Pomezia Notizie 2015_11

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mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Parziale distribuzione gratuita (solo il loco) – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e succ.ve modifiche) - Per abbonamenti: annuo, € 50; sostenitore € 80; benemerito € 120; una copia € 5.00) e per contributi volontari (per avvenuta pubblicazione), versamenti sul c/c p. 43585009 intestato al Direttore - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.

Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 23 (Nuova Serie) – n. 11 - Novembre 2015 € 5,00

C’È FUTURO PER LA NOSTRA LINGUA? di Domenico Defelice N poco più di sessant’anni, l’Italia ha perso ben due treni in fatto di lingua ed entrambi a causa di una politica dissennata e di governanti miopi, che hanno privilegiato il contingente e la raccolta di voti, di consensi, a discapito di progetti di lungo respiro. Il primo, per non aver lottato affinché il latino lingua viva, duttile, capace di dare emozioni venisse scelto come idioma mondiale al posto dell’artificiale, asettico e perciò nato morto Esperanto. Possedevamo un tesoro e i nostri politicanti, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, anziché esserne orgogliosi e valorizzarlo, lo hanno buttato alle ortiche, togliendolo dall’ insegnamento nelle scuole medie e, in pratica, dalla nostra cultura. Difficilmente un’altra nazione l’avrebbe fatto. I governanti italiani hanno tradito il vero spirito della politica, che non è quello di guardare agli interessi

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All’interno: Medioevo in Valle d’Aosta: visita ai castelli, di Marina Caracciolo, pag. 6 Angelo Tonelli, intervista di Ilia Pedrina, pag. 8 Rodolfo Vettorello: Lettera in versi, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 14 Luigi De Rosa, una vita in letteratura, di Corrado Pestelli, pag. 17 Domenico Adriano: Dove Goethe seminò violette, di Elio Andriuoli, pag. 19 Carlo Emilio Gadda nella “Grande Guerra”, di Luigi De Rosa, pag. 21 Maurizio Mazzetto voce dignitosa della religione della libertà, di Ilia Pedrina, pag. 23 Imperia Tognacci in un saggio di Luigi De Rosa, di Anna Aita, pag. 26 L’attualismo di Giovanni Gentile, di Leonardo Selvaggi, pag. 29 L’immortalità: viaggio nell’assurdità, di Aida Isotta Pedrina, pag. 32 I Poeti e la Natura (Vincenzo Cardarelli), di Luigi De Rosa, pag. 35 Notizie, pag. 41 Libri ricevuti, pag. 46 Tra le riviste, pag. 47

RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 37); Laura Pierdicchi (Lettere, di Maria Grazia Lenisa, pag. 38); Andrea Pugiotto (Isola di cielo, di Tito Cauchi, pag. 39).

Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Rocco Cambareri, Tito Cauchi, Colombo Conti, Domenico Defelice, Salvatore D’Ambrosio, Michele Di Candia, Béatrice Gandy, Adriana Mondo, Eugenio Morelli, Teresinka Pereira, Laura Pierdicchi, Leonardo Selvaggi

meschini del momento, ma a disegni in grado di far crescere e popoli e nazioni e la lingua è lo strumento più consono per spianare ogni via, è alla base di ogni progresso. A questa perdita non vediamo rimedio. Il secondo treno l’abbiamo perso con il modo sciatto di insegnare la nostra lingua in patria (già Francesco De Sanctis denunciava: “Non ci è unità organica nell’insegnamento, non ci è fascio negli studi, non ci è correzione e sincerità nell’espressione”) e, poi, con lo scarso o non finanziamento delle nostre un tempo rinomate scuole all’Estero: in pratica, con la loro progressiva abolizione. Di questo passo, nel mondo avremo sempre meno persone in grado di parlare la nostra lingua. A questa seconda perdita ci sarebbe ancora rimedio, ma dubitiamo che gli attuali nostri politici sappiano e vogliano renderlo concre-

to. Attualmente, le lingue più parlate nel mondo sono: 1) Cinese mandarino; 2) Inglese; 3) Hindi/urdu; 4) Spagnolo; 5) Russo; 6) Arabo; 7) Bengali; 8) Portoghese; 9) Indonesiano; 10) Giapponese; 11) Francese; 12) Tedesco; 13) Pungjabi; 14) Wu; 15) Jawa; 16) Marathi; 17) Coreano; 18) Vietnamita; 19) Cantonese; 20) Italiano. Le lingue più studiate: 1) Inglese; 2) Francese; 3) Spagnolo; 4) Italiano. Le lingue ritenute più importanti (o perché parlate in ogni continente; o perché ufficiali dei paesi più influenti del mondo; o perché più utilizzate negli affari; o perché più parlate su Internet; o perché le più studiate): 1) Inglese; 2) Spagnolo; 3) Cinese mandarino; 4) Francese; 5) Arabo; 6) Russo; 7) Tedesco; 8) Giapponese; 9) Portoghese; 10) Italiano. L’Italiano nel mondo s’è diffuso nel corso


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degli anni a causa: 1) dell’emigrazione; 2) delle nostre colonie in Africa settentrionale; 3) della nostra particolare cultura e quindi del desiderio all’estero di studiarlo. Attualmente, esso è ancora vivo in nazioni europee come: Albania, Bulgaria, Croazia, Francia, Macedonia, Malta, Montenegro, Monaco, Serbia, Slovenia e poi in: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Giappone, Guatemala, Somalia, Stati Uniti, Tunisia, Libia, Venezuela eccetera. Da questi scarni dati, si può ricavare che non tutto sarebbe definitivamente perso se in noi ci fosse uno scatto di orgoglio e una politica decisa a ripristinare l’insegnamento dell’ Italiano nel mondo e maggiore attenzione nello studio sul nostro territorio. Si faccia, almeno, come in Germania, dove la Merkel ha affermato che l’intero Paese si è massicciamente attivato a far studiare il tedesco ai profughi e agli stranieri in genere che si stanziano sul proprio territorio. In Italia ciò non avviene e, se avviene, è in modo estemporaneo, senza impegno e senza orgoglio, né da parte degli insegnanti, né da parte delle istituzioni, non intervenendo con finanziamenti adeguati. Le nostre scuole all’Estero sono ormai quasi tutte chiuse. Una delle più prestigiose, la Dante Alighieri, oggi riceve risorse insignifi-

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canti se paragonate a quelle messe a disposizione delle proprie dagli altri Paesi. Nelle nostre scuole all’Estero vi hanno quasi sempre insegnato personalità di cultura e grande umanità; in quelle di Madrid e di Santiago del Cile, per esempio, negli anni sessanta e settanta vi ha insegnato anche un nostro indimenticabile amico, scrittore e poeta validissimo: Rocco Cambareri. Sue opere di quel periodo sono Azzurro veliero (Santiago del Cile, 1973), Paesaggi e profili (prose, Santiago del Cile, 1974) e Adiós Cile (1978). Nei Paesi con i quali l’Italia, in passato, ebbe rapporti significativi - Eritrea, Tunisia, Libia, Albania, dove, di conseguenza, si parlava largamente la nostra lingua -, oggi continuano a usare il nostro idioma solamente gli anziani, mentre i giovani lo parlano e lo studiano sempre meno, attratti, per motivi contingenti e vari, dalla lingua inglese. Quasi tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo hanno avuto, in passato, massiccia penetrazione delle nostre trasmissioni televisive, che, assieme alle scuole, rappresentavano i mezzi più efficaci a veicolare e radicare la nostra lingua. L’Italiano continua ad essere studiato nel mondo (4° posto) perché il nostro Paese detiene, secondo l’Unesco, il 70% delle opere d’arte e della cultura. Perciò, coloro che sono attratti - e, per fortuna, il numero è sempre in aumento - dall’arte, dalla musica, dalla cuci-


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na, dalla poesia eccetera, hanno interesse a studiare e a parlare la nostra lingua; ma anche costoro sono in calo - in aperta contraddizione a quanto appena affermato - e solo perché trovano meno strutture a ciò preposte nei loro rispettivi Paesi, costretti, quindi, a servirsi di surrogati, come l’apprendimento e lo studio di ciò che loro interessa attraverso le traduzioni e l’inglese. Atteggiamento assolutamente negativo alla diffusione della nostra lingua è quello delle nostre Istituzioni, presidenti della Repubblica e del Consiglio dei Ministri in testa, i quali, non solo in occasione delle loro visite all’ Estero o della partecipazione a Congressi internazionali, ma addirittura in patria, hanno la cattiva abitudine di scimmiottare spesso un cattivo inglese, quando dovrebbero parlare solo un corretto italiano, così come ogni capo di stato o di governo degli altri Paesi fa con il proprio idioma. Tutti, insomma, sono fieri e orgogliosi di parlare la propria lingua per rafforzarla, cioè, per mantenerla ed accrescerla tra i Paesi con i quali hanno o hanno avuto rapporti politici, economici e culturali; noi, invece, a tutto ciò non badiamo. Occorre affrontare con decisione il tema della diffusione della nostra lingua nel mondo, aiutando tutti coloro che desiderano apprenderla, rafforzando legami già esistenti e creandone altri, custodendo come tesoro il nostro linguaggio e assecondando tutti coloro che già con noi questo tesoro condividono. Alla perdita del primo treno ha concorso in modo determinante anche la Chiesa, con l’ esclusione del latino dalle sue funzioni religiose (abbandonando, per giunta, anche i can-

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ti gregoriani, che infondevano pathos e mistero ai diversi riti, suggestioni che, nella fede, hanno non poca importanza). Se noi fossimo un vero popolo - e Nazione vera, per dirla col Manzoni: “una d’arme, di lingua, d’altare,/di memorie, di sangue e di cor” - , se avessimo un po’ di orgoglio (sì, ne basterebbe solo un poco), specie se l’avessero coloro che ci governano - che dovrebbero darne l’esempio -, il secondo treno non sarebbe del tutto perso. La nostra bella lingua potrebbe avere ancora un futuro, avanzare più delle altre nel parlato e nello studio, trascinata e agevolata specialmente dal fattore artecultura, che finora ha reso l’Italia il Paese più ricco e più bello del mondo. C’è speranza che ciò avvenga? Ne dubitiamo. Negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, una Sinistra insensata e una Democrazia Cristiana ipocrita e corrotta hanno asfaltato il nostro orgoglio di nazione e di patria, sicché, come scriveva, profetizzando, il De Sanctis, “il nostro ideale [ma leggete orgoglio] non è serio, è velleità, non è volontà, e lo trovi solo sulla facciata delle scuole”. Ne dubitiamo, perché, purtroppo, oggi, esso è sparito pure da quelle facciate. L’intero mondo dell’istruzione è drammaticamente disastrato, dagli ambienti, dalle strutture in muratura, al personale amministrativo e docente. Viva ancora in noi è l’impressione - prima ilarità e divertimento, poi tristezza e depressione - suscitataci in gioventù (1959) dalla lettura di Scuola sotto zero di Luigi Volpicelli. Quella realtà in qualche modo è peggiorata. Abbiamo avuto occasione di conoscere e praticare docenti universitari digiuni non di sintassi, ma di grammatica spicciola. “Italiani, imparate l’italiano! L’invito del neoministro della Pubblica Istruzione Tullio De Mauro - scriveva Claudio Quarantotto sul quotidiano Il Tempo del 12 settembre 2000 non può che essere accolto con favore, oltre che con apprensione. Perché a quasi centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, siamo ancora a questo punto: che molti italiani non conoscono la loro lingua, o la conoscono male e la scrivono peggio. E non parliamo sol-


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tanto degli analfabeti o degli analfabeti di ritorno, ma anche di tanti troppi universitari che commettono errori di grammatica e di sintassi”. De Mauro - che, da rappresentanti sindacali della UIL, abbiamo conosciuto personalmente, allorché ricopriva la carica di Assessore alla Cultura della Regione Lazio - è stato uno dei pochi che si è battuto a favore della lingua italiana. Ma ebbe la disgrazia di venire dopo Luigi Berlinguer... Ci vorrebbe un colpo di reni simultaneo di ognuno di noi a tutti i livelli nell’intero paese per mutare la situazione, ci vorrebbe un miracolo. Noi crediamo ai miracoli, ma non ad uno di questo genere. Pomezia, 8 ottobre 2015. Domenico Defelice Immagini - Pag. 1: lo scrittore e poeta calabrese Rocco Cambareri (Gerocarne 1938 - Vibo Valentia 2013), che per anni ha insegnato anche all’Estero, tramite il Ministero degli Esteri e il Consolato, a Madrid e a Santiago del Cile; Pag. 3: Luigi Volpicelli (Siena 1900 - Roma 1983) e il suo volume Scuola sotto zero; Pag. 4: Tullio De Mauro (Torre Annunziata 1932), linguista e professore universitario, è stato Ministro della Pubblica Istruzione nel Governo Amato, dal 25 aprile 2000 all’11 giugno 2001.

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Ti rinfreschi alla fonte, mentre il tuo seno si porge allo sguardo… Di voluttuoso desio del viandante. Colombo Conti Albano Laziale

NON SARÒ NOCCHIERO No, non avere paura: non sono nei segreti silenziosi progetti di mani che qualsiasi marmo invidia. Figurati se potessi vantare una così celeste ambizione e di essere il Virgilio a condurti per mano sulla via che porta al prato di stelle, dove la Luna vedendoti di essa vestire impazzirà alla visione del candore della tua pelle, nuda. Salvatore D’Ambrosio Caserta

SETA SU SETA LE FUMATE E’ d’argento il filo che tessono i bachi. Leggiadra stoffa sarà ad imprigionare delle tue forme il bello. Tintinnii di campanule culla il mistral. Porte scrostate d’azzurro sulle facciate. Voci e sussulti nel villaggio dei pescatori. Tra l’essenziale sei il ridondante, il tuo profumo attira i sospiri nello splendore del sole ormai alto. Pigra e gattona, sulle lenzuola arruffate da battaglie notturne.

Ascolto estasiata la voce del vento ferma come roccia. Odoro i rampicanti da un passaggio strettissimo, tra le fragili architetture annerite dal tempo. Dai camini morbide fumate risalgono e formano sognanti foreste vaporose, dal picco nascosto rispondono i soavi canti di uccelli fantasmi. Quel vento di settentrione ci risveglia dallo stupore che abita in questi brandelli di natura e ci porta ancora una volta a custodire l'immagine perfetta dell'universo. Adriana Mondo


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MEDIOEVO IN VALLE D’AOSTA: VISITA AI CASTELLI DI ISSOGNE E DI VERRÈS (Domenica, 6 settembre 2015) di Marina Caracciolo

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prima vista il castello di Issogne, che già si scorge da lontano, tra le case del paese, dopo aver passato il ponte sulla Dora percorrendo la strada che viene da Verrès, non si presenta agli occhi del visitatore come un edificio imponente. Ben diverso, ad esempio, dal castello di Fénis, con le sue maestose torri e i mastii merlati, o da quello di Saint-Pierre, che pare una dimora di fate appollaiata su una rupe, il maniero di Issogne ha esteriormente un aspetto semplice e modesto, quasi dimesso se non fosse per il tetto sormontato dai fumaioli turriformi. I suoi tesori – che ne fanno forse il più bello e meglio conservato fra i castelli della Valle d’Aosta – sono tutti racchiusi all’interno: a iniziare dal cortile, affrescato con colorate e vivaci scene di vita medioevale, in cui si vedono anche, qua e là, curiosissime iscrizioni a graffito; al centro si ammira la famosa fontana del melograno (copiata nel Borgo Medievale di Torino) sormontata dal bellissimo albero in ferro battuto che – come ci spiega la nostra guida, il signor Massimo V. – ha frutti di melograno ma foglie di quercia, per simboleggiare l’ unione di forza e di prosperità. Proseguendo nella visita si scorgono stanze finemente ar-

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redate: per prima la semplice ma elegante sala da pranzo, adiacente alle cucine, corredata di tutte le suppellettili, una sala senza camino, ma riscaldata da una grande piastra metallica che arroventandosi emanava calore. E si continua più oltre con la cappella gotica, ricca di pregevoli affreschi; poi l’ampia e solenne sala delle armi, con un incantevole soffitto a cassettoni; e infine si sale alle stanze da letto (ognuna con la piccola camera attigua per ritirarsi in preghiera davanti alle scene sacre che ornano le pareti), in cui si vedono cassapanche intarsiate e letti a baldacchino con pesanti cortine e cuscini damascati. Tutto rivela una signorilità semplice e solenne, testimoniando nello stesso tempo il fasto di un’epoca di pace. Il castello, un tempo dimora del vescovo di Aosta, passò in seguito ai signori di Challant finché, nel 1480, Giorgio di Challant lo fece ricostruire – sulle fondamenta di un edificio più antico – conferendogli l’aspetto che oggi noi vediamo. Alle soglie del Novecento il direttore del Museo di Arte Antica di Torino, Vittorio Avondo, lo acquistò, lo fece restaurare e per anni raccolse pazientemente il mobilio che doveva ricreare nelle varie stanze l’ambiente del secolo XV. Infine, nel 1907, ne fece munifico dono allo Stato. Tutte queste notizie, che hanno sensibilmente accresciuto l’interesse e il piacere della visita, in una fresca ma soleggiata domenica di settembre, le dobbiamo al suddetto signor Massimo V. – persona di grande competenza e pure di grande simpatia – che oltretutto non è una guida qualsiasi, come siamo venuti a sapere, essendo nientemeno che il castellano, attuale signore del maniero di Sarriod de La Tour!… Il tempo per la visita era limitato: già un altro gruppo di visitatori aspettava di entrare davanti al portone d’ingresso. Forse per questo nulla si è potuto raccontare a proposito del fantasma che, secondo la leggenda, infesta il castello di Issogne: una bella dama vestita di bianco, che talvolta – dicono – è stata vista aggirarsi al suo interno reggendo fra le mani la sua stessa testa… La dama era Bianca Maria, nata ai primi del ’500, unica figlia di un facol-


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toso mercante di Casale Monferrato, la quale, rimasta vedova a poco più di vent’anni di Ermes Visconti di Somma, sposò in seconde nozze il conte Renato di Challant, con cui andò ad abitare a Issogne. Ma il matrimonio fallì. La giovane tornò a Casale, per poi trasferirsi a Milano. Qui si dice che conducesse una vita dissoluta finché, accusata di aver fatto assassinare uno dei suoi amanti, fu condannata a morte e il 20 ottobre 1526 decapitata nel Castello Sforzesco di Milano. La sua triste vicenda ispirò una delle novelle di Matteo Bandello e, secoli dopo, il dramma La signora di Challant (1891) di Giuseppe Giacosa. Ritornando da Issogne a Verrès (i due comuni distano l’uno dall’altro non più di 10 minuti a piedi) si può raggiungere la fortezza – che già a distanza si vede dominare l’ abitato dall’alto con la sua rude, maschia squadratura – per due strade diverse: una lunga e asfaltata che sale a tornanti verso il castello; l’ altra, assai ripida e faticosa, tutta ciottoli e gradini, che punta più rapidamente alla meta attraverso il bosco. Notevolissimo il contrasto tra il castello di Issogne e quello di Verrès: mentre il primo è, come abbiamo visto, un’elegante residenza, quest’ultimo è una possente costruzione quadrata (di 30 mt. di altezza e di lato) quasi senza aperture. Fu costruito, sempre dagli Challant, circa un secolo prima di Issogne, tra il 1360 e il 1390, con evidenti scopi difensivi e in modo tale che fosse praticamente inespugnabile. Nella sua lunga storia passò anch’ esso di mano in mano e di generazione in generazione a diversi padroni; fu anche per lungo tempo disabitato e abbandonato, finché dopo accurati restauri, divenne proprietà dello Stato. L’interno è quanto mai severo e disadorno: vi si vede un ampio scalone, vaste sale con camino, porte e finestre ogivali, stemmi e iscrizioni. Per la sua posizione e per la perfezione della sua struttura il castello di Verrès è un autentico capolavoro di architettura e di ingegneria militare, e può essere considerato forse il più bel monumento della feudalità che sia dato trovare in tutta la Valle d’Aosta. Marina Caracciolo

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ED IO MI RITROVO Ed io mi ritrovo ad abbracciare il giorno quando ognuno ancora lì crea il proprio spazio con gesti o con parole o con il proprio sguardo con tutti i suoi pensieri del momento o di ieri. Ed io mi ritrovo ad odorar la notte quando nessuno più la può lì limitare coi gesti o con le voci oppure coi pensieri anche se mai pensati in ogni dove o qui. Ed io mi ritrovo a percepir la vita in questa infinità che appare infinita senz'addurre un gesto senza portare un suono né il minimo pensiero di tutto o di niente. Ed io mi ritrovo in questo mio giocare col giorno e con la notte ed ogni percezione sapendo del mio Essere anche oltre il mio creare sapendo del mio Essere per sempre ed infinito. Ed io mi ritrovo nell' essere me stesso semplice amor potente con tutta l'umanità Scientology mi aiuta già. Michele Di Candia


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CON IL GRECISTA

ANGELO TONELLI, PER INDAGARE ASPETTI ANCESTRALI DELLA TRAGEDIA COME RITO di Ilia Pedrina

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O subìto il fascino del volume ‘ESCHILO SOFOCLE EURIPIDE TUTTE LE TRAGEDIE, con testo greco a fronte, a cura di Angelo Tonelli, per i tipi della Bompiani, pubblicato nel 2011: la Collana è certo prestigiosa, è quella diretta dal prof. Giovanni Reale ‘IL PENSIERO OCCIDENTALE’, ma a me non basta averlo avuto tra le mani. L’incontro con Angelo Tonelli è avvenuto a Lerici il 13 Giugno 2011, presso il Golfo degli dei e dei poeti, vicino al Castello che lo domina, al momento del tramonto ed io avevo in mano proprio il librone, un condensato di ricerca, di professionalità concreta, di esplorazione, di avventura nelle due diverse lingue, il greco e l’italiano, ad alto contenuto poetico. Colgo l'occasione per ringraziare i giovani adolescenti Nausicaa Tecchio e Leonardo Bordin, che mi hanno aiutato a sbobinare l'intero lavoro e a metterlo in stampa. I.P. Partiamo dalla Dea. Partiamo da lei, dalla dedica 'A Madame Diane Oddbeck Coty. Astro della mia giovinezza’. A.T. Partiamo da un punto cruciale! Diana era una figura di donna effettiva, sicuramente dotata di qualità particolari: insieme a Gior-

