Pomezia Notizie 2014/5

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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 22 (Nuova Serie) – n. 5 - Maggio 2014 € 5,00

CORRADO CALABRÒ IL MARE LA LUNA L’AMORE... di Domenico Defelice

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I manca il mare o non, piuttosto, mi manca la luna? Non la solita luna, ma la fantastica luna del Sud, resa particolarmente grande dagli intensi vapori della notte. A una rapida conta e tralasciando i tanti sinonimi (marea, marino; plenilunio, lunazione), la voce luna batte la voce mare almeno sessanta a quaranta. Ci sono, in questo libro bello e corposo di Corrado Calabrò, la donna e l’amore; c’è il grigiore di affetti quasi spenti (“Vite spanate”); il sesso senza la spudoratezza; la donna metamorfizzata nelle cose e nei paesaggi e la donna reale e quella sognata, immaginata, involontariamente desiderata, tarlo costante della mente: “amo dunque due donne, anche se/non ho altra donna all’infuori di te”. Ci sono l’11 settembre e il terremoto; i pedoni falciati sulle strade delle periferie dalla ferocia delle “macchine (che) s’avventano ai polpacci”; c’è l’ eterno dramma dell’emigrazione dei popoli (“Canto senegalese a Lampedusa”). E c’è pure tanta ironia, come quando, all’amazzone urbana, il poeta smoccola “il mestiere (...) che pratica in zona (sua) madre”, o la risposta, immaginata - visto che lo estraggono praticamente morto -, che il Sindaco Tripepi di Reggio Calabria dà a chi, per incoraggiarlo, gli annuncia la presenza del Re: “<Allegro, Sindaco, allegro! C’è il Re!/C’è il Re!> gli gridavano eccitati./<Me ne fotto del re!>”. Tutto questo e altro troviamo in Calabrò, ma sono luna e mare le divinità che dominano in assoluto e che, al par della marea, lievitano ogni cosa ed influenzano terra e cielo. “Sorge offuscata la settima luna”;


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All’interno: Isabella Morra, di Marina Caracciolo, pag. 4 Francesco Pedrina, di Giuseppe Anziano, pag. 8 Lionello Fiumi in Lapponia, di Ilia Pedrina, pag. 11 La poesia di Elena Bono, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 15 Visitazione degli anni torbidi, di Rossano Onano, pag. 19 Il tempo nuovo di Guido Zavanone, di Nazario Pardini, pag. 27 Fuga del tempo di Luigi De Rosa, di Bruno Rombi, pag. 30 Adriana Assini: La riva verde, di Marina Caracciolo, pag. 33 Antonio Angelone e il Molise, di Leonardo Selvaggi, pag. 35 Premio Città di Pomezia 2014 (Regolamento), pag. 39 I poeti e la Natura (Vincenzo Cardarelli), di Luigi De Rosa, pag. 40 Notizie, pag. 55 Libri ricevuti, pag. 60 Tra le riviste, pag. 62 RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Fuga del tempo, di Luigi De Rosa, pag. 42); Giannino Balbis (Un sogno che sosta, di Gianni Rescigno, pag. 42); Marina Caracciolo (Un sogno che sosta, di Gianni Rescigno, pag. 43); Tito Cauchi (Da lontano, di Rocco Cambareri, pag. 44); Tito Cauchi (Paesaggi immensi dell’afflizione, di Themistoklis Katsaounis, pag. 45); Tito Cauchi (Un paese e una ragazza, di Domenico Defelice, pag. 46); Aurora De Luca (I giorni dell’anima, di Vincenzo Rossi, pag. 47); Luigi De Rosa (Tempo nuovo, di Guido Zavanone, pag. 48); Elisabetta Di Iaconi (Paese, di Antonia Izzi Rufo, pag. 49); Giuseppe Leone (Una croce fra gli abeti, di Virginia Fazzini Tenderini, pag. 49); Maria Antonietta Mòsele (Aldo De Gioia, di Anna Aita, pag. 50); Maria Antonietta Mòsele (Paese, di Antonia Izzi Rufo, pag. 51); Maria Antonietta Mòsele (Pagine di diario, di Mimì Frisina, pag. 51); Andrea Pugiotto (I simboli del mito, di Nazario Pardini, pag. 52); Andrea Pugiotto (Paese, di Antonia Izzi Rufo, pag. 52); Andrea Pugiotto (Fuga del tempo, di Luigi De Rosa, pag. 53); Andrea Pugiotto (Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza, di Luis Sepulvida, pag. 53); Innocenza Scerrotta Samà (Un sogno che sosta, di Gianni Rescigno, pag. 54).

L’Italia di Silmàtteo, di Domenico Defelice, pag. 63 Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 65 Inoltre, poesie di: Emilia Bisesti, Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Corrado Calabrò, Marina Caracciolo, Laura Catini, Domenico Defelice, Giovanna Li Volti Guzzardi,Vittorio “Nino” Martin, Adriana Mondo, Gianmarco Perna, Serena Siniscalco, Orazio Tanelli

“la luna dilatata dai vapori giganteggiava nel cielo notturno”; “luna grande di paese”; “Luna esondante di giugno sonora di marea”... Nel leggere questi versi, il pensiero corre all’autore di “Luna santa luna”, altro grande poeta calabrese: Felice Mastroianni, nelle cui opere domina, spesso, una luna potentemente evocatrice e ancestrale. In Corrado Calabrò, come in Mastroianni,

tra mare, spiagge e paesaggi carichi di pathos, la luna pare, a volte, nascere dalle acque e poi lentamente salire su per le colline, fin quando esse non si sbiancano alla luce del sole nascente, che assorbe l’alone di nebbia. Una luna che allaga la campagna, in Mastroianni; simile a quella dipinta “in un paesaggio di Van Gogh”, in Calabrò. Il mare, in Mastroianni, è mitico; è altrettanto evocativo in Calabrò, ma più vario e dominante, “pista d’ acqua che ostenta il suo turgore”, o, se fred-


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do, “immenso bacile d’olio grigio”, spianato dal vento. Costante, questa poesia, ci reca un “odore di pesce e di mare”. In Mi manca il mare troviamo anche le “vacche (che) giravano gli occhi/inclinando le corna pensierose/per scrutarci di lato”. Le mucche di Calabrò sono animali curiosi e mansueti e scrutano di sottecchi il poeta e la sua donna in gita turistica alla bella località di Gambarie. Gli stessi animali (i buoi), in Mastroianni, sono spesso affiancati alla luna. I buoi di Mastroianni hanno corna “superbe”, talmente grandi, da non poter essere contenute dagli estatici occhi dei bimbi: “Sotto le nuvole nere/i buoi sono bianchi: nettunii giganti/sulla soglia del mare./Ed hanno il mugghio dei fondi marini.//Sulle corna lunate si spuntano i lampi”. Nei suoi paesaggi smagati, a volte, al posto del bue, troviamo il mulo, altro animale che, fino a pochi decenni fa, dominava in Calabria: “Alti, scalpitanti/risalgono al ricordo,/come da lune estive/.../i muli di Amantea”. Il mare di Calabrò è, contemporaneamente, amante e amata verso la quale spasimano persino i fiumi. Amare il mare, vuol dire essere disposti ad accettarlo così com’è, mettendo da parte i nostri canoni; significa abbracciarlo intensamente per sentirlo nostro, anche se, stringendolo, esso ci sfuggire come l’aria. Il mare è come la donna, che non la si amerà davvero se non rispettandola nella sua totale libertà. Se le s’impone il nostro egoismo, la si soffoca e la si uccide. I tanti femminicidi dei nostri giorni non derivano da eccessivo amore, ma da totale incapacità di amare. Amare veramente non è facile; anche verso la donna, “l’amore è un rischio”, proprio come quello verso il mare, che “va preso come viene”, senza tentare di domarlo, se non si vuol finisce con l’essere domati. La luna di Calabrò è “come un’ostia di cera”; a volte, smagata, è “ferma nel cielo/come un dilemma”. Nella notte, la sua luce, in genere, reca conforto e protezione; ma può accresce anche la paura: “la sua luce fredda mi raggela”, confessa il poeta. Il suo “occhio”, “accovacciato a monte Pentime-

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le”, è cercato dalla “notte (...) scesa in un pozzo profondo”. Si indovinano l’odore e la voce di un quartiere e di un porto: Santa Caterina di Reggio Calabria. Di un tale ambiente, il poeta riporta anche qualche detto: “Meglio è che tua madre ti pianga/anziché il sole di maggio ti tinga”, che noi ricordiamo in dialetto: E’ megghiu n’a matri mu ti ciangi ca lu suli di marzu mu ti tingi: il sole di marzo, non di maggio, perché, a far male, dicevano i vecchi, è il sole di tutti i mesi con la erre. La poesia di Corrado Calabrò stimola ed invita ad andare a pesca di ricordi. Donne, amori, vicende vere o verosimili, sogni, invenzioni paradossali (“L’esorcismo dell’ Arcilussurgiu”). Canta una società moderna con linguaggio moderno - “password”, “iPod”, “esseemmeesse deliranti” -; narra le contraddizioni, l’insincerità nel compiere atti, il fingere amore per raggiungere altro scopo, con già il cervello e il cuore “impiccato al bisogno di tradirti”; l’amore di figlia e di madre (Ludovica) e il sesso puro e semplice, che non accetta complicazioni: “Non divida l’ amore apostrofato/quello che il sesso negli amanti unì”. Solo bassa voglia, insomma, non amore: “Lupo che s’azzanna le cosce/il desiderio di te”. E son da evidenziare, ancora, belle immagini e movenze che riportano alla splendida natura: l’abbraccio della giovinezza che il petto “gonfia/come la terra a primavera” o il “pettirosso (che) ci guarda dai vetri/e inclina di lato la testina”. Il poeta si trova a Roma, nel quartiere Flaminio, ma il richiamo alla Calabria domina tutta la composizione, giocata su un nostalgico ricordo. Le ultime pagine del volume, dalla 167 alla 226, sono occupate dal saggio Il poeta alla griglia, che spazia su molti temi, e dimostra come il poeta non è affatto sempre con la testa fra le nuvole, anzi: è colui che, più degli altri, sa entrare nei segreti degli uomini e nell’ intimo delle cose. Domenico Defelice CORRADO CALABRÒ - MI MANCA IL MARE - Prefazione di Carlo Di Lieto - Genesi Editrice 2013 - Pagg. 240, € 16,00


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«I fieri assalti di crudel fortuna»

Considerazioni a proposito della poesia e della vita di

ISABELLA DI MORRA di Marina Caracciolo

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IÙ volte la critica ha avuto occasione di parlare di temi e di toni leopardiani ante litteram nelle liriche di Isabella di Morra, poetessa nata e vissuta in Basilicata nella prima metà del Cinquecento. E invero non pochi sono gli aspetti che avvicinano i due poeti a distanza di tre secoli: la nascita in

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ancora all’assenza di un amore che vivifichi l’ esistenza, e infine le ripetute e fiere invettive contro una sorte avara, invida e nemica. Se di Giacomo Leopardi si leggono i celebri versi de Le Ricordanze: Né mi diceva il cor che l’età verde sarei dannato a consumare in questo natio borgo selvaggio, intra una gente zotica, vil; cui nomi strani, e spesso argomento di riso e di trastullo, son dottrina e saper; […]1 non si può non osservare come essi siano in certo qual modo singolarmente prefigurati nella prima delle tre Canzoni di Isabella: […] dirò con questo stil ruvido e frale alcuna parte de l’interno male causato sol da te fra questi dumi, fra questi aspri costumi di gente irrazional, priva d’ ingegno, ove senza sostegno son costretta a menare il viver mio, […]2

un «borgo selvaggio», una difficile anzi assai negativa relazione con i famigliari, la solitudine vissuta dolorosamente non come scelta ma come costrizione, la profonda infelicità dovuta all’incomprensione degli altri ma più

Il pensiero, la lingua, lo stile persino, ci paiono pressoché identici: l’affinità dello stato d’animo ha creato una particolare analogia di contenuto e di forma, superando d’un balzo un ponte temporale di quasi trecento anni. E ancora poco più oltre, nella medesima Canzone, Isabella ci sembra nuovamente anticipare il poeta di Re1

Giacomo Leopardi, CANTI. Le Ricordanze (XXII); vv. 28-33. 2 Isabella di Morra, Rime. Canzone « Poscia che al bel desir troncate hai l’ale» (XI); vv. 4-10.


