Pomezia Notizie 2014/4

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mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00040 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti (annuo, € 40; sostenitore € 60; benemerito € 100; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.

Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 22 (Nuova Serie) – n. 4 - Aprile 2014 € 5,00

Colloquio di

DENIZ BOZKURT con

TERESINKA PEREIRA sull’arte e lavoro della traduzione uesto colloquio fu inizialmente fatto su Internet per il “Turkish Translation Magazine CN”, curato e diretto dal traduttore Tozan Alkan. Tuttavia, si è deciso di evitare l’uso di Internet. A quel punto, Deniz Bozkurt, traduttore per la suddetta rivista, ha inviato le domande via e-mil, e Teresinka Pereira ha inviato le risposte, invece, per posta ordinaria.

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All’interno: Arnold Schönberg e il “Moses und Aron”, di Ilia Pedrina, pag. 5 Le anime fuggenti del tuffatore di Paestum, di Rossano Onano, pag. 10 Elezabeth Barret Browning: Il pianto dei bambini, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 12 Francesca, l’amore sublime, di Aida Pedrina, pag. 15 Foce Sele, di Giuseppe Anziano, pag. 19 Gino Pisanò: San Giuseppe da Copertino, di Giuseppe Leone, pag. 22 Antonia Izzi Rufo: Paese, di Nazario Pardini, pag. 24 Ricordo di Elena Bono, di Domenico Defelice, pag. 27 La gioia e il lutto di Paolo Ruffilli, di Luigi De Rosa, pag. 29 Guido Gozzano, di Leonardo Selvaggi, pag. 31 Domenico Defelice: Un silenzio che grida, di Tito Cauchi, pag. 34 Il Minotauro, di Giorgina Busca Gernetti, pag. 37 La mia vita dentro le altre vite, di Themistoklis Katsaounis, pag. 39 Premio Città di Pomezia (Regolamento), pag. 41 Luci della Capitale, di Noemi Lusi, pag. 42 I Poeti e la Natura (Arthur Rimbaud), di Luigi De Rosa, pag. 45 Notizie, pag. 61 Libri ricevuti, pag. 64 Tra le riviste, pag. 67 RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Commiato, di Silvano Demarchi, pag. 46); Giuseppe Anziano (Indice di idee al caleidoscopio, di Aurora De Luca, pag. 47); Giuseppe Anziano (Catullo, il poeta dell’amore e dell’amicizia, di Antonia Izzi Rufo, pag. 47); Tito Cauchi (Paese, di Antonia Izzi Rufo, pag. 49); Tito Cauchi (Antologia, Accademia de’ Nobili, pag. 50); Tito Cauchi (La mania del coltello, di Domenico Defelice, pag. 51); Carmine Chiodo (Il poeta e la farfalla, di Dante Maffia, pag. 52); Roberta Colazingari (Paese, di Antonia Izzi Rufo, pag. 53); Mariano Coreno (Le mie due Patrie, di Giovanna Li Volti Guzzardi, pag. 53); Aurora De Luca (Alberi?, di Domenico Defelice, pag. 54); Salvatore D’Ambrosio (Paese, di Antonia Izzi Rufo, pag. 55); Giuseppe Giorgioli (I padroni del mondo, di Luca Ciarrocca, pag. 56); Adriana Mondo (Paese, di Antonia Izzi Rufo, pag. 57); Maria Antonietta Mòsele (La nascita di Pomezia, di Daniela De Angelis, pag. 58); Laura Pierdicchi (Paese, di Antonia Izzi Rufo, pag. 59); Andrea Pugiotto (Le cenerentole del mondo, di Ornella Sardo, pag. 59); Andrea Pugiotto (Le altre cenerentole, di Vinicio Ongini/Chiara Carrer, pag. 60); Innocenza Scerrotta Samà (Paese, di Antonia Izzi Rufo, pag. 60).

L’Italia di Silmàtteo, di Domenico Defelice, pag. 68 Lettere in Direzione (E. Giachery, M. Caracciolo, I. Pedrina), pag. 71 Inoltre, poesie di: Fortunato Aloi, Mariagina Bonciani, Georgia Chaidemenopoulou, Panagiota Christopoulou-Zaloni, Colombo Conti, Mariano Coreno, Domenico Defelice, Silvano Demarchi, Enzo D’Antonio, Giorgina Busca Gernetti, Renato Greco, Biplab Majumdar, Adriana Mondo, Teresinka Pereira, Serena Siniscalco

DB: C’è sempre stato un dibattito in corso, riguardo la possibilità della traduzione della poesia. Cosa ne pensi? Ti piacciono le poesie tradotte, e sai se ci sono dei buoni esempi che tu vorresti consigliare? TP: Questo dibattito è molto importante.

Molti poeti e scrittori si sentono traditi, quando si rendono conto che la traduzione del loro lavoro non corrisponde perfettamente allo scritto originale. Se i traduttori non comprendono per intero il testo originale che sottopongono alla loro lettura, è opportuno che la-


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scino il lavoro ad un altro più esperto e con maggiore conoscenza della lingua originale. Vorrei evidenziare che la traduzione fatta tramite Internet o quella fatta per mezzo del computer (in genere), non vadano perfettamente bene proprio per questo. Le traduzioni fatte tramite Internet, sono piene di cose inesatte, perché vengono eseguite da semplici dizionari, e non da persone aventi cognizione e cultura, giusta opinione e sensibilità, buon gusto ed eleganza, che il traduttore, come persona, deve assolutamente avere, per poter effettuare una traduzione di eccellenza. Mi avete chiesto di poter consigliare una traduzione importante in relazione alla mia arte poetica, e sono in grado di pensarne una buona possibile, e cioè il mio libro: “Alone with Time”, che è stato tradotto in cinese dal Dr. Lee Kuei Shien (Publishing Section of Showwe Information Co. Ltd., Tapei, Taiwan, 2010). Rendo noto che sono state eseguite anche delle traduzioni e pubblicazioni del mio lavoro poetico in più di venti lingue diverse. DB: A volte non è facile per i traduttori comprendere a fondo le poesie. Per cui, alcuni sostengono che un’interazione tra il poeta e il traduttore sia necessaria. Che ne pensi di questo concetto? Secondo te, il poeta e il traduttore dovrebbero lavorare insieme? Anche tu lavori in collaborazione con i traduttori delle tue poesie? TP: Se e quando potesse essere possibile l’ interazione tra il poeta e il traduttore, si otterrebbero risultati migliori. Io sono sempre disponibile a chiarire o rispondere sul significato o senso dei miei versi, oppure a spiegare le mie intenzioni quando vengono messi su carta i miei sentimenti. Però, tanti poeti detestano fare questo. Inoltre, molti critici letterari affermano che gli intenti non contano affatto, e che è il lavoro, dopo essere stato pubblicato, che mostra il talento o la mancanza di talento dell’autore. Dal punto di vista dell’autore, il più delle volte si vuol scrivere una certa cosa, e l’ideatore che è in lui cambia aspetto, e così realizza qualcosa di completamente diverso

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da ciò che originariamente aveva pensato, ed anche spesso qualcosa di migliore! L’ interazione tra il poeta e il traduttore (per questo può essere utile), non è facile, e non consente quell’armonia necessaria per una perfetta traduzione. La mia esperienza personale è differente, perché io scrivo le mie composizioni in tre lingue diverse: lo Spagnolo, l’Inglese e il Portoghese, rispettando quest’ordine. Il Portoghese è la mia prima lingua assieme al Francese; Quest’ultima perché la parlavo nella famiglia di mio padre durante la mia adolescenza, ma non la ho mai adoperata per scrivere; invece, nella famiglia di mia madre, si parlava il Serbo-croato e il Tedesco, lingue, che non sono mai stata capace di imparare. Quando sono giunta per vivere negli Stati Uniti d’America, ho studiato lo Spagnolo, in quanto mi identificavo con la persona latinoamericana che si trova in esilio, a causa dei regimi dittatoriali imperanti nei loro paesi; così pure in Brasile si aveva una dittatura di tipo militare; qui la stampa veniva censurata, per cui gli scritti di autori con mentalità politicamente di sinistra erano vietati. Io, quindi, non potevo pubblicare i miei lavori in Brasile usando il mio nome. Fu per questo che iniziai a tradurre le mie opere in Spagnolo. Dopo avere conseguito la laurea in lingua spagnola, mi resi conto che era meglio scrivere direttamente in Spagnolo anziché in Portoghese, così incominciai a scrivere in Spagnolo. Spesso, quando si traduce da una lingua ad un’altra, lo scritto cambia e diventa come se fosse un altro, a causa del tono delle parole e del loro significato ed anche un po’ della cultura che si ha. Io ho vissuto in Messico per due anni e amo il modo di parlare e scrivere in Spagnolo-messicano. Questo ha influenzato molto la mia arte poetica. In seguito mi sono sposata con un giovane cileno, che era arrivato negli U.S.A. in esilio, e così fui anche influenzata dal suo Spagnolo-cileno. Io andavo spesso in Cile e mi tenevo in stretto contatto con la famiglia di lui. Tempo dopo, sono andata a vivere in Nicaragua, ed ora il mio agente/segretario è un nicaraguano; noi due parliamo in lingua spagnola abitualmente. Oltre


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tutto quello che ho detto sopra, aggiungo che io sono stata insegnante universitaria di Spagnolo per venti anni. Il mio Inglese non è un gran ché; ma la lingua che uso parlando con i miei figli è l’Inglese-americano (non l’ Inglese-britannico); cosa che ho particolarmente fatto quando loro erano adolescenti. Io ho imparato l’Inglese-americano occasionalmente, sia come lingua, che anche come cultura di vita. Tutto questo fa la differenza nella traduzione dei lavori poetici scritti da me, come pure di quelli scritti da altri. Dopo aver detto tutto ciò, e facendo riferimento alla tua prima domanda principale, posso ben dire che mi piace altresì rispondere alle domande postemi dai traduttori delle mie opere, nonché parlare dei miei sentimenti e sensazioni espressi in esse, così pure, a volte, poter chiedere loro riguardo alla scelta delle giuste parole nel tradurre le mie opere in Francese o in Italiano, in quanto conosco piuttosto bene queste due lingue. DB: Io, da poeta che partecipa a vari eventi/incontri organizzati a livello sociale ed ambientale, ti chiedo quanto è importante, secondo te, la traduzione degli argomenti letterari? Tu pensi che questo potrebbe contribuire alla pace mondiale e nello stesso tempo a creare una maggior consapevolezza a riguardo tra gli abitanti del mondo? TP: Io ci speravo che tu mi avessi posto questa domanda! Infatti, io provo un vero piacere nel darti una risposta; certamente sì! Io dico che si arriva al punto che i traduttori diventano importanti tanto quanto gli autori dell’opera poetico-letteraria! Ogni autore che conosco, apprezza tanto l’accuratezza e la validità dei lavori del traduttore. Io, da Presidente della “International Writers and Artists Association (IWA)”, ho dato vita ad un giornale informativo (Newsletter), che mando nelle mie varie corrispondenze a chi di competenza, riguardo l’importanza e l’esigenza delle traduzioni letterarie. Io chiedo sempre agli scrittori/autori bilingue di provare a tradurre il proprio lavoro letterario anche nella

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seconda lingua che conoscono e, poi, lavori letterari di altri scrittori/autori nella loro propria lingua. Ci vuole molto tempo ed impegno per poter diventare un buon traduttore, ma ne vale la pena per le ottime gratifiche che ne ottiene; ciò aiuta a mantenersi vivi intellettivamente, evitando, così, il logorio della loro mente, ed a prevenire persino malattie come l’Alzheimer! Io conosco persone di oltre cento anni di età, che sono ancora lucide ed attive! A tal proposito, io sto scrivendo un’ informativa. Io rendo omaggio a quello che loro pubblicano riguardo la loro attività e il loro stile di vita, ed anche le loro figure. Per me è una gioia quando ricevo notizie di un artista e/o scrittore che riesce a compiere cento anni di età, rallegrandomi con le loro famiglie. Io mi auguro di poter rimanere lucida abbastanza, potendo fare, in tal modo, delle traduzioni per almeno altri cinquant’anni! Circa l’ importanza della traduzione posta in unione con il movimento per la pace nel mondo, è, per me, sicuramente essenziale! I creatori di opere poetico-letterarie, ritengo siano le persone più sensibili tra tutti gli idealisti. Noi tutti vogliamo la pace, come disse un giorno il mio amico Antero Flores-Araoz, ambasciatore dell’ International States Parliament for Safety and Peace (Perù), in uno dei suoi scritti: Tutto ciò che possiamo fare nell’ambito internazionale e nelle relazioni tra gli Stati sarà davvero poco, se non difendiamo l’esistenza di una cultura della pace, di un dialogo permanente di reciproca tolleranza, per scacciare la violenza dalle menti e quindi dalle azioni susseguenti dell’essere umano -. Noi tutti lavoriamo per la pace. La maggior parte dei membri dell’ “I.S.P.S.P.” sono degli scrittori, poeti ed anche editori. Tutti quanti noi scriviamo a proposito della pace e parliamo di essa nelle nostre argomentazioni in diverse nazioni. Noi tutti dipendiamo dai traduttori; senza la loro collaborazione, non potremmo dialogare sulla pace e per essa. A mio parere, i traduttori sono importanti tanto quanto i diplomatici che fanno politica in favore della pace. (Traduzione in italiano di Gesualdo M. A. Belfiore)


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ARNOLD SCHÖNBERG AFFRONTA IL TEMA DELLA GIUSTIZIA DIVINA E DELLA SUA RICADUTA SUL POPOLO NEL SUO

'MOSES UND ARON' di Ilia Pedrina

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AL mese di Novembre 2011 la complessa partitura del 'Moses und Aron' di Arnold Schönberg è sempre sulla mia scrivania, come punto di riferimento di un'investigazione sul rapporto tra Giustizia, Legge e Popolo da governare, ricerca interrogativa che questo musicista e compositore viennese ha affrontato molto seriamente in scritti diversi ed in particolare in questa opera. Un profilo esauriente dell'Autore ci è dato da Giacomo Manzoni, autore del testo italiano più completo ed ancora insostituibile: 'L' uomo, l'opera, i testi musicati', Edizioni Ricordi, LIM, Collana 'Le sfere', 1987. Si legge sul risvolto di copertina: 'La prima e unica monografia italiana sulla figura e l'opera del grande musicista viennese protagonista della rivoluzione musicale di questo secolo. Ma Giacomo Manzoni, conoscitore profondo di Arnold Schönberg, non si limita in questo volume a ripercorrerne la vita, ad analizzarne la musica, a ricostruirne il pensiero innovativo che portò Schönberg ad andare oltre il sistema tonale, a passare dalla stessa tonalità sospesa alla dodecafonia, al metodo di composizione con le dodici note. Manzoni unisce al suo ampio, avvincente saggio, la pubblicazione, anch'essa prima e unica in Italia, di testi musicati da Schönberg e dovuti ad autori diversi. Si ha così, fra l'altro, un panorama estremamente significativo degli interessi letterari e culturali del musicista, del resto ben coniugati da Manzoni con la sua attività di compositore'. Certo dalla fine degli anni '80 del secolo scorso, altro è stato scritto ed andrò a verificare tutta la bibliografia su questi temi aggiornata e ben all'altezza delle esigenze del tempo, ma questa intanto resta per me un'ope-

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ra che rappresenta il fondamento più articolato e competente per incontrare dal 'vivo' e capire Arnold Schönberg. Dell'Opera 'Moses und Aron' il Manzoni parla nel Capitolo Quindicesimo: “Il 'Moses und Aron', la grande opera incompiuta di Schönberg, è il punto di arrivo di una evoluzione musicale e spirituale che aveva proceduto in modo rettilineo fin dalla giovinezza del musicista. Tale evoluzione può essere compresa a fondo solo se si tiene ben presente che in Schönberg era sempre stato vivo un sentimento di religiosità che si era venuto precisando in senso ebraico con il passar degli anni. Si è già detto che nel 1898 egli si era convertito dall'ebraismo al protestantesimo... Dopo il 1920 i testi resi noti da Schönberg rivelano una posizione religiosa in senso lato e cioè viene adombrata in essi una presenza superiore che pone degli imperativi morali, delle leggi di comportamento etico: e sono i testi dei tre lavori per coro musicati tra i 1925 e il 1930. Ma Schönberg ormai da qualche tempo si era decisamente rivolto all' ebraismo...” (G. Manzoni, op. cit. pp.129130). Poco più oltre l'Autore riporta le parole stesse del musicista viennese, risalenti al 1924, quasi appunti a traccia delle sue riflessioni sul problema del sionismo: “Non si può credere che si possa trovare per un periodo sufficientemente lungo una potenza che abbia la volontà, l'interesse e la capacità di proteggere gli Ebrei in Palestina dai molti nemici che li circondano. E che non si possa parlare di una protezione durevole è dimostrato nel modo migliore dalla stessa storia degli Ebrei: essi hanno potuto conservare l'indipendenza solo finché il loro regno è stato protetto da guerre vittoriose” (ibid.). Queste sono parole importanti, che vanno a sottolineare l'attenzione del compositore viennese per la questione ebraica, per la necessità di questo popolo ad avere una terra, una patria, uno Stato Sovrano. G. Manzoni informa il lettore che in una lettera ad Anton Webern, del marzo 1926, il compositore menziona per la prima volta l' idea di un lavoro, una cantata dal titolo 'Mosè e il roveto ardente': “Quando il testo fu com-


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pletato, un paio d'anni dopo, si trattava invece di un'opera-oratorio completa in tre atti. Sul testo del terzo Schönberg tornò varie volte nel periodo successivo, ma non ebbe più modo di musicarlo. L'Opera rimane dunque incompiuta al termine del secondo: Schönberg portò a termine queste parti nel marzo del 1932. Il soggetto del Moses è tratto ovviamente dall' antico testamento e cioè dal secondo libro del Pentateuco, in particolare dai passi in cui è riferito il dissidio tra Mosè e Aronne e la missione profetica del primo...” (G. Manzoni, op. cit. ibid.). Giusta, necessaria, ricca di conseguenze costruttive è stata per me la precisazione di Nuria Schönberg Nono: “... Mio padre è morto nel 1951 quindi non era lui a dirigere il Moses und Aron ad Amburgo, bensì Hans Rosbaud...” (fonte 'Archivio Luigi Nono, e-mail del 24 febbraio 2014): infatti mi sono messa a cercare con determinazione ed ho trovato il testo, bellissimo la sua parte, 'Arnold Schönberg, Testi poetici e drammatici', Introduzione e note di Luigi Rognoni, traduzione di Emilio Castellani, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Collana SC/10, finito di stampare nel mese di Gennaio 1967 dalla Edigraf-Segrate, Milano. Si, apro una piccola parentesi su Giangiacomo Feltrinelli: egli era ancora vivo quando ha visto la luce questo libro, prima di immolarsi alla causa nella quale credeva fermamente, da editore e da rivoluzionario, il 14 Marzo 1972, a Segrate, sul traliccio dell'Enel, sul quale era salito per mettere a punto un atto di sabotaggio e provocare un vero black-out in quella Milano che era tutta da 'bere'! Aveva 46 anni. Con parole precise egli descrive la Collana, che presenta chiaramente i suoi intendimenti da editore: “...una nuova e moderna concezione editoriale: l'high quality paperback, come è stato chiamato in America e in Inghilterra, e cioè l'edizione economica, grazie a un' alta tiratura, di opere di alto livello culturale e scientifico. In Italia il libro di cultura, sia esso l'opera storica, l'indagine sociologica, filosofica o scientifica, il saggio di estetica o di critica letteraria, ha quasi sempre un prezzo superiore alle possibilità del lettore medio...”.

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Anche questa è storia e storia di un popolo, quello Italiano, che ancora ha da trovare la strada giusta per essere parte vera e propria di uno Stato Sovrano, osservata da chi ora si trova nell'epoca in cui i libri si possono scaricare gratuitamente da Internet. Egli ha creduto nell'idea alla quale aveva dato tutta la sua fede e l'ha portata a compimento fino all'ultimo, quasi come l'Aruns, personaggio protagonista dell'opera schönberghiana, inedita, 'Die Biblische Weg. Schauspiel in drei Akten' (La Via Biblica), il cui testo completo si trova proprio in questo libro. Il grande musicista viennese vi lavora ed in più punti sorprendono i semi dell'Opera Moses und Aron, come ci informa lo stesso Luigi Rognoni nella sezione delle note: “Concepito per il teatro di prosa, è un inedito molto importante per la genesi del Moses und Aron (v. Introduzione). Primo abbozzo: 17-18 giugno 1926; prima stesura dal 19 giugno 1926 al 5 luglio 1926. Una seconda redazione dattiloscritta, con numerose correzioni a mano, è datata 12 luglio 1927 ed è quella sulla quale è stata condotta la presente traduzione italiana. In un quaderno di annotazioni, a parte, si trovano appunti per un rifacimento, con la scritta: Sprich zu dem Felsen! (“Parla alla roccia!”) con la data 25 aprile 1927 (v. nota 3 a Mosè e Aronne); seguono annotazioni sui movimenti e le successioni sceniche e infine riferimenti riguardanti le fonti bibliche...” (A. Schönberg, Testi poetici e drammatici, op. cit. pp.232-233). Max Aruns, quasi un misto tra Aronne e Max Nordau, sionista convinto, o forse addirittura Theodor Herzl, guida il popolo di quegli ebrei che sono emigrati dall'Europa nella Nuova Palestina, fornendo loro la concretezza di una svolta di vita, ma intrighi e problematiche legate agli Arabi, al rifornimento di viveri, ai capitali che devono essere cospicui e che a livello internazionale sempre Londra controlla, ai traditori ed ai fomentatori, agli insofferenti ed agli increduli, interrompono con la violenza il progetto di Aruns, che viene assalito ed ammazzato a colpi di bastone dagli inviati di un popolo in rivolta. Prima di morire, riesce a


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stento a pronunciare parole: “ARUNS (giace a terra morente) Signore, mi hai sconfitto: ecco quel che mi meritavo. Aveva dunque ragione Asseino accusandomi di peccare d'orgoglio perché volevo essere in uno Mosè e Aronne. E così ho tradito anche l' idea: perché mi sono affidato ad una macchina anziché allo spirito. Signore, ora lo so e ti prego: prendi il mio sangue ad espiazione della mia colpa. Ma non fare che sia questo povero innocente popolo a pagare il fio. Salvali, Signore. Dà loro un segno che hai voluto punire soltanto me perché ho peccato contro lo spirito; ma che non lascerai che l'idea soccomba. Muoio, ma sento che tu lascerai vivere l'idea. E muoio contento perché so che tu darai sempre al nostro popolo uomini contenti di morire per l'idea del Dio unico, invisibile e irraffigurabile. (Muore.)” ('La Via Biblica', Atto III, Scena VII, in A. Schönberg, op. cit. pp. 145-146.) Arriverà Guido, colui che spiegherà a tutti i risvolti segreti della vicenda ed il superamento delle avversità, delegando se stesso a nuova guida, dato che aveva ricevuto la totale fiducia di Aruns ed ora accoglie anche l'Arabo Kaphira con dignitosa serietà e fermezza, mentre il corpo di Aruns giace ancora a terra e gli occhi gli erano stati chiusi dal fedele Jonston: “GUIDO ...Tale era il destino preordinato dalla provvidenza. Come a Mosè non fu dato toccare la terra promessa, ma gli fu riservato solo il compito di guidarvi il suo popolo, come egli dovette morire quando ebbe compiuto quella missione, così l'esistenza di quest' uomo era conclusa, una volta che la Nuova Palestina era divenuta realtà. Dietro di sé egli ha lasciato un altro e più facile compito: per tale compito è sufficiente un Giosuè, e ad esso forse basterò io...” (La Via Biblica, Atto III Scena X, op. cit. pp. 148-149.). Ma un conto è uno Schauspiel, un'Opera da Teatro, ed un ben altro conto sarà la partitura ed il testo drammatico del Moses, proprio perché, secondo Schönberg, la coscienza dell' artista è coscienza teleologica nel divenire concreto delle vicende umane. Sostiene L.

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Rognoni: “... La contraddizione fra idea e azione rimarrà però insoluta sino all'ultimo. Se da un lato la chiusura interiore che egli vive come uomo e come artista lo porta verso il Dio del deserto, il Dio che si afferma nella coscienza soggettiva dell'uomo e che appare anche come la sola forma possibile di resistenza all'alienazione dell'individuo nel livellamento della civiltà tecnocratica; dall'altro la coscienza etica dell'artista di fronte alla storia nel suo attivo divenire lo impegna ad agire sulle coscienze della comunità civile nella quale egli vive. L'arte, se è ancora possibile in un mondo che arrischia di avviarsi all'autodistruzione per 'eccesso' di progresso, non può essere altro che ricerca teleologica della 'verità' dell' uomo, come affermazione della sua libertà a decidere secondo ragione e necessità nella storia.... Nel 1933, già esule dalla Germania dove il nazismo sta iniziando la sua ascesa, Schönberg si riaccosta a Parigi alla comunità ebraica. Egli è stato tra i primi ad abbandonare Berlino, dove dal 1924 occupava la cattedra di perfezionamento in composizione presso la 'Preussische Akademie der Künste'. Mentre altri s'illudevano che l'estremismo nazionalista di Hitler si sarebbe potuto conciliare col 'buon senso' della conservazione borghese, Schönberg non ha dubbi... Per quanto la trimillenaria fede della religione ebraica lo spingesse sempre ed ancora, 'verso il deserto', cioè ad accettare la posizione di isolamento come unica forma possibile di resistenza di fronte al generale trionfo della violenza e del male, Schönberg non era ben sicuro che la lotta fra Mosè e Aronne fosse veramente da intendersi come una opposizione fra idea e azione che doveva risolversi col trionfo della prima sulla seconda. Non aveva forse la stessa Voce dal Roveto ammessa la necessità dell'azione, quando assicurava Mosè che avrebbe 'illuminato' Aronne perché traducesse in termini comprensibili il pensiero che Dio aveva consegnato a Mosè? Ed è forse concepibile una parola che non presupponga l'azione? Ma l'azione di Aronne degenera, tradisce il pensiero; e degenera, sembra, proprio nell'


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atto stesso in cui si pone come azione in rapporto alla richiesta stessa della storia, nel divenire concreto e mutevole degli avvenimenti, mentre la posizione di Mosè appare come 'resistenza' alla storia che muta e precipita, in nome di un eterno assoluto, immutabile. Sul piano etico e sociale proprio gli avvenimenti politici del tempo mostravano, già in quegli anni fra le due guerre, come l'azione rendesse ambiguo ogni concetto di libertà, di civiltà e di progresso. Era un circolo chiuso. Rivoluzione e reazione tendevano a confondersi sempre più in una pericolosa equivalenza di termini, di posizioni ideologiche che, nella prassi, si rovesciavano nei loro opposti... I primi due atti furono musicati in tempo relativamente breve e senza dubbi sostanziali. Tutto era stato detto, descritto, dialetticamente puntualizzato. Forse il vero finale dell'Opera, il solo possibile e concepibile, risiedeva nella chiusa del Secondo Atto sulle parole di Mosè: 'O Wort, du Wort, das mir fehlt!' ('Oh parola, parola che mi manca!') che colgono proprio nella 'mancanza della parola', non solo l'impossibilità di esprimere l'inesprimibile, ma anche l'ambiguità del linguaggio, sia empirico, sia ideologico....” (L. Rognoni, Introduzione, in A. Schönberg, op. cit. pp. 14-21). Vengo allora a dare i dati relativi al Moses che ricavo dalle note all'Opera che lo stesso Rognoni pone a conclusione del testo: la sua stesura ha inizio proprio il 3 Ottobre 1928, mentre i primi appunti tratti dalle sezioni bibliche dell'Esodo e di Numeri sono stati stilati nel 1926, all'epoca della 'Die Biblische Weg'; Schönberg concluderà il primo atto il giorno 8 ottobre 1928. Il curatore precisa: “Il terzo atto fu scritto il 16 ottobre 1928. Numerosi rifacimenti su una copia dattiloscritta con inserti, cancellature, citazioni, appunti anche relativi all'opera in un primo tempo concepita come Oratorio. La partitura musicale porta la data di inizio: Lugano 17 luglio 1930; l'ultima pagina reca: Fine del Secondo atto / Barcellona 10 Marzo 1932 / Arnold Schönberg. La prima esecuzione di Moses und Aron (Atto I e II) ha avuto luogo, in forma oratoriale, il 12 Marzo 1954 al Nordwestdeutscher Rundfunk

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di Amburgo, con l'Orchestra Sinfonica della Radio di Amburgo diretta da Hans Rosbaud... La prima rappresentazione scenica è stata realizzata dallo Stadttheater di Zurigo il 6 giugno 1957 con l'Orchestra della Tonhalle di Zurigo diretta da Hans Rosbaud, messa in scena e regia di Karl Heinz Krahl...” (L. Rognoni, Note in 'A. Schönberg, op. cit. pag 233). Allora il fascino che emana dal Moses und Aron va sperimentato su più fronti, seguendo quegli accuratissimi suggerimenti che il compositore mette in campo per l'azione scenica e i diversi spostamenti di interpreti singoli o a gruppi: un abbandono alla musicalità dell'insieme, nell'alternarsi del canto per Aronne e del parlato per Mosè, nella funzione dei cori, in voci miste, nella dislocazione scenografica dei protagonisti e delle masse, nelle diverse, varie priorità date alle percussioni e agli strumenti via via in figura: Mosè, carico della conoscenza che gli viene dall'Altrove vuole essere il testimone e chiede ad Aronne di essere parola e discorso, legge e diritto per il popolo, missione che Aronne affronta pieno di dubbi. Il Primo Atto termina con parole dure e decise, perché il popolo, attraverso i miracoli che ha fatto Aronne per dare maggiore fisicità al Dio invisibile, inneggia ad una forza prorompente, necessaria ad affrontare il deserto: “UOMO e CORO (uomini) Tutto per la libertà!/Spezziamo le catene!/Spezziamo le catene!/Uccidete i guardiani degli schiavi!/ Uccideteli!/Uccidete i loro sacerdoti!/Uccideteli! /abbattete i loro dèi!/Abbatteteli!/Al deserto! / Al deserto!/...” ('Moses und Aron', Atto I, Scena IV, in A. Schönberg, op. cit. pag. 165). Ma quando all'inizio dell'Atto II Aronne si trova a ragionare con i 70 Anziani davanti alla Montagna della Rivelazione, perché Mosè è stato invano lungamente atteso, e si ipotizza che forse il suo Dio o gli dèi stessi lo abbiano ucciso, allora è Aronne stesso a prendere in mano tutta la situazione: “ARONNE Popolo d'Israele/I tuoi dèi a te restituisco/e te a loro; /così come tu desideri./ Lasciate la lontananza all'Eterno!/A voi si addicono dèi/di presente, quotidiana sostanza./


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Voi fate dono di questa materia,/io le do tale forma:/quotidiana, visibile, afferrabile,/ eternata nell'oro./Portate oro, dunque!/ Sacrificategli! Invocatelo!/Sarete felici!....” ('Moses und Aron', Atto II, Scena II, op. cit. pag 170). Ed il vitello d'oro e l'altare faranno la loro comparsa al centro di una scena dove brulicheranno corpi in movimento, tutti accesi dal desiderio e dalla sfrenata sete di piaceri ed alla nuova divinità si offriranno spontanei sacrifici umani purissimi, nella scansione tematica dell'Orgia dell'ebbrezza e della danza, dell' Orgia della distruzione e del sacrificio, dell' Orgia erotica. Per la seconda di queste, Schönberg fornisce precisi suggerimenti: “(Le fanciulle porgono i coltelli ai sacerdoti, i quali afferrano le vergini per la gola e immergono loro la lama nel cuore. Le fanciulle raccolgono il sangue nei bacili e i sacerdoti lo versano sull'altare....)” (Moses und Aron, Atto II, Scena III, op. cit. pag. 175). La musica, intensissima, occuperà lo spazio con una 'visibilità' da sublimare. Ilia Pedrina

REGGIO, TI PORTO... Reggio, ti porto da sempre con me: immagine misteriosa di un tempo lontano... Fantasia sempre nuova; richiamo di ibiche passioni di fuoco, canto di seducenti fate morgane... Reggio vivi del tuo sogno antico, scavato nella pietra greca e la tua fierezza si accende di dignità romana... Reggio, vivi sempre anche nell’orgoglio del popolo minuto, nella miseria silenziosa dei quartieri di periferia.

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Nomi - S. Caterina Sbarre di una città in piedi nell’ora del tormento. Come sempre, Reggio, segni e solleciti la Storia. Fortunato Aloi Reggio Calabria Da Tra gli scogli dell’Io - Luigi Pellegrini Editore, 2004

REGGIO COME AMORE Ti amai sulla piazza del Castello, ove giunsi di notte, ma il primo bacio fu sul lungomare afroso di salsedine; ti consumai sulle acque dello Stretto, in una barca... (Non cercarti una stanza a primavera - mi aveva detto il cuore ove le colline gettano alle spiagge luminose reti di strade, ove il vento sarchia nuvole e ti veste col gaio mormorio delle fontane.) Ti amai come un predone. Pure all’addio venisti col castello e il bianco duomo e l’urlo dei traghetti, il lungomare, il lungomare e il sole! Domenico Defelice Da Canti d’amore dell’uomo feroce - Ed. Pomezia-Notizie, 1977

Il bacio bussò alla porta dell’amore… Si aprì… sulla soglia apparve……. il paradiso. Colombo Conti


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Sandro Angelucci: di Rescigno il racconto infinito

LE ANIME FUGGENTI DEL TUFFATORE DI PAESTUM di Rossano Onano

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ANDRO Angelucci: di Rescigno il racconto infinito, Blu di Prussia, 2014. In copertina, “la lettura del poeta”, olio su tela di Raffaele Ferriello. Pittura agreste, il poeta siede portando un cappello a larga tesa per vezzo contadino, in assenza di sole, potrebbe trattarsi benissimo di Gianni Rescigno nell'orto di casa intento a leggere qualcosa che non è libro e non è giornale, forse i fogli A4 sui quali batte a macchina, a partire dal 1969 (Credere, Gugnali Editore, Modica) le sue composizioni poetiche. Sandro Angelucci legge e racconta la produzione del poeta di Santa Maria di Castellabate utilizzando lo strumento della totale identificazione empatica: la poesia di Gianni

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intesa come viaggio, temporale e spirituale, verso il destino incombente su qualsiasi essere umano. Una specie di meditatio mortis. Leggo Angelucci, e un flash immaginativo mi rappresenta il tuffatore greco del sepolcro di Paestum. Il tuffo metafisico nel mare dell' eternità. Tuffatosi nel mare, il Rescigno di Angelucci nuota allontanandosi dalla costa perché un sole più grande lo attende: (ri) congiungimento con l'eterno, da cui proveniamo. La validità di un testo consiste, anche, nella varietà di letture che il testo permette. Personalmente, leggendo Rescigno non ho mai avuto l'impressione che la parola del poeta di Castellabate sia indirizzata a tornare verso l'eterno. All'eterno, forse inconsciamente la poesia di Rescigno oppone resistenza. Del resto, l'eredità familiare del poeta è tutta ancorata alla terra. La matrona Giuseppa, terza moglie del nonno, in punto di morte rivolge parola a Giovanni: a te il mio campo...mai passerà ad


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altre mani..giuralo. La terra rimane, anche in vista dell'ultimo viaggio, l'unico affetto possibile. E il soldato Giovanni, papà di Rescigno, in punto di morte confessa al figlio la verità su una delle tante vicende avventurose che usava raccontare: non raccontare mai a nessuno questa fesseria, me la sono inventata io, capito? La terra continua a essere il luogo degli affetti (Giuseppa) e il luogo dell'avventura (soldato Giovanni). Il nipote di Giuseppa e figlio del soldato Giovanni, Gianni Rescigno, edifica un ponte fra presente e passato, fra spazio metafisico e spazio terrestre, per consentire alle anime trapassate di raggiungerci, di vivere ancora al nostro fianco, scriveva Angelucci all'apparire della raccolta più elegiaca di Rescigno (Anime fuggenti, 2010). Più incline al grottesco, nella stessa occasione scrivevo che le anime fuggenti dei trapassati a me apparivano la processione pietosa e terrifica dei fantasmi di Hallowen, i morti autunnali che fanno apparizione per mangiare, ancora una volta, alla mensa dei vivi. La parola di Rescigno nasce, finisce e torna a vivere con il tempo, secondo la lettura di Angelucci. Torna a vivere, cosicché la parola seguirebbe il percorso vichiano del tempo che ri-torna, eternamente, su se stesso. Lettura suggestiva. Altrettanto vero è che il tempo di Rescigno si mostra piuttosto timido nell'affrontare la dimensione futura, essendo piuttosto fascinato dalla dimensione affettiva offerta dall'attualizzazione mnesica del passato. Altrettanto vale per la dimensione spaziale occupata dalla parola. Mi ero divertito, e accanito, nel contare in un libro di Rescigno la quantità e varietà di uccelli che popolano la sua poesia. Volatili di tutte le specie e varia attitudine, che questo soltanto hanno in comune fra loro: cantano spigolano razziano pensano guardano si amano e insomma tutto fanno, tranne che volare. Da Icaro in poi, le ali sono espressione del desiderio umano di tentare l'infinito. Come le

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anime di Hallowen, gli uccelli di Rescigno rifiutano l'infinito, perché appassionate al calore umano della terra. Angelucci è mirabile nel misurare la qualità della scrittura di Gianni: architettura di solida leggerezza, pathos temperato, misura classica. Personalmente, leggendo Rescigno a me torna inconsciamente il paragone avventuroso con l'anima di Anacreonte. Il greco cantava con trasporto elegiaco la bella giovinezza, le donne, il vino; quando Rescigno accarezza invece gli affetti perduti, gli alberi del suo giardino, i fichi maturi del suo orto che notoriamente fa seccare onde farne regalo agli amici. Differente il mondo elegiaco, Anacreonte e Rescigno hanno in comune l'accanimento amoroso verso gli affetti terrestri. Il tuffatore di Paestum spicca il volo e si immerge nell'oceano dell'infinito. Poi nuota verso riva. Rossano Onano SANDRO ANGELUCCI: di Rescigno il racconto infinito, Prefazione di Giorgio Barberi Squarotti, Blu di Prussia, 2014 Immagine, pag. 10 - Pontinia (LT), marzo 2004: all’estrema sinistra, Sandro Angelucci con la moglie; al centro, Marina Caracciolo, Gianni Rescigno e Domenico Defelice, attorniati da altri poeti.

