nazionale. *** Lorenzo Calogero è nato a Melicuccà (RC) il 28 maggio 1910, dove è morto - si dice, suicida - il 25 marzo 1961. La sua poesia non è facile a comprendere: perché ha “poco suono” - tanto per citare il titolo di una sua raccolta (1936) - e perché intrisa di filosofia. Almeno noi, che di filosofia abbiamo sempre masticato poco, l’ abbiamo letta con difficoltà. Per Calogero, realtà e mistero quasi sempre si fondono e si possono comprendere, si possono intuire l’ infi-
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nito e l’oltre noi solamente abbandonandosi completamente alla Natura, fagocitandola e facendoci fagocitare come una vera e propria metamorfosi: “Posi la mano sul fieno/ed ascoltai”). Ma pervenire a questa perfetta simbiosi è assai difficile e lo stesso Calogero - afferma Carmine Chiodo - nelle sue poesie “manifest(a) la volontà di comunicare e la difficoltà a farlo. L’incomunicabilità come male dell’anima, prima che come male sociale, ha un valore che supera la contingenza temporale e umana per divenire di portata universale”. Per Calogero, la poesia non è l’ispirazione di un momento magico, non è la grazia, ma la “figlia della mente di un uomo che vorrebbe dare alla propria anima una speranza”. Perciò essa può essere mezzo di ricerca, anche raffinato, ma solo mezzo, non soluzione, non verità. Ancora: la poesia è “frutto del dolore e sorella della morte”. Tra i poeti del suo tempo, Lorenzo Calogero si distingue per uno stile particolare, aspro e disarmonico il più; ma ci sono composizioni, specialmente tra le ultime, che contengono echi di altri poeti, come, per esempio, cadenze e ritmi del D’Annunzio nella poesia “Angelo della mattina”. *** L’ultimo autore preso in esame da Carmine Chiodo in questo volume è Franco Costabile, nato a Sambiase (oggi Lamezia Terme) il 27 agosto 1924 e
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morto suicida, a Roma, il 14 aprile del 1965. La sua tragica morte ha scosso il mondo letterario di quel tempo. Ne scrivono un ricordo quasi tutti i poeti e gli scrittori presenti, allora, nella Capitale: Accrocca, Berto, Bigiaretti, Brignetti, Caproni, Canesi, Citati, Giacomo e Renata Debenedetti, Enotrio, Niccolò Gallo, Giuseppe Mazzullo, Purificato, Repaci, Ungaretti, Vigorelli, eccetera. Meno Pier Paolo Pasolini. Perché, tra il calabrese e il friulano, era sorta una certa incomprensione - come si accenna, in nota, anche in questo libro -, in seguito all’ assegnazione, a Pasolini, del Premio Crotone. Anche noi, allora, abbiamo registrato l’ avvenimento, indignati per il fatto che, subito aver ricevuto il Premio, Pasolini, durante il viaggio di ritorno verso Roma, appena giunto a Napoli, scrisse un articolo da tutti ritenuto assai denigratorio nei confronti della Calabria e dei Calabresi. E’ da questo suo articolo che ha origine il nostro “Epigramma per un denigratore. Calabria”, inserito, poi, in calce alla nostra raccolta di versi “12 mesi con la ragazza”, edita, nell’aprile del 1964, da La Procellaria di Reggio Calabria. Secondo Vincenzo D’Agostino, citato da
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Chiodo, “Costabile rappresenta “tutti i mali della Calabria” e si è “dedicato a cantare con rabbia e con amore la sua storia. Grazie a lui noi oggi possiamo avere un documento poetico ed essenziale dei drammi di una terra abbandonata.” Costabile è un poeta - dice Chiodo - “il quale ha sempre ascoltato il suo cuore e non ha mai usato in modo meccanico stilemi e movenze di altri poeti”. A nostro avviso, Franco Costabile è poeta sociale, decisamente e velenosamente amaro e ironico, dal verseggiare dirompente, tagliente, lacerante: una vera e propria frusta a nove code nei confronti dei mali della propria terra e di coloro che, tali mali, non solo non curavano, ma contribuivano ad acutizzare (la politica, disonesta e inconcludente; la criminalità; la mancanza di lavoro; le baronie). Nel mondo romano, per certi versi ovattato, disincantato, le problematiche che angustiavano Franco Costabile non solo non trovavano sbocco, ma si incancrenivano, divenivano purulenze intime, distruggendo in lui ogni difesa immunitaria, e, sposandosi a un suo pessimismo di fondo, all’ira, lo portarono a poco a poco alla morte per autoviolenza. Costabile si batte per tutta la vita contro le miserie e le angherie verso la sua gente. “Franco Costabile, ma pure Lorenzo Calogero - conclude Carmine Chiodo - ci hanno dato una poesia che non appartiene solo alla Calabria o è calabrese ma ben figura e si inserisce (...) nella poesia italiana del Novecento, e sia il sambiesino sia il poeta di Melicuccà sono degni di stare accanto ai grandi poeti italiani” del secolo appena trascorso. Domenico Defelice CARMINE CHIODO - Fortunato Seminara e altri scrittori e poeti calabresi del Novecento _ UniversItalia, Roma 2013 - Pagg. 480, € 18,00.
RUGIADA MATTUTINA Rugiada mattutina carezza la pelle crescente luna
Pag. 21 accende i pensieri che navigano nell’oblio. Un inconfondibile colore disegna l’alba d’irreprensibile dolcezza con un inconsueto respiro che abbraccerà di sorrisi la mia esistenza abbandonerò la tristezza riaccendendo la speranza. Lorella Borgiani Ardea
IL SOGNO INTERROTTO Vorrei riaddormentarmi per riprendere il sogno interrotto. E lo vorrei riprendere proprio da là, dove è avvenuta l’interruzione. Ma non ricordo il sogno, né a che punto o perché si sia interrotto. Succede a volte che il sogno riprenda. Lo farà questa notte? Lo desidero, perché nel sogno so che c’eri tu, dolce e amichevole a me vicino. Mariagina Bonciani Milano
Comme les remords arrive à l’heure et t’enferme la nuit. Même si elle t’amène un rêve le reprend avant que l’aube ne se lève. Nazario Pardini Arena Metato (PI) Dalla silloge inedita Correspondances (19681972)
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IL POEMA “COSMICO” DI
ANGELO MANITTA di Luigi De Rosa
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ELLA vasta e multiforme produzione letteraria di Angelo Manitta (poeta e narratore, saggista, storico, traduttore e promotore culturale) nato a Castiglione di Sicilia (Catania ) nel 1955, fondatore della Rivista “ Il Convivio” e della omonima Accademia (nonché del Supplemento di saggi e studi “Cultura e prospettive”) altri hanno scritto, in modo approfondito anche se non esaustivo ( a causa della incessante ed originale produzione stessa). Fra tali testi, a titolo di esempio, rimando all'accurato (e ricco di note) Saggio criticobibliografico, di circa trenta pagine, dedicato da Claudia Manuela Turco ad Angelo Manitta, e pubblicato nel volume Big Bang – La luce del tempo. A tale saggio fanno seguito, ibidem, due “approfondimenti critici”, uno di Marco Baiotto e l'altro di Marilena Rodica Chiretu. In me ha prodotto sia emozione poetica, che sollecitazione culturale e intellettuale, il suo particolare modo di far poesia, e cioè narrando, nella scia della grande poesia epica, “contaminando” questo genere con quello della lirica pura. Operazione inusuale, da far tremare le vene e i polsi, anche se non mancano numerosi e validi esempi di lirica nei poemi tradizionali, pur zeppi di enciclopedismo e di magniloquenza, di filosofia e pedagogismo letterario. In netta contrapposizione con anni e anni di simbolismo, solipsismo spesso arido e senza sbocchi, frammentismo e tecnicismo imperanti nella poesia contemporanea, Manitta affronta i problemi dell'uomo di oggi e di ogni tempo, nonché del Cosmo senza fine, col poema prosimetron, mescolanza o fusione ( più che alternanza) di versi e di prosa, di epica e di lirica. Ho letto, e riletto, in particolare, due suoi libri : “Big Bang – La Luce del Tempo”, Edizioni de Il Convivio, 2006, con una illuminante Introduzione
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di Vittoriano Esposito e “ Luminosi sentieri – BIG BANG – La via dello Zodiaco I ” , Il Convivio 2012, con una dotta prefazione di sedici pagine di Carlo Di Lieto, dell'Università degli studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”, intitolata “ L'universo dentro di noi”. Credo che già i titoli aiutino il lettore, nella loro sintetica pregnanza, a prefigurarsi, anche se in parte, quello che sarà l'argomento trattato da tali opere. Le varie parti del primo libro sono dedicate a Gilgamesh, al fuoco di Promèteo, a Rama e Sita, a Scilla, a Crisna, Adamo ed Eva, Yama e Yami, Orfèo ed Euridice, all'Homo sapiens, a Lucy. Il secondo libro, invece, quello su “La via dello Zodiaco”, è ripartito in Canti : il XX è dedicato all'Acquarius, il XXI al Capricornus, il XXII al Sagittarius, il XXIII allo Scorpio, il XXIV alla Libra : David Livingstone, l'esploratore totale – da Cristoforo Colombo a Hernando Cortès), il XXV alla Virgo. Manitta si lancia, secondo Vittoriano Esposito, “ in una impresa ardua, quasi incredibile. Addirittura può sembrare incredibile anche la disponibilità di chi voglia prestarsi ad una considerazione non disattenta sulle tematiche, e, più ancora, sulle problematiche di bruciante attualità che qui affiorano in abbondanza...” Angelo Manitta esplora, senza esitazioni e senza paura, sia i gorghi eterni dello Spazio materiale e oggettivo che i gorghi temporanei dell'inconscio individuale, su ispirazione di Carl Gustav Jung, lo psicanalista e psichiatra svizzero vissuto dal 1875 al 1961, che viene ricordato, spesso, più per le differenze originali che per le somiglianze con Sigmund Freud ( di cui rifiutava, comunque, il pansessualismo). Per l'arte e l'espressione ad amplissimo respiro, a volte perfino lussureggiante, di Manitta, non ci sono confini di spazio e di tempo, né di scienze, di filosofie, di interpretazioni, descrizioni, in un abbraccio onnicomprensivo di tutte le arti e discipline, compre-
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sa quella della politica (intesa, ovviamente, nel senso nobile ed etimologico del termine), con prevalenza di cultura classica ( ma non solo), di personaggi più o meno esemplari, più o meno positivi ( dipende anche dai punti di vista variabili nello spazio e nel tempo). Insomma, quello che mi ha colpito di più è stato il tentativo titanico di tracciare (con i mezzi forniti dalla poesia e dalla letteratura, e da quella che appare una sterminata, enciclopedica cultura personale) un' originale rappresentazione della condizione umana, una inedita storia del pensiero umano, se non proprio dal Big Bang, almeno dall'apparizione dell'Uomo sul Pianeta sino ad oggi. Coinvolgendo anche lo Spazio, con le sue costellazioni e gli innumerevoli corpi celesti dentro e fuori della “nostra” piccola, relativamente insignificante Via Lattea, navigando con la fantasia oltre l'Universo “conosciuto” per addentrarsi, sempre con la fantasia del poeta preveggente, verso una “disumana” visione di possibili Universi in espansione. L'arte e la tecnica letteraria di Manitta producono l'effetto di una sostanziale rivalutazione della figura del poeta e della funzione della poesia, in un mondo così mercificato e massificato come quello consumistico di questi nostri anni, in cui la società sembra portata più verso scienze e tecniche lontane dalla poesia che verso la poesia stessa. Scrive, tra l'altro, Di Lieto : “ Il prosciugamento della realtà è visto in controluce, come corrispondenza della percezione interiore : “Solo / i poeti sono sinceri, perché sognano, / si illudono, credono, acchiappano fantasmi, / li sciolgono con la fantasia o li abbracciano teneramente”. L'influenza degli astri è correlata alla realtà misteriosa dell'universo o degli universi infiniti, che sono in perfetta sintonia con la dimensione indistinta e indecifrabile dell'inconscio, da cui si può uscire inconsapevolmente con lo stato di grazia della scrittura poetica . L'universo è il luogo della pulsionalità originaria : le costellazioni sono i segni manifesti del”rimosso che
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ritorna” e, affidato alla poesia, “squaderna” e disvela le sue potenzialità. E poco più avanti, Di Lieto puntualizza: “Più che di una disposizione ad uno scenario onirico, viene colta una ricerca dell'informe, che fa affiorare alla superficie le tracce e i sedimenti del profondo”. E a questo punto ( è quasi conseguenziale) il pensiero non può che correre alla “catastrofe inaudita”, all'esplosione enorme di sveviana memoria. Il lettore non può non ricordare il brano finale del romanzo “La coscienza di Zeno”, dove lo scrittore Italo Svevo prevede che “ ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie” ( e allora non c'era nessun sentore della futura bomba atomica, di quella all'idrogeno, e di altre terrificanti armi di distruzione di massa che poi la scienza e la tecnologia militare ci avrebbero regalato...). E' ancora più che opportuno richiamare Vittoriano Esposito, laddove rileva acutamente che “...senza scadere in un pedagogismo pretenzioso, Angelo Manitta propone delle riflessioni e prospetta delle finalità, fondendo insieme mitologia e storiografia, visione cosmica e dettagli minuti, fatti e figure di antica sapienza con la cronaca deprimente dei nostri tempi...”. Il lettore assiste e partecipa alla contemplazione, all'accettazione e al rifiuto del presente attraverso il richiamo ( disperato ma ineluttabile) del passato, con un “ammicco” speranzoso al futuro e addirittura all'eternità. Manitta è innamorato della Poesia, marchiato a fuoco dalla Letteratura. Nei suoi testi la calda Poesia, nutrita di un impasto lirico-metafisico, e la gelida Scienza duettano e si abbracciano, si attraggono e si respingono, noncuranti della immanente ed irritante, squallida ed effimera Cronaca quotidiana. La grande “crisi” del Novecento continua, inoltrandosi negli Anni Duemila, fomentando angoscia e spirito di ricerca nei letterati autentici. Luigi De Rosa
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PADRE PIO RICERCA DI DIO VICINANZA DI CRISTO di Leonardo Selvaggi I L volume “Padre Pio - Mio vicino di casa” dello scrittore-medico Domenico Lamura è un’opera di spiritualità e di riflessioni. Un’interpretazione con commento, denso e pieno di meditazioni, delle 185 lettere di Padre Pio scritte al Padre spirituale. Vi si narra la storia di un’anima che si tocca con mano per la semplicità espressiva, una vita tormentata, interiore, tutta illuminata da misticismo. Una testimonianza di grande santità dal 1910 al 1922, per un cammino di fede e di carità, improntato all’amore di Cristo, simbolo di dedizione, di sofferenze, fonte di maturazione spirituale, incontro ai miseri con senso di sacrificio e di umanità. Padre Pio, che nel 1910 ha 23 anni, si glorifica ai tempi nostri con le sue stimmate, mistero esse stesse, in un tutt’uno con Cristo e la sua Croce. L’ opera di Domenico Lamura ci rimane accanto, la sua lettura apre la nostra interiorità con le piaghe che ci portiamo, consapevoli dei peccati fusi nella carne che ci insidia, fermentante di negatività e di malessere. Le lettere di Padre Pio riflettono il linguaggio parlato, quell’italiano dialettizzato che ha deliziato tutti quelli che hanno avuto la fortuna di sentirlo. Viene manifestata la sua umiltà, la sua
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immediatezza di pensieri e di sentimenti. In seguito l’espressione si fa più curata e pertanto più vivace e asciutta, ricca di immagini e di similitudini, specie quando si mettono in risalto i tormenti dell’anima. Una naturalezza che è tutta verità, concretezza, niente astrazione. Una parola forte che sa andare dentro ai segreti, e spesso riesce di difficile determinazione, quando il suo intimo è complesso, facendosi drammatica partecipazione ai dolori di Cristo. Padre Pio sente rimuovere dentro un vulcano di sensazioni, ha una esistenza tutta profondità, le parole comuni non arrivano a definire il senso del divino che si agita nel suo cuore, tante sono le potenzialità che portano ad unirsi al Supremo Creatore. Dio è presente nel centro dell’anima. Padre Pio sente dentro di sé scorrere sangue, è la fede in Dio la prima scaturigine che lo rende grande, pieno di grazie. i dolori sulla Croce sono simili alle sue infermità. II Le sofferenze fanno vivere e nel contempo rendono imperfetti, c’è una contraddizione: Dio che è amore si fa nemico e indifferente. Padre Pio è in uno stato di disperazione, come sprofondato in un abisso. La sua vita è tenebra e luce in una contrapposizione drammatica. Nell’opera di Domenico Lamura si seguono tutti i momenti vissuti da Padre Pio, illuminato da immenso amore e insieme conturbato dalla sua cattiva salute. Come disfatto il suo essere, giorno dopo giorno è in una lotta con se stesso: testimonianza di eccezionale valore per i nostri tempi. Padre Pio veste il saio di cappuccino, quasi per simboleggiare le ristrettezze della sua famiglia. Francesco Forgione, assetato di spiritualità a ventiquattro anni è più morto che vivo, è costretto a vivere in famiglia, ma la sua santità e ben delineata nelle lettere piene di concentrazione: tutto malato, pelle e ossa, porta addosso il dolore di Cristo, in agonia eterna, spogliato di ogni contingenza esistenziale. La sua straordinaria capacità di amare a prezzo della propria vita per vedere l’uomo libero, vicino alla verità divina, fuori di ogni limitazione. Ha 23
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anni, non ancora ha preso la messa, vive lontano dal convento, essendogli stata prescritta l’aria natia. Il volume di Domenico Lamura è una miniera di riferimenti, di osservazioni, c’è filosofia, teologia, la realtà triste di Padre Pio che pare di essere in esilio sulla terra per i troppi malanni. Non mancano le lotte spirituali che danno perfezione e purezza all’ anima. Dio generoso verso il giovane cappuccino che si sente un minuscolo vaso e amplissimo come spazio per comprendere la passione di Cristo. Le parole di Padre Pio non sono pura sentimentalità, se pensiamo al suo ministero durato oltre 50 anni, massacrante, in piena semplicità e dedizione, demitizzando se stesso, quando il suo nome ormai è diffuso nel mondo. Ha vissuto non di intelletto, come i teologi protestanti che hanno sempre più minimizzato la presenza di Dio, ma con le energie del cuore, con tutta la mente, in estasi continua. Non come Robinson, Niebhur, Bultmann che per andare alla ricerca di Dio hanno lasciato l’uomo in piena desolazione. III L’opera “Padre Pio - Mio vicino di casa” a cura di Maria Stefania Lamura, pubblicato dalla Casa Editrice Menna nel mese di novembre 2010, ha reso possibile compenetrarci nel pensiero di un grande personaggio del nostro tempo corrotto e perverso, trovando i modi più confacenti per avviarci in un mondo di bontà, con la religiosità più vera, con la semplicità dei sentimenti. L’umiltà che vuol essere abbattimento totale di ogni forma di egoismo, quasi negazione di sé e amplificazione del prossimo, nullificazione del corpo e piena manifestazione di Cristo sulla terra. Il dolore umano soprattutto, raggiunto dall’ amore-libertà di estrinsecazione del proprio essere contrassegnato dalla presenza del Sommo Bene. Per Padre Pio le stimmate sono segno eloquente di verità e di vita, della partecipazione di Dio che si fa estesa e diffusa in ogni luogo e in ogni parte più intima, infervorata dell’uomo. Messaggio di Dio, voce di Cristo per l’umanità sofferente, misera, spadroneggiata dalla prepotenza, dall’ingordigia
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di tempi malvagi. “Gesù ha scelto anche la mia anima per essere aiutato nel grande negozio della salvezza”, per lenire il dolore che sempre sarà presente fra gli uomini. La grande opera di Padre Pio “La Casa Sollievo della Sofferenza” si basa su questo fondamentale impegno. La bellezza della Grazia da cui è tutto avvolto per volere di Dio: Padre Pio con le sofferenze fisiche e spirituali ha avuto la forza di lottare di continuo contro i malevoli suoi nemici, miscredenti, scettici. Il suo misticismo lo rende colmo della presenza del divino, quando si sente in disordine, nel buio, nello smarrimento dei sensi: lo soccorre la speranza, il suo volto di asceta è sempre rivolto al cielo. Un essere misero, quasi finito come esistenza fisica, tutta un’immensità nel suo grande animo, ampio come un oceano. Le lettere sono esaminate con grande acume di saggezza, analizzate con profondità di spirito e di passione dal grande psicologo, medico, scrittore Domenico Lamura che ci fa seguire le varie tappe del grande Cappuccino, “tremende e dolci, imprevedibili e soavi”. Padre Pio, mandato a noi colpevoli dalla Divina Provvidenza, con ostinazione ha portato la voce di Dio e la sopportazione di Cristo fra di noi, per cogliere a piene mani l’amore che purifica e ci unisce con i sentimenti di fratellanza. La sua esperienza mistica è fuori dal reale scientifico dei nostri giorni, ha valore assoluto, presenza gloriosa di mezzo secolo, rimane in gran parte incomprensibile agli scettici, ma come dice Pascal ciò che è incomprensibile non cessa di essere. Anche la ragione se non riesce a provare la realtà superiore, non può neppure negarla. IV La religiosità di Padre Pio è comprensione dell’uomo, le sofferenze sono il mezzo di andare in fondo alla natura nostra, le stimmate costituiscono un modo di conoscere Dio. Domenico Lamura nelle sue pagine filosofico-saggistiche opera un approfondimento del contenuto delle lettere di Padre Pio. Conoscere, amare l’uomo con la ragione, conoscere è anche sperimentare, intendere con i sentimen-
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ti. Con la mente e con le mani ci avvicina alla realtà dell’uomo. Con tutto l’essere Padre Pio è vicino al mondo umano, con concretezza a Dio, quasi lo tocca, come il fuoco, l’acqua, le piante e tutto l’esistente. Le stimmate sono un segno bruciante, sanguinante di Dio sul suo corpo, immedesimazione con Cristo. E’ conoscere più profondamente i fratelli, affrontare e combattere l’incredulità degli infedeli. La vita mistica di Padre Pio appartiene a tutti noi, è per risanare il nostro tempo materialista, togliere tutte le deturpazioni. Ci riporta al Cristianesimo fondato sull’amore. Dio si incarna nelle nostre sofferenze, nei nostri affetti, nel nostro lavoro, valori umani che trasmettono il senso della divinità e la vita. L’ amore di Dio si estende a tutti e si manifesta attraverso il Messia, inviato per salvare il mondo, Padre Pio è tutto interiorità che non trova espressione tramite la parola che è falsa, altera e deforma l’essere. La parola non è la verità, non è purezza, i poeti hanno sentito l’ autenticità della parola attraverso l’intuizione. Con la spiritualità la poesia esprime santità e mistica. Il giovane Cappuccino nei primi anni per la tubercolosi vive fuori dal convento, ha spirito pratico, di sopportazione e nel contempo è in continua ascesi verso il regno di Dio. Una realtà straordinaria, un mistero la sua presenza. “L’anima... preferirebbe chiudersi in un perfetto mutismo, perché le fa male che nell’ esprimersi vede la grande distanza che passa fra la cosa vista e che tiene presente e ciò che esprime.” Sempre l’anima, non i sensi fa vivere Padre Pio. “La grandissima compassione che sente l’anima alla vista di un povero le fa nascere nel proprio centro un veementissimo bisogno di soccorrerlo e se guardassi alla mia volontà mi spingerebbe perfino a spogliarmi degli abiti per rivestirli”. La semplicità delle parole e l’aspetto di un umile uomo di paese che fa largo uso del dialetto; nel confessionale Padre Pio si asciuga il sudore con un fazzoletto contadinesco. Una ruvidezza in tutti gli atteggiamenti, sincerità che si lega all’ essenzialità, tutta trasparenza. L’interiorità si manifesta con un’autenticità che è poesia e tensione di sentimenti. Mentre
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Satana riesce vincitore nel tenerlo fermo nelle sofferenze, Lui prega Dio che non gli si tocchi la sua immensa spiritualità. Si muove fra l’inferno e il cielo, le stimmate sanguinanti alle mani, ai piedi e costato sono rivelazione del soprannaturale. V Corpo e spirito in un solo legame. Dio si manifesta nella storia attraverso la carne. Il Cristianesimo ha inizio quando gli uomini partecipano alla crocifissione di Cristo. Dio Lo ha riempito di grazie, di tanta spiritualità, mentre Lo tiene rinserrato nella prigione delle sofferenze. La sua passione sono i libri di devozione, legge la vita del B. Gabriele dell’ Addolorata, conosce la storia di un’anima di Teresa del Bambino Gesù. Anche Padre Pio è storia di un’anima, ha di continuo fame di presenza di Dio. Autenticità di una vita, la si prende con mano, è quella di tutti i giorni, un frate che prega, che ci sollecita al di là della realtà quotidiana. Poche parole che dilagano in una interiorità infinita. Ama soffrire, vorrebbe tutte le tristezze degli uomini, per rendere sempre immenso il suo sentimento di amore. Padre Pio imita Cristo, si offre per i peccatori. Comprendere l’uomo, amarlo, significa rendersi vittima nelle mani di Dio. Le sue lettere vogliono essere vicinanza all’ uomo, si unisce a ogni destino di peccatore, con tutta la sua vita. I peccatori li accetta come figli spirituali. Tutti noi abbiamo sentito addosso i suoi pensieri, la spiritualità che è dono di Dio, luce interiore e di fede. Si è con la Sacra Scrittura che è fonte di sapienza. Padre Pio mira all’uomo perfetto, che si realizza attraverso la parola di Dio, verità assoluta. Le stimmate costituiscono strazio, confusione, vergogna, sono oggetto di persecuzione, dubbio, isolamento, vedendole simili a quelle di Cristo. Usa i mezzi guanti che nascondono il palmo e il dorso delle mani, considerato un lebbroso, costretto a vivere nel mondo dei viventi. L’opera di Domenico Lamura ha fatto rivivere Cristo, un Cristianesimo concreto, pratico e tutto un misticismo attorno a Padre Pio. Le stimmate sono da alcuni accettate, da
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altri respinte. Molti gli increduli, gli stessi uomini di fede. Ma sono un segno sulla carne viva, raccontano la passione di Cristo. Padre Pio considerato da Jean Guitton come un Socrate contadino-cristiano, un uomo di buon senso che viene umiliato da un mondo superficiale, vizioso, materialista. Le stimmate con le loro cinque bocche parlano dell’amore di Dio. Folle interminabili vengono da Lui, Gli si stringono attorno quando dice messa, cercano il suo confessionale. Molti uomini hanno capito, tramite Padre Pio, che Dio li ama. Anche dopo la sua morte arriva gente da ogni parte, dall’Africa, dall’America Sud, dalle Filippine per respirare l’aria che Lui respirava, e soprattutto l’aria della sua anima. Le stimmate sono punti di luce, come Lourdes, Fatima, Pompei. Non si può dare spiegazione di questo miracolo, bisogna credere, quando interviene Dio. Una storia d’amore, quando si celebra la Santa Messa, è Cristo che si offre e ci offre al Padre. Quando l’uomo uccide quest’ amore, si è peccatori. Le stimmate di Padre Pio sono un fatto sbalorditivo che dura cinquant’anni, per riaffermare la presenza di Dio. VI Nel nostro tempo il peccato è considerato puerilità, per Padre Pio lo si può trasformare in energia d’amore. Padre Pio si unisce a ogni fragilità, donando la sua vita. Nullificarsi è un modo per arrivare a Cristo. Il sacrificio, la preghiera lasciano pensoso il mondo di oggi inquieto, ingordo, arrogante. Un modesto frate, una debole creatura oggi non viene concepito. L’ umiltà è sapienza, la scienza, la tecnica, il benessere, il diavolo delle passioni ci tengono esaltati. Padre Pio ha imitato Cristo per ottant’anni, per Lui l’uomo è creatura, nata da una storia di amore. Quando si ha coscienza di essere creature del Padre, ci si sente in piena pace e armonia con se stessi. Padre Pio vede Satana che si avventa contro la creatura disarmata, è facile il suo intervento dove manca l’amore. Satana si serve dell’ ambiguità, lo si sente nel silenzio, arriva quando ci si offre vittima in uno stato di disperazione e di debolezza. Il maligno agisce con le tentazioni