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canati: Quella ch’è detta la fiorita etade, secca ed oscura, solitaria ed erma tutta ho passata qui cieca ed inferma senza saper mai pregio di beltade.3 (dove vorrei sottolineare, tra l’altro, la presenza di due aggettivi che saranno quanto mai prediletti e frequenti nella scrittura leopardiana: solitaria ed erma). Ma se Leopardi riuscì in ogni caso ad evadere dalla «prigione» della natia Recanati, soggiornando a più riprese a Roma, poi a Bologna, Milano, Firenze e Napoli, dove poté incontrare e confrontarsi con l’élite culturale e letteraria del suo tempo, non simile ventura toccò alla giovane Isabella, confinata fin dall’ infanzia in un truce maniero appollaiato fra le montagne della Basilicata, tra forre, dirupi, oscure foreste e il corso impetuoso del fiume Sinni. Luoghi che la poetessa detesta e designa nei suoi versi come valle inferna, o ruinati sassi o ancora vili ed orride contrate, causa del suo isolamento e pertanto della sua inguaribile infelicità. Vediamo come invece, non senza viva emozione, questi medesimi luoghi descrisse Benedetto Croce, l’illustre studioso che nel 1928 compose un breve quanto affascinante saggio sulla poetessa lucana, dopo aver visitato i luoghi teatro della sua vicenda: Il piccolo abitato è aggrappato e come conficcato nelle falde del ripido colle, che il castello sovrasta; il castello, anch’esso scosceso per tre lati e inaccessibile, che fu già uno dei molti arnesi di guerra e di riparo degli irrequieti, perpetuamente ribelli Sanseverino e del quale rimane in piedi la costruzione centrale e tutt’intorno i ruderi delle altre smantellate. Dal lato verso borea, che è quello dell’ ingresso, si vede dai suoi spaldi svolgersi a valle in lungo nastro il Sinni, che ha qui il suo corso più stretto, e qui si gonfia torbido e impetuoso, e il suo mormorio accompagna l’ unica vista dei monti tra i quali è rinserrato,

tutti nereggianti di elci e di quercie. Quella vista aveva davanti agli occhi immutabile, quel mormorio udiva incessante la giovane Isabella, relegata nel rude castello, in un paese allora quasi impervio, remoto da ogni consorzio culto e civile […].4 In questa terra desolata ed aspra, che certo avrebbe dato ispirazione agli scrittori Romantici o incantato pittori come Kaspar David Friedrich, Isabella di Morra visse tutta la sua vita solitaria e breve (morì probabilmente a meno di trent’anni) ben lontana dalle raffinate corti dell’epoca e del tutto priva delle frequentazioni sociali e culturali di cui poterono invece far tesoro le celebri poetesse (cortigiane e non) sue contemporanee come Veronica Gambara o Gaspara Stampa, Tullia d’ Aragona o Veronica Franco. Né la giovane Isabella, sebbene di nobili origini e figlia di un barone, avrebbe mai potuto vantare l’indiscusso prestigio, non solo letterario, della marchesa di Pescara Vittoria Colonna. Tanto più quindi ci può stupire la flessibile, spontanea musicalità come pure la padronanza espressiva dei suoi versi, conquistate entrambe di sicuro non attraverso una conoscenza e un diretto, fruttuoso confronto con gli illustri letterati dell’epoca – che essa mai poté incontrare dal vivo – ma nel silenzio operoso dello studio (guidata soltanto da un domestico pedagogo di cui ignoriamo del tutto lo spessore culturale), nell’intelligente assimilazione e rielaborazione dei modelli come nell’approfondita lettura dei classici, così che l’immediatezza dell’ispirazione trovasse veste adatta in una nobile forma. Assai significativo è pure il suo divergere con grande originalità – senza mai perdere alcun pregio – tanto dall’aristocratica perfezione del Petrarca (il quale resta, tuttavia, il suo maggiore modello) quanto dalla magistrale eleganza del Bembo: con il risultato non di imbarbarire ma, anzi, al contrario, di arricchire la sostanza del suo linguaggio per mezzo di

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Isabella di Morra, Idem, vv. 23-26.

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Benedetto Croce, Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro. Sellerio, Palermo 1983 (1a edizione: Bari, Laterza 1929); p. 41.


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un lessico che ora ritorna a moduli tipici del Quattrocento, ora, ancor più indietro nel tempo, risale fino a Dante. Visibili sono anche i numerosi latinismi e certe sfumature di immagine e di stile che svelano le sue assidue frequentazioni dei grandi poeti antichi come Virgilio, Catullo e Ovidio. Quello che con umiltà la poetessa definisce nei suoi versi stil ruvido e frale oppure altrove rozo inchiostro, è piuttosto una scrittura che si avvale invero di uno stile amaro aspro e dolente (come in maniera più esatta essa si esprime in altro passo del suo Canzoniere5) in tutto e per tutto adeguato all’atmosfera e allo spirito che intende rispecchiare, in una perfetta rifrazione poetica della malinconia della sua vita isolata e senza gioie, costellata di speranze disattese (il matrimonio e il ricongiungimento con il padre, esule in Francia presso la corte di Francesco I) e di sogni infranti (l’amore e una meritata fama). Tutto ciò è trasfuso, nelle sue Rime, con una limpida sobrietà e una morbida naturalezza senza peso od ombra di artificio. Unica oasi in quella tetraggine che tutta intera e viva ci è restituita dai versi di Isabella, fu la sua corrispondenza con un aitante gentiluomo, castellano di Cosenza, il poeta oriundo spagnolo Diego Sandoval de Castro. Non lontano dal castello di Favale,6 residenza della famiglia dei Morra, si trovava il feudo di Bollita, dove il Sandoval si recava spesso – di nascosto, poiché esule anche lui per motivi politici – in visita alla moglie, la nobildonna Antonia Caracciolo, che quel feudo gli aveva portato in dote col matrimonio. La vicinanza di luogo aveva creato la conoscenza e poi la corrispondenza fra i due; l’una e l’altra, del resto, ben note alla moglie del poeta. Relazione dunque pressoché esclusivamente epistolare e di natura sopra tutto letteraria. Nello scarno Canzoniere di Isabella – ci sono pervenuti soltanto 10 sonetti e 3 Canzoni –

non esiste un solo accenno ad un sentimento d’amore, né diretto ad un uomo realmente identificabile né rivolto ad un’anonima, idealizzata figura virile. (Si potrebbe tuttavia ipotizzare che altri componimenti della poetessa siano stati perduti o distrutti). In ogni caso, proprio quel loro innocente confrontarsi sul terreno della poesia, che riusciva forse a gettare un debole fascio di luce sull’esistenza tanto buia di Isabella, fu la causa occasionale della tragedia. Negli ultimi mesi del 1545 o nei primi del 1546 tre dei fratelli maggiori, Cesare, Fabio e Decio,7 sdegnati (in apparenza) da una frequentazione che vollero intendere – senza prova alcuna – come una tresca infamante da vendicare col sangue, trucidarono barbaramente l’infelice sorella e anche il malcapitato pedagogo, scomodo testimone della verità e reo unicamente di essere il latore delle missive che i due si scambiavano. Qualche tempo dopo anche Diego Sandoval de Castro fu atteso dai tre fratelli, insieme a due loro zii, in una zona boscosa e solitaria, e colà ucciso a tradimento con diversi colpi di archibugio. In realtà sotto questo pretestuoso e insensato «delitto d’onore» si celava un assai bieco motivo d’interesse (spartirsi la dote e l’eredità di una sorella considerata al pari di un’ estranea) e una feroce quanto inveterata avversione politica (Sandoval era visto come un nemico, poiché seguace dell’imperatore Carlo V, mentre il padre e i fratelli di Isabella avevano continuato a parteggiare per lo sconfitto re di Francia Francesco I). Negli ultimi Sonetti Isabella lascia trasparire evidenti presagi di morte, e in uno di essi (X) allude in modo esplicito a una predatrice e vïolenta mano, il che permetterebbe di supporre che prima dell’assassinio avesse avuto intimidazioni e sospetto della congiura. Per sfuggire all’inevitabile persecuzione e condanna da parte dei giudici, i fratricidi ripararono segretamente in Francia, presso il pa-

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Isabella di Morra, Rime. Sonetto «Scrissi con stile amaro, aspro e dolente» (X); v. 1. 6 Dal 1873 Favale prese il nome, che ha ancor oggi, di Valsinni.

Nella Canzone sopra citata (XI) la poetessa descrive i fratelli come persone rozze, insensibili al bisogno della fragile e anziana madre, e viventi in estrema ed orrida fiacchezza.


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dre Giovan Michele, il quale, forte del favore del re e non meno delle altolocate amicizie che senza dubbio aveva acquisito alla corte, si guardò bene dal consegnare i figli alla giustizia perché affrontassero un regolare processo; anzi seppe adoperarsi in ogni modo per proteggerli e favorirli. Ad Isabella, invece, mai erano giunti da lontano quella protezione e quel favore che con tanta tenera perseveranza la giovane poetessa aveva dal padre sempre sperato e continuato ad invocare: D’un alto monte onde si scorge il mare miro sovente io, tua figlia Isabella, s’alcun legno spalmato in quello appare che di te, padre, a me doni novella. Ma la mia adversa e dispietata stella non vuol ch’alcun conforto possa entrare nel tristo cor, ma di pietà rubella, la calda speme in pianto fa mutare. Ch’io non veggo nel mar remo né vela (così deserto è lo infelice lito) che l’onde fenda o che la gonfi il vento. Contra Fortuna alor spargo querela ed ho in odio il denigrato sito, come sola cagion del mio tormento.8 Marina Caracciolo BIBLIOGRAFIA . Benedetto Croce, Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro. Sellerio, Palermo 1983 (1a ediz.: Laterza, Bari 1929). . Isabella di Morra, Rime. A cura di Maria Antonietta Grignani. Salerno Editrice, Roma 2000. . Maria Antonietta Grignani, Per Isabella di Morra, in «Rivista di Letteratura Italiana», II 1984, pp. 519-584. . Pasquale Montesano, Isabella di Morra. Storia di un paese e di una poetessa. Quaderni della Biblioteca Provinciale di Matera. Altrimedia edizioni, Matera 1999. . Giacomo Leopardi, CANTI. Paralipomeni, Poesie Varie, Traduzioni Poetiche e Versi Puerili. A cura di Carlo Muscetta e Giuseppe Savoca. Einaudi, Torino 1968. Le Ricordanze (XXII); pp. 98-104.

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LA SOFFERENZA DELL’ANIMA Le prime brezze di Novembre son tornate un’altra volta ed il vuoto nell’anima mi consuma a poco a poco. All’orizzonte il sole sorge ancora; si staglia sopra i dolori, le fredde dimore ed un sorriso sconosciuto, magnetico e raggiante vivo solamente su una foto in bianco e nero. Il sole sorge ancora sopra il ricordo dello splendido dio greco, inerte, disteso nel rosa che lo avvolge. Immensa fragilità eclissata sotto la pelle olivastra. Il sole sorge ancora… e noi siamo sempre qui a combattere, qual militi guerrieri, questa guerra dell’indifferenza e della solitudine. Anime lese e sorrisi ormai spenti ci sospingono a cavalcare le rotte imprevedibili della vita alla ricerca del sole di un nuovo ed ignoto giorno. Il vento frizzante mi liscia il volto, l’aroma dei cornetti caldi m’inebria, il mio passo è veloce e corre al ritmo del battito del cuore, che rimbomba tutto intorno. Emilia Bisesti, Pomezia, RM

CONFIDENZE Io conoscevo l'arrivo della luna che inargenta le foglie accartocciate nell'invernale gelida foresta. Tu mi parlavi allora dei tuoi sogni... Io ti ascoltavo accanto al fuoco spento: li vedevo farsi coda di comete, incendiare tutto il cielo all'improvviso. Marina Caracciolo Torino

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Isabella di Morra, Rime, III.


