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Aalleluia! Aalleluia! Alleluuiaaa!
Le Amministrazioni Comunali Pometine e l’Arte e la Bellezza che non danno da ...mangiare
OPPO, DELCROIX, PIOMBANTI AMMANNATI di Domenico Defelice
I
tre capitoli che compongono il volumetto, tutti e tre firmati dalla professoressa Daniela De Angelis, sono “L’affresco di Oppo a Pomezia”, “Giuseppe Piombanti Ammannati e le ceramiche dedicate a Pomezia” e “Toponomastica pometina”. Su questi temi si sviluppano, poi, le ricerche dei suoi allievi dell’Istituto Artistico della città: “Cipriano Efisio Oppo”, effettuate da Alessio Barbarossa e Asia Concetti; “Giuseppe Piombanti Ammannati”, di Cristian Palumbo, Giuseppe Seminara e Andrea Valentini”; “Toponimi”, di Ilaria Ambroselli, Valentina Digrisolo, Gioia Dos Reis, Camila Peña Coya, Federico Santini, Gianmarco Savioli e Sara Sbravatti. Di Oppo (1890-1962), prima che, nel 1970, ci sistemassimo definitivamente a Pomezia, ci aveva parlato Carlo Delcroix in uno dei tanti incontri nella sua casa di Piazza Adriana 10, in Roma.
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All’interno: Luigi Ventura: Cicco Simonetta, di Carmine Chiodo, pag. 5 Salvatore Rizzo, di Ilia Pedrina, pag. 7 Paolo Ruffilli: Variazioni sul tema, di Elio Andriuoli, pag. 10 Carlo Bo, di Luigi De Rosa, pag. 13 Carmelo Pirrera: O Principessa!, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 17 Cosa dobbiamo conoscere di Rimbaud per tradurlo, di Themistoklis Katsaounis, pag. 20 Giovanni Amendola, di Leonardo Selvaggi, pag. 22 Tre opere di Rocco Cambareri, di Maria Antonietta Mòsele, pag. 28 I Poeti e la Natura (Giovanni Descalzo), di Luigi De Rosa, pag. 30 Notizie, pag. 43 Libri ricevuti, pag. 45 Tra le riviste, pag. 46
RECENSIONI di/per: Tito Cauchi (Tra ioni e furori, di Rocco Cambareri, pag. 32); Tito Cauchi (Il quaderno della sfida, di Elena Milesi, pag. 32); Carmine Chiodo (Effetti diversi, di Francesco Curto, pag.33); Gianfranco Cotronei (Il quaderno della sfida, di Elena Milesi, pag. 35); Domenico Defelice (Fogli di vita, di Caterina Felici, pag. 35); Domenico Defelice (Palcoscenico, di Tito Cauchi, pag. 36); Domenico Defelice (Poesia e Musica, di Mariagina Bonciani, pag. 37); Giuseppe Giorgioli (Non vale una lira, di Mario Giordano, pag. 37); Maria Antonietta Mòsele (Gioventù dorata, di Silvano Demarchi, pag. 39); Andrea Pugiotto (Benny e Omar, di Eoin Colfer, pag. 40); Andrea Pugiotto (La caccia al tesoro, di Andrea Camilleri, pag. 41). L’Italia di Silmàtteo, di Domenico Defelice, pag. 47 Lettere in Direzione (Ilia Pedrina a Domenico Defelice), pag. 48 Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Tito Cauchi, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Adriana Mondo, Rossano Onano, Teresinka Pereira, Andrea Pugiotto, Edio Felice Schiavone, Leonardo Selvaggi
All’inizio, a condurci e a farci conoscere il grande mutilato e cieco, è stato l’amico comune vicentino prof. Francesco Pedrina, il quale gli aveva sapientemente commentato la raccolta di sonetti Val Cordevole e ne stava curando pure la stampa presso l’Editore Cappelli di Bologna. In quella occasione, Pedrina ci chiese di aiutarlo a correggerne le bozze, affinché lui non si dovesse spostare ripetutamente da Vicenza, e così i nostri incontri col Delcroix furono molti. Andavamo a trovarlo di mattina, sul tardi. La moglie, assai amorevole e gentilissima, gli
accendeva una sigaretta, che lui fumava lentamente, servendosi di una mano meccanica. Iniziavamo subito il lavoro, noi leggendo e lui di continuo interrompendoci a commentare, a precisare, a chiederci di verificare. Si aprivano, fra noi, discussioni e chiacchiere interminabili, sulla guerra che lo aveva conciato in quello stato, appena ventenne; sul grande amore della sua ragazza che, quando lui fece ritorno dal fronte e in quelle pietose condizioni, decise non di lasciarlo, ma di sposarlo; su scrittori e poeti e artisti da lui incontrati, alcuni, in seguito, diventati suoi amici, da lui anche aiutati. Come Oppo, appunto, al quale
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offrì non solo “di affrescare la parete est della Corte delle Vittorie della Casa Madre dei Mutilati ed Invalidi di Piacentini posta sul lungotevere accanto al Palazzo di Giustizia” - come precisa la De Angelis -, ma anche il roccioso San Benedetto di Pomezia e tanto altro. Tra Delcroix e Oppo c’era più di una vera amicizia, anche perché entrambi mutilati (Oppo assai meno di Delcroix). Delle opere, che Giuseppe Piombanti Ammannati (1898-1996) ha dedicato a Pomezia, ci siamo occupati più volte; sulle pagine del nostro mensile, ma anche sul quotidiano Avvenire del 9 maggio 1976, con un articolo nel quale, oltre la statua “Pomezia”, segnalavamo le sue xilografie, specie quelle sulla Vita di Cristo (cm. 35,05 x 45, 05): ben 30 cartelle, numerate da I a XXX, ognuna delle quali raccoglie 10 xilografie e un frontespizio di 2 pagine di prefazione a firma di Piero Bargellini. Con l’artista fiorentino abbiamo avuto un intenso scambio epistolare e di lui conserviamo, oltre a una trentina di lettere (dal settembre 1975 al giugno 1991), alcune xilografie, tra le quali: “Il Redo - o - Nascita del Vitellino”, xilografia - matrice impressa su car-
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ta seta giapponese (in un foglietto a parte, l’artista ci indica le modalità per incorniciarla, tracciando pure un piccolo schizzo a matita); “Crocifissione” - episodio, dei dieci, facente parte della “Vita di Cristo”; “Deposizione” - acquaforte - pezzo tirato al torchio. Nel 1979, il costo di ogni esemplare delle xilografie era di 100.000 lire; ogni cartella (10 pezzi più le due pagine di presentazione di Bargellini), lire 700.000. Piombanti Ammannati, negli ultimi anni, data l’età, era quasi ossessionato dalla fine che avrebbero potuto subire le sue opere in ceramica dedicate a Pomezia. Su sua richiesta, ci siamo adoperati molto, ma senza successo, perché il Comune le acquistasse. Un politico si era pure impegnato di recarsi a Grassina per incontrare l’artista, il cui risultato fu, a detta di molti, una sua bella gita a Firenze a spese della comunità. Vero o falso tutto ciò, il risultato è che non si concluse mai niente, per l’esosità della richiesta dell’artista, fu detto; a noi risulta, invece, che Piombanti Ammannati le sue opere, non di-
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ciamo le avrebbe regalate, ma cedute senz’ altro a un prezzo simbolico, solo se il Comune si fosse impegnato di collocarle degnamente in qualche edificio pubblico. Nella lettera del 10 settembre 1986 egli ci scrive: “Il prezzo, di essa statua, lo lascio di proporlo ai Cittadini di Pomezia. L’ importante è che la statua ceramicata venga collocata a Pomezia”. E in un’altra, del 14 gennaio 1987: “la parte economica (...) non può creare nessuna preoccupazione, a i Pometini, per l’acquisto della statua”. Il costo di 20.000.000 di lire, strombazzato ad arte per non far nulla, non riguardava la statua, ma un eventuale altro lavoro simile che gli fosse stato commissionato da un privato! (sua lettera del 27 gennaio 1987). Abbiamo conosciuto personalmente l’artista fiorentino il 23 e 24 novembre 1974 ad Alanno, in Abruzzo, in occasione della premiazione di alcuni concorsi organizzati da Giovanni Marzoli. Quei due giorni sono stati per noi memorabili e assai intensi, una magnifica occasione per fraternizzare con molti artisti, con i quali eravamo già in corrispondenza, o lì conosciuti per la prima volta, come, per esempio, il grande scrittore veronese Rudy De Cadaval. Abbiamo apprezzato questo volumetto della De Angelis anche per i tanti ricordi che in noi ha suscitato, stimolandoci a cercar di dedicare, ancora una volta, alla nostra città di adozione, un po’ del nostro tempo. Uno dei prossimi impegni sarà proprio quello di pubblicare, in un quaderno Il Croco del nostro mensile, le lettere dell’amico Piombanti Ammannati, nella speranza (veramente poca; non c’è più sordo di chi non vuol sentire) di stimolare la nuova e pentastellata Amministrazione comunale perché si attivi a rintracciar quelle opere dedicate a Pomezia, ad acquisirle e darle degna collocazione. Ma la nostra speranza, ripetiamo, è al lumicino. Anche questa Amministrazione, come le altre in passato, è quasi ostile alla cultura e alla bellezza. Con entrambe - si diceva e si dice - non si mangia (e lasciamo al lettore di intendere quel che gli pare). Perfino il teatro comunale, per il quale
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si sono spesi già tantissimi soldi (e sul quale, in passato - vero o non vero, ma si dice -, tanti voraci ci han fatto la cresta!), ora vien messo in... vendita (o svendita?), facendo, così, la fortuna di qualche altro sanguisuga, pometino o foraneo. Alleluia! Alleluia! Noi non siamo magistrati, ma giornalisti e, spesso, per le tante omertà, non in grado di verificare le fonti. Perciò siamo costretti a riprendere e riferire solo voci e, come suol dirsi, con beneficio d’inventario. Spetta a chi può verificare ogni cosa, mettere le mani sulle carte - se esistono! - accertare la verità. Fatto è che, a Pomezia, mai un’opera ha avuto il suo corso regolare, mai è stata effettuata nei tempi stabiliti, neppure la sistemazione di un giardinetto! Tutto è lento e vischioso. Se tutto è stato sempre pulito e onesto, le lungaggini (e, a volte, la lievitazione dei costi) saranno state colpa dell’ aria... Domenico Defelice DANIELA DE ANGELIS (a cura di) - OPPO E 3 RICERCHE SU POMEZIA - ISA POMEZIA Liceo Artistico Pomezia - Gangemi Editore, 2014 - Pagg. 48, s. i. p.
UN PESO NEL CUORE Quando ti penso sento un peso nel cuore: un peso per quello che non ti ho detto, un peso per quello che non mi hai detto, un peso per quello che non ci siamo detti e per quello che non è successo. E questo peso lo sento anche se nel contempo mi è dolce il ricordo di ciò che ci siamo detti e dei momenti che insieme abbiamo vissuto. Ed il pensiero di averti conosciuto. Mariagina Bonciani Milano
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LUIGI VENTURA CICCO SIMONETTA: UN CACCURESE NEL RINASCIMENTO di Carmine Chiodo
L
UIGI Ventura è un appassionato e preparato storico locale. Ama il suo paese, Caccuri, in provincia di Crotone. Un paese piccolo ma che ha avuto nel passato una splendida storia e grandi personaggi. Ora il Ventura, per l'amore e l'affetto che porta al suo paese, gli dedica non solo questo felice e interessante libro, ma un altro, che bisogna citare, e che ha visto la luce nel 2005, una seconda edizione nel 2010, sempre stampato dalla Pubblisfera edizioni, e dal titolo "Caccuri, città di santi e feudatari": un libro che è una minuta e dettagliata storia di questo paese in cui fermentano vivi germi di cultura e qui, ancora in questo paese, si svolgono importanti manifestazioni culturali, ormai note in tutte Italia, come il prestigioso Premio letterario Caccuri. Orbene, Luigi Ventura è anche Presidente della associazione Culturale "Terzo Millenio" che ha portato avanti e porta ancora avanti importanti manifestazioni e iniziative storico-artistiche, culturali. Al pari del primo libro del 2005 questo del 2014 è molto importante e utile in quanto ci
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fa conoscere meglio la vita e la figura di un umanista che è nato nel paese di Caccuri nel 1410: si tratta dell'umanista Cicco Simonetta, sul quale gli storici (e penso agli studi rivoluzionari e illuminanti di Nadia Covini dell' Università Statale di Milano) hanno gettato una nuova luce. Il libro di Ventura è ben scritto e articolato. Un libro divulgativo e completo che segue passo passo la vita e l'operato politico di Cicco Simonetta, amico e consulente politico degli Sforza di Milano; Cicco è stato un grande politico e ha fatto la fortuna degli Sforza. Venne Cicco a contatto con gli Sforza di Milano per il tramite dello zio Angelo Simonetta, nativo di Policastro. Una sorella di Angelo, Margherita sposò un caccurese, tal Antonio Gucia, da cui nacque Cicco che, in realtà, secondo la Covini, si chiamerebbe Cicco Gucia, ma poi in seguito assunse il cognome dello zio Simonetta. Sempre la Covini ha scovato un altro documento sforzesco in cui lo stesso Cicco dice di essere nato nella nobile città di Policastro ove i suoi parenti avevano un ruolo politico di primo piano. Cicco forse dice cosi perché Policastro era più noto dello sperduto e poco conosciuto paese Caccuri. Comunque Cicco fu un grande umanista e un abilissimo politico e grazie alla sua intelligenza e scaltrezza raggiunse ben presto un posto di primo piano nella cancelleria degli Sforza. Cicco ebbe rapporti con i duchi e duchesse Sforza. Gli Sforza avevano riposto la massima fiducia nel politico caccurese e lo stimavano una persona eccellente e un abile stratega. Nella corte sforzesca Cicco poteva tutto e tutto dipendeva da lui: la politica e pure la cultura. Ventura si serve per mettere a fuoco la vita e l'opera di Cicco dei migliori studi: quelli di Marcello Simonetta, di Ernesto Pontieri, di Francesco Somaini che scrive una illuminante prefazione a questo libro di Luigi Ventura; Somaini giustamente scrive che “proprio Caccuri, e l'amore intensissimo per questa terra, sono stati anche alla base della decisione di Luigino Ventura di mettere mano alla stesura di questo agevole profilo del grande Segretario sforzesco. Come Cicco, infatti, anche Luigino
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Ventura è in definitiva animato da una potente affezione per il proprio borgo natio; e il legame con Caccuri e con la terra di Calabria, che in Cicco era rimasto appunto così vitale anche dopo anni di lontananza, traspare con analoga forza ed intensità anche nelle pagine di questo testo, che proprio a quel caccurese di sei secoli fa sono state dedicate dal caccurese Ventura" (v,p. 9 della Presentazione di Francesco Somaini). Ancora a Ventura si deve il merito di aver allestito vari convegni su Cicco, che si sono svolti nel corso del tempo a Caccuri e fuori Milano dove ha operato il caccurese. Questo libro su Cicco si legge di un fiato ed è scritto in modo chiaro e accessibile a tutti. Comunque, Cicco comandò finché durò la protezione degli Sforza ma poi quando subentrò ad essi Ludovico il Moro le cose cambiarono per il caccurese Cicco, che venne fatto arrestare dal Moro infatti, insieme ai suoi parenti, amici e collaboratori; molti suoi beni ed averi vennero distrutti e saccheggiati, come la spaziosa casa di Pavia, situata di fronte al Castello Visconteo. L'arresto del grande politico avvenne "nella segreteria del Castello Sforzesco e fu trasportato, con il fratello Giovanni nel castello di Pavia in una 'carretta da bussola sotto guardia di cento fanti'. Affidato alla custodia di Ambrogio Lunghignana, fu torturato e sottoposto a un processo farsesco (...)" (v. p. 45). Al mattino del 30 ottobre del 1480, Cicco, il potentissimo Cicco Simonetta, ormai settantenne, venne decapitato su un alto palco eretto nel rivellino nord del Castello Visconteo di Pavia. Moriva cosi "in modo crudele, un grande umanista e politico del Rinascimento che lo stesso Machiavelli aveva definito 'uomo per prudenza e per lunga pratica eccellentissimo' ". (v. p. 46). Anche uno storico come Federico Chabod ha lasciato scritto che Cicco aveva organizzato "la più moderna segreteria di Stato che sia mai esistita". Le sue spoglie mortali riposano nella IV Cappella (oggi della famiglia Conti) della chiesa di Santa Maria delle Grazie accanto al fratello Giovanni, il famoso storico del Ducato di Milano. Giovanni visse sempre all'om-
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bra del fratello Cicco e, pur Giovanni partecipando alla vita politica trovò il tempo di dedicarsi allo studio. Il fratello di Giovanni Cicco fu uomo di potere, "responsabile della politica sforzesca, Giovanni è l'esecutore delle delibere ed ebbe la responsabilità di far accettare i decreti ducali; di figura più modesta del fratello Cicco, fu uomo di grande equilibrio. Ci ha lasciato una opera storica: i cosiddetti "commentari” che attengono alle imprese belliche di Francesco Sforza (si trattano tutti gli avvenimenti della vita di Francesco Sforza dal 1420 al 1466). Per concludere questa nota è da dire che l'opera di Luigi Ventura è veramente meritoria e utile e nasce dall'amore che porta la suo paese e quindi è un'opera grandemente da apprezzare e tenere presente. Cicco onora Caccuri e la Calabria e quindi Luigi Ventura ha fatto bene e fa bene a sforzarsi a far conoscere la vita e l'opera di Cicco Simonetta, amico e stimato dagli artisti e letterati più grandi della sua epoca. Carmine Chiodo Luigi Ventura, Cicco Simonetta. Un caccurese nel Rinascimento, Pubbisfera Edizioni, San Giovanni in Fiore (CS), 2014, pp. 85
HAPPY BIRTHDAY, POETA TITO CAUCHI ¡FELIZ CUMPLEAÑOS 2014! Buscando un motivo para la alegría ¡encontré la fecha de su cumpleaños El once de agosto! Mi corazón andante llega a sua casa cantando las felicidades, bailando palabras tradicionales y hablando de que la condición urgente es de disfrutar la vida. La distancia sólo me permite mandarle cariños y abrazos sinceros y ¡desearle muchos años más de vida productiva y feliz! Teresinka Pereira USA
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IL POETA DI SICILIA
SALVATORE RIZZO GUIDA CON IL SUO CANTO GLI ACCORDI DI ARMONIA di Ilia Pedrina
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E la poesia è la più alta espressione dello spirito, come tale essa è trasparenza di rapporti fra l'anima e le cose e, conseguentemente, tra il lettore e il poeta. Perché interporre l'ombra della prefazione se si vuole lasciare intatta questa trasparenza? La parola di un terzo che anticipi un giudizio non può essere che facoltà di chi legge, il quale, rielaborando i motivi della ispirazione, può fare egli stesso opera d'arte e sentire il fuoco della potenza intuitiva per salire verso un mondo superiore di bellezza. Per il lettore, fra il mondo esterno e l'io, non c'è che un intermediario, il cristallo della propria coscienza su cui si riflettono la volontà, la percezione ed il pensiero, animati dal soffio del sentimento. Ecco perché 'Giardini dell'anima' non ha prefazione. S. R.” (Salvatore Rizzo, 'Giardini dell'anima - Liriche', I.R.E.S. Palermo, 1947, pag. 7). Salvatore Rizzo, poeta e raffinato critico letterario palermitano del Novecento, grande amico di Francesco Pedrina e di tutti i collaboratori della Rivista Letteraria 'Realismo Lirico', ama così aprire questo volumetto di canti in versi sciolti e di sonetti in rima, affinché al lettore sia data libertà piena di rispecchiamento, nel ritmo interno delle poesie e nelle rappresentazioni che le immagini evocate provocano: anticiparne l'interpretazione e gli effetti semantici, secondo il poeta, da una terza persona, sia pure di sensibilità elevata, non fa che allontanare l'immediatezza della fascinazione, che per i temi di poesia e di musica provoca abbandono. È come se l'autorevolezza del prefatore andasse ad incistarsi in quel rapporto diretto, intimo e silenzioso, ritmicamente cadenzato e modulato se si leggono i versi ad alta voce, anche solo per se stessi, che si viene a creare nel lettore, che dun-
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que reclama autonomia. Da questa raccolta 'Giardini dell'Anima' scelgo una lirica che, come sonetto, va letta e riletta ad alta voce: “ IL VERSO Ancora un sogno, ancora un alitare di pöesia: il fascino del verso che più mi tenta e che mi fa sognare e vedere nell'anima più terso, mi ritorna con l'ansito del mare, dove un mondo fantastico sommerso dal fondo affiora, sorge con le chiare visïoni dell'albe in ciel deterso, coi tramonti dorati e il mio ribelle spirito queta, parla al mio pensiero, al cuor che canta armonïosamente. O verso, tu che giungi alla mia mente con fuoco arcano, svelami il mistero dell'universo e rendimi alle stelle.” (S. Rizzo: 'Giardini dell'Anima', op. cit. pag. 123) Parole sulla poesia, queste, sul modo di mettere in verso il canto interiore, provocato dalle emozioni che il mondo e le cose ti fanno risaltare agli occhi, esaltandoti fino a farti perdere di vista la tua identità: è l'ultima terzina infatti a risultare approdo certo e senza confini, rivelando a tutti che il poeta prova e sperimenta su di sé, nell'abbandono al segreto fascino del ritmo, una identità nuova. Il mondo e le cose subiscono una rielaborazione nello sguardo del poeta e rinnovano ancora una volta la loro funzione essenziale, originaria, atavica ed arcana ad un tempo, quella di far provare meraviglia. Ed è dalla meraviglia, dall'antico greco 'thaumazein' che scaturisce ogni forma successiva di lettura dell'esperienza, dal canto al ritmo, dalla poesia alla sua tematizzazione ermeneutica, ai suoi risvolti di senso e di significato, alla letteratura dunque e alla filosofia che successivamente organizzerà e orienterà questi stessi temi. Allora è vero: questa lirica si aggancia perfettamente con quella che apre la raccolta, carica di interrogativi, ancora un sonetto:
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“SOLE E AMORE Alla terra domando, al cielo, al mare ed al tempo che fugge il grande arcano dell'universo, ed il pensiero mio vano incessante s'affanna ad indagare la ragion della vita che spiegare giammai saprà: come un groviglio strano avverte il mio pensier, se più lontano va dalla meta, e sa di naufragare. Ma se domando al sole trïonfale, che tutto abbraccia dall'immenso cielo, la legge che governa il suo vïaggio, squarciando del mistero il grande velo, il sol risponde col divin suo raggio: amore, amore, o piccolo mortale!” (S. Rizzo: 'Giardini dell'anima-Liriche', op. cit. pag. 11) 'Amor, che move il sole e l'altre stelle', aveva detto Dante organizzando il suo canto nel rispetto profondo delle conoscenze filosofiche, teologiche, scientifiche del suo tempo e sublimandole tutte insieme in un'opera che sigilla l'ardore della creatività umana con timbro d'oro e di fuoco insieme, per ogni tempo a venire. 'IL VERSO' è allora sonetto che torna all'ispirazione iniziale, quell'interrogativo a più spessori che chiede all'universo di darsi tutto nella parola, arcana e misteriosa sicuramente, ma dicibile agli altri, in poesia. Dante aveva capito che era l'Amore a muovere il sole e le altre stelle ed il sigillo della sua ispirazione si pone via via ad immettersi come onda lunga nella sensibilità di tutti gli altri poeti dopo di lui, italiani e non solo. Gli endecasillabi poi, vera e propria dimensione della ritmicità in rima che accompagna sempre i versi danteschi, si ritrovano in questo poeta temprati da una docilità alle Muse che è misura piena ed armonica del canto stesso. La pubblicazione viene portata a stampa il 2 gennaio 1947 e la raccolta si suddivide in sette sezioni: 'FIORI D'AMORE' ('Amor che nella mente mi ragiona'. Dante - Purgatorio - C. II); 'COLLOQUI' ('In la mente m'è fitta, ed or
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m'accora/la buona e cara immagine paterna/di voi quando nel mondo ad ora ad ora/m'insegnavate come l'uom s'eterna'. Dante - Inferno - C. XV); 'GAUDIA RERUM' ('La gloria di colui che tutto muove/per l'universo penetra e risplende'. Dante - Paradiso - C. I); 'FOCOLARE' ('Poi che la carità del natio loco/mi strinse...' Dante - Inferno - C. XIV); 'MATER GENTIUM' ('E sotto l'ombra delle sacre penne/governò il mondo...'. Dante Paradiso - C. VI); 'MISTERO' ('…e il pensamento in sogno trasmutai.' Dante - Purgatorio - C. XVIII); 'EXCELSIOR' ('Per correr migliori acque alza le vele...' Dante - Purgatorio – C. I). Pochi nei versi di Salvatore Rizzo gli echi della guerra appena conclusa e delle ferite incredibili ed ancora sanguinanti che questa terra di poeti e di santi e di eroi ha subìto, molte le liriche dal tono amaro, allora in versi sciolti, brevi, quasi in spasimo ansimante. La speranza prevale nel suo canto, quell'armonia che pone segretamente le radici nella antica terra di Sicilia, affiancata da una religiosità schietta e consapevole. Infatti nella lirica 'POETA', inserita nella sesta sezione, egli traccia un percorso che accomuna i cantori in versi d'ogni tempo: '….La fiamma del tuo sangue che brilla intorno al cuore dispiega la luce che ti svela gli arcani segreti di mondi lontani. Tu sai che rovinano i regni, che il tempo ogni cosa dissolve, che il mare s'alterna alla terra, che gli uomini s'odiano invano tra fiumi di sangue e tumulti di guerra, ma la divina carezza del sogno, o fratello, e la sublime bellezza del volo dell'anima tua sulla via degli astri, ti fanno sovrano per l'estasi del cuore, per la gioia infinita
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della tua vita, per l'Ideale che trascende il tempo.' (S. Rizzo, op. cit. pag. 144). Un altro volumetto di poesie che mi sono procurata in rete, tra i libri usati, 'Approdi', presenta una dedica particolarissima, autografa: “A G. B. Palumbo, all'Editore carissimo che mi ha tenuto a battesimo, all'Amico leale, con fraterno affetto. Salvatore Rizzo Palermo 13/9/53”. Nel risvolto di copertina l'indicazione di un volumetto di Aldo Capasso 'Formiche d' Autunno', pure della stessa Casa Editrice Liguria di Genova. La raccolta è stata stampata nel marzo del 1953, si compone di 32 liriche ed alla fine sono riportati alcuni giudizi di critici poi rimasti fedeli in amicizia anche a Domenico Defelice: Roger Clerici, Aldo Capasso, Federico De Maria, Giulio Cogni, Tullio Consalvatico, Giuseppe Villaroel ed altri ancora. La dott. Rosalba Guarneri, direttrice dell' Archivio storico della Biblioteca Civica di Palermo, da me interpellata, mi informa con infinita gentilezza e rinnovato interesse che nel fondo 'Salvatore Rizzo' compaiono, a lui indirizzate, 36 lettere e due telegrammi di Francesco Pedrina, lettere e cartoline in gran numero di Lionello Fiumi e poi di Maurice Carême e di altri poeti belgi amici del Fiumi come Geo Libbrecht ed Edmond Vandercammen, di Elena Bono, di Aldo Capasso, tutto materiale che mi farò pervenire in stampa digitale. Allora si dischiudono altri orizzonti e la meraviglia non cessa di alimentare la mia ricerca, coinvolgendo a sorpresa, così, senza preavviso. Ilia Pedrina Stampare un giornale ci vuole coraggio, ma è più difficile farlo vivere: composizione, bozze, carta, stampa, buste, francobolli… se non volete che POMEZIA-NOTIZIE muoia, diffondetelo e aiutatelo con versamenti volontari (specialmente chi trova la propria firma, o scritti che lo riguardano, dovrebbe sentirsi moralmente obbligato. L’abbonamento serve solo per ricevere la rivista per un anno). C/c. p. n. 43585009 intestato al Direttore
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I GIORNI INNALZATI LONTANO La vita rifatta intensa e unificata, i frammenti delle spaccature non ci sono più. La poesia presenta alleggerito il mondo di fuori, colorato, tutto preso insieme, le opposizioni divenute incontri. Le realtà che erano ispide con slanci vengono a noi allineate. Un fiume con tutto dentro amalgamato, i pensieri insieme ravviati e ordinati una sola massa. Nessuno più ci conosce come se evaporati non stessimo sulla terra, ci soccorre la poesia. Flebile e dura, salta sopra, con dolcezza vicino: ha parole che sembrano canto, il suo arrivo alato, invisibile ombra vestita di traforato manto. Fermi rimasti come prima, non andati ai cambiamenti deformati, lustrati di fuori, turgidi di grasso e di fango dentro. Siamo pietrificati, come resti antichi seminterrati. Gli arti irrigiditi non sanno più la porta. Soltanto le streghe ci sono intorno, le loro braccia sono sbarre di contro. La poesia viene furente per difenderci, porta alle mani, altri mezzi. Sa bene che cosa abbiamo avuto: i nostri giorni passati e le fatiche fatte per tenerci lindi, la casa ordinata e l’amorevole continuo correre, l’aspetto nobilitato e la sempre composta andatura di carattere e di presenza. La poesia ama il dolore che in tanta massa abbonda nella vita, è compagna fedele, non se ne allontana. Nel dolore allarga i pensieri che trovano cammini profondi. Il dolore non ha mete da raggiungere, ma strettoie e fissità di punti, intensità soltanto scavate nei recessi più lontani. Da questi ci si innalza infiammati trovando alimento per estesi oblii. Si perviene ad attimi di splendidezza, a serene interiorità fattesi felici. Un attaccamento morboso fa correre dal dolore come fosse nostro, colloquiando lo alleggeriamo distratti, il dolore va per conto suo, si divide. Leonardo Selvaggi
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PAOLO RUFFILLI: VARIAZIONI SUL TEMA di Elio Andriuoli
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L romanzo di una vita potrebbe definirsi Variazioni sul tema (Nino Aragno Editore, Torino, 2014, € 12,00), la nuova silloge poetica di Paolo Ruffilli che raccoglie, accanto a poesie inedite, quali quelle delle due prime sezioni, La notte bianca e Paesaggi con figure, altre già edite, ma ampiamente rivisitate dall’autore, quali quelle di Camera oscura, Diario di Normandia e Piccola colazione. Il poeta si racconta e ferma le intuizioni che gli nascono dalla sequenza dei giorni, creando una specie di diario lirico quanto mai interessante e organico. L’andamento è disinvolto e fluido; talvolta ironico; e rivela un modo di porsi piuttosto critico di fronte al mondo, se può dire a proposito della problematicità del nostro vivere: “Le falsità / dell’intelletto, / gli oscuri mostri / del pensiero, / l’effetto / delle vane immagini / sul cuore, / l’eterno ricorso / alle risorse dell’amore, / l’ombra del vero eluso / senza reale soluzione. / Con solo un dato certo / in fondo / neppure più / la previsione, / del tempo perso / per servire il mondo” (Servi del mondo). E ancora: “Nati dal corpo / di natura,/distaccati e alzati/in volo,/ma ricaduti in ansia/e per paura. /… / Disposti a sopportare / disagi e strazi, / misfatti ed infortuni.
