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Antonio Nesci: “Disimpegno di un burattino in una scena di volo”

IL PIFFERAIO DI HAMELIN NELL'INFERNO DI BATACLAN Con pausa di ristorazione nella taverna di Long John di Rossano Onano N copertina, un disegno informale, un'esplosione di colori primari che permettono all'osservatore di comporre una qualsiasi immagine, secondo il capriccio dell'inconscio. Così funzionano le tavole di Rorschach, test proiettivo utilizzato in psichiatria. Mi avessero detto: è una tavola di Kandinski, avrei pensato fra me: però, c'è più colore e meno linea, ma la mano di Kandinski si vede. Invece, il quadro in copertina è opera di Viola Francia, bambina di scuola materna, nipote di Antonio Nesci, autore del libro: Disimpegno di un burattino in una scena di volo, Edizioni dell'Aurora, Verona, 2016.

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All’interno: Silone, Machiavelli e il neo Presidente americano Trump, di Giuseppe Leone, pag. 6 Solomon Feferman: in The Light of Logic, di Ilia Pedrina, pag. 8 I cuori intelligenti, di Carmine Chiodo, pag.11 Shakespeare era anche un poeta, di Luigi De Rosa, pag. 14 Per Nino Ferraù Defelice capovolge e rammenda il Parnaso, di Ilia Pedrina, pag. 17 Luigi Reina: Romanzo, di Elio Andriuoli, pag. 21 Gianfranco Fini e il ventennio con Berlusconi, di Giuseppe Giorgioli, pag. 25 Curiosità ed entusiasmo nella tesi di Aurora De Luca, di Anna Vincitorio, pag. 29 I fondali dell’amore di Graziano Giudetti, di Leonardo Selvaggi, pag. 31 Trimarchi e De Luca e la poesia fera e mansueta, di Giuseppe Leone, pag. 35 Luigi De Rosa e la grande poesia di Rescigno, di Tito Cauchi, pag. 37 Commenti a “La barca” di Nazario Pardini, pag. 42 Carlo Di Lieto: La donna e il mare, di Tito Cauchi, pag. 45 Talayots, di Anna Vincitorio, pag. 49 La chitarra di Beniamino, di Antonio Visconte, pag. 50 I Poeti e la Natura (Giacomo Leopardi), di Luigi De Rosa, pag. 52 Notizie, pag. 65 Libri ricevuti, pag. 66 Tra le riviste, pag. 67

RECENSIONI di/per: Tito Cauchi (Il mistero Dickinson, di Isabella Michela Affinito, pag. 53); Tito Cauchi (Sensazioni, di Antonia Izzi Rufo, pag. 54); Tito Cauchi (D’in su la vetta della torre antica, di Giuseppe Leone, pag. 55); Tito Cauchi (Lamento ragionato sulla tomba di Falcone, di Nicola Lo Bianco, pag. 56); Roberta Colazingari (Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca, pag. 57); Roberta Colazingari (D’in su la vetta della torre antica, di Giuseppe Leone, pag. 57); Domenico Defelice (Carmine Manzi una vita per la cultura, di Tito Cauchi, pag. 58); Domenico Defelice (Altalene, di Elisabetta Di Iaconi, pag. 58); Salvatore D’Ambrosio (Per una conoscenza breve e sommaria della figura di tre umanisti campani Giannantonio Campano Elisio Calezio Luigi Tansillo, di Brandisio Andolfi, pag. 59); Elisabetta Di Iaconi (Sensazioni, di Antonia Izzi Rufo, pag. 60); Filomena Iovinella (L’inventore dei sogni, di Ivan McEvan, pag. 60); Giovanna Li Volti Guzzardi (Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca, pag. 61); Susanna Pelizza (Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca, pag. 61); Laura Pierdicchi (Sensazioni, di Antonia Izzi Rufo, pag. 62); Liliana Porro Andriuoli (Palcoscenico, di Tito Cauchi, pag. 63); Claudia Trimarchi (Sensazioni, di Antonia Izzi Rufo, pag. 64).

Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Domenico Defelice, Salvatore D’Ambrosio, Elisabetta Di Iaconi, Nino Ferraù, Béatrice Gaudy, Filomena Iovinella, Giovanna Li Volti Guzzardi, Adriana Mondo, Ines Betta Montanelli, Leonardo Selvaggi

La prefazione al libro è a firma di Valter Vecellio, giornalista della TV di stato, noto di

nome e molto meno di volto avendo, in aggiunta alla puntuale professionalità, il pregio


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singolare di schivare le comparsate televisive. Tanto schivo è Valter nell'esercizio della professione, altrettanto esuberante e quasi accalorato è nelle professioni d'amicizia. Così è Antonio Nesci, del resto. I due sono amiconi, e se la intendono benissimo. Vecellio presenta l'amico ponendo a premessa la propria incompetenza poetica. Si tratta di narcisismo, perché Valter se ne intende, e come. Ma l'uomo è sincero, ciò che lo spinge a scrivere non è tanto la parola, quanto la caratterialità, affine e calda, dell'amico. Di Nesci scrive: Giocoso, attento, paziente, metodico cesellatore di parole; un artigiano instancabile del verso: una sorta di pietra di fiume “lavata” per anni da acqua che scorre e depura le scorie. Ma anche un teatrante spontaneo, che recita le sue poesie, con la “fisicità” del cantastorie capace di incantare. “E' una testimonianza di amicizia”, ha convenuto con me Antonio Nesci. Non posso fare a meno di ricordare d'aver cenato alcune volte allo stesso tavolo dei due, che per tacito accordo si siedono vicini per disputare fra loro. Vecellio, fuori veste professionale, si ricorda allora d'essere stato in gioventù direttore responsabile del settimanale satirico Il Male, e ritorna autenticamente se stesso giocando la carte dello sberleffo irruente.

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Antonio risponde per le rime, i due la pensano allo stesso modo sulle cose del mondo ma si divertono ad acuire gli spigoli anziché smussarli, giocano a chi le spara più grosse, un sano esercizio liberatorio. Difficile interloquire, io infatti non ci ho mai provato. Valter Vecellio annota, riguardo ad Antonio, la frequenza della parola “fratello” utilizzata nei testi. “Fratello”, in senso cristiano, è colui che condivide una fede, un indirizzo d'azione. In senso ecumenico, il cristiano utilizza la parola “fratello” indirizzandola a tutto il genere umano. Leggo, e non posso fare a meno di attribuire alla parola “fratello” il suo significato domestico: ricordo il fratello di Antonio, Raffaele, straordinario poeta morto in giovanissima età. Al suo funerale, ho sentito il bisogno di appartarmi, e di piangere singhiozzando. E' stato quello il mio ultimo pianto conclamato. La parola “fratello”, per Antonio Nesci, è sempre utilizzata a sottintendere un legame affettivo profondo. Altra qualità che Vecellio, giustamente, attribuisce ad Antonio è la straordinaria capacità affabulatoria dell'amico, esercitata non soltanto in sede conviviale, ma erga omnes. Massimamente nei confronti dei bambini. Io ricordo benissimo: eravamo stati reclutati, Antonio ed io, per condurre una lezione di poesia nelle scuole di una città calabrese. A me spettava un liceo, ad Antonio una scuola elementare. Lì per lì, l'amico trovò sospettosa la cosa: perché a te un liceo, e a me i bambini delle elementari? Fatto è che il nostro reclutatore, il soave Francesco Graziano direttore de Ilfilososso, ci aveva visto giusto: sapeva che Antonio, per l'estroversione generosa e fantastica della sua parola, era la persona più adatta per parlare di poesia ai ragazzini. Antonio ebbe infatti un successo strepitoso, e da lì cominciò la sua carriera di motivatore alla poesia per i giovani, condotta poi per varie scuole della Calabria appunto e dell'EmiliaRomagna e del Veneto. La sua attività ha avuto esito nel tempo con la cura di antologie scritte da bambini, dal titolo incantevole perché tratto via via da una delle loro poesie, qualcosa come “La luna sembra una banana


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accesa”, “Faccio collezione di sorrisi”, “Il cielo l'ho inventato io”. Nella mia immaginazione, non posso fare a meno di paragonare Antonio Nesci al Pifferaio di Hamelin, quello che zufola per strada e tutti i bambini lo seguono. Antonio mi fa dono del suo ultimo libro, e vorrei vedere che non fosse così. Il titolo fa riferimento a un burattino disimpegnato in una scena di volo, non so bene cosa vuol dire ma l'immagine del burattino mi porta immediatamente al mondo dell'infanzia che l'amico coltiva come oggi, credo, nessuno fa meglio di lui. Un'altra suonata del pifferaio, dico fra me. E invece, di primo acchito mi raggiunge nel testo una data con attribuzione di luogo: Parigi 14 novembre 1915. Non siamo ad Hamelin, siamo a Parigi, giorno successivo all'orrenda strage del Bataclan. Come avviene a tutte le persone miti, di fronte alla violenza la reazione immediata di Antonio non è lo sdegno. E' lo smarrimento: Oggi parla la gente salva, racconta la morte colorata di sangue, racconta che ancora una volta è caduto un dio. Lo stesso Iddio di sempre che muore nella innocenza del suo nome. Muore per il male oscuro dell'uomo che senza vibrazioni racconta lontane verità, anime mute di un essere distante dalla vita. Eppure, ieri, io ti credevo fratello, quando con un sorriso hai chiesto: “Dov'è la vita?” La reazione emotiva di fronte alle catastrofi, garantisce la scienza psicologica, è appunto lo smarrimento confusionale. Il fratello non riconosce il fratello: è una difesa per non piangere. Per non piangere con lui: Non so raccontare il groviglio di voci, di anime sazie, di gente che rincorre se stessa

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senza mai identificare l'uomo che è. Siamo stati soldati, madri e fratelli e pesci e sabbia, siamo stati in ogni luogo, in ogni pensiero. Oggi, io scrivo, oggi che sono perso, vigliacco e senza storia non riconosco la radice che mi ha nutrito, non riconosco più il fratello che accanto mi piange. E però, se l'uomo attonito non piange, la natura piange per lui: Urlano gli alberi quando il vento scuote il cielo e piangono la loro storia di radici e di tempo, poi tacciono con le braccia alzate in una silenziosa preghiera di resa, dormono sognando un risveglio di lucciole tra frutti nuovi e lo sguardo oltre le dune, oltre il rumore dei fratelli abbattuti. Lo scheletro piangente degli alberi ha braccia che abbrancano l'uomo, forzandolo alla riflessione del dolore che da sempre incombe sul mondo: Sarò Caino e Abele e mi lascerò morire nella corrente di questa acqua che non torna... piove le sue lacrime il cielo e noi restiamo senza storia senza sembianze. L'uomo è insieme, da sempre e per sempre, Caino e Abele, senza altra storia che non sia il destino (personale; collettivo) di morte. Il Pifferaio di Hamelin come Ofelia, scorrente pallida nel fiume dell'acqua che non torna. Il pifferaio non è più in grado di incantare, suonando. Eppure, lo stordimento colloca il cantore a fronte del qui ed ora metafisico. Una straordinaria poesia (Restammo io e l'infinito) lo pone a contatto con l'immaginifico Eroe che sorveglia la porta dell'infinito: Nel limite di un recinto appena tracciato, aveva mani d'uomo


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l'ultimo re della costellazione apparteneva alla tribù degli eroi, aveva spalle incatenate al centro della vita, si chiamava come si chiamano i fiori di primavera eppure non aveva il concetto di morte, né che il mio respiro fosse all'unisono con il vento, nella radice profonda della grande luna giacevo io, mentre lui con la sua forza cercava di accompagnare i rami al cielo, io rimasi legato al filo per tutte le ore a venire prima che luna si nascondesse ondeggiante tra spicchi di vento. Eppure, la porta dell'infinito resta spalancata. In esergo al passo successivo del libro (C'è paura / nella notte, quando il silenzio / ci racconta il buio.) Nesci anticipa la propria meditatio mortis, l'umana irrinunciabile paura dell'aldilà. A ben vedere, la nostra stessa preghiera per i defunti disegna uno scenario eterno (riposo, luce, pace) difficilmente concepibile e meno che mai desiderabile specialmente per chi, come il nostro amico, fa dell'azione e dell'accanimento percettivo alle cose del mondo la propria ragione di vita. Fortunatamente, la meditatio mortis è interrotta da uno stordimento corale, fiabesco, una sana bevuta nella taverna dei filibustieri, con altrettanti burattini (Long John e Gambadilegno) assunti a compagni di viaggio e di sosta. Verso il termine della raccolta, una straordinaria pantomima (Nel primo bicchiere) disegna la stanza della fantasia, insieme nostalgica e progettuale, dell'uomo (degli uomini) consapevole dell'esito prossimo del viaggio: L'isola contaminata dal tesoro muove verso Stevenson il filibustiere che con aria malconcia si perde nelle disseminate mappe, “non troverete nulla, mi hanno sventrato, tolto il midollo e la spina dorsale” così è rimasta vedova l'isola del tesoro

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già dal 1883 quando Long John e Gambadilegno, con la benda sull'occhio, erano a bere il rhum nella stiva della nave. Lasciatemi scavare dove il sogno sembra raccontare di un amore annegato nel primo bicchiere. Con Long John, Gambadilegno, Antonio e Valter, alla taverna dei filibustieri siedo anch'io. Siedono al tavolo anche Giovanni Capucci e Michele Lalla, personaggi le cui note accompagnano il libro di Antonio. Giovanni è un vecchio amico di scorribande fantastiche, oggi stanziale sull'appennino modenese ma sempre presente nel cuore. Michele è uno straordinario insegnante di statistica all'Università di Modena, abituato a misurare i versi di poesia come fossero note ritmiche di uno spartito musicale. Cosa mangino i bucanieri, è faccenda di cui la letteratura non si occupa. E' invece certo che bevano rhum. Infatti, beviamo tutti, pieni di tristezza e di speranza. Cantiamo in coso: Quindici uomini / sulla cassa del morto. Termino la lettura del libro, e ritorno al disegno di copertina. Compongo le macchieRorshach di colore e finalmente vedo ciò che Viola Francia ha rappresentato: un uomoburattino impegnato, fortunatamente, in una scena di volo. Volendo: fenomenologia (ottimistica) dell' umano. Rossano Onano ANTONIO NESCI: Disimpegno di un burattino in una scena di volo, Prefazione di Valter Vecellio, Post-fazione di Michele Lalla, Nota di Giovanni Capucci; in copertina disegno di Viola Francia; Edizioni dell'Aurora, Verona, 2016.

AVVISO A LETTORI E COLLABORATORI Per mancanza di spazio, parecchio materiale, già selezionato, è stato rinviato al prossimo numero di gennaio 2017. Buon Natale e Felice 2017. La Redazione e la Direzione


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SILONE, MACHIAVELLI E IL NEO PRESIDENTE AMERICANO TRUMP di Giuseppe Leone

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ER tutto il tempo della campagna elettorale per la Presidenza degli Stati Uniti d'America, ho sempre avuto nella mente La Scuola dei dittatori di Ignazio Silone. Tutto ha avuto inizio, ancora alle prime fasi, alla vista della folta chioma bionda di Donald Trump, candidato alla Casa Bianca per il partito repubblicano, la quale mi ha fatto tornare alla memoria l'“abbondante criniera di colore giallo-granturco” del Professor Pickup, un ideologo inventore della Pantautologia. Ma, via via che i mesi passavano e Trump si accreditava sempre di più presso l'elettorato del suo Paese, capii che questa persistente presenza nella mia immaginazione della Scuola dei dittatori non fosse solo dovuta ai tratti fisici del professor Pickup, ma anche alla brama di potere dell'altro personaggio, Mr Doppio Vu, aspirante dittatore in America. La scuola dei dittatori - è bene ricordare - è un dialogo storico-politico che Silone immagina tra questi due americani giunti a Zurigo nel 1938 per apprendere la tecnica della dittatura e Tommaso, un esule italiano detto il Cinico per la sua spregiudicatezza, pronto a impartir loro lezioni sull'argomento, sullo sfondo di un'Europa nel pieno dell'ebbrezza delle dittature e un'America spavalda che non sembrerebbe temere affatto il loro contagio.

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Il motivo della loro visita è presto spiegato dal Professor Pickup: “Anche da noi comincia a sentirsi il bisogno di una riorganizzazione autoritaria della vita pubblica. La democrazia ha fatto il suo tempo, quest'è chiaro... Disgraziatamente lo sviluppo del movimento liberatore che dovrà concludersi con una marcia su Washington e la cacciata della quinta colonna sovietico-giudaico-negra della Casa Bianca, si è negli ultimi tempi un po' rallentato... Il vostro fortunato continente ha contato governi dittatoriali fin dalla remota antichità, ed anche ora ne ha di rigogliosi. Andiamo a vedere di persona, ci siamo detti, come si sono costituite quelle famose dittature, chi sono quei dittatori, come sono arrivati al potere e, soprattutto, che cosa ci insegnano le loro esperienze. (5). Nel frattempo Trump è diventato il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti e La scuola dei dittatori non mi abbandona ancora, per cui penso che il motivo delle mie preoccupazioni non sia neppure Mr Doppio Vu. Sento che a preoccuparmi siano, invece, le verità pazze di Tommaso (Silone), tra cui questa: “il fascismo non ha sconfitto il socialismo, ma il fascismo è nato dalla sconfitta socialista”. In attesa che il nuovo Presidente s'insedi, ho ripreso a rileggermi, questa volta pagina dopo pagina, La scuola dei dittatori, per nulla sconosciuta agli americani che, proprio nel 1939, al momento della sua uscita nelle librerie, la salutarono come Novello Principe, colpiti dalle sue folgoranti rivelazioni sulle dittature. Ho finito di leggerla l'altra sera, riflettendo a lungo sulla conclusione che riporto: A Mr. Doppio Vu che ringraziava Tommaso per i consigli ricevuti e lo invitava, se mai la fortuna lo dovesse assistere nell'impresa di diventare dittatore, a recarsi in America suo ospite, questi così rispondeva: “Perché no? Ma sarà pericoloso per entrambi. Certamente mi associerò ai vostri avversari, per combattervi, e voi, seguendo i miei consigli, dovreste dare ordine di mettermi in galera.” Concluderò, alla maniera dei favolisti greci, dicendo: la favola insegna che alla fine di


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queste lezioni zurighesi solo Tommaso sa che cos'è una dittatura, l'altro non ha capito nulla, per fortuna. Ma qui finisce la letteratura e la sua giurisdizione; ora incomincia l'era Trump e con essa nuovi sentimenti e nuove idee alimenteranno l'agenda della politica e della storia. Può non succedere nulla di grave, ma se dovesse, Silone ha fatto sapere che “l'uomo onesto non deve necessariamente sottomettersi alla storia”. Giuseppe Leone Pag. 6: Donald Trump, Neo Presidente degli Stati Uniti d'America

FUOCO E’ fatto di niente in fondo. A pensarci nessuno ne ha mai comprato fatto incetta, messa esclusiva proprietà. E’ prodotto da un altro niente. Riconosciuto molto pericoloso questo niente quando si attacca non lascia mai la preda la fa sua, la ingloba la divora nel suo niente. Provate ad afferrarlo difficilmente ci riuscirete perché per sua natura è niente. E’ distruttivo il suo niente ma ineguagliabile, incommensurabilmente indispensabile. È fuggitivo irraggiungibile. È alto, a volte altissimo poi all’improvviso è basso fino a diventare quasi niente di quel suo niente, ma spesso è una finzione per dirti: attenzione quel che vedi non è cosa da niente. Vortica, gira, cambia sempre direzione. Ama il silenzio, ma anche il crepitio il boato sordo o il sibilo sereno quando si affida la vento calmo che lo porta in alto a gareggiare con lo scintillio impareggiabile delle stelle ricadendo sempre però verso il suolo

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in smunte faville nere per l’insostenibile agonismo. È forte, poderoso quel suo niente. Energica sapienza divinità temuta portata a casa rispettosamente. E’ giallo, rosso, viola, bianco intenso non vuole che lo guardi troppo negli occhi non ama le confidenze le distanze ravvicinate le carezze di condiscendenza. Amicizia e servitù ma con rispetto che conviene a entrambi ma certamente più a te perché mentre lui in apparenza è poco più che niente tu sei carne da cuocere se ti stringe nell’abbraccio del suo niente. Salvatore D’Ambrosio Caserta

RUGIADA In un pugno di rugiada il senso di vuoto di un corpo che si salva dalle ceneri del passato. L’aria fresca riempie riattiva il sangue di vene, finalmente risanate. Il volto riaffiora e sorride nello specchio magico di una vita riavuta. Filomena Iovinella Torino

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 9/11/2016 Anchorman, ebrei, ispanoamericani, neri più della pece ed istrioni, cantanti, attori, gay e musulmani, capi di Governo e di Nazione... Il mondo tutt’intero a scongiurare. L’effetto? Tanto tuonò che piovve: TR(I)UMP(HUS)! E fu ciclone. Domenico Defelice


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SOLOMON FEFERMAN: 'IN THE LIGHT OF LOGIC' di Ilia Pedrina

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OLOMON Feferman è uno studioso dallo stile che affascina ed il mio primo approccio alla sua ricerca è avvenuto attraverso lo studio del testo: 'IN THE LIGHT OF LOGIC', New York – Oxford, Oxford University Press, 1998. La dedica sintetizza d'un tratto immediato il suo modo di porsi e di proporsi, al mondo come alla relazione d'amore: 'For Anita - Light of my life' e ad Anita, la sua consorte, ancora fa riferimento nella Prefazione '… It is to mi wife, Anita, to whom I turned whenever I needed a willing ear and a special sensitivity to felicities of language; my thanks, as ever, to her. S. F. Stanford, California. July 1998'. Si, è così: è ad Anita che il professore si rivolge quando sente la necessità di un ascolto carico di volontà appassionata e di una particolare sensibilità legata agli aspetti positivi, costruttivi, gioiosi del linguaggio, lei è il suo punto di riferimento e di ringraziamento costanti. I contenuti del testo si snodano all'interno di cinque sezioni di approccio, di chiarificazione e di approfondimento del percorso intrapreso: I-FOUNDATIONAL PROBLEMS (pp. 173); II-FOUNDATIONAL WAYS (pp. 75-124); III-GÖDEL (pp. 125-174); IV-PROOF THEORY (175-226); V-COUNTABLY REDUCIBLE MATHEMATICS (pp. 227-298). Ogni sezione è corredata da note a fondo pagina e da note sulle fonti ('Source Notes'), a

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conclusione di essa. Seguono le parti relative a 'Symbols' (pp. 299-308), 'References' (pp. 309-330) e 'Index' (pp. 331-343), rispettivamente i simboli matematici e logici utilizzati nel testo, gli Autori ed i loro scritti di riferimento dei quali il Nostro fa menzione e chiarifica ed infine l'indice di Autori citati e temi di riflessione sui quali nel testo egli si intende soffermare. Corre il giorno 2 maggio 2013 e mi avvio ad intraprendere questa avventura, segnando a matita, glossando, effettuando schemi di sintesi: anche se tanta parte dei contenuti è specialistica, le luci che invitano a continuare il viaggio sono diffuse ovunque e possono interessare chi è un poco addentro alla lingua inglese creativa da un lato e definente rigore di ricerca insieme, dall'altro, contemporaneamente. Metto la sigla 'S.F.' in un cerchio là dove trovo affascinante il suo stile, che mi catapulta nel ragionamento, senza rendere necessaria una rilettura; là dove scopro connessioni audaci ed innovative, adatte a modificare ed a riprogettare idee e posizioni di altri studiosi, matematici, logici, filosofi, linguisti; là dove incontro un narrare diretto fatto di interpretazioni, di connessioni, di nuovi sguardi sulle vicende di vita, di ricerca, d'esperienze del matematico austriaco Kurt Gödel, nella Sezione III, e sul quale mi concedo una lunga sosta, attenta e compiaciuta. Si, perché Solomon Feferman, dopo aver riportato l'inciso 'Kurtele, if I compare your lecture with the others, there is no comparison - Adele Gödel', precisa con uno stile aforismatico inconfondibile: “In the end we search out the beginnings...” (S. Feferman, 'In the Light of Logic', op. cit. pag 128). Gli interrogativi che lo studioso si pone intorno alla vita, alla carriera, alla personalità del matematico nato il 28 Aprile 1906, sono di grande interesse e vanno a sottolineare come, nella ricerca delle cause di paure, fughe da relazioni, digiuni portati avanti da Gödel fino allo sfinimento ed alla morte, si possano trovare solo frammenti di un mosaico che non potrà mai giungere ad una immagine definitiva, servendo invece a far emergere luci d'intuizione e particolari


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snodi innovativi della ricerca e delle sue codifiche. Per giorni e giorni continuo a leggere, ad annotare subito, a trascrivere riflessioni ed espansioni alla fine del testo. Il 26 giugno del 2013, alle 12,37 invio al prof. Feferman, presso la sua sede dell'Università di Stanford, questa e-mail, che volentieri e con tristezza trascrivo in traduzione: 'Ogg: Da una libera pensatrice e scrittrice all'eccellente Autore di 'IN THE LIGHT OF LOGIC'. Caro prof. Feferman, sto leggendo il suo bellissimo libro 'IN THE LIGHT OF LOGIC'. Apprezzo il modo con il quale lei spinge la conoscenza all'interno di argomenti particolari, non solo relativi alla Matematica. Le dirò di più e preparerò un articolo che andrà a chiarire il grande contributo, per tutti i filosofi ed i liberi pensatori come me, che lei ha offerto con le sue sintesi e le sue ricerche. Il mio obiettivo particolare, provenendo da Spinoza ed andando all'indietro verso Platone, è di penetrare all'interno del principio di CAUSA/EFFETTO e nella relazione che esso obbliga anche rispetto ai NUMERI. La necessità (ananke in Greco) che Aristotele tira in campo in ogni opera (nella Fisica, nella Metaf. etc) come un muro contro il quale è impossibile operare, è per me il passo giusto per spingere la forza del pensiero ad andare oltre ed osservare! Mi scusi, ma è la prima volta che posso parlare di una ipotesi così particolare, e questo proprio perché lei è così eccellente (semplicemente amo il modo col quale lei presenta Goedel, la sua personalità ed il suo pensiero ed anche l'importantissimo ASSIOMA DELLA SCELTA). Perdoni la mia audacia spirituale. Auguro ogni gioia possibile a lei ed a tutti coloro che lei ama. Ilia Pedrina...'. Poi il turbinio degli altri campi d'indagine, da A. Schoenberg a L. Nono, senza sosta e senza stanchezza, ma con frequenti ritorni alla Filosofia Analitica ed a questo testo splendido, a fianco degli altri, di Michael Dummett, di Frege, di Wittgenstein, di Russell, del matematico tedesco Dirk Kussin, ora in Giappone e dell'altro matematico allievo del

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prof. Dummett, lo slavo Kosta Dosen: questi due or ora citati li andrò sicuramente ad intervistare, perché non dimentico mai , anche se sul filo del rasoio del tempo, gli impegni letterari con il Defelice e la sua Pomezia Notizie. All'improvviso, qualche settimana fa, nel momento in cui desideravo riprendere i contatti perché alcune importanti riflessioni avevano avuto percorso più chiaro e consistente, mi arriva la notizia del suo ultimo viaggio, verso l'infinito. Riporto solo l'avvio dell'elogio 'A tribute to Solomon Feferman (1928-2016)' -Aug. 4 2016 / Stanford University - R. Lanier Anderson Solomon Feferman - Professor of Mathematics and Philosophy, Em. - Patrick Suppes Professor of Humanities and Sciences, Em. Whit great sadness, the Philosophy Departement notes the passing of our friend and colleague, Solomon Feferman, who died on Tuesday, 26 July, 2016 at his Stanford home after an illness of about three months. He was 87...' (Fonte Internet, al sito dell'Università di Stanford, Dipartimento di Filosofia). Due le fotografie riportate nelle pagine in suo onore: quella del 1971, mentre il prof. Feferman partecipa al Symposium a Berkeley, con alle spalle la lavagna carica di formule (photo by Steve Givant) e quella del 1980 nel corso del Logic Symposium a Patrasso, con amici, tratta dal suo sito in rete. Poi, come interpretazione della sua bella persona in sorriso, a conclusione di questo tributo in suo onore, un pensiero toccante: “Sol's gentle manner, his generosity of spirit, and his quiet, thoughtful wisdom will be sorely missed in the counsels of our Departement, and we will all feel the loss of his towering intellect and relentless curiosity”, là dove l'autore di questo toccante ed esauriente elogio, r. Lanier Anderson, sottolinea il rimpianto di tutti i collaboratori di Dipartimento per i suoi modi gentili, la generosità spirituale, la pacata saggezza carica di riflessione, per il suo intelletto proteso ad alte vette e la sua instancabile curiosa perspicacia. Il ragionare nel vivere, d'amore e d'altro, è


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per tutti facoltà quotidiana; lavorare sulla parola come simbolo e sui simboli stessi, sul discorso, sui principi legati alla verità, alla validità delle asserzioni portate in campo, alla scelta come assioma, è mondo antico e nuovo ad un tempo, dal quale lasciarsi attrarre nel farsi vivaci ed appassionati esploratori. Rimarrò sicuramente a lungo su questi percorsi tracciati dal prof. Feferman, ampi ed inconfondibili, interrotti si, ma ancora in pieno luminoso riverbero attraverso i suoi scritti. Ilia Pedrina

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Moi aussi je regrette ma voile d’amour perdue parmi les lames du temps, je pleure pour l’inquiétude qui devient feu qui devient glace dans mes veines, pour ce cri rebelle qui s’élève de l’abîme et meurt dans l’ombre des choses perdues. LEON CUISINIER

Laissez-moi la clarté de traces divines, le conte de Pan, prince des bois, les débordants éclats de rire, les secrets baisers.

Firmava con una croce ma il libro vitale della natura gli era trasparente quanto l’acqua pura I cinguettii non avevano nessun segreto per lui all’udito identificava gli uccelli e il senso dei loro canti Le minime tracce animali le minime piante il soffio del vento la luminosità del cielo il bagliore delle stelle tutto era intelligibile per il vecchio uomo d’Oc e d’Oïl che fu il mio bisnonno Firmava con una croce ma se la scrittura gli rimaneva impenetrabile mistero - non come a sua moglie che scriveva il francese senza sbagli lui sapeva leggere nel cuore degli eventi E il vecchio uomo che durante la guerra aveva salvato giudei e resistenti non si illudeva sull’essere umano: La barbarie non era per definizione straniera poteva apparire nella nostra società e incancrenirla E il bene era simile a un campo Doveva essere seminato e coltivato non una volta per tutte ma sempre se si lo voleva anche raccogliere sempre Béatrice Gaudy

- Ô Ariane, tu qui sanglotes sur les rivages en voyant s’éloigner parmi les vagues, blanche de soleil la voile de Thésée -

Francia N. B. Lingua d’Oc: lingua parlata in quasi un terzo della Francia, nel sud. Nel Medioevo, questa lingua era quella dei trovatori. Lingua d’Oïl: lingua diventata il francese.