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DOMENICO DEFELICE FRANCESCO PEDRINA di Giuseppe Anziano ’ATTIVITÀ letteraria di D. Defelice non conosce soste, ma continua, instancabile, per la sua strada, che, pur se irta di difficoltà per i tempi bui che attraversa la società poco proclive agli interessi spirituali, tuttavia è sempre fonte di gratificazione per gli spiriti sensibili al messaggio poetico. Il Croco - N. 68/2007- , quaderno letterario di Pomezia Notizie, è dedicato al Prof. Francesco Pedrina, studioso di chiara fama, autore

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di scritti fondamentali sulla Letteratura italiana e su quelle classiche antiche, su cui si sono formate intere generazioni di studenti, tra i quali anche chi scrive, rilevanti non solo per l'informazione sotto il profilo critico, ma anche e soprattutto per la scorrevolezza del linguaggio. Il saggio, che si avvale della presentazione appassionata e vibrante della figlia del maestro, Ilia Pedrina, si articola in due parti e si conclude con un'Appendice, che contiene la corrispondenza tra D. Defelice e gli scrittori Francesco Pedrina, Ettore Serra e Carlo Delcroix, nonché un racconto inedito di F. Pedrina, relativo alle sue esperienze durante la prima guerra mondiale "Nelle solitudini d'Albania". Nella prima parte, che comprende sette note ed un canto d' amore, D. Defelice, dopo aver ricordato il suo primo approccio con l'opera di F. Pedrina, edita dalla Trevisini di Milano - Storia ed Antologia della letteratura italiana per gli Istituti Tecnici Superiori -, quando era studente all'Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri "Raffaele Piria" di Reggio Calabria, parla della frequentazione che ha avuto col maestro dal 1964 fino all'anno della sua morte, nel 1971, all'età di 74 anni. Richiama, pertanto, alla mente il momento felice in cui, tramite F. Fiumara, ricevette, nell'estate del 1964, una cartolina postale di F. Pedrina che esprimeva un giudizio lusinghiero sulla sua raccolta di versi "12 mesi con la ragazza" ed in particolare sulla lirica "La luce e il serpe", l'incontro, nel luglio del 1969, a Roma, dove il professore si era recato con la figlia Ilia a trovare Ettore Serra, "il letterato più interessante de' nostri tempi", al


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quale "Ungaretti deve tutto, la fama, i versi raddrizzati, l'intero Porto sepolto" - c'è un accenno fugace alla "vexata quaestio" sulla paternità dell'opera, se del fantaccino Ungaretti o del tenentino Serra -, le visite frequenti, talora anche con la presenza di Pedrina, a Carlo Delcroix, cieco e mutilato di guerra, esempio fulgido dell'oratoria italiana, autore del volume di poesie "Val Cordevole" - Editore Cappelli Bologna - Introduzione e commento di Francesco Pedrina -, "il più alto documento umano e poetico della prima guerra mondiale", opera di estrema suggestione e bellezza, i cui sonetti sono distinti in tre gruppi: "Fra le montagne", molto apprezzato dal critico per la grandiosità delle immagini (Le Dolomiti coi loro abissi, i loro pinnacoli) - "Sotto le tende", dove sono descritte " le piccole e grandi cose della grande guerra" - " Sotto le bende", il più commovente, dove è narrato non solo l'incontro struggente coi genitori, ma anche il calvario dell'eroe conclusosi con l'accettazione cristiana della sua sventura. Particolare attenzione Defelice dedica all'opera del Maestro, con particolare riguardo alla Storia della Letteratura Italiana, alla Musa greca, al Gonfalon Selvaggio, evidenziando nella sua analisi non solo profonda partecipazione, ma anche e soprattutto la capacità di penetrare nello spirito vivo delle cose e metterne in rilievo gli aspetti essenziali. La Storia della Letteratura Italiana, opera condotta con estrema serietà ed apprezzata da critici di chiara fama, è il lavoro cui è legato maggiormente il nome di F. Pedrina, per l'influenza che essa ha avuto sull'educazione dei giovani.. In questa il critico veneto - è nato, infatti, in provincia di Vicenza - tratta argomenti, autori e correnti letterarie, approfondendo parti spesso sottovalutate - il periodo medievale, dove si pongono le basi della nostra civiltà - o poco considerate - la letteratura moderna, che viene illustrata e rivalutata nei suoi autori, non sempre ben valutati o addirittura dimenticati, e nelle varie correnti, di cui sono evidenziati meriti e limiti. In questa sua opera ponderosa Pedrina con

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molta abilità ed efficacia da un lato prende in esame autori che hanno illustrato la nostra storia letteraria, dando di essi, talvolta in poche pagine, espressione, però, di una critica serrata e convincente, un'identità perfetta, dall'altro contesta valutazioni affrettate ed inaccettabili, quale ad es. il giudizio sul Seicento, che, pur se considerato un periodo di crisi spirituale e poetica per il generale impoverimento degli alti valori ideali e dell'entusiasmo morale, che aveva sollecitato gli uomini del Cinquecento all'azione e alla poesia, tuttavia vanta innegabili benemerenze nei riguardi della cultura italiana - basti pensare al nuovo impulso dato alla ricerca scientifica con Galilei e all'investigazione filosofica con Bruno e Campanella, tanto che il Seicento fu definito dal De Sanctis "il secolo della nuova scienza". Nel volume "Musa greca" - Trevisini Editore - elogiato da Manara Valgimigli con le parole "un libro del genere, per la letteratura greca, non era ancora apparso nei nostri licei", "un'antologia di poeti e prosatori greci con profili degli autori e pagine critiche organicamente scelte per un disegno storicoestetico ad uso dei licei classici", suddiviso ed analizzato in quattro periodi, ionico, attico, alessandrino e romano, Pedrina, col supporto anche di traduttori di grande prestigio, a prescindere dagli autori più significativi, dà risalto non solo all'opera di Nosside di Locri, Leonida di Taranto, dell'imperatore Marco Aurelio, ma anche pone nel giusto rilievo Epicuro, ingiustamente calunniato per le sue dottrine non sempre comprese ed interpretate correttamente. Il "Gonfalon Selvaggio", antologia per la Scuola Media, edita sempre dalla Trevisini, è un libro completo nelle varie parti, in quanto contiene non solo l'Epica da Omero a Cervantes, ma anche poesie, fiabe, racconti adatti agli alunni con commento adeguato alle loro capacità. Di queste poesie viene riportata la "Cantilena del perché", tratta da "Fiori di siepe" di F. Fiumara, che "riassume tutti i perché che l'umanità si rivolge da millenni, a cui nessuno


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ha trovato mai risposta, neppure il leopardiano "Pastore errante dell'Asia nel suo Canto Notturno ". L'Antologia, inoltre, è interessante anche sotto altri aspetti, in quanto contiene rubrichette di vario genere, utilissime agli alunni per ampliare i loro orizzonti culturali e risolvere i loro dubbi. Con "Un canto d'amore a Francesco Pedrina", che fa parte dei suoi "Canti d'amore dell' uomo feroce", delicato e toccante, D. Defelice conclude la prima parte. La seconda parte comprende la fitta corrispondenza epistolare intercorsa tra Defelice e Pedrina dal 1968 al 1970 - sono riportate esclusivamente le lettere di Pedrina in risposta a quelle di Defelice -, che costituisce uno specchio lucidissimo, un aiuto prezioso ed illuminante per conoscere le aspirazioni, gli studi, le convinzioni dello scrittore veneto. Dall'analisi delle lettere emerge una personalità di tutto rispetto, esente da compromessi, libera nelle sue convinzioni, immediata e spontanea, anche a costo di andare "contro-

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corrente". Nelle lettere parla della stesura delle sue opere, soprattutto della Storia della Letteratura Italiana, del Gonfalon Selvaggio, della Musa greca, giunta alla IV^ Edizione in cinque anni, del commento ai Promessi Sposi, della raccolta di C. Delcroix "Val Cordevole", senza mancare, però, di preoccuparsi per la salute di Defelice, affetto da calcolosi renale, o di sottolineare la sua indignazione nei confronti di autori supervalutati (Ungaretti e Montale) o di movimenti culturali quale l' Ermetismo, di cui "becchino" fu uno dei suoi ideatori Carlo Bo. In esse, inoltre, c'è un accenno ai suoi genitori, la madre solerte e religiosissima, il padre equilibrato ed austero, ai viaggi a Roma per fare visita a Delcroix e a Serra, a Firenze, a Parigi, a Grosseto, ospite di Graziella Battigalli, detta la "Nerina la Maremma", alla sua tendenza alla pinguedine, ai suoi frequenti ricoveri in ospedale a Vicenza, ai suoi ritiri nella villa/rustico del figlio sulle colline di Vicenza. Infine, l'ultima "chicca", una lettera del novembre 1970, intrisa di fine ironia, che rivela il carattere scherzoso di F. Pedrina, il quale, nel rivolgere gli auguri a Defelice per il suo matrimonio, parla di sé, definendosi un "tribolato" del matrimonio. Giuseppe Anziano Nella foto di pag.8: Il giovanissimo Francesco Pedrina, nel 1923. Qui a fianco: Domenico Defelice, Ilia Pedrina e Francesco Pedrina nel 1969, a Roma, sotto gli archi del Colosseo.

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 15/4/2014 Condannato ai servizi sociali, Berlusca è libero d’andare da Milano a Roma e ritornare. Non parli, però male dei giudici e non faccia tardi, dovendo, almen qualch’ora, riposare! Alleluia! Alleluia! Per gli altri condannati, par condicio è di marcire in cella e rosicare! Domenico Defelice


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QUANDO

LIONELLO FIUMI, IN LAPPONIA, OSSERVAVA “LA BOTTIGLIA SOTTO IL SOLE DI MEZZANOTTE” di Ilia Pedrina

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ER i tipi della Casa Editrice Ceschina di Milano esce nel Gennaio del 1965 il volumetto “La bottiglia sotto il sole di mezzanotte (Viaggio in Lapponia)” di Lionello Fiumi. Il prezzo è di Lire Mille ed è coinvolta anche la Linotipia Veronese Ghidini Fiorini, che ha una sua lunga storia per la realizzazione a stampa di molti bei lavori. All'interno, sulla prima pagina bianca, una dedica: “A Francesco Pedrina questa poesia del Nord con vecchia stima e amicizia”. I caratteri della scrittura sono grandi, incerti, talora interrotti, ma la firma, sotto, mi commuove. Poi, alla pagina 45, all'interno, una busta leggerissima, azzurrina, da Roverchiara, in provincia di Verona, con timbro postale '19.7.50', indirizzata all' Illustre prof. Francesco Pedrina, Povolaro, Dueville (Vicenza)'; sul retro, senza mittente, un altro timbro 'Povolaro - Vicenza 20.7.50'. Ancora, tra altre pagine, una lettera, bella, senza busta,

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di Giulio Caprin ed una sua cartolina dalla Villa S. Maria a Soffiano, in provincia di Firenze. Amici cari, confrères, come dice Maurice Carême, uniti nella corrente letteraria del Realismo Lirico con il Capasso, la Elena Bono, la Gemma Licini, e poi il Gerini, il Serra, il Marchi, il Meoni, il Fiumara, Salvatore Rizzo e lei, si, la dolcissima Solange de Bressieux con l'amico il prof. Guy Tosi, che s'interessa al D' Annunzio e poi Maria Grazia Lenisa, indimenticabile e tanti, tanti altri ancora, che così spesso compaiono, ora, su questa Rivista 'POMEZIA NOTIZIE', perché il nostro Direttore è dei loro, non c'è più alcun dubbio. In questo volumetto del Fiumi un Prologo e tre sezioni come tappe del percorso: IMPRESSIONI DI STOCCOLMA; INCONTRO COL NORD; IMMAGINI DI LAPPONIA. Appunti di viaggio, metafore e similitudini che talora ti colgon di sorpresa, descrizioni dettagliate di chi la sa molto lunga intorno alle donnesche imprese ma anche intorno alla lingua italiana, complice una ricerca giovanile sulle terminologie più svariate e saporite. Le avventure si snodano ad un ritmo in ascesa ed il protagonista non si lascia perdere occasione per spiegare ed interpretare, con saggio spirito pionieristico e ben destro al contempo, proprio l'animo femminile di queste Walkirie dell'Estremo Nord. Nel 'Prologo', dopo un cenno storico sul problema dell'alcool e della sua diffusione, controllata, tra la popolazione svedese, Lionello ci spiega che si trova al di sopra del Circolo Polare, ad Abisko, nella Lapponia svedese e ci addentra in una singolare avventura. Cito: “...Posizione privilegiata donde si può assaporare, finalmente, integrale e sbalorditiva, l' anomalia del sole di mezzanotte. Abisko è divenuta meta o sosta dei turisti golosi di sensazioni boreali in tutta comodità. Un albergo era sorto (forse oggi ce ne sono di più) ad offrire, nei mesi che il cielo è instancabilmente chiaro, da giugno a settembre, un'oasi di agi e di leccornie svedesi sotto le latitudini di Lapponia...” (L. Fiumi, La bottiglia sotto il sole