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/ Chiusi nel sogno intatto / di uscirne fuori, / chissà come, immuni” (Chiusi nel sogno); Si vedano poi sentenze quali: “Quel che è distrutto / patisce la ferita” (In uso di litote). Talora la parola di Ruffilli si fa particolarmente intensa, sicché le sue parole acquistano maggiore incisività, come accade nella lirica La gioia e il lutto, che è una delle sue più riuscite: “L’accendersi e / lo spegnersi (per caso?) / della vita, / la traccia luminosa, / la scia che lascia / dietro a sé / quello che è stato, / amato o non amato / comunque sconosciuto, / la gioia e il lutto: / precipitato, tutto, / nel cieco vaso/che posa tra le braccia/del suo buio./L’orma appassita / eppure, in tanto, / rifiorita di ogni cosa,/L’ombra e l’ odore/neppure più il colore,/il pensiero pensato/della rosa”. La vita come “gioco mobile / di specchi”, tra “sogno e realtà” (Navigazione); “la felicità” che “si confonde / con la dissolvenza stessa / di ogni cosa” (Felicità); le “orme” labili che sfuggono al ricordo (Traccia); “le mirabili cose / del mondo” che “abbagliano / come fate morgane”, tutto diviene in queste pagine materia di canto, dal momento che la meditazione insensibilmente si trasforma in poesia, così come si trasforma in poesia l’ osservazione attenta della natura di Paesaggi con figure, dove leggiamo: “Dal mare in corsa / le nuvole si infilano / strisciando tra le case, / mondando la città / come torrenti” (Dal mare in corsa); “E’ immobile, la notte, / sopra di noi / e tutto tace intorno, / meno la voce / del fiume mormorante” (E’ immobile, la notte); “Piove. E, / insieme con la pioggia, / perfino il buio / sembra venir giù / nel turbine di cenere bagnata” (Piove. E,). Ma l’osservazione attenta della natura, sentita come creatura viva, è ovunque presente in Ruffilli, e si presta a moltissime citazioni, quali: “… il silenzio immobile d’estate / addormentato / dal ronzare degli insetti” (La distesa ondeggiante); “Frustando l’aria / obliqui i fiocchi / piombano giù induriti / colpendo come proiettili / le nostre mani e i visi” (Frustando l’aria); “Un vento sordo sale su dal mare / ingolfato dai pini” (Un vento sordo).
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Né mancano tra queste poesie quelle d’ amore, che si aprono a più lievi notazioni, quali: “… e mentre tu mi passi / la tua mano / leggera tra i capelli / la fine della vita / appare più lontana” (Freme l’aria calda); “E quel suo naso / piccolo e superbo / le fa palpitare / intanto le narici” (Si ferma). Si tratta comunque di storie amorose che si dipanano come parte integrante dell’umana avventura; nascendo improvvise e impreviste nell’ impalpabile trama della vita, dove accendono fugaci fuochi. Ritroviamo in Variazioni sul tema anche (e già lo si è detto) Camera oscura, che raccoglie testi delimitati da due date: 1976 e 1992. Il titolo richiama subito alla mente l’ hobby della fotografia; hobby che in verità molto bene si presta a sollecitare l’estro poetico, dal momento che le immagini fermate dalla macchina fotografica hanno un contenuto altamente evocativo, facendo rivivere emozioni perdute, le quali tornano attuali nel presente, generando squarci di schietta poesia. Tornano così “le tracce di un/discorso in sé smarrito/perduto, scivolato/sul pendio del/ tempo fulminato” (L’ombra del volto) e tornano le immagini di colei che “Nell’abito di organza/traforato, sta/in posa su di un/piccolo divano”; di chi, “monarchico / in casa socialista,/era la pecora nera / della famiglia”; del “bambino appoggiato / alle ginocchia di / suo padre”; così come tornano le figure del giovane che era “partito per il nord / della Germania, / a lavorare in fabbrica”; della donna dai “capelli tirati / sulle spalle / … / In un vestito / a pois. Di poco oltre i vent’anni”; di se stesso, con “una maglietta / larga, che copre / gli altri panni” a sette anni; e così via. Quello che qui più conta sono però le riflessioni che quelle immagini sanno suscitare, come: “sempre ho pensato / a quel che era e che / poteva non essere stato, / al caso cui si lega / ogni storia” (Ride mia madre) o “Se guardo indietro, ora, / mi vedo un po’ annegato / dal vuoto che, come / un vetro, si è posto / tra il me di adesso e / quello più discosto” (Se guardo).
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Ciò che resta alla fine è una serie di figure affioranti dal passato che, un po’ stereotipate, perpetuano la loro esistenza al di là del tempo: “I genitori dietro. / Il padre , in piedi, / soddisfatto tenendo / la mano della figlia / che lo guarda / di sbieco, sotto la tesa / della paglietta” (I genitori dietro) o anche: “I baffi scuri / a spazzola, / posa con la / divisa di cavalleria” (I baffi scuri). E sono tutte immagini di vita perdute che la penna del poeta sa resuscitare. Il Diario di Normandia è formato da una serie di annotazioni costituenti gli appunti di un viaggio compiuto nel nord della Francia; e segnano i momenti più significativi vissuti dal poeta durante il suo itinerario, come questo: “Resto, lo sento,/viaggiatore lento/di sola terraferma,/che scruta il mare da lontano” (Honfleur; Calvados: 11 agosto) o ancora: “la casa sulla spiaggia/è un trampolino, / ultimo saluto dalla terraferma” (Saint-Aubin, Calvados: 14 agosto); “Il relitto/sul lido delle dune/poggia sul fianco,/inerte e gonfio” (Bernières, Calvados: 18 agosto); “Il vecchio bastimento/sta inclinato/contro la banchina/…/ Sull’albero di poppa/stazionano file di gabbiani” (Cabourg, Calvados: 20 agosto); ecc. Piccola colazione è un libro formato da sei poemetti nei quali Ruffilli percorre un suo itinerario esistenziale in cui Giuseppe Pontiggia ha scoperto “una grazia compositiva che sa fondere in sequenze unitarie dialoghi, racconto, immagini”. Il testo può dapprima apparire oscuro; ma poi ci si avvede che Ruffilli ha proceduto per scorci e per sintesi che riassumono tutto un più ampio discorso in frasi pregnanti, quali: “Ciò che è confessato / è tolto”; “Intanto, dappertutto / Dio ti vede”; “E’ la parte detta / e, dicendola, violata / quella che conta”. Lo stile può qui assumere anche colorazioni espressionistiche, quali: “Rosso. Di febbre, di / sangue. Dentro al fuoco. / Di unghie e labbra”. Il dialogo in questi poemetti procede serrato, sovente con un’interlocutrice che assume diversi ruoli, ma che sembra rappresenti “l’eterno feminino”. Frasi quali “Mi chiedo a volte / cosa stia-
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mo a fare” o “La vita è acqua sporca. / E tutto non è niente” valgono ad offrire l’ immagine di una visione del mondo certo non idilliaca. In essa il poeta si muove con rara abilità compositiva. La “colazione” di cui ci parla Ruffilli è innanzi tutto “piccola” e pare stia a significare il pasto della vita. Noi ne offriamo l’interpretazione che ne dà Giuseppe Pontiggia: e cioè, per quanto riguarda la prima sezione, Malaria, viene intesa come “le prime infrazioni sessuali”; per quanto riguarda la seconda, Fu vera gloria, come “le prime trasgressioni coniugali”; per quanto riguarda la terza, Per amore o per forza, essa “prefigura, già nel titolo, il tipo di alternative che la passione concede all’ amante”; la quarta, L’ assedio di Costantinopoli, “introduce le distorsioni ottiche di un cannocchiale alla rovescia, avvicinando la realtà solo per rimpicciolire, attraverso un confronto con la storia, le turbe collettive”; la quinta, Prodotti notevoli, secondo Pontiggia “introduce a quel mondo di litanie superstiziose che è diventata la scuola. Né manca, tra quinte fatiscenti e fondali di polvere, l’ invocazione al padre, liturgia domestica che non si sa se propiziatoria o esecratoria”; la sesta, All’infuori del corpo, mentre “impone alla persona amata riti rassicurativi, svela crepe più sinistre e temibili”. Un testo di molto impegno, dunque quello di Piccola colazione, che dimostra nel suo autore una notevole abilità compositiva e che chiude degnamente un libro di indubbio valore, qual è Variazioni sul tema, offrendoci inoltre una visione compiuta di un poeta ormai da tempo affermato. Elio Andriuoli L’ASCENSORE A volte mi sembra che questo breve tratto in ascensore non abbia più termine. Non c’è nella cabina una spia luminosa che indichi il succedersi dei piani
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e mi sembra che l’ascensore stia salendo per più tempo del solito. Mi chiedo se salirà ancora per molto e dove andrà una volta oltrepassato il suo traguardo. Un leggero malessere mi invade… Ma poi infine l’ascensore si ferma. Apro la porta, esco e con sollievo mi ritrovo al mio solito terzo piano. E provo anche una leggera delusione … in quale nuovo e misterioso posto mi avrebbe potuto portare l’imprevedibile ascensore ? Mariagina Bonciani Milano
IL CERVO Maestosa, imponente la corona cornuta del fuggente cervo terrorizzato... L’urlo-boato, assurdo e breve: brivido orribile, istantaneo, lancinante... e più niente. Camuffato, angolato, iroso, ràuco, incandescente fiato, aspro, lontano... come, inimmaginabilmente, non fosse stato ben evidenziato: reale, nefasto, atroce, mostruoso... Di botto, silenziosa, genuflessa, verde-fiorita la Giungla ossequiosa - dinnanzi al pasto làuto, rosso-vivo, immediato... della tigre. Usuale e malvagio l’attimo triste e vitale d’ogni giorno selvaggio, ferocemente assurdo... Altro respiro sospeso, recondito, attento, trattenuto a stento, vigile, sensibile, istintivo, trepidante... infine, rassegnato, affaticato... nell’attesa d’un Mondo che non c’è. Edio Felice Schiavone Bari Santo Spirito
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Breve ricordo di un grande Ligure:
CARLO BO di Luigi De Rosa
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ARLO Bo è stato un grande studioso e Critico letterario che, dedicando la sua vita all'insegnamento universitario e alla Letteratura, ha saldato in un forte legame culturale la Liguria della sua Sestri Levante alle Marche di Urbino, ricche di arte e di cultura. Non è facile ricordare un gigante come Bo nello spazio, forzatamente ristretto, di poche righe, ma ci provo, confidando nella comprensione dei lettori. Carlo Bo era nato a Sestri Levante (Genova) il 25 gennaio 1911. Compiuti gli studi superiori dai Gesuiti dell'Istituto Arecco di Genova (il supplente di greco era Camillo Sbarbaro, che gli insegnava...anche “poesia”) si era laureato in Lettere Moderne a 23 anni, nel 1934, all'Università di Firenze. A partire dal 1938 si svolse la sua carriera all'Università di Urbino, prima di docente (di Letteratura francese e spagnola), e poi di Rettore.
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Negli anni della guerra (dal 1940 al 1945) si rifugiò a Sestri Levante, a Rivanazzano (Voghera) e a Valbrona (lago di Como). Alla fine della guerra si stabilì a Milano insieme a Marise Ferro (già moglie di Guido Piovéne) che avrebbe poi sposato nel 1963. Ma a Sestri Levante sarebbe poi sempre tornato come in un amato rifugio estivo, a coltivare le sue origini, a passeggiare, con il solito sigaro tra le labbra, a nuotare nella Baia del Silenzio con la sorella, a leggere, a conversare (anche se burbero e riservato, ma buono ed essenziale, come sanno esserlo tanti Liguri...). Nel 1947 (quindi a soli 36 anni) venne nominato Rettore dell'Università di Urbino. Svolse questo prestigioso incarico per ben cinquantatré anni consecutivi, fino all'anno 2000. Tra i suoi meriti, l'aver fondato, già nel 1951, la Scuola Superiore per interpreti e traduttori di Milano. Scuola che, com'è noto, avrebbe poi aperto nuove sedi in Italia. Nel 1984 fu nominato “senatore a vita” dall'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini (nei gruppi Democrazia Cristiana, Partito Popolare Italiano, La Margherita). Carlo Bo, oltre che docente e scrittore, è stato anche giornalista, scrivendo per trentasette anni per il Corriere della Sera (dal 1963 al 2001). E' morto a Genova il 21 luglio 2001. Ai suoi funerali ha partecipato anche il Presidente della Repubblica Ciampi. Due anni dopo, l'Università di Urbino è stata intitolata al suo nome. Carlo Bo ha contribuito grandemente, anche con le sue magistrali Traduzioni (nel 1996 l'Università di Verona gli ha conferito la laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere) a far conoscere la Poesia europea del Novecento, nonostante certe chiusure nazionalistiche del Fascismo. E questo non solo approfondendo la conoscenza di poeti già noti come Antonio Machado, Paul Claudel, Clemente Rebora, Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, ma anche, e
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soprattutto, valorizzando poeti nuovi come Federico Garcia Lorca, Paul Eluard, André Bretone, nell'ambito dell'Ermetismo italiano, Mario Luzi, Carlo Betocchi, Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo. Tra gli Autori che, a loro volta, si sono occupati di lui, mi basta qui ricordare Apollonio, Macrì, Silvio Ramat, Piero Bigongiari, Mario Luzi, Geno Pampaloni. In tanto fervore di attività, comunque, non ha mai trascurato la cultura letteraria della sua Regione, la Liguria. Un esempio per tutti: l'appoggio e il riconoscimento critico per un nuovo poeta di Sestri Levante, Giovanni Descalzo (per non parlare del citato Montale e di altri). A Descalzo ha assicurato un posto nella storia letteraria italiana inserendolo nella sua importantissima “Storia della Letteratura Italiana” edita dalla Mondadori. Per Carlo Bo, la letteratura è stata talmente importante da identificarsi con la vita stessa. (“La letteratura è stata davvero per me, da un certo momento, la vita stessa.” -Diario aperto e chiuso 1932/1944). E' stato definito l'anti-Croce anche per la fedeltà al concetto “Letteratura uguale Vita” espresso a chiare lettere già nel 1938, nel suo testo Letteratura come vita, considerato il Manifesto della Letteratura del Secondo Novecento. In tale fondamentale scritto affermava, tra l'altro : “ ...A questo punto è chiaro come non possa esistere un'opposizione fra letteratura e vita. Per noi sono tutt'e due, e in ugual misura, strumenti di ricerca e quindi di verità... Non crediamo più ai letterati padroni gelosi dei loro libri... Non esiste un mestiere dello spirito... il valore di un testo dipende dal suo grado di vita, dal modo in cui è stata rispettata la vera realtà dei nostri movimenti...” Per capire meglio il pensiero di Carlo Bo, non si può non tenere presente che, al di sopra dei valori puramente critici e tecnicoletterari, per lui contano soprattutto i valori umani e spirituali. Per lui, nonostante il suo cattolicesimo “...non assestato, non formale, nemmeno troppo ortodosso e rigoroso...” è in ogni caso di estrema importanza una visione
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della vita cristiana, etica, spirituale. Si veda anche l'opera “Siamo ancora cristiani”, del 1964, nonché quelle intitolate “Don Calzolari ed altri preti “ del 1979, “Sulle tracce del Dio nascosto”, del 1984, “Solitudine e carità”, del 1985. Vicino ai grandi intellettuali cattolici francesi come Mauriac, Claudel, Bernanos, Maritain, è arrivato a propugnare un cristianesimo che esprima le ragioni dell' animo umano, che, contro ogni disperazione e crisi di pessimismo, creda profondamente in una “speranza scandalosa”, quella della preghiera... Bo è arrivato a scrivere, con estrema chiarezza, che “...se nella Letteratura non c'è, incarnato, lo Spirito, la letteratura è secca, sterile, non vale niente.” E per quanto riguarda i grandi problemi del nostro tempo, ed il nostro futuro, ha scritto, fra l'altro: “Bisognerà costruire insieme, credenti e no, un'altra civiltà, un mondo che sappia finalmente ritrovare lo spirito della carità cristiana, cioè saper perdonare e cercare di risolvere problemi epocali, inevitabili e giganteschi, secondo uno spirito di carità. Per quanto riguarda la Letteratura, essa è sempre figlia del proprio tempo, e mancando oggi valori forti, non vedo all'orizzonte la possibilità di una nuova classicità: i prossimi decenni saranno ancora tempi di sperimentalismi.” Luigi De Rosa
MEDIOEVO LA TEMPESTA DI MORIANO Matilde di Canossa e Papa Gregorio, al secolo Ildebrando di Soana, contendono ad Enrico la città di Lucca. L'Imperatore assedia il Castello di Moriano su consiglio dell'Antivescovo Pietro. Anselmo di Lucca nega a Rangerio gli aiuti richiesti, invitandolo a chiedere soccorso ai Santi guerrieri. Dalla Cattedra di Pietro con parola forte e piana manda a quelli di Moriano
POMEZIA-NOTIZIE Ildebrando di Soana: “Dalle terre d'Alemagna scuro in veste militare cala Enrico Imperatore onde Lucca saccheggiare. Alla nostra Santa Chiesa io comando la fedeltà mazza e spada gli opponete per la Croce e la libertà”. Manda a quelli di Moriano a strapiombo su del Serchio nel castello che ha due torri e due mura messe a cerchio. Onde l'orrido Rangerio condottiero di mercede corre senza guiderdone a difesa della fede. Manda a Lucca messaggero per Matilde di Canossa che conceda la milizia onde vincere si possa. Ma risponde il santo Anselmo di Matilde consigliero: “Dell'esercito di Enrico non è gioco aver pensiero. Di San Giorgio e San Michele il Castello ha belle icone, voi ad esse ricorrete perché corrano a tenzone”. All'intrepido Rangerio reca il messo la sentenza, il Castello di Moriano si dispone a resistenza. “Voi le spade e le bipenne preparate di affilare, ché San Giorgio e San Michele io non voglio affaticare”. Dalle selve di Turingia
Ottobre 2014 con l'insegna dell'Impero minacciando Roma e Lucca cala Enrico condottiero. Alle mura del Castello batte l'aquila imperiale, una volta e due le tenta con le spade e con le scale. Una volta e due Rangerio fa mestiere che non passi, manovrando dalle torri di balestra e con i sassi. Onde Pietro, che la spada antepone al ministero, Antivescovo di Lucca investito dall'Impero al Tedesco dà consiglio: “Non è sano fare guerra, bensì porre una steccata che il Castello intorno serra, a ciò che per vettovaglia niuno entri oppure evada, quindi prenderli per fame poi passarli a fil di spada”. Giorni e giorni alla steccata l'alemanno fa banchetto, beffeggiando i castellani poi che il pane fa difetto. Su Moriano lenta cala l'ala nera della morte, quando l'orrido Rangerio così parla chiaro e forte: “Abbracciare per la fame Sora Morte non ci aggrada, ma contendere sul campo manovrando mazza e spada”. Esce fuori dalle mura la milizia a guerreggiare, i soldati dell'Impero stanno fermi ad aspettare.