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gio Colli mi vien da dire che era stata un punto di riferimento iniziatico spirituale sapienziale, perché Colli era l’aspetto maschile di questa dimensione, collegato con il logos, invece Diana era proprio l’aspetto legato all’ anima in termini yunghiani, quindi una figura un po’ ai confini della realtà o come si può dire della maga bianca che ha profondamente segnato, come ho detto, la mia formazione spirituale e anche sentimentale, la dedica è principalmente proprio per questa figura di donna al confine tra la sfera umana e quella magica/divina in questo senso. I.P. Ecco: da Eschilo a Euripide la figura della donna, per una società patrilineare in una evoluzione della rappresentazione appunto per i politei, per i cittadini di quella polis. A.T. Parlando di Eschilo per forza viene in mente l’Orestea e quindi si va a toccare il femminile nella sua dimensione anche ctonia, le Erinni nella loro metamorfosi in Eumenidi, però accanto ad esse ci sono tutte le costellazioni, come dire solari del femminile: Atena, per esempio. In questo senso Eschilo va a toccare proprio il conflitto e anche poi l’ integrazione tra il maschile e il femminile nell’ Orestea: lì c’è la potenza immaginifica, grandiosa di queste figure ctonie che sono le Erinni anguicrinite che tutelano questo diritto del sangue, del ghenos regale di appartenenza e questa legge non scritta ma potente e che comunque nel corso poi dell’opera giungono alla metamorfosi come le Euminidi, le Propizie, e io l’ho letta proprio come un grande esercizio che va a toccare il profondo, quindi a livello subliminale della polis, la possibilità di una conversione della violenza in questo caso legata alla sfera femminile. Certo è che la tensione tra i sessi, presente e forte nell’ Orestea, c’è comunque e rimane un contributo irrisolto all’aspetto e alla potenza del femminile che è poi Clitemnestra, questa sua rivendicazione di essere la portatrice dell’ Aster, del demone vendicatore che rimane una figura, comunque una sorta di perturbante nell’ambito di questa riconciliazione che evidentemente è una riconciliazione difficile,


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visto il carattere patrilineare nella polis greca. Però c’è, in ogni caso, a livello simbolico, la grandezza, l’alchimia di Eschilo che è quella di avere trasformato la dimensione della violenza in una violenza giusta per la legge del sangue, se c’è una violenza giusta, e di averla trasformata, attraverso un processo di logos, o meglio di parola e di confronto, con l’ arbitrato di una figura come Atena. I.P. E per Sofocle abbiamo una evoluzione da questo livello di Dike contro Dike risolti in una gestibilità dell’incontro sociale: in Sofocle arriviamo ad una figura femminile, Antigone, che porta su di sé il ‘nomos’, la legge, vuole gestire il nomos divino rispetto ad un nomos, quello di Creonte, che nella legge della città vuole impedire il rapporto con la regola ed il tributo al principio sacro. E’ come se ci si fosse riappropriati di un interrogativo portandone avanti le valenze problematiche. A.T. Si. Antigone è libera da tutte queste connotazioni ctonie così possenti e meravigliose che ci sono in Eschilo e riesce a diventare paradigmatica a livello civico con questo gesto di ribellione in nome delle ‘agrapha dogmata’, di leggi non scritte, perché l’effetto nella lettura ed ancor più nella messa in scena dell’Antigone è di assoluta partecipazione da parte dello spettatore al gesto di Antigone e quindi lei diventa portatrice di un nuovo nomos che entra in conflitto con quello patrilineare vigente. I.P. Per arrivare poi ad Euripide, prendiamo dentro Medea ed anche l’ innamorata di Ippolito: Medea per una femminilità lacerata e per una giustizia di sangue contro il ghenos che ti ha violata e violentata; l’innamorata di Ippolito per un confronto con una verginità efebica che ti sfugge, rispetto al desiderio che ti doma: il femminile domato dal desiderio, una volta imprigionato nel bisogno dell’EROS mascolino, oltraggia, si fa oltre e agisce contro, nell’azione-intenzione di violare la verginità del giovane che solo arde per la dea Artemide. Il femminile in Euripide cambia e diventa trasgressivo.

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A.T. Si, decisamente. Con Medea è evidente: Medea l’ho interpretata come un dramma della irriducibilità a qualunque schema e a qualunque cambiamento, in un personaggio che è numinoso, essendo lei una semidea, una maga ed in questa esibizione di potenza di un femminile che non tollera ad un certo punto l’ oltraggio. I.P. Praticandolo? A.T. Sì, esatto: lei si erge poi in una potenza demoniaca e quindi lascia senza parole, alla fine, questo trionfo della dea, Medea, portata su nel carro del Sole e qui siamo veramente di fronte ad una epifania di un femminile potentissimo, trasgressivo ed irriducibile. Le Baccanti: questo è l’altro aspetto potente in Euripide, qui c’è proprio di nuovo un femminile collettivo: nella cronologia delle sue opere, le Baccanti si colloca alla fine ed il femminile è collettivo, c’è il ‘tiasos’, il gruppo delle donne riunite, sono sciamane tra l’altro, sciamane di Dioniso che diventano le portatrici del sovvertimento dell’intera polis per effetto del dio più femminile tra gli dei maschi, che è Dioniso, secondo connotazioni ambivalenti. Le Baccanti sono una culminazione di questo femminile che va ad urtarsi contro le leggi vigenti, contro chi rifiuta la presenza di Dioniso nel culto della città. Nell’Ippolito c’è lo stesso fenomeno, in questo caso di una rivolta distruttiva rispetto alla negazione di una possibilità di realizzazione del desiderio. I.P. Soffermiamoci ora sul Coro: portando l’attenzione sulla modificazione che può assumere il Coro in questi tre grandi Autori tragici e studiando la sua funzione all’ interno del dramma, è possibile parlare di evoluzione della consapevolezza attraverso il Coro, oppure esso rimane sempre, come dici tu, l’ ‘occhio interno’ all’evento? A.T. Io tendo a mantenere le specificità di ognuno, quindi a vedere ogni Autore di per sé, compiutamente. Certo vale questa dimensione del Coro come ‘occhio interno’ per tutti, poi ci sono momenti in cui il coro è più o meno partecipe, entra nell’azione, si fa giudice severo, ha mille forme di relazione con i protagonisti, però da un punto di vista struttu-


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rale è e rimane questo ‘occhio interno’, questo sguardo sulla vita all’interno della vita stessa, a sua volta vista, contemplata dal theomenos, dallo spettatore che è un MIRANS, come tendo a dire, non è uno SPECTATOR, ma uno che guarda a bocca aperta, con partecipazione, non uno che ti fa l’ entomologia, con lo sguardo asettico e critico sull’evento: lo spettatore è coinvolto completamente nell’evento e contemporaneamente ne è distaccato, un po’ come il Coro all’ interno della tragedia. Poi ci sono invece i Cori altamente attivi e partecipi, le Baccanti stesse ne sono un esempio, sono distaccate ma in azione. I.P. Dal Coro al Messaggero: ogni lavoro ha il suo portavoce: questo riferire i fatti, questo ‘farsi notizia’, questo farsi elemento di una quotidianità che può essere dall’ “appena superato” ad un passato ‘medio’. Che funzione affida ciascuno dei tre tecnicamente al Messaggero? Perché all’interno di ciascuna tragedia c’è un ruolo tecnico che gli appartiene come funzione scenica? E’ un reporter? Un annunciatore? Un ‘nunzio’? E’ colui che deve solo riferire i fatti senza interpretarli, lasciando quindi al Coro questo ‘dialeghein’, questo rapporto che non è di movimento ma di segnalazione, di parole, eventi narrati attraverso il riferimento che se ne dà di essi? C’è differenza in questo fra i tre? A.T. Su questo io non mi sono soffermato. Nel mio lavoro ho inteso evitare di porgere uno sguardo critico, quindi in qualche modo ‘esterno’, di meta-posizione, su tutto il materiale, appunto per riuscire a cogliere l’oggetto nella sua interezza, fare io stesso da ‘messaggero’ e da ‘coro’ rimanendo all’interno: ho evitato il lavoro critico privilegiando il lavoro pratico, ho dato loro voce senza vedere l’ aspetto sinottico, la sintesi ed ho evitato così certi ‘topoi’ dello sguardo critico sulla tragedia greca. L’unica cosa che mi pare interessante del Messaggero è questa: di solito sostituisce la violenza agita, viene a raccontare la violenza e non la sciorina direttamente come gesto, ma la comunica come parola e questo

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mi sembra un lavoro molto interessante legato alla violenza, alla catarsi che comunque ha un contenitore sacro, la violenza che è il dramma come luogo di celebrazione di Dioniso e anche delle forme di trasposizione che evitano la ‘coltivazione’ della medesima, il suo aspetto-effetto di ‘contagio’, l’esatto contrario di quanto sta succedendo oggi sui mass-media, dove c’è una educazione fortissima alla violenza. I.P. E questo connota anche la nostra lontananza dalla consapevolezza, da questo ‘Pathei Mathos’, dalla conoscenza attraverso il ‘pathos’. A.T. Questa è la sapienza perfetta della tragedia: 'Pathei Mathos', patendo conoscere, conoscere nel senso di una conoscenza che è consapevolezza e questa la trovo veramente il marchio iniziatico di tutta la tragedia greca, cioè è una via di conoscenza, non è l’ esercizio di divertimento, di passa-tempo alternativo , è proprio una via di sapienza: avere l’ occasione di cogliere la vita nella sua violenza, anche nella sua forza squassante, ma non rimanere lì, questo sarebbe un Dioniso a metà, sarebbe un Dioniso di Nietzsche, un Dioniso semplicemente così, un po’ scatenato, ma abbiamo anche il Dioniso dello specchio, il Dioniso Orfeodionisiaco, che è la consapevolezza, quindi ci sono tutti e due gli aspetti di Dioniso, l’energia, la vita e la morte mescolati e contemporaneamente la contemplazione, il 'Pathei Mathos'. Questo è il Dioniso della trance delle Baccanti e dello specchio, della contemplazione, che sono suoi attributi, quelli dei misteri, tanto che mi viene in mente che in una delle danze dionisiache dell’ Italia meridionale, la Taranta, ci sono dei passi in cui la tarantata danza guardandosi nello specchio. I.P. Questa è una tradizione profonda. Profonda è allora la trasformazione attraverso la danza di un “te” che è pubblico e contemporaneamente attraverso la danza diventa privato, diventa evoluzione, metamorfosi e questo è grandioso perché mantiene nel tempo il bisogno di farsi possedere da forze superiore a te. A. T. Esatto, comunque dicevo per tornare


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all’idea del messaggero e del coro, nell’ insieme ho l’impressione che facciano parte di questa dimensione dell’aspetto apollineo di Dioniso, per intenderci, prendendo l’ermeneia di Giorgio Colli, Dioniso ha aspetti apollinei e Apollo ha aspetti dionisiaci. I.P. Visto che abbiamo parlato di Colli, Giorgio Colli chi era per te? A.T. Colli era un grande portatore nei tempi moderni di questa sapienza, che ha colto nel mondo greco, principalmente. Poi soprattutto l’ultimo Colli, quello che ho conosciuto io, era quello che stava facendo l’edizione dei presocratici, dei sapienti dell’età greca, e quindi era un portatore di questo mondo. Per questa capacità di comunicazione era un vero maestro ed è stato appunto ciò che mi ha fatto avvicinare a questa ricerca, che poi ha continuato, sempre tenendo fermi certi punti che Colli ha indicato, e muovendoli per lidi anche un po’ diversi, comunque è stato veramente un iniziatore. I. P. A fianco del ‘Pathei Mathos’, nel contesto delle tragedie greche è presente anche il 'Dran', la decisione che taglia con tutte le altre scelte possibili. Vediamo questo aspetto. A.T. Ecco, il 'Dran': io ho lasciato volutamente sotto tono l’aspetto del 'Dran' perché un po’ c’era questa paraetimologia interessante di Nietzsche che interpretava 'Drama' dall’ etimologia falsa di 'Dran', inteso come “accadere”; è una paraetimologia, però ha il vantaggio di cogliere il fatto che il teatro greco non è luogo di spiccata individualità ma è un rito e quindi va colto nel suo insieme: ci sono sì delle figure interamente ‘protagoniste’, ma non bisogna dimenticare che avevano la maschera quindi l’effetto doveva essere una sorta di ‘Teatro del NO’. Se ci si fida solo dello scritto che ci è rimasto, si rischia di psicologizzare la trama, di affidarci tutto quello che non c’era. Nel 'Theatron' c’era quindi un grande evento e lì i personaggi ‘accadono’ all’interno di un ‘accadere’. Invece chiaramente c’è tutta una scuola di lettura del ‘Ti Draso?’ del ‘Che cosa farò’?’ in cui si pone la questione dell’'Airesis', della scelta dell’

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azione. Mi ricordo una vecchia lezione di De Benedetto negli anni ’70, in cui egli sosteneva che nell’ambito del teatro greco la scelta effettiva dell’individuo non c’è, in realtà anche ciò che ci sembra scegliere è frutto di una ‘ANANKE’, di una processualità di cui si è parte, di un’azione nel rapporto di cause ed effetti che prende il nome di ANANKE, di questa concatenazione rigida. C’è una testimonianza interessante sui misteri eleusini che ho usata nell’ultimo spettacolo che ho fatto su Edipo Re che parla proprio di questo, di un passaggio di ‘KATABASIS’, di discesa nelle tenebre e di risalita alla luce, di ‘ANABASIS’. Si tratta della testimonianza di un Padre della Chiesa sui Misteri Eleusini: ‘...anzitutto i tremori, i sudori, gli sbigottimenti’, quindi un percorso vertiginante e poi però subito dopo c’è la visione della luce. La funzione di ‘KATABASIS-ANABASIS’ è vistosamente presente in Edipo Re e in Edipo a Colono: viene portato tra gli dei dopo aver conosciuto se stesso ed io per questo, nella mia messa in scena, ho fatto Edipo re cieco prima, cioè quando ancora non sa di aver fatto quel che ha fatto e poi gli ho fatto togliere le bende, in realtà si acceca però ‘CONOSCE’. Qui Edipo Re è l’esempio perfetto di ‘KATABASISANABASIS’, come percorso perché prima scende nell’abisso, l’Edipo Re, e poi nell’ Edipo a Colono, che viene concepito come collegato, viene chiamato tra gli dei ed è egli stesso che comunica i misteri, credo siano quelli eleusini al re di Atene, a Teseo, che lo sopporta e lo sostiene. Ma è evidente ancora ed altrettanto nell’Orestea, nel percorso catabatico-anabatico di discesa nel sangue, nella violenza e poi nella metamorfosi, in questo caso delle divinità femminili da ctonie a solari e protettrici, in una conciliazione comunque non violenta del conflitto, attraverso il discorso, con una venatura patrilineare vistosa, segnalata da Atena che è la più mascolina tra le dee. I.P. ‘THEORIA- THEOMAI’: il ‘vedere’, da parte dello spettatore, da parte dell’ attore, da parte di chi è figura su uno sfondo: la struttura scenica quanto gioca sul ‘vede-


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re’? A.T. Credo che sia l’essenza, la struttura stessa del THEATRON, l’organizzazione medesima dell’azione, il fatto che ci sia un luogo in cui si va per ‘vedere’ e si vede un accadimento fatto di corpi in azione, di parola, non è solo una struttura ma è un pezzo di vita che si ha occasione di vedere con emozioni, con una forma di empatia ecc…La struttura stessa del THEATRON, la struttura dello spazio, dico, secondo me è sapienziale di per sé, cioè qualunque cosa venga portata lì dentro è un gesto conoscitivo perché è chi ha occhi, chiaramente per intendere che porta alla possibilità di distaccarsi senza rimuovere dal fondo anche violento comunque perturbante dell’ esistenza: questa è la grandezza del THEATRON proprio nella sua architettura, quindi qualunque, anche la più sciocca delle tragedie euripidee, ammesso che ce ne siano di sciocche è comunque troppo per la struttura stessa del THEATRON, un grande gesto conoscitivo, perché è come se ci dicesse: 'guarda la vita!', e questo guardare significa contemporaneamente sottrarsi alla sua morsa istintuale, alla sua morsa pulsionale, avvinghiante, quindi portare alla consapevolezza, al 'Pathei Mathos'. I.P. Qui c’è la possibilità di un apprendimento che è profondissimo e che necessita a ciascuno di entrare in un’evoluzione che deve essere collettiva perché il singolo attore senza spettatore non ha carattere perché non viene visto dall’esterno ed attraverso lo spettatore lo spazio si fa sfondamento, si fa quell’infinito verso il quale tu devi tendere! Ma perché Aristotele era contro questo tipo di funzione del teatro e anche addirittura al ruolo del flauto all’ interno del discorso recitativo, era proprio contro la musica ditirambica, contro l’ utilizzo del flauto come elemento di didattica? Perché? A.T. Penso che sia una sua difesa in un logos tutto mentale. Aristotele era uno che conosceva tutti i misteri Eleusini, è uno che forse è stato anche iniziato, ci riporta testimonianze che ci fanno capire che lui ad Eleusi c’è stato, quando definisce l’iniziazione come il prova-

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re un’emozione, essere in un certo stato, quindi sa che la conoscenza iniziatica è un modo di essere, non un modo di pensare, però poi lui ha creato la conoscenza come modo di pensare e non come modo di essere, che è proprio il distacco tra 'sofia' e 'filo-sofia'. Il filosofo è uno che ha un modo di pensare più o meno corretto, più o meno evoluto, più o meno articolato, invece il sapiente è colui che si pone come conoscenza, è uno stato di coscienza la sapienza, invece la filosofia è un contenuto di pensiero e la differenza come riferimento è fra il meditante orientale e il filosofo. Empedocle incarnava il sapiente, nel senso che portava in sé, come Eraclito, coscienza di sapienza, qui siamo in una sfera tutta diversa rispetto a quella aristotelica. La filosofia poi si formerà sul logos, sui procedimenti tutti dialettici, su questi anancasmi psichici ed invece la sapienza è il modo di essere del liberato, del contemplante che è molto simile, almeno nella mia interpretazione del mondo greco, alla sapienza d’Oriente. I.P. Allora la filosofia allontanerebbe da questa capacità della consapevolezza di farsi trasformazione del soggetto. A.T. Infatti! Nella mia personale visione, paradossalmente è più sapiente il più stupido degli spettatori della tragedia che non Aristotele, il loghikòs, perché lo spettatore della tragedia può sperimentare uno stato di coscienza, un modo di essere contemplativo rispetto al ‘Patei Mathos’, mentre Aristotele fa una grandissima arrampicata nel logos, che poi funzionerà da ‘thèkne’, quel logos che poi ha privato la tecnica di uno sguardo sulla tecnica che potesse liberarla dai rischi che si stanno correndo. I.P. Qui si andrebbe a toccare la capacità degli scienziati di avere uno sguardo ‘morale’ sulla ricerca che stanno facendo, prima ancora che questa venga messa in atto, forse così non ci sarebbe stato Hiroshima… A.T. Un’altra cosa interessante che Colli ci diceva a lezione è che i Greci avevano sospeso la ricerca tecnologica ad un certo punto perché avevano questa grandissima salva-


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guardia che erano i due concetti di ‘hybris’ e di ‘phtonon’, la tracotanza e l’invidia degli dei, che erano comunque una sorta di garanzia che oltre una certa soglia non si corre il rischio di andare. Ora io non sono un talebano dell’anti-tecnologia, però è evidente che uno sguardo sapienziale, cioè contemplativo e compassionevole, su tutto ciò che si fa ci salvaguarderebbe da certi rischi. I.P. La ‘hybris’ e il ‘brotòn’, la tracotanza e l’essere umano mortale, sono due termini che hanno la forza di una chiave di volta della stesura dei testi tragici. A.T. La ‘hybris’, la tracotanza, l’arroganza è trattata bene nei Persiani di Eschilo: è legata alla thèkne, al fatto che Dario abbia voluto andare contro natura, abbia voluto creare un ponte sull’Ellesponto per invadere la Grecia ed è stato punito. Il messaggio è chiaro: non bisogna andare oltre i limiti della natura altrimenti ci si deve fare carico delle conseguenze. I.P. Ma questa natura umana ha in sé la tracotanza? E’ una dote negativa? E’ propria di tutti i ‘brotòi’ di tutti gli esseri umani mortali e quindi la funzione che ha il teatro è quella di abbassare il tono dell’arroganza sostituendolo con la consapevolezza? A.T. Certo, essa è legata alla sfera della volontà di potenza ed è alla base anche del tragico: nell’Antigone per esempio c’è lo scontro tra Creonte e Antigone sotto forma di potenza da esibire, riporta sempre alla distruzione di uno dei due termini ed è comunque anche la legge dell’esistenza secondo Anassimandro. C’è quel frammento bellissimo che dice: “Le cose dalle quali è nascimento alle cose che sono, sono anche quelle dalle quali si sviluppa la rovina secondo il decreto del Tempo”. E infatti le cose si legano l’una all’ altra in questa distruzione, per la legge che vuole che ritornino all’unità originaria dalla quale sono sorte ed allora il conflitto è questo modo per tornare al momento che precede il principio di individuazione, al quale poi si collega, come estremo, alla ‘hybris’. L’incantamento continua, a lungo, e molto

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troverò ancora da dire con lui, interrogandolo con qualche sosta, per lasciarlo respirare. In un futuro dilatato ed approssimante. Ilia Pedrina

IL CANTO DEL TUO RESPIRO Sento il canto del tuo respiro che sommesso mi chiama. Brividi caldi lungo la schiena, avverto il tuo corpo. Non ti lascerò sola in questa landa di ghiaccio che tormenta la mente. Il tremore che senti scomparirà con l’abbraccio. Nervi sensibili tesi come corde di violino allenteranno la presa. Sopraggiungerà la calma poi la felicità di sentirti mia in questo dolce giaciglio. Mai ti allontanerò… Te lo prometto come promisi l’amore al mio primo sentimento. Farai parte di me… Ed io di te… Fino a che il tramonto risorgerà con l’alba. Colombo Conti Albano Laziale

STRANE SENSAZIONI L'ordito del giorno dipingeva di verde la fredda mattina. Le ombre velanti, le boschine secche ordivano trame, fra cimase fitte, dove ogni colore si spegneva. Fra i picchi dei monti, covavano fuochi e la luce sanguinava nella radura, stregati flagelli diffondevano una forsennata paura. Sotto il grigio sipario del cielo. Adriana Mondo


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RODOLFO VETTORELLO:

LETTERA IN VERSI di Liliana Porro Andriuoli

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ELLE Edizioni Helicon è apparso nell’aprile del 2015 un libro dal titolo LETTERA in VERSI dedicata a Rodolfo Vettorello, a cura di Rosa Elisa Giangoia. Si tratta della pubblicazione in volume del n. 51 (numero del Settembre 2014, dedicato appunto al poeta Rodolfo Vettorello) della rivista on-line “Lettera in Versi”. Mi sembra importante prima di passare ad analizzare questa pregevole pubblicazione, dire due parole di presentazione di “Lettera in Versi”, una newsletter di poesia che, puntualmente, ogni tre mesi, presenta un poeta e la sua opera. L’ultimo numero, il 55mo, dedicato a Bruno Bartoletti di Sogliano al Rubicone (Cesena-Forlì), è uscito proprio pochi giorni fa; ed è per noi un piacere e un orgoglio aver dato un non piccolo contribuito a divulgare e far conoscere le poesie di ben 55 poeti che, a parere nostro, possono “meritare questo nome a pieno titolo”, come ben dice Rosa Elisa Giangoia1. La “LiV”, come affettuosamente viene chiamata “Lettera in versi” in Redazione, nacque a Genova, quindici anni fa, “tra alcuni amici”, che gravitavano intorno allo splendido salotto dei coniugi Giangoia-Tealdi, dove da tempo si tenevano vari incontri per condividere esperienze letterarie, in particolare “di lettura e produzione di testi poetici”. E fu proprio per “tenere memoria” di alcuni di questi incontri (o forse meglio per poter “allargare a più persone possibili il piacere e il senso del valore della parola poetica”2), che fu varato, nell’ottobre del 2001, il primo numero di “Lettera in versi”, dedicato a Margherita Faustini, la poetessa genovese che, insieme a Rosa Elisa Giangoia, ebbe la felice

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Editoriale, LETTERA in VERSI dedicata a Rodolfo Vettorello, Edizioni Helicon, Arezzo 2015. 2 Dal Sito https://bombacarta.com/leattivita/lettera-in-versi/.