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di mezzanotte, op. cit. pag 10). Passano sotto i nostri occhi e saliviamo un poco, come il Cane di Pavlov, renna affumicata, uova sode, 'aringhe inanellate di cipolla', patate lesse e poi fette di manzo, salmone in maionese, lische di prosciutto formaggio col comino, e c'è che chi “si colma una scodella di caffelatte e torna al suo posto a metter d' accordo questo cibreo d'antitesi gastronomiche... mentre andavano e venivano le fanticelle leggiere come libellule, a rifornir d'ogni bendidio la nitidissima greppia...” (op. cit. pag. 11). Ed arriva finalmente il sole di mezzanotte, spettacolo incredibile e riservatissimo, pubblico e privato ad un tempo: “... Attraverso le vetrate, pozze d'arancione bucavano i muri, si stampavan sui fogli, imbellettavan le facce, costringendo i sibaritici ospiti ad alzar gli occhi gelidi e a sbottonar le bocche magre in un 'Aoh! Beautiful'...” (ibid.). Si snodano ora, in un susseguirsi ansioso di parole e di fatti, le tappe di un approccio erotico con contorni da crisantemo giapponese, una festa al buio, un 'mènage a trois' da celare alle educande: il nostro eroe, nelle circostanze appena descritte, passa parola con due signorine svedesi che conoscono un poco il francese e lui le definisce 'mature', ma questo non lo trattiene, lui che tiene moltissimo al suo aspetto longilineo ed elegante, orgoglioso della sua folta capigliatura nera che gli amici veronesi hanno immortalato in ritratti, lui, dico, dal lasciarsi aprire al nuovo. Cito: “...All'ora in cui s'avvicinava lo straordinario spettacolo del sole di mezzanotte, m'invitarono ad uscire con loro, ed io, convinto che volessero farmi godere quell'anomalia innaturalmente bella, angolomorto fuori delle leggi di natura, dove gli estremi si toccano, dove l' agonia del giorno ha già nome nascita del giorno, le seguii docilmente verso il costone che domina un lago, il Torne. S'udiva di lontano il mugghio dei torrenti, in quel paese dove viene alla luce l'osso di una terra fatta di roccia e di spugna, dove l'acqua ha ripreso il suo peso e la sua barbarie d'elemento primordiale. La roccia, fiumi e torrenti la spaccano ogni momento, che scaraventano giù una rab-

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bia di schiume bianche su acquacce nere come decotti di ferro: in fuga dirotta verso il Golfo di Botnia, si succedono uno dopo l'altro, sempre con quel muggito atono, sempre paralleli fra loro e fitti come il tratteggio di un disegno. Ma mi accorsi ben presto che le due gentili discendenti dei Vichinghi avevano in mente tutt'altro che il sole di mezzanotte e che ruminavano qualcosa. Cominciai ad impensierirmi. Si dirigevano verso un boschetto di quelle betulle nane, unica pianta che spunti da quell'humus estenuato. Che volessero giocarmi qualche tiro? Il loro atteggiamento era ambiguo, misterioso. Si guardavano attorno, sospettose. Che volessero trascinare l'allora giovane italiano verso qualche da lui indesiderato imbarco per Citera? Rabbrividii e non di freddo. Eppure sembravan, le due, così austere. Finalmente, raggiunto il boschetto, si fermarono, ma non per contemplare il sole che, come un equilibrista, slittava lentissimo sul filo della montagna alla riva opposta del lago, e stava già rialzandosi leggermente. Mi fecero invece sedere a terra, sul tappeto di lichene, e si guardarono ancora attorno. Mi preparai a … vender cara la pelle. Le vidi frugare nella capace borsa di pelle di renna e.... stupore! Ne avevan tratto, semplicemente, una bottiglia, che mi mostrarono con rispetto: 'Cognac', mi sussurrarono con un fil di voce, come se qualcuno potesse udirle; 'Cognac proprio di Francia!'. E, pescati nel borsone tre bicchierotti, me ne tesero uno, colmo a raso di quell'elisir proibito, tracannando poi i loro d'un sol fiato. Brillava in quegli occhi innocenti la gioia del gesto certo per tanto tempo refoulé e compiuto in quello scenario unico...” (op. cit. pp. 11-13). Da qui parte, sul filo del ricordo, come bene dice il Fiumi, la descrizione degli eventi più significativi di questo viaggio a latitudini boreali. Tanti gli interrogativi ai quali egli affida la sua risposta di testimone: Stoccolma è proprio una 'Venezia del Nord'? Addentriamoci un poco nel geografico parallelo: “...Nel basamento di Venezia si sente la volontà e l'asperrima fatica dell'uomo. Per tenere in piedi il controsenso che la sua fantasia


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covava, l'uomo della laguna era tutto in sudore a piantar piuoli nell'acqua, a posarvi sopra le pietre conquistate palmo a palmo. Scacciare l'acqua non era possibile, ed ancor oggi, appiattata sotto la pietra posticcia, essa lingueggia come un viluppo di bisce impotenti. La pochezza dello spessore che sostiene il miracolo di Venezia si rivela nella rarità del verde che rallegra quell'artificio di marmo. La penuria dell'humus tradisce la cosa importata. Stoccolma, invece! Il verde la stringe come in una morsa, schizza per ogni dove. Dalla città si passa alla selva senza soluzioni di continuità, senza sfumature, senza incertezze. Un taglio netto. Come può essere il taglio fra olio e aceto, mescolati e lasciati in riposo. E la selva è un blocco massiccio, primigenio, che ha la cupezza e la compattezza blu del basalto. L'abete, col suo mantello da cospiratore, fatto d'aghi bui, proietta quell'ombra fosca, che sembra di non poter tagliare neanche con il coltello, propizia alle saghe e alle paure. Ad un certo punto, l'uomo dovette provare il bisogno disperato di sfuggire all'incubo, in una radura di chiaro. Recise un ciuffo di quella capigliatura allucinante, per avere una chierica di luce. L'acqua, vicina, con i mobili giochi dei riflessi, moltiplicava la luce. Era il luogo sognato. L'uomo vi costruì Stoccolma. Il basamento, non aveva certo bisogno di derivarlo a fatica, come doveva fare il lontano costruttore adriaco. Dove l'acqua finiva, la roccia cominciava. Qui c'era, viceversa, da domare una roccia troppo ostinata e stizzosa...Quei macigni sono per me, la differenza anatomica fra Stoccolma e Venezia. Rude oasi umana in mezzo alla selva e alla roccia, chi può paragonare l'una al galleggiante salotto settecentesco ch'è l'altra?...” (op. cit. pp. 1719). La città è centro di commerci e di legami d'ogni genere: anche nei vicoli, come del resto nelle vie più ampie ed in respiro, non si ammettono botteghe d'amore, almeno così era al tempo in cui il Fiumi stendeva queste sue note di Taccuino di viaggio. Non è cosa banale se arrischio un progetto di verifica, a breve o a lungo termine non ha importanza, per ri-

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percorrere, sulle tracce del Fiumi, il suo stesso cammino. Non soltanto per quanto concerne il costume, la consolidata soglia del protestantesimo che regola per legge, oltre che le quantità d'alcool pro capite, anche i legami a due, ma anche per 'l'esibizione del nudo', come la chiama lui, sicuro com'è, nel confronto, di far tremare le vene ed i polsi alle signorine perbene di allora. Ed ancora i colori dei palazzi come delle case e poi ancora su su verso 'L'acqua e la solitudine', un paragrafo che sarebbe tutto da citare, ma del quale trascrivo soltanto queste poche righe: “... E l'occhio guarda distratto quelle superfici lisce e fredde, dov'anche i canneti non han forza per crescere e restano esili e radi come una peluria su una testa di neonato. Ci fai l'abitudine. Sulle sponde, non abitazione, non essere umano. Non voce, non canto. Mai. E' la Solitudine artica che, simile all'albero della morte, spande intorno a sé, anche nell'estate, sua ora benigna, deserto e sterilità. A tu per tu con la natura più diseredata, la Solitudine distrae la sua tristezza nella tromba fragorosa dei torrenti e delle cascate...” (op. cit. pp. 3839). In viaggio ancora, in treno, per poi voltare pagine ed aprirci a secco su Kiruna e la montagna dalla quale si frantumano tonnellate di purissimo ferro ogni giorno, mentre un treno ne trasporta a vagoni verso il mare, prezioso carico grigio in polvere che ha più valore dell'oro, nelle sue sproporzionate quantità. Pini, abeti, betulle e lichene, questi, e non solo, i vari toni del verde, e acque, in rivoli e fiumi e superfici lacustri e cascate e fiordi, senza contare le zanzare, che a milioni, in larve o già ben maturate ed efficaci, imperversano insidiose su persone ed animali. Andare verso questa Lapponia svedese, per incontrare il Fiumi poeta d'avventura, anche quando fa prosa e prosa di viaggio; per cogliere i dati di un tempo che trascorre e dà segnali da interpretare; per individuare poi, da queste riflessioni ed esperienze, le tappe di un futuro che deve parlare un'Europa dei popoli, anche piccoli, e delle tradizioni, comprese quelle legate alle renne ed ai loro spostamenti, quelle che hanno fatto la storia e la ric-


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chezza di queste terre dure, dove i bambini, sì, anche i bambini dagli occhi a mandorla e dai vestitini colorati in lana spessa, riescono a giocare insieme.... Ilia Pedrina

SIGNIFICATO Dicevi: ‘ Tu sei poeta perché sei sensibile’. Ma ora guarda, guarda più a fondo. Oltre le gutturali, velari, labiali, c’è un senso profondo, oltre il volto delle vocali. Ci sono messaggi inaspettati, dietro i significanti: i significati. E la verità non sta mai davanti. La verità sta dietro. E’ senza colore, è senza (figura), è come una lastra di vetro: fa male toccarla senza guanti e uccide: perciò fa paura. Gianmarco Perna

LA VITA, UN VALZER Fu fiaba “il ballo delle debuttanti” al sontuoso Hotel Principe Savoia, e diciott’anni e un candido vestito di raso alla caviglia, opacizzato da un fin decoro di meduse bianche e una rosa pur bianca sui capelli. Cadetti d’Accademia Militare nelle uniformi blu a bottoni d’oro, e i rigidi kepì con le visiere, furon degni perfetti cavalieri. Sonava i valzer la musica di Strauss al ritmo di “un due tre”. E si danzava, gioiosi in aura magica fastosa e brividi sprizzava giovinezza d’amori primi, favole di vita. Mi fu “imago” di fiaba inver la vita,

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ancora ignara degli amari assenzi. Danzai e danzai per una notte intera; tornai a casa con la luna bianca. Ed in gioioso sfinimento chiesi: “O luna bianca, dimmi: può la vita essere sempre un valzer festaiolo, o è infinita sequenza e croce mesta di varchi ognor dolenti? O luna bianca, si può danzare in turbinar di passi, in gioie d’amor pregna e in esultanza?” Tacque la luna ambigua che sapeva. Serena Siniscalco Milano, maggio 2013 (Memoria dei miei diciotto anni)

IL SOGNO Lo stupore di scorgerti attraverso o platani del viale mi costrinse ad accelerare il passo, ti ho chiamato, con voce smarrita poi il vento ha urlato ancora; ma tu sembravi ignorare la mia presenza, cantò l'usignolo dai vocalizzi metallici sotto gli obliqui raggi della sera si è spento il mio sogno. Com'è ammalato oggi questo povero cuore, illividito di pianto Adriana Mondo Reano, TO

LA VITA La vita è un pensiero che si veste di frange dorate e quando il pensiero è finito sono finite anche la gioia e la speranza. Loretta Bonucci


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LA POESIA DI

ELENA BONO di Liliana Porro Andriuoli L 26 febbraio 2014 si è spenta, all’età di 92 anni, la scrittrice Elena Bono. Era nata a Sonnino, nel Lazio, nel 1921, ma sin da giovanissima si era trasferita in Liguria, dove aveva svolto un’intensa attività letteraria sia nel campo della poesia che in quelli della narrativa, del teatro e della critica, ricevendo numerosi riconoscimenti. Qui, per ricordarla, ci occupiamo della sua poesia. A tal fine iniziamo con l’osservare che molti sono i filoni nei quali può essere suddivisa la poesia di Elena Bono: da quello classico (che comprende testi nei quali s’ avverte la lezione di eleganza e di levità propria della lirica greca, come avviene in Autunno autunno, che ricorda Saffo o Con una palla rossa, che rimanda ad Anacreonte) a quello d’ispirazione intimistica (comprendente specialmente molte poesie de I galli notturni, come Tramonto d’inverno in una chiesa a Ravenna, Mezzogiorno in un salotto veneziano o Sera); da quello ispirato alla Resistenza antifascista (dove spiccano testi molto forti e compiuti, quali Stanze per Rinaldo Simonetti «Cucciolo», Il cavallino nero, Una piccola armonica a bocca e Severino) a quello che trova la sua fonte ispiratrice nel mondo dell’estremo Oriente (comprendente