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già commessi tempo fa. Alto il sole a mezzo il giorno la battaglia è furibonda, che la terra disputata di corrusco sangue inonda. Fino a che nei castellani la fortezza non s'è spenta, quando a sé parla Rangerio che d'Anselmo si rammenta: “Voi, San Giorgio e San Michele male feci a beffeggiare, per la nostra Santa Chiesa mi vogliate perdonare”. A quel tratto il cielo oscura, guizza il lampo, la tempesta batte il campo del tedesco, scroscia l'acqua e non s'arresta, sì che sbandano i soldati lungo il prossimo torrente, che tracima travolgendo i carriaggi e tanta gente. Così che l'oste di Enrico fugge avendo mala sorte, e abbandona sul terreno vettovaglie, tende e morte. Per miracolo a Moriano resta il tempo sempre bello, la milizia di Rangerio si ripara nel Castello. A meriggio per il Serchio non c'è l'iride che posa ma la lancia di San Giorgio di Michele la spada luminosa. Rossano Onano Reggio Emilia LEZIONI Si va a scuola per studiare il Passato ed imparare a non replicare errori
Questo scopo, ahimè!, è vano, perché il genere umano ripercorre ogni dì le stesse vie. E’ così! Una guerra è uguale all’altra e gli odi, per onor o razza, mai non vengon superati dalle nuove generazioni. E purtroppo, amici cari, anche della scuola fuori la sostanza è ognor la stessa, perché la genìa umana fessa sempre fa la stessa strada, sempre fa lo stesso iter, imparando mai e giammai a tesor far degli errori! Questa sola è verità e da dire più non v’ha! Andrea Pugiotto
STAGIONE GRIGIA La stagione grigia Le ore vuote, i cieli identici il tempo che soffia nella stagione grigia. Nella nebbia delle banchine sgombre, carrozze deserte attendono i passeggeri di giornata, pendolari, tristi, stanchi di viaggiare ore perse per un tozzo di pane Eppure saranno accolti da questa città nella filigrana del suo esistere per giorni futuri, forse per una sola ora di felicità, arrivare a quella dignità umana che forgerà uomini migliori, indomiti,cullati nel domani che sorgerà pulito chiarificato dall'amore. Adriana Mondo
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CARMELO PIRRERA:
O PRINCIPESSA! di Liliana Porro Andriuoli
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proposito del più recente libro di Carmelo Pirrera, intitolato O Principessa! (Genesi Editrice, Torino, 2014, € 11,50), Aldo Gerbino1, nella sua dotta e illuminante Prefazione (Nel sogno, nell’anacronia) parla di una raccolta di “ventuno narrazioni”. Sono però, queste “narrazioni”, di un genere un po’ particolare, in quanto non sono mai dei semplici raccontini, e la maggior parte di esse non è nemmeno facilmente catalogabile né come favola né come fiaba in senso stretto; sebbene in alcune di esse s’affacci talvolta un intento di ammaestramento etico che le avvicina alla favola, mentre in molte altre, sia palese l'elemento fantastico e magico che le apparenta alle fiabe. Inutile d’altra parte una precisa catalogazione di qualcosa che è stato scritto in maniera spigliata e vivace e che si è letto con vivo godimento personale, facendoci riflettere e divertire allo stesso tempo. Tali narrazioni, infatti, pur essendo quasi tutte molto brevi (raramente superano le tre pagine), presentano una loro indubbia originalità, da un lato per gli argomenti trattati dall’altro per come vengono affrontati, in modo piuttosto ironico e surreale: di un’ironia talvolta amara, ma sempre sottile e coinvolgente. Così è della prima narrazione, quella eponima, O Principessa!, che ci presenta appunto una principessa (diverse altre ne incontreremo nel libro), la quale “a causa di un qualche suo segreto duolo”, piangeva nel suo “verone”. Interrogata sulla causa di tanta afflizione da quanti, passando sotto il balcone, la vedevano così afflitta, non forniva loro risposta alcuna. Soltanto al re, suo padre, che perentoriamente le ingiunge di rispondergli, la fan1
Ordinario di Istologia ed Embriologia alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Palermo, cultore di Antropologia culturale, critico d'arte e di letteratura, è anche poeta e saggista.
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ciulla, asciugandosi le lacrime, confessa: “O mio sovrano, padre dolcissimo e nobile signore, anche voi, dunque, provate meraviglia che avendo io un qualche duolo per cui piangere, pianga nel mio e non nell’altrui verone?” Anche la domanda del padre pare dunque venga fraintesa dalla fanciulla, la quale neppure a lui spiega la ragione di tanta sofferenza. Si direbbe che la principessa non si sia sentita compresa nel proprio dolore e non abbia colto nelle domande rivoltele alcuna partecipazione emotiva alla propria pena. In verità infatti le tre persone, un frate, un cavaliere e una fata (tutte di diverso rango e tutte ben individuate dall’autore nel proprio ruolo), a cui va aggiunto anche lo stesso padre, hanno formulato la domanda in maniera decisamente impropria e tutti con le stesse identiche parole: “O principessa, perché piangi nel tuo verone?”. È questa probabilmente la ragione per cui la risposta che la fanciulla dà al padre (unicamente per sottomissione all’autorità che gli compete), ci appare un po’ surreale e ci fa sorridere, ma purtroppo contemporaneamente
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ci rivela una tragica realtà della nostra vita odierna: la difficoltà di comunicare con i nostri simili. Così è anche della seconda narrazione, L’ incompreso. Protagonista ne è il principe Amedeo Carlo Filippo, il quale tutto sommato è anche un “buon sovrano”, ma con l’ ossessiva convinzione di credersi un pianista eccezionale. Una vera e propria mania, la sua: tutto il giorno “picchiava sul pianoforte, massacrandolo”, causando in tal modo “una vera tortura” a tutta la sua “corte”, purtroppo costretta, per ubbidienza (ma spesso anche per adulazione), ad ascoltare, o addirittura ad applaudire, le sue orribili esibizioni. Egli era tanto convinto delle sue prodigiose doti musicali da sentirsi un “incompreso” e giungere al punto di licenziare, senza la minima esitazione, “un esperto di note e di strumenti musicali”, solamente perché, un po’ forse incautamente, si era permesso di dargli “qualche prudente e timido consiglio” sul modo di suonare meglio un pianoforte. Il tipico caso di un artista che, sopravvalutando le proprie doti, non si sente adeguatamente apprezzato e valorizzato dagli altri; e pertanto, non mettendosi minimamente in discussione, si ritiene un “incompreso”. Giocata sull’ironia, ed ancor più sull’ assurdo, è Amleto aveva uno zio, dove Claudio non è più l’usurpatore del trono, in seguito all’assassinio del re, suo fratello, ma è semplicemente l’infelice zio di Amleto, del quale sposa, di malavoglia e in quanto costretto dalla legge locale, la madre, “la povera Gertrude”, moglie del fratello defunto, che qui muore non assassinato, bensì per indigestione. Ed inoltre non sarà Claudio, ad essere ucciso dal nipote Amleto, come avviene nella tragedia shakespeariana, ma sarà Amleto ad essere ucciso dallo zio, avendo questi manomesso la Maserati del nipote che, a causa di tale manomissione, va a schiantarsi contro un muro. Interessante è qui la forte innovazione fantastica della vicenda che viene ridicolizzata, rapportandola in maniera del tutto anacronistica alla nostra realtà attuale: si parla ad esempio di “intercettazione telefonica” e di
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spionaggio compiuto attraverso i moderni sistemi elettronici, come le “cimici”, che a quel tempo erano note soltanto per essere dei piccoli “insetti” molesti. Un particolare significato tra queste favole assume Preparativi per la giostra, in cui viene evocato il mondo cavalleresco attraverso alcuni dei suoi più noti protagonisti, quali Rinaldo di Montalbano, Angelica, Bradamante, il vescovo Turpino e lo stesso Carlo Magno: e ciò perché queste figure noi le avvertiamo non soltanto come personaggi di poemi e di romanzi, ma come espressione di una tradizione, quella dell’Opera dei pupi, che in Sicilia ha avuto largo spazio ed è ben radicata nell’immaginario popolare. In Shehrazade l’evocazione riguarda invece il mondo favoloso di Le Mille e una notte, con il suo crudele sovrano Shahriyar e la fanciulla che tenta di sfuggire alla morte narrandogli delle favole. Ma qui in realtà nulla accade. L’atmosfera è irreale. Shehrazade è davanti allo specchio sorridente: “ha venduto ancora un suo racconto per un giorno di sole”, mentre il re dorme, probabilmente sognando l’ultima storia che gli ha narrato Shehrazade. Forse Shahriyar ha già graziato in cuor suo Shehrazade; forse già un poco se ne è innamorato: nel sonno mormora parole incomprensibili; “forse è il nome di lei che sta dicendo”. Cosa diversa è La tristezza del re, una favola nella quale un re dipinto in un quadro da un pittore di scarsa fama, con un mantello scuro “ricamato a piccoli gigli e con tra le mani una chitarra muta”, lamenta la sua triste sorte, che è quella di “essere soltanto un re dipinto che il pittore […] ha ceduto per pochi soldi a un bottegaio che nulla sa di quadri né di re”, onde il sovrano “lo guarda dalla sua cornice con regale disprezzo”, mentre il pittore qualche volta “ricorda di avere in gioventù (or son mille anni!) ritratto un re con la chitarra il quale aveva la faccia ingrugnita di uno che soffre di stomaco. Evidente è qui la satira del re, il quale ha perduto ogni maestà, essendo soltanto un re dipinto e per giunta da un pittore che non è nemmeno riuscito ad affermarsi:
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“Un pittore senza Cappella Sistina, senza Galleria degli Uffizi, senza Cappella degli Scrovegni”. Come si vede, si fondono in queste favole ironia e malinconia, critica sociale e felicità del raccontare in maniera rapida e incisiva, che sono le caratteristiche proprie della scrittura del nostro autore, sia in prosa che in versi: caratteristiche che ritroviamo, com’è naturale, anche nelle ultime favole o miniracconti di questo suo recente libro, quali La vendetta del servo, in cui il figlio di un servitore che era diventato avvocato proprio per l’aiuto del padrone, parla male dei vecchi proprietari, dimostrando non solo una mancanza di riconoscenza nei loro confronti, ma anche uno scarso senso morale, avendo egli per di più “fatto man bassa” dei loro beni. Molte altre sarebbero le “narrazioni” di questo libro da esaminare, tutte di notevole interesse: ma poiché non ci è dato farlo in questa sede, vorremmo parlare soltanto brevemente di quella di Colapesce, con la quale il libro si chiude. Una leggenda, questa, particolarmente diffusa nell’Italia meridionale, e specialmente in Sicilia, in numerose versioni, ciascuna con la sua specificità. Anche nella narrazione del Pirrera Colapesce è un giovane molto esperto nel tuffarsi in mare per ripescarvi oggetti di vario pregio. Egli s’innamora di una fanciulla di grande bellezza, la quale vuole metterlo alla prova, gettando in mare un anello ed invitando il ragazzo a ripescarlo. Colapesce si tuffa, pur sapendo che non avrebbe mai trovato l’anello, data la profondità di quel mare, “né mai più riveduti i suoi begli occhi”, perché nel mare profondo avrebbe trovato la morte. La giovane, una donna moderna che fuma, resta invece indifferente ed anzi si spazientisce per il fatto che il suo spasimante, dopo un tempo ormai lungo, non faccia ritorno: segno, questo della sua insensibilità d’animo e della sua intima crudeltà, che contrasta con il sincero sentimento del ragazzo. Una storia, quella qui narrata, che, come bene osserva Gerbino, inserisce a buon diritto il libro di Pirrera “nella tradizione favolistica
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siciliana”. E si tratta di un giudizio di non poco conto se consideriamo che tale tradizione risale a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile: un libro che Benedetto Croce lodò e della cui validità si fece convinto assertore. Liliana Porro Andriuoli
IL TEMPO a Lina, a Nicola, a Lucia Il Tempo vola, gioca con i giorni, i minuti, l’istante, le ore lunghe... che scompaiono e corrono, fuggono come uccelli spaventati... E il Tempo corre, corre in fretta e furia... e scampa, rotola, svirgola, svigna a guisa della parola che non c’è... e l’Homo - fiero, austero, sereno irresponsabile, cultore delle cose... il mago magico, menefreghista Sapiens, fatica a stargli accanto, dietro... È il Tempo che va e viene... - l’Uomo sogna... fatica... dorme infine, nel nulla... intrigante, curioso gira, passa, ripassa affaccendato... col medesimo passo remoto storico, colluso, stretto alla moda saliente politica, corrotta, umanamente sostenuta da vili e vuoti emeriti, imbecilli, penosi... nell’evento fatidico di malandati corsi, malefici ricorsi... Frattanto, trepido il cuore, strappa, batte, ricorrente rintraccia il vuoto aritmico... e - lontana, distratta - l’eco fugge addolorata, dispera del sangue proprio... pare - nel Mondo - più di tutti, la sola spaventata, la più vera e sensibile. Al telefono il Tempo non risponde. Edio Felice Schiavone
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Ottobre 2014
Che cosa dobbiamo conoscere a riguardo di
RIMBAUD per poterlo tradurre1 Themistoklis Katsaounis
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N occasione dell'Organizzazione del primo Incontro Internazionale, vorrei sviluppare i miei pensieri, le mie problematiche e il mio parere critico, riguardo a tutte le cose che dobbiamo conoscere per poter tradurre Rimbaud con successo. Prima di tutto, vale la pena presentare alcuni punti biografici del poeta classico, che era oggetto della mia tesina. Arthur Rimbaud, anche se ha vissuto tutta la sua vita durante la seconda metà del diciannovesimo secolo, è stato una delle presenze più liberatorie e distruttive nella civiltà del ventesimo secolo, un fatto che provoca impressione, dato che questo poeta, anche fino al momento della sua morte, non lo conoscevano i lettori della sua patria, tranne un gruppo di artisti decadenti di
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Parigi. Ha smesso di scrivere poesia, poco dopo i suoi vent'anni, questo fatto ha provocato forse la più grande confusione intellettuale nella storia dell'arte. Aveva viaggiato in tredici diversi paesi, facendo lavori eterogenei, aveva lavorato come operaio di laboratorio, accattone, pedagogo, lavoratore di porto, commerciante, mercenario, marinaio, contrabbandiere di armi, cambiavalute, e per alcuni abitanti dell'Abissinia meridionale, come profeta musulmano! A causa della sua vita multiforme e del suo carattere versatile, riguardo alla sua personalità correvano varie voci, che presentavano i fatti veri della sua vita con inesattezze e falsità, offuscando la vita del poeta. A questo poeta rivoluzionario, si deve oggi l'opinione che abbiamo per gli artisti rivoluzionari, dal momento che ai nostri giorni e anche durante tutto il ventesimo secolo, ha influenzato e continua a influenzare tutti gli artisti che vedono la loro vita come una parte inseparabile della loro opera. In più questo poeta era un modello per musicisti di musica rock come Jim Morrison, Bob Dylan, ma anche per poeti beatnik, come Jack Kerouak, Allen Ginsberg. Però non influenza esclusivamente le generazioni successive, dato che era anche il precursore degli hippies. Ha gettato le fondamenta per il modello di vita ribelle e del giovane che si oppone contro il potere e contro le istituzioni che conducono l' uomo alla compatibilità e alla routine. In poche parole, se Rimbaud vivesse nella nostra epoca, potrebbe essere uno degli studenti del Maggio del 1968, uno dei campeggiatori del 1969, oppure un intellettuale tossicodipendente che ascolta la musica rock. Gli studiosi di Rimbaud, che continuano a dimostrare con una media annuale di dieci libri e di ottantasette articoli, che la poesia di Rimbaud continua a toccare l'attualità riguardo a questioni spinose che preoccupano l'uomo nella vita quotidiana, come l'amore, la politica, la liberazione da tutti i vincoli che comprimono i limiti della libertà e della vita. Tale poeta classico continua ad essere attuale, con il passar del tempo in tutte le epoche, e
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soprattutto nell'epoca dell'internazionalizzazione e della deificazione della scienza. La sua opera si conserva inalterata, si adegua a epoche, regole e principi morali, che distano molto dall'epoca, dalle regole e dai principi morali che predominavano durante la sua vita. Oggi, ogni lettore sistematico non si limita a leggere i testi degli scrittori della sua lingua materna. Arricchisce le sue conoscenze leggendo libri scritti in lingue straniere, oppure libri tradotti. Per questo motivo è molto importante una traduzione dell'opera di Rimbaud, un poeta universale, le cui opere sono le più vendute in Europa, con un'offerta alla vita intellettuale degli uomini, di grande valore ma soprattutto diacronica. Vale la pena sottolineare che Baudelaire, il migliore traduttore di Poe, è stato colui che ha reso famoso Poe ai lettori europei. Questo non si deve solo all'uso ottimo di due lingue, del francese e dell'inglese, ma soprattutto al temperamento e al suo modo di vita che erano simili al temperamento e al modo di vita di Poe. Così è riuscito a tradurre l'opera dello scrittore americano in modo eccellente nella lingua francese. La traduzione dell'opera richiede e presuppone la sua comprensione. Una comprensione dell'opera migliore di quella dello stesso autore. La conoscenza della lingua dell'epoca in cui ha vissuto l'autore, ma anche degli idiomi, non bastano come requisiti per la traduzione più corretta di un'opera, dato che non hanno la possibilità di sostituire la conoscenza totale dei significati di un testo. Perché la lingua è uno strumento nelle mani di ogni scrittore e di ogni traduttore, il quale non deve solo conoscere ma contemporaneamente deve anche amare. Solo in questo modo riuscirà a transustanziare il testo in immagini, suoni, visioni e magia tramite le pagine del libro. Traendo le conclusioni, per tradurre Rimbaud, oltre all'ottima conoscenza della lingua francese, dobbiamo diventare di nuovo tutti ragazzini. Come puoi tradurre la vita di un poeta vagabondo che arrossisce quando incontra uno straniero? Con quale lingua è for-
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se possibile rendere le ambizioni di un sedicenne, il quale viene fischiato, mentre passa, fumando la sua pipa di legno, davanti ai suoi vecchi compagni di scuola? Perché queste sono proprio poesie veramente! La vita dei grandi artisti come Rimbaud, è una poesia che viene scritta parallelamente alla loro opera, in combinazione a questa. Allora per tradurre Rimbaud, dobbiamo vedere il mondo tramite gli occhi di un ragazzino-fenomeno. Dobbiamo inoltre comprendere i fatti storici dell'epoca e il modo in cui questi fatti hanno influenzato l'anima del poeta, trasformandolo all'inizio in un ribelle, e in un avventuriero che rinnega per sempre nel suo mondo l'arte, come una cosa inutile e priva di contenuto. Forse sarebbe necessario che il traduttore vivesse il ruolo di Rimbaud, come proprio un attore che recita un ruolo a teatro, come proprio l'attore Marlon Brando recitava i suoi ruoli nei suoi film, tramite i quali è stato predominato come un mito dell'arte settima. Rimbaud, parlando un gergo con molte parole idiomatiche, con esclamazioni e con una brezza avanguardista che soffia come un vento fresco in tutta la sua opera, ci descrive come arriveremo all'Inferno e che cosa ci aspetta lì. Inoltre ci spiega in modo moderno la rivoluzione di un'anima, contro ogni tipo di potere. Anche il traduttore allora deve vivere l' insurrezione per gli ideali superiori all'ammissione al Comunismo e anche il progetto del profeta che soltanto un adolescente può avvicinare. Peraltro, per questo motivo Breton ha caratterizzato Rimbaud come ''un Dio vero dell'adolescenza''. In poche parole, per tradurre Rimbaud, dobbiamo conoscere la vita in tutti i suoi aspetti, come l'ha vissuta Rimbaud. Ogni volta che leggiamo i suoi libri dobbiamo comprenderli come se fossimo ragazzini nel mondo degli adulti. Dobbiamo essere soprattutto poeti entro la vita stessa! Themistoklis Katsaounis Traduzione dal Greco di: Giorgia Chaidemenopoulou _____________ 1 - Questo testo è stato letto al primo incontro internazionale di scrittori a Salamina (Grecia).
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Storico difensore della democrazia sfida Mussolini assassino onnipotente
GIOVANNI AMENDOLA di Leonardo Selvaggi
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IOVANNI Amendola nasce a Napoli il 15 aprile 1882 da famiglia di Sarno, di modeste condizioni. Durante gli studi universitari molte le difficoltà incontrate. Ha una innata inclinazione verso gli studi filosofici e religiosi che riafferma durante un soggiorno a Lipsia nel 1906. Dal 1909 al 1911 lo vediamo a Firenze. Nel 1913 come libero docente tiene un corso universitario a Pisa di filosofia teoretica, divenendo poi incaricato. I suoi saggi compaiono sulle riviste “Leonardo”, “La Voce”, “L’ Anima” fondata nel 1911 e diretta con G. Papini. L’amicizia con l’autore di “Un uomo finito” ha un significato di coincidenza di temperamento morale, in ambedue profonda passione individualistica. Collaboratore, inoltre, di “Prose” di Roma e de “Il Rinnovamento” di Milano. Importanti le pubblicazioni tra il 1908 e il 1915 su Maine de Biran, su La volontà è il Bene, su La Categoria e il volume
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“Etica e Biografia”, che rivelano un impegno profondamente meditativo. La sua concezione filosofica s’impernia attorno ad una forma di volontarismo etico, al binomio fra Volontà e Bene. Dà un forte contributo al rinnovamento della cultura italiana nel primo quindicennio del 1900. Esponente dello spiritualismo, partecipa alla battaglia contro il positivismo, contro la massoneria, la democrazia giolittiana in crisi dal punto di vista morale ed economico. Sostenitore della Destra storica da Sella a S. Spaventa, dell’autorità dello Stato, seguace del Partito liberale conservatore e delle sue tradizioni considerati la salvezza dell’Italia. Per Amendola occorre un liberismo più forte nell’ambito di un nazionalismo sano al di fuori delle irrazionalità estremistiche dannunziane. Nemico dell’avventura, dell’ improvvisazione, coerente fino al parossismo. Uomo severo, di grande dignità, non va dietro ai facili entusiasmi del popolo; la sua serietà è dirittura, sincerità. Nel 1912 passa al giornalismo come corrispondente politico romano del “Resto del Carlino”. Si è al tempo dell’impresa libica, vista da Amendola con entusiasmo, come un modo per rafforzare il carattere morale del popolo italiano. Nel 1914 nell’ufficio del “Corriere della Sera” di Roma. Volontario presta servizio come tenente d’artiglieria nel basso Isonzo, viene ferito, decorato, promosso capitano. In seguito colpito da febbri malariche abbandona il fronte. Lo ritroviamo giornalista. Interventista, convinto che la guerra contro gli Imperi Centrali è necessaria per assicurare la vittoria dei principi di umanità e di democrazia. È favorevole alla creazione del Comitato italiano per l’intesa fra i popoli oppressi dall’Austria, che nell’aprile 1918 porterà al Patto di Roma. È contro il pacifismo dei socialisti. Da sottolineare l’ incontro fra Amendola e Luigi Albertini, due protagonisti di uguale statura e genialità, corre fra di loro un’amicizia fraterna. Albertini direttore del “Corriere della Sera” dal 1900 al 1925, anno in cui viene allontanato dal fascismo. L’ ingresso nella politica militante G.