E MUORE NELL’OMBRA Che mi lascino la chiarezza di segni divini, il mito di Pan principe dei boschi, le risa prorompenti e i baci segreti. - O Arianna che singhiozzi sulle rive vedendo fuggire lontano in mezzo ai flutti, bianca di sole la vela di Teseo – Anch’io piango per la mia vela d’amore perduta tra i marosi del tempo, per l’inquietudine che è fuoco che è gelo nelle vene, per quel grido ribelle che sale dal profondo e muore nell’ombra delle cose perse. Ines Betta Montanelli da Lo specchio ritrovato (2004), traduzione qui di seguito di Marina Caracciolo ET DANS L’OMBRE MEURT


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I CUORI INTELLIGENTI DI CLAUDIO GIUNTA di Carmine Chiodo

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INALMENTE si dispone di un vero, significativo, intelligente manuale di Letteratura italiana, validissimo e utilissimo per gli studenti della scuola media superiore, per quelli universitari ma anche per un più vasto pubblico. Opera maneggevolissima e scritta con molta accuratezza critica e filologica. Un’opera che soddisfa appieno le esigenze degli studenti e non solo, è stata creata e scritta da un noto e apprezzato italianista, cattedratico di Letteratura italiana nell’ Università di Trento. Viene offerto un bel panorama dello svolgimento della nostra letteratura a partire dalle origini fino ad arrivare ai tempi nostri. Il linguaggio è scorrevole ed efficace e chi legge non fatica molto a capire ciò che sta leggendo. Ci troviamo davanti a un’opera impeccabile per veste tipografica e per contenuto e struttura. Pure il titolo è svelante e su di esso è da dire che nel libro dei Re, Salomone chiede a Dio di dargli << un cuore intelligente>>, che lo renda giusto e lo aiuti a saper distinguere il bene da ciò che è male. Come si legge all’inizio del primo volume (Dalle origini al Rinascimento) << abbiamo scelto questo titolo non perché suona bene (in realtà anche un po’ per questo) ma perché dice esattamente ciò a cui, secondo noi, dovrebbe mirare lo studio della letteratura a scuola, non a formare giovani specialisti di Petrarca, o di Ariosto, o di Montale, ma a far crescere gli studenti sia dal punto di vista emotivo sia dal punto di vista intellettuale. Speriamo di esserci riusci-

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ti>>. Questo fine è stato raggiunto come mostra l’opera in tutta la sua interezza. Lo studioso che pure è un fine scrittore e saggista già nel primo volume ci consegna in belle pagine Quello che leggeremo e viene subito detto << che la letteratura italiana nasce grande. Nell’arco di meno di cinquant’anni, in un fazzoletto di terra nel cuore della Toscana, nascono tre dei più grandi scrittori che siano mai vissuti sul nostro pianeta: il più importante narratore del Medioevo, Giovanni Boccaccio, e quel genio supremo, non incasellabile in alcuna categoria, che è stato Dante Alighieri>>. Comunque leggendo il manuale incontriamo la poesia provenzale, poi i romanzi cavallereschi, poi ancora la poesia lirica che si sviluppa nella corte siciliana di Federico II (nel primo Duecento) e termina alla fine del secolo in Toscana, con i famosi poeti dello Stilnovo. Questi antichi testi sono ottimamente annotati, commentati e presentati criticamente e con una lingua accessibilissima. Si tratta di testi molto belli e nel contempo pure importanti in quanto ad esempio molte idee che oggi abbiamo sull’amore provengono da quei testi appunto. Dopo di ciò il lettore si trova catapultato nelle opere di quegli autori che un tempo erano chiamati <<le tre corone>>: Dante, Petrarca e Boccaccio. Di Dante ci sono dati molti versi, soprattutto quelli della <<Commedia>>, presentati non come dei <<bellissimi ‘pezzi di letteratura’>> ma presentarli e trattarli come una splendida e magnifica storia che ha un cominciamento, un suo sviluppo e una sua fine; e che allora va << anzitutto raccontata >>. Del Petrarca sono offerte le opere in volgare, il <<Canzoniere>> e i <<Trionfi>>, opere che si sapevano un tempo a memoria da folle di poeti, scrittori e amanti di testi poetici, e infine di Boccaccio sono presentare quelle pagine, molte pagine dedicate al suo maestro ideale che è Dante (Boccaccio fu uno dei primi commentatori della <<Divina Commedia>>) e poi ancora ecco molte pagine tratte dal <<Decameron>>, che << tra gli altri pregi ha quello di essere un libro molto divertente (divertente è una parola che sta benissimo accanto a letteratura: non si


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escludono a vicenda, al contrario, quindi prepariamoci a una festa, non a un funerale)>>. Ancora per sostare in questo primo volume ecco, per fare un altro esempio, il Cinquecento, che presenta <<meravigliosi esseri umani>>: è << l’ultimo secolo nel quale l’Italia è al centro del panorama culturale mondiale, e questo soprattutto grazie al massimo pensatore politico del suo tempo, Niccolò Machiavelli>> che è stato pure uno degli uomini << più brillanti e simpatici che siano mai vissuti>>, ma poi ci sono Guicciardini, Ariosto, Tasso e via dicendo. Comunque, già in questo primo volume, e come e maggiormente negli altri, figurano molte cose interessanti che sono il contorno o, meglio, fanno di contorno ai testi dei vari autori; e si tratta di un contorno molto ricco e succoso, riunito sotto la etichetta di <<Letteratura come documento>>. Ecco la serie degli approfondimenti su <<Scrivere la scienza >>, con brani di opere di Guittone d’ Arezzo e Leonardo da Vinci, opere e autori che non sono letti per nulla nelle nostre scuole, ma che sono importanti perché, chi legga, possa farsi una idea di che cosa sia stata la cultura del Medioevo e della prima età moderna, cultura che si lega e s’intreccia con quella umanistica, per cui Leonardo è uno scienziato, ma nello stesso tempo un artista e uno studioso, e queste tre cose insieme sono documentate, come è stato fatto in quelle pagine dedicate a Leonardo, appunto: ecco ancora le serie che prendono come titolo <<Altri mondi >> nelle quali si fa vedere come uomini appartenuti ad epoche passate abbiano visto e parlato e descritto esseri, uomini diversi da loro, e qui si fa parola di Marco Polo, di Brunetto Latini, o di <<viaggiatori immaginari>> quali Boccaccio e Petrarca o viaggiatori veri, reali quali il famoso Antonio Pigafetta e Giovanni da Verrazzano. Altra serie è quella che va sotto il nome di <<Raccontare la storia>> e qui si nota come alcune pagine di taluni storici sono pure pagine, prove di alta letteratura, e ancora <<Scrivere la propria vita>> (<<perché basta un po’ di filologia, cioè di conoscenza intorno al modo in cui un tempo veniva trasmessa e<<consumata>> la

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letteratura per aprire scenari che nemmeno immaginavamo: che cosa voleva dire, per esempio, leggere il testo della Commedia con a fianco delle miniature? E che cosa voleva dire << pubblicare>> un libro prima dell’età della stampa? E’ bene riflettere anche su aspetti materiali della cultura, e lo faremo insieme)>> (cito sempre da Quello che leggeremo di Claudio Giunta). Sempre per restare in questo primo volume ecco, ad esempio, come viene presentato Boccaccio: la sua vita ma si spiega pure chi erano i Bardi e poi c’è link storia: Leggere e scrivere a Firenze nel trecento; poi si passa alla illustrazione del mondo dello scrittore, alle sue due anime (quella latina e volgare), ma figurano, ad esempio, parti che attengono alla riscrittura di Boccaccio da Busi a Tytter, oppure viene spiegato che cosa sia una novella. Per le opere ecco <<Il Decameron>>, ne viene spiegata la fortuna, la lingua e ne viene fatta <<una analisi attiva>> e viene pure spiegato come alcuni personaggi decameroniani sono visti dagli artisti (Nel mondo dell’arte. Nastagio visto da Botticelli) e ancora vengono messi autori a confronto: da Boccaccio a Keats>>. Figura pure il cinema: <<Il Decameron al cinema >> e poi ancora, per terminare, ecco letture critiche sul Boccaccio, e figurano qui tesi e considerazioni di scrittori come Moravia che ci spiega perché Boccaccio è un grande scrittore, o di noti italianisti del passato come Umberto Bosco che ci spiega i motivi per cui lo scrittore adopera una <<cornice>>. Bisogna ancora che io lo ribadisca: ci troviamo davanti a una bella e utile, funzionale opera, indispensabile per studenti e non, per cui noi tutti dovremmo avere e consultare. In questa nota, è logico che io non posso soffermarmi su tutta l’opera, ma dirò solo che il primo volume si chiude nel nome del grande Torquato Tasso e dopo di lui le cose cambieranno in letteratura e si passerà al seicento ove campeggia il Marino e sono proposti e commentati brani tratti dalle opere di autori quali Tassoni o Giulio Cesare Croce, ma soprattutto di Galileo Galilei; di scienziatiscrittori. Per quanto attiene il Settecento, si è


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dato ampio spazio agli autori stranieri. Siamo nel secolo dell’Illuminismo ed è quindi bene che si leggano scrittori quali Voltaire, Rousseau e Montesqueiu che hanno originato quel grande movimento di pensiero, e poi si arriva all’Italia di Beccaria, Genovesi, Verri, passando per la Francia. Solo uno studioso della preparazione e <<del cuore intelligente>> di Claudio Giunta poteva darci questa opera originale e nuova, efficace e coinvolgente. Opera che sarà affiancata da altri pregevoli volumi, quali < Modelli di scrittura - Preparazione all’esame di Stato >> e il bel volumetto dedicato a Giacomo Leopardi, in cui ci viene presentato un Leopardi <<poliedrico e multiforme>>, come pure, ad esempio, in un capitolo a parte (v: Un’idea dell’Italia) è appro-

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LA COLATA L'ha chiamato la fiamma, l'ha accecato la rossa lingua che colava giù tra sulfurei bagliori ed acre fumo. Lui, nel cercare scampo, ha volto i passi verso quel rogo. E' corso a perdifiato incontro alla sua morte che gridava dalla fornace viva. - L'ha inghiottito l'incandescente magma, l'ha dissolto il liquido metallo. Nulla più di lui è rimasto: nulla su cui piangere -. Un lingotto d'acciaio daranno ai figli per ricordarlo e la giacchetta, intatta, lasciata nello spogliatoio ad attenderlo (l'anima sua è ormai sull'altra riva) e la sua borsa con le scarpe nuove. Bianca la luce sulle cose piove. Elio Andriuoli Napoli

NATALE Ci riproponi ancora un nuovo regno col Tuo Natale; la Tua mitezza, oggi come allora, vuole ammansire cuori avvelenati da guerre e da furori. fondito lo <<scritto in prosa di Leopardi forse il più straordinario: il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani che contiene alcune pagine più intelligenti (e amare) che siano state mai scritte sul nostro paese e sul nostro popolo: pagine, purtroppo, ancora molto attuali>> (Quello che leggeremo, pagina prefativa al volumetto di Claudio Giunta). Ora non ci rimane che acquistare i volumi e usarli e solo cosi si potrà avere una conoscenza a tutto campo, una conoscenza intelligente e chiara della nostra letteratura dagli inizi fino ad arrivare ai tempi nostri. Ben vengano opere come queste. Carmine Chiodo Claudio Giunta, Cuori intelligenti; Mille anni di letteratura, De Agostini scuola, Novara 2016, 6vol.

Ma l’uomo più non crede alla tua stella. Costruisce presepi di cristallo, vuoti Re Magi che danzano una musica idolatra; viviseziona l’atomo, varca gli spazi e torna senza averTi incontrato... Non lasciarci, Signore. Ritroveremo il bue e l’asinello se Tu ci batti e bruci il nostro orgoglio con la divina fiamma del Tuo cuore. Dacci la Tua purezza, dacci il dolore: solo se ci fai bimbi anche per un istante e ci commuovi, la Tua nascita ancora ha la potenza di quel Tuo primo immenso atto d’amore. Domenico Defelice


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SHAKESPEARE ERA ANCHE UN POETA E NEI “SONETTI” CANTÒ L'AMORE GAY di Luigi De Rosa

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ECONDO un recente software- sondaggio su Internet praticamente tutti sanno (o dicono di sapere) chi sia William Shakespeare (1564-1616), collocandolo al terzo posto fra i personaggi di ogni epoca e di ogni luogo. Il suo nome figura subito dopo quelli di Gesù Cristo e di Napoleone, e precede quello di Maometto. La maggior parte lo conosce come drammaturgo, anzi, come un genio del Teatro occidentale. E molti hanno anche assistito a qualche suo dramma, o almeno a qualche atto o scena di uno dei suoi trentasette (secondo alcuni trentotto) drammi, se non proprio in un teatro, almeno in un cinema o alla televisione. Ma non tutti sanno che lo stesso Shakespeare, parallelamente all'attività che lo ha reso celebre nei secoli, e cioè alla scrittura per la scena (a fini non solo artistici ma anche pratici, quotidiani) ha coltivato anche la Poesia nel senso stretto del termine, gratis e per il piacere dello spirito. William era figlio di John, un conciatoreguantaio di Snitterfield trasferitosi a Stratford upon Avon, in seguito datosi alla carriera po-

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litica, ma rovinato finanziariamente. La data di nascita di William è il 23 aprile 1564. Ma il 23 è un giorno convenzionale, perché dal registro parrocchiale di Stratford risulta essere nato il 26 di aprile. Questa, peraltro, non è l'unica singolarità della sua biografia, piena di ombre e di incertezze. Si pensi che, addirittura, c'è chi ne ha messo in dubbio l'esistenza. A noi basta “inquadrarlo” nel secolo d'oro di Elisabetta I, salita al trono nel 1558. Non ebbe una formazione sistematica e pubblica di livello universitario, ma fu comunque di cultura e sensibilità profonde, e studiò i classici e il latino, lavorando, nel contempo, come garzone, nella bottega del padre. Secondo alcuni cominciò la carriera di teatrante badando ai cavalli che gli spettatori, per godersi lo spettacolo, “parcheggiavano” fuori dei teatri. Poi, da aspirante attore, divenne attore professionista e cominciò a scrivere i testi da recitare. Testi che restavano di proprietà delle compagnie di attori, non del socio autore. Secondo la normativa del tempo gli attori, per non essere trattati da “ladri e vagabondi” dovevano associarsi in compagnie con formali atti notarili. La concorrenza tra di esse era serrata. A 18 anni William sposò Anne Hathaway, di 26, rimasta incinta. Ebbero tre figli, due femmine e un maschio. Poi, a Londra, cominciarono i successi. La prima opera era dedicata ad Enrico VI. Vennero addirittura i trionfi. Non solo artistici, ma anche economici, tanto da consentirgli di comprare case e terreni nella sua Stratford. Ma ricordiamo che poc'anzi abbiamo detto di voler privilegiare la sua attività di poeta. D'altronde, molti suoi versi sono diffusi anche nei testi per il teatro, ma qui accenniamo solamente alle sue opere in versi, che si possono riassumere nelle seguenti: Sonetti – Venere e Adone (dedicata al conte di Southampton, e che ebbe molto successo fra i lettori) – Lo stupro (o il ratto) di Lucrezia (che di successo ne ebbe molto meno) – A Lover's Complaint (Il lamento di un'innamorata) – Il pellegrino appassionato – La fenice e la tortora.


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Come si vede anche dai soli titoli, i temi principali di questa produzione sono l'amore, il sesso, la passione erotica. La circolazione di questi manoscritti era limitata alla cerchia di amici personali del poeta. I Sonetti costituiscono il libro più conosciuto, più sofferto e intenso, di struttura unitaria, nella quale si possono individuare delle sequenze di sonetti afferenti, ciascuna, ad un tema comune. E ciò nonostante lo stampatore, Thomas Thorpe, nel 1609, lo avesse editato all'insaputa dell'autore che quindi non poté, fra l'altro, curare di persona l'esatta successione dei sonetti stessi. Il che è un peccato, se si pensa che essi costituiscono l'unica “autobiografia”, anche se parziale, scritta da Shakespeare. D'altra parte, Shakespeare non si curò mai di pubblicare le proprie opere, fatta eccezione per due sole operette, “Venere e Adone” e “Il ratto di Lucrezia”. La qual cosa ha in parte generato anche quel fenomeno, sconcertante, della marea di opere apocrife falsamente o incautamente attribuite al Bardo di Stratford. I Sonetti sono 154, e furono scritti nel periodo che va dal 1593/95 fino all'anno in cui furono pubblicati, e cioè al 1609, quando il poeta aveva 45 anni. Va anche ricordato che fra il 1592 e il 1594 Shakespeare come uomo di teatro era disoccupato a causa della chiusura dei teatri di Londra, flagellata da un'epidemia di peste. I 154 componimenti sono suddivisi in Due Parti. La prima, dal sonetto 1° al 126°, è dedicata ad un fair friend o lovely boy, e vede il poeta rivolgersi in prima persona, con passionalità irrefrenabile, ad un giovane bellissimo, sui 18/20 anni, per il quale soffre e spasima per le pene d'amore.. Secondo Anna Luisa Zazo, autrice dell'approfondita “Introduzione” del volume “Sonetti”, Oscar Mondadori, prima edizione 1993, ristampa 2013, traduzione di Giovanni Cecchin, il fair friend può essere Henry Wriothesley, conte di Southampton: secondo altri, il conte di Pembroke. Al contrario, per il famoso scrittore irlandese Oscar Wilde (1854/1900) noto anche per le sue vicende giudiziarie per accuse di omo-

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sessualità (sfociate nel 1895 in una condanna a due anni di carcere duro e nella rovina finanziaria) il dedicatario dei Sonetti è senza alcun dubbio un certo Willie Hughes, un nonaristocratico: “ In Willie Hughes, Shakespeare non solo trovò il più delicato strumento per la presentazione della propria arte, ma la personificazione visibile della sua idea di bellezza. Mai sarà abbastanza detto quanto il movimento romantico inglese debba al giovinetto al cui nome i pedanti critici dell'epoca si scordarono persino di menzionare.”. La seconda Parte (sonetti dal 127 al 154) è dedicata a una dark lady (dama bruna, o donna misteriosa). Non manca neanche una sequenza dedicata ad un poeta rivale (rivale non solo in letteratura). I 154 Sonetti si presentano nella struttura del Sonetto inglese o elisabettiano. Il numero totale di versi di ciascun sonetto rimane di quattordici come nel sonetto classico, ma a differenza di questo, che è composto da due quartine e due terzine, i versi sono suddivisi in un modulo diverso, cioè in tre quartine seguite da un distico conclusivo a rima baciata. Essi furono scritti nel periodo culminante del Rinascimento inglese, ma da essi, che pur sono animati dalla filosofia del Neo-platonismo e che hanno una struttura unitaria che fa ricordare I Trionfi di Francesco Petrarca, si evincono presagi e anticipazioni di gusto, movimenti, sensibilità e stili che dovranno aspettare l'Ottocento per vedere la loro realizzazione concreta nella letteratura e nelle arti. D'altronde, questa capacità magica di Shakespeare di sentirsi ed esprimersi come “poeta del futuro” si evince anche dai testi del suo teatro. Il famoso monologo di Amleto non anticipa, forse, il pensiero e la sensibilità del Novecento o, comunque, dell'uomo moderno di fronte al problema del mondo e della vita umana? I temi ricorrenti nei Sonetti, a parte la predominante ossessione amorosa, ricalcano quelli grandiosi dal punto di vista poetico e filosofico (come, ad esempio, il “Tempo divoratore” della bellezza, della vita, di tutto) dei drammi e delle tragedie. Solo che qui si sno-


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da una vicenda particolarmente intima. C'è il Poeta, l'autore, che per 126 sonetti ripete, senza tregua, il suo amore per il bel giovane, a fronte del quale Adone sembra fosse un bruttino: c'è la Donna, la dark lady, che, con le sue arti “maligne” e astute, li ama entrambi e li tradisce entrambi. E c'è il poeta rivale che, roso dall'invidia, cerca di “approfittare” della situazione. Sembrerebbe una situazione, invero, piuttosto banale, se non squallida. Oscar Wilde parla di Musa minore... C'entra forse il Neoplatonismo in voga a quei tempi, in cui Shakespeare trovava la chiave della “falsa appartenenza”, dell'ipocrisia di una realtà illusoria, pura immagine, ombra ingannatrice. Non possiamo non ricordare Teseo che, nel Sogno di una notte di mezza estate, dice: “La vita non è che un'ombra vagante, un povero attore/ che si dimena e si agita, la sua ora, sulla scena...” Luigi De Rosa Alcuni versi dai Sonetti di Shakespeare: “Viso di donna, da Natura dipinto con la propria mano hai tu, signore-signora della mia passione; un cuore gentile di donna, ma senza la scaltra volubilità ch'è propria delle infide femmine.. Un occhio più raggiante del loro, meno perfido nel guardare, che rende d'oro l'oggetto su cui si posa...” (dal Son. 20). “Non sempre in pubblico mi mostrerò tuo amico per non esporre la tua reputazione. …....Tanto io t'amo che essendo tu me stesso, mio è il tuo buon nome.” (dal Son. 36) “Che tu lei possieda non è il mio gran tormento, ma che lei abbia te, è questo il mio supplizio” (dal Son. 42) “ Il Tempo distrugge il fiore della gioventù, scava trincee sul fronte della beltà, divora le meraviglie del creato e niente resiste alla sua falce.

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Ma, nonostante la sua crudele mano, il mio verso, che ti esalta, sopravviverà.” (dal Son. 60) “ quando lo specchio mi rivela quel che sono, piegato, pesto e concio dagli anni, leggo in me l'opposto della mia vanità. Sei tu, il mio altro io, ch'io lodo in me, che colori la mia vita con la bellezza dei giorni tuoi.” (dal Son. 62) ___________________________________

FUGACE APPARIZIONE Tra gli alberi si spezza insieme al vento il muro del silenzio. È vigilia d’autunno e già una foglia cade dal suo ramo secondo il rito antico. Figura senza tempo, presente in tutti i viali della terra, piano procede un uomo. Fugace apparizione, come la foglia instabile sul ramo. Elisabetta Di Iaconi Roma

VALLE STURA Verde la valle e il fiume che la scava un'eco di frescura. Tra castagni e lecci ci addentriamo. Va il sentiero che ormai l'erba cancella verso mete ognora più lontane. E' un dolce invito il canto di un assiuolo ed il richiamo gaio di un colchico o d'una margherita. Filtra il sole tra i rami. Ci rischiara una gioia sottile che discopre più lievi rispondenze in ogni cosa. Rapido scorre il sangue. Vivo è il cuore. La febbre che ci arse oggi riposa. In noi cresce sottile lo stupore di un bene che il destino ci prepara, di una pausa nel rogo della vita. Elio Andriuoli Napoli


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PER NINO FERRAÙ DOMENICO DEFELICE CAPOVOLGE E RAMMENDA IL PARNASO di Ilia Pedrina

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O letto con vero interesse Il Croco del mese di novembre 2016, dedicato da Domenico Defelice all'amico e confratello di Poesia Nino Ferraù, una presentazione concreta e circostanziata della vita e delle opere di questo scrittore proveniente da Galati Mamertina, in provincia di Messina. Il Defelice mi insegna tante cose su questo scrittore siciliano attraente e dallo sguardo nascosto dietro spesse lenti scure ma anche come applicare l'ironia nella critica letteraria, come sfondare tra gli sfruttamenti illeciti del dirsi poeti, sfrondando il superfluo, l'eccessivo eccedente che disgusta e nei buchi provocati far buon rammendo. Dalla importante biografia in rete curata da Smeralda Riggio, datata 9 gennaio 2012 , con consulente Angela Campo, la regia di Maria Rosa Micali, ed i ringraziamenti all'ingegnere Giuseppe Ferraù, fratello del poeta, per la collaborazione, al minuto 3:47 si ascolta: “... Ferraù continua a produrre poesie ed intrattiene rapporti con poeti e letterati di tutta Italia. Si lega d'amicizia con Francesco Sapori, che sottopone la poesia di Ferraù all'ottuagenario Benedetto Croce, che di lui dirà: 'Così carico di lavoro come sono, non pensavo di

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poter riuscire a leggere i tre volumi di Nino Ferraù cortesemente inviatimi. Ma la lettura della prima pagina mi ha costretto a leggere tutto il suo volume e la lettura del primo volume mi ha incoraggiato a leggere tutti gli altri. Questo giovane è molto più vecchio dei suoi anni: una sete di universale lo distingue e lo trasfigura, per questo io ammiro il coraggio, la sincerità e la passione che il Ferraù dimostra nelle sue lotte'...”. Siamo nel 1948-49, scorrono belle immagini del poeta e fotografie di ambienti e paesaggi, ma al minuto 8:09 ecco la sorpresa, che riporto e trascrivo: “... Sempre nel 1969 vince il Premio Taormina Valle dell'Alcàntera e il riconoscimento gli viene consegnato a Palazzo Corvaia dal critico letterario Francesco Pedrina...”. Il Papà è membro della Giuria, gli consegna dunque il Premio nella importante cerimonia ed io sono tra il pubblico e rifletto, con negli occhi le bellezze di questa città: tra Filosofia e Poesia, vince sempre la Poesia, come sostiene Papà? La risposta non mi è ancor oggi ben definita né definitiva, perché poesia sacra può esserci anche nell'Armonia tra i numeri, come esigeva Pitagora, tra gli elementi dell'Astronomia, dell'Astrofisica, degli Universi Mondi paralleli al nostro. Per i momenti che verranno, per ora, andrò a verificare se mi è possibile avere in coppia le lettere del Pedrina al Ferraù, ma anche, in particolare, le motivazioni per le quali questo ottimo poeta e scrittore prismatico, promotore di iniziative letterarie e di pubblicazioni, è stato scelto in quell'occasione prestigiosa. La sua scrittura chiara e ben vergata, la sua firma inconfondibile, il suo modo di impostare tratti e segni, come appare in questo saggio critico del Defelice (cfr. pag. 2, pag. 58, pag. 60) mi spinge a ricercare i suoi testi inviati al Pedrina, le sue dediche, le sue lettere, ma io del Defelice mi fido e mi affido senza riserve alla lettura di questa sua esegesi critica. Sul monte Parnaso Apollo guida le Muse e consente loro un'ottima, prolungata sosta, secondo natura, ispirazione, impegni professionali differenziati perché a ciascun cultore dell'


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Arte spetta appropriata protezione. La zona sulla quale le sue due vette si innalzano è quella di Delfi: sacra per incontri anche carnali, resi ieratici proprio dal luogo. Ho in mente il volume di Carlo Calcaterra 'Il Parnaso in rivolta. Barocco e antibarocco nella poesia italiana', Ed. Mondadori, Milano, 1940 e senza cercarlo tanto, mi ritrovo in rete la recensione di Benedetto Croce, grazie alla digitalizzazione a cura del CSI, Biblioteca di Filosofia. Università di Roma 'La Sapienza', Fondazione 'Biblioteca Benedetto Croce', postata nel 2009, che riporta la pagina 54 della rivista 'La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce', 39, 1941, pubblicata in originale dagli Editori Laterza. Recensione chiara (di cui propongo la lettura per via delle metafore e del loro uso che pure il Defelice condanna nel saggio sul Ferraù, quando sono usate a sproposito e senza nulla di poetico al loro interno), perché il Croce ben s'intendeva e scriveva e del Barocco e del Seicento e del Vico e quindi ha materiale bastevole per tacciare di superficiale investigazione il volume del Calcaterra. Cito: “...Dove cerca di chiudere in una definizione l'asserita positività artistica del Barocco dice che esso è 'l'espressione stilistica di chi vede tutta la vita dello spirito, dall'empiria sensoria alla speculazione metafisica, riflessa in un'immensa e inesauribile metafora, formata a sua volta da miriadi di piccole metafore' (p. 124): la quale definizione, se qualcosa significa, significa che chi così vede non vede niente della vita dello spirito ma si lascia abbagliare da raggi che non rischiarano, o, meglio, si trastulla con metafore poeticamente vuote...” (fonte Internet cit.). Ecco giustificata l'invettiva contro certo Palazzeschi che il Defelice intona alla pagina 7 del suo studio critico sul Ferraù, per causa dell'uso sfacciato delle metafore. Passo ora a Lionello Fiumi, importantissima voce del Realismo Lirico, nel momento in cui offre alle stampe nel 1942, il XX° dalla nascita del Fascismo, il suo volume 'Parnaso amico - Saggi su alcuni Poeti Italiani del Secolo Ventesimo', per i tipi della Casa Edi-

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trice Emiliano Degli Orfini di Genova ed il volume, di 637 pagine, mi è stato gentilmente prestato dal dott. Agostino Contò, responsabile del Centro Internazionale 'Lionello Fiumi' di Verona, per un tempo infinito. Al Fiumi piace aprire il testo con due citazioni: 'Mal fai se laudi, e peggio se riprendi la cosa quando ben tu non la intenda' (Leonardo da Vinci); 'Ai primi incontri, dopo tutto, può far sempre bene un po' di scialo di amicizia, anche a scapito di qualche esigenza critica' (Emilio Cecchi). Il percorso critico è già tracciato, tra amicizia e rigore, affinché la scrittura vada a rivelare, con rigore, conoscenza ed appropriazione critica degli Autori scelti, ma possa anche essere testimonianza di relazioni d'esperienza, collocati nella sincerità della condivisione d' amicizia. Infatti nella Prefazione egli sostiene: “Mi piace aprire questo libro con un atto di fede nella poesia italiana del nostro secolo; atto il quale può apparire quasi ovvio, poi che si vede che a tale argomento ho fermato di consacrare alcune centinaia di pagine. Ma la gente che si ostina a far, della poesia d'oggi, piccolo concetto, quando non a darla addirittura per morta e sepolta, è tanta, e proprio tanto paurosamente letterata (però, però, grattate un po' la vernice: chi vi salterà fuori, da codeste cornacchie? Tenete per certo che saranno, nel novantanove per cento dei casi, il poeta fallito, il pedagogo tetragono, lo scoliaste microcefalo!), ch'è di bisogno qualche volta pagarsi il lusso di andar controcorrente e dire la propria... Le voci d'ammirata meraviglia per l'inattesa ricchezza della nostra poesia d'oggi si son levate da tante e tali parti, dall'Angola come dall'Indocina, dal Guatemala come dal Madagascar, e con tanto e tale calore, che m'è forza considerare attendibile simile collaudo a raggio universale... So tutto, mi rendo conto di tutto; ma il libro l'ho fatto come ho voluto io, ed è bene che se ne conosca, fin dalla soglia, il carattere antipanoramico e, quasi, 'tendenzioso'. Io non ho inteso che di raccogliere saggi scritti nel corso d'un venticinquennio, su alcuni poeti con i quali, per congiunture


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varie, ho più particolarmente praticato. È, se volete, un itinerarium cordis sui fianchi del Parnaso...” (L. Fiumi, Parnaso Amico, op. cit. pp. 1-15). Gli autori che compongono il gruppo di compagni del viaggio in salita verso le vette del monte sacro sono ventuno e tra loro S. Corazzini, G. Gozzano, M. Moretti, C. Govoni, G. Villaroel, A.G. Novaro, A. Onofri, ma riconosco meglio, nel gruppo, G. Caprin, G. Ungaretti, A. Capasso, per scrittura, temi, vita d'esperienze. La forza che il Defelice immette nello studio critico sul poeta e scrittore Nino Ferraù vuole appunto essere dimostrazione di questo spirito carico d'autonomia e di coordinate personalissime nel vagliare i testi poeticoprofetici dell'Amico, togliendo di mezzo e letteralmente scagliando oltre le pure sfere delle cime di Parnaso tutti coloro che per detti e rappresentazioni provocate non son degni di respirar quelle arie così fini. Mi riferisco sempre ai contenuti critici di pagina 7, là dove il Defelice fa cenno ad un Parnaso all'incontrario, con le alte cime poste all'ingiù, come l'inferno dantesco. In questo studio su Nino Ferraù, ne 'Il Croco-I Quaderni Letterari di Pomezia Notizie-', novembre 2016-' il Defelice testimonia: “...Parlavamo di testate letterarie e dei loro direttori, de La Procellaria di Francesco Fiumara e della quale egli ne era condirettore e, naturalmente, della sua 'Selezione Poetica, organo dell'Ascendentismo e rassegna internazionale d'arte', sulla quale venivano ospitati i poeti più rappresentativi del passato...”(D. Defelice, op. cit. pag.

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3). La presenza di Defelice e di Ferraù nella rivista letteraria del Fiumara è, per i pochi numeri che ho sottomano, costante e significativa, su temi e versanti artistici ad ampio spettro. Da comprare in blocco, per lire 2000, a scopo propaganda e con altri testi, sul retro di copertina l'offerta del volumetto 'Con le mani in croce', del Defelice, con l'avvertimento che uscirà prossimamente l'altro suo 'La mania del Coltello', per lire 500. Corre l' anno 1963 e La Procellaria-Rassegna di varia cultura prende dentro i mesi dal Gennaio all'Aprile (Anno XI, N. 1-2) . Alla pagina 29 faccio una scoperta e ci metto un seme di limone come segnalibro: 'Il battesimo del mare (a Nino Ferraù) Maestro, guardavi la spiaggia con gli occhi assorbiti sapevi del naufrago venuto a deriva... Cercavi la ghiaia scavata dal mare trovasti l'osso corroso rotolato dall'onda, la conchiglia vuota il sughero morto. Ricordi il crepuscolo acceso nella grotta di Byron? Sullo scoglio di Marzo la bionda fanciulla suonava l'amore con la clessidra. -Nel cielo la luna acchiappava la notteLerici, Lerici Portovenere, Messina: 'Messina, Messina' gridasti. Ti battezzai con la schiuma di Shelley sulla riva di Byron, e nel gesto il sorriso del mare... -Giovanni al Maestrobevesti l'acqua salata. Un lenzuolo di poesia rivestì il cielo foglie d'oro strappate col dispetto d'un ladro agli alberi del bosco. Guardavi la ghiaia...


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'Messina, Messina' gridasti nel sogno. O uomo del Sud venuto a conoscere l'amico lontano io so il sangue della tua terra... non sarà mai libero volo alla mente di chi ama sua madre, cerca l'amore e non trova se stesso.' Francesco Tonelli (ibid. pag 29). In questo stesso numero, a pagina 3, il racconto del Pedrina 'Il pulcino nero', quasi tracciato dalla stilografica di un etologo; a pagina 21 una poesia di Nino Ferraù 'Il nastro insetticida', incredibile metafora della sofferenza di un insetto che spasima prima di morire, tratta da 'Il capolavoro fallito'; a pagina 43 la recensione di 'Con le mani in croce' del Defelice fatta da Gaetano Savelli. Varie ed assai interessanti le parti firmate dal Fiumara, alla guida di un concerto di voci diverse tra loro ma ben orchestrate. Anche queste sono prove concrete e non sottoposte a dubbio che il Defelice sia il vero erede della corrente criticoletteraria del Realismo Lirico, ora, grazie a lui ed alla sua tenace attività ben consapevole dello spirito dei tempi e dei luoghi, in pieno vigore per nuove voci che si elevano, sane. Che il Parnaso dunque abbia bisogno di qualche rammendo raddrizzante, che vada anche a ristrutturare le voragini provocate dai cacciati, dai catapultati in zona rovinosamente bassa, questa è invero azione buona e giusta; che il Defelice consustanzi ancor oggi, con il suo modo d'essere poeta, scrittore e critico letterario, la preveggenza del Pedrina, un Defelice cioè che non traligna né impazza, è materia non solo messa già in moto da tempo, ma tema profondo per ulteriori studi ed analisi critiche che assumeranno via via altro originale spessore. Ilia Pedrina immagini: Pag. 17: Francesco Fiumara e le sue due figliole con Francesco Pedrina, sullo sfondo la Villa Pisani a Strà (Ve), 1968; pag. 19: Nino Ferraù sull’Aliscafo, 1969. Entrambe le foto sono di Ilia Pedrina.