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poesie nelle quali vi è una sorprendente immedesimazione in tale mondo, così lontano dal nostro, come si può rilevare in tutte le poesie di Invito a Palazzo). A prescindere però dall’appartenenza all’ uno o all’altro filone, in tutta l’opera poetica di Elena Bono s’avverte un forte sentimento religioso, che intimamente la permea e che continuamente riaffiora, essendo questa poesia improntata da un’intensa spiritualità. E’ quanto si scopre non soltanto dalle poesie d’ ispirazione più propriamente cristiana o biblica (la Bono si professa poetessa cattolica, anche se non confessionale), ma un po’ dovunque nella sua produzione. La sua fede in Dio traspare infatti non solo da molte poesie a Lui direttamente rivolte, bensì anche da varie altre che, pur di diverso argomento, nel Trascendente hanno un costante punto di riferimento. Si vedano in particolare: Voltati e guarda le montagne, in cui la poetessa, guardando le montagne, fiammeggianti al sole, giunge ad innalzare il suo sguardo fino al Motore Primo dell’Universo; I fiori donati da un amico, una fresca poesia d’amore, nella quale evidente si affaccia nei versi dell’explicit il riconoscimento della costante presenza della Volontà di Dio in tutte le manifestazioni della sua vita; e Invito a Palazzo, dove si allude a un “invito” che si carica di una valenza squisitamente spirituale, assumendo il valore di una “Chiamata” verso un metaforico “Palazzo che splende / alto sopra le mura / di purissima giada”. Ma passiamo alla poesia più schiettamente religiosa di Elena Bono, che è quella che ci preme qui esaminare. E’ immediatamente da notarsi come nelle sue sillogi siano reperibili intere sezioni che appaiono rette da un’ ispirazione prettamente religiosa. Limiteremo la nostra analisi esclusivamente alle prime due, I Galli notturni e Alzati Orfeo, escludendo le ultime due, dato che, per il loro carattere prevalentemente monotematico (civile per quanto concerne Piccola Italia; ispirato al mondo dell’estremo oriente, invece, quello di Invito a Palazzo) sembrano alquanto esulare dal tema trattato.


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Cominciamo dunque dalla prima raccolta, I Galli notturni. Due sono le sezioni che rientrano nel nostro assunto: Tempo di Dio e Incendio di Varsavia. Nelle poesie di Tempo di Dio, urgente e veemente ci appare l’esigenza della poetessa di poter giungere ad un diretto rapporto con Dio. Emblematiche in tal senso sono, ad esempio, poesie come Cristo, svegliati, non dormire (“Cristo, svegliati, non dormire / Lo so, tu fingi di lasciarmi sola. / Non fingere neppure, mio Signore. / Ho bisogno di te, / di sentire il mio cuore nel tuo, / i tuoi nei miei pensieri”) e Quando tu mi hai ferita? (“Tu mi fai sospirare / quel momento / in cui ci incontreremo / e niente più sarà tra noi. / … / Debbo attendere / come fossi immortale / e il mio tempo è contato”), le quali non solo palesano con evidenza la sincerità e l’intensità della sua Fede, ma raggiungono uno slancio e un ardore quasi mistico. Anche nell’altra sezione, Incendio di Varsavia, particolarmente intenso è il modo in cui la Bono si rivolge a Dio, invocandoLo direttamente (“Io sono sola nel deserto / del mio amore. / E tu lontano / nascosto nei tuoi cieli. / Ma ti sento venire / come il vento / quando più taci”, Io brucio e non ho tregua nel mio ardore, “Tu che creasti i cieli e il cuore umano”, Per la comunione di un bambino) oppure, come avviene in Antica epigrafe cristiana per un fanciullo martire, lodandoLo nei suoi Santi. Con maggiore frequenza di quanto avvenga ne I galli notturni, l’ispirazione religiosa della Bono si evidenzia nella sua seconda silloge, Alzati Orfeo, dove ben quattro sono le sezioni dedicate a poesie di argomento prettamente religioso: Tre profeti, Imitazione di Cristo, I canti di Santa Cecilia e Pianto del Cristo di Maidanek. Vediamo con qualche dettaglio alcune poesie di queste quattro sezioni. Quelle della prima, Tre profeti, di chiara ispirazione biblica, s’intitolano rispettivamente: Ultimo Salmo di David, Preghiera di Giona nella balena e Canto di Daniele. In Ultimo Salmo di David lo spunto è preso da uno dei più bei Salmi del Salterio, attribuito allo stesso Davide, detto anche “Miserere”,

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dall’incipit che, nella sua traduzione latina, suona: “Miserere mei domine, secundum misericordiam tuam”. Davide, come sappiamo dalla Bibbia (2° libro di Samuele), dopo gli aspri rimproveri del profeta Natan per la sua deplorevole condotta nei confronti di Uria (il marito di Betsabea), riconosce il proprio torto e confessa a Dio la sua colpa. (Ricordiamo che Uria, durante l'assedio di Rabat in Siria, combattendo in prima fila, per espresso ordine di Davide, cadde vittima degli assediati, nel corso di una ricognizione sotto le mura della città). E’ in questo momento, di sincero e dilaniante pentimento, che la Bono ci rappresenta Davide, il quale prorompe in queste parole: “Non chiamatemi David / chiamatemi colpa e dolore. / Toglietemi questa corona pesante / … / Che io scenda nel Silenzio / che sta davanti a me”; parole che ben esprimono il suo profondo e angoscioso rimorso. Come può osservarsi molto intenso è il tono altamente drammatico che la nostra poetessa raggiunge in questa poesia. Fidente ci appare, per converso, la preghiera con la quale Giona, chiuso nel ventre della balena, si rivolge al Signore, convinto che da Lui soltanto possa provenire la sua salvezza: “Tu con le buone mani / dalle squame / morte e dalle alghe / riprenderai quello che è tuo, / il cuore che grida a te / il cuore vivo di Giona”. Giona, uno dei dodici profeti minori (l’ episodio ci viene narrato nell’omonimo libro della Bibbia), si era imbarcato alla volta di Tarsis (in Spagna), disubbidendo all’ordine divino di recarsi a Ninive, per convertirla; ma durante il tragitto la nave fu colta da una tempesta ed i marinai, saputo che tutto era accaduto a causa della sua disubbidienza verso il Signore, furono indotti, per tutelare la propria incolumità, a gettarlo in mare. Dio tuttavia interviene in suo favore, facendolo inghiottire da un gran pesce, nel cui ventre starà rinchiuso per tre giorni e tre notti: e qui, nel ventre del grosso cetaceo, Giona innalza la sua preghiera al Signore, affinché lo salvi. E’ da questa preghiera che Elena Bono ha tratto ispirazione per la sua poesia: “A te


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dal fondo di molte acque / io grido. / Tu, padre mio / tu, pescatore celeste. / … / Tu stai sull'alta riva / e tranquillo tiri le reti”. Tesa ed intensa da questi versi si leva la voce di Giona, mentre la parola assume uno slancio lirico volto ad esprimere la piena del sentimento e l’abbandono a Dio. Fidente è anche l’abbandono a Dio del giovane Daniele, il quale, persino allorché è ingiustamente rinchiuso nella fossa dei leoni, riesce a percepire, “accanto” a sé, la presenza di Dio: “Essi non sanno / che tu accanto mi stai / spalla con spalla / e ti sento tremare al mio tremare / e rigarsi il tuo viso d’agonia / al caldo fiato / al cauto palpeggiare / sul mio corpo / delle zampe ferine”. Proprio in questa grande fiducia in Dio, che mostra Daniele, risiede il significato intimo di tale poesia: Dio infatti scende nella fossa accanto a lui, per farsi partecipe delle sue sofferenze: “No, non sei sceso tu / per trarmi fuori / a cielo aperto, / tu sei sceso / per soffrire con me”. E la mattina successiva, allorché re Dario si recherà da Daniele, lo troverà ancora, miracolosamente, vivo e incolume: il suo Dio l’avrà veramente salvato. (Non identica sarà invece la sorte di coloro che avevano ingiustamente accusato a Dario il giovane giudeo: condannati da Dario, saranno rinchiusi in quella stessa fossa, dove verranno dilaniati dai leoni, come si legge nel libro di Daniele). Passiamo ad esaminare le altre tre sezioni di argomento religioso di Alzati Orfeo, fra loro molto diverse nell’impostazione. Nelle poesie della sezione Imitazione di Cristo, ad esempio, è la figura dello stesso Gesù, durante gli ultimi giorni della sua vita terrena, ad essere colta nella sua tragica umanità, intrisa di solitudine e sofferenza. “Gli uomini non veglieranno con me. / Voi grandi alberi / che sempre parlate col vento, / notturni uccelli / che non dormite, / … / vegliate voi con me, / non mi lasciate. / Non lasciatemi solo col mio cuore”: sono questi alcuni versi di Gesù entra nell’orto, che efficacemente descrivono lo stato di dolorosa solitudine in cui versava Cristo, allorché entrò nell’orto del Getsemani.

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Egli sapeva perfettamente che i suoi discepoli si sarebbero addormentati e che di lì a poco sarebbe stato tradito: vicina era ormai la sua condanna alla Croce. Ne I canti di Santa Cecilia, come già nella sezione Tempo di Dio de I galli notturni, la Bono esprime invece il suo desiderio di entrare in relazione con l’Invisibile. Più pacato, però, seppure egualmente intenso si fa in queste poesie tale desiderio e la parola della poetessa si addolcisce. Sentiamola: “Tu sei come un albero pieno di uccelli. / … / A sera ancora corre / un mormorio fra i rami / e fra le foglie. / E poi tutto è silenzio” (Tu sei come un albero pieno di uccelli). Nel Pianto del Cristo di Maidanek, una poesia di alto afflato drammatico, affiora invece la profonda commiserazione per la tragedia del popolo ebreo, qui contemplata attraverso la voce di Cristo (ed è questa la ragione per cui tale sezione è stata inserita nella nostra analisi), che come Vittima sacrificale, ne rivive le sofferenze dei campi di sterminio nazisti: “Israele Israele, io guardo e vedo bruciare le tue carni. / … / Guardano gli occhi tuoi e non piangono più. / Israele Israele, piango io solo per te / che alle tue spalle sto piangente e seduto. / E tu non volgi il viso a me che piango. / O mio pianto mio pianto, Israele”, sono alcuni significativi versi. Pur se inserito in una sezione di carattere non prettamente religioso, ma prevalentemente civile (Stanze per Rinaldo della silloge Alzati Orfeo) è il trittico di Santa Giovanna, la Santa guerriera, che lotta per liberare la sua Terra dallo straniero e per far trionfare la giustizia e la fede. Nella prima poesia del trittico, Preghiera prima della battaglia, Giovanna, si rivolge all’Arcangelo San Michele, pregandolo di scendere in campo accanto a lei. Alte e ispirate sono le sue parole, piene di intima commozione per l’approssimarsi di un evento che è decisivo per la salvezza sua e dei suoi sostenitori. Particolarmente efficace è qui la chiusa, dettata da un profondo spirito cristiano, che vede nella morte la pacificazione tra coloro che a lungo lottarono in vita, sicché viene


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ad essere superata la distinzione fra chi fu amico e chi fu nemico: “Quelli di noi che troverete/col viso nella terra /vi prego non voltate/se amico o se nemico / per vedere. / Nelle tende di Dio / conduceteci tutti a riposare”. (Versi che suonano come un monito anche nell’attuale nostro mondo, continuo teatro di lotte fraterne e di episodi di violenza). In Pianto nella cattedrale, la seconda poesia del trittico, l’evento si è già compiuto: la battaglia è stata perduta e Giovanna, tradita, è caduta nelle mani dei suoi nemici. Le sue parole suonano accorate e piene di sconforto, ma non prive di fede e di speranza in Dio, che nella Sua infinita bontà le sarà accanto, sorreggendola anche nell’ultima prova, quella del processo e della condanna al rogo. Mentre nella terza parte, Lamento di Giovanna, la Santa, ormai condannata, si avvia al patibolo; è triste, ma ciò che più l’affligge è il tradimento di coloro che pure reputava amici: “Voi brucerete le mie carni, / ma il mio cuore fu già bruciato”. Dati i limiti di spazio di questo nostro rapido excursus sulle poesie schiettamente religiose di Elena Bono non ci è dato procedere oltre. Tuttavia, non ci si può esimere, prima di concludere, dal fare un fugace cenno alla Ballata in tre tempi per Francesco d’Assisi (Ed. L’Arcangelo di Urbino, 1985), una poesia nella quale l’essenza del cristianesimo, l’ amore per Cristo, Uomo-Dio, è compendiata ed esaltata nella figura del Santo poverello. Il che ancora una volta ci conferma come sempre importante sia per Elena Bono l’ ispirazione religiosa, che in lei raggiunge alti traguardi. Liliana Porro Andriuoli

RICORDO Ricordo i tedeschi che atterrivano il mio paese, i manigoldi che mi portarono in corte, i disgraziati che mi cacciarono dalla scuola, i giudici che mi condannarono, le donne che mi tradirono.