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idea del progetto. Dal 2003, e precisamente con il n. 6, dedicato ad un altro poeta genovese, l’ing. Aldo G.B. Rossi, iniziò anche la mia collaborazione a questa coinvolgente iniziativa. Oggi, dopo la morte di Margherita, avvenuta nel gennaio 2009, siamo rimaste Rosa Elisa (che la dirige) ed io a portare avanti, con lo stesso entusiasmo di allora, la “LiV”, che ottiene sempre nuovi consensi e la cui realizzazione è per noi sempre più stimolante. Lo schema della rivista è rimasto immutato: suddivisa in cinque sezioni, inizia con un Editoriale3, a firma della Direttrice, con il quale si cerca di meglio collocare il poeta presentato nel quadro più generale della nostra poesia italiana. Seguono nell’ordine un Profilo Biobibliografico, in cui, oltre a qualche cenno sulla vita, viene esposta l’attività letteraria svolta dal poeta sino a quel momento e l’ Antologia poetica, che contiene una nutrita scelta di poesie operata, ovviamente sempre in accordo con il poeta presentato, alternativamente dalla Direttrice o da me, a seconda di chi rediga quel particolare numero della rivista. Si conclude con un’Intervista, in cui il poeta risponde ad alcune domande, pertinenti per lo più alla sua opera, rivoltegli dalla redattrice di turno e, con l’Antologia critica, in cui viene riportata una serie di giudizi espressi dai critici che si sono occupati dell’opera del poeta in questione. In diversi numeri è stata inserita anche una recensione, talora già edita, a uno dei libri più recenti del poeta presentato. Dal 2007 “Lettera in Versi” può vantarsi di essere una delle attività di Bombacarta e si trova sul Sito: https://bombacarta.com/leattivita/lettera-in-versi/. Ma veniamo al n. 51 di “Lettera in versi”, quello dedicato a Rodolfo Vettorello che, con l’elegante volumetto di cui stiamo per parlare, ha avuto l’onore della stampa. Inizia ovviamente con l’Editoriale, in cui 3

Una parte degli editoriali è già uscita nel volume: Rosa Elisa Giangoia, Appunti di poesia – Vademecum per chi la ama (Fara Editore, Rimini, 2011, € 11,00).


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Rosa Elisa Giangoia, dopo una riflessione sull’enorme quantità di poesia che si scrive ai nostri giorni (moltissima parte della quale circola in Rete), perviene alla conclusione che tale fenomeno non fa altro che confermare la necessità, avvertita specie dall’uomo moderno, di «evidenziare ed affermare la sua individualità, soprattutto emotiva e sentimentale … per privilegiare il proprio “io”, esprimerlo e comunicarlo, in un’ansia di preservare il “sé” dalla marea montante di “tutti gli altri”». D’altra parte, leggiamo ancora poco oltre che, proprio diffondendo la poesia, scopo primario delle “Lettere in versi”, si aiutano i lettori «a crescere nella loro consapevolezza di essere uomini» e si indicano «dei percorsi per realizzare quella pienezza di umanità a cui ciascuno deve tendere». Nel Profilo bio-bibliografico dopo alcune succinte informazioni sulla vita e sulle opere di Rodolfo Vettorello (nato a Castelbardo PD - e residente a Milano, dove, dopo la laurea in Architettura, esercita la libera Professione), segue una sintesi della sua attività letteraria e dei riconoscimenti da lui ricevuti in vari Premi. Completa il Profilo la riproduzione delle copertine delle sue 15 sillogi poetiche. Un’ampia selezione dell’opera in versi di Vettorello è offerta dall’Antologia poetica, che permette di farci un’idea abbastanza compiuta della sua poesia. Emergono infatti, da tale scelta antologica, subito nette sia la limpidità del dettato, di questo autore, immediatamente comunicativo, sia l’assidua presenza del metro da lui preferito, che è essenzialmente l’endecasillabo. Emerge inoltre dalla lettura di questa Antologia che quella di Rodolfo Vettorello è una poesia di diversa ispirazione, nascente da mille “occasioni”, che possono essere date dall’ evocazione di un poeta come Camillo Sbarbaro (p. 23), nel quale si identifica o da quella di un poeta come Montale, del quale ricorda le Lettere a Clizia (p. 26) o ancora da quella di un poeta come Giovanni Pascoli, di cui ricorda la casa di Castelvecchio, da lui visitata (p. 28). Ma anche la natura è fonte assidua d’

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ispirazione per il nostro poeta, come mostrano poesie quali Settembre, Crete senesi e La conchiglia. Ciò che però maggiormente conta in lui è la riflessione sulla contemplazione del mondo esterno oppure sul ricordo di un momento sereno di vita, colto con immediatezza e verità, come: “Pedali avanti a me, / piegata un poco, / come i fuscelli d’erba / dal vento fresco e teso. / Troppo dolce è non dire una parola / ma sorriderti quando ti rigiri” (Settembre, p. 29). Ed immediate sono invero le sue notazioni, fermate in versi incisivi e computi, quali: “La casa è come un nido di pensieri” (“Non recidere forbice…”, p. 31); “Ma il tempo ormai mi ruba le parole” (Come un miraggio, p. 37); “Un uomo è solamente la sua storia” (La memoria che ci resta, p. 56); ecc. Talvolta più intensa si fa in lui la parola, come avviene in Crete senesi: “Vorrei svegliarmi / e che fosse ancora / col rumore dei tram della mia strada…” (p. 35) o in Al fondo: “Io sono stato a margine da sempre, / la vita ch’è passata / io l’ho vista passare solamente” (p. 42). Per ciò che concerne la contemplazione del mondo esterno, sempre suscitatrice di immagini e pensieri, cui sopra si è fatto cenno, si veda ad esempio La lucertola: “Mi piace restare abbagliato nel caldo / di un raggio di sole su questa panchina / affacciata sul bordo del fiume / di traffico come / la mite lucertola viva sul sasso” (p. 40) o anche Quattro lucciole; “Porto Levante e le sue case mute / sono la spiaggia dove muore il fiume” (p. 41). Talora è invece un soprassalto che coglie Vettorello nel vento dei suoi pensieri: “Temo la malattia, la sofferenza, / l’arrivo della sera, / la sete che fa male / e questo andare senza meta” (Io temo, p. 46) o lo prende un moto affettuoso dell’animo verso colei che ama: “Le tue mani da stringere nel buio / e sentire che sai molto di più / del poco che conosco dell’amore” (Beatrice, p. 50). Talaltra a rapirlo sono delle città come L’Aquila: “L’ acqua che scorre dalle tue fontane / gorgoglia come polla di sorgiva / e disseta la gola nell’ arsura” (p. 51) oppure l’assedia il pensiero


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della morte: “Io la corteggiavo da tempo / la morte, così che se viene / non posso che dire: aspettavo” (p. 61, L’amante spietata). A sedurlo è poi talora anche la nostalgia di un paese dell’anima: “… non so trovare un senso / per questa voglia assurda di tornare” (Itaca, p. 75); mentre lo spaventa il pensiero del male che lo lega: “Il Male esiste, / io sono un testimone” (L’altra faccia della luna, p. 77). Sempre comunque dalle sue poesie emerge netta la personalità di questo poeta, con la sua cifra e la sua meraviglia di fronte alle epifanie del Creato e con la sua capacità di autoanalisi; ma soprattutto con la sua capacità di espressione. Quello che è il modo di concepire la poesia di Vettorello emerge chiaramente dall’ Intervista fattagli da Rosa Elisa Giangoia, durante la quale afferma che per lui la prima regola della poesia è quella della concisione: “La ricchezza dell’aggettivazione [egli dice] nuoce sicuramente alla poesia che trae vantaggio invece dalla sintesi. È infatti luogo comune dire che la poesia è «l’arte del togliere»”. Necessario è inoltre per Vettorello che la poesia abbia un suo ritmo, che nel suo caso personale si traduce essenzialmente nel ritmo endecasillabico, con tutta la varietà di accentuazioni che questo verso contiene. Ed insiste molto, il nostro poeta, sul fatto che la poesia debba avere un ritmo ben preciso, anche quando non è strutturata in endecasillabi, ma in versi liberi, perché è proprio dal ritmo che essa trae senso e valore. Così come molto insiste sulle ragioni della sua scelta metrica che poggiano essenzialmente sull’armonia e sull’efficacia della resa espressiva. La poesia, secondo Vettorello la si riconosce inoltre per la sua forza di sintesi e per le sue immagini. Egli conclude dicendo che ciò che meglio lo rappresenta è “la dinamica dell’inquietudine” o meglio ancora, tout court, “l’Inquietudine” stessa. L’Antologia critica pone in rilievo molti degli aspetti e delle caratteristiche della poesia del nostro autore, fra i quali vorrei ricor-

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dare: la tematica del quotidiano messa in luce da Enzo d’Urbano e Paolo Ruffilli; il “nitore descrittivo” segnalato da Fabio Maria Serpilli; “la pena esistenziale del vivere quotidiano che accompagna la vita dell’ uomo moderno”, evidenziata da Leopoldo Saraceni; “le modulazioni foniche” e “la preziosità tonale lievemente di evocazione” lodate da Marina Pratici; “le scelte lessicali pregnanti” ammirate da Anna Gertrude Pessina; ed infine la definizione, da molti condivisa, di “una poesia che guarda più al sentimento che alla ragione”, fornitaci da Nazario Pardini; ecc. Una poesia ricca di motivi e ben articolata, dunque, quella di Rodolfo Vettorello, che questo libro egregiamente evidenzia nella varietà del suo nascere e del suo svilupparsi e fa sì che il suo autore degnamente figuri nella compagine dei poeti da noi presentati. Liliana Porro Andriuoli RODOLFO VETTORELLO: LETTERA IN VERSI - (Edizioni Helicon Arezzo, 2015, € 11,00)

BAMBINI LAVORATORI I bambini lavorano nel fango, nell’acqua stagnante nella spazzatura, pulendo la città, sono bambini lavoratori o bambini soldati di una guerra che non capiscono... Anche le bambine lavorano come netturbini o nella prostituzione o nell’orrore del matrimonio prematuro... Fino a quando la morte deve porre fine alla miseria della vita, e l’essere umano andare a completare il suo destino secondo la norma naturale dell’umanità? Le creature hanno il diritto di mangiare, di crescere, di imparare e di cercare l’allegria di vivere. Teresinka Pereira USA, 19 settembre 2014, traduzione dalla spagnolo di Tito Cauchi


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LUIGI DE ROSA, UNA VITA IN LETTERATURA di Corrado Pestelli

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ER Luigi De Rosa si può ben parlare di “una vita”, perché ha cominciato a pubblicare poesie e prose nel 1952, a circa 17 anni, su suggerimento del presidente della sua Commissione di maturità classica, grazie a una rivista mensile de “La Scuola Editrice” di Brescia. De Rosa, figlio di genitori partenopei, ha vissuto tra la Liguria, terra d'elezione dove si è laureato, e altre Regioni del Nord Italia (a Trieste, Alessandria, Torino e Bergamo è stato Provveditore agli studi; quindi il ritorno a Genova come Sovrintendente scolastico regionale per la Liguria). Autore di vasta produzione e di ampio riconoscimento critico, ha scritto liriche, racconti, recensioni, saggi, articoli giornalistici (iscritto a lungo all'Ordine, ha collaborato, fra le altre testate, al “Il Gazzettino”, di Venezia e “Il Secolo XIX”, di Genova ). Ha collaborato anche a molte riviste letterarie, facendo parte, per alcune, del comitato di redazione. E' stato, ed è, membro di Giuria di Premi Letterari. Notevole il numero di Premi, a sua volta, vinti come Autore. Basta citare, negli ultimi anni, nella Sezione Poesia, i Premi “Teramo” e “Crotone”, nel 2005, “Maestrale”- Sestri Levante 2006,

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“Mario Soldati”, Torino 2006, “Montecassino-Paidèia (2008), “Città di PomeziaPomezia Notizie” (2010), “Terre di Liguria” e “Portus Lunae” (2012), “I Murazzi-Torino (2013). Tra i suoi libri di poesia, Risveglio veneziano ed altri versi, con lettera autografa di Diego Valeri; Il volto di lei durante, due edizioni, con prefazioni di Giorgio Bàrberi Squarotti, dell'Università di Torino, e di Sandro Gros Pietro, Gènesi, Torino 1990 e 2005; Approdo in Liguria, con prefazione di Maria Luisa Spaziani, ibidem 2006; Lo specchio e la vita, con un saggio introduttivo di Graziella Corsinovi, dell'Università di Genova; Fuga del tempo, con prefazione di Sandro Gros Pietro. Ha scritto anche libri di storia e di saggistica, tra cui uno su Antonio Angelone (Edizioni Accademia, Isernia) ed uno sull'opera letteraria di Imperia Tognacci (Giuseppe Laterza Editore, Bari). Numerosi i suoi testi critici su Ungaretti, Pascoli, Montale, Saba, Sbarbaro, Caproni, Giovanni Giudici ed altri poeti e scrittori. Motivi e paesaggi, temi, sentimenti, risonanze ed atmosfere presenti nelle liriche di Luigi De Rosa non rendono errato il concetto di una sua fondamentale appartenenza alla “scuola ligure”, ad una delle linee illustri per eccellenza della poesia italiana del Novecento. Ma non per questo si tratta d'un poeta epigono: tutt'altro. Forme e significati, nei componimenti di De Rosa, nella sua cifra creativa, sono, e si pongono, come rielaborazione del tutto personale di sollecitazioni liriche e di singola interpretazione del reale e del vissuto, ma anche dell'esperienza in atto di un'originale concezione di poetica. D'altronde, la sua appartenenza, già notata dalla critica, “ al versante ermetico dell'attuale idea di poesia” è confermata, e insieme arricchita, dalla molteplicità di registri lirici nei quali prende voce la parola dell'autore. Ne offrono ampia prova poesie come Il volto di lei durante, Fino a quando le rondini, Luoghi, Approdo in Liguria, Verso la foce. Non mancano davvero i luoghi di riferimento, materiale e mentale; ma, scrive si-


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gnificativamente De Rosa “ i luoghi che mi sembra/ di meglio conoscere/ e amare/ sono i luoghi nei quali/ non sono mai stato.” Corrado Pestelli (Professore ricercatore presso il Dipartimento di Italianistica dell'Università di Firenze) (Da Letteratura italiana contemporanea – Antologia del Nuovo Millennio – Edizioni Helicon – Arezzo 2015 – a cura di Neuro Bonifazi, Andrea Pellegrini, Corrado Pestelli, Cristiana Vettori).

CARPE DIEM ... Perché rimpiangere il passato e così rattristarsi quando bello fu il viverlo? Meglio è nel ricordo riviverlo e rallegrarsi di ciò che fu e che avrebbe potuto non essere stato mai. E perché immaginare un avverso futuro ed anzi tempo addolorarsene? Solo il presente ci può dare veramente il dolore e quindi solo per il presente è giusto e ragionevole addolorarsi quando è triste. Ma è anche giusto e doveroso sperare nel futuro perché il tempo sa guarire i dolori dell’anima e smorzandoli renderceli quasi dolci. Mariagina Bonciani Milano

SABBIA Dove si arrende il mare lì lascia scritta la sua prepotenza in bocche aperte e in vuotate orbite affamate solo di cielo.

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Neoplasie del confine, dove la forza d’acqua porta il pacifico sacrificio di vittime offerte alla natura dalla natura nel suo moto, così, casuale, tale da rendere quelle cose organiche arse, nel luogo mangiato dal sole, rappresentazione di un naufragio del tempo, di un luogo abulico dove la morte grida: “dilago sulla luce”. Inutile divagazione, spaventosa difficoltà d’apprendimento che il tempo nulla distrugge, ma ricrea quanto basta a fare anche del vuoto e del silenzio di polvere silicea, prova di resistenza alla morte: creando all’infinito altra -seppure invisibilesconosciuta vita. Salvatore D’Ambrosio

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 23/9/2015 Si riapre il can can sull’intercettazione telefonica, continuando a fare straccio dell’art. 15 della Costituzione, che sancisce la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. L’ autorità giudiziaria può autorizzare l’ intercettazione, ma non darla in pasto a chicchessia; deve, anche se presente nei fascicoli processuali, rimanere segreta. È la magistratura che si è arrogato il diritto della diffusione del suo contenuto, palesemente violando la Carta. Domenico Defelice


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DOMENICO ADRIANO:

DOVE GOETHE SEMINÒ VIOLETTE di Elio Andriuoli

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ON un andamento narrativo, ma capace di improvvise illuminazioni, Domenico Adriano ha scritto il suo nuovo libro di poesie, Dove Goethe seminò violette, una raccolta che si presenta come degna di attenzione non soltanto per la sapienza stilistica che la regge, ma anche per i contenuti umani di cui è portatrice e per i riferimenti culturali che vi traspaiono. Qui infatti si avverte subito che l’autore ha un suo ritmo, che fa tutt’uno con l’intuizione poetica e da essa scaturisce; un ritmo nel quale s’incanala l’emozione con immediatezza e verità. Si leggano, ad esempio, questi incipit: “Lo feci scoprire a mia figlia, un giorno, / quello scabro fico che se ne sta / tra due muri, in un dito di giardino” (Lo feci scoprire); oppure: “Ma gli uccelli dove vanno a morire? / Nessuno lo sa, non me lo sa dire / mio padre che li ha amati” (Ma gli uccelli dove vanno a morire) e si avrà un’idea, per quanto appros-

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simativa, del modo di far poesia di questo autore. Sempre comunque le poesie di Domenico Adriano scaturiscono da fatti concreti di vita che l’autore coglie ed anima col suo sentimento. Esse posseggono perciò le caratteristiche dell’evidenza e del contatto diretto con la realtà. Si legga, ad esempio: “Le parole del padre saettavano / insieme a una miriade / di rondini verso i due nidi / della casa di fronte, guizzavano / con le loro ombre sul muro” (Le parole del padre saettavano), dove quel volo di rondini saettanti nel cielo è colto con una particolare immediatezza visiva. Lo stesso può dirsi di una poesia dedicata da Adriano alla madre, che affiora come una donna molto attiva e tuttora dedita alle incombenze domestiche, non ostante l’età: “Non riesce a stare ferma mia madre: / un albero può stare fermo? / Tra le fronde dei suoi ottantacinque / anni, all’imbrunire / nuvole d’ uccelli cercano un appoggio” (Non riesce a stare ferma mia madre). Ed è significativa l’ immagine dell’albero che con la sua chioma ospita gli uccelli, assimilato alla madre, la quale ancora sorregge e aiuta chi le sta vicino. Ma il contatto diretto con il mondo esterno s’incontra ad ogni passo in questo libro, nel quale tutto diviene oggetto di poesia, scaturendo essa dalle più diverse occasioni. Si veda, ad esempio, questo incipit: “Come pioggia battente / veniva giù per il vicolo un pianto / allegro di organetto, si spandeva / per l’ aria” (Come pioggia battente), dove subito balza agli occhi il contrasto insito nell’ espressione “pianto allegro di organetto”, che genera un’immagine molto efficace. Anche altrove però troviamo in questo libro delle immagini compiute, quali: “… le finestrette colme di tramonto” (Si rammaricava Baldacci); “… la bocca / spalancata di una casa” (Andavo e venivo); “dentro il fuoco del ghiaccio” (Non per la trasparenza); “svegliare le violette” (Non ho fatto in tempo); ecc. Tra le poesie maggiormente significative di questa raccolta vi è quella che inizia: “Non ho mai conosciuto / la madre di mio padre”, nella quale il pensiero della nonna s’affaccia ca-