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OCTOBRE Tout ronds tout ronds les marrons dansent sur la route Tout or tout or les feuilles valsent dans la lumière Caroline dans la classe penchée sur son pupitre écoute le chant rêche des plumes qui courent sur les cahiers Tout vent tout vent les nuages glissent dans le ciel d’une dictée Les marronniers de l’école bruissent sur les lignes bleues de la page Soudain trille dans la cour la sonnerie de la récréation et montent dans l’automne les cris de joie des enfants Tout ronds tout ronds les marrons pleuvent sur la route Béatrice Gaudy Francia

SCONOSCIUTI AMICI C’è un sogno che da mesi mi tormenta e nello stesso tempo mi consola: in realtà non è nemmeno un sogno di un episodio, un fatto, un conversare che si possa narrare o ricordare. Ma al mio risveglio ho la sensazione di non essere stata in sogno sola, ma con amici mai incontrati in vita eppure a me ben noti nel sognare. La viva sensazione della loro calda amicizia mi riscalda il cuore nel ricordo di questo strano sogno. Ma mi chiedo: chi mai saranno questi noti eppure sconosciuti amici ? Mariagina Bonciani Milano


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LUIGI REINA: ROMANZO di Elio Andriuoli

I

L più recente saggio critico di Luigi Reina, professore emerito dell’Ateneo salernitano, ha per titolo Romanzo, e di questo genere letterario studia a fondo le origini e lo sviluppo. Il saggio prende le mosse dalla fioritura narrativa avvenuta in Inghilterra a cavallo tra Settecento e Ottocento, con scrittori quali Defoe, Sterne, Swift, Walter Scott, Dickens e altri, che dette luogo a quella forma di racconto che in inglese si chiama novel, e sta a significare una “narrazione in chiave realistica e con intenti di comunicazione conoscitiva” diversa quindi dal vecchio romance, basato piuttosto sul fantastico e sul meraviglioso (il “sublime artistico” proprio del classicismo). Quale narrazione di gesta eroiche il romance era nato nel Medioevo in Francia, sul modello del Roman d’Alexandre e della Chanson de Roland, per poi trovare largo spazio nei romanzi del ciclo bretone e di quello arturiano. Degenerato in una farsa, contro la quale si rivolse il sublime sorriso dell’Ario sto e il riso più acre del Cervantes, il romance acquistò un nuovo significato

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nell’età dell’ Illuminismo, con il conte philosophique di Montesquieu e di Voltaire, per giungere poi al Romanticismo, “che si sforzò di rendere naturale il soprannaturale” e che con il romanzo storico creò alcuni capolavori, quali quelli dello Scott e del Manzoni. Molto ricca di notizie e di acute osservazioni è questa prima parte del saggio di Reina, il quale offre al lettore la possibilità di orientarsi in una materia certo non facile per la sua ampiezza e per la complessità del suo sviluppo. Si veda ad esempio quanto egli dice intorno ai Percorsi dell’affabulazione e circa le Poetiche del romanzo in Italia. Si veda inoltre il lungo capitolo Romanzo in idea, che getta luce sulle origini di questo nuovo strumento espressivo, che ha sostituito l’antica narrazione in versi. Definito da Hegel come “moderna epopea borghese”, il romanzo trovò la sua legittimazione come nuova forma letteraria rispetto a quelle già riconosciute dalla Poetica di Aristotele; una forma nella quale la mimesi riguardava non più i fatti memorabili dei popoli, ma il mondo “prosaico e borghese, di un’ età assai meno poetica ma che richiedeva, tuttavia, un commisurato strumento per esprimersi ed essere rappresentata con le proprie tipicità”. Era questo un mondo nel quale non trovava più posto il soprannaturale fornito dalla mitologia classica, bensì la concreta realtà, mirando lo scrittore alla “descrizione particolareggiata dei costumi del tempo”, come avveniva ad esempio in Balzac o nella rappresentazione verista (Verga) o naturalista (Zola) del reale. Trovava poi largo spazio in questo genere letterario anche lo scopo politico della formazione di una coscienza nazionale, come avveniva ne Le mie prigioni di Silvio Pellico o ne Le ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini. Dal punto di vista stilistico inoltre le forme del romanzo potevano essere le più varie, andando esse dalla scrittura in prima o in terza persona, per giungere sino al “monologo interiore” e al “flusso di coscienza” joyciani.


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Quanto ai contenuti, il romanziere doveva attenersi al criterio di raccontare fatti verosimili e non fatti reali, che sono invece di competenza dello storico; ed anche nello stesso romanzo storico l’autore aveva un largo margine di autonomia. Il racconto poi poteva essere soltanto immaginario, ma doveva essere coerente e consequenziale e il protagonista, anche se negativo, doveva essere credibile e comunque coinvolgente. Non troviamo più nel romanzo moderno gli eroi del mondo classico, come Achille, Ulisse, Enea, ma degli uomini comuni, interpreti del quotidiano. Gli ambienti descritti inoltre possono essere i più diversi, purché capaci di destare interesse. Osserva Reina che con il Novecento il personaggio diventa sempre più problematico e s’accresce il suo studio psicologico, anche in virtù della diffusione della psicoanalisi (si vedano i romanzi di Svevo). E anche s’ accresce la rappresentazione dell’aspetto contraddittorio dell’esistenza (vedi Pirandello) e di quello velleitario (come in D’Annunzio e Oriani). Nasce così un romanzo nel quale l’ eroe va alla ricerca della propria identità, avendo preso coscienza del contrasto tra sé e il mondo. Si affermarono successivamente le teorie sociologiche di Lukács e Goldmann, secondo i quali l’opera letteraria è il frutto di un determinato ambiente sociale e quindi è questo che la caratterizza ed è a questo che bisogna guardare più che al personaggio, il quale entra pertanto in crisi, perdendo la sua tradizionale funzione. Nacque poi l’École du regard, che “si assunse l’onere di continuare l’operazione di rinnovamento del romanzo, a proprio avviso avviata ma non conclusa da Proust, Joyce, Kafka e Gide, operando in distruzione del personaggio e in dissoluzione della sintassi narrativa corrente attraverso l’utilizzo di tecniche denaturalizzanti, come il monologo interiore e con ampie aperture alla psicanalisi” (Alain Robbe-Grillet e Michel Butor). (67) Il che diede luogo a “individuali esercizi di bravura”, ma lasciò insoddisfatto il lettore. Un

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esempio da noi di tale scuola è Capriccio italiano di Edoardo Sanguineti. Venendo ora alla trama, le sue forme principali, secondo Scholes e Kellogg possono essere quella storica, fondata su un avvenimento passato, e quella biografica, che si sviluppa intorno alla nascita, vita e morte di un personaggio reale: nella prima prevale il narratore, nella seconda il personaggio. Osserva inoltre Reina, nel capitolo intitolato Le forme e l’anima, che “Il Novecento raramente percorrerà quella strada che aveva offerto apporti di scientificità al romanzo tout court ma si era poi rivelata ingabbiante per l’ eccesso di determinismo che lo dominava anche quando si prestava a divenire strumento conoscitivo per approfondimenti di ordine sociologico resi letterariamente possibili non già dall’applicazione alla letteratura delle ferree leggi della scienza empirica, bensì dalla forza di intuizione dello scrittore (anima) e dalla sua capacità di realizzazione letteraria (forme). In un lungo capitolo intitolato Romanzo e realtà, Reina si diffonde poi sul romanzo storico, specie risorgimentale, e su quello avente per argomento l’epopea garibaldina, considerata anche in chiave critica, come avviene in Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, in I Vicerè di fedrico De Roberto e in I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello. Seguono le Scritture del soggettivo, dove vengono esaminati i libri di Niccolò Tommaseo (Fede e bellezza); Ippolito Nievo (Le confessioni di un italiano); Giuseppe Rovani (Cento anni); Cletto Arrighi (La scapigliatura); ecc. In Francia frattanto si vennero elaborando, sull’esempio di Balzac, dei fratelli Goncourt e di Zola, le teorie di Taine, secondo le quali “ogni opera d’arte si costruisce e si spiega nel suo ambiente”; “ogni cambiamento della condizione storico-ambientale e culturale degli uomini porta un cambiamento di mentalità e richiede una trasformazione dell’arte”; “l’ Estetica, come scienza dell’espressione, deve adeguarsi, nel metodo, al procedimento delle scienze naturali”.


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Sulla scia del Determinismo e dell’ Evoluzionismo (Spencer e Darwin); del Condizionamento genetico (Lombroso); della Sociologia (Comte) e della Psicologia (Teine, Bourget), si pervenne al Naturalismo di Zola e al Verismo di Verga e dei suoi epigoni. Nasceva così un’arte dello scrivere impersonale, che trovò da noi ne I Malavoglia il suo più compiuto risultato. Si giunge in seguito alle teorie del superomismo nicciano e della volontà di potenza, che da noi trovarono accoglimento da parte di Gabriele D’Annunzio, mentre altri autori, come Pirandello, trovarono il loro punto di riferimento nel pessimismo di Schopenhauer e altri ancora, come Svevo, nella psicoanalisi di Freud. Dopo aver accennato al “volontarismo futurista”, Reina si sofferma sull’opera di alcuni scrittori quali Massimo Bontempelli, col suo Realismo magico e di altri, legati alla rivista “La Ronda”, con il suo impegno di ricerca “dei valori dell’humanus”, quali Cardarelli, Bacchelli, Baldini, Barilli, ecc., nonché a “Solaria”, con la sua ricerca di uno “stilismo raffinato”, cui aderirono Bonsanti, Piovene, Comisso, Manzini e altri. Emersero quindi, per l’originalità della loro voce, scrittori come Alberto Moravia, che con Gli indifferenti ci ha dato “la mimesis spietata e lucida della condizione dell’uomo nel nuovo sistema societario”; Corrado Alvaro, col suo “meridionalismo critico” di Gente d’ Aspromonte e La vita breve; Elio Vittorini, che in Conversazioni in Sicilia e Uomini e no mirò a fare “la cronaca psicologica di un’ epoca”; Cesare Pavese, che nei suoi romanzi langaroli si muove tra realismo e simbolismo (si veda, ad esempio, La bella estate); Ignazio Silone, con i suoi romanzi d’impegno sociale; Francesco Jovine, con il suo “pedagogismo socio-politico”; Italo Calvino, che con Il sentiero dei nidi di ragno ci ha dato una sua interpretazione dell’epopea partigiana; Vasco Pratolini, col Metello e Beppe Fenoglio, con Il partigiano Johnny, romanzi nei quali la coscienza civile appare in crescita. Fu poi la volta del Neorealismo, con il qua-

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le “il romanzo si riappropria della sua funzione di strumento critico di conoscenza e rappresentazione della varietà del reale divenuto «narrazione»”, con autori quali Sciascia, Compagnone, Ottieri, Arpino, Bernari, Mastronardi, Volponi, Brignetti, Berto, ecc. Né mancò un gruppo di scrittrici di molto rilievo, quali Natalia Ginzburg, Gianna Manzini, Anna Banti, Maria Bellonci, Oriana Fallaci, Dacia Maraini, e così via. Vanno inoltre ricordati alcuni scrittori che affrontarono problematiche religiose, come Mario Pomilio, Giorgio Saviane, Luigi Santucci, Gino Montesanto, Ferruccio Ulivi, ecc. Libri quali Il giardino dei Finzi Contini, di Giorgio Bassani e Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa si imposero poi per la loro forte capacità di suggestione narrativa; così come si imposero libri quali Il taglio del bosco e La ragazza di Bube di Carlo Cassola, che “portò nel romanzo una personale inquietudine” e “alla scrittura narrativa diede un contributo di chiarezza e felicità di affabulazione”. Di “ascendenza illuministica” appare invece il modello narrativo formalizzato da Leonardo Sciascia, mentre Pier Paolo Pasolini è ricollegabile alla tradizione del “Realismo critico”, con forti valenze ideologiche. Oggi il romanzo pare aprirsi alle nuove teorie del Minimalismo come del Postmoderno, per le quali il personaggio è al centro di una crisi che non trova sbocco. Torna utile a questo punto rifarsi ad esperienze quali quella di Carlo Emilio Gadda, al quale il reale apparve subito come “un enigma da svelare” e per il quale “la realtà storica e biologica era priva di vera razionalità”. Tuttavia egli fu portavoce di “una formidabile lezione di stile” con La cognizione del dolore e per questo fu valorizzato dal “Gruppo ‘63”, che propugnava un romanzo che fosse “descrittivo e non evocativo”, di cui ci diede degli esempi Arbasino, con Fratelli d’ Italia e Super-Eliogabalo. Non poco interesse destò in questo contesto il libro di Stefano D’Arrigo, Orcinus Orca, che però, data la sua complessità, non risultò


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imitabile. Nuove metodologie di “approccio conoscitivo” si ebbero poi con romanzi quali Il detenuto scomodo di Alfredo Bozzi e Padre padrone di Gavino Ledda. Propugnatore di una narrativa che avesse come protagonisti gli sradicati, senza tetto e con lavori saltuari è stato Danilo Montaldi, con Autobiografie della leggera, che ne descrive le condizioni di vita. Esperienze simili hanno fatte anche Gaspare Barbiellini e Bachisio Bandinu. Si giunge in tal modo, come osserva Reina, a “quell’impoverimento dell’istituto della letteratura avviato con l’appropriazione del codice corrosivamente umile di lettura del reale e destinato, con qualche complicità dell’ industria culturale, ad approdare poi ai minimalismi cannibaleschi del postmoderno”. A un tale stato di cose hanno reagito scrittori come Umberto Eco, che con Il nome della rosa, “superando l’angustia delle formule”, ha coniugato “invenzione e realtà”, riaccreditando il personaggio e autorizzando “nuovi trattamenti della storia”. Da ricordare in questa sede sono anche le opere di Roberto Pazzi (Cercando l’ Imperatore), Enzo Striano (Il resto di niente); Raffaele Nigro (I fuochi del Basento); Gesualdo Bufalino (Le menzogne della notte); Antonio Tabucchi (Sostiene Pereira). Vicini all’area dello sperimentalismo sono invece scrittori quali Andrea De Carlo (Due di due) e Sebastiano Vassalli (La notte della cometa). Altri invece hanno puntato su linee preesistenti, quali la scrittura di memoria o la letteratura fantastica, oppure cimentandosi nell’invenzione pura, come Pier Vittorio Tondelli (Altri libertini); Daniele del Giudice (Atlante occidentale); Dante Maffia (Le donne di Conribet); Alessandro Baricco (Oceano mare); ecc. Altri ancora hanno tentato contenuti sentimentali o si sono avventurati in ricostruzioni fantasiose di mondi lontani. Il romanzo rimane comunque aperto alle “nuove esigenze volta a volta poste dalla storia o dalla sensibilità diffusa”. Conclude Reina il suo ampio e profondo

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saggio osservando che “mentre la modernità sconta ancora la sua parabola discendente, la post-modernità non s’è imposta”, sicché si affacciano delle ineludibili domande: “Si potrà mai tornare a raccontare il mondo per tempi lunghi? A raccontarci fuori dal labirinto, per essere di nuovo «storia», fosse anche nella residuale condizione di eterni «postumi»?”. Sono queste domande alle quali urge dare una risposta, se non si vuole che questo genere letterario che tanti capolavori ha dato negli ultimi due secoli, s’inaridisca e perda ogni capacità di esprimere la realtà del mondo attuale. Elio Andriuoli LUIGI REINA: ROMANZO - Guida Editori, Napoli, 2016, € 10,00

AFFRESCO da L’assorta tenerezza della terra (2013) di Ines Betta Montanelli. Uno sfavillio lievissimo di neve volteggia nell’aria di febbraio. Gli alberi appisolati non fiatano. La mimosa che osava già dischiudersi è solo un pallido raggio. Nemmeno la luna stanotte tenterà incontri furtivi. Il cielo è grigio richiamo. Veliero di malinconia. Ines Betta Montanelli da L’assorta tenerezza della terra (2013), traduzione qui di seguito di Marina Caracciolo.

FRESQUE Un étincellement de neige très léger voltige dans l’air de Février. Les arbres assoupis gardent le silence. La mimosa, qui allait déja s’épanouir, n’est q’un pâle reflet. Pas même la lune cette nuit voudra hasarder des rencontres furtives. Le ciel est une évocation grise. Un voilier de mélancolie.


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GIANFRANCO FINI IL VENTENNIO. IO, BERLUSCONI E LA DESTRA TRADITA IL FUTURO DELLA LIBERTÀ di Giuseppe Giorgioli

T

ROVANDOMI ad Asiago sono andato ad una conferenza - intervista, moderata da Fabio Carraio, dell’On. Gianfranco Fini presso il Palazzo del Turismo Millepini il giorno 28 dicembre 2013. Alle ultime elezioni è rimasto escluso dal Parlamento, è uscito dai riflettori della politica nazionale, ma ad Asiago ha fatto il tutto esaurito. Un Millepini stracolmo ha accolto Gianfranco Fini per la presentazione del suo libro. Questa è stata l’occasione per Gianfranco Fini, dopo un periodo di alcuni mesi lontano dai riflettori, per far parlare di sé con un libro che racconta vent’anni di politica italiana, “Il ventennio. Io, Berlusconi e la Destra tradita”, Fini racconta le grandi strategie e i retroscena che hanno animato gli ultimi anni della vita politica italiana. Un racconto diretto e senza filtri di cosa accade nelle stanze del potere, ma anche una storia di grandi progetti e di grandi passioni politiche. Il moderatore chiede come prima cosa al Presidente Fini circa il cambiamento della sua vita in questo periodo lontano dalla politica attiva. Fini risponde che ha avuto una vita meno stressante e che ha potuto dedicarsi ad altre attività, che aveva trascurato, e alla fa-

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miglia. Ciò nonostante ha continuato a far politica dietro le quinte non in un partito, ma tramite l’associazione politico culturale ”Liberadestra” che ha fondato dopo il voto di febbraio ’13. La politica dovrebbe essere l’ interesse della polis, della società, e ciò spiega perché non necessariamente coincide con i partiti e il Parlamento. Alla domanda circa i suoi rapporti con Berlusconi, conclusosi con un tradimento, il Presidente Fini risponde che non gli piace parlare di tradimento nelle dinamiche politiche, ma siccome è stato accusato di aver “tradito Berlusconi” ha voluto ricordare che se per Destra si intende rispetto della legge, coesione nazionale, amor di patria, meritocrazia, giustizia sociale, è al leader di Forza Italia che bisogna rivolgersi se si parla di “tradimento” perché le sue azioni hanno troppo spesso mortificato quei valori. Alla domanda sul suo parere dello strappo di Alfano con la creazione del “Nuovo Centrodestra” e sulla somiglianza sul suo percorso con la creazione di “Futuro e Libertà” l’ On. Fini afferma che anche Alfano ha verificato che Berlusconi pensa al suo personale interesse anziché all’interesse generale e che se Alfano vuole creare una Destra di stampo europeo deve svincolarsi totalmente da Berlusconi. Afferma anche che i giovani hanno ragione per essere disillusi, dopo tante promesse non mantenute, e che hanno bisogno di buoni esempi per tornare a credere nella politica. Inoltre afferma che la Destra in Italia si presenta in modo diverso dalle altre Destre europee, come ad esempio quella francese e/o spagnola, per il differente percorso storico che ciascuna nazione ha avuto. Alla domanda circa il suo cambiamento nel tempo riguardo l’atteggiamento verso gli stranieri in Italia., in quanto è stato l’ideatore della legge che porta il suo nome (Legge Bossi – Fini), molto severa contro gli extracomunitari, il Presidente Fini afferma che al tempo della sua legge vi era la necessità di rimandare indietro gli stranieri in quanto venivano a delinquere, mentre invece l’ atteggiamento da avere adesso deve essere di tipo


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umanitario in quanto vengono via dai loro Paesi di origine per ragioni di sopravvivenza e che Lampedusa oltre ad essere un confine italiano è anche un confine dell’Europa, che dovrebbe farsi carico anch’Essa della questione. Riguardo il centenario della Prima Guerra Mondiale afferma che l’Ottocento non finì il primo gennaio 1900, ma allo scoppio della Grande Guerra nel 1914 ed il novecento finì nel 1989 con la Caduta del Muro di Berlino. Pertanto, fu definito il secolo breve; tale secolo ha visto il crollo dell’Impero Austro – ungarico, il crollo dei vari totalitarismi: fascismo, nazismo e comunismo. Si sono create le odierne democrazie e l’Europa sta vivendo un periodo di pace, pur tra tanti problemi. E’ una conquista straordinaria e che non ha prezzo, come anche ben descritto nell’altro suo libro “Il futuro della Libertà”. Il libro è composto da un prologo, da 9 Capitoli, da una Conclusione e da un Indice dei nomi. Nel Prologo Fini spiega perché gli è venuta l’idea di scrivere questo libro e di provare di nuovo a rimettersi in gioco dopo le ultime elezioni di febbraio 2013. Mentre Fini meditava sulla sconfitta elettorale un giovane gli si avvicinò e gli disse: ”E’ andata male, ma voglio che lei sappia che sono orgoglioso di averci creduto.” Fini gli diede una pacca sulla spalla e lo ringraziò malinconicamente. Piangeva ed anche per Fini non era stato semplice trattenere le lacrime. A pag. 37 si cita Cossiga, che incoraggia Fini a proseguire nella sua linea avendo trasformato il Movimento Sociale in un movimento di destra democratico (cioè in Alleanza Nazionale, svolta di Fiuggi). Capitolo chiave del libro è la descrizione della svolta di Fiuggi in contrasto con le idee di Rauti. A pag. 56 si legge:” Il messaggio di fondo delle idee congressuali alla costituzione del nuovo partito – Alleanza Nazionale – era che la storia patria non potesse dividere gli italiani, bensì dovesse unirli. Il patrimonio di Alleanza Nazionale è intessuto di quella cultura nazionale che ci fa comunque essere figli di

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Dante e di Machiavelli, di Mazzini….di Gentile e anche di Gramsci!” Il libro prosegue con la descrizione di tutti gli avvenimenti dal 1994 in poi: Fini descrive con la sua chiarezza espositiva che lo contraddistingue i retroscena politici del decreto “salva ladri” di Biondi, l’avviso di garanzia ricevuto da Berlusconi a Napoli, la conseguente caduta del governo Berlusconi, la formazione del Governo Dini, le elezioni del 1996 con la vittoria dell’Ulivo, guidato da Romano Prodi, la caduta di questo con la formazione del governo D’Alema, la commissione bicamerale per le riforme presieduta da D’Alema e Berlusconi ed il suo fallimento. In tutti questi anni Fini descrive la difficoltà a portare AN al di là del Polo ed uscire dallo schema di contrapposizione fra destra e sinistra per creare finalmente una destra moderata ed europea. Per attuare tale strategia Fini si allea con l’elefantino di Mario Segni alle europee del 1999. Ma Fini non fu compreso dalla sua base ed il tentativo fallì con perdita di voti alle elezioni. Vengono descritti con vari retroscena gli anni del Governo Berlusconi dal 2001 al 2006, evidenziando sia i lati positivi che quelli negativi: un lato positivo (pg113) fu quello della riforma Maroni sulle pensioni, introducendo il cosiddetto “scalone”, che se il successivo Governo Prodi non l’avesse tolto si sarebbe scongiurato il ben più duro impatto sociale della legge Fornero varata nel 2012. Altro lato positivo fu quello di ridurre la disoccupazione con la legge Biagi. I lati negativi sono le leggi ad personam (legge Cirielli, il salvataggio di rete 4,…). Sul tema della riforma della giustizia si delinea il divario di vedute fra Fini e Berlusconi che si concluderà con l’ormai famoso “ che fai, mi cacci?”. A pag. 121 Fini dichiara a proposito della guerra contro l’Iraq: “ il pacifismo ad ogni costo certo riempie le piazze di arcobaleni e bandiere rosse, ma non fermerà le guerre. (Mia opinione invece è che questa guerra è stata inutile e dannosa in quanto si è dimostrato che Saddam non aveva le armi di distruzione di massa e che ad una guerra scaturiscono altre


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guerre). Fini ricorda che nel viaggio in Israele ha condannato le leggi razziali e la Shoah, definendo il fascismo il “male assoluto”, provocando la reazione di alcuni esponenti di AN. (A mio parere Fini dicendo che il fascismo è stato il male assoluto, non ha riconosciuto ciò che di positivo è stato fatto durante il periodo fascista: per me forse è stato un giudizio troppo drastico!) Fini si è accorto che Tremonti non conduceva una politica economica corretta, usando la cosiddetta “Finanza creativa”. Pretese da Berlusconi le sue dimissioni, che Tremonti diede nel 2004. Fini ha incentivato leggi per la cittadinanza agli immigrati, si è impegnato per l’istituzione della giornata del ricordo dei martiri delle foibe (10 febbraio), ha fatto leggi contro la liberalizzazione delle droghe, togliendo la distinzione fra droghe leggere e pesanti. Alle elezioni del 2006 vince Prodi con l’ Ulivo per una manciata di voti: solo 24000 voti in più alla Camera! Non essendo stata una vittoria schiacciante, Berlusconi ed il centrodestra si considerarono in perenne campagna elettorale, visto che il Governo Prodi era formato da una coalizione di partiti eterogenea e aveva come trait d’union l’ antiberlusconismo anziché una chiara visione politica. L’esperienza di Prodi durò anche troppo: due anni. Berlusconi scioglie Forza Italia e crea un nuovo Partito Pdl (Popolo della Libertà) dove confluisce anche AN. Fini nel libro confessa che è stato un suo errore. Nel 2008 rivince Berlusconi con il Pdl, ottenendo una maggioranza schiacciante, ma, anche in questo caso si rivelò che un conto è vincere alle elezioni ed un’altra cosa è governare per le contraddizioni all’interno della maggioranza. Una delle tante spaccature fu sulla legge del fine vita nella discussione del caso Englaro. Il 21 e il 22 marzo 2009 Fini indisse il Congresso per lo scioglimento di AN: durante il Congresso Fini sottolineò che il Pdl doveva darsi “una missione strategica, doveva definire un suo progetto di medio e lungo periodo”, fra cui il “patto fra genera-

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zioni” come Fini bene ha illustrato nell’altro suo libro “Il futuro della libertà”, rivolto ai giovani nati nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino. Le polemiche nacquero a causa della vita privata di Berlusconi: presenza di Berlusconi alla festa dei diciottenni di una certa Noemi a Casoria, la lettera di fuoco della moglie Veronica Lario, il caso Ruby, la frequenza con varie escort. Il governo stava perdendo di credibilità. Un passaggio importante del libro è la descrizione delle motivazioni per cui Fini ruppe l’alleanza con Berlusconi. Berlusconi voleva far approvare il Lodo Alfano per l’immunità per le più alte cariche dello Stato, voleva eliminare nei processi le intercettazioni e voleva ridurre la prescrizione. Fini si mise di traverso, da cui la verifica della maggioranza di governo a dicembre 2010. Il Giornale per ritorsione pubblicò vari scoop riguardo una casa a Montecarlo di proprietà di AN e affittata al cognato di Fini Giancarlo Tulliani. Fini alla fine del libro traccia nelle conclusioni la via per proseguire il futuro cammino politico. Concludo con la dichiarazione fatta da Fini su Berlusconi al Convegno di Asiago: ”Berlusconi è un leader talmente convinto delle sue ragioni che non accetta la dialettica politica; un credere, obbedire, combattere memore di un ventennio più tragico.” (Per me sarà la storia a giudicare il ventennio di Berlusconi e Prodi, mi limito solo a far osservare che il debito pubblico in questo ventennio si è triplicato!! Da cui la nascita del populismo.) Visto il riferimento all’altro libro di Fini “Il futuro delle libertà”, eccone una breve nota. Questo libro - IL FUTURO DELLA LIBERTÀ Consigli non richiesti ai nati nel 1989 - nasce dalle considerazioni fatte al Convegno di scioglimento di AN del 21 e 22 marzo 2009 per farlo confluire nel Popolo della Libertà: Fini propose le linee guida di tre grandi patti nazionali per rinsaldare la coesione sociale e ridare efficienza al sistema Italia. Il primo era il patto fra generazioni, il secondo era il patto fra capitale e lavoro per avere più risorse finanziarie per le politiche sociali ed il terzo era per diminuire le dispari-


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tà fra Nord e Sud Italia. La caduta del Muro di Berlino ha cambiato la vita degli europei, a Est come a Ovest. Nel ventesimo anniversario, Gianfranco Fini prende spunto da quell'evento epocale per analizzare i radicali cambiamenti che il mondo ha vissuto negli ultimi anni e puntare lo sguardo su un futuro ancora da costruire. Crollate le barriere e venute meno le grandi opposizioni ideologiche, è finalmente diventato possibile lavorare per una nuova libertà, piena e allargata: risultato cui si può puntare solo affrancandosi dalla pesante eredità delle vecchie ideologie, per interpretare il mondo secondo codici nuovi, trovando punti di vista originali. È proprio per questo che il presidente della Camera si rivolge, qui, ai ventenni di oggi, la prima generazione di italiani ed europei ad aver vissuto davvero in un'epoca di libertà, democrazia e possibilità. Sono loro che, alleati in un nuovo patto generazionale con i loro padri e fratelli maggiori, hanno il compito di raccogliere le sfide da vincere: perché la libertà possa essere un bene sempre più esteso e diffuso. Sfide che coincidono con i temi caldi del dibattito politico attuale: dalla questione sociale all'immigrazione e alla coesione nazionale; dalla crescita dell'Unione europea alla necessità di mettere di nuovo la persona al centro dei processi economici e politici. Per ognuno di questi temi Fini propone idee e spunti di riflessione che suscitano ogni giorno appassionati dibattiti. Nell’Introduzione “Generazione F. “ (Futuro) Fini dice che questo libro è rivolto specialmente ai giovani che né studiano, né lavorano al fine di infondere coraggio e non paura nell’affrontare le sfide della vita. Gianfranco Fini (Bologna, 3 gennaio 1952) è un politico italiano. Deputato dal 1983 al 2013, nonché Presidente della Camera dei Deputati dal 2008 al 2013, agli esordi è segretario nazionale del Fronte della Gioventù e del Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale; poi presidente di Alleanza Nazionale, dalla sua fondazione nel 1995 fino al 2008 quando ne promuoverà lo scioglimento in un nuovo partito di centrodestra, poi fonda-

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to insieme a Silvio Berlusconi l'anno successivo col nome de Il Popolo della Libertà. Nei governi Berlusconi II e III ha precedentemente ricoperto l'incarico di vicepresidente del Consiglio dei ministri e di ministro degli Affari Esteri. Dal 13 febbraio 2011 a tuttora, dopo l'abbandono del PdL, è presidente del nuovo partito Futuro e Libertà per l’Italia. Giuseppe Giorgioli GIANFRANCO FINI - IL VENTENNIO. IO, BERLUSCONI E LA DESTRA TRADITA - Formato Brossura, Editore Rizzoli, ottobre 2013, pagg. 248, 18 €, ISBN: 978- 88 -17 – 07055 -3. GIANFRANCO FINI - IL FUTURO DELLA LIBERTA’ - Consigli non richiesti ai nati nel 1989 - Editore Rizzoli, novembre 2009, pagg 167, 15 €, ISBN: 978- 88 -17 – 03735 -8.

I MITI DELL’INFANZIA Ti ho svegliato per farti vedere gli alberi sotto la neve e il giallo delle primule sbucate all’improvviso e la fontana muta che sembra una rosa ingessata. Volevo farti sentire la gioia dei passeri tra i rami in attesa di nuovi voli e tutta la poesia del cielo e i bambini pieni di meraviglia. Ines Betta Montanelli da L’assorta tenerezza della terra (2013), traduzione qui di seguito di Marina Caracciolo.

LES MYTHES DE L’ENFANCE Je t’ai réveillé pour te faire voir les arbres chargés de neige et le jaune des primevères tout à coup dénichées et la fontaine muette, qui ressemble à une rose plâtrée. Je voulais te faire sentir la joie des moineaux, qui parmi les branches attendent de s’envoler de nouveau, et la souveraine poésie du ciel et la surprise heureuse des enfants.


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Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice

CURIOSITÀ ED ENTUSIASMO NELLA TESI DI

AURORA DE LUCA di Anna Vincitorio

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OSSO affermare di aver letto con gioiosa attenzione questa tesi. È un testo brillante che affronta la molteplicità degli aspetti creativi di Defelice e non solo. È un lavoro non soltanto accademico, c’è al suo interno la curiosità, l’impegno, l’ entusiasmo dell’autrice. Devo a questa lettura che mi ha impegnato più sere, una conoscenza più consapevole di D. Defelice. Non che non lo apprezzassi e, in passato, ho recensito Resurrectio; ma è merito dell’autrice l’entusiasmo che mi ha donato la lettura approfondita di brani legati ai vari momenti della vita del poeta.