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che fanno apparire il peccato come cosa dilettante. “Il demonio intanto si giova di questo indebolimento di forza e impossibilità di reagire per maggiormente affligermi”..., “... questo apostata infame vuole strapparmi dal cuore ciò che in esso vi è di più sacro: la fede”... Padre Pio intuisce subito che contro Satana l’ antidoto più efficace è l’amore. Dello scrittore Domenico Lamura, fra la sua ricca produzione letteraria, l’opera “Padre Pio - Mio vicino di casa” è quella che più si evidenzia per profondità di concetti. C’è in essa un’ espressività che si innalza e ci infiamma, si fa sapienza e riflessione, presentandoci Padre Pio come alta testimonianza di fede e di spiritualità in tempi di violenza, di perdizione, personaggio che dà avvio a principi di rinnovamento morale, di umanità, vincendo turpitudini ed egoismi, portando in grande altezza i sentimenti di carità, di dedizione, offrendo tutta la sua anima e le sue sofferenze incontro agli inermi, ai degenti, agli esclusi della vita, ai peccatori, ai tormentati spersi nelle nebbie del male. “Per questo mi compiaccio delle mie infermità, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per causa di Cristo, perché quando son debole è allora che sono potente” (Cor. II - XII - 10). Nel volume del medico, poeta, spiritualista Domenico Lamura, fonte di grande insegnamento, ritroviamo energie che parevano nel nostro animo sopite, la nostra interiorità, i sentimenti e le virtù. Dio con Padre Pio lo sentiamo attorno, come nostra salvezza e protezione nei momenti di turbamenti. Lo sentiamo vivo, come una persona che ci porta a rinvigorirci, ad esaltarci verso le supreme sfere celesti. VII Per cinquant’anni è stata discussa la personalità di Padre Pio, tutti gli aspetti considerati, dai turbamenti alle sofferenze, alle opere, alla continua contemplazione della verità divina, di Dio, luce di bene, bontà incomprensibile. Evidenziati i momenti di estasi, la considerazione del dolore, il trasporto con cui ha dato sollievo alle miserie umane. Soprattutto la preghiera e la penitenza che portano alla
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elevazione spirituale. L’amore di Cristo fa essere pronti ad offrire la propria vita per il bene del prossimo, a darsi con il senso del sacrificio. Dio vuole che con l’amore si perdoni il peccatore. Padre Pio quando sale l’altare ogni mattina all’alba dona tutto se stesso con misticismo, le sue stimmate significano rendersi vittima, in una immolazione e in un’offerta unica, richiamano in ogni coscienza il senso di cristiano in tutta la purezza e concretezza, in piena disponibilità. La messa celebrata da Padre Pio con umiltà e partecipazione al sacrificio di Cristo, le folle che vi assistono sono trascinate in sublimazione di anima e corpo. Padre Pio, come Santa Margherita da Cortona, conosce i suoi peccati e la sua offerta di amore. La vita che si offre si dilata, arriva a donarsi anche ai peccatori, ai sofferenti più lontani. La preghiera è un chiedere grazie divine per tutti. Cristo afferma: “Chi tiene conto della sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per amor mio la ritroverà”. L’ amore è donazione completa di sé, si fa dialogo con altre persone. Padre Pio con la sua semplice parola avvolge la presenza delle folle di calore, di respiro di Dio. In una delle lettere inviate al Padre spirituale chiede aiuto con tutto l’animo esulcerato: “A voi il Signore mi affidò per guida, conforto e salvezza... imploratemi soccorso dal cielo, perfetta uniformità ai puri, occulti, divini e santi valori”... Questo si afferma quando Padre Pio si sente perduto, tentato da Satana, “in pieno inferno”, fuori da “ogni traccia, ogni vestigia di Dio”. La straordinaria opera di Domenico Lamura ha sostanza pura, ricchezza di riferimenti al Vangelo, alla sapienza del Vecchio Testamento, ai principi di fondamentalità di vita, è tutta una espressività che viene da processi di sublimazione di concetti che portano a vivere momenti di estasi, di partecipazione alle più esaltanti verità divina. C’è il sentimento di amore in espansione che si fa ricerca di Dio, compenetrazione nelle sofferenze, nella grande offerta di Cristo sulla Croce, lungo la vita della redenzione, con quel travaglio spirituale che tiene Padre Pio impegnato nell’opera di salvataggio dell’umanità peccatrice: pensiero
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tormentato che non ha mai fine, azione ostinata di una grande spiritualità, eterna sofferenza offerta per le folle intere che si riversano per tutte le strade del mondo. Leonardo Selvaggi
PETALI ROSA Schiudo gli occhi alla vita ed il bianco e nero si tingono d’azzurro petali rosa dispersi nel vento tendono le loro mani a gemme preziose d’eternità. Tra lacrime d’intenso sorgive e bagnate di dolcezza labbra profumate di bontà parlano con carezze che curano la mia tristezza. Apro le mie braccia al tempo e respiro il tuo amore che non si arrende alla passione ma che travolge e scopre immagini che scorrono lente nei corridoi perfetti e soffusi dell’anima. Scivolo nel profondo dei miei desideri tremule tra le tue braccia mi vesto del tuo sorriso dove tu … rimani fermo ad ascoltare quel battito e ad attendere che la mia penna ti racconti tutte le mie emozioni. Lorella Borgiani Ardea
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MARIA MESSINA LA CASA NEL VICOLO di Tito Cauchi ALL’ampia e articolata bio- bibliografia de La casa del vicolo, apprendiamo che Maria Messina nasce il 14 marzo 1887 a Palermo o, forse, in provincia, ad Alimena; ha sofferto le incomprensioni fra i genitori, portandone i segni. Ha avuto una corrispondenza epistolare decennale con Giovanni Verga, ha pubblicato varie opere, tra cui la presente (con Treves, 1921); vittima della sclerosi multipla vive gli ultimi anni assistita da una infermiera. Durante un bombardamento, nel 1943, si distruggono la maggior parte delle sue carte; muore a Masiano (Pistoia) il 1° gennaio 1944. Dacia Maraini nell’introduzione al romanzo, si chiede per quale ragione due sorelle che si vogliono bene si trasformano in due nemiche, trovando la risposta in una Sicilia dei primi del Novecento in “un ambiente piccolo borghese”. Nell’ esauriente excursus dell’ opera, commenta gli aspetti psico-sociologici, soffermandosi sullo stato di soggezione in cui era tenuta la donna, definendo “romanzo do-
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lente della scrittrice siciliana più vicina a Dickens che a D’Annunzio”. Don Lucio, amministratore di aziende agricole, è riuscito a farsi una posizione economica; cerca una moglie che, a suo giudizio, non sia frivola. Perciò sceglie una giovane senza tali requisiti con gran gioia della famiglia di appartenenza, che mai si sarebbe aspettata una fortuna simile. La novella sposa, Antonietta, chiede al marito, di portare con sé l’amata sorella minore Nicolina. Fin da subito l’uomo viene servito e riverito fino all’inverosimile, mentre le due sorelle devono accontentarsi di ritagli di agio, convinte che il marito-cognato abbia bisogno del massimo comfort, perché il suo lavoro lo richiede. Le donne, incapaci di ribellarsi o di rendersi conto del loro stato di sudditanza, accettano la loro condizione. La moglie trascorre molto tempo a letto per via di tre gravidanze, per quanto riesca segue i figli nella crescita e nello studio, unitamente alla sorella, entrambe badando che il marito-cognato non s’accorga che il figlioletto, unico maschio, non si perda in letture che egli reputi robaccia, come lo Jacopo Ortis di Ugo Foscolo. Accade che l’uomo circuisce e abusa della cognata, minacciandola alla prima ribellione di riferire alla sorella, e rinfacciandole di essere ingrata che mangiava in quella casa a sbafo. Intanto Alessio scoperto il reale lavoro del genitore, preso coscienza di quanto accadeva nella propria casa, con un padrestrozzino, che perfino gli negava cinque lire, per riparare una bicicletta avuta in prestito, preso dalla vergogna, afferrata una pistola in casa di un amico, si uccide. A seguito della tragedia le due donne, per posizioni diverse, si colpevolizzano, e si chiudono nel dolore; la moglie rifiuta l’ordine del marito di ritornare nel paese, Sant’Agata, né tantomeno che sia allontanata la sorella, una volta ritenuta rivale. “E lui, per ragioni probabilmente interessate, acconsente. Fa comodo a tutti che Nicolina continui a servire, a pulire, a lavare”, ecc. Ma le bambine Agata e Carmelina crescono opponendo “resistenza passiva” al padre-tiranno.
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Commenta Dacia Maraini: “Si potrà mai cambiare qualcosa? E le serve che scambiano la servitù per un destino del genere, smetteranno mai di servire dei padroni che finiscono per amare nonostante tutto?”. Giudica la scrittura, nitida, asciutta. Nel tormento della vicenda troviamo momenti di tenerezza, quando nel silenzio il corpo delle vittime cede alla stanchezza, non più “prigioniero di una consuetudine alla servitù e all’ubbidienza.”. E noi verificheremo adesso. *** Maria Messina inizia così: Nicolina “cuciva sul balcone, affrettandosi a dar gli ultimi punti nella smorta luce del crepuscolo.”, pensando con malinconia alla casa lasciata a Sant’Agata (Messina); mentre Antonietta assiste il figlio Alessio in preda ad una forte febbre. Don Lucio, seduto e soddisfatto della cena, fuma voluttuosamente la pipa, in attesa di sorbire una bevanda preparata solo per lui; e per non soffrire le noie della nottata, ordina di allestire una stanza, fin quando il figlio non guarisca. Carmelina gioca con i balocchi, e presto ci sarà l’ultima nata, Agata. E questa è una tipica giornata. Al mattino: colazione per il padrone comodamente seduto; le due donne consumano in piedi, pane e ricotta; esse si prendono cura dell’igiene dell’uomo, come pettinarne dolcemente il capo, massaggiargli le spalle e il collo, mettergli la spolverina e spolverargli la giacca prima di uscire. Il padrone di casa, non si cura dei bambini e, nel caso specifico, di come abbia trascorso la notte il figlio ammalato. “Non poteva soffrire scene di malati che si lagnano, di donne che piangono…” (pag. 29), gli avrebbero guastata la colazione, in fin dei conti gli erano state vietate le emozioni per non provocare il cuore debole. D’altronde le due sorelle ragionano giustificando che anche il buon’anima del loro padre era ostinato quando il loro fratello, Alfonso, ebbe la meningite. Le due sorelle, quando potevano, stavano sul balcone che dava sul vicolo, sedute a lavorare. Da lì vedevano “una povera sciagurata, la Rossa, accoccolata sullo scalino corroso della propria casupola” (pag. 44) e qualche vol-
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ta si affacciava una giovane vedova per annaffiare gerani, che assisteva il padre paralitico. Alla porta di casa loro, non bussava nessuno per visita, solo gente ignota che con tono timoroso chiedeva di don Lucio. *** Maria Messina interviene tracciando la storia pregressa, un po’ a incastro. Don Pasquale Restivo, padre delle due sorelle protagoniste, segretario comunale, per accrescere le sue risorse, pensando al futuro della sua nidiata di figli, intraprende l’attività di appaltatore costruendo case; ma non essendoci portato va oltre le spese. Sua moglie, donna Amalia, gli suggerisce di rivolgersi a don Biasi che lui giudica uno strozzino, “mai!”, egli risponde. Il barone Rossi, straricco possidente di palazzi e di terre, affidava l’amministrazione dei beni al notaio Marullo, “ometto piccolo e secco”, per gli aspetti legali, e a due fattori per i lavori delle terre; ma l’amministratore che provvedeva all’affitto, alla manutenzione e alla riscossione era don Lucio Maria Carmine. Questi si recava ogni primavera a Sant’Agata per la riscossione e quando necessitava prestava denaro ai morosi, solventi, accrescendo la fama di benefattore. Era fiero di sé poiché aveva sofferto nella fanciullezza le ristrettezze ed ora poteva ritenersi ripagato. Avviene così che don Lucio concede un prestito a don Pasquale, previa estimazione peritale di casa e terra. Al tempo stabilito il creditore, ricevendo l’obbligato, presso un “alberguccio” del paese, gli rammenta la scadenza delle cambiali, facendo intendere che aveva aspettato fin troppo e che si esponeva anche lui, tuttavia gli rinnova le cambiali. Osserviamo la tecnica truffaldina tendente a tenere sulla graticola il debitore e a ingraziarselo. Difatti, per riconoscenza, don Pasquale offre ospitalità, al suo creditore, don Lucio, per tutti i giorni che soggiornava al paese. In famiglia Restivo l’evento veniva considerato come una festa: Caterina, la figlia più grande, aveva vent’ anni; seguivano Antonietta e Nicolina, e poi i fratelli. Antonietta restava angosciata dalla presenza del giovane don Lucio che “le ispirava una soggezione
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tanto forte che le toglieva il respiro” (pag. 37); ma in seguito, l’attendeva con piacevolezza per interrompere la monotonia casalinga. Don Lucio ha l’occhio lungo, la tiene in osservazione; così dopo cinque anni, con un giro di parole, parlò al padre, tanto che riscuoteva l’ammirazione poiché non si approfittava della sua posizione di creditore e parlava con rispetto della figlia. Con modi giudicati da galantuomo, lascia in disparte che la giovane parli con i genitori e sfoghi con il pianto la sua emozione. La famiglia contentissima, marito e moglie ridevano perché anche lei, donna Amalia, quando fu chiesta in matrimonio pianse, ma poi tutto fu allegro. Lui le regala un anello e seguirono tre visite nell’annata per ‘familiarizzare’, si giudicò l’ evento come una fortuna. Antonietta prima di sposarlo chiede al futuro marito, se la sorella Nicolina poteva stare con loro, almeno nei primi giorni; ma poi ne ritardava il distacco e il marito la assecondava. *** Eccoci alla notizia della dipartita del padre delle due sorelle. Di ritorno dal paese, Nicolina avverte il peso della ospitalità del cognato, anche perché si lascia alle spalle la casa di famiglia con un cartello “Si loca” e la famiglia smembrata, come il fratello Alfonso che va a vivere dal nonno. Don Lucio aveva assicurato che avrebbe aiutato la vedova e provveduto alla dote di Nicolina; accreditandosi così ulteriore merito di benefattore. Solo Caterina giudicò negativa la soluzione: “La partenza di Antonietta ci ha portato sfortuna. È così quando cade la prima pietra… presto tutto il muro si sfascia e crolla.” (pag. 45). Maria Messina con viva immedesimazione avverte che Nicolina, si sentì obbligata in quella casa spaziosa ma tetra; così, per non essere troppo di peso, convinse il cognato a licenziare una vecchia serva e a prendersi lei cura dei servizi domestici, tanto più che allora Antonietta era alla sua prima gravidanza, che le darà Alessio, un bambino gracile e malaticcio. Con la giustificazione del lutto mantenuto per alcuni anni, le due sorelle rimangono in casa senza uscire se non per le strette ne-
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cessità. Questo tornava utile al padrone di casa poiché così risparmiava spese superflue. Ed eccoci all’inizio della storia. Alessio è in preda alla febbre molto alta e solo su insistenza delle donne, il marito-cognato fa venire un medico, la cui diagnosi è tifo; tuttavia guarisce. Carmelina, la secondogenita gioca con i balocchi in cucina e “come un gattino” attende che la zia le porti i manicaretti avanzati del padre. Con il trascorrere degli anni, Alessio va a scuola dai Domenicani, Carmelina va dalle monache e la madre accudisce l’ ultima nata, Agata. Il capofamiglia ha atteggiamenti provocatori e subdoli, con chiare intenzioni verso la cognata. Da allora le labbra di Nicolina “non avrebbero più osato posarsi sulla pura fronte degli innocenti bambini. Il bacio aveva perduto per sempre ogni soavità.” (pag. 73). Il suo mondo è circondato da brutture. “Dal vicolo saliva il lagno della Rossa, ch’era stata battuta e scacciata dall’amante. S’era buttata lunga distesa dietro l’uscio chiuso, e un piccolo bambino dai piedi nudi e la camicina corta fino al ventre, stava a guardarla da lontano.” (pag. 57). Avvertiva il peso della solitudine e dell’obbligo. “L’abitudine a servire gli altri non le lasciava godere un’ora di completo riposo.” (pag. 59), adesso comprendeva la ritrosia della sorella, Caterina, al matrimonio. *** Un giorno un uomo bussa alla loro porta, ma in famiglia, ricevono l’ordine di non aprire, si comprenderà in seguito che quell’uomo avrebbe chiesto in moglie Nicolina, la quale si chiedeva come mai non si era fatto più vedere. Lucio convince la moglie che quell’ uomo non sarebbe stato degno della sorella. Incidentalmente, si apprenderà, dopo anni, che il pretendente era stato il prof. Casafulli, padre di un bambino biondo, insegnante di Alessio al tempo del “latinorum”, quando il ragazzo scherzando sul suo futuro, che non gli appariva roseo, si chiedeva se il padre l’ avrebbe voluto: ingegnere Alessio Gaspare Carmine o forse amministratore come lui. Alessio voleva bene alla zia “gracile e magra”, aveva intuito che qualcosa di grave incombe-
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va fra le due sorelle. Difatti l’uomo-padrone accusava la moglie di non avere saputo sorvegliare la sorella, e di venire ripagato con ingratitudine, ricordando l’ospitalità, che di tanto in tanto, dava ai fratelli delle due donne: ad Antonio perché si recava in città a sostenere esami di licenza nelle scuole tecniche e ad Alfonso per un concorso; inoltre, bontà sua, aveva mandato denaro in regalo alla suocera (con l’avvertenza di fargli conoscerne l’utilizzo). Accadde una volta che Agatina si lasciò scappare la frase “Questa è la casa di mamma! Non è la casa sua!” (pag. 87) riferendosi alla zia. E Maria Messina commenta: “Agata, la più piccola, quella che aveva succhiato il rancore contro di lei col latte della madre, la derideva… Sì, la derideva…” (pag. 101). Nicolina, in quanto agli abusi subiti, attacca la sorella: “Tu mi hai rovinata. Tu mi hai messa in bocca al lupo. Intorpidita dall’ egoismo mi lasciavi sola, giornate intere, per servirlo. Ti faceva comodo, allora ch’io facessi la serva a te ed ai tuoi figli?” (pag. 88). E poi riflette di sentirsi schiacciata dalla sorella, per salvarne la pace, e spiega: “Non è già troppo ch’io – già ‘allora’ l’adoravo senza saperlo, - io che lo servivo con più devozione di te…” (pag. 90). Nicolina rifiuta di andare via da quella casa, si sentirebbe come un limone spremuto o un cencio che non serve più. Antonietta cerca di convincerla, esortandola perché non sia lei a fare trapelare alcunché presso la loro casa, con la madre e i fratelli. Come se nulla fosse il padrone di casa si dilettava ad assistere alla preparazione ora del caffè, ora delle salsicce da parte delle donne, poiché lui se ne intendeva. *** Maria Messina pone attenzione su Alessio, vittima sacrificale, suo malgrado, delle circostanze. Accadde una volta che per strada il ragazzo viene riconosciuto da una “donna vestita di nero”, come figlio dell’uomo di fiducia del barone Rossi, che il giovane s’affrettò a correggere in “segretario”. La donna “dalla faccia scarna e rugosa” gli racconta di avere consegnato al padre una collana di valore a
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garanzia di un prestito ricevuto e che al momento di riscattarla si è vista rifiutare il pegno. Dice al “signorino” di riferirlo al padre, se vuole accertarsene, lei è “Maria del vicolo dei Tre Re.” Ma a casa, naturalmente il padre nega. Don Lucio si assenta quindici giorni “doveva andare anche a Catania a far visita alle sue sorelle maritate, che lo facevano ripartire carico di provviste e di regali. Da quando si era assicurato che le sorelle non gli avrebbero dato noie, se ne ricordava ogni anno con una certa amorevolezza.” (pag. 97). In assenza del padrone di casa e per iniziativa dell’ometto Alessio, la famigliola si concede una passeggiata e fra le due sorelle avvenne un leggero disgelo, e poiché esse erano malvestite si diressero tutti sulla spiaggia fino al crepuscolo. Al rientro le due donne stavano in apprensione come se l’Uomo stesse in casa ad aspettare. Per un po’ a casa sembrava esserci la serenità di un idillio, quando giunge il padrone di casa “un po’ stizzito perché nessuno l’aveva sentito entrare.” (pag. 111), un suo primo saluto fu il richiamo a Nicolina perché dà troppa confidenza al nipote. Alessio, con la sua amarezza, prende a nolo una vecchia bicicletta per cinquanta centesimi, sennonché durante la corsa si rompe e mastro Ciàula, al rientro, pretende oltre cinque lire per la riparazione; a nulla sono valse le recriminazioni del giovane rilevando che il guasto era avvenuto nel punto in cui c’era stata una saldatura. Il padre di Alessio non ne vuole sapere nulla, nonostante l’intercessione della moglie, senza curarsi dello stato di prostrazione in cui erano due donne. Così Alessio decide di rivolgersi al suo amico fraterno. Il sacrificio sta per compiersi. Più tardi, bussano alla porta, è il servo del barone; don Lucio esce di corsa dirigendosi al palazzo del Barone: fuori nella gran folla, si sente la voce del notaio Marullo, che diceva “Era un ragazzo felice”. Intanto il baronetto, sconvolto dall’evento, sta a letto in preda ad un forte malessere. Alle condoglianze “Tante visite rasserenavano don Lucio e lo liberavano a poco a poco dall’assillante timore che la morte violenta di Alessio potesse adombrare
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la buona fama che s’era fatta in città.” (pag. 127). Proprio in quei giorni, sia il barone, sia l’assessore Lauria, gli avevano proposto degli incarichi prestigiosi. Mentre le due donne sole, stanno rifugiate nella stanza da pranzo, ricevono la visita di alcune vicine di casa prese da compassione, tra cui la vedova del primo piano del vicolo, ed anche la moglie di un impiegato debitore. Questa, commentando della vita sacrificata del genere femminile, confessa: “aveva quindici anni, mia figlia, quando scappò di casa. Ora abbiamo fatto pace. Ma suo marito la batte e lei lavora per mantenerlo.” (pag. 129). Gli occhi di Antonietta sono rimasti asciutti, si rifugia nella sua camera a pregare e a soffrire. Nicolina è stanca; la sera andando in camera sua si divincola dal cognato, ma lui vuole dimostrare di essere il più forte. Nei giorni successivi don Lucio cerca di concedersi qualche svago fuori, certo di meritarlo: Decide di allontanare le due donne: si rivolge prima a Nicolina, poi ad Antonietta, perché vadano a trascorrere un po’ di tempo dalla madre per il bene di ciascuna; ma l’una, indipendentemente dall’altra, con motivazione diversa, oppone un rifiuto (Nicolina per non essere giudicata un cencio; Antonietta perché dopo la tragedia ogni diversivo non serve più). Maria Messina narratrice siciliana, racchiude ne La casa nel vicolo la parte peggiore del tempo suo, che Dacia Maraini, scrittrice toscana ben nota, dei nostri giorni, ha saputo cogliere in sintonia, con un’analisi spietata, a ben vedere, come la lettura ce ne dà conferma. Il romanzo fin dall’incipit introduce il lettore ad assistere dal vivo, sempre con alta tensione; comprendendo, man mano, i rapporti parentali, attraverso un discorso a ritroso, che occupa la prima parte, e poi riprende nella seconda, con flash back e toni più miti, frutto di maturazione. Opera educativa, degna della più alta tradizione del teatro tragico, ove tra le aperture e chiusure del sipario, avviene l’agnizione dei soggetti nella loro reale natura. Per tutto il libro non viene usata una sola parola oltre il
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buon gusto, al contrario di quanto oggi si indulga sul turpiloquio oltre misura. Salta subito agli occhi la spietata situazione familiare: l’uomo-tiranno, le donne-serve, e i figli come qualcosa di marginale. Osserviamo che l’ ottica descrittiva ha focale posta su Nicolina, forse alterego dell’Autrice. Per un’intima suggestione ritengo che quanto fin qui esposto, costituisca solo la base di partenza per ulteriori approfondimenti: il paradosso tra apparenze sociali e penosa incomprensione; personaggi come manichini di Pirandello o come soccombenti di Verga. O ancora, la narrazione piana ma d’alta tensione, accelera l’azione (dramma) e su altro piano, sia pure in ruoli psicoanalitici confusi, mi avvicina le due sorelle ad Antigone e Ismene, e Alessio, vittima della tragedia, a Edipo (padre e fratello), simbolo catartico di una vita svuotata di senso. Tito Cauchi MARIA MESSINA, LA CASA NEL VICOLO, a cura di Dacia Maraini, Corriere della Sera, 2013, Pagg. 144
UN FILO D’ERBA Non faccio niente di male se scrivo una poesia. Mi chiedo solo che senso ha spiegare i giorni e il mistero che proviene da un filo d’erba. Anche se come uomo ho sempre lottato e per quel filo d’erba ho sempre vissuto. Raffaele Cecconi Venezia Stampare un giornale ci vuole coraggio, ma è più difficile farlo vivere: composizione, bozze, carta, stampa, buste, francobolli… se non volete che POMEZIA-NOTIZIE muoia, diffondetelo e aiutatelo con versamenti volontari (specialmente chi trova la propria firma, o scritti che lo riguardano, dovrebbe sentirsi moralmente obbligato. L’abbonamento serve solo per ricevere la rivista per un anno). C/c. p. n. 43585009 intestato al Direttore
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LIANA MILLU: UNA SCRITTRICE TESTIMONE DELL’OLOCAUSTO di Liliana Porro Andriuoli N occasione dell’anniversario della morte di Liana Millu, avvenuta il 6 febbraio 2005, ci piace ricordarla, dato che essa fu una valente scrittrice ed anche una delle poche persone scampate all’Olocausto. Nata a Pisa da famiglia ebrea il 21 dicembre 1914, Liana Millu subì infatti la deportazione nei campi di sterminio, benché al tempo della persecuzione ebraica fosse appena ventenne. Fu dapprima espulsa dell’insegnamento della scuola primaria a causa delle leggi razziali e dovette esercitare vari mestieri per sopravvivere. Dopo l’8 settembre 1943 partecipò alla Resistenza italiana, entrando a far parte di un gruppo clandestino denominato Otto, dal nome del fondatore Ottorino Balduzzi. Recatasi in missione a Venezia, venne arrestata nel 1944 in seguito a una delazione e fu deportata ad Auschwitz. Fu poi trasferita al campo di lavoro di Malkow, presso Stettino, dove lavorò in una fabbrica di armamenti. Liberata nel maggio 1945 fece ritorno in Italia e qui riprese l’insegnamento nelle scuole elementari e la collaborazione ai giornali, raccontando in più occasioni la sua esperienza come deportata. Iniziò la sua carriera di scrittrice nel 1947 (lo stesso anno in cui fu pubblicato dalla casa editrice Francesco De Silva Se questo è un uomo1 di Primo Levi) con un libro di raccon-
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Il romanzo sarà ripubblicato da Einaudi solo nel 1958.
