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Domenico Antonio Tripodi, pittore dell’anima, di Giuseppe Leone, pag
by Domenico
di Giuseppe Leone
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NON è nuovo Domenico Defelice a queste monografie su pittori contemporanei. Dopo averne scritto su Eleuterio Gazzetti (1980); Saverio Scutellà (1988); Michele Frenna (2001); Giuseppe Mallai (2004); Ottavio Carboni (2009), tanto per citarne alcuni, eccolo discorrere ancora d’arte in questo suo nuovo saggio dal titolo Domenico Antonio Tripodi. Pittore dell’anima, edito dalla Gangemi Editore International, Roma, nel dicembre 2020. Un volume, a metà strada fra biografia e racconto, attraverso il quale Defelice ricostruisce la vita e l’opera di un artista a cui è legato da immensa stima e profonda amicizia.
Lo fa, attraverso un andirivieni di giudizi e note, ora, sull’uomo Tripodi, la sua nascita a Sant’Eufemia d’Aspromonte nel 1930 e i suoi primi studi in Calabria; ora, sulla crescita e la formazione in Toscana, dove si era trasferito a 17 anni; ora, sugli anni della maturazione in Lombardia: prima, a Milano, dove lavorerà nel restauro, e poi a Como, dove assumerà la cattedra all’istituto superiore di restauro e dove “produrrà opere pittoriche dalle pennellate sempre più leggere e fluttuanti” (21).
Il tutto in una prosa dai toni distesi e colloquiali, assai più tipici della letteratura da viaggio, che non del saggio critico, dal quale sembrerebbe presto allontanarsi per l’ironia e l’autoironia che lo ispira, almeno nelle pagine iniziali, dove Defelice, descrivendo i preliminari del suo incontro con Tripodi a Roma per un’intervista, ha modo di parlare anche di sé e dei suoi acciacchi per l’età avanzata: “le gambe dolorano, al par delle piante dei piedi e la schiena è infreddolita come se avessimo dormito sopra un cubo di ghiaccio; della spremuta d’arancia, preparatagli da Clelia, che così giustifica: “in gioventù non abbiamo mai fatto colazione; ora, dovendo, ogni mattina, ingoiare una pastiglia e mezza per la circolazione e un’arteria semi calcificata, il dottore ci ha consigliato di accompagnarle almeno con una fetta biscottata e, nell’inverno, usiamo la spremuta al posto dell’acqua”; e sull’indebolimento della memoria, almeno da quello che si evince dalle premure di sua moglie che lo aiuta a prepararsi per non dimenticare nulla a casa, “Prendi i soldi, non girare senza denaro in tasca, com’è il tuo solito. Portati il telefonino. Non fare troppo tardi” (9). Né si può dire che l’ironia l’abbandoni una volta uscito da casa: lo accompagna anche quando descrive la varietà delle persone che incontra per la strada: da quell’indiano, con turbante, (che) se ne sta in disparte a una decina di metri, vicino a un’insegna pubblicitaria, fermo, quasi fosse di pietra lavica, e che così tanto somiglia al filosofo Profeta di Tripodi … ; a quelle
ragazze, con facce belle alla Beatrice tripodiana” (10); alla folla nel traffico cittadino, dove può enumerare i tanti guasti e difetti di una precaria amministrazione pubblica e privata: dal pullman, che tarda da mezzora … al marciapiede disastrato, sconvolto dalle radici dei pini; all’impresa che devono compiere i viaggiatori prima di scoprire il punto esatto dove parte il pullman per Roma: quella mattina, non dal solito posto, ma da un altro, perché “da giorni, da quando, sul largo s’è aperta, una voragine, i pullman fanno sosta su Via del Mare.
Ma l’ironia non lo lascia nemmeno quando il viaggio sembrerebbe finito: basta che varchi la soglia della casa di Tripodi perché la veda balenare nel suo “sorriso quasi timido … nonché nella fronte e gli occhi del pittore, anche se un po’ affossati, che brillano di pensiero alto, mobili, con guizzi da furetto” (12), come nei dipinti, appesi alle pareti, dedicati a Dante, che sale verso l’Empireo, risucchiato ora dall’amore di Beatrice, ora, dalla pietà verso Manfredi, con “il suo capo (che) ha appena toccato il terreno nell’improvviso gelo della morte,” (23); ora, dall’ammirazione verso Ulisse “mentre contempla Troia che brucia: i suoi occhi sono sbarrati e la sua bocca semiaperta nello stupore di un avvenimento atteso da dieci lunghi anni” (24).
E così, di ironia in ironia: da quella narrativa di Defelice, con la quale egli si prende gioco di sé come del suo personaggio; a quella del pittore dallo sguardo fiero; a quella comica, quale emana dai dipinti relativi alla commedia dantesca; all’ironia tragica, che Tripodi fa emergere durante l’intervista, quando rivela che il filosofo senza nome è un amico di Sofocle.
Quello che colpisce, allora, scorrendo le 96 pagine di questo volume, arricchito in copertina dal volto del Filosofo e, all’interno, da numerose tavole di cavalli e teste di cavalli, uccelli soprattutto, in posizioni e atteggiamenti vari … cormorani colombe, germani reali, gabbiani che dolorano, paesaggi verdi e brulli, e volti di figure antiche e moderne” (17), è come questo saggio, da esaustiva e puntuale monografia sull’ironia di Domenico Antonio Tripodi, divenga al tempo stesso una riflessione sull’ironia più in generale.
Un saggio agile e snello, in fieri, che non si conclude, né con l’intervista, né con l’approdo finale del pittore a Dante, ma che continua, infinito e inarrestabile, come lo stesso Tripodi ammette al termine dell’intervista: “La mia pittura, quella precedente al mio impegno con Dante, ha guardato verso due poli. Da un polo, ho guardato all’uomo impegnato nei suoi pensieri e nelle quotidiane faccende; dall’altro polo ho guardato agli animali, cogliendoli nel volo, nel gioco, nel riso, nel dolore e nei rantoli della morte” (32).
Tripodi - scrive Defelice - non completa se non volti, trascura tutto il resto, alla ricerca spasmodica, attraverso occhi, labbra, zigomi, movimenti impercettibili di nervi, dell’interiorità del personaggio. Non conosciamo l’intera produzione del pittore, ma ci sembra ci siano in essa solo poche figure intere, non braccia, torso, gambe, ma solo testa, volto, appena il collo e neppure del tutto lavorato ... Son pitture d’anima (22-23).
Ne è prova il volto di filosofo che adorna la copertina, che riassume fisicità e anima a un tempo, perché il corpo non è quello dell’animale, ma è il corpo sede dell’anima, non è l’involucro destinato a perire, esso è prezioso nella sua presenza, nell’attimo.
Questo volto di filosofo, beninteso, è il suo, del pittore in persona.
Come avrebbe potuto, sennò, Domenico
Defelice, giungere a queste conclusioni? “Come ogni poeta, scrittore, musicista, anche Tripodi, dipingendo, fa autobiografia, così ogni sua composizione è carica di armonie, filosofia, di messaggi vari che corrispondono al suo vissuto” (13).
Giuseppe Leone
Domenico Defelice: Domenico Antonio Tripodi Pittore dell’anima, Gangemi Editore International, Roma, 2020. Euro 20,
Pp. 96.