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Poeta autentico che si identifica nella natura in lui connaturata. Lui, “educato alla terra, alla cura del pascolo, al grano... al sole cocente di Anoia...”1 Gli stenti, la vita grama da piccolo hanno acuito in lui il desiderio di conoscenza: “Da bambino mi esprimevo in dialetto... ma mi veniva spontaneo vergare rime su pezzi di carta, ...incantato e stimolato dalla recita che un pastore e agricoltore amico faceva leggendo l’ “Inferno di Dante”.“2 La poesia è un bene autentico, prezioso quanto raro, e nasce dal vivere quotidiano, dalla lotta, dall’impegno sociale, dal sogno. Sogno per Defelice scaturito soprattutto dall’ amore giovane. Amore: 12 mesi con la ragazza - Amore che sorge col sole e con la fioritura: “Portato hai le viole/pei suoi capelli biondi, le rose per il suo seno,/e molli tappeti di margherite per i suoi piedi di fata...” Fusione di amore e natura, di sensi e di spiritualità autentica e quindi di innocenza. Questo amore che poi viene proiettato in un futuro lontano e forse già incerto: “sarà”, “vorrei perdermi”; ma in lui c’è anche preponderante l’amore per la sua terra della quale conosce anche gli orrori. Terra che gli procura angoscia ma da lui difesa come farebbe una madre col figlio colpevole. Lui stesso è terra brulla, in lui le mani rivide del contadino, la miseria antica ma anche i profumi, i colori delle stoppie, il vento travolgente, il cupo mare. Questo odio-amore lo esprime splendidamente in pochi versi: “Sud, dolce e caro mio Sud!/Questo male tuo di morte/mi trattiene lontano,/ m’ avvelena l’amore che ti porto./” Siamo di fronte ad una personificazione della Calabria e probabilmente questa ambivalenza di sentimenti, questo amore e, al contempo dolore per il male reiterato lo hanno portato a lottare nel sociale contro ogni ingiustizia, vergogna. In altre parole, ad esprimersi con libertà di pensiero. Un vero artista può rinunciare anche alla vita ma non al suo credo di libertà. Lui, uomo solitario, uomo immerso nella lotta del vivere, lui anche ipotetico discendente di una stirpe di briganti che lotta per i giusti. In


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lui, accanto alle visioni di una incandescente natura, anche visioni bibliche e apocalittiche. Se muore l’umano muore anche il bello. Si è formato da autodidatta approfondendo le letture scolastiche con passione assimilandone appieno la grandezza. Ci sono nel suo percorso anche opere fortemente pessimistiche come Uomo grandemente feroce. Purtroppo il progresso ha comportato anche forte degrado: “Le ragazze hanno belle gambe/ma voci scurrili;/così quando narrano fiabe/la folla sghignazza/non ride/... - Cine-teatro Volturno Invece la parte poetica dedicata a Clelia, la moglie, è più intimistica, profonda e semplice. Per lui un’oasi in cui respirare nella complessità del suo sentire. Affiorano soprattutto ricordi lontani legati ai genitori. Esplosione lirica e struggente: “mi sembrò di vederti ma le mani/tue non aveva dal gelo aperte/come melograni...” e ancora: “Un canto fioco/ché il troppo affetto la poesia uccide/come il troppo dolore...” Importanti anche i contatti culturali sfociati in profonde amicizie come con Maria Grazia Lenisa. Da poco tempo ne Il Croco uscito un quaderno di sua corrispondenza. Poi altri, tanti come Pedrina, Tedeschi, Saccà etc... Posso senz’altro affermare che questa interessante lettura della tesi di Aurora De Luca ha allargato la mia visione sulla figura di Defelice e me lo ha reso più vicino, umano anche nella sua rudezza. Lui poeta, lui natura ammantata dei colori della sua terra, lui mattatore contro ogni forma di ingiustizia. Un grazie ad Aurora e un sentito augurio per un brillante futuro. Anna Vincitorio 1 - testo a pagina 12. 2 - pag. 124 del testo.

IL PASSO CHE RALLENTA Ora, è la stagione del passo che rallenta, delle bianche notti che turbano il sonno e con nostalgia penso al buono della vita, alle sue lusinghe.

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Anche il silenzio suggerisce armonie diverse. Così, mentre il tempo accosta le sue porte, il cuore teme paturnie di stagioni. Ines Betta Montanelli da L’assorta tenerezza della terra (2013), traduzione qui di seguito di Marina Caracciolo. LE PAS RALENTI Maintenant, c’est la saison du pas ralenti, des nuits blanches qui troublent le sommeil et moi, je pense avec tristesse aux biens de la vie, à leurs espoirs. Même le silence fait songer à des harmonies différentes. Ainsi, pendant que le temps approche ses portes, le cœur craint la mauvaise humeur des saisons.

SOLO AMARE Mi perdo tra la ruggine del tempo e singhiozzo. Poi mi sveglio e corro tra i meandri del tempo ed esulto. Non so cosa fare, correre o fermarmi, lavorare o oziare. Ammirare il firmamento e gioire, creare e non poltrire. Inventare, apprezzare, realizzare, amare! Correre e abbracciare il verde, l’azzurro, il cielo, le nuvole, il mare! Essere felice del dono dell’amore e amare, amare e donare amore! Abbracciare il tempo e dondolarlo, accarezzarlo, rispettarlo, coccolarlo, amare sempre all’infinito tutto il creato. Amare, solo amare e donare amore! L’Amore! La cosa più bella che ha bisogno di protezione, che bisogna stringere forte al cuore! Giovanna Li Volti Guzzardi Australia


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NEL ROMANZO ”I FONDALI DELL’AMORE” DI

GRAZIANO GIUDETTI DOLORE FEDE EVOLUZIONE DELLA VITA di Leonardo Selvaggi I L romanzo “I fondali dell’amore” di Graziano Giudetti si apre con una visione ampia di colori e di sfavillii di luce lungo via Marina di Reggio Calabria, tra paesaggi, estensioni di mare, lontani orizzonti. La famiglia di Lorenzo, di nobile casato, svolge la sua vita in un palazzo liberty austero, tra principi tradizionali, affetti, con serena pace e condizioni di benessere, modi di convenzionalità in un ritmo di rigore e di orgoglio. Il padre, capitano di vascello della Marina Militare, amabile, con dedizione al suo servizio, impeccabile senso del dovere. Lorenzo, circondato dalle cure assidue di due zie nubili, è spinto da un istinto di libertà, cerca di sfuggire le regole dei genitori. Corre sui piazzali del porto per incontrare i compagni, figli di pescatori e operai, ama la loro spontaneità che è slancio e felice esaltazione. Trascinato dai modi esuberanti, dietro un pallone di stracci con folle ardore, grondante di sudore, l’ansia lo prende. È preso da un senso di colpa, trasgredendo i richiami dei famigliari, non sa

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come frenare i suoi impulsi. Le scioperataggini lo portano alla espulsione dalla frequenza della scuola. Non si sente di assecondare imposizione e disciplina che dominano nella sua casa. Arriva il giorno della chiamata in armi del padre con l’inizio della seconda guerra mondiale. Uno smarrimento pesa sull’ andamento regolare che si è avuto da sempre. II Lorenzo per continuare gli studi viene iscritto nell’istituto dei Salesiani, le sue fughe ancora una volta gli procurano l’ allontanamento dalle lezioni. Lo affascina il mare con i suoi pericoli e i fondali misteriosi. Sul natante con i suoi amici del porto. L’avventura lo attrae, quando tra paura ed eccitazione le onde con furia si abbattono sulla barca. È all’ ospedale per congelamento, attorniato dalle cure delle zie. Riavutosi dallo spavento, una certa presa di coscienza lo domina. Sua madre è con il marito, accompagnandolo per alcuni giorni nei primi spostamenti tra un porto e l’altro. Ritorna a casa quando suo padre, comandante di sommergibile, ottiene l’ incarico di collaborazione nell’Atlantico con la Marina tedesca. Lorenzo coinvolto nell’ atmosfera tutta cambiata della sua famiglia, pensando al padre impegnato nei suoi piani di ispezione, in balia dei pericoli di una guerra che va estendendo il suo campo in altri Stati con bombardamenti e tragedie di morte su tutti i fronti. Riammesso alla scuola pubblica per terminare con altra volontà di applicazione gli anni di liceo. Il palazzo nobile di via Marina è in esagitazione, si è in uno stato di solitudine e di sconforto. Lacrime e tristezza infinita, la vita tutta caduta. La madre di Lorenzo stremata, come svuotata in un abbattimento che la tiene sospesa di continuo in un’ansia terribile. La serenità, la dolcezza degli affetti sono incrinate. L’aria di terrore si allarga. In tutte le città gli episodi di vendetta si accompagnano con tormenti di disperazione e ristrettezze economiche. III Il romanzo “I fondali dell’amore” ha nelle


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prime pagine profondi sensi di oppressione e di desolazione. Il cielo terso di Reggio con le belle passeggiate pare chiuso in una morsa, fasciati come si è da amarezza e da una diffusa condizione di precarietà. Le espressioni si sovrappongono lungo sottili legami psicologici, si teme che qualcosa di triste dovrà precipitare sugli animi angosciati, Lo stile di Graziano Giudetti lo conosciamo, tutto infiammato con la semplicità degli impulsi, pervasi da interiorizzazione. Sia in prosa che in poesia si elevano gli stessi afflati su base di principi morali, in profondità di riflessione e di purezza ideale. Da “Pensieri di sabbia” a “Un amore immaginario”, da “Salus poetica” a “Occhi di clessidra”, a “Rivoli di vita”. Umanità di pensieri, slanci di fede che risuonano armoniosi, lasciando nel lettore segni di forte impressione, preziosità di concetti che dal razionale si illuminano di visioni e di sogni. La vita sempre drammatica trionfa con gli alti principi che rimangono ossature in contesti di fondamentalità sentimentali. Nel romanzo c’è tutto un dominio dell’animo che si estrinseca in emozioni, una intercomunicabilità di sensazioni, un intreccio di sensibilità che anima personaggi e immagini entro un tutt’uno con l’ambiente intorno. L’assenza del genitore si fa più estesa presenza: lo seguiamo nel suo attento operare, mentre scandaglia specchi di mare con il periscopio. La dimora dei Martinelli è stato un fortino, pensieri e parti domestiche si sono incrostati insieme, tutto un mondo a sé, tempo passato, tradizioni, in ogni angolo ombre rimaste stratificate. Il dispaccio giunto dallo Stato Maggiore sconquassa un ambiente familiare che si è tenuto in un alone di alterezza, di forte dignità, senza mai subire deformazioni. Il comandante, impavido nella sua divisa, esaltato da senso di onorabilità, dichiarato disperso in mare durante un siluramento navale angloamericano. La notizia ferale produce la sensazione di un soffocamento. La moglie Liliana, sposa di grande affetto, le zie, Lorenzo cadono precipitati in un baratro di dolore lacerante. Una realtà che toglie movimento, tutto sembra abbrunato, i colori non sfavillano,

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la stessa via Marina ha perso la sua splendidezza mediterranea. IV Subentra la nostalgia dei tempi felici: le illusioni avevano spazio libero per Lorenzo, si illuminavano con la presenza del padre. La memoria riscopre ricordi che si ripercuotono nel profondo dell’animo, prendendo un’aria di mistero, come la morte inabissata nell’ oceano. Si sente il peso dei tempi avversi, la virtù della parsimonia delle zie si impone in modo deciso insieme ad orgoglio ed inflessibilità di carattere. Si acuiscono le capacità di perseveranza. Lorenzo è a Napoli alla facoltà di lettere. I finanziamenti cui si è ricorso, se non sgravati dalla ipoteca, possono portare al pignoramento della casa. Il presente si offre con momenti di crisi, ci si sorregge appena, tentennando nelle riflessioni. Uno scontro fra il benessere degli anni passati e lo stato di crollo. Ci si oppone a vendere la casa per i debiti contratti. La tensione familiare aumenta con la morte della zia Benedetta. Un’altra crepa su quella fortezza ideale che sempre sono stati gli affetti. Il romanzo ”I fondali dell’amore” di Graziano Giudetti fa vivere drammi psicologici complessi: da una vita fatta di sicurezza e di fierezza ad un vero sgretolamento. Dominano nelle pagine dense, ricche di pensieri che affondano in meditazioni, simbolismo e realtà crude in contrapposizione. Si vuole superare il contingente per elevarsi a maturazioni e idealità che avvalorano il fine sentire. Estesa poesia per entro l’atmosfera greve, quasi un’azione di scandaglio opera fra le situazioni avutesi con gli sconvolgenti accadimenti. La personalità di Lorenzo, in uno stato di oblio che sa di surreale emanazione, vive la sua interiorità sentimentale. La presenza del padre ingigantita dalla tragedia, amplificata, dominatrice negli spazi sterminati dei mari. La linda figura dalle lucide mostrine prende ora irradiazioni infinite, si è sublimata, viene aleggiante in echi impercettibili, come sibili sottili che passano in ogni luogo. Dal mare di Reggio Calabria a quello di Napoli, un solo amplesso, una voce


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che corre con spinte magiche e arcane, un richiamo di significato morale, in ogni momento sia nella bonaccia delle notti lunari che nelle tempeste fragorose. Questa forza misteriosa in grande estensione conforta Lorenzo: non gli pesa il dolore né la perdita della passata agiatezza. Né ansia né tensione, ma quasi dolcezza ha il suo vivere. L’esistenza è andata oltre le ferite e gli accidenti che hanno ridotto tutto in frammenti, persa ogni consistenza. V Ci si è scrostati da ogni senso di vanagloria, si sono smaterializzati i desideri, le membra stesse si sono fatte leggere, non si sentono più le percosse. Graziano Giudetti nelle pagine del romanzo “I fondali dell’ amore” ha espressioni soffuse di levità di suoni, profondità di pensieri che trovano in ampiezza corrispondenze e simmetrie. C’è tutta una trasformazione di situazioni. Da involucri forti che tengono chiusi, appartati si va alle essenzialità e alle immediatezze. Naturalezza delle emozioni: il dolore ha fatto separare il vero dall’artefatto, essere sensibili, infiammati alle immaginazioni, completi, forgiati per intraprendere nuove vie, le più risolutive verso traguardi necessari. Un senso di primigenio ravvivato in se stessi, una permeabile prontezza ai contatti verso tutti i luoghi. Una malleabile capacità di rifarsi. Il romanzo racchiude sostanzialità e concretezze, una concezione di un saper vivere più autentico, prendendo da ogni occasione il meglio. Si è aperta una specie di crisi di transizione alla natura propria: con le identità più profonde, ci si abitua ad alimentarsi con quello che si trova. Più facili ad effondersi, fuori dai formalismi, in più aperto campo, trovando con istintività il rifugio più adatto, fuori dalle forme standardizzate di un tempo. Uno stato psicologico che si tramuta, una consapevolezza maggiore di quello che si è, si sente più forte la propria fragilità, uscendo dal convenzionale, con arditezza si va all’attacco della realtà. In cima al nostro essere una simbologia che indica le

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necessarietà, le sintesi che ci attraggono e fanno essere noi stessi. La verità del volume “I fondali dell’amore” sta proprio in queste riflessioni. Si è operato uno sfoltimento tra le parti che fanno la vita. Ci si è denudati per trovare il proprio essere, senza parvenze e infingimenti. Bisognava uscire dal palazzo venduto all’asta, costruito nel 1861 e abitato da tre generazioni dei Martinelli per raggiungere modi nuovi e altre prospettive. La zia Genoveffa, vissuta sempre riservata, osservante dei principi religiosi, con la sua semplicità, una natura immacolata, rivestita tutta di arcaiche, ataviche forme, vede come una vergogna la perdita dell’amata casa. È vinta e delusa dagli ultimi eventi, mentre la madre di Lorenzo si trasferisce a Napoli, va all’ospizio per non perdere di vista i ricordi e rimanere attaccata alla sua terra. VI Gli affetti costituiscono un sostegno di difesa della vita. Non finiscono i sentimenti di amore. La madre di Lorenzo avvinta da un dialogo interiore, sente vicino il suo uomo amato, relegato in fondo all’oceano. Il cuore e la mente sono uniti insieme. Il senso della vita si rivela nella sua vera natura, fatta di contraddizioni, di speranze, di estrinsecazioni di potenzialità sempre in fermento. Dopo la laurea si ritorna a Reggio per salutare la zia. Estraneità e attrazione. L’immediatezza delle sensazioni in un’atmosfera tutta naturale. Asprezze e infinità di spazio per i vicoli e per tutti gli angoli della città natia. In un quadro di spontaneità e di aspetti contrastanti l’amore per Maria Rosaria che dà una ventata di freschezza, di schietta amabilità. L’istinto che esce fuori all’aperto, nelle ore del tramonto estivo. I capelli e il viso incantevoli affascinano Lorenzo in una trepidazione sconvolgente. L’incontenibile esuberanza dell’amorepassione, estensione dei sensi, dilatazione della sensibilità tra luce e colori di una Natura splendente. Inafferrabile e misteriosa la bellezza di Maria Rosaria, tutta purezza e semplicità espressiva. Rimane spersa nell’aria con quei dolci sorrisi che tanto avevano am-


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maliato. Ancora una volta s’impongono con arrogante risveglio l’idea della distinzione sociale, i pregiudizi, le velleità. Lorenzo con l’ incarico di insegnante avuto dalla Pubblica Istruzione è a Trieste, trasferito con la madre. Il linguaggio di Graziano Giudetti si articola di soliloqui, di dialoghi, di descrizioni che si intensificano, animate da umane connaturate energie. Trieste apre orizzonti nuovi, un’ ambientazione diversa da quella del Sud. Come traslocato di peso da Napoli in uno stato di semicoscienza. La mente è in altri luoghi con persone che hanno amato. L’insegnamento fa stare a contatto di studenti dell’uno e dell’ altro sesso, franchi, vivaci, pieni di allegria. Lorenzo è reso succube dal fascino di Daniela, come se sulla volontà si fosse posato un velo ipnotico. Una bellezza impetuosa e raffinata, penetrante con lo sguardo che pare dipinto di cielo. VII La vita erompe in tutte le maniere, dall’ amore agli affetti, legami da forza magica costituiti, quasi un moto provvidenziale riordina l’esistente mondo intorno. Un sentirsi allacciati a tutte le radici da vecchi tronchi estese a nuove germinazioni. Da Trieste all’ Aspromonte tutti i lidi formano un solo cerchio. Presente e passato in una simbiosi danno un terreno ferace con linfa abbondante, alimentatrice. Il murmure delle acque, sempre uguale da ogni parte, fa sentire alla mente ossessionata la consueta eco degli abissi del mare. Lorenzo ha flutti tempestosi nelle vene, amore e continuità di sentimenti fluiscono veloci, senza gli irretismi che tenevano un tempo i suoi movimenti, ormai sciolti dalla vicinanza con Daniela in libera spontaneità e in più sicuri modi di azione. L’opera “I fondali dell’ amore” di Graziano Giudetti, saggista, scrittore in amalgama e simultaneità contiene realtà concentrate, le appartenenze che fanno essere in pienezza di sé. Ardite vedute e allargate, superati tutti quei recinti chiusi che hanno tenuto dominio incontrastato. Le sofferenze hanno fatto maturare pensieri ed espe-

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rienze. Luca cresce in fretta, a vederlo ha tutto del nonno, l’aspetto altero e la passione per il mare. Si iscrive all’Accademia Navale. Daniela avverte un vuoto, l’assenza del figlio lo rimpiazza con il volontariato che svolge in Africa. Tanta dedizione all’ insegna della solidarietà verso bambini etiopici afflitti dalla fame. La legge Usberghi permette di liberare dalla dispersione i corpi dei marinai caduti da eroi in fondo al mare. Occorre riscattarsi da quella specie di depressione che ha tenuto imprigionato gli animi. Arrivano i relitti del sommergibile. Una vittoria sulla logica perversa della distruzione. Il ricostituirsi degli affetti in modo più vivo vince il senso della violenza e della disgregazione. Daniela ritorna da un giro di missioni umanitarie affetta da malaria. Una tragedia ancora colpisce i Martinelli. Si esce dal coma con le voci di Luca e le attenzioni dell’infermiera Marisa, figlia di Maria Rosaria, in servizio all’ospedale di Trieste. Il romanzo “I fondali dell’amore” ha una conclusione che diremmo di trionfo. I personaggi dopo le tristi circostanze trovano momenti di letizia, di incontro, appianandosi discontinuità e opposizioni. Una trama di accaduti di grande umanità che si intessa di continuo sull’onda delle emozioni e delle ansie. Una testimonianza di forti significati morali che hanno inciso sugli animi con aspetti più razionali e aperti a idee nuove, ravvivate dagli affetti che rimangono sempre fondamenta di vita indistruttibili. I vecchi panni lustri e inerti prendono fogge trasformate, concrete e attive. Il passato ha lasciato nel presente le sue tracce di retaggi di grande valore, alimentati da perseveranza e da fede. Si è pervenuti a mete di più amplificate idealità, i ristretti confini tradizionali si sono rotti per dare adito ad ampiezze di convinzioni più sofferte. La vita ritrova una propria dinamicità, modi di essere improntati a capacità di saper vedere e comprendere, attingendo a ricchezze spirituali che quando emergono sono sempre irrompenti, veri mezzi di conquista. Leonardo Selvaggi


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CLAUDIA TRIMARCHI, AURORA DE LUCA E LA POESIA FERA E MANSUETA DI DOMENICO DEFELICE di Giuseppe Leone

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OPO le monografie di Sandro Allegrini, Leonardo Selvaggi, Orazio Tanelli, Anna Aita, nonché una tesi di laurea di Eva Barzaghi, dedicate all'opera di Domenico Defelice, ecco - ancora frutto di lavori di laurea con dignità di stampa - altri due saggi sulla sua opera, pubblicati rispettivamente nel marzo 2016 per conto dell'Editore Il Convivio di Castiglione di Sicilia e delle Edizioni Eva di Venafro nel giugno dello stesso anno. Si tratta di La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice” di Claudia Trimarchi, con prefazione di Giuseppe Manitta, e Aspra terra e creazione fertile nell'opera di Domenico Defelice di Aurora De Luca, due giovani neodottoresse, laureatesi in Lettere nell'Università degli Studi di Roma Tor Vergata nel dicembre del 2015. La prima, con relatore il Prof. Carmine Chiodo, la seconda il Prof. Rino Caputo, affrontano l'opera di Defelice, domandandosi, già nelle rispettive introduzioni, se non sia la “Poesia”, o meglio “l'Amore per la Poesia e per l'Arte”, il fuoco primordiale dell'universo poetico dell'autore; se non sia proprio questo il “principio di fondo” da cui discende poi la sua intera produzione poetica, che spazia dalla narrativa, alla drammaturgia, alla critica letteraria e pittorica, all'attività di mecenatismo condotta attraverso la rivista PomeziaNotizie. Il tutto nel segno di un comune desiderio di “ricercare e tirar fuori il volto dell' uomo e il volto del poeta”. Quello che colpisce, infatti, soffermandoci

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sulle rispettive tesi, è notare come le autrici non perdano mai di vista un solo istante l'uomo per inseguire il poeta o viceversa. Scrivendo dell'uno, inevitabilmente finiscono per informarci anche dell'altro, per via – esse dicono - di una simbiosi naturale che scorre, senza fine, tra la vita e la scrittura del poeta, grazie a una coerenza di fondo che le tiene saldamente unite. Un andirivieni tra l'uomo e il poeta che Claudia e Aurora conducono: la prima, attraverso uno studio comparato e storicistico a un tempo, rivisitando le opere di Defelice, ora, in rapporto alla sua vasta produzione che va dalle sillogi di versi all'Epistolario; ai saggi dedicati all'opera pittorica di Gazzetti, Scutellà, Frenna, Mallai; alla rivista Pomezia-Notizie; ai Quaderni Letterari Il Croco; ora, in relazione ai tempi e ai luoghi che hanno determinato la loro ispirazione; l' altra - che è già una valente poetessa - attraverso un'empatia che si ritrova per essere già lei una “lettrice romantica, appassionata”, come si autodefinisce nell'introduzione . Non avviene mai che le virtù del poeta non siano ancora quelle dell'uomo Defelice, o che il suo modo di sentire e di pensare non sia lo stesso che pulsa nei suoi versi. Il tutto grazie a una circolarità che rinserra arte e vita nel poeta. Anche quando sembrerebbe chiudersi nel recinto dell'hortus conclusus per sottrarsi ai mali del mondo, la sua poesia parla ancora del mondo che ha lasciato fuori, mai del sollievo per esservi scampato; e non solo del suo, nemmeno di quei poeti e poetesse che è riuscito ad accogliere dentro il suo giardino. Non ci sono ozi all'ombra delle sue piante che impigriscano l'animo, né balsami che diano eternità agli attimi che si succedono veloci. Lo descrive bene la De Luca: “il poeta conduce un orto privo di recinto, privo di tettoie, in cui entra l'intero mondo senza che lui possa ignorarlo, senza che le sua penna possa non essere penna di voci e di richiami, interiori ed esteriori.” (19-20) Defelice, per entrambe, è un uomo-poeta


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nonché un poeta-uomo, la cui vicenda umana e artistica riceve dal tempo che gli passa attorno ispirazione e linfa, come osserva anche Manitta, nella prefazione alla Trimarchi, scrivendo che in lui “il tempo è intimamente legato al contesto” e così tanto, fino a giustificare le sue “riflessioni sulla questione meridionale, ma anche e soprattutto l'urgenza sociale” (9), verso cui vira spesso la sua poesia. Un legame al contesto che detta al poeta la condizione dei suoi stati d'animo, rendendolo ora mansueto, ora feroce. Sa essere “mansueto” – scrive la Trimarchi, “quando nel suo cuore prevale il sentimento d'amore, inteso in senso universale, per la Natura, per la sua terra, per l'Arte, per la sua donna, ma sa essere anche ferox cioè spietato o anche “fiero”, per dirla con Allegrini, per essersi saputo conservare pulito, senza spocchie, ma pure senza condiscendenze contro quei potenti e quei mafiosi della sua terra che fanno e disfanno potentati economici” (25); oppure - come nota la De Luca, richiamandosi all'altro “tema della fratellanza che affianca e prosegue quello della ferocia” (53) – quando “nutre... sentimenti puri verso coloro che sono nella sofferenza e nel disagio” (54). E ferox è Defelice, ancora per entrambe, quando polemizza contro l'ermetismo di certa poesia e le astruserie delle correnti alla moda; quando si pone in difesa dei poeti minori e a favore di quella poesia che si sottrae alle leggi di mercato; quando si scaglia contro i critici che scrivono per le case editrici e per il potere, o contro gli intellettuali che frequentano i salotti; o ancora quando, alla direzione di Pomezia-Notizie, denuncia le malefatte e le ingiustizie del mondo. Saggi davvero belli e interessanti, allora, questi lavori di laurea, frutto di maturità intellettiva e sano senso estetico con cui le due giovani scrittrici chiudono il tempo dei loro studi e aprono quello delle loro aspettative. Due tesi che si potrebbero considerare un libro solo, e non solamente perché molti dei temi trattati sono comuni, ma anche per l'empatia con cui le autrici aprono e chiudono i rispettivi testi, utilizzando come esergo un me-

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desimo passo dove Defelice scrive: Chi crede che nell'orto del poeta crescano erbe rare, fiori variopinti, alberi tropicali; chi crede che vi scorrano acque fresche e vi cantino uccelli non conosce il poeta. Nell'orto del poeta crescono spine, fiori avvelenati e gli alberi proiettano ombre inquiete; nell'orto del poeta scorre il sangue della gente affamata e l'unica voce è l'urlo della rivolta. Non potevano la Trimarchi e la De Luca aprire e chiudere meglio i loro saggi, se non con questo affondo di Defelice contro tutte le arcadie letterarie, che in ogni tempo hanno ridotto l'arte a passatempo e fatuo gioco; un passo di prosa che il poeta aveva collocato a guardia del suo “Orto”, e che ora le due autrici sapientemente espongono a mo' di manifesto programmatico della sua arte nei loro rispettivi saggi. Ma ouverture o epilogo, fatto sta che le autrici, scegliendo queste stesse parole, finiscono per conferire oggettiva valenza critica al loro giudizio, secondo il quale, fra arte e vita nel poeta non c'è mai stata alcuna dissociazione. Defelice, in effetti, per la Trimarchi, è un poeta nel quale “non si è mai prodotta la cesura tra la vita pensata e la vita vissuta” (128), e, per la De Luca, è una guida, sia “per le profondità morali e psicologiche in cui riesce a spingere la sua poesia, sia per la sua capacità di “scendere sotto la scorza delle cose, senza per questo ignorare la superficie...” (132). Un poeta-uomo e un uomo-poeta, si diceva, e in effetti, questo Defelice è tutti e due, espressione di una riconciliazione storica fra l'artista e l'uomo, ma anche emblema di un modello di letterato che il Novecento aveva mandato in soffitta, e, che ora, in apertura di un nuovo secolo, le due autrici riportano, in gran spolvero, in salotto, al centro delle loro preoccupazioni letterarie. Giuseppe Leone Claudia Trimarchi - La funzione catartica e rigeneratrice nell'opera di Domenico Defelice - Il Convivio Editore, Castiglione di Sicilia, 2016. Euro 13.00, Pp. 136 Aurora De Luca - Aspra terra e creazione fertile nell'opera di Domenico Defelice - Edizioni Eva, Venafro (Is), 2016 - Euro 10,00, Pp. 152


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LUIGI DE ROSA LA GRANDE POESIA DI GIANNI RESCIGNO di Tito Cauchi

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UIGI De Rosa con La grande poesia di Gianni Rescigno, dedica un meritato riconoscimento allo scrittore scomparso un anno fa, denominandolo “il poeta di Santa Maria di Castellabate”. La copertina illustra un paesaggio della costa di questo Comune. Il libro è bene strutturato, dopo le premesse, abbiamo la prima parte riguardante le raccolte poetiche, la seconda parte la poesia di Rescigno nella critica letteraria e in chiusura notizie bio-bibliografiche. I due autori hanno avuto rapporti epistolari e telefonici durante i quali era in fieri il presente saggio, fin quando la morte rapisce il Poeta il 13 maggio 2015, e la notizia si diffonde come un tam-tam fra amici e i tanti estimatori anche attraverso varie riviste (Nazario Pardini, Domenico Defelice, Marina Caracciolo e tanti altri). Spendiamo due parole, attingendo notizie biografiche dalle bandelle: Luigi De Rosa (classe 1934) è nativo di Napoli, ma ha trascorso l’infanzia nel Friuli (come sfollato), poi a Milano e dall’ adolescenza in poi ha vissuto in Liguria; di formazione umanistica ha scalato la carriera scolastica, collabora a riviste e ha pubblicato vari libri. Il Poeta parlava poco della sua vita, e quel tanto che si conosce viene ricavato dalle opere. Gianni Rescigno era nato il 30 ottobre

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1937 a Roccapiemonte in provincia di Salerno; all’età di 22 anni si trasferisce a Santa Maria di Castellabate “sulle rive del bellissimo Golfo di Salerno, nel quale si protende il promontorio del Cilento”, vivendo in consonanza con l’Agro Nocerino-Sarnese, luogo ideale per il maestro elementare e operatore culturale; dirà: “Ho conosciuto Dio/ della bellezza. L’oro/ delle spiagge. La croce/ dei gabbiani sulle barche.” (Mia terra). Intorno alla famiglia Rescigno si sono strette molte persone, a testimonianza delle quali vengono riportate lettere ed e-mail, dirette alla vedova Lucia Pagano, o al figlio Giampiero, avvocato, e alla figlia insegnante Rosamaria sposata Romanelli. Farò qualche citazione: Giorgio Bàrberi Squarotti, Sandro GrosPietro, Rossano Onano, Giorgio Agnisola ricordando “la fierezza di essere uomo indomabile del Sud”, Francesco D’Episcopio, Antonio Coppola, Franco Campegiani, Maria Rizzi, Umberto Vicaretti, Pasquale Balestriere, Giacomo Panicucci, Sandro Angelucci, Paolo Bassani, Ninnj Di Stefano Busà, Giorgio Linguaglossa, Mariella Bettarini, Liliana Porro e Elio Andriuoli. Marina Caracciolo sulla rivista diretta dal prof. Domenico Defelice, Pomezia-Notizie di luglio 2015, ne esalta la generosità e la modestia definendolo vero poeta: “egli non descrive nelle sue pagine la realtà che osserva, la rappresenta, non la riproduce, la trasfigura”. Luigi De Rosa fa collegamenti fra le varie raccolte, collocandole nel periodo storico di composizione (Anni Sessanta, della rivolta; Anni Settanta, del terrorismo); per ogni raccolta precisa il numero delle pagine, dei componimenti, generalmente in numero di cinquanta o anche solo di nove, l’illustrazione di copertina, il nome del prefatore e interventi critici a vario titolo; nonché citazioni di versi. Rescigno ha pubblicato ventiquattro raccolte di poesia e due libri di narrativa. L’Autore, giustamente, avverte che in uno studio come il presente, sono molti gli interventi che riguardano Gianni Rescigno e può esserci il rischio di tralasciarne qualcuno, senza volerlo. Più che sugli innumerevoli


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premi, ottenuti dal Poeta, richiama l’ attenzione sulla Critica Letteraria che ne testimonia il valore. Così Giorgio Bàrberi Squarotti, indiscussa autorità della critica letteraria, che è una presenza costante, assume una importanza determinante, che ha fatto emergere il significato della poesia mettendo in luce l’ humus culturale di uomo genuino e terragno. Franca Alaimo, siciliana di Palermo, ne tratta sulla “polpa amorosa della poesia” (2007), in cui sviluppa varie tematiche, con prefazione di Dante Maffia; sui dieci capitoli del quale il Nostro si sofferma punto per punto. Marina Caracciolo, la “nordica” milanese, che ne fa un attento studio. Menotti Lerro, ne La tela del poeta, presenta un “nutritissimo” gruppo di lettere ricevute da Rescigno nel corso della sua “carriera di poeta”, interessanti sono i commenti che si espongono sulla editoria in rapporto alla poesia; come commenta, per es. che alcuni, quando hanno raggiunto uno scranno “altolocato”, poi “si chiudono a riccio di fronte a richieste di collaborazione e di notizie utili, e voltano le spalle ai ‘colleghi meno fortunati” (pag. 158) tranne eccezioni come Giorgio Caproni che ne ha lodato i versi. Sandro Angelucci, in “Di Rescigno il racconto infinito”, afferma che il Poeta non fugge dalla realtà, ma in essa si immerge, ha fornito “un valido strumento ermeneutico al lettore per meglio intendere il valore dell’opera di Rescigno.” (come dice il Bàrberi Squarotti). Antonio Vitolo, nel suo saggio Il respiro dell’addio (la poesia dell’attesa e il rapporto madre-figlio in Gianni Rescigno), considerando la condizione di inferiorità cui venivano confinate le donne dagli uomini di famiglia, sottolinea quanto solidale sia stato il rapporto madre-figlio. Luigi Pumpo, autore di Gianni Rescigno, il tempo e la poesia, di una trentina di pagine, altresì si segnala Don Orlotti che ne evidenzia la religiosità e l’ umanità. È un lavoro prezioso che mette in luce il Poeta nel binomio vita-poesia, reso sotto i diversi aspetti umani e poetici che lo inquadrano in una dimensione religiosa (spero di non