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Ricordo il primo bacio d’amore, il giorno della partenza, le poesie che mi hanno redento. L’oblio è una fuga senza ritorno: la carne è trafitta dal rimorso del peccato, l’alba si disperde nella passione del sole. Il mio perduto amore vaga fra gli scogli che hanno il colore della morte. La clessidra del tempo misura la mia doglia nelle ali spezzate d’un gabbiano che fremono sulla battigia, danza nella coda di lucertola che vibra sulla terra pietrosa infuocata dal solleone. Orazio Tanelli Verona, N. Y., USA

GRAPPOLI La tristezza arriva a grappoli, grappoli da assaporare, da assorbire nel cuore come una spugna, poi pian piano appare un velo di gioia e come un filo di seta te l’attorcigli addosso, per regalarti un ricamo finissimo in un momento di riflessioni. Quando sei triste guarda il cielo e vestiti d’azzurro. Guarda i prati in fiore e respira intensamente fino a riempirti il cuore, che butta via ogni dolore. Ammira le nuvole che si squarciano e un arcobaleno coi suoi colori ti abbraccia e ti porta con sé, in uno sfavillio di meraviglie che respirano amore insieme a te! Giovanna Li Volti Guzzardi Melbourne, Australia


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Anna Aita su Domenico Defelice

VISITAZIONE DEI FORMIDABILI ANNI TORBIDI FINO ALL'AVVENTO DI CLELIA di Rossano Onano

A

NNA Aita è una di quelle che non confondono la penna con l'uncinetto. Scrive un saggio sul direttore di Pomezia-Notizie (Domenico Defelice, un poeta aperto al mondo e all'amore, Il Convivio, 2013) annotando e ordinando, senza ricamare, quanto la critica ha già pronunciato, nel corso degli anni, intorno al poeta di Anoia. La quarta di copertina avverte che Anna Aita è figlia di un famoso compositore di canzoni e musiche, ottimo pianista. “Fra le mura di casa vibravano note ora dolcissime, ora potenti” che il padre traeva dalla tastiera del pianoforte.

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Anna ha vissuto, da bambina, un'esperienza percettiva che è toccata a me pure. Nella casa accanto alla nostra abitava un ragazzo che imparava a suonare la tromba. Suonava tutte le mattine e tutti i pomeriggi, infilando ogni tanto dei passaggi che persino il mio orecchio, infantile e barbaro, avvertiva fossero stecche terribili. Allora il giovanotto ricominciava sempre lo stesso pezzo, allo scopo di ottenere una strombazzata perfetta. Risale a quell'esperienza la mia considerazione che la musica richieda uno studio assoluto, accanito e precisissimo. Anna ascoltava il pianoforte e non la tromba, ma l'esito è stato lo stesso: attenzione all'esposizione nitida, corretta perché oggettivante, onesta perché corretta. Il volume si avvale di un interessante corredo fotografico, evidentemente fornito dallo stesso Defelice, cui credo spettino anche le didascalie apposte ad ogni singola immagine. Molto indicativa la prima: L'autore, all'età di tre anni, posto sotto un albero di limone nel cortile della casa dei nonni. Il bambino è un po' ingrugnato, commenta Domenico. La foto risale al 1939, forse 1940, l'essere ingrugnato è cosa poco indicativa: in quegli anni la fotografia era faccenda eccezionale, un documento da consegnare alla memoria familiare, ci si poneva di fronte al fotografo in posa statica e solenne. Il bambino, a 3 anni, si adegua con qualche apprensione alla solennità del momento. E' invece indicativo il fatto che il piccolo Domenico appare abbondantemente vestito, segno di una mamma premurosa che protegge il piccolo dal freddo, come era usanza materna all'epoca. Domenico, piuttosto che ingrugnato, appare leggermente obeso. Del resto, apprendiamo dalla biografia, Domenico era nutrito a zabaione, uova zucchero e marsala, bomba ipercalorica. I Defelice sono contadini, famiglia di onesta povertà ma nessuna indigenza, uova zucchero e marsala non mancano. Attenta e professorale (quando si parla di ricercatori e studiosi “professorale” è termine elogiativo) quando tratta della produzione letteraria di Defelice, Anna Aita dispiega curiosità e vivacità femminile quando si tratta di ri-


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ferire circa le vicende biografiche del direttore di Pomezia-Notizie. Riferisce vicende che Anna ha evidentemente ascoltato dalla voce di Domenico. Per il quale, come per tutti, vale la legge di Ribot, dico così tanto per essere attento e professorale anch'io: con il progredire dell'età, la regressione mnesica dell'evocazione avviene dal più recente al più antico, cosicché i ricordi infantili o a forte carica affettiva resistono di più all'oblio. Naturale che Defelice abbia raccontato con orgoglio affettuoso i suoi trascorsi infantili, operosi fin dal primo mattino per occuparsi di un maialino, poi per recarsi al pascolo di pecore e capre. Anna Aita spalanca la propria sensibilità femminile: Il ragazzino assorbirà le fragranze della terra e i tanti profumi delicati e inebrianti insieme, di verde, di grano, di selvatiche infiorescenze provenienti dalla campagna. Un corredo di amore e poesia che metterà radici nella sua anima. Domenico assorbe infatti le fragranze della terra e scrive (2010) Alberi?, inno alla natura con annesso bestiario boschivo. È un libro, Alberi?, che ho letto e non amato. Mi è mancata la capacità di rappresentare mentalmente la varietà delle piante raccontate. Montale, racconta la Spaziani, passeggiando per le colline liguri chiede: Cos'è questo fiore? Come, cos'è questo fiore, è il fiore tal del tali, l'hai nominato in una tua poesia. Sì, ma l'ho nominato senza conoscerlo, l'ho nominato così, perché suonava bene. Del resto, la donzelletta di Leopardi componeva ghirlande di rose e di viole, senza sapere che i fiori non sono coevi. La frattura fra l'uomo e l'ambiente agrario è cosa compiuta da tempo, non rappresentavo

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mentalmente gli alberi che Defelice raccontava. Non è colpa di Domenico, ma nemmeno è colpa mia. Defelice bambino lavora nei campi e studia, sottraendo tempo al lavoro. Nel frattempo, oltre alla fragranza della terra respira la fragranza del corpo femminile. Anna Aita racconta con la dovuta partecipazione le prime esperienze amorose di Domenico. La bambina Teresa, di morte improvvisa e precoce: il primo impatto di Defelice con l'amore è anche il primo impatto con la morte; Domenico pubblica il primo racconto, per pudore oppure per rispetto cambiando nome alla ragazza: Un nastro bianco per Maria. Poi Marcella: Un paese e una ragazza. Poi ancora Marcella: 12 mesi con la ragazza. La prima produzione di Domenico è di genere amoroso, lirica. I recensori dell'epoca concordano nel riconoscere al poeta non ancora trentenne una forte carica erotica. Nessuno l'ha scritto, e timidamente provo a dirlo io. Esiste una percezione originaria, codificata dal mito di Demetra e dei Misteri Eleusini, che spiega il ciclo eterno della vita e della morte comparando la terra al corpo della donna. In questo senso, Domenico Defelice lirico è in primo luogo un poeta arcaico. Vero è che, col tempo, Domenico rimane poeta idilliaco (la terra) e lirico (la donna), nello stesso tempo maturando come poeta civile (i costumi, la società, la politica). Esiste una data precisa che segna il passaggio dalla visione idilliaca/lirica del mondo alla visione oggettuale delle relazioni sociali. La data è il 1964, Defelice ha 28 anni e decide di stabilirsi a Roma, studioso perenne e lavoratore precario. I primi anni romani, dal '64 al '67 con particolare riferimento al 1966 puntigliosamente registrato giorno per giorno sotto forma di diario, sono fondamentali per la formazione della personalità di Defelice (Diario di anni torbidi, dato alle stampe nel 2009). Diversamente dal Carattere (ciò che uno è), Personalità è ciò che l'uomo mostra in pubblico (ciò che l'uomo fa). Il termine deriva dalla maschera (persona)


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che i commedianti classici mettevano a teatro per raffigurare un determinato personaggio. Personalità è la maschera che l'uomo decide di indossare per rappresentarsi in pubblico. A me sembra che Defelice abbia costruito la propria personalità a partire dalle esperienze accorse, e raccontate, in quei primi formidabili anni romani. Per capire, possiamo limitarci a leggere il Diario di anni torbidi. Tutto il resto, vita amori e opere, viene di conseguenza. Defelice e l'esistenza. Nel '64 Defelice si congeda dalla famiglia per trasferirsi a Roma, dove lavora in un magazzino di elettrodomestici. Traggo a memoria dal Diario di anni torbidi, che non rileggo in cerca di riferimenti cronologici precisi: ciò che rimane di un testo è ciò che la memoria contiene, non ciò che rinviene spulciando meticolosamente i singoli avvenimenti. Il termine “esistenziale” è alquanto inflazionato, a seconda dell'uso acquista persino significato metafisico. Uso “esistenziale” nel significato proprio: ciò che riguarda l'esistenza, ciò che l'uomo oggettivamente si costringe a fare per vivere, o sopravvivere. Abbandonata la Calabria per cercare lavoro nella capitale, gli anni torbidi di Domenico hanno a che fare piuttosto con la sopravvivenza. Il suo diario giornaliero riporta l'iter lavorativo di qualsiasi neofita azien-

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dale: dall'addetto di magazzino alla vendita di elettrodomestici. E' difficile immaginare il direttore di Pomezia-Notizie nelle vesti di imbonitore: l'uomo, cito da Anna Aita, non è molto spigliato di carattere. Fatto è che deve cavarsela egregiamente, tanto che si prospetta un suo trasferimento in Sardegna. Di solito, mosse del genere sono corredate da un aumento di stipendio. Nel Diario, Defelice annota. Della Sardegna non si saprà più niente. Domenico resta a Roma, l'emigrante è stanco di emigrare. Esiste un momento in cui la ricerca di migliori occasioni future diventa fuga dalle occasioni offerte dal presente. Defelice sceglie definitivamente Roma come campo di battaglia esistenziale. Continua a vendere elettrodomestici, e studia. Conquista uno stipendio mensile di 60.000 lire per un lavoro d'insegnamento, e insieme d'ufficio, in una scuola. Il Preside fatica a pagare gli stipendi, ma pazienza. Defelice mangia alla mensa militare: come si fa, alla mia età, a vivere con un magrissimo pasto al giorno? Si fa: quando da bambini si va al pascolo e insieme si studia, quando l'etica familiare trasmette l'onestà del lavoro e la bellezza delle cose conquistate attraverso il lavoro e i sacrifici. Altrettanto necessarie all'esistenza sono, oltre le cose materiali, quelle ineffabili inerenti le inclinazioni dell'animo. Domenico, da sempre, non ha esitazioni. Ricordo di aver visto, su Pomezia-Notizie, la ristampa di una sua vignetta illustrata inviata al Vittorioso, leggendario settimanale per ragazzi di area cattolica. Non ricordo l'anno della vignetta, ma ricordo di aver calcolato mentalmente come all'epoca io fossi un lettore del Vittorioso, e Domenico all'epoca un collaboratore poco più che ragazzino. Defelice a Roma lavora e scrive e disegna e s'interessa di musica e teatro e cinematografia. Propone in pubblico le sue poesie, però inceppandosi nella lettura. E' insicuro, perché l'ideale di sé (SuperIo, formato dall'eroica etica familiare) non corrisponde alle forze dell'Io, ancora in formazione. Fino a quando in pubblico, leggen-