SCIAMI Sciami d'api sulle alte chiome dei faggi; fremito acceso in letizia, il brusio della lenta processione raggiunge lo smarrito angolo del mio giardino. Arcani giochi d'ombre chiaro-scure nascondono un mondo ignaro al mio cuore che vive un sorriso stanco e sbiadito panno bianco come la luna nel limpido giorno delle more. Adriana Mondo


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ELEZABETH BARRET BROWNING:

IL PIANTO DEI BAMBINI di Liliana Porro Andriuoli

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EI Quaderni di «Arenaria», a cura di Lucio Zinna, per i tipi dell’Editrice ilapalma di Palermo, è da non molto apparso un interessante volumetto, intitolato: Elizabeth Barret Browning, Il pianto dei bambini, contenente un testo lungo (quasi un poemetto) di questa poetessa, tradotto nella nostra lingua da Anna Vincitorio, valente scrittrice in versi e in prosa, la quale può vantare al suo attivo anche numerose traduzioni sia dal francese che dall’inglese. Si tratta di un libro importante non solo sul piano culturale, ma anche sul piano umano e sociale per la problematica che sottende, dal momento che offre una traduzione di The cry of the children, un testo che mancava dagli scaffali delle nostre novità librarie ormai da lungo tempo. A parte infatti la traduzione ormai storica che ne fece Giuseppe Chiarini, apparsa all’inizio del Novecento e inserita dal Pascoli (il quale amava molto quel poemetto) nell’antologia scolastica Fior da Fiore (1901), le più recenti traduzioni, tuttora consultabili in molte delle nostre biblioteche, nazionali e cittadine, sono infatti solo due, entrambe di Eurialo De Michelis: la prima, edita da Salvatore Sciascia di Palermo, che risale al 19541, con una ristampa anastatica del 19842; la seconda della Casa editrice Ceschina di Milano, nella collana “La grande poesia

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Catalogo Polo SBN Comune di Roma: http://opacapitolino.caspur.it/list_results.php?biblio tca&vid=CFIV016207+$4+070&aut=De+Michelis ++,+Eurialo (n.13) e Polo SBN delle Biblioteche Pubbliche Statali di Roma, OPAC Biblioroma: http://opacbiblioroma.caspur.it/result.php?dove=bre ve&useq=1&nf=va&vf=CFIV016207&startp=sem plice (n. 7). 2 OPAC SBN Catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale, dove figura anche l’elenco delle Biblioteche italiane in cui è presente: http:// opac.sbn.it/opacsbn/opac/iccu/scheda.jsp?bid=IT\IC CU\CFI\0011598.

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d'ogni tempo”, del 19623. In entrambe le traduzioni, però, la poesia The cry of the children figura unitamente ai Sonnets from the Portuguese e non in primo piano, come invece avviene nel libro della Vincitorio. Ed è di questo suo bel volumetto e della poesia della Barret, ancora tanto attuale e coinvolgente, di cui ci vogliamo qui occupare. Mi sembra però doveroso premettere che Elizabeth Barret Browning, nota in Italia prevalentemente per i suoi Sonetti dal portoghese (44 poesie d’amore scritte per il marito Robert Browning, famoso poeta inglese dell’Ottocento) ha al suo attivo anche parecchie altre opere di rilievo. La stessa poesia The cry of the children apparteneva ai due volumi di Poems pubblicati dalla Barret nel 1844 e da lei riveduti nel 1850; edizione nella quale inserì quasi tutti i Sonetti dal portoghese. Ed oltre a questi due volumi è anche da ricordare il suo precedente The Seraphim and Other Poems (1838), un libro che fu molto apprezzato dalla critica e dal pubblico per la forza e l’originalità dello stile, che le aprì la via al successo letterario. Non va inoltre dimenticato che durante il suo soggiorno in Italia, la Barret Browning (in quel tempo era felicemente sposata con il poeta Robert Browning) pubblicò: Casa Guidi Windows nel 1851 e Poems before the Congress nel 1860, in entrambi i quali patrocinava presso i suoi connazionali la causa del nostro Risorgimento. Nell’intervallo di tempo intercorrente fra questi due libri, apparve, nel 1857, Aurora Leigh, un romanzo in versi molto lodato dalla critica (Ruskin non fu il solo a giudicarlo il più grande poema del secolo). Benché il testo (quasi una poesia romanzata alla Dickens) conservi oggi quasi esclusivamente valore di documento sociale, bisogna tuttavia ammettere che è moderno e anticonformista nelle sue riflessioni sul valore dell’Arte e della Poesia e nell’analisi della 3

Polo BVE - Biblioteca nazionale centrale di Roma:http://193.206.215.17/BVE/result.php?dove=br ve&useq=1&nf=va&vf=CFIV008738&startp=sem plice (n.6).


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condizione umana. Riscoperto dalle femministe inglesi negli anni Settanta, conobbe una nuova primavera. E l’elenco non ha alcuna pretesa di completezza. Ma veniamo al testo in questione, The cry of the children, una poesia che ci mostra come la Browning fosse molto attenta ai problemi del proprio tempo e li sapesse affrontare anche in poesia; come fosse una donna moderna nel vero senso della parola, anche se nel suo aspetto fisico rispecchiava il prototipo della “donna vittoriana”: timida, piuttosto introversa, malaticcia, e per giunta zoppa, in seguito a una caduta da cavallo. La poesia fu composta in seguito a un rapporto sulla condizione dei fanciulli lavoratori scritto dall’amico poeta Richard Hengist Horne (1843) e determinante fu inoltre per l’ ispirazione della poetessa la lettura de Il canto di Natale di Charles Dickens, un libro che riscoteva in quegli anni un grande successo, essendo l’opera di uno scrittore che da giovane aveva lavorato in una fabbrica di vernici, subendo continui maltrattamenti. E la poesia infatti costituisce una forte denuncia contro lo sfruttamento del lavoro minorile nelle fabbriche inglesi dell’Ottocento. Letta pubblicamente nel Parlamento, destò una forte emozione, con un effetto sicuramente non trascurabile sul risultato della decisione per il cambiamento della legislazione in materia. È infatti un testo di grande impatto emotivo. The cry of the children inizia con una domanda che tuttavia, nella traduzione italiana, suona quasi come un invito, un consiglio a prendere una posizione di fronte al problema: “Fratelli miei ascoltate il pianto dei fanciulli / prima che si affacci l’amarezza degli anni?” (“Do ye hear the children weeping, O my brothers,/Ere the sorrow comes with years?”). Segue infatti immediata la constatazione di quanto fosse dura la condizione dei minori a quel tempo: “Ma, fratelli miei, è amaro il nascere dei fanciulli. / Piangono nel paese della libertà / nel tempo libero dei giochi degli altri”. (Molto efficace la traduzione di “playtime” con “tempo libero” che rafforza la triste

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ironia sul “paese della libertà” del verso precedente. L’originale suona “In the country of the free” posta a chiusura della strofa). Ed il pianto dei fanciulli è il motivo portante di tutto il testo; un motivo che si ripete con martellante assiduità, alternando dolorose constatazioni (“La nostra giovinezza è colma di affanni / niente abbiamo, solo i vecchi hanno le tombe”) con pressanti esortazioni a mutar vita e a ribellarsi all’oppressione di chi li sfrutta (“Uscite, fanciulli, dalla città e dalla miniera… / Cantate a squarciagola come fanno i tordelli”). Le parole che questi fanciulli pronunciano ci riportano infatti al periodo più oscuro che visse l’Inghilterra, al tempo della prima Rivoluzione Industriale, allorché l’avvento della macchina nel settore tessile inizialmente, e in quello estrattivo e siderurgico immediatamente dopo, peggiorò di gran lunga le condizioni di vita di centinaia di migliaia di operai, i quali dalle campagne furono costretti a spostarsi in città per lavorare nelle fabbriche. Non più dunque il lavoro, per quanto molto pesante, ma compiuto all’aria libera e secondo ritmi umani; non più dunque l’ambiente familiare della bottega artigiana; ma solo degli enormi opifici, dove il lavoro si svolgeva in ambienti spesso angusti e malsani, senza l’affiatamento di un tempo tra il Maestro e gli allievi, e con ritmi terribilmente serrati. L’ operaio divenne così un essere anonimo, perduto tra tante altre entità, divenute a loro volta puri numeri (o addirittura delle semplici “macchine”), soggette a movimenti ripetitivi, ridotti a pochi gesti, oltre tutto privi di qualunque forma di creatività. I fanciulli, mandati al lavoro dai genitori in tenera età per necessità economiche o più precisamente di sopravvivenza, furono le vittime indifese di tale sistema di produzione. Dice la Browning: “… tutto il giorno trasciniamo il nostro carico amaro / attraversando il buio sottoterra… / Ora guidiamo tutto il giorno ruote di ferro / che nelle fabbriche si muovono giro, giro”. E magistralmente è espressa la loro condizione spirituale di alienazione in versi tesi e vibranti: “Si-


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bila il vento sui nostri visi… / Girano le nostre anime… La testa pulsa e brucia / Gira il cielo nella finestra vuota, alta, traballante… / Girano i raggi lunghi, scorrono sotto la parete… / Girano mosche nere, strisciando lungo il soffitto… / E noi giriamo con loro… / Senza tregua il moto delle ruote ferrigne…” (Traduzione che rende appieno la tensione emotiva del testo originale, che per ragioni di spazio non è riportato). A questi bimbi non resta neppure la preghiera: “Noi vorremmo talvolta pregare./ Ahimè le ruote esplodono con gemiti insensati /Stop, fermatevi, tacete per oggi!”. E Dio si fa per loro sempre più lontano e irraggiungibile: “Leviamo lo sguardo verso Dio ma resi ciechi dalle nostre lacrime”. Invecchiati innanzi tempo, dell’uomo “conoscono il dolore”, ma non la “saggezza” e non avendo ancora un passato, di esso non conservano le “care memorie”. Essi lanciano così una pesante accusa: “Fino a quando” sussurrano, “fino a quando tu, Nazione crudele,/ci schiaccerai muovendo il mondo col cuore dei bambini?”. Qui il linguaggio della Browning, efficacemente interpretato dalla traduttrice Anna Vincitorio, si fa violento, nella volontà di coinvolgere il lettore o l’uditorio nel dramma da lei descritto; e a noi sembra che ella sia riuscita ottimamente nel suo intento, con uno stile alto, di cui la traduzione trasmette pienamente la forza emotiva. Non a caso Francesco Manescalchi a proposito di questa poesia parla di “motivi emotivamente coinvolgenti legati alla terribile situazione dei bambini dei quali, anche ai giorni nostri, vengono violati duramente i diritti”; motivi che hanno spinto Anna Vincitorio a ritornare su un poemetto che sembra ancora oggi interpretare problemi di bruciante attualità. Il libro è preceduto da una breve introduzione della stessa traduttrice, la quale comunica al lettore le emozioni da lei vissute nel visitare due luoghi sacri alla memoria della nostra poetessa: il Cimitero degli Inglesi di Firenze, dove la Browning è sepolta e Casa Guidi dove ella è a lungo vissuta, accanto all’ adorato Robert, negli ultimi anni della sua vi-

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ta. E si tratta di una visita che ha il potere di trasferire anche il lettore nella stessa “dimensione atemporale” in cui si trovava la Vincitorio, sicché anch’egli può rivivere, leggendo quelle sue paginette introduttive, le stesse emozioni da lei provate; può anch’egli udire “palpitare” fra le “mani tremanti” di Elisabeth la voce di quelle lettere, da lei tanto amorosamente conservate… Di molto interesse appaiono inoltre le fotografie che corredano il volumetto, le quali ci mostrano, oltre alla tomba in cui giace Elisabeth, la targa sulla facciata di Casa Guidi, recante la scritta dettata da Niccolò Tommaseo e lo studio della poetessa. In chiusura troviamo una concisa, ma esauriente “Nota biobibliografica” sulla nostra autrice. Un libro di molto pregio, scritto con grande trasporto e pertanto idoneo a far meglio conoscere ed apprezzare, ma soprattutto amare, una poetessa forse un po’ trascurata nel nostro paese. E sicuramente a torto. Liliana Porro Andriuoli Elizabeth Barret Browning, Il pianto dei bambini, traduzione e cura di Anna Vincitorio, Palermo, ilapalma, 2012.

NUOVO GIORNO E’ l’alba. Un nuovo giorno sta per iniziare, un passo in più nel mio cammino della vita. Un passo in meno nella mia vita terrena, e un passo in più nel mio cammino verso la vita del mondo che verrà. Un passo in più verso la vera vita. Mariagina Bonciani Milano


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FRANCESCA: L’amore Sublime e la Meschinità di certe interpretazioni di Aida Pedrina

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ER quanto riguarda le nostre più grandi e incomparabili opere letterarie del passato e i loro celebri autori, ci sono pochissime cose tanto deplorevoli, esasperanti e, a volte, offensive, come le interpretazioni fatte a casaccio da alcuni critici moderni. Questo, infatti, sembra fare Mark Musa1 che qui, forse prendendo lo spunto da certi antiquati e falsi concetti morali — la donna come l’incarnazione della tentazione e del peccato — e in poche pagine di interpretazione e critica non solo fa scempio dell’amore sublime di Paolo e Francesca, ma anche cerca di abbassare i nobili sentimenti e i profondi motivi del Sommo Poeta. Se si volesse veramente sapere cosa pensava Dante o cosa sentiva per questi due amanti o, chissà, per questo tipo di peccato, basterebbe considerare la pena assegnata: non abbiamo qui una pena straziante, orribile, o umiliante come negli altri cerchi; abbiamo

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invece un turbine che avvince ancor più queste due anime per l’eternità come già ne aveva avvinti I corpi nella vita terrena sotto forma di passione: “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende prese costui della bella persona che mi fu tolta; e il modo ancor m’offende. Amor ch’a nullo amato amar perdona, mi prese di costui piacer si forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. Amor condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense.”2 Attraverso le parole di Francesca, Dante sembra fare di questi due amanti figure sublimi perché hanno saputo dare tutti se stessi a questo amore con una passione così folgorante da far impallidire e poi sparire il senso di colpa, di peccato, e di responsabilità alle leggi morali e sociali; sembra che Dante volesse dire che un amore come questo, che non solo va al di là di ogni considerazione morale, ma che dura oltre la morte, è appunto cosa quasi divina degna di ammirazione e di comprensione a scapito della gravità del peccato. Un vero amore che prende tutto l’ essere umano è destinato a trionfare anche sulle tragiche conseguenze: forse è questo che Dante sentiva e credeva: un amore come quello di Paolo e Francesca ha, chissà, quasi il dovere di trionfare su qualsiasi legge. Non così l’interpretazione del Musa che dà un volgare e malevolo significato a queste bellissime terzine: “…Amor…..” “….Amor….” “….Amor….” : queste tre terzine, ognuna incominciando con la parola “Amor”, sono particolarmente importanti perché rivelano la natura falsa e insidiosa di Francesca. Nei versi 100 e 103, Francesca volutamente si serve dello stile dei poeti stilnovisti come Guinizzelli e Cavalcanti per ottenere la comprensione del Pellegrino, ma poi aggiunge a ognuno di questi versi allusioni sessuali molto lontani dagli ideali stilnovistici… Forse non dovremmo incolpare il Pellegrino di essersi lasciato ingannare da Francesca; dozzine di critici, non consapevoli delle


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astuzie del peccato, sono anche loro stati sedotti dal suo fascino e dalla grazia delle sue parole.“3 Com’è offensiva e ridicola questa condiscendenza di un uomo comune verso il grande Poeta! Tornando al Canto Quinto, si potrebbe dire che anche il verso 107: “ Caina attende a chi vita ci spense”, riflette il sentimento di Dante: se questa è un’ indicazione che il Poeta avrebbe posto Gianciotto nella bolgia dei traditori dei parenti, allora vorrebbe dire che Egli non trova scuse per l’azione di questo marito oltraggiato e doppiamente tradito; anzi, qui Gianciotto sembra quasi disprezzato e meritevole di una dura punizione per aver posto fine a questo amore che anche se proibito dalle regole morali e sociali, era pur sempre, per regola di natura, travolgente e bellissimo. Dopo le parole di Francesca, L’ atteggiamento di Dante si fa pensieroso e triste: “ Quand’io intesi quell’anime offense, china’ il viso e tanto il tenni basso, fin che il poeta mi disse: “Che pense? “ Quando rispuosi , cominciai: “ Oh lasso, Quanti dolci pensier, quanto disio Menò costoro al doloroso passo! “4 Dopo di che, si rivolge affettuoso e commosso a Francesca : “ Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri a che e come concedette Amore che conosceste I dubbiosi disiri? “4 I “dolci pensier “, “il disio“, erano certamente già stati provati da Dante stesso; si potrebbe dire che Francesca è Dante: la tristezza e la pensosità del poeta potrebbero indicare che sebbene Egli avesse la consapevolezza delle leggi morali e della giustizia divina, non è detto che l’approvasse in tutti i casi; le sue lacrime lo dimostrano, dimostrano cioè, che Egli credeva nell’irresistibile Potenza e bellezza dell’amore e che soffriva nel vedere questo amore sublime castigato in eterno. Perché, allora, ha messo Paolo e Francesca

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nell’ Inferno? Perché non avrebbe potuto fare altrimenti dato il contesto morale e religioso della Divina Commedia; e forse per ragioni al di fuori della sua opera, Egli si sentì obbligato a enfatizzare le idee del peccato e del castigo a scapito dei sentimenti dell’anima sua; infatti, nonostante li abbia messi nell’Inferno, Egli ha dato ai due amanti non solo la possibilità di essere insieme per l’eternità, ma anche un’ anima aristocratica e orgogliosa che non sente né rimorso né pentimento e che permette al loro amore di trionfare disperatamente anche sopra le pene eterne: quello che sente qui il Poeta non è solo pietà, è, sopratutto, comprensione e perdono. Nella Divina Commedia, Dante si è eletto a giudice dell’umanità, e bisogna riconoscere che egli riflette, nell’episodio di Paolo e Francesca, sulle conseguenze del peccato, sui dolorosi risultati della debolezza umana soprafatta, prima dalla forza degli istinti, e poi da una irrevocabile giustizia divina; ma qui, il suo senso etico e religioso sembrano anch’ essi soprafatti dalla realizzazione che anche lui, in simili circostanze, non avrebbe potuto sottrarsi a quella passione che è inseparabile dalla natura umana; o forse ne era già stato vittima: questo slancio di affetto e di pietà verso i due amanti, non può scaturire se non da momenti di vita vissuta e da una solidarietà umana che sorpassa ogni considerazione morale. Sfortunatamente, il velenoso bigottismo di Mark Musa continua a farsi sentire, particolarmente, nell’interpretazione di questi versi: “Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse: soli eravamo e senza alcun sospetto. Per più fiate gli occhi ci sospinse Quella lettura, e scolorocci il viso; Ma solo un punto fu quel che ci vinse.” Quando leggemmo il desiato riso Esser baciato da cotanto amante, Questi, che mai da me non fia diviso, La bocca mi baciò tutto tremante; Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:


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Quel giorno più non vi leggemmo avante.”5 Si veda oltre come il Musa sembra tutto preso dall’imperdonabile cattivo gusto di abbassare questi bellissimi sentimenti d’amore al livello di una volgare relazione amorosa e, come se non bastasse, di fare di Dante un bigotto insidioso: “…Forse (Dante) ha scelto il romanzo di Lancilotto per tendere una trappola a Francesca o per darle la possibilità d’intrappolarsi… questa nobile giovane donna… Non avrebbe mai potuto ammettere che era stata lei a iniziare la seduzione del cognato. Così, per coprire questo vergognoso fatto (e dare la colpa a Paolo), è forzata da Dante a dare una falsa impressione del testo che aveva letto rivelando in questo modo che lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per non riconoscere e confessare la vera natura del suo peccato.”6 Bisogna pur avere un cuore ben freddo ed un’anima priva di sensibilità e di nobili sentimenti, per ridurre la bellezza e la profondità di questo amore a qualcosa di sordido e volgarmente sessuale: questa insistenza del Musa di presentare Francesca come una donna facile, tentatrice, falsa e sensuale, è, a dir poco, imbarazzante appunto perché rivela non solo la mente ristretta dell’autore, ma anche la completa assenza di sensibilità artistica; e c’è di più: “…..Francesca ha sedotto Paolo ad amarla peccaminosamente, e adesso prova, e con successo, a sedurre il Pellegrino a credere nelle sue parole e sentire per lei una profonda pietà…” E ancora: “…Come abbiamo già detto, probabilmente non è stata la lettura di questo testo ad infiammare Paolo; lei doveva essere già disposta e, invece di essere eroticamente eccitata dal testo, si approfittò di questo per soddisfare le sue passioni represse…” Il Musa sembra parlare come se Francesca, invece che giovanissima e innocente, possedesse tutta la furbizia e la perfidia di una donna di strada; andiamo, quest’antiquata idea biblica della donna come immagine della tentazione e del male, è così deplorabile e sorpassata da diventare quasi ripugnante nella mente di

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qualsiasi uomo colto. Ma questo non basta: le considerazioni che il Musa fa sui motivi del sommo Poeta sono irrimediabilmente meschine : insinua addirittura , che forse Dante ha voluto tendere una trappola a Francesca forzandola così a rivelare la sua perfidia; secondo questa interpretazione, Dante non sarebbe più tenero e compassionevole ma pieno di una crudeltà ingannatrice: “ …Se Dante aveva scelto questo testo per tendere una trappola a Francesca, che modo crudele per un autore trattare così uno dei suoi personaggi! E com’è diverso il suo atteggiamento da quello del Pellegrino che ha tenerezza e compassione per questi tormentati amanti… E’ come se Dante il poeta, Dante il giudice spietato, avesse approfittato della ridicola compassione del suo Pellegrino per portare alla luce il vero carattere di Francesca…”7 A parte l’accenno –qui totalmente fuori luogo --, di un supposto pirandellesco rapport fra autore e personaggi, Mark Musa non sembra capire è che qui il trito soggetto della fragilità umana e del peccato sono trasfigurati: in Dante è chiusa una grande esperienza dolorosa e una comprensione profonda, di qui i tratti di estrema sensibilità e compassione rivelati in questo canto; il duro conflitto interno fra passione e dubbi morali sembra arrivare a un culmine: per il momento, l’artista, l’uomo appassionato, ha soprafatto l’uomo dotto e morale; alla ricerca della purezza spirituale si superimpone il suo umano rimpianto per questo amore spezzato nel fiorire che è tutt’uno con il rimpianto delle cose belle della vita ormai perdute. Si potrebbe dire che il grande peccato lo commette Mark Musa, non solo per voler dimostrare che l’amore sublime di Paolo e Francesca è semplicemente una sordida relazione amorosa, ma anche perché cerca di abbassare il Sommo Poeta in un modo assolutamente imperdonabile. Se Dante fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe senz’altro dovuto aggiungere un altro cerchio nell’Inferno per gli INTELLETTUALI PRESUNTUOSI, cioè, per coloro che non avendo niente di significante o profondo da dire, hanno però la pre-


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sunzione di interpretare e giudicare i più grandi intelletti perpetrando così una fatale insensibilità artistica: gente, codesta, che senza dubbio avrebbe meritato tutto lo sdegno e il disprezzo di Dante. Aida Pedrina Tucson, AZ - USA 1 - (Mark Musa “Dante’s Inferno”, Indiana University Press, Bloomington 1971, pp. 4248,103-109 Traduzione di Aida Pedrina). 2 - (Dante Alighieri, “La Divina Commedia: Inferno,” A cura Di Natalino Sampegno, Ed. La Nuova Italia, Firenze 1985, pp. 61-66, versi: 99-107). 3 - (Op.Cit. pp. 47-48, Trad. di Aida Pedrina). 4 - (Op.Cit. versi: 118-120). 5 - (Op.Cit. versi: 137-138). 6 - (A.H., Mark Musa: “The Kiss: Inferno V and the Old French Prose Lancelot, pg. 108, Trad. di Aida Pedrina). 7 - (Op.Cit. pg. 109, Trad. di Aida Pedrina).

JEWELLED JINGLING JUNE And you know it is a life-long waiting To see when the receding Waves of wisdom Come back With pristine prayer With hope of Hesper With treasure of triumph. It is a waiting Waiting for the ship to return To its tired shore of time. And the sailor sings Some superb serene serenades Under the splendid shadow Of mysterious moon, When the humane heavenly hymn Be showered atop the world. No one can defy his destiny The deluge of destruction Death of dearest ones And surpass The unavoidable unseen. It is just an Endless existential voyage. And Of course it is a waiting, Waiting to face

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Our echoed everydayness With undaunted courage Of the sailor Of the storming-sea. Leaving behind the shadows We walk on and on, Sliced silence of sepulchre Cannot overcome Oceanic orgies. Our inconspicuous inscapes Pulsate in profundity Of placid panorama. As a voyager to unknown From one end To the other Of this ecliptic earth We move on The road of rhapsody. Our life is nothing but A voyage to vastness And of course A way-fare’s waiting To see the bright face of T R U T H. Biplab Majumdar India

TERRAMIA Come ti amo terra mia. Ti ricordo com'eri bianca di luce, giallo ocra ricoperta a tratti di sterco, desolata e deserta. Nel silenzio tu soffri, di solitudine, sei abbandonata, tu ogni giorno ti offri fiduciosa, alle tende dei migranti, quasi assetati d'inedia, nell'attesa della pioggia, manna dal cielo Io qui esiliato,in terra a me straniera, vivo ogni momento come un presente, uomo senza patria, uomo senza domani Madre mi vedrai un giorno ritornare a Te come pellegrino, vincitore di tante battaglie, ritornare al tuo seno per sempre. Adriana Mondo Reano, TO


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FOCE SELE COLONIZZAZIONE GRECA L’HERAION di Giuseppe Anziano

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RIMA di parlare specificamente della colonizzazione greca della Piana del Sele, con riferimento soprattutto alla zona di foce Sele e alla costruzione dell’ HERAION ,e delle varie campagne che hanno portato alla luce reperti di notevole interesse archeologico, occorre, a mio avviso, fare una considerazione di carattere generale: il fenomeno della colonizzazione avviene per lo più per motivi di ordine economico/politico/ sociale, per cui ogni gruppo etnico sceglie, nel suo insediamento, nuovi nuclei abitativi e strutture idonee alla propria sicurezza – costruzione di torri in punti strategici per difendersi dai pirati, di cinte murarie per resistere ad attacchi esterni —. Per quanto concerne la Piana del Sele, da Ammiano Marcellino e da altri storici sappiamo che i Focesi, per sottrarsi all’assedio dei Persiani, lasciarono la loro terra e si diressero alcuni in Gallia, dove fondarono l’ odierna Marsiglia, altri, invece, approdarono a Posidonia, da dove, cacciati, si trasferirono ad Elea. Perché la zona di Foce Sele era oggetto delle mire dei colonizzatori? La risposta è ovvia, se si considera che la Piana del Sele era una terra fertile, ricca di acque, bene esposta, propizia ai traffici ed aperta, soprattutto mediante lo stesso Sele, a contatti con le popolazioni dell’interno - non bisogna dimenticare che nell’antichità, come lo sono tuttora, i fiumi costituivano un mezzo di comunicazione fondamentale per i rapporti commerciali tra le varie popolazioni. Per quanto riguarda i primi insediamenti presso la foce del Sele, prescindendo dalle notizie date da Ammiano Marcellino, ci sono riferimenti ad essi in Plinio il Vecchio — Naturalis Historia III - 70 - e in Strabone — IV - 252—. Plinio dice testualmente: “Dal fiume di Sor-

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rento — il Sarno - al Sele, l’agro picentino appartenne agli Etruschi e fu celebre per il tempio di Hera Argiva, fondato da Giasone”. Più completo e ricco di notizie è il passo di Strabone, che costituisce quasi una sintesi della storia posidoniana. Lo scrittore greco, dopo aver detto - IV-252 — che dopo la foce del SILARIS (Sele) si trova il tempio di Hera Argiva, fondato da Giasone di ritorno dalla spedizione degli Argonauti, e, vicino, a 50 stadi Posidonia, riferisce — V - 4-13 — che “dopo la Campania e il Sannio sul Mar Tirreno abita il popolo dei Picenti, trasferiti dai Romani sul golfo di Posidonia, lo stesso che ora si chiama pestano così come la città di Posidonia, situata nel mezzo del golfo, si chiama Paestum, i Sibariti costruirono una stazione fortificata —Teixos — presso il mare, ma gli abitanti si sono trasferiti più in su. Dopo di loro i Lucani e successivamente i Romani abitarono la polis” che in seguito decadde per la malaria causata dallo sversamento del fiume. Secondo il passo di Strabone, con cui concorda anche un anonimo poeta della fine del II sec. a. Ch., autore di una PERIEGESIS in giambj, che va sotto il nome di Pseudo Scimno, i Sibariti furono i primi Greci che occuparono il terreno, dove, poi, si ebbe la ktisis — fondazione — di Posidonia. Il Solino, invece, - II-10 - sostiene che Paestum fu fondata “a Doriensibus”, da identificarsi in quei Trezeni, che avevano partecipato alla fondazione di Sibari, da cui furono poi scacciati, e subito dopo - II-12 - riferisce “Ab Iasone templum Iunonis Argivae constitum est”. Del resto, anche dagli studi della Guarducci e del Calderoni si ha la conferma dell’ attribuzione ai Sibariti della fondazione di Posidonia, tesi questa rafforzata, secondo il Giannelli, dall’epigrafe trovata ad Olimpia e databile intorno al VI sec. a. Ch., dove è indicata Posidonia come garante dei patti stipulati tra i Sibariti e i Serdaioi. Non mancano altre ipotesi sulla fondazione della città: la Zancani Montuoro sostiene che Posidonia fu fondata dai Tessalo/Beoti, pre-


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cedentemente stanziatisi alla foce del Sele e che i Sibariti, arrivati successivamente, si limitarono ad occupare la parte della città più vicina al mare, mentre il Sestieri ritiene che fondatori della polis siano gli Enotri da identificarsi coi Doriensibus, di cui parla Solino, i quali, pur essendo popolazioni indigene, tuttavia, secondo la tradizione letteraria, erano originari dell’Arcadia, venuti in Italia in epoche antichissime. Si sa, comunque, che l’antica colonia sibaritica verso la fine del V sec. a. Ch. — tra il 438 e il 424 — cadde sotto il dominio dei Lucani, che contrassero il nome della città in Paiston – Aristosseno di Taranto riferisce che ogni anno i cittadini ricordavano con solennità di culto la conquista lucana e la perdita della libertà - e che nel 273 divenne una colonia latina col nome di Paestum, rimanendo fedele a Roma durante la II guerra punica, a differenza dei Picentini che si schierarono dalla parte di Annibale. Con la deduzione, infatti, della colonia latina, dovuta al piano di Roma di sistemare l’ Italia Meridionale dopo le guerre sannitiche e la lotta contro Pirro e gli Italioti si ebbe un riassetto della città sotto il profilo edilizio, si aprirono nuove strade, si restaurarono le mura, si sistemarono le acque, si ebbe, insomma, un rigoglio nuovo che si esplicitò nella fedeltà assoluta a Roma in occasione della guerra annibalica. Successivamente, come sappiamo da Strabone, la città, divenuta municipio, dopo la guerra sociale, decadde per la malaria che infestava la zona, costringendo gli abitanti ad abbandonare la pianura e a fondare Caput Aquae — Capaccio — sul monte Calpazio anche se da frammenti di ceramica rinvenuti nella zona si ritiene che un’occupazione protostorica piuttosto consistente precedette la presenza greca. Per quanto riguarda l’Heraion, per circa sette secoli uno dei più famosi santuari dell’ Italia e secondo, forse, per funzione religiosa,all’Heraion di Capo Lacinio (Crotone), esso certamente anteriore alla ctjsjs di Posidonia e situato sulla destra del Sele, secondo

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Plinio il Vecchio, sulla sinistra, secondo Strabone, fu fondato da Giasone di ritorno dalla spedizione degli Argonauti per la conquista del vello d’oro — in tale fondazione, secondo autorevoli studiosi, tra i quali il Pais e il De Sanctis, si scorge, simbolicamente, lo spirito avventuroso dei Greci, che solcavano i mari e si dirigevano in Italia alla ricerca di minerali. Comunque, il santuario, oggetto di culto da parte delle popolazioni limitrofe per molti secoli, fu abbandonato nell’Alto Medioevo per la malaria, che infestava la zona paludosa, e ricoperto dalla boscaglia, per cui fu difficile la sua localizzazione - si ventilarono varie ipotesi, riguardo alla localizzazione, tra le quali quella dell’attuale chiesa paleocristiana di S. Maria a Vico di Giffoni Valle Piana e quella del Santuario della Madonna di Tubenna di Castiglione del Genovesi-, finché, per l’opera sagace di due archeologi italiani, il senatore Umberto Zanotti Bianco e la professoressa Paola Zancani Montuoro, furono riportati alla luce i resti dell’Heraion col complesso dei fregi, delle cornici, delle colonne e delle metope del tempio maggiore — fine del VI sec. a. Ch. - e del tesoro arcaico VI sec. a, Gh. — complesso che costituisce un unicum della scultura arcaica in Occidente e di cui l’Italia deve essere fiera. Nel 1934, dopo la bonifica della Piana del Sele ad opera del Fascismo, i due archeologi, con l’autorizzazione del Sovraintendente Amedeo Maiuri, iniziarono la ricerca del Santuario il 9 aprile. Dopo alcuni tentativi infruttuosi, in seguito al rinvenimento a Gromola, frazione di Capaccio, di due blocchi calcarei simili a quelli impiegati per la costruzione dei templi dorici di Paestum, ritennero di aver individuato la zona dove si trovasse l’Heraion, per cui iniziarono l’11 maggio uno scavo più sistematico, pervenendo, dopo aver proseguito gli scavi lungo gli sterpi e la boscaglia in direzione del fiume, alla certezza, attraverso lo scavo di tre pozzi, di essere alla presenza del famoso Santuario. Con una campagna di scavi durata un mese e mezzo - 14 maggio — 1 luglio 1934 - e fi-


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nanziata dalla Società Magna Graecia, il cui presidente della sezione di Milano, ing. Sola, finanziò ben due campagne di scavi, cui seguirono altre due finanziate dai fondi raccolti dai due archeologi, si ebbero risultati lusinghieri. Infatti, oltre allo stereobate — piedistallo-basamento dell’edificio - e ad una favissa - cisterna per la raccolta dell’acqua necessaria per il servizio dei templi, posta all’ ingresso dei templi ed adibita per la purificazione dei visitatori - dell’età ellenistica, contenente migliaia di statuette di terracotta, vennero alla luce - scoperta importantissima due metope, quella che rappresenta il ratto di Latona ad opera del gigante Yityos e un’ altra, abrasa, che forse rappresentava il furto del Tripode di Delfi. A questa campagna seguirono altre, che portarono alla luce altri reperti importanti. Con la seconda campagna, iniziata nell’ ottobre del 1934 e conclusa nel giugno 1935, vennero, infatti, alla luce una metopa raffigurante un centauro e due capitelli ad anta, nonché frammenti di ceramica e di terracotta recanti tracce di bruciatura, mentre con la terza campagna, che durò tutta la primavera del 1936 fu riportato alla luce un nuovo edificio, il terzo, e fu ritrovata un’altra favissa costruita con mattoni di calcare e contenente materiale in terracotta, statuine e ceramiche di epoca arcaica e classica. Con la quarta, invece, che si svolse in due fasi, la prima dal 25 ottobre1936 al febbraio 1937, la seconda dal 5 maggio al 12 giugno dello stesso anno e che fu la più ricca di risultati, vennero alla luce le metope arcaiche del Thesauròs e quelle ioniche del tempio maggiore insieme con altri reperti significativi (capitelli dorici, in arenaria, resti di un’area di epoca ellenistica, una metopa con figura virile nuda ed un’altra arcaica in rilievo), un bothros - recipiente - con offerte in terracotta -. Si venne così delineando, nel suo insieme, il complesso architettonico del Santuario,il cui tempio principale, del quale ci restano solo le fondazioni, era uno pseudo-perittero ogdastico dorico del 500 a. Ch, ed era cinto all’ intorno da tempietti per il deposito di doni vo-

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tivi, i thesauroi, tra i quali un prostico tetrastico del 560 a. Ch. , le cui metope — 33 conservate su 36 - illustranti i miti del ciclo troiano, di quello eracleo ed altri, costituiscono il più importante ciclo di rilievi arcaici presente nell’Occidente ellenico, opere queste, secondo Mario Napoli, di artisti pestani. Concludendo, secondo Zanotti Bianco, le date essenziali della vita del Santuario di Hera Argiva sono le seguenti: 1) Occupazione da parte di coloni greci del sito di Foce Sele — VII sec. a. Ch. -. 2) Tra il 570 e il 560 a. Ch., poco prima della costruzione della cosiddetta Basilica di Paestum, costruzione e sculture del I^ thesauròs arcaico. 3) Alla fine del VI sec. a.Ch., costruzione dell’Heraion di Foce Sele, quasi contemporaneamente alla costruzione del tempio impropriamente detto di Cerere, dedicato ad Atena. 4) Nel IV sec. a. Ch. devastazione del tempio, secondo Plutarco, ad opera dei pirati e restauro di alcune parti alte di esso. 5) In età ellenistica il culto di Hera Argiva è ancora fiorente a Foce Sele. 6) In epoca romana, in seguito all’eruzione del Vesuvio - lo “sterminator Vesevo — del 24 agosto del 79 d. Ch., che seppellì Pompei ed Ercolano, il tempio fu coperto da una spessa coltre di cenere ed iniziò il suo declino. Giuseppe Anziano IO ANDRÒ Come luce al buio; io andrò. Laddove il tramonto m’insegue. Tu ancora mi cerchi! Ombre fluttuanti, come pale dell’elica sulla rotta dello spazio. Lontano, nel candido gelo di piste immolate, io andrò. Altrove... io andrò! Enzo D’Antonio Da: Fenicotteri, Arti Grafiche Landi, 2014.