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ti, Il fumo di Birkenau2, a cui fece seguito la sua opera maggiore: I ponti di Schwerin, un libro che, nel 1976, ancora inedito, entrò nella rosa degli otto finalisti del Premio “RapalloProve” e nel 1978, anno in cui apparve presso l’Editore Lalli di Poggibonsi, risultò finalista al Premio Viareggio3. Dieci anni più tardi videro la luce dapprima i racconti de La camicia di Josepha4, a cui fecero seguito un libro documentario scritto in collaborazione con Rosario Fucile: Dalla Liguria ai campi di sterminio (s.d.) e nel 1999 Dopo il fumo. Sono il n. A 5384 di AuschwitzBirkenau5, una raccolta di nove articoli e discorsi che, nonostante constino di poco più di una cinquantina di pagine, costituiscono un’efficace testimonianza del dramma dell'olocausto6. Vorrei dedicarmi qui, seppure brevemente, ai primi tre libri di Liana Millu, che sono letterariamente anche i più interessanti, soffermandomi maggiormente sul secondo, perché assume l’andamento del romanzo, quantunque il suo più conosciuto sia proprio il primo, Il fumo di Birkenau7, una raccolta di sei racconti, tradotta in diverse lingue e definita da Primo Levi, “una fra le più intense testimonianze europee sul Lager femminile di Au2
Milano, La Prora. Successivamente I Ponti di Schwerin ebbe altre due edizioni: una nel 1994 per la ECIG di Genova e più recentemente, nel 1998, quella per i tipi dell’ Editore Le Mani di Recco (Genova), che reca una Prefazione di Laura Lilli e un’Introduzione di Francesco De Nicola. 4 Genova, ECIG, 1988. 5 Brescia, Morcelliana, a cura di Piero Stefani; premio della Giuria al “Rapallo-Carige” del 2000. 6 Sono infine usciti postumi, nel 2006, il diario, Tagebuch: il diario del ritorno dal lager (Prefazione di Paolo De Benedetti; introduzione di Piero Stefani, Firenze, Giuntina, 2006) e Campo di betulle: Shoah, l’ultima testimonianza di Liana Millu, curata dal giornalista Roberto Pettinaroli, con prefazione di Moni Ovadia e postfazione di Fernanda Contri (Firenze, Giuntina, 2006). 7 Dopo la ristampa di Mondadori (1957), Il fumo di Birkenau fu ripubblicato da Giuntina (Firenze) nel 1979, con successive riedizioni: quella dell'86 reca la prefazione di Primo Levi. 3
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schwitz-Birkenau: certamente la più toccante fra le testimonianze italiane”8. Le protagoniste del libro sono infatti sei donne, internate con la Millu in quel terribile lager, e tutte in diversi modi votate ad un tragico destino. Di questi racconti mi preme ricordare, per la sua drammaticità, quello che parla di una madre la quale, vedendo al di là dei fili ad alta tensione del reticolato, il proprio figlioletto non più nel gruppo dei bambini addetti ai lavori, ma trasferito nel “Quartänerlager” (e quindi destinato alla camera a gas), con il coraggio della disperazione lo richiama a sé, per poterlo abbracciare un’ultima volta e morire insieme a lui. Tutti di forte impatto emotivo, questi racconti colpiscono per lo stile asciutto ed efficace con il quale sono stati scritti, che è proprio della nostra autrice. Sono infatti racconti molto forti nella loro concezione e nel loro sviluppo, che rivelano nella Millu un’ autentica vocazione di scrittrice, al di là dell’ occasione di vita da cui nascono e della quale costituiscono quindi una tragica testimonianza. Sebbene non si tratti sempre di testimonianze autobiografiche in senso stretto, i sei racconti sono in ogni caso costruiti intorno a fatti realmente accaduti nello stesso campo dove la Millu era stata deportata. Il libro successivo, I ponti di Schwerin, inizia invece allorché, finita la guerra, l’Europa è libera dal nazifascismo. Elmina, la protagonista, può così tornare a casa, dopo una lunga prigionia. Anche lei infatti, come la Millu, è un’ebrea reduce da un campo di sterminio, il che subito ci suggerisce che sia l’alter ego dell’autrice. Così come le terribili esperienze che Elmina deve superare per poter riprendere la normale vita di ogni giorno (e che costituiscono il filo conduttore del racconto, che narra del suo cammino verso la libertà) ci fanno immediatamente pensare di trovarci di fronte ad una rievocazione abbastanza veritiera di quelle della stessa autrice. La narrazione degli avvenimenti non cede 8
Prefazione al libro (Giuntina, Firenze, 1986).
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mai il passo alla monotonia, essendo continuamente vivacizzata da numerosi flash-back che si accendono nella mente di Elmina, facendole rivivere molte delle sue sovente traumatiche esperienze di vita antecedenti la deportazione. Come osserva Francesco De Nicola nella sua Prefazione al libro, “i piani del presente, narrati in prima persona singolare”, continuamente si intrecciano “con quelli del passato, narrati in terza persona con soggetto Elmina”9, generando un accavallarsi di situazioni che tengono ben desta l’attenzione del lettore. Nonostante si avverta costantemente in queste pagine l’eco delle terribili sofferenze subite dall’autrice, lo stile è sempre asciutto e privo di enfasi e di retorica, come è proprio di chi abbia ormai superato il dolore e guardi dal di fuori i giorni dell’orrore attraversati. Ed è appunto per questo atteggiamento lucido, ma senza odio e senza recriminazioni, che il racconto acquista maggiore efficacia e che pertanto I ponti di Schwerin, pur non appartenendo alla letteratura memorialistica concentrazionaria, come da qualcuno è stato osservato10, offre ugualmente un’efficace testimonianza del dramma vissuto dalle donne deportate nei lager nazisti. Il titolo si rifà al nome di una cittadina tedesca, Schwerin11 appunto, dove nel 1945 (dopo la disfatta della Germania) i reduci dei campi di concentramento venivano smistati, verso l’Est o verso l’Ovest, in vista del rimpatrio: a Schwerin si trovava il confine tra la zona di occupazione sovietica e quella americana. Ma il titolo assume in realtà anche un forte significato emblematico, dato che questi ponti divengono nel libro un po’ come la metafora della libertà. I ponti infatti sono due: il primo, quello di Schwerin, è un ponte reale e concreto che condurrà la protagonista verso la libertà dopo 9
I Ponti di Schwerin, Edizione Le Mani, 1998. Teo Ducci [a cura di], Bibliografia della deportazione nei campi nazisti, Milano, Mursia 1987. 11 Capoluogo del Land Meclemburgo-Pomerania Anteriore, a 50 chilometri da Amburgo. 10
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la prigionia nazista ed è quello che Elmina deve attraversare per far ritorno in Italia, raggiunto a fatica, dopo infinite peripezie e innumerevoli stenti. Il secondo è invece un ponte puramente metaforico, che rappresenta il simbolo di un’altra difficile libertà da conquistare, quella, per le ex deportate, dell’ integrazione, dopo l’esperienza del lager, nella vita civile. Ed è il ponte che, dopo altrettante peripezie e difficoltà, Elmina attraverserà coraggiosamente per ottenere anche la sua libertà di donna, delusa, ed offesa, nei suoi sentimenti più profondi dall’uomo che tanto aveva amato e con cui aveva condiviso gli ideali per i quali era stata internata ad Auschwitz. Numerosi sono gli incontri che la protagonista fa e le vicende che attraversa, ma non meno importanti sono, nell’economia del romanzo, i ricordi che salgono alla sua mente; ricordi che in qualche modo al presente si ricollegano e dal quale sono generati. Così è di Oal, il ragazzo di cui era innamorata, e di suo fratello Vincenzo; delle zie Nella e Linda; del cugino Enrico e di Armando, tutte figure che nascono dall’urto con la realtà del momento, dal quale vengono evocate e nel quale si dissolvono. Altrettanto vive si affacciano anche le figure di volta in volta incontrate, quali ad esempio quelle di Vito e di Genovefa, di Benito e di Salvatore: tutte persone con le quali Elmina si accompagna per caso durante un tratto del suo viaggio. Esemplari sono poi in questo romanzo certe scene descritte, oltre che con notevole bravura tecnica, con sottile finezza psicologica, come quella dello stupro subito da Elmina durante una sosta notturna del viaggio, da parte di un ignoto sbandato, cui si contrappone invece l’iniziazione all’amore da lei avuta da Armando, un cinquantenne del quale ella si era invaghita, forse solo per evadere dall’ ambiente familiare, piuttosto opprimente. Diverse sono anche le età nelle quali Elmina si proietta, nel ripercorrere le varie fasi della sua esistenza, vedendosi prima bambina, poi ragazza ed infine adulta, ma sempre facendo ogni volta ritorno alla dura realtà del presente. Ecco allora riapparire certe imma-
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gini del tempo passato, come quella del primo giorno di scuola, in cui subì la sua prima discriminazione; come quella della “stradaccia” dove, incuriosita dai discorsi di un’amica più grande di età, si reca con Luisa ed assiste a scene che la rendono di colpo adulta12; ecco la visione che le torna dell’aborto a cui aveva dovuto sottoporsi in seguito ad un rapporto da lei avuto con “l’uomo dall’impermeabile”, incontrato per caso una sera in cui era prossima al suicidio; ecco l’aggressione del cane che l’azzanna lungo la strada che percorre per raggiungere il ponte di Schwerin e che le richiama alla mente quella dell’altro feroce cane che dilaniò a Birkenau Marcolino, il figlio minore del “Fascistone”, come chiamavano il cugino Enrico; ecco il ricordo della “Chiromante Agata”, della quale Elmina era stata cliente (“vendeva coraggio, speranze e fiducia a poche lire la seduta”) e che aveva persino sostituita per qualche tempo, durante una sua malattia; ecc. Ai ricordi tristi si alternano altri più lievi, come quello delle violette che Oal (un alpino conosciuto per caso durante un’incursione aerea) le aveva regalato un giorno in Piazza De Ferrari, a Genova, e del quale Elmina si era poi innamorata; o quello di Willem, un olandese anch’egli scampato ai campi di concentramento, ma tragicamente morto prima di giungere a Schwerin, il cui ricordo resterà indelebilmente impresso nella sua mente. Dopo altre dolorose vicende, finalmente Elmina riesce a raggiungere il primo ponte e a far ritorno in Italia. Qui però l’attende una più grande delusione, dal momento che tutto è diverso da quanto ella immaginava: ognuno è infatti immerso nei propri problemi, chiuso nel proprio egoismo ed anche Oal, l’uomo da lei tanto amato e il cui pensiero l’aveva sorretta durante la prigionia, la delude terribilmente, essendosi nel frattempo, senza attendere ulteriormente sue notizie, sposato con Rosetta, la figlia dei Terlin, la famiglia che l’
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È questo un episodio che verrà ripreso dalla Millu nel racconto L’educazione sessuale de La camicia di Josepha.
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aveva nascosto in un momento di pericolo. Anche il tentativo di riallacciare, nonostante tutto, il loro rapporto, risulta vano perché Elmina ha ormai compreso la meschinità dell’ uomo a cui si era legata; il che rendeva impossibile instaurare con lui ancora un dialogo: “Lo aveva ascoltato, ascoltato, ascoltato perdendo infine ogni speranza di venire, a sua volta, ascoltata”13. E’ a questo punto che Elmina, rompendo il suo legame con Oal, che ormai sente un estraneo, attraversa idealmente il suo nuovo ponte di Schwerin e conquista così quella libertà e quella dignità che le erano state negate. Il racconto procede con disinvolta scioltezza, il che dimostra nella Millu una non comune capacità di condurre il dialogo e di reggere l’accavallarsi dei pensieri della protagonista, nel succedersi degli eventi e nel rapporto con i suoi numerosi interlocutori; di possedere cioè le doti precipue di una vera scrittrice, capace di trasmettere emozioni autentiche con uno stile di sicura efficacia. Scritti con identica penetrazione psicologica e con l’abituale scioltezza del dire sono anche gli otto racconti pubblicati dalla Millu ne La camicia di Josepha, non tutti ispirati all’ esperienza del lager. Fra questi ultimi alcuni prendono in qualche modo uno spunto dal suo romanzo, seppure acquistino qui una loro spiccata autonomia, venendo più diffusamente sviluppati o in qualche caso anche diversamente impostati e condotti. Per entrare nello specifico, colpisce particolarmente come il motivo delle violette, pur ritornando in due racconti distinti, vi compaia in modi completamente diversi, addirittura antitetici, quantunque estremamente interconnessi. In 1944: le violette di Malkow, infatti, il ricordo delle violette regalate ad Elmina in un “febbraio di guerra” dal ragazzo che amava le fa vivere un’esperienza quasi “paranormale”. In una gelida notte invernale, durante la prigionia, ripensando a quelle violette, riesce infatti a rivederle come d’incanto 13
Edizione Le Mani, 1998, p. 316.
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davanti ai suoi occhi e a percepirne finanche il profumo (“a forza di rievocarle le violette le erano apparse”). Nel racconto successivo, invece, 1988: le violette di Piazza De Ferrari, la protagonista, la Signora B. (che è la stessa Elmina del racconto precedente, anche se ormai avanti negli anni), ricollega mentalmente quei fiori teneri e vellutati per lei tanto evocativi, ad altri, ben diversi: a due “misere” violette “selvatiche”, “quasi nascoste dall’erba”, che con rabbia aveva “strappate e sbriciolate”, un giorno in cui stava lavorando nel campo di Auschwitz. Ed ora, a quel pensiero, avverte uno stato di profonda angoscia: ricorda infatti il momento nel quale, spinta da un disperato spirito di sopravvivenza, aveva ripreso con determinazione il proprio posto nella squadra di lavoro, a scapito di una polacca la quale, glielo aveva subdolamente sottratto poco prima, ma che in seguito a quella sostituzione, avrebbe probabilmente trovato la morte. Un ricordo che, seppure a distanza di tanti anni, ancora la tormenta. Dettata dall’esperienza del lager è anche la vicenda del racconto successivo: Le notti della Signora B., nel quale l’anziana signora, svegliatasi di soprassalto, in seguito a un incubo, avverte come il presentimento della fine. Sul “video della memoria” le compare allora la scena di un altro evento simile, vissuto tanti anni prima, all’epoca della sua deportazione ad Auschwitz. Anche nel lager infatti si era destata di soprassalto perché chiamata da una voce che le ingiungeva di alzarsi ed aveva creduto di essere condotta a morte, ma fortunatamente si trattava invece soltanto di una corvée supplementare: per quella volta era salva. Ed anche ora la Signora B. ridestatasi dal sogno, si rende conto che nuovamente la morte l’ha risparmiata. Altri racconti invece, come i primi due, La camicia di Josepha e La condanna, non sono legati al motivo del lager, benché anche in essi compaia un elemento tragico, dato che le protagoniste (come le altre, due ben disegnate figure femminili) trovano una morte violenta. Così è anche del racconto che conclude il libro, La “Grande Reine”, mentre L’ educa-
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zione sessuale e Gli invidiosi hanno contenuti più lievi. Dall’insieme della narrativa di Liana Millu emerge l’immagine di una scrittrice di tutto rilievo, capace di forti descrizioni della realtà esterna come di profonde discese nella propria interiorità e pertanto, dopo ormai nove anni dalla sua morte, mi è parso opportuno riproporne l’opera che, nell’attuale contesto letterario, appare degna di una maggiore considerazione, anche al di là della testimonianza dell’Olocausto, da lei così efficacemente compiuta. Liliana Porro Andriuoli
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Il mio paesano Verga; Capuana, Pirandello, Sciascia, Lampedusa, tutti figli di Mongibello come me. Abbiamo chiacchierato e rivisto alcuni testi, abbiamo fatto un brindisi con gocce di "Lava dell'Etna" a 70 gradi ed euforici ci siam salutati con un arrivederci, dandoci appuntamento in libreria. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia
ULTIMO ATTO Noi, i sopravvissuti, noi i morti rannicchiati come feti dentro non so quale memoria. Un cielo sereno e vuoto in cui svapora il mondo. Ancora la voce dell’Uomo risuona: “Libera le ceneri, Signore, dentro l’urne per l’ultimo vento.” Impossibile incidere con la parola il ghiaccio del Tuo silenzio. Guido Zavanone da Satura, n. 23 (3° Trimestre 2013) Da tempo abbiamo chiesto, all’amico Zavanone, che ci mandasse qualche sua poesia per questo mensile. Può darsi l’abbia fatto, ma, per il disastroso disservizio postale, non abbiamo mai ricevuto. Così, in questo numero, pubblichiamo, per i nostri lettori, due sue poesie tratte dalla bella rivista Satura. (d.d.f.)
FIGLI DI MONGIBELLO Ho incontrato i miei amici tra viali d'oleandri e gelsomini e insieme abbiamo gustato tarocchi e fichidindia e poi sottobraccio ci siamo avviati in biblioteca per abbuffarci di letture.
ALLELUIA DELLA DISCRIMINAZIONE Una impiegata su Twitter: “Sono in partenza per il Sud Africa. Spero di non prendere l' AIDS”. Licenziata per discriminazione razziale. Per visitare la Terra Santa, a Natale, mi sono vaccinato contro tifo e paratifo. Spero non mi tolgano la pensione. Rossano Onano Sono stanco delle sopraffazioni di minoranze o d’imbecillità. Sodomita ovocita fuoriuscita birumbino bibino birumbà. Nella nostra Nazione, ormai da tempo, non si può viver di normalità. Troglodita eremita sciacquadita... Non ti scandalizzare, caro Onano, se oggi ti rispondo coi blablà. Aita malavita gesuita... Lavoro non ho più da alcuni anni e la pensione è troppo striminzita. E’ il tempo che mi assalgono i malanni... Che cosa possan togliermi? Non so. Pur non avendo nulla da ingolosir la gente istupidita, saggio è, comunque, starmene lontano, perché mi posson togliere la vita! Domenico Defelice
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Il Racconto LE GRANDI DOMANDE E LA TOVAGLIA DEL MADAGASCAR di Raffaele Cecconi
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I recente ascoltando la radio ho sentito dei versi di Wislawa Szymborska, Premio Nobel 1966, un poeta le cui composizioni lievi ed ironiche sono in sostanza intriganti e tali da spingere a molte riflessioni. “Chiedo scusa se alle grandi domande do piccole risposte” scrive la Szymborska. E viene sùbito da chiedersi: quante sono le grandi domande e quante le piccole risposte? In realtà ogni risposta presuppone una domanda iniziale che può essere piccola oppure grande. E noi sappiamo che il mondo nella sua totalità resta una grande domanda cui spesso è impossibile dare anche “piccole risposte”. Viviamo nel presente, in ciò che ci circonda, ed è difficile distinguere il grande dal piccolo perché, in scala diversa, tutto è grande e tutto è piccolo. Non perché tutto sia equivalente e relativo ma perché, al contrario, ogni cosa ha un proprio ruolo e una diversa importanza. Spesso ho pensato agli uomini che nel corso dei secoli e di molte generazioni hanno sfidato fiumi e foreste, deserti e montagne, vedendo nascere e poi tramontare ideologie e religioni, grande regni e condottieri, povertà accanto a ricchezze tra un alternarsi di utopie e filosofie. Quante sono, mi sono chiesto, le domande piccole o grandi, nuove oppur vecchie, che hanno accompagnato da sempre le azioni umane nella complicata storia del nostro pianeta? Come spiegarle? Come interpretarle e in che modo giudicarle? Al pensarci mi sentivo schiacciato dai dati, spesso deluso, sovrastato da una quantità di eventi che mi lasciavano incerto e troppo imbarazzato per poter trarre sicure conclusioni.
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Ma poi mi è venuto in mente un viaggio, tra i molti che ho fatto, e una tovaglia comprata anni fa in un villaggio del Madagascar. Questa tovaglia è un pezzo di stoffa in grado di ricoprire il normale tavolo di una sala da pranzo. Tuttora su questa tovaglia io faccio la mia piccola colazione inzuppando in una tazza di caffelatte due fette di pane biscottato. E voglio ricordare questa tovaglia non solo perché carina, ma perché è ornata da motivi di grande rilevanza. Al centro è suddivisa in quadrati di circa quattro centimetri di lato. Ogni quadratino al suo interno, ricamata a colori vivaci, rappresenta una scena del villaggio. Ed ogni piccola scena, affiancata ad un’altra, forma altrettanti tasselli che riassumono la vita della comunità come si svolge in singoli episodi: il contadino che lavora, il bambino che cresce, il carro che va al mercato, la donna che porta a vendere i frutti della terra. La tovaglia è insomma un vero racconto illustrato e affidato a immagini ingenue ma efficaci. Ci offre la visione significativa di un villaggio con le varie attività che lo animano. E proprio grazie all’esame di queste attività ci fa capire e dedurre il senso di molte altre cose: anzitutto il bisogno che ognuno ha di vivere e sopravvivere, la capacità che si realizza nel lavoro, l’ingegno che nasce dalla fantasia della ricamatrice la quale agisce per un bisogno di pane, ma anche di bellezza e di armonia. E tutto questo accade, non solo in Madagascar. in un qualsiasi villaggio del mondo più o meno grande, più o mono vario come può essere una città o una metropoli dove i problemi della gente si mescolano provocando contemporaneamente grandi domande e piccole risposte. O viceversa: piccole domande accanto a grandi risposte che formano tutte una tovaglia ricamata e colorata. Poi mi sono venuti in mente i nostri giorni in cui, a grandi domande, si danno spesso insufficienti risposte. Non so nemmeno come, in un momento di malinconia, in questo inizio d’anno quasi senza volere, non essendo più giovane, ho pensato a molti amici scomparsi dalla mia vita insieme ad altre persone che ho conosciuto e che la sera, prima di addormen-
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tarmi, vengono a visitarmi come tanti fantasmi. E infine mi sono ricordato di tutte le epoche passate in cui molti altri uomini sono morti e spesso, per una serie di circostanze, non hanno nemmeno avuto il tempo e la possibilità di porsi delle domande alle quali dare grandi o piccole risposte. Raffaele Cecconi
DUE PROSE di Colombo Conti I Pescatori Transumanti rano lì… la prima e l’ultima volta che li vidi, stavano dentro alle loro barche indaffarati a riparare le reti, al vecchio porto Clementino. Quelle erano le loro modeste case e lo sarebbero state per tutta l’estate. Noi li chiamavamo in dialetto i “Pozzolani” perché venivano da Pozzuoli. Generazione su generazione tornavano sempre come le rondini. Magri, con le loro magliette blu scolorite dal sole e dal sale, con le loro facce abbronzate e i piedi nudi. Col tempo erano diventati di casa… nostri amici fraterni. - O’ pesce o’ pesce fresco… accattateve o’ pesce! Gridavano. Poi venduto il pescato, diventavano taciturni pensando a preparare la prossima battuta di pesca. Al tramonto partivano con i loro gozzi blu verso il largo in direzione dell’Argentario. Accompagnava l’addio, come una nenia, il monotono rumore dei motori entrobordo. Le barche si stagliavano in controluce. Nei giorni di bonaccia sembravano sospese sull’acqua fino a scomparire all’orizzonte. Chissà dove si sarebbero fermati a pescare? Nessuno mai lo saprà.
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Il Pozzo dei sogni Una luna nera apparve ai miei occhi. Mi trovai a testa in giù all’interno di un vortice di emozioni. Ero io che giravo intorno al mondo o lui at-
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torno a me? Mentre precipitavo trovai ad una ad una le sette vie: L’illusione, la fantasia, la solitudine, il caos, la pazzia, la quiete, il risveglio. Nel labirinto misterioso della mente erano come dei tunnel, all’inizio dei buchi oscuri che improvvisamente s’ illuminavano d’ ipnagogiche immagini, dall’aspetto veritiero. Fui affascinato da queste creature che apparivano e si dissolvevano come entità fantastiche. Fantasmi del passato, presente celati nella mia memoria. Mi parlarono a lungo di cose senza senso. Mi coinvolsero in situazioni irrazionali attraverso traiettorie non definite come fanno i palloncini sorpresi dai turbini di vento. Non cercai il risveglio, mi abbandonai a quello stato. Era un mondo profondo, era il pozzo dei sogni, il mio nascosto, l’inconscio che stavo decifrando, componendo come un grande puzzle. Ci sarei mai riuscito? Credo di no, forse dopo la morte tutto sarebbe stato chiaro o cancellato per sempre. Per sempre, una parola stonata tra l’ effimero che muta, una bacchetta magica che inganna il tempo e lo spazio, una fonte inesauribile che produce sensazioni, che creano, che annullano l’io e concupiscono l’ essere rendendolo inconsapevole, ostaggio delle proprie emozioni. Colombo Conti
LA MIA MAMMA di Walter Nesti
L
A mia mamma aveva una capacità eccezionale: madre di cinque figli maschi (l'unica femmina, mia sorella Liana, morì nell'immediato dopoguerra di gastroenterite e lasciò un vuoto che non è stato più colmato), rendeva ciascuno di noi convinto di essere il preferito, e nello stesso tempo consapevole di non doverlo rivelare agli altri in modo da poter conservare nel proprio intimo quel dolce segreto. Lo abbiamo scoperto quando ormai la mamma non c'era più ed eravamo adulti e in avanti con gli anni. La
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scoperta rafforzò il nostro legame e ci fece capire quanto grande fosse stato il suo amore. Personalmente conservo di lei molti ricordi bellissimi, altri dolorosi, come l'ultimo della brutta malattia e poi la morte a 66 anni, ma due in particolare mi hanno accompagnato da sempre come una specie di angelo custode. Il primo più che un ricordo è come una visione e non so se sia veramente accaduto o la mia fantasia lo abbia costruito più tardi o confuso con quello di mio fratello nato dopo di me. La mamma è in camera, seduta davanti al grande specchio dell'armoire, come si diceva allora, e mi allattava. Risento ancora la sensazione del seno caldo e l'odore del latte, mentre con l'occhio riuscivo a vedere dalla finestra aperta i campi allagati di sole. Il secondo è l'odore pungente della sua saliva. Quando cadendo mi sbucciavo un gomito o un ginocchio, lei bagnava il fazzoletto con la sua saliva e lo strisciava sulla mia ferita. Sono questi gli odori che mi hanno accompagnato lungo la mia esistenza e che avverto ancora, a quasi ottant'anni. Sensazioni molto difficili da descrivere ma così intense da farmela sentire ancora viva, quasi palpabile. Walter Nesti
Uscii da quel luogo, allungai le braccia per fermare il tramonto, volevo fuggire con lui, ma più correvo più mi allontanavo, arrancai stremato fino alla sommità del colle, compresi di aver perso. Non avevo considerato lui… il moto della terra. Colombo Conti
IL MOTO DELLA TERRA
da Satura, n. 23 (3° Trimestre 2013)
Entrai nei tuoi occhi dall’iride smeraldo, per carpire i tuoi pensieri. Mi apparve una stanza vuota di ricordi piena, fredda, ancestrale… Allora accesi il fuoco per scaldare la mia passione assopita da tempo, dalla tristezza, che avvolge gli attimi di un tempo tiranno. Ti rividi abbracciata con me all’orizzonte, sentii ancora il tuo corpo assecondare il mio, donandomi turbamento e piacere. Fu quel freddo improvviso, alla radice dell’anima, che mi risvegliò dal torpore.