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rico di sofferenza, per quello che il poeta ha poi saputo di lei. La poesia infatti così prosegue: “Ma il dolore / più grande fu del figlio / che non la ritrovò / uscendo dalla prigionia. Morì / - raccontano - di fame / dentro ad un campo profughi / divorata dai pidocchi. Poi, / stretta ad altri corpi, gettata / in una fossa (Non ho mai conosciuta). Echi del tempo di guerra s’incontrano invero anche in altre poesie di questa raccolta, nella quale si leggono versi quali: “Com’è veloce il tempo / prigioniero / a Norimberga erano lunghe / le ore” (Com’è veloce il tempo) e “… io non ero ancora nato ma vidi / all’orizzonte quel che restava, la pietraia / dell’Abbazia di Montecassino” (Me lo raccontò mio padre). E’ questo il ricordo di un luogo in cui si svolse una furiosa battaglia tra le truppe tedesche in ritirata e quelle degli anglo-americani. E si veda anche “… il soldato / tedesco sporco e stanco / a cavallo verso Montecassino / che canta Lilì Marleen”, nella poesia Prima che me lo dicesse un libro. Sovente in questa silloge compaiono degli animali, specie degli uccelli (cardellini, passeri, rondini, pettirossi, trampolieri); ma vi figura anche “un asino lento” (Mi venivano agli occhi); delle “lucertole a mirarsi pigre” (Non diventate mai vecchi!) e un’ape che “volava tra noi” (Ivi). Una metafora è invece quella di questo incipit: “Due piccoli cerbiatti i tuoi seni”. Caratteristica di questa raccolta è poi il ricordo di molti poeti ben noti, come Umberto Saba, che compare in una delle prime poesie, la quale inizia: “A chi posso mia madre assomigliare?” (eco di una celebre poesia sabiana). Si vedano inoltre Ugo Reale, emergente da Poi la bambina mi ha consegnato due / lettere; Rodolfo Di Biasio, del quale è ricordato un libro, Patmos, (“Erano tornati dalla presentazione / del libro in versi Patmos); Corrado Govoni, riaffiorante da “«Ti ho portato / una poesia!...» / E’ di Govoni, / vi volano farfalle” (E ora se ne sta qui sulla soglia); Pier Paolo Pasolini, la cui immagine s’affaccia da “E’ ricomparsa, o era / un sogno la lucciola

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dell’infanzia. / Ho pensato a te Pier Paolo / che ne avresti gioito” (E’ ricomparsa, o era); Dario Bellezza, che affiora da Andavo e venivo: “Andavo e venivo / sul Lungotevere…”; Patrizia Cavalli, emergente da Le finestre di Palazzo Farnese; Tommaso e Rodolfo Lisi, da Le persone stavano assiepate; Elio Fiore, da Dopo che il mare se ne andò; ecc. Un libro ricco dunque di contenuti umani, questo di Domenico Adriano, emergenti non soltanto dal suo affetto per i familiari, ma anche dai sentimenti verso persone con le quali egli ha instaurato un rapporto di pura amicizia. Un’ultima figura emerge da queste pagine, quella di Maria Obolensky, morta a soli diciassette anni e sepolta ne cimitero acattolico di Roma, non lontano da Shelley e Keats. Ella “vive / al giardino dei poeti / dove Goethe seminò violette” dice Adriano, riferendosi al fatto che in questo cimitero è sepolto anche August Goethe, l’unico figlio del grande poeta tedesco Johan Wolfgang Goethe. Da qui il titolo della raccolta, che si presenta come un’ulteriore prova riuscita di questo autore, il quale dal suo primo libro, La polvere e il miele, molti altri di pregio ha pubblicati. Elio Andriuoli DOMENICO ADRIANO: DOVE GOETHE SEMINO’ VIOLETTE (Edizioni Il Labirinto, Roma, 2015, € 12,00)

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 7/10/2015 Il sindaco di Roma, Ignazio Marino - detto anche Marziano e Sottomarino -, s’è dimesso dopo aver raggiunto il primato mondiale del ridicolo. Il Papa non l’ha invitato negli Stati Uniti d’America e l’ambasciatore del Vietnam smentisce di essere stato a cena con lui. Alleluia! Alleluia! Panda rossa, Casamonica, millantati inviti, cene conviviali... Nessuno l’ha toccato o scaricato: è stato lui soltanto a farsi male. Domenico Defelice


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In occasione del Centenario 1915-2015

CARLO EMILIO GADDA

NELLA “GRANDE GUERRA” LA DELUSIONE DI UN INTERVENTISTA di Luigi De Rosa

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ENTO anni fa, nel 1915, l'Italia era “intervenuta” nella Prima Guerra Mondiale, contro l'Austria-Ungheria e la Germania. Per perseguire l'obiettivo di liberare le “terre irredente” (Trento, Trieste, Fiume) l'Italia era passata dalla Triplice Alleanza (patto difensivo firmato già nel 1882 con l'Austria e la Germania di Bismarck) al campo delle potenze della Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia). Tra i giovani interventisti più convinti ed entusiasti c'era anche il futuro scrittore Carlo Emilio Gadda, che aveva tralasciato il Politecnico e la Facoltà di Ingegneria, per andare a combattere come sottotenente degli Alpini una guerra ritenuta “giusta e santa”, ma poi aveva vissuto con consapevolezza critica gli aspetti deludenti di certa disorganizzazione e di errori tattici e strategici dovuti a comandanti incompetenti o non ancora pronti, e comunque scarsamente solleciti delle condizioni

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materiali e morali delle truppe. Gadda aveva vissuto, soprattutto, come psicologicamente distruttiva l'esperienza di prigioniero di guerra, essendo stato catturato dagli Austriaci dopo la rotta di Caporetto. (Si veda, in proposito, il suo Giornale di guerra e di prigionia). Il futuro, “allucinato” autore di libri come La cognizione del dolore (ma molti lo ricordano più per quella specie di giallo di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana) era nato a Milano il 14 novembre 1893, da famiglia facoltosa (padre industriale, villa a Longone in Brianza, etc.). Però gli investimenti sbagliati del padre, anche nell'allevamento dei bachi da seta, e poi la morte dello stesso, precipitarono una famiglia ricca sull' orlo della miseria. Solo la madre, col proprio lavoro e coi suoi sacrifici, salvò il figlio. Comunque Carlo Emilio, pur in possesso della maturità classica, ripudiò le proprie inclinazioni letterarie per iscriversi alla Facoltà di Ingegneria del Politecnico (da scrittore maturo si sarebbe poi pentito amaramente di tale scelta). Nel 1915 il ventitreenne aspirante ingegnere elettrotecnico partì quindi volontario, arruolandosi negli Alpini. Non fu inviato, però, in prima linea, venendo assegnato al fronte dell'Adamello e delle alture del Vicentino. Nella disastrosa rotta di Caporetto, come ricordato, fu fatto prigioniero dagli Austriaci e deportato ad Hannover, in Germania, dove strinse amicizia con Ugo Betti e Bonaventura Tecchi. Il suo amarissimo Giornale di guerra e di prigionia fu tenuto segreto per sua volontà. Sarebbe stato pubblicato solo nel 1955, da Sansoni, Firenze, e ripubblicato, con delle aggiunte, da Garzanti, dieci anni dopo. Nel 1920, tornato a Milano, si laureò al Politecnico in ingegneria elettrotecnica, e andò a lavorare, con tale laurea, in Lombardia e in Sardegna, in Belgio e in Argentina. Nel 1924 si iscrisse alla Facoltà di Filosofia per dare finalmente soddisfazione alla propria passione per le scienze umane e la letteratura. Ma pur avendo superato tutti gli esami, non si


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laureò mai, perché non discusse mai la tesi. Il che non gli impedì di iniziare a collaborare dal 1926 a riviste come la fiorentina Solaria, e a pubblicare due libri di racconti, La Madonna dei filosofi e Il castello di Udine (Premio Bagutta). Poi avrebbe abbandonato la professione di ingegnere, collaborato alla RAI, scritto i suoi romanzi più famosi. Ma torniamo brevemente al suo Giornale di guerra e di prigionia. Qui Gadda si rivela un mazziniano infiammato di ideali e di virtù morali. Non può non vedere con disgusto che a poca distanza dai luoghi in cui tanti giovani, magari contadini strappati alla terra, si sparano e si infilzano con pugnali e baionette, la gente cammina tranquillamente, prende l' aperitivo in Galleria, fa sesso, pensa ai propri affari economico-finanziari. Lo scrittore vede belle calzature passare e pensa alle suole mezze marce delle scarpe dei suoi soldati. Suole e tomaie fasulle che sicuramente hanno fatto arricchire alcuni a scapito di altri... Ammira l'attacco e il coraggio (incoscienza?) della fanteria allo scoperto ma poi nota con delusione che l'attacco non viene portato fino in fondo. Applaude allo slancio generoso di alcuni soldati ma non può non disprezzare la pigrizia e l'ignavia di quelli che non amano “lavorare” per munire e fortificare le posizioni occupate a rischio della vita. Dice a un certo punto: “Le nostre fanterie sono buone: il soldato italiano è pigro, specie il meridionale: è sporchetto per necessità, come il nemico, ma anche per incuria: provvede ai bisogni del corpo nelle vicinanze della trincea, riempiendo di merda tutto il terreno: non si cura di creare un unico cesso; ma fa della linea tutto un cesso; tiene male il fucile che è sporco e talora arrugginito; di sperde le munizioni e gli strumenti da zappatore...dormicchia durante il giorno mentre potrebbe rafforzare la linea; in compenso però è paziente, sobrio, generoso, buono, soccorrevole, coraggioso, e impetuoso all'attacco...” Ma non si capirebbero appieno certe insof-

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ferenze infastidite, certe critiche “feroci” di Gadda sottotenente se non si ripensasse anche alla amara infelicità da lui sofferta durante l' infanzia e l'adolescenza. Se non si sapesse delle ombrosità del suo carattere, della sua personalità da heautontimorùmenos (punitore di se stesso, nella commedia omonima di Terenzio) sempre scontento, soprattutto di sé. Sempre dolorosamente nostalgico della madre che, quand'era viva, osteggiava sistematicamente. Sempre affezionatissimo al fratello Enrico, aviatore, morto in guerra nel 1918, che avrebbe voluto continuasse a vivere al posto suo ( perché lui sì, che la meritava, la felicità...) Nel Diario di Caporetto, che Garzanti ha pubblicato insieme al citato Giornale, Carlo Emilio Gadda arriverà a scrivere, a Milano, l' ultimo giorno dell'anno 1919: “ (Ore 22. In casa). La mia vita è inutile, è quella di un automa sopravvissuto a se stesso, che fa per inerzia alcune cose materiali, senza amore né fede. Lavorerò mediocremente e farò alcune altre bestialità. Sarò ancora cattivo per debolezza, ancora egoista per stanchezza e bruto per abulìa, e finirò la mia torbida vita nell'antica e odiosa palude dell'indolenza che ha avvelenato il mio crescere mutando la possibilità dell'azione in vani, sterili sogni.. Non noterò più nulla, perché nulla di me è degno di ricordo anche davanti a me solo. Finisco così questo libro di note.” Ma dal 1920 fino alla morte, avvenuta a Roma il 21 maggio 1973, avrebbe avuto modo di scrivere Novelle dal Ducato in fiamme (Vallecchi 1953, Premio Viareggio, un attacco a una certa Italia del Ventennio guidata da un Dux o Duca) e diversi altri libri originalissimi, tra cui La cognizione del dolore (Einaudi 1963, Torino). Opere scritte con un linguaggio del tutto personale, tra il saporoso e il provocatorio, dovuto a un impasto unico di lingua corrente e di gergo, di termini tecnici e di neologismi, in un arruffìo gomitolesco unico nella letteratura italiana. Luigi De Rosa


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MAURIZIO MAZZETTO VOCE DIGNITOSA DELLA RELIGIONE DELLA LIBERTÀ di Ilia Pedrina

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I fa compagno e guida nelle riflessioni sui grandi pensatori del nostro tempo e non solo, da San Francesco d'Assisi a Etty Hillesum, da Hanna Arendt a Primo Mazzolari, da Mario Rigoni Stern ad Antonio Giuriolo, Maestro dei 'Piccoli Maestri, tra cui Luigi Meneghello, dai pensieri alle parole scritte di molti altri ancora; ci accoglie ospitale nella sua dimora a Vigardolo, con la Mamma Armida, a suo tempo staffetta partigiana, per condividere alla sera le gioie della mensa ed ognuno porta sempre qualcosa, mentre il pane è quello di Margherita e del suo sposo, di San Germano dei Berici; ci fa da tempo scoprire i lati nascosti e problematici di una città come Vicenza, interrogando le nostre coscienze e proponendo riflessioni semplici ma incisive, perché i suoi 'Percorsi', sempre interrogativi sono dedicati, come scrive lui, ai disobbedienti, ai partigiani, agli uomini liberi. Maurizio Mazzetto, classe 1956, ama la Parola e se ne è fatto da tempo interprete, trasferendone la potenza e la luce nei suoi pensieri, nei suoi gesti, nei suoi passi: da questa scelta discende il suo modo di essere protagonista pieno nella storia di tutti noi, perché ci si difenda contro ogni sopruso che impedisca la realizzazione etico-politica della

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nostra dignità, nella creatività d'elezione che ci appartiene. Intende la spiritualità come dimensione vastissima, quasi infinita del nostro modo di essere al mondo e ne tiene conto aprendo le sue braccia a chi ne senta il fluire in sé, silente o manifesto che sia: che questa abbia o meno il volto della religione rivelata, poco importa, perché ciò che ha valore è proprio la religione della libertà, quella stessa ragione viva per la quale Antonio Giuriolo è stato ucciso a Lizzano di Belvedere il 12 dicembre 1944. Dalla strada di Via Riale, in pieno centro, ci fa notare la lapide posta all'interno della Biblioteca Bertoliana e ci legge: 'In tempi servili qui cercava rifugio nella storia e nella poesia qui nell'attesa insegnava la dignità del cittadino Antonio Giuriolo partigiano medaglia d'oro cresciuto e caduto per la religione della libertà'. Arzignano, 12.2.1912 - Lizzano di Belvedere, 12.12.1944 - Medaglia d'oro (M. Mazzetto, Dai colli al centro città: 'Ora e sempre, resistenza!- Da Antonio Giuriolo fino ai Sinti', documento in fotocopia). Ama camminare anche in alta montagna, da solo o in compagnia di amici dalle gambe predisposte alla bisogna e conosce le zone di guerra della nostra storia tra i monti ed i valichi alpini, teatro di azioni militari della Prima e della Seconda Guerra d'Europa e del Mondo. Resiste ed insegna a resistere: i suoi passi l'hanno portato in Perù, in Palestina, e quest'estate su al Nord, in Svezia, nell'Isola di Gottland. Scrive racconti, poesie, diari di viaggio ed in Internet, al sito 'BoccheScucite' si possono leggere i lavori che testimoniano il suo impegno in lotta contro il sistema che assume facce differenti ma sempre tende ad annientare, nel sopruso, il più debole, singolo individuo o popolo che sia: da questo sito allora traggo alcune testimonianze concrete del suo modo di essere a questo mondo. “Mi guardavo le scarpe, nei giorni scorsi.


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Le vedevo, leggermente, impolverate. Della polvere della Palestina. Si, della Palestina, non della 'Terra Santa'. Smettiamola di chiamarla 'terra santa'. È il contrario di essa. È terra di violenza e di sangue, di divisione e di emarginazione, di sofferenza e di dolore. È terra peccatrice, non santa. Il fatto che sia stato il luogo geografico dove sia vissuto Gesù di Nazareth, non la priva dell'impegno di purificarsi e di convertirsi 'dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani' (Giona, 3-8). Anzi. Dovrebbe darne l'esempio, esserne il modello, la 'terra promessa' per tutti i popoli, per tutte le persone. Ed invece... C'è una pace armata, che non è mai pace (Ger. 6, 14). C'è una sicurezza armata rafforzata con la costruzione del 'muro'. Che non è mai sicurezza (Is. 32, 17b). C'è, soprattutto, una terra rubata (ai palestinesi) che non può più essere, allora, la terra promessa e ricevuta in dono (da Dio), C'è, in fondo, una tensione e una tristezza che aleggia su tutto e ovunque (insieme alla sofferenza e alla umiliazione per molti), al posto di regnarvi la gioia e la pace, ossia i frutti dello Spirito (Gal. 5, 22), che sono il segno di una vita buona, benedetta da Dio. Allora, tornato a casa, mi chiedevo se avrei dovuto togliere - in quanto Pellegrino di pace e di giustizia - quella polvere, seguendo l'invito di Gesù (Mt. 10,14). No, non l'ho fatto. Voglio ancora credere che sia possibile il ravvedimento, e l'accoglienza della Parola da parte di tutti. Che sia ancora possibile sperare, nonostante tutte le smentite, e proprio perché, come diceva molti anni fa il Sindaco di Firenze, Giorgio la Pira: 'La pace nel mondo si risolve nel Medio Oriente e passa attraverso la pacificazione fra le tre religioni che si riconoscono in Abramo: l'Islam, l'Ebraismo e il Cristianesimo. Fino a che queste tre religioni non si riconoscono con fraternità e con rispetto, la pace nel Medio Oriente, anzi la pace nel mondo non ci sarà.'” (Maurizio Mazzetto, sito 'BoccheScucite - voce dai territori occupati', pubblicato da Francesco Penzo il 15/3/2013, in rete). Ora i muri si costruiscono anche qui in Europa, in quell'Europa che doveva essere solo

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dei Popoli e non più delle Nazioni perché l' Unione doveva avvenire dal basso, dalle terre e dai loro abitanti, dalle azioni e dai progetti che fanno cultura e conoscenza, dalle lingue parlate e dalle Costituzioni scritte, che avviano alla riflessione ed al cambiamento, in maniera flessibile. Perché si è organizzato dall' alto il potere onnivoro del denaro e di chi lo manovra per possederne sempre più, a costo zero, sfruttando quella sottomissione che viene dalla paura? Perché con la moneta come scusa ed espediente si mettono a segno giudizi morali legati a vizi e virtù che appartengono a tutt'altro campo? Perché amministrando la morale senza averne né la delega dai Popoli né il diritto si commette ogni sorta di azione che dipende da oscuri disegni devastanti anche la natura stessa dell'ambiente in cui si vive? Allora Maurizio Mazzetto si è fatto portavoce della protesta contro coloro che, fondamentalmente chiusi alla ragione e all'equilibrio dei rapporti tra persone in territorio libero e sovrano, hanno ucciso a Parigi l'11 gennaio 2015. Si, lo ha fatto anche dal pulpito della Parrocchia di San Floriano e Valentino, in Vigardolo, proprio fuori nella campagna del Vicentino, dopo aver riportato i testi scritti per l'evento dal Direttore dell'Avvenire, Marco Tarquinio, in risposta alla lettrice Elena Fornari, da Chiara Zappa ('Ridere con Maometto. L'umorismo nell'Islam'), da Sabrina Cavinato ('L'ironia che rimane'), da Giorgio Forti ('Solo i non razzisti spengono gli incendi'), dal Movimento nonviolento ('Matite spezzate e fucili spezzati' 8 gennaio 2015): “... È molto interessante notare il fatto che quando una persona scrive -come quando parla- vien fuori ciò che ha nel cuore(oltre a quello che ha nella testa), comprese le paure e le angosce, le chiusure e le difficoltà ad accettare le critiche e le ironie, i cambiamenti personali (a cui non vogliamo accondiscendere) e le trasformazioni storiche (che facciamo fatica a comprendere). Per quanto mi riguarda, non mi sento offeso se uno mi prende in giro o prende in giro Abramo o Mosè o Gesù Cristo o Maometto o … Capisco e rispetto la sensibilità altrui ma sono consapevole anche


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del cammino che dobbiamo fare insieme e della cosa più preziosa a cui - tenendo conto di tutte queste considerazioni che abbiamo letto - dobbiamo giungere. Ritengo, infatti, che la cosa più importante da analizzare è come reagiamo alle critiche o alle satire. Altrimenti rischiamo, senza volerlo, di fare il gioco degli stessi terroristi e dei guerrafondai: arrabbiandoci (diversa dalla rabbia è la giusta indignazione) andiamo nella stessa direzione che conduce, all'estremo, sia agli attentati dei terroristi che alle guerre fatte da noi. Appunto...” (M. M. testo inviato in e-mail il 15 gennaio 2015). A chi lo segue nei cammini domenicali dentro e fuori la città di Vicenza percorre in lettura e libera comunicazione pensieri e riflessioni meditati e scelti con pacata, illuminata consapevolezza: per 'Vicenza città dell'ambiente?' lo accompagna Emilio Bagarella, coinvolto in tante parti del mondo, dal Kosovo alla Palestina, all'Afghanistan ed in tanti altri luoghi ancora, chiamato con organizzazioni onlus per rispondere ai bisogni della gente, donne, bambini, uomini profughi dalle zone di guerra ed in fuga dalla morte. Dalla Basilica di Monte Berico, centro del potere spirituale, all'esterno del Piazzale della Vittoria il nostro sguardo viene orientato ad osservare la Basilica Palladiana della Piazza dei Signori, antica sede del governo della città, e poi, oltre ancora, la costruzione della base militare americana, un paese forse, per vastità di dimensioni: manca quasi il fiato, perché ora le risorse delle falde acquifere, sulle quali poggia la costruzione straniera, sono irreparabilmente inquinate di trielina e questo preziosissimo bene ci è stato sottratto con violenza. Don Maurizio Mazzetto con tanti altri sacerdoti ha lottato strenuamente perché questa base non venisse costruita: ora, con questi percorsi illuminati si impegna a tener desta la coscienza e la capacità di lotta che ne salvaguarda il libero respiro. Ha scelto di seguire le tracce di Dietrich Bonhoeffer e ne dà testimonianza quando ci accompagna a vedere dall'alto del Monte Crocetta, appena fuori dal centro, tutto il complesso della base, per poi