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esagerare). La lettura del saggio è come un unico profondo respiro, organicamente strutturato dall’andamento narrativo gradevole e coinvolgente che ci accompagna con le sue descrizioni che paiono scene in movimento. Nel tentativo di capitalizzare il patrimonio culturale presente, ho privilegiato una esposizione asciutta, come di un repertorio delle opere che possa offrire un minimo di indicazioni e diventare guida per eventuali fruitori. *** I. Credere (1969) è la prima raccolta di Gianni Rescigno, che viene pubblicata dall’ editore siciliano Domenico Gugnali, di Modica, con una presentazione “beneaugurante”. Il critico e poeta De Rosa giudica che il Rescigno si rivela un poeta privo di “angosciosi (e sterili) contorcimenti nel Dubbio, niente snervanti (e perfettamente inutili) elucubrazioni” (pag. 37), come si può evincere: “La mia è continua ricerca/ di trovare ogni giorno piante/ che germogliano e sole che illumina.” (39); e ancora, riferendosi alla madre: “Ferma sulla soglia dell’umido risveglio/ ti salutavo da lontano senza pena./ E ora io sono te nelle brume dei mattini.” e, senza toni violenti o esibizione di poesia sociale, richiama le croci dei poveri diavoli. II. Questa elemosina (1972), nota di Fabio Tombari, il cui nome ricorre di frequente in tutto il libro per via del timore espresso in merito a quello che ha chiamato “l’ornato”. Dalle tracce autobiografiche si comprendono l’origine contadina della famiglia, gli insegnamenti religiosi ricevuti e l’impegno civile senza ostentazione: “Oh, come sarebbe bello/ mettere il mio amore/ nelle mani di chi passa!/ Ma nessuno si ferma ad accettare quest’elemosina.” (43). III. Torri di silenzio (1976), prefazione di Silvano Demarchi che nelle tracce biografiche sottolinea la bellezza del paesaggio e la sofferta esistenza “in una felice sintesi espressiva” (sto ricalcando le parole del critico e poeta bolzanino) in un quadro che esalta gli affetti familiari e una sommessa sofferenza per le popolazioni del nostro Mezzogiorno. In questo deserto di sentimenti Rescigno dice:


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“Il nostro pane è il cuore”. Mi sembrano parole degne di un apostolo religioso. IV. I salici, i vitigni (1983), introduzione di Giorgio Bàrberi Squarotti che rivela la vita dei campi (carriole, letame, zappe, tridenti), nonché ancora una volta la condizione sofferta dei più umili. Rescigno ha parole affettuose verso il padre, legato ai campi, con un tono solenne in forma di lettera, sulle stagioni che non sono più le stesse, adesso: “sonnecchi nella sede degli ex-combattenti/ tra fumo e sputi bronchiali.” (54). V. Le ore dell’uomo (1985), introduzione di Giorgio Bàrberi Squarotti il quale esalta la maturità della poesia come testimonianza di verità, ampliandone i confini, non più o solo il mondo contadino e di borgo, ora volge una ricerca sul “significato del mondo”. E Stefano Jacomuzzi, nella “nota finale”, oltre a confermarne il valore, aggiunge: “eccezionali doti native di artista e poeta”. VI. Tutto e niente (1987), Sandro GrosPietro, editore, critico e poeta, rileva un Rescigno maturo, cinquantenne, che ha consolidato il pensiero nella Fede religiosa nel senso di una elevata forza spirituale, allo stato nascente, primigenio, come spiega De Rosa; ecco per esempio: “ci saremo sempre noi Signore,/ noi – i poeti – piccoli e grandi/ a darti una mano.” (65). VII. Un passo lontano – Poesie per la madre (1988), prefazione di Alberto Frattini e postfazione di Benito Sablone, mettono in evidenza le tematiche e lo stile, rilevando, per esempio, i tempi mutati come la legge sul Divorzio e il nuovo Diritto di Famiglia; la madre infaticabile, osservata nei lavori domestici. Il debito che sente nei confronti della madre e l’amore che nutre per lei, non può essere condizionato, ella gli raccomandava: “Sai, non perdere mai d’occhio i nemici/ specialmente se ti son diventati amici./ Se dormi guardali, e se t’accarezzano assai/ vogliono l’anima: per fotterti/ quando meno te lo aspetti figlio mio.” (pag. 71). VIII. Il segno dell’uomo (1991), introduzione di Giorgio Bàrberi Squarotti e Walter Mauro. Molte poesie sono dedicate a persone

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tra cui toccanti sono quelle ai genitori e ai figli, nel ruolo delle generazioni, richiamando ai valori della vita che va vissuta e non distrutta. IX. Angeli di luna (1994), introduzione di Giorgio Bàrberi Squarotti, poeta anch’egli, sente vicinanza poetica con Rescigno: non un realismo lirico, ma una poesia visionaria, insieme materialità e spiritualità, l’uso frequente degli astri ci riporta a una visione metafisica. Dei precedenti si riscontrano nel Surrealismo contenuto nel Manifesto di André Breton o ancora negli anticipatori Guillaume Apollinaire ed anche, andando indietro, nell’ Ottocento, in Rimbaud, Lautréamont e Nerval; nonché nella psicanalisi di Freud, nella filosofia di Bergson e altri. Ed Elena Clementelli ne rileva il disincanto commentando che nel Poeta vi è “un amore senza sereno appagamento di possesso”. X. Un altro viaggio (1995), prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti che giudica poesia religiosa, tanto che il Rescigno scopre che il senso del mondo si rivela attraverso la presenza di Dio. Così dà voce a un uccellino: “Signore/ fa’ che l’uomo non dimentichi:/ col mio volo tra terra e cielo/ sempre annunzio l’andirivieni delle stagioni.” (pag. 84). Maria Grazia Lenisa commenta l’equilibrio raggiunto dal Rescigno nel suo misticismo tra “l’ essere poeta ed essere anelo della santità cristiana”. E Luciano Luisi osserva l’ insegnamento religioso della madre, che ricordava al figlio: “quando esce il sole il sole esce per tutti” (86) XI. Le strade di settembre (1997), introduzione una di Vittoriano Esposito e una di Vincenzo Guarracino. Giorgio Bàrberi Squarotti commenta che con i sessant’anni raggiunti, il Rescigno, capisce che è tempo di bilanci; perciò, l’attenzione si posa sul senso del tempo. De Rosa ricorda che Premi e riconoscimenti sono innumerevoli, in tutta Italia; sottolinea che questa raccolta è “un canto lirico d’autunno” che guarda al “tempo interiore da vivere”, dove l’ornato che avrebbe potuto mettere a rischio la poeticità, secondo i timori del più volte citato Fabio Tombini, in verità


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diventa sostanza con esiti positivi. XII. Farfalla (2000), prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, introduzione di Maria Grazia Lenisa. Continuando il discorso sui bilanci, Luigi De Rosa commenta che è tempo di nostalgia “scaltrita dagli anni” e tuttavia rimasta genuina. La Lenisa chiarisce: la parola liberata vola come un seme sulle ali di una farfalla; e il De Rosa rinsalda l’immagine paragonando il momento alla Primavera del Botticelli, ai Girasoli di Van Gogh, ai nudi di Tiziano, ai balli e canti rinascimentali (sue parole). Una poesia che emana il profumo della sua donna, come lo era in Pablo Neruda. XIII. Dove il sole brucia le vigne (2003), prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti che parla di rappresentazione “serena e divina malinconia”. Francesco D’Episcopio pone l’ accento sulla meridionalità del Poeta; e dice bene Marina Caracciolo, allieva del prof. Bàrberi Squarotti, che nel titolo individua la “parabola del sole” che rappresenta la vita contro l’oscurità. XIV. Le foglie saranno parole (2003), introduzione di Vincenzo Guarracino: il Rescigno si nutre di umiltà, qui troviamo più sintesi e meno analisi. Le foglie sono natura che si rigenera. XV. Lezioni d’amore (2003), prefazione di Ninnj Di Stefano Busà, poetessa siciliana trasferitasi a Milano, che individua nell’amore, sia per la sua donna, sia per Dio, con un concentrato di sogno; e postfazione di Marina Caracciolo, collaboratrice alla UTET, la quale rafforza affermando che si tratta di una realtà fittizia. XVI. Io e la Signora del Tempo (2004), prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, secondo il quale la raccolta emana senso di gioia e di serenità nella invocazione alla Madonna. E Franca Alaimo, in un saggio, parla di apparente profanazione della sacralità, poiché il Rescigno si rivolge alla Madre di Dio con tale confidenza come se stesse rivolgendosi alla propria madre terrena, il che per alcuni aspetti eleva la poesia a sublime religiosità. Nella precedente edizione 2001 oltre al Bàrberi Squarotti, erano intervenuti Vincenzo

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Guarracino che rilevava toni forti da paragonare a Cantico dei Cantici; e Maria Grazia Lenisa e Marina Caracciolo indicavano un colloquio interiore. XVII. Come la terra il mare (2005), prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, antologia di cui “confessa” di sentirsi accomunato al poeta salernitano. Luigi De Rosa richiama l’ attenzione sul motivo della realizzazione dell’ antologia, come per “fare il punto sulla sua storia creativa, riflettere sugli esiti espressivi e contenutistici raggiunti”. De Rosa confida che il Rescigno un giorno ebbe a dirgli: “Luigi, i morti sono con noi, ci sono vicini, a loro modo, ci tengono compagnia…” (112). XVIII. Dalle sorgenti della sera (2008), prefazione di Vincenzo Guarracino, che giudica “scrittore mite e appartato, protetto dalla siepe di una condizione (anche geografica) di marginalità”. Il De Rosa chiarisce che ciò non vuol dire che il Poeta preferisca il passato al futuro, aggiungendo, pur se “Un tempo la campana batteva anche l’ora dell’Angelo, nella scansione della giornata di fatica, precedente il riposo”. XIX. Gli occhi sul tempo (2009), praticamente libro doppio perché c’è la presenza di un coautore, Menotti Lerro. Interventi critici di Giorgio Bàrberi Squarotti e Walter Mauro, il secondo dei quali rileva, nella ricerca di un comune denominatore, fra l’altro: “l’ impotenza del dire” della inadeguatezza della parola che si risolve con la spezzatura della parola stessa. XX. Anime fuggenti (2010), prefazione di Francesco D’Episcopio, egli dice che si tratta di “un patrimonio di memorie e tradizioni da non disperdere”. Sandro Gros-Pietro spiega che la parola “fuggenti” del titolo si riferisce alla morte. “È il Signore che vede e che provvede./ Noi siamo quelli che non si fermano mai./ Noi siamo coloro che non comandiamo.” (pag. 120). XXI. Cielo alla finestra (2011), prefazione di Gio Ferri: “Rescigno… guarda il cielo dalla finestra”, intendendo che lascia fuori i frastuoni del mondo; e due interventi critici uno di Vincenzo Guarracino per il quale il Resci-


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gno dà dignità alla parola e l’altro di Marina Caracciolo secondo la quale il Poeta contempla il mondo intero: “Non descrive, rappresenta; non riproduce, trasfigura”. XXII. Nessuno può restare (2013), prefazione di Giannino Balbis ne rileva l’idillio e l’elegia, la “massima concisione espressiva”; e due interventi critici: Franca Alaimo e Fulvio Castellani che concordano sul linguaggio musicale che trasmette amore per la vita. XXIII. Sulla bocca del vento (2013), antologia di poesie con traduzione in francese di Paul Courget e di Jean Sarraméa. Prefazione di Angelo Manitta che giudica poesia coinvolgente, legata alla vita, impregnata di sentimento e di religiosità, guarda alla condizione umana dei più umili e alle vittime per esempio di Auschwitz. XXIV. Un sogno che sosta (2014), prefazione di Mariella Bettarini, la quale osserva l’espandersi del sogno. Intervento critico di Sandro Angelucci che rileva la schiettezza. Il titolo è contenuto nei versi: “Da dove venimmo/ là torneremo: questa/ vita un sogno che sosta/ tra acqua e vento/ caduta di foglie/ e festa di fiori.” (135). Luigi De Rosa paragona il Rescigno al drammaturgo madrileno Pedro Calderòn de la Barca vissuto nel Cinquecento; e conclude la sua esposizione con questi versi “Non fanno notizia i poeti/ quando se ne vanno./ Già da vivi se guardi la notte/ li vedi camminare tra le stelle.” L’approfondito saggio di Luigi De Rosa si completa con un breve Album fotografico, rendendoci più vicino il Poeta di Santa Maria di Castellabate. È ammirevole il climax creatosi fra gli estimatori autori-poeti ed è così che vogliamo ricordare Gianni Rescigno, come uno di famiglia. Questa riflessione segue le mie precedenti, di Gianni Rescigno: Dalle sorgenti della sera, Pomezia-Notizie, aprile 2008, pag. 41. Anime fuggenti, Pomezia-Notizie, giugno 2010, pag. 41. Nessuno può restare, Pomezia-Notizie, maggio 2013, pagg. 39/41 e Vernice, ottobre 2013, pagg. 175/176. Il soldato Giovanni, Pomezia-Notizie, novembre 2016, pagg. 29/31. E saggi su Ruscigno: Antonio

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Vitolo, Il respiro dell’addio (la poesia dell’attesa e il rapporto madre-figlio in Gianni Rescigno), Pomezia-Notizie, febbraio 2013, pag. 51. Sandro Angelucci, Di Rescigno il racconto infinito, Pomezia-Notizie, marzo 2014, pag. 43. Tito Cauchi LUIGI DE ROSA, LA GRANDE POESIA DI GIANNI RESCIGNO, Genesi Editrice, Torino 2016, Pagg. 186, € 14,00

SONO UN PECCATORE La chiesa moderna, una casa nuova e fredda, soltanto i banchi e poche sedie, senza pareti annerite, niente storia, niente arte. Spazio scoperto e il silenzio muto. Il vuoto non ha fiato di persone né pensieri di preghiera che si mettono negli angoli oscuri. È una palestra, uno stanzone per stare insieme. Neppure Cristo vuol rimanere in croce, lo sorreggono per le braccia arcuate con forza. L’edificio scheletrico si confonde con le case, solo l’altro giorno mi sono accorto di essa, fiancheggia la strada che faccio sempre. La chiesa gremita, ho richiuso la porta io non entravo. Ho atteso fuori, per le scale lo sciamare delle pellicce. Gli ultimi ad uscire sono quelli che si pongono vicino all’altare, hanno il viso tutto elevato ai pensieri di fede. Sono un peccatore, voglio la chiesa deserta, essere il solo fra i banchi liberi. La quiete come vento invisibile che gira dentro, ondeggiano le due candele a fianco all’ostensorio. Vorrei mettere un misero uomo contro la faccia dei fedeli all’uscita dalla messa, vedere se qualcuno ferma il suo piede frettoloso apre il cuore e la mano al suo simile che chiede conforto. Se gli dice di andare con lui, se pronto dà ascolto al suo stato. Il Paradiso potrebbe aversi sulla terra, frantumate le divisioni e le ipocrisie; pagana è la fede, i credenti genuflessi trepidanti vogliono dal cielo la provvidenza riparatrice. Ritornano puntuali figure di cartapesta, la fronte penitente eretta davanti al Santo. Leonardo Selvaggi Torino


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COMMENTI A “LA BARCA”

DI NAZARIO PARDINI La barca Sono una barca che s’inarca al mare, sono un fuscello in balìa del vento che cerca un porto dove rifugiare le sue malinconie. A volte ho visto una pallida luce di conforto a indirizzare la prua. I remi stenti hanno solcato mari indifferenti verso il chiarore delle mie speranze. Invano. Tutto spariva all’approccio. E l’infinito gorgo riappariva alle mie carni deboli e insicure. Ho navigato incerto in queste acque sbattuto spesso da onde pellegrine in scogli aspri e crudi; in rocce scure. Sono una barca che s’inarca al mare, una barca disfatta che non tiene i suoi legni compatti. La mia anima azzarda fughe verso mondi nuovi che non mi sono vicini. E vola, seguendo gli indirizzi degli aironi che battono le ali, per pentirsi e ritornare presto ai cari legni che hanno tenuto in seno i miei respiri; gli amari pasti di un’intera vita. Aspetto un porto. Un faro che m’illumini; una scia che segni la mia rotta; una guida che franga questo azzurro nero. Mi dia qualche certezza e poi restare quieto fuori dalle acque di tale mare che non ha confini. 20/03/2016 E sei quieto mentre lo dici, fuori dalle acque di questo mare di Poesia. Oggi è il 21 marzo, la festa della Poesia e tu le rendi omaggio. Hai solcato e solchi questo mare e spesso ne hai avuto conforto, altre volte invano, perché all'approccio, quando tutto sembra compiuto, si torna a navigare con i legni disfatti, inarcati nello sforzo dell'approdo, con la malinconia e la speranza di una guida, di una luce che franga questo azzurro nero. (Patrizia Stefanelli, 21, 03/ 2016). * La musicalità dell'endecasillabo non è in contrasto

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con la drammaticità del vivere poiché è un verso duttile, che il poeta forgia a sua necessità. Qui, attraverso l'uso di alcuni enjambement, il nostro Nazario riesce a "interrompere" il verso proseguendolo in quello successivo evitando così la continuità ritmica. E lo fa sin dai primi versi: "... che cerca un porto dove rifugiare le mie malinconie. A volte ho visto una pallida luce di conforto a indirizzare la prua. I remi stenti hanno solcato mari indifferenti..." per giungere poi all'ossimorico, inquietante "azzurro/nero". Non solo, ma anche il lavoro di rime, sia baciate che più distanti tra loro, risponde ad una perfetta strategia di significanza: "remi stenti/mari indifferenti", "carni deboli e insicure/rocce scure", "mondi nuovi/indirizzi degli aironi". Direi, quindi che forma e significato siano in simbiosi veramente lodevole. Vorrei inoltre aggiungere che la "gabbia" metrica si allinea con "i legni/che hanno tenuto in seno i miei respiri;/gli amari pasti di un’intera vita." e la libertà è solo l'anelo di chi aspetta un porto, " una guida che franga questo azzurro/nero. I miei complimenti a Pardini per questi versi di intensa profondità anche formale. Grazie. È sempre un immenso piacere leggere della Poesia con la maiuscola. (Lorena Turri, 21/03/2016). * Io non penso a Nazario Pardini come ad un “ fuscello” e so che questa immagine non sta alla persona bensì all'universale, all'uomo in generale. Ciò vale per l'altra figura: “sono una barca disfatta”. L'idea che mi sono fatto del Pardini è di un uomo bene in equilibrio, ben saldo, un nocchiere con possibilità di prefiggersi rotte difficili, sterminate. Se in un particolare momento il suo pensiero poetico lo fa esprimere in questo modo - mi sono detto - è un ulteriore segno della sua grandezza, dell'umiltà che sempre lo accompagna. Nessuna contraddizione quindi nei versi del poeta se non la garanzia che costituisce un faro per tutti noi, uno che sa sempre dove indirizzare la prua. (Ubaldo de Robertis, 22/03/2016). * Una poesia d’ampio respiro, come è nello stile euritmico e armonico con il quale il nostro poeta, spesso, ci affascina. Già nel verso iniziale s’avverte la malinconia del mare, la vita di un oggetto come quella di un frammento dell’umanità. Leggendola fino in fondo si apprezzano un susseguirsi di ende-


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casillabi carichi di pause, di preziosi enjambement e di spontanea musicalità. La barca rappresentata il simbolo di una figura carica d’esperienza, con una certa stanchezza del vivere, non male fisico ma consapevolezza del tempo trascorso e da trascorrere, come può essere quella di un poeta, che grazie alla sua sensibilità viene attraversato dalle emozioni e guarda alla vita con occhi sempre pronti a cogliere i bagliori nel vasto orizzonte. Però quello che mi colpisce e mi ha fatto riflettere molto sono stati i versi della chiusa, in cui mi piace cogliere una chiave di lettura personale, che non so quanto sia condivisa dall’autore. Infatti l’anima del poeta conclude la poesia “... e poi restare quieto fuori dalle acque di tale mare che non ha confini. Rileggendola, partendo dal significato di “confini”, avverto la volontà dell’autore di parlare della barca usata per quell’ultimo viaggio, svenduta ai trafficanti per un uso improprio, e quindi non poter rimanere quieta fuori dalle acque, ma vivere un'ultima e orribile esperienza. Essere quindi, usata per trasportare i migranti, che affrontano il viaggio “... seguendo gli indirizzi degli aironi...” nella speranza di trovare un porto dove iniziare una nuova vita, con l’anima che “azzarda fughe verso mondi nuovi” e spesso purtroppo il sogno s’infrange per “... ritornare presto ai cari legni...”. (Francesco Casuscelli, 22/03/2016). * Molti di coloro che mi hanno preceduto hanno insistito sulle finissime qualità metrico-musicali di questa poesia (come del resto di tutta l'opera) di Nazario Pardini. Condivido e non mi diffondo su questo punto, ma approfitto per mettere a fuoco una poetica, quella pardiniana, che può sembrare diametralmente opposta a quella dell'"Allegria" ungarettiana, dove il naufrago riprende il viaggio con rinnovato ardimento, tuffandosi nel mistero. Pardini coglie lo smarrimento del navigante, il suo terrore nel trovarsi solo in alto mare, alla deriva. Coglie il suo desiderio di uscire dalle acque, di guadagnare una riva, qualsiasi riva. Tuttavia il suo desiderio umanissimo di quiete, la sua ricerca di un "porto dove rifugiare / le mie malinconie", non giunge al punto di fargli rinnegare la propria natura di "fuscello in balia del vento", ed egli resta consapevole di essere, e dover essere, un viandante ("migrante", come dice Francesco) "verso nuovi mondi che non mi sono vicini". Ognuno di noi è "una barca che s'inarca al mare". Il poeta, dice giustamente Ubaldo, è un nocchiere che sa "sempre dove indirizzare la prua". Sottoscrivo, con l'aggiunta che a volte la salvezza sta pure nel lasciarsi andare. (Franco Campegiani, 22/03/2016). * C’è in questa barca che "s’inarca al mare" tutta la

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forza solitaria e metaforica della malinconia. Gli aggettivi traducono “in crescendo” lo stato d’ animo: remi stenti, mari indifferenti, carni deboli e insicure, rocce scure, onde pellegrine… Musica, sinfonia. Si diceva un tempo che la malinconia era l’ accidia: un torpore, un'assenza, una disperazione senza scampo, acuita dalla solitudine, che produce mutismo, anzi «afonia spirituale»; quella che Marsilio Ficino indicava come perdita eccessiva dello spirito sottile. La voce dell'anima che non parla più. Ma per fortuna i poeti ci insegnano che non è così devastante né catastrofica. Anzi... Pardini ce lo comunica con il susseguirsi metaforico inquietante e contemporaneamente affascinante: la barca - disfatta - che s’inarca è in balìa del vento, azzarda fughe, vola, cerca un porto certo, introvabile, un faro, un volo… e si pente. Ritorna. Un Giano bifronte. Per cogliere quei malinconici doni poetici sono necessari due ingredienti, il talento, se non il genio, e la sincerità senza alcun orpello narcisistico, l'amor del profondo, dello scavo, l’autenticità. E la padronanza della forma poetica. Toccano dolorosamente le radici del nostro essere, fino a farci avvertire un vuoto “ metafisico”. Il baratro ci attrae mentre ci fa paura. Come se la storia avesse perso la voce. Clio, colei che un tempo suonava la lira e cantava le gesta dei grandi, alla quale la Musa pardiniana si affidava, è diventata debole, come la più sciocca delle vecchie… La tristezza sa aprire squarci che permettono di guardarsi dentro da una prospettiva nuova. Rende consapevoli. Dunque umani. Anche questo è un regalo delle Muse: ci fa capaci di avventurarci nell’ignoto: con un più di poesia, di essere, di quiete. (Maria Grazia Ferraris, 23/03/2016). * Leggo con partecipazione tutti gli interessanti commenti che a Nazario Pardini riconoscono il valore nella parola e nel sentimento. A quanti hanno espresso - e spesso con alata parola - il loro apprezzamento mi unisco con tutta l'anima, perché conosco ed ammiro il Poeta da... tempo. Questa sua stupenda lirica mi arriva ancor di più per certe immagini a me care e più volte condivise: la stanchezza esistenziale, il mare, il porto... ma anche la fiducia e la speranza nella quiete di un dopo. Insomma, in questo fuscello riconosco ogni uomo in cammino, logorato stanco ma mai vinto, riconosco nella barca... la mia "zattera di loto". Grazie, amico carissimo, poeta del cuore e della parola... Un abbraccio. (Edda Conte, 24/03/2016). * Una poesia "pardiniana"; si avverte il tuo segnico equilibrio, la tua caratura, il tuo linguaggio forte e chiaro. Vi sei in tutta la tua forza e potenza lirica,


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nocchiero senza paura in gran tempesta, mai piegato, mai domo alla temperie di acque procellose. La barca arremba, ma il vigore, il valore umano, letterario e semantico dei tuoi versi sanno parlare sempre la lingua della Bellezza. Complimenti, carissimo amico, un abbraccio all'anima... (Ninnj Di Stefano Busà, 24/03/2016).

FRAMMENTO Che bella la ghiandaia vaga tra i rami nel vento d'autunno. Si scorge il volo di uccelli che migrano seguendo rotte segrete, si perdono nell'infinita notte di questo tempo dove si adempie il volere di Dio. Adriana Mondo

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trepidante trabocca riempite le calze, né il piacere della mano sulle rade piume dei piccioni nel nido che aspettano il becco della mamma con le fave ingoiate. Le strade hanno perso i ciottoli che sanno la pianta dei piedi, nelle discese testoline lustre dopo la pioggia violenta. Non arriva più la locomotiva di una volta attraversando i lunghi piani e le alte montagne, i binari uniscono solo le città ove mescolati sempre in mezzo nell’unico luogo frastornati si vive: né si viene più da lontano a rivedere le case basse dell’uomo su misura del suo respiro. Leonardo Selvaggi Torino

Reano, TO

VITA EFFIMERA MA INTENSA NEI CALANCHI Sarà franato nei calanchi o morto sotto le pareti spaccate delle case abbandonate, non riconosco più il mio paese. I tetti rialzati e l’asfalto hanno sfigurato il vecchio aspetto; la pennellata di vernice dando una sola copertura non lascia vedere ormai il secco muschio sugli embrici né le ossificate pezze di malta grigia. Non torno perché hanno squartato l’asino e buttato i suoi fianchi ai corvi; l’orecchio lungo distaccato, ultima suppellettile fra le cose rifiutate, invase da mosche al sole con odore di marcio salato. Un cumulo di stracci schizzati di calce fresca hanno ammonticchiato ripulendo la casa rintonacata. Non più la pelle nodosa delle fanciulle che affiora furtiva dalla lana di pecora

Quando morirò, neppure un fiore sopra la mia bara. Lasciate che queste rugiadose e splendide creature della terra vivano la loro vita effimera, ma intensa come la preghiera fatta d’un sol palpito potente, il primo e l’ultimo del cuore. Domenico Defelice VIE EPHEMERE MAIS INTENSE Quand je mourrai, pas même une fleur sur mon cercueil. Laissez que ces créatures de la terre emperlées de rosée et splendides vivent leur vie éphémère, mais intense comme la prière faite d’un seul palpitement puissant, le premier et le dernier du coeur. Domenico Defelice Traduction de Béatrice Gaudy


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CARLO DI LIETO LA DONNA E IL MARE Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò di Tito Cauchi

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ARLO Di Lieto è napoletano, docente di Letteratura Italiana presso l’ Università di Napoli, “Suor Orsola Benincasa”, collaboratore di riviste, critico letterario, autore di saggi in chiave psicoanalitica, come lo è il saggio dedicato a un personaggio calabrese: La donna e il mare, Gli archetipo della scrittura di Corrado Calabrò. Il volume contiene undici illustrazioni; è strutturato per la metà con il saggio vero e proprio, articolato in tre capitoli, sugli Archetipi di cui al titolo; l’altra metà comprende una Antologia poetica ; il saggio Il poeta alla griglia; un estratto del romanzo Ricorda di dimenticarla; un’ Intervista; infine le bio-bibliografiche e indice dei nomi. Ciascuna di queste sezioni meriterebbe una trattazione a parte.