Albano Laziale (RM)
LA VITA AFFIEVOLITA Viene il tempo della vecchiaia. Non la folgore che schianta, ma una timida sera striscia di cosa in cosa, s’insinua tra le crepe dell’esistere e gli alveoli lamentosi dell’anima. Si scusa. Umilmente occupa il mondo. Tu contempli il silenzio, come odiare questa miseria d’ombra che ti stringe materna fra le braccia, t’assopisce in una infanzia nuova senza sogni. E ti vieta anche questo, di soffrire per te, per lei, se ogni ora che resta scolorando consola di morire. Guido Zavanone
PASSA IL TEMPO Passa il tempo veloce sopra la gioia, sopra il dolore i due sentimenti che dirigono la vita i due sentimenti che, insieme, danno sicurezza e amore. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
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Comunicato STAMPA XXIV Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it organizza, per l’anno 2014, la XXIV Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, come sopra, lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2014. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in eu-
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ro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia-Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2013). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito.
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Luci della Capitale di Noemi Lusi ROMA IN BIANCO E NERO...
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ra la gioia del Natale e la sottesa perplessità nel dover ridurre le spese per bilanciare il precario equilibrio finanziario della famiglia o di ogni soggetto single, striscia un rammarico poiché si vede che le decisioni che ci hanno spiegato occorrono per rimettere in forze l’Italia in realtà non vengono prese con l’impeto e la tempe-
stività che a noi non addetti sembrano occorrere. In particolare chi vive nella capitale avverte il procedere e la stasi. Un nuovo anno si avvicina e spesso si sente dire che un’ iniziativa importante è stata votata, ovviamente con la fiducia e che avrà concreta realizzazione nel 2015 giungendo a compimento nel
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2017. In tutti i campi e quindi anche in politica, siamo abituati a sequenze più ardite. Come conseguenza gli Italiani sembrano interessarsi sempre di più alla Meteorologia, che è variabile ma comprensibile ed anche in certa misura prevedibile. Al termine dei numerosi lunghi soliloqui dell’addetto alle trasmissioni televisive di turno, ci rendiamo conto che in realtà ci siamo persi e che non tratteniamo neanche le notizie che riguardano la nostra area, oggi. Dunque non siamo noi a desiderare di ricevere le notizie meteo, ci vengono proposte forse perché utili ed anche più economiche per quanto riguarda la loro produzione. Giorno dopo giorno ci capita di sentirci immersi in un’atmosfera ed una realtà ampie e profonde delle quali apprezziamo l’ indiscussa vitalità che appare pervasa da spirito democratico. Eppure talvolta sentiamo la nostalgia del tempo in cui votavamo. Ora abbiamo gli addetti ai lavori che si susseguono uno o più dopo l’altro e lavorano intensamente per riportare l’Italia all’antico splendore con risultati che per ora non rassicurano del tutto. Ieri era Natale ed occorre, quindi, in periodo di festività, ridurre il nostro scetticismo ed abbandonarci ad un ottimismo che ci giova e che ci ricarica in vista degli stress che ci attendono. Vorremmo che non ci fosse bisogno degli interventi nei confronti di chi non ha autosufficienza e che ogni nucleo avesse un posto di lavoro con cui condurre un’esistenza dignitosa senza l’angoscia del distacco dal corpo sociale. Noemi Lusi
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I POETI E LA NATURA - 28 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
IL “VIAGGIO STELLARE” DI GUIDO ZAVANONE
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orse, arrivati a questo punto (ventottesima puntata in ventotto mesi) non è necessario chiarire che, in questa rubrica, intendiamo per Natura non solo tutti i paesaggi o gli orti o i giardini, o i maestosi e preziosi Parchi naturali, ma intendiamo tutto ciò che esiste senza provenire dalle mani dell'Uomo. Quindi, anche le costellazioni e l' Universo, o gli Universi infiniti... Guido Zavanone è un poeta astigiano di nascita, che vive ed opera a Genova. Col suo ultimo libro, Tempo nuovo (De Ferrari Editore) una silloge bella e profonda, ha vinto il Premio Cesare Pavese 2013, nella sezione Poesia edita. Nelle altre Sezioni hanno vinto Claudio Magris (Narrativa), Beppe Severgnini (saggistica) e Sebastiano Vassalli ( alla carriera). Ma il libro di Zavanone che mi aveva parti-
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colarmente affascinato e stimolato ( e che può entrare in questa rubrica sui Poeti e la Natura) era stato il penultimo, Viaggio stellare, (Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova). Un poema di 1372 versi, suddivisi in 25 “capitoli”, per la maggior parte endecasillabi, ma alternati a quinari, senari e settenari, per conferire al canto un ritmo moderno e sincopato, in aderenza alle varie circostanze del viaggio ed alla temperatura poetica, sempre altissima, dall'inizio alla fine. Il “ viaggio stellare” verso il quale è spinto il poeta dal suo inestinguibile desiderio di conoscenza inizia con una anomala astronave in forma di nuvola estiva, azzurrognola e fitta, invisibile agli altri, caduti in un sonno profondo, da cui scende un'agile ombra, che porta il poeta rapidissimamente in alto, lontano dal pianeta verdazzurro, il tutto in un silenzio inaudito: “Sforato avevamo / il grande velo dell'atmosfera / e splendidi ci venivano incontro / dal concavo cielo / stormi infiniti di stelle / bianche e azzurre, raccolte / in multiformi costellazioni... A guidarlo, tenendolo per mano, una soave creatura con ali di farfalla e corpo flessuoso di fanciulla, volata fino a lui da un lontano pianeta, seguendo il suo soccorrevole istinto per aiutarlo a ricercare il Vero... Ad un gesto della mano di lei, nel cuore del poeta scende una pace sovrumana: “...Ormai troppo terrene le domande / d'ieri e di sempre / “Chi muove il mondo, quale / l'origine nostra, ove la meta”. / Mi sentivo accettato, una molecola / felice in sintonia con l'universo...” Il viaggio continua per arcipelaghi di stelle, risucchiati “nello spazio e nel tempo dentro i giochi /alterni e opposti delle quattro forze / che ci governano, eppure... sembra che si segua una rotta ben calcolata, forse un'orbita celeste...(Le quattro forze sono quella gravitazionale, quella elettromagnetica, quella nucleare forte e quella nucleare debole). Il poeta, fra un “assopimento” e l'altro in laghi d'ombra e d'azzurro (vengono citati i laghetti di Plitvjce in Croazia...) si sente spro-
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fondare in un abbandono tra care braccia, dimenticando l'angoscia che l'aveva attanagliato nel poema Il viaggio, frutto di un precedente viaggio-ricerca sulla Terra ( anzi, nel sottosuolo). Vede nascere stelle, ma ne vede anche morire, per cui l'eternità si rivela un inganno della mente (“Ora vedrai come tutto / anche quassù tra noi scolora e muore” gli dice lo spirito-guida. Nel cap. IV assistiamo, affascinati, alla formazione dei sistemi planetari nelle galassie, anzi, negli universi. Segue la visita al Pianeta dei nani e dei giganti, nonché il passaggio davanti ad un buco nero, che tutto ingoia quanto gli si appressa. Il buco nero è un mistero tra i misteri, ma niente paura: il poeta è fiducioso nel progresso umano, e fa dire alla voce nota: “Un giorno sarà dato di accostarci / a quel mostro con nuove conoscenze / e attraversare l'imbuto funesto: esploratori intrepidi di mondi / sconosciuti, forse / d'un tempo diverso. Nel cap. VII ci è dato sentire il terrificante rantolo dell'Universo, ma ecco, rassicurante, la guida: “Qualche volta il vecchio cosmo si lamenta.../ per qualche sconosciuta vicenda...” E aggiunge : “ Navighiamo entro il vuoto smisurato / che separa l'una e l'altra galassia / ciascuna con miriadi di stelle / e ruotanti pianeti / punti sperduti dentro immensi veli / di polvere vaganti / nella cangiante varietà dei cieli. / Così muove e s'evolve l'universo / senza scopo apparente / vascello-fantasma in cui s' accalcano / passeggeri atterriti che si chiedono / dove vanno; / e nessuno sa niente”. Quel “nessuno sa niente” è lapidario. Non ammette repliche. Il consiglio dell'affascinante guida è un sano “carpe diem”: “Godi la bellezza/ che giorno a giorno ti vado mostrando/ sullo scosceso ciglio della vita / cogli il fragile fiore dell'istante”. Dopo aver visitato il pianeta degli ibernati, quello dei robot e quello delle ombre viventi, è inevitabile l'incontro con lo spirito di Giordano Bruno, che pur di non ritrattare la sua credenza in infiniti universi con innumerevoli mondi abitati da esseri intelligenti, accettò di
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lasciarsi abbrustolire vivo sul rogo. Nel cap. XIV (Il sogno) l'autore immagina di scampare alla lapidazione per mano di una folla inferocita, grazie all'intervento salvifico di Gesù Cristo. Il risveglio è angoscioso : “Mi destai che tendevo le braccia / vanamente a quell' uomo pietoso / mi chiamava non potevo raggiungerlo / disperato ne perdevo le tracce...” Nel cap. XVI c'è il pianeta dei morti, con la sagace rappresentazione di categorie di personaggi dei nostri giorni, dai politici ai mercanti alla gente di spettacolo e così via. Nel cap. XVII c'è addirittura l'incontro col caro Padre Dante. Guido, pur sentendosi il cuore battere forte per l'antico amore e per l' emozione di essere al cospetto / d' uomo che più d'ogni altro il mondo onora, trova il coraggio di fargli delle domande. Viene così a sapere che i personaggi che Dante onorò col suo canto, e li fece grandi, “ giacciono ammucchiati / nel grande cimitero della Terra: / pacificati / fraternizzano tra i vermi”. Alla domanda esiste un Dio che l'universo regge ? Dante risponde : “ Se intendi rettamente la visione / che muove la Commedia e la suggella / Dio è luce in cui l'uomo si riflette. / Ma se l' arida scienza l'apparenta / a protoni, neutroni ed elettroni / ogni fede ha perduto sua semenza”. Infine, Dante dice la sua anche sulla Letteratura, meglio, sulla Poesia, nel nostro mondo d'oggi : “ Tu saresti – mi disse – un altro Guido / e forse vorresti essermi seguace / ma più nessuno tra i versi fa il nido / se pur fornito d'ingegno vivace. / Parola e realtà vanno disgiunte / ormai la prima si coltiva in vitro / fugge il lettore cercando altro lido...” Seguono altri capitoli in cui la voce narrante fa altri incontri. Con affaristi senza scrupoli, con milioni di bambini innocenti morti per fame, malattie o guerre, etc. con cui si può esercitare appieno la sua forte carica di indignazione, di commiserazione o di sarcasmo. Riassumerne qui il contenuto, anche all' estremo, è impossibile. Il libro va letto. Accennerò soltanto all'incontro, particolarmente commovente, dell'autore con i propri genitori defunti. L'atmosfera elegiaca straziante, la rievocazione di alcuni momenti semplici ma
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autenticamente felici già vissuti con il figlio, il timore e la tenerezza per lui, l'attaccamento alla vita per se stessa ( a fronte del buio, del gelo e del silenzio per l'eternità) fanno di queste pagine un capolavoro nel suo genere. Questo incontro nell'Aldilà coi genitori, mai abbastanza amati e compresi in vita dai figli (“Io dissi solo: “Sapete che v'amo”/ Altro non volli aggiungere, temendo / che nel mio dire leggesse l'affanno / e il dolore di un vivere insensato...”) lascia nel poeta l'angoscia e il rimorso / per un amore così tardi espresso. Il poema si avvia alla conclusione col cap. XXII (Ammonimenti ) in cui gli strali non risparmiano numerose categorie di persone della società moderna, come certi Papi e cardinali, scienziati, moralisti e maitres à penser, “delinquenti richiamati in cattedra”, politicanti senza scrupoli e truffatori di ogni risma. Purtroppo le invettive non risparmiano neppure le categorie degli artisti e dei poeti coi loro tic e difetti, fatta eccezione per quelli le cui rime sono intrise / di dolore e d'amore e forse è questo / che al lettore avvicina e le redime. Il ritorno sulla Terra è descritto con rara perizia di artista. E il primo contatto col suolo è un affondare coi piedi nel fango e in un freddo grembo. Dopo un sublime viaggio stellare ai confini dell'impensabile e dell'indicibile, una voce banale che grida : “Siete arrivati”, il fango, il buio fitto, il cancello, l'incertezza più assoluta, trasmettono al lettore il fascino e l'angoscia della grande Poesia, dell'ignoto e della solitudine esistenziale del singolo individuo, dovunque e in nessun luogo. Luigi De Rosa
PANE DI NATALE Un tempo il pane si gustava fresco, e a mezzodì ancora sfornato caldo, sapido e di forno ancor fragrante. Me lo portavo a casa nel cartoccio
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già spiluccato lungo il mio percorso, poi che non resistevo alla lusinga golosa ed allettante. E giunta a casa già m’ero saziata che una pagnotta intera avea sedato l’appetito vorace fanciullesco, dopo l’ore infinite della scuola. Cibo d’anima e corpo, universale, beneficente icona di Dio sul desco, ostia sacrale, santa eucaristia. E nel cenacolo in grembo al focolare, sia segno di pace, fede ed armonia, spezzarlo insieme il giorno di Natale, su questa terra gretta, avara, insazia, dove però a nessun, pane di grazia, si può negarne pur soltanto un tozzo. Serena Siniscalco Milano, Natale 2013
IL CALICE Si può dire? A me piace un bicchiere di vino rosso, corposo; l'illusione soave di un colloquio con la storia di questo nettare... penso alla terra che l'ha coltivato, alle fatiche di uomini dalle mani sicure, ad accudire quei grappoli divini. Ora il vino è servito nel calice più bello, scorre nelle mie vene salutare e benevolo. Adesso ho capito che questo amore per il vino, è qualcosa che resta dentro l'animo, teneramente e che non teme di finire, ma di migliorare sempre nel tempo che ancora verrà da terre cariche di storia per un dono a tutto il nostro paese. Adriana Mondo Reano, TO
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Disegno di Serena Cavallini
IN DIALOGO CON
CARLO GOLDSTEIN, DIRETTORE D'ORCHESTRA, SULLA 'CARMEN' PISANA CON LA REGIA DI
FRANCESCO ESPOSITO di Ilia Pedrina
T
RIESTINO di nascita, classe 1976, mi-
lanese per studi e non solo, con queste due città nel cuore, come a fonderle per fondarne una tutta sua, Carlo Goldstein è giovane e dirige orchestre, tante, d'Italia, d'Europa, d'oltre Atlantico e d'oltre Mediterraneo, con sapiente e dosata energia. Complice Facebook, ma non solo, mi ha dato il permesso di incontrarlo al Teatro Verdi di Pisa, prima della 'Prima' della Carmen di Bizet, in cartellone per la serata dell'11 Gennaio e per il pomeriggio del 12, quella Opera comique che viene dalla novellistica francese del Mérimée e che si trasferisce in libretto per partitura, grazie alle penne di Henri Meilhac e Ludovic Halévy. Poi, mi sembra giusto, il Bizet sposerà la figlia di quest'ultimo.... I.P. 'Carmen' come elemento del desiderio, del desiderio come enigma e della gioia di vivere, anche drammaticamente, la libertà. Che cosa ha dato e ricevuto nelle precedenti esecuzioni di quest'Opera e come ha affrontato il tema della bellezza e della scelta d'amore come sfida? C. G. Il mio percorso in quest'Opera così celebre, così giustamente amata dal pubblico, viene da lontano. Io ho eseguito 'Carmen' molte altre volte, e quindi sono cresciuto lentamente nel tema. La
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principale difficoltà di questo titolo non è tanto tecnica, né da un punto di vista del canto né da un punto di vista della direzione: essa è proprio invece nell'appropriarsi della magnifica completezza e complessità di questa protagonista, che è una figura ormai addirittura iconica che ha creato il nostro immaginario, come l'Amleto, come Re Lear, come Madame Bovary, come Faust. Quindi non ha tanto senso per queste grandi figure chiedersi: 'Ma Carmén è buona o cattiva? Carmén vuole cosa? Vuole essere amata da Don Josè oppure vuole essere amata da tutti gli uomini'? Questo tipo di interrogativi diretti di fronte a figure di una tale complessità letteraria e teatrale sono fuorvianti o sono comunque insufficienti. Si tratta di appropriarsi invece di un profilo molto complesso in cui le tematiche di fondo che questa donna rappresenta, che lei giustamente menzionava e che sono eminentemente la libertà e, nella libertà, l'amore e tutte le altre cose che sono dentro la libertà. Come questa tematica si declina nelle varie fasi, nelle varie scene in questa protagonista? Si declina in un modo molto complesso: la libertà di 'Carmén', di questo titolo di Bizet, non è affatto una libertà esteriore, da cartolina! Questa figura femminile così complessa nei vari momenti tocca diversi aspetti della libertà, li rappresenta pienamente: la libertà dell'uccello della seduzione, di cui si parla nella 'Habanera', che è una danza, sospesa tra la seduzione e la minaccia, quando anche il coro sottolinea '...prends garde de toi...', e poi la libertà nella 'Seguidilla' del Primo Atto, che è una libertà potremo dire sensuale, forse addirittura sessuale, in cui il proprio desiderio prevarica l'altro, costringe don Josè a delinquere di fatto, a sconvolgere la propria vita, a disertare, a diventare un criminale, e quindi una libertà molto problematica, fino al Finale Secondo, in cui l'intero popolo grida '...la liberté...' e qui la libertà, potremmo dire, è un'apoteosi collettiva, è un ideale sociale: veramente un Finale, quello dell'Atto Secondo di 'Carmén', che solo un compositore francese poteva comporre, la magnificazione della libertà con un senso sociale, politico tanto ampio. E poi nel Terzo Atto, l'Atto più drammatico, Carmén, nella 'Scena delle Carte', affronta la libertà più ardua, cioè la libertà di scegliersi un destino, ovvero la libertà di guardare negli occhi la morte, di scegliersi una morte, che viene portata fino in fondo nel Quarto Atto, in cui, nel Duetto Finale, lei inizia proprio dicendo: 'Mi hanno detto che eri qui vicino, ma io non me ne sono andata perché....je suis brave...'. Quindi la libertà di cui ci parla Bizet in quest'opera è declinata in tutti i suoi aspetti, che sono molto problematici: non è sem-
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plicemente la libertà adolescenziale di chi piglia e fa quello che vuole! É una libertà molto complessa: è una libertà dei sensi, è una libertà dell'intelletto, è una libertà sociale, è una libertà politica, è una libertà drammatica, è una libertà gioiosa, è una libertà che è voglia di vivere e poi invece è autodistruzione, alla fine. Ecco, una libertà veramente affrontata dal punto di vista teatrale, come tematica, in un modo in cui io credo non è mai più stata trattata. I. P. Lei ha detto che soltanto un Francese poteva affrontare questo tema. É lo sfondo popolare e popolare di emarginazione, quali possono essere le sigaraie della fabbrica, i bambini di strada e i protagonisti zingareschi a portare Bizet a fare esplodere questo lato sociale all'interno anche di valenze musicali popolari, con scelte di danze e quant'altro? C. G. La questione è molto sofisticata in Bizet, nel senso che Carmén è l'emblema della Spagna, anche per gli Spagnoli, ormai, ma è una creazione artistica completamente francese, fatta da un compositore che io dubito sia mai stato in Spagna. Cosa fa Bizet da un punto di vista culturale, ancor prima che intellettuale, ideologico? Dal punto di vista culturale fa qualcosa di incredibile: crea un'unica identità nazionale, peraltro di una nazione non sua, mischiando elementi che rappresentano diverse anime di quella nazione, diverse fasi storiche, unendo alcuni elementi che non sono nemmeno proprio di quella nazione. Per esempio l'Habanera, che è sicuramente ispanica ma pare che sia caraibica di origine. Si attinge ad un concetto di 'hispanidad' diciamo molto lato, molto teorico, ma lo si definisce poi con una tale prorompente efficacia da diventare definitivo. I temi musicali originali spagnoli, tradizionali, non esistono in Carmén, sono tutti inventati da Bizet, non c'è una sola melodia folclorica e quindi anche i momenti più riconoscibili non sono affatto attinti dalla tradizione musicale: la 'Seguidilla' che fa Bizet è una danza in 3/8 che non ha niente della Seguidilla che ballano quelli sui tavoli, in realtà. É tutto nella finezza musicale tipicamente francese e nella capacità di sintesi teatrale di Bizet che sta la creazione di questo immaginario, in cui, per venire adesso al senso della sua domanda, l'elemento da un lato più bozzettistico, più folcloristico, che certo c'è in quest'Opera, e l'elemento di cui parlavamo prima, cioè invece l'elemento più profondo, entrano in colossale collisione: da un lato questo scenario bozzettistico e folclorico, che certo è quello che ha determinato inizialmente il successo di quest'Opera e che, possiamo dirlo, oggi forse nella nostra sensibilità è anche un poco invecchiato, più di genere, sempre meno Carmén entra, fuma, danza in modo così prevedibile; dall'altro c'è invece lo scavo reali-
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stico, psicologico, che pian piano nel corso dell'Opera prevale, nel Terzo e nel Quarto Atto. Per questo si dice che i primi due Atti sono quelli un poco più leggeri, più da 'Opéra comique', più folcloristici e il Terzo ed il Quarto Atto meno, non per una scelta musicale generica, ma proprio perché da questo scenario iniziale si estrapola un po' alla volta quello che è il vero cuore di questa storia, il tema del destino, il tema della libertà, un tema comunque drammatico. 'Carmén', allora, è un'Opera profondamente drammatica. E devo dire, dal punto di vista musicale, direttoriale, un interprete che non comprende questo, non riuscirà neanche a rendere i primi atti, le prime scene più leggere nel modo giusto, perché fin dal Primo Atto noi abbiamo entrambi questi elementi messi in grande contrapposizione: quindi da un lato le prime scene, il Coro dei Bambini, le Sigaraie, questa orchestrazione francese, è un 6/8, un tempo cullante, tutto molto morbido, molto bello. Poi ad un certo punto entra Carmén e la musica diventa brutale, lui è in controtempo, lei canta tutto in 'levare': dopo una brevissima introduzione, subito incomincia questa 'Habanera' minacciosa. Sembra un'altra musica! Già nel Primo Atto, che pure è così piacevole da un punto di vista folcloristico, Carmén, lei, protagonista, porta subito un elemento drammatico, di sfida, entra e porta la tempesta, lo sconvolgimento, subito, subito! A livello musicale il cambio è impressionante: nel giro di poche battute ci troviamo in un'altra atmosfera, in un'altra sonorità orchestrale: è proprio il contrasto fra queste dimensioni, uno scenario disegnato in modo bozzettistico, molto saporito, molto folclorico e poi invece la rovente materia portata dalla protagonista, che è questo realismo... I.P. … che è la sfida! Quando entra nel Terzo Atto il Tema del Fato, che non è il Destino cristiano, che è proprio il Fato sradicato da qualsiasi speranza, redenzione, è lì dove Carmén desta pietà? Io mi interrogo in questa direzione perché prima le sue due amiche giocano con le carte, chiedono ad esse del loro futuro, dell'amore, dei soldi, e poi arriva lei ed è come se, sapendo quello che andrà a chiedere alle carte -parla di 'avel', dell'avello, della tomba- , viene a chiedere qualcosa anche a noi, consolazione o quant'altro, oppure non ne ha bisogno? C.G. É ambigua lì Carmén in effetti e credo che quello sia uno dei momenti in cui un interprete può decidere in una direzione o in un'altra, la partitura è abbastanza aperta. Certo è che da un punto di vista strettamente musicale la 'Scena della Carte', che è l'Aria più drammatica di tutti i 'Solo' di Carmén nell'Opera, è genialmente incastonata in un numero, che è un Trio, con Mercedés e Frasquita, le sue a-
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miche, un numero che parte come un Duetto tra loro due di carattere leggero, girano le carte e poi, come con un cambio di luce improvviso, la musica diventa incredibilmente efficace perché in pochissime battute anche lì Bizet ci porta nell'abisso: in una sonorità cinerea abbastanza impressionante, incomincia questo 'Solo' di Carmén, in cui lei, se posso dire, non è stupita, infatti le parole dicono '… ma si, è così, certo che è così, se deve andare bene, va bene, ma se deve andar male, gira tutte le carte che vuoi...', come è nei grandi personaggi tragici, come se noi ci accorgessimo che il destino di questa protagonista è già segnato, a prescindere dalla sua volontà e dalle sue azioni. I.P. Ma perché è libera o perché si confronta con la norma che la vede una 'outsider'? C. G. Forse la seconda cosa. Il destino tragico di tutti i grandi personaggi del teatro anche nell'antichità sta nel fatto che sono in qualche modo dei 'diversi', che portano un elemento fino a delle conseguenze talmente estreme, nel caso di Carmén appunto la libertà, da essere, potremmo dire, socialmente intollerabili. P. Ma c'è consapevolezza in questo? C. G. Io personalmente non credo del tutto, credo che queste grandi maschere, queste grandi icone agiscano, proprio per avere questa efficacia teatrale, sospinte da un'energia che dominano solo in parte. Per questo chiedersi se Carmén è buona o cattiva è una cosa fuori luogo, nel senso che non risolve l'enigma, la completezza di questo profilo. I.P. Enigma allora non solo del desiderio, ma anche del desiderio di morte? L'abbinamento Amore-Morte si presenta in tante composizioni, qui la drammaticità che si rileva, come lei ha detto, nel Terzo Atto è legata a questa introduzione diretta della forma della tomba? Perché nella sfida iniziale della danza c'è la forma del corpo in azione, nella gestualità della seduzione e qui invece ovviamente l'immaginario si mette nella direzione della morte, di che cosa conterrà quel corpo: questo passaggio può obbligare chi sfida la legge a tenere oscura parte della consapevolezza, come lei diceva prima, proprio per non venire dominata in quella tomba? Se la consapevolezza è totale, tu sfidi e porti il corpo di fronte all'arma, ti lasci trafiggere, mentre così, come diceva lei, se c'è uno spazio nero, un buco nero, questa consapevolezza a metà è forse come l'ulteriore sfida, dopo morto, nei confronti della norma? C. G. Certo, sono d'accordo! Detto altrimenti, questo elemento di inconsapevolezza è quello che permette ad una figura di assurgere ad una statura simbolicamente definitiva, astorica. Facciamo un e-
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sempio, rimanendo nel mio mondo. Cavaradossi in Tosca è perfettamente consapevole, è un uomo che ha un ideale politico di libertà, ama una donna, Tosca, e lì c'è un cattivo che gli vuole rubare la donna e che è suo nemico politico e lui a questo 'cattivo', per non tradire i suoi ideali, soccombe, perché lui crede in quella libertà specifica, che è una libertà politica in seno alla battaglia storica che c'è in quel momento. Figura nobilissima, Cavaradossi! Un artista, un uomo di ideali: rappresenta in qualche modo un'icona della libertà in termini definitivi? No! Mai! É un eroe positivo che combatte la sua battaglia, è contenuto in quella sfida politica. Non c'è quell'altra faccia della medaglia, oscura, non è un vero destino tragico quello di Cavaradossi: è un destino drammatico, ma non è un destino tragico! Quello di Edipo è un destino tragico, in cui egli è mosso da un'energia che è sua e solo sua, in un destino che è suo e solo suo, di cui egli non comprende l'orizzonte o di cui comprende le conseguenze troppo tardi. Ecco l'elemento veramente tragico. Queste figure hanno oggettivamente una dimensione direi quasi metafisica, astorica, superiore, diventano appunto un'icona. Carmén mi sembra che sia di questa statura: se non fosse così, sarebbe solo la Carmén del lato bozzettistico, folcloristico, la sigaraia, un po' più sexy, un po' più aggressiva, un po' più emancipata delle altre, che non ce la fa, vuole quello poi le piace un altro, rimane incastrata in un triangolo d'amore andato male, perché di questo parla la storia. Ma Carmén non è solo questo. Carmén è animata, ha tutta una dimensione interiore, per questo entra nel nostro immaginario anche a prescindere da quello che è l'esito finale di questa storia, proprio come Edipo. Per noi esattamente come Edipo è nato, come muore conta relativamente. Edipo rappresenta un aspetto dell'essere umano, così come Amleto, che fotografa un aspetto dell'essere umano in un modo definitivo, al di là del fatto che poi lui uccida l'uccisore di suo padre. É l'esagerata intensità in cui si vive il proprio destino che permette a questi personaggi di fare emergere in modo definitivo un aspetto e portare questo aspetto, questo elemento, questa tematica nella sua dimensione assoluta. Nel caso di Carmén per me è la libertà, che significa consapevolezza di sé nel proprio contesto sociale, che significa desiderio sensuale, anche nella dimensione intellettuale; che significa interrogare il destino, che significa essere donna in un mondo di uomini. Si affronta in Carmén il problema dell'essere 'liberi di...' ma anche dell'essere 'liberi da...', la libertà qui si tinge di volta in volta di sfida, di dramma, di sesso, di desolazione, di speranza, di morte. I.P.Quando lei sceglie Escamillo, lo sceglie den-