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discendere la collina e trovare le sorgenti del piccolo torrente Seriola, circondate da alberi: qui, come in un bosco sacro dove si svolge un rito dalla forza propiziatoria, egli ci legge, emozionato: “... La grande mascherata del male ha scompaginato tutti i concetti etici. Per chi proviene dal mondo concettuale della nostra etica tradizionale il fatto che il male si presenti nella figura della luce, del ben operare, della necessità storica, di ciò che è giusto socialmente, ha un effetto semplicemente sconcertante; ma per il cristiano, che vive della Bibbia, è appunto la conferma della abissale malvagità del male... Chi resta saldo? Solo colui che non ha come criterio ultimo la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù ma che è pronto a sacrificare tutto questo quando sia chiamato all'azione ubbidiente e responsabile, nella fede e nel vincolo esclusivo a Dio: l'uomo responsabile, la cui vita non vuole essere altro che una risposta alla domanda e alla chiamata di Dio. Dove sono questi uomini responsabili?” (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere ed altri scritti dal carcere, ed. Queriniana, Brescia, 2002, pag. 25, riportato in Maurizio Mazzetto, Sul Monte Crocetta, 2° Percorso a Vicenza tra natura, storia, arte e pace, 2014-2015). Da queste e da altre parole alla scelta personale di vita, Maurizio Mazzetto incoraggia a resistere, a guardare in faccia i lineamenti sfigurati degli iniqui, simulati dietro un accattivante perbenismo: egli ci invita in semplicità a non avere paura ed allora, nelle parole e nei fatti, riesce ad essere convincente. Perché tutti possano godere e capire il suo modo di essere nella Scrittura, ci offre il pensiero più bello che ha ricevuto : “Il Gesù che conosco io è certo il Figlio di Dio, ma in questi giorni è soprattutto per me il Re che si è lasciato oltraggiare fino alla morte. In modo che al disonore è stato tolto il suo potere”. Queste parole sono di Ann-Christin Kristiansson, pastora luterana svedese che Maurizio ha incontrato su su, in Svezia. Ha promesso di condividere ricordi, emozioni, immagini e segnali di luce. Ilia Pedrina


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Una interessante monografia per la Poetessa tra le più intense e vere della seconda metà del Secolo XX

IMPERIA TOGNACCI IN UN SAGGIO DI

LUIGI DE ROSA di Anna Aita l’ottima penna del noto critico Luigi De Rosa ad offrirci il meraviglioso percorso letterario di Imperia Tognac-

È

ci. Incomincia la scrittura, il nostro saggista, dalle primissime creazioni di questo personaggio, dimostrando, con la sua scrittura, come e quando ella sia nata mirabile letterata e continui ad esserlo fino ad oggi. Luigi De Rosa recensisce, uno dietro, l’ altro i suoi lavori. Nel capitolo primo ci racconta della silloge “Traiettoria di uno stelo", principiando dai lavori che lo hanno preceduto (che non furono mai pubblicati},

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e che si identificarono, secondo il suo parere, come preparazione alla prima importante raccolta poetica. L'Esegeta afferma che, sebbene questi lavori presentassero, fin d' allora, una non comune maturità, il grande divenire della letterata era iniziato proprio dall'opera suddetta, lavoro al quale furono assegnati diversi premi. I versi raccolti in questa pubblicazione sono dedicati al ricordo dei suoi genitori, a sua sorella Diva e alla terra che, oltre a darle i natali, è stata da sempre fonte di ispirazioni. Molte poesie della Tognacci sono, infatti, impregnate della cultura, delle tradizioni e soprattutto dei sentimenti ispirati alla sua Romagna. A questa prima silloge, segue l’opera "La notte di Getsemani", intrisa di fede. La partecipazione al Cristo sofferente è palpitante e reale. In questa poesia, Luigi De Rosa riscontra e sottolinea due particolari interpretazioni della Tognacci di fronte all'evento nell'orto degli ulivi, fino alla tragica fine: un Cristo umanissimo combattuto tra l’ istinto di conservazione e la volontà precisa di assolvere al compito affidatogli da Dio, e cioè riscattare con la propria vita i peccati dell'umanità; e la partecipazione sofferta, resa molto bene, da parte della natura e degli animali, al terribile momento della crocifissione. Il coinvolgente lavoro di Luigi De Rosa continua sfiorando le toccanti tematiche di "Natale a Zollara" che riportano Imperia nel suo paesino per le festività natalizie, immergendola, nostalgica e trepidante, nelle sue memorie di fanciulla: la madre e i suoi romantici merletti, i nonni, la sorella, la Fiera di Santa Lucia... E, mentre "Odissea Pascoliana" ripercorre e accompagna le vicende del Pascoli, "La porta socchiusa" è un poemetto religioso che esprime il desiderio di varcare la soglia dell'Arcano: il Mistero di Dio, della Creazione e l’eterno dilemma: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. "Il tutto", scrive il De Rosa, “in una ricerca piena di dubbi e di esitazioni, incertezze,


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affermazioni e improvvise negazioni: il tutto reso ancor più difficile dalla solitudine interiore, dove l'anima sembra soffocata dal buio e a malapena riesce, di tanto in tanto, a intravedere un fioco raggio di luce, nella speranza, spesso frustrata, di vedersi immergere nel possente, unico, pacificatore raggio di luce della Verità". Segue "Il prigioniero di Ushuaia". Questo paese, che come precisa il nostro critico, è la località più meridionale del globo, è sede di una prigione destinata a detenuti condannati per delitti di sangue e la poetessa, già affascinata "dalla singolare atmosfera del paesaggio antartico, dalla tragica e grandiosa "bellezza" degli elementi naturali", rimane colpita dal dramma di uno dei prigionieri. Non potendone sopportare la sofferenza, si ribella respingendo in cuor suo lo stile di vita degli europei. Lungo la sua disamina, l'Autore sottolinea un'importante componente della poetica di Imperia: il vento. Tale elemento, riflette e denuncia, meriterebbe uno studio a parte, fatto "strofa per strofa, verso per verso". E giungiamo al commento su "Il lago e il tempo", "due coordinate immateriali", considera il De Rosa, "una nello spazio, e una nel fluire invisibile del tutto". Le composizioni di questo poema non hanno titolo ma sono agganciate l'una all'altra: versi sentiti, amorosi a ripercorrere il tempo passato: un canto d'amore tenero e nostalgico in una poesia, rileva il nostro critico, che matura sempre più. Il lago cui allude la Tognacci, chiarisce ancora Luigi De Rosa, non è la nota distesa d'acqua ma un "contenitore'' di memorie, di sentimenti, di pensieri. Su "ll richiamo di Orfeo", mi piace riportare delle righe molto significative dell'Autore che, dopo aver scritto sulla modalità di sistemazione delle quarantacinque parti o megastrofe che compongono il poema, così si esprime: "... la forza lirica unitaria di questo poema è tale che il linguaggio utilizzato, plastico e duttile al contempo, preciso e poliva-

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lente, è talmente acceso e incalzante da rendere non essenziali queste pur utili indicazioni pratiche ". E mi pare che queste righe siano pienamente esplicative dell'importanza e della bellezza del poemetto. Nell'aprile 2012, ecco un nuovo lavoro: "Nel bosco sulle orme del pastore", che il De Rosa giudica "perfettamente riuscito e di alto valore letterario ". Domina nella scrittura la figura del pastore Aristeo che, scrive l'Autore, richiama simbolicamente quella del Buon Pastore. I messaggi di speranza, in essa contenuti, sono molteplici: ricostituire, ad esempio, il perduto rapporto d'amore tra l’uomo e la natura; ridare vita alle tradizioni e soprattutto riportarle agli antichi valori spirituali; riequilibrare l’importanza dell'ossessiva ricerca del benessere materiale a vantaggio di benefici comunitari come la fratellanza. Il tutto in una mirabile poetica. Siamo giunti così, velocemente, al recente lavoro di Imperia Tognacci: "Là dove pioveva la manna" che il nostro Autore, precedendoci, ha letto inedito: "Imperia", scrive il De Rosa, "non finisce mai di meravigliarmi per la sua prolificità poetica, ma, soprattutto, la qualità letteraria di questa nuova silloge mi appare di livello ancora più elevato dei poemetti precedenti ". Quest'opera, relaziona l'Esegeta, scaturisce da un viaggio in Giordania, durante il quale la protagonista vive diverse importanti esperienze come l’attraversamento del deserto a dorso di cammello alla ricerca di beni spirituali, onde alleggerire la sua anima e i suoi tormenti. Questa, finora rivisitata, è la prima parte del libro in oggetto. La seconda, commenta i libri in prosa della letterata. Per ciascuno dei lavori che si susseguono in tutto il volume, l’Autore offre una rassegna dei grandi critici che hanno analizzato le pubblicazioni della nostra Autrice, esponendo il loro pensiero con efficacia e larghezza di particolari. Nelle ultime pagine, cenni biografici dell' Autrice e dell'Autore della monografia.


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Nel rileggere questo lavoro, mi rendo conto che il mio è un commento che non rende giustizia alla bellezza del testo. il lavoro di Luigi De Rosa è perfetto e, soprattutto, completo, lineare e piacevole alla lettura. Offre importanti testimonianze, non solo nella disposizione a configurare l’ esistenza dell'Autrice come una lotta contro le avversità del mondo esterno, ma soprattutto contro l’assenza di fede in Dio e la comunione tra i fratelli, l’incomprensione, l’ indifferenza, l'ostilità, le quotidiane difficoltà del vivere. In quanto ad Imperia Tognacci riesce in queste pagine in tutta la sua superba misura poetica, elevandosi alla pari e, forse, al di sopra dei più grandi del nostro tempo. Anna Aita

FREMITI Oltre la cappa asfittica della città con dentro l’umido intriso di fumo. La patina di metallo sulle forme meccaniche costringe la vita: avvinto alle radici mi trasporto nel primitivo spazio degli anni passati. Muore il sentimento nelle abitudini di ogni giorno, con forte morsa la ruggine s’incrosta sul proprio io. Senza la maschera che offende l’amico per palesare le piaghe che tutti abbiamo; il tempo è infinito quando si dà la mano al prossimo diventato nostro fratello: il giorno non diviso si unisce alla notte per gli uomini uguali. Le frasche d’ulivo sono divorate sullo sfondo opaco; divampa magico il fuoco, ristoro per le mani. Oltrepassare le spine

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per tenere il mio dono. Perfette le parole che intatte rimangono con le ferite. Rivedo nei giorni solenni la mia esistenza. Leonardo Selvaggi Torino

IL SENTIRE SERPEGGIA TRA LE PIETRE Il sentire serpeggia tra le pietre s’intreccia con le foglie vibra nell’aria e nella luce si fa parola. Un petalo sfiora il gesto l’occhio comprende così diviso il corpo è spazio aperto – lo spirito serpeggia tra le vene. Laura Pierdicchi Mestre, Venezia Dalla raccolta inedita OLTRE.

DIETRO IL CAMPANILE Dietro il campanile del nostro paese-presepio la luna rischiara ancora la prima stella si accende tutte le sere l’acqua del mare gorgoglia sotto la chiglia. Manchiamo solo noi nella nostra cabina a rimirare dal vetro l’ultimo paradiso. Laura Pierdicchi Dalla raccolta inedita OLTRE.


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L’ATTUALISMO DI

GIOVANNI GENTILE (Castelvetrano 1875 – Firenze 1944) di Leonardo Selvaggi I ISCEPOLO di Donato Jaja, alla Scuola Normale di Pisa, amico di Sebastiano Maturi, vicinissimo cioè ai più fedeli eredi del pensiero di Beltrando Spaventa, di cui continua i principi filosofici in molti lavori storici, quali “Rosmini e Gioberti”, l’edizione dei Dialoghi italiani del Bruno, il commento all’Etica di Spinosa, il volume su Telesio, la traduzione di parte della Critica della ragion pura di Kant. Dopo un’attiva preparazione storica, Giovanni Gentile matura i germi del suo pensiero, presenti, tra l’altro, già nel tempo dei suoi primi lavori, quali le “Ricerche storiche” dal Genovesi al Galluppi, e l’ampio saggio premesso all’ edizione in volume degli “Scritti filosofici” dello Spaventa. Dal 1896 al 1924 si lega d’amicizia a Benedetto Croce. Collabora alla fondazione de “La critica”. Ogni fascicolo della rivista, per circa venti anni, ha recato un articolo del Gentile accanto ad uno del Croce. Professore di Storia della filosofia all’Università di Pa-

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lermo (1906), nel 1914 succede al suo maestro Jaja a Pisa e dal 1917 all’Università di Roma. Nel 1920 fonda il “Giornale critico della filosofia italiana” che dirige fino alla morte. Nominato senatore nel 1922, si avvicina al fascismo, divenendone il filosofo uffi ciale. Ministro della pubblica istruzione (ottobre 1922), attua nel ’23 la riforma della scuola italiana, nota come “Riforma Gentile”. II La fama del grande filosofo, oltre alla sua ricchissima produzione di opere e alla sua estesa attività culturale, è certamente legata alla soprannominata riforma, la più organica dopo quella “Casati” (1859). I principi di base attraverso gli anni sono stati considerati sempre di efficiente validità. Giovanni Gentile riorganizza la scuola materna (“Scuola del grado preparatorio”) ed elementare, portando l’obbligo scolastico a 14 anni, istituendo, a tal scopo, corsi complementari, detti, poi, “Scuole di avviamento professionale”. Pur istituendo il nuovo liceo scientifico, privilegia gli studi classici che, soli, consentono l’accesso a tutte le facoltà universitarie. Reintroduce nella scuola l’istruzione religiosa. Istituisce scuole private, parificate e sussidiate sotto il controllo statale mediante l’esame di stato. La scuola ritenuta come elemento essenziale per la formazione sociale degli individui, ha come principio la libertà nell’insegnamento. La Riforma Gentile rispetto all’istruzione di tipo tradizionale consente un più immediato e formativo strumento di allargamento dei contatti della scuola classica con la vita moderna. Giovanni Gentile dirige la Scuola Normale di Pisa e l’Istituto fascista di cultura. Sempre più legato al regime approva il Concordato con la Chiesa cattolica. Nel 1925 Direttore dell’ Istituto Treccani per L’Enciclopedia Italiana. Nel ’30 accetta la cattolicizzazione della Cultura ufficiale, mentre viene abbandonato dai suoi allievi di principi liberali. Nel 1943 non si stacca dal fascismo, aderisce alla Repubblica di Salò. Questo senza dubbio costituisce un atto di fedeltà al regime di cui è stato il leader culturale, e, oltretutto, un atto di coerenza


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morale. Nel 1944 viene ucciso da mano partigiana, davanti alla sua casa di Firenze. III Il pensiero di Giovanni Gentile rappresenta una delle due tendenze del neoidealismo italiano, l’altra è quella di Croce. Definito attualismo o idealismo attuale, in quanto risolve nell’atto pensante del soggetto, inteso come universale, ogni aspetto della realtà. L’ attualismo gentiliano, espresso nel saggio “L’atto di pensare come atto puro” (1911), trova la completa espressione nella “Riforma della dialettica hegeliana” (1913). Fra le tante numerose pubblicazioni: I problemi della Scolastica e il pensiero italiano (1913), I fondamenti della filosofia del diritto (1916), Sistema di logica come teoria del conoscere (1917 -22), Discorsi di religione (1920), La riforma dell’educazione (1920), G. Capponi e la cultura toscana del sec. XIX (1922), Le origini della filosofia contemporanea in Italia ( 191723), I Profeti del Risorgimento (1923), Filosofia dell’arte (1931), La riforma della scuola in Italia (1932), il Pensiero italiano del Rinascimento (1940), La mia religione (1943), Genesi e struttura della società (postuma 1946), Storia della filosofia italiana (postuma 1969). Giovanni Gentile si collega da Hegel, tenendo presente l’interpretazione che ne ha dato lo Spaventa. Per Hegel la realtà originaria è l’idea che comprende in sé tanto la natura quanto lo spirito, come due momenti distinti del suo sviluppo dialettico, la mente è solo il punto di arrivo di questo sviluppo. La realtà in Hegel è identificata con il sistema delle categorie: esse sono oggetto della mente, non la mente stessa. Così il nesso tra essere e non essere è per il Gentile incomprensibile, finché essere, non essere e divenire sono considerati come concetti in sé, nella loro logica oggettività. Tutto diventa intelligibile, invece se l’essere, di cui si parla, è l’essere del pensiero pensante, che nello stesso atto, in cui si afferma, nega, perché attività in perenne divenire. Gentile oppone alla logica statica del pensato la logica del concreto. All’origine di tutto è dunque l’atto del pensiero pensante,

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che è il costituirsi della verità nell’atto stesso del pensiero che pensa. L’attività dello spirito si svolge con un ritmo dialettico: soggettività immediata (tesi), oggettivazione di sé (antitesi) e sintesi di questi due momenti. In rapporto a questi tre momenti si hanno le tre forme assolute dello spirito: l’arte, la religione e la filosofia. Gentile ha considerato l’arte anche come interprete e critico in volumi, quali: Dante e Manzoni (1923), L’eredità di Vittorio Alfieri (1926), Manzoni e Leopardi (1928). L’arte esprime il momento della soggettività, la religione è l’antitesi dell’arte, è il momento dell’oggettività. Arte e religione non possono sussistere se non in quanto l’una e l’altra si risolvono nella filosofia, è la sintesi che rende possibile la tesi e l’antitesi. Pertanto arte e religione debbono venire assorbite dalla filosofia. La storia dello spirito sarà storia della filosofia. La storia della filosofia sussiste nell’ atto del pensare, se è vero che a quest’ atto, che è filosofia, tutto si riduce. Perciò filosofia e storia della filosofia sono tutt’uno nel processo dello spirito. Giovanni Gentile ha interpretato la storia della filosofia e della cultura come preparazione all’attualismo. IV Giovanni Gentile nei confronti con la filosofia crociata rifiuta il procedere per distinzione fra teoria e pratica, cioè la separazione tra un conoscere empirico, privo di valore teoretico, e un conoscere filosofico, puro da ogni empiria. Per Gentile conoscere è agire. Tra un momento teoretico e un momento pratico non c’è nessuna scissione. Le scienze empiriche non appartengono al dominio della pratica né sono escluse da quelle del conoscere teoretico. Non c’è un’empiria fuori della filosofia né una filosofia fuori dall’empiria. Viene accettata l’esigenza kantiana che la categoria sia presente nell’esperienza. Non è ammissibile, pertanto, né un’empiria priva di categorie né una filosofia vuota di esperienza. Per Gentile si identificano filosofia e storia, categorizzando l’oggetto lo si definisce, viene individuato storicamente. Questi motivi di pensiero comunicati nel Sommario di peda-


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gogia (1913) ed elaborati organicamente in un corso tenuto nell’Università di Pisa nel 1915-16 e pubblicato in un volume intitolato Teoria generale dello spirito come atto puro (1916). Viene negata qualsiasi realtà in sé, presupposta al conoscere, concependo lo spirito come assoluta posizione di se stesso. Lo spirito è atto che non presuppone alcuna materia avanti a sé, è atto puro. Viene definito Io trascendentale o soggetto trascendentale. Unica categoria è l’atto di pensiero da cui sono poste le infinite determinazioni. Individuando l’oggetto, il pensiero pone di contro a sé una realtà, una natura che prende nel suo atto di conoscenza, nel contempo rimane a sé e contrapposta. Con il porre l’oggetto e assumerlo si esplica la dialettica dell’atto spirituale. Lo spirito supera l’oggetto, risolvendolo in sé. La dialettica è conciliazione degli opposti. Ogni oggetto, ogni pensato contraddistinto nell’atto di pensiero. Ogni pensato è contrapposto ad ogni altro, il mondo pensato, la natura è un’infinita molteplicità inscritta nell’ unità assoluta dell’atto di pensiero. Leonardo Selvaggi

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SONO FARFALLE I MORTI Le ali asciuga la farfalla uscita appena dalla crisalide. Memoria non ha, non ha contezza d'essere stata bruco. Leggera svolerà fra qualche istante sul mare lucente profumato e fresco delle corolle. Crisalidi noi siamo per l'Eterno, celesti praterie ci attendono. Se i morti non si struggono per noi è che sono farfalle, cognizione non hanno della terra. Domenico Defelice BUTTERFLIES ARE DEAD The wings dry the butterfly Having recently emerged from its chrysalis. It does not have a memmory, it does not have awareness of having been a caterpillar. Lighly it will unravel in a few moments Upon the shiny scented sea of fresh blooms. Nymphs we are eternal celestial prairies which lie ahead. If the dead do not yearn for us that they are butterflies, who do do not hold memories the land. Domenico Defelice

EPIFANIA D’AMORE Il nostro smarrimento è simile a schianto di passero che picchia contro vetro per azzurro.

Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi

Travalicare per Bene intravisto è pure a noi scacco di pena. Non altro redime che il quotidiano ferirci per tendere oltre; il premere verso strato di cielo che ci sfiora; il vivere i giorni come epifania d’amore Rocco Cambareri Dalla silloge Da lontano - Edizioni Le Petit moineau, Roma 1970.