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L’introduzione mi pare da sola, esauriente, almeno per entrare nel cuore del tema. Nel corso del testo ci sono variazioni tematiche, perciò penso che sarebbe stato utile staccarne porzioni con sottoparagrafi o con righi bianchi. Ricalcherò le orme dell’Autore. Egli richiama l’attenzione evidenziando con il corsivo alcune parole chiavi. Tuttavia quando queste parole tappezzano intere pagine fanno allentare l’assimilazione delle stesse; e la ridondanza, in parte viene in soccorso e in par te, credo, che svii. Data la complessità, avverto di mie possibili cattive interpretazioni. L’Autore apre con un’espressione che lascia bene sperare: “La ‘scrittura’ di Corrado Calabrò merita un’analisi concentrica, attraverso l’esegesi psicoanalitica; discussa e analizzata dalla critica militante, nell’arco di oltre un cinquantennio (1960-2014), è stata esaminata nei suoi valori formali ed espressivi, ma non è stata sufficientemente valorizzata nelle sue forti peculiarità psicologiche.” Calabrò amareggiato della realtà, la carica di emozioni e di illusioni, in una scrittura dove le parole sono spogliate del loro significato letterale per assumerne altri, staccato dalla temporalità e dalla precarietà dell’esistenza e trasportarsi altrove. Un’esistenza illimite in cui il ricordo crea dei doppi come alterego dell’altro da sé in una replica di movimenti concentrici, che si rivestono nei due archetipi della scrittura: la donna e il mare. L’io trasloca dal principio di realtà, rifugiandosi nel principio di piacere. Nella molteplicità delle forme sono evidenti risonanze pirandelliane e antinomie. L’autore spiega il suo interesse verso il poeta Calabrò ricordando che anche André Gide ha voluto ricordare un contemporaneo come Marcel Proust, il primo dei quali si giustificava in questa maniera: “mi affliggerebbe non lasciare nei miei scritti alcuna traccia”; e Oliver Sacks afferma che la scrittura dà “una gioia che non assomiglia a nessun’altra”. Corrado Calabrò è nato a Reggio Calabria nel 1935, vasta è la sua produzione letteraria, parte della quale è stata trasposta in musica classica (come il poemetto Il vento di Myco-


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nos) e presentata in spettacoli in Italia e all’ estero; ha conciliato gli incarichi di magistrato con la sua scrittura creativa riscuotendo successi e riconoscimenti (quattro o cinque lauree honoris causa, Università straniere). Questa duplice attività l’ha naturalmente condotto alla dualità corporeo-incorporeo, materiale-spirituale, senso di inappartenenza, alla ricerca dell’illimite, dell’infinito, dell’ oltre; è come la citazione di Senofonte che “delinea questa vacillante chiave di lettura del destino umano: ‘Ora siamo trasportati come i naviganti’ (…)” che non possiedono né il tratto lasciato dalla scia, né quello da solcare. Carlo Di Lieto sostiene che nel mondo interiore del nostro poeta, si sovrappongano le immagini delle grandi calamità naturali, come il terremoto di Messina del 1908, l’eruzione del Vesuvio descritta da Plinio, e tante altre; gli oracoli attesi e interpretati dai poeti; mentre oggi ci affidiamo ai media televisivi. Il Poeta si pone crocevia fra questi due mondi, il moderno e il classico, cercando una realtà in cui collocare il suo topos interiore, in un nostos inconscio (viaggio di ritorno), smarrendo la sua identità e ritrovandola nell’altro da sé, nel rimedio dell’amore nella donna o nell’altra da sé. Tutto il rimosso vive autonomamente nell’inconscio, che è la vera realtà. Quel residuo di coscienza che affiora sottrae in qualche modo da insidiose attrattive di “interiorizzazione mistica”. Da quanto precede emerge la poetica del Calabrò, dell’invisibile, come “la voce del mare e della presenza muliebre”, della caducità e del non-detto, è l’approdo del navigante che Carlo Di Lieto chiama la Quinta dimensione. Nelle ellissi del non detto si celano verità a volte inconfessabili, o che comunque si vogliano oscurare per pudore. Tutto affiora: l’infanzia, i desideri repressi, la forza dell’ eros; tutto diventa un avantesto che prepotentemente non può tacere, e il poeta lo scrive, filtrato attraverso il proprio linguaggio, con il suo carico di vissuto e con l’imprendibile fantasma. Il non detto, avanza nella vera poesia, a detta di Nietzsche. Nel caso specifico dell’ amore, esso è nella doppia sponda dell’ eroti-

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co sensuale e del tenero sentimentale, in una sorta di conflittuale confronto, nel “coagulo multiforme dell’emozione che sostiene il pensiero di Ignacio Matte Blanco”; questo psicoanalista cileno prende in esame la formulazione dell’inconscio freudiano, secondo la logica aristotelica, giungendo ad una logica simmetrica detta bi-logica (così mi pare di comprendere). La scrittura si pone come mezzo salvifico, la donna è mutevole come il mare celebrato da Rimbaud e da ciò scaturisce il sogno, che addolcisce i languori dell’estasi. Nei tre stati dell’inconscio (Io, Es, Super-io) avviene un sommovimento circolare in continua evoluzione, il transfert, il trascolorare, l’onirico ove trova forma il tu, l’altra persona. Un fantasmagorico scenario di illusioni e finzioni, concomitanti e confliggenti, che conduce sempre ai due archetipi di donna e di mare, entrambi insiemi infiniti, come simulacri, non meglio circoscrivibili, elementi di separazione tra il dentro e il fuori o di frontiera che ben ha individuato Cartesio. La relazione tra questi due impulsi, amore e colpa, è stata studiata da Melanie Klein; la componente ludica ha la funzione di alleggerire la tensione emotiva. Ecco la riconferma di come l’amore si correli con il mare, “entrambi ispirano espansione indefinita e serenità, ma anche turbamento e paura.” Il transfert nell’altro, nella condizione visionaria, nell’attitudine di Calabrò, è alla base un sentimento libidico concentrato nell’io poetico. Sandro Gros-Pietro giudica il mare della Calabria del Poeta, come fonte di vita, come la Beatrice dantesca o la Laura petrarchesca. Cristina Campo afferma che la sua è poesia


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che denuda, che si è fatta carne vivente. Corrado Calabrò ha conciliato le sue diverse passioni artistiche, i suoi interessi culturali e professionali; in quanto allo stile attraversa molteplici versanti del canto, ora da menestrello, da giullare, “dalla poesia provenzale e da quella siciliana all’antologia del negativo di Montale o all’eco pessimistica di Leopardi”. Vigila in continua autoanalisi, sincera e spregiudicata; modula i suoi versi in modo “sinuoso, fra endecasillabo, settenari ed enjambements”, facendo dell’amore il filo d’Arianna. Ha preferito seguire le ragioni del cuore, non curarsi “dell’eleganza formale di un D’Annunzio o la tenerezza elegiaca di un Cardarelli.” (pag. 47). Il poeta a volte appare antinomico ed altre volte dentro il paradosso; ecco perciò la necessità di una lettura sotto lente d’ ingrandimento dell’inconscio che naturalmente sfugge ad ogni logica razionale per assumere una dimensione bi-logica o bivalente se non multivalente, “ricompone la sintesi hegeliana in un’ottica simmetrica” (pag. 51) ed anche non simmetrica, rimuovendo il principio di noncontraddizione o entrandoci dentro. Insomma riscontriamo una visione cosmica: la malinconia del Tasso e del Leopardi, di Hölderlin e di Rilke, la freschezza del ‘fanciullino’ pascoliano; forse, più semplicemente, direi che possiamo collocare il Calabrò, nel Realismo lirico di cui è fondatore Aldo Capasso. Carlo Di Lieto offre un originale approccio di analisi di un testo: usa un linguaggio specifico da par suo e inoltre attinge in altre discipline, per es. chimica e fisica (isotopi, isteresi), che richiedono sforzi di comprensione non indifferenti. Suggerisce di seguire tracce della memoria e pulsioni del cuore; si sofferma sulla querelle critico-letteraria, nata tra Domenico Rea e Pietro Cimatti; fa appello allo psicanalista e psichiatra argentino Salomon Resnik, alla funzione liberatoria della poesia e alla sua urgenza. Usa sovente paragoni con personaggi della classicità (i viaggi di Ulisse), cita una miriade di poeti e scrittori, psicoanalisti di tutti tempi, metafore ossessive, frasi in latino, in francese, qualche parola scritta di-

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rettamente in greco, l’Apeiron e l’Aleph di Borges, la psicocritica di Charles Mauron. Infine risolve con il giudizio: “Corrado Calabrò sa essere anche un attento esegeta della propria poesia; questa sua capacità lo pone in condizione di ridefinirla, di volta in volta, criticamente, senza alcun compiacimento o indulgenza.” (pag. 91). CORRADO CALABRÒ e la poetica del non-detto La seconda metà del libro La donna e il mare, Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò, di Carlo Di Lieto, comprende: del Calabrò, un’ Antologia poetica; il saggio Il poeta alla griglia; l’estratto del romanzo Ricorda di dimenticarla. E del Di Lieto un’ Intervista, al Calabrò. Ciascuna di queste parti meriterebbe un discorso a sé; ma andremmo lontani. Indico, fin da adesso, la presenza di dotte citazioni e quella della donna, che giudico ossessiva; in pari modo dico, che se la crisi della parola ha fatto scoprire il valore del silenzio e della comunicazione attraverso il non detto, nondimeno il Poeta, mi sembra, eccessivamente fecondo di parole. Mi limito ad uno svolazzo (mi si consenta la parola). Antologia poetica, di una 30-na di pagine, comprendente circa 40 componimenti, da un solo verso a fitte pagine. Vagamente echeggia dei versi di Dante alla sua Beatrice “Ma tu t’ en vai/ come se quella lode/ non fosse a te rivolta/ o meritata/ e scarrocci/ con una piroetta al semaforo.” (pag. 135). Ricorrono riferimenti a personaggi (p. es. Einstein, Stephen Hawking), parole greche (che riporto traslitterati, come amenos), spagnole, latine, qualche richiamo di chimica, miti classici. Vengono evocati la Calabria, regione di Corrado Calabrò, il suo mare in cui ha potuto nuotare fin dall’infanzia, Messina che gli sta a specchio, località varie, anche altre città del pianeta e d’ oltreoceano. Si rivolge alla natura verdeggiante (fiori) ed equorea (mare), siderale (luna) e meteorologica. Ma si avverte il tema della donna nelle sue varianti amorose, fin quando “Passata quell’età, l’amore è un rischio/ infido quanto più ne ragioniamo. […]


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La cosa più penosa è far le mosse/ sulla battigia, invece di nuotare.” (153). Direi che c’è il senso della dimenticanza e la voglia di ricordare. Mi pare di avvertire un mancamento e un senso di solitudine che ad ogni costo si vorrebbe colmare: “È come una barca senza chiglia/ una casa in cui manca la mamma.” (163). Il poeta alla griglia, saggio di circa 40 pagine. Parte da lontano, “In principio fu il verbo”, per commentare come dalla conquista delle parole su cui si basa la società, si è passati alla moltiplicazione delle stesse e nel contempo alla loro deprivazione di significato, determinando confusione e incomprensione. Disamina critica che riguarda l’essere o non essere poeta o poetante. Qui Corrado Calabrò disapprova le cordate che conferiscono la patente di poeta secondo alcuni parametri che rispettino quella che chiama griglia, venendo a creare circoli esoterici e cenacoli autoreferenziali. Si è o non si è poeti. Sostiene che il poeta è sempre alla ricerca di quella parola nuova che dica l’indicibile, senza perdersi nell’intellettualismo, commentando che “Una grammatica letteraria cerebralmente imposta come griglia fa nascere la poesia morta” (pag. 177). Cita alcuni compositori come per es. Beethoven per avvalorare il giusto accordo; Chopin per sostenere la presenza di un pensiero latente. E poeti come Goethe che diceva della necessità del terragno, delle cose della vita e della visionarietà; e come diceva Arthur Rimbaud, il poeta è un altro da se stesso, “assiste al nascere della poesia”. Calabrò, perciò, invita all’incontro con l’altra faccia della parola: il silenzio, per avanzare velatamente e proteiforme. Ricorda di dimenticarla, l’estratto è di quasi 20 pagine, di un romanzo che ci porta alla Roma bene di quaranta-cinquant’anni fa; quartieri di Casalpalocco e Parioli; e di altre località. Con un bel periodare assistiamo a vicende di ordinaria amicizia fra giovani coppie, quindi a matrimoni e divorzi, sentimenti d’amore e di gelosia, illusioni e delusioni. Ritroviamo tutta l’interiorità che gira intorno al protagonista, Alceo, alterego del suo autore,

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Corrado Calabrò; e quindi scopriamo quanto rilevato dal Di Lieto, per es. l’altro sé, e secondo il Critico “traspare la personalità egotica, fallico-narcisistica dei personaggi” (pag. 118). L’Intervista di circa 30 pagine, è a cura di Carlo Di Lieto. Apprendiamo della biografia del poeta calabrese: famiglia benestante, tanto studio ma anche montagna e mare, caccia e pesca, e tanto nuoto fin dall’infanzia. Racconta che al confronto della sorella che aveva conseguito la maturità all’età di sedici anni e del fratello che l’aveva conseguita a diciassette anni, lui che l’aveva conseguita solo a diciotto anni, veniva considerato “il ritardato della famiglia” benché avesse la media dell’ otto. Inutile aggiungere che troviamo molto spazio dedicato all’autoanalisi. Tito Cauchi CARLO DI LIETO, LA DONNA E IL MARE, Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò, Roberto Villardi Editore, Oreno di Vimercate (MB) 2016, Pagg. 256, € 12,00

Chi crede che nell’orto del poeta crescano erbe rare, fiori variopinti, alberi tropicali ; chi crede che vi scorrano acque fresche e vi cantino uccelli, non conosce il poeta. Nell’orto del poeta crescono spine, fiori avvelenati e gli alberi proiettano ombre inquiete; nell’orto del poeta scorre il sangue della gente affamata e l’unica voce è l’urlo della rivolta. Domenico Defelice Qui croit que dans le jardin du poète croissent des herbes rares, des fleurs multicolores, des arbres tropicaux; qui croit qu’y coulent des eaux fraîches et qu’y chantent les oiseaux, ne connaît pas le poète. Dans le jardin du poète croissent des épines, des fleurs empoisonnées et les arbres projettent des ombres inquiètes ; dans le jardin du poète coule le sang des gens affamés et l’unique voix est le hurlement de la révolte. Domenico Defelice Traduction de Béatrice Gaudy


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Il Racconto

TALAYOTS di Anna Vincitorio

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N pomeriggio di sole mi trovo viandante in Minorca, la più orientale delle isole Baleari - Riserva della Biosfera - Unesco 1993. Isola definita impropriamente piatta ma non è esatto; è formata da due zone geologicamente molto diverse: tramontana a nord con rocce frastagliate in aggetto sul mediterraneo; a sud, invece, sono presenti rilievi moderati e profondi calanchi. Un largo anche se accidentato sentiero a forma di anello - il cammino dei cavalli - circonscrive l’intera isola. L’occhio spazia su ampie zone brulle disseminate di olivastri, abbacinato dai colori cangianti del mediterraneo che si allungano in scie luminescenti. Mucche pezzate pascolano in campi brulli disseminati di ciuffi d’erba giallastri. La terra, in alcuni punti, presenta una componente ferrigna che contamina a volte il colore dell’acqua. L’isola è di origine calcarea e s’incontrano suggestive cava (Cava Ponça) da cui si estrae il marés, pietra ocra presente nell’isola. Minorca ha origini remote e il suo tempo attraversato da civiltà diverse ne accentua il mistero. Si parla di civiltà talaiotica (più precisamente, pretalaiotica corrispondente all’età del ferro, talaiotica - 2100 - 800 AC e post talaiotica, 500 - 250 AC). L’isola è definita “un museo all’aria aperta”. Non c’è traccia di scrittura; si tramandano congetture spesso fantastiche e dilatate dal tempo. L’isola, si dice, fosse abitata da giganti esperti nel lancio della fune e della fionda frombolieri -. Si racconta che due giganti in lizza per la medesima donna, si sfidarono nella costruzione di una naveta (tomba). Il vincitore fu subdolamente ucciso dall’altro gigante che, con un colpo di fionda, lo precipitò in un pozzo. Poi gli mozzò la testa. Disseminate in spazi deserti, torri di avvistamento - talayots -. Le - navetas -, invece

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sono grandi tombe a forma di nave rovesciata formata da grossi blocchi di pietra. La più famosa è la Naveta des Tudons - 1100 - 800 A. C. Monumento funebre, una sola apertura al centro in basso di piccole dimensioni. Il sole del tramonto l’accende. Torreggia nel nulla tra spiazzi terrosi. I morti, avvolti in bende, erano adagiati sul piano inferiore della naveta. Al piano superiore venivano conservate solo le teste recise. Parlano i silenzi nella ricerca di tracce nei poco battuti sentieri; poi, all’improvviso, suggestivi resti di villaggi - Torrella Fuda, Son Cothar). Pietre megalitiche, colonne con grossi blocchi soprammessi a sostegno della copertura di cisterne; nelle vicinanze, tombe del periodo romano e, al colmo della suggestione, si staglia nell’azzurro una Taula (dimensione più di tre metri), composta da due enormi pietre una sopra l’altra a forma di T Torre troncada, Taula di Torralba d’en Salort - Là avvenivano cerimonie religiose e sacrifici di animali giovani (si è desunto dai residui ossei). Pietre poste in circolo possono in parte indicare la forma dell’edificio. La sacralità del luogo è accresciuta dal silenzio e dall’assenza di persone. Ci si raccoglie immaginando scene di un tempo remoto di caccia, di riti e forse di sangue. Ma l’isola è soprattutto acqua: allacciata dal mare in un abbraccio equoreo e ventoso in giochi di luce con riflessi turchesi (Cala Turqueta) o cerchiati d’oro (Cala Cavalleria). Piccoli battelli falciano i flutti; si avvistano torri, case rosse costruite dagli Inglesi, fortezze, qualche mulino a vento. Il paesaggio è mutevole. Sotto un sole abbacinante si scendono più di cento gradini per raggiungere Cova d’on Xoroi, rifugio del pirata; vertigine incontrollata di rocce accese dal sole che s’inabissano in un mare del quale non si vede il fondo. L’occhio si allunga su distese blu punteggiate d’oro. E ancora: Maon in festa per la corsa dei cavalli; tracce liberty nei bow window, al mercato del pesce, s’impongono all’occhio ancora cieco di sole. Poi Ciutadella, i suoi portici,


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la cattedrale di stile gotico catalano con successive tracce barocche; il Convento di S. Augusto, la chiesa del Roser divenuta sala di Esposizioni. Lì, composto in una bacheca di cristallo - IMHOTEP - dio egizio della medicina - 1600 AC - ritrovato a Minorca. Solo terzo esempio nel mondo. Lo avvolge il mistero della sua presenza sull’isola lontana da qualsiasi rotta egizia. Lo osservo affascinata e cerco risposte. È immobile in un oltre che non posso penetrare. Mi domando: “Perché si viaggia? Sfuggire a qualcosa che ci consuma, cercare un approdo anche se effimero”? Forse solo quiete e qualcosa da ricordare. Mi trovo in un Club: palme, piscine, persone, tante. Animazione. È troppo per le mie orecchie. Il brusio si accentua all’ora della cena. Anche il vitto può essere un rifugio per fugare le ansie. Osservo un tavolo riservato vicino al mio; una famiglia con una ragazza con la spina bifida in sedia a rotelle. Quanta forza in quel corpo straziato! Cerco di non guardare. Si avvicina il gruppo degli animatori. Tutti giovanissimi: una ragazza mulatta, una bionda, un siciliano e un ragazzo molto alto, magro con una paglietta sulla testa. Mi chiede il permesso e si siede al mio tavolo; probabilmente deve intrattenere signore sole. È carino però. Sorride con la bocca, non con gli occhi. La conversazione cade sul personale; mi mostra il suo phone; appare l’ immagine di un viso giovane enorme. “Ero io”, mi dice con un mezzo sorriso. La separazione e il divorzio dei genitori lo aveva portato ad eccessi alimentari. Ha superato l’impasse. È un ragazzo moderno - vari tatuaggi sul corpo ma dentro? Mesi di forzata letizia e intrattenimento. La ferita si rimarginerà? Mi sento anch’io responsabile in quanto genitore, però butto il discorso sullo scherzo. Lui ammicca, poi si allontana veloce verso una qualche ragazza. Il suo nome: Mattia. Non posso scordarti, dolce e forse ancora indifeso ragazzo. Tra poco inizierà il cabaret. Non ne ho voglia. Mi avvio verso la caletta smeraldo e affondo i piedi nella sabbia umida. Anna Vincitorio

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LA CHITARRA DI BENIAMINO di Antonio Visconte

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GNI anno, il 1° settembre, il mio paese San Prisco, in provincia di Caserta, festeggia i suoi patroni, San Prisco e Santa Matrona. Il giorno prima vengono portati in processione e il giorno dopo, sul piazzale della chiesa madre, gremito di gente, si svolge il consueto concertino. Venne invitato ad esibirsi un giovane universitario, persona di cultura e grande genio. Simile a Mozart, all’età di cinque anni già si dilettava sul pianoforte, da solo poi imparò a suonare la chitarra, uno strumento comodo a trasportare in ogni occasione. Cimentandosi in canzoni napoletane, italiane, inglesi e brasiliane, per ben due ore, con il suo eccezionale talento, Beniamino mandò il pubblico in visibilio, passò poi alle imitazioni e alle barzellette, senza nulla togliere ai validi protagonisti del passato. Al termine del laborioso repertorio, si avvicinò Franchino, presidente del Comitato, gli strinse la mano, si congratulò con lui e in segno di dileggio gl’infilò in tasca un biglietto da cinquanta e un altro da diecimila lire, volendo significare con quel gesto che lui valeva meno della somma ricevuta. La folla diventava più fitta e l’attesa si faceva spasmodica. Un frastuono lontano annunziava l’arrivo del pezzo forte della serata. Il noto cantante televisivo salì sul palco, scimmiottò tre filastrocche a modo suo, che lasciarono i i sanprischesi indifferenti e stava per andare via, mentre scoccava la mezzanotte. Franchino lo ringraziò per l’onore ricevuto, nonostante i pressanti impegni in quella particolare stagione e gli consegnò un assegno di quaranta milioni di lire! Beniamino rimase di sasso, finanche le lacrime si raggelarono sul volto straziato. Non era un ragazzo venale, però da quel confronto appariva chiaro e tondo che lui non valeva proprio niente. “Non te la prendere”, gli suggeriva don Bat-


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tista, il savio arciprete della chiesa madre, “la fortuna non guarda i meriti, i più grandi geni sono morti di fame. Il successo rappresenta un fatto occasionale, ciò che conta è il regno di Dio. Hai visto cosa succede durante un temporale? Le foglie che capitano dentro la tromba d’aria, volano in alto, le altre rimangono a terra”. “Nel frattempo”, interruppe Laluccia la sagrestana, che leggeva “Sorrisi e Canzoni”, “pensiamo al regno degli uomini e a te non ti manca niente per cogliere il successo, non sei inferiore a nessuno. Prendi la chitarra a vai a Roma, a via Veneto, in un locale che si chiama - Il Paiper- e lì troverai la chiave dell’orto, il portentoso manager che ti lancerà a livello nazionale. Patti Pravo partì dalla sua casetta umile e negletta e nel Paiper accese la fiamma del suo splendore. Dopo due mesi il direttore lo convocò in disparte e gli confidò: “Ragazzo amabile, perché ci vuoi lasciare, non ti aggrada un nuovo contratto? Lo devo a te, se il locale non ha chiuso ancora i battenti, i tempi cambiano, il centro storico è morto, i giovani vogliono correre con macchine e telefonini”. Beniamino non rispose e il direttore con la sua consumata esperienza capì che il giovane andava in cerca di notorietà, poiché gli stessi soldi li avrebbe guadagnato ugualmente, restando comodamente a casa sua e lo lasciò partire. Roma non compare una città notturna e il ragazzone contemplava gli unici personaggi della notte, le belle statue sopra le fontane di piazza Navona, mentre si avvicinavano due americani ubriachi e gl’intimavano di cantare. “Non posso cantare a quest’ora, la legge lo vieta”. “Nessuna legge lo vieta”, gridò il forsennato e inferocito gli strappò la chitarra dall’ astuccio e gliela suonò in testa. Beniamino rimase frastornato, non gli venne neanche la voglia di piangere. Giunsero i poliziotti, gli sequestrarono l’ arma del reato, lo caricarono dentro la volante e via di corsa verso la caserma.

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“Figlio di troia”, borbottavano gli agenti, “per una manciata di spiccioli vieni qui a fare casino, non basta il lavoro che già ci tocca”. Di buon mattino entrò il commissario, nostro benemerito concittadino e gli comunicò: “Caro Beniamino, ti volevano denunciare per schiamazzo notturno, ma io ti ho fatto restituire la chitarra. Appena arrivi a casa, appendila tra i ferri vecchi e riprendi gli studi.” Beniamino accolse il suggerimento, si laureò presso l’Università Federico II di Napoli e divenne un ottimo ingegnere navale, la professione da sempre sognata. Antonio Visconte

UN’ARTISTA DEL NOSTRO TEMPO:

SERENA CAVALLINI qui sotto: Nel bosco (incisione)


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I POETI E LA NATURA - 62 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

Leopardi e la Natura “matrigna”. Anche il “Colle dell'Infinito” lesionato dal terremoto

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no dei fini principali di questa Rubrica mensile, iniziata nel 2011, è sempre stato quello di esaminare, di volta in volta, il rapporto fra l'opera di un determinato Poeta e la Natura. Anche se nei limiti di spazio e di impostazione di una rivista letteraria con un grande numero di collaboratori e di lettori dai più disparati interessi culturali. A proposito di Giacomo Leopardi non vi è chi

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non ricordi che il rapporto del Poeta con la Natura è stato eminentemente conflittuale e sofferto. Da una parte egli amava e ammirava la Natura, e si attendeva moltissimo da essa. Dall'altra, non perdeva occasione per rimproverarla aspramente perché... inganna i figli suoi, promettendo loro quello che poi non mantiene. Non v'è dubbio che la bellezza e la profondità del più famoso e suggestivo degli Idilli hanno data fama e lustro ai cosiddetti “luoghi leopardiani” (Recanati, il Palazzo dell'attuale conte, Vanni Leopardi, che sembra reggere al terremoto), la casa di Silvia, il cosiddetto Colle dell'Infinito dove si conserva l'autografo di tale celebre Idillio, etc.). Ma è altrettanto vero che la fortissima scossa delle 7,40 del 30 ottobre 2016, di magnitudo 6.5 ha arrecato seri danni materiali e “spirituali” all' ermo colle (una profonda fessura, che si spera non irreversibile), secondo quanto si è affrettato a porre in risalto il sindaco di Recanati Francesco Fiordomo, con immediati comunicati all' Ansa e conferenze-stampa, manifestando angoscia e preoccupazione per le conseguenze negative, dovute allo “scivolamento a valle per grave debolezza idrogeologica”, che possono abbattersi sul mondo culturale e turistico “leopardiano” (su cui convergono milioni di turisti) per questa crepa apertasi nel muraglione che circonda il luogo. (Senza dimenticare, aggiungiamo noi, i gravissimi danni causati dal sisma alla popolazione delle altre zone colpite nel Centro-Italia, nonché le altre numerosissime ferite al sistema religiosoartistico-culturale). Addirittura Il Messaggero del 31 ottobre parla di un duro colpo a quelli che furono i posti dell'anima di Leopardi... aprendo una profonda crepa nell'identità italiana, il sempre caro ermo Colle, che ha subìto profondi danni...” La Natura non sembra, comunque, essere un'amica o un'alleata del Poeta Leopardi. Neanche dopo la sua morte. E' da dimostrare peraltro che essa lo sia in generale, o che addirittura lo debba essere, per l'Uomo. Che dal suo canto ha danneggiato molto la Natura, negli ultimi tempi. O piut-


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tosto che essa non sia del tutto indipendente dall'Uomo, e che segua leggi del tutto proprie o comunque in sintonia con quelle – misteriose – dell'Universo. E' l'intera concezione del Cosmo che qui viene in ballo, a seconda che si opti per una cosmogonia creazionista e teleologica, o per una cosmogonia atea, o agnostica, e senza fini e scopi necessitati. Quanto al Poeta, egli l'amava, quella sua Natura, anche se gli dava poca gioia. Ed è da quella Natura che egli spiccava il volo con la fantasia verso gli abissi dell'Infinito, sollevandosi al di sopra, e al di fuori, delle miserie quotidiane: “ Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo. Potenza assoluta della Poesia. Luigi De Rosa

UN’ARTISTA DEL NOSTRO TEMPO:

SERENA CAVALLINI qui sotto: Santa Maria di Monteluce (incisione)

Recensioni ISABELLA MICHELA AFFINITO IL MISTERO DICKINSON Seconda edizione aggiornata, Carta e Penna Editore, Torino 2015, Pagg. 88, €10,00 Isabella Michela Affinito, poetessa nativa di Fiuggi (1967, in provincia di Frosinone), scrittrice di fine sensibilità e di gusto artistico che vuole lasciare la propria impronta come fa con tutti i suoi libri e così con questo, dal titolo Il mistero Dickinson, dove ha voluto proporre in copertina ritratto, l’ unico che si conosca, di Emily Dickinson. In apertura abbiamo brevi cenni critici, prefazione. Seguono trascrizione di alcune liriche della Dickinson commentate e la sezione di poesie ispirate alla poetessa americana; infine una intervista immaginaria oltre a riferimenti bibliografici. Per mia conoscenza, questa seconda edizione, che segue quella del 2005, è integrata da numerose composizioni di Emily Dickinson prese in esame e da altre dell’Affinito ispiratele come sorta di dialogo con la poetessa americana, oltre che da una sua recensione e da una intervista. Il libro, dedicato a Marco per averla invogliata a scrivere, merita di essere letto autonomamente perché offre nuova luce. Perciò torno a vergare rinnovata riflessione che si aggiunge alla mia precedente (Pomezia-Notizie, giugno 2005). Nei Cenni critici si conferma quanto sia vitale scrivere e il desiderio di eternità riservato alle anime leggere (come la definisce Carmine Manzi); in Affinito c’è sempre qualcosa in più da apprendere (così assicura Antonia Izzi Rufo). E nella prefazione, scritta in terza persona, e nel breve saggio che


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segue, l’Autrice dichiara di immedesimarsi nella poetessa americana, che ha scelto di essere sposa e ancella della letteratura, musa di un Olimpo tutto suo, creato nella grande villa di famiglia. Famiglia che era di tradizione forense (avvocati) con nonno, padre e fratello, Austin (1829-1895) che sposò Susan Gilbert. Emily Dickinson ha vissuto perlopiù in casa, lontana dagli sguardi e guardando al mondo dalla sua finestra (1830-1886, Amherst, cittadina di tremila abitanti nel Massachusetts, morì per una forma di nefrite, aveva lo stesso nome della madre). Intensa la sua attività epistolare raggiungendo circa mille lettere e alcune migliaia di poesie che non pubblicò, ma che in seguito furono scoperte e rese note dalla sorella minore Lavinia. Visse nascosta alla vista dei suoi concittadini, ma nei suoi salotti intratteneva dialoghi con intellettuali dalle menti evolute trattando ogni genere, ma sembra che non ebbe occasione di leggere autori italiani. Ha privilegiato vestire di bianco, simbolo di purezza; senza posa alcuna fece della sua vita un modello unico che si contrappone all’ universale secondo una concezione di Soren Kierkegaard. Le poesie di Emily sono nate numerate e senza titolo, brevi e liberi da metrica e la nostra Isabella ne esamina e commenta venticinque, che sono le seguenti: 33, 221, 245, 258, 288, 318, 325, 341, 441, 448, 516, 536, 546, 605, 618, 657, 713, 726, 764, 802, 813, 850, 962, 1639, 1695. Veste, come seconda pelle, di bianco, “metafora di un lutto perenne”; la morte è richiamata dal colore violetto dell’ametista, pietra preziosa. La luce e i colori del cielo procurano “ambascia e stordimento dell’ animo”, ha voluto vivere nel silenzio lontana dal chiacchiericcio. La sua osservazione è dedicata sovente a creature insignificanti come gli insetti, ma questo non deve trarre in inganno, poiché in tal modo rivela “un’altra realtà”. La solitudine ha creato il climax adatto alla sua ricerca di infinito di “un mondo superiore”. Nel richiamo biblico del ritorno alla polvere lei percepisce l’aria che respiriamo impregnata di eternità. A differenza di Emily Dickinson, la nostra Isabella Michela Affinito usa una versificazione più estesa. Ovviamente il tu colloquiale è rivolto alla poetessa bianca o pallida o “poetessa eburnea”, come la definisce. L’incipit mi sembra assai significativo per comprendere la poetessa frusinate, poiché recita: “Anch’io ho chiuso/ una serratura, preannunziato/ una chiusura oltre la mia/ finestra non volevo più/ vedere le scenografie che/ preparava il mondo” ecc. (pag. 34, Immaginandomi Emily). Nelle sue descrizioni non manca di mostrare la sua pas-

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sione pittorica descrivendo, per esempio, “fiori cascanti degli aggrovigliati/ cespugli che solo Monet/ sapeva districare.” (pag. 39). Originale ed apprezzato è l’esperimento che opera con alcuni componimenti (tre ispirati dalle 176, 598, 467 e due ispirati dalle 1078 e 12) in cui sono presenti le due voci, distinte nella grafica, Emily (carattere normale, nella voce di: violetta, farfalla, calabrone, fiorellino, uccelli, tombe, morte, onda, ecc.) e Isabella (carattere corsivo) che le dà rinforzo. Una sorta di liaison e di marcata identificazione: “Ti scrivo Emily perché/ non ci siamo mai incontrate,/ eppure abbiamo/ avuto la stessa musa/ come madre, tu vestivi di/ nuvole, io della tua cenere” (pag. 48) specialmente quando soggiunge chiaramente che sta diventando “come Emily di spalle.” La recensione riportata al libro di Maria Giulia Baiocchi, “Nel bianco respiro di Emily” (pubblicata su Pomezia-Notizie novembre 2004), riguarda una intervista immaginaria alla poetessa americana, in tal modo fa da premessa all’intervista immaginaria dell’Affinito. L’intervista si articola in ventidue domande e risposte, e occupa dieci pagine. Di essa annotiamo alcune notizie biografiche, come la foto che la ritrae in copertina all’età sotto i vent’anni; come ebbe forse un solo unico amore non conclusosi per opposizione dei parenti dell’aspirante sposo, il giudice Otis P. Lord (1812-1884); l’ immortalità, il viaggio dello spirito, il segno zodiacale del sagittario e l’accostamento al mitico Chirone (il cavallo-uomo); il bianco come incolore e come segno della propria immaterialità. I componimenti sono nati senza titoli perché lei non voleva farsi imprigionare. Isabella Michela Affinito si interroga sui pensieri che potevano accompagnare la poetessa americana e in effetti si percepisce una compenetrazione che sembra condurre ad una identificazione che, mi pare, sgomenti, come abbiamo visto e come ribadisce: “Io ed Emily,/ figlie della medesima/ musa, sorelle col/ medesimo destino” (pag. 59). Forse entrambe hanno razionalizzato la morte per scongiurarne la paura. Tito Cauchi

ANTONIA IZZI RUFO SENSAZIONI Il Croco/ Pomezia Notizie, Ottobre 2016, Pagg. 32 Antonia Izzi Rufo, nativa di Scapoli (Isernia) vive a Castelnuovo al Volturno, sempre nella stesso territorio; è di formazione pedagogista, e


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dopo la sua esperienza professionale, si dedica ancor di più alla passione letteraria, ricevendone riconoscimenti, come è nel caso della recente raccolta poetica, Sensazioni, risultata 1° Premio Città di Pomezia 2016. Domenico Defelice, indica nelle opere della Nostra l’amore per il suo paese, per i familiari, l’affetto verso persone che ha conosciuto: il tutto con misura. Così, la Poetessa, richiama l’attenzione sulla nostra migrazione interna, rivolgendosi al giovane (dal nome esotico) Yuky, con viva sua partecipazione per quanto riguarda la comparazione tra la grande città avvolta in una vita frenetica fatta di frastuoni e smog, e il paese che dava la sveglia con il canto del gallo. A questi pensieri si abbandona evocando la pace dei suoi luoghi, vivendo in armonia elevando un canto alla natura che la circonda, l’incanto del verde, delle piante, delle lucciole di notte e del cielo stellato. Le feste di paese, il Natale associato alla sua infanzia; la “neve baciata dal sole” sulle Mainarde, la vegetazione che si colora in modo variegato. La malinconia del borgo natio “ove muta giace/ e vuota la casa/ brulichio un tempo/ di sole e amore./ Emozione mi prende/ nostalgia d’affetti perduti…” (pag. 14). I puntini nel testo fanno presagire un tenero pianto interiore; non può essere diversamente. Mettersi all’ascolto degli elementi naturali: un ruscello, l’acqua che zampilla, il canto di uccelli, osservare virare i colori delle stagioni; tutto questo crea contrasto nel suo animo gentile che si tinge di viola e tuttavia risente la carezza del venticello fresco come un bacio delicato, risvegliando in lei sensazioni mai sopite. Antonia Izzi Rufo, nelle sue passeggiate fra quei luoghi, rivive momenti felici che si sono protratti per un sessantennio, sono queste cose che danno senso alla vita, che la portano in estasi. Vive in un corpo che si muove come su un palcoscenico rivestendo i ruoli che le stagioni della vita colorano sul viso, ma dichiara di essere “libera di fare ciò che voglio,/ di tornare me stessa/ spoglia di maschera,/ nudo lo spirito/ in sosta il pensiero;” (pag. 21). La poetessa molisana dimostra di gestire sentimenti ed emozioni tenendoli a freno, sì che le sensazioni che affiorano sulla pelle si diramano nel corpo come tante nervature che assomigliano a radici di una pianta ben solida o dai rami che tendono al cielo, in un abbraccio divino. Antonia attraversa quegli stati d’animo in un complesso psicologico che si tinge di vari colori; ma in effetti, in chiusura, il colore indicato è il grigio, con un richiamo alla speranza. Ed è così che vogliamo concludere. Tito Cauchi