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GINO PISANÒ: SAN GIUSEPPE DA COPERTINO NELLA LETTERATURA DEL ’900 di Giuseppe Leone

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AVVERO un bel poker calato sulla mensa di San Giuseppe da Copertino, questo saggio che Gino Pisanò intellettuale raffinato e di vasta cultura, leccese, scomparso nel marzo del 2013 – aveva pubblicato nel 2004 nella Rivista Studi Salentini. Quattro “carte”, tutte con l’immagine del santo, erette a metafora di una condizione personale e universale a un tempo degli autori in questione. Ecco, Ignazio Silone, primo della fila, fare del santo di Copertino un “emblema pauperistico e “universale fantastico” della condizione sociale subalterna”, nel suo romanzo Fontamara; quindi Vittorio Bodini, che fa di lui un “emblema folklorico-surreale- antropologico”, in un suo documento inedito dal titolo S. Giuseppe e ne La luna dei Borboni; e Carmelo Bene, che, in A boccaperta e Sono apparso alla Madonna, ha creato “una metafora autobiografica ed emblema della propria condizione di estraneità rispetto alla sua terra d’origine (o di geniale follia, prima derisa, poi sacralizzata)”; infine, Antonio Prete che, nella sua raccolta di racconti L’imperfezione della luna, ha visto in San Giuseppe da Copertino “la temperie” stessa del Salento; e nelle sue capriole, i “salti” della propria memoria nel tentativo di una recherche di un tempo che va “dall’ “esilio” senese al Salento arcaico della sua fanciullezza”. Il tutto frutto di un’attenta e approfondita analisi, quale si può intuire già nella premessa al saggio dello stesso Pisanò, il quale, a proposito delle interpretazioni del santo presso i quattro scrittori, ne parla di “un’assunzione ad archetipo della sua esemplarità… nel quale convergono elementi allegorici, semantici dell’ideologia dei vari autori o della loro esperienza esistenziale”. Colpisce – sfogliando il saggio - la pre-

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senza di Ignazio Silone in mezzo a tre intellettuali salentini, testimone dell’alto gradimento che riscuoteva la predica di San Giuseppe da Copertino tra i cafoni della Marsica, una terra già piena di santi, come scrive lo stesso Silone in Uscita di sicurezza: “È una contrada, come il resto d'Abruzzo, povera di storia civile, e di formazione quasi interamente cristiana e medievale. Non ha monumenti degni di nota che chiese e conventi. Per molti secoli non ha avuto altri figli illustri che santi e scalpellini. La condizione dell'esistenza umana vi è sempre stata particolarmente penosa; il dolore vi è sempre stato considerato come la prima delle fatalità naturali; e la Croce, in tal senso, accolta e onorata. Agli spiriti vivi le forme più accessibili di ribellione al destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo e l'anarchia. Presso i più sofferenti, sotto la cenere dello scetticismo, non s'è mai spenta l'antica speranza del Regno, l'antica attesa della carità che sostituisca la legge, l'antico sogno di Gioacchino da Fiore, degli Spirituali, dei Celestini”. È significativo, allora, che in una terra così ricca di santi “poveri”, trovi ascolto anche un santo venuto da fuori, come Giuseppe Desa da Copertino, la cui storia, quale si evince dalla predica di don Abbacchio, appassiona così tanto i cafoni di Fontamara fino a svegliare la loro coscienza - di Berardo in particolare - e a scardinare strutture mentali “da secoli immobilizzate dai princìpi di autorità e di obbedienza”. Che cosa Silone aggiunga alla propria visione religiosa fondata sull’esempio di Celestino V, adottando anche l’esemplarità di San Giuseppe da Copertino, è presto detto. Vi aggiunge, secondo Pisanò, la fiducia che si possano diminuire le distanze fra i mistici d’ Abruzzo e le classi popolari subalterne, sempre escluse da una corretta interpretazione dei miti e delle leggende dei santi a causa di cattivi insegnanti, come don Abbacchio, espressione di un “clero fraudolento” pronto a rendere la vita dei santi “strumentale alla frode della comunicazione”.


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Si possono ridurre, insiste Pisanò, a condizione che i cafoni non ascoltino più la storia del Santo per bocca di intermediari, affabulatori pronti a “declassificare l’ascesi e l’estasi in fenomeno da carrozzone circense”, perché “don Abbacchio è il primo a non credere al suo stesso racconto”. Ne ascoltino l’umile vita del santo raccontata da altri cafoni - pare voglia ammonire il critico pugliese - e si comportino con la stessa immediatezza e leggerezza con la quale il santo spiccava i suoi salti, in sintonia con la concezione rivoluzionaria e libertaria propria dello scrittore. Volino senza il nullaosta dell’autorità, proprio come il Santo salentino. Ed è quello che il critico suppone che stia già avvenendo nel romanzo, se Silone se ne esce fuori con due piani di risposte alla predica di don Abbacchio: quello delle donne e dei bambini in cui “il timor di Dio… resiste ingenuamente e si collega, con estremo realismo, alla loro condizione di deboli e di obbedienti”, e quello degli uomini, in cui “la volontà di riscatto è conseguente all’abbandono della messa e alla scoperta della frode per secoli occultata nel sacro dai suoi ministri”. Una “carta”, allora, questa dello scrittore abruzzese, che Pisanò assume, fra le altre, ad archetipo della rivoluzione, in cui le lievitazioni del santo, più che per grazia ricevuta, pare avvengano per una magica e compulsiva ignoranza, tanto da fargli trasgredire le leggi della gravità universale dei corpi. Ma il volo che nel santo - per dirla con il poeta - avviene quasi per un’ “involontaria rivolta”, nei cafoni diventa l’atto di una presa di coscienza che li induce a non voler rinunciare mai più al consumo di “pane bianco” - perpetua prerogativa dei ricchi… nella stessa misura in cui il “pane nero” lo era della condizione servile dei poveri - ma a cominciare a mangiarlo già su questa terra e non in paradiso, a condizione che essi saranno buoni come lo fu il santo dei voli. Giuseppe Leone Gino Pisanò - San Giuseppe da Copertino nella letteratura del Novecento. (I. Silone, V. Bodini, C. Bene, A. Prete) - Studi Salentini, Lecce 2004.

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LUNA DEI MIEI NATALI Dei miei natali, tempo assaì remoto, limpida notte del gioioso evento. Nell’atro cielo senza nubi e vento, in buon presagio d’ancor lieta vita, s’è affacciata la luna tutta intera solo per me, così lucente e viva nel rammentare un viale nella sera di tigli aulenti, di lucciole, di baci e par mi dica nel sorriso arcano: “Oh, qual bel giorno di tua vita nella senile età che ti accompagna con gli affetti più cari e ancor ti premia di salute buona, uno stuolo d’amici e mente ancor feconda, nella speranza che mai t’abbandona.” Un privilegio quest’età vegliarda ben goduta o sofferta in alternanza, un romanzo, una fiaba od una storia che affido alla memoria dei miei figli a trarne assennatezza ed esperienze e che li sproni a far barriere infrante dei frangenti più critici di vita. Perché la vita è bella, “nonostante”... Serena Siniscalco Milano, 23 giugno 2013 (Giorno del mio vetusto compleanno)

SOPRAVVIVIAMO? Tanti istanti sono morti, il viaggio che avevamo progettato, é stato annullato. Ora, sulle spiagge delle nostre lune, stiamo da soli. Sopravviviamo, sulle costiere, con la voce delle preghiere. Panagiota Christopoulou-Zaloni da Nel mare della bellezza (Edizioni Vergina, 2013). Traduzione dal greco di Giorgia Chaidemenopoulou


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ANTONIA IZZI RUFO

PAESE di Nazario Pardini

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I soffre per strade desolate, per abbandoni, per silenzi estenuanti o per solitudini incise solo da un vento che onde rincorre tra l’erbe. Un vero crescendo wagneriano, una disarmonica armonia pucciniana che partendo da note intrise di solitudine, sconforto, tristezza, decolla verso àmbiti rigeneranti, verso approdi di cromatiche memorie, con un do di petto nel finale da lirica rossiniano; con un acuto di perspicua valenza emotivo-visiva in un addio alle cose care che ci hanno fatto compagnia negli anni verdi delle nostre primavere; alle mura che hanno ascoltato i nostri lamenti, i nostri gridi di gioia o le nostre preghiere. Sì!, un addio di sapore manzoniano che sa trasferire il personale in una sfera universale, oggettiva, facendoci leggere quello che di più umano c’è in ognuno di noi: … Addio, dolce rifugio che mai avrei voluto lasciare. Te cielo, te luna, voi stelle non saluto: vi vedrò ancora, da altro luogo, e del mio borgo vi chiederò, della mia casa, sbarrata e abbandonata>> (Addio, monti!). Insomma una dualità compositiva da tempus fugit virgiliano; da panta rei eracliteo: “…non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua di un fiume”; un polemos tra gli opposti che rende ancora più efficace e più incisiva la rinascita memoriale di un Paese che torna a vivere traslato in un sogno più reale del reale. Di un Paese che ri-nasce da sé e per sé, per quello che è con la sua fisionomia, con il patrimonio della sua naturalezza, con una solitudine che non è più qualcosa di sottrattivo, ma configurazione del nostro essere, del

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nostro proiettarsi verso orizzonti che sorpassano una siepe. È questo il Paese che rappresenta le nostre inquietudini, i nostri smacchi vicissitudinali. Sì, perché qui c’è la realtà del vivere, il presente, ma anche lo slancio al passato che si fa oltre, tramite la scalata di un’ anima che tende a raggiungere l’azzurro del cielo; di un cielo in cui si staglia un dolce rifugio che mai la Nostra avrebbe voluto lasciare. Un vero simbolo, un vero abbrivo emotivo che fa dell’umano un focus indirizzato al repêchage. A ripescare, forse, quei tratti del nostro esserc-ci che si traducono in prolungamento di vita, arma a volte vincente per sconfiggere il tempo, l’ora che fagocita tutto e che ci rende estremamente fragili. Paese è il titolo di questa silloge pubblicata in I quaderni letterari de Il Croco. Poemetto tematico che si avvicina con un prosodico dire esplorativo a immagini di forte tensione partecipativa. Dove i versi liberi e spigliati, dolci e mansueti, obbediscono diligentemente ai comandi del sentire. Si ampliano, si riducono, si intensificano, si colorano per farsi tatuaggi di un cuore incastrato tra le rughe di un borgo, di un colle, di un Rio, di un monte. Si soffre agli inizi. Il polemos è tutto qui fra la poesia della prima parte e quella successiva. Sì, si soffre per strade desolate, per abbandoni, per silenzi estenuanti, o per solitudini incise solo da un vento che onde rincorre tra l’erbe: Corri fuori di casa appena puoi perché il freddo tra le mura t’opprime, la solitudine. Siedi al sole, riposi e l’ansia ti prende: non vedi non senti, né persone né mezzi, solo il vento che onde rincorre tra l’erba, uno stanco stridio d’uccello e d’un aereo il rombo lontano… (Paese). Si soffre per il vano e melanconico sopraggiungere di un camion di frutta inutilmente


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strombettante: Primo pomeriggio. <<Mele pere, pomodori broccoletti>> rimbomba invitante nell’aria la voce dell’altoparlante. Arriva strombettando il camion della frutta. (…) “Questo è un cimitero” grida al vuoto il venditore <<Eppure è un bel paese!>>… (Sbircio dai vetri, della finestra). C’è questa Tristezza, con la T maiuscola, c’è questa cinerea Solitudine: S’accompagna alla Tristezza la cinerea Solitudine, alla Malinconia, cede alla Riflessione, sull’Enigma indugia del poi, cerca conforto in Coloro che più non sono… (Solitudine). Solo la presenza di amici animali riempie in parte il vuoto che il tramonto accarezza con le sue mani di pesca: È bello avere amici cani gatti uccelli: colmano essi il vuoto dei giovani andati altrove in cerca di lavoro ( Tutti amici). Da qui parte la Nostra. Dai minimi particolari, dalle piccole cose - messaggi rievocativi comunque -, che tendono ad ingigantirsi per concretizzare le emozioni dell’esistere. Ma c’è, anche, e soprattutto, la Natura; e il suo apporto è determinante per la scalata della Rufo che con l’effetto rigenerativo di frescure di ossigeno, e cinguettii di “piccole italiane” ritrova se stessa. E lo fa coi tramonti iridei, con le sere terminali, con le vergini primavere, i palpiti verdicanti che rendono eternamente viva e sapida di vita quell’assenza che sembrava dominare sul tutto. Non è così! Non è più la mancanza a dominare. Perché il

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dio Pan prende per mano la poetessa e la porta fra gli àmbiti più reconditi, pur sempre familiari, del Paese; là dove ancora puoi ascoltare la pace: ascolti la pace nel cielo turchino, una pace infinita, del silenzio il respiro, la musica dolce dei rivi che scendono a valle dai monti, lo stormire del vento tra le fronde, il coro giulivo d’uccelli in concerto e nell’aria aspiri profumo di puro, di menta origano timo, rosmarino, di verde, di terra, di fiori d’ogni colore (Eppure…). Un’ode di sapore tibulliano: “Hoc mihi contingat”. Una natura generosa, vivace, tenera, compagna eloquente che si impadronisce dell’animo della Rufo e lo intrufola nelle sue alcòve profumate di effluvi d’aria sopita: … Stormisce il vento tra le foglie argentee degli ulivi, intonano i torrenti sinfonie, motivetti allegri scandiscono gli uccelli e i fiori soffiano effluvi nell’aria sopita (Rifugio). Dove: Al primo ti svegli mattino di maggio e vedi le rondini che giocano in aria, atterrano virano in alto (…) il cinguettio delle “piccole italiane” e il tuo cuore che batte, che batte felice (Brio). Ed è facile sperdersi in paradisi di memorie colorate per sottrarsi alle ristrettezze del pre-


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sente. In quelle possiamo estendere i nostri voleri fino a trovare quietudini di largo respiro; come è facile sperdersi in sprazzi di cielo, di terra, di mare, di campi di neve: Non segue natura l’evoluzione, non cede al cambiamento, torna a fiorire in primavera, a scaldare il mare d’estate, a produrre frutti in autunno, a coprire di neve in inverno.

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zare. E in questo Paese è rimasta la tradizione della fratellanza, forse perché ha mantenuto un che delle cose buone di altri tempi; forse perché, non troppo omologato, non troppo frettoloso nei ritmi di vita, ha conservato fra le sue vecchie mura quel sapore di ammicchi giovanili negli occhi vissuti. E la Rufo, alla fin fine, ne è felice, e gioisce di poter danzare coi pochi vecchietti rimasti, sdentati, e vacillanti, pur cosciente di un tempo che svuota e che fugge: … si scherza si canta si suona e infine si balla. Si sfrenano, sorridono tutti, anche i vecchietti (Che buffi!) sdentati, e vacillanti (Festa). Perché lì c’è il suo cuore; è in quella casa:

Ed ormai la Nostra è presa. È posseduta dalla sua terra che sembrava inquietarla, e che ora rispecchia con la sua metamorfosi l’alter ego del vivere. E vola con ali d’aquilotto sul monte Castelnuovo, che la chiama, le parla, e la invita a riposarsi sulle sue cime; vola lungo la riva del Rio, sfiorando le sue acque sapide di una storia: In ogni tempo s’è aggrappato al mio sasso Castelnuovo. Era una volta a Santa Lucia, ai miei piedi, lungo la riva del Rio;… (Parla monte Castelnuovo). E vola instancabile sul monte Marrone, invocandoci di seguirla alle grotte di Centrillo: Troverete sui miei fianchi la grotta di Centrillo detto “Il gigante buono”… (Parla monte Marrone). Ogni angolo del suo milieu la riconosce, e le comunica il proprio affetto, la propria vicinanza. E tutto si fa festa. Una festa sana, pulita, gioiosa, anche se un po’ malinconica. Una di quelle feste che si svolgevano una volta in paesi dove era facile essere vicini e fraterniz-

…rifugio costante, dei nostri depositaria segreti, parte è divenuta di noi (…) dei tesori dell’animo nostro, dolore ci costa abbandonarla, pianto e rimpianto. E la sua storia fra quelle mura. Nazario Pardini 18/01/2014 Antonia Izzi Rufo - Paese - Ed. Il Croco/I Quaderni Letterari di Pomezia-Notizie, 2014.

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Ricordo di

ELENA BONO di Domenico Defelice

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L 26 febbraio 2014 è morta a Lavagna, all’età di 93 anni, la poetessa e scrittrice Elena Bono. Era nata a Sonnino il 29 ottobre 1921. I funerali si sono svolti il 28 febbraio. Si era trasferita in Liguria, a Chiavari, ancora in giovanissima età, dove si è formata ed è sempre vissuta, sicché viene giustamente ritenuta ligure a tutti gli effetti. La sua attività letteraria va dalla poesia al romanzo, dalla critica al teatro. Ricordiamo, alla rinfusa, alcune delle sue tante opere: “I galli notturni”, volume di poesie con cui esordì nel 1952, pubblicato dalla Garzanti; “Alzati Orfeo” (1958), “Ippolito” (teatro, 1954, con rappresentazione, a Roma, da Emma Gramatica, al Quirino nel 1957), “Morte di Adamo” (racconti, 1956 e 1988, considerato il suo capolavoro). Per il teatro citiamo ancora: “La testa del profeta”, “La grande e piccola morte”, “I templari”, “Elentierro del Rey”, “Ritratto di principe con gatto”, “Ultima estate dei Fieschi”, “Le spade e le ferite”, “L’ombra di Lepanto”, “Lo zar delle farfalle nere”, “Flamengo matto”, “Giuseppe Garibaldi”, “Storia di un padre e di due figli” (che, con la regia di Claudia Koll, la compagnia Star Rose Academy l’ha trasformato in un musical), “Sera

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di Emmaus”, “L’erba e le stelle” (ultima sua pubblicazione, 2011). Tutte opere di successo, portate sulla scena da Daniela Ardini, per esempio, Ugo Gregoretti, Sophie Elert, Orazio Costa Giovangigli, Salvatore Ciulla, Pino Manzari, Carmelo Rifici, Paolo Paoloni, con interpreti famosi, come Giorgio Albertazzi, Carlo D’Angelo, Luigi Vannucchi, la già ricordata Emma Gramatica, Francesco Tumiati, Anna Miserocchi, Irene Papas, Sandro Bobbio, Eros Pagni, Massimo Foschi, Claudia Koll. Per la narrativa, oltre al già ricordato ”Morte di Adamo”, abbiamo la trilogia “Uomo e Superuomo”, “Fanuel Nuti. Giorni davanti a Dio. 1921-1940”, “Fanuel Nuti. Giorni davanti a Dio. 1940-1958”. L’ Editrice Le Mani (di Recco) ha pubblicato tutte le sue opere a partire dal 1980 e, nel 2007, ha raccolto le sue poesie in “Poesie Opera Omnia”. Avendola amata fin dai banchi di scuola, Elena Bono ci è apparse sempre come una figura mitica. Francesco Pedrina, in Storia della letteratura italiana (Casa Editrice Luigi Trevisini, 1964), dopo aver affermato che “Elena Bono è la vera rivelazione poetica di questi anni”, dichiara con entusiasmo di aver trovato in lei “tali orme da lasciarti quasi l’impressione che di rado o mai una personalità poetica, al suo primo apparire, abbia offerto di sé tanti indizi di una grandezza già in atto, per una sorprendente duttilità dell’ ingegno, per una potenza di penetrazione psi-


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cologica e di trasfigurazione fantastica rare anche nei grandi, per un timbro inconfondibile della voce, per una varietà di motivi e di forme, che non è ecclettismo, ma adeguamento al proprio mondo intimo”. Liliana Porro Andriuoli, in Tredici poeti per il terzo millennio (Le Mani, 2003), evidenzia anche l’ aspetto religioso della poetessa, affermando che ha “un modo di porsi alla cui base vi è il senso di un’intima religiosità (...) di Dio”. D’altronde, solo a citare, sono molti i personaggi delle sue opere che alla religione ci conducono: Adamo, Emmaus, il Battista... Elena Bono è stata - ed è e lo sarà per sempre - una poetessa che ha veramente difeso e onorato la donna e perciò diffidiamo assai di chi, chiamandola “poeta” - al maschile -, abbandonandosi in un falso egualitarismo, fingendo d’innalzare, abbassa e stravolge la sua figura femminile, oltre che la grande artista. “Poetessa” ha avuto, ha e deve avere sempre la stessa dignità di “poeta”; Poetessa porta rispetto alla donna, la quale, se ne ha piena consapevolezza, è altamente orgogliosa di ricevere una tale qualifica. Elena Bono ha onorato l’artista e la donna e non crediamo che abbia gradito che la si chiamasse “poeta”, accomunandola e confondendola col maschio, e, con ciò, denigrandola ed offendendola. Non sappiamo se lei si sia mai ribellata a una tale distorsione, ma tutte le poetesse dovrebbero farlo. Ci piacerebbe assistere alla reazione di un poeta maschio che si sentisse chiamare “poetessa”! Questa nostra puntualizzazione deriva dal fatto che anche Elio Gioanola, nelle dieci pagine d’Introduzione a “Poesie Opera Omnia”, chiama “poeta” Elena Bono, come se, chiamandola poetessa, ne avrebbe diminuito l’ onore e la grandezza! Egli insiste, e a ragione, sul rapporto stretto tra la poesia della Bono e quella di Giacomo Leopardi, legate indissolubilmente non solo da cadenze e stili ed atmosfere, ma, a volte, anche da temi. C’è, tra il cantore di Recanati e la poetessa nata nel Lazio, ma vissuta in Liguria, una simbiosi spirituale e viscerale, resasi cosciente, nella Bono, in età infantile, allorché sostò per un

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certo periodo a Recanati e che la porta a delicate “dichiarazioni d’affetto e quasi di intimità sentimentale”, al punto di potersi rivolgersi al grande poeta chiamandolo semplicemente Giacomo. La poesia di Elena Bono è fascinosa. E’ ricca di sapienti onomatopee, per esempio, come in “Festa lontana”, dove le ripetizioni e le assonanze (colline/sonanti) compongono il suono delle campane e il loro alto ondeggiare (ritmo dondolante presente anche altrove:“i lunghi fluttuanti capelli//i tuoi capelli siano o le lunghe/alghe fluttuanti” - “Luci di settembre”) e in cui si scorgono non solo i riflessi cangianti, ma anche il dolce sciacquio e la metamorfosi tra umani e cose (il Narciso, le acque, i capelli, il viso, gli occhi, le pupille chiare e le “luci vive/fisse luci incantate”). Per noi, un autentico mito, dicevamo. Perciò abbiamo accolto con entusiasmo, con autentica felicità, le rare occasioni di ospitarla sul nostro mensile, con un’intervista, per esempio, da noi commissionata all’amico e collaboratore Fulvio Castellani (in prima pagina, del numero di luglio 2007), o con il suo bel racconto “Sileno” (ospitato nel numero di settembre dello stesso anno). Alcune sue lettere, a noi indirizzate, sono state donate, su richiesta, nel 2009, alla Biblioteca Comunale di Pomezia. Domenico Defelice CENTO POESIE PER TE Cento sono le poesie per te, o musa ispiratrice dagli occhi scuri, sottile è il confine che ci divide, e che ci unisce, un incontro infinito, come l’acqua che scorre, tra le foglie delle foreste, che si rigenera con le bianche nuvole, candide come le tue lacrime, piene di gioia… che mi riscaldano l’anima. Colombo Conti


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“LA GIOIA E IL LUTTO” DI

PAOLO RUFFILLI, METAFORA DELLA VITA MODERNA di Luigi De Rosa

La gioia e il lutto “ è il titolo di un originale poemetto di 1590 versi dedicato da Ruffilli “ a mia figlia e a tutti i figli del mondo”, cioè ai giovani del nostro tempo. (“La verità è che / nascendo o morendo/ non c’è, in fondo “/ mi ha detto mia figlia / piangendo, / nessun rispetto / per la dignità della vita / nel mondo “). Basta leggere i giornali, navigare in Internet, guardare le televisioni, per avere la conferma di questa saggia e incontrovertibile osservazione. L’originalità di questo libro del noto scrittore reatino di origine forlivese, (laureato in Lettere a Bologna, da anni vive a Treviso, e opera come poeta, saggista, consulente e direttore editoriale) non risiede soltanto “nell’ insolito e tragico argomento trattato” (“Passione e morte per AIDS “ è il sottotitolo) ma nello stesso impianto, nella struttura secondo cui si snodano i circa 1600 versi, senza titoli e senza numerazioni, a rappresentare drammaticamente, con un linguaggio asciutto, parco di aggettivi, il precipitare doloroso e inarrestabile del giovane malato terminale verso la morte e l’oltre, in una suddivisione per frammenti – alcuni dei quali in carattere corsivo – separati solo da spazi bianchi. Gli stessi versi brevi (prevalentemente quinari e settenari ), punteggiati da rime secche e funzionali, imprimono al testo una rapidità incalzante e incoercibile, e sembrano scritti non solo per essere letti, nel tradizionale silenzio, dal singolo lettore, ma anche per essere recitati, in un coinvolgente spettacolo teatrale, dai vari “personaggi” del poemadramma (lo stesso giovane colpito, il padre, gli amici …) in un alternarsi da tragedia greca su cui incombe il Fato in versione moderna. E durante la lettura-recita si affollano i flash-back, le riflessioni e le riconsiderazioni sulla vita, sulla morte, sul mondo attuale e di

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sempre, le nostalgie delle piccole e grandi cose, i rimorsi fondati o infondati, le scoperte tardive ma folgoranti. Un “rimorso” particolarmente doloroso, ad esempio, è quello del genitore che teme di avere sbagliato tutto col proprio figlio: Ma una “scoperta” forte è anche quella dell’importanza assoluta dell’ Amore: “ Strappare via chi ami / dal cuore della carne / in cui si annida / è come sradicare/ la quercia dalla terra.” La musicalità dolce e amara nel contempo, che, come un fiume carsico, scorre per tutto il poema, contribuisce a conferire alla poesia di Ruffilli – poesia allo stato incandescente – il timbro della rappresentatività di miseria e grandezza dell’essere umano immerso nel dolore dell’esistenza. L’originalità di questo libro non consiste però soltanto nell’argomento, nella tecnica, nel linguaggio poetico (chiaro e comprensibile a tutti e, proprio per ciò, specificamente efficace). L’originalità risiede anche nell’ approccio ai problemi fondamentali dell’ Umanità dai tempi antichi ai nostri giorni, nella prospettiva da cui vengono interpretate ed espresse artisticamente – nell’emozione e nella pietà, nello sdegno e nella incoercibile speranza di salvezza – la vita, la malattia, la morte, l’eventuale (sperato o negato) mondo dell’aldilà. Ad esempio, la malattia, l’ AIDS (“subdola”, “impietosa” e “ degradante”), “non è per niente/la piaga biblica/non è la punizione/ per i mali del mondo/non è un castigo /ma un delitto atroce/ un’offesa alle persone / della natura indifferente / e a portarne la croce / negli anni cardinali / della loro vita / è la schiera folta / e non cattiva / dei giovani / finiti alla deriva /sotto la cappa nera / per una colpa vaga / di slancio e delusione / frutto dell’età / e per la confusione / di parti e di obiettivi. /Lasciati privi / del tutto di difesa…” Dalla Natura matrigna di Leopardi alla Natura indifferente di Lucrezio, anzi, alla Natura bivalente, negativa per il singolo individuo ma positiva per la specie. Posizione netta, quella di Ruffilli, che non manca e non mancherà di essere oggetto di


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discussioni e di “ distinguo “, a seconda del versante ideologico o religioso da cui si osservano e si giudicano questi problemi, e delle varie “soluzioni” proposte. L’importante è il constatare che il libro costituisce un’altra promessa mantenuta da quel Ruffilli scoperto e “lanciato”, nel 1977, a ventotto anni e con tre libri all’attivo, dal Premio Nobel Eugenio Montale, in una trasmissione radiofonica alla R.A.I. (“un giovane poeta che desidero segnalare per il suo indubbio talento,Paolo Ruffilli…per il futuro ci riserverà qualche piacevole sorpresa”). Il concetto della incolpevolezza umana sembra ribadito anche dalla struggente illustrazione che avvolge il libro in copertina e, replicata, in quarta: la stupenda Pietà (Pietà Dona delle Rose) di Giovanni Bellini, dove il giovane morto di AIDS è simboleggiato dal Cristo, morto innocente per un Male ingiusto, e, deposto dalla croce, riverso all’ indietro nel grembo della Madre, (che in questo caso dovrebbe simboleggiare entrambi i genitori del giovane, e che nonostante sia distrutta dal dolore lo sorregge con un amore senza fine.) Ma, dicevamo, la Morte… Anche nei riguardi della Morte l’ atteggiamento del poeta è chiaro e netto: “ Oh, la moderna morte occultata depurata dalla decomposizione resa esterna finita sigillata in ospedale sterilizzata apparente senza puzzo né rumore per terrore cancellata dai discorsi bandita esiliata sospesa camuffata tolta di mezzo per interesse di bottega privata di valore eppure lì presente oltre la pretesa sua smentita…” D’altronde, aggiunge l’autore avviandosi alla conclusione, “Senza la morte/non ci sarebbe niente / né società né storia / non l’ avvenire / e neppure la speranza./ E’ la condi-

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zione / necessaria / per la sopravvivenza / della specie “ Le certezze cominciano forse a vacillare, piuttosto, laddove il poeta si sforza, più col cuore che con la ragione, di squarciare il velo del mistero – tenace e impenetrabile – dell’ oltre la morte, dell’ aldilà. Qui si possono nutrire o esprimere soltanto supposizioni, ipotesi, o atti di fede sia in senso positivo che negativo, o confessioni di agnosticismo. Ma Ruffilli poeta si sbilancia: “ Per tutto quello / che non vedo, / io credo, / qualcosa resterà / di noi. La parte / più sottile / e più leggera / volerà via / e troverà la strada / da cui passare / dentro il giardino / nel retro del mondo…/ove fluisce un grande / fiume di energia…/…nello splendore / cosciente della luce.” Là, in quel Paradiso poeticamente laico, la “parte più leggera dell’uomo “ (lo spirito ? L’ anima immortale?) “ se ne starà sommersa / nel mare di dolcezza/e scoprirà di colpo / la sua pace assoluta “. Alla fine, la Gioia consisterà nella pace assoluta dopo una continua guerra, e nello splendore della luce dopo un’alternanza di luci opache e di ombre angosciose ? Oppure la gioia e il lutto si rincorreranno in un’ alternanza dialettica infinita, come suggeriscono anche i versi “ L’orma, appassita /eppure intanto rifiorita, / di ogni cosa “ ? Luigi De Rosa Paolo Ruffilli – “La Gioia e il Lutto . Passione e morte per AIDS “ - Prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo – Gli Specchi Marsilio - Venezia, pagg. 85 – euro 10,50.

MYKONOS Un’altra estate ci lascia. Mi mancherà la vista di quei ragazzi a me cari. Augias che s’avvitava, tuffandosi dalla rupe. Amos, equilibrista nel surf quando s’alzava il vento. Chi di loro (e di me) più felici? Silvano Demarchi Da Gioventù dorata - Ed. Cronache Italiane, 2014


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GUIDO GOZZANO

poetica.