Sogno la casa dai cani dai gatti dai conigli dalla chiocciole dalle galline dai ragni dai grilli dai bagliori di gladioli e di garofani di digitali e di moneta del papa odorosa di legno e di erba fresca di cipollina e di lavanda nei belati delle pecore e il passo indolente delle mucche Sogno la casa di una volta spalancata sulla vita. Béatrice Gaudy Parigi, Francia


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L’IMMORTALTÀ: VIAGGIO NELL’ ASSURDITÀ di Aida Isotta Pedrina

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RA le intricate e complesse ramificazioni dei nostri concetti e delle nostre convinzioni religiose, questa idea dell’ immortalità è di gran lunga, non solo la più assurda, ma anche la più cara e reale agli esseri umani. Raramente ci avviciniamo a questo concetto con idee chiare e a mente aperta: o siamo timorosi e ingenui, o speranzosi, e quasi irrazionali; infatti, siamo spesso pronti a negare la nostra ragione perché non riusciamo a staccarci dal desiderio di una vita eterna. Sarebbe facile pensare che per eliminare i risultati negativi di certe illusioni e di tanti precetti religiosi, basterebbe un’armoniosa combinazione d’intelligenza, chiarezza di pensiero, saggezza, e profonda conoscenza della natura umana; in realtà, questa combinazione è assai difficile e rara se consideriamo il fatto che il concetto dell’immortalità esiste da millenni, e che molti dei più illustri personaggi di tutti i tempi, dotati di straordinaria intelligenza e conoscenza, non sono riusciti ad essere totalmente liberi da paure, speranze e dubbi e dalle imposizioni religiose; e chissà, anche da quel senso d’incertezza, vulnerabilità, e impotenza proprie della natura umana quando confronta il mistero dell’ immortalità. Or bene, i misteri dell’universo, i misteri della vita, i misteri dell’energia cosmica e dell’ordine perfetto sorto dal caos, che fino ad oggi, le ricerche scientifiche non sono riuscite a chiarificare completamente, dovrebbero essere da noi semplicemente ACCETTATI come meravigliosi misteri al di sopra dell’ intelligenza umana, e LASCIATI STARE. E invece no: il nostro feroce — ma alquanto patetico — attaccamento all’idea di essere superiori a qualsiasi altra creazione della natura, ci fa schiavi della nostra presunzione e naturalmente, di tanti concetti assurdi come appunto questo dell’immortalità. D’accordo con le misteriose leggi della na-

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tura, l’essere umano nasce, è nutrito e si nutre per poi morire; una conclusione irrevocabile, un semplice fatto con irrefutabili prove giornaliere che noi rifiutiamo di ammettere per proteggere le nostre illusioni. Questo della vita dopo la morte è una supposizione logicamente incorretta: perché ha per noi una così grande importanza e significato? Perché questa insistenza di accettare l’idea della vita eterna come una futura realtà? Si potrebbe dire che la nostra primordiale paura della morte e il nostro istinto di conservazione, e chissà, anche il nostro fascino per il “magico”, sono le ragioni più ovvie; ma un’altra ragione, e forse la più forte, è che l’ idea dell’immortalità, anche se completamente assurda, è assai comoda al nostro modo di pensare: non parliamo dell’immortalità come se fossimo le uniche creature degne della vita eterna? Non ci mettiamo al centro dell’ universo pretendendo di conoscere il mistero cosmico? Non siamo assolutamente sicuri del nostro progresso e del nostro potere sopra la natura? Ciononostante, davanti a qualsiasi violento fenomeno terrestre, siamo immediatamente trasformati in esseri impotenti sopraffatti dal terrore. Inoltre, basta solo uno di questi cataclismi della natura per distruggere in pochi minuti il più illustre genio, le più grandi opere d’Arte di tutti tempi, e le più trionfanti imprese umane; riflettendo su questo, come si fa a non sentire, con una consapevolezza che va al di là delle illusioni e della presunzione, la nostra fragilità e caducità? Ed è qui che subentra un’altra fatale illusione a cui è difficilissimo rinunciare: anche se siamo caduchi, noi possediamo un’ANIMA IMMORTALE, con tutta la spiritualità e superiorità che questo concetto implica; che possente rinforzo per la nostra presunzione! Anche quando non avremo più una penna per volare, sarà sempre nostro desiderio raggiungere le più alte vette sulle “ali dorate” del nostro io. L’idea di esser degni, per virtù di quest’anima immortale, alla vita eterna, trascende nella sua assurdità le più bizzarre divagazioni della mente. E c’è di più: non solo possediamo un’anima


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immortale, ma in un lontano futuro i nostri corpi risorgeranno per riunirsi con le nostre anime; dopo di che potremo vivere eternamente felici in Paradiso. E la religione continua a incoraggiare e approvare questa nostra infinita stoltezza; sembrerebbe, infatti, che “Il faut s’abetir” è una delle condizioni più importanti per meritarci il paradiso. E qui’ bisogna ammettere che la nobile idea dell’ immortalità, collegata a un paradiso presentato come una specie di grandioso Resort cosmico, risulta alquanto ridotta; e ancor più ridotta quando la usiamo per mitigare la nostra paura e incoraggiare la nostra speranza di una vita felice nell’Aldilà. Paura e speranza: emozioni naturali ma potenzialmente pericolose che, nondimeno, sono state inculcate e coltivate a tal punto, che hanno finito per offuscare e deturpare la nostra mente e la nostra gioia di vivere. Invece di perder tempo con assurdi concetti, sarebbe meglio sforzarci per ottenere saggezza e distacco che ci permetterebbero di vedere — come attraverso le limpide acque di un ruscello — cosa c’è nel fondo della nostra mente: i depositi fangosi dei precetti religiosi e delle convenzioni sociali, i ciottoli grandi e piccoli delle nostre illusioni e delusioni, il muschio verdognolo delle nostre meschinità, e vedere tutti questi detriti per ciò che sono, e LASCIARLI STARE e DIMENTICARLI. E invece no: passiamo gran parte della nostra vita agitando le limpide acque della nostra mente, mescolando alla rifusa tutto ciò che c’è al fondo, e offuscando, spesso irrimediabilmente la chiarezza del nostro pensare e sentire. Naturalmente, da questo pantano mentale s’innalza — sconcertante e insistente — l’idea dell’immortalità. Ma anche se esistesse, chi siamo noi per ridurre un concetto d’ infinita magnitudine a una piccola cosa adattata ai nostri desideri e bisogni, e, ancor più assurdamente, adattata alle irrazionali descrizioni religiose? Finora, non abbiamo ricevuto prova né di anime immortali né di una vita beata ed eterna nel “Regno dei cieli”; al contrario, abbiamo innumerevoli prove scientifi-

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che che il nostro bellissimo cielo, in tutto il suo splendore azzurro, non è altro che un’illusione atmosferica; quello che c’è realmente al di là dell’azzurro è oscurità, e silenzio, e gelo. Supponiamo per un momento, che siamo la nostra anima immortale che dopo aver lasciato il corpo, s’innalza verso il cielo e, se siamo stati buoni, verso il paradiso. Senonché, arrivati a destinazione, non troviamo altro che buio pesto e gelido silenzio. Di tutti gli altri miliardi di felici anime immortali e del paradiso non c’è traccia. E se la nostra anima, con un residuo di umana abitudine, incomincia a percepire, a sentire? Allora sarà qui, in questa oscura, gelida, e silenziosa eternità che la nostra anima vagherà senza sosta; sarà questa la tanto agognata immortalità? Solo un tocco di science-finction tanto per ‘alleggerire le cose, però a questo punto, non sentiamo il desiderio di ammettere che la nostra caducità e l’ immortalità è una combinazione altamente irrazionale? Perché non ristabilire la nostra ragione e coltivare una sana indifferenza per ciò che ci aspetta dopo la morte? Come già si è detto, sarebbe più saggio accettare il mistero, e vedere l’immortalità semplicemente come un’altra illusione da intrattenere con benevola ironia e non da accettare come una futura realtà. Se possediamo una consapevolezza critica delle nostre illusioni e le riconosciamo come tali, potremo vedere — e con assoluta chiarezza — tutti i nostri limiti. Ed è appunto nel cieco desiderio di negare i nostri limiti che diventiamo schiavi delle assurdità. Se abbiamo conservato la nostra mente aperta all’ispirazione, alla bellezza, alla poesia e all’Arte, conservando intatto il nostro entusiasmo e amore per la vita, nonostante tutte le miserie, le sofferenze e gli orrori della realtà, sarà facile renderci conto che non c’è poi questo gran bisogno dell’immortalità. Nell’antica Grecia, l’idea dell’immortalità — particolarmente con tutte le implicazioni religiose e non dei nostri tempi — non sarebbe certo stata presa in considerazione; infatti, gli epicurei e gli stoici la negarono categoricamente e pressappoco, con parole come que-


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ste: “….Andar dove dopo la morte? Ma non c’è d’aver paura; torneremo da dove siamo venuti, torneremo a ciò che è uguale a noi , agli elementi basici dell’universo: fuoco, terra, acqua e aria…” Senza dubbio, avranno voluto dire che ciò che c’è in noi di fuoco si riunirà al calore del sole, ciò che c’è di terra tornerà a far parte della natura, ciò che c’è d’ acqua arricchirà gli oceani, ciò che c’è d’aria volerà col vento…. Davanti a questa gloriosa razionalità, bisogna dire che tutte le nostre povere illusioni, supposizioni, convinzioni, interpretazioni e superstizioni, perdono quasi del tutto il loro significato; ma non dobbiamo perderci d’ animo perché ci sono varie consolazioni: vedere l’immortalità come espressione poetica e come il più possente e misterioso dei miti; poetico è anche vedere l’immortalità come il perenne movimento degli atomi: nel nostro universo non esiste il nulla; esiste invece l’ infinita energia cosmica che tutto combina e trasmuta; tutte le cose passano, si disperdono e spariscono, ma non si perdono; è consolante pensare che, dopo la morte, nessun atomo del nostro corpo cesserà di essere; sarà semplicemente trasformato in altre cose, in altre forme. Più realisticamente, si potrebbe anche limitare il concetto dell’immortalità alle grandi opere d’Arte e di Letteratura e a tutte le famose imprese umane e scientifiche; naturalmente, i personaggi illustri saranno immortalati attraverso le loro opere; e qui verrà di chiedere: “Ma ci sarà qualcosa dopo la morte per noi comuni mortali? ” Una “consolazione” alquanto cinica ma efficace, sarebbe quella di ammettere che se non abbiamo lasciato nulla di sublime e importante ai posteri — e questa è forse l’unica e razionale forma d’immortalità possibile agli umani — allora dovremo rassegnarci, e con nobile dignità, a diventare dopo la morte, il concime del futuro. E come “consolazione” di aver perso le nostre belle illusioni, potremo pensare che il concime sarà sempre molto utile e che da esso nasceranno pur sempre cose belle come i fiori, gli alberi e l’erba….

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Altra possibilità sarebbe “consolarci” con almeno due delle recenti predizioni astronomiche: non si sa quando, ma il sole perderà a poco a poco tutta la sua energia e calore e il nostro pianeta si raffredderà fino ad essere interamente sepolto sotto migliaia di chilometri di ghiaccio; oppure, e non si sa quando, il sole si allargherà fino a coprire gran parte del cielo per poi scoppiare come una Super Nova e l’immenso calore scioglierà tutto il nostro pianeta. In tutti e due i casi, noi non esisteremo più e così pure l’idea dell’ immortalità. Fatali cataclismi, “consolazioni” e ironie a parte, esiste una facoltà umana che, se coltivata in giusta misura, potrebbe liberarci da illusioni e paure: l’orgoglio, cioè, dignità e rispetto di noi stessi. Una facoltà preziosissima questa che nondimeno, è stata soffocata, calpestata e condannata dalla religione e da tutti coloro in potere; sappiamo bene che per mantenere il potere e il controllo, di qualsiasi organizzazione, sia religiosa che sociale, ha bisogno di schiavi; e cosa rende più schiavi dell’assenza del nostro orgoglio e dignità? Se abbiamo nutrito e preservato il nostro orgoglio, sarà impossibile inchinarci a qualsiasi potere, e nessuno riuscirà a farci credere, e ubbidire, a forza o per paura, a modi di pensare e agire che vanno contro la ragione e la dignità umana. Inoltre, sarà molto difficile essere ingannati da false ideologie e da tutti le ipocrisie sociali e religiose. L’orgoglio personale sarà anche il modo migliore per neutralizzare e alleviare le innumerevoli ingiustizie, dolori e offese che riceviamo. Ritornando all’idea dell’immortalità, rendersi conto che una vita felice dopo la morte non esiste, non dovrebbe causare tristezza e paura, al contrario, dovrebbe profondamente intensificare il nostro amore per la vita. Se riusciamo a pensare che l’immortalità, come tanti altri sogni e desideri che anticipiamo non si realizzerà, allora potremo provare un’ incredibile libertà della mente e dell’anima, quest’ anima che morirà con noi ma che finché viviamo, si riempirà, anzi, traboccherà di energia, di gioia e d’ispirazione. Aida Isotta Pedrina


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I POETI E LA NATURA – 49 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

L' “Autunno” di Vincenzo Cardarelli Vincenzo Cardarelli nacque il 1° maggio 1887 a Carneto Tarquinia, in provincia di Viterbo. Non riconosciuto dal padre, prese il cognome della madre, una modesta venditrice di frutta e verdura (Caldarelli, poi modificato in Cardarelli). Della mancanza dell'affetto paterno soffrì drammaticamente per tutta la vita, sentendosi un isolato e un infelice, a volte diffidente e permaloso, trovando parziale conforto nella Poesia e nel giornalismo. A diciassette anni, con sole sette lire in tasca, scappò di casa e arrivò a Roma. Si mantenne errando e vagando, e facendo vari mestieri. Finché riuscì ad entrare, a ventun anni, nella redazione de L'Avanti. Maturò in quegli anni durissimi, tra le fatiche tenaci dell'autodidatta, la sua formazione portata alla ribellione e alla depressione. Occultata, quest'ultima, proprio

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dalla intensa collaborazione a riviste letterarie come “Il Marzocco” e “La Voce”, o a giornali come “Il resto del Carlino”. In seguito fonderà una propria rivista, La Ronda, che vivrà dall'aprile 1919 al novembre 1922. Arriverà a dirigere, per alcuni anni, La Fiera Letteraria. La sua misantropia venne ad accrescersi anche a causa di uno sfortunato amore per la passionale Sibilla Aleramo. La storia dei due amanti, trasformatasi in una convivenza nevrotica ed usurante, si rivelò esiziale per il poeta, che alla fine rinunciò a comprendere il mondo femminile, anzi, l'intero genere umano... Ho già commentato, di questo poeta, in una precedente puntata, una poesia sui gabbiani. A proposito di quest'ultima, mi permetto di ricordare che i gabbiani simboleggiano l'animo vagabondo di Cardarelli, fortemente desideroso di un ubi consistam ma impossibilitato a trovarlo. Come non richiamare quei bellissimi versi: “Non so dove i gabbiani abbiano il nido ove trovino pace. Io son come loro in perpetuo volo. La vita la sfioro com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch'essi amo la quiete la gran quiete marina ma il mio destino è vivere balenando in burrasca.” Oggi, però, mi soffermo su un'altra significativa composizione, quella dedicata all'Autunno. Una poesia che ritengo centrale, nella visione umana e poetica di Cardarelli: “ Autunno. Già lo sentimmo venire nel vento d'agosto, nelle piogge di settembre torrenziali e piangenti e un brivido percorse la terra che ora, nuda e triste, accoglie un sole smarrito.


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Ora passa e declina, in quest'autunno che incede con lentezza indicibile, il miglior tempo della nostra vita e lungamente ci dice addio.” E' patente la metafora sulla vita dell'uomo che si rispecchia nei fenomeni della Natura, nel susseguirsi delle stagioni e nel trascorrere impassibile del Tempo. La Natura viene “umanizzata”. Non si spiegherebbe adeguatamente, altrimenti, il fatto che le piogge “piangano”, che la terra sia percorsa da un “brivido” e si senta nuda e triste. Mentre il sole, addirittura, si senta “smarrito”. Sentimenti che, in pari tempo, prova il poeta, alla pari di ogni uomo che avverte, con sgomento più o meno intenso, il passaggio del suo corpo e della sua anima dal vigore dell'estate agostana ai primi freddi dell'autunno incipiente, come un presagio dell'inizio della fine della propria vita, destinata ad inoltrarsi nell'inverno. In questo caso, tra uomo e Natura c'è un avvicinamento fin nelle fibre più intime di una personalità, pur senza arrivare agli estremi metamorfici dell'efficace logo di questa rubrica mensile, disegnato a suo tempo da Domenico Defelice. In questa poesia sono concentrati i temi più importanti e ricorrenti della poetica di Cardarelli, come la precarietà del destino umano e la solitudine dell'individuo, la mancanza della felicità (anzi, della serenità) e l'inutilità di una vita senza scopo e, soprattutto, senza il conforto della bellezza e della dolcezza. Il poeta morì a 72 anni, il 18 giugno 1959, dopo un mese di degenza, al Policlinico di Roma. Luigi De Rosa

IL RICHIAMO DEL FLAUTO E’ il flauto che chiama oltre i tormenti della mente, suoni tenui, lunghe onde catturano gli uditi. Attenzioni si generano

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tra la gente indaffarata, un canto soave ti spinge lontano, attratto da irrefrenabili impulsi. La libertà si manifesta tra gli schemi della prigionia. Crescono ali su spalle dolenti, la fantasia ruba i sogni. È così che ora voli attraverso la pace, il silenzio interiore diventa consapevole certezza, mentre perfori le nubi che credevi calde. Brina la faccia, gli occhi son vigili, Finalmente appare il sole… È un nuovo giorno, gioia di esistere s’impossessa dell’anima. Con te c’è Dio… Non sei più solo. Colombo Conti

ANIMA E CORPO Bellissimo corpo con magnifico seno e fantastiche labbra, sei forse specchio di un’anima gagliarda che i sensi nascondono? Mostra la tua bellezza interiore che non intravedo stordito dal piacere sensuale e dal bello apparente. Eugenio Morelli Da Il buio e la luce (The Dark and the Light) Streetlib, 2015.

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 23/9/2015 Riforma del Senato: Calderoli presenta 85 milioni di emendamenti! Alleluia! Alleluia! Più modifiche delle stesse parole del testo di riforma. Domenico Defelice


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Recensioni DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e agli altri che verranno) Edizioni “ Il Convivio “, 2015, € 10,00, pagg.64 Il prodigio di un afflato poetico più incontaminato, più condiscendente, educativo, proteso ad esprimere soprattutto amore, si è verificato quel giorno che non sarà mai tanto lontano; un giorno che è stato deciso dal destino tutti sapevano che sarebbe arrivato, anzi avevano pronosticato che sarebbe accaduto nel periodo del Segno della Bilancia, ma sei nato scorpione. Il 26 ottobre 2009 a Roma, presso il “Sandro Pertini”, è nato Riccardo, il primo nipotino del Direttore Poeta Giornalista Scrittore Domenico Defelice. La sua mamma è Gabriella Defelice, la figlia dell’autore di questo florilegio non convenzionale, fuori da ogni cosa che sia stata già detta. In quel momento, o meglio da quel momento è scaturita la meravigliosa voglia di versificare per lui – e per quelli che verranno –, perché con la poesia si possono spiegare le ragioni della vita, i veri affetti, anche la tecnologia di questo nostro tempo che accorcia ogni distanza, le battaglie vinte o perse per restare in sua compagnia, anche se lui, Riccardo, mette a soqquadro la scrivania del nonno che poi la sera: « (…) quando con mamma e papà/ t’allontani verso casa;/ barelliere pietoso,/ sopra il campo raccolgo ed accarezzo/ libri feriti./ Ho già nostalgia del nemico! » (A pag.27). Se abbiamo apprezzato, prima di questo eclatante evento, il poeta scrittore saggista Domenico

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Defelice artefice di libri-inchiesta, libri-denuncia, saggi d’ arte, poemi satirici di sapore politico ed anche di un corpus poetico riguardante la condizione umana a contatto col dolore, dalla via crucis di una malattia alla « “Resurrectio” di un riscatto giustamente tutto umano, perché la vita, gli affetti sono un dono. » (Dall’Introduzione al libro di Domenico Defelice “ Resurrectio “ di Maria Grazia Lenisa, a pag.13). Ebbene, ora tutto è cambiato, il suo orizzonte adesso ha mutato fondale e il motivo è lui, Riccardo, somigliante molto negli occhi alla trasparenza materna. Se prima di questo libro sapevamo poco o niente del circolo parentale del Nostro Direttore, al presente siamo informatissimi e coinvolti negli affetti suoi personali: anche noi amiamo Riccardo e vorremmo stare al suo posto, perché cresce e crescerà sui consigli impareggiabili del nonno, il suo straordinario nonno che ogni giorno lo aiuterà a salire un gradino alla volta la faticosa scala dell’ esistenza. Lo aiuterà a capire, con o senza gli strumenti tecnologici, le contraddizioni, i diversi pesi e altrettante misure che ci sono in questo mondo, lo illuminerà sul concetto altissimo e cristiano della condivisione. « È mio!/ L’affermi con forza,/ quasi con cipiglio./ Del possesso hai un concetto assoluto./ Tuo il balocco di chi ti sta accanto,/ che con te gioca e con gli altri bambini;/ tue le strade anche, le case;/ tuo il cavalluccio nel parco/ sul quale dondoli;/ tua l’intera pubblica giostra./ Tuoi, naturalmente, mamma e papà,/ la nonna e il nonno:/ se stai con l’uno, gli altri scacci, escludi./ Come farti capire che mio/ sta bene insieme a tuo/ suo nostro vostro loro?/ Gioia piena, ricchezza?/ Nessuna cosa è bella nella vita,/ la vita stessa se non condivisa. » (A pag.37). Ogni poesia del florilegio riporta la data del suo concepimento letterario e da ciò si misura il cammino interiore che c’è stato nell’autore, il quale lo ha compiuto non da solo, ma grazie alla preziosa presenza di Riccardo, che ricambia la dedizione del nonno con la sua naturalezza di bambino, i suoi gesti spontanei e imprecisati che catturano inevitabilmente chi gli sta accanto. In ogni poesia c’è un momento affettivo, un percorso di vita, la quotidianità che si snocciola tra un balocco e l’altro, le vacanze, il primo dentino immortalato per sempre in una lirica che ne racconta la storia. « Sei mesi e il primo dente,/ una bianca piccolissima perla/ sull’ arco roseo della gengiva./ Ti tormenti, metti tutto in bocca,/ osservi i cibi quasi con voluttà,/ tu che costretto sei/ ad ingoiare liquide pappine./ Nella vita, Riccardo,/ son poche le delizie,/ tanti i dolori e le rinunce./ Oggi non te lo spieghi/ e ridi o piangi solo per istinto./