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do una sera una sua poesia, La luce e il serpe, riceve gli applausi di un pubblico entusiasta. Nel diario, Defelice racconta gli applausi, euforico nel complimentare se stesso. E fa bene. Da quel momento il sé attuale (l'uomo che lavora) e il sé potenziale (l'intellettuale che scrive) coincidono. L'iter esistenziale di Defelice, da quei primi applausi all'Antenna Letteraria alla Procellaria, imbocca la via definitiva. Nel '67 mette su, in proprio, una piccola casa editrice, Le petit Moineau. Fosse andato in Sardegna a vendere pentole, non sarebbe successo. Il lavoro diventa impegno intellettuale, e l'impegno intellettuale diventa lavoro. Defelice e la politica. In senso letterale, politico è tutto ciò che riguarda la polis, i fattori culturali economici giuridici che riguardano la vita dell'uomo all'interno della sia comunità. In questo senso, Defelice è uomo politico. I lettori di Pomezia-Notizie conoscono i trafiletti (Alleluia!) attraverso i quali Domenico osserva e commenta gli avvenimenti della grande polis umana. Verso i quali si atteggia con tono talora censorio, talora con magnanima tolleranza. Va da sé che la magnanima tolleranza, in quanto espressione di superiorità intellettuale, è di per sé più corrosiva della censura, e questo Defelice lo sa benissimo. Alla lettura diacronica degli Alleluia!, scopri che Defelice quasi sempre ci azzecca. Anna Aita parla di “capacità profetica” e cita a soccorso, sull'argomento, il parere di Sandro Allegrini, secondo il quale l'autore Defelice si giova di una particolare dote di intelligenza

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premonitrice. La descrizione è suggestiva, seppure suoni vagamente sciamanica. La preveggenza politica di Defelice deriva in realtà dalle circostanza di vita affrontate nei formidabili anni del diario romano ('65'67). Domenico lavora e studia, mangia una volta al giorno alla mensa militare con altri giovani intellettuali e lavoratori, parlano di vita e di poesia, di faccende pubbliche e private. Domenico è l'unico a possedere un'utilitaria, mi sembra di ricordare fosse la gloriosa 600, in pratica utilizzata come auto comune dall'intero gruppo di amici. Solidarietà. Non è precisamente l'atmosfera del '68 che si prepara. E' il tempo delle manifestazioni, dei mantra collettivi cantati in coro: studenti / operai / uniti nella lotta. All'Università, si chiede il 18 politico. Il giovane Domenico si interessa, partecipa e osserva per commentare sul diario, banalizzo con parole mie: c'è un'aria che non mi piace. Defelice, il 18, lo conquista sul campo, lavorando e studiando. Di famiglia contadina, è formato per via culturale all'ideologia del lavoro, alle conquiste ottenute lottando duramente, al do ut des dell'esistenza contadina: quando il tuo campo brucia io corro ad aiutarti, quando brucia il mio campo corri tu ad aiutare me. A Roma Domenico vive in affitto. La padrona di casa, in difficoltà, gli domanda un prestito di 20.000 lire. Defelice, che conta le lire per mangiare alla mensa militare, chiede a sua volta un prestito e passa 20.000 lire alla padrona di casa. E' difficile dare un senso univoco a un comportamento del genere: è segno di debolezza (paura di deludere) e insieme di magnanimità (il tuo campo brucia, accorro in tuo soccorso). Le personalità fortunatamente complesse sono capaci, sempre, di comportamenti che la sola ragione non può sostenere. Comportamenti che maturano, nel valoroso lavoratore quasi autodidatta calabrese, la scelta delle istanze superegoiche: il rifiuto della violenza verbale e gestuale, il rifiuto della verbosità salottiera, l'esercizio della solidarietà, la comprensione delle debolezze umane. In qualche mo-


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do, cosa difficilissima, la comprensione di sé rispetto a ciò che l'Io si propone di fare nel mondo. Nel 1977 scrive Canti d'amore dell'uomo feroce. Anna Aita cita Allegrini: Contro i potenti e i mafiosi della sua terra, che fanno e disfanno amicizie e potentati economici giocando sulla pelle degli altri. Nenie ballate e canti (1994) è il canto di dolore di un uomo che non riesce ad accettare tanti risvolti amari della vita, l'immigrazione, l'emarginazione, l'aborto, la prostituzione, lo spreco, l'egoismo. Eva Barzaghi sintetizza (tesi su Defelice per l'Università di Roma): L' amore e la morte sono i punti focali di quest'opera il cui compito è quello di elevare la poesia a funzione catartica delle nefandezze umane, permettendo all'uomo di riscattarsi attraverso la speranza e l'amore. Accomunare poesia e catarsi non è faccenda nuova, è però cosa obbligatoria per una giovane studiosa felicemente entusiasta. Non è possibile credere che Defelice, esperto navigante della vita, aspiri a tanto. E' però vero che Defelice, negli anni romani, abbia formato se stesso senza avere santi in paradiso, rifiutando le amicizie e i potentati che Allegrini cita, orientando la propria scrittura all'esercizio dell'amore e della solidarietà verso gli umili. Quando si mangia a stento una volta al giorno, si rifiutano le rivendicazioni violente e si prestano a chi ha bisogno soldi che non si hanno, alla fine si scoppia; oppure, quando mamma e papà nell'aspra e generosa Calabria hanno fornito un carattere forte, si sceglie la strada della magnanimità sociale, della pietas.

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Defelice e la donna. In mensa con gli amici, Domenico parla di donne, ci mancherebbe. Anna Aita annota di propria intenzione, e cita da molti altri, la fascinazione che la figura femminile esercita su Defelice, la sensualità sempre corrente nella sua scrittura. Il diario dei torbidi anni romani rende conto dell'evoluzione sentimentale del nostro. Il quale, sembra di capire, delle donne all'epoca capiva poco. Frequenta, con gli amici, una serie di ragazze: Lisetta, Gisella, Rosita, Carmela. I giovani si scambiano le impressioni: con la tale ho provato io adesso vediamo tu cosa sai fare. Le faccende esplorative d'amore vanno appunto così. Leggendo il diario, sembra di capire che Rosetta Gisella Rosita e Carmela ne sappiano di più e si muovano meglio, rispetto a Domenico e agli altri giovanotti. Anna Aita, intelligenza femminile, annota: Con le ragazze, Lisetta, Gisella, Rosita, Carmela e quant'altre, continua un carosello senza ch'egli riesca a trovare, con alcuna, la definizione di un rapporto completo. Formulazione elegante per dire che il giovanotto non arriva al dunque. Mamma Defelice è preoccupata: il suo ragazzo è a Roma, lavora e studia, ma non ha una relazione sentimentale stabile. La donna organizza l'incontro del figlio con una brava ragazza di Anoia, verosimilmente in combutta con i genitori della ragazza. I due giovani si frequentano, senza entusiasmo, quando Domenico torna ad Anoia in vacanza. La cultura è cultura, moglie e buoi dei paesi tuoi. Quando invece Defelice rompe con la consuetudine culturale, oppure è la brava ragazza che rompe con la consuetudine, e insomma il fidanzamento non va in porto. La maturazione esistenziale avviene sempre contravvenendo alle aspettative genitoriali. Domenico e la brava ragazza contravvengono insieme. E' verosimile che nutrano tuttora, fra loro, un ricordo di reciproca gratitudine. L'educazione sentimentale prosegue a Roma. Sentimentale è dire troppo, corrono gli anni delle urgenze libidinali. Si


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fa avanti Rosita, un'amica a sua volta occupata dalle urgenze, che propone a Domenico un incontro. La consumazione d'amore avviene nel ventre di una pineta. Rosita, ammette Defelice nel diario, non è propriamente avvenente, però mostra d'avere pratica d'amore, insomma ci sa fare. Panico del nostro autore che, per svincolarsi dopo la consumazione, mente a Rosita: “Sono sposato”. Assenza di pathos, nel diario, sia da parte di Domenico narratore, sia da parte di Rosita l'offesa. La quale non è che si disperi, anzi si fa da parte senza tante storie. Non so come Defelice riviva, nel ricordo, tutta la faccenda. E' lecito pensare che Domenico non abbia ingannato nessuno. Rosita, che si è fatta avanti mostrando d'essere fra i due la persona più scaltra ed esperta, si è fatta da parte senza verificare se l'uomo fosse effettivamente sposato, direi anzi che si è fatta da parte senza crederci affatto. Rosita e Domenico avevano un'urgenza da soddisfare, l'atto sessuale è stato un “do ut des” sotto la menzogna reciproca del sentimento. Soddisfatto il bisogno, ciascuno a casa sua: Domenico con una menzogna esplicita (sono sposato), Rosita con una menzogna indiretta (mento facendo finta di credere che sei sposato). La natura (l'Es istintuale) di tanto inganna i figli suoi, come si dice a Recanati, ma di tanto allo stesso modo li soccorre.

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“Non fate la guerra fate l'amore”, scrivevano sui muri i giovani negli anni '60. E però, all'atto pratico era difficile per i ragazzi conquistare, come per le ragazze era difficile concedere. Una delle ragazze, non ricordo se Lisetta o Gisella o Carmela, viene stuprata da un amico di Domenico, non ricordo se Rocco Nino o Michele. Non vado a controllare, la cosa non ha importanza. Domenico, che si defila da un'avventura fingendosi sposato, ha l'età in cui si trascura la trave nell'occhio proprio, per cercare la pagliuzza nell'occhio altrui. Si indigna con l'amico, ci ricama su per una settimana buona sul diario. In realtà, che si tratti di stupro è cosa inverosimile: l'azione si svolge nella casa della ragazza, sono presenti le amiche e gli amici di Domenico, in un festino domestico cui Domenico non ha partecipato. Il nostro autore, pur indignato con l'amico, continua a mangiare con lui alla mensa militare. Non risulta, del resto, che la ragazza violentata ne faccia un dramma. Forza dell'inconscio, desiderio di essere violentata, con alibi incorporato. Per concedersi, la ragazza ha bisogno di mentire a se stessa: sono stata violentata. Così come Rosita quando finge di credere che Domenico sia sposato: sono stata ingannata. Defelice riferisce nel diario gli episodi senza indugi introspettivi. Nel diario, infatti, scriveva per se stesso, scriveva ciò che gli conveniva credere. In realtà, gli episodi hanno colpito Domenico profondamente. Subito dopo, prendono il sopravvento nel diario le annotazioni esistenziali e letterarie, il racconto degli anni torbidi finisce. Rispetto alle avventure amorose sembra avere maggiore importanza una vicenda sentimentale appena accennata. Compare nel diario, ed è una specie di epifania, la figura di un'infermiera. Non ricordo le circostanze dell'incontro. Mi è sufficiente ricordare l'aura che la donna trasmette a Domenico: il giovane è preso dalla casta e accogliente dolcezza di lei, che immagino di ampio seno e candida veste. Domenico la guarda e tutto finisce lì; a meno che, per pudore, non abbia taciuto il resto. Defelice, all'epoca, si muove con le ra-


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gazze in modo impacciato. Nell'animo è petrarchesco, ama tenacemente donne che la vita ha portato altrove oppure concesso ad altri. Non è Rosita e non sono le amiche degli anni romani, ma è la figura dell'infermiera che fornisce a Domenico l'archetipo di donna congeniale alla sua vita. E' la figura della Magna Mater, la donna generosa discreta e accogliente, che dona senza chiedere, e chiede con la sola evidenza della sua natura materna. E' la donna presente, considera Anna Aita, in tante pagine di Alberi? E' Clelia Iannitto, conclude, il vero, grande amore della sua vita. La donna che Domenico sposa, che lo porta a Pomezia. Non sapremo mai, rimpiange Anna, come e quando Domenico abbia conosciuto il grande amore, quello con la “A” maiuscola, che lo ha portato all'altare. Non ce n'è bisogno. In fondo, tutti gli uomini decidono di sposare la madre. Oppure, per difesa, di sposare l'opposto della madre. Domenico, per le avventure romane e poeta, fortunatamente non si è difeso. Leggendo a suo tempo il Diario di anni torbidi, ricordo d'aver avuto la confusa percezione che non fosse precisamente Domenico il protagonista degli avvenimenti. Credo dipenda da una mia esperienza ginnasiale. La professoressa ci preparava all'esame di ammissione al liceo. Verrà da fuori, ci spiegava, la professoressa di lettere che vi chiederà: chi è il protagonista dei Promessi sposi? La professoressa che veniva da fuori aveva una fama terribile. Allora, chi è il protagonista dei Promessi sposi?, voi cosa rispondete? Quello del primo banco spara a botta sicura: Renzo! No. Il secondo: Lucia! No. Un terzo capisce che bisogna fare lo sforzo d'essere originali: l' Innominato? No. Il quarto ragazzino risponde con un filo di voce, consapevole che forse la sta sparando troppo grossa: Don Abbondio? No, spiega la nostra prof, il protagonista dei Promessi sposi è il Seicento, dovete rispondere il Seicento altrimenti vi boccia. A tutti noi sembrava strano che la professoressa venuta da fuori potesse utilizzare, per bocciarci,