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GIUSEPPE LEONE D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce Seconda edizione 2016, Pagg. 174, € 16,00 Giuseppe Leone, già docente di Lettere Classiche, ha al suo attivo la pubblicazione di alcuni saggi, come il presente su cui ci soffermeremo, D’in su la vetta della torre, Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce, esposto con dovizia di citazioni. Intanto avverte che questo volume segue l’edizione del 2015 aggiornandola di alcune correzioni e integrazioni, in particolare “il tema della ‘donna che non si trova’ e il rapporto che essi ebbero rispettivamente con Omero e Shakespeare”; integrazioni che troviamo alle pagg. 84-88 e alle pagg. 108-113. Lo scrivente si è già espresso sulla prima edizione (Pomezia-Notizie, gennaio 2016, pagg. 32/34), nondimeno fa alcuni richiami per una comprensione di insieme. Il titolo: D’in su la vetta della torre, è un verso tratto da Il passero solitario, e la torre stessa si riferisce alla Campanaria di Recanati su cui il Poeta immaginava essersi posato il passero, e a quella degli Asinelli di Bologna su cui l’Attore levava la sua voce recitante, lontano dalla vista degli spettatori in basso. Molte sono le analogie fra Giacomo Leopardi (Recanati 1798- Napoli 1837) e Carmelo Bene (Lecce 1937- Roma 2002), a cominciare da quelle biografiche: figli di famiglie facoltose, sei nomi di battesimo il Poeta, quattro l’Attore, cresciuti secondo i precetti religiosi fino a servire la messa; entrambi di salute malferma. Ostacolati dalle famiglie nelle loro scelte artistiche, il primo destinato alla carriera ecclesiastica, vestito da abatino e con la tonsura a 12 anni; mentre l’Attore, già affermato, sposa a 22 anni una donna di 6 anni più grande e viene fatto internare dalla famiglia in manicomio. Si sono mantenuti lontani dai salotti del potere e dalle correnti d’ogni genere. Leone mette a confronto, accomunandoli, il Poeta e l’Attore, in relazione a come intendevano la scrittura e l’oralità, il silenzio e la voce, volendo con ciò conferire la centralità della propria creazione: l’ intonazione della voce che si immagina durante la lettura silenziosa o l’intonazione della voce recitante anche se il soggetto non è visibile; e non il significato delle parole in sé. È la voce che si modula e che si fa personaggio. Entrambi rimangono chiusi nella propria interiorità, ma con tanta voglia di comunicare. Non sono mancati gli estimatori, ma sono stati osteggiati a lungo; è con Oreste del Buono


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e Goffredo Fofi che vengono riconosciuti grandi intellettuali, pur contrari all’intellettualismo e favorevoli a parole che producano la giusta sonorità. Ed eccoci alla “donna che non si trova”, che in Leopardi trova esito non nel “possesso del momento”, ma nell’attesa (così è per es. nel Sabato del villaggio, nella Quiete dopo la tempesta). Si rivolge alla donna in modo castigato, il suo è un “amore per l’amore”, come rileva Fubini; è il desiderio per la donna che non ha, come interpreto da Elisabetta Di Biagio. Aspetti, questi che richiamano la teoria del piacere di Pietro Verri (vedasi la donzelletta che vien dalla campagna). Mentre in Bene il “dongiovannismo ostentato”, in realtà, velerebbe l’assenza della donna, perfino nelle scene dove i ruoli femminili venivano ricoperti da maschi travestiti. Tanto che Giuseppe Leone conclude che risulta “in entrambi un sentimento di rimpianto”, una nostalgia. In quanto al “rapporto” dei nostri due grandi, con due capisaldi della poesia e del teatro, Omero e Shakespeare; Giacomo Leopardi, a detta di Citati, leggendo l’Iliade all’età di undici anni, non fu rapito dal canto aulico, che esaltava le gesta di eroi, quanto da alcuni versi (553-561) in cui i Troiani osservavano il silenzio delle cime, la gioia del pastore, l’assenza del vento; contemplavano il cielo stellato, la luna. Difatti il poeta recanatese canta gli spazi liberi dell’Infinito, la luna, il villaggio, il pastore, ecc. E Carmelo Bene, artista a tutto tondo, originale e autonomo, reinterpreta o revisiona, secondo una sua personale visione, il teatro. Egli si distacca dai modelli della tradizione, dai testi e dal teatro shakespeariano in particolare, nel senso che pone al centro dell’attenzione i personaggi secondari, come dire che dà voce a chi occupa gli ultimi posti, pone la visuale dai margini; primi attori diventano gli sfortunati, gli sconfitti, i più poveri. Già Deleuze osservava che l’artista salentino aveva “eliminato tutto ciò che fa potere” (il Re, i Principi, i Padroni). Entrambi pongono, nella centralità poetica, le cose più umili della natura e dell’umanità. Tito Cauchi

NICOLA LO BIANCO LAMENTO RAGIONATO SULLA TOMBA DI FALCONE Edizioni Di Girolamo e Coppola, Trapani 2010, Pagg. 96, S.i.p. Nicola Lo Bianco è nato e vive a Palermo, docente di lettere, pubblicista, ha ricevuto la stima di personalità autorevoli, tra cui i due nominativi che firmano gli interventi introduttivi al libro Lamento ragionato sulla tomba di Falcone. In copertina foto

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di Giovanni Falcone, una di quelle che hanno tappezzato l’Italia a perenne memoria. La prima sezione è quella eponima, è un poemetto, le altre due contengono dei racconti. Il tutto in forma di prosa in versi; le parti si articolano alcune volte in lasse numerate ed altre volte in episodi apparentemente indipendenti, ma di fatto si richiamano al tema della diversità, i titoli ne sono trasparente allusione. Nella nota introduttiva, intitolata “Poesia come linguaggio degli esclusi”, Cosimo Scordato definisce lo scritto “dirompente” come presa diretta, senza preordinamenti, per rendere il senso di calarsi nella realtà. Ne esalta il costrutto invitando ad evitare analisi letterali: sarebbe come vedere una partita di calcio a rallentatore, perderebbe lo spirito comunicativo, la spontaneità, la foga del protagonista che si sfoga dinanzi alla tomba del dott. F., il giudice che dava speranza, per la morte del figlio Beppuccio, ucciso per mano della mafia perché considerato “diverso”. Beppuccio e il dott. F. (così viene nominato) sono accomunati da una stessa sorte: l’ essere stati ammazzati. L’uomo “avrebbe voluto condividere la gioia di diventare nonno”. Maria Falcone, nella sua nota, “Giovanni Falcone simbolo di una città in cerca di giustizia”, definisce questo poemetto, una “emozionante preghiera” sulla tomba del magistrato fratello, sulla sua vita e la sua morte, “una speranza per il futuro, una presenza che continua a parlare, a dialogare con chi vuole aprire gli occhi.” Un pensionato, scopriremo chiamarsi Nenè, rivolge il suo Lamento ragionato sulla tomba di Falcone, iniziando così: “E siamo qua dott. F., che si dice? tutto a posto./ Come è passata la giornata? tutto bene./ Io non sono venuto ché s’è rotto il tubo di scarico/ (…)/ a fare i miei bisogni sono andato alla stazione centrale/ due euro quattromila lire, e se uno aveva la diarrea?”. L’uomo parla con naturalezza chiedendo giustizia, commentando che il lutto dura tre giorni, ma egli continuerà a sentire da presso la voce del figlio che lo reclama. Man mano si comprende in cosa consista la “diversità” del figlio che “si vende per strada ch’era un vizioso/ incallito di sesso e denari e forse pure dice di droga” e a meno di un anno la moglie raggiunge il figlio. L’uomo rivive la scena del ragazzo morto commentando che il rimedio contro il dolore è la verità. Il dialogo o meglio il monologo, si conclude con una nota colorita, dichiara di avere sottratto un fiore qua e uno là per deporli sulla tomba del dott. F., certo che i morti non se l’abbiano a male “ridono come bambini per far passare la notte giocano/ a nascondino giocano tutti a liberi tutti.” Altrove l’uomo dice di avere letto Stendhal, “Gentile signorina/ ora io le domando:/ siamo pa-


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droni del nostro corpo”? (pag. 46). Segue un breve Monologo dove denuncia la notorietà che si dà a criminali e malfattori, così considera: “Di Jack lo squartatore sappiamo tutto,/ degli squartati niente.” (49). Mentre in altre vesti, denuncia lo stato di clandestino, che vive di vergogna. Nicola Lo Bianco, nella altre due sezioni descrive scene che si svolgono in città. Egli dà voce a soggetti deboli della società. Così è per giovani abusati e derisi con l’epiteto di finocchio, come per La Femminella, per Sebastiano rinominato Cettina o Cetty, che da morto lamenta che sono pochi alla veglia; Mongiovi detto Maggy e Arturo sono arrivati in cielo prendendosi liberamente per mano. E ancora altri riquadri, come la morte di Cristofalo, la testa agitata di Isidoro. Tutto entro la cornice della parlata tipicamente palermitana, che riprende riferimenti al dottor Falcone, alle catacombe della nota chiesa dei Cappuccini a Palermo, c’è ancora molto da fare per realizzare la giustizia. Dinanzi al lettore si è aperto un sipario sul palcoscenico della vita, che sotto l’aspetto dell’ironia e delle espressioni popolari, per alleggerire il dramma e il peso dell’ ingiustizia, svela denunce, con amarezza, poiché: “la legge è come il gelato prima che arriva a casa squaglia”, se poi aggiungiamo la stupidità di alcuni dubitiamo di appartenere al genere umano. Tito Cauchi

AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE Edizioni EVA, 2016 Ancora una tesi di laurea dedicata all’opera di Domenico Defelice, segno che in tutta la sua vita volta alla diffusione della cultura il direttore di Pomezia Notizie ha seminato (e continua a seminare) bene! La De Luca passa in rassegna gli scritti, i saggi, le pubblicazioni e l’epistolario con l’aggiunta di qualche disegno/schizzo inedito (perché Defelice è anche appassionato di disegno), il tutto per raccontare l’uomo, il poeta, l’artista incastonato nelle sue radici calabresi che porta sempre con sé e, queste radici, tramanda alle future generazioni. Defelice trasmette l’amore nella sua arte, che siano scritti, poesie, epistolari, saggi o schizzi: amore per la cultura, amore per le radici di una terra troppo spesso martoriata e lasciata a se stessa, metafora di sofferenza fisica, di duro lavoro sinonimo di riscatto. La terra natia aspra è strettamente collegata alla creazione fertile di Defelice, così la De Luca ana-

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lizza i Preludi, una Miscellanea di opere poetiche, un ricco epistolario, la creatura culturale PomeziaNotizie ed infine chiude l’opera con una chiacchierata con l’autore. Insomma Domenico Defelice è un uomo che ha saputo lavorare bene la sua terra e raccogliere i dolci frutti di questa, naturalmente parlando e, soprattutto, culturalmente. Roberta Colazingari

GIUSEPPE LEONE D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA Grafiche Rusconi, 2016 Leopardi e Bene, come è possibile un accostamento tra due geni così diversi? D’impatto, leggendo il titolo in copertina, è questo il primo pensiero che viene alla mente. Poi però la quarta di copertina comincia a stuzzicare le “celluline grigie” alla Hercule Poirot: entrambi hanno un po’ di coincidenze in comune, pur essendo vissuti in periodi lontani tra loro. Le prime coincidenze che incontriamo sono nei numerosi nomi che hanno: Giacomo, infatti, ne aveva altri cinque e Carmelo altri tre. Inoltre tutti e due sin da giovanissimi hanno servito messa. Due indizi, come suggerisce la nostra Agata Christie, fanno una prova! Occorre un’accurata indagine! Ecco che allora iniziando a leggere il volume si scopre ancora che i due hanno letto Omero e Shakespeare, riscrivendo le loro opere e adattandole al periodo da loro vissuto. Andando avanti con la lista di punti di contatto, nel libro si spiega che Leopardi e Bene “avevano le idee chiare” sul significato della Storia, che per loro “non è mai stato sinonimo di progresso e libertà, ma di schiavitù e barbarie”. Ed ancora i due avevano in comune: “il costante dialogo con la civiltà preistorica, la difesa a favore della voce contro il ‘morto orale’ dello scritto”; le “polemiche contro le correnti artistiche alla moda”. Si potrebbe continuare all’infinito, ma lasciamo a voi il piacere di scoprire altre coincidenze leggendo il libro di Leone. Per il momento vi basti sapere che Leopardi e Bene “hanno scritto e detto contro il potere, alienandosi”, sin da giovanissimi, “la simpatia di gran parte della critica”…entrambi “si sono affacciati dall’alto della torre…per ridare armonia al circostante deserto italiano”. Due pietre miliari che, tra ‘800 e ‘900, hanno dato una bella scossa alla decadenza culturale in cui il nostro Paese era precipitato. Roberta Colazingari


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TITO CAUCHI CARMINE MANZI Una vita per la cultura Editrice Totem, 2016 - Pagg. 140, e. f. c. Dopo la testimonianza su Salvatore Porcu, ecco un altra fatica di Tito Cauchi e questa volta su Carmine Manzi. Cauchi, a quanto pare, va raccogliendo, da un po’ di tempo, i suoi tanti interventi sugli artisti, sparsi negli anni su diversi periodici. E diciamo artisti, perché le sue indagini hanno da sempre riguardato poeti e scrittori, pittori e mosaicisti; l’artista in genere, insomma, ma “L’artista vero”, che lavora nella semplicità e nella modestia senza rincorrere ad ogni costo il successo; colui che - come egli afferma -“non si sente per niente relegato in un cantuccio come farebbe l’uomo spesso massificato”. Raccolta di recensioni, Cauchi definisce in Premessa questo suo libro, anche se lo stesso investigato Manzi amava parlare di vere e proprie “interpretazioni”, quando non di veri e propri “saggi” e che, dato il consistente numero, sono in grado di dare - del poeta e dello scrittore, oltre che valente giornalista di Sant’Angelo di Mercato S. Severino un ritratto esaustivo e veritiero. Il volume è strutturato in quattro parti; nella prima Cauchi raccoglie i propri brani pubblicati e quelli inediti che riguardano le opere poetiche; nella seconda abbiamo, invece, il Manzi saggista, con la presa in considerazione dei suoi volumi su Michele Frenna, Carlo Bianco e Giovanni Paolo II; nella terza tratta il “Carmine Manzi nella Critica”, mentre la quarta consiste in un’Appendice su “Luci e voci” - un calendario di Anna Manzi - e un acrostico che lo stesso Cauchi ha dedicato a Manzi per i suoi novant’anni il 14 novembre del 2009. Onestamente, abbiamo sempre ritenuto il Manzi scrittore e giornalista superiore al Manzi poeta ed è un caso che Cauchi tratti, nel primo capitolo di questo suo lavoro, proprio di Terza pagina, che noi consideriamo una delle più emotive e affabulanti opere, raccogliendo articoli che l’attento giornalista ha pubblicato su quotidiani, accompagnandoci, con essi, a visitare località fascinose e splendide opere d’arte che la Natura e l’uomo hanno sparso su tutto il territorio italiano e non soltanto in Campania. Sono racconti esemplari per nitidezza di dettato e varietà di argomenti. Pezzi da vero maestro, che attraggono e commuovono e che la giornalista Donatella Gallone giustamente definiva come tre superlativi “momenti della scrittura. L’interiorità, la realtà, l’avventura”. “Le descrizioni - afferma Cauchi - sanno di viva partecipazione, di un inno alla natura, alla bellez-

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za”, nonché “di testimonianza, di vita vissuta”. Manzi canta il suo interiore e le sue vicissitudini, oltre che le meraviglie paesaggistiche, e temi importanti per lui sono, quindi, l’amore, i congiunti, gli amici, la religione, ma anche il sociale, che non sempre si rileva, perché è un poeta che non ama l’ enfasi e l’invettiva e tutto, anche l’aspetto più doloroso e crudele, si stempera nella semplicità e nella pacatezza del verso. “La Poesia del Manzi mi pare piena di saggezza afferma Cauchi -, caratteristica proprio di chi ha vissuto a pieno la propria esistenza nella sua vitalità emozionale; pertanto si pone a garanzia dei tanti messaggi in chiave etico-sociale, che è possibile trarre; valori che oggi vanno sempre più scomparendo su cui poggiare la vita, come l’amicizia, la propria terra natia; il desiderio di rinascere fanciullo, essere capaci di provare meraviglia per la natura; la considerazione che gioia e dolore convivono e che spetta a noi discernere”. Un contributo di amicizia e di amore verso un uomo che ha speso tutta l’esistenza per far trionfare il bene e divulgare la cultura - questo lavoro di Tito Cauchi -, al quale, siamo certi, non mancherà l’ apprezzamento e la riconoscenza di tutti coloro che Carmine Manzi hanno praticato o semplicemente letto. Domenico Defelice

ELISABETTA DI IACONI SALATI ALTALENE Poesia Bonaccorso, 2016, Pagg. 88, € 13,00 Abbiamo incontrato tante volte il Dott. Vittorio Salati - consorte dell’Autrice - e facendoci adesso caso, egli aveva, nella sua riservatezza e nella sua nobile cortesia, quasi sempre stampato sulle labbra “quel sorriso mesto/sopravvissuto all’onda/ che tutto abbatte mentre cupa avanza”; il presentimento, insomma, del male subdolo che dentro lo minava e che l’ha spento all’improvviso. La silloge Altalene è a lui dedicata, ma il suo nome non viene mai indicato all’interno dei testi, lo troviamo solo nella dedica d’apertura: “A te, Vittorio, sposo mio/che ora mi guardi dalle stelle”. Ogni verso, però, fa parte di una narrazione a lui rivolta, un quasi rinvangare fatti e ambienti e persone che lo hanno visto felice accanto alla sua donna; ora egli è individuabile, per esempio, nelle “foto sfumate”, nelle carezze delle due gocce che sembrano “scaturite da tenera mano”, negli “antichi passi a due” - fossero sulle spiagge o per le strade -, nella “soave anima incarnata”, o, addirittura, in quel “superstite raggio” anelante di “rivivere ancora/la


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memoria di dolci chimere”, di continuare, cioè, a camminare accanto all’amata, la quale, con “mente indagatrice,/errando tra gli ammassi delle stelle,/tra ombre e luci vola,/alla ricerca dell’estrema plaga”, nel tentativo anch’ella di incontrarlo. La realtà, però, porta la poetessa, ogni volta che ci prova, a desistere dal sogno e a rientrare “nel colore della terra”. Altalene vuol dire anche questo: tortura costante tra sogno e realtà; il tentativo di illudersi, attraverso il lavorio della mente, che il dramma non ci sia stato o che ci possa essere recupero di momenti felici sulla crudezza del presente, che la stessa mente macina ad ogni istante come tarlo. “Mente”, infatti, è sostantivo ripetitivo in questa silloge - più di dieci volte -, seguito da “memora” e verbi ed espressioni che entrambe richiamano. A Vittorio e a tutti coloro che, come lui, vivono un’altra vita, “solamente un soffio di memoria/può donare il respiro”; la memora è l’unico ancoraggio attraverso il quale i vivi e i morti possano continuare a stare insieme. I momenti rievocativi della vita di coppia sono tanti. Le “passeggiate lungo il mare” (l’elemento forse più amato da entrambi); la bella stagione ch’era, per loro, tutta “una passeggiata confortante” (plastica l’immagine della poetessa che si sente protetta dalle di lui “mani forti” sotto la sferza del maestrale); il non sentir mai freddo quando veniva stretta dalle sue braccia, mentre adesso neppure il torrido sole o la fiamma del camino riescono a darle tepore. Momenti che la straziano e, nel contempo - ecco ancora l’altalena -, le procurano quella energia necessaria perché possa continuare a far parte della “stirpe umana”, sempre e comunque nel costante anelito - come già rilevato - di spiccare “l’arduo volo/sorretta da un’angelica figura” (quella dell’amato) e approdare, finalmente, nel “mare/incendiato da luci sfolgoranti” dell’Aldilà. Altalenante è anche la fede in Elisabetta Di Iaconi, vacillante come forse in tutti, tra aspirazioni, aneliti e dubbi sul nostro destino dopo la morte. In lei ci sono aspetti tipici della religione cattolica, ma anche di molte altre, come quando esprime il dubbio che “Forse rinasceremo,/per iniziare, prive di memoria,/un’esistenza nuova/in successione ciclica di fasi/che non ricorderemo”; reincarnazione che la Chiesa di Roma non ammette. Una fede fatta “di luce e fitti coni d’ombra”, che speriamo ci dia salvezza, ma che, di certo, non ci dà certezza. La silloge reca un Prefazione a firma di Anna Maria Bonomi, la quale mette subito in evidenza come “Una delle caratteristiche delle intense e armoniose poesie di Elisabetta Di Iaconi è la loro musicalità lessicale, dovuta al magistrale uso degli endecasillabi e settenari alternati”, che mostrano

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“l’animo inquieto dell’uomo moderno”, il quale vive assillato nell’intento di penetrare l’arcano, irretito nei millenni dalle tante filosofie, schiacciato dalle sconfitte e tuttavia sempre anelante a proseguire l’arduo cammino. Domenico Defelice

BRANDISIO ANDOLFI PER UNA CONOSCENZA BREVE E SOMMARIA DELLA FIGURA DI TRE UMANISTI CAMPANI GIANNANTONIO CAMPANO ELISIO CALEZIO LUIGI TANSILLO Prefazione Giacomo D’Iorio - BastogiLibri-2016 Instancabilmente nonostante i suoi ottantacinque anni, Brandisio Andolfi si presenta sulla scena letteraria con un nuovo interessantissimo lavoro su alcuni letterati del XV secolo che ebbero i natali nella prosperosa e gloriosa Terra di Lavoro, più nota come la provincia e il territorio di Caserta. Dobbiamo considerare che troppo spesso il periodo storico del 1400/1500, è stato un poco trascurato, fatta eccezione come al solito per quei grandi nomi. E qui tornerebbe di nuovo la polemica tra “grandi “ e “ grandi minori”. Ma non è il caso di insistere. Focalizza l’attenzione l’Andolfi su tre nomi della cultura italiana del 1400/1500, facendo un rinfresco di memoria di ciò che essi furono in campo letterario in quel periodo della storia e della letteratura italiana. Il lavoro, come ammette lo stesso autore, non ha il pregio di aggiungere notizie nuove al già conosciuto, bensì di pungolare chi ha davanti a sé più tempo per scavare tra i meandri di polverosi archivi, al fine di ingrossare il corpo documentaristico di questi tre umanisti campani, forse un poco dimenticati. Traccia quindi il profilo di Giovanni Antonio De Teolis, che fu detto il Campano e per questo ricordato poi come Giovanni Campano. Il suddetto nacque in un piccolo borgo (Cavelle) di un piccolo, ma importante paese (Galluccio ) della provincia di Caserta nel 1429. Fu nominato Vescovo di Crotone e poi di Teramo; fu governatore di città importanti quali Todi, Foligno, Assisi e Citta di Castello. Morì a Siena dove è sepolto all’interno della Cattedrale. La sua opera più ponderosa furono i sei libri De vita et gestis Brachii, dedicati al capitano di ventura Braccio da Montone. Altro poeta- umanista della terra degli Aurunci fu Giovanni Luigi Galluccio (1430- 1502) che divenne noto, come succedeva sovente a quei tempi, con il nome di Elisio Calenzio.


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Nacque a Fratte di Ausonia oggi in provincia di Frosinone, ma all’epoca territorio della antica Liburia detta poi Terra di Lavoro, oggi invece provincia di Caserta. Fu soprattutto poeta elegiaco, epico, epigrammatico. Di rilievo, per i forti richiami alla poesia georgica di Virgilio, suo grande ispiratore, è l’elegia “A Vito Rutilio sui luoghi a lui cari". Traccia infine un profilo di Luigi Tansillo (15101568), che sebbene nato a Venosa trascorse tutta la sua vita alla corte di Napoli, morendo a Teano. Scrisse molto e bene, ma la sua opera migliore e più importante fu probabilmente il Canzoniere che dedicò alla Marchesa del Vasto, di cui era perdutamente innamorato. Il volumetto dell’Andolfi è corredato da una sapiente e dotta introduzione di Giacomo D’Iorio profondo studioso della storia dei Papi e della chiesa. Nell’introdurre il lavoro dell’Andolfi, D’Iorio descrive la situazione dell’assetto interno della Penisola italiana ai tempi dei tre umanisti. Riporta i cinque stati che erano la nerbatura dello Stivale e cioè: la Milano degli Sforza; la Repubblica di Venezia; la Repubblica di Firenze retta dalla Signoria dei Medici; lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli con Alfonso d’Aragona. Troviamo pertanto in questa bella introduzione, elementi stimolanti per approfondire una ricerca storico-politica da portare parallelamente a quelle che furono all’epoca le vicende umanistiche- letterarie dei tre poeti campani che si legarono al Pontano, dei quali ne ebbe grande stima, e all’ entusiasmo del Re; facendo uscire in tal modo la Cultura napoletana, come dice il D’Iorio, dall’oscurità in cui si dibatteva. Salvatore D’Ambrosio

ANTONIA IZZI RUFO SENSAZIONI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie 2016 Antonia Izzi Rufo, in questa silloge che ha ottenuto il 1° Premi al Città di Pomezia 2016, ancora una volta si fa identificare come la poetessa delle Mainarde, le adorate scenografie della sua terra molisana. La natura incontaminata con i suoi cieli, i suoi profumi, i suoi paesaggi la inebria e le fa sciogliere inni al creato. In questo magico paesaggio del cuore ella sa inserire il fascino delle tradizioni e la dolce memoria del ricordo. “Ogni giorno mi porto/ in quel tratto di strada/ che insieme calcammo/ per un sessantennio”. All’autrice sono sufficienti pochi versi per esprimere un’emozione. “In seta d’azzurro/ l’occhio si

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perde/ in turbinio d’animo/ di stelle”. Il mutamento delle stagioni la sorprende e la esalta. “Soltanto ieri era bufera,/ pioggia vento neve;/ oggi improvvisa, incanto, / è giunta primavera”. La neve è sua amica: “meraviglioso mattino d’inverno!/ Spingo lo sguardo sulle Mainarde/ e simultaneamente sono li/ sulla neve baciata dal sole”. Durante il silenzio della notte, riemergono le domande sul cammino esistenziale dell’umanità. “Sovrano il pensiero/ domina il tutto/ e blocca il cammino/ alla mente piccina/ che scruta e che chiede/ che cerca e non trova.” Infaticabile, la poetessa (che ha al suo attivo una sessantina di pubblicazioni) continua a cercare e a donarci, come scrive Domenico Defelice in prefazione “sensazioni potenti e vive, non epidermiche, che al turbamento, allo stupore, associano la concretezza dell’agire e l’amore profondo per l’ambiente, per gli uomini e le cose”. Elisabetta Di Iaconi

IAN McEWAN L’INVENTORE DEI SOGNI Einaudi edizione 2015 pagg. 105 € 10,00 L’inquietudine adolescenziale, tra le righe di questo libro di McEwan, che si mostra imperante nel suo giovane e funambolesco protagonista – Peter Future – lo stesso si descrive ai lettori nelle prime pagine della storia, come se ogni suo sogno fosse un moto mutante della sua mente fantasiosa e che, in modo ovvio ed inopportuno lo collochi al di fuori di ogni logica. Lontano dal mondo che lo circonda, pur essendone pervaso, al punto tale che, nella metamorfosi sognante, ci sono loro: i familiari e la casa. Assieme a tutti i sentimenti e le sensazioni a loro collegate nella dimensione degli eventi che vengono stravolti e modificati. Il delittuoso mondo della famiglia, teatro delle sue più bizzarre manifestazioni oniriche, laddove egli diventa carnefice in un paragrafo e vittima in un altro. Ian McEwan apre questo racconto “ l’inventore dei sogni” ( libro che consiglio a tutti) con un riporto tratto da Ovidio, Metamorfosi, che voglio riproporre – L’estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi – Passo attraverso due momenti del libro, lasciando solo intravedere la dimensione di quanto analizzato in precedenza. Il titolo del capitolo – la pomata svanillina – e l’estratto - “ Quella notte, Peter non chiuse occhio, non fece che correre. Correva a perdifiato nei sogni lungo corridoi pieni di echi, attraverso un deserto roccioso infestato di scorpioni, si addentrò in labirinti di ghiaccio….”Il titolo del capitolo - il piccolo - e l’estratto che


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mi ricorda ancora il momento in cui l’ho letto - “ Fu a quel punto che notò il ragazzino seduto dalla parte opposta al tavolo. Era Kenneth travestito da Peter nel corpo e negli abiti. E lo fissava con un’ espressione talmente carica di odio e di disgusto da produrre leggere vibrazioni scure nell’aria”L’età della giovinezza, il mondo dei ragazzi, la loro e la nostra letteratura contemporanea. Filomena Iovinella

AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE” Edizioni EVA. Collana Il Cormorano. 2016. In copertina: “La casa sulla collina” biro e pastello di Domenico Defelice, 1980. Aurora De Luca e la sua tesi di Laurea dedicata al grande Autore e Artista Domenico Defelice, è qualcosa che brilla e colma di fiocchi di luce l’ anima. In copertina del libro “ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE” sfavilla una sua pittura “La casa sulla collina” e diverse sue pitture originali, arricchiscono di splendore parecchie pagine. La Dr. in Lettere Aurora De Luca, ha descritto con il cuore trepidante di stima e affetto, la vita del Nostro, tanto movimentata e intensamente carica d’amore, dandoci mirabili emozioni ad ogni pagina, da lasciarci stupefatti, attratti e affascinati da tanta sensibilità e straripante bontà ad aiutare gli amici bisognosi, anche a costo di patire la fame. Un bambino prodigio che aiuta il padre nei campi, un giovane innamorato della letteratura e dall’arte, al punto da lasciare i campi della sua Calabria e traferirsi a Roma per continuare gli studi e collaborare a parecchie riviste e giornali e pubblicare i suoi stupendi libri di poesie, narrative, saggi, teatro ecc. ecc. da lasciare le sue orme ai suoi numerosi lettori passati, presenti e futuri. Domenico Defelice crea la sua casa Editrice Le Petit Moineau, crea la sua meravigliosa Creatura POMEZIA-NOTIZIE, semplice, ma importante per tutta la magia di cui è colma dalla prima all’ultima pagina, con collaboratori di grande prestigio che la fanno unica! Da 42 anni sulla cresta dell’onda e con un successo indescrivibile e meritatissimo. POMEZIA-NOTIZIE arriva in Australia amata e desiderata ogni mese da tutti gli amici fedeli dell’ A.L.I.A.S. che l’aspettano con ansia per tuffarsi tra le pagine e inebriarsi della ricchezza che porta con sé, recensioni, lettere, articoli, pitture, poesie, racconti, presentazioni di personaggi famosi e avvenimenti di cultura da riempirsi il cuore di ogni natu-

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rale sensazione, emozioni e batticuori. E cosa dire del concorso letterario e del bellissimo IL CROCO? Non ci sono parole adatte per descrivere il nostro genio, che è il Nostro prezioso prolifico Autore e Artista Domenico Defelice. La Poetessa, Scrittrice, Critica Letteraria, Aurora De Luca, in questa sua tesi di laurea ha donato il massimo di sé, nel realizzare un libro del Dottor Defelice, che resterà per sempre come testimonianza tangibile del grandioso personaggio che è il Nostro, modesto, speciale, superlativo, generoso, preciso, originale e di inesauribile vitalità in tutto ciò che crea. In special modo nell’intervista così magistralmente composta da commuovere il lettore, che resta incollato ad ascoltare ogni parola, con l’anima che vibra di fiamme ardenti per i puri sentimenti che emana e che rinforza ancora di più stima e ammirazione per un grande uomo, che ha donato tutto di sé, per il suo amore e passione illimitata per la letteratura e l’arte in genere, trasferita con infinita sensibilità in tutto ciò che scrive e pubblica. Tutti i suoi stupendi libri, fanno bella mostra nella nostra biblioteca dell’A.L.I.A.S. tutti li abbiamo letti e riletti e li leggeremo ancora e ancora, perché ci donano la pace dei sensi e rinnovellano il cuore e la mente. Un grazie ad Aurora De Luca e al Nostro Domenico Defelice, per questo encomiabile libro da leggere e rileggere e conservare nel museo del cuore per sempre! Giovanna Li Volti Guzzardi

AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE Ed. EVa, 2016 La vera poesia è quella simbolica In un famoso articolo di Umberto Saba “Cosa resta da fare ai poeti”, mandato a suo tempo alla Voce di Papini e rifiutato successivamente da Slataper (ora presente nell’introduzione a Saba di Nunzia Palmieri, ne Il Canzoniere, U. Saba, Einaudi) l’ autore affermava “essere onesti”. Molta della nostra odierna critica ufficiale fa spesso riferimento a questa onestà che a me pare illusoria così come si evince da una poesia dello stesso Saba “Il poeta ha le sue giornate/contate/come tutti gli uomini, ma quanto,/quanto variate (...) Sovra ogni aspetto lo rallegra questo/d’avverse luci le belle giornate (...) Il poeta ha le sue giornate/contate/come tutti gli uomini, ma quanto/quanto beate” (da “Il poeta”, U. Saba, Il Canzoniere op.