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Per poco ancora. In bocca la corona/ neppure intera brillerà/ che avrai compreso già tanti perché. » (a pag.23). Poi ci sono le foto a corredare le parole poetiche e nel contempo narrative del nonno, che segue attento la crescita di Riccardo da quando quel giorno gli ha cambiato la vita con la sua nascita. Foto in bianco-nero che raccontano di un bimbo il giorno del suo battesimo, avvenuto il 23 gennaio 2010; poi Riccardo al mare nella sua privata piscina gonfiabile; in braccio alla mamma Gabriella raggiante; Riccardo che emula il nonno irrorando in campagna col suo innaffiatoio, in formato ridotto rispetto all’ innaffiatoio di molti più litri del nonno. Una complementarietà che si sostiene da sola, si alimenta da sola giacché il nonno ha bisogno di Riccardo per continuare a credere; e Riccardo ha bisogno del nonno per iniziare a credere in questa vita così difficile per tutti; così come è cosa ardua la saggezza che si raggiunge solo in tarda età. « (…) Come farti capire/ che non è giusto/ tu l’abbia sempre vinta,/ che tutto non è bene qual che chiedi,/ che l’ orgoglio sfrenato annebbia/ e la vita amareggia ed anche uccide./ Ancora non distingui/ il giusto dall’ ingiusto,/ il bene e il male./ Tocca a noi moderare le tue brame./ A costo anche di vederti piangere,/ a lungo lacrimare. » (A pag.47). La seconda parte del libro è dedicata all’altra coppia di sposi formata da Emanuela e Stefano (un altro figlio del direttore Defelice). Dalla loro unione avvenuta nel settembre 2013 è nato poi Valerio, nell’aprile di quest’anno 2015, la cui foto è apparsa nel numero di maggio del mensile Pomezia-Notizie, ed anche la foto a colori del primo incontro dei due bambini. Il cuginetto di Riccardo quindi, e i due cresceranno insieme sugli insegnamenti alti del loro incomparabile nonno, che in loro vede il suo prosieguo. C’è stata un’occasione in cui nonno Domenico si è trovato a spiegare per caso a Riccardo, la metamorfosi del nuvolame. È stata un’occasione imperdibile e utilissima, in cui le nuvole sono servite come pretesto per tessere una metafora, più di una metafora; un argomento importante per plasmare l’animo di Riccardo, per fargli amare il sole soprattutto quando c’ è il bigio annuvolamento sinonimo anche di oscuramento intimo, e soprattutto per scorgere nelle nuvole il volto di chi abbiamo amato di più in questa vita: « (…) È vero, io con la nuvola ci parlo,/ ma è natura libera, Riccardo,/ e non conosce il potere dell’uomo./ Amale anche tu le nuvole./ Un giorno, forse, tra le fàsmate/ scorgerai il mio volto. Pomezia, 29 marzo 2013 » (A pag.40). Isabella Michela Affinito

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RECITARSI UNA POESIA Armonie o vibrazioni di parole accarezzano l'anima eppure il corpo e portano anche sol per un momento a sentire percepire pur serenità e pace. Il messaggio che deve arriva con l'emozione mano nella mano. Che bello recitarsi e recitare una poesia. Michele Di Candia Inghilterra

MARIA GRAZIA LENISA LETTERE IL CROCO/ Pomezia Notizie – Luglio 2015 L’omaggio che Domenico Defelice ha dedicato a Maria Grazia Lenisa pubblicando l’epistolario che ha suggellato un rapporto trentennale di collaborazione e sincera amicizia, è un’ulteriore prova del suo voler testimoniare l’importanza di chi ha segnato la vita artistico/letteraria del nostro paese. Maria Grazia Lenisa è stata uno dei personaggi più conosciuti nel campo poetico/letterario e ci ha lasciato opere di grande rilievo che determinano la sua capacità creativa e il suo imporsi con temi a volte ardui, ma che hanno dato una scossa alla poetica del tempo. Una voce determinata, chiara, sincera, che il maledetto cancro non ha saputo far tacere, anzi, Maria Grazia ci ha donato dei versi che insegnano a giocare con l’ironia anche nei momenti più oscuri. L’amore per la poesia si può dedurre dalle lettere spedite a Domenico Defelice, dapprima referenziali e poi sempre più amichevoli e complici di un interesse che li accomunava. E’ un epistolario corposo, dal quale emerge la personalità della Lenisa (che si concede senza pa-


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raventi) e che denota la differenza tra la donna e la poetessa. Infatti, con la relazione di amicizia è più aperta e socievole, mentre per la materia poetica il suo giudizio è ben più severo. Essendo addentro al mondo letterario Maria Grazia poteva evidenziarne i molti aspetti negativi. La condizione del poeta è sempre stata particolare ma nella società odierna, sovraccarica di materialismo, assume un ruolo che rasenta l’utopia. Maria Grazia Lenisa sa quanta delusione e amarezza si riscontrino nel cammino, ma non può fare altrimenti perché la passione non si può spegnere e scrivere diventa vitale. Nelle ultime lettere appare l’ombra della malattia ma la sua vena creatrice è più forte e con tenacia e coraggio Maria Grazia affronta anni di cure e di sofferenza. Sino all’ultimo ha pensato ai suoi libri: “Sta battendo Francesca il mio primo romanzo. Cerco di fare in fretta.”, e con la poesia A TE ci lascia dei versi indimenticabili. Laura Pierdicchi

TITO CAUCHI ISOLA DI CIELO U.M.E. edizioni, 2005, 58 pagg., € 7,00 La pagina più difficile in assoluto di un libro, qualsiasi ne sia il contenuto, è sempre la prima: la copertina col titolo. È un concetto da me già espresso in altre occasioni, recensendo, e intendo ribadire il concetto perché è davvero importante. Il titolo non deve essere né banale né oscuro. Deve poter suggerire una parte del contenuto, ma senza svelare il finale, suscitando la curiosità del lettore. La canzone diceva e non diceva, cantava Paolo Conte in Boogie boogie, forse la canzone più spudorata del celebre autore del Il Cielo in una stanza. Eppure Conte aveva ragione. Questo testo, ennesima silloge poetica di Tito Cauchi, è forse l’opera migliore di questo Poeta coevo, che pure tanto ha già detto – e non in modo banale! Isola di cielo è il titolo di una delle tante (52, per l’esattezza) liriche qui contenute. E, nonostante il titolo, è una poesia terra terra e molto pedestre. Non in senso negativo, però. Gli angeli/ sono milioni di milioni/ sono i più poveri e i più soli (Lucio Dalla). L’immenso Dalla, scomparso di recente, ha saputo rendere con questi pochi versi un’idea estremamente corretta e corrispondente all’attuale realtà in cui siamo costretti a vivere.

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Isola di Cielo, come silloge, ci parla appunto dei più poveri e più soli, dei milioni di Fratelli Minori che nessuno vede mai ( ma solo in apparenza) di sé e di ciò che gli capita o di chi gli sta accanto… ma con la mente rivolta sempre a qualche altra cosa che pure esiste, anche se è fisicamente lontana dall’Autore. Come sarà possibile rompere/ le barriere, quando non si è/ capaci di tendersi due mani? (da: Compagno camerata, pag. 46). Questi tre versi non necessitano certo commenti. Cauchi, lo si voglia ammettere o no, è, come Poeta, epigone di Gandhi e di Socrate. Vede e riflette, pensa a tre dimensioni. Pare sia uno sciocco o un distratto, ma intanto usa occhi e cervello e prende nota. Di sillogi poetiche ne ho lette e recensite tante, ma questa merita di stare in cima alla lista. Un posto altissimo e che non sono disposto a concedere al primo che passa perché, come lettore, sono esigentissimo, e come recensore non guardo in faccia a nessuno. Da leggerla con molta attenzione ed una buona scorta di fazzoletti a portata di mano. Non è affatto detto che la lettura strappalacrime sia roba risibile e scontata! Andrea Pugiotto

IL TEMPIO, AIUTAMI A SPAZZARLO Mi dici che sono il Tuo Tempio. Una topaia l’ho ridotto, un porcile. Aiutami a spazzarlo nel lasso di tempo che mi resta, a spargerci cedrina e lavanda. L’anima ha ferite sanguinanti e la veste sdrucita, ma le medaglie opache che il mondo mi ha donato risplenderanno come e più del sole se ci passi le dita. Domenico Defelice

RESPIRAR-MI Per vasti vivi silenziosi spazi di questi tempi vado a ritrovare il canto del pensiero mio


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in materia smarrito e liberar la voce mia con tutta la luce che c’è respirando di più con L’Anima.

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HAZAÑAS DE CUPLEAÑOS Para Domenico Defelice 3 de octubre, 2015

Michele Di Candia Inghilterra

TERESA TIERRA YERMA Cuando el amor não me sonríe, mi corazón no canta. Ni yo, ni tu veremos Este cielo Teresa Mi querida, cuando Seremos tierra yerma.

Al derecho y al revés tenemos que equlibrar los añelos y las ilusiones. Los cumpleaños son realidad legítima de celebrar con orgullo por lo que ya cumplimos y de determinación a los que debemos enfrentar. Que en ese día especial haya mucha alegría para ensartar la esperanza. Teresinka Pereira USA

Tito Cauchi Tradução feita por Teresinka Pereira USA

Primo Maggio, Festa del Lavoro 2014 GIORNO DEI LAVORATORI Alzare il salario minimo non accadrà senza sciopero. Primo Maggio è la Festa del Lavoro in tutto il mondo, tranne negli USA. In altri paesi la gente andrà ad applaudire i lavoratori sfilano per le strade mentre le fabbriche e gli uffici sono chiusi per la festa. Non vi è una domanda di un aumento del salario minimo. Il sindacato fornisce la forza. Lo sciopero insieme con il sostegno pubblico che costringerà le aziende a pagare di più. Lavoratori: Io voto per te il Primo Maggio 2014! Teresinka Pereira USA - Trad. dall’inglese di Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia.

AVREI VOLUTO SCEGLIERE Avrei voluto scegliere il giusto momento tra me e te per lasciare che la mia mano lasciasse la tua Avrei voluto darti il mio fiato per aggiungere un altro respiro al tuo momento Avrei voluto che il mio tempo si fermasse allo scadere del tuo attimo. Laura Pierdicchi Dalla raccolta inedita OLTRE.

CONCEPIRE IL PASSATO Concepire il passato nei frammenti colorati che nell’insieme riunivano il nostro esistere è riassorbire il denso calore del contatto al di fuori del tuo


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e del mio fiato che nell’insieme erano inizio e fine di un unico sentire. Laura Pierdicchi Dalla raccolta inedita OLTRE.

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE ESPERANTO E INTERLINGUISTICA - Esperanto e interlinguistica: conferenza-dibattito di notevole interesse - Importante evento culturale a Frosinone martedì 29 settembre 2015. Con il patrocinio dell’Amministrazione Provinciale e sotto l’ egida dell’Accademia Teretina di Frosinone, il prof. Amerigo Iannacone ha parlato dei seguenti temi: • Che cos’è l’Esperanto; • Quando viene usato; • Formazione della parole; • Fonetica, Lessico e Numeri. Oltre ai saluti del Presidente dell’Accademia Teretina, Preside Prof. Lino Di Stefano e il Segretario dell’Accademia Teretina, Prof. Umberto Caperna – c’è stato l’intervento della D.ssa Michela Lipari, Presidente della FEI, Federazione Esperantista Italiana. È seguito un dibattito. La conferenza si è svolta alle ore 16:30, nel Salone della Provincia, Piazza Antonio Gramsci. L’incontro, aperto a tutti, ha costituito un’occasione per riflettere sulla comunicazione in generale e sulla comunicazione internazionale in particolare, sui codici linguistici e su ciò che li regola, e per saperne di più sull’esperanto, una lingua bella e al tempo stesso razionale, estremamente facile anche per persone di cultura limitata o che abbiano poca predisposizione per le lingue

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o poco tempo per studiare. Una lingua, derivante per più del sessanta per cento dal latino, che riesce più di ogni altra a esprimere in modo semplice ogni sfumatura di significato. Nato più di un secolo fa dall’intuizione del polacco Ludwik Lejzer Zamenhof, l’esperanto è oggi conosciuto da milioni di persone nei cinque continenti e può vantare una vasta letteratura originale e tradotta. Corsi gratuiti si possono trovare anche su Internet. *** GILDA ANTONELLI - Da anni non avevamo più notizie della poetessa molisana (di Venafro) Gilda Antonelli. Così è stata una sorpresa, il 9 ottobre scorso, ricevere una sua lettera (spedita il 20 agosto 2015), come per il passato quasi indecifrabile, pasticciata, come sono state sempre le sue missive, vergate d’impeto, d’istino, nella quale ci ricorda gli amici Saverio Scutellà (Delianova 1910 - Roma 1992) - “Come è bello sto Tamburino! Molto Bello!!!!” -, Ada Capuana (Catania 1908 - Roma 1999) - “Vedo spesso pure le foto di Ricordo mentre ritiravo il premio POMEZIA NOTIZIE dalle mani della Signora ADA CAPUANA!!!” -, l’Editore Vincenzo Lo Faro eccetera, accennando a una sua venuta a Pomezia, in occasione di una cerimonia del Premio Internazionale Letterario della nostra Città. In allegato, ci fa avere, attaccate con l’ adesivo, fotocopie di foto, un disegno di Scutellà, una poesia dello stesso, una sua dedicata alla memoria del pittore calabrese e una dedicata a lei da Sara De Vento. Ma le è proprio difficile inviarci quello che vuole senza pasticciare i fogli, tagliarli e incollarli con l’adesivo, senza scrivere, addirittura, sulle stesse foto, senza, cioè, rendere il tutto come se fosse raccattato dalla pattumiera? Ecco, comunque, di seguito, le poesie e il disegno allegati. IL TAMBURINO Il rullo del tamburo è tutto a festa, saluto per chi lascia le frontiere, delizia per chi ama e per chi resta: qui danzano leggiadre le chimere. Rulla, o giovinetto, al tuo stromento per ridestar le gioie a le vestali; fuggan dai petti l’ira ed il tormento: torni la pace ai lidi floreali! Si spiegan salmi e danze sui sagrati, le strade si pavesino a bandiere: si faccia d’ogni nome apologia. Issate i gonfaloni, in signoria, le Muse del Parnaso messaggere


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nei loro versi esprimono gli afflati. Rulla, mio tamburino, in re maggiore, qui stanno i vati, figli del Signore. Saverio Scutellà

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parlano di te e piangono per il tuo destino. Saverio Scutellà, Maestro d’arte di pittura, poesia e di tutte le cose belle che creavi sei sempre in mezzo a noi e tu dal cielo insegnaci la via per il cammino con le muse. Gilda Antonelli Venafro, Is A GILDA

A SAVERIO SCUTELLÀ Alla cara memoria E guardo ancora i tuoi dipinti “Il Tamburino” che suona sorridendo. “I cavalli al galoppo” nella pianura. “Gli alberi” nel trionfo della fioritura. “Il contadino” che zappa la terra. E tu riposi adagio sugli allori che circondano il recinto del camposanto. Ora pare che quei cavalli non hanno più il loro padrone. Quel contadino non ha più vigore per zappare le sue terre. Quel tamburino ha perso la gioia e più non suona, più non sorride. I tuoi personaggi, immortali sulle tele,

Quando fiorivano le giacarande Tu appartenevi al vento. Il dolore dell’esistenza Non conoscevi ancora... Era soltanto un pensiero Nella mente feconda. Poi arrivò la furia devastante Come un inverno incoerente E fasciò di gelo i sogni. Cercasti invano te stessa Nello specchio, interrogando la luna Offuscata dalla tristezza. Sai? Anche i fiori talvolta Appassiscono per la bufera E non sanno capire il dolore che fa reclinare lo stelo. Ma arrivò la piena del tempo Per sbiadire le violenze dell’anima. Ed ora le tue giacarande Sono fiorite a dispetto del gelo. Tu sei come una coccinella tenace Che conquista decisa La cima della quiete e La vetta delle muse. Sara Del Vento *** PREMIO NAZIONALE “HISTONIUM” POESIA-NARRATIVA XXX EDIZIONE 2015 PRIMO PREMIO ASSOLUTO – SEZIONE E ad IMPERIA TOGNACCI di Roma per libro edito di poesie “Là, dove pioveva la manna” (Edizioni G. Laterza) Con la seguente motivazione: “Poesia come occasione per spostare il visibile in una sfera di elevazione che riconcilia il soggetto con il suo io, permettendogli una risalita verso spazi d’infinito, un viaggio dell’anima che, nella composizione armonica di elementi reali e spirituali, liberati nel transito da scorie di vissuto, assurgono a sostanza valoriale che si rappresentano in un misto di saggezza orientaleggiante e di cultura come base acquisita per sfiorare a tratti l’Assoluto. La rievoca-


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zione lineare, la parola ferma e l’attenzione posta al profondo delle cose fanno di questa raccolta un’ opera strutturalmente matura ed organica, secondo un dettato tenuto insieme da connessioni formali e tematiche, mai soggette a interruzioni, in una progettazione raffinata di toni, di rimandi, di pregevoli effetti lirici e di spunti formativi che si aprono alla meditazione”. *** Premio “Antonio Filoteo Omodei” 2016, Scadenza: 15 febbraio 2016 - L’Accademia Internazionale “Il Convivio”, in collaborazione con il Museo Valle Alcantara e la rivista internazionale Il Convivio, bandisce la quattordicesima edizione del premio “Antonio Filoteo Omodei” 2016, cui possono partecipare autori sia italiani che stranieri nella propria lingua o nel proprio dialetto. Il premio si articola: 1) Poesia inedita a tema libero in lingua italiana (cinque copie). 2) Poesia inedita a tema libero in lingua dialettale con traduzione (cinque copie). 3) Silloge di poesie senza limiti di versi, ma che comprenda almeno 30 liriche, ordinate in 5 fascicoli, pena l’ esclusione (cinque copie). 4) Libro edito in lingua italiana o in dialetto: poesia, romanzo o raccolta di racconti, saggio (tre copie, di cui una con generalità). 5) Pittura e scultura (si partecipa inviando due foto chiare e leggibili di un’opera pittorica o scultorea). 6) Poesia inedita in lingua italiana o dialettale a tema religioso (cinque copie).7) Racconto inedito, max 6 cartelle corpo 12 formato a4 (cinque copie). 8) romanzo, raccolta di poesie o di racconti inediti per e-mail (inviare una copia corredata di generalità e recapiti all’indirizzo email: angelo.manitta@tin.it, enzaconti@ ilconvivio.org). Premiazione: Verzella, in provincia di Catania, nel mese di giugno 2016. Gli elaborati vanno inviati alla Redazione de “Il Convivio”: Premio “Antonio Filoteo Omodei”, Via Pietramarina–Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. Ai vincitori e ai partecipanti sarà data comunicazione personale dell’esito del premio. I premi devono essere ritirati personalmente. La

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partecipazione al concorso è gratuita per i soci* dell’Accademia Il Convivio. È richiesto invece da parte dei non soci, per spese di segreteria, un contributo complessivo per partecipare a tutte le sezioni di euro 10,00 (o moneta estera corrispondente) da inviare in contanti. Per bando completo e informazioni: tel. 0942-986036, cell. 3331794694, e-mail: enzaconti@ilconvivio.org; angelo.manitta@tin.it; sito: www.ilconvivio.org *** Premio per silloge inedita “Pietro Carrera” 2016, Scadenza: 30 dicembre 2015 - L’ Accademia Internazionale Il Convivio, al fine di divulgare la poesia italiana, bandisce il Premio “Pietro Carrera” per la silloge inedita. Il concorso si articola in una sezione unica. Si partecipa con una silloge inedita composta da un minimo di 32 poesie ad un massimo di 80 poesie. Si ammette al concorso anche la forma del poema, lungo o breve. Possono partecipare anche sillogi nei vari dialetti d’Italia purché rechino una traduzione in lingua italiana. Esclusivamente per le opere in dialetto l’opera deve essere composta da un minimo di 32 a un massimo di 40 poesie (escluse le traduzioni). La silloge deve rimanere inedita sino alla premiazione, pena l’ esclusione e revoca del premio. Modalità di partecipazione: l’opera deve pervenire alla segreteria in 4 copie delle quali 3 anonime e una recante dati e recapiti dell’autore. Ogni autore può partecipare con una sola silloge. Ogni copia deve essere puntinata o fascicolata. Chi è impedito a spedire le copie cartacee può inviare la silloge per e-mail a giuseppemanitta@ilconvivio.org oppure a enzaconti@ilconvivio.org allegando un curriculum, copia dell’avvenuto versamento. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio. È richiesto invece da parte dei non soci, per spese di segreteria, un contributo di euro 10,00 da inviare in contanti oppure da versare sul Conto corrente postale n. 93035210, intestato Accademia Internazionale Il Convivio, Via Pietramarina, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia Iban IT 30 M 07601 16500 000093035210. Premiazione: primavera 2016. Premi: per il primo premiato verrà pubblicata gratuitamente la silloge consegnando all’autore un numero di 50 copie in omaggio. Gli elaborati vanno inviati a: “Il Convivio” Premio “Pietro Carrera”, Via Pietramarina–Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. Per bando completo e informazioni: tel. 0942-986036, cell. 333-1794694, e-mail: enzaconti@ilconvivio.org; giuseppemanitta@ ilconvivio. *** ELENA MILESI CI HA LASCIATO - Ricevia-