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tro, lo sceglie fuori, lo sceglie perché è a contatto con la ferinità della potenza del toro con cui lui si confronta, tutte cose queste che non può trovare in Don José? La musica come affronta questi due protagonisti maschili, l'uno che trattiene il fiore che lei gli ha lanciato, anche se diventa secco, e sogna, e l'altro che, quasi indifferente, invece le dice '...ti dedico il toro...'? C. G. É giusta questa osservazione. Così come Carmén e Michaela. Questo è un personaggio che inventa Bizet, perché nella novella di Prospere Mérimée non c'è: sicuramente lo inventa per ragioni pratiche, perché aveva bisogno, essendo Carmén una voce drammatica, grave, un Mezzo, aveva bisogno di un Soprano, di una voce lirica che rappresentasse il contraltare nell'Opera. Proprio perché Carmén è tanto complessa, Michaela deve essere un personaggio monodimensionale e tale è: Michaela rappresenta l'innocenza, la purezza, la donna angelicata, rispetto a questa donna invece un po' demoniaca, cioè sospinta da un demone, da un'interiorità di sfida. I maschi evidentemente hanno due personaggi più equamente distribuiti. Certo Don José è più complesso di Escamillo: questo è abbastanza un 'macho' punto e basta, mentre Don Josè ha tutto un rapporto con la madre, si allude ad un passato irrisolto, per cui poi è entrato nell'esercito. C'è sicuramente qualcosa che spinge quest'uomo a cadere o a ricadere in una vita che non è la sua, tentato da un'energia che evidentemente è troppo grande per lui; Don Josè è una vittima di Carmén, in un certo senso, anche se alla fine è il suo carnefice, è più piccolo di Carmén, entra nella sua ragnatela, mentre Escamillo lo è meno. A me, rimanendo a Bizet e all'Opera, quello che colpisce è come tutti i personaggi in questa partitura, tutti, anche i più minuscoli, acquisiscano il loro profilo, il loro carattere solo in relazione a Carmén: è lei che dà un profilo, un destino a tutti. É stato notato che la parola più pronunciata in questa partitura è proprio 'Carmén', il nome della protagonista è sulla bocca di tutti: lei è un passaggio obbligato attraverso cui gli altri devono confrontarsi e misurarsi, da questo punto di vista lei c'è in tutte le scene, praticamente anche in quelle in cui tradizionalmente poteva non esserci. Nel Quartetto del Secondo Atto, che è un numero di 'commedia', quello sarebbe stato un numero perfetto di comprimari che organizzano come fare, andare, contrabbandare, un numero da divertire, con brindisi e champagne. Anche lì c'è Carmén! Poteva essere un Quartetto. No: è un Quintetto, c'è anche Carmén di mezzo, anche lei partecipa allo scherzo: è in relazione a Carmén che tutti questi acquisiscono il loro taglio di luce giusto, il loro destino all'interno della partitura. La scena meno neces-
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saria di tutta l'Opera, ed è una scena anche bella musicalmente, è il duetto tra Escamillo e Don José. Il confronto fra questi due uomini è perfettamente inutile: si sfidano ma non serve capire chi è il più forte tra di loro, perché è evidente che sono due modelli maschili entrati in competizione in Carmén, non tra di loro. Il magnete è Carmén, è lei che decide il destino di questi due uomini, non sono loro che lo decidono autonomamente. Infatti lo scontro tra i due accade nel Terzo Atto e si risolve in niente, perché poi vengono separati ed il confronto finale arriverà nel Quarto Atto. I.P. Passando dallo studio solitario, in verticale, della partitura, alla realizzazione con l'orchestra, con questa Orchestra Della Toscana che ha raccolto i successi di Lucca e di Livorno, è questo un 'dare e ricevere', come lei ha sostenuto nell'intervista per 'I Notevoli' su Sky, con insistenza, proprio perché vuole acconsentire alla emotività competente e professionale di tutti, tirando le fila di tutti quegli elementi artistici di cui si ha bisogno per mettere in atto un'Opera di questo genere? C. G. Lei vedrà. Avere due serate con due cast diversi non significa semplicemente che io 'metto sotto il disco'! Tra oggi e domani ci saranno due 'Michaela' molto diverse: i tempi, il carattere, la sonorità dell'orchestra saranno molto diverse. Ed anche per Carmén ci saranno due vocalità differenti, l'una più sopranile, l'altra più da 'Mezzo' e quindi con maggiori potenzialità drammatiche, l'altra invece con maggiori potenzialità liriche. Vanno favorite queste reciproche differenze, queste qualità individuali. Concretamente il mio mestiere pratico è proprio questo: non è imponendo una miriade di dettagli accuratissimi che un direttore lascia l'impronta in una determinata epoca. Bisogna avere nella testa ben chiaro, soprattutto per personaggi e per Opere vaste come 'Carmén', il filo rosso di ciò che si sta facendo, di ciò che si sta cercando e quindi anche, dal punto di vista pratico, musicale e tecnico, di ciò che non si vuole. Se è chiaro questo nella testa dell'interprete, la propria impronta digitale rimane sempre. La prima responsabilità di un direttore è forse quella di distinguere i diversi piani di priorità, perché ci sono moltissime priorità, il canto, l'orchestra, la scena, elementi come il coro, i costumi: avere chiaro questo, come all'interno di un organismo la spina dorsale. Poi si è liberi di andare in molte direzioni possibili: le volte in cui io sono più preparato, più sicuro, come nel caso di 'Carmén', una partitura che mi accompagna da molti anni, non ho rigidità né preoccupazioni.... Bisogna avere una percezione corretta del proprio ruolo... Il mio mestiere è molto privilegiato e la qualità del nostro lavoro è
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legata alla responsabilità. Conversiamo scioltamente, tra una metafora e l'altra, su tanti temi differenti tra loro ed interdipendenti, l'ambito familiare libero e culturalmente intenso in quella Trieste, sempre così aperta alla Mitteleuropa; il suo percorso di studi, nella Milano degli anni Novanta, problematica ma interessantissima; gli interessi individuali, gli incontri, il dinamismo e la curiosità intellettuale che lo portano sempre verso nuovi orizzonti, anche dal punto di vista professionale: gli piace citare una frase di Benedetto Croce quando, affrontato da un insegnate che gli chiede: “Prof. Croce, come si fa ad essere veramente un buon insegnante?”, egli risponde: “Bisogna fare altro nella vita!” In fondo, sottolinea opportunamente Carlo Goldstein, per mettere più cose possibili nell'Habanera di Carmén, che di per sé è una danza semplice, bisogna fare altro, allargando il più possibile il proprio repertorio, non solo in termini musicali. Una volta a casa, con tante scene di questa 'Carmén' nella mente e nel cuore, come quelle dei bimbi in coro, di tutti i colori, con vestitini semplici e d'effetto, che tengono voci e movenze di gioiosa ironia, imitando la sanguinosa corrida con 'torelli' a ruota di legno o la marcia dei soldati in fila ordinata, o quando, nel momento del rancio, battono a tempo pentolino e cucchiaio, scambio due parole, via etere, con il regista Francesco Esposito, perché in quei due giorni della 'Carmen' pisana era impegnato altrove. Non ne posso fare a meno. I.P. Ma cosa comporta dare una regia a quest'opera così mille volte moltiplicata sulle scene, per far risaltare tante differenti situazioni e relazioni tra gente del popolo, donne, bambini, soldati, sigaraie sorprese a fumare alla 'grande' nella pausa pranzo e borghesi sfaccendati che se ne stanno lì ad aspettare l'occasione erotica propizia per far sfoggio di sé? Tutto sembra che ti sfugga da ogni lato, perché il materiale è così imprevedibile, così arcaico! Ed invece …... F. E. É estremamente complesso: cercare di raccontare una storia nel modo più semplice possibile per arrivare al cuore della gente, cercando di stimolare il pubblico ad una riflessione non banale e non fermarsi davanti alla frase : “Spettacolo carino. Dove andiamo a mangiare stasera?” Per tentare di fare questo sono necessarie una attenta analisi della musica e del testo e soprattutto è fondamentale far nascere nel cuore e nel cervello degli artisti, con cui collaboriamo, un'idea da sviluppare. In questo caso il tema del rapporto uomo-donna. La complessità è stata quella di far affrontare e rivivere, attraverso una elaborazione emotiva, lo stato d'animo di una donna sottoposta ad attenzioni non sempre piacevo-
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li. É necessario lavorare sul singolo con molta pazienza e tanta attenzione a non ferire. I.P. Lavorare con Carlo Goldstein: sospetto proprio che sia impegno importante e costruttivo, unico nel suo genere per la storia della messa in scena di un'opera lirica come la 'Carmen': quando è iniziata la vostra collaborazione e quali gli aspetti della crescita personale e professionale che si è venuta articolando nel corso delle numerose prove ed esecuzioni? F. E. Nel mio curriculum ho scritto anni fa: “Rapporto imprescindibile con il direttore d'orchestra”. L'Opera è musica e la musica, lo dico da musicista, va rispettata. Con Carlo abbiamo fatto scelte comuni ad entrambi per andare in un'unica direzione. É fondamentale avere un dialogo quotidiano alle prove musicali ed alle prove di regia e capire se il nostro progetto prende forma e soprattutto se viaggia all'unisono. I.P. I costumi Anni '50 ed una Carmen che sciorina il suo corpo in scena, grazie alle gestualità di uno spogliarello e che poi si chiude in se stessa e si affida alla sorte presagita dalle carte, che non sbagliano mai. Poi, un istante dopo quelle note che sottolineano quasi l'andatura di una marcia funebre, ecco Carmen organizzare con le altre la seduzione furbesca delle guardie, per distrarre la loro attenzione dal controllo dei contrabbandieri e dalle loro faccende, tanto, lo si sa, gli uomini sono tutti uguali. E poi ancora una Carmen che, braccia inarcate all'indietro, mani sulla vita, quasi corna vive di una 'torera', si appresta a farsi giustizia da sé, guidando l'arma di Don Josè diritta al proprio cuore. Tutto di questa regia lascia un'impronta vivida, con quei bambini di tutti i colori, vivaci, inconsapevoli e comunque testimoni. Perché? Cosa sta dietro queste innovative interpretazioni delle trame dell'opera, con attori che devono avere doppio spessore, nel canto come nell'arte scenica? F. E. Dietro a tutto questo c'è solo la voglia di continuare ad emozionare ed a raccontare storie che possano regalare il desiderio di continuare a sognare di poter cambiare le cose. Il mio sogno? Quello di far comprendere a chi ci governa che la cultura è fondamentale. Mi preparo così, in modo semplice e diretto, ad incontrare, quando sarà il momento, il mitico Pierre Boulez ed allora il mio percorso stesso e questa Rivista saranno ancora una volta la prova che quello del Regista Esposito è un sogno condiviso ed agito con determinazione, perché diventi realtà.
Ilia Pedrina
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(Disegno di Serena Cavallini)
Recensioni INNOCENZA SCERROTTA SAMÀ LA MANO E LA PRUA Ediz. POLISTAMPA, Firenze 2010. PP.64. € 8,00 Gli elementi su cui si fonda il titolo dell’ interessante raccolta, che Innocenza Scerrotta Samà dà alle stampe per i tipi delle Edizioni Polistampa di Firenze, rimandano direttamente e senza alcuna difficoltà alla metafora della navigazione, dall’autrice scelta quale simbolo del proprio percorso umano ed esistenziale nonché poetico e letterario. Viaggio per mare, dunque, di un marinaio (leggi poeta) che sa “che solo navigare è necessario” e che “ciò che rende la vita degna di essere vissuta è la capacità di farlo con il desiderio di arrivare dove si deve o si vuole e il dolore di essere costretti talvolta a mollare la presa e naufragare….” – per dirla con le parole introduttive di Giuseppe Panella-. Ecco, allora, che mettere la mano sul timone guardando la prua sta ad indicare il criterio adottato nel prendere il largo, nello stabilire la rotta. Tradotto in poesia: “Mano / alla prua, / occhi lontani.” – dirà la Nostra nell’epigrammaticità di soli tre versi -, e più ancora della tensione visiva, potrà forse quella uditiva: “Il marinaio / volge al largo / la prua / teso all’ ascolto.”, nel totale coinvolgimento dei sensi. Abbiamo parlato di criterio ma non vorremmo che l’uso di tale termine fosse, in qualche modo, fuorviante: non deve essere, lo stesso, inteso come sinonimo di regola, semmai, e più opportunamente, come quello di principio, di spunto, di idea. Perché questa precisazione? La ragione è che la riteniamo essenziale ai fini del corretto approccio all’opera.
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Non c’è, in effetti, nessuna supponenza, nessuna pretesa di assoluta verità in questa poesia; c’è, invece, l’indicazione di un semplice, naturale suggerimento: l’invito a vivere (navigare), volgendo la prua in lontananza, senza fuggire l’incognita del mistero. Panella – che indubbiamente conosce la poetessa più a fondo per averne seguito la produzione – afferma che, nel nuovo lavoro, “la qualità della mitopoiesi ormai decide degli sviluppi della scrittura in atto. . . .”: per quanto neofiti e basandoci sul testo preso in considerazione, ci sentiamo di condividere l’asserzione. Già, perché il potere creativo di Innocenza Scerrotta Samà si attua – anche a nostro modo di vedere – attraverso una felice e piena acquisizione del mito; una rielaborazione che, lungi dal cadere nella sempre tesa trappola del mitologismo favolistico e leggendario, si concentra sull’ intramontabilità degli esempi che continuamente si ritrovano alle origini di ogni esteriorizzazione dello Spirito. Mithos, quindi, mai come in questo caso legato all’etimo suo più arcaico ed originario di parola: “La parola di Innocenza – dirà Rossano Onano, nel suo intervento – percorre il mito collocata entro la stiva profonda della nave di Ulisse: simbologia di viaggio terreno e lugubre, corrispondente all’oscuro viaggio all’Erebo dell’inconscio. Dal quale ci si salva dando all’oscurità una ragione affettiva e per questo appunto mitologica.” Una riflessione – diciamo così – “specialistica” ma che racchiude un’indiscutibile verità, evidenziata, poco oltre, nel modo che segue: “Chi ragiona secondo archetipi mitici, è soprattutto fascinato dalla distanza incolmabile che separa l’umano dal divino. Ma la distanza è desiderio, diversamente da chi accetta i dogmi che assicurano il passo della verità la quale, così posseduta , non può essere desiderata.” Se siamo veri – come scrive la Nostra - / nei sogni della notte” e “fantasmi il giorno / con la mano al volante” e se “Nell’arsenale / giace la nave / squassata dal tempo / e / dalla lotta.”. è perché abbiamo avuto il coraggio di ambire l’eterno prendendo tutti i rischi che derivano dalla nostra fragilità e dall’insidia del possibile naufragio. E’ questo “perdersi senza perdersi”, questo “trovarsi senza trovarsi” (vedi Franco Manescalchi, in quarta di copertina) che abbiamo vissuto navigando con i versi de La mano e la prua e, alla fine, ondeggiando tra i marosi, ora rapidi e impetuosi, ora calmi e distesi, ci è sembrato di scorgere quello stesso destino, punto d’arrivo e di partenza, che è anche del nostro fare poesia. Sandro Angelucci
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Febbraio 2014
SANDRO GROS-PIETRO CUORE SPACCATO Genesi Editrice, Torino, 2014, € 16,00 Cuore spaccato è il titolo che Sandro Gros-Pietro ha dato al suo recente romanzo, nel quale, tra ironia e disincanto, narra la storia di Menotti Gualtiero, direttore commerciale di una raffineria alla periferia di Torino. La vicenda appare quanto mai originale, dal momento che il protagonista (un uomo ancora giovane, di cui l’autore ci offre un’immagine incisiva e convincente) cade già nel sesto capitolo sotto i colpi di un mitra, ma seguita ad agire e operare, in un delirio lunghissimo, che dura per tutto il resto del romanzo, come fosse ancora nel pieno delle sue facoltà fisiche e mentali. La trama si dipana così in un gioco di molteplici eventi, come quello dell’incontro di Menotti con il Direttore della raffineria presso cui lavora, il quale vorrebbe offrirgli “una serie d’incarichi delicati, di natura decisamente riservata” per meglio legarlo a sé e quello del suo colloquio con Alfonsina, la Generalessa del convento di suore che l’avevano scelto come uomo di fiducia per “la conduzione di tutte le sedi dell’Ordine”: convento presso il quale egli spera di trovare rifugio e forse la pace dell’animo. Menotti è un uomo sposato, con una vita familiare piuttosto irregolare, dal momento che egli tradisce la moglie, la quale lo ripaga con la stessa moneta. E’ irridente e un po’ cinico verso le sue donne e verso gli amici (o presunti tali), come Locatelli, il vicepresidente del club cittadino dei paracadutisti; Franco, il medico o Paolo, il terrorista. E’ inoltre lucidissimo nel giudicare uomini e accadimenti ed agisce sempre freddamente e dopo una ponderata riflessione. Dettagliate sono in questo romanzo le descrizioni dei personaggi, sia fisiche che morali, così come le descrizioni del mondo esterno. Lo stile che l’autore adopera è fluido, nervoso, percorso da un sottofondo di amara satira sociale che apre ampi scenari sul nostro tempo; ricco di incisi e di profonde riflessioni, di notazioni paesistiche e di rimandi culturali; a tratti analitico, a tratti perentorio e incisivo. Si vedano, ad esempio, certe notazioni particolarmente efficaci, quali: “Il talento dell’uomo estroso sta sempre nel proiettarsi dentro l’abisso come una palla di fucile” o “La nostra vita è un romanzo perforato da fantasia e realtà, che si conclude comunque con la morte quando non ci sono più altre pagine da leggere, quando non c’è più futuro con cui fare riferimento”. Episodio chiave della vicenda è, come si è detto, quello del ferimento a morte di Menotti nei sotterranei della stazione ferroviaria di Torino, durante
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un conflitto a fuoco tra terroristi e forze dell’ordine; evento che segna come una frattura tra il tempo che lo precede e quello che lo segue. Ma il personaggio rimane lo stesso, e seguita e vivere nel suo delirio, con la sua smania di affermarsi e con le sue contraddizioni. Se egli infatti è da un lato un uomo d’ordine e collabora apertamente con il Potere, rappresentato dal Direttore dell’azienda presso la quale lavora, dall’altro è legato ai terroristi, che aiuta specie finanziariamente, dei quali condivide l’ideologia, appresa negli anni della contestazione giovanile. Nei diciannove capitoli del romanzo la storia si dipana in maniera veloce e coerente, attraverso tutta una serie di episodi che rappresentano ciascuno un frammento necessario al suo divenire. La narrazione è fatta in prima persona, ma non sempre è Menotti a parlare, perché anche Olimpia (la moglie) e Clelia (l’amante) intervengono, rispettivamente nei capitoli ottavo e dodicesimo, ad esporre le loro opinioni sulla vicenda che si sviluppa in un crescendo di tensione narrativa, sino alla rivelazione del vero movente che la determina: il conflitto tra un uomo potente, il Senatore, il quale aspira alla Presidenza della Repubblica e un gruppo terroristico che tenta di far fallire i suoi piani, portando alla luce del sole il marcio che si nasconde dietro la sua facciata di rispettabilità. Gli accadimenti si susseguono rapidamente e Menotti si ritrova isolato, dopo la perdita dei compagni, caduti in un agguato. Tenta un bilancio della propria vita e si accorge di essere in perdita, dal momento che nulla ha ottenuto, se non l’amore sincero di una donna come Shanti, una ex prostituta ed ex suora, che gli è stata vicina nelle ultime sequenze del suo delirio. Del resto la morte violenta e prematura cui va incontro è il segno palese della sua sconfitta. Un libro forte Cuore spaccato, che si caratterizza per l’eleganza della prosa, sempre vivace e accattivante, per l’ampiezza dell’impianto compositivo, nonché per l’originalità dell’invenzione. Certo un libro, tra i molti recentemente apparsi in libreria, destinato a non passare inosservato. Elio Andriuoli
SANDRO ANGELUCCI “DI RESCCIGNO IL RACCONTO INFINITO” Saggio. Prefazione di Giorgio Bárberi Squarotti. Blu di Prussia Ed., Piacenza, 2014; pp. 90, € 12. È passato un quarto di secolo da quando, nel lontano 1989, Giuseppe De Marco nel suo libro Per una carta poetica del Sud. Sette campioni di poesia
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contemporanea (Napoli, Federico & Ardia) introdusse un intero, lungo capitolo sulla poesia di Gianni Rescigno (IV. Tra lux e veritas: Gianni Rescigno). Era il primo sguardo critico approfondito ed espressamente dedicato che si posava sui versi del poeta di Castellabate; uomo allora ancor giovane ma già da tempo sotto la lente indagatrice di molti intelligenti recensori, per via di alcune raccolte poetiche pubblicate che contenevano diversi brani definibili come autentici piccoli capolavori. Poi, trascorsa una dozzina d’anni, con l’arrivo del nuovo millennio, colei che scrive volle dedicargli non più un capitolo ma una vera e propria monografia con il proposito di tracciare un primo bilancio, analitico e sistematico, di una produzione poetica quanto mai significativa e ormai più che trentennale (Gianni Rescigno: dall’essere all’infinito. Genesi Ed., Torino 2001). Fu, per così dire, come se si fossero “aperte le danze”: da allora cominciarono a comparire, a poca distanza di tempo l’uno dall’altro, numerosi saggi e importanti scritti critici sul poeta e scrittore campano: da Luigi Pumpo a Giuliano Manacorda, da Franca Alaimo a Menotti Lerro, da Maria Rosaria La Marca ad Antonio Vitolo, fino alla bella tesi di laurea di Federica Iannuccelli (Roma, Università di Tor Vergata, 2010) ed altri ancora. Un continuo fiorire di indagini attente, riccamente documentate, diversificate nell’ approccio, appassionate e acutamente penetranti nel percorso inventivo di un poeta che oggi è giunto a ben 23 raccolte edite e si colloca di certo fra le voci di maggiore spicco nel panorama della poesia lirica contemporanea. In questo inizio d’anno 2014 Sandro Angelucci – poeta e critico di Rieti, da lungo tempo conoscitore della poesia rescigniana – accodandosi a questa già estesa costellazione, pubblica per i tipi dell’Editore Blu di Prussia di Piacenza un saggio che, curiosamente, ha per titolo un verso decasillabo (di Rescigno il racconto infinito) portatore di un’eco suggestiva, come di lontana marcia cadenzata, di passo felpato inarrestabile e deciso. È il cammino del Tempo visto nella sua duplice dimensione: la visione che si allunga verso il domani e poi ancora verso l’Oltre in attesa, come pure lo sguardo vòlto all’ indietro per raccogliere amorosamente i tesori depositati nella memoria, ricchezza inalienabile perché esperienza propria, storia unica e irripetibile, vita sempre presente (non veramente passata) che si riflette nel terso specchio della poesia, in essa trovando la sua trasfigurata e indelebile persistenza, la sua autentica eternità. Ecco, questo – mi pare – è il cardine su cui poggia tutto il saggio di Angelucci, il punto centrale, l’ ago del compasso puntato sul foglio per tracciare
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con accuratezza l’intera circonferenza. Su questo asse temporale bifronte (e pure bidimensionale, intendendolo come tempo delle stagioni versus tempo dello spirito) l’autore orienta tutta la tematica della poesia rescigniana, iscrivendola – con brevi citazioni rintracciate nell’attenta rilettura delle varie raccolte poetiche (dalle più antiche alle più recenti) – in questo alveo grandioso e unificatore. L’amore e il dolore, le gioie e i lutti, le memorie e le attese, l’incanto della Natura e il segreto paesaggio dell’anima, la fede e l’umano sconforto, la generosità e l’inganno, la grazia dell’esistenza e la meditazione sulla morte: le fondamentali antitesi (complementari, non contraddittorie) della poetica di Rescigno si ritrovano allacciate e assorbite nella fusione di questo crogiolo temporale, in un senso singolarissimo di moto incessante, come di vento ora leggero ora impetuoso, di trasporto verso Qualcuno o Qualcosa, incontro a misteri che ci intimoriscono e insieme ci affascinano, verso il termine di un sogno (assai acutamente interpreta Angelucci il significato specifico di sogno nella poesia rescigniana) dove si svela infine una realtà immensa e luminosa, non più destinata a perire. Scrive Giorgio Bárberi Squarotti all’inizio della succinta ma come sempre illuminante prefazione di questo saggio: “ Gianni Rescigno è un valorosissimo poeta, che ha percorso un itinerario lungo e rigoroso nella coerenza delle idee, dei ritmi, dei paesaggi e delle esperienze di vita, nella ricchissima variazione di immagini, tempi, spazi, riflessioni, giudizi”. A questo itinerario Angelucci ha dedicato un saggio di carattere, direi, specificamente filosofico assai più che letterario ed estetico, un’indagine semplice nel tono ma nella sostanza perspicace, vòlta a considerare e a mettere in rilievo la profondità di una poesia che è sempre stata invero esistenziale, nel senso, si vuol dire, di una spontanea, immediata traduzione in versi dell’esperienza; e sopra tutto un’affettuosa apertura al mondo circostante e alla sua multiforme meraviglia, con un’interiore ricchezza di visione cresciuta con gli anni sempre di più, ma espressa in ogni tempo con una trasfigurazione inventiva spesso stupefacente e indimenticabile. Marina Caracciolo
LUIGI DE ROSA FUGA DEL TEMPO Genesi Editore, Torino 2013, Pagg. 64, € 11,00 Luigi De Rosa è cresciuto in Liguria, figlio di genitori partenopei. Ha dedicato la vita alla scuola,
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giungendo a ricoprire l’incarico ventennale di Provveditore agli studi nelle province del Nord e Sovrintendente Scolastico della Liguria. In pensione dal 2001 si dedica con maggior tempo alla sua passione letteraria, di poeta e scrittore, saggista e recensore: presente in numerose Antologie e Riviste, oggetto pure dell’attenzione della critica con vari premi e riconoscimenti. Sandro Gros-Pietro, nell’ampia e dotta prefazione della raccolta poetica, Fuga del tempo, ne sottolinea il pregio nel lindore espressivo, nello scavo retrospettivo del Poeta che risente della vasta esperienza esistenziale, accumulata nei molti viaggi, che lo mettono a confronto con le vite più varie. Così appare come Geoges Moustaki, chansonnier della nota ballata “Lo straniero”(del 1969); così evoca Elias Canetti; o Ray Bradbury e Giorgio Caproni, solo per fare dei nomi. La raccolta si suddivide in due sezioni. Nella prima, ‘Verso la foce’, il Poeta inizia l’avventura umana con la metafora della deriva delle acque dei fiumi che si congiungono con il mare; così come esse non sono più distinguibili, pure i destini degli uomini perdono la propria identità. “Ognuno di noi ha in serbo/ un piccolo tesoro personale/ del cui valore reale/ non sempre si sa rendere conto:/ i ricordi, il passato,/ le vicende della propria esistenza.” (pag. 16). Si apre al lettore con cenni autobiografici intimi, per esempio di quando i genitori si lasciarono; lo fa con tenerezza e sincerità: “(quando ero nato, mia mamma-/ una ragazza bellissima-/ aveva solo sedici anni,/ e mio padre solo venti),/ separazione aspra/ in una Milano del 1944” (17). Luigi De Rosa, allora bambino, ricorda che si proteggeva gli occhi dal sole con gli occhiali scuri: mi pare l’immagine suggestiva di un piccolo uomo che sottrae i suoi occhi inumiditi, alla vista degli altri. Dopo di che i ricordi lo portano alla sua Liguria, nelle varie tonalità dei colori del cielo e del mare, impregnando l’anima della natura cangiante nelle stagioni. Ama il paesaggio floreale primitivo, ma volentieri convive con la tecnologia che ci consente di comunicare con il telefonino mentre si sta in giardino godendo del profumo dei fiori. E riconosce che i valori autentici della vita si trovano nelle piccole cose, che oggi abbiamo finito per ignorare. Come un pendolare del tempo, prende il treno dei pensieri, dai sedili sporchi. Al cimitero di Asti si sorprende di dialogare con il padre, attraverso una foto che lo ritrae con i baffetti sornioni; il Poeta sa che anch’egli, un giorno, guarderà gli altri da una sua fredda fotografia. Il padre è ricordato in più componimenti, dice che loro due erano divisi da incomprensioni e che non gli voleva assomigliare; ma adesso, che ne sente la mancanza, si accorge che gli
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assomiglia sempre più. ‘Intanto… il mondo va’, indipendentemente dalle nostre vite, come recita il titolo della seconda sezione. Difatti mentre noi evochiamo le nostre vicende e respiriamo nella vita quotidiana, godendo delle bellezze del cielo, altrove si verificano guerre dolorosissime. Mentre il mondo opulento fa sprechi, ci sono milioni di persone che continuano a morire di fame. Il Poeta si interroga se l’uomo prenda insegnamento dopo i disastri di Fukushima e prima ancora di Cernobyl e dopo tutti i disastri nucleari. Si chiede come sarà ricordato, quando non sarà più. È amareggiato, così ammette, in chiusura della poesia ‘Mediterraneo duemila’: “non favoleggio più di terre inesistenti,/ ma mi sento concorde con uomini reali,/ tutti alle prese, come noi, coi mali/ dell’esistenza, i progetti, le speranze,/ tutti uguali di fronte alla vita,/ tutti uguali di fronte alla morte.” (46). Luigi De Rosa, con Fuga del tempo, ha maturato la convinzione di restringere la visione alla sua Genova, trovando conforto “in un magico tripudio di colori/ dall’Appennino al Porto, al lungomare.” (48). Rievoca la ‘Alluvione a Monterosso’ (del 25 ottobre 2011), alla memoria di Sandro Usai, il giovane sardo inghiottito dai torrenti impazziti di fango. Egli esorta i poeti e gli artisti perché non restino solo a guardare, ma ad agire; e a questo libro affida alcune notazioni che fanno riflettere, come la morte considerata naturale epilogo per dare più valore alla vita. Perciò conclude, nel componimento eponimo, in chiusura: “E può arrivare il giorno del rimpianto/ per frammenti di una vita autentica perduti a miliardi/ in illusioni inconsistenti.” Tito Cauchi
DOMENICO DEFELICE PIANGE LA LUNA, estratto dall’Antologia NUOVE VOCI, La Procellaria, Reggio Calabria 1957 Piange la luna è raccolta di dieci poesie, di Domenico Defelice, inserita nell’antologia Nuove Voci curata da Maria Busillo, da pag. 65 a pag. 74, al tempo in cui si firmava con la preposizione e l’Antologia, dei dodici poeti partecipanti, costava mille lire. La Curatrice asserisce che la poesia è “specchio fedele dell’anima”, e su questa base ha scelto i poeti con tendenze liriche, desiderosi di comunicare. In particolare sulle poesie del Defelice asserisce che esse sono “limpide e fresche”, spiegando che alla “eloquente chiarezza d’ immagini si accoppia una felice e scorrevole descrittiva.” A noi non resta che goderne la piacevolezza.