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Amendola lo ha con le elezioni generali del 1919, divenendo deputato per la circoscrizione di Salerno. Ancora successo elettorale ottiene nel 1921, quando vede crollare le speranze di un rientro del fascismo nella legalità. Occorre ora più che mai una unità democratica sempre decisa, basata sui principi dell’ ordine e del buon senso. È sottosegretario alle Finanze del secondo breve Ministero Nitti, 24 maggio - 15 giugno 1920. Fonda il quotidiano “Il Mondo”, di cui il primo numero esce il 26 gennaio 1922, con l’intento di dare una certa compattezza al ceto politico liberale nonostante i contrasti interni, in seguito dà vita al Partito democratico italiano molto presente nel Mezzogiorno. Nei due Ministeri Facta del 1922 Amendola diviene ministro delle Colonie. I fascisti vedono in Amendola uno dei massimi avversari, ciò è dimostrato dal “fermo” nella sua abitazione a Salerno il 15 dicembre 1923 in occasione della visita del Re e dalla prima aggressione a Roma il 26 dello stesso mese. Amendola inizia un’attività che non si arresta, la sua politica basata su una democrazia radicale e sul decentramento amministrativo, agendo attraverso i ceti medi soprattutto meridionali. Intende mettere freno all’espansione del fascismo e del comunismo. Al contrario del fascismo che con la sua prepotenza e presunzione assegna dall’alto i fini storici da seguire, la corrente conservatrice avutasi durante il Risorgimento, che aveva fatto da guida al popolo nei suoi primi passi, dà garanzia al risollevamento delle condizioni nazionali. Certamente come il Gobetti il Partito liberale secondo Amendola deve rafforzarsi e dare alle grandi masse vitalità democratica. Collaboratore nel contempo di Meucci Ruini, mentre si avvicina l’avvento del fascismo: si vuole un fronte di opposizione dai popolari ai socialisti, combattendo il latifondo, rendendo possibili gli investimenti nel Mezzogiorno e una più vasta produzione. Amendola è vicino anche a Turati per un futuro di rafforzamento della vita democratica. La figura di Giovanni Amendola sdegnosa rifulge in tutta la sua altezza nei giorni della
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catastrofe, del colpo di Stato nell’ottobre 1922 contro il governo e la democrazia: si erge più forte e combattente che mai contro le passioni e i contrasti a difesa della nobile volontà del popolo e delle tradizioni. L’idea vince. Il senso della civiltà ha piena ragione al di sopra delle più crudeli, insensate oppressioni soffocatrici. Il cammino politico di Amendola non ha mirato alla supremazia di un partito, ma al trionfo della libertà e dell’ uguaglianza. Sempre con coerenza verso gli obiettivi perseguiti con fede costante. Concordanza piena fra le sue forze spirituali e l’ attività pratica. In qualità di filosofo attinge all’essenzialità dei principi umani sorretti dai grandi valori. Fiducioso nelle istituzioni liberali, anche quando queste vengono distrutte dal fascismo. Amendola è un politico che trae le forze dal profondo dell’animo, dalla cultura e dal suo fine istinto. Tutto per lui si basa sulla volontà etica che guida lo sviluppo della personalità, che spinge alla lotta contro gli egoismi. La volontà è il motore che aziona il cammino verso la realizzazione dei rapporti sociali. Mussolini odia Amendola proprio quando questi si caratterizza come uomo austero, con qualità intellettuali ferme, possenti. La stessa figura fisica esprime il carattere forte, l’ imperturbabilità, come pure la profondità del pensiero. Bruno, di alta e massiccia sagoma, con gesti maestosi, ha un portamento sicuro e solido. In tutta chiarezza la sua persona si legge in faccia, non si ha bisogno di un programma politico. Amendola non è portato a capire i movimenti delle masse, nei suoi discorsi non si notano astuzie né espressioni artificiose proprie dell’oratoria del tribuno. Ha il senso profondo della democrazia, vista nella sua essenzialità, che sa di spirituale, non va dietro le utopie, vede la concretezza, la reale condizione dell’Italia che è prevalentemente un paese povero con le esigenze economiche più elementari. Sobrio, non concepisce le sottigliezze di stile, vede gli aspetti generali. Fermo nei suoi pensieri, chiuso nella sua solitudine. Un uomo pratico, un autentico meridionale, un
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napoletano provinciale. Mussolini odia a morte Amendola perché era il suo contrapposto: Mussolini codardo, fervente di impulsi torbidi, pieno di contraddizioni, artificioso, ambiguo, prepotente, ambizioso, falso, retorico, altiloquente, vanitoso; Giovanni Amendola silenzioso, coraggioso, senza mezzi di difesa, sereno, dalla spiritualità limpida, con la nudità dei suoi ideali, con la forza di una volontà irrefrenabile, fisso ai principi sublimi del Bene, della Giustizia. Seguace della Monarchia che vedeva in parallelismo con la sua fede nella democrazia. Legato alla dinastia dei Savoia, il suo lealismo monarchico al di sopra di ogni ingratitudine ricevuta. Dovette cedere solo quando fu evidente la servile complicità data dal Re al fascismo nei delitti di Stato e nella distruzione dell’ordine costituzionale. Determinazione e volontà di pari passo con l’intensificarsi dell’azione fascista. Amendola si irrigidisce, la sua voce si fa più forte, man mano che il fascismo raccoglie adesioni e si formano squadre di malfattori. Alla varietà di idee, di aspirazioni che significa promessa di un avvenire migliore subentra l’uniformità, la compressione della violenza fascista. Contro il livellamento s’impongono uomini di grandezza morale, fra questi s’innalza la figura di Giovanni Amendola, filosofo di vasta erudizione e di profonda, sofferta cultura che non concepisce i sofismi e i ragionamenti che portano a giustificare tutto. La sincerità, la lealtà sono le sue doti, non i modi ingannevoli che sono dei liberali fiancheggiatori, dei democratici ipocriti, dei cattolici che aderiscono al fascismo. Ci troviamo ora a vivere le giornate di fuoco di Giacomo Matteotti, grande eroe dell’ antifascismo, socialista riformista, seguace di Turati, Claudio Treves, Giuseppe Emanuele Modigliani. Affronta il fascismo slanciandosi con tutti gli impulsi del suo animo ardente, senza paura denunciando gli atti di violenza favoriti dal governo. È dopo il discorso alla Camera del 30 maggio 1924 che il 10 giugno viene aggredito a Roma sul lungo Tevere Arnaldo da Brescia, rapito e poi pugnalato. Mat-
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teotti denuncia i brogli e le violenze che hanno contraddistinto le elezioni del 1924. È trovato cadavere il 16 agosto 1924. La sua morte provoca un periodo di grave crisi al fascismo per la commozione prodotta nell’opinione pubblica e le reazioni degli altri partiti. “Il Mondo”mette in evidenza in correlazione con l’attività di Amendola l’atteggiamento di De Gasperi e di Giovanni Gronchi contro gli ambigui e ingannevoli liberali. In seguito al discorso di Turati in commemorazione di Matteotti il 27 giugno nasce la secessione chiamata dell’ “Aventino”, intesa come legalità in contrapposizione al governo. Sostengono l’ opposizione costituzionale i seguenti quotidiani: “La Stampa”, “Il Corriere della Sera”, “Il Lavoro”, “Il Mondo”, “Il Popolo”, “La Giustizia”, “L’Avanti”, “La Voce Repubblicana”, “Il Nuovo Paese”, “l’Epoca”, l’ “Azione”, “La Tribuna”, “Il Giornale d’Italia”. Amendola si allontana dalla Camera, è astensionista e intransigente, simboleggia il rappresentante degli Italiani migliori, intrepidi, che non si arrendono, né si nascondono. Preciso, prudente, riflette il momento che vive, sa gestire e amministrare una situazione contingente. I secessionisti vogliono con la loro opposizione esprimere un nuovo tipo di classe dirigente con principi etico-politici che sono punti di riferimento fino alla Resistenza. Amendola che guida la secessione vuole mettere in evidenza il carattere reazionario del fascismo. “In quest’aula noi non abbiamo nulla da fare e quasi nulla da dire”. Il fascismo teme la fine del comunismo, il rafforzamento dei ceti medi e della ricca borghesia e per l’Italia una nuova forza democratica. Giovanni Amendola con la secessione mira alla formazione di un partito liberale moderno che avrebbe portato a termine l’operato del Risorgimento. Il delitto Matteotti avrebbe risvegliato le coscienze di molti, ricostruito una democrazia liberale eliminando la mancanza di credibilità da parte della pubblica opinione, vista dal fascismo stesso. Rinnovato lo spirito degli uomini nel senso di arrivare ad una maturazione di dignità civile e morale. Il Parlamento con il
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suo spirito di rappresentatività può migliorare solo fuori del Parlamento riconoscendo l’ incostituzionalità del regime. Amendola va verso il sacrificio della sua vita. Afferma con forza la vitalità dei suoi principi, con impeti giovanili le sue parole preannunciano il rinnovamento della Resistenza. Convinto che la lotta politica ogni venti anni ha davanti a sé un compito di scelta tra libertà e azione. L’ “Aventino” ha preso le mosse dall’opera “Rivoluzione liberale” di P. Gobetti. Significa una rottura con i peggiori modi di essere della vita pubblica italiana, con le forme di azione violenta. Si vuole fuori dell’aula preparare il sommovimento di piazza. Sono pochi gruppi, i contadini per le loro condizioni non possono agire con libertà, le classi operaie non danno affidamento. Si va pertanto verso una sconfitta. I pochi individui rimasti all’ opposizione per Gobetti sono “una sicura riserva di carattere e di indipendenza per l’ Italia di domani”. Da una parte ci sono quei pochi che credono alla fede nei principi e alla disciplina di carattere secondo le affermazioni di Amendola, dall’altra coloro che si sottomettono al regime. Amendola vuole che dopo il periodo vissuto con la secessione si ritorni in aula con un movimento più libero per riprendere i rapporti con gli avversari. L’importanza dell’ “Aventino” consiste negli alti esempi di coerenza morale, di ostinatezza e perseveranza, di fedeltà alle idee di autentica democrazia, fondamentali per la formazione di una classe dirigente, grande premessa di ogni lotta politica per un paese civile. Tutta la politica di Giovanni Amendola prende di mira gli ideali dell’Europa liberaldemocratica, si sintetizza nelle linee di programma del movimento dell’Unione democratica nazionale formatosi nel novembre 1924 in opposizione al comunismo e al fascismo. Vi partecipano oltre ad Amendola intellettuali antifascisti, liberali, riformisti, demosociali. Cesare Rossi come Amendola accusa intanto di correità il governo nella lunga serie di delitti di Stato con un memoriale pubblicato nel quotidiano “Il Mondo” il 27 dicembre
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1924. Il 3 gennaio 1925 Mussolini abbandona ogni formalità costituzionale, è padrone dello Stato, l’Istituto monarchico ha perso forza. La monarchia crolla, non più amata da intere regioni dell’Italia centro settentrionale e si manifesta nella sua vera identità, sempre mantenuta, di sospetto, come avvertito da tanto dai cattolici più coscienti come Don Sturzo. Ricordiamo che importante pure nell’ ambito dell’azione politica il Manifesto degli intellettuali antifascisti, pubblicato su “Il Mondo” il 1° maggio 1925 promosso da Amendola insieme a B. Croce. Intanto il primo congresso dell’Unione democratica nazionale, che sarà l’ultimo, si ha nel giugno 1925 a Roma. Tra i partecipanti: Giulio Alessio, Santino Caramella, Guglielmo Ferrero, M. Ruini, L. Salvatorelli, C. Sforza. È il più severo partito democratico con ampia diffusione nel Mezzogiorno. Gli intelligenti strati della piccola borghesia avrebbero potuto essere di sostegno all’opposizione, ma i fatti hanno tutto un altro risvolto. Con i massicci rientri nella Camera l’ “Aventino” finisce nei mesi settembreottobre 1925. La lotta termina, ma la resistenza va fino in fondo. L’ “Aventino” ha mantenuto uno spirito religioso spirituale. Amendola continua ad esprimere la sua piena personalità contro ogni forma di compromesso e di conformismo. Per i pochi eroici resistenti la stessa democrazia diviene intollerante, la libertà ha i suoi caratteri assolutistici, diremmo totalitari, non abbiamo una libertà limitata, la sua completezza e la sua forza affondano nello spazio dell’etica. La lotta di Amendola è strenua, con costanza sopporta tutto. La sua testa è quella di un feroce ariete che vuole sfondare gli ostacoli a tutti i costi. La lotta contro gli istinti dominando gli impulsi, senza temere i pericoli, senza indietreggiare mai. Giovanni Amendola preso da ansia mistica, con una purezza d’ animo, si tiene attento a non andare verso il male, le contraddizioni, l’opportunismo e l’ utilitarismo. Vuole attuare con le idealità morali e tutte le esaltazioni che portano verso i significati più alti della vita i suoi piani che lo
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hanno impegnato secondo le aspettative di quegli Italiani orgogliosi, fermi, presi dal senso delle grandi verità. Sono state cinque le aggressioni fasciste che lo hanno torturato senza fargli piegare la schiena. Sempre c’è dentro la mano del Duce, la ferocia si accompagna con la vigliaccheria. Più volte va in Francia per cure speciali. Ai primi di dicembre 1925 scioglie l’Unione Nazionale. Amendola il più notevole rappresentante della opposizione, ardente e pieno di fede nella storia umano-politica che si evolve in un lungo cammino la quale, come si legge in una lettera del Natale 1925 a Turati, non può non “trasformare la causa dei vinti nella causa dei vincitori”. Amendola ha avvertito il “grande tormento di quegli Italiani i quali si trovavano a possedere la maturità di una coscienza moderna... allorché piombò sul loro paese la prova del fascismo...”. Di quegli Italiani che vedevano “lo Stato non come angustia tirannica e cieca del potere esecutivo, bensì come vasta organizzazione spirituale e legale della società, vivente nella razionale autonomia degli individui, sulla quale poggia saldamente il governo: reso potente così dalla limitazione dei suoi compiti, come meravigliosa moltiplicazione delle libere energie individuali che lo circondano e lo sorreggono”. Giovani Amendola ha sfidato l’Assassino onnipotente per anni senza arrendersi. È l’ultimo dei gloriosi liberali, le sue battaglie non hanno avuto paura della galera. Un liberale eroico, francescano, nemico dei profittatori del liberalismo. In Lui vive la perfezione della libertà costituzionale come norma di governo. Lui e la legge sono la medesima cosa. Diritto come un monumento a testimonianza delle più alte idealità che fanno l’uomo grande e divino. Assalito da scherani crudeli, impietosi, belluini, traditori, vili a colpi di bastone. L’ultima aggressione che gli ha causato la morte si ha il 20 luglio 1924, mentre si reca a Montecatini per riposarsi alcune settimane. Appena arrivato all’hotel accorre un nugolo di camicie nere, minacciandolo di morte. Di nascosto riesce ad andar via. Nei pressi di
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Serravalle sulla via di Pistoia gli assassini lo raggiungono, infrangono a bastonate i vetri dell’automobile. Le percorse inferte sono spietate, sulla testa, sul volto, sulla schiena, sul petto. Il 22 luglio Amendola giace all’ ospedale in pericolo di vita con le costole sfondate e la testa fracassata. L’amnistia del 31 luglio 1925 copre questo delitto. Rimane a letto per più di un mese, non riesce a ristabilirsi. Va a Parigi per un intervento chirurgico all’orecchio, le febbri non lo abbandonano. La sua salute peggiora. Gli viene consigliato di recarsi a Cannes, sperando in un miglioramento all’aria pura e al sole. Amendola dimostra una fibra forte, resistente, nonostante l’aggravamento delle condizioni di salute. Giungono al suo capezzale il figlio Giorgio, il fratello Salvatore, amici de “Il Mondo”. Amendola dalla vita povera ed austera, quasi per contrasto fatale e angoscioso nello stesso tempo, trasportato dal suo tragico destino, muore il 9 aprile 1926 nella Costa Azzurra, rinomata per gli splendidi luoghi di villeggiatura frequentati dai ricchi e dai fortunati. È morto triste, ma sereno. Come uno stoico, con la gioia di difendere fino all’ultimo la verità in cui ha creduto. Amendola rappresenta la forza morale. La legalità, la libertà come espressione chiara, spontanea, naturale della volontà popolare, l’avversione contro l’ illegalismo, la faziosità, la coartazione del pensiero costituiscono la fede democratica di Amendola. La libertà che è vita, diritto inalienabile di ogni cittadino, norma di vivere civile, difesa debole contro il potente. La libertà, l’autonomia, le facoltà innate di ognuno di noi, cioè di tutti vanno difese con tutta la forza. Il vero liberale nel senso più ampio e più nobile della parola è cosciente di tutto questo. Non creazione di appiattimento di pensiero né di istituzioni dominatrici di una parte della comunità su tutta, ma di istituzioni che assicurano la pacifica convivenza dei gruppi le cui idee, interessi sono diversi. La solidarietà contro la tirannia. La democrazia vera significa collaborazione, lavoro attivo, concreto, non contrasti e litigiosità tra partiti, tra parlamentari distanti dal senso del-
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la Patria, dall’idea di onestà e di dedizione: vuoti formalisti, aridi, personalistici, vanitosi. Parità di diritti e di doveri nel rispetto di leggi uguali per tutti. Democrazia uguale a unità morale, spirituale, economica al di sopra dei ceti e delle classi. Abbiamo oggi deputati che non dialogano, che non vincono le differenze partitiche per arrivare a punti di incontro sui vari problemi che si portano avanti insoluti. La vera democrazia e la rappresentatività parlamentare per Giovanni Amendola poggiano sul coordinamento delle volontà individuali. Occorrono le direttive permanenti che attingono alla volontà popolare. Lo Stato deve creare libertà individuali e locali. Uno Stato di uomini liberi, non paternalistico poggiato su un popolo di servi. Amendola lontano dalle ideologie astratte; ogni sforzo intellettivo deve coordinarsi con la concretezza delle situazioni. Per una Nazione che deve progredire occorre resistere negli sforzi reciproci, concentrare le volontà di tutti, fuori dalle sette. L’ideale ha bisogno di dignità e di sacrificio. Giovanni Amendola ostinato ed eroico sopporta le persecuzioni e le aggressioni a testa alta, libero fino alla morte. Leonardo Selvaggi
A ISABELLA MORRA Negli inverni dischiusa ai quattro venti la rocca di Favale, da cui s'ode venire ancora nelle sere il canto d'Isabella di Morra che la sua giovinezza commisera e la voce leva dolente in cerca di conforto per i suoi giorni persi in solitudine. "I fieri assalti di crudel Fortuna scrivo piangendo": giungono parole da smarrite distanze ed è ventura che sino a noi ce ne pervenga l'eco. Chiama Isabella il padre, re Francesco, il fratello adorato, e la sua morte ad opera di gente del suo sangue
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rievoca, per lei tanto più amara perché compiuta a tradimento. Piange Isabella il suo infelice amore, così presto perduto e il lungo sonno che su di lei come un velo discese e la rapì nei regni della tenebra. Ma ancora qualche verso da lei scritto tra il dolore ed il lutto ci ridice la sua storia infelice e il suo tormento. Sono reliquie portate dal vento sopra la nostra via. Sommesso s'ode nelle sere il canto salire dalla rocca di Favale d'Isabella di Morra; ed è compianto per la sua vita che presto si spense. Elio Andriuoli Napoli
A UN VECCHIO AMICO DI PIEVE ALTA Caro amico “lontano”, com'era, allora, felice e lieve il mio giovane passo, quando salivo a Pieve Alta, alla tua casa immersa nei fiori ad ascoltarti leggere le tue poesie inedite ( ed a leggerti le mie). Quelle creuze si aprivano il varco sulle pendici a picco in un tripudio di mimose, di ulivi e di pini. In una pausa alle angosce della vita dalle finestre ammiravamo il mare, lastra di luce, golfo Paradiso. Il tempo fugge silenzioso stravolgendo le vite, anzi, tu dormi già del sonno eterno mentre io mi avvicino al mio traguardo. Ma rimangono ancora, nella loro mutevole bellezza senza fine, i “misteriosi” giardini di Liguria ed il fascino dolce, la magia dell'amata Poesia. Luigi De Rosa Rapallo, 2014
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TRE OPERE DI ROCCO CAMBARERI di Maria Antonietta Mòsele
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ELLO scrittore Rocco Cambareri ci sono pervenute tre sue opere: “Adiòs Chile” (Grafica Meridionale SpA, 1978, pagg. 40, L. 1.500) e “Frantumi di cristallo” (Antonio Carello Editore, 1981, pagg. 40, L. 3.000) entrambe poetiche, e “Paesaggi e profili” in prosa. Il primo lavoro ci presenta liriche descrittive tutte lo stesso argomento: il lungo (una ventina di giorni) viaggio dal Cile in Italia (Napoli), conclusivo dei sette anni di insegnamento effettuati colà dall’Autore. Sono versi molto commoventi e realistici, in cui il Poeta ci confida il perché dei suoi sentimenti contrastanti, l’addio al Cile e l’ arrivederci all’Italia, il “divergere di addii e gioia,/ gioia del ritorno”, in quanto lì ha lasciato “lacrime su ciglia umide” di chi, in quegli anni si era affezionato a lui. “Sette anni di umori alterni,/ di sismi terracquei e di antitesi/ ideologiche, di cime e abissi/ d’amore, sette anni sacri/ come i sacramenti e dannati/ come i vizi capitali, sette
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anni/ brevi e lunghi come una settimana/ senza riposo domenicale, di fasti/ e nefasti tra gente canora/ e altera e lacerta e pia, anni/ di sole e afa e di colline/ fiorite d’aquiloni e di mari chiari;/ sette anni, settanta volte sette/ benedetti, maledetti./ Addio, Cile, brano di vita/ della mia vita gitana!” E, con questo “subbuglio interiore” del suo animo così “ibrido” che lo seguirà durante tutto il viaggio in alto mare, egli lascia Valparaiso (“Valparaiso – Napoli: itinerario/che dalle Ande alle colline/ mi congiunge, identità d’azzurro”). Nella nave, “tra il cordame si rimescolano/ sonnambuli amori poliglotta”, e le lunghe serate sono rallegrate dal gioco, dalla musica e soprattutto dalla ballerina Hélène, la mascotte della nave, “farfalla notturna,/ ninfa adolescente…danzatrice/ pudica”. In successione, il Poeta descrive il tragitto: vedono Lima e poi Guayaquil (che segna l’ equatore, centro della terra), il Canale di Panama, Bogotà, le Canarie - dove tutti i Continenti si somigliano “cielo e mare” – e poi Tenerife, Gibilterra, Barcellona, e Cannes, dove la bella Hélène scende: altro addio. Ma ecco l’Italia, mentre ancora, ci dice: “giubilo/ e pena dentro me ruggono”. Ma “E’ già marea di luci Napoli/ che pulsa estiva; sull’acque/ battelli e vele, in banchina/ formicolio di gente e familiari.// In deriva, trabocco di letizia.”: finalmente il viaggio è terminato, con l’abbraccio festoso dei suoi. La parola poetica di questo Autore possiede una levatura davvero non comune, ed una capacità lirica di sintesi veramente straordinaria – pur senza trascurare il minimo dettaglio significativo - dall’espressione raffinata e precisa ad un tempo: pregi obiettivamente riconosciuti da critici di grande spessore, suoi contemporanei, come Piero Bargellini, Solange de Bressieux, Franco Saccà, Geppo Tedeschi, Aldo Onorati, Domenico Defelice, ed altri, che troviamo nell’allegato. Introdotto dall’ Editore stesso – che definisce questo lavoro “un lirico, luminoso mosaico di colori” - “frantumi di cristallo” è il ricordo della propria infanzia/fanciullezza che
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l’Autore rievoca attraverso l’osservazione dell’infanzia/ fanciullezza dei propri due figli. “Infanzia è sole/che specchio imprigiona// in un punto di fuoco.//E’ quel cerchio di luce/ che tutto rifrange più chiaro.//Infanzia è dorato mattino/che l’uomo sospira/d’inverno, la sera.” Chi ama, teme: fin dalla nascita del proprio figlio, i genitori felici e pieni d’amore temono per lui il male che il mondo gli potrà fare. In ogni piccola scoperta del figlioletto (“all’ erta a tutto”): primo passo, prima parolina, il genitore rivede se stesso bimbo, e così – via via - nei primi disegni, primi problemi, prime difficoltà (che quando il piccolo riesce a superare, “Quel volto/è luccichio di baleno,/ è frantumi di cristallo/il prisma dell’ infanzia”). L’Autore confessa: chissà cosa pagherebbe per riavere un’ora del tempo dell’infanzia che i suoi figli stanno vivendo; ma subito, ravvedendosi, riconosce di averla già avuta, senza pretendere altro. Tutto è stupore per i bimbi, nelle feste pubbliche: i dolciumi, la musica, i fuochi d’ artificio “stelle fra le stelle”. E felicità nei giochi, sempre diversi nelle varie stagioni dell’anno. E grande spirito d’osservazione: nell’ ascoltare il coro delle cicale, nel seguire il volo dei colombi, nel guardare i fili d’erba che brillano al sole. E quanta fantasia nel vedere angeli a forma di nuvole e nel parlare ai ciottoli del fiume. Il Poeta, per un momento, si rivede bambino e ci svela: “sono d’incanto sereno/ all’età dei miracoli.//..io/ tra il grano, dietro orme/ di porpora – cerchi di felicità” Ma “felicità è miracolo,/ meraviglia breve”, “ raggio di luce che riscalda un attimo e poi scompare”. E subito, tornando alla realtà, con tristezza ci confida: ”Rimangono solo/ i furori inconsapevoli/ della mia anima/ inquieta. Dio/ come tutto è fragile/ e amaramente fugge.” Ora, per lui, è angoscia e solitudine. E conclude “Forse mai più guarirà/ il vecchio fanciullo.” Queste poesie sono autentici gioielli, cesellati dall’ispirazione più alta e più vera di questo Poeta artista.