E IL CREPUSCOLARISMO

II Nell’aprile del 1907 viene a sapere in modo chiaro di essere affetto da tubercolosi polmonare. L’anno in cui, appena ventenne, muore Sergio Corazzini, un altro crepuscolare. Appare la prima raccolta poetica, “La via del rifugio”, costituita da racconti e sonetti. Riconoscimento immediato da parte del pubblico e della critica. S’impone, appena uscita dal Piemonte, in ogni parte d’Italia, diventa popolare. La poesia di Guido Gozzano sentita dalle anime sensibili, corrose dal materialismo e dal decadentismo, che, anche se esercitano un loro fascino, lasciano una profonda insoddisfazione. Il primo decennio del ‘900 è ricco di letteratura: nel 1904 nascono Alcyone e Il fu Mattia Pascal, mentre nel 1903 escono i Canti di Castelvecchio. “La via del rifugio” con una voce poetica del tutto personale, allontanandosi dalle passioni e dalle mondanità, ricerca un proprio mondo. Come Pascoli si rincorrono le piccole, semplici cose. Si inizia la storia tormentata di amicizia e d’amore con la poetessa Amalia Guglielminetti, di cui è testimonianza l’epistolario postumo del 1951. Tutto in una sola volta, amore e fama, ventiquattro anni. L’illusione sempre crea la vita, si lascia la magnificenza pagana per avvicinarsi alle cose quotidiane e umili. Il poeta apprezza la semplicità felice del custode della villa del Meleto, sente una inquietudine per una cultura che non lo fa vivere. Avrebbe desolazione se non pensasse alla consolazione della poesia e alla serenità che viene dalla Natura. Il sogno, la consapevolezza salvano da un completo naufragio. Il pensiero della morte gli dà pace, nel grande oblio sarà colto giovane come Catullo.

di Leonardo Selvaggi I UIDO Gozzano nasce a Torino il 19 dicembre 1883 dall’ingegnere Fausto, sposato in seconde nozze a Diodata, gentil donna, assai colta, figlia del senatore Massimo Mautino. Trascorre un’ adolescenza agiata. La sua è una famiglia borghese che possiede ville nella zona di Agliè nel Canavese. Dopo il liceo si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza all’Università di Torino, ma non frequenta mai molto. Non si laurea. Segue nell’Ateneo torinese i corsi di Arturo Graf che sa trascinare l’uditorio incantato dietro il volo dell’ippogrifo ariostesco. Ha parecchi amici, quasi tutti compagni della goliardia torinese, in maggior parte corrosi dalla “tabe letteraria”: Massimo Bontempelli, Carlo Calcaterra, Giovanni Cena, Francesco Pastocchi. Taciturno, cortese e ironico, dai capelli lisci e biondi, dalle mani lunghe e delicate. Elegantissimo, passa lunghe ore nei caffè, parlando di arte e letteratura, di storia e filosofia. Ama vagare per la Torino notturna, città un po’ vecchiotta, provinciale, di un garbo quasi parigino. Lettore infaticabile di poeti moderni, adoratore della forma perfetta e lucente dei parnassiani. Desiderio dell’ impossibile, fantasticherie di esteta, sensibilità che si estrinseca in delicati affetti familiari. Guido Gozzano si avvicina ai poeti della Scapigliatura: Emilio Praga, Boito, Tarchetti, Vittorio Bettelloni. Legge le poesie di Lorenzo Stecchetti. Ha occupazioni saltuarie, fa il giornalista, l’ entomologo, il cineasta, mai soddisfatto per la sua natura nevrotica. Alterna la frequentazione dei circoli universitari e letterari di Torino con soggiorni in montagna, in riviera ligure e nella sua casa di Agliè. La lettura di Schopenhauer e di Nietzsche sono gli incontri culturali più importanti. D’Annunzio in un primo tempo costituisce un punto di riferimento e di ispirazione per la sua ricerca

G

III Guido Gozzano senza disperazione, senza sconforto s’incammina verso la morte, quasi sorridendo, con la stessa naturalezza con cui va incontro al suo successo. Nonostante la malattia il suo stile non subisce deviamenti,


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si perfeziona con quella sua grazia ironica che già prima aveva fatto mostra di sé: con serenità sarcastica in modo disincantato. Accettazione da filosofo orientale, in uno stato di sospensione fra essere e non essere. E’ come stare ai margini del mondo, si fa avanti in una folla fantastica il passato con l’ infanzia: il senso della morte diminuisce, sognando, evocando il tutto all’alba del proprio esistere. Poesia e vita insieme, facendo passi indietro. Il sorriso ironico è continuo in Guido Gozzano. Intellettuale moderno, ha nostalgia per le buone cose del passato, un po’ smorte e scialbe, mediocri, ma saporose. Ma non vi si abbandona completamente a causa della sua cultura. Sensazioni stupite, realtà grigia e sentimentale. All’intensità del pensiero si aggiunge la felicità del linguaggio, un impasto di termini tra familiari e curiali. IV Nel 1909, essendo stata colpita la madre da paralisi, Guido Gozzano va a vivere con lei in campagna, ad Agliè. La signora Diodata, che è stata per tanti anni l’ amorosissima custode delle memorie del figlio, si spegnerà nel dicembre del 1947. Gli ultimi suoi anni sono stati tristi, la guerra l’ha trovata a Ferletto Canavese, i Tedeschi bruciarono il villaggio. La morte “la cosa vera chiamata morte” le diede pace. Guido Gozzano si sente senza vita, senza illusioni. Senza arrivare alla disperazione leopardiana è preso dal tedium vitae, la fantasia lo porta lontano nel tempo, gli fa dimenticare la tristezza. La poesia è il suo rifugio, l’attrae in particolare, convinto è di non sapere amare. Guido Gozzano dopo Carducci, Pascoli, D’Annunzio è il poeta più vero del suo tempo. Superamento del decadentismo, straniamento dell’ oggetto, contraddittorietà del sé, rinuncia a qualsiasi aggancio con la storia. Si inizia con Guido Gozzano la poesia crepuscolare, termine per la prima volta usato da Giuseppe Antonio Borgese sul quotidiano “La Stampa” di Torino nel 1910, rendendosi adatto a definire anche il tono della po-

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esia del Corazzini. Il “crepuscolarismo” si pone in contrapposizione al dannunzianesimo. Ripresa del prosastico del verismo, coscienza di una crisi totale di valori, caduta del vecchio e provvisorietà del nuovo, cultura raffinata e nel contempo rinunziataria. I crepuscolari non sanno vivere, non ne trovano la minima ragione, hanno paura della vita. Provano sgomento nel sentirsi morire. Si amano gli ambienti provinciali, i quartieri anonimi e le cose decrepite, lo squallore dei giardini abbandonati, i monotoni pomeriggi delle domeniche. Linguaggio dimesso, familiare. V Nel 1911 escono “I colloqui”, il capolavoro di Guido Gozzano, diviso in tre sezioni: “Il giovanile errore” che presenta momenti di vagabondaggio sentimentale, “Alle soglie” in cui si sente la minaccia della sua morte, “Il reduce” che esprime la sua rassegnazione. Il maggiore esempio della poesia crepuscolare. Uno sdoppiamento fra l’autore e il ritratto ideale che egli fa di sé e una critica delle abitudini borghesi. “I colloqui” dimostrano un Gozzano maturo con i suoi mezzi artistici, un’opera del tempo che porta inquietudine e incertezza. Questo stato psichico condurrà al nichilismo di Pirandello e alla disperazione degli ermetici. Ci si allontana dalla tradizione come avvento con il primo manifesta del futurismo, apparso sul “Figaro” di Parigi, il 20 febbraio 1909, il più anarchico movimento della nostra letteratura. “I colloqui” presentano una generazione ipersensibile che non sa più credere a nulla. Alla giovinezza ci si sente turbati, prima ancora di averla vissuta, subentra un’impassibilità. Gozzano vive in un’età sonnolenta e pigra. L’amore per la parola rende insoddisfatti della forma, molti i rifacimenti e i perfezionamenti di talune liriche. Anche se legato alla cultura e alla poesia del suo tempo, il Gozzano esprime se stesso. Troviamo elementi prosastici, come nel Berchet e nello Stecchetti, ma sempre espressi con naturalezza. “I colloqui” in forma di dialogo presenta figure di donne meno complicate di quelle di D’Annunzio. In Guido Gozza-


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no c’è dell’angoscia che diventa incapacità di amare e nel contempo mancanza di volontà che crea malinconia. Ciò che non si verifica con il poeta dell’Abruzzo, sempre alla ricerca di nuovi amori e di momenti di voluttà. Non è aridità di cuore quella di Gozzano: anela all’ affetto integrale che è l’amore, come meta sempre perseguita, ma mai raggiunta, l’ideale gli sfugge, inveterato sognatore. “Credebam te amare, sed Amorem amabam”. Raffinatezza, desiderio del nuovo, incontentabilità. In pratica Gozzano donne ne ha avute, anche se amate per breve tempo. Talune immagini muliebri, delineate con calore e tenerezza non sono solo frutto di una fantasia malata, ma fanno intravedere donne reali con umano trasporto affettivo. Vengono fuori sentimenti semplici e candidi. I ritratti di donne con poche pennellate, freschi e spontanei sono i sorrisi. Si rifugia nel passato, nostalgia e rimpianto per le cose e le fanciulle di altri tempi. Ritrae l’ambiente ottocentesco delle famiglie borghesi di provincia. VI Guido Gozzano non ha un ideale concreto, ricorre a temi presi in prestito, da ciò quel senso di artificioso e di manieristico, caratteristica del poeta crepuscolare, malato spirituale. Ma c’è tanta poesia, più di quella che si ha in Moretti e Palazzeschi. Un’amletica figura quella di Guido Gozzano, ma pure abbiamo tanto vigore d’arte, complessità di motivi. Un distacco dalla vita, uno stato d’animo che viene dal suo estetismo, ma dobbiamo vedere anche lati emotivi, non solo puro piacere letterario. Nel 1912, nel febbraio, parte per l’ India e Ceylon, sperando di combattere la tubercolosi, vi rimane tre mesi. Sulle impressioni di viaggio invia a “La Stampa” corrispondenze che appariranno riunite in un volume postumo “Verso la cuna del mondo” (1917). Rientrato in Italia scrive fiabe per bambini, pubblica nel 1914 col titolo “I tre talismani”. Guido Gozzano di sensibilità moderna, oltre che poeta è elegante narratore. Si riprendono i temi poetici: l’amore per la tranquilla esistenza di ogni giorno, per i ricordi

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del passato. Nelle fiabe non abbiamo il tono moraleggiante di Collodi e di Capuana. Troviamo i modelli classici con tutto il bagaglio di meraviglie, fatto di fate, streghe, draghi, filtri magici, incantesimi. Dolci, eterne fantasie, simboli incorruttibili nel tempo, fatti di pura idealità, i personaggi in una dimensione astratta, atemporale e sovratemporale. Altri volumi: “La principessa si sposa” (1918) e novelle “L’altare del passato” (1918). Incompiuto un poema in endecasillabi sciolti “Le farfalle. Epistole entomologiche”. VII La grandezza della poesia di Guido Gozzano, che ha cittadinanza europea, sta nelle finzioni, non tratta il moderno che è destinato all’invecchiamento, considera il tempo trascorso. Il suo mondo a cavallo fra i due secoli. Il suo verso fra il canto e il racconto, fra la perfezione della forma e la prosaicità dei contenuti. Ultimo ei classici. La verità è fatta di illusione. Come la crisalide, il poeta sospeso fra il non essere più e il non essere ancora. Presenta se stesso nell’immagine di un ventenne. Il tragico si ha solo quando l’uomo si vede al centro del cosmo. Occorre spegnere il desiderio di esistere, togliere il dissidio fra un cosmo smisurato e l’uomo indefinibile. C’è del primigenio, dell’aurorale in cui cose e immagini insieme si affacciano per la prima volta sulla scena del mondo. Nel 1916, dalla riviera ligure, dove si è recato per cura, nel luglio, sentendosi aggravato, si fa trasportare a Torino. Ivi muore il 9 agosto, mentre i giornali recano le prime notizie della battaglia di Gorizia. La salma tumulata nella tranquillità campestre di Agliè, in silenzio e in ora antelucana per suo volere, perché non vi fosse seguito numeroso e distratto di amici. Ma questi erano tutti al fronte. Si narra che all’uscire dalla chiesa la bara venisse sorvolata da tre farfalle che volteggiavano insistenti sulle corone di fiori. Fu poi per cura dei parenti e degli estimatori innalzato un monumento di bellissima fattura e di grandissima espressione artistica. Leonardo Selvaggi


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DOMENICO DEFELICE UN SILENZIO CHE GRIDA di Tito Cauchi

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N silenzio che grida, di Domenico Defelice, è saggio critico sul poeta calabrese Rocco Cambareri, costituito da un’ampia introduzione e da dieci capitoli, tutti interessanti e succosi. L’esposizione tratta separatamente le tematiche tracciate, dalla biografia alle opere, dalla poetica alla vastità degli interessi, dalla socialità alla fanciullezza, dall’amore alla religiosità, per definire nel nono capitolo il titolo del saggio, e infine concludere con alcuni giudizi critici su Rocco Cambareri. Beninteso avverte il Defelice che le stesse tematiche (particolarmente sociale, religioso, d’amore) convivono, non sono mai scisse. Il Nostro dichiara di essersi formato all’ insegna della Storia della Letteratura Italiana, di Francesco Pedrina, più volte indicato come riferimento. Nonostante la giovane età, con piglio sicuro lamenta, fin dall’inizio, la confusione su cui è caduta l’arte, per cui alcuni pseudo artisti fanno tanto fragore con l’ approvazione di altrettanti pseudo critici che si lambiccano il cervello nel tentativo di dare delle spiegazioni, ingenerando inutili illusioni e sviando i fruitori. Perciò aborra l’ ermetismo, invita ad essere onesti nella critica e ad essere chiari, usando un linguaggio collaudato “come un Dante, il quale ha innestato il

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suo mondo alla ricchezza d’un passato glorioso. Ripropongo alcuni pezzi, convinto della loro attualità e importanza. Domenico Defelice assicura che: “Picasso - un grande artista ha capito già da tempo che la rivoluzione da lui apportata ha giovato, in definitiva, a lui stesso e che s’è esaurita: perciò è ritornato al figurato. Giuseppe Ungaretti ansima nel vano tentativo di farci amare una poesia rachitica, in certi casi bella esteriormente, spesso vuota e senza nervi.” (pag. 9); e continua: “Se Salvatore Quasimodo s’è sollevato sopra Ungaretti e Montale quanto un pino può alzarsi al di sopra di un cardo…” Il Nostro è contro ogni sperimentalismo, contro ogni forma di ismi. E, sulle orme del Pedrina, richiama i giovani artisti: “Lasciate da parte il ‘brivido sonoro’, le volute ‘zone di silenzio’, i troppi ‘trapassi taciuti’ le troppo ricercate ‘folgorazioni’. Smettetela con la ‘merda secca’ e con i ‘piccoli culi rosa’: non è immergendovi volutamente nelle porcherie che diverrete sociali” (10). Tutto ciò per significare quanto il poeta, di cui ci occupiamo, ne fosse lontano. Rocco Cambareri è nato a Gerocarne (Catanzaro) il 28 febbraio 1938. La prematura morte del padre ha inciso significativamente sulla formazione del bambino, anche per avere reso maggiormente precarie le condizioni di famiglia. Giovane, si stabilisce molto presto a Roma, maestro elementare, vanta collaborazione a varie riviste e numerosi i riconoscimenti; è presente in molte antologie. Tre sono le opere in versi, di Rocco Cambareri, fino allora pubblicate: le raccolte Lacrime del calendario (1963), Avvolto nel silenzio (1966) e il poemetto Tralcio alla vite (1968). Defelice si sofferma ampiamen-


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te, citandone alcuni versi, per esempio, connota il profilo del Poeta: “Mossi i passi/ in un chiarore d’ ombre./ Mi inanellò trepida/ la donna Malinconia/ e sciamarono nuvole di rondini”; tuttavia gli rimprovera l’iniziale troppo uso di lima, forme di ermetismo che nondimeno attribuisce alla giovane età (e dire che entrambi sono appena trentenni). Cambareri si fa trascinare dai sentimenti che lo riportano all’infanzia, alla perdita del padre, alle stradine, ai vicoletti, alla sua gente. Domenico Defelice spiega che “da quei tempi viene ancor oggi a noi quel piacere misto a paura ch’è costatazione della nostra fragilità” (25). Rocco Cambareri è riuscito a contemperare richiami profondi dell’anima e concezioni poetiche, staccandosi da ogni indirizzo letterario di moda e non, perciò suscita percezioni olfattive e visive, e riesce a trasportare in un mondo di sogni ma sempre con la saldezza alla realtà. Nell’immensità della natura non riesce a staccarsi dalla propria sofferenza e vive pure quella degli altri esseri, come nella bellissima lirica Pescatori, di pag. 28, che lo pone a paragone a Ungaretti e a Montale; essa offre un paesaggio animato e umano: “pescatori dal volto evangelico,/ pontefici di un rito ancestrale”. Defelice commenta: “Nel silenzio divino, infatti, tra il lento mormorio della risacca, il poeta è intento a guardare dall’altra parte, dove non c’è la luna maliarda e ingannatrice” (27). Codesti versi, come altri evidenziano, in Rocco Cambareri, alta liricità, su cui giova, per ragioni espositive, indugiare ancora.

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Defelice osserva quanto la lirica Pescatori, abbia tratti distintivi di impronta sociale: l’ ansia dei pescatori per il loro lavoro, come per il loro ritorno. Fa appello al Leopardi secondo il quale “tutti vedono, ma pochi osservano…” poiché occorre accostarsi alla poesia per sentirne i palpiti che l’abbiano germinata, così si possono scoprire il senso della religiosità ed altro insieme, per scoprire lo sguardo del poeta posarsi sull’umanità dolorante o fuorviata. Ciò accosta Cristo all’uomo bisognoso o afflitto, all’umile, all’ultimo della scala sociale. Ma a differenza del Recanatese, il Nostro osserva che Rocco ama la natura, non la considera matrigna, attribuisce agli uomini i propri mali. La sua sofferenza interiore gli fa percepire perfino le note di un violino o di una chitarra, come note dolenti del pianto, perché gli uomini opportunisti ed egoisti hanno la meglio sugli altri. Rocco Cambareri in Lacrime del calendario, non ha inteso il pianto come semplice tenerezza e come passione, e le donne non sono solo nomi ornativi; così quando a Laura dice: “Era il tuo,/ un linguaggio di mute parole./ Da oggi,/ soliloqui lunghi.”, e a Stefania scrive: “Travagliata tutta/ come un crisantemo,/ mi piange il cuore”, l’amore per la donna si fonde con l’amore per la sua terra. Tanto è vero che a proposito di Avvolto nel silenzio, “Come scrive Geppo Tedeschi nella prefazione al libro, i temi che qui lievitano il poeta sono ‘i campi, le salite dell’alba, i villaggi arroccati sui colli, la fanciullezza, le distese della solitudine, le voci che non ci sono più’…” (pag. 38). Domenico Defelice giudica quest’ opera: “una raccolta ancora insuperata, quasi tutta autonoma da scuole e tendenze.” (30). L’ amore, nella sua portata più vasta del termine, è religiosità pro-


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fonda che va individuata in Tralcio alla vite, come spiega Defelice: “ogni tentativo razionale è sterile e che solo la ‘Fede’, attraverso i suoi mezzi, può fare sì che ‘il tralcio’, cioè l’uomo, si congiunga ‘alla Vite’, cioè a Dio.” (53). Sintetizzo come segue. Rocco Cambareri non volendo accettare supinamente i dettami religiosi si mostra tiepido e critico nella prima raccolta (Lacrime…) con le sue riflessioni; mentre nella successiva (Avvolto…) riesce ad esprimersi e a vivere nelle meditazioni; infine nella terza (Tralcio…) si fa più marcato il bisogno umano del conforto dell’ esistenziale e di contemplazioni celestiali. È qui che avviene la conclusione della sua ricerca dei valori solidi ed eterni, che non aveva trovato nel mondo degli uomini, e che Egli ha maturato nel suo isolamento (“Mi traggo a riccio”) e nella visione della natura terrena e celestiale. Perciò il suo è “un silenzio che parla all’ animo nostro e dice le verità che l’ipocrisia degli uomini politici, dei religiosi accomodanti, dei letterati-cacciatori-di-frodo ha tentato, tenta tuttora nascondere. “ (51). Domenico Defelice conserva degli inediti, dell’amico poeta, perciò ha ampia materia di giudizio. Per quanto riguarda l’iniziale ermetismo delle Lacrime, fa un attacco agli pseudo critici che a suo tempo non l’avevano capito e che continuavano a “lambiccarsi il cervello nella ricerca di vuote formule in grado di spiegare l’inspiegabile.” (55) e aggiunge che un critico così è “un peso morto della cultura, uno dalla intuizione tarda e pesante come il volo di una gallina.” (56). Per la critica, senza entrare nel merito, cito Achille Serrao, Francesco Boneschi, Aldo Onorati. In particolare, hanno colto nel segno Nino Pensabene, Franco Saccà che fanno discendere la poesia di Rocco Cambareri dal proprio vissuto: dico che egli si veste di malinconia come osserva Luicio Nocco; si ammanta di dolce nostalgia della propria fanciullezza, come rileva Rosa Franciosi Bosio; ma ha anche capacità di introspezione psicologica secondo Nerina Pericoli. Consensi troviamo in Antonio Gallo che evidenzia la forma-

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zione classica e un ritmo sorvegliato; stimato da Mario Rappazzo. Non meno degni di essere ricordati sono il giudizio di Giulietta Livraghi Verdesca Zain sulla “profonda valutazione della vita”, quello di Pino Amatiello per il “rigore Camusiano”, così di Saverio Scutellà che ne stima il sentimento per quel mondo che non verrà; e di Ala Delfino, Luigi Volpicelli, Risario Lo Verme che lo proiettano nel futuro. Rocco Cambarei è sempre presente a se stesso ed anche al lettore, sempre che il lettore si accosti alla sua poesia con la dovuta sensibilità. Il poeta è tutt’uno nella sua religiosità, nel suo sentire il disagio sociale, la sofferenza dell’umanità, la sua storia personale. Mi piace averne parlato, senza timore di fare operazione autoreferenziale, poiché questo evidenzia la stima riconosciuta, fra persone di intelletto, nonché la bellezza espressiva del Defelice. Tito Cauchi DOMENICO DEFELICE, UN SILENZIO CHE GRIDA, Le Petit Moineau, Roma 1968, Pagg. 64

Immagini Pag.34: Roma, 4 settembre 1966, piazza di Santa Maria Maggiore. Da sinistra: Beniamino Surace, Guglielmo Germano e Rocco Cambareri, tre della “banda” “degli anni torbidi”, della quale facevano parte, tra gli altri, Aldo Onorati, Domenico Defelice, Adelchi Spinelli e il cosiddetto “Teologo”. Pag. 35: La tessera n. 203 di Domenico Defelice, corrispondente, in quegli anni favolosi, oltre che di Talento e Telekronos, anche di Arcoscenico.

CALIPSO Calipso pianse il tempo perduto La lacrima cadde penetrò tra le foglie Non trascorse che un attimo Tra il soffice humus Apparve un germoglio Nessuno mai seppe Se fosse un nuovo O rinnovato amore. Colombo Conti Albano Laziale, RM


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IL MINOTAURO Osservazioni su un celebre mito di Giorgina Busca Gernetti

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miti greci, come spesso anche quelli di altre civiltà, sono giunti fino a noi grazie ai vari poeti o eruditi che li hanno tramandati, talora con lievi varianti nella narrazione degli eventi. Basti pensare alle diverse versioni dell’abbandono di Arianna addormentata sull’isola di Nasso da parte di Teseo durante il ritorno da Creta ad Atene. Su un punto, però, le narrazioni coincidono: la mostruosità del Minotauro, figlio di Pasifae, moglie del re di Creta Minosse, la quale, innamoratasi dello splendido Toro bianco donato da Poseidone allo stesso Minosse, per congiungersi a lui si camuffò da vacca. Da questo connubio disgustoso nacque il Minotauro, umanoide ma con istinti prevalentemente ferini, tanto che si cibava di carne umana. È nota a tutti la vicenda in cui compaiono l’ architetto Dedalo, il Labirinto nel cui centro era rinchiuso il mostro, l’eroe ateniese Teseo che voleva ucciderlo, Arianna, figlia di Minosse e sorellastra del Minotauro, che se ne innamora e lo aiuta, il “filo d’Arianna”, l’ uccisione del mostro e l’uscita dal Labirinto di Teseo vincitore. Ma quante colpe, quanti sacrilegi in questa vicenda in cui, per tradizione, il personaggio negativo è il Minotauro, mentre Teseo è l’ eroe positivo che libera Atene dall’orribile tributo di giovani da offrire in pasto al Minotauro? Pasifae era figlia di Helios, cioè Phoibos, il Sole luminoso, quindi il Minotauro era nipote di Febo-Apollo. Pasifae si congiunse con un toro: nessun commento se non che si trattava del Toro luminoso di Poseidone, quindi il Minotauro era in un certo senso nipote anche del dio del mare. Minosse era figlio di Europa e di Zeus, tramutatosi in toro per rapirla e amarla. Il Minotauro era dunque nipote anche di Zeus. Non un mostro, quindi, ma un discendente luminoso delle maggiori divinità. Arianna aiutò il nemico Teseo tradendo il

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padre e concorrendo all’uccisione del fratellastro. Forse lo fece per amore, forse per altri motivi, ma il tradimento resta evidente. Chi è, allora, il personaggio negativo, il colpevole sacrilego e chi la vittima? Se si potesse far parlare quello che nella tradizione è il personaggio muto, il Minotauro, forse si udirebbe una versione tutta diversa da quella tramandata da secoli. L’uomo dalla testa di toro si chiama Asterione (luminoso figlio degli astri); ha una duplice natura, umana e divina, ma gli dèi, per nascondere la ferinità esistente anche in loro, hanno lasciato che Asterione fosse considerato un essere solo bestiale dagli istinti ferini: un mostro. Asterione, invece, è la vera vittima degli dèi e degli uomini, Il Minotauro se potesse parlare, metterebbe a nudo la sua umanità e alluderebbe sempre alla luce che in lui splende persino nel nome, Asterione / Asterio, benché lo abbiano rinchiuso nel buio del Labirinto. Egli è figlio della luce e solo con la morte, cui non si oppone cedendo a Teseo, può svestirsi del corpo mostruoso, degno di vivere rinchiuso nell’oscurità, e risorgere come essere luminoso e immortale. Giorgina Busca Gernetti SUNT LACRIMAE RERUM Io sento il muto pianto delle cose nelle aride zolle del campo irsuto di stoppie pungenti. Negli sterpi dei boschi ormai nudi, spenti di verde, spogli di vita. Nelle ali stecchite del passero ucciso dal freddo: ali aperte in un volo immobile. E nell’erba assetata del prato riarso d’estate, alla vivida luce del sole che splende nel cielo ed infiamma la terra.


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Lo sento nell’urlo del vento che piega sul lago le canne; nel secco schianto del ramo ancor folto di foglie. Lo sento nei petali sparsi del fiore che un passo incurante calpesta sul bordo d’un prato; e a terra il purpureo giacinto sanguina, forse.

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Κλαδί αγριελιάς, μεγάλη τιμή, στης στέψης την λαμπρή τελετή. Στεφάνι Νίκης, επιβράβευση ιδανικών, Ανώτατη τιμή των Ολυμπιονικών! Συναδέρφωση, ενότητα στα Ελληνικά Ιερά. Ομόνοια και έργα ειρηνικά, ενώ η Φλόγα καίει λαμπερή, ΜΕΓΑΛΗ ΙΔΕΑ ΕΛΛΗΝΙΚΗ!

IDEA OLIMPICA, IDEA GRECA E nelle pieghe della roccia sbrecciata, che soffre lo sforzo del magma premuto, respinto da zolle mostruose, violente. E lo sento nel pianto delle stelle cadenti nelle notti estive, che vedono il vano patire delle cose lontane, inermi sulla terra desolata sotto il maglio possente del Fato, che ignora, travolge, distrugge. Giorgina Busca Gernetti ___________________________________ ΙΔΕΑ ΟΛΥΜΠΙΑΚΗ, ΙΔΕΑ ΕΛΛΗΝΙΚΗ! Ολυμπιακή ιδέα, αρετή, στην ψυχή του αθλητή. Δέσιμο αρμονικό και πνεύμα αγωνιστικό. Πάλεψαν Ήρωες και Θεοί, νίκησε ο Απόλλων τον Άρη στην πυγμή, στον χώρο τον Ελλαδικό, στης Ολυμπίας το Ιερό. Ενέπνευσαν και στους θνητούς την άμιλλα, την ευγενή, που ο Πίνδαρος τραγούδησε στην Ολυμπιακή Ωδή!

Idea olimpica, virtù, nell'anima del poeta. nell'anima della gioventù. Vincolo armonico, spirito agonistico. Eroi e Dei hanno combattuto, Marte, vinto da Appollo al pugno, nel tempio di Olimpi, hanno competito. Con passione hanno gareggiato, i più forti hanno partecipato. Ai mortali, l'emulazione hanno ispirato, e Pindaros, all'Ode Olimpiaca, la competizione ha cantato. Il ramo dell'ulivo selvatico, un grande onore, al brillante rito d'incoronazione, alla risplendente cerimonia di premiazione. Corona di vittoria, ricompensa di ideali nobili. Onore superiore degli Olimpionici! Onore di quelli che hanno lottato, al Pangratium e al pugilato! Spirito di solidarietà, pace, competizione, bontà. Νei tempi greci, unione, da tutte le parti partecipazione. Concordia, armonia e opere pacifiche mentre la Fiamma risplende e illumina l'idea greca. Giorgia Chaidemenopoulou Grecia


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THEMISTOKLIS KATSAOUNIS: Η ΖΩΗ ΜΟΥ ΜΕΣΑ ΣΤΙΣ ΑΛΛΕΣ ΖΩΕΣ Σήμερα όλα τελειώνουν και ίσως όλα αρχίζουν και όλα είχαν τελειώσει, χιλιάδες, εκατομμύρια χρόνια πριν και όλα είχαν αρχίσει, χιλιάδες, εκατομμύρια χρόνια μετά. Το σώμα μου άψυχο μετά το πέρας της ζωής μου, μέσα στο φέρετρο μου θα είναι στο διηνεκές μόνο ένα τεκμήριο για αυτούς που θα έρθουν, για οτι,δήποτε ακμάζει και παρακμάζει, μέσα στον πλανήτη μας, μέσα στο σύμπαν όπου ζει, έζησε και θα ζήσει αυτός, ο δικός μας πλανήτης. Γνωρίζω καλά τι είναι αυτό που υπάρχει μέσα στην ψυχή μου, ξέρω πως δεν είμαι καθόλου διαφορετικός από όλους εκείνους τους θεσπέσια, εξαίρετους, μοναδικούς, εκατομμύρια νέους ανθρώπους, που γεύτηκαν μία βασίλισσα και μέσα τους ένοιωσαν να τραγουδάει μια υπέροχη σαγηνευτική μελωδία: η Εξέλιξη! Αυτή η συγκεκριμένη, η δικιά μου βασίλισσα όπως και όλες οι άλλες βασίλισσες, κοίταξαν το πρόσωπο τους στα νερά μιας γαλήνιας λίμνης στα 20 τους χρόνια και είπαν, με τα χείλη τους να σχηματίζουν ένα αχνό χαμόγελο ικανοποίησης: «Ναι! πράγματι είμαι μία Βασίλισσα!!!» Ύστερα διέγραψα την μοναδική μου ζωή μέσα στο πλήθος των άλλων μοναδικών ζωών, με συνοδοιπόρους φίλους και εχθρούς, δακρύζοντας, γελώντας, ξενυχτώντας για λύπη ή χαρά, αιώνιος μέσα στην νεανική μου σάρκα, αλαζονικός μέσα στην πλήρη παντοδυναμία της νεότητας μου. Είδα μέσα στην μήτρα της Βασίλισσας μου να δημιουργείται τρυφερά, με μιαν ανείπωτη μαγεία το δικό μου παιδί. Κοιτάζοντας την πρώτη φορά τον γιο μου ήμουν απόλυτα βέβαιος ότι αυτός θα άγγιζε με τα χέρια του τ’ αστέρια! Το ρολόι όμως της εκκλησίας όπου βαφτίστηκα και κατόπιν ακολούθησα τα μυστήρια που οδηγούν στο δρόμο της σωτηρίας συνέχιζε ακαταπόνητο την δουλειά του, ώρα την ώρα και το φως εναλλάσσονταν το σκοτάδι, το κρύο την ζέστη και λίγο-λίγο,

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σιγά-σιγά, χωρίς ούτε καν να το αντιληφτώ ο καθρέφτης έδειχνε κάποιον άλλο που έχανε την ομορφιά του, που καμπούριαζε, που γίνονταν τρωτός ακόμη και στο φύσημα του φθινοπωρινού αέρα. Εκείνο όμως το μικροσκοπικό, απροστάτευτο πλασματάκι, που εξαρτιόταν αποκλειστικά από εμένα, απέκτησε χέρια που έλειωναν πέτρες· διεκδικώντας με πείσμα τις δικές του αχτίδες του ήλιου. Έμεινα λοιπόν μόνος και ανήμπορος τυλιγμένος μία αιωνιότητα μετά στην κουβέρτα μου, στον καναπέ, απέναντι απ’ την τηλεόραση, ακούγοντας τις ειδήσεις των οχτώ. Ειπώθηκε πως ένα λουλούδι άνθισε στην Φουκουσίμα και θέλοντας να σας μιλήσω πράγματι μέσα από την ψυχή μου, που αναβλύζει εντός μου, από έναν άλλο ανώτερο εαυτό, ήταν αληθινά αχ! ότι πιο όμορφο ανήγγειλαν ποτέ! Την επομένη λουσμένος στα λουλούδια, ντυμένος με τα γιορτινά μου, παρακολούθησα το τελευταίο μου μυστήριο, στην ίδια πάντα εκκλησία, μέσα σε μια μεγαλόπρεπη μελαγχολία, συγκινημένος τόσο απ’ τα φιλιά που μου χάριζαν απλόχερα, στο μέτωπο όσοι αγάπησα!

LA MIA VITA DENTRO LE ALTRE VITE Tutto finisce oggi e forse tutto comincia oggi, e tutto era finito, mille e milioni di anni fa e tutto era cominciato, mille e milioni di anni dopo. Il mio corpo inanimato dopo la fine della mia vita, nel mio feretro, sarà all'infinito soltanto una testimonianza per tutti coloro che verranno, per qualsiasi cosa che prospera e decade nel nostro pianeta, entro l'universo in cui vive, ha vissuto e vivrà il nostro pianeta. Conosco molto bene che cosa c'è nella mia anima, so che non sono per niente differente da tutti quegli eccellenti, unici, magnifici giovani che hanno goduto una Regina e dentro di sé hanno sentito cantare, una stupenda e incantevole melodia: Il Progres-so!! Questa Regina, la mia Regina, come anche tutte le al-


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tre Regine, hanno guardato il loro viso nelle acque di un lago sereno ai loro vent'anni e hanno detto, formando con le loro labbra un sorriso appena percettibile di soddisfazione: «Si! Davvero sono una Regina!!». Dopo, ho cancellato la mia vita unica dentro la moltitudine delle altre vite uniche, avendo come compagni di viaggio amici e nemici, lacrimando, ridendo, passando la notte in bianco, eterno nella mia carne giovanile, presuntuoso dentro l'onnipotenza totale della mia giovinezza. Ho visto crescere teneramen-te nell'utero della mia Regina, con una magia non svelata, il mio bambino. Guardando la prima volta mio figlio, ero sicurissimo che lui avrebbe toccato con le sue mani le stelle! Tuttavia, l'orologio della chiesa dove sono stato battezzato e dove dopo ho seguito i sacramenti che guidano alla strada della salvezza, continuava instancabile il suo lavoro, ore e ore, e la luce si alternava con il buio, il freddo con il caldo e piano piano, lentamente lentamente, senza rendermene conto, lo specchio mostrava un'altra persona che perdeva la sua bellezza, che si ingobbiva, che diventava vulnerabile anche a un soffio di vento autunnale. Però, quella piccola e indifesa creatura, che dipendeva esclusivamente da me, ha acquisito mani che scioglievano pietre, rivendicando con ostinazione i suoi raggi di sole. Sono rimasto allora solo e incapace, avvolto per un'eternità con la mia coperta, sul mio divano, di fronte alla televisione, ascoltando le notizie delle otto. Si è detto che un fiore ha fiorito a Foukousima e volendo veramente parlarvi dal fondo della mia anima, che sgorga dentro di me da un' altra mia persona superiore, era davvero oh! La più bella cosa che era mai stata annunciata! Il giorno seguente pieno di fiori, vestito festosamente, ho seguito il mio ultimo sacramento, nella stessa come sempre chiesa, in una melanconia maestosa, molto commosso dai baci che mi davano con generosità sulla mia fronte, tutti quelli che ho amato! Themistoklis Katsaounis Traduzione dal Greco di

Giorgia Chaidemenopoulou

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QUESTE VIE STRANIERE Sono stanco di camminare queste vie straniere dove la vita diventa sempre più dura e la speranza di felicità mai non matura. Sono stanco di prestare agli altri le mie forze, il mio sudore per guadagnarmi il pane; per dare ai figli un futuro migliore. Sono stanco di camminare per queste vie dove gli aborigeni pregano e danzano facendosi avvolgere dalla polvere calda di sole. Sono stanco di camminare, girare per le vie del mondo. Vorrei tornare alla mia terra, dove sono nato, dove solo può maturare la mia speranza di felicità. Mariano Coreno Melbourne

SE POTESSI Se potessi tornerei Se potessi due ciliegie coglierei Una per me Una per te Le mangerei assieme a te Sotto un albero in fiore Sotto un lampione All’ombra di una siepe Di fronte al mare Se potessi fermerei il tempo Nell’attimo che ci unisce Entrerei nei tuoi occhi Per perdermi nel loro incanto. Colombo Conti Albano Laziale (RM)


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Comunicato STAMPA XXIV Edizione

CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it organizza, per l’anno 2014, la XXIV Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, come sopra, lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2014. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in eu-

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ro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia-Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2013). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito.


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Luci della Capitale di Noemi Lusi

Attenzione alla potenza dell’ovvio…

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E difficoltà in cui la non più recente crisi ha sottoposto il nostro tessuto socio-economico non hanno prodotto danni troppo gravi per molte ragioni. Fra le altre appare ancora una volta fondamentale la struttura familiare, di cui la mamma è fulcro, che si è compattata nel tentativo di sostenere i suoi membri mediante una solidarietà che ha avvicinato tutti i componenti allo scopo comune di superare la tempesta in corso. Concordando su tale assunto ci prepariamo a focalizzare l’attenzione su alcune frasi, espressioni che meritano riflessione. Partiamo da esempi che utilizziamo per provare a mostrare come la figura della madre, della cui importanza e rilievo abbiamo già dato conto, nella realtà viene amplificata con espressioni di comune utilizzo che, quotidianamente, si ripetono con un ritmo che si va sempre più intensificando proprio forse perché, ovvie e spesso ridondanti, dando luogo ad assuefazione. E’ frequente sentire frasi simili a “ In quanto mamma posso capire….” cui spesso segue una serie di acute precisazioni sulle presupposte potenzialità della genitrice, la cui sensibilità verso qualsiasi problematica è spesso un dogma asserito, indiscusso, rispettato senza obiezione alcuna, senza dubbi. Ciò si esplica ovunque, ma diventa più evidente negli ‘organici assembramenti sociali’, in cui i figli, destinatari di tale atteggiamento, dovrebbero comprovare la sacrale veridicità della progenitrice.

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Non si può aderire alla convinzione secondo cui soltanto l’esperienza personale determina maturazione perché ciò comporterebbe per ognuno di noi una limitata casistica, annullando ogni altra fonte di apprendimento. Si ha modo di constatare che tale atteggiamento si è insediato anche in altri ambienti depositari dei nostri comuni destini. Si è verificato, infatti, che in difesa del proprio comportamento una signora ha richiamato, quale mezzo espresso con convincimento e con l’intento di effettuare un’efficace difesa, il suo ruolo di ‘mamma di un bambino’, in quanto spontaneamente convinta che tale referenza implicasse in qualche misura la certezza del rigetto della responsabilità. Meraviglia che la signora abbia scelto tale argomentazione per difendersi invece di fare appello alla propria pregressa correttezza di persona. Tale spontaneo ricorrere alla maternità, dato il profondo tratto culturale che ad essa è sotteso, accende l’attenzione ed evidenzia che non avrebbe altrettanta efficacia emotiva per un uomo l‘enunciazione a scopo difensivo della propria ‘paternità’. Questa espressione ed altre ad essa simili sono portatrici di una concreta potenza emotiva nell’ambito della nostra cultura, evocando un alto grado di sensibilità della consapevolezza socio-culturale della figura materna. Tale tematica, però, può talvolta rilevare una sottile, forse involontaria forma di emarginazione nei confronti di chi non appartiene a tale categoria. Spesso si constata, comunque, che ‘ il padre’, pur se in seconda posizione, si avvale gerarchicamente della sua condizione in quanto è visto come un individuo che si è assunto tale responsabilità, pur essendo noto che non sempre trattasi di scelta. Si intende con ciò sottolineare che si è creata una scala di valore sulla base del quale coloro i quali non possono per motivi biologici, psicologici, economici e/o sociali, pur desiderandolo, e coloro che hanno scelto di non procreare, insieme a coloro i quali sono in corso di determinazione della scelta, certamente sono spesso avvolti da una impercetti-


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bile nube di implicita discriminazione.