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La poesia di apertura, ‘Visita al cimitero in un mezzogiorno d’estate’, è magnificamente descrittiva; nel silenzio inquietante il Poeta si inoltra, sotto un sole cocente, guardando le tante effigi e osservando che “una rosa/ ha il capo chino/ su un marmo”. L’immagine della rosa non più fresca richiama, anche per associazione di idee, il capo reclinato dei morenti, preparando se stesso, come anche il lettore, a un piano superiore, ovvio, ma ciò è fatto con suggestiva evocazione della morte: “Guardo due cipressi/ neri:/ sono di sentinella” e il Poeta si chiede se la tomba lo aspetta. L’apertura della silloge con la visita al cimitero, piuttosto che dare sgomento al lettore, trasmette, se non letizia, almeno serenità per l’andamento dei versi, ma anche per la solarità che accompagna la visita: alleggerisce la paura della morte, naturale epilogo dell’esistenza. Un meccanismo spontaneo si innesta: un giorno anche i viventi odierni osserveranno dall’altra parte del marmo. Il pensiero della morte fa ombra, va indietro, diventa evocativo dei cari assenti; così sembra assistere al nonno che fuma la pipa “seduto/ dietro la finestra.”, fin quando si addormenta e “sogna/ la sua lontana, amata giovinezza.” Queste parole in bocca a un giovane, stupiscono per la loro serietà. Nel breve componimento eponimo si ripete il motivo delle lacrime non solo della luna, del mondo circostante, ma anche del suo cuore che piange d’amore; la reiterazione di lagrime, non è solo un rimedio retorico, per produrre semplici stille, ma dà la percezione di un torrente. Domenico Defelice, poeta qual è, non può che annegarsi nel cielo stellato, ma i ricordi non affiorano per trasformarsi in inchiostro, lenire le sue sofferenze d’amore e dargli conforto. Al pensiero di Marcella sente letteralmente spuntare fiori profumati e le immagini colorate gli infondono speranze, ciò viene espresso con la delicatezza giovanile d’altri tempi. Un inno all’amore nella sua essenza più genuina, stemperato solo dalla paura di un ‘Lugubre sogno’ abitato da croci, morti e tombe. Così prova dolore per un male che consuma il corpo e l’ ‘Anima bruciata’ di un suo simile: “Morire… ah Dio morire/ proprio nel fiore della giovinezza” (pag. 71). Il pensiero della morte richiama la Pasqua, trova conforto nella chiesa e per associazione di idee, pensiamo alla rinascita; ma il Nostro medita, forse, a guarire dal sentimento d’amore. Il pensiero oscuro della morte, si trasforma in colorata illusione alla vista di Marcella. Il Poeta è idealmente unito all’idolo della sua passione, pensando che anche la fanciulla, in determinati momenti, ascolti motivi musicali dalla radiolina, speranzoso che sia sintonizzata sulla stessa lunghezza d’onda.
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Lei occupa tutti i suoi pensieri nell’arco della giornata; la vede ovunque, se la raffigura; ne ferma l’immagine in mille modi, perfino disegnandone il viso con il dito rimuovendo la polvere dalle superficie di mobili e di arredi. L’effige non gli basta; Egli si rode dentro; ella non può ascoltare, ma al Nostro ugualmente si riscalda il cuore quando lei gli appare in sogno o nei ricordi. La genuinità del sentimento si percepisce nella sua freschezza espressiva. Domenico Defelice è giovanissimo, in Piange la luna si rivela padrone del linguaggio, che si palesa poetico e delicato, intenso e maturo. Marcella ha occupato tutti i suoi pensieri, nondimeno il Poeta non si chiude al mondo esterno, sia pure quello circostante che, tuttavia, sembra stargli stretto. Questo stato d’animo, che definirei di inadeguatezza, genera sentimenti contrastanti o altalenanti: la tensione verso la donna amata è sempre alta, ma non si vuole perdere il contatto con la realtà. Solo il futuro poetico darà testimonianza della costanza dei suoi sentimenti. Tito Cauchi
CATERINA FELICI FOGLI DI VITA Longo Editore, Ravenna 2013, Pagg. 96, € 10,00 Caterina Felici pubblica fin dal 1975, raccolte poetiche e opere di narrativa, ricevendo per tutte successo di critica, è presente in antologie. L’assenza di notizie biografiche ci fa ritenere un certo riserbo, nondimeno tracce biografiche sono desumibili da alcuni componimenti, generalmente sono quelli di più ampio respiro, come vedremo. La raccolta Fogli di vita si compone di sette sezioni tematiche che probabilmente significano l’ intenzione di mettere ordine alle idee, ai pensieri, ed anche quella di essere trasparente, ma con pudore. Credo che l’incipit chiarisca i suoi obiettivi circa le scelte tracciate di un percorso, in una realtà che scorre immutata, per certi aspetti. Osservatrice attenta contempla il mondo cogliendone la fioritura ed esaltandosi per la bellezza. Custode delle proprie sensazioni, si eleva “prigioniera d’emozioni,/ come incorporea” (pag. 19, dedicata a Enrico Pace); i suoi sono sentimenti maturati dall’esperienza, ella si nutre di brandelli (come fogli di vita o, se si preferisce, come foglie), si pone all’ascolto degli altri con la sua sensibilità, divenendo tessuto del mondo esterno. Le interrelazioni la portano a commentare che quando si è vincitori giudichiamo gli altri con superbia, mentre invece bisogna raggiungere la sere-
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nità interiore, appunto porre ordine alle cose. Mi dà l’impressione di volere riedificare dei mattoni demoliti e sparsi caoticamente; così anche un filo d’ erba che spunta, sta a indicare il germoglio della vita, l’inno alla vita; come lo è Giada, la tenera nipotina che trasmette “entusiasmo di vita” con la sua vivacità. Queste sono riflessioni che l’hanno maturata, sa che se non se ne abbia esperienza, è difficile discernere con certezza il giusto dall’ingiusto. Nell’intimo riconosciamo che a volte siamo noi stessi ad erigere barriere. Caterina Felici perciò si guarda dentro, cercandosi, non perché si sia smarrita, ma perché è stata sradicata. È necessario riconoscere e accettare i propri limiti. ‘Sulla spiaggia deserta’ scorge “come orme sulla sabbia,/ intrecciate, confuse,/ parlano alla mia fantasia/ anche di gente/ d’un passato lontano/ e di un tempo futuro./ io in armonia col tutto;/ senza età.” (49). Difatti trova, e troviamo noi, un’orma sulla spiaggia di Zara, dove è nata (53) e ha lasciato i suoi piccoli amici. Ravviva le proprie radici attraverso i ricordi; ma è grata di essere stata accolta da Pesaro, eletta a città d’adozione. Rivive attraverso la natura floreale, e dei campi e dei colori della luce nelle sue stagioni, dialogando con i loro elementi, aprendosi alla vita. Ha raggiunto una serenità profonda, una beatitudine: “Sola nel silenzio,/ interrotto soltanto/ dallo stormire delle foglie,/ che s’ irradia per me/ in voci di mistero;/ s’aprono immaginari mondi/ in cui m’inoltro.” (63). Bella sintesi del suo intimo sentire, armonioso, in simbiosi con la natura lussureggiante, anche l’ immergersi nell’acqua del mare: “Svanite le prigioni/ del mio quotidiano;/ in me un profondo senso di pace.” (67). I colori maggiormente evocati sono quelli vivi e allegri, il verde del mare, l’azzurro del cielo, la ruggine delle foglie in autunno; la natura viene vissuta nei colori cangianti in armonia tra l’ universo e il Creatore. È la Poetessa stessa che ne spiega le ragioni: “In tali concilianti contrasti/ non ha invadenza il mio io;/ quieta m’abbandono/ al fluire del tempo,/ alla vita.” (69). Ella vive le stagioni e si rianima all’apparire dell’arcobaleno. Si rivolge a un ‘tu’ personale, forse per rendere maggiore forza comunicativa, che prende le forme dell’ acqua, spiegando le ragioni per avere scelto delle forme mutevoli, poiché esse esprimono incertezza. “Nel silenzio della notte/ un fruscio improvviso,/ una voce lontana/ che subito si spegne:/ l’ indefinito/ che rimarca solitudini;/ induce a immaginare.” (79). Caterina Felici, con Fogli di vita, credo che abbia sparso frammenti della sua vita interiore, dipingendo con i sentimenti un pentagramma che si lascia eseguire, come una sorta di muto dialogo tra sé e i
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propri cari scolpiti nella memoria. In chiusura rivolge al padre e alla madre parole piene d’affetto, esprime nostalgia per loro, per non avere potuto godere appieno del loro bene; tracciando così alcune notizie biografiche. I componimenti sono generalmente brevi come foglioline; le espressioni sono delicate, senza invadenza. Non vuole essere un ossimoro se aggiungo che le poesie si chiudono aprendosi alla tenerezza. Tito Cauchi
TEODORO LORENZO DE VITA BEATA Prefazione di Vincenzo Jacomuzzi, Edizioni Progetto Cultura, Roma 2003, Pagg. 88, € 12,00 Teodoro Lorenzo è nato a Torino nel 1962, avvocato per professione, scrittore per passione; naviga con la fantasia costa-costa, nel racconto De vita beata, facendo ventidue soste, sulla barca da pescatore di Angelo De Monti, rappresentata in copertina, ormeggiata ad uno scivolo che lo attende. Vincenzo Jacomuzzi nella prefazione dice che il racconto è ambientato nel torinese, che il protagonista è Massimiliano Cosetti, dal nome impegnativo e dal cognome da “echi sveviani”; avverte che il titolo altisonante, richiama la “beatitudine di Seneca e la mistica di sant’Agostino”, che potrebbero trarci in inganno. Nella nota introduttiva l’Autore, con ironia, dice che Seneca e sant’Agostino sono “due vecchi barbogi”; ma egli è del parere che “per raggiungere la felicità bisogna assecondare la propria natura, non inseguire progetti impossibili,” come recita la citazione in esergo di Oscar Wilde: “La vita è troppo breve per sprecarla a realizzare i sogni degli altri.” Il racconto scorre con linguaggio dilettevole, in forma autobiografica, in cui il protagonista fantastica come costruirsi un grande futuro. Massimiliano Cosetti è venuto alla luce dopo cinque femmine con grandi aspettative del padre. L’avo Aristippo era originario di Leucade, isola greca. Il giovane crebbe con tutti i possibili complessi di inferiorità, soprattutto per la bassa statura. Pertanto i genitori moderarono le speranze, accorciandogli perfino il nome. Nino consegue il diploma di maestro d’asilo in corsi serali; tuttavia senza trovare alcuno sbocco; crede che la sua vocazione sia quella di scrittore; sogna di vincere tutti i premi nazionali più famosi; però era a corto di idee. Decide quindi di rivolgersi ad uno psicologo il “dottor Sigmund Bevilacqua, nato a Dresda da genitori siciliani e da poco trasferitosi a Torino”. I due diventati amici.
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Nino, su consiglio dello psicologo, si reca in una biblioteca. Qui si verificano eventi comici, degni di un’opera teatrale. Intanto immagina di venire accolto dal bibliotecario come un grande scrittore; per non disturbare si toglie le scarpe e perfino i calzini nel timore che un alluce faccia capolino; un incauto lettore di “centocinquanta chili di peso” gli pesta un piede. Nota una bionda. Si procura in modo rocambolesco un mazzo di rose rosse e prepara frasi d’ amore, sennonché nel tentativo di raggiungere la giovane, scivola per le scale, trovandosi in una tale posizione da essere scambiato per un mendicante, tanto che la ragazza, gli allunga un biglietto di cinque euro. Nel seguirla mette un piede in “una melma motosa” che sperava fosse solo fango; scambiato per un malintenzionato la giovane prende un taxi e nel contempo gli lancia il proprio scarpone colpendolo sul naso. Nino pensa che i suoi protagonisti sarebbero stati “un topo, una principessa, uno scrittore ed uno scarpone”. Riesce a rintracciare il tassista sorcino, il quale, a suon di calci l’accompagna all’ indirizzo della bionda. Spiegate le ragioni al maggiordomo della marchesa Silvana Pestalozzi Mangialamela, passa in rassegna il personale con ramazze, stracci e varie, infine individua la bionda, ma non bella, inserviente. Da qui prende il racconto di questa coppietta. Lei si chiama Genuflessa, nativa di Carate, un paesino vicino a quello di Nino. Ignara, gli racconta della disavventura, spiega che in biblioteca era andata per prepararsi ai quiz per la patente di guida. In breve decidono di sposarsi, riducendo le spese all’ osso: lui in bermuda blu, lei con prendisole. L’ aspirante scrittore, dopo tentativi falliti, accetta di lavorare per la Marchesa come cameriere; ma non essendoci tagliato combina dei disordini, così fa da autista allo scrittore Angelino Lunacalante, docente universitario di Torino. A fine giornata Genuflessa, “in vestaglia e pantofole, bigodini attorcigliati”, attende vogliosa Nino, richiamandolo ai doveri coniugali. Nasce così Robertino, che si rivela un bambino prodigio. Il Professore si confidava, ricordando l’ amico Flavio Agresti che vive come in povertà in un’isola greca. Le due famiglie, di Nino e del Professore, trascorrono le vacanze nell’isola di Leucade, ospitate da Agresti. Ma ritornati a Torino, Massimiliano decide di andare a vivere in quel posto meraviglioso. Il De vita beata di Teodoro Lorenzo sembra scritto senza impegno, per puro diletto, ma è intriso di tanta morale: per essere felici “non si può programmare l’esistenza di un uomo, non si può vivere al suo posto.” Tito Cauchi
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PIETRO BISESTI 1938/2013: 75° STORIA DI POMEZIA ATTRAVERSO LE FOTO STORICHE DEI COLONI Dalla Fondazione alle industrie Angelo Capriotti Editore, 2013 - Pagg. 144, s. i. p. Siamo grati all’Associazione Coloni, Fondatori di Pomezia, per la ennesima testimonianza che oggi ci vien data con la presentazione di questo libro, che va ad aggiungersi ai tanti altri, similmente importanti, come “Pomezia quinta città dell’Agro Pontino Romano”, “Radici dei Coloni Fondatori di Pomezia”, “Ricordo dei pionieri di Pomezia”, eccetera e senza dimenticare il “Ricordo di Pietro Bassanetti, colono, combattente, giornalista e Sindaco di Pomezia”, personaggio che andrebbe meglio lumeggiato e del quale, a nostro avviso, si dovrebbero raccogliere e pubblicare i tanti scritti. Il merito di questo nuovo lavoro è dell’ Associazione Coloni, ma, in verità, è di Pietro Bisesti il quale, in quasi 15 anni di ostinata ricerca, rimettendoci, a volte, oltre il lavoro, anche i quattrini, è riuscito a raccogliere migliaia di foto e di altre testimonianze sulla fondazione e la vita della nostra pur giovane Città. Macchine agricole, attrezzi, cimeli diversi che meriterebbero di essere non solo conservati, ma messi a disposizione della cittadinanza, dedicando loro un luogo adatto, da noi individuato nel Casale ancora esistente nella zona 167. Ci auguriamo che l’attuale Amministrazione possa e voglia pensare a una tale sistemazione. Ma qui non intendiamo parlare dell’amico Pietro. Chi volesse conoscere di più sul suo curriculum, può farlo ricorrendo a tante altre valide pubblicazioni apparse, negli anni, sul nostro territorio, tra le quali, ultima, “La nascita di Pomezia” della professoressa Daniela De Angelis, la quale, da pagina 48 a pagina 58, ci dà una intervista assai particolareggiata. E’ possibile una storia quasi solo attraverso le
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immagini? E’ possibile. Uno degli esempi più antichi e insuperabili lo abbiamo a Roma, nel nastro scultoreo della famosa Colonna Traiana, una sequenza di foto del tempo. Un bel libro di storia, allora, questo curato dalla Associazione Coloni della nostra Città, che dovrebbe andare in mano agli storici per venire pienamente apprezzato, valutato nelle sue diverse sfaccettature. Noi storici non siamo e, accanto alla foto, avremmo preferito ci fosse anche la parola scritta, perché ogni volto ha posseduto un nome e un cognome e ogni situazione, oggetto, struttura, manufatto, hanno avuto un luogo e un tempo preciso. La prima sensazione che si prova, sfogliando questo libro, è il fervore di una gente che viveva povertà e drammi certamente assai più grandi di quelli che noi sopportiamo oggi e che, tuttavia, si sforzava di essere serena, di gettare dietro le spalle ciò che giorno per giorno non andava, proiettandosi sempre in avanti, alimentata sempre dalla speranza. In questo libro, del dolore quasi non c’è traccia. Eppure, il dolore c’è stato e assai grande. Vogliamo dire che, raramente, si scorgono, sui volti di questi personaggi, a noi - e forse anche a molti - totalmente sconosciuti, il dolore e la tristezza. Persino i bambini in posa, sembrano preoccupati e suggestionati più dal lampo del magnesio che dalle difficoltà nelle quali sicuramente sono immersi ogni giorno. Era il fervore che dominava i personaggi, ma, paradossalmente, anche gli animali e, persino, i campi intorno alla città appena sorta, gli stessi campi che oggi intristiscono, quando non sono stati, addirittura, cementificati. Il sogno industriale di Pomezia, che appariva inarrestabile, si è, purtroppo, spento ormai da anni e qui, ora, si dispiegano, sempre più soffocanti, la tristezza e il dramma. Migliaia di capannoni vuoti, invasi dalle spine e dalle erbacce; migliaia e migliaia di lavoratori gettati sul lastrico, famiglie impoverite, giovani che hanno perso tutto, anche il sorriso, anche la speranza. Ecco, questo libro è valido, se non altro, perché suscita reazioni e dovrebbe provocare scosse. A noi tutti, naturalmente, ma ai politici in particolare, a chi ci governa, perché si trovi un sentiero che ci porti finalmente fuori della palude economica, che è peggio di quella ambientale, un tempo presente in questi luoghi. I tanti volti, che da questo libro ci guardano e che noi guardiamo, invitano, spronano a non arrenderci, a riprendere il nostro orgoglio e a contribuire, ognuno nel nostro campo, a rendere grande e bella la nostra Città.
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Una città e un territorio scannati, devastati, divorati, nei quali si è speculato su tutto e, ci auguriamo, non si continui ancora a speculare, sicché, per esempio, il desiderio della gente di dotarsi di un teatro, viene preso più volte e più volte abbandonato, affinché i costi possano lievitare nel tempo e disossare, così, all’infinito, le pubbliche sostanze. Una città dove anche un albero morto (lo stesso che troviamo giovane e vegeto in tante foto di questo libro) viene volutamente trasformato in falso mito e solo per specularci sopra - dice la sempre malevole voce del popolo -, per poterci a lungo raspare, quando sarebbe saggio toglierlo di mezzo, prima che, marcendo, caschi addosso a qualcuno e piantarcene subito un altro, simbolo vero, questa volta, di rinnovato orgoglio e di rinascita. Una storia breve, questa oggi offertaci da Pietro Bisesti, fatta di flash senza retorica e false commozioni. Immagini, solo immagini che parlano di volontà e di coraggio, entrambi aureolati da semplicità. Immagini di decisioni e di realizzazioni. Non ci sono deprimenti, inconcludenti, estenuanti tavoli di confronto ai quali ci hanno poi abituati e dai quali, però, viene regolarmente partorito il nulla. Le immagini, qui, parlano di decisioni e di realizzazioni veloci; di una città che sembra nascere da una magia, perché decisa in tempi brevi e in altrettanto breve tempo costruita; della sua popolazione fatta venire da più parti, sicché, all’inizio, poteva apparire una Babele. Ma, essendo forte la voglia di comunità, il problema venne prontamente superato, con contatti, incontri, feste dopo il difficile lavoro dei campi, scambi reciproci di usi, costumi, conoscenze. Un esempio, insomma, di come si può essere tolleranti, di come si possa vivere tra diverse etnie e di come ci si possa fondere, quando, a guida ci sono volontà e reciproco rispetto. Le 230 foto dicono della guerra e della partecipazione ad essa della gioventù; dicono delle distruzioni e delle ricostruzioni, dei nuovi assetti del territorio con l’avvento delle prime industrie. Ma, andando, anche se assai brevemente, sullo
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specifico, il volume ha, per noi, una quasi struggente poesia, per cui vogliamo considerare come lasse d’immagini le 14 sezioni, ciascuna preceduta da una breve nota. Lasse, dicevamo, perché ogni foto, ormai resa logora dal tempo, è una vera composizione poetica. Diciamo di questa nostra piazza martoriata da tanti progetti insani e che, nella sua originalità, richiamava quelle solari e metafisiche delle pitture di De Chirico. Andava governata, questa nostra piazza, non stravolta. Diciamo di quella bandiera che sventola sulle macchine rombanti, segno di orgoglio, oggi manifesto quasi sempre e solo negli agoni calcistici internazionali. Diciamo della scalinata della nostra Chiesa, a volte, tutta fiorita d’occhi di bambini, a volte, podio luminoso per folta schiera in festa nell’occasione di un qualche matrimonio. Diciamo di una “sacra famiglia” in mezzo ai fiori, con sullo sfondo pali e fili della corrente elettrica o del telefono, simboli del progresso. Diciamo delle belle ragazze in mezzo al grano, segno di vita e d’abbondanza. Vitalità, fervore. Sono queste le sensazioni che maggiormente suscitano queste immagini. Allora, la “Storia di Pomezia”, che oggi Pietro Bisesti ci regala, non è una raccolta d’immagini di gente e di operosità morte, ma un libro di vivi e di cose vive. Una viva pietra di cultura, insomma, da cui partire per una nuova fondazione della nostra Città. Pomezia, 11 gennaio 2014 Domenico Defelice Intervento tenuto dal nostro Direttore, nel pomeriggio dell’undici gennaio 2014, nella Sede dell’ Associazione Coloni Fondatori di Pomezia, di Piazza Indipendenza. Sala stracolma e attenta. Erano presenti, tra gli altri, oltre l’Autore - Pietro Bisesti -: sua figlia Signora Erminia - poetessa, che ha rivolto brevi parole di saluto -; il pittore Zanetti;
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Irene Bassanetti, figlia dell’indimenticabile Pietro Bassanetti - più volte Sindaco della Città -; l’ex Sindaco Attilio Bello; Ateline Vultaggio; il Presidente dei Carabinieri in congedo, Maggiore Roberto Ferraro; il Presidente del Consiglio Comunale di Pomezia, Sig. Renzo Mercanti; il poeta Marcello Fevizzani; il Dott. Achille Macchi; il Presidente onorario dell’Associazione Coloni, Marcello Monti e il poeta e critico prof. Tito Cauchi, giunto dalla vicina Nettuno. (n.s.p.) Immagini: Pag. 58: Emilia Bisesti, Domenico Defelice e Renzo Mercanti, attuale Presidente del Consiglio Comunale di Pomezia, nonché figlio e nipote di coloni. Pag. 59: Emilia e Pietro Bisesti. Pag. 60: Parte del pubblico che gremiva la sala, con, in primo piano, Irene Bassanetti e Attilio Bello.