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Veniamo ora a “Paesaggi e profili”, racconti, specialmente i primi, che sembrano più prose-poetiche o poesie-in-prosa per la loro forma altamente lirica. Essi riguardano sentimenti, episodi, osservazioni dello Scrittore da emigrato in Cile, e parlano di raffronti che egli nota, di somiglianze e differenze, nel tempo (infanzia e maturità) e nello spazio (Cile e Italia), tra elementi della natura, come la pioggia, il mare (Pacifico-Tirreno), i monti (Ande-Alpi), o fra le tradizioni paesane cilene e italiane; inoltre egli pensa agli affetti famigliari: tutto ciò gli fa sentire la lontananza, come se stesse “fuori dal mondo”, facendogli soffrire nostalgia e solitudine. Perfino le ragazze cilene sembrano essere irraggiungibili e misteriose, pur essendo alquanto invitanti. Esistono, lì, anche quadretti edificanti, come quella mamma col bambino in braccio, che si addormentano insieme sulla riva, tanto da sembrare “piuma e una sola luce”. Ma si verificano pure situazioni ed episodi drammatici, causati dalla povertà diffusa, che spesso è miseria nera. In Cile, molti emigrati dall’Italia, dopo aver cercato inutilmente un lavoro abbastanza adeguato, si vedono costretti a ritornare in patria. Addirittura, certi cileni stessi che dalla campagna vanno in città in cerca di lavoro, spesso sono vittime di violenze e di sopraffazioni. “Ombre e luci” dell’emigrazione e della vita, che bisogna però realisticamente vedere entrambe. Maria Antonietta Mòsele
ROSSANO ONANO DOMENICO DEFELICE ALLELUIA IN SALA D’ARMI PARATA E RISPOSTA Ed. Il Convivio ...Il libro (...) riunisce in un unico testo il contenuto delle puntate di un duello verbale che, per due anni, ha deliziato i lettori di Pomezia-Notizie. Il Giornale di Latina, 6 settembre 2014
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I POETI E LA NATURA – 36 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
“RISACCA”: IL MARE NELLA POESIA DI GIOVANNI DESCALZO (1902 – 1951 )
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ei miei anni giovanili trascorsi da studente (prima del savonese Liceo Classico Chiabrera, e poi dell’ Università genovese) a Loano, sulla Riviera di Ponente, fra una casa nell’entroterra, sulla strada per Calizzano e Bardineto, e la lunga spiaggia sabbiosa, ho vissuto intensamente il duplice fascino del mare e della campagna di Liguria. In particolare, mi hanno affascinato due raccolte di poesie di Giovanni Descalzo, scritte nella sua Sestri Levante fra il 1928 e il 1930. Una è intitolata Uligine, ed è dedicata alla campagna di quei tempi, l’altra è intitolata Risacca, ed è dedicata al mare. Di “Uligine” ho già parlato a suo tempo. Oggi accennerò a “Risacca”, le cui poesie ho sentito più vicine al mio cuore che quelle (pur altissime, pur “sacre”) degli Ossi di seppia di Montale.
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Ora che vivo stabilmente da alcuni anni (da quando sono in pensione) sulla Riviera opposta (a Rapallo, quindi a due passi da Sestri Levante) sento ancora più a fondo il fascino della poesia del Sestrese autodidatta ( aveva solo la quinta elementare): “...Arso dalla mia sete e dall’arsura che è in me fissa allo spirito e alla carne: mare, ti dissi, spegnila! E curvo bevvi, ed il tormento crebbe.” (“Amarezza”) E’ evidente che si tratta di una sete e di un’arsura di carattere poetico, sentimentale, esistenziale. Che nemmeno il mare, con le sue attrattive, con la sua fascinosa e misteriosa bellezza, riesce a placare. Anzi, il risultato di una tale “bevuta” si rivela deludente, ed accresce il tormento interiore. Il mare può rivelarsi traditore, “con l’onda sospinta da cieco libeccio” e insieme alla vita col suo nulla ( l’angoscia del nulla nonostante la multiforme varietà delle cose materiali ) può “disperdere ogni sogno” (L’onda nemica”).C’è però un’ altra poesia, la suggestiva e artisticamente riuscita “Limpidità”, in cui il mare gioca un ruolo estremamente positivo, anche se rappresenta una pace armoniosa e trasparente, una quieta gioia che per l’animo del poeta si rivela irraggiungibile : “Così chiara è l’acqua e tranquilla, che nùmero i fili biondi delle attinie sul fondo. Un sàgaro annusa uno sterpo movendolo appena e si rincorrono intorno piccole onde a cerchio. D’ogni vela, d’ogni scafo, d’ogni albero o sàrtia, nitido brilla il riflesso sul limpido specchio opalino... Affascinato da questa visione, il poeta angosciato non può che confessare: “Come vorrei nel chiuso torbido lago del cuore conoscere un attimo questo incantesimo e scorgere alfine sul fondo il volto ignorato ch’io celo!”
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Eternità della domanda “Chi siamo ?” Eternità dell’esortazione “Conosci te stesso!“ Ma il mare di Liguria, descritto e interpretato come un’originale e variegata tavolozza di immagini ( più sinceramente poetiche che dottamente letterarie) può anche essere lo scenario per un felice girotondo di bambini allegri, per una sciàbica di pescatori, per un paradiso di ragazzi nel sole, per un mondo di ricordi di un marinaio invecchiato su navi e paranze, per una spiaggia accecante riarsa dalla calura, per un vecchio in cerca di “tesori” rimasti fra la sabbia dopo una mareggiata. Addirittura, il poeta attribuisce al mare, nella poesia “La vana fatica “, il ruolo del “creatore” autentico, riservando a se stesso quello, più modesto pur se gratificante, di “interprete”, o, addirittura, di “risonanza”: “Perchè scandire ritmi su parole sonanti ripetute con metro variato? Odile in me le voci, i canti, gli echi, le pause, i silenzi: io sono il mare che crea, tu sei la risonanza che ripete: non è vano il tuo verso ?” Luigi De Rosa
INNO Pensa a te stesso! Non fare il fesso! Pensaci spesso! Pensaci adesso, che tutti gli altri, meschini e scaltri, lo stesso fan… e mai l’ammetteran! Pensa a te stesso! Non fare il fesso! Pensaci spesso! Pensaci adesso, che un egoista
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vantaggioso inver è. D’un altruista è più responsabile, che quelli che vonno far ben soltanto danni agli altri fanno! Andrea Pugiotto Roma
L’INDIGNAZIONE POETICA I momenti divisi e portati avanti. I pensieri minuti, aspri e duri, tagliati quasi schegge vive, estratte da una miniera. Sono legati a materiale prezioso. Le virtù e i sacrifici con ardore e resistenza infiammati per anni interi e lunghi. Arti e organi martellati sopra l’incudine, nella giusta forma sempre pronti alle fatiche. Le poesie sono pendii che franano hanno i versi piegati, le gambe doloranti che non stanno in piedi. Poesie rotolate col muso schiacciato, parlano con le labbra strette, uscendo le parole dal naso. Poesie che saltano fuori rabbiose, gli escrementi sulla faccia: piangono la fine della coerenza pestata e lacerata, sulle ipocrisie che stravolgono i visi che non riconosci. Le poesie escono quando si sono fatte piene ed hanno l’andatura sicura, vestite come le trovi, senza abbellimenti non si guardano allo specchio. Le cose pessime sono lodate. Ti vogliono sulla croce eterna di ferro pesante, non sopra quella di legno che marcisce. Le maldicenze sadiche e le maliarde sono contente dei tagli segnati sulla carne viva. Non sanno che i dolori infiammati fanno saltare dalle strette lancinanti in una esaltazione vibrante per le parti più profonde. Leonardo Selvaggi Torino
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Recensioni ROCCO CAMBARERI TRA IONI E FURORI Edizioni Centro Studi Medmei, Rosarno (RC) 1985, Pagg. 48, lire 4.000 Tra ioni e furori è raccolta poetica di Rocco Cambareri, di cui al breve profilo tracciato in chiusura del libro: nativo di Gerocarne (Catanzaro) nel 1938, annovera un lungo impegno letterario, ha insegnato a Roma, in Cile e in Spagna; da questo si evince pure il lungo peregrinare di un uomo del Sud, costretto all’emigrazione. In sovra-copertina la nota critica di Ugo Verzì Borgese, richiama l’attenzione dell’ “approccio cauto al plurilinguismo” attribuendolo agli influssi della quotidianità che il Poeta vive; il titolo starebbe a significare il binomio vita-morte, in cui si dibatte l’uomo; il Poeta lo fa con atteggiamento “pascaliano”, trovando il punto fermo in Dio. Le composizioni sono tutti d’un solo fiato, senza titoli, che rappresentano un unicum dell’intimo sentire del Poeta, deluso e lapidale; versi granitici come le dieci sculture di Reginaldo D’Agostino che vi sono rappresentate; versi resi dilettevoli grazie al gioco di parole che Egli fa. Rocco Cambareri osserva la multiforme realtà, e come la creatività può presentarsi quanto meno le apparenze facciano sospettare, come nel caso di Beethoven che, benché sordo, riusciva nelle sue divine composizioni; Omero che, benché orbo, compose il più grande poema epico della civiltà. Mentre ciò si verifica lui come tanti altri, si dibatte e vuole resistere con l’uso del caffè; in tutto questo bailamme egli ha un atteggiamento divertito, ma solo in apparenza, per non soffrire. Ognuno è solo (come un atomo o la monade) e si
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muove fra altri anonimi (ioni) carichi di tensioni e pronti a colpire. Eppure egli esorta a reagire sentenziando: “non nasce pace/ se silenzi i torti,/ solo sempre tace/ la pace dei morti.” (pag. 11), per liberare il corpo sociale dalla metastasi, perché si senta come fratello il disperato lontano od anche vicino e non si nomini Dio come solo nome vuoto. Denuncia questa era postindustriale che ci ha saturato d’ ogni cosa privandoci dei sentimenti; difatti non conosciamo perfino il dirimpettaio su cui riversiamo rancori (furori) nelle riunioni condominiali; inaspriti dentro tutti quanti ricorriamo a farmaci antiacido e ad ansiolitici, ad altri rimedi e palliativi; con leggerezza diamo “commiato forsennato/ a un non nato” (pag. 32), e curiamo l’aspetto esteriore con la chirurgia plastica, molti siamo psicastenici. L’humus poetico di Rocco Cambareri, credo si trovi nel nocciolo della composizione che cito per intero: “Delira malessere/ per fatuo benessere,/ si ruzzola razzola/ in crapula copula/ garbuglio la politica,/ bofonchia la poetica/ esangue, si sfilaccia/ la pietas, faccia/ di Giano il vero/ a noi ora straniero.” (pag. 17); frutto forse della maschera che l’uomo indossa fin dalla nascita, retaggio ereditato da Abele e Caino. L’era moderna è maculata di grafici e statistiche che rincorrono i mercati degli speculatori, che dividono il mondo ed anzi lo frammentano, così che con ironia o gioco di parole osserva come “le pene sono pane” e “amaro è amare” per i paesi, ignorati, in cui si muore letteralmente di fame e di sete. La riflessione è obbligatoria, se non vogliamo perdere memoria della storia e della nostra civiltà; nondimeno, per non renderci la vita odiosa, più di quanto non lo sia, riusciamo a velare con un sorriso di ironia gli eventi nefasti. Hiroshima e Nagasaki insegnano, ancora dopo quarant’anni al tempo del Nostro (o settant’anni ad oggi, 2014), non ci resta che rimetterci a Dio; ed è quello che Rocco Cambareri fa, sperando di riscattare la dignità della natura, prima nostra progenitrice, da consegnare ai nostri eredi. Tito Cauchi
ELENA MILESI IL QUADERNO DELLA SFIDA Corponove, Bergamo 2014, Pagg. 64, € 5,00 Elena Milesi, scrittrice e poetessa, nativa di Villa d’Adda (Bergamo), vanta una ricca esperienza letteraria. La sua recente fatica, Il quaderno della sfida, ha copertina blu, contenente un riquadro della grandezza di un francobollo con la scritta “cahier des écrivains”. In esergo leggiamo una citazione
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tratta dallo Zibaldone del Leopardi: “…il dilettare è l’ufficio naturale della poesia.” L’Autrice avverte in apertura, di essersi ispirata ad un quaderno colorato, des écrivains, avuto in dono da due giovani amiche a conclusione di una serata di poesia. Questo Quaderno, si divide in cinque sezioni, in cui prendono vita sentimenti a seconda del colore accostato. Ciascuna sezione è preceduta e seguita da una pagina interamente colorata della tinta di appartenenza. Come in un gioco-sfida, rimanda “il compito di collegare all’ArancioVerdescuro-Verdechiaro-Violetto-Blu, il caldo del sole e della vita, il paesaggio, la gioia, la tristezza, il dolore, il soprannaturale.” Il titolo suona come un guanto di sfida, che accettiamo per verificare. Intanto osservo una declaratoria di cinque colori e di successive voci riguardanti gli stati d’animo. Così la buccia d’arancia suggerisce immagini di quando “il Sole prende il bagno dentro il mare”; l’ albicocca, le ricorda che l’albero è stato abbattuto da zio Giovanni. Così le pannocchie di un campo soleggiato, garantivano “sostentamento familiare”; era una gran festa la preparazione della polenta, per “i cinque fatti bandiera/ Papà e Mà, Zio e Zia”; oggi non più così, perché è tutto precotto e la polenta ha perso il suo colore. Come d’impatto richiama come “con pochi euro tirano avanti/ figli di Dio venuti dall’Africa/ per migliorare la vita”. Conclude la sezione con un richiamo a Federico Garcia Lorca con “i tre piccoli toreri che vanno/ a Cordova con vesti color arancio.” Il verdescuro dell’Adda e delle Alte Valli, richiama l’infanzia di Elena Milesi, trascorsa “in scenari leonardeschi”, giocosa “lungo il Porto ed i Mulini/ sino al lago di Garlate.”; le feste locali, la Valle Brembana, il verde prato di Kénsington, i sapori delle primizie. Ma anche un salto geografico a Fondi (Latina) luogo edenico con il suo mare, con il pesce fresco che si mangiava con una spremuta di limone, una volta. Abbiamo un tocco letterarioromantico nel rivivere un viaggio fatto a Vienna per ascoltare il concerto di Capodanno; e salta alla memoria Forrest Gump, personaggio di un noto film, con la sua corsa infinita “nei grovigli verdi del Vietnam.” Il verdechiaro riprende Forrest Gump inquadrato stavolta entro il prato rasato con la sua sposa Genny; ma anche pensieri affastellati: Darwin e la sua teoria dell’evoluzione, l’Amazzonia, il Centerbe d’Abruzzo, i prati dell’Alto Adige, la campagna lombarda, un misto metaforico di foglie che cadono morte su motorini in sosta. Il violetto colora il volto di Neri, il suo bimbo morto; o evoca l’immagine di “Una camerata di risate/ e riposo…” per i tanti che mancano “all’ ap-
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pello”, tipico lessema militare. La perdita di un familiare; ma anche di Liolì superamato la cui “bella forma si è dissolta” dopo 64 anni nella terra; di uno zingaro bellissimo. Ancora un luogo geografico Olevano Romano (Roma) ove in lieta compagnia mangiò una “frittata fredda”. Il blu del firmamento o del bosone visto nella “particella di Dio”, o anche ne “La struggente bellezza di Firenze/ e del Creato” (A Pablo d’Ors), o delle luci di una discoteca. Pensieri che si contrappongono all’immagine di una Croce, elevando il canto nella contemplazione del Suo Volto. Sui colori, Roberta Frigeni, nell’introduzione, richiama “la teoria di Goethe”, per la loro forza evocativa del tempo trascorso e quindi degli stati d’ animo. Aggiungo che i colori-stati d’animo, non sempre si presentano netti e perciò, credo, che i colori de Il quaderno della sfida, per Elena Milesi, riguardino la vita nelle sue sfaccettature, anche a nostro dispetto. In ultima istanza, credo che la dolcezza della nostalgia che prende la Poetessa, mista a consapevolezza di quanto Elena abbia goduto, pur nelle ristrettezze della vita, è l’amalgama dei suoi sentimenti, che la fa volgere indietro grata alla vita, e le consente di guardare avanti con una grande fede, per quello che le rimane dentro. Tito Cauchi
FRANCESCO CURTO EFFETTI DIVERSI Futura edizioni, Perugia 2013 Francesco Curto è uno di quei poeti che è fedele ai suoi temi e motivi umani, sociali e anche politici che riprende e varia tutte le volte nei libri delle sue poesie che hanno visto la luce nel corso del tempo. Anche in questa nuova silloge emergono i motivi cari al poeta ma ulteriormente sviluppati ed espressi con un linguaggio sempre chiaro e altamente poetico (questa è una delle caratteristiche di fondo della poesia del poeta calabro-perugino). Comunque ormai Curto ha raggiunto la massima vetta poetica e i suoi temi, motivi confermano ciò che è stato ed è l' uomo, l'artista Curto, coerente sempre con le sue idee, lontano da ogni forma di poetare astrusa e cervellotica, sterile. Certo, nel corso degli anni, è rimasto sempre lo stesso, e la sua poesia, questa sua poesia ampiamente ce lo conferma, ed ecco allora il desiderio prorompente di lottare, i sogni, le illusioni, la rabbia, ma pure le sconfitte: procediamo nell'esame di questa silloge che è stata ben prefata da Sandro Allegrini (la postfazione è firmata da Roberto Segatori). Comunque fin dalle prime battute appare quella che è la caratteristica basilare del
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dettato lirico di Curto: la chiarezza espressiva e la sincerità sentimentale che alimenta ogni sua lirica, Curto svela se stesso nelle immagini e nelle metafore, nelle varie situazioni che formano ogni singolo componimento poetico. Non ermetismo ma tutto viene detto con convinzione e massima chiarezza: "Mi hanno rubato con l'inganno / i sogni per svenderli al mercato /al primo passante del mattino./ Ora danzano sulla bocca di tanti /e sono lo zimbello le mie poesie" (p. 20); "Ti solcano le guance /due lacrime amare /perché il cuore incallito /macina nostalgie" (p. 28); "Il mondo è una discarica / a cielo aperto./Dentro si buttano /gli uomini inutili che non contano niente./ Non si salveranno dalla puzza/quelli che detengono il Potere / moriranno asfissiati chiusi /dentro lo sterco putrido del Palazzo" (p. 57). Cambia l'età ma sentimenti e convinzioni umane e politiche restano sempre le stesse come pure qui il poeta esprime gli effetti diversi che provocano in lui certe situazioni. Curto è di quei poeti che ama dire le cose, le emozioni con la massima naturalezza, e in questa silloge c'è posto anche per i ricordi che attengono ai diletti luoghi acresi; ricordi che riguardano i genitori, ed ecco "Mio padre è stato poeta/ se pure analfabeta /gesti naturali e parole /dure tra incazzature /di fatica mal retribuita / compagna di vino nel gioco /e guerra nelle feste./ Qualche volta un piacere / di notti con una puttana". La ricerca linguistica ed espressiva in Curtro è continua, essenziale ma pregnante come si può facilmente scorgere da altri componimenti poetici: "Sono piene le piazze /di venditori di fumo:/All'alba sono svaniti i sogni./Il gioco resta sempre / nelle mani di chi vince" (p. 52). Ma "all'angolo il poeta è rimasto solo in compagnia/ di un cane bastonato/tra le dita srotola/versi amari prima di partire". Veramente in questa silloge Curto srotola versi che sono amari, di denuncia dei mali che affliggono il nostro tempo, delle angherie odierne. Curto è per chi conosce le sue poesie contro il Potere e anche qui si dice chiaramente "Insieme la nostra lotta è contro il Potere / svuotiamo il Palazzo e puliamo il Mondo./ Voglio un'aria pulita e senza servi /né difensori di furfanti e mascalzoni” (p. 53). Poi viene citato Pier Paolo Pasolini che si è sempre schierato dalla parte dei più deboli, e poi la conclusione amara: "siamo premuti dal padrone come limoni /siamo parte noi tutti della stessa filiera". Versi chiari, penetranti che si commentano da soli. Ma non solo questo c'è in questa silloge di Curto ma anche altro: la sua condizione, il suo sentirsi "cane sciolto /che ulula alla luna la sua pena" (p. 46) ed ecco ancora questa altra confessione: "Ho vissuto fino ad oggi /di affetti collaterali" (p. 42). Questa poesia di Curto definisce stati d'animo, emozioni, sensazioni, e lo fa sempre
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con una lingua - e su ciò insisto parecchio - ben incisiva - e ricchissima di sfumature: "dentro un ricordo /tornerò a Padia /e con lo sguardo / accarezzo il Mucone /il suo vento /si porterà via /col pianto /ogni nostalgia" (p. 25) e continua è la polemica contro il Potere, evocato in varie liriche: "Un sogno bruciato/all'alba dal Potere/che ingrassa ogni giorno di privilegi e di vizi" (p. 58); “attaccare il Potere" (p. 60); “Un giorno davanti alla mia porta passò /il Potere travestito /da signora dell'inganno" (p. 42). Curto si racconta, colloquia con se stesso e svela ciò che è stato ed è, e rivolgendosi a Cristo lo invita a scendere dalla croce perché lo aiuti a sciogliere dubbi. La seconda parte della silloge contiene poesie in dialetto acrese: “Le mie radici". Curto vive a Perugia ma non ha mai dimenticato la sua terra, le sue radici, il suo caro paese Acri, il suo vento, il suo vicolo, gli amici, e ora si affida alla lingua madre, al dialetto che è molto suggestivo e comprensibile, e nel contempo altamente poetico: “Patruma era cioutu e zappaturu/ pacia all'anima sua duvu si trova/ ha jettatu u sangu pe' ssu fururu /senza vidari u mari o na cosa nova = Mio padre era ignorante e zappatore /pace all'anima sua dove si trova adesso/ ha buttato il sangue per il mio futuro/Senza aver mai visto il mare o una cosa nuova" (v. pp.76-77); la traduzione in italiano è dello stesso poeta), e ancora nella lirica intitolata Alla poisia (Alla poesia) si legge: "Sulu pe' ttia campu, Amuru miu,/ sulu pe' ttia chiangiu e prego 'ddiu = Solo per te io campo, Amore mio,/ solo per te io piango e prego Iddio”; (v. pp. 66-67). Queste poesie in dialetto rappresentano il ritorno al paese di Acri, ai suoi luoghi, alle radici del poeta stesso: "Sugnu neatu allu munnizzearu e Padia/ na zica cchiù là c'erano i zimmuni / na cammara era la cheasa e za’ Maria /ed iu mi jocheavu chilli quattru buttuni = Sono nato vicino all’ immondizzaio di Padia/un po’ più in là c’erano le stalle dei maiali/una camera era tutta la casa di zia Maria/e io mi giocavo i pochi bottoni dei pantaloni" (v. Pp. 76-77). Anche qui temi che si riferiscono alla vita che è una “matassa mudicheata = matassa ingarbugliata" (Pp. 70-71). E poi ancora la madre, Padia, il vento di Mucone, la Torre antica, ad esempio. Questa nuova silloge riconferma Curto un poeta di sostanza e di tutto rispetto, la cui poesia spicca per temi e per linguaggio nel panorama della poesia odierna. La poesia, questa poesia di Curto è poesia di amore, di nostalgia, di ribellione, di ebbrezza e il tutto è espresso con un linguaggio poetico suggestivo che ben s’imprime nella mente di chi legge. Al riguardo cito i versi seguenti: “Scavando dentro di te/troverai gli altri/riconoscendoli/troverai te stesso" (p. 54); "Pianterò una croce nel mio cuo-
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re / a cui appendere le mie pene/e crocifiggere il dolore del mondo" (p. 20). Carmine Chiodo
ELENA MILESI IL QUADERNO DELLA SFIDA Corponove edizioni, 2014 Il quaderno della sfida è il titolo dell’ultima raccolta poetica di Elena Milesi, uscita a metà di quest’anno 2014. Pur diviso in più parti questo lavoro poetico ha la sua peculiarità nella compattezza tematica e linguistica, e in tal senso è preferibile parlare di libro di poesia anziché di raccolta poetica, tant’è che i testi, tra l’altro, sono senza titolo e non hanno punti finali. L’Autrice dà prova d’abilità costruttiva e, insieme, d’una sensibilità poetica femminile tesa a inserire nella lingua le tensioni della vita quotidiana, i desideri, le aspettative, le delusioni: lavorando molto sul verso, sull’essenzialità e i suoni delle parole. La versificazione porta la poetessa orobica ad asciugare il testo con strofe di due o pochi versi, a comprimerlo, a renderlo percussivo e tagliente, e a caricarlo di un suono più forte e vibrante, pur abbondando, a volte, di assonanze e allitterazioni o delle rime interne (aeroplanini bicchierini piumini gattini), e la compressione giova al legame, all’ armonia tra i vari distici che compongono la singola poesia. Altrove la musicalità di questa poesia tende a farsi volutamente stridula nonostante i tanti endecasillabi, o eccessivamente acuta o spezzettata, come se al canto a un certo punto venisse meno la giusta intonazione. Questo però significa che Elena Milesi ha coraggio da vendere: si mette in gioco, rischia, allarga lo sguardo a un andare fra disabitate rive, in cerca di una poesia che possa concentrare e in un certo senso anche concertare suoni innovativi, ai quali, normalmente, siamo poco abituati: quelli che provengono dal profondo, dall’inconscio, dagli enigmi e dai misteri, dai buchi neri, dalle zone inconsuete della solitudine che rimastica il vissuto dal silente involucro della notte laddove non esistono due silenzi che possano assomigliarsi. Gianfranco Cotronei