Mimosa Rossa… - 16/03/2014 Giorni fa si è festeggiato l’otto marzo. Questa ricorrenza che ricordiamo come ‘della donna’ sembra sia stata celebrata la prima volta nel 1909 negli Stati Uniti per iniziativa del partito socialista americano. L’anno seguente a Copenhagen fu riproposta nel corso della Conferenza Internazionale delle donne socialiste. L’Onu scelse, poi, l’otto marzo come data ufficiale perché proprio in questo giorno le donne erano state protagoniste nel tempo in varie circostanze, purtroppo anche tragiche. La scelta della mimosa da quasi 60 anni come emblema della celebrazione sembra essere stata italiana. Risalirebbe al 1946 quando l’U.D.I. parve trovare la sua motivazione nel fatto che questo fiore è di stagione ed è relativamente comune nel senso che, in questa fase dell’anno, cresce spontaneo su molti alberi del nostro paese. Questa festa è stata istituita per sottolineare le conquiste di cui le donne, nel corso dei secoli, sono state protagoniste, fra difficoltà, ostacoli che non sono riusciti a fermare la laboriosità del loro operare, in alcuni casi fra stenti e sforzi, talvolta fra contestazioni, opposizioni, obiezioni che le hanno viste operare nel tentativo di rendere più comprensibile alla comunità in cui operavano l’importanza del messaggio di cui si facevano portavoce. Nel tempo, purtroppo, l’otto marzo ha assunto sempre più un carattere commerciale e questo dispiace molto perché è noto che l’ intento da parte delle donne è di far comprendere al mondo la propria più intima essenza. Non è soltanto la delicatezza che le contraddistingue, la dolcezza che si attribuisce loro. Sono esseri che, oltre ad essersi distinti nel tempo in ambiti che spaziano dalla cultura alla politica, dalla scienza alla religione, sanno contemporaneamente nel privato assumersi la responsabilità di saper apparire inconsistenti pur di riuscire a risolvere controversie familiari e non, di eseguire con rapidità tutte

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le incombenze di cui si fanno carico, di rendersi elasticamente diverse da quanto sarebbero per agevolare ogni movimento spaziale e mentale al fine di mettere a proprio agio coloro che amano e per cui vivono, di rinunciare alla propria personalità per appianare discussioni che tendenzialmente rifuggono e quant’ altro. Interiormente sono esseri forti, dunque, pur non essendolo fisicamente. Sono un po’ come la mimosa che è caratterizzata da un ramo abbastanza robusto, nascosto da un caleidoscopico, leggiadro moltiplicarsi di piccoli grappoli da un profumo intensissimo, che non passa mai inosservato. Grande è la ricchezza che da sempre le donne costituiscono per le proprie famiglie, per la società, nei piccoli e grandi nuclei, nelle comunità di ogni latitudine. Eppure è ormai da troppo tempo che ogni giorno ci si sveglia apprendendo che un altro atto di violenza è avvenuto nelle nostre strade, nelle nostre città, nelle vie che vedono donne operose darsi da fare per migliorare il mondo che è loro, nostro e delle generazioni che verranno. Una società non può essere definita ‘civile’ se rimane indifferente ai delitti che sono stati sotto i riflettori della cronaca quasi tutti i giorni dell’anno e che hanno anche caratterizzato proprio la giornata dell’8 marzo 2014. E’ necessario comprendere che la donna deve essere rispettata non solo in quanto individuo, ma proprio per la ricchezza della sua forza interiore che incide e determina tanto nella nostra società. E’ proprio in forza della sua delicatezza fisica che deve essere oggetto di garbo ed attenzione, non deferenti, ma riguardosi della sua mancata robustezza solo corporea. Le deve essere riservata la stessa cura che si dedica ai bambini che, pur essendo fragili, costituiscono l’energia, la potenza, la vitalità del nostro futuro ed agli anziani che rappresentano la saggezza, il senno, la sapienza della nazione altrimenti si starà ignorando il profumo di creatività, fantasia, fattività, concretezza che da sempre ha tenuto unite famiglie e nazioni. Si starà distruggendo il lievito dell’


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essenza del nostro passato, presente e futuro. E’ necessario, dunque, che la mimosa non si macchi più di un rosso che non le appartiene, ma sia lasciata brillare del suo luminoso colore dorato che è il sole del mondo, la fecondità delle nazioni, la creatività del procedere con fantasia ed ingegno in ricchezza e anche e soprattutto in povertà. Per fare questo, c’è bisogno della collaborazione di tutti. Da ora. Noemi Lusi

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brillo, e luce di oro stillo, la tua luce. Il seme della tua anima. Germogliano stelle. Panagiota Christopoulou-Zaloni da Nel mare della bellezza (Edizioni Vergina, 2013). Traduzione dal greco di Giorgia Chaidemenopoulou

ALLELUIA DEL PARLARE CHIARO

CUORE Se hai un cuore di ferro, buon appetito. Il mio è fatto di carne e sanguina ogni giorno. José Saramago Il mio cuore abbraccia la nostalgia e ricorda i fantasmi degli amori vissuti. Anni della lontana primavera, da cui un giorno mi sono svegliata con la dignità necessaria nel cuore che sanguina. Teresinka Pereira (trad. dallo spagnolo di Tito Cauchi)

TU, UN LUME! Al fondo della mia esistenza, al suo punto centrale, ci sei TU. Un Lume! Nei suoi ruscelli scorri. Dai pori del mio corpo vieni fuori. Diventi un mio vestito. Come gli occhi della luna,

Una ragazzina di III Media, a Reggio Emilia, vede passare un'ambulanza e si fa il segno della croce. L'insegnante la redarguisce: “Così offendi le altre religioni”. Avrebbe anche aggiunto: meglio fare le corna. Polemiche. Interviene il Vescovo in persona, che parla chiaro indirizzando una lettera al giornale locale. Brava la bambina, perché ha manifesta pubblicamente la sua fede. Bravo l'insegnante, perché la Croce non è gesto scaramantico. La ragazzina si sta ancora grattando la testa: ho fatto bene?, ho fatto male? Rossano Onano Oggi non ha la Scuola punti fermi; come la Chiesa, come la Famiglia. Gli insegnanti si dicono moderni quando ne son lontani mille miglia; conigli sono, inermi; son caconi che, in pratica, rinnegano la propria per non dar torto ad altre religioni. Alleluia! Alleluia! Ad aprire la diga all’ateismo - facendo d’autentico apripista allo sfascio morale inarrestabile, al vero oscuramento della mente, ad una notte buia -, mancare non poteva certamente un Vescovo radical cerchiobottista! Domenico Defelice


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I POETI E LA NATURA - 30 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

ARTHUR RIMBAUD, IL “POETA MALEDETTO” E LA NATURA

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ella mia continua ricerca, per questa rubrica, di poesie ( di ogni tempo e luogo) in cui i rispettivi Autori abbiano espresso un eccezionale, profondo legame con la Natura, ho incontrato un testo che mi ha particolarmente affascinato, la “Sensation”, del notissimo poeta francese Arthur Rimbaud che mi permetto di ricordare agli amici lettori in una traduzione letterale (perché volutamente fedele al testo originale) fatta da me stesso : “Sensazione Nelle sere blu d'estate, andrò nei sentieri, punzecchiato dalle spighe, a calcare l'erba minuta. Sognatore, ne sentirò la freschezza ai piedi. Lascerò che il vento bagni la mia testa nuda.

Non parlerò, non penserò niente: ma l'amore infinito mi salirà nell'anima, e andrò lontano, molto lontano, come un artista vagabondo, attraverso la Natura, felice come con una donna.” Si tratta di soli otto versi nei quali è presentato, con estrema vivezza ed efficacia, il rapporto di immersione-fusione con la Natura di un poeta di soli sedici anni, ancora così “piccolo” ma già cos' grande da esprimersi in assoluta libertà e originalità di forma, di spirito, di stile. La poesia è giocata sui registri e ritmi del totale, inebriante abbandono alla Natura attraverso la percezione dei sensi ( e non solo di quello del tatto) fino alla beatitudine infinita che si impossessa dell'anima del ragazzopoeta, il quale arriva a paragonare questa sua gioia con quella che proverebbe “stando”, facendo l'amore, con una donna. Si tratta peraltro di uno dei rari momenti di gioia panica, “innocente e pura”, provati da Rimbaud nella sua vita breve, intensa e avventurosa. Nato il 20 ottobre 1854 a Charleville nelle Ardenne, crebbe senza affetti, in una situazione familiare disastrata. Il padre abbandonò la famiglia. Per la madre ( che era una vera tiranna) Arthur provò sempre amore-odio. A dieci anni cominciò a scrivere poesie. In seguito fuggì da casa, tornò e fuggì di nuovo, vivendo da vagabondo solitario. Finì distrutto da alcool, droga e carcere. Visse un'esperienza febbrilmente angosciante col poeta Paul Verlaine, omosessuale, pazzamente invaghitosi di lui, e che pur di non perderlo arrivò a sparargli con una pistola, ferendolo. Ma il colpo di grazia, a Rimbaud, lo diede un tumore a una gamba. Finì che gli amputarono la gamba, con sua profonda umiliazione per non poter più girare il mondo come un bohémien facendo qualsiasi mestiere. Morì a Marsiglia il 10 novembre 1891, a soli 37 anni, con la fama sinistra di “poeta maledetto”.


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Rimbaud ha scritto opere che sono altamente quotate nella storia della letteratura francese e mondiale, come “Illuminazioni”, “Il battello ebbro”, “Una stagione all'inferno”. Rimbaud, dal punto di vista dello stile e del linguaggio, fece tabula rasa di tutta la poesia precedente “cancellando” perfino Baudelaire, il padre del Simbolismo. Finì col fidarsi soltanto delle proprie sensazioni da “visionario”: profumi, colori e suoni, in una sinestesia imperante. Col suo linguaggio poetico allucinato spazzò via tutti i legami di logica, di spazio e di tempo, finendo col fare una poesia “demoniaca”, da “veggente” estremamente sregolato: “ Je dis qu'il faut etre “voyant”, se faire “voyant”. Le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens” ( 1871, in Oeuvres, 1969). Luigi De Rosa

EFESO TRABOCCA DI TRASIBULI Trasibulo ti vende le fanciulle di pelle bianca e di capelli fulvi a un prezzo esorbitante sol perché, a furia di digiuni e di frustate, egli fa sì che, quando le avvicini, l’una ti dica sorridendo: “Salve!, io sono Asclepia e tu come ti chiami?”, oppure l’altra: “Io sono brava e dolce, ma tu sarai con me buono e gentile?”, oppure ancora: “Artemide mi ama, ma sono pura e ho voglia di imparare”. Ma, più delle parole, ti commuove l’occhio ceruleo e la giovinezza, la tunica succinta e il seno acerbo, l’aspetto di bestiola intrappolata, che ha perso la speranza della fuga e che ha bisogno d’esser vezzeggiata. Allora, se lo puoi, trai la borsa o rinunci a un pezzetto di giardino e Trasibulo gongola e si ingrassa ed Efeso trabocca di Trasibuli. Renato Greco Da La lunga via, da ieri fino a dove - Epopea umana - Volume Quarto, Edizioni dal Sud, 1999.

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(Disegno di Serena Cavallini)

Recensioni SILVANO DEMARCHI COMMIATO Edizioni “Cronache Italiane” di Salerno, 2013 Commiato è il titolo del nuovo libro di Silvano Demarchi (il ventesimo di poesia), apparso nelle Edizioni “Cronache Italiane” di Salerno nel luglio 2013; titolo che qui diviene sinonimo di addio, dato che il nostro poeta pare con questa silloge quasi voler prendere congedo da chi lo ha seguito per oltre quarant’anni nel suo intenso e proficuo lavoro. Ritroviamo in questo libro l’incisività e l’ eleganza del dire che sono proprie del Demarchi e quella varietà tematica che da sempre lo caratterizza. La raccolta si apre infatti con un omaggio a Gandhi, “Atleta della non violenza”, per passare subito dopo a un pensiero di solidarietà con il popolo kurdo, a cagione delle sue sofferenze: “Esuli / accomunati dal destino / d’una patria calpestata / da piede straniero” (Kurdi). Successivamente troviamo, tra le varie tematiche, quella della serena contemplazione della natura: “Entrai in un giardino / che incantava / per i colori accesi dei fiori, / inebriava per i loro profumi” (Giardino); quella dell’ammirazione per i doni preziosi della gioventù, ormai perduti: “I ragazzi si spogliano / e corrono al mare, / a capofitto si tuffano / e nuotano con lunghe bracciate / a gara senza una meta…” (Corrono al mare); quella dei ricordi di viaggio, che a tratti si accendono, facendo rivivere giorni e stagioni: “Era d’un grigio-perlaceo l’alba / a Lubiana” (Anche là) e specialmente quella


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del rimpianto per coloro che ci furono cari ed ora non vivono più: “Sono così muti i nostri morti / che paiono / persone sconosciute; / così dimentichi / di quello che tra noi trascorse” (I nostri morti). Ma ciò che maggiormente colpisce di questo libro sono alcune meditazioni di carattere filosofico, con le quali Demarchi sembra voler cercare di scoprire ciò che vi è al di là del velo delle apparenze: “Talvolta osservo / l’orditura delle foglie / dopo la pioggia, / o l’ellisse della conchiglia / lasciata sulla spiaggia: / respiro una legge predisposta / che sfugge al pensiero. / E nel pensiero più non rifuggo / questa occulta divinità” (Talvolta osservo). Lo stesso può dirsi di Vi è un’unica Sostanza: “Vi è un’ unica Sostanza / eterna e infinita / che si evolve in forme ricorrenti… / Il filo d’erba, la selce, / l’astro adamantino / nella trama ordinata degli esseri / palpitano d’una stessa vita…”. Poesia di classica eleganza e di raro equilibrio quella di Silvano Demarchi, che trova la sua più compiuta misura nel giro di pochi versi, nei quali si condensa tutta una lunga meditazione o si raggruma un’immagine compiuta della natura, come avviene in Piovve tutta notte: “Piovve tutta notte / a dirotto, /quando cessò/apparve un cielo lavato/con qualche fievole stella, /simile /a un prato fresco di rugiada/ con qualche viola mammola/fiorita qua e là”. Una poesia limpida e autentica, senza forzature, che il trascorrere del tempo non vale ad appannare. Elio Andriuoli

AURORA DE LUCA INDICE DI IDEE AL CALEIDOSCOPIO Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2007 La silloge "Indice di idee al caleidoscopio" di Aurora De Luca - IV^ Premio Città di Pomezia 2007 dal titolo, a mio avviso, sostanzialmente emblematico, in quanto la poetessa, prendendo lo spunto dall'apparecchio ottico ideato dallo scozzese Brewster e consistente nel produrre con frammenti mobili di vetro colorato, agitandolo, figure geometriche o ornamentali sempre diverse, intende simbolicamente rappresentare la varietà e la mutevolezza degli stati d'animo che sono alla base della sua ispirazione, comprende 24 liriche che si succedono in ordine strettamente alfabetico. In questa raccolta, dove si respira un'umanità pensosa e profonda, Aurora De Luca, giovanissima poetessa laziale, già nota nel mondo culturale per i vari riconoscimenti che ha ottenuto nei concorsi letterari ai quali ha partecipato, esprime con inesausta foga giovanile, con sincerità totale, esente da ogni orpello retorico o asprezza verbale, i suoi "intimi moti", pervasi soven-

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te da una fascinosa malinconia, da una profonda accoratezza, che avvince il suo animo e costituisce l'origine della sua ispirazione. Nei suoi versi, di una squisita e musicale intimità, dove la poetessa rivela una personalità poetica non ancora ben definita, ma in pieno fermento creativo, suscettibile di ulteriori proficui progressi, si avverte un bisogno di amore l'elemento caratterizzante di ogni vicenda esistenziale - cui si associa talvolta l'interesse per la vita della natura, di cui coglie alcuni aspetti (Tramonto Uragano). Aurora De Luca, che si sente "libellula", sospinta dal vento nel viaggio intrapreso per "superare il mare", lascia trasparire l'intensa passionalità del suo essere sia quando esprime il desiderio di donare agli altri la possibilità di evadere dal quotidiano, dall'effimero, sulle ali del sogno, della fantasia, nella prospettiva di un futuro agognato, anche se ignoto -"Voglio darvi ali d'evasione ....salti d'evasione ....attimi d'evasione" -, in cambio, però, di un fiore "dai colori tenui", dove possa sprofondare tra i suoi petali, dove, farfalla, possa suggere il polline - il "fiore della passionalità ", portatore di "fuoco e di follia" -, sia quando parla dell'amore, "che trova follia e ragione/solo dietro uno sguardo.../Lo sguardo che unisce desiderio/ all'audacia e all'adrenalina del rischio", e dell'appagamento del cuore, il cui battito si arresterà al cospetto di un sorriso o di uno sguardo - "Sorridimi e guardami.../Il mio battito solo allora/ si arresterà/....così poco ma abbastanza/ perché io senta i sospiri/ più profondi arrivare/sino al più fugace dei nascondigli/ del mio essere". A prescindere dai richiami letterari (Saffo - Il giudizio di Paride), insiti nella lirica "Mela" e dall'arguta successione delle lettere dell'alfabeto, indicanti per lo più aspirazioni, desideri della poetessa in "Indice", nel contesto dell'ispirazione dell'artista non manca l'aspetto intimistico, allorché la poetessa rivolge la sua attenzione al proprio io, esaminando se stessa e riconoscendosi nel "tutto e nel nulla che si spande/nella sfera che gira attorno al cuore" o quello alquanto frivolo, ma proprio di una diciassettenne alle prese coi suoi sogni, quando accenna alla vanità "la più bella di tutte/nella serra del mio cuore". Giuseppe Anziano

ANTONIA IZZI RUFO CATULLO, IL POETA DELL’AMORE E DELL’AMICIZIA Penna d’Autore, 2006 Il "libellus" di Antonia Izzi Rufo, dal titolo "Catullo, il poeta dell'amore e dell'amicizia" - Collana di Saggistica - Penna d'autore - Torino - 2006 - e`


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uno scritto pregevole per l'analisi esaustiva dei nuclei tematici, che sono alla base dell'ispirazione catulliana, e per la valutazione estetica dell'arte del poeta latino, di cui viene evidenziata, anche a distanza di secoli, la modernità. Antonia Izzi Rufo, scrittrice, poetessa, saggista, molto nota nell'ambito regionale - il Molise - e fuori, dopo una nota introduttiva, in cui, prendendo spunto dal carme 85 "Odi et amo", afferma di condividere i sentimenti di Catullo, in quanto anch'ella "nell'amore e nell'amicizia scopre l'essenza vera e lo scopo sublime della vita", traccia un quadro sintetico dell'ambiente letterario dei "poetae novi" o "neoteroi" o "cantores Euphorionis" - ripetitori di Euforione, un oscuro poeta alessandrino del III sec. A. C. -, come soleva chiamarli, in senso dispregiativo, Cicerone, i quali badavano più alla cura della tecnica stilistica e alla raffinatezza formale che alla spontaneità e alla sincerità dei sentimenti. Nell' ambiente dei "poetae novi", dei quali caposcuola e` Valerio Catone, definito da Furio Bibaculo "summus poeta" e "Latina Siren, qui solus legit ac facit poetas" (Sirena latina che solo sa leggere - o scegliere - e formare - nuovi - poeti) si forma Catullo, il creatore della poesia soggettiva, il primo poeta latino che nei suoi versi ha cantato lo strazio dell'animo, con un'intensità che trova riscontro solo nella poesia di Saffo. Subito dopo l'autrice parla del "lepidus liber catullianus," = il codice più importante è il Parisinus 14137, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, e la prima edizione, a cura di Guarino Veronese, risale al 1470 a Ferrara =, della dedica a Cornelio Nepote, della suddivisione in 116 carmi, non ordinati cronologicamente, ma secondo lo schema metrico: Le "Nugae"(1-60), poesie in metri vari, di modesta estensione- I "Carmina docta" (61-68), composizioni piuttosto lunghe ed elaborate stilisticamente, consistenti in 2 Epitalami (Per le nozze di Manlio Torquato e Vinia Aurunculeia - Il contrasto fra due cori di giovani sul matrimonio) - 3 Epilli (Attis - Le nozze di Teti e Peleo - La traduzione della "Chioma di Berenice" di Callimaco) - Elegie (65-67-68) - Epigrammi (69-116): poesie in distici elegiaci. Dopo una rassegna di carmi, dove si avverte l'influenza dei "poetae novi", tra i quali il II, il IX, il IL, l'LXXXIV, il XCV, la Izzi Rufo entra nel vivo della sua indagine ed esamina i carmi (25) che riguardano Lesbia, da identificarsi, come scrive Apuleio nel X cap. dell'Apologia o De Magia, in Clodia, moglie di Quinto Metello Celere e sorella del tribuno della plebe Clodio, ucciso da Milone in uno scontro lungo la via Appia.

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Da essi traspare tutto l'amore del poeta per Lesbia, dipinta a tinte fosche da Cicerone nella "Pro Caelio" - la definisce "amica omnium" una sgualdrina da quaranta sesterzi - creatura viva, reale, frequentatrice di cenacoli culturali, esperta nella musica, nel canto, nella danza, nonché nelle arti della seduzione, capace di suscitare nell'uomo sentimenti delicati e violenti, allo stesso tempo, però, teneri ed appassionati, tristi e malinconici. E` un amore quello di Catullo intenso, che si nutre di stati d'animo diversi, ora lieti ora tristi, a seconda del procedere della relazione , come si può rilevare dai carmi V - Vivamus, mea Lesbia, atque amemus -, in cui il poeta esprime la sua esultanza per lo scorrere felice del suo rapporto amoroso, e VIII, che il Pascoli definisce la "tempesta di un'anima" -Miser Catulle, desinas ineptire -, in cui l'autore invita se stesso a non vaneggiare, ma ad esser fermo nel liberarsi dalla passione. In tale ambito rientrano, secondo la saggista, i carmi LVIII, in cui Catullo parla della degradazione morale, cui è giunta la donna, LXX, in cui asserisce che le parole che la donna rivolge al suo innamorato son prive di credibilità, come se fossero state scritte sull'acqua e sul vento, LXXII, in cui fa la distinzione tra Amare e Bene Velle, LXXXVII, in cui parla della "Fides", che è alla base del "Foedus", il patto d'amore stipulato tra i due, XCII, in cui è convinto dell'amore della sua donna, in quanto sparla continuamente di lui, CIX in cui si augura che le promesse di amore duraturo da parte di Lesbia siano vere. A prescindere da questi carmi, in cui si evidenzia tutta la macerazione interiore del poeta, secondo la Izzi Rufo, che annette ad essi notevole rilievo, importanti sono per la comprensione dello stato d'animo catulliano, il carme LI, che è una traduzione, non senza annotazioni originali, della famosa Ode del Sublime di Saffo, la quale sottolinea esteriormente gli effetti della passione amorosa, il carme LXXVI, in cui supplica gli dei di liberarlo da un male che lo corrode, in cambio della sua pietas, il carme LXXXV - Odi et Amo -, dove è posto in risalto il dissidio tra due sentimenti contrastanti, contemporaneamente presenti nel suo cuore: l'odio e l' amore. Nelle "Nugae", accanto al tema dell'amore, non manca qualche carme - il XXXI - dedicato a Sirmione, la penisoletta del lago di Garda, dove si trovano i ruderi di quella che si riteneva la villa di Catullo, in cui oggetto del ricordo è un luogo dove si è ritirato di ritorno dalla Bitinia, così come non mancano quelli riguardanti l'amicizia e l'in-


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vettiva. L'amicizia - sottolinea la Izzi Rufo - è sentita da Catullo come gioiosa dedizione dell'anima, come partecipazione all'amico di tutti i suoi problemi, di tutte le sue ansie. Infatti, esulta per il ritorno di Veranio - CarmeIX -, si rivolge con vivacità e brio all' amico Fabullo, di cui è famoso l'invito a cena - Carme XIII -, manifestando nei rapporti con costoro, senza alcun adombramento letterario, ma con immediatezza e spontaneità, una purezza ed intensità di sentimenti. L'invettiva è anche presente nella poesia catulliana. Anche se Catullo non si è mai direttamente interessato di politica, tuttavia non fu alieno dal manifestare il suo sdegno contro Cesare e i suoi favoriti, soprattutto contro Nonio e Vatinio, due loschi figuri intriganti ed arrivisti; per i quali prova un disgusto notevole. Nei "Carmina docta" che risentono dell'influenza dei poeti alessandrini e specificamente di Callimaco, Catullo, pur esprimendosi in una forma più raffinata e ridondante, tuttavia presenta i temi fondamentali della sua poesia, l'amore per Lesbia e la morte del fratello, tema quest'ultimo, che, presente anche nel carme CI, che fa parte degli Epigrammi, sarà ripreso dal Foscolo nel sonetto "In morte del fratello Giovanni". Di questi i più belli sono il LXI, l'epitalamio per le nozze di Manlio Torquato e di Vinia Aurunculeia, in cui è espresso il pensiero del poeta che vede nel matrimonio il nucleo originario della famiglia, e il LXIV, il più lungo, un epillio come la Dictynna di Catone e la Smyrna di Cinna, che si articola su tre motivi: le nozze tra Tetide e Peleo, l'abbandono di Arianna sull'isola di Nasso da parte di Teseo, il canto delle Parche. La Izzi Rufo nell'ultima parte, nel sottolineare l' influenza che ha esercitato Catullo sulla letteratura posteriore e l'apprezzamento da parte non solo di Velleio Patercolo e Plinio il Giovane, ma anche di Aulo Gellio, che lo definisce "elegantissimus poetarum", prendendo lo spunto dal presupposto che in Catullo prevalga l'arte, più che la poesia, che, però, non manca, tuttavia ritiene che egli sia il primo e forse l'unico poeta veramente lirico della letteratura latina per il modo con cui ha cantato il suo amore per Lesbia, la dedizione per gli amici, l'odio istintivo verso i nemici, il dolore struggente per la morte del fratello, i miti nei carmi dotti, nonché per lo stile vario, ora familiare e plebeo nelle Nugae, ora raffinato ed elevato nei Carmina docta e,in parte, negli Epigrammi. Giuseppe Anziano

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ANTONIA IZZI RUFO PAESE Il Croco/ Pomezia-Notizie, gennaio 2014 La presentazione di Domenico Defelice, a Paese, sembra una pagina di pura poesia. La prima impressione che coglie è il torpore in cui è caduto il luogo a seguito dell’esodo da parte dei suoi abitanti; l’unica presenza viva sembra essere data dalla voce di un venditore ambulante che si disperde nel vento, rapace e folletto. Tutto questo riflette la decadenza fisica di una donna in particolare, che tuttavia sembra avvertire l’animazione del paesaggio. Rimane il commento che siamo noi a mutare e non il paesaggio. Paese è raccolta poetica vincitrice del 3° Premio Città di Pomezia-2013, di Antonia Izzi Rufo, scrittrice e poetessa di Scapoli (Isernia), insegnante in pensione, che vanta un patrimonio di una sessantina di opere di vario genere, e la presenza in molte riviste e antologie, che le hanno valso premi e riconoscimenti. Queste pagine non sono esagerate e la lettura dei versi, dalla venatura nostalgica, è come una carezza al cuore e risveglia nel lettore l’interesse per le cose che lascia alle spalle, senza perdere, naturalmente, la percezione di quanto si presenti innanzi. Nel componimento di apertura la Poetessa rivolta a un tu colloquiale dice: “ti chiedi s’è il caso/ di fare qualcosa/ per colmare il vuoto/ che dentro ti porti/ e molesto intorno ti ronza,/ ma preda sei dell’indolenza/ e non riesci ad agire/ né a pensare:/ col paese, anche tu,/ vai morendo.” Così srotola il nastro dei ricordi, ascolta gli uccelli cantare, ma fa fatica a diminuire la solitudine che vi regna. Avverte la presenza di passi lenti delle coppie “vecchiobadante” e di ospiti della “Casa Famiglia”. Si vede attorniata dai suoi amici con le fusa (Micio, Endy, Randagio, Spillo). Prendono forma le immagini delle comari “Lucia e Maria commentano il tempo” e intanto nell’aria si confondono i rumori di motori della motozappa e di un “tre ruote”, le voci di venditori ambulanti e di un raccoglitore di ferri vecchi. Ricorda come una volta la passeggiata le riempiva i polmoni di aria fresca e di pensieri ameni; la catena montuosa delle Mainarde sembrava animarsi di voci e di presenze affettuose; i monti Marrone e Castelnuovo, quasi antropomorfi, sembrano oggi tristi: lamentano l’assenza dei pittori e degli artisti che vi andavano ispirati dai luoghi. Tutt’intorno era un incanto che emanava poesia e l’aria pura accompagnava i vecchi centenari festeggiati da tutto il paese, come una sola grande famiglia. Ora dominano sterpaglie e rombi di motori; non si odono più i simpatici ragli d’asino, i belati e i canti del gallo o il


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coccodè delle galline. Le Mainarde, una volta definite “Piccola Svizzera del Molise”, oggi sono avvolte da solitudine e il borgo sembra un set da Far West. Tra l’ieri e l’oggi un cambiamento ha stravolto i costumi ed anche i rapporti familiari; non c’è più l’ incanto del paesaggio che ispirava “il pianto di Pan/ per Siringa,/ il richiamo di Orfeo” (pag. 21); non si celebrano le feste tradizionali come “la pantomima del Cervo” nel Carnevale, che richiamava tanta gente per la sua spettacolarità. Lontana è la vita semplice che ti faceva gustare le lumache raccolte nei campi e non costavano nulla, se non cucinarle; ma oggi è tutto preparato e precotto e non si vuole fare fatica. In verità Antonia Izzi Rufo si rivolge a se stessa, ma nel contempo è per noi un richiamo e un insegnamento a non cancellare, del tutto, le memorie, a non spogliare i vecchi borghi, ora desolati. La Poetessa, con il suo esempio, ci invita a ridare vita alle spoglie abbandonate alla desertificazione o alle erbacce. Altresì fa un appello alla saldezza della famiglia, al senso di cosa sia la casa. Si congeda da noi e dal Paese delle sue rimembranze: “Salutarti/ da lungi ora devo,/ abbracciarti col cuore/ di pianto inondato.” Adesso l’uscio della vecchia casa è sbarrato ed è consapevole che la casa, non è solo una costruzione di pietra e di infissi, è “l’animo nostro,/ dolore ci costa abbandonarla,/ pianto e rimpianto.” La Nostra ha aperto una voragine su cui riflettere. La casa è anche il paese che fa da collante sull’ intera comunità. Così mi viene in mente il disagio di molte famiglie o di singole persone, che si trasferiscono in altre aree geografiche, in appartamenti magari più comodi, e pur dopo lungo tempo, sembrano sentirsi degli estirpati, degli estranei, lontani dal loro paese. Tito Cauchi Accademia Collegio de’ Nobili ANTOLOGIA Poeti Italiani del Nostro Tempo Premio Internazionale di Poesia “Danili Masini” (I Moti dell’Anima), Anscarichae Domus, Firenze 2013, Pagg. 172, € 10,00 Puntualmente si è svolta la cerimonia di premiazione alla 9^ edizione del Premio di Poesia dedicato a Danilo Masini, a Monteverchi (Arezzo). Nella sua introduzione il Preside dell’Accademia, Marcello Falletti di Villafalletto, loda la promozione del Premio poiché tale iniziativa permette di scoprire talenti e pregi delle opere concorrenti, nonché di

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varcare il mondo dei Moti dell’Anima, come indica il titolo cui si ispirano i Poeti. Nel suo saluto, il coordinatore Prof. Ettore Burzi, ha detto: “Viene spontaneo riflettere un momento sul ruolo della poesia oggi. Credo che giornate come queste diano qualche ora di serenità. La poesia è l’arte di trasmettere un messaggio, usando il significato semantico delle parole”, ecc. Il pomeriggio è stato allietato da motivi musicali in quattro sezioni vocali, con l’accompagnamento diretto dal M° Maurizio Bonatti e l’esibizione dell’attrice Paola Lambardi. Ho voluto riportare il pensiero sopracitato per la funzione che svolge la Poesia e l’importanza che svolgono i relativi Concorsi e altresì le Antologie che mettono a confronto un ventaglio di autori, rivelandone le qualità o semplicemente gli sforzi, ma anche le aspirazioni, i desideri affidati alla parola, le emozioni che sono il loro sommovimento interiore in cui essi sognano o rimangono imbrigliati. La Poesia è sì un’Arte eccelsa, ma spesso è trascurata e, a volte, pure inflazionata; in tutti i casi esprime sempre i moti dell’anima o i pensieri che attraversano le menti creatrici. A volte si parla del sottobosco, della cosiddetta poesia minore o dei poeti minori; tuttavia è necessario riflettere che essi esprimono uno specchio della società contemporanea, almeno in parte. Se non tutti volano alto, almeno ci provano, comunque hanno il coraggio di mettersi a nudo, di fare meditare su dimensioni nuove dello spirito, offrono sempre condizioni per una educazione ai sentimenti. L’Antologia ha una veste sobria, è di piccolo formato; ivi troviamo i poeti distinti in tre sezioni: in ciascuna delle prime due (Poesia inedita, Libro edito) abbiamo dieci premiati oltre agli ex aequo; mentre la terza sezione (Poesia inedita, giovani under 18) prevedeva otto premiati oltre due premi speciali. Lungo sarebbe indicare l’elenco dei poeti partecipanti, tuttavia non taccio i nomi dei tre Primi Premiati che sono: Rita Moscardin, Maria Giovanna Bonaiuti e Giulia Vannucchi, che, come si può osservare, sono tutte poetesse. Fra i poeti antologizzati riconosco alcuni nomi, come Fryda Rota, fra i 77 della sezione Poesia Inedita; Giannicola Ceccarossi e Nazario Pardini, fra i 31 della sezione Libro Edito; solo otto giovani figurano nell’ antologia; chiedo venia agli altri poeti che non nomino che, nondimeno, sono citati su Pomezia-Notizie (marzo 2014). Per circa 70 poeti non è indicata una pur breve biografia, ma per quanto abbia potuto verificare si è avuta la partecipazione da tutte le nostre regioni e perfino da parte di alcuni stranieri. Una sola prova non credo sia sempre sufficiente, nondimeno giova leggere la poesia poiché essa ha il merito di stimolare buoni sentimenti. Il poeta non


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dà formule magiche o soluzioni, ma si pone come una cartina al tornasole che immersa nella realtà (dei sentimenti e delle azioni umane) ne indica l’ humus ed è capace di restituire quanto assorbito. Ai poeti incombe l’obbligo di essere percepibili e ai lettori quello di trarne profitto. Credo che questa Antologia abbia offerto agli stessi partecipanti gioia; inoltre le motivazioni delle premiazioni, che sono per se stesse delle medaglie di cui andare orgogliosi, credo abbiano aperto delle aspettative; ma penso che sia già una soddisfazione l’esservi inclusi, sempre mantenendosi con i piedi per terra. Tito Cauchi

DOMENICO DEFELICE LA MANIA DEL COLTELLO (Atto unico), La Procellaria, Reggio Calabria 1963, Pagg. 34 Raffaella Frangipane nella prefazione a La mania del coltello, dice di conoscere Domenico Defelice come poeta e in questa occasione lo scopre drammaturgo. Il personaggio di Francesco, sintetizza una tipologia di uomo del Sud “impreparato ad affrontare la convivenza civile ed il lavoro” che certamente non è il modello preferito dal Nostro. Difatti l’Autore spiega nella sua nota, di riferirsi agli emigranti del Sud impreparati e incolti, attratti dal ricco Nord, ma anche subendo traumi per le difficoltà incontrate. In esergo leggiamo una citazione di Frida Ciletti: “L’arte non è il pane per la folla, ma il nettare e l’ambrosia per le anime elette.” Il libretto si compone di un atto unico, ne fanno parte cinque personaggi e alcuni anonimi; si sviluppa in nove scene, in cui i personaggi man mano appaiono riuniti in una locanda-bar della Milano operaia. La locanda è gestita dalla bella Fiorina, attrazione del circolo vinicolo; Francesco è un immigrato siciliano giunto da pochi giorni, Pietro è un operaio corregionale del Mongibello, notato per via dell’accento, a sua volta corteggia la locandiera; Zenone è un ricco signore innamorato anche lui della gerente; Luca è sindacalista amico dell’operaio “milanesizzato”. Assistiamo allo sconforto di Francesco, sfiduciato di non trovare lavoro; ben presto scopre che l’avventura è una favola, è già deluso e poi non gli piace l’epiteto che riceve, quello di terùn; invoca il Santo Patrone del suo paese, San Nicola, rimpiange d’essersi allontanato dalla sua Carmela. Egli si avvicina a Pietro, spiegandogli la propria situazione intorno a una bottiglia di vino; questi cerca di rincuorarlo promettendogli aiuto. Il loro dialogo è concitato, perciò Pietro invita il nuovo

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amico a non menar le mani e peggio ancora a fare uso del coltello, perciò lo consiglia di disfarsene, buttandolo nel Naviglio. Spiega che, a differenza di Francesco, accetta di essere chiamato dalla bella locandiera come terùn, perché comprende che è parola scemata di disprezzo; egli è molto complimentoso nei riguardi di Fiorina, la quale non lo prende sul serio. Sopraggiunge Zenone, un avventore del luogo, innamorato di Fiorina, molto posato, che non vuole dare peso alle provocazioni verbali dei due siciliani. Sopraggiungono prima Luca, un sindacalista che sta organizzando uno sciopero, che attira l’ attenzione dei due siciliani per la ricerca del lavoro; e poi un attivista di partito che cerca di fare proseliti. Intanto fra lazzi e burle, ormai Francesco è ubriaco fradicio. Ultima scena, Francesco oltrepassa i limiti e accoltella Zenone che fortunatamente non è in fin di vita e viene soccorso, ma tutti quanti della locanda si avventano con quello che capita sul feritore e chiamano la polizia. A questo punto possiamo aprire, si fa per dire, nuovamente il sipario de La mania del coltello, per fare alcune considerazioni. Intanto salta subito l’intento sociale di Domenico Defelice, già cinquanta anni fa; altresì, emerge il suo orgoglio di uomo del Sud; ma quello che è significativo è l’attualità dei contenuti. Certo il protagonista Francesco è un siciliano, ma la storia si adatta a tutti i meridionali; in quanto all’altro siciliano, Pietro, c’è da considerare che egli si è dovuto adeguare alle abitudini degli abitanti del nord, probabilmente senza una vera evoluzione. Rimanendo l’attenzione su loro due, ricordiamo i tanti meridionali che, spinti dal bisogno, si recavano con tanti sogni in testa, pronti a difenderli con un coltello in tasca, e con tanta disperazione dovendosi staccare dai propri paesi, ed erano anche costretti ad inghiottire tanta umiliazione con un forte senso di frustrazione quando cercavano un affitto, in Italia come all’estero. Ed oggi la storia si rinnova, mutatis mutandis, con i nuovi immigrati; ma diciamo di più, nel senso che può adattarsi alla universalità degli uomini, pure prescindendo dall’età e dalla stato sociale: le cronache si ripresentano puntualmente. Nel Nostro, sono evidenti la vena sociale e il richiamo al recupero delle risorse umane da parte delle comunità che se ne privano, il tema della emigrazione e delle illusioni svanite, la rabbia tenuta dentro che esplode per l’indifferenza, l’ umiliazione e la derisione che ci circonda. Francesco è un tipico picciotto di quegli anni, vittima, però, della cultura o incultura di appartenenza. Tito Cauchi


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DANTE MAFFIA IL POETA E LA FARFALLA Roma, Lepisma Edizioni, 2014

così intensi di odori, così ampie di abbandoni. Mai”.