CATERINA FELICI FOGLI DI VITA Longo Editore, Ravenna, 2013 - Pagg. 96, € 10,00. Decisamente scarno il curriculum dell’Autrice in quarta di copertina. Dai versi, ricaviamo che è nata a Zara; che suo padre era un ufficiale dall’aspetto severo, ma solo dall’aspetto (sono due le composizioni che lo ricordano: “Conosciuto veramente dopo” - interamente a lui dedicata - e “Zara”, dove lo troviamo imponente nella sua divisa); che il nonno suonava il pianoforte; che la nonna raccontava favole e che la madre amava curare i fiori, aiutare gli altri e canticchiare sottovoce, accompagnandosi, anch’ella, al pianoforte. Dall’asfittico curriculum, apprendiamo delle otto raccolte di versi finora pubblicate dalla Felici e di un suo libro di narrativa, nonché dei tanti critici illustri che si sono interessati delle sue opere, tra i quali Segre, Spagnoletti, Gramigna, Piromalli. Siamo indotti ad immaginare che la sua famiglia, come tantissime altre, sia stata costretta ad emigrare in seguito ai nuovi assetti territoriali scaturiti dalla tragica fine della seconda guerra mondiale. L’ approdo, di lei bambina e della famiglia, è stata Pesaro, città che ama al par di Zara che le diede i natali. Entrambe le città guardano il mare, nel quale lei ama fendere l’azzurro “a lente bracciate”, “libera regina/in un gioioso regno”. Pesaro è affiancata da “due ridenti colli” e immaginiamo che, quando s’alza l’arcobaleno, dopo la piaggia, questi trovi ancoraggio proprio su di essi, col suo “abbraccio di colori”. Una breve silloge, “Fogli di vita”, e brevi quasi
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tutte le composizioni. Ma sono vasti i sentimenti che animano l’autrice: l’amore verso i propri cari, verso la natura, gli scavi interiori, la musica (il pianoforte è nominato più volte e un brano è dedicato a Enrico Pace, le cui armonie hanno il potere di librare, chi ascolta, “verso altezze,/luminosi orizzonti”). Una poesia, insomma, questa di Caterina Felici, che, come scrive Giorgio Bárberi Squarotti, “Ha la rara qualità di un prezioso ed elegante impressionismo, che trapassa nella meditazione, nella simbolica raffigurazione della vita, delle sue pene, delle sue letizie.” Domenico Defelice
VITTORIANO ESPOSITO PERLE Premessa di Vito Moretti. Poesie giovanili scelte, commentate ed illustrate dagli alunni della classe 1D. Scuola Media Statale Tommaso da Celano, a. s. 2001/ 02. Quando lo scrittore pubblicava con il nome di Amato Amans Non aveva certo bisogno di Silone Vittoriano Esposito per costruirsi la fama di scrittore nella sua regione e altrove. Vittoriano scrittore, ma anche poeta e critico, esiste, eccome, prima e dopo Silone, per via dei numerosissimi saggi dedicati a vari altri scrittori e le numerose antologie critiche, in particolare L’altro Novecento, la ponderosa opera in undici volumi edita dalla Bastogi di Foggia fra il 1995 e il 2010. Certo, Silone è stato per Vittoriano un esempio, uno stile di vita, oltre che lo scrittore sul quale ha meglio speso la sua attività di critico militante. Ma già negli anni Cinquanta, prima ancora che cominciasse a scrivere sullo scrittore pescinese, il nome di Vittoriano circolava dietro lo pseudonimo di Amato Amans su librettini di poesia, come Primavera di un’anima (1950), Cuore e speranze (1952), Palpiti di un solitario (1953); e non solo, anche su testi di saggistica, come La poetica del semplicismo (1954) o altri inediti, come Amori clandestini (racconti), Fucino conca di passioni, (dramma in quattro atti), e saggi politici, come Marxismo, socialismo e cristianesimo. Uno pseudonimo assai singolare, che parrebbe prendere corpo da una concezione intensa e dinamica dell’ amore quale si evince dal dantesco: Amor ch’a nullo amato amar perdona (Amore, che non permette a nessuno che è amato, di non riamare a sua volta), il celebre verso, al quale Vittoriano forse fa riferimento, soprattutto in quelle sue poesie dedicate a Ninetta, sua cara moglie, dove, proprio alla maniera stilnovistica, parla di occhi lacrimosi e lontananze.
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Di questo giovane poeta che scrive non solo d’ amore, ma anche intorno a temi civili e sociali, ne avevano parlato illustri critici e poeti: da Carlo Weidlich, il quale paragonava la sua condizione a quella di Federico Tozzi, “che lasciò la zappa per la penna, consigliandogli di non avere fretta di pubblicare ma di studiare bene e assimilare i classici”, a Gusti Martinolli, triestina, che, nei suoi canti, vedeva “la mestizia e la tragedia dei giovani della sua generazione”; da Roberto Cervo, che apprezzava la sua ispirazione semplice e sincera, con un linguaggio che rifiuta di proposito la profondità alchimistica e le essenzialità immediate e contenutistiche, a Dante Arfelli, che riteneva Amato Amans un poeta dalla vena fresca e spontanea, “aliena da artifici e da pretese, intimamente sana”; da Gino Funaioli, per il quale il poeta è dotato di “un canto aereo, che esce dal cuore del fondo umano, e al cuore parla”, fino a Vito Moretti che si interesserà a Vittoriano poeta nella Premessa a “Perle” – Poesie giovanili di Vittoriano Esposito, scelte commentate e illustrate dagli Alunni della classe 1D della scuola media Tommaso da Celano, nell’a. s. 2001/2002. Qui, soffermandosi, in particolare, sulle poesie che hanno come riferimento la regione del poeta celanese, Moretti scrive che l’Abruzzo di Amato Amans non è quello da “cartolina, né dei clichés letterari e veterodannunziani, ma la regione dell’oblio, la geografia della fatica e del sudore, la terra dei digiuni e degli “stracci”, il paese dei cafoni…” (8-9); anche se, continua il critico, per il poeta “c’è sempre, nonostante il buio … un’occasione individuale di riscatto e un’opportunità di salvezza, che è fornita, oltre che dall’amore… anche dalla “volontà di resistere”… e dalla capacità di acquisire la lezione giusta dai fatti dell’esistenza…” (9). E addentrandosi ulteriormente in questa lontana esperienza di Vittoriano, il critico vi individua pure “un impegno di verità… che… si traduce in una denuncia della miseria e della ingiustizia e in una scrittura attenta ai mali antichi e nuovi della società marsicana ed abruzzese, ma anche… in uno scavo nella propria pena di individuo, nel proprio microcosmo di creatura chiamata a mediare lacerazioni e dissidii e, ben più drammaticamente, ragione e fede” (7-8). Una stagione poetica, questa di Amato Amans, in cui Moretti vi ritrova in germe il futuro Vittoriano Esposito, il critico militante - aggiungeremmo noi quello delle future battaglie a difesa, in particolare, dei peones della letteratura: quella categoria di scrittori che, pur dignitosi e valenti autori, sono rimasti fuori dagli schemi e dalle scuole che hanno dato corpo al Novecento letterario ufficiale. Con il recupero di Vittoriano poeta, possiamo dire di avere davanti a noi l’immagine di uno scrittore completo,
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che ha attraversato la poesia, la narrativa, il teatro, la critica, l’intero cursus honorum, insomma, prima di guadagnarsi la stima di “galantuomo delle lettere”, espressione che risuonerà in un convegno a lui dedicato nel Centro Studi Ignazio Silone di Pescina nel settembre del 2012; di uno scrittore per il quale la letteratura non è mai stata un’attività ludica e di svago, ma un sofferto e nobile dialogo, che egli tenne fra sé e il mondo dei letterati “onesti”, per difendere la loro opera dall’insidia della dimenticanza. Un letterato in progress, si direbbe, che va dal poeta, attraverso il narratore e il drammaturgo, al critico, in un’escalation che dà ragione alle teorie del Vico. Vittoriano ha sempre sentito la funzione emancipatrice della letteratura, tanto che doterà presto la sua scrittura di quella forte carica di denuncia, propria di chi è pronto a testimoniare la sua fede nel primato dell’uomo, come in questi versi dedicati al capodanno “formule vane resteran gli auguri / finché chi vive agiato, / non penserà che langue nei tuguri / il popolo affamato” (33). Oggi, a due anni dalla sua scomparsa, ci piacerebbe tanto che ci si soffermasse, per dirla ancora con Moretti, proprio su questa sua “pena in testimonianza dell’ umanità sofferente, col proposito di perorare la definitiva liberazione dell’uomo - non solo marsicano, ma di ogni latitudine - da tutte le forme di schiavitù e da qualsiasi minorità psicologica e sociale…” (8). Una realtà e un sogno a un tempo, quali emergono, sia, dal suo Novecento (l’altro), fatto di un universo di scrittori in marcia verso la loro liberazione dalla solitudine e dall’oblio, sia, dal suo sessantennale interesse verso la letteratura in generale, sempre alimentata da convincimenti deistici e socialisti, vissuti nel rispetto tanto della fede in Dio, quanto della concezione che migliorare il mondo sia un compito che spetta all’uomo e alla sua ragione. Giuseppe Leone
INNOCENZA SCERROTTA SAMÀ NEL TACIUTO LA GIOIA Edizioni Polistampa. Firenze. 2013. Pp.60 Nell’incontro degli opposti la lucentezza della quiete Poesia schietta, sincera, libera, generosa, tutta volta a indagare sugli interrogativi dell’essere e dell’esistere. E la parola, incastonata in nessi di grande rendita etimo-fonica, è duttile e disponibile ad involucrare gli slanci di un’anima cosciente della povertà delle ristrettezze umane. Una sottrazione che sente e da cui vorrebbe fuggire. Sì!, cosciente della precarietà della nostra permanenza di fronte a un tempo che scorre implacabilmente indifferente.
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Ed ecco, quindi tutte le dicotomie del vivere e la ricerca di equilibri che mutino i quesiti del soggetto nell’universale senso dell’esserci. Ed è umano, fortemente umano il discorso poetico di Scerrotta Samà. Percepisce che – col suo linguismo frantumato in azzardi esplorativi – l’equilibrio può venire solo dalla simbiotica fusione degli opposti: notte e giorno, Eros e Thanatos, Caino e Abele. Sono questi opposti che convivono nel nostro essere; che ci rendono coscienti del senso eracliteo del nostro breve segmento esistenziale, e che ci fanno anche azzardare sguardi oltre i confini del nostro fatto, oltre i limiti della nostra caducità, del nostro possibile, con risultati di pascaliana memoria. Sì, perché è proprio dell’uomo cercare di sottrarsi il più possibile da questo stato d’inquietudine, determinato dalla dualità del nostro essere terreni con l’occhio rivolto al cielo. Ed è dell’uomo cercare il divino nelle minuzie e nelle grandi espansioni della nostra vicenda: “Invito ad Eros all’ombra del divino”; vedere nello stesso amore una categoria dello spirito che sa tanto di ultra/umano. Per cui la stessa notte, illuminandosi d’ebbrezza, può rendere il tutto una aspirazione all’eterno per tradire quel tempo che ci rende vulnerabili. Emerge da questo poema un sapido profumo di classicismo rivisitato, attualizzato, una proteiforme apertura verso un mondo di miti che prolunga lo sguardo ad una palingenesi rigeneratrice. Ed il mito non è fine a se stesso, ma si fa nuovo messaggio, azzardo allusivo, cospirazione panica di rinnovamento di vita. Tutto è attualizzato con freschezza di verbi, e di slanci emotivi. Una grande vis creativa per cui il verbo stesso non è mai soddisfatto del suo etimo, del suo topos: si amplia, si scorcia, si prolunga, si frantuma, pur mantenendo la sua autonomia ritmica, la sua unicità nel verso, per cercare di appagare un sentire tanto zeppo di spleen alla ricerca della sua dimensione. Ed il terreno con i suoi palpiti sublimanti confonde la sua luminosità fra abbracci di dionisiaca avventura stellare: “Non sapeva / fosse / farfalla / nel / verde orchestrale / delle foglie, / naviglio / sull’onda / della luna / errante / dionisiaco / palpitio stellare”. Questo mélange di tocchi panici e accostamenti di vaghezze mitico/ semantiche offre una resa poetica di particolare orfica tensione, non di rado, dai toni epico/lirici. Insomma una ricerca del vero? Una scalata verso le vette che miscelano nell’azzurro Eros e Thanatos? Un tentativo di fare della poesia una scalinata di agili gradini per forare le nubi? Il fatto sta che la Nostra ama questa poesia e ricorre a tutti gli stratagemmi formali (sinestesie, metonimie, enjambements, anastrofi, ossimori…), a variegati giochi etimo allusivi in tracciati linguistici secchi e rapidi, per renderla unica e liberatrice. Catartica, direi. E
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forse la Nostra la ottiene questa libertà estetico/ esistenziale. Proprio con la bellezza di questa antica arte che lei riesce a fare nuova e, se si vuole, anche rivoluzionaria. Proprio perché nel taciuto, nel silenzio che parla con voce ultra/umana, ritrova parole non dette, parole chiave, anelli mancanti, per aprire quello spazio dove, appunto, nell’incontro degli opposti brilla la lucentezza della quiete: Nel taciuto la gioia dell’incontro. Nazario Pardini 26/11/2013
Pag. 63 la giocata, se, invece, l’hai giocata male, non puoi rimediare, però, si può sempre riprovare perché la vita è come una partita. Loretta Bonucci
SENZATETTO Paul e' un senzatetto: quel poco che ha se lo porta sempre appresso. Mariano Coreno ( Melbourne ) D. Defelice: Il microfono (1960)
STATUE Beate le immobili statue sul bordo dei cornicioni: non dicono parole. Accolgono mute e silenziose per brevi soste le ali di qualche uccello stanco del volo. E noi le osserviamo dal basso così immobili ogni tanto invidiandole. Raffaele Cecconi
LA VITA La vita è una partita: se alla fine l’hai giocata bene, è andata bene
NOTIZIE In ricordo di VINCENZO ROSSI - E-mail del 27/12/2013: Apprendo con tristezza, sul numero di Dicembre della rivista, della morte del Prof. Vincenzo Rossi il 6 Novembre u.s. Non ci conoscevamo di persona ma frequenti erano gli scambi sia epistolari che telefonici. Ci eravamo sentiti, al telefono appunto, non più tardi di una ventina di giorni prima della sua scomparsa. Attraverso le pagine di "Pomezia-Notizie", mi unisco al dolore di tutti: figli e nipoti in primis e tutti quegli scrittori che, come me, pur soltanto ascoltandolo, hanno imparato a volergli bene ed a stimarne la prolifica ed alta creatività. Sandro Angelucci *** In ricordo di SILVANA ANDRENACCI MALDINI - E-mail dell’ !/1/2014: Carissimo Domenico, (...) Ieri sera, (...) ho finito di leggere le ultime pagine della tua grandiosa POMEZIA-NOTIZIE, così ho appreso oltre alla scomparsa di Vincenzo Rossi,
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della cara amica Silvana Andrenacci Maldini. E’ stato un profondo dispiacere, era così brava e affettuosa. Porgo le più sentite condoglianze a tutta la sua famiglia, non la dimenticheremo mai! Un caro saluto! Cav. Giovanna Li Volti Guzzardi *** Premio Internazionale Il Convivio 2014 - Scadenza 30 maggio 2014. L’Accademia Internazionale Il Convivio, insieme all’omonima rivista, bandisce la tredicesima edizione del Premio Il Convivio 2014, Poesia, prosa e arti figurative e la ottava edizione del Premio Teatrale Angelo Musco. Per i partecipanti che non sono di lingua neolatina è da aggiungere una traduzione italiana, francese, spagnola o portoghese. Premio Poesia, prosa e arti figurative. È diviso in 9 sezioni: 1) Una poesia inedita a tema libero in lingua italiana 2) Poesia a tema libero in lingua dialettale, con traduzione italiana o nella lingua nazionale corrispondente. 3) Un racconto inedito di massimo 6 pagine (spaziatura 1,5). 4) Romanzo inedito (minimo 64 cartelle). 5) Raccolta di Poesie inedite, con almeno 20 liriche, fascicolate e spillate (diversamente le opere saranno escluse). 6) Libro edito a partire dal 2004 nelle sezioni: 1) poesia, 2) narrativa, 3) saggio (per questa sezione inviare i volumi in triplice copia. Non si può partecipare con volumi già presentati nelle edizioni precedenti del Premio Il Convivio). 7) Pittura e scultura: si partecipa inviando due foto chiare e leggibili di un’opera pittorica o scultorea. 8) Tesi di laurea su argomento o autore siciliano (da inviare solo due copie) 9) Opera musicata (poesia, canzone, opera teatrale, ecc). L’opera è accettata solo ed esclusivamente se accompagnata da un DVD o CD. Premio Teatrale Angelo Musco - È diviso in 3 sezioni: 1) Opera teatrale inedita in dialetto siciliano. 2) Opera teatrale inedita in qualunque lingua (anche dialettale, ma con traduzione italiana). 3) Opera teatrale edita in qualunque lingua o dialetto. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Gli elaborati vanno inviati in cinque copie, di cui una con generalità, indirizzo e numero telefonico, le altre quattro devono essere anonime se inedite, se invece edite non è da cancellare il nome dell’autore. Il tutto è da inviare alla Redazione de Il Convivio: Premio Poesia, Prosa e Arti figurative, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio e per gli studenti che partecipano tramite scuola. È richiesto invece da parte dei non soci, per
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spese di segreteria, un contributo complessivo di euro 10,00 indipendentemente dal numero delle sezioni cui si partecipa (o moneta estera corrispondente) da inviare in contanti. Per informazioni e richiesta bando completo tel. 0942-986036, cell. 333-1794694, e-mail: angelo.manitta@tin.it.; enzaconti@ilconvivio.or; www.ilconvivio.org *** POMEZIA-NOTIZIE “CON GRATITUDINE E GIOIA” - E-mai del 07/01/2014 da Marina Caracciolo, da Torino: Carissimo Domenico! Mi dispiace davvero che non ti siano arrivati i miei auguri per posta; era un delizioso bigliettino. Pazienza! Ce li siamo fatti via mail, che è una via più tecnologica ma almeno, salvo casi eccezionali, dà la sicurezza dell'arrivo! In compenso devo darti una buona notizia: mi è giunta, praticamente dopo circa un mese da quando l'avevi inviata, POMEZIA-NOTIZIE di dicembre 2013! Che numero stupendo mi sarei perso! (Tanto più che tu non hai mai seconde copie!). E' un numero da Antologia, da rilegare "in pelle e oro", come si suol dire... P.-N. è sempre bella, è sempre una scoperta ogni volta che la si riceve, ma in questa chiusura dell'anno è stata davvero superba. Già l'articolo di copertina (di Emerico Giachery) è un magnifico elzeviro dedicato alla grandissima gioia di rendere partecipe la gioventù universitaria delle bellezze poetiche e letterarie di ogni tempo. Poi, subito dopo, il tuo magnifico articolo sugli ultimi romanzi di Valerio Massimo Manfredi (quanta passione e quanta cultura classica si vede nel tuo lungo scritto!). A seguire, la gioia di veder pubblicato il mio breve saggio sulla grande poetessa messicana (Juana Inés de la Cruz). Quindi le meravigliose "escursioni letterarie" di Ilia Pedrina, Leonardo Selvaggi, Nazario Pardini, Luigi De Rosa, ecc. ecc. Bisognerebbe indicare una ad una tutte le stelle di questa bellissima costellazione... Grazie, caro Domenico! E' stata la stupenda chiusura di un anno che è il 40° dalla nascita della tua bella rivista. Non poteva terminare più degnamente! Ancora mille auguri per tutto, ma proprio tutto! Con tanto affetto. Marina E-mail del 15/01/2014 di Giuseppe Leone, da Pescate (LC): Carissimo Domenico, (...) Quanto al numero di dicembre, ho apprezzato tantissimo l’intervento di Emerico Giachery in copertina e poi quella chiusura in dialogo fra te e Ilia Pedrina, da tempo ormai dulcis in fundo di Pome-
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zia-Notizie. Mentre dico queste cose, non penso affatto di sminuire gli altri interventi all’interno della rivista, ma è certo che con aperture e chiusure di questa portata anche ciò che è contenuto dentro acquista ancora maggiore importanza e prestigio. Un caro saluto (...). Giuseppe Carissima Marina, Carissimo Giuseppe, è plagiando l’amico Giachery che vi voglio dire grazie “con gratitudine e gioia”. Il sottoscritto non ha meriti del grande successo che Pomezia-Notizie riscuote ogni mese in tutto il mondo, se non quello di battersi, caparbiamente, con tenacia, per la sua sopravvivenza e rimettendoci fatiche e denaro. I meriti sono tutti vostri - di voi, cioè, e di tutti gli altri straordinari collaboratori - che scrivete, in versi e in prosa, senza enfasi e senza retorica e “con gratitudine e gioia”. Grazie a voi, il mensile ha potuto mantenere intatta, per 40 anni, la sua semplicità, la sua modestia e il suo amore inalterato verso la bellezza, specialmente interiore. Sono le vostre firme che rendono invidiabile questa nostra Testata. Grazie! Approfitto per spronare, chi invia solo materiale da pubblicare - e che, poi, si dimentica di aiutare economicamente la rivista -, ad aprire, di tanto in tanto, la propria borsa a favore di queste nostre pagine, ad abbonarsi, almeno, a procurare qualche altro abbonamento, a sentirsi orgogliosi, insomma, di far parte di questa autentica grande famiglia. Cari Poeti e cari Scrittori, se Pomezia-Notizie dovesse chiudere - e, di questo passo, chiuderà! -, non è una perdita anche per voi, per voi che, pubblicando i vostri scritti, o beneficiando di scritti a vostro favore, poi dimenticate che essa non ha finanziamenti di sorta, che non ha pubblicità? Marina e Giuseppe mi perdoneranno se ho approfittato dei loro elogi per rivolgervi questo pressante invito ad aiutare la rivista: essa vive esclusivamente del vostro buon cuore, del vostro amore. Non lo dimenticatelo. Anche a voi, comunque, grazie e “con gratitudine e gioia”. Domenico *** CONCORSO - ACCADEMIA LETTERARIA ITALO-AUSTRALIANA SCRITTORI - CONCORSO INTERNAZIONALE 2014 – POESIA – NARRATIVA, PITTURA E FOTOGRAFIA È indetto il ventiduesimo “CONCORSO LETTERARIO” a premi con MEDAGLIE – TARGHE – TROFEI e DIPLOMI per i primi tre componimenti classificati. Premi Speciali con la Medaglia d’Argento del Presidente della Repubblica Italiana, di Sua Santità il Papa, la Medaglia della Regione Siciliana e del C.R.A.S.E.S. Il Concorso
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Internazionale A.L.I.A.S. è aperto a tutti gli autori ovunque residenti. Le opere saranno giudicate in due categorie: AUSTRALIA e ESTERO. Le opere saranno accettate solo in lingua italiana. La quota di partecipazione per l’Australia è di $25 dollari, per l’ Estero $35 dollari australiani o la quota equivalente in valuta estera per ciascun lavoro presentato. Il Concorso è suddiviso in quattro categorie: POESIA – NARRATIVA - PRIMI PASSI e PITTURA. SEZIONE POESIA - Una poesia inedita a tema libero che non superi i 40 versi dattiloscritti. SEZIONE NARRATIVA - Un lavoro inedito a tema libero che non superi le due cartelle dattiloscritte su carta formato A4. SEZIONE PRIMI PASSI (I – II - III) Potranno partecipare bambini di età compresa tra i 6 e i 9 anni (SEZIONE I) Bambini di età compresa tra i 10 e i 13 anni (SEZIONE II) e giovani dai 14 ai 17 anni (SEZIONE III) con poesia o narrativa (specificare l’età). SEZIONE PITTURA E FOTOGRAFIA - Possono partecipare pittori italo-australiani ed esteri con una fotografia di una loro opera artistica a tema libero che verrà scelta per le copertine dell’ Antologia A.L.I.A.S. Le opere finaliste verranno pubblicate a colori nel suddetto volume. La quota di partecipazione è di $50.00 dollari australiani o quota corrispondente in valuta estera. PREMIAZIONE Saranno premiati i primi tre lavori qualificati in ciascuna categoria e “PREMI SPECIALI”. Gli altri finalisti verranno premiati con la “MENZIONE D’ ONORE” e “SEGNALAZIONE DI MERITO”. I lavori dovranno essere presentati in 6 copie di cui solo una firmata, corredati da un brevissimo curriculum vitae dell’Autore, (dieci righe) indirizzo e numero telefonico, entro e non oltre il 31/05/2014. Saranno esclusi i lavori contenenti volgarità, licenziosità e malcostume. I lavori saranno giudicati in base al valore della ricerca svolta ed al loro merito letterario e saranno inseriti nell’ANTOLOGIA A.L.I.A.S. L’Autore può acquistare l’ ANTOLOGIA che a richiesta sarà inviata previo contributo pari a $40.00 dollari australiani più spedizione di $40.00. per l’estero, per l’Australia $20.00. Nessun manoscritto sarà restituito. L’A.L.I.A.S. si riserva il diritto di apportare al presente bando i cambiamenti che si ritenessero necessari. La decisione dei GIUDICI sarà definitiva ed irrevocabile. Indirizzare alla Presidente A.L.I.A.S. c/o Giovanna Li Volti Guzzardi, 29 Ridley Ave, Avondale Heights, VIC 3034 AUSTRALIA Tel. (03) 9337 1680 Sito Internet: http://www.alias.org.au - Indirizzo email: giovanna@alias.org.au ***
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CONDOGLIANZE - E' scomparso, l'11 gennaio u.s., il Dr. Vittorio Salati, marito della nostra collaboratrice Elisabetta Di Iaconi. Era uno stimato dirigente dell'Agenzia delle Dogane, autore di un testo giuridico molto apprezzato ("Pandettistica gabellare"). I lettori di Pomezia-Notizie lo ricordano per essere stato un valido collaboratore. Per esempio, per “Attualità dell’approccio sociologico nel Bigiaretti de “Il Congresso” “, apparso nel numero del novembre 2001; per “La petite lingère”, in quello del settembre 2002; per “Arte e Messaggio”, del gennaio 2003; per “Potrà il calcio sopravvivere al “globalismo”?”, che, addirittura, nel febbraio 2003 ha avuto l’onore della prima pagina. Letteratura, costume, sport: discipline che dicono delle sue tante aperture e delle sue tante approfondite conoscenze. Alla cara amica Elisabetta, provata dal dolore, porgiamo sentite condoglianze.