CATERINA FELICI FOGLI DI VITA Longo Editore Ravenna, 2013 Il volume è un piccolo gioiellino anche dal punto di vista grafico, formato tascabile, carta color pa-
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glia, in copertina un acquerello semplice nella sua struttura - un libro aperto sulla spiaggia -, ma evocativo. L’Autrice è molto conosciuta; tutti i suoi libri hanno avuto successo di critica e di lettori. Se ne sono interessati noti giornali e periodici culturali e nomi altisonanti della moderna critica, come Giorgio Bárberi Squarotti, Walter Mauro, Antonio Piromalli, Cesare Segre (morto di recente), Giacinto Spagnoletti, Giuliano Gramigna, Bruno Maier, Giorgio Cusatelli, Claudio Toscani, Maria Lenti, Paolo Ruffilli ed altri. Si dice che i libri di versi non si vendono (o, almeno, questa è la giustificazione degli editori nel non voler scommettere sulla poesia), ma è il caso che di Fogli di vita, apparso nel novembre del 2013, finora sono state vendute molte copie. Il volume, insomma, è piaciuto e piace a lettori e critici. Scrive, per esempio, Giorgio Bárberi Squarotti: “L’opera alterna memoria e descrizione, momenti luminosi di vita e riflessioni profonde. La poesia della Felici ha la rara qualità di un prezioso ed elegante impressionismo, che trapassa nella meditazione, nella simbolica raffigurazione della vita, delle sue pene, delle sue letizie”. Ecco una sua “riflessione”: Lo stesso punto d’arrivo A volte, desiderando un mutamento di vita, scegli per te un percorso diverso da quello del passato non immaginando lo stesso punto d’arrivo. E una delle sue “descrizioni”: Dalla cima del colle Dall’alto del colle osservo la natura. Spiritualmente m’espando nel verde dei prati, nelle armoniose distese dei fiori, nei colori del mare, nel cristallo splendente del cielo sereno, nel grigiore che mi sovrasta, messaggero di pioggia. Lucio Felici le definisce “Poesie ispirate ed eleganti” e Paolo Ruffilli afferma che “Le poesie di Caterina Felici sono sempre profonde radiografie dell’anima e coinvolgenti”. Per la nostra tranquillità - afferma la Poetessa -, non è sufficiente servirsi delle tante cose, delle opportunità che la vita ci mette a disposizione,. ma è
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necessario che il nostro interiore sia nelle condizioni di assorbire, far sue e possibilità e doni: I filtri Per essere sereni spesso non bastano positive offerte di vita; ci occorrono anche interiori giusti filtri nel recepirle. “Le poesie di “Fogli di vita” - scrive Maria Luisa Spaziani, recentemente scomparsa - mi hanno toccato profondamente e così chiare come sono si sono conficcate dolcemente nella mia vita”. Le composizioni sono quasi tutte brevi. La Felici non gioca con le parole per riempire i fogli, ma le usa con estrema parsimonia, per dire l’essenziale, e, anche, saggiamente, per lasciare al lettore la possibilità di volare con la propria fantasia, far sue, ricreare le immagini, andare oltre. Perché la vera grandezza dell’arte non si ha allorché, chi ne usufruisce, esclama è bello e poi se ne scorda, ma quando la nostra mente e il nostro animo se ne servono per spiccar voli, ricreare altre immagini, scendere e risalire gli abissi. Chiudiamo affermando che Caterina Felici sa far poesia anche nelle dediche, senza scendere mai nell’insulso e nel banale. Si leggano, a proposito, le composizioni per le amate città di Zara e Pesaro, nonché quelle per suo padre (“Conosciuto veramente dopo”), sua madre (“Viva nei ricordi”) e per la “dolce nipotina” Giada, piantina luminosa che cresce contenta nell’amore di chi la circonda. Domenico Defelice
TITO CAUCHI PALCOSCENICO Introduzione dell’Autore, Prefazione di Gianfranco Cotronei - Editrice Totem, 2014, pagg. 64, € 10 Tito Cauchi è ossessionato dalla precisione. Anche in Palcoscenico, la presenza del proprio io, che, senza volerlo, rischia di condizionare il lettore, è massiccia, solo se si pensa alle fitte pagina e mezza dell’Introduzione, da lui stesso firmata, e alle altrettanto fitte due pagine e mezza del “Datario e fonti”. Poi ci sono le molte annotazioni ai singoli componimenti e i moltissimi versi che insistono su particolari personali (“Volevo parlare di te e invece/finisco di parlare io di me”, riconosce egli stesso), con l’esigenza della descrizione minuziosa (“Ora piana sdrucciola tronca è la rima/ti riveli desiderosa d’essere baciata/bella sei alternata incrociata incatenata/interna, pensierosa ti raccogli
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in stanze”, chiaramente qui rivolto alla sua Poesia), fino al superfluo: al solare e pregno “da un grappolo dissetandoci”, che poteva bastare, egli sente il dovere di aggiungere, infatti, il colore, e non solo: “bianco o rosso e di ogni foggia”. Del valore, del percorso lirico, delle immagini, del “principio di non contraddizione” e del “pensiero emozionale” della poesia di Tito Cauchi, indaga, nella Prefazione, l’editore Gianfranco Cotronei, il quale afferma anche che l’Autore “è uno dei poeti che meglio sa dar vita e coerenza all’impulso ispirativo e la sua versificazione, solo apparentemente piana e di penetrazione immediata, coniuga, in una sorta di enunciazione insieme palese e allusiva, una forma ‘classica’ a complessi percorsi analizzati sul versante esistenziale dell’esperienza”. Nei versi del poeta, nativo di Gela, c’è la realtà cruda, la quotidianità senza veli che per convenienza o per assuefazione si camuffa e si scontra con la finzione. Labile è, perciò, la distinzione tra verità e commozione, se è vero che, in certe situazioni, a parlare è soltanto lui, mentre lei si esprime a gesti, sicché, alla fine, egli stesso si trova a confessare: “m’accorgo (...)/che asciutto è il tuo viso/e bagnato è solo il mio”. Insensibilità della donna? No. Tra i due, è lui il più fragile psicologicamente e, quindi, più facilmente portato alla commozione e all’ esternazione, mentre lei il subbuglio se lo tiene dentro, ma così intenso da soffocarla, da bloccarle perfino la parola: “il tuo viso inespressivo/mi nasconde un cuore vivo”. Contrasti. È di essi che si alimentano i versi di Cauchi, “Prigioniero del (suo) pensiero”, “fatto di mille apporti”. Ma gli altri non sono meno complicati; non è vero che guardino solo l’esteriorità, che solo “vedono il vestito”, com’egli scrive. È che si manifestano in modo differente. I versi di Tito Cauchi sono, spesso, sincopati, facili a traslarsi in musica: “Lontano o vicino si vive una guerra/nessuno la vuole ma si va per terra/eserciti a schiera come in una serra/soldato con granate, barattoli afferra”. A volte, celano ironia: “mentre ti stringo fra le mie braccia/il cuore una nota marca rintraccia”. Sempre, sotto l’apparente leggerezza, raccontano la nostra quotidianità, il pensiero ancorato al passato. La lattina si lamenta d’essere subito abbandonata, mentre, una volta, dopo il consumo del suo contenuto, a lungo serviva per conservare altro; gli scarti di cucina, in passato, “nutrivano la terra”, oggi solo riempiono discariche e la terra infettano. Contrasti. A fine lettura, ci troviamo frastornati. Monta il lordume di una umanità che, dopo millenni, ancora non sa parlare che il linguaggio della guerra e delle bombe (il termine lo troviamo spes-
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so); c’è lo strazio infinito dell’uomo contro, che si sforza sempre di soffocare il rigurgito d’amore, quando, invece, dovrebbe essere il contrario. Contrasti. Le emozioni sono tante, premono e immagini e quadri si accavallano. I versi di Tito Cauchi vanno letti e centellinati per scoprirne un contenuto profondamente sociale (si veda l’immagine dell’ “Italia irrisa/da lestofanti e bombaroli”) e le tante concatenazioni. Ci si sente invischiati negli stessi dilemmi del poeta, trascinati nel suo sprofondare continuo e nel suo continuo venire a galla, nel suo avanzare e nel suo retrocedere, nel suo forzato armarsi contro, mentre il suo cuore viene inondato dal desiderio di amore e di aiuto fraterno: “non ascolto il sibilo di una voce//mentre la mia diventa tonante/sordo all’umile che bussa alla porta/la sprango disponendomi all’assalto/nella paura di subire, attacco”. Contrasti che, spesso, si manifestano anche nel bisticcio delle stesse parole. Si faccia caso alla cacofonia delle tante “esse” (ma non delle sole) in questa strofa: “La lumaca striscia e lascia una scia/la tartaruga mastica e va in letargo/fuori fra freddo, il fruscio frusta/il viso è sferzato, il corpo intirizzito”. La donna è nume presente in tutta l’opera. L’ interlocutore al femminile, però, non è da intendere solo nei pochi svelamenti - la moglie Concetta, Serena, Lisa -; esso è solo un duale che gli permette di sostenere il discorso. Facilmente sostituibile, allora, un controcanto ai suoi contrasti. Domenico Defelice
dia Vanzini, Borodin, Ciaikowsky, Bruckner, Mendelssohn, Vsevolod Dvorkin, Schoenberg, Von Karajan, Schumann, Rimsky Korsakov ...: un vero affollamento tra musicisti, direttori d’orchestra, concertisti, solisti, nel turbinio fascinoso delle opere; un fervore così intenso che Beethoven, dall’alto, non può fare a meno di esprimere la sua gioia e la sua riconoscenza sorridendo “soddisfatto”. Pure gli strumenti hanno un’anima e partecipano alle emozioni di chi li maneggia: “l’arpa s’inclina e ondeggia/mentre l’arpista suona”. Vsevolod Dvorkin è proprio uno di coloro ai quali la poetessa confessa di sentirsi molto legata e il “tu” che gli rivolge straripa d’amore. C’è, nei versi della Bonciani, la poesia e la musica delle cose e della natura, della danza, dell’assolo della goccia di pioggia, della terra che esala i suoi afrori, del silenzio. E non manca la socialità e la tragicità, come il dramma dell’undici settembre, magistralmente interpretato - secondo la poetessa dall’Adagio di Barber. Che dire, poi, del fascino di molte città? Londra ha richiami nostalgici; e ci sono Verona e Milano e, soprattutto, Firenze, col suo Arno e le sue indescrivibili opere d’arte. Il volumetto ha avuto il 1° Premio al Concorso Letterario “Città di Avellino - Verso il Futuro”, è prefazionato da Carlo Onorato e reca in prima di copertina “Bianchi villaggi”, un intenso olio (40x30) del pittore e poeta Vittorio Nino Martin. Domenico Defelice
MARIAGINA BONCIANI POESIA E MUSICA Casa Editrice Menna, Avellino 2014
MARIO GIORDANO NON VALE UNA LIRA Formato Rilegato, Editore Mondatori, 11/03/2014, pagg 165, € 17, ISBN-13 9788804639794
Poesia e musica sono da sempre inseparabili, perciò è inconcepibile un poeta che non ami la musica. Mariagina Bonciani, oltre ad amarla, la musica l’ha pure praticata; per anni ha respirato le opere dei Grandi; è stata a contatto con musicisti e valenti esecutori, godendo della conoscenza diretta di alcuni di loro. In certe sue composizioni, addirittura, tale legame appare così intenso, da far pensare ad un rapporto oltre l’amicizia, quasi ad un vero e proprio affetto, all’amore. Trasporto solo platonico, quasi certamente. È che, nei suoi versi, realtà e sogno si fondono, come avviene tra l’opera immortale e il suo esecutore e interprete. I personaggi grandi e piccoli, richiamati dall’Autrice, risultano veramente tanti. A volte, tra le parole, il lettore ode volare le note, quando non si sente completamente immerso nell’ appagante atmosfera d’un concerto. Barber, Clau-
Mi trovavo ad Asiago ed in una Conferenza presso la Piazza principale per la rassegna letteraria “Aperitivo con l’Autore”, promossa dal Comune e dalla Libreria Giunti, il giorno 9 agosto 2014 alle 17:30 ho ascoltato la presentazione di questo libro da parte di Mario Giordano di fronte alle quasi 500 persone presenti. Visto l’interesse che ho avuto nell’ascolto ho voluto riassumerne la presentazione. Mario Giordano esordisce così: feci una telefonata a Mario Draghi per dirgli la mia opinione contraria sull’euro e per potergli parlare personalmente. Mario Draghi si è negato più volte e mi ha dato del populista. Chi è contro l’euro è considerato un populista! Almeno secondo Mario Draghi. Anche durante tangentopoli, chi era contro la corruzione della classe politica era considerato un populista. A questo punto Mario Giordano ha scritto il libro
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che sta presentando. “Ho deciso di scrivere questo libro nel maggio 2013 – ha spiegato Giordano – mese di pubblicazione dello studio commissionato all’Europa, al costo di 90.000 Euro, sullo sciacquone perfetto. Mentre le famiglie italiane (ma anche greche, spagnole, francesi) soffrivano i tagli imposti dal rigore fiscale, i burocrati europei hanno voluto calcolare lo scarico del water ideale, arrivando ad un’equazione del tipo teorema di Pitagora! Si sono occupati delle dimensioni ideali delle banane (pari a 14 cm.), delle dimensioni dei cetrioli, che devono essere di lunghezza 10 cm. e arco di curvatura 10 mm. E’ stata una follia entrare nell’euro con un cambio a 1936,27 lire/euro!” Giordano espone come nei dieci anni della moneta unica il reddito medio italiano sia sceso del 7 percento; nello stesso periodo il reddito medio - dei Paesi non aventi l’euro - in Inghilterra è salito del 7 percento ed in Svezia addirittura del 16 percento. “Dimostrazione che l’Europa non era essenziale – prosegue Giordano – e che il tasso di cambio è stato assolutamente sfavorevole, come ammettono oggi i più fervidi sostenitori dell’euro”. Mario Giordano continua nel suo atto di accusa contro l’istituzione europea, definita un mastodontico apparato burocratico con 44 mila dipendenti (dove un archivista percepisce 9 mila euro netti e un usciere 6 mila) che invece di affrontare la crisi che affligge i Paesi che hanno aderito al progetto europeo, perde tempo e spende denari in ricerche quasi surreali. Una denuncia che ha raccolto continui applausi dal pubblico palesemente indignato da quanto esposto dal direttore del Tg4. L’Europa, inoltre, ha eliminato i riferimenti culturali, cioè ha rinnegato le radici cristiane. L’Europa in politica è inesistente e non fa nulla per il proble-
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ma dell’immigrazione (Lampedusa oltre ad essere un confine italiano è anche un confine europeo!). Non fa nulla per il problema dei marò. Per ogni crisi non prende nessuna posizione. I parametri di Maastricht sono falliti. Il debito pubblico continua ad aumentare. Prima dell’euro vi era lo Sme, il ser pentone monetario, non si è mai fatta una vera Unione Economica, ma solo monetaria. Pertanto, la Bce non può stampare moneta per sostenere lo sviluppo, come del resto fanno altri Paesi, come gli U.S.A. ed il Giappone. E l'Europa dei diktat e delle troike, che impone agli altri severità e concede a sé ogni beneficio, l' Europa che taglia le pensioni ai cittadini e le aumenta ai suoi burocrati, che chiede sacrifici a tutti, ma poi fa vivere i suoi 766 parlamentari nel lusso, spendendo 2 milioni e mezzo di euro in rinfreschi e 4 milioni per rinnovare il centro fitness interno al Parlamento di Bruxelles. E l'Europa che non riesce a risolvere l'annoso problema della seconda sede di Strasburgo: un palazzo da 500 milioni che resta chiuso 317 giorni l'anno e che moltiplica i costi di funzionamento, costringendo ogni mese i deputati a gigantesche transumanze con un'enorme massa di documenti al seguito. E l'Europa che mantiene 139 sedi sparse in tutto il mondo e 5366 addetti, di cui 33 alle isole Figi, 37 alle Mauritius e 44 ai Caraibi, dove l'attività più impegnativa è una corsa di macchinine elettriche. Costo totale, 524 milioni di euro..." Un'Europa che a noi italiani costa 174 euro al secondo, cioè 10.464 euro al minuto, cioè 627.853 euro l'ora, cioè 15 milioni al giorno, cioè 5,5 miliardi l'anno. Per darci in cambio che cosa? Nulla. Da quando c'è la moneta unica abbiamo meno soldi in tasca, meno libertà nella vita, meno speranze nel cuore. Mario Giordano dimostra, numeri alla mano, che la scelta di entrare nell'euro è stata per il nostro paese un vero e proprio autogol, come avverte ogni giorno sulla propria pelle un sempre maggior numero di italiani e come sostengono da tempo molti economisti e sei premi Nobel. Anche loro certi che dall'euro si debba uscire. E subito. Ed è l'Europa che elargisce soldi per finanziare qualsiasi follia, dall'utilizzo degli insetti in cucina alla compagnia che fa musica con sassofoni e rutti al programma per incentivare la connessione emotiva dei contadini tirolesi al loro paesaggio, dal dialogo fra estoni e lituani sul fondamentale tema delle marionette alla missione dei ballerini belgi che vanno a insegnare danza agli africani (che è un po’ come insegnare agli esquimesi a cacciare le foche), per non parlare dei corsi in cui si spiega a cosa serve l'Ue. I nonni sono costretti a mantenere figli e nipoti in
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casa. Si vendono persino le catenine d’oro della prima Comunione e si riempiono le città di negozi “Compro oro”. Il Corsera non pubblica alcune notizie (riguardo i problemi dovuti all’euro), che vengono bensì pubblicate nei giornali inglesi. Secondo Giordano ad una domanda specifica se si può uscire dall’euro, risponde affermativamente e non è nemmeno praticabile la soluzione di avere più Europa, cioè ipotizzare “Gli Stati Uniti d’Europa”. La situazione dell’Ue è simile a quella degli Stati ex URSS, cioè imploderà. In contrasto con quanto dichiarato da Mario Giordano, leggendo un articolo sul settimanale “Sette” del 20.12.2013 (pg 86,87) Giovanni Vigo, professore di Storia di economia internazionale presso l’Università di Pavia, afferma quanto segue: “ la tentazione di addossare tutte le colpe ai vincoli esterni che sfuggono al controllo della politica nazionale, e che non possono essere imputate alle scelte dei governi è molto forte. Per esempio la Francia ed il Belgio hanno fatto molto meglio del nostro Paese e la Spagna si è distinta per un tasso di sviluppo particolarmente brillante. Sono anche molto dubbie le argomentazioni di coloro che imputano il rallentamento dell’economia al cambio sfavorevole fra la lira e l’euro. “ E’ in sintesi difficile dire cosa sarebbe meglio se uscire dall’euro o rimanerci, anche perché l’ economia non prevede il futuro ma, sulla base del passato, da indicazioni per gestire il presente. Cito, come esempio, il fatto che lo stesso Mario Monti ai primi anni ’90 aveva previsto un periodo di recessione dopo la fine di tangentopoli nel ’93, ma si è dovuto ricredere in quanto vi è stato un periodo di espansione economica. Alcuni giorni dopo il Convegno di Giordano e precisamente il giorno 12 agosto leggo su questo argomento Gervaso sul Gazzettino. Gervaso afferma testualmente: “Mario Giordano, direttore di tutto il dirigibile, lo conoscono tutti (anche il governatore della Bce, che lo interpella e lo teme). È un gran cuoco della penna (oggi, si direbbe del computer, che io non so nemmeno accendere): dieci stelle della Guida Pulitzer. Ogni suo libro è un evento. E non solo perché sa scrivere, ma perché, quando scrive, a differenza di tanti, troppi colleghi, dice la verità. E la verità in un Paese di bugiardi, di faziosi, di venditori di fumo in technicolor, è la più scomoda delle più scomode posizioni del Kamasutra, breviario della mia gioventù. L'ultimo, edito da Mondadori, "Non vale una lira", è un micidiale j'accuse contro l'Unione Europea e contro il suo più scellerato crimine: la moneta unica. Non mi vengano a dire, quelli che l'hanno voluta, che ci ha salvato. Balle: ci ha rovinato. Io non sono un economista,
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ma esperti, insigniti del Nobel, hanno messo impietosamente l'euro sul banco degli imputati. Se ieri pagavo una coda alla vaccinara 20 mila lire, oggi la pago venti euro: il doppio. Perché se ieri un paio di scarpe mi costavano 200 mila lire, oggi mi costano 200 euro (il doppio)? Perché? Me lo volete, eurofanatici Soloni, spiegare? Io sto ai fatti. E stare ai fatti significa stare ai conti della serva, alle fatture, alle bollette. Non mi fa fesso nessuno, neanche gli imbonitori più abili, gli economisti più illuminati e lungimiranti. Maastricht è stato una gran fregatura. Una gran fregatura per tutti. Salvo per chi ha finito per crederci per interessi di tasca e di casta. Lasciamo la parola a Giordano, giornalista con le palle e con il pallottoliere…. Ecc…”. Gervaso continuando spezza anche una lancia a favore dell’euro, affermando: “ ma per fortuna, c'è il rovescio della medaglia, e questo mi restituisce il buon umore. L'onestà individuale, la completezza d'informazione, di cui sono debitore allo stesso Giordano, mi obbliga a riconoscere che l'Unione Europea sarà anche un assurdo, faraonico, inverecondo carrozzone, ma mi offre vantaggi di cui intendo godere fino in fondo. “ Mario Giordano ha iniziato la sua carriera a “Il nostro tempo”, settimanale cattolico di Torino, per poi proseguire nel 1994 a “L’informazione” e nel 1996 al quotidiano Il Giornale, diretto da Vittorio Feltri. Dopo varie apparizioni al Maurizio Costanzo Show in qualità di ospite, il debutto in televisione avviene in RAI nel 1997 con la trasmissione di Gad Lerner, Pinocchio dove veste i panni del Grillo Parlante. Torna a Il Giornale fino al dicembre del 2000. Dal 4 aprile del 2000 fino alla fine di settembre del 2007 è stato direttore di Studio Aperto, spazio televisivo che negli anni ha contribuito a fargli acquisire una certa notorietà. Giordano ha anche diretto altre due trasmissioni televisive sulle reti Mediaset, Lucignolo e L’Alieno. Il 10 ottobre 2007 lascia il telegiornale Studio Aperto per dirigere Il Giornale, con il quale continuava a collaborare in veste di editorialista. Nel settembre 2012 lascia ancora una volta il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti per far ritorno al quotidiano Libero, sempre come editorialista. Il 24 gennaio 2014 è nominato direttore del Tg4. Giuseppe Giorgioli
SILVANO DEMARCHI GIOVENTÙ DORAQTA Cronache Italiane, 2014 La silloge poetica giunta recentemente di Silvano Demarchi si intitola “Gioventù dorata” (Ediem-
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me Cronache Italiane, 2014, pagg. 42). E’ una descrizione della bellezza e del fascino della giovinezza, sia in generale, sia osservando la bella e spensierata gioventù di oggi, sia ricordando la propria – dell’Autore – giovinezza. Dei giovani – ragazzi e ragazze - non solo è piacevole vedere la loro spontaneità, l’entusiasmo, la voglia di vivere, la mente libera da preoccupazioni, ma è piacevole anche osservare l’armoniosità, l’ agilità e la flessuosità del loro corpo, cosa che maggiormente si può apprezzare quando è seminudo o nudo, specialmente nei luoghi adatti a fare i bagni, le nuotate o i tuffi in acqua. Il poeta ci tiene a precisare che il semplice provare piacere ad osservare un bel corpo giovane nudo è possibile, è cosa spontanea, del tutto naturale; come del resto, un’opera d’arte (statua o figurativo) di una persona giovane dalle forme perfette, fa suscitare un apprezzamento puramente estetico. Anche l’autocompiacimento di possedere ed osservare il proprio corpo, se ben fatto, è sensazione normale, naturale nella persona umana. I veri nudisti e naturalisti non mettono malizia nello stare nudi, perché la loro mente e i loro cuori sono “puri come il cielo”. Il Poeta, successivamente, ripensa alla propria giovinezza, quando, dice “Incredibile gioia mi donava il relax/ sul molo con gli amici/ e le amiche/ nei ridotti tanga,// gioventù dorata.”, o quando “Raccolsi da un binario morto dei papaveri/ (forse un po’ polverosi)/ per colei che mi aspettava./ Era vera felicità l’attesa/ alle sette del mattino.// Oh noi!” Davanti ad una foto di Carmina, si pone un interrogativo: “riguardando quegli istanti/ irripetibili, più non sappiamo/ se in noi prevalga/ gioia o tristezza,/ oggi, a distanza.” E, in un momento di sconforto, aggiunge: “Perduta è la fanciullezza,/ e non possiamo staccarcene/ se non con un grido.” E, per finire, ci confida: “Avrei voluto nascere vent’anni/ dopo, con la saviezza di ora,/ di chi sa/ che l’incanto è rincorrere/ e non ciò che momentaneamente si afferra.”: qui, però, ci fa riflettere. Alcune di queste poesie le abbiamo già incontrate in “Commiato” (dello stesso Autore). Maria Antonietta Mòsele