Ci vuole il coraggio di Dante Maffia per un’ impresa a dir poco pazza, comunque fuori da qualsiasi previsione. E’ recente Io, poema totale della dissolvenza, più di settecento pagine fitte di versi, e adesso esce Il poeta e la farfalla, altre cinquecento pagine, tutte dedicate all’amore. Una scommessa, dice il poeta, io direi una follia, considerato che esistono canzonieri d’amore di livello eccezionale a cominciare da quello di Saffo, di Ibico, Petrarca, Shakespeare, e via via fino ad arrivare al Novecento, durante il quale poeti di dimensioni universali come Hikmet, Salinas, Lorca, Gide, Pasternak, Lawrence, Eluard, hanno dato il meglio di sé trattando del rapporto con la loro amata. Ma l’esuberanza di Maffia non conosce barriere ed ecco questa profusione di canzoni che raccontano di un amore travolgente, che ne dettagliano i sintomi, la nascita, lo sviluppo, le esaltazioni, le immersioni. E non con fare dolciastro o cautamente effusivo, ma con la libertà più assoluta che non nasconde assolutamente niente dell’anima, di ciò che l’anima ha avvertito nel momento di cedere alle tentazioni del sentimento. Così Maffia ci porta con sé nel suo viaggio sconfinato dentro cui si combattono e si sommano le variazioni delle emozioni in un crescendo che sembra diventare, in certi momenti, un concerto inarrestabile. Faccio il paragone con la musica perché mi permette di far comprendere quanto c’è, in questo libro, di composto, strutturato, armonioso e misterioso. Poesia dopo poesia le “note” si svincolano dalle abitudini e diventano lenti d’ingrandimento su una realtà dell’anima fortemente connotata da totale interesse. Il poeta non finge, direi anzi che è il ribaltamento e perfino la risposta silenziosa alle affermazioni di Fernando Pessoa. Maffia non è un fingitore, anzi si fa egli stesso parola che gronda di desiderio, di piacere, di carezze:

Maffia arriva perfino, come vedete, a porre il paragone, tra questo amore assoluto e la poesia e ovviamente a scapito della poesia. Un gioco? No, conoscendo la natura del poeta possiamo affermare con certezza che non si tratta di un gioco. In effetti egli sente che il suo essere è totalmente coinvolto e quindi totalmente cambiato, avviandosi a una sorta di metamorfosi che lo rende divino e, nello stesso tempo, umanissimo, “docile fibra” di un universo che ormai ha connotazioni strabilianti. So di un piccolo segreto di Dante Maffia e in questa occasione lo voglio svelare ai lettori. Da decenni raccoglie le definizioni dell’amore che trova durante le letture di poeti, narratori, saggisti, filosofi, psicologi, pensatori. Uno zibaldone che in qualche modo e per qualche aspetto sarà entrato ne Il poeta e la farfalla. Ma si tratta di un elemento relativo che non ci svela tuttavia il percorso del volume diviso in cinque parti. Da subito si nota che si tratta di un amore senile, del “capriccio” di un uomo maturo che coglie in una giovane il lampo della promessa. Ne ha paura, vorrebbe allontanarsene, e poi invece tutto diventa apoteosi di felicità, accumulo di lampi che ne generano altri, che mettono insieme i corpi e le anime per il trionfo di quel sentimento sublime che scuote dalle fondamenta chiunque ne viene preso. Passato l’attimo di perplessità, Maffia si lascia andare e da quel momento in poi la donna diventa lievito della vita, verità attraverso cui guardare il mondo, passo lieve che porta a una dimensione sconosciuta. Cultura e esperienza si incontrano e si amalgamano, si porgono il fiato per rendere ogni parola un segno di bellezza. Non mancano, come sempre in Maffia, i riferimenti ai maestri che lo hanno nutrito, ma non si fatica a sentire la sua voce che si alza cristallina e perentoria a dettare i fulgori delle emozioni che a volte sembrano avvampare di dolcezza e di profondità. Amore totale, abbandono totale, con effrazioni e con improvvisi cambi di passo lirico-narrativo, entrata diretta e senza tentennamenti nelle “prassi” amorose per rompere il tutto, per mutare e sconvolgere, per rinnovare le sfere del sentimento. Il poeta è davvero bravo nel saper dosare e uscire dalle grinfie dei luoghi già percorsi e ripercorsi dalla tradizione. Li prende e li assoggetta al suo timbro, al suo volo, alla sua identità, sterzando a volte celermente e altre volte ricalcando il già detto e visto ma con annotazioni personalissime, uniche, direi, tanto che si ha a volte l’impressione che la don-

“come trovare parole adatte a dare la consistenza dell’attimo che ti uccide e ti fa verbo assoluto del momento solenne in cui la luce scatta in singhiozzi e divampa? Oh, poesia, mi dispiace, non potrai mai eguagliarla, non hai gesti o suoni così eterni, impalpabili, così ricchi di sfumature,


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na di cui si parla nel libro sia la prima donna a calcare la terra. Ed è donna senza veli, bellissima e accecante come una lama di luce, carnale e angelica, dantesca, petrarchesca e boccaccesca. Insomma, donna a tutto tondo, donna da amare, da vivere, da godere, da sognare, da cullare: farfalla tuttavia che ha un’ esistenza di ventiquattro ore. Realtà che si dissipa, che si perde, carne che è eternità: “Spogliati, fammi vedere anche la ricchezza smagliante della tua carne, mostrami il segno della tua divinità”. Credo che il dato più bello e più riuscito di tutto il libro sia quello di scorgere nei versi una donna che è donna in tutto e che tuttavia al momento opportuno sa essere anche favola, acconto di eternità, come dice Maffia, farfalla che non teme la dissolvenza, perché “…senza di te il mondo non esiste: ho circoscritto tutto alla tua immagine, al tuo passo, alla voce, ai bottoni della tua camicetta”. Carmine Chiodo

ANTONIA IZZI RUFO PAESE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 Nel “Paese” descritto dalle liriche di Antonia Izzi Rufo sembra rivivere la condizione attuale dell’ Italia e degli italiani. Il paese cantato nei versi è piccolino, torpido e vuoto; si è lasciato travolgere dagli eventi ed è praticamente quasi del tutto deserto. Vive, si fa per dire, nell’indolenza, nel non agire, nel non pensare. Di umano non c’è più nulla: un cimitero. Solo il vento che si insinua tra l’erba dà qualche piccolo accenno di vita. Ricorda molto da vicino uno di quei paesi che si vedono nei film western di Sergio Leone, dove quando lo sconosciuto o forestiero arriva ha l’impressione che quelle quattro case, sommerse dalla polvere secca della terra, siano abitate solo dagli spiriti. Gli sembra di sentire anche il cigolio delle porte spostate dal vento. La realtà però ad un certo punto comincia a modificarsi. Ed ecco che piano piano spunta un po’ di vita: il carretto del venditore di frutta, anziani e badanti che escono per strada, cani, gatti ed uccelli. Certo la visione non è del tutto idilliaca, ma è un inizio. Un

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inizio che va continuato, perché il paese, che sembra assopito sotto una coltre di polvere, ha in realtà tanta vita da donare ancora. A cominciare dalle mille risorse naturali, dall’aria pulita, dai tramonti, dai ruscelli, dai fiori che spuntano nei campi e dalle rondini che sono sinonimo di primavera e quindi di risveglio e rinascita. Parallelamente avviene la stessa cosa nell’essere umano che, dopo le vicissitudini attraversate nella vita, sembra restare inerme e immobile, accettando silenzioso il deserto e le brutture che avanzano e che vorrebbero prendere il sopravvento. Però l’essere umano ha un’anima che non ci sta ad essere sopraffatta dal torpore. Ecco allora che arriva la primavera, come in ogni ciclo vitale e lui si rimbocca le maniche perché il suo cuore pulsa, così come pulsa il cuore di un paese che non è affatto morto. Roberta Colazingari

GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI LE MIE DUE PATRIE 4° Premio Città di Pomezia 2012, Il Croco, I quaderni letterari di Pomezia-Notizie Dice bene nella Prefazione alla raccolta di poesie della Guzzardi, Domenico Defelice: "La poesia di Giovanna Li Volti Guzzardi non e' lambiccata, a volte, anzi, appare fin troppo semplice. Semplicità che deriva dalla commozione di un animo strattonato da due amori, che non ammette troppa riflessione e belletti formali, nessuna affettazione". La Nostra poetessa ama l'Italia, in particolare la sua Sicilia; ma ama anche l'Australia, Melbourne, dove vive da molti anni con la sua famiglia. I due amori sono forti, evidenti nei suoi versi. Il primo riflette la nostalgia per il paese lasciato; il secondo, invece, riflette la sua Patria adottiva, la realtà del presente. Passato e presente che si uniscono e si allontanano spaziando come nuvole sospinte dal vento per poi unirsi, ritrovarsi, in modo da dare vita ad un discorso poetico particolare, cioè sentito e vero, sofferto come un mal di testa oppure come un grido di gioia al mattino quando si apre la finestra al primo sole! In tutto questo travaglio spirituale c'è anche l'amore per la Natura, per gli animali, per le piante, per i fiori, per la luna, per le stelle, e gli Angeli. Infatti, ne è esempio la composizione "Se penso a te" pagina 7: "Se penso a te Sicilia mia/ le lacrime diventano un mare/ e il mio cuore un aeroplano/ che vola da te all'alba al tramonto./ E ti penso e ti sento vicina,/ così vicina che il profumo m'inebria./ Oh Sicilia mia non ti posso scordare./ La mia vita è


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un giardino d'amore/ perché sei tu che mi dai il calore,/ mi dai il coraggio di andare avanti/ ed io mi cullo nei miei rimpianti." Poi, invece, la composizione "Australia bella" è piena di affetto per la sua seconda Patria: "Avevo vent'anni e sognavo l'avventura,/ ma un'avventura cosi lontana/ non l'avrei mai immaginata./ Lontano che più lontano non si può,/ agli Antipodi sono finita,/ però non me ne pento,/ è una Terra bellissima, grandiosa,/ stupenda, favolosa,/ l'Isola più grande del mondo,/ un paradiso di verde, di colori sfavillanti, " e così via! I colori della Sicilia e quelli dell'Australia formano un bel giardino dove la poetessa Giovanna Li Volti Guzzardi va a raccogliere i fiori della sua poesia. Il distacco dalla sua terra si unisce all'accettazione felice del Nuovo Paese creando armonia e spesso pure felicità. Le sue composizioni sono versi pieni di nativa sensibilità e scorrono veloci come l'acqua quando prende la discesa e finisce nel fiume più vicino alla campagna. La poesia contemporanea si è liberata da forme "schematiche" e trova più fluidità anche se qualche volta non raggiunge quei livelli del nostro mondo antico. Col passare del tempo, naturalmente, tutto si evolve attorno a noi. E come si fa a non attingere dalla nostra esistenza? La poesia è pure vita! Parte spirituale della vita. Mariano Coreno Melbourne (Australia)

DOMENICO DEFELICE ALBERI? Genesi Editrice, 2010 “Ti nascondi nel ventre dell’ulivo./ Le tue braccia alzano al cielo/ cattedrali di rami argentei/ ed io ti cerco negli incavi/ caldi e muschiosi [..]”-L’Ulivo Alberi? Sì. L’orto-Giardino, che Domenico Defelice affida al verso poetico, è un Eden terreno, fatto di originalità: il seme, la linfa, la pianta, la terra, la foglia, la crescita, la caduta. Il foglio di cellulosa ha in sé la pianta e la poesia è quindi piccolo orto terreno. Alberi? Sì. L’orto-Giardino, che leggiamo, può parlare e respirare, e muoversi e amare, e morire e mancare. Siamo forme di legno e di terra e abbiamo sembianze di frutto o d’albero. Se il vento soffia, noi ci scompigliamo e scomponiamo; se il sole splende, noi brilliamo e proviamo sentimenti che la notte può adombrare, come foglie spente. Siamo un orto-giardino.

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“Lasciamo che l’arcano ci possieda”-L’OrtoGiardino Quanto più il lettore ha tra le mani “Alberi?” tanto più la risposta si allontana. Il crine è così sottile e indistinguibile, che non solo non viene alla mente la risposta, ma sorgono piuttosto domande. Sapeva, la mela, di avere del sangue? E, L’Ontàno, di parlare d’amore? E Cinzia e Belinda e Armida sapevano di possedere muschio, succo, d’essere “pispole gialle”? Defelice ha un orto-giardino nel quale respira profumi di donne, che sono anche alberi o profumi di alberi, che sono anche donne. La forma dell’uno nel carattere dell’altro. Quale forma più dolce e più amara di porre l’anima di un passato in qualcosa che sempre cresce nel presente. Una forma buona, che porta frutto, che rilascia ossigeno. E così “alle carezze/ la ginestra s’accende/e ti profuma”, “Il pesco intenerito/ a te somiglia”, “ il cuore tenerello del sambuco/ [..]in gemme la traduce”. Cos’è, dunque, l’orto? Dove stiamo camminando, di cosa ci stiamo sporcando le scarpe e le mani? Siamo nella terra della vita e camminiamo con i piedi sporchi di sentimento e le mani graffiate dalla corteccia irraggiungibile delle cose. “Solitario anelo/ la terra meno asfittica e rapace”, scrive l’autore mentre sta seduto, o passeggia, tra i suoi Alberi-Donna. Non c’è struggimento lirico, è assente il ridondante dolore, ma sono entrambi presenti, struggimento e dolore, ma resi in forme caratteriali d’albero, d’edera, di frutto. Tutto è poi risultato di vita, di sole filtrato tra le foglie, di richiami d’amore ridente, di vie di tatto che salgono su cortecce che sono corpi giovani e arditi. La terra asfittica e ciò che sta fuori all’ortogiardino, cosa sta fuori? Noi, che non sappiamo d’avere le caratteristiche di alcun albero, che non ricordiamo d’avere edera e linfa dentro alle vie del petto e che non sappiamo di muoverci come foglie, fugaci e autunnali, che facciamo rumore e distruggiamo l’Eden terreno, che ci perdiamo in inezie e dimentichiamo di annaffiare anche solo i nostri vasi. Defelice canta all’amore, alla giovinezza, alla donna tutta, nel percorso fecondo della sua vita, canta ciò che è genuino, l’impulso generante, lo spontaneo stupore, con una leggerezza quasi di vento. Sembra d’essere il Castagno imperscrutabile “Salivo quasi al buio/ senza scorgere il fondo né la cima,/ sì cupo ed intenso era il tuo fogliame[..]”, o il giovinetto/la giovinetta Giuggiolo “ Piccoli e colorati di pudore,/ più nòcciolo che polpa/ un quasi


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niente conturbante/ come i tuoi baci[..]e, in fine, ci appare d’essere come il Melo “Quest’albero è mio/ braccia contorte e dolci/ a sé mi stringono, non vedi?[..]” Tutto questo, per enigmatiche similitudini - cosa è il muschio? Cosa il polline? –, che pongono, nella cosa naturale, la cosa caratteriale della donna, che l’ albero ha in sé. L’esperienza esterna nella cosa ferma, la cosa ferma che dura nel tempo e nel ricordo. La Sua poesia sorride leggera, non è mai pesante, né mai invade il passo del lettore che cammina nel giardino, non urla mai, non interrompe i rumori del respiro – del petto? O del vento? O della chioma dell’albero? -, eppure rimane sulle labbra proprio come il sapore di una ciliegia, come la sensazione che resta sulle dita una volta passate su di una corteccia. “Nell’alveo del tuo seno/ di Pario/ al sole che piano piano se ne muore/ la mente mia s’estenua/al rodìo dei grilli/ mistica ed ancestrale litania [..]/ Ora/ il cupo arancio/ ci nasconde, Ofelia/ e i frutti sono turgide coppe./ Brindiamo!/ La tua pelle ambra trasuda./ Crollato è il ponte, tagliata ogni fuga.” Che Alberi siamo? Dov’è il nostro orto? Aurora De Luca

ANTONIA IZZI RUFO PAESE 3° Premio Città di Pomezia 2013 Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 Leggo le ventiquattro poesie della silloge della poetessa Antonia Izzi Rufo, e cerco dei rimandi all’ esterno ma ne rimango deluso, perché questa raccolta non guarda fuori per raccontare ciò che accade nelle strade, nelle piazze dei paesi, ma è lo specifico del paese che occupa il cuore della Poetessa. Questa silloge nasce, per riannodare i fili di quello che si aggroviglia nel cuore di ognuno pensando alle proprie radici. I bordi, le linee che marcano questo percorso sono la ricerca, la paura, le scoperte, l’ amore, il vissuto, il tempo, la maternità, il riassunto poetico di anni interi passati tra suoni e rumori del borgo amato. Celebra, anche, lo splendore di una natura per fortuna ancora intatta. Si storicizzano, quasi a cristallizzarsi nelle liriche della Izzi, i suoni, i rumori, tutti gli attimi vissuti: e non solo. C’è, come già sottolineammo, nella poetica della Izzi una nostalgia non per un passato da rimpiangere, ma piuttosto per un presente vago, effimero, veloce a tal punto da non fare più ricordi:

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respiri il silenzio, estenuante, la noia, ti chiedi s’è il caso di fare qualcosa per colmare il vuoto che dentro ti porti ….. Il suo sguardo sul PAESE sembra quasi quello di uno spettatore sgomento e malinconico, prigioniero di “cinerea solitudine”. Ma in fondo non è così, anche perché la memoria ricostruisce scene e situazioni con il preciso scopo di verificare se tutto è ancora allo stesso posto, se tutto segue il ritmo, anche se lento, di sempre non ostante il passare del tempo: respiri ottimismo insieme a frescura d’ossigeno e non altro ascolti … Ritrovo ancora una volta in questa silloge la peculiarità principale della poetessa Izzi: quella di essere una grande narratrice della natura. Questa silloge è di una bucolicità intensa, a tratti struggente. Il rimando migliore è la lirica NATURA, nella quale in venticinque versi cuciti così bene tra loro, troviamo descritti in modo sublime le quattro stagioni. Se non basta per convincersi che Antonia Izzi Rufo è poeta bucolico, basta partire dalla prima poesia e con grande attenzione soffermarsi ai continui richiami che vengono dalle ventiquattro liriche e si scoprirà il profumo del freddo, dell’erba fresca, dei muri delle antiche case. Si materializzeranno mele, pere, broccoletti. Si sentiranno l’odore della menta, del rosmarino, dell’origano. Il paesaggio nella lettura si colorerà di verde, dell’oro del sole, del colore dei fiori di ogni genere. Gli antichi suoni, a differenza dell’uomo, non sono cambiati: sono sempre gli stessi “i trilli tra i rami”; l’alternarsi dei passi sul selciato; “il rombo ovattato della corriera”. La ricchezza dei trasalimenti evocativi è tale nel portato delle poesie-racconto, che nel contrappunto dell’investigazione introspettiva, serpeggia la convinzione che la realtà odierna sia diversa, che il Paese “va morendo”; “vuoto resta il luogo”. Tutto è diverso, silenzioso, spento. La vita nel borgo non pulsa, le luci non si accendono più nelle tante case, non c’è più “Armonia d’altri tempi”. Capitola infine anche la poetessa che nello struggimento più profondo decide di lasciare il Paese avito e, anche se con diversa motivazione, si sente una manzoniana Lucia. E nell’ultima lirica ricorre al Manzoni per descrivere il suo dolore nel lasciare la tanto amata casa, teatro delle tante felicità che le hanno riempito la vita. Ma, avverte la Poetessa, il tempo chiude una circolarità mentre l’infinito dovrà continuare a darle notizie sulla sua casa e sul suo amato Paese: … tu cielo, te luna,


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voi stelle non saluto: vi vedrò ancora , da altro luogo, e del mio borgo vi chiederò, della mia casa … Salvatore D’Ambrosio

LUCA CIARROCCA I PADRONI DEL MONDO Formato Brossura, Editore Chiarelettere 07/11/ 2013, pagg 242, € 13,90 €, ISBN: 13-978- 88 6190-390 -6. Luca Ciarrocca si interroga sui padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni. Un club esclusivo di poche migliaia di persone, non elette democraticamente, che decide i destini di intere popolazioni, in grado di manipolare i mercati finanziari e di imporsi sulla politica e sugli Stati. Il libro è composto da un introduzione, da 12 Capitoli, distribuiti in quattro parti, e da un’ Appendice. Chi sono, come agiscono e quali obiettivi hanno i banchieri - i famigerati bankster - che guidano i giochi delle banche centrali e vivono sulle spalle della classe media e dei ceti più poveri? “Bankster” è un neologismo, considerato tabù in Italia, nato dalla fusione di banker e gangster, ma comparso perfino su una copertina di “The Economist” nel luglio del 2012. Il libro di Ciarrocca riesce a mappare il genoma della finanza mondiale attraverso la rete di società finanziarie e industriali che di fatto controllano l'economia mondiale, e ne denuncia la pericolosità. Ecco come i grandi istituti commerciali azionisti delle banche centrali, innanzitutto la Federal Reserve e la Bce, riescono a veicolare le informazioni e a tirare le fila del capitalismo mondiale. Il prezzo di materie prime, azioni, obbligazioni, valute, non è frutto di una contrattazione libera, quella è solo una messa in scena. La realtà è ben diversa: sono i bankster a condurre il gregge dei piccoli risparmiatori e dei contribuenti, complici le agenzie specializzate come Moody's e Standard & Poor's e i governi loro alleati, pronti a scaricare sulla collettività il peso delle crisi e l'onere di generare nuovo cash. Come uscirne? La proposta c'è, e l'autore ce la illustra. I cittadini sarebbero finalmente svincolati dai diktat della finanza, e i governi non dovrebbero più cedere il potere di creare moneta. Una rivoluzione dalla parte della gente che lavora e dell’economia reale. La prima Parte del libro tratta di “Troppo grandi per fallire”, che tradotto in inglese è “Too big To

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Fail”, acronimo Tbtf. Cosa sono? Sono le megabanche mondiali, che a metà settembre del 2008 sono state sul punto di fallire, come la Lehman Brothers: nel giro di 180 minuti, ripeto centottanta minuti i nove più potenti banchieri del mondo hanno sottoscritto documenti per cui venivano vendute tutte le azioni bancarie al Governo degli Stati Uniti, pena un’apocalisse da terza guerra mondiale!! Cioè in pratica tutte le Banche, che erano private, venivano statalizzate! La gestione delle banche spesso è spregiudicata con il finanziamento dei Partiti sia negli Stati Uniti che in Europa. Le Banche si comportano in modo sempre più spregiudicato in quanto sono assicurate in caso di fallimento dai relativi Governi. Bill Clinton nel 1999 ha abolito il Glass-Steagall Act, creato nel 1933 dopo la Grande depressione dovuta al crac di Wall Street del 1929: è un legge bancaria per separare le attività a rischio da quelle non a rischio. Altra grande truffa è quella del Libor, che è un tasso variabile fissato a Londra, calcolato giornalmente dalla British Bankers' Association in base ai tassi d'interesse richiesti per cedere a prestito depositi in una data divisa (tra le altre, sterlina inglese, dollaro USA, franco svizzero ed euro) da parte delle principali banche operanti sul mercato interbancario. Il tasso veniva artificiosamente variato dalle banche, che in tal modo hanno potuto ricavare miliardi di dollari di profitti illeciti. Nella seconda Parte “Il lato oscuro del capitalismo” viene trattato un sistema bancario “ombra”, che al momento fagocita oltre un terzo dei capitali in circolazione nel mondo e che ha esercitato un effetto volano nella crisi finanziaria del 2008. Questo universo bancario parallelo ha toccato nel 2011 la cifra di 67 trilioni di dollari a livello globale. Queste somme sono relative a denaro sporco, fonte di attività illecite (droga, tangenti, ecc…) e a capitali frutto di evasione fiscale, esportati nei paradisi fiscali, con la complicità di varie banche. Il capitalismo è marcio e accanto al mondo ufficiale ne esiste un altro, parallelo e fantasma, dove per la maggior parte dei cittadini le leggi non hanno valore, anzi sono sistematicamente infrante. I capitali offshore sono lasciati passivamente per fruttare interessi parassitari a tutto vantaggio dei loro proprietari, anziché essere impiegati nell’economia reale. Gli investimenti con denaro sporco causano anche la sopravalutazione degli immobili (ad esempio un monolocale di 60 mq a Manhattan costa 3,9 milioni di dollari!). Di qui, la provocazione. Perché la Nato con mandato Onu non si presenta con una flotta davanti alle coste delle Cayman, delle Isole Vergini, delle Bahamas e in tutti gli altri paradisi fiscali per imporre


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uno scudo fiscale di almeno il 30 – 40 per cento sui fondi occultati? Tali somme restituite servirebbero a ripianare i debiti pubblici e a colpire corruzione, evasione e mafie, abbassando in tal modo la pressione fiscale rilanciando consumi e investimenti a livello mondiale, invece dei prelievi forzosi sui conti correnti (caso Cipro). Utopia? Altro fatto inquietante: la Germania a febbraio 2013 aveva deciso di rimpatriare circa 36 miliardi di dollari in lingotti d’oro depositati negli Stati Uniti e in Francia. Ciò fa presumere che la Germania vuole fronteggiare un’altra possibile e futura crisi finanziaria ben peggiore di quella del 2008, avendo l’oro in casa sua! Il Presidente degli Stati Uniti ha la possibilità di intervenire sulle questioni finanziarie, e tale potere è equivalente alla possibilità di poter azionare le testate nucleari. Come ultimo argomento della seconda parte viene trattato il problema dei derivati, che furono la principale causa scatenante della grande crisi del 2008 e che potrebbero catalizzare la prossima apocalisse finanziaria globale. In linguaggio tecnico- finanziario trattasi dei cds: “Credit default swap”, che nel mondo valgono in totale l’incredibile cifra di 637 trilioni di dollari, cioè circa 10 volte il PIL mondiale! Nella terza parte “Addio capitalismo guasto” ci si interroga di come l’economia così drogata sta minando i vari sistemi democratici e come uscirne fuori, come con la cancellazione quasi utopica della cancellazione del debito. La storia in tal senso è ricca di esempi, come quello dell’ateniese Solone che, nel VI secolo a.C., annullò il debito degli agricoltori per dar loro sollievo finanziario in fase di crisi economica, di Mosè e altri ancora…Comunque risulta un’opzione quasi utopica, perché se si abolisse il debito, nessuno ti potrà fare credito in futuro! Altra soluzione per uscire da questa impasse sarebbe la svalutazione dell’euro in modo da favorite l’ esportazioni dalla Ue, ma produrrebbe un costo più alto delle importazioni. Altra soluzione è quella di ristrutturare il debito italiano, allungando le scadenze delle cedole e diminuendo il relativo importo, in modo da poter finanziare la ripresa. In ogni caso bisognerà impedire il default dell’Italia, in quanto ciò avrebbe ripercussioni nella finanza mondiale. Roberto Orsi, ricercatore della London School of Economics, un centro studi dell’economia più autorevoli d’Europa, afferma che il tempo è scaduto e che un’azione radicale va fatta subito, entro il 2014. Il crollo delle finanze dello Stato Italiano si sta avvicinando rapidamente. La quarta parte di questo libro “Ecco ora che fare”, suddivisa in due Capitoli: “Positive Money: la soluzione” e “La riforma del sistema bancario” propone la soluzione all’apocalisse, appena descrit-

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ta. Non esiste alcuna giustificazione per non perseguire le riforme e i cambiamenti proposti da Positive Money, che costituiscono un beneficio per la maggior parte dei cittadini e provocano conseguenze negative soltanto a una minuscola elite di potere: quella che oggi è padrona del mondo. Tralascio la descrizione, se pure sommaria, di questo finale per non togliere al potenziale lettore di questo libro l’ effetto sorpresa. L’Appendice “La storia al di là della leggenda” tratta della nascita di questo capitalismo in una riunione segreta di banchieri dei Morgan e dei Rockefeller nel 1910. Infine, è presente un’ampia bibliografia: cito fra i più significativi, ad esempio, il libro di Jackson, Andrew e Dyson, Ben, “Modernising Money”, Positive Money, Londra 2012. Gli argomenti trattati in questo libro possono essere approfonditi sul web in vari siti, ad esempio, cito: www.wallstreetitalia.com Questo libro è purtroppo una spietata descrizione dei mali che affliggono il capitalismo, che governa l’Europa e tutto il mondo. Bisogna essere informati per capire il nostro futuro e quello dei nostri figli e nipoti. Consiglio vivamente a chiunque questa lettura! L’Autore Luca Ciarrocca è giornalista, ha vissuto e lavorato molti anni a New York, dove nel 1999 ha fondato Wall Street Italia, sito indipendente di economia, finanza, politica e news. Nel 1997 ha vinto il premio di giornalismo "Premiolino", candidato dall'Ansa "per aver battuto sul loro stesso terreno le potenti agenzie di stampa americana. Ha pubblicato il libro “Investire in tempo di guerra” in cui si racconta la mattina dell’11 settembre 2001, quando Wall Street Italia ha dato per primo al mondo la notizia dell’attacco dei terroristi di Al Qaeda ai grattacieli del World Trade Center. Giuseppe Giorgioli

ANTONIA IZZI RUFO PAESE 3°Premio Città di Pomezia 2013 Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 Prezioso libretto questo di Antonia Izzi Rufo, pieno di contenuti, dedicato al suo Paese. Questa donna racconta come era il suo paese ed ora non è più come lei lo amava. Accorata sinfonia di rimpianti, la solitudine l' accerchia e nulla regala se non lo sconforto per l' abbandono da parte di tutti gli abitanti. Il Borgo si è quasi estinto.


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Il risveglio attraverso il nuovo stato d'animo della poetessa; sopratutto avviene nei pomeriggi di sole, ecco gli anziani uscire per respirare l'aria pura del Borgo, anche se rimane l'angoscia per il ricordo dell'Ospedale che purtroppo segna alcuni di loro. Anche la Poetessa passeggia e ritrova i suoi amici … i gatti, i cani e gli uccelli che allietano la sua uscita pomeridiana, riempiono il vuoto lasciato dai giovani andati via per altri lidi. Rivede i suoi pianori , i suoi monti : Monte Marrone e monte Castelnuovo colmi d'incanti, che riscaldano il cuore di Antonia, ricorda il gallico pittore Charles Moulin il quale regalava le sue opere ai paesani. Solo la ”Natura” non tradisce mai come si evince da /Natura/ pag. 15... /all'alba e al tramonto/ ed ovunque/ a creare emozione/ ed ispirazione/ manda Poesia/vestita d'incanto. E poi si la festa per i personaggi che arrivano ai cent'anni, si fa festa in piazza, si scherza, si suona ed infine si balla tutti insieme. Dove la bellezza dei campi profumava l'aria e i suoni degli animali riempivano tutto il paesaggio, ora si odono rombi radi di veicoli, rimane il rimpianto del tempo svanito. Armonie d'altri tempi per l'Autrice sempre più triste, da “Armonia d'altri tempi” ...Ora, di sera,/il silenzio s'impone/ sovrano nel buio,/spenta è ogni finestra/ e un cimitero/ il borgo appare. L'Autrice si congeda con un addio ai suoi monti ed alla sua casa. Ritorneranno i bei tempi forse quando nel nostro cuore rifiorirà la speranza di nuova vita, cosicché anche il paese rivivrà giorni felici in comunità con vecchi e bambini per un lungo cammino. Alla Poetessa un plauso per la bella silloge intrisa di significati veri e duraturi. Adriana Mondo

DANIELA DE ANGELIS LA NASCITA DI POMEZIA Testimonianze orali e fonti d’epoca Gangemi, 2013 Daniela De Angelis ci presenta il volume “La nascita di Pomezia – testimonianze orali e fonti d’epoca” (Gangemi Editore, 2013, pagg. 192), un’importante opera riguardante il periodo successivo alla bonifica dalla malaria nell’Agro Pontino (1939-’40) ed il conseguente inserimento – stabilito dal Fascismo (l’ONC) - dei “coloni” adibiti alla coltivazione dei terreni bonificati. L’intento di allora fu – prima dell’approssimarsi dell’ormai temuta guerra – di far rimpatriare dall’

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Estero (Francia, Romania, Jugoslavia, Belgio, Albania, Corsica) gli Italiani colà emigrati, fornendo lavoro ad essi e anche alle famiglie alluvionate della Romagna e del Veneto. Altro motivo era pure l’ integrazione fra Italiani del Nord e del Centro Italia (non fu possibile comprendere anche il Sud Italia, perché i fondi economici, ad un certo momento, erano finiti). A Pomezia, come nelle cinque nuove città pontine, si fece l’esperimento di un tipo di “nuovi mezzadri”, intermediario fra costoro e i latifondisti era lo Stato che provvide alle maggiori spese. Se i poderi (tutti numerati) vennero assegnati comprensivi di casa, stalla, animali, pozzo e masserizie, però i coloni vivevano in condizioni durissime (dipendevano dai latifondisti) ed erano isolati, per mancanza di strade. Ma i legami famigliari erano solidi, e il grande punto di forza erano il possesso della terra, a riscatto, e l’ereditabilità ai figli. Le donne erano prolifiche e davano “figli alla Patria”, secondo il dettame fascista che premiava i nuclei famigliari numerosi. Le terre coltivate, piano piano divennero molto fertili. Negli anni ’60-’70, con l’avvento dell’ industrializzazione, favorita dalla Cassa del Mezzogiorno, le donne iniziarono a lavorare in fabbrica. Molti coloni vendettero parte del terreno alle industrie o alle imprese edili per costruire nuove abitazioni necessarie al nuovo flusso migratorio. Attualmente, la maggior parte dei casali sono diventati villette, e le stalle, garage. A Pomezia – ora zona di collegamento fra l’Eur e la pianura Pontina – è carente il senso di appartenenza e i giovani non conoscono le origini di questa loro città. Le interviste qui riportate – una trentina - riguardano i discendenti dei primi coloni e sono stati scelti a campione fra le persone più rappresentative. Annoto alcuni intervistati: Attilio Bello - la cui famiglia di origine friulana ha abitato a Pratica di Mare prima che Pomezia fosse costruita – sindaco a più riprese e sempre presente in ambito Comunale, ci fa presente che questa zona è stata dapprima agricola, poi industriale, ed ora è un centro di servizi. Pietro Guido Bisesti - l’attivo responsabile dell’ Associazione Coloni – proviene da una famiglia trentina, emigrata qui dalla ex Jugoslavia. Lorenza De Giorgio vuole ricordare il padre Agostino, primo medico di Pomezia, esperto nella cura della malaria, il quale dal ’35 al ’92 vi ha prestato servizio anche come Ufficiale sanitario. Pure Irene Bassanetti fa presente il padre, Pietro, proveniente dalla Francia, ma originario di Brescia


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che è stato sindaco, assessore e sempre molto impegnato nella politica locale. I progenitori del costruttore Goffredo Casadei sono nativi della Romagna, così i Saetti che però, come i Locatelli (Lombardi) sono venuti dalla Francia. L’Autrice ha poi intervistato Onda Di Crollalanza, figlia del Ministro del Lavori Pubblici del tempo, che ha permesso all’architetto Petrucci di realizzare il suo progetto su Pomezia. Questo libro è molto importante perché fa conoscere dal vivo la storia, pure se recente, di Pomezia. Maria Antonietta Mòsele