Domenico Defelice - Scaffale (1964)
LIBRI RICEVUTI BRUNO VESPA - Sale, zucchero e caffè. L’ Italia che ho vissuto: da nonna Aida alla Terza Repubblica - Rai-Eri Mondadori, 2013 - Pagg. 450, € 19,00. Bruno VESPA, giornalista, dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1906 la sua trasmissione “Porta a Porta” è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta
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nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’ Estense per il giornalismo. Da Mondadori ha pubblicato: “Telecamera con vista” (1993), “Il cambio” (1994), “Il duello” (1995), “La svolta” (1996), “La sfida” (1997), “La corsa” (1998), “Dieci anni che hanno sconvolto l’Italia. 1989-2000” (1999), “Scontro finale” (2000), “La scossa” (2001), “Rai, la grande guerra” (2002), “La Grande Muraglia” (2002), “Il Cavaliere e il Professore” (2003), “Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi” (2004), “Vincitori e vinti” (2005), “L’Italia spezzata” (2006), “L’amore e il potere” (2007), “Viaggio in un’Italia diversa” (2008), “Donne di cuori” (2009), “Nel segno del Cavaliere” (2010), “Il cuore e la spada” (2010), “Questo amore” (2011), “Il Palazzo e la piazza” (2012) ** FORTUNATO ALOI - Riflessioni politico- morali e attualità dei valori cristiani - Luigi Pellegrini Editore, 2008 - Pagg. 128, € 10,00. Fortunato ALOI (conosciuto come Natino Aloi), è stato per anni docente nei vari licei della Città di Reggio Calabria. Sin da giovanissimo ha operato nel mondo della politica, da quella universitaria alla realtà degli Enti locali. Ha percorso un lungo itinerario: da consigliere comunale nella sua Città ed in altri centri della provincia (Locri) a consigliere provinciale, da consigliere regionale a deputato. Come parlamentare (per quattro legislature) ha affrontato temi di diverso genere ed in particolare si è occupato, con grande impegno, di scuola, cultura e di Mezzogiorno. Ha ricoperto l’ alta carica di Sottosegretario alla P. I.. E’ stato coordinatore regionale della Destra calabrese, ed anche Segretario per la Calabria del Sindacato Nazionale (CISNAL). Presidente dell’Istituto Studi Gentiliani per la Calabria e la Lucania, è componente la Direzione nazionale del Sindacato Libero Scrittori Italiani. Giornalista pubblicista, collabora a diversi giornali ed è attualmente direttore del periodico “Nuovo Domani Sud”. Autore di numerose pubblicazioni di storia, pedagogia, saggistica, politica e narrativa. Ha ottenuto riconoscimenti di valore scientifico come il “Premio Calabria per la narrativa” (1990) per il volume “S. Caterina, il mio rione” (Ed. Falzea); il Premio letterario “Nazzareno” (Roma) 1983 per l’opera “I Guerrieri di Riace” (Ed. Magalini) ed il Premio “Vanvitelli” per la saggistica storica (1995) per il volume “Reggio Calabria oltre la rivolta” (Ed. Il Coscile) ed il Premio Internazionale “Il Berga-
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motto” (2004). ** FORTUNATO ALOI - Giovanni Gentile ed attualità dell’attualismo - In appendice, diverse testimonianze - Luigi Pellegrini Editore, 2004 Pagg. 112, € 10,00. ** FORTUNATO ALOI - “Neutralismo” cattolico e socialista di fronte all’intervento dell’Italia nella 1a guerra mondiale - Presentazione di Gaetano Catalano - Luigi Pellegrini Editore, 2007 Pagg. 88, € 8,00. ** FORTUNATO ALOI - Cultura senza egemonie (Per un umanesimo umano) - Prefazione di Aldo Maria Morace, Postfazione di Pierfranco Bruni. In appendice, intervista ad Aloi de “La Voce del Cittadino”, del gennaio 1996 - Ed. Diaco, Bovalino 1997 - Pagg. 122, L. 22.000. ** MIMÌ FRISINA - Pagine di diario. Gli allegri racconti di zio Mimì - Illustrazioni in copertina (a colori) e all’interno (in bianco e nero) di Maria Frisina - Presentazione di Maria Frisina Depa Edizioni, 2004 - Pagg. 96, s. i. p. Una raccolta di racconti d’infanzia, rilassante e piacevole nella sua semplicità. Attraverso la narrazione delle vicende di sé bambino, l’autore ci offre un quadro del suo tempo e dei luoghi che sono stati teatro della sua vita infantile. E’ con occhi di bambino che egli affronta il mondo che lo circonda senza giudicarlo con troppa durezza, ma spogliandolo al contempo di quell’aura di serietà di cui spesso gli adulti amano circondarsi. Con la freschezza del suo stile, egli affronta temi importanti, come l’ amicizia ed i legami familiari. Attraverso la narrazione di avvenimenti della sua infanzia, scopriamo il cuore di un adulto che, fortunatamente, non ha dimenticato di essere stato bambino. ** MIMÌ FRISINA - Le allegre filastrocche da colorare di zio Mimì - In copertina, a colori, disegno di Maria Frisina; all’interno, in bianco e nero, disegni illustrativi di Deborah Madaffari Ed. Depa (manca anno di pubblicazione) - Pagg. 40, s. i. p.. Mimì FRISINA (Zio Mimì) è nato a Oppido Mamertina. Ha insegnato nelle scuole primarie di Roma e ha concluso la sua carriera scolastica nel plesso di Castellace, frazione di Oppido Mamertina. Delicato poeta e fine narratore della memoria. ** MARIA FRISINA - MIMÌ FRISINA - Immagini e... poesia - Presentazione di Irene Zindato - Tutte
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le immagini che illustrano le poesie sono a colori - Impaginazione e grafica Stefano Frisina Irene Zindato - Pagg. 40, s. i. p. Maria FRISINA, dotata di una sognante fantasia, rievoca un mondo interiore tutto suo. La sua opera è un viaggio, un percorso che si dipana attraverso parole liberate, che placano le inquietudini e consolano. Artista sensibile alle problematiche contemporanee le cattura per poi rappresentarle nei suoi dipinti e nella sua poesia: emergono le sofferenze dell’uomo, padrone e schiavo delle sue cose; le tensioni e gli abbandoni nel rassicurante mondo del sogno. A volte narratrice nervosa, che grida, ribelle alla vita, e non la riverisce, la penetra per giungere all’anima. Mimì FRISINA (Zio Mimì), poeta solare nella sua isola. Traduce la fantasia in semplicità e dolcezza. Un mondo interiore ingenuo, incline al pacato culto delle tradizioni e nello stesso tempo ad una inquieta ricerca di rinnovamento interiore. La sua è poesia della memoria, del contatto umile e diretto con Dio. Possiede una sicurissima esperienza della nostra vita: sa cos’è il lavoro, l’ infanzia e l’età matura, quali lusinghe impietosiscono il cuore di un uomo. ** ROSA FRISINA - Meriggio Statico - Silloge poetica - In copertina, “Meriggio statico”, di Giusy Frisina; nota introduttiva di Giosofatte Frisina; Prefazione (“Un “timido” caso letterario: Rosa Frisina”) di Antonio Roselli; Presentazione di Mimì Frisina e Antonio Roselli; a mo di Postfazione (“Apologia di Rosa Frisina: DonnaPoeta”) di Maria Frisina - Nuove Edizioni Barbaro di Caterina Di Pietro, 2011 - Pagg. 94, € 10,00. Maria Rosa FRISINA nasce a Taurianova il 3 settembre 1916. Appartenente ad una famiglia della ricca borghesia di Oppido Mamertina, è la primogenita dei sei figli di Pasquale e Marietta Toscano. Ha partecipato a Concorsi letterari ottenendo premi e attestati. Maritata Sposato, Rosa Frisina muore ad Oppido Mamertina il 19 luglio 2007, a 91 anni. ** ROCCO CAMBARERI - Tra ioni e furori - In copertina e all’interno, sculture di Reginaldo D’Agostino - Edizione Centro Studi Medmei, 1985 - Pagg. 48, L. 4.000.Rocco CAMBARERI è nato a Gerocarne (CZ) nel 1938 ed è morto a Vibo Valentia nel 2013. Ha insegnato a Roma, a Santiago del Cile, a Madrid ed altrove. Diverse sono le sue raccolte di liriche pubblicate ed i premi da lui vinti, tra cui, nel 1976, quello della Presidenza del Consiglio. Membro di varie accademie.
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TRA LE RIVISTE IL CENTRO STORICO - organo dell’ Associazione “Progetto Mistretta” - Presidente dott. Nino Testagrossa, direttore responsabile Massimiliano Cannata - via Libertà 185 - 98073 Mistretta (ME) Del n. 10-12 (ottobre-dicembre 2013), segnaliamo “Scrittrici/il sapore acido della libertà non scelta in “La casa del vicolo”, di Maria Luisa Villa; “Scipione Pulzone il <Gaetano>”, di Francesco Ribaudo; “Un intellettuale triestino del primo Novecento: Giani Stuparich”, di Gaetano Di Bernardo Amato. Ricordiamo che l’Associazione Progetto Mistretta “Il Centro Storico”, organizza la XI Edizione 2014 del Concorso letterario “Maria Messina” riservato alla narrativa. Due le sezioni: Inediti - a)riservato agli alunni delle ultime due classi delle scuole superiori; b) riservato a tutti gli autori che intendono partecipare. Libri editi: volumi di narrativa (racconti o romanzi) pubblicati nel periodo gennaio 2011 - maggio 2014. Scadenza: 31 maggio 2014. Chiedere regolamento completo all’ Associazione - via Libertà 185 - 98073 Mistretta (Me) - Tel. 0921.381232, e-mail: centrostorico@virgilio .it; veb: www.centrostorico.altervista.org * SATURA - Arte Letteratura Spettacolo - Trimestrale diretto da Gianfranco De Ferrari - Piazza Stella 5 - 16123 Genova. Ecco il Sommario del n. 23 (3° Trimestre 2013): “Scrivere? Anche no”, di Giuliana Rovetta; Tre poesie di Liana De Luca; “Verismo siciliano”, di Milena Buzzoni; Tre poesie di Guido Zavanone; “Religiosi poeti”, di Rosa Elisa Giangoia; Una poesia di Uwe Kolbe; “Un esordio musicale: una litania d’immagini per Genova e Giorgio Caproni”, di Rosanna Pozzi; Due poesie di Rosamaria Nicassio; “Le incisioni rupestri della Val Camonica”, di Patrizia Loria; “Rileggere Le città invisibili di Italo Calvino”, di Rosa Elisa Giangoia; “Considerazioni sul tempo”, di Giuliana Rovetta; “Il tramonto di Ida”, di Giuliana Ravetta; “Una vocazione letteraria tra Iran e Olanda”, di Giuliana Ravetta; “Un uomo e un artista”, di Domenico Defelice; “Piero Campomenosi prosatore e poeta”, di Milena Buzzoni; “Una storia d’amore”, di Rosa Elisa Giangoia; “La vita imprevedibile”, di Rosa Elisa Giangoia; “Il pianista investigatore”, di Rosa Elisa Giangoia; “Alleggerire il peso della vita per trasferirlo in cielo”, di Nazario Pardini; “Guido Alimento. Una vita con la fotografia”, di Mario Napoli; “Francesca Costa. Creatures”, di Elena Colombo; “Sibilla Fanciulli. Città nell’ obiettivo”, di Andrea Rossetti; “Simona Milani. Il
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corpo a nudo”, di Andrea Rossetti; “Mario Tobino. Opera d’arte totale”, di Elena Colombo; “Calligrafia: “Art” o “Craft”?”, di Luisa Urgias; “Percorsi d’arte contemporanea”, di Mario Napoli; “Andare per mostre”, di Wanda Castelnuovo; “I libri di Elena Colombo”, di Elena Colombo. * DOMANI SUD - Periodico di informazione politica e culturale. Direttore Fortunato Aloi, responsabile Pierfranco Bruni - via S. Caterina 62 - 89121 Reggio Calabria. Riceviamo il numero NovembreDicembre 2013, del quale ci piace citare le poesie di Orazio Raffaele Di Landro e Antonella Di Renzo. * KAMEN’ - Rivista di poesia e filosofia, diretta da Amedeo Anelli - viale Vittorio Veneto 23 - 26845 Codogno (LO). Riceviamo il n. 44 (gennaio 2014). * BRONTOLO - mensile satirico umoristico culturale fondato e diretto da Nello e Donatella Tortora - via Margotta 18 - 84127 Salerno. Riceviamo il n. 216-17 (dicembre 2013 - gennaio 2014), sul quale troviamo anche le firme di due nostri collaboratori: Mariano Coreno e Andrea Pugiotto. Ricordiamo il “Concorso “Brontolo” con scadenza 30 giugno 2014. Chiedere regolamento all’indirizzo di cui sopra. Tel. 089/797917, e.mail: brontolo8@libero.it * IL PONTE ITALO-AMERICANO - Rivista internazionale di cultura, arte e poesia, diretta da Orazio Tanelli - 32 Mt. Prospect Avenue, Verona, New Jersey 07044 - USA. Riceviamo il n. 4 (dicembre 2013), ricco di foto e di rubriche e sul quale, oltre la firma del direttore Orazio Tanelli - il quale recensisce anche “Domenico Defelice. Un poeta aperto al mondo e all’amore” di Anna Aita -, troviamo quelle di Maria Teresa Epifani Furno e Tito Cauchi. * SENTIERI MOLISANI - Rivista d’arte, lettere e scienze - Direttore Editoriale Antonio Angelone, responsabile Massimo Di Tore - Via Caravaggio 2 - 86170 Isernia. Riceviamo il n. 3 (settembredicembre 2013), sul quale troviamo le firme di: Leonardo Selvaggi, Orazio Tanelli, Tito Cauchi, Ciro Rossi, Antonia Izzi Rufo (la quale recensisce il saggio monografico di Anna Aita: “Domenico Defelice Un poeta aperto al mondo e all’amore”), Rosa Elisa Giangoia, Elio Andriuoli, Luigi De Rosa, Giorgina Busca Gernetti, Giovanna Li Volti Guzzardi, Loretta Bonucci, Silvano Demarchi eccetera, tutti nostri collaboratori.
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LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina a Domenico Defelice) Carissimo Direttore, eccomi a te da Pisa, là dove mi ha condotto un frenetico susseguirsi di eventi, in meno di quarantotto ore! Approccio Carlo Goldstein su Facebook, lo apprezzo nelle sue esecuzioni raccolte su Youtube, mentre dirige o dialoga con l'intervistatore fuori campo. Il giorno 9 Gennaio vengo a sapere della Carmen di Bizet, che lui dirigerà a Pisa, al Teatro Verdi, dopo i successi con il tutto esaurito a Lucca e a Livorno. Anche per questa 'Prima' non ci son più biglietti, così la tua cara creatura, la nostra 'POMEZIA NOTIZIE' mi viene incontro ed il contatto con la responsabile, Maria Valeria Della Mea è proficuo, perché mi viene concesso l'accredito per le due giornate, l' 11 e il 12. Dietro mia richiesta, il Maestro accetta l'incontro, proprio prima della 'Prima' e mi rendo conto che dietro la sua Carmen c'è anche qualcosa o molto di lui e del suo modo di vedere, di pensare e di agire, nella vita come nell'arte della direzione d'orchestra. Essere qui, per 'lavare la mente in Arno', come ha detto il mio Amico, non solo i panni: così penso al Papà, studente universitario a Firenze, mentre dal Ponte Vecchio osserva lo scorrere lento del fiume, si, di quelle acque che mai uguali da ieri, ad oggi, a domani arriveranno fino a qui, fino a dove sono io ora, qui a Pisa dico, per scomparire poi nel mare, una sola volta per tutte. Avrà pensato a Bizet, alla sua 'Carmen', a 'I pescatori di perle', al Puccini del 'Gianni Schicchi', musiche ed Arie che letteralmente adorava. Ho riservato una stanzetta al B&b 'Ponte di Mezzo' con balconcino che dà direttamente sull'Arno, che dall'alto non mi stanco mai di guardare. Di fronte il Palazzo Blu dove fino a Febbraio ci sarà in Mostra un Andy Warhol ancora coinvolgente, quello che riproduce serialmente l'opera e il volto, perché questa è l'epoca nella quale Walter Benjamin ha individuato la perdita
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dell'aura che l'opera d'arte aveva ed emanava tutt'intorno a sé. Unica ed irripetibile, ieri. Moltiplicata all'infinito oggi, statica e semovente ad un tempo, con minime variazioni nella grana e nel colore, come le labbra blu di Mao Tse-Dong, che qui a Pisa campeggiano con discrezione. Il Maestro Carlo Goldstein, nato a Trieste nel 1976 e milanese per studi e non solo, asciutto, elegante, profilo intenso, nera e folta capigliatura all'indietro, si lascia avvicinare con franca disinvoltura e ci tiene a precisare che dell' Ebraismo si parlerà un'altra volta, perché questa è la volta di Carmèn e di lei sola. Sulla scrivania dell'ufficio della signora Della Mea, a fianco del registratore, che mi sono portata via da Vicenza, alcuni numeri di Pomezia Notizie ed in primo piano quello con la fotografia del prof. Shlomo Sand, che ho scattato ad Edimburgo e che, come tu ben sai, mi è costata una cifra! Molti i minuti trascorsi insieme, sui temi della libertà, del potere, della passione, della sensualità, della sessualità che lega insieme Amore e Morte, sempre, ed ancora della vita di strada contro e oltre i limiti della legalità, là dove i bambini riescono sempre a giocare. Si, perché i bambini, tanti bambini sono previsti in scena, quel 'Coro di voci bianche' che Bizet vorrà in partitura e che dovrà simulare scherzosamente la parata dei soldati ma non solo. Nel profilo che il Canale Sky gli ha dedicato, presente su Youtube, si vede in azione Carlo Goldstein tra i burattini della Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli, mentre li scruta nella loro differente, artistica bellezza e ne sottolinea il fascino quando li osserva in azione, sulla scena in miniatura, fino a commuoversi. Si, una scena in miniatura, l'attenzione acutissima per ciascun particolare, dei costumi come dei volti ed il burattinaio che guida sapientemente ed ha cura di ogni minimo dettaglio: una metafora questa molto delicata per orientare un poco il lavoro dell'analisi della partitura, in verticale, quella che ha sotto gli occhi il direttore d' orchestra, fatta di piena consapevolezza del dettato di ogni strumento solista o di gruppo, a fiato e a corda e a percussione e quant'altro
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ed i fili sono invisibili e ciascuno si guida da sé e si lascia guidare, in un dare e ricevere che prende dentro la esecuzione finale del pezzo, al massimo della prestazione in quel 'Tutti' che lascia la sua impronta nella mente e nel cuore del pubblico. Poi la 'Prima', alla sera del Sabato e poi ancora la 'Seconda', al pomeriggio della Domenica, due esecuzioni differenti perché diversi sono gli interpreti, come potrai vedere dal Programma di Sala che ti ho già inviato: mi son consunta gli occhi per sottolineare, a caldo, gli elementi forti del lavoro di scena, di regia, d'esecuzione e ti confido che questa 'Carmén' è vero segno dei tempi, in tutto. Un salto alla Pasticceria Salza, notissima fin dal 1898, per fare il pieno di cornetti, alla crema ed alla marmellata, da cui lo zucchero al velo si spande ovunque, sul mio petto ubertoso e sulle maniche del caffetano in seta, che indosso sempre nelle occasioni speciali e non, e nei quali il ripieno rigurgita copioso ad obbligare la lingua ad uno scrupoloso lavoro di 'lima', prima di approcciare la bocca al morso. Aveva ragione la verduraia della Piazza del Mercato a consigliarmi questa sosta, si, proprio lei, che mi ha fatto due euro di sconto sulla spesa e che mi ha venduto mandarini del tuo Sud, dolcissimi e grandi quasi come i pompelmi Jaffa. Si, caro Direttore, perché poi nella notte tra il Sabato e la Domenica è morto anche Ariel Sharon, dopo otto anni di coma e mi invade la mente la strage di Shabra e Shatila, che lui ha guidato e curato in tutto, quell'evento che non fa solo parte della Storia, ma riguarda la liceità ad uccidere, anche chi non ha di fronte a te armi in mano, perché queste sono le coordinate che i più forti hanno dalla loro rispetto a coloro che andranno a far parte della grande massa dei vinti. Io sono con Carl Schmitt, grande giurista tedesco, quando dichiara a vera e viva voce che se il genocidio del popolo degli Indiani d'America fosse stato punito severamente, il Diritto Internazionale sulla guerra, lo Jus Publicum Europaeum, avrebbe avuto ben altra connotazione e non avrebbe portato al Trattato di Versailles ed a quei suoi articoli 'vendetta': liceità ad uccidere, quindi, anche la massa i-
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nerme, per 'ragioni di stato'. Mi rifugio in Carmén, che ho inseguito fin qui a Pisa; mi rifugio in Galilei, perché dal basso la sua torre in Piazza dei Miracoli fa proprio riflettere sulla legge di gravità e sul principio di rotazione della Terra e del Sole ma anche sul ruolo della scienza e delle sue verità, nello sfondo della vita di tutti i giorni per ciascuno di noi; mi rifugio in questa Carmén del giovane Goldstein interpretata ieri sera fieramente da Agata Bienkowska, per ricavare la forza di restare libera, come mio fratello Virgilio, con la volta stellata sopra di me ed un mondo senza confini tutt'intorno. Faccio qualche passo e mi ferma una nera ben pasciuta che vuole fare 'five to five' a palmo aperto: io l'assecondo e lei vuole una collana rossa, splendente, che ho in vita, mi vuole dare in cambio tutto il suo armamentario di braccialetti e chincaglie. Io ne scelgo uno per tipo e mi sfilo lentamente la collana dalla cinta, braccia elevate al cielo, che è calda del mio corpo (certo Carmén sulla scena, nello sfilarsi le calze nere di seta durante la Seguidilla, era ben più sciolta di me, ma ora, qui, a mio vantaggio, siamo sulla strada, nel Lungarno e non in scena!): nel porgergliela lei mi dice: 'Tu sei buona', mentre io faccio mente locale al baratto, alla relazione forte e ricca che la forma del baratto provoca, non certo quando si danno pietruzze colorate in cambio d'oro puro! Domenica sera, dopo l'altra 'Prima', che vede per Carmén l'interpretazione dell'ironica e franca Laura Brioli, seducente la sua parte, vera linea portante dell' 'Opéra-comique', sosto alla Pizzeria di fronte al Teatro, da 'Charlot', sala a volta crociata, piccola e suggestiva. Scelgo un tavolino con buona prospettiva, per poter lavorare ancora su Salomè, sulla Salomè di Richard Strauss, che mi son portata via in librettino leggerissimo. Arriva lui, il giovane Goldstein, con tutti i suoi amici, si avvicina al tavolo, mi saluta. Allora mi lascio sorprendere, non posso che alzarmi, tenendo in mano la mia focaccina già morsa come un trofeo e lo assecondo in un abbraccio semplice ed assai amicale, così, di fronte a tutti. Ogni tanto, dal mio piatto di 'Bavette
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ai gamberetti in salsa piccante', preparato da un antipasto di verdure miste al tonno ed olive nere, sollevo lo sguardo, che sta viaggiando tra le vicende che incollano Salomé e Jochanaan al loro destino, per osservarlo, mentre conversa scioltamente con i suoi. Poi, nel commiato, un rinnovato appuntamento, questa volta proprio sulla Salomè di Strauss e forse proprio a Dresda, a guida Goldstein! Si, proprio per quella partitura che ha dato da fare alla censura tedesca prima della 'Prima' di Dresda, nel 1905 e che in Italia, un anno dopo, il 21 Dicembre 1906, ha visto Toscanini e i suoi orchestrali al lavoro a Milano, alla Scala, per le prove generali dell'esecuzione definitiva che si è tenuta al regio di Torino, il giorno dopo, direttore lo stesso Strauss. Mahler l'ha ascoltata tutta, quest'opera, eseguita dallo stesso Strauss al pianoforte e ne è rimasto folgorato e gli dirà, ancora nel febbraio 1907, in una lettera, “Mille grazie per Salomé. E' sempre sulla mia scrivania”. E traggo questa delicata confidenza, come del resto l' altra, dal libro 'G. Mahler, R. Strauss Il cammino parallelo, Archinto Edizioni, Milano 2011. Dalla Carmén di Georges Bizet alla Salomé ed all' Elettra di Strauss, un femminile plurale prismatico che coinvolge questi compositori in un vortice indescrivibile, qui nella creatività musicale, come per te nella creatività poetica: ed è sempre la problematica bellezza ed il contorto, imprevedibile carattere della donna a dettare la vera regia degli eventi. Un abbraccio pieno di futuro. Ilia Carissima Ilia, non ti nascondo che mi meraviglia l’avidità con la quale i lettori assaporano le tue lettere. Sono parecchie le testimonianze in tal senso, anche se riporto solo il “dulcis in fundo” del caro amico Giuseppe Leone, in questo stesso numero, nella rubrica delle “Notizie”. Non mi va di aprire un vero e proprio capitolo degli elogi perché, poi, sarebbe assai difficile chiuderlo. Ma sappi che sono veramente tanti ad apprezzare le tue lettere. Alle quali non sempre voglio e posso rispondere come meriterebbero. Accontentati, perciò,
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delle mie poche e smozzicate riflessioni. Ti sono grato, intanto, perché porti a spasso per il mondo questa nostra creatura di carta, cosa che io non faccio, perché blindato a mostrare e a dimostrare le mie cose, come i miei affetti. Eccoti, dunque, a Pisa, a guardare, assieme ad, essa, l’Arno che scorre lento, a rimembrare il tuo Papà che amava tanto la musica classica, “che letteralmente adorava”, “musiche ed Arie”; il tuo Papà, che si completa in due grandissime opere: la Storia della Letteratura Italiana - che lo rese famoso - e Vela d’ Argento, che ho sempre sognato di vederla finalmente pubblicata, perché è in essa che più si rispecchia la sua intimità, il suo amore totalizzante per la bellezza, musica compresa. Warhol, ti confesso, non mi ha mai coinvolto. Spero di non scandalizzarti, ma non riesco a trovare in lui tutta quella creatività, quella suggestione che gli altri vedono. C’è proprio tanta creatività, per esempio, nella ripetizione di un volto, nella moltiplicazione di una bottiglia di Coca-Cola? Sì, Warhol non è solo questo, ma... La vera arte, per me, è infinita emozione, stimolo continuo - una bella donna, insomma! -, quella che mi dà l’Arte di ieri, ma anche quella di oggi, come dimostro attraverso i tanti saggi. Ma non c’è Warhol nelle mie emozioni. Dovresti spiegare meglio, ai nostri lettori, perché “la fotografia del prof. Shlomo Sand” ti sia “costata una cifra”. E’ che sei andata a trovarlo assai lontano, non la foto in sé, né per averla pubblicata sulla nostra Testata, che non chiede mai nulla. L’andare in giro per il mondo ha i suoi godimenti, ma anche i suoi costi! Ci sono, in questa tua lettera, immagini pantagrueliche, quasi grottesche, che non mancheranno di stimolare nei lettori la fantasia e la ghiottoneria. Dico di quella tua autentica abboffata alla “Pasticceria Salza”, tra “cornetti, alla crema ed alla marmellata”. Lo zucchero che “si spande ovunque, sul (tuo) petto ubertoso e sulle maniche del (tuo) caffetano in seta”, sembra lievitare all’infinito, avvolgere tutto lentamente, e quella lingua che fa “uno scrupoloso lavoro di ‘lima’ “, è figura
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soprannaturale, altamente personificata e, perciò, indimenticabile. E poi ci trovo i “mandarini del (mio) Sud, dolcissimi e grandi”. E qui subentra in me la malinconia. Sono stato, subito dopo il Santo Natale, ad Oppido Mamertina, per partecipare ad un Convegno e dare la mia testimonianza sul caro Geppo Tedeschi, poeta altissimo, amico di Marinetti, morto a Roma vent’anni fa. Oppido è alle falde dell’ Aspromonte e, così, viaggiando in macchina con l’ amico scrittore on. Ferdinando Aloi - che, da Oppido, ha voluto accompagnarmi a Reggio Calabria -, ho potuto dare uno sguardo a gran parte della Piana di Gioia Tauro, una autentica foresta di ulivi secolari e di aranceti. Ebbene, il terreno, sotto gli alberi, era uno spesso tappeto giallo di frutti, lasciati a imputridire. Aranci e mandarini. Lì, nessuno li compra. Vengono pagati così poco, da non ricavarci neppure la spesa per la raccolta! Ecco, cara Ilia: tra uno stimolo e una quasi provocazione, lo spazio si è totalmente esaurito. Non mi resta che abbracciarti, in attesa d un’altra tua “avventura” tra gli scrittori, la musica, la bellezza, l’arte. Domenico
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