EOIN COLFER BENNY E OMAR Mondadori JUNIOR + 10, 2003 - 258 pagg. La famiglia Shaw deve spostarsi, armi e bagaglio, in Tunisia, a Sfax. O il trasferimento o il licenziamento. La ditta per la quale lavora Pat Shaw,
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il pater familias, sta chiudendo i battenti in Irlanda, ma ha una filiale in Tunisia (un paesuccio da nulla in capo al mondo) e, per ora, è la sola alternativa per seguitare ad avere uno stipendio e vivere più o meno decentemente. Sfax non è però precisamente il Paese delle Meraviglie: si rischia di avere una visita, abbastanza di frequente, da parte degli scorpioni… se prima non si è divorati vivi dalle zanzare!; quei barbari non conoscono l’hurling, variante irlandese dell’hockey (sport per il quale Benny è appassionatissimo, vuoi come giocatore, vuoi come tifoso); la scuola a disposizione è multietnica e, a parte ciò, gli insegnanti (Roberto Rossi e gentile signora) somigliano molto di più al Cappellaio Matto e alla Lepre Marzolina, come mentalità, che a due docenti di ruolo e qualificati. Questo è dunque l’Inferno in terra cui è condannato Bernard Shaw, 12 anni, primogenito di Pat e Jessica Shaw. A differenza di George, detto Leccapiedi (9 anni), Bernard (chiamato Benny quando è in castigo o minaccia di finirci) è un tipo che sta sulle sue, diffida di tutto e di tutti e usa il sarcasmo (un sarcasmo da istrice, tanto è pungente) come autodifesa perché, in fondo, il mondo è grande e cattivo (e ciò vale per tutti). Date queste premesse, Benny non lega né coi nuovi condiscepoli né con gli insegnanti. Poi entra in scena Omar. Omar, 12 anni, sembra uscito dall’anime nipponico Remi (senza famiglia), non solo perché è un orfano assoluto (ha una sorella maggiore che vive in culo alla Luna, come si dice, ed i suoi genitori sono morti in un incidente), ma anche perché parla solo… televisese! Il che significa che Omar sa solo parlare e capire il tunisino, ma quando deve rivolgersi a Benny… usa l’inglese appreso in tv! E perciò conosce a memoria frasi di tipo pubblicitario o battute alla Homer Simpson. E nient’altro! In compenso, possiede una specie di motocicletta (una Peugeot, modello scassato), pur essa uscita da un cartone animato, con cui copre la distanza fra la sua bicocca fatiscente e la città più vicina. Benny diventa amico di Omar e… il resto è tutto da scoprire! Eoin Colfer, tanto per cambiare, è un ex docente (!), che ha lavorato in Arabia Saudita, Tunisia, Italia ed Irlanda e, tanto per essere originale, ha scritto vari libri per ragazzi, divenuti poi dei successi. Io, a suo tempo, lessi – e bocciai! – I predoni Blu, testo meno noto di Artemius Fowl. Tuttavia, sia quello che Benny e Omar mostrano che la fortuna premia gli sciocchi. Le situazioni sono paradossali o assurde all’ennesima potenza, la sequenza dei fat-
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ti è più che scontata e lo stile fa più acqua d’un colabrodo. Ma questo è solo il mio modesto parere. Il giudizio definitivo a chi leggerà questo testo dopo di me. Andrea Pugiotto
ANDREA CAMILLERI LA CACCIA AL TESORO Sellerio editore, 2010 - 219 pagg. Una mattina, a Vìgata, i fratelli Palmisano, un uomo ed una donna sulla settantina, mettono un manifesto, appeso ai balconi della loro villetta, annunciando il prossimo castigo dei peccatori di cui, secondo loro, è pieno il paese. I Palmisano, entrambi non sposati e oramai in pensione da anni, sono due noti baciapile, tutti casa e Chiesa. Alla lettera. E nessuno dà peso alla cosa. Ma poi, nel tardo pomeriggio di pochi giorni dopo, lui e lei si mettono in finestra a sparare addosso ai passanti con delle ottime doppiette. La polizia di Vìgata interviene subito, rinforzata dai vigili del fuoco e sotto l’occhio impietoso delle due TV locali che, in diretta, riprendono l’impresa di Montalbano che si esibisce in una variante personale dell’Uomo Ragno, dovendo raggiungere i piani superiori e fermare quei due pazzi. La cosa peggiore è che rinviene il vecchio in camera da letto, nudo verme… abbracciato ad una bambola gonfiale! Un autentico reperto da Postal Market versione Penthouse!! Chiusi i due vecchi pazzi in manicomio e scacciato un nipote, ottantenne!!, interessato solo all’ eredità dei Palmisano, Vìgata entra in una fase di bonaccia assoluta: niente rapine, né borseggi, né stupri, né omicidi premeditati e neppure un regolamento di conti fra famiglie. Nulla del tutto! E Montalbano s’annoia a morte. Un mondo di soli onesti è un deserto senza oasi per un tutore della legge. Poi, di repente, comincia a giungere all’ottimo Salvo una serie di buste indirizzate proprio a lui e siglate: La caccia al tesoro. Ognuna prevede all’ interno una poesiola con le tracce per trovare questo “tesoro” di cui sopra. Quasi contemporaneamente, Ingrid, l’amica svedese residente a Montelusa, presenta al commissario Arturo, un ventenne, studente di filosofia all’ Università, grandissimo ammiratore del commissario di Vìgata, che vorrebbe studiare da vicino il modus operandi del più celebre cervello del Sud Italia. E, infine, viene rubato un fuoristrada e rapita la più brava (e più vergine in assoluto) ragazza del paese, il cui padre è un povero disgraziato senza beni
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al sole (e perciò è un rapimento a sfondo sessuale). A questo punto, Montalbano ha da fare, e non per gioco. Quello che lui non può ancora immaginare è che c’è un fil rouge che lega tutti questi fatti e che, più che una normale indagine poliziesca (droga o traffico d’armi et similia), sta vivendo in prima persona… un incubo! Di libri ne ho letti una quantità, in tanti anni, e di polizieschi quanto basta per farmi un’idea del genere, da che so leggere. Però questo testo si è rivelato mostruoso, vuoi come libro, in generale, vuoi come genere poliziesco nella fattispecie! I testi che Camilleri aveva scritto in precedenza (almeno fra quelli che ho finora letto e recensito), pur essendo apprezzabili la loro parte, non reggono il confronto con questo. E non è una considerazione a caso! Quello che più mi ha sorpreso (piacevolmente, voglio dire) è che questo testo, in particolare, mostra che Camilleri ha preso ispirazione da parecchie storie e ne ha fatto una variante personale davvero notevole. Copiare (supponendo che l’abbia fatto con intenzione, ma io non lo credo affatto. Finora se l’è cavata benissimo per conto suo) è la cosa più difficile di questo mondo. Non basta spostare le virgole e cambiare i nomi. Occorre molto di più per offrire un prodotto decente. Per chi dubita di quanto affermo, consiglio senz’ altro di vedere Star Wars, I episodio della I trilogia (oggi film N° 4) e Balle spaziali di Mel Brook. Un testo davvero notevole e ricco di sorprese, con un Montalbano d’eccezione in questo caso particolare. Però, ad essere davvero onesto, lo sconsiglio vivamente ai deboli di cuore ed alle persone impressionabili. Non è pane per i loro denti. In compenso, tutti gli altri (sadici in testa) non rimarranno delusi. Andrea Pugiotto
ROSSANO ONANO DOMENICO DEFELICE ALLELUIA IN SALA D’ARMI PARATA E RISPOSTA Ed. Il Convivio _____ Molti e intriganti gli argomenti e i problemi che fanno da input al contendere fra lo scrittore Rossano Onano (...) e Domenico Defelice. Il Pontino nuovo, 16/30 settembre 2014
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IL SOGNO RIPRESO
senza la sofferenza.
E questa notte il sogno che si era interrotto ha ripreso a scorrere. E lo ha fatto più volte ed ogni volta tu eri nella stanza e pur da me lontano mi cercavi con gli occhi; e poi a un tavolo con me e con mia madre (che felice mangiava dei dolci), ed io sentivo che stavo per parlarti apertamente, decisa a farlo prima che te ne andassi; e poi ancora: stavi in piedi dietro di me e con me, seduta in poltrona, ascoltavi una musica, ed io alzandomi alla fine ti dicevo : “Devo parlarti” e tu sorridendo in speranzosa attesa attendevi che lo facessi … Ero decisa a dirti del mio amore per te. Ma ormai sarà per il prossimo sogno. Mariagina Bonciani
Tu non lo sai, ma tutti trepidiamo perché tu venga nell’azzurro sperato, nel verde immacolato di questo orrendo sasso ch’è la terra.
Milano
PERCHÉ TU VENGA Appena percepito, appena un’unghia e già ansie procuri a noi che ti aspettiamo, alla tua mamma. Non salire le scale - il medico sentenzia -, non devi affaticarti. Ma puoi far tutto il resto. Vivilo serena. La gioia non è piena - a quanto pare -
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Domenico Defelice
CONCHINHA DO MAR E tu concha marinha que ñao para de me olhar acolhe-me dentro de teu seio leva-me no teu regaço embala-me e me faz sonhar. Tito Cauchi Lavinio, RM Trad. in spagnolo di Teresinka Pereira, tratta dalla raccolta Conchiglia di mare, in occasione del compleanno dell’Autore.
STOP SMILING THIS IS SERIOUS This is the point: To be sensible means to fly away from this acute passion without revolt and fasten yourself to the iron of sobriety. But, to the contrary, I am astonished and drowned in desires The arrow of the Cupid announces that my death
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will be instant and without pain. Teresinka Pereira USA
REDIPUGLIA Qui in terra di mezzo nel campo riposano i centomila soldati, morti innocenti Quaggiù tra la scritta: “PRESENTE” centomila nomi tacciono, e non si muove che il vento, greve posa la polvere al suolo. Risuona il “silenzio” al vespero... Tristezza in tutti i cuori, nella speranza rifulge il grido d'amore e di pace, come bandiera entro infiniti spazi levata, per un soffio di nuova vita. Adriana Mondo Reano, TO
ROSSANO ONANO DOMENICO DEFELICE ALLELUIA IN SALA D’ARMI PARATA E RISPOSTA Ed. Il Convivio _____ ...Un’opera satirica, che segue le orme di Pasquino ma anche di Guareschi e che può vantare la prefazione di Giuseppe Leone (...). In quarta di copertina è presente la nota critica di Angelo Manitta il quale evidenzia come la prosa di Onano e i versi di Defelice lasciano “emergere alcuni modi di vita e mettono in relazione atteggiamenti spesso discordanti o aberranti”. Il Quotidiano Latina, 14 settembre 2014 (A Pomezia il volumetto è presente, per esempio, nell’edicola via Ovidio-Piazza San Benedetto.)
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE POETI CONTEMPORANEI - Sabato 6 settembre 2014, nella sala di via del Conservatorio 73, a Roma, Anna Manna - fondatrice del Premio Europa e cultura - e l’Accademia Internazionale il Convivio - nelle persone di Giuseppe e Angelo Manitta - hanno presentato il volume “Poeti contemporanei. Forme e tendenze letterarie del XXI secolo” di Giuseppe e Angelo Manitta, Il Convivio editore 2014. Dopo il saluto di Anna Manna, hanno introdotto Giuseppe Manitta e Angelo Manitta. Relatori sono stati Luisa Gorlani (“La poesia come educazione al sentimento”) e Tiziana Grassi (“La poesia come impegno sociale”). E’ seguito un recital di poesie degli Autori presenti in sala e inseriti nel corposo volume. Tra il pubblico, abbiamo notato il prof. Tito Cauchi, il dott. Gianfranco Cotronei - direttore dell’Editrice Totem - e il direttore di Pomezia-Notizie Domenico Defelice. (n. s. p.) *** PREMIO LETTERARIO “MARIA MESSINA” - Il 13 settembre 2014, nel Salone delle Feste del Circolo Unione, si è svolta la cerimonia di premiazione dell’undicesima edizione “Associazione Progetto Mistretta Premio Letterario <Maria Messina>“ Un racconto per “Il Centro Storico” “. L’ organizzazione ha avuto il patrocinio dell’ Assessorato ai Beni Culturali e AA del Comune di Mistretta. Il riconoscimento speciale della Giuria è andato a Giusy La Grotteria per la tesi di laurea “Una <scolara di Verga>”? La narrativa per l’infanzia di Maria Messina”, Università degli Studi di Milano. La nota critica alla proclamazione dei vincitori
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è stata del prof. Ida Rampolla Del Tindaro. C’è stato anche un interessante Dialogo tra Francesco Taormina - professore di Composizione architettonica e urbana Università Roma Tor Vergata - e Carmela Bonanno - archeologa, dirigente responsabile del Servizio “Museo delle Tradizioni Silvo Pastorali di Mistretta” -. A condurre è stata Rosalinda Sirni. Interventi: Dott. Mario Salamone, Presidente del Circolo Unione; Avv. Liborio Porracciolo, Sindaco della Città di Mistretta; Prof. Giovanni Ruffino, Presidente della Giuria; Dott. Massimiliano Cannata, Direttore de “Il Centro Storico”; Prof. Antonino Testagrossa, Presidente dell’Associazione Progetto Mistretta. *** POESIA SULLA PACE - Carissimi amici, è in preparazione la mostra della poesia sulla pace, con relativa declamazione. Inviatene una in risposta a questa e-mail: ilsaggioeditore@gmail.com La mostra si terrà nel museo del MOA (Museo della Seconda Guerra mondiale) dal 18 settembre al 18 ottobre. Il museo è posto in via sant'Antonio ad Eboli e la mostra sarà aperta tutti i giorni dalle ore 9.00 alle ore 22.00. Con stima Giuseppe Barra *** PER LA NASCITA DI LUIGI NONO - Il giorno 8 Settembre 2014, nella splendida cornice delle Sale Apollinee del Teatro La Fenice di Venezia, si è svolto l'evento organizzato per il 90esimo anno della nascita di Luigi Nono: un concerto a lui dedicato, con l'esecuzione del suo Quartetto 'FRAGMENTESTILLE, AN DIOTIMA' (1979/80) e preceduto da un incontro di studio e di riflessione dal tema 'UNA POESIA “GRAVIDA DI FUTURO”. FRIEDRICH HÖLDERLIN E LA MUSICA DEL XX SECOLO' 'ZUKUNFTSTRÄCHTIGE DICHTUNG' FRIEDRICH HÖLDERLIN UND DIE MUSIK DES 20. JAHRHUNDERTS'. L'iniziativa parte dalla Fondazione Archivio Luigi Nono, dal Centro Tedesco di Studi Veneziani, dalla Fondazione Giorgio Cini e dall'Istituzione 'Palazzo Ricci', l'Europäische Akademie für Musik und darstellende Kunst di Montepulciano, mentre il sostegno concreto ha coinvolto l'Ambasciata della Repubblica Federale di Germania in Roma, Die Beauftragte des Bundesregierung für Kultur und Medien, in stretta collaborazione con il Teatro La Fenice. Dopo un'interessante introduzione del prof. Massimo Cacciari, che spesso ha intrecciato Hölderlin ed il suo canto alle composizioni di Luigi Nono, fino alle vette del 'Prometeo. Tragedia dell'ascolto', i contributi in lingua italiana sono stati presentati dal compositore e musicologo Giacomo Manzoni ('Perché Hölderlin' / 'Warum Hölderlin') e dallo studioso di lingua e let-
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teratura tedesca Luigi Reitani ('Friedrich Hölderlin: un poeta musicale?'/'Friedrich Hölderlin: ein musikalischer Dichter?'), mentre le relazioni in lingua tedesca sono state esposte dal prof. Manfred Frank ('Über die Erzeugung von Bedeutung aus der Stille'/'Sul prodursi del significato dal silenzio') e dalla compositrice Charlotte Seither ('Unberührbar. Die ferne Hölderlin'/'Intangibile. Hölderlin lontano'). La Signora Nuria Schoenberg Nono ha accolto tutti i convenuti con la consueta sensibilità e cordialità, sottolineando l'alta qualità culturale dell'evento. Gianmario Borio, dopo di lei, ha introdotto i lavori di studio e di riflessione sul poeta tedesco che in assoluto più ha ispirato i musicisti del Novecento, dandone un elenco molto fitto, a partire da Bruno Maderna e da Giacomo Manzoni, per poi arrivare, nel 1979/80 al Quartetto di Luigi Nono 'FragmenteStille, an Diotima', per dire solo qui di quelli italiani: spiega a tutti che Luigi Nono, sulle prime, non teneva in gran considerazione questo protagonista del canto dell'anima in lingua tedesca; poi, successivamente, dopo un accurato approfondimento insieme ad amici ed esperti, ne ha fatto addirittura oggetto di lezioni agli studenti della Hochschule di Berlino, presentando diapositive delle poesie di Hölderlin con la sua grafia originale e le correzioni, quasi soggiogato dal fluire particolarissimo di quei versi. Infatti, a questo proposito, trascrivo dal Programma dell'evento quanto sostiene il prof. Manfred Frank: “Il Quartetto di Luigi Nono 'Fragmente-Stille, an Diotima', mi ricorda il pensiero e l'idea poetica centrale di Hölderlin, secondo la quale senza un cambio di alternanza dei toni poetici nessun tono sia davvero percepibile. La convinzione che il senso derivi dalla contrapposizione non era mai stata espressa in maniera così forte nell'opera di qualcuno prima di Fichte, maestro di Hölderlin, nonché suo maggiore antagonista. Un pensiero, perfino un veicolo di parole e di suoni, 'significa' qualcosa, possiede il 'valore' che tutti gli altri elementi, che ne costituiscono e ne delimitano il contesto, non sono in grado di avere. Questa è la 'legge della riflessione di tutta la nostra conoscenza – vale a dire niente di quel che è, viene conosciuto senza farci pensare anche a quel che non è'....Qui vedo il contatto più profondo del Quartetto di Nono con il mondo concettuale di Hölderlin”. Sabine Meine, simpatica, preparata e spigliata anche nella lingua italiana, ha introdotto i lavori dei due protagonisti di lingua tedesca, aprendo poi ad interventi del pubblico, decisamente appropriati. Mi riservo di approfondire quanto suggerito dai relatori, dedicando a questi temi un'attenzione sicuramente carica d'entusiasmo e dandone traccia in specifici articoli. Ilia Pedrina
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*** ALLELUIA IN SALA D’ARMI - È da pochi giorni in circolazione il volumetto, scritto a due mani da Rossano Onano e Domenico Defelice: Alleluia in sala d’armi. Parata e risposta, edito da Il Convivio di Castiglione di Sicilia. L’ opera, che reca la Prefazione di Giuseppe Leone e, in quarta di copertina, una nota di Angelo Manitta, a Pomezia, per esempio, è presente nella edicola d’ angolo tra via Orazio e piazza San Benedetto da Norcia; altrove, non sappiamo. Ma è sorprendente e lo si deve, forse, ai temi ironicamente trattati che, solo in settembre, se ne siano già interessati due quotidiani e un quindicinale: Il Giornale di Latina, Il Pontino Nuovo e Il Quotidiano di Latina e che altri periodici - come Il Caffè, Il Saggio e Dimensione D - sono in procinto di fare altrettanto. Ringraziamo, pertanto, i direttori responsabili dei due quotidiani e del quindicinale, i dottori Marina Testa, Alessandro Panagutti e Angelo Capriotti. L’opera, anche se in modo ironico, dice molte verità.
LIBRI RICEVUTI ANGELO AUSTRALI - L’occhio di Polifemo Racconto (o romanzo breve) di nove capitoletti; Prefazione di Luca Lenzini; in copertina, “L’occhio di Polifemo”, disegno colorato di Nilo Australi Circolo Letterario Semmelweis, 2014 - Pagg. 78, s. i. p. Angelo AUSTRALI è nato il 27 luglio 1954 a Figline Valdarno, dove tutt’ora vive. Nel 1980 esordisce con il romanzo Roscio, nella collana “Narrare oggi” diretta dallo scrittore Vincenzo Guerrazzi per i tipi dell’Editrice Ciminiera di Reggio Emilia. Nel 1985 pubblica spartaco e cannabis, per le edizioni Gazebo. Nel 1986, con alcuni amici, fonda il Circolo Letterario Semmelweis con l’intento di favorire la crescita culturale del proprio territorio ricercando un confronto tra identità territoriali diverse. Il Circolo Letterario Semmelweis è tutt’oggi attivo nel territorio valdarnese. Nella collana di narrativa dell’associazione escono le plaquettes di racconti Magalodiare (1989), I grandi navigatori (1996), I sogni in Tv (2002), “non ci sono troppe
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vie di fuga” (2007) . Tra il 1989 ed il 1991 è ideatore e direttore del periodico di cultura valdarnese “MicroMacro” e lavora come consulente culturale del centro “Informagiovani” del Comune di Figline Valdarno. Di MicroMacro, per l'editore Pezzini, nel 2009 è uscita un'antologia curata da Fabio Flego, dal titolo: “43° parallelo – MicroMacro storia di una rivista e il suo territorio”. Ha inoltre pubblicato: Vittoria (1999), Edizioni Gazebo, “Zia Oria” (2003) e “dalla foce alla sorgente” (2005), entrambi editi da Pezzini. Nel 2010 “l'usignolo di provincia”, Pagliai Editore. Nel 2012, sempre per l’editore Pezzini “Vittoria e altre storie di volo”. Nel 2014 “l’occhio di Polifemo” nelle edizioni del Circolo Letterario Semmelweis. I suoi racconti sono stati pubblicati su varie riviste di letteratura. ** TITO CAUCHI - Palcoscenico - Introduzione dell’Autore, Prefazione di Gianfranco Cotronei Editrice Totem, 2014 - Pagg. 64, € 10. Tito CAUCHI, nato l’11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Calendario dei poeti” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012). Monografia “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (2014). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’aperto. E’ incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita Leandro Polverini, giungo alla quarta edizione (2014). ** DANIELA DE ANGELIS (a cura di) - Oppo e 3 ricerche su Pomezia - In copertina, a colori, due particolari del “San Benedetto - Chiesa parrocchiale di Pomezia - di Cipriano Efisio Oppo (1939) - Il volume, dovuto all’ISA POMEZIA - Liceo Artistico Pomezia, è composto dai seguenti capitoli: “L’ affresco di Oppo a Pomezia”, di Daniela Angelis;
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“Cipriano Efisio Oppo”, di Alessio Barbarossa e Asia Concetti; “Giuseppe Piombanti Ammannati e le ceramiche dedicate a Pomezia”, di Daniela De Angelis; “Giuseppe Piombanti Ammannati”, di Cristian Palumbo, Giuseppe Seminara, Andrea Valentini; “Toponomastica pometina”, di Daniela De Angelis; “Toponimi”, di Ilaria Ambroselli, Valentina Digrisolo, Gioia Dos Reis, Camila Peña Coya, Federico Santini, Gianmarco Savioli, Sara Sbravatti. All’interno, 22 immagini in bianco e nero. Gangemi Editore, 2014 - Pagg. 48, s. i. p. ** ARMANDO ROMANO - Viaggi - Poesie, Premio 2014 Poeti nella Primavera - In copertina, a colori, “L’alfabeto dell’Amore” del Maestro Enzo Marco Stampato in premio al vincitore dal Centro Poesia M. C. L. Enrico Del Freo e distribuito in omaggio a tutti i partecipanti - Pag. 24. Armando ROMANO, nato a Poggiomarino (NA) il 4 maggio 1931, attualmente residente in Roma, si è laureato in Giurisprudenza. Pensionato, si occupa del Premio nazionale di poesia “LaLode”. Ha pubblicato 8 libri di poesia con ottime valutazioni del mondo culturale: Giorgio Caproni, Ferruccio Ulivi, Diego Valeri e molti altri. ** MARIAGINA BONCIANI - Poesia e Musica - 1° Premio Concorso Letterario “Città di Avellino Verso il Futuro” - Prefazione di Carlo Onorato Casa Editrice Menna, Avellino 2014 - Pagg. 48. Mariagina BONCIANI vive a Milano dove è nata nell’aprile 1934 e si è diplomata in Ragioneria nel 1953, ma ha sempre prediletto le materie letterarie e le lingue. Conoscendo il francese e lo spagnolo ed avendo perfezionato soprattutto lo studio dell’ inglese, ha lavorato, dal 1953 al 1989, come segretaria di direzione, capo ufficio e corrispondente presso tre diverse ditte nel settore import-export. Ama la lettura, i viaggi e la musica classica. In pensione dal 1989, per alcuni anni si è dedicata alla madre inferma, smettendo di viaggiare, ma studiando pianoforte, russo e greco antico. Non si è mai sposata. Da qualche anno ha iniziato a presentare nei concorsi letterari le sue poesie, ottenendo sempre riconoscimenti e premiazioni. Molte sue poesie sono state pubblicate in antologie e riviste. Nel 2010 ha pubblicato nei quaderni “Il Croco” della rivista “Pomezia-Notizie” la silloge “Campane fiorentine”, accolta con entusiasmo dalla critica e nel 2011, sempre per “Il Croco”, la silloge “Canti per una mamma”. Nel 2012 è uscita presso le Edizioni Helicon la sua raccolta “Poesie”. Sue poesie vengono regolarmente pubblicate nella suddetta Rivista e sulla Rivista “Silarus”. Vince il primo premio al concorso “Città di Avellino - Trofeo verso il futu-
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ro” 2013 con la silloge “Poesia e musica”. E’ presente nel volume “Poeti contemporanei - Forme e tendenze letterarie del XXI Secolo” (2014), a cura di Giuseppe e Angelo Manitta.