ANTONIA IZZI RUFO PAESE Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2014 Antonia Izzi Rufo è ben nota nell’ambiente letterario e con questa sua nuova silloge, che ha meritato il 3° premio Città di Pomezia 2013, ci propone un ambiente particolare. “Il paese” è un luogo da lei molto amato, un luogo certamente ricco di ricordi e di emozioni. Forse proprio per questo, ora che gli anni sono passati e hanno cambiato l’ atmosfera di un tempo, la poetessa non può fare a meno di presentarlo come un luogo desolato “…in estinzione / è il piccolo borgo …”. D’altronde, gli anni sono passati anche per lei “…e non riesci ad agire / né a pensare: / col paese, anche tu, / vai morendo.”. In tutta la silloge, infatti, serpeggia una grande malinconia, anche se il tono talvolta si ravviva e nel borgo appare qualche presenza che rianima l’ ambiente con il lavoro quotidiano, così voci e rumori riempiono l’aria. Prevale in ogni modo una grande solitudine, un vuoto colmato solo dagli animali che si aggirano per il paese “ E’ bello avere amici / cani gatti uccelli: / colmano il vuoto / dei giovani andati altrove / in cerca di lavoro.”. Antonia Izzi Rufo ci regala dei versi straordinari quando descrive la bellezza della natura che circonda il paese, quasi un ambiente paradisiaco. Originale pure la decisione di far parlare gli stessi monti: Castelnuovo, Marrone e addirittura le Mainarde, così da ricreare il trascorrere della storia con le sue verità e leggende. La memoria personale prende comunque il sopravvento e la poetessa non può dimenticare il tempo nel quale il paese era ricco di vita “ I cinque negozi d’alimentari / facevano affari. /Era aperto ogni dì / l’Ufficio Postale, / le scuole-ora chiuse - / erano affollate, / mai deserte le strade.”, e quando

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il suono delle zampogne accompagnava ogni periodo dell’anno. Al paese ora resta solo un giorno dell’ anno “Nell’ultima domenica di carnevale, / di solito alla fine di febbraio, / si rianima il borgo / e non sembra quello di sempre.”, un giorno solo che riporta un’allegria perduta. Ciò che pesa ancor di più nel cuore di Antonia Izzi Rufo è il ricordo della sua casa, il momento che ha dovuto abbandonarla “Arriva per tutti, /”serius otius”, il “momento d’andare”, /lasciarti paese!”; e ancora“…rifugio costante, / dei nostri depositaria / segreti, / parte è diventata di noi, / dei tesori / dell’animo nostro, / dolore ci costa / abbandonarla, / pianto e rimpianto.”. Una raccolta, quest’ultima, ricca di ricordi e nostalgia. Dei versi sinceri, carichi d’amore per il luogo e di dolore per il tempo, inesorabilmente passato, che coinvolge appieno il lettore. Laura Pierdicchi

ORNELLA SARDO LE CENERENTOLE DEL MONDO Edizioni Edup, 2011 - € 16,00 Eco un libro adatto ai nostri tempi: una raccolta di dieci versioni della fiaba di Cenerentola, di cui la versione francese, a firma C. Perrault, è stata resa immortale dal lungometraggio animato di Walt Disney. Provenienti dai quattro angoli del mondo, queste versioni mostrano e dimostrano, una volta di più, che il mondo era già nella fitta rete di Internet secoli fa… mercé mercanti come Marco Polo ed esploratori avventurosi come Vasco De Gama (solo per citare due celebrità assolute, fra le tantissime) che, a furia di girare il mondo, recavano storie di casa loro all’estero… oppure facevano il contrario! La differenza con oggi è che la Cenerentola irachena, Il pesciolino rosso, ci metteva da tre a sei mesi per giungere a Parigi o a Londra (una volta si andava a cavallo, a cammello, a piedi o su nave), mentre oggi bastano trenta secondi mercé quella buffonata informatica a nome Bill Gates! Ma l’umanità ci ha guadagnato davvero, aumentando la velocità di spostamento? Agli altri lettori, l’ardua sentenza. Notiamo invece come non valga affatto la pena di girare il mondo, neppure attraverso i libri (come ho fatto io, pigrone professionista) per conoscere genti differenti da noi. La prova? La Principessa e la scarpetta d’oro (Scozia) è una sintesi fra Biancaneve e La piccola guardiana d’ oche, ambo inserite nella raccolta Le fiabe del foco-


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lare (f.lli Grimm). Il fratello Montone (Armenia) è una sintesi fra Fratellino e Sorellina (fratelli Grimm) e Belmiele e Belsole (fiaba popolare italiana). Non andrò oltre per non tediare i lettori. E, inoltre, la cosa si commenta da sé. Un libro che va proprio bene per i tempi odierni, sempre più ignoranti, mediocri e banali. E corredato con acquerelli, a firma di Marinella Letico, che più brutti di questi non ne avevo mai visti! Sembra un film di tinto Brass, questo libro (un tipo di film qualificato osceno, in cui l’unica cosa oscena è… il prezzo del biglietto!). Ma, come sempre, è solo il mio modesto parere. Fatevi la vostra idea e buona lettura. Andrea Pugiotto VINICIO ONGINI/CHIARA CARRER LE ALTRE CENERENTOLE Il giro del mondo in 80 scarpe Simons editrice, 2011 - € 15,00 Questo volumetto è stato stralciato da un’opera più vasta, che reca il lettore in giro per tutto il mondo attraverso le scarpe più diverse, sulle tracce di Cenerentola. Una Cenerentola sempre uguale e sempre diversa che, di volta in volta, indossa pianelle, sandali di sughero, zoccoletti d’oro, scarpine di vetro, eccetera eccetera. Ce n’è davvero per tutti i gusti, come si dice. Come assaggino dell’intera opera non è male, ma è anche evidente però che ogni Paese del mondo è stato influenzato, direttamente o indirettamente, da culture aliene, recate colà dai mercanti, sempre in viaggio per affari. Una volta ci si spostava di persona ed oggi basta una telefonata. Quale dei due è il mezzo preferibile per trattare un affare o… raccontar fiabe? Fiabe che, in definitiva, erano, fino all’anno 1701 (primo del XVIII secolo), giochi per adulti, da leggere in salotto, fra una tazza di tè ed un savoiardo, o a veglia, nelle osterie o nelle stalle, prima di andare a dormire. Oggi abbiamo la tv, con 50.000 repliche, durante lo stesso anno, delle stesse puntate noiose di programmi idioti. Ieri c’erano le varianti su tema della stessa storia. Siamo sicuri che il mondo sia cambiato, facendo passi avanti? Comunque, non è un testo troppo malvagio da leggere. Quanto alle illustrazioni a commento dei testi… lascio il giudizio a chi leggerà questo testo dopo di me. Io sono nato in anni in cui arte e Buon Gusto trionfavano. Andrea Pugiotto

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ANTONIA IZZI RUFO PAESE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 Antonia Izzi Ruffo, con l’abilità di riconoscere il negativo nel presente, offre al lettore in pochissimi versi il ritratto di un paese con “vita spenta”, “strade deserte”, “estenuante silenzio”, “noia” (p.4) e solitudine che diventa più agghiacciante quando si subisce “in preda all’indolenza” (p.4). Improvvisamente, quasi per incanto, l’occhio si apre, attraverso i vetri della finestra, all’esistenza e alla rivelazione della natura. Nel godimento assorto delle cose, riemergono luoghi ed eventi vissuti in un passato più o meno recente: la festa del paese, i suoni e i rumori del borgo, gli animali amici, i montanari e gioisce anche il presente con l’invitante voce del fruttaiolo, “il coro giulivo degli uccelli” (p.6), i centenari festeggiati da anziani, giovani e bambini. A tutto questo “brio” si contrappone, ancora una volta, l’altro versante del presente, dove quasi personificati “aleggiano nell’aria silenzio e solitudine” (p.10) e “un cimitero il borgo appare”(p.20) col “rimpianto d’un tempo svanito” (p.18). Nel divario tra le immagini rievocate e la realtà del presente, l’acuta nostalgia non turba l’umanità dell’autrice, la quale collaudata da profondi sentimenti, che resistono alla prova degli anni, guida la mano ed il suo cuore in uno stato di dialogo con se stessa, con gli altri e la natura, perché il “Paese” è il luogo dell’anima con la presenza costante della gioia e del dolore, della luce e delle tenebre, del frastuono e del silenzio amico e sognante. Lo stile chiaro ed efficace rende piacevole la lettura. Innocenza Scerrotta Samà

AVRÒ OCCHI D’ANIMA M’assale un dubbio. Allora che il mio corpo si solverà nel tetro della terra e non avrò più occhi per vedere, come godrò le eterne meraviglie del nuovo mondo che mi fu promesso, oltre i voli silenti di rapaci, oltre i superni tetti del pianeta, ben oltre il cielo su di me sospeso? Ebbene, avrò occhi d’anima, lo sento; pupille intente a voli sensoriali, vive d’intelligenza ed appagate


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da immagini, visioni e da prodigi, trasalimenti edenici e stupori. L’apparizione, sempiterna grazia, gioirà l’approdo senza più ritorno. Serena Siniscalco Aprica, settembre 2013

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE Centro Sportivo Ettore Rufo - Domenica, 23 febbraio, alle ore 17, a Castelnuovo si è svolta la cerimonia d'inaugurazione del "Centro Sportivo Ettore Rufo". Alla presenza di autorità politiche e civili e di gran parte della popolazione del luogo, è stata scoperta una "Targa" dedicata al Politico scomparso tre anni or sono. Diversi gli interventi. S'è parlato dei "politici di una volta", i quali, indipendentemente dalle individuali ideologie, e senza retribuzione alcuna, operavano in stretta collaborazione per realizzare opere di miglioramento dei propri territori e favorire l'occupazione . E' stato lanciato un messaggio di stimolo ai giovani perché seguano il loro esempio e riprendano le attività costruttive, interrotte da tempo, dei loro predecessori. Così la Signora Antonia, moglie del Defunto: <<Cinquant'anni fa, i giovani di Castelnuovo non avevano un campo sportivo...Fu Ettore Rufo ad impegnarsi per farlo costruire a spese sue... Fu realizzato in breve tempo...Furono organizzati tornei, svolte molte partite di calcio... Grande affluenza di pubblico...Fu, quello, il "periodo d'oro" del paese>>. Antonia Izzi Rufo *** RIMPIANTO PER L’ANDRENACCI - E-mail

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del 28 febbraio 2014 da Giorgina Busca Gernetti: Gentilissimo Domenico,/ho allegato la versione nuova e definitiva del mio scritto sul Minotauro (...). Un caro saluto Giorgina P.S. - Ho letto che anche Silvana Andrenacci Maldini ci ha lasciati per un mondo migliore. Aveva recensito la mia silloge "L'anima e il lago" con acuta sensibilità critica. Ad uno ad uno se ne vanno tutti come le foglie d'autunno. Riposino in pace. *** UN SORRISO DI ARSENICO - Domenica 16 marzo 2014, presso la Libreria delle Donne, in via Fiesolana 2B, a Firenze, la nostra amica pittrice e scrittrice Adriana Assini ha tenuto una conferenza su “Un sorriso di arsenico”, la storia di Giulia Tofana, la bellissima fattucchiera vissuta nella prima metà del Seicento, e del micidiale veleno da lei messo a punto per le donne malmaritate. A introdurre è stata Milly Mazzei. Pubblico qualificatissimo e numeroso. *** BANDO PREMIO NAZIONALE 2014 - POESIA EDITA - Leandro Polverini con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Città di Anzio Possono partecipare libri editi di poesia in lingua italiana. Tema libero. Spedire una sola opera in 2 copie – di cui una firmata dall’autore – con posta normale non raccomandata entro il 30 settembre 2014 a PREMIO POLVERINI – via Acqua Marina 3 – 00042 Lavinio – Roma. Tel. 06/90286930 – 389/5468825 – indirizzo mail: editotem@mclink.it Sulla busta di spedizione va scritto PIEGO DI LIBRI (tariffa postale euro 1,28) I PLICHI RACCOMANDATI NON SARANNO RITIRATI. Le opere dovranno essere accompagnate da una lettera su cui sono chiaramente indicati: nome – cognome – indirizzo – recapito telefonico dell’autore e mail. Opere ammesse: libri di poesia – di autori viventi – editi in Italia da gennaio 2000 a settembre 2014. Sono ammesse anche opere stampate in proprio o presso tipografie, che contengano almeno 30 liriche. Nessuna quota di adesione. I premiati verranno avvisati tramite lettera cartacea. Premi Ai primi dodici classificati assoluti saranno assegnate opere d’arte. A tutti gli altri partecipanti, menzionati in 19 sezioni, saranno dati attestati di merito. Sarà, inoltre, consegnata a tutti i poeti presenti alla cerimonia di premiazione una pubblicazione sul concorso contenente l’elenco completo degli Autori con cenni biografici, relativa classifica, sezione poetica, provenienza regionale. La stessa pubblicazione sarà


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consegnata inoltre agli ospiti, alla stampa e agli appassionati del settore poesia fino ad esaurimento delle copie omaggio. I vincitori sono tenuti a presenziare alla cerimonia di premiazione e a ritirare personalmente il premio. È ammessa delega al ritiro. Premiazione Domenica 30 novembre 2014, ore 10 – presso la Sala Conferenze dell’Hotel Lido Garda – Piazza G. Caboto 8 – 00042 Anzio – Roma – tel. 069870354 (convenzione speciale per i poeti che volessero pernottare). Giuria Tito Cauchi (presidente onorario); Anna Maria Di Marcantonio; Gianfranco Cotronei; Paolo Procaccini; Paola Leoncini; Renato Conti; Nicoletta Gigli (ufficio stampa); Angela Di Paola (segretaria del premio). Gli autori autorizzano la pubblicazione di stralci di poesie sulla stampa che interverrà alla premiazione. Tutte le opere spedite non saranno restituite. I partecipanti accettano tutte le condizioni del presente bando. *** NUOVI COLLABORATORI - Themistoklis Katsaounis è nato nel 1988 ad Atene. Oggi abita in Chalchidica. Studia all'Università Aperta Greca al Dipartimento di Civiltà Europea. I suoi quattro libri pubblicati sono: -2004 ''Verso tutte le Direzioni'' (raccolta poetica); -2007 ''Lettera ad un amico sconosciuto'' (raccolta poetica); -2009 ''La Bestia'' (novella); -La sua raccolta poetica (in forma di prosa) pubblicata nel 2012 ''Paesaggi Immensi dell 'Afflizione'' è stata tradotta dalla scrittrice Giorgia

Chaidemenopoulou ed è stata pubblicata dalla casa editrice italiana Aletti Editore nel 2013. Questo libro è stato anche tradotto e pubblicato nella lingua albanese e verrà tradotto in questi giorni anche in tedesco. Sono state realizzate presentazioni e critiche sui suoi libri in vari giornali della Grecia, di Cipro e dell'Albania. GIORGIA CHAIDEMENOPOULOU - E’ greca, di Salonicco. Si é laureata nel 2008 a pieni voti nella Lingua e Letteratura Italiana all’Università Aristotele di Salonicco. Dal Settembre del 2012 frequenta il corso post-laurea con specializzazione: ‘’Letteratura – Civiltà’’ nello stesso dipartimento. Lavora come insegnante d’italiano e di spagnolo. ''Un Cubo di Fiabe'' é la sua prima raccolta di fiabe che ha vinto il primo premio al Concorso Panellenico Letterario ‘’Sikeliana 2011’’. La sua fiaba ‘’La Fonte della Conoscenza’’ ha vinto il primo premio al Concorso Panellenico dell’Associazione di Scienze e di Arte di Keratsini ed è stata inclusa nel 26esimo volume


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dell'Enciclopedia Letteraria ''Chari Patsi''. Inoltre, é stata premiata per le fiabe “La Speranza della Natura”, “La gara di Nichi”, ‘’Negli anni bizantini…una fiaba reale!’’.Collabora con varie riviste letterarie in cui sono state pubblicate alcune delle sue poesie. E' stata premiata per una piccola raccolta di poesie scritte in diverse forme poetiche dalla rivista KELENO. Nel Marzo 2014 è stato pubblicato il suo secondo libro in greco (cinque favole) con il titolo ''La Fonte della Conoscenza e altre Favole''. Ha tradotto sette delle sue favole in italiano e sono state pubblicate da Aletti Editore nel 2013 con il titolo ''Sette Favole...Sette Colori dell' Arcobaleno''.Ha ricevuto una Menzione Speciale dall'Accademia Carducci a Napoli. Ha tradotto dal greco in italiano poesie del libro ‘’Nel Mare della Bellezza’’ (edizioni Vergina 2013) della scrittrice Panagiota Christopoulou-Zaloni e il libro ''Paesaggi immensi dell’Afflizione'' del poeta Themistoklis Katsaounis (pubblicato da Aletti Editore nel 2013). Ha tradotto dal greco in italiano il fumetto ''La città della vittoria'' per la battaglia navale di Azio e la vita quotidiana ad Azio, per il Museo Archeologico di Nicopoli (edizioni Lichnia, 2013). Ha tradotto dall'italiano in greco la raccolta poetica di Arjan Kallco ''La tua Immensita' m' ubriaca'' (PrintPoint, Korse 2010). Nel 2012 e 2013 ha partecipato al corso estivo dell’Università EMUNI (Literature Text Analysis for Translation) durante il quale è stato tradotto dall’italiano in greco il racconto di Paolo di Paolo “La miracolosa stranezza di essere vivi”, il racconto di Brigidina Gentile ''L'ingrediente infinito'' e la favola ''La favola di una storia''. Nell' ambito anche del corso ''Analisi di testi letterari e traduzione'' del corso post-laurea che frequenta, sono stati tradotti anche altri racconti italiani. 'E membro dell’Amfiktionia Ellenica e dell’Unione di Scrittori e Letterati Europei che risiedono a Salonicco. *** SAN GIUSEPPE DESA DA COPERTINO - Domenica 16 marzo 2014 alle ore 19.30, a Copertino (Le), presso la Sala Civica comunale in via Verdi, 13, si è svolta una serata dal titolo: San Giuseppe Desa da Copertino secondo Carmelo Bene e Gino Pisanò, un memorial con letture di opere beniane e pisaniane su San Giuseppe Desa a cura dell’attore Ivan Raganato (Scena Muta), accompagnato dal chitarrista Massimo “Max” Mura e dal clarinettista Salvatore Coppola, con proiezione simultanea del documentario di Rai 2 su Carmelo Bene a cura del prof. Gino Santoro. Presentata dall’attrice Luana Chiriatti (Scena Muta), la serata -arricchita, inoltre,

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dal duo di flauto traverso Lucia Rizzello e Luigi Bisanti che hanno eseguito brani da Gounod e Mozart e dalla consegna da parte del Sindaco della Città di Copertino Avv. Giuseppe Rosafio di una targa alla memoria di Gino Pisanò, nelle mani del figlio Attilio, docente di Diritti Umani all'Università del Salento - è proseguita con una Tavola Rotonda presieduta da esperti e amici di Carmelo Bene e Gino Pisanò. Con Maurizio Nocera, critico letterario e moderatore dell’incontro, sono intervenuti anche Alessandro Laporta, direttore della Biblioteca Provinciale "N. Bernardini" di Lecce e Alberto Buttazzo, titolare della Tipografia del Commercio di Lecce in cui si trova una linoleografia dal cliché originale del manifesto di "Gregorio": cabaret del ''900" di Carmelo Bene, stampato in occasione dell’omonimo spettacolo al Teatro Apollo di Lecce; l’attore Cosimo Cinieri, amico e storico collaboratore di Bene negli anni ’60, che, in diretta telefonica, ha portato la sua testimonianza riguardo A boccaperta, una sceneggiatura su San Giuseppe Desa da Copertino di un film mai realizzato dal geniale artista salentino; quindi Luana Chiriatti, che ha letto, oltre che brani tratti da A boccaperta e Sono apparso alla Madonna, anche due contributi: uno su Bene di Antonio Prete e l’altro sul saggio di Gino Pisanò San Giuseppe da Copertino nella letteratura del Novecento di Giuseppe Leone. In chiusura di serata, Massimo Mura, direttore artistico e ideatore dell’evento, dopo i saluti alla ex moglie di Carmelo Bene, Raffaella Baracchi, e alla figlia Salomè, ha eseguito una sua recente suite dal titolo Ultimi, brano legato al tema dei Diritti umani. Non meno importante e prestigioso del Tavolo dei relatori, il parterre della sala: assieme alla moglie di Gino Pisanò, Sig.ra Teresa e l'altro figlio Enrico, erano presenti Mario Spedicato, docente universitario, amico di Gino Pisanò, nonché autore di molti scritti dedicati al santo dei voli; Fabio D'Astore, docente dell’Università del Salento; il Dott. Gianni Stefano (Sindaco di Casarano, città nativa di Gino Pisanò); il Padre Superiore del Santuario di San Giuseppe da Copertino Padre Giuseppe Piemontese. Numerosi anche i patrocini morali dell’evento: Regione Puglia – Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo; Provincia di Lecce; Città di Copertino; Città di Casarano; Gal Terra d’Arneo; Università del Salento; Conservatorio di Musica “Tito Schipa” di Lecce; Comitato Lecce 2019; “Provincia di Puglia dei Frati Minori conventuali” Santuario San Giuseppe da Copertino di Copertino; Santuario di San Giuseppe da Copertino di Osimo; Emergency; Archivio Schipa – Carluccio; Scena Muta; Associazione O.N.L.U.S. “Don di Nanni” alias “Li Scumbenati”; Radio Voice di Campi Salentina (che


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ha trasmesso l’evento in differita); Direzione artistica a cura della Compagnia Mura di Flamenco Andaluso: direttore artistico e ideatore Massimo Mura. (G. Leone) *** L’ITALIA DI SILMÀTTEO - E-mail da Ilia Pedriana, del 18.03.2014: Carissimo, mi sono gustata tra sincere risate il tuo L'ITALIA DI SILMATTEO', VIVACISSIMA, DA LEGGERE TUTTA D'UN FIATO, per lasciare però spazio alle risate che ho fatto fragorose fino alle lacrime. Virgilio e Stanìs Nievo si terrebbero tra un vino e l'altro la pancia sbellicata da sincero e pieno divertimento.... fai venire appetito alla condotta.... unico, mio carissimo! intanto ti dico che non è arrivata nessuna email! Ilia tua divertita!

Domenico Defelice - Scaffale (1964)

LIBRI RICEVUTI ENZO D’ANTONIO - Fenicotteri - Poesie; in copertina, disegno di Giuseppe Di Mauro; Introduzione di Federico Sanguineti; “Elementi critici nella raccolta di Enzo D’Antonio”, di Antonio Vitolo Arti Grafiche Landi, Baronissi (Sa), 2014 - Pagg. 48, € 5,00. Enzo D’ANTONIO è nato a Capurso (Ba), il 28 gennaio 1955. Laureato in Medicina. Ha

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già pubblicato “Forse Amore” (2002) e “Sentiero Notturno” (2009). ** SILVANO DEMARCHI - Gioventù dorata - Poesie, Prefazione di Liliana Porro Andriuoli - In copertina, a colori, “A Childhood Idyll”, di William Adolphe Bouguereau - Ediemme - Cronache Italiane Salerno, 2014 - Pagg. 42, s. i. p.. Silvano DEMARCHI è nato a Bolzano, dove risiede, il 15 febbraio 1931. Poeta, scrittore, saggista, giornalista e pubblicista, ha compiuto gli studi liceali a Rovereto e quelli universitari alla Università degli Studi di Milano, dove nel 1956 ha conseguito la laurea in filosofia. Già professore di filosofia e materie letterarie negli istituti superiori, è stato Preside e Presidente della “Dante Alighieri” di Bolzano. In attivo sul piano culturale, è conosciuto non solo in Italia, ma anche all’estero. Membro delle Accademie: “Buon Consiglio” di Trento, “Tommaso Campanella” di Roma, “Agiati” di Rovereto, “Bronzi” di Catanzaro, “Burckard S. Gallo”, “Ligure apuana” di La Spezia, ha conseguito nel 1981 il Premio Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La sua attività si svolge nel campo della saggistica letteraria e filosofica e traduzioni dal tedesco, della poesia e della narrativa. Centinaia i volumi pubblicati. Saggistica: Il pensiero estetico di Platone (1960), Vita e poesia di Vincenzo M. Rippo (1975), Guida allo studio di Ungaretti (1976), L’orizzonte platonico dell’ estetica (1980), Valori ritmici e tonali nella poesia di C. Pavese (1979), L’esperienza estetica (1983), La parola pura - Studi sulla poesia del ‘900 (1983), La poesia di Rosa Cimino Lomus (1987), Aspetti e poeti del Romanticismo tedesco (1988), Il pensiero teosofico nella filosofia antica (1989), Il sé superiore (2009), Poesia e iniziazione da S. Francesco a Dante (1989), Di religione e di etica (2002), Oltre la soglia (2002), Luce d’Oriente (2003), Cristianesimo e Islamismo (2004), Poeti del Novecento (2005), Duecento letterario (2005), Pensiero Positivo (2005), Prospettive etico-religiose Zoroastrismo religione dimenticata (2006), eccetera. Poesia: Una stagione (1968), Gli anemoni (1970), Il paese dell’anima (1976), La luce oltre il sentiero (1981), Il senso perduto delle cose (1985), Il mito e i giorni (1989), Poesie scelte (1990), Radici lontane (1993), Echi profondi (1995), Il battello d’argento (1996), Tra il serio e il faceto (1996), Le strade alte del cuore (1995), Stupore (2000), Foglie d’autunno (2003), Luci al crepuscolo (2006), Momenti (2007), Poesie scelte - 1990-2006 (2008), Sogno e realtà (2009), Miraggi (2011), E poi la notte (2011). Narrativa: Quasi una fiaba e altri racconti (1978), Gli anni di Lucio (1981), L’incanto del bosco (1982), I frutti dell’Eden (1989), Il richiamo


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della montagna (1983), Incomunicabilità (1989), Incontri (1994), Vocazioni - racconti (1999), Racconti e aneddoti burleschi (2009), L’arco e le frecce (2009), Il lato buffo delle situazioni (2011), Occaso (2012). E poi antologie, traduzioni. Ha vinto premi importanti. ** FORTUNATO ALOI - Tra gli scogli dell’Io (...alla ricerca di sé) - Nota di Maria Carbone; Postfazione di Piefranco Bruni; in copertina, a colori, “Tramonto a Etretat”, di Monet - Luigi Pellegrini Editore, 2004 - Pagg. 200, € 12,00. ** PANTALEO MASTRODONATO - Corso di psicologia pratica applicata nella tecnica e le arti (corso di ottanta lezioni) - Ed. Symposiacus, 2013 - Pagg. 160, s. i. p.. Pantaleo MASTRODONATO ha studiato in molte città italiane ed estere. Compiuti i suoi studi in Linguistica e Filosofia classica presso l’Università di Montpellier, ha in atto dei lavori di studi e ricerche presso la stessa. La sua insaziabile sete di verità e di giustizia lo condusse nel 1972 ad una profonda crisi religiosa, propugnando da allora in poi i valori di un cristianesimo genuino scaturito da un sistematico approfondimento biblico per una imparziale valutazione dell’epoca presente. Dirige la rivista “Il Symposiacus”. ** PANTALEO MASTRODONATO - Euterpe (Raccolta di poesie) I canti del Rifugio - Ed. Symposiacus, 2013 - Pagg. 40, s. i. p. ** PANTALEO MASTRODONATO - Pagine di prosa - (Antologia) - Ed. Symposiacus, 2013 Pagg. 76, s. i.p. ** GIORGIA CHAIDEMENOPOULOU - 7 Favole... 7 Colori dell’arcobaleno - Copertina a colori e illustrazioni in bianco e nero nel testo di Apollonia Paramythioti - Aletti Editore, 2013 - Pagg. 70, € 12,00. Giorgia CHAIDEMENOPOULOU, greca, di Salonicco, si è laureata a pieni voti in Lingua e Letteratura Italiana all’Università “Aristotele” di Salonicco. Dal Settembre 2012 frequenta, nello stesso dipartimento, il corso post-laurea con specializzazione in “Letteratura-Civiltà”. Lavora come insegnante d’Italiano e di Spagnolo. Con “Un Cubo di Fiabe”, sua prima raccolta di fiabe, ha vinto il primo premio al Concorso Panellenico Letterario “Sikeliana 2011”. La sua fiaba “La fonte della Conoscenza” ha vinto il primo premio al Concorso Panellenico dell’Associazione di Scienze e di Arte di Keratsini. Inoltre, è stata premiata per le fiabe “La Speranza della Natura”, “La gara di Nichi”, “Negli anni bizantini... una fiaba reale!”. Collabora

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con varie riviste letterarie in cui sono state pubblicate alcune sue poesie. E’ stata premiata dalla rivista “Keleno” per una raccolta di poesie scritte in diverse forme poetiche. Ha tradotto, dal greco all’ italiano, la raccolta poetica “Nel Mare della Bellezza” (edizioni Vergina, 2013) della scrittrice Panagiota Christopoulou-Zaloni, il libro “Paesaggi immensi dell’Afflizione” del poeta Themistoklis Katsaounis (Aletti Editore) e il fumetto “La città della vittoria” sulla battaglia navale di Azio e sulla vita quotidiana ad Azio, per il Museo Archeologico di Nicopoli (edizioni Lichnia, 2013). Ha tradotto, inoltre, dall’ italiano al greco, la raccolta poetica di Arjan Kallco “La tua immensità m’ubriaca” (PrintPoint, Korse 2010). E’ membro dell’Amfiktionia Ellenica e dell’Unione di Scrittori e Letterati Europei che risiedono a Salonicco. ** THEMISTOKLIS KATSAOUNIS - Paesaggi immensi dell’Afflizione - Traduzione in Italiano da Greco di Giorgia Chaidemenopoulou - Aletti Editore, 2013 - Pagg. 74, € 12,00. Scrive, di questo libro, in quarta di copertina, lo stesso Autore: “E’ sempre difficile per uno scrittore parlare del proprio libro, ma certamente posso affermare che i “Paesaggi Immensi dell’Afflizione” è stata l’opera che ho scritto con più piacere. Sono poesie in forma di prose che trattano vari temi; l’unico elemento che hanno in comune è la riflessione sull’uomo - del passato, del presente e del futuro - che, con tutta la sua nullità e anche con la sua forza, nella creazione totale, si avvia verso uno scopo finale. Quello che ho scritto nel mio libro è una parte del cammino, con i suoi punti positivi e negativi, così come io l’ ho percepito, e proverei grande soddisfazione se qualcuno mi confessasse di riconoscersi nelle mie parole. Ogni libro, infatti, è come un manoscritto in una bottiglia. Colui che lo ha lasciato viaggiare è in ansia, perché avverte un’inquietudine divampare in sé, e vuole comunicare con chiunque, per colmare un vuoto interiore, lasciando trapelare pensieri e sogni che esprimono la sua interiorità e le sue preoccupazioni, e trovando così un motivo di esistere. Il desiderio di ogni scrittore, come anche il mio, è farvi viaggiare e, se riesco a farlo, allora senza dubbio merito il titolo di “poeta” “. ** Fra MARCO TASCA (Ministro generale Frati minori conventuali) - Francesco incontra Francesco - Assisi, 4 ottobre 2013 - Fotografie a colori, in copertina e all’interno, del servizio fotografico “L’ osservatore Romano”. Ed. Messaggero di Sant’Antonio, 2013 - Pagg. 44, € 6,00. ** RENATO GRECO - La lunga via, da ieri fino a


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dove. Epopea umana. Volume Quarto - Edizioni Dal Sud, 1999 - Pagg. 264, L. 20.000. Renato GRECO è nato nel 1938 a Cervinara (Av) e vissuto fino alla maturità classica ad Ariano Irpino. Nel 1955/56 a Matera istitutore del Convitto “Duni”. Dal ’57 al ’67 a Milano dove lavora alla Olivetti di Adriano e dove abita con la moglie dal ’66. Dal ’67 tre anni a Napoli un anno a Firenze e due anni in giro per l’Italia con tappe a Firenze e a Milano. Nell’ intanto si laurea in legge. Dal ’71 a Bari quadro nella filiale di questa città. Nel ’77 è di nuovo a Milano dopo altri periodi a Firenze. Fino al 1987 a Milano quadro marketing centrale. Ritrasferito a Bari va in pensione nel 1992. Ha vinto molti concorsi in Italia e legge poeti del ‘900 presso due Università Popolari a Modugno e a Bari. Redattore della rivista “La Vallisa” dal 1997. Ha scritto più di 45 volumi di poesia, oltre che numerose Raccolte Antologiche, alcune pubblicate anche all’estero. Autore anche di molti saggi su Salvatore Quasimodo, Vittorio Bodini, Cristanziano Serricchio, Enzo Mandruzzato, eccetera. Tante le antologie in cui figurano sue poesie. Tra i critici che si sono interessati di lui, citiamo solo alcuni: Pasquale Martiniello, Michele Coco, Enzo Mandruzzato, Stefano Valentini, Vittoriano Esposito, Daniele Giancane, Lia Bronzi, Donato Valli, Sandro Gros-Pietro, Renzo Ricci, Giorgio Bárberi Squarotti, Giuliano Ladolfi, Emerico Giachery, Roberto Carifi, Gianni Antonio Palumbo, Daniele Maria Pegorari, Roberto Coluccia, Ettore Catalano. ** AA. VV. - Per un profilo critico di Renato Greco dal 1989 a oggi. L’artedeiversi n. 8 a cura di Michele Vigilante - Sentieri Molisani Edizioni, 2014 Pagg. 196, € 20,00. Tra le firme, citiamo solo quelle di nostri collaboratori, come Liana De Luca, Andrea Bonanno, Fryda Rota, Maria Grazia Lenisa, Elio Andriuoli, Laura Pierdicchi, Vittoriano Esposito, Flavia Lepre, Sandro Gros-Pietro, Pasquale Matrone, Emerico Giachery, Giovanni Dino, Silvano Demarchi, Rossano Onano, eccetera. ** SERENA SINISCALCO - Il Poesiario IX - Introduzione di Sandro Gros-Pietro, Prefazione (“La vita in versi e le effemeridi di Serena Siniscalco”) di Pasquale Balestriere; in copertina, a colori, foto di Elena Siniscalco - Genesi Editrice, 2014 - Pagg. 126, € 20,00. Serena SINISCALCO è nata a Milano. Dopo il Liceo Classico - al G. Carducci di Milano si è laureata alla Facoltà di Farmacia a Pavia. Sposata con 4 figli. Vedova dal 1985. Conosce Inglese e francese. Titolare, dal 1972 al 1976, della “Eco” Galleria d’Arte contemporanea di Finale Ligure (SV). Dal 1972 fondatrice e presidente del Premio

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Internazionale di Poesia “Streghetta”. Ha viaggiato e soggiornato in diverse nazioni; ha portato la poesia anche sulle navi di crociera. Ha vinto Premi importanti. E’ stata inserita in numerose antologie e in Storie della Letteratura Italiana. E’ socia di molti Centri, anche di Centri universitari. Ha pubblicato, uno ogni anno, ben nove volumi de Il Poesiario: 2005, 2006, 2007, 2008, 2009, 2010, 2011, 2012, 2013. Si sono interessati di lei, e della sua opera letteraria, poeti, scrittori e critici di chiara fama, in Italia e All’Estero. ** FILIPPO GIANNINI - Storia nascosta e verità sul Fascismo - All’interno, riproduzioni in bianco e nero - Ed. Edoardo Longo, Edizioni della Lanterna, 2013 - Pagg. 334, s. i. p.. “Eccomi, sono io, Filippo GIANNINI - leggiamo a pag. 5 -, l’Autore di questo lavoro. Sono nato a Roma, in famiglia si sosteneva che “eravamo romani da sette generazioni”. Presentandomi dovrei anche indicare la data della mia nascita. Non lo farò mai! tutt’al più posso indicare dei dati: sono stato un Balilla, quando gli Alleati sbarcarono ad Anzio-Nettuno nel 1944, fuggii da casa per arruolarmi nelle forze della nascente Rsi, lo feci per due volte e per due volte la polizia mi fermò (si vedeva che ero un bambino, o poco più) e mi riconsegnarono alla famiglia. Ho studiato architettura, ed ho lavorato sia in Italia, che in Libia e in Australia per molti anni. Ho iniziato a studiare la Storia del “mai sufficientemente deprecato, infausto Ventennio” (si dice così, è vero?) circa 20/25 anni fa, quando, in uno dei miei rientri in Patria, doveva essere il 1980, proprio in coincidenza di un terremoto che distrusse vaste zone dell’Italia meridionale. Ricordo che ero in macchina e, ascoltando la radio, sentii che un intervistatore della Rai chiedeva ad un contadino della zona notizie sui danni subiti. Il pover’uomo rispose che il terremoto aveva ucciso la moglie e la figlia. L’intervistatore continuò chiedendo se tutto il paese era stato distrutto; la risposta fu che tutto era stato raso al suolo, un mucchio di macerie, a parte le case costruite dopo il sisma del 1930. A quel punto la trasmissione fu interrotta, ma in modo tale che compresi la volontà dell’interruzione. Rimasi colpito, ma nello stesso tempo anche molto incuriosito. Non sapevo assolutamente che si fosse verificato un sisma nel 1930. Un giorno, libero da altri impegni, andai alla Biblioteca Nazionale di Roma e consultai i giornali dell’epoca. Signori! Compresi subito il motivo dell’ interruzione, perché nel pieno dell’infausto Ventennio furono compiuti dei veri miracoli e senza ruberie (non so se mi sono spiegato!). In questa sede non posso indicare i miracoli, ma desidero qui ricordare gli autori: Benito Mussolini e Araldo Di


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Crollalanza. Allora, proprio in Biblioteca pensai: “Se questi furbetti hanno mentito su questo dolorosissimo fatto, quante altre “furbetterie” hanno messo in campo?” Iniziai, allora, a studiare la Storia e cercare i relativi riscontri documentali. Signori miei, quante cose ho scoperto! Provate anche voi. Buona Lettura!”.