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mo, dalla poetessa Paola Insola di Torino, notizia che il 9 ottobre, a Bergamo, è morta la poetessa Elena Milesi. Era nata a Villa d’Adda. Socia del Cenacolo Orobico di poesia (Bergamo), Accademia dell’Ateneo di Bergamo per la classe di Lettere ed Arti, cofondatrice dell’Associazione culturale Rosella Mancini (Roma), Presidente dell’ Associazione Amici Pittore Giuseppe Milesi, in versi ha pubblicato: “Silloge per Neri” (1983), “Quando nasciamo un’altra volta” (1984), “Ragazze/i nel quaderno” (1985), “La notte, l’albicocca e altro” (1986), “In fa” (1986), “Paggio Regale” (1989), “Svoli di semi” (1990), “Paggio in viaggio” (1991), “Ebdomada” (1991), “Natale/Noël” (1992), “Tris” (1993), “Dicembre/Décembre” (1993), “Il poemetto del funaio” (1994), “Viene il vento” (1995), “Acqua di cascata” (1997), “Le semainier” (1998), “NeroRossoOro” (1999), “Textum” (1999), “Ordinario 2000” (2001), “Che si chiamava Cloto” (2003), “Alla riva” (2005), “Il carro di Amore” (2006), “Introìbo ad 2007” (2007), “E popoli miti” (2007), “Il tempo abissale” (2009), “Come dicono a Parigi “C’est la Vie!” “ (2010), “Il quaderno della sfida” (2014). Confortata da consensi critici, ampia bibliografia e numerosi premi letterari, tra i quali amava ricordare: il Premio della Critica a Penne (Pescara), il Premio Les Amis de la poesie a Bergerac, e i premi-pubblicazione a Vercelli, Marina di Carrara, Palermo; il Premio del quinquennale de “Il Lago Verde” Casazza (Bergamo). Per “Paggio Regale”, “Paggio in viaggio”, “Tris”, tre volte segnalata e finalista al San Pellegrino Terme. Paola Insola ha promesso di ricordarla con una sua nota: “Quanto prima - scrive in una e-mail del 18 ottobre scorso - ti invierò due belle fotografie, una degli anni "giovani" e l'ultima, scattata in occasione della mia ultima visita a Bergamo. Elena aveva in mano il "quaderno" che è poi stato stampato come il suo ultimo libro IL QUADERNO DELLA SFIDA, recensito da personaggi molto più autorevoli di me, sul tuo giornale. Comunque farò la mia parte critica, ma non subito: sono molto occupata nelle biblioteche di Torino per il lavoro sui Poeti nella prima guerra mondiale. Ti manderò quindi le fotografie tramite la fotografa, in modo da renderle pubblicabili in modo ottimale. Invece, con la notizia del decesso, se ancora sono in tempo, ti invio una poesia, scritta negli anni '80. Si tratta di un gioco linguistico e affettivo che coglie attimi, suoni e parole, titoli e contenuti dei libri della poetessa Elena Milesi.” RENDEZ - VOUS Bolle e ribolle

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pentola scarlatta folle / magico destino "Quando nasciamo un'altra volta" sul tandem andremo fischiettando incuranti della gente un motivo scoppiettante. La bruna e la bionda amiche per la pelle sembreran sorelle pedalando tra le stelle. Bolle e ribolle pentola scarlatta confettura di albicocche. Paola Insola *** IL SAGGIO DI DI LIETO SU LEOPARDI PRESENTATO A NAPOLI - Giovedì 29 ottobre 2015, alle ore 17, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - Palazzo Serra di Cassano, via Monte di Dio 14, Napoli - ha presentato il saggio di Carlo Di Lieto Leopardi e il “mal di Napoli” (1833 - 1837), una “nuova” vita in “esilio acerbissimo”, edito dalla Genesi di Torino nel 2014. L’indirizzo di saluto è stato di Fabio Corvatta, Presidente del Centro Nazionale Studi Leopardiani di Recanati. Con l’ Autore sono intervenuti: Alberto Folin, membro


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della giunta esecutiva del Comitato scientifico del Centro Nazionale Studi Leopardiani di Recanati; Luigi Mazzella, scrittore, vice presidente emerito Corte Costituzionale; Giovanni Ramella, direttore Centro Pannunzio, Torino; Sandro Gros-Pietro, scrittore, editore Genesi, Torino; Mauro Giancaspro, scrittore; Antonio Filippetti, giornalista, scrittore. Hanno dato il loro patrocinio: Comune di Napoli, Rotaract - Rotary Club Partner Napoli Sud Ovest; Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati; Istituto Culturale del Mezzogiorno Liberi in poesia; Federazione Unitaria Italiana Scrittori; Lectura Dantis Metelliana; Biblioteca Nazionale di Napoli. *** CON 'EUMENIDI' IL GESTO TEATRALE DI VINCENZO PIRROTTA SCARDINA I PARAMETRI INTERPRETATIVI DEL TESTO DI ESCHILO - Al Teatro Olimpico di Vicenza si è svolto, tra settembre ed ottobre 2015, il 68° ciclo di Spettacoli Classici 'I Fiori dell'Olimpo', sotto la direzione artistica di Emma Dante. In cartellone tanti eventi prestigiosi, singolari, problematici, come queste 'Eumenidi' di Eschilo trasportate nell'antica lingua siciliana del 'Cunto' dal regista Vincenzo Pirrotta, di Partinico. Non potendo presenziare allo spettacolo, utilizzo qui alcune parti dell'intervista che la giornalista del settimanale on line 'La Domenica di Vicenza' Elena De Dominicis ha intrapreso con il regista, attore in primo piano ed autore del testo 'Eumenidi' edizione del 2015, la cui sceneggiatura con intersezioni di ritmi di varia provenienza è stata elaborata in modo esclusivo per questa occasione. Alla domanda che tocca il tema della costante attualità delle tragedie greche, domanda chiara, incisiva, problematica, perché legata in questo caso, per il tema delle 'Eumenidi', alla costituzione di un tribunale di giustizia, il regista Pirrotta sostiene: “… In genere si fa risalire la nascita del tribunale degli uomini a questa ultima parte dell'Orestea. Io mi sono molto interrogato, anche quando lo scrivevo e c'erano molte cose che non mi tornavano: questa nascita della giustizia si fonda su un compromesso. Se andiamo ad analizzare bene quello che succede (e io infatti ho cambiato il finale apposta per provocazione su questo argomento), Atena non decide, istituisce il tribunale degli uomini... i quali uomini decidono di non scegliere, danno una sentenza di parità e c'è questo monologo di Atena in cui sembra veramente di sentire un vecchio democristiano doroteo sul senso del compromesso, del non inimicarsi nessuno, del patteggiare e di comunque galleggiare su cose ambigue pur di non scontentare nessuno. Le Erinni stesse, che erano state create per inseguire gli assassini, nascono

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dal sangue di Cronos che viene evirato, si sottraggono al loro compito e accettano di diventare Eumenidi. Nessuno ha mai pensato a questo fatto, loro lo dicono, ad un certo punto: oggi è morta la giustizia. Tuttavia accettano di diventare Eumenidi. Questa analisi mi ha portato assolutamente a capovolgere il senso che viene dato a 'Le Eumenidi', in cui si dice che c'è il fondamento della giustizia, io invece dico che, nel monologo finale a cui tu accennavi, che questa terza parte dell'Orestea, in realtà, rappresenta la morte della giustizia perché il tribunale si fonda sul compromesso”. Alla osservazione della giornalista: “Sei partito dal documentario 'Appunti per un'Orestiade africana' di Pasolini”, il regista risponde: “Ho preso spunto da quello ma soprattutto sono partito dalla traduzione di Pasolini che ha fatto dell'Oreste per Vittorio Gassman al Teatro Greco di Siracusa nel 1960. Mi piace perché era piena di rimandi alla modernità; questo per parlare di un mondo nostro di riferimento, di quotidianità anche non apertamente detta ma che, tra le righe, vorrei ogni sera far arrivare agli spettatori. Qui abbiamo una tragedia statica: sono soltanto le Erinni che rincorrono Oreste e che lo vanno a scovare dapprima nel tempio di Apollo a Delfi, poi nel tempio di Atena. Non succede altro. Quello che mi interessava era mostrare agli spettatori questa ferocia delle Erinni, questo inseguimento che arriva al suo apice in quel coro come se fosse una tarantata, come dei pugni che arrivano ad Oreste che è dentro al cubo e che sente arrivare queste parole come degli schiaffi. Gli spettatori devono sentirsi coinvolti come se fossero essi stessi Oreste. Partendo da questo ho lavorato sul recupero di alcune tradizioni sviluppandole...” Importante allora risulta anche il rimando all'intervista della De Dominicis al Maestro Mimmo Cuticchio, che guida il teatro popolare del 'Cunto', protetto ed individuato come patrimonio e bene immateriale dall'Unesco, ed alla cui scuola è cresciuto anche il regista Pirrotta, per poi dirottare verso un'autonomia da vero sperimentatore, audace e perentorio, riflessivo e caustico, esplosivo e deviante, nell' avventura del corpo e della voce, del gesto e delle sonorità più toccanti, onde andare a sconvolgere l' assetto di sicurezze prefissate che abita lo spettatore anche nel nostro tempo. Non potendo assistere allo spettacolo olimpico, mi sono guardata in rete le parti della versione di 'Eumenidi', allestita per la Biennale di Venezia nel 2004 e la sua è lingua che nasce dal ventre e si fa storia, appropriandosi della tradizione per diventare poi altra cosa, nuovo con-testo che porta la sua firma. Ilia Pedrina


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LIBRI RICEVUTI ISABELLA MICHELA AFFINITO - Insolite composizioni - VIII° volume - In copertina, “La moderna donna - Albero di Klimt” realizzazione grafica dell’Autrice, completamente effettuata a mano con pennarelli di varia grandezza - Ed. Cenacolo Accademico Europeo Poeti nella Società, 1972 - Pagg. 52, e. f. c. ** ISABELLA MICHELA AFFINITO - Dalle radici alle foglie alla poesia - Poesie - In copertina, a colori, “Gli Alberi: La Natura con una mano li crea, con l’altra li decora e con la mente li sviluppa” della stessa Autrice - Edizioni EVA, 2015 - Pagg. 112, € 12,00. Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’ Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, la fotografia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’ Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria ItaloAustraliana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 50 raccolte di poesie e un volume di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierno del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue opere: “Insolite composizioni” - vol, VIII (1972), “Viaggio interiore” (2015). ** FRANCESCO LEPRINO - Un gioco ardito -

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DVD - Dodici variazioni tematiche su Domenico Scarlatti (1685 - 1757: 250 anni nel 2007 - Film, Italia - Portogallo - Spagna, 2006 - Durata 98’ - Regia e sceneggiatura di Francesco Leprino, produzione Al Gran Sole, Milano. Musiche di Domenico Scarlatti reinterpretate ed elaborate da: Arrigo Cappelletti, Alfredo Casella, Azio Corghi, Giovanni Falzone, Giorgio Caslini, Ruggero Laganà, Fabio Nieder, Le Orme, Maurizio Pisati, Salvatore Sciarrino, Javier Torres Maldonado, Isa Traversi, Massimiliano Viel. Clavicembalo: Ruggero Laganà; Interviste a: Enrico Baiano, Emilia Fadini, Gustav Leonhardt, Roberto Pagano, Giorgio Pestelli, José Saramago, Salvatore Sciarrino. Con il patrocinio di: Società del Quartetto, Milano - Centro di Musica Antica, Napoli - Conservatorio San Pietro a Majella, Napoli - Orchestra e Coro Giuseppe Verdi, Milano. Francesco LEPRINO, musicista, musicologo, organizzatore musicale, ha pubblicato dischi, volumi e saggi musicologi. Dal 1995 si è occupato di audiovisione, tenendo corsi universitari, seminari e conferenze e soprattutto realizzando video, documentari e film antologici e sperimentali fra i quali segnaliamo: “L’ ascolto dell’immagine” (1995, 120’), “Clips und Klang” (1998, 60’), “...In cento ben pugnate battaglie...” (2001, 100’), “In casa mia v’aspetto! Mozart a Vienna” (2005, 90’), “Sul nome B.a.c.h.” (2011, 120’), “O dolorosa gioia” (2015, 90’). Tali video hanno avuto lusinghieri riscontri critici, sono stati selezionati in autorevoli festival, trasmessi da RAIl e RAISAT Cinema e proiettati in oltre un centinaio di prestigiose istituzioni in Italia, Germania, Danimarca, Canada, Belgio, Olanda, Svezia, Portogallo, Spagna, Stati Uniti. ** EUGENIO MORELLI - Il buio e la luce (The Dark and the Light) - Raccolta di poesie (Collection of poems) Testo inglese a fronte (Facing-page translation) - Ed. Streetlib (senza data publicazione, forse 2015) - Pagg. 90, € 6,50. Eugenio MORELLI (Trieste, 29 agosto 1946) è un medico, poeta, scrittore, saggista e critico d’arte italiano. Vive e lavora a Conegliano (TV). Nella sua vita ha pubblicato più di venti opere letterarie, principalmente di poesia, vincendo numerosi premi, tra cui il “Premio della Cultura” della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la narrativa. Inoltre per questi suoi lavori è stato insignito del titolo di Cavaliere Ordine al merito della Repubblica Italiana, di Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana nonché dell’ Attestato di benemerenza al merito della sanità pubblica. ** MARIAGINA BONCIANI - Sogni - In copertina, a colori, “Sogni” (1896), di Vittorio Matteo Corcos; Prefazione di Giuseppe Manitta - Ed. Il Convivio,


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2015 - Pagg. 46, € 8,00. Mariagina BONCIANI vive a Milano dove è nata nell’aprile 1934 e si è diplomata in Ragioneria nel 1953, ma ha sempre prediletto le materie letterarie e le lingue. Conoscendo il francese e lo spagnolo ed avendo perfezionato soprattutto lo studio dell’ inglese, ha lavorato, dal 1953 al 1989, come segretaria di direzione, capo ufficio e corrispondente presso tre diverse ditte nel settore import-export. Ama la lettura, i viaggi e la musica classica. In pensione dal 1989, per alcuni anni si è dedicata alla madre inferma, smettendo di viaggiare, ma studiando pianoforte, russo e greco antico. Non si è mai sposata. Da qualche anno ha iniziato a presentare nei concorsi letterari le sue poesie, ottenendo sempre riconoscimenti e premiazioni. Molte sue poesie sono state pubblicate in antologie e riviste. Nel 2010 ha pubblicato nei quaderni “Il Croco” della rivista “Pomezia-Notizie” la silloge “Campane fiorentine”, accolta con entusiasmo dalla critica e nel 2011, sempre per “Il Croco”, la silloge “Canti per una mamma”. Nel 2012 è uscita presso le Edizioni Helicon la sua raccolta “Poesie”. Sue poesie vengono regolarmente pubblicate nella suddetta Rivista e sulla Rivista “Silarus”. Vince il primo premio al concorso “Città di Avellino - Trofeo verso il futuro” 2013 con la silloge “Poesia e musica”, edita nel 2014. E’ presente nel volume “Poeti contemporanei - Forme e tendenze letterarie del XXI Secolo” (2014), a cura di Giuseppe e Angelo Manitta. ** AA. VV. - Percorsi d’arte 2015 - Catalogo della VIII Edizione del Premio Padula 2015, dal 19 al 26 settembre ad Acri (Cs), organizzato dalla Fondazione Vincenzo Padula e patrocinato dalla Città di Acri, dal Parco Nazionale della Sila e cofinanziato da Unione Europea, Repubblica Italiana e Regione Calabria. Presentazione di Giuseppe Cristofaro, Presidente. Artisti: Angelo Barilari, Mariano Benvenuto, Anna Capalbo, Giuseppe Cassavia, Leonardo Corina, Michele Coschignano, Patrizia De Bernardo, Giuseppe De Vincenti, Raffaele Esposito, Antonio Giovanni Ferraro, Giacinto Ferraro, Giuliana Ferraro, Rosaria Ferraro, Angelo Gaetano, Domenico Gallo, Giovanni Giglio, Gianfranco Groccia, Mimmo Intrieri, Armando Giovanni Joram Manes, Giuseppe Manfredi, Fabio Marchiani, Gennaro Marchianò, Angelo Minisci, Lucia Paese, Alice Pinto, Emilio Servolino, Monica Siciliano, Maria Ortensia Spina, Maurizio Stabile, Marco Zaretta. ** FORTUNATO ALOI - Questione Mafia ... e se provassimo con la cultura... - Ed. Nuovo Domani Sud - Si tratta di un breve saggio degli anni ’80 del secolo scorso, adesso riproposto. Pagg. 8, s. i. p.

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Fortunato ALOI (conosciuto come Natino Aloi), è stato per anni docente nei vari licei della Città di Reggio Calabria. Sin da giovanissimo ha operato nel mondo della politica, da quella universitaria alla realtà degli Enti locali. Ha percorso un lungo itinerario: da consigliere comunale nella sua Città ed in altri centri della provincia (Locri) a consigliere provinciale, da consigliere regionale a deputato. Come parlamentare (per quattro legislature) ha affrontato temi di diverso genere ed in particolare si è occupato, con grande impegno, di scuola, cultura e di Mezzogiorno. Ha ricoperto l’ alta carica di Sottosegretario alla P. I.. E’ stato coordinatore regionale della Destra calabrese, ed anche Segretario per la Calabria del Sindacato Nazionale (CISNAL). Presidente dell’Istituto Studi Gentiliani per la Calabria e la Lucania, è componente la Direzione nazionale del Sindacato Libero Scrittori Italiani. Giornalista pubblicista, collabora a diversi giornali ed è attualmente direttore del periodico “Nuovo Domani Sud”. Autore di numerose pubblicazioni di storia, pedagogia, saggistica, politica e narrativa. Ha ottenuto riconoscimenti di valore scientifico come il “Premio Calabria per la narrativa” (1990) per il volume “S. Caterina, il mio rione” (Ed. Falzea); il Premio letterario “Nazzareno” (Roma) 1983 per l’ opera “I Guerrieri di Riace” (Ed. Magalini) ed il Premio “Vanvitelli” per la saggistica storica (1995) per il volume “Reggio Calabria oltre la rivolta” (Ed. Il Coscile) ed il Premio Internazionale “Il Bergamotto” (2004). Altri suoi lavori: “Cultura senza egemonia (Per un umanesimo umano)” (1997), Giovanni Gentile ed attualità dell’attualismo” (2004), “Tra gli scogli dell’Io” (2004), “<Neutralismo> cattolico e socialista di fronte all’intervento dell’Italia nella 1a guerra mondiale” (2007), “Riflessioni politico-morali e attualità dei valori cristiani” (2008), “Piccolo Taccuino di Viaggio” (2009), “La Chiesa e la Rivolta di Reggio” (2009), “Vox clamantis... Come può morire una democrazia” (2014).

TRA LE RIVISTE IL CENTRO STORICO - Il passato per il nostro futuro, Foglio informativo per i soci dell’ Associazione Progetto Mistretta, Presidente Nino Testagrossa, direttore responsabile Massimiliano Cannata - via Libertà 185 - 98073 Mistretta (ME), Email: Ilcentrostorico@virgilio.it Riceviamo il n. 7-8 (luglio-agosto 2015), con servizi di: Massimiliano Cannata (Generazione “y” coraggio il futuro è vostro”), Zigmunt Bauman (“Del pensare breve”), Rosangela Coci, Francesco Cannatella, Salvato-


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re Pettineo, Vittorio Alfieri, Maria Nivea Zagarella, Francesca Scarcina, Franca Sinagra Brisca, Francesco Ribaudo, Pietro Cannata, Lucio Bartolotta eccetera. * IL SAGGIO - Mensile di cultura diretto da Geremia Paraggio, editoriale Giuseppe Barra - via don Paolo Vocca 13 - 84025 Eboli (SA) e-mail: ilsaggioeditore@gmail.com Riceviamo il n. 234 (settembre 2015), con servizi di: Giuseppe Barra (“Prignano Cilento: due passi nella sua storia”), Giuseppe Falanga, Geremia Paraggio, Paolo Saturno CSsR, Giuseppina Crescenzo, Nadia Parlante, Carmelo Orobello, Antonio Capano eccetera. Allegato, il n. 128/234 de Il Saggio libri, poesia, arte, con centinaia di poesie e di tante valide firme. * NUOVO DOMANI SUD - Periodico di informazione politica e culturale, direttore Fortunato Aloi, responsabile Pierfranco Bruni - via Santa Caterina 62 - 89121 Reggio Calabria. Riceviamo i numeri 4 (luglio-agosto 2015) e 5 (settembre-ottobre 2015), ricchi di articoli, poesie, immagini. Tra le firme, oltre quella di Fortunato Aloi: Orazio Raffaele Di Landro, Domenico Ficarra, Amalia Michea, Luigi Franzese, Francesco Cornelio, Giovanni Praticò, Lino Di Stefano, Giuseppe Pirazzo, Riccardo Carbone, Francesca Messineo, Marino Monnalisa, Carla Spinella, Carmelo Bagnato, Giuseppe D’Acunto, Franco Mosino eccetera.

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Immagine sotto a sinistra: Domenico Defelice: Dal castagno di Aurora, biro e pennarelli, ottobre 2015

AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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