TRA LE RIVISTE IL SAGGIO - Mensile di Cultura - Direttore Geremia Paraggio, editoriale Giuseppe Barra - via don Paolo Vocca 13 - 84025 Eboli (SA). Riceviamo, quasi contemporaneamente, i numeri 220 e 221 (luglio e agosto 2014), dei quali, intanto, segnaliamo le bellissime copertine a colori. Numerosi e interessanti gli articoli, le rubriche, le foto. Tra i collaboratori: Pino Antonelli, Antonio Capano, Antonella Cestaro, Giovanni Antonio Colangelo, Giuseppe Falanga, Carlo Fumo, Mario Onesti, Roberto Naponiello, Vitina Paesano, Nadia Parlante, Gerardo Pecci, Pio Peruzzini, Paolo Saturno, Nicola Spinelli. Segnaliamo: “L’elegante e accogliente Losanna”, di Francesca Colangelo; “Filosofia, Scienza e Paideia: una terapia per i mali di oggi”, di Maria Rosaria D’Alfonso, nonché la rubrica “Il Vaglio”, dell’amico Lucio Zaniboni. A entrambi i numeri, sono allegati i fascicoli “Il Saggio libri, poesia, arte” numeri 98/220 e 100/221, ricchissimi. Ci aspettiamo di incontrare, su queste belle pagine, le firme dei nostri amici e per questo li invitiamo ad abbonarsi e a collaborare. E-mail: ilsaggioeditore@gmail.com * FIORISCE UN CENACOLO - Rivista mensile fondata nel 1940 da Carmine Manzi, diretta da Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (Salerno) - e-mail: manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il n. 4-6 (aprile/giugno 2014), sul quale troviamo, fra le altre, le firme di Giovanni Dino, Tito Cauchi, Leonardo Selvaggi, Orazio Tanelli, Antonia Izzi Rufo. * SENTIERI MOLISANI - Rivista di Arte, Lettere e Scienze diretta da Antonio Angelone, responsabile Massimo Di Tore - via Caravaggio 2 - 86170 Isernia. Riceviamo il n. 2 (41), maggio-agosto 2014. Tra le firme: Leonardo Selvaggi, Anna Aita, Giuseppe Anziano, Luigi De Rosa, Rosa Elisa Giangoia, Giorgina Busca Gernetti, Elio Andriuoli, Giovanna Li Volti Guzzardi, Ciro Rossi, Loretta Bonucci. E-mail: sentieri.molisani@katamail.com * IL FOGLIO VOLANTE - Mensile letterario e di cultura varia - Direttore Amerigo Iannacone, re-
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sponsabile Domenico Longo - via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro (Is). n. 8 (agosto 2014). Tra le firme, oltre quella dell’amico Amerigo (sempre interessanti i suoi “Appunti e spunti”), Fryda Rota, Antonio Cervo, Loretta Bonucci. Email: fogliovolante@libero.it * SILARUS - Rassegna bimestrale di cultura fondata da Italo Rocco e diretta da Pietro Rocco - via B. Buozzi 47 - 84091 Battipaglia (SA). Riceviamo, inviatoci dall’amica Mariagina Bonciani, il n. 293-294 (maggio-giugno 2014), sul quale, tra le tante firme, troviamo quelle di Mariagina Bonciani (1a classificata al premio “Silarus” 2014 con la poesia “Tramonto”), Maria Teresa Epifani Furno, Oxana Pachlovska che intervista Corrado Calabrò. E-mail: rivistasilarus@hotmail.it * IL PONTE ITALO-AMERICANO - dr. Orazio Tanelli - 32 Mt. Prospect Avenue - Verona, New Jersey 07044, 973-857-1091 USA. Riceviamo il n. 2 (agosto 2014), quasi interamente firmato dal Direttore. Altre firme: Teresinka Pereira e Gabriella Frenna.
L’ITALIA DI SILMÀTTEO di Domenico Defelice Ottava puntata* L’estate è trascorsa senza fiamme, in qualche luogo pure col cappotto, ma non s’è spento il turpe bailamme, né le giocate assurde al terno al lotto. L’Europa ha detto sì alla Mogherini ad altri dando posti più ambiziosi; ha vinto, come sempre, il grande affare, le caste, gli armaioli, i malandrini. Sono ovunque le guerre e più spietate: in Libia, in Siria, a Kiev, in Palestina; l’oscurantismo arabo s’espande con Isis1; le genti indottrinate sono a forza; i bambini rapiti; le donne ora vendute ora stuprate. E il Continente? Dorme, immerso nella solita manfrina. Una forza non ha per dissuadere,
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né vuole rinunciare ai grassi affari. Fa finta di adirarsi e intanto ingoia l’amara e distillata medicina. A mediare s’offre Berlusconi dalla villa d’Arcore, ma il Governo non sa che cosa fare e teme di coprirsi di rossore. Girone con Latorre son bloccati in India ormai da anni e le loro famiglie disperate. Con l’ischemia di Massimiliano l’Italia rischia in faccia un altro oltraggio, perché Girone, a questi chiar di luna, finirà per diventare anche un ostaggio. Brancola la Pinotti2, volando a vuoto un po’ di qua e di là, senza cavarci un ragno, ché inerzia ha intorno ed incapacità. Le riforme son sempre più boiate fatte a cazzo di cane, senza una logica, mere pasticciate. Silmàtteo tuona e fulmina, promette che non molla, che il tutto sarà splendido e fatto assai prestissimo, ma solo è pasta frolla, un misto di follia e dissennatezza. Ha criticato Letta: “Molto lento!” ed ora fa l’elogio alla ...lentezza. Intanto, la Procura di Bologna, uno dei suoi delfini, Matteo Richetti, candidato a governar l’Emilia, per peculato, par, mette alla gogna. Riformar la Giustizia è una sfida che costa troppo cara ad enunciarla; quella che vuol Silmàtteo, punitiva, orribile, offensiva, inefficace è per l’Associazione Magistrati. Perciò il Governo è bene che si aspetti una guerra spietata, senza tregua, dal mondo della casta dei togati che non combatte attività illegali3 ma con l’unghie difende e con i denti privilegi, stipendi e ferie astrali4; un ordine che interpreta la norma e spietato la piega ai sui favori sì che giammai può essere accusato, né mai chiamato al fio dei propri errori.
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Silmàtteo stia in campana ché, quello ch’è successo a Berlusconi, rispetto a lui non è che una panzana. Più egli emerge nella sua persona, più il suo potere cresce e si dirama, più s’allarma il togato e la fanghiglia mesta e rimesta a caccia di sodali con qualche schizzo nella palandrana - non tutti a questo mondo son perfetti! -, per poi colpirlo al cuor della famiglia. Stefano Bonaccini - e già il Richetti -, De Scalzi, Genovese, ecco Corrai, amici suoi fidati, il Tiziano, Mazzarano, Carlizzi, Mario Spacca5, tutti sono indagati e in mezzo ai guai. Finisce immantinente nella cacca chi la giustizia intende riformare e per parenti, amici e conoscenti dall’Alpi al Lilibeo non son che lai.
Domenico Defelice (8 - continua) * Riassunto delle precedenti Puntate - Una notte d’estate, Berlusca erutta, attraverso un suo attributo, per una condanna definitiva. In Germania, Angela Merkel è in sofferenza per una perdurante stitichezza (in senso economico e specialmente nei nostri confronti). Silmàtteo Renzusconi, dopo la segreteria del PD, conquista anche il Governo che promette mari e monti e di combattere contro l’ austerità dell’ Europa a direzione teutonica. Ma è tutta una manfrina in attesa delle elezioni europee, che assegneranno al PD il 40,8%. Berlusconi è condannato ai servizi sociali, ma, politicamente, continua a pesare quasi come prima. Roma, simbolo della Nazione, è nel caos. Anche per una partita di calcio ci son pistolettate. Esplode il caso dell’ExPo milanese. Il Parlamento, a dispetto della crisi, spende denari pubblici in corsi per parrucchieri messa in piega al servizio di deputatesse e senatrici. La mobilità nella pubblica amministrazione è una farsa, le leggi non hanno valore, la Nazionale di calcio si sbraca e, nelle processioni, Madonna e Santi si ... inchinano davanti alle case dei mafiosi. È scontro tra i magistrati di Milano. Il Mediterraneo è sempre più una tomba di immigrati. Le Camere fanno finta di fare sacrifici: disdicono l’affitto di tre palazzi, ma, in compenso, i parlamentari pretendono... l’indennità d’ufficio! NOTE 1 - Il sorgente Stato Islamico nel cuore dell’Iraq, al
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quale si debbono alcuni orrendi, mediatici massacri e decapitazioni eseguite in modo plateale per impaurire e inorridire l’Occidente. 2 - Roberta Pinotti, la prima volta di una donna al Ministero della Difesa. 3 - L’Istat ha calcolato che nel 2011 le attività illegali hanno pesato in Italia per più di 200 miliardi (ben 15 solo da droga e prostituzione). 4 - È la categoria che ha più ferie: ben 45 giorni all’anno e stipendi pari a quelli delle più alte cariche dello Stato. 5 - Una vera retata, in tutta Italia, di amici di Mattteo Renzi, eseguita per spaventare il Governo sempre più deciso a riformare la giustizia: Stefano Bonaccini, responsabile, come Richetti, Enti locali e, come Richetti, candidato alla provincia in Emilia Romagna; Claudio De Scalzi, amministratore delegato dell’ENI, indagato per presunta mazzetta per acquistare un giacimento petrolifero in Nigeria; Francantonio Genovese, deputato PD, in carcere per associazione per delinquere e truffa; Marco Corrai, amico di Renzi e procacciatore di finanziamenti; Tiziano Renzi, padre del capo del Governo, accusato di bancarotta fraudolenta; Michele Mazzarano, consigliere pugliese, accusato di finanziamento illecito; Demetrio Naccari Carlizzi, consigliere regionale PD in Calabria, accusato di aver tentato di fare assumere la moglie all’ospedale di Reggio Calabria; Gian Mario Spacca, presidente della Regione Marche, indagato per peculato.
LETTERE IN DIREZIONE (Ilia Pedrina a Domenico Defelice) Carissimo Direttore, eccomi a te da Venezia, nella notte dell'8 Settembre, a distanza di 73 anni dal 1943. Io a quell'epoca non ero ancora nata, tu si, ed eri piccino! Quante sofferenze hanno patito i grandi ed i piccoli di allora, tutti obbligati a subire, così spesso in silenzio. Ti scrivo dallo spazio in calle della trattoria 'Ai Coristi', proprio all'esterno del Teatro 'La Fenice', dove si è svolto per tutto il pomeriggio un incontro di studio e di riflessione sul poeta Friedrich Hölderlin, la passione di Papà, come ben sai: “Una poesia 'gravida di futuro' – Friedrich Hölderlin e la musica del XX secolo”. Scali-
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nate con passatoia rossa e marmi in rosa e lampadari in preziosi cristalli di Murano e poltrone in velluto rosso e il bianco e oro dei legni, cornici e decori. Originali? Rivisti dopo l'incendio di qualche anno fa? Accedo alle Sale Apollinee, dove si tiene il Convegno e Nuria Nono apre ai convenuti un poco stanca e molto commossa perché questa volta la Fondazione Archivio Luigi Nono è affiancata oltre che dalla Fondazione Giorgio Cini, dal Centro Tedesco di Studi Veneziani e dall'Europäische Akademie für Musik und darstellende Kunst 'Palazzo Ricci' di Montepulciano, proprio dal sostegno dell'Ambasciata della Repubblica Federale di Germania in Roma, nella sezione 'Die Beauftragte der Bundesregierung für Kultur und Medien, con la collaborazione del Teatro La Fenice Per le conferenze in lingua tedesca, senza gli auricolari per la traduzione istantanea, mi sono immersa in uttti quei suoni, così, direttamente, senza capire bene tutto ma senza filtri di sorta. Ogni linguaggio è un mondo vivo, palpitante, segreto ed oscuro a tutti, misterioso, fino a quando lo esprimi a qualcuno che ti ascolta. E Hölderlin è poeta di suoni specialissimi, musicali, va letto a voce alta, hanno detto gli esperti. Ed è vero. Mi viene subito in mente il prof. Gerhard Neisses, a suo tempo allievo di Adorno e di Horckheimer, a Francoforte, dopo che sono rientrati dall'esilio in America: l'ho incontrato tempo fa e parla benissimo l'italiano così gli chiederò di ascoltare insieme con me le relazioni di Manfred Frank 'Über die Erzeugung von Bedeutung aus der Stille' ('Sul prodursi del significato dal silenzio') e della bella Charlotte Seither 'Unberührbar: der ferne Hölderlin' ('Intangibile. Hölderlin lontano'). La registrazione è venuta molto bene, così ti renderò conto di tutto. Si, perché lui, Hölderlin, passa molti anni a Tubingen, chiuso in una torre alta, ospitato da un contadino, alcuni amici lo vanno a trovare, si dice che è folle, talora si firma 'Den 24 März 1671 - Mit Unterthänigkeit Scardanelli' / 'Li 24 marzo 1671 - Con umiltà – Scardanelli'. Ha detto il prof. Cacciari, quando ha introdotto i lavori del Convegno,
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che ha avuto come moderatori Gianmario Borio e Sabine Meine, che Nieztsche adorava Hölderlin e Leopardi e sosteneva che essi appartenevano come ad una specie antropologica differente, non erano filistei! Perché poeti e poeti della lingua e del ritmo in canto? Perché lontani in una sofferenza non condivisibile, segreta e manifesta ad un tempo, là dove l'identità sociale del tuo nome e cognome scivola via e viene sostituita da una forza vibrante ed assoluta, che ti trasforma dentro senza mezzi termini, come può provocare Poesia, quella Dichtung-Poesia che è anche contemporaneamente Gesang-Canto? Hölderlin si firma 'Scardanelli', Nietzsche ha fasi nelle quali si firma 'Dioniso' o 'Zrathustra' o 'Cristo' stesso, come segnali di una lotta senza quartiere contro lo stato delle cose che circonda l'uno e l'altro in differenti tempi d'Europa. Perché Hölderlin nasce nel 1770, come Hegel, come Beethoven e Nieztsche nel 1844, come tanti altri tedeschi, un poco meno noti. Dopo le tante cose che con il prof. Neisses ci siamo detti più di un anno fa, nella saletta della sede del Centro di Cultura Italo-Tedesco di Vicenza, associazione guidata dalla sua figliola Annette Neisses, ora mi parla cordialmente al telefono per oltre mezz'ora ed io lo informo di questo Convegno di studio su Hölderlin, organizzato a Venezia in occasione dei novanta anni dalla nascita del compositore veneziano Luigi Nono (1924-1990). Come puoi capire, carissimo, avrò bisogno del suo aiuto e di tutta la sua gentilezza, che è già discreta e grande. Tutta immersa in questa lingua antica, seguo i suoni e talora ne individuo il percorso semantico, ed allora è facile per me, adesso che si è conclusa l'esecuzione della composizione di Nono 'Fragmente-Stille, An Diotima' 1979-/80', un'opera intensa che dura 45 minuti scritta per Quartetto (devi sapere che è stata introdotta da una breve relazione del violoncellista Matthias Diener, del Minguet Quartett, dopo gli echi ad intreccio di quattro Chansons di Johannes Ockegem e l' Ave Maria di GiuseppeVerdi, in scala enigmatica a 4 voci miste), riandare con la mente
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a Berlino, alla mia sosta nella Alexander Platz e tra i luoghi dove di notte si svolgevano le adunate di Hitler e dei suoi innumerevoli seguaci, tutti tesi a fare di questa lingua un'arma d'attacco e di difesa, anziché di canto e d'arte, come il grande spirito di questo popolo aveva già forgiato nei secoli e come Lutero aveva fatto brillare in luce piena contro le opacità del Vaticano di allora. Hitler tiene conto di Lutero quando scrive il suo 'Mein Kampf' nel 1925 (giusto quattrocento anni dopo la pubblicazione di 'Ebrei razza dannata' di quell'audace monaco agostiniano folgorato in negativo da un papato in armi e spendaccione) e ne vende milioni di copie, soprattutto nella traduzione inglese, in America appunto: Hitler vivrà con la rendita di queste vendite e non prenderà mai il denaro dello stipendio di Cancelliere del Reich. Ma tutti, proprio tutti sapevano chiaramente i suoi progetti, la sua battaglia appunto e scrive questo lavoro in prigione e dietro di lui un sacerdote gerosolimita che è sfegatato contro gli Ebrei e lo accende dentro, senza mezze misure! Ah se quei professori che Hitler ha avuto a scuola, facendo l' Istituto Tecnico a Vienna, gli avessero detto che dipingeva bene, invece che boc-
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ciarlo! Un suo famoso compagno di classe, Ludwig Wittgenstein si ricorda bene di questo giovane bruno dagli occhi vivaci e azzurri, che durante la ricreazione cammina con un fiordaliso in mano. Tutti sapevano e tutti hanno accettato, fino a quando l'operazione sporca era già a buon punto, non prima. Ed ora queste mie povere orecchie vengono violate da chi sostiene, e non sono pochi, che Hitler non ha fatto bene il suo lavoro perché ce ne sono altri 20 milioni da 'sistemare', circum circa, come dice Leporello! E se non vengono più sistemati gli Ebrei e gli altri nelle camere a gas, vengono sistemati nelle acque del Mediterraneo gli Africani, da qualsiasi parte vengano: tutti sanno da dove partono i barconi della morte, qualche sporadica cattura e poi via, tanto nessuno tiene il conto e i morti ammazzati barbaramente sono qui come altrove. L'appello di Vik Arrigoni, giovane bellissimo che ha uno spazio privilegiato nel mio cuore, '...restiamo umani!' deve scontrarsi sempre con questa ferocia programmata ed insensata? Hölderlin sostiene in 'Hälfte des Lebens' - 'Metà della vita': “Mit gelben Birnen hänget Voll mit wilden Rosen Das Land in den See, Ihr holden Schwäne, Und trunken von Küssen Tunkt ihr das Haupt Ins heilignüchterne Wasser. Weh mir, wo nehm ich, wenn Es Winter ist, die Blumen, und wo Den Sonnenschein Und Schatten der Erde? Die Mauern stehn Sprachlos und kalt, im Winde Klirren die Fahnen.” “Con gialle pere pende E folta di rose selvatiche La campagna sul lago, O cigni soavi Ed ebbri di baci Tuffate il capo Nella sacra sobrietà dell'acqua.
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Ahimè, dove li prenderò io Quando è l'inverno, i fiori E dove il solatio E il rezzo della terra? Le mura si levano mute E fredde, nel vento Stridono le banderuole.” (Dicembre 1803) (Da Friedrich Hölderlin, POESIE, tradotte da Giorgio Vigolo con un saggio introduttivo, G. Einaudi Editore, 1958, pp. 448-449). E 'gravido di futuro' e di una verità pesantissima da accettare è il suo indicibile senso di vuoto, quando sente che gli Dei dell'antica Grecia hanno abbandonato gli umani, lasciandoli gemere nel regno dei morti.... Si, è vero, 'die Mauern stehn sprachlos', è proprio così: le mura si levano mute come quelle di una prigione, se non respiri amore. Allora mi viene in mente il tuo 'Alberi?', una ricerca di senso profondo, in canto, nel dolce aspetto degli alberi e dei fiori e delle donne e della vita tutta, che ti hanno accompagnato la vista, gli incontri, il cuore, quando ti emozioni e traduci in canto questo tuo vibrare: è il senso stesso della vita che non va mai violata, questo. Grazie, perché mi accompagni sempre, da lontano, con discreto e silenzioso Amore. Il tuo canto, il tuo Gesang, la tua Dichtung non devono conoscere confini. Ilia Ilia Carissima, come al solito, data la loro lunghezza, delle tue lettere - godimento per molti lettori - colgo solo alcuni sprazzi. Sì, ero piccolo, ma gli anni 1943-1945 sono in me ancora indelebili. Di essi accenno qualcosa in due racconti, entrambi - “La banda tedesca” e “Un miracolo” - facenti parte dell’inedito Non circola l’aria. Ricordo ancora i timori costanti, assillanti, ossessivi dei miei genitori. Nel paese ci sentivamo insicuri. Mio padre era particolarmente in fibrillazione per aver subito, ad opera del ducetto del posto, l’ostracismo per non aver mai voluto la tessera del partito. Eppure, egli
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non è stato mai un vero antifascista, anzi, per certi aspetti, ammirava Mussolini. Per colpa del federale locale s’era fatto, però, quasi cinque anni di confino a Cisterna di Latina, dove conobbe anche Achille Starace, il quale si meravigliava che un uomo come mio padre fosse allontanato dalla sua casa per antifascismo. Fu ben voluto da tutti e messo a dirigere, addirittura, una mensa per i lavoratori della bonifica. Ogni giorno diceva che dovevamo allontanarci dal paese e così fu. Ci trasferimmo in un casolare nella campagna di Anoia (RC), nella località chiamata Baldis, un podere della famiglia Belcaro che i miei genitori avevano preso a colonia. I Belcaro, che abitavano a Laureana di Borrello, nella stessa provincia, erano parenti del dottor Gaetano Jerace, di Roma, oncoloco parente del grande scultore Francesco Jerace. Mia madre, quando mio padre era a Terracina, veniva di tanto in tanto dalla Calabria ad incontrarlo, alloggiando presso questa famiglia amica, in via Arenula. Avevo quattro mesi, quando, per la prima volta, sono stato condotto a Roma. I miei genitori raccontavano - ma anche questo dottore - che non la smettevo mai di piangere. Mi quietavo un po’ solo allorché mia madre mi portava nel vicino Largo Arenula, dove, tra i ruderi, dimoravano e dimorano colonie di gatti. Quegli animali sornioni, indolenti, mi distraevano. È per me alquanto sorprendente questo tuo quasi accostare, legare una data infausta perché molto equivoca (noi Italiani siamo sempre stati un popolo contorto; mai una decisione ferma e diritta, ma spazi e spazi al compromesso ed all’escamotage) - alla musica e alla poesia (la Fenice, il Centro Tedesco, Hölderlin e altro). Non del 1943, ma dell’ anno successivo conservo il più inquietante ricordo, in un certo senso legato alla musica. Lo rievoco in “La banda tedesca”: la razzia, in quel casolare di campagna, di tutto quel che avevamo ad opera di un manipolo di tedeschi in fuga; la musica malinconica dei loro strumenti; la fucilazione del mio cane; il loro allontanarsi ghignanti e carichi delle no-
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stre vettovaglie. Alcuni dei miei Alberi? sono proprio della campagna di Baldis, rievocati con gli occhi e il cuore dell’età del declino, fusi alla donna, per me inscindibile dalla Natura, panteisticamente legata alle piante (non per altro ho sempre amato l’arte di Saverio Scutellà, ideatore, in pittura, della corrente detta del Panismo). Di quel periodo è anche la donna di “Due lampi nella notte”, pure della raccolta Non circola l’aria. Anch’io ho letto Hölderlin nella versione del Vigolo, ma nella edizione 1971 (292 pagine) de Gli Oscar Mondadori. Poesie visionarie, perciò fascinose, evocatrici; poesia per certi aspetti “labirintica” (Bettina Brentano). Hölderlin “aveva la musica dentro” (Rudolf Haym), che gli derivava “unicamente dalla virtù esaltatrice del suo entusiasmo” (Stefan Zweig). Fu uno dei poeti che mi hanno accompagnato e allietato nella giovinezza poverissima (per la fame, mi hanno raccolto svenuto davanti a una trattoria di Roma, in via Principe Amedeo) e insaziabile di bellezza e armonia. Divoravo volumi e volumi di poeti, anzi, mi nutrivo esclusivamente di arte e poesia (le poche lire che racimolavo erano solo per acquistar libri). Eluard, Dylan Thomas, Evtušenko, Whitman, Lorca, Alberti eccetera, insieme, naturalmente, ai tanti italiani, a incominciare da Petrarca e Dante e tutti gli altri, grandi e piccoli, fino a Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale, Vigolo, Palazzeschi, Moretti, Turoldo, Gozzano, Fortini, Gatto, la Bono, Gerini, Lenisa... Alberi? offre qualche medaglione di poeti vicini al mio tempo. Se tocchi la loro corteccia, senti il calore della pelle viva; i loro rami sono braccia e mani che accarezzano e serrano; le loro foglie seminano profumi e danno ricetto a canti e ad armonie. Son brani di una realtà divenuta sogno. Domenico POMEZIA-NOTIZIE si avvia a divenire quasi solo on line. Per collaborare, rinnovate l’abbonamento dopo averne scelto il tipo. Non ci saranno più le copie omaggio.
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