TRA LE RIVISTE IL TIZZONE - Periodico fondato e diretto da Alfio Arcifa - Vice Direttore Pina Arcifa - via Amatrice 40 - 02100 Rieti. Riceviamo il n. 2 (94-95) del febbraio 2014, sul quale incontriamo alcune recensioni a firma del nostro collaboratore Tito Cauchi. Carmine Spitilli, tra l’altro, si interessa di “Appunti”, di Giuseppe Melardi, edito da Il Croco/Pomezia-Notizie, e di “Accordi”, di Adriana Mondo, edito dalla Genesi di Torino. Di “Parole in sordina”, sempre del Melardi, si interessa Flavia Lepre. Poesie, inoltre, di Adriana Mondo e Loretta Bonucci. * RASSEGNA SICILIANA DI STORIA E CULTURA - Periodico quadrimestrale fondato nel 1997, direttore Tommaso Romano, condirettore Umberto Balistreri, responsabile Pietro Vassallo - ISSPE, via Messina Marine 445 - 90123 PALERMO. Riceviamo il n. 36 (gennaio-dicembre 2013), al quale hanno collaborato: Piero Vassallo, Marcello Veneziani, Antonino Sala, Giuseppe Bagnasco, Alberto Rosselli, Corrado Camizzi, Pasquale Hamel, Giuseppe Parlato, Carmelo Fucarino, Rita Cedrini, Umberto Balistreri, Pippo Lo Cascio, Giulia Sommariva, Salvatore Di Marco, Giuseppe Palmeri, Diego Ciccarelli, Giuseppe La Russa, Giulio Perricone, Vincenzo Fardella de Quernfort, Lino Di Stefano, Maria Patrizia Allotta, Virginia Bonura, Antonino Russo, Francesca Mercadante, Rosario Amico Roxas, Vito Mauro, Antonella Folgheretti, Tommaso Romano. Le illustrazioni, in questa vera e propria antologia (pp. 180), sono di Gonsalvo Carelli, Gaetano Lo Manto, Gianbecchina, Gaetano Compagno, Angelo Restivo. * IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT). Riceviamo il n. 55 (ottobre-dicembre 2013), nel quale, tra le tante firme, troviamo anche quelle dei nostri collaboratori Leonardo Selvaggi, Loretta

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Bonucci, Orazio Tanelli, Antonia Izzi Rufo. Pio Vittorio Vigo si interessa dei “Nuovi Salmi”, curato da Giacomo Ribaudo e Giovanni Dino; Pina Ardita, di “Domenico Defelice Un poeta aperto al mondo e all’amore”, di Anna Aita; Angelo Manitta, di “Un albero che nutre la terra di cielo”, di Giovanni Dino; Sabato Laudato, di Antonia Izzi Rufo (“La sua poesia: semplicità luminosa”); Maria Vadalà, di “Nuovi Salmi”, di Giacomo Ribaudo e Giovanni Dino; Enza Conti, di “Antologia ALIAS”, curata da Giovanna Li Volti Guzzardi. Ricordiamo che il 30 maggio prossimo scadono i termini per la partecipazione al Premio Internazionale Poesia, Prosa e Arti figurative e al Premio teatrale Angelo Musco, entrambi organizzati dalla Rivista. Allegato, il n. 21 di CULTURA E PROSPETTIVE, vera e propria antologia (pp. 128). Tra i numerosi e qualificati interventi, rileviamo quelli dei nostri collaboratori Carmine Chiodo, Giuseppe Manitta, Leonardo Selvaggi, Aldo Cervo (il quale si interessa di “Il Sacro e altro nella poesia di Andrea Zanzotto”, a cura di M. RichterM. L. Daniele Toffanin). * FIORISCE UN CENACOLO - Mensile fondato nel 1940 da Carmine Manzi e ora diretto da Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (Salerno). Riceviamo il n. 10-12 (ottobre-dicembre 2013), nel quale troviamo le firme dei nostri collaboratori Anna Aita, Antonia Izzi Rufo, Leonardo Selvaggi, Orazio Tanelli. * RIVISTA ITALIANA DI LETTERATUA DIALETTALE - Trimestrale fondato e diretto da Salvatore Di Marco - via Veneto 16 - 90144 Palermo. Riceviamo il n. 4 (ottobre-dicembre 2013), nel quale troviamo anche la firma di Orazio Tanelli. I disegni all’interno sono di Totò Bonanno.

* BRONTOLO - Mensile satirico umoristico culturale fondato e diretto da Nello e Donatella Tortora via Margotta 18 - 84127 Salerno. Riceviamo il n. 218-19 (febbraio-marzo 2014), nel quale troviamo anche la firma del nostro collaboratore Andrea Pugiotto. Ricordiamo il Concorso organizzato dallo stesso periodico, con scadenza 30 giugno 2014 (chiedere il regolamento: e-mail: brontolo8 @libero.it ; tel. 089/797917). * LATMAG - Rivista culturale, direttore responsabile Eugen Galasso - via Torino 84 - 39100 Bolzano. Riceviamo il n. 71 (settembre 2013), nel quale, oltre le firme dei nostri collaboratori Silvano Demarchi e Luigi De Rosa, il direttore Galasso si


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interessa di Giorgina Busca Gernetti (“Sette storie al femminile”), Liana De Luca (“Ubaldo Riva. Alpino poeta avvocato”) e Piera Bruno (“L’arca di Noè”).

L’ITALIA DI SILMÀTTEO di Domenico Defelice Seconda Puntata*

Il tredici febbraio, splendida veglia di San Valentino, il connubio fra Letta e il suo partito definitivamente finisce nel cestino. Un’aspra Direzione, tra pianti e tra litigi, sancisce che Silmàtteo immantinente voli a Palazzo Chigi. “Vi sfido tutti a uscire dal pantano - tuona sprezzante il capo -. Un Governo nuovo si prepari e un nuovo patto di legislatura”. “Spiegar dobbiamo al nostro elettorato e a tutta la Nazione - dice Gianni Cuperlo, che masticare sembra segaturail passo ambizioso e traumatico del cambio tra Letta e Renzusconi, od il Partito sembrerà lunatico. Che Governo sarà? Sarà d’intesa di nuovo con la Destra, o veramente nuovo e di Sinistra? E decide re Giorgio?” “Vi arrovellate ancora nella critica? Tutti siamo il Partito ed il Partito detti la politica!” Molti son gli interventi, spesso contorti come labirinti, e, in men che non si dica, in un crescendo lungo e lacerante, nella Sinistra già cannibalesca,

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a galla ecco risalgono gli istinti. Silmàtteo Renzusconi si muta sull’istante in coccodrillo e si divora Letta in un boccone. A Re Giorgio non resta alcuna scelta - solo una farsa le consultazioni e, per la terza volta, egli percorre la strada fuori dalle istituzioni. Dopo l’accettazione con riserva, la lotta si scatena alla poltrona. C’è chi ardentemente la reclama e chi il ritroso fa e chi si smarca. Hanno già detto no Piero Fassino - chiamato pure scheletro vivente -, Sindaco evanescente di Torino; al Tesoro non va Fabrizio Barca sponsorizzato da De Benedetti; frenato dal conflitto d’interesse invece è il fondatore di Eataly, l’ultra baffuto Oscàre Farinetti1. Gli schivi fan Baricco, Guerra e Prodi2 ch’ogni tanto rispunta e tele tesse ché un tarlo in fondo al cuor sempre gli rode. Silmàtteo non demorde. Tra un tira e un molla di Napoletano - Gratteri3 no, va bene Andrea Orlando; Pier Carlo Padoan all’Economia -, grattandosi or la testa ed ora l’ano, giocando, in pochi giorni, di rimando, presenta la sua schiera4 e così sia. Spranga ogni porta pei matusalemmi. Nulla potrà, però, mai cambiare se, ad ingessarci, sono i vecchi schemi e un Presidente quasi novantenne. Infatti, ecco una grana già spuntare con Poletti - Ministero del Lavoro e Federica Guidi allo Sviluppo: entrambi per conflitto della crusca. La donna visitato ha pure Arcore - a cena con Berlusca e, se una legge si dovrà applicare, non può toccare solo il Cavaliere, come pensa Delrio5 senza rossore. Comunque, Padoan, Poletti e Guidi


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nulla combineranno se, a chi incassa miliardi e se la ride, prima gran sforbiciate non daranno: diciamo i giocatori strapagati; i capi che prosciugano le imprese - nel pubblico siccome nel privato coi loro emolumenti d’ogni mese6; diciamo i magistrati partigiani; gli onnivori politici assassini, il culo inchiavardato in mille scranni; e poi la delinquenza organizzata - Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta ed affini -: un esercito immenso, piragna e sanguisughe che spolpano la gente, l’Italia asfissiando di lordure. Tenie voraci, orribili, mai sazie. Ma cosa mangeranno mai costoro? E cosa cacheranno? Pur non gustando insipide verdure, non soffrono d’alcuna stitichezza? E i loro stronzi? Son lingotti d’oro? Degli aitanti e giovani guerrieri del rinato Governo, per la metà son donne. A rapportarsi con il Parlamento, Maria Elena Boschi, d’azzurro inguainata, in tacchi alti, decisa ad abbagliar gli sguardi loschi. La faccia le s’illumina; gli occhi in cerca della telecamera, lancia messaggi di ...casta Maria. “Vorrei esser guardata e giudicata per il lavoro (è tutta esuberanza. Da noi, in quanto a ormoni, nessun dorme!); vorrei si soffermassero ad oltranza sulle riforme e meno sulle forme”. Oggi, i Governi sono red carpet; gran passerella ogni istituzione, non luogo di pensiero e di lavoro per rendere migliore la Nazione. Addetti non ci sono all’Europa; Silmàtteo, a quanto pare, si riserva

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d’andar personalmente con la scopa. In prima uscita, dopo la fiducia, il lider del Governo va Treviso. Parlando con studenti7 e imprenditori s’accorge ch’è lontano il Paradiso. La folla lo festeggia a fischi e grida, le arance come corpi contundenti. E guarda caso, proprio chi lo sfida proviene da quell’area di sinistra che ha demonizzato Berlusconi e prima ancora Craxi. E’ arrabbiata assai, ma senza denti, giacché Silmàtteo è il capo, votato fra di loro in tre milioni! Or se piange il Pd, nessuno ride. La destra è totalmente sbrindellata e mentre Renzusconi va a passeggio, quattro espulsi ci sono in 5Stelle decisi in sintonia col Movimento dal Grillo imbufalito e il Casaleggio. In ritardo è l’agenda del Governo. Vuotissima la rampa della riforma delle istituzioni. E’ tutto un borbottio, un andirivieni di labbra vellutate, scollature ammiccanti, culi sapientemente inguainati, finzioni affaticanti, autentici balletti con la Stampa. E mentre chi amministra si diverte, la miseria cresce a dismisura, sì che il Paese o prima o poi avvampa. La legge elettorale è apparsa in Aula, ma piovono a migliaia emendamenti e rischia di finire impantanata. L’Europa ci declassa. Il Job List, una carnevalata8. Le aziende se la squagliano9 alla meglio. L’Italia sembra in guerra. Crollano le antiche mura di Pompei. Si frantuma la roccia di Volterra. Fuma in eterno il pene al Cavaliere


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e la nebbia ristagna a quota bassa. Omicidi, incidenti, assalti, furti. E’ un avanzar di mafiosi e gay che sembra d’annaspare in una glassa. Silmàtteo doveva andar veloce nel trasformare la Costituzione, nel dar lavoro ai giovani, nell’abbassar le tasse, nel rendere più snella la Nazione. Invece, ci addormenta con la voce, rischiando di scottarsi a foco lento, svelto soltanto nel copiare il marcio e prendere il potere a tradimento10. Né cammina la legge elettorale. La lotta in Parlamento si fa dura sia per le quote rosa, sia per le preferenze - entrambe eliminate! e tutti, deputati e deputate, brillan per tradimento e per le assenze. Or siamo giunti al dodici di marzo. Mentre alla Camera, nel piagnisteo corale dei piccoli partiti e dei restanti11 fra rimbrotti e lazzi, passa la legge elettorale, col suo faccino tondo, Silmàtteo i suoi provvedimenti elenca, per rendere moderno il Bel Paese, nel lampeggiar di slide sullo sfondo. “Allegre, itale genti: mille euro avrete in busta paga per calmare i rumori della panza. Sgraveremo le tasse delle imprese con le tasse ai profitti di finanza. Via le auto blu. Su con le case: sgravi fiscali e aiuti per gli acquisti. Lavoro per i giovani alla base. Ascolteremo tutti i Sindacati, ma, se saranno tosti, per l’eterno verranno bistrattati. Nessuno ponga veti. Le decisioni spettano al Governo”.

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E vola in Francia dal cugino Hollande, legati da comune strategia: togliere all’Europa le mutande. Incontra, poi, la Merkel e le s’inchina! Non sforeremo mai il tre per cento. L’Italia ingoierà la medicina. Appena a casa, torna l’audace e quel che, a sera, ha detto, non vale la mattina: a me quest’Europa non piace! Ecco gl’idi di marzo. La Magistratura non demorde e conferma la condanna a Berlusconi, che, basculando e labbra ed il sedere, scaglia di qua, di là fulmini e tuoni e si dimette pur da “Cavaliere”. Domenico Defelice (2 - Continua) * Riassunto della Prima Puntata - In una serena notte d’estate, in Sardegna, avviene improvvisa un’esplosione. Tra fulmini e tuoni e lo spavento generale, Berlusconi erutta attraverso i suoi attributi. E’ imbufalito perché, a Milano, i Giudici l’hanno condannato definitivamente. In Germania, intanto, Angela Merkel è in sofferenza per una perdurante stitichezza (in senso economico e specialmente nei nostri confronti). Le giunge la notizia che, nella colonia italiana, Silmàtteo Renzusconi è stato nominato Segretario del PD. Si attendeva altro nome, ma, a sconvolgerla maggiormente, è la dichiarazione del nuovo Segretario di voler combattere contro l’austerità dell’ Europa a direzione teutonica. Il 18 gennaio 2014, a Largo del Nazareno, a Roma, incontro storico tra il Segretario PD e Silvio Berlusconi, i quali si accordano sulla nuova Legge Elettorale e sulle riforme della Costituzione. Ai primi di febbraio, un altro terremoto scuote la politica italiana: Alan Friedman rivela, in un suo libro, che, sei mesi prima delle dimissioni di Silvio Berlusconi da Presidente del Consiglio, Giorgio Napolitano e Mario Monti avevano tramato per defenestrarlo. NOTE 1 - Oscar Farinetti.


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2 - Romano Prodi, Alessandro Baricco, Andrea Guerra. 3 - Nicola Gratteri, magistrato, nato a Gerace il 22 luglio 1958, attualmente Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria. 4 - Il Governo Renzi è così formato: Esteri, Federica Morgherini; Interno, Angelino Alfano; Giustizia, Andrea Orlando; Difesa, Roberta Pinotti; Economia, Pier Carlo Padoan; Sviluppo economico, Federica Guidi; Politiche agricole, Maurizio Martina; Ambiente, Gianluca Galletti; Infrastrutture e Trasporti, Maurizio Lupi; Lavoro e Politiche sociali, Giuliano Poletti; Istruzione, Stefania Giannini; Cultura, Dario Franceschini; Salute, Beatrice Lorenzin. Senza portafoglio: Riforme e Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi; Semplificazione e PA, Marianna Madia; Affari regionali, Maria Carmela Lanzetta. 5 - Graziano Delrio, nato a Reggio Emilia il 27 aprile 1960, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. 6 - Qualche esempio: Domenico Arcuri (Invitalia) percepisce, all’anno, 788.985 Euro; Pietro Ciucci (ANAS), 750.000; Giovanni Gorno Tempini (CDP), 1.035.000;Massimo Garbini (ENAV), 502.820; Fulvio Conti (ENEL), 3.900.000; Paolo Scaroni (ENI), 6.400.000; Giuseppe Recchi (ENI), 1.100.000; Mauro Moretti (Ferrovie dello Stato), 873.666; Maurizio Prato (IPZS), 601.370; Maurizio Prato (Zecca dello Stato), 600.000; Massimo Sarmi (Poste Italiane), 2.201.820; Luigi Gubitosi (Rai), 650.000; Pietro Franco Tali (Saipem), 6.940.000; Flavio Cattaneo (Terna), 2.235.000. A volte, la spregiudicatezza di qualcuno di loro, distrugge servizi importanti per la collettività, senza neppure rendersene conto, tanto, loro vivono nella stratosfera e non conoscono i bisogni della povera gente. Poste Italiane, per esempio, hanno distrutto completamente il servizio della raccolta e della distribuzione della corrispondenza, e aumentandone - per colmo di perfidia - le tariffe! Il divario, tra uno stipendio medio e gli emolumenti di costoro, è veramente enorme; eppure, dovrebbero avere uno stomaco come tutti gli altri. Venir pagati un po’ di più, va bene, ma l’ esagerazione è un autentico peccato che grida vendetta dinanzi a Dio. La Chiesa dovrebbe scagliar loro una anatema! 7 - In una scuola, i bambini, sotto la direzione e la regia degli insegnanti e degli altri responsabili, hanno cantato in suo onore! Un’autentica vergogna, un servilismo degno della dittatura fascista. 8 - Si pensi, per esempio, al precariato dei giovani. Il contratto a termine dura 36 mesi e può esse-

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re confermato per 8 volte. 36 x 8 fa 288 mesi. Un anno ha solo 12 mesi... Precari, insomma, per una vita! 9 - Lo stesso Presidente della Confindustria, Squinzi, minaccia di trasferire in Svizzera la propria azienda. 10 - Smentendo se stesso, che aveva sempre giurato di non voler andare al Governo senza prima passare per regolari elezioni. 11- Anche chi l’ha approvata ne è scontento. Così, quando giungerà al Senato, sarà certamente stravolta, col rischio di finire tutto a tarallucci e vino, anche lo stesso Governo Renzi.

LETTERE IN DIREZIONE (Emerico Giachery, Marina Caracciolo, Ilia Pedrina) E-mail del 3.3.2014, da Roma: Caro Domenico, ti sarai rallegrato leggendo gli entusiastici apprezzamenti di lettori e lettrici come Marina Caracciolo a proposito del numero di dicembre 2013. Anche quello di febbraio 2014, appena arrivato, mi pare molto denso. Come amico, mi rallegro tra l'altro della notevole presenza, diretta e indiretta, di Carmine Chiodo, eccellente persona in ogni senso e studioso infaticabile. Vedo che amiamo entrambi la pittura, caro Domenico, e ti dico che Warhol non è neppure nelle "mie emozioni", come tu dici. E neppure Roy Lichtenstein. Il discorso sarebbe lungo e complesso. Non è facile prendere posizione sull'arte contemporanea, e la logica dei mercanti d'arte non è la nostra. Neppure è sempre facile esser d'accordo con tutti i discorsi a volte tortuosi di certi critici d'arte, anche noti. La primavera è alle porte. Buona primavera da Emerico Giachery Caro Giachery, Giusto, non potevo non rallegrarmi degli apprezzamenti dei lettori. Vedi, dunque, come la tua firma - e anche quella dell’amico Carmine - sia indispensabile sulle pagine della mia


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creatura di carta? Non farti pregare a lungo, perciò, e, almeno di tanto in tanto, inviami tuo materiale da pubblicare senza che te lo debba chiedere in elemosina! Amo la pittura e i pittori dall’infanzia. Fino al 1980, all’incirca, ho anche dipinto e disegnato (il logo della rubrica “I Poeti e la Natura”, di Luigi De Rosa, per esempio, è mio, e te ne sarai accorto); ma, dopo aver dipinto “Morte di Alfredino Rampi” - che spasimi ancora mi dà la tragica fine di quel bambino! -, ho buttato alle ortiche pennelli e colori e non sono stato più capace di recuperarli. Non ho scacciato, però, dal mio cuore l’amore per la pittura e l’arte in genere. Così, dopo il grande successo di “Andare a quadri” (1975), ho scritto altri saggi monografici come “Pittura di Eleuterio Gazzetti” (1980), “Eleuterio Gazzetti” (1984), “Saverio Scutellà” (Gran Premio Città di Roma, 1988), “Un artista del mosaico <Michele Frenna>” (2001), “L’arte raffinata di Giuseppe Mallai” (2004), “Sensazioni e nebulose. La pittura emotiva di Ottavio Carboni” (2009)... Pittori che, non c’è dubbio, sono meno noti di Warhol, ma che mi hanno dato commozioni. So bene che “non è facile prendere posizione sull’arte contemporanea”, ma io ho avuto il coraggio di prenderla; come ho avuto coraggio di prenderla sui critici - artistici e letterari - fumosi o, come affermi tu, “tortuosi”. Non credo di valere molto; di me, non credo si interesserà la storia futura; ma nessuno potrà, né oggi, né mai, accusarmi di non aver avuto coraggio. Grazie, carissimo Emerico, della tua calda e sincera amicizia. Domenico *** E-mail del 18.03.2014 da Marina Caracciolo, Torino: Carissimo Domenico! Che donna di poca fede sono diventata... Già disperavo e invece Pomezia-Notizie di febbraio 2014 mi è arrivata ieri sera - cosa inaudita! - insieme al mensile di marzo. Il primo dei due ha fatto davvero un avventuroso viaggio... E' salpato da Pomezia in data 5 feb-

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braio, e di ciò fa fede la data del timbro postale. Poi, dopo lunga navigazione, neanche dovesse attraversare l'Atlantico, è giunto a Torino ben 20 giorni dopo, precisamente il 24 febbraio (come attesta la stampigliatura apposta dalla privata agenzia Defendini Logistica s.r.l.). Non credo di esagerare dicendo che in Giappone, in Canada o in Australia sarebbe arrivato molto prima!... E come se non bastasse, l'agile fascicoletto, provato dalla lunga peregrinazione, è rimasto altri 21 giorni negli uffici della suddetta agenzia, la quale, come pietoso e premuroso albergatore, gli ha concesso di riposarsi e di giungere nella mia buca della posta solo ieri sera, 17 marzo. Quaranta giorni in tutto da Pomezia al capoluogo subalpino!... Non ho parole. Tutto è bene quel che finisce bene. I contenuti, come sempre, sono tutti da leggere e da assaporare come squisiti dolci alla panna... Ai golosi lettori (e collaboratori) dispiace troppo perderli!! Un abbraccio caro da Marina Carissima Marina, quanta delicatezza nella tua ironia! Io non ne sono capace, quando penso agli straordinari viaggi di Pomezia-Notizie: ho troppo veleno dentro. Lavorare per un mese senza interruzione; stampare e con costi quasi proibitivi; spedire, con altri costi rilevanti e, per giunta, essere costretti a recarsi a Roma, al Compartimento di via Affile, facendo, cioè, ogni mese, ben 100 km tra andata e ritorno (le stampe in abbonamento non vengono accettate dagli uffici postali)... e, poi, e poi costatare che non viene, in gran parte, consegnata, ma dispersa, forse gettata nei cassonetti, o, direttamente nelle discariche! Sono schiaffi che ti umiliano e che ti accorciano la vita. Corrado Passera non ha ammodernato le Poste Italiane, come ci vogliono far credere; Corrado Passera ha solo trasformato Poste Italiane in una finanziaria che specula con i risparmi della povera gente, distruggendo completamente il servizio della raccolta e della distribuzione della corrispondenza! Corrado Passera, uno dei tanti manager rampanti che, in Italia, riscuotono, ogni anno, stipendi di mi-


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lioni e milioni! L’Italia sta affogando anche per questo e sono stilettate dover sentire più di uno lamentarsi invocando le Brigate Rosse, anzi, aggiungendo che dovrà essere peggio. Non può essere questa la strategia per rendere moderna la Nazione, distruggendo i servizi essenziali e portando i cittadini - operai, commercianti, imprenditori - al suicidio. Pomezia-Notizie, va realmente in tutto il mondo e posso assicurarti, cara Marina, che, effettivamente, viene ricevuta dagli abbonati e dai collaboratori - in Australia, negli USA, in Russia, in Cina eccetera - dopo quattrocinque giorni dalla spedizione. Il disastro è nell’organizzazione interna, del nostro territorio, e in moltissimi settori. Ci soffoca la disoccupazione e le cunette delle strade, gli argini delle strade e dei fiumi non vengono puliti; hanno tolto il fatturino dagli autobus e milioni e milioni di utenti non pagano il biglietto; non assumono più i portalettere e le bollette arrivano quando sono già scadute, giornali e riviste quando - ma, se arrivano! son già carta straccia. Ti abbraccio. Domenico *** Carissimo Direttore, eccomi a te da Torreselle, si, da questa magione così cara alla nostra indimenticabile Solange De Bressieux, nella quale Virgilio, uomo di coraggio e di guerra, poeta delicato e sensibile, ha vissuto dal 1964, in un modo così vicino a Dio in queste solitudini accese dal vento che passa in libertà tra i rami e tra le profondità dei declivi e dai profili di case in lontananza, quel vento che ha portato spesso l'eco così carica del suo bisogno di dire la storia dell'operosità umana, quella fatica particolare che passa attraverso la lavorazione del ferro, impresa arcana, antica, segreta, virtuosa, che lo ha spinto a costruire a lato del suo rustico il Museo Privato del Ferro Battuto e degli Attrezzi Agricoli, attività alla quale devotamente si inchinava, con pieno rispetto. Quell'eco porta ancora le tracce del ritmo del taglio della legna da ardere, la legna dei suoi boschi, da lui trasportati a fatica dal fondo dei

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suoi boschi e tutta stipata ordinatamente, perché si pensa all'inverno per tempo, qui, perché si ama il risparmio e le tradizioni che legano fortemente al focolare, quando arde ed ha tutta una sua musicalità inafferrabile ed invadente ad un tempo, perché le fiamme ti prendono gli occhi ed il calore ti avvolge e sei sua preda. Avrebbe voluto ospitarti, qui, con la tua adorabile Clelia, per leggerti le sue cose sul Carducci e sul grande Stanìs Nievo, suo ospite spesso quando si trovava in Veneto a presentare 'I PARCHI LETTERARI', creatura da lui ideata e costruita egregiamente, nata per sottolineare con documentazioni ricche e vive il legame tra gli scrittori ed i luoghi che hanno dato vita e valore ed esistenza concreta alla loro opera letteraria: sono nati così e sono volumi di grande pregio perché al contempo tracciano in modo indelebile anche la storia del Paesaggio Italiano, zone e case protette, come quelle del Leopardi a Recanati, del D' Annunzio in Abruzzo, del Nievo a Colloredo in provincia di Udine, del Carducci stesso, di Dante, del Petrarca e via via lungo la Storia della Letteratura Italiana, che ora diventa anche storia dei paesaggi che hanno ispirato i poeti ed i letterati a costruire ed a lasciare la loro testimonianza. Stanìs Nievo ha amato Torreselle, ha dormito su, al primo piano, nella stanza matrimoniale, grande e tutta avvolta da travi e pavimenti in legno, con finestre che guardano sulle profondità della vallata verso le Prealpi Venete; Solange invece voleva la stanzetta più piccola, a due letti, più intima, con il tavolino in legno d' abete, per le sue cose. Lei a Virgilio ha confidato tristezze segretissime, che le hanno segnato l'anima durante la guerra, proprio perché aveva intuito che era uomo di coraggio e di guerra, ma con la voce della poesia dentro. Mentre a tutti i suoi amici più veri, Gigi, primo tra tutti e poi Davide, Adriano, Vittorio, e Giorgio e Gianfranco e Pasqualino ed Enrico, al quale ha passato tutta la sua passione per la caccia, eletto segretamente e pubblicamente come suo 'delfino', a tutti questi ed a tanti altri dico, come a Giannino Marzotto, che qui arrivava da solo, con il suo camper e che gli ha dedica-


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to il suo bel lavoro, era riservato il salone con la tavolata imbandita di vini pregiati, quelli della terra che non conosce addittivi, e da ogni sorta di pietanze che lui andava a cucinare con vero amore per il gusto misto e calibrato delle verdure e delle carni, dei condimenti e degli aromi e Gianfranco Casaglia, che è venuto da Ivrea per assaggiare 'Fagianelle in cotica della buonanima secondo Virgilio', è partito per tornare a casa sua con dentro l' immagine bella ed erotica dei capezzoli di Afef, quella 'Atena nera', universale femminile altro, di cui Virgilio stesso aveva parlato con adorante ironia. Poi, a Maggio del 2013, è arrivata anche qui, anche a Torreselle, la violenza della burocrazia, che intima ai cittadini, pensionati al limite della sopravvivenza, di fare calcoli sulla proprietà e sul reddito dalla legna da ardere, perché certo trai profitto a riscaldarti e quindi questa 'gioia' umana ben meritata dopo ardua fatica va tassata, va inquinata dal marcio del sopruso e dell'arroganza del chiedere senza più misura, dopo aver ben sperperate le pubbliche risorse con manovre che non ho parole ora per giudicare e che tu ben sottolinei nei tuoi 'Allelulia! Alleluia!', con una invidiabile, audace costanza, nello sforzo indomabile che vuole arrivare a risvegliare tutti da un pericolosissimo torpore, uno sforzo teso senza sosta a far vibrare le coscienze degli uomini e delle donne, di ogni età e luogo d'Italia, di questa Italia che anche tu ami e per la quale ti batti. Mi viene in mente adesso un tuo canto per questa terra, per la tua terra del Sud. Si, si tratta di 'Odio e Amore': Paesi del mio Sud aridi sopra i colli, dove la morte giunge all'improvviso come un turbinio di vento caldo! Campagne del mio Sud in voi la morte è cupa e misteriosa, o che balzi terribile dai sassi bruciati dei torrenti, o che celata insidii come una biscia in mezzo alle sterpaglie. Sud, dolce e caro mio Sud!

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Questo male tuo di morte mi trattiene lontano, m'avvelena l'amore che ti porto. Bella, bellissima, amara perché respira la verità della storia, di quella storia delle terre del Sud, del tuo Sud, dalle quali anche noi Pedrina-Cartone traiamo le nostre radici. Trovo questo tuo 'Odio e amore' alla pagina 29 del volumetto di Anna Aita 'Domenico Defelice. Un poeta aperto al mondo e all' amore', Edizioni del Convivio, 2013, ben documentato e costruito con ogni cura, rispetto al tuo percorso storico, di vita e di poesia, libro da leggere tutto d'un fiato. Si, carissimo, perché con Virgilio non posso usare l'imperfetto, proprio come fai tu, in questo canto. L'imperfetto è un tempo incredibile: rappresenta quella temporalità dell'esistenza che non si è presentata come atto compiuto, come evento dato: è quel tempo, l'imperfetto, che lascia alla nostalgia un 'continuum' che non si arresta mai, dentro. E il poeta, il musicista, l' artista, tutti coloro che tengono alla realtà del loro tempo e nella loro storia, realtà dura, di lotta e di scontri, ma anche realtà di Bellezza e Armonia, dimensioni che tutte portano insieme alla Verità dell'esistere, tutti questi cantori della vita fanno della nostalgia e dell'imperfetto il loro tempo presente: ecco dunque il tuo verso 'dove la morte giunge all' improvviso'; o l'altro, intensissimo la sua parte, 'in voi la morte è cupa e misteriosa', presente dilatato che ingloba anche i due congiuntivi successivi 'o che balzi terribile dai sassi/bruciati dei torrenti o che celata insidii/come una biscia in mezzo alle sterpaglie', fino ad arrivare all'estrema tensione dell'ultima quartina, che riprendo tutta perché attanagliata da due lati pieni e vivi, quello della Verità della Storia e quello della Verità del tuo essere al mondo in amore ed in lotta: 'Sud, dolce e caro mio Sud!/Questo male tuo di morte/,mi trattiene lontano/,m'avvelena l'amore che ti porto.' L'algia del ritorno e di quel ritorno che ha come méta il porto della terra che hai dentro, dice Stanìs Nievo, non trova argine, approdo


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e sollievo se non nell'Amore e nella vitalità del legame a due, breve come un attimo, infinito nel tempo come quegli universi mondi che Giordano Bruno così amava e verso i quali anelava, divinamente. Io sono con lui, con te, con Virgilio e con tutti coloro che sanno amare. Ilia tua, in un forte abbraccio Carissima Ilia, pur rinnovando in me la ferita della scomparsa dell’amico e tuo fratello, hai fatto bene a ricordarmi Virgilio, morto il primo dicembre 2013 perché “La sua anima - come tu mi scrivevi il giorno successivo - ha detto ‘no’ al corpo”. Lo scorso anno è stato particolarmente doloroso per la perdita di amici e la sua morte si è aggiunta a quella di altri, sicché il deserto, intorno e dentro di me, si fa sempre più arido e il silenzio sempre più annichilente. Virgilio era, a suo modo, un autentico sacerdote della Natura. Ricordo, anche se vagamente ormai, il suo peana “Per un castagno morente”. Ma, come in ognuno di noi, c’erano, anche in lui, contrasti. Era un cacciatore, per esempio, ed io, ti confesso, odio la caccia. Da bambino, in famiglia, ricordo, la carne era un autentico lusso che ci potevamo permettere solo catturando qualche uccello (a volte, ricordo, anche qualche gatto selvatico!). Nelle campagne di Baldis, nel comune di Anoia, nel terreno coltivato a colonia da mio padre, tra le colossali piante di ulivi e l’autentico bosco degli aranci, anch’ io, come tutti gli altri, ero stato abituato a cacciare. Niente armi da fuoco, ma trappole. Usavo, per esempio, la “conocchia”, con dentro un uccellino vivo che si agitava continuamente e con intorno una raggiera di ramoscelli spalmati di vischio. Dopo lunghe attese, si impaniava solo qualche pettirosso. Un vero strazio il suo dimenarsi e il suo spiumarsi nel tentativo di fuga e il suo strepitio disperato. Usavo anche la “Praca”, un’altra rudimentale trappola confezionata con una grossa e pesante foglia di ficodindia, la quale, cadendo, uccideva all’istante

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il malcapitato uccellino. E’ durata pochissimo questa mia avventura di cacciatore. Sentivo troppo dolore per le povere creature e ancora oggi non riesco a liberarmi del tutto di quella opprimente pena. E non sopporto vedere un uccello in gabbia. Virgilio, come anche tuo padre, era un cacciatore, ma, per il resto, era un autentico adoratore della Natura. Ed era un poeta. Ricordo la sua “Fragile ebbrezza” (1978) e il suo “Presagio d’addio”, edito da Rebellato, per il quale scrivevo, nell’aprile 1976: “è una moderna fiaba raccontata in ventisette sequenze che rappresentano i momenti più salienti e indimenticabili della storia il cui protagonista, l’amore-donna - visto nel suo atto forse più completo, ma certamente più definitivo: l’addio -, non è, comunque, l’ unico motore dell’opera, giacché, spesso, assumono particolare rilievo la luce, l’ “alba radiosa e prematura”, un gesto e, addirittura, la parola stessa, cioè lo strumento indispensabile all’autore a concretizzare il sogno. Una storia d’amore che lascia nell’animo del lettore la pastosità di cose perse, non assaporate da tempo, assieme a una malinconia dolce, struggente, da ognuno certamente provata a sedici anni, allorquando il cuore facilmente si tramuta in torcia votiva davanti alle pupille della donna amata, specie se di d’un amore non corrisposto. L’opera è tutta un canto fresco, una musica espressa in varie tonalità, un precipitare di sentimenti e sensazioni come d’acque da un’altissima cima e, di conseguenza, un continuo, non voluto accostamento di “lei” alla natura, spesso, anzi, un identificarsi in essa a tal punto da scomparire. Personalmente, non ho mai visto alcuna donna di tuo fratello, perciò le immagini femminili presenti nella sua poesia non so se legarle alla bellissima Afef che tu definisci straordinariamente erotica; ma è certo che esse hanno sempre un tocco esotico ed il profumo di vegetazione primordiale. Le morti son tutte uguali, perché legate dalla ineluttabilità; ma son diverse per il modo


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di manifestarsi e per la causa che le provoca. E ci vuole almeno l’animo dell’artista, dell’amante incondizionato di musica e poesia, di pittura e scultura, per arrivare, come fai tu, a legare in qualche modo la morte di Virgilio a quella da me cantata in “La morte e il Sud”. Entrambe hanno in comune il dramma, intimo prima che esteriore, materiale: il vomito provocato dalla quotidianità fatta di arrivismi, rapine, delitti, sfacciataggine, caccia al cittadino e alla sua economia, frutto di sudori e di risparmi (mai a quella finanziaria di speculatori che provocano morte peggio di quella ruspante delle “bisce in mezzo alle sterpaglie”), da parte di uno Stato governato da facce di gomma, sulle quali rimbalza quello che, invece, per te, per me, per i tanti Virgilio, rappresenta una autentica fucilata al cuore. Ma son diverse nella provocazione. Virgilio, a ben riflettere, è per la provocazione strisciante che se n’è andato rifiutando operazione e, forse, anche cure. Perché il calice, il suo cuore, era, forse, pieno, oltre l’orlo, del veleno dell’ esistenza. Ti abbraccio. Domenico

Domenico Defelice - Oltre la frutta! (1960)

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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) composti con sistemi DOS o Windows su CD, indicando il sistema, il programma ed il nome del file. E’ necessaria anche una copia cartacea del testo. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute. Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario). Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I testi inviati come sopra AVRANNO LA PRECEDENZA. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Per chi usa E-Mail: defelice.d@tiscali.it Il mensile è disponibile anche sul sito www.issuu.com al link http://issuu.com/ domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI Per il solo ricevimento della Rivista: Annuo... € 40.00 Sostenitore....€ 60.00 Benemerito....€ 100.00 ESTERO...€ 100,00 1 Copia....€ 5,00 e contributi volontari (per avvenuta pubblicazione): c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice. Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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