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cit.) L’onestà dell’essere veramente poeta, oggi, è quella di ammettere la propria “disonestà”: cioè quella di riconoscere la propria colpa, di essere un ladro, di aver fatto come Prometeo, di aver rubato il Fuoco degli Dei. Il poeta porta con sé questa condanna questa colpa di essere superiore all’uomo comune, una condizione che lo rende diverso drammaticamente (ne sono un esempio di vita di Dino Campana, quella di Van Gog, di Alda Merini e di tantissimi altri artisti d’altronde lo stesso W. Blake affermava che “il poeta è del partito del demonio senza saperlo”) Ammettere questa colpa è il primo passo per essere onesti, poiché la vera lirica è fatta di simboli che sono “delle luci del fuoco divino rubato”. Questo per introdurre l’opera di Aurora De Luca, laureata in lettere e specializzata in filologia all’ università di Tor Vergata, Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice (edizioni Eva tesi di laurea tenuta con il relatore Chiar.mo Prof. Rino Caputo) dove appare l’onestà di un poeta che ammette il suo dramma. “Da tale condizione di sofferenza, fisica e di coscienza, si è distillata la poesia, come atto di semina e d’inchiostro” così come avviene al contadino che, duramente zappa la terra di cui conosce ritmi ed essenze, storture e avvallamenti, zone sterili e infeconde, finché da essa non riceve splendide fioriture e frutti genuini” (A. De Luca, Metodologia, op. cit. pag. 7). Ne l’orto del poeta c’è l’onestà del riconoscere la propria condizione di diverso “la poesia è il vero tormento dell’intimo dell’uomo” (da L’orto del poeta D. Defelice citato a pag. 13) e ancora “i veri affetti sono spesso come le passioni incontrollabili” (idem, pag. 16, op. cit.) “Ora i miei versi e la mia prosa bruciano. Nel mio orto non conto le nuvole e non vi sono tettoie. Il sole screpola le crani, nel mio orto, e i veleni d’intorno convergono impetuosi nella mia penna” (da L’orto del poeta pag. 19 op. cit.) D’altronde la stessa curatrice afferma “il poeta paziente conduce un viaggio sacro per stazioni all’interno di un ospedale vita”. (A. De Luca op. cit. pag. 19) Tutta l’opera è imperniata di simboli che richiamano Baudelaire e Rimbaud, mentre il dipinto di D. Defelice in copertina “La casa sulla collina” risente l’ influenza metafisica di De Chirico verso la quale non era immune anche lo stesso Fellini (un’ importante relazione tra i disegni di Fellini e di De Chirico è stata esposta da Plinio Perilli su un numero di Poesia, Crocetti). Un simbolismo portato avanti attraverso una costruzione sintattica semplice che rifugge il pedante uso di rime e allitterazioni” (...) o il giglio che affonda le radici/nel seno della tua bambina morta./Se l’innocenza li redime/tu non produci il canto del poeta?” (D. Defelice, Uomo grandemente

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feroce pag. 28, op. cit.) Qui per intertestualità appare l’antitesi di A. Boito “sono farfalla o verme immondo?”, cioè il tema della scapigliatura giocato dialetticamente tra innocenza e peccato. Scendere nell’ inferno della propria esistenza, come Baudelaire, vivere attraverso la colpa di essere stato un ladro, fare della propria diversità di poeta una condizione sublime e drammatica insieme, significa essere veramente “onesti”, al di fuori di quella presunta onestà proclamata da Saba e da molti critici di parte. Susanna Pelizza

ANTONIA IZZI RUFO SENSAZIONI Ed. Il Croco/ Pomezia Notizie, 2016 Quest’anno il primo premio Città di Pomezia 2016 è stato assegnato a Antonia Izzi Rufo per la silloge Sensazioni. Poetessa molto conosciuta e apprezzata, ha al suo attivo una copiosa produzione di opere che spaziano tra poesia, prosa e saggistica. In questa silloge emerge la natura. Con liriche per lo più concise entriamo nel suo mondo, nel paesaggio molisano dove si possono ammirare bellezze primordiali che incantano. Vi sono colori accesi dall’alba al tramonto con “profumi d’erba/ di fiori”, persino di notte non vi è il buio totale “Immobili le piante / nel cuor della notte / e le lucciole del cielo / che occhieggiano statiche”. Anche l’inverno è magico quando improvvisamente scendono fiocchi di neve “Sono piume / che danzano un valzer, / farfalle eccitate che battono / il tempo.”; il contrasto tra il bianco e l’azzurro del cielo “spande sul viso / brio negli occhi / tepore nel cuore”. L’unico inconveniente è il rischio che comporta per le persone anziane. C’è pure il contrasto tra i boschi e il mare, che a volte si presenta “azzurro azzurro, e azzurro, / più del cielo, / tavolozza ai pittori / ispirazione ai poeti / sollievo ai depressi.” Il suo mondo non è statico, bensì è ricco di suoni emessi da “le foglie d’ulivi / mosse dal vento” e “il frangersi leggero delle onde, / lo scivolio lieve delle vele, / il battito d’ali d’una farfalla”, come ben descrive nella bellissima poesia “Un coro d’armonia”. Izzi Rufo vive tutta la bellezza e si sente parte di essa, anche se “dell’incanto di questa natura /selvaggia, primordiale, / vi sono abituata, l’ho in me , / la considero normale, / senza nulla di speciale, / anche se stupenda”. Addentro a questa natura e in passeggiate solitarie si susseguono memorie e relativi affetti, come l’ attesa della nascita del nipotino, la partenza di Yuky, il dolore per chi non le è più accanto. Con questa raccolta, la poetessa ci offre una realtà


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paradisiaca, nella quale convivono emozioni di un profondo sentire. Laura Pierdicchi

TITO CAUCHI PALCOSCENICO Editrice Totem, Roma, 2014, €10 Palcoscenico ha intitolato la sua nuova raccolta di versi Tito Cauchi, volendo significare con questo vocabolo la sua visione del mondo, che è quella di una scena sulla quale l’uomo si trova a recitare la sua parte, senza sapere bene quale essa sia e sino a quando dovrà continuare la recita. Il libro si apre con una poesia, Sipario, che ci introduce nella finzione e che contiene alcuni versi molto significativi: “Si recita come si vuole / … / il dramma della propria vita / … / Mi fingo un dolore / per celare quello intero, / applaudono, ma nessuno sa / che è tutto vero”, che ben fotografano quello che spesso è la drammatica situazione dell’uomo. Ecco allora che accanto all’autore, il protagonista della scena su cui si è aperto il sipario, compaiono gli altri personaggi di questa recita: la moglie innanzitutto, per la quale egli nutre un forte affetto: “Perdonami se ti carico solo / di profonda tristezza / … / Vera è la realtà, siamo noi due” (Vera mia moglie); “Nei tuoi occhi vedo il colore del cielo / il colore del mare, il profondo infinito. / Nella tua voce ascolto il canto / degli uccelli, il fruscio del vento” (Ti voglio bene). E, sulla scena si affacciano successivamente anche i volti degli estranei, a volte come “umili agnelli”, altre volte come “famelici lupi” (Amiamoci a mani giunte), e la loro ferocia talora ci sgomenta: “Lo sbarco era finito da un anno / ma gli esiti dei combattimenti / stanno tra le case leggibili / restano i segni sulle persone / ancora relitti, macerie e ferite” (Fratelli del mondo). E su questo “palcoscenico” del mondo possono comparire anche gentili figurette di donne, come quella appena intravista di Tu non eri: “Ho visto la tua figura / riflessa su una vetrina / il tuo profilo delicato / la tua sagoma sinuosa” o quella di Concettina alla pescatora: “Concettina vestita alla pescatora / per remare contro corrente / portavi pantaloni con taglio deciso …”. Così come possono affacciarsi Zombi senza età, che divengono oggetto di uno spettacolo risibile; ma lo spettacolo è quello di una guerra: “d’una guerra sofferta / non combattuta di qua / non voluta di là / ma da tutti raccontata”. E per converso possono comparire anche figure angeliche e consolanti, come colei che compie “una missione ardua di pace / di solidarietà, del recupero di sorrisi / di speranza…” (Ancella missionaria).

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In questa carrellata di personaggi che s’affacciano sul “palcoscenico” della vita Cauchi pone anche figure del passato, come quella di Giovanna d’Arco (Jeanne d’Arc Pucelle d’Orléans), per la quale ha parole di fraterno compianto: “Nessuno dei grandi ti ha detto / grazie per il tuo sacrificio / … / Eri un fuscello di ragazza e hai / mantenuto fede e passione ardente / più forti del fuoco che ti brucia. // Accetta le mie lacrime per lenire / le carni che ti avvampano ancora”. Più vicino a noi è però il “pendolare”, che affiora da una delle ultime poesie del libro, Vita da pendolare, con tutta la sua fatica e la sua immutata tristezza: “Prima dell’alba s’alza, in fretta va / ancora insonnolito con sporta sdrucita / colazione pranzo e talvolta cena / due o tre ore per recarsi al lavoro”. Tutte queste sono delle “maschere” che si agitano sul “palcoscenico” della vita, colte dal vivo; ma la maschera principale è quella dell’autore che si racconta, con tutte le sue attese e le sue speranze, le sue vittorie e le sue sconfitte. E lo fa con uno stile limpido e di classica misura, capace di andare con spontaneità incontro al lettore, per rivelargli la sua meraviglia di fronte allo spettacolo della natura, come avviene in Fruscio d’alberi: “Le foglie vorrebbero prendere le ali / dal vento per librarsi come gli uccelli” o per rivelargli la sua tristezza di fronte alla sofferenza, che può essere quella dei suoi simili, come avviene in Storia spuntata (“Intingo il pennino nel sangue / che scorre tra popoli che si uccidono”) o anche quella di un animale, come avviene in Lupo solitario, dove “un cane bastonato va / alla ricerca di un padrone / al quale rimanere fedele / ma che gli voglia bene”. Poesia dai molteplici spunti, quella di Tito Cauchi, sa rivolgere lo sguardo anche al cielo in poesie quali La mia chiesa (“La mia chiesa sta qui, Signore, / fra le pareti, nel sorriso candore, / di un bimbo che sgambetta / protende le braccia e fa festa /… / la mia chiesa nel pianto, Signore, / fra sofferenza e barelle di dolore”), ma che sa soffermarsi anche sul concetto stesso di poesia, che viene da Cauchi definita come “madre gentile delle arti” (Poesia o vetrina) e alla quale direttamente si rivolge in Pensieri inversi: “Pensieri in versi prendono forma / di suoni soavi”. Tra le tematiche affrontate da Cauchi in questo libro c’è anche quella della morte: “Morire è come un deliquio/nel culmine di un piacere/a fondo tu spesso vai/trascinato…” (Onda scivolosa). Poeta pensoso e consapevole del dolore che è proprio dell’esistere, Cauchi sa però incantarsi specialmente davanti allo spettacolo della natura come avviene in Sulla spiaggia di Gela: “Sulla spiaggia gremita di Gela / la bionda sabbia sa dei miei pensieri / che l’acqua cristallina rivela”. Ed è forse pro-


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prio qui da cercare la fonte segreta della sua poesia, che nasce dallo “stupore” di fronte alle innumerevoli epifanie che la vita ci offre: tutte riconducibili a quell’unica rappresentazione cui assistiamo sul palcoscenico variegato del mondo. Il libro si chiude con tre poesie Esaurimento, Prima di morire e Desiderio di vivere, tradotte in inglese, greco e russo, che costituiscono come una meditazione sulla vita alla quale Cauchi si rivolge con parole di sommesso rimpianto. Liliana Porro Andriuoli

ANTONIA IZZI RUFO SENSAZIONI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 (…) / Un’esile falce / di luna / lassù / due lucciole / giù / e sul colle già scuro / di luci un “bouquet” / che un borgo / nel buio rischiara / di fiaba. Da qui, da questo paesaggio assorto e sospeso in quel nero che ingloba i profili del colle nell’oscurità di un cielo che un’esile falce di luna non basta a stemperare, si leva il canto di Antonia Izzi Rufo. Dal suo nido accogliente, discreto permissivo la voce della poetessa ci giunge come notturna, una voce amica, sincera, calda nel timbro, spoglia di maschera. La fiaba è in quel borgo illuminato immagine di isola sospesa nello spazio e nel tempo - che la poesia trasfigura in un bouquet, è nello scricchiolio delle foglie che il motivetto accompagna / ch’io vado canticchiando, è nella trepida attesa di una nuova vita mentre ascoltiamo / il tuo “scalciare” impaziente / verso il traguardo, è nel saper contemplare con fanciullesco stupore l’ argenteo degli ulivi e il tepore delle foglie di quercia, nel cullarsi a vicenda finché il sonno ci prenderà, è nella neve come piume che danzano un valzer o come cascate di spuma sui tetti, nel mare come seta d’azzurro o in uno stralcio soltanto / d’arancio ad oriente. La fiaba dunque è resa possibile attraverso l’ incanto (il termine è ricorrente nei versi che animano la raccolta) quale sensazione regina che la natura suscita in colei che ne canta le ineguagliabili meraviglie. La natura con i suoi mutevoli scenari si fa specchio degli stati d’animo della poetessa, pur restando al contempo entità a sé stante e distaccata, direi quasi leopardianamente insensibile (cioè incapace di provare quelle sensazioni che ispirano il titolo della silloge), incurante dei mali dell’uomo: la continua ricerca di corrispondenze è a senso unico: l’animo umano si specchia nella natura e nel tempo - in senso meteorologico, stagionale - che talvolta è persino in grado di decidere del colore del nostro

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umore, dello schiudersi / o rimuoversi/delle nostre speranze (si vedano “Il tempo” e “Contagio”, rispettivamente pag. 27 e pag. 18), ma non avviene il contrario, l’immagine riflessa non torna al mittente (si veda la poesia “Contrasto”, pag. 17, dove il distico di chiusura risuona come un respiro bruscamente mozzato, relegando la poetessa in quella dolorosa, ma anche rassegnata, consapevolezza ben delineata in “Arido soffrire”, pag. 26: Soffri, soffri, senza pausa senza emettere lamenti /nel silenzio assoluto,/nel tempo lungo e pesante,/nell’ indifferenza, nel sadismo del fato/e nella sua ironia. [Si noti, qui, come ogni virgola circoscrive e al tempo stesso dilata all’ infinito ogni momento]). “Banale” direste voi. “Certo, avete ragione" aggiungerei io: è folle pensare che la natura possa venir influenzata dallo stato d’ animo dell’uomo, sarebbe andar ostinatamente contro quelle che sono leggi universali, quel confine invalicabile che stabilisce l’ordine stesso delle cose: come può un temporale venir giù perché il nostro cuore piange? la scienza ci insegna che sono altre le cause scatenanti, e di ordine fisico, non certo emotivo. Eppure quante volte, quasi offesi da tanta indifferenza, avremmo voluto gridare al cielo “perché sei lì, fermo, e non piangi?”… ecco, è proprio quell’istante, in cui il pensiero sconfina oltre la ratio, ciò che non mi sembra affatto banale: è la sensazione, tanto abissale quanto ancestrale, che il cinismo della natura provoca nell’essere sensibile, quel senso di solitudine profonda che ti brucia senza fiamma / (…) / e nessuno ti può consolare, la costante conferma che “il mondo gira e continua a girare”, non importa quanto grande sia la sofferenza dell’uomo. Ma oltre quel pezzo di cielo / senza stelle senza luna, / senza sole, oltre l’acredine della vita, oltre la nostalgia d’affetti perduti, nel mondo di Antonia Izzi Rufo c’è sempre spazio per un bouquet di luci… e di colori. Se le sue poesie fossero quadri sarebbe certamente il colore, più che le linee, a farla da padrone. Il colore nei versi della poetessa si percepisce visivamente anche quando non è esplicitamente menzionato; si veda, ad esempio, “Evasione”: dopo il grigio e il viola, il torbido; e quest’ultimo, anche se non appartiene propriamente alla gamma cromatica, non richiama forse quel colore indistinto che otterremmo se provassimo a mischiare i primi due? E, parallelamente, l’angoscia non nasce spesso da quell’altrettanto indistinto miscuglio di tristezza e malinconia? Il colore è tutto in queste tele-poesie della Izzi Rufo; è l’anello di congiunzione tra il dentro e il fuori, il punto di fusione; tra il bianco candido di una cuna e il nero dell’assenza, policromia di colori intorno che nelle loro molteplici gradazioni per-


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meano pienamente di sé tanto il mondo esterno quanto quello interiore. Alla fine c’è sempre un raggio di sole che sfida le tenebre, e quando stanca di mondo, finalmente nudo lo spirito e in sosta quel pensiero che sovrano domina il tutto / e blocca il cammino / alla mente piccina / che scruta che chiede / che cerca e non trova, ciò che resta sono solo “Un coro d’armonia” e pensieri leggeri vestiti di rosa inondati di brio trainati dal sogno in un mare d’azzurro. Claudia Trimarchi

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE PRESENTATO IL VOLUME OLTRE DI LAURA PIERDICCHI - Sabato 19 novembre 2016, alle ore 17,30, presso il Centro Culturale Candiani - Sala Conferenze, Piazzale Candiani 7 Mestre Venezia, è stato presentato il nuovo volume OLTRE ricordando Franco Rossetto, della scrittrice e poetessa Laura Pierdicchi. Relatrice è stata Tiziana Agostini e lettrice Luciana Castagnaro. L’avvenimento ha avuto il patrocinio della Città di Venezia e del Circolo Culturale Walter Tobagi. *** MA IL QUESITO NON ERA QUALE NOME DARE ALLE “PARALIMPIADI” “AI PROSSIMI GIOCHI DI TOKIO 2020”?... - Belle Ouverture del mese di Novembre 2016 Pomezia Notizie. La sequenza descrittiva semplice ed accorata di Giuseppe Leone mi ha dato lo slancio a rispondere . Le prime Olimpiadi si svolsero ad Olimpia 776

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a.C. De Coubertin disse molti anni dopo: "I Giochi sono la sede ideale di puro agonismo, di incontro fraterno tra tutti i popoli”. Il quesito è il distinguo : Olimpiadi e Paralimpiadi. Per me le Olimpiadi nascono in un’unica versione, senza distinzione alcuna, basterebbe togliere il “para”, a volte, la troppa descrizione diviene elemento di disturbo, a qualcosa, che è ben lontano da esserlo. Oppure un giusto compromesso, al nome Olimpiadi, inserire le settimane : la prima settimana olimpica, la seconda settimana olimpica …. E così via. Infine chiudo con Carmelo Bene, citato nell’ articolo da Giuseppe Leone, assieme a Montale. Il titolo della sua prima biografia recita così : “ sono apparso alla madonna”. Era un’espressione che Lui amava poco ma che avversari o complici ripetevano spesso. Le regole dello sport mettono d’accordo avversari e compagni di avventura….sempre, è il vivere e lottare più nobile che ci sia. Filomena Iovinella *** SCARAMAZZO, DI ROSSANO ONANO, VINCE IL PREMIO INTERNAZIONALE THESAURUS - Premio Internazionale Di Arti Letterarie THESAURUS. La Cerimonia di Premiazione si è tenuta a Matera il 12 novembre 2016. La Giuria era così composta: Presidente Onorario: Alessandro Quasimodo; Presidente Esecutivo: Antonio Colandrea; Vice Presidente Esecutico: Rodolfo Vettorello; Giurati: Benito Ciarlo, Carmelo Consoli, Deborah Coron, Maria Antonella D'Agostino, Maria Antonietta D'Onofrio, Don Basilio Gavazzeni, Rita Iacomino, Dario Marelli, Alessandra Montemurro, Rossella Montemurro, Mina Rusconi. Primo Premio per la Poesia Edita “Albino Pierro” a ROSSANO ONANO per l'Opera SCARAMAZZO. MOTIVAZIONE (Nota critica di RODOLFO VETTORELLO, Presidente Cenacolo AltreVoci, Vicepresidente del Premio): Antologia memoriale quella di Onano che recupera temi cari all'autore riproponendo testi datati e integrandoli con nuova produzione; il tutto finalizzato a un lavoro d'insieme a carattere poematico. La poetica di Onano si fonda sulla constatazione del fallimento dei valori della civiltà occidentale, come già rivelato da Pound e da Eliot, e il conseguente decadimento di quello che è il compito primario della letteratura, essere lo specchio di una civiltà. Da qui la scelta di raccontare per il semplice piacere di raccontare con scarso rispetto della consequenzialità dei nessi logici per favorire invece la rete delle connessioni psicologiche.


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Come dice il prefatore Gros Pietro, Onano sta a suo agio nel laboratorio di ricerca per matti che è la letteratura e la sua scrittura diventa così molto spesso comica più che tragica e sempre più disposta a ridere di se stessa. *** A ROMA LA PRESENTAZIONE DI “ALTALENE” DI ELISABETTA DI IACONI - Domenica 30 Ottobre 2016 (dalle 16:00 alle 19:00) nella Sala dell’Immacolata – Palazzo della Curia Generale – Convento Frati Minori Conventuali - Piazza S.S. Apostoli in Roma, Elisabetta Di Iaconi Salati ha presentato ai numerosi astanti la sua silloge Altalene, di recente uscita con l’editore Bonaccorso. Organizzatrice perfetta dell’evento, la poetessa Rosa Simonelli. Accanto all’autrice sedevano Ida Bugliosi Bronzini, presidente del cenacolo “Poeti al caffè”, e Anna Maria Bonomi (aderente allo stesso circolo). In sostituzione di Luciana Vasile (assente), il professor Mario Costa. In sostituzione dell’editore Bonaccorso-Seracini, un altro poeta dei “Poeti al caffè”: Alfonso Carotenuto. Tanti gli applausi, tanti i complimenti, tanti i fiori che hanno rallegrato una giornata iniziata con la terrificante scossa di terremoto delle 7:40. Hanno allietato il pomeriggio due validissimi cantanti del Teatro dell’Opera (il soprano Michela Iallorenzi e il tenore Davide D’Elia, accompagnati dal pianista Alessandro Bettini). Lettori: Luigi Olini e Mario Costa. A chiusura un cocktail. *** UN GRAZIE DI CUORE E UN AUGURIO PER LE FESTIVITÀ NATALIZIE - Rubo alla rivista un piccolo spazietto per raggiungere tutti coloro che hanno letto e recensito la mia tesi di laurea: Ilia Pedrina, Antonia Izzi Rufo, Marina Caracciolo, Luigi De Rosa, Tito Cauchi, Elisabetta Di Iaconi, Anna Vincitorio, Liliana Porro Andriuoli, Roberta Colazingari, Filomena Iovinella, Giovanna Li Volti Guzzardi, Susanna Pelizza, Rossano Onano, Aurora De Luca, Laura Pierdicchi, Anna Aita, Salvatore D’ Ambrosio, Pasquale Matrone, Giuseppe Leone. A voi tutti un caloroso ringraziamento per aver offerto spunti di riflessione, condiviso pensieri, osservazioni, impressioni. L’interesse sincero che traspare dai Vostri interventi fa sì che mi giungano graditi e l’affettuosa partecipazione con cui avete accolto il mio lavoro costituisce quel valore aggiunto che li rende per me ancora più preziosi. Approfitto dell’occasione per porgere a Voi e a tutti i lettori di Pomezia-Notizie un sentito augurio per le imminenti festività natalizie e per un Nuovo Anno che sia davvero novus, foriero di prosperità e di speranza per tempi migliori. Claudia Trimarchi

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LIBRI RICEVUTI INES BETTA MONTANELLI - Lo specchio ritrovato - Note critiche di Giorgio Bárberi Squarotti, Maria Grazia Lenisa, Paolo Bertolani, Marina Caracciolo - Bastogi, Collana di Poesia Il Capricorno, 2004 - In copertina, a colori, particolare di “Giovane allo specchio”, di Giovanni Bellini Pagg. 112, € 8,00. Ines Betta MONTANELLI è nata alla Spezia da antica famiglia pontremolese. Da giovanissima si sente attratta dalla poesia che coltiva negli anni. È inserita in varie antologie poetiche. È vincitrice di numerosi concorsi nazionali di poesia, fra i quali si ricordano il Gran Premio “Histonium d’oro” di Vasto (CH), il “Penisola Sorrentina” di Sorrento, il concorso di Raidue “Ci vediamo in Tv” di Paolo Limiti con la pubblicazione della poesia premiata su “Lo Specchio” de “La Stampa” di Torino. Finalista più volte al concorso “Lerici Pea”, nel settembre 2001 ha conseguito il Premio Speciale della Giuria “Lerici Pea 2001 - Poeti nel Golfo” (Medaglia d’oro). Nel luglio 2001 ha conseguito il Primo Premio assoluto per la sezione libro edito, col volume Nel passaggio di tante lune, al Premo “Histonium di Vasto (CH). Ha inoltre conseguito il terzo premio al concorso “David” di Carrara nel 2003. Membro di Giuria in vari premi letterari. Inserita in “La Spezia nella poesia del 900”: studio “Progetto Giovani ‘93” realizzato dall’Istituto Domenico Chiodo. Nel 1997 è stata presentata a “La Versiliana” presso il Caffè dei Pinoli di Pietrasanta da Giuseppe Cordoni e Patrizia Hartmann. Nel 1998 ha ricevuto il Premio alla carriera nel concorso “Val di Vara”. Ha tenuto incontri di poesia con le scuole. “La Tribuna Letteraria” di Padova le ha dedicato pagine critiche con pubblicazione di alcune poesie. Nel 2003 la Genesi Editrice di Torino le ha dedicato alcune pagine critico-antologiche sulla rivista “Vernice”. Nel novembre 2003 le è stata conferita una targa alla cultura all’interno della cerimonia di premiazione della XV edizione del concorso “Iniziative Letterarie” di Milano. Di lei hanno scritto critici e letterati di chiara fama, tra i quali: Mario Luzi, Giorgio Bárberi Squarotti, Maria Grazia Lenisa, Ferruccio Battolini, Loris Jacopo Bononi, Elena Bono, Giuseppe Benelli, Paolo Bertolani, Sirio Guerrieri, Vittoriano Esposito, Elio Andriuoli, Ninnj Di Stefano Busà, Sandro GrosPietro, Giovanni Sbrana, Paolo Bassani, Giovanni Petronilli, Isabella Tedesco Vergano, Gianni Rescigno, Ada De Iudicibus Lisena, Franca Vannucci, Anna Ventura. Tra i suoi volumi pubblicati: Dal profondo (1981), Sete di stelle (1986), Trasparenze


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(1989), Radici d’acqua e terra (1993), Nel passaggio di tante lune (2000),Il chiaro enigma (2002). ** ELISABETTA DI IACONI SALATI - Altalene Presentazione di Luciana Vasile, Prefazione di Anna Maria Bonomi - In copertina, a colori, “L’ Altalena” di Ernesto Ciriello - Bonaccorso Editore, 2016, Pagg. 100, € 13,00. Simpatica la dedica dell’Autrice al nostro Direttore: “Con immensa stima al poeta Domenico Defelice, pietra miliare nel mondo delle lettere di questo tempo”. Elisabetta DI IACONI è nata a Roma nel quartiere Flaminio e si è laureata in Lettere presso l’Università La Sapienza. Collabora a varie riviste (“Silarus”, Pomezia-Notizie”, “Voce Romana”, “Voci dialettali”, “Romanità”). Frutto di appassionati studi sul dialetto romanesco del Seicento è il libro sul poeta Giovanni Camillo Peresio (Editore Rendina, 1997). Ha pubblicato “Quel fremito antico... (poesie, 2002), “Un enigma di quartiere” (romanzo per la gioventù, 2003), “Er celo s’arischiara” (poesie in dialetto romanesco, 2007) nonché ”La chiave ignota” (poesia, edita nel quaderno letterario Il Croco di PomeziaNotizie, 2009). Ha inoltre pubblicato “Elementi di lingua. Tecnica delle comunicazioni”, in collaborazione con Laura Pedone (Editoriale Scientifica, 2003). Ha ottenuto numerosi premi, a Pompei, Pomezia, Mattinata, S. Felice sul Panaro, Nocera Superiore, Nola, Salerno, Verona eccetera. Socia del Centro Romanesco Trilussa, frequenta il caffè dei poeti e il gruppo di poeti diretto da Sandro Bari. Iscritta all’Associazione Nazionale Poeti e Scrittori dialettali e al Centro Studi Belli. ** LUIGI RUGGERI - Michele e Gabriella Frenna. L’incontro dai mosaici alle poesie - Saggio - Associazione Teatro-Cultura “Beniamino Joppolo” Patti - Poeti della Misericordia - In copertina, a colori, “L’incontro”, mosaico di Michele Frenna Magi Editore, 2016, Pagg. 60, € 8,00. Non possediamo un curriculum di Luigi RUGGERI; sappiamo soltanto che corrisponde alla MA.GI. Editore di Patti (Messina).

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saggio “Santa Maria delle Vertighe tra storia, fede, leggenda e arte”, di Marcello Falletti di Villafalletto; “Paolo Spinoglio a Finalborgo”, di Tiziano Rossetto; “Tre Veneri in mostra a Torino”, di Gian Giorgio Massara; “I maestri dell’Accademia Albertina di Torino: Andrea Gastaldi, le opere e i giorni”, di Giovanni Cordero; “Intervista a Mons. Carlo Ghidelli Arcivescovo emerito di LancianoOrtona”, di Carlo Pellegrini; “Apophoreta”, di Marcello Falletti di Villafalletto. * MAIL ART SERVICE - Bollettino informativo dell’Archivio “L. Pirandello” di Sacile (PN), diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN) - Riceviamo il n. 95, settembre 2016, sul quale leggiamo, tra l’altro: “La silloge poetica di Vincenzo Gasparro Fresco mattino come la tua spalla”, di Andrea Bonanno (prima parte); “Fuori quadro o dentro il quadro?” di Susanna Pelizza eccetera. ** ntl La Nuova Tribuna Letteraria - Rivista di Lettere ed Arte fondata da Giacomo Luzzagni, dir. responsabile Stefano Valentini, dir. editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - via Chiesa 27 - 35034 Lozzo Atestino (PD), C. P. 15 35031 Abano Terme (PD) - E-mail: nuovatribuna@yahoo.it Riceviamo il n. 124, ottobre-dicembre 2016, dal quale segnaliamo: “Alex Colville” di Natale Luzzagni; “Ode per un usignolo”, di Anna Vincitorio; “Camillo Sbarbaro”, di Luigi De Rosa; “Marina Cvetaeva”, di Liliana Porro Andriuoli; “Luís de Camões”, di Elio Andriuoli; l’intervista a “Francesca Luzzio”, di Pasquale Matrone eccetera. Tra le poesie evidenziamo “Europa 1348” di Rossano Onano e “Nell’eterno presente...”, di Laura Pierdicchi, della quale Stefano Valentini recensisce la recente silloge “Oltre”. Molte le rubriche (in “I vostri libri/Lo scaffale” viene segnalato “Bambini”, di Anna Vincitorio) e numerose e tutte splendide le fotografie a colori e in bianco e nero. Una rivista superlativa, alla quale i nostri lettori non dovrebbero rinunciare ad abbonarsi (abbonamento ordinario 45 euro - c.c.p. 99509820 intestato a Venilia Editrice) e a collaborare. Chiedere informazioni anche attraverso la e-mail o www.venilia.it

TRA LE RIVISTE IL PRESEPIO L’ERACLIANO - Organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili - fondata nel 1689 -, diretto da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (Firenze). E-mail: accademia_de_nobili@libero.it Riceviamo il n. 222/224 (luglio-settembre 2016), del quale segnaliamo il

“Non hai fatto il Presepio tu quest’anno?” - mi chiese Lei. “No, ce ne sono tanti - risposi - ovunque, più dello scors’anno. Ho visto quel dei frati oranti,


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dei gesuiti e dei carmelitani, ho visto pure quel dei protestanti. Tutti ben fatti: il Bimbo con le mani aperte, San Giuseppe con Maria, il somarello, il bue dagli occhi umani, la stella, un po’ di neve sulla via, la grotta... Sì, ben fatti tutti quanti, ma uno solo colpì la mente mia... Quale? Andremo stasera, lo vedrai...”. Verso sera, la borsa ricolmando con pane, burro, frutta ed altre cose Lei ancor mi chiese: “Ed al Presepio quando?”. “Ora!” - risposi. E Lei: “Con queste cose?”. “Sì, e con tutto l’amor he dentro abbiamo. Vedrai il Presepio. Andiamo!”. E camminammo così fin dove la città finisce... Dietro una porta vecchia ci fermammo. Bussammo. Non rispose che un lamento. Spingemmo l’uscio con la mano. Entrammo: era il Presepio. L’ultimo Presepio. Una baracca senza pavimento. Una stamberga peggio che una grotta. Nel focolare un tizzo semispento. Una panchetta, qualche sedia rotta... Era il Presepio, ma senza Re Magi, senza il tepore delle pecorelle, senza un pastore, un ninnolo un conforto. Ivi Natale non aveva stelle: era un Presepio con tre statue sole, tre sole statue dallo sguardo assorto: una madre col nero sulla testa, un padre disperato, un figlio morto... ........................................................ Lontano, la città gioiva in festa. (Natale 1948)

Nino Ferraù

BUON NATALE 2016 ! e... FELICE ANNO 2017 !

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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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