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un'astuzia così formidabile. Naturalmente, la terribile professoressa venuta da fuori durante l'esame tutto ci chiese, tranne chi fosse il protagonista dei Promessi sposi. Del resto, la faccenda del Seicento smanioso d'essere protagonista non mi ha mai convinto; mentre invece sono sicuro che protagonista del Diario di anni torbidi non è Domenico Defelice, ma piuttosto l'Italia degli anni '60. Domenico ha steso il diario a braccio, giorno per giorno, annotando i fatti con puntiglio degno di un cronista comunale medioevale. Nessuno sforzo introspettivo. Domenico, del resto, aveva l'età nella quale si guarda al mondo più che a se stessi, specialmente quando il mondo come nel caso specifico era un'arena difficile da occupare. Roma, anni '60. L'Italia esce dalla guerra mondiale come paese ancora contadino, il 90% degli italiani lavora nei campi, fra questi 90 ci sono i genitori Defelice, dignitosissimi contadini che si permettono di rinforzare Domenico con zabaione e marsala. Milioni di contadini e braccianti salgono dal sud al nord, a Milano e Torino. Gli immigrati si accalcano in periferie orribili, in alcune pensioni i letti sono affittati a ore, in centro città i cartelli avvertono: non si affitta a meridionali. Sono anni difficili. E' straordinario come, nella coscienza collettiva, siano ricordati ora come “formidabili”. Sono infatti gli anni in cui si prepara il miracolo economico, favorito dalla disponibilità di tanta mano d'opera a buon mercato, e dalla briglie lunghe che la politica concedeva al mercato: il fisco aveva mano leggera, chiudeva un occhio sui tanti capitali fuggiti e finiti in Svizzera, purché altrettanti fossero investiti in officine e capannoni. A miracolo economico in atto scoppia il '68. Domenico Defelice, a Roma, non dorme nel letto a ore degli immigrati. Roma non è Milano, a Roma non vanno i contadini e i braccianti, ma i figli di quei contadini e braccianti che possono permettersi un figlio che abbandoni la terra per cercare un lavoro impiegatizio. Gli anni romani di Defelice sono determinanti nella formazione delle sue qualità, e-


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sistenziali e letterarie. Lavora e studia, sacrifica i pasti ma non le occasioni culturali, è un timido consapevole d'essere tale e quindi per difesa determinato, trema con la voce ma si impegna a leggere in pubblico fino alla declamazione di La luce e il serpe, evento che riporta trionfante nel diario come atto di definitiva accettazione di sé e fine del proprio apprendistato. La sua padrona di casa è una brava donna a sua volta in difficoltà economica, tanto che gli chiede un prestito. Domenico soccorre la donna chiedendo a propria volta un prestito: cultura della mutualità contadina. “Studenti / operai / uniti nella lotta” è il coro dei cortei che preannunciano il '68. Defelice non è studente perché lavora, e non è operaio perché studia. Soprattutto, per tempra caratteriale e cultura della mutualità, rifugge dall'aggressività verbale e programmatica del movimento. Prende le distanze, osserva e impara a combattere la stupidità e le ingiustizie umane per conto suo. Ha importanza il fatto che da ragazzino leggesse “Il Vittorioso”, settimanale di Via della Conciliazione. Il ragazzo “vitt” doveva essere appunto “vittorioso” contro le cattive intenzioni, insomma un piccolo crociato: cultura cattolica. Chi legge, oggi, i celebri Alleluia di Defelice riconosce facilmente le stigmate del cavaliere armato contro la cattiveria del mondo. Il nostro autore frequenta, a Roma con gli amici, una cerchia di ragazze che, all'occhio smaliziato di un adulto, quanto a conoscenza della sessualità sembrano più attrezzate di lui. Domenico paga lo scotto con una toccata (Rosita) e fuga (da Rosita) che lo segnano più di quanto Domenico confessi a se stesso: subito dopo interrompe il diario delle occasioni amorose, e poco più in là interrompe il diario stesso. Defelice è irrimediabilmente stilnovista: Rosita si dà da fare ma la donna è un angelo (la mamma); la donna è un angelo dalle forme accoglienti e generose (l'infermiera); la donna, al termine dell'educazione sentimentale, è finalmente Clelia Iannitto che pone il lucchetto ai formidabili anni torbidi e se lo porta a Pomezia.

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Anna Aita rimpiange: è un peccato che Domenico non abbia raccontato come e quando abbia incontrato il grande amore della sua vita. Le donne di cuore gentile sono fatte così: di fronte a una storia d'amore che finisce bene vogliono che la storia sia declamata. Defelice, scorza d'Anoia e misura classica, ama senza declamare. Rossano Onano Immagini: Pag. 19 - Roma, 1968, Defelice mentre sfoglia una rivista letteraria. Pag. 20 - Roma, ottobre 1959, Defelice in cima al Colosseo. Sullo sfondo, via dei Fori Imperiali. Pag. 21 - Pomezia (RM), Ristorante Lo Stendarello, 12 aprile 1970: Domenico Defelice, la fidanzata Clelia Iannitto e i genitori del poeta: Rosa Ceravolo e Giuseppe Defelice. Pag. 22 - Mirabello Sannitico (CB), 4 ottobre 1970: Domenico Defelice e Clelia Iannitto, sposi. Pag. 23 - Sandro Gros-Pietro e Domenico Defelice, alla Fiera del Libro di Roma, il 10 dicembre 2004. Pag. 24 - Lo scrittore Tito Cauchi con la moglie Concetta e Domenico Defelice, in piazza Indipendenza, a Pomezia, il 14 settembre 2013.

LA TINDARA La bella Tindara vestita da zingara, elegante nelle mosse schiva le tante fosse, rustica, selvatica una cronica asmatica, debole e visionaria grande legionaria. Superficiale ironica soda e tonica, la maga del ghetto giovane senza tetto, sorridente ed oscura irrealtà da paura, tra sfera e carte un personaggio a parte. Vittorio “Nino” Martin Da Stevenà amore mio - Ed. I Poeti nella Società, 2014.


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IL TEMPO NUOVO DI GUIDO ZAVANONE Un realismo psicologico che tocca punte di alta poesia di Nazario Pardini

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ENOLLOSA Ernest Francisco affermava che la poesia è l’arte del tempo. Perché riportare tale affermazione. Perché il tema del tempo ha una funzione determinante nella poesia di Zavanone. Non solo da un punto di vista del memoriale, ma soprattutto da quello della realtà contingente: hic et nunc. In lui l’ieri, l’oggi e il domani si embricano indissolubilmente per dare energia espansiva al suo poema. È cosciente del tepus fugit Zavanone. E la realtà circostante la vive come frammento del suo essere mortale e degradante. Ma dall’altra parte sente l’urgenza di farne un accadimento perpetuo, di vincerne quel sapore di caducità, ricorrendo all’idea di arte/poesia; per proiettarsi oltre il breve tratto della vicenda umana. Oltre lo sfacimento degli autunni; per accostare le chant d’un chardonneret che sa tanto d’azzurro: … Dov’era la foresta si leverà un canto d’uccello che nessuno potrà individuare né preferire e neppur intendere salvo, lo Spirito divino che lui l’ascolterà dicendo “E’ un cardellino” (Profezia). Afferma un poeta francese: “Dans l'âme de chacun on peut retrouver, cachés, le poète et le mystique: un élan au de là du temps”. Sì, vincere quel frangente che ci lega ad uno spazio ristretto del nostro esistere. Alla nostra vicenda esistenziale. E d’altronde l’uomo non può contenere il tutto; è fatto per una misura terrena; ed è da lì che deriva la sua inquietudine, il suo male di vivere; quella naturale quanto dolorosa diatriba fra la sua precarietà e il suo azzardo oltre la siepe. E anche se la nostra anima può raggiungere le vette più alte dell’immaginazione e della meditazione, da

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là gli sguardi si sperderanno in orizzonti cosparsi di bruma. Sì!, la nostra mente non è fatta per contenere il tutto. Quindi misuriamoci con la realtà che ci circonda. E Zavanone lo fa. La assorbe questa realtà, la elabora e ri/elabora. La fa sua e la fa decantare per ri/portarla a una vita zeppa del suo sentire, del suo dolore, anche. Sembra che la sua poesia nasca dal percorso tormentato di una via crucis. Da un redde rationem ultimativo: … Nave abbrunata e senza equipaggio dolce volto polena accostatevi a me che v’attendo sulla banchina deserta per l’ultimo viaggio (Volto d’angelo). E gran parte della grande poesia, per non dire des poètes maudits, fa grande uso di questo sentimento di solitudine e di sperdimento. Un senso di solitudine che mai è propinato in maniera aggressiva dal poeta, ma direi sotteso e addolcito da un gioco di metafore e di nessi allusivi di resa lirica. Ed è bello leggerlo in francese. Il canto si fa più melodico, più gentile, più sonoro, più umanamente epocale. Ed è lì che il Nostro ci sa offrire una buona fetta della sua sapientia linguisticocomunicativa. La natura stessa mai è vissuta come semplice configurazione bucolicoidilliaca. Ogni tratto di panorama, ogni sfavillìo di luce, od ogni fievolezza ombratile non ha mai una semplice funzione descrittivodecorativa, ma declina in configurazioni visive i patemi emotivi. Il Nostro parla con la voce di Pan. Ed è a lui che affida tutta la sua emozione poetica: La sera attraverso i rami che la stagione veste di foglie gialle e di rame filtra nel bosco la sua malinconia… (Sera d’autunno). E quale stagione può essere più vicina alla sottrazione delle sottrazioni umane. Il poeta fa dell’autunno una storia universale senza cadere nel becero sentimentalismo. Un realismo psicologico che tocca punte di alta poe-


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sia. È da lì che parte il suo poema, la sua ricerca filosofica, anche. Perché in fin dei conti la poesia e la filosofia si rassomigliano tanto, dacché il loro scopo è quello di scoprire, o di avvicinarsi il più possibile alla verità. Di agguantarne la coda, almeno, visto che la vera verità è un grande ed imperscrutabile mistero per le corde umane. Ed è partendo dalle piccole cose, dai minimi fatti, che Zavanone cerca di elevarsi all’oltre, cerca di azzardare lo sguardo verso orizzonti che hanno tanto del sempre. E già nella prima poesia dedicata al lettore c’è questo tentativo di allungare l’ umano all’orecchio di un dio: … O se il suo canto risuonerà ancora sulla Terrea deserta forse solo un fruscio da qualche vecchio disco per l’orecchio di un dio (Al lettore). C’è, qui, la coscienza della precarietà dell’ umano vivere, ma anche la speranza in un fruscio spirituale che tanto sappia di slancio all’eterno; di spiraglio aperto ad una lampara che illumini il buiore della notte, e vinca lo scorrere monotono e vano del giorno: M’accosto fraterno e presago gli tocco la rigida mano io dalla vita lui dalla morte guardiamo questo scorrere monotono e vano (Il vicino). Un ossimorico sciogliersi del canto; una contrapposizione appetitosa fra il tema del mistero di una fine e l’strema musicalità del verso che non disdice rime, assonanze, allitterazioni o altre accortezze fonico-allusive da romanza d’autore. Una sicurezza del ductus poetico di perspicua sapidità disvelatrice. Un importante uso del significante metrico. Ma anche un affondo mordace alla verità di quegli accidents che da mortali dobbiamo subire in contrapposizione all’eterna bellezza del poieo. Ed è proprio nella poesia eponima del

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testo che il poeta si spende quasi ironicamente, ma con grande disillusione, nel Tempo nuovo della sua vita. Nel tempo in cui la carne dimostra tutta la sua debolezza, quella di una terrenità sconcertante: … sonno profondo senza sogni per una ben dosata anestesia mentre un bisturi affonda indifferente nella mia carne viva. Oh poesia! (Tempo nuovo). La vita è l’arte dell’incontro, diceva il poeta brasiliano Vinicius de Morales, e vita e poesia sono la stessa cosa. E lo sono anche per Zavanone. Perché il suo poema la contiene tutta questa vita; ne contiene la realtà più cruda, l’immaginifico, l’illusione e la disillusione, il dolore e la melanconia; ma anche il tentativo di scavalcarne i limiti. Ed è proprio questo polemos fra gli opposti a iniettare sostanza e potenzialità a un poetare in cui la morte assume una valenza determinante; dove il tempo fruga fra i rifiuti e cerca le ragioni nascoste tra le mappe confuse della storia e ascolta la voce smarrita di tutto ciò che non torna; e dove l’autore non prova né odio né amore perché dalla tomba l’eterno ha un sentore di marcio e sa che il mestiere di vivere è duro quando è suonata l’ora di morire. Un realismo di autoptica vis creativa che infilza le perle di questo racconto in una collana lucente; in una collana che riceve tutto il calore del seno del poeta. E anche se vagisce un autunno che indifferente porta via fra le pozzanghere i resti di un’estate procace; e anche se lo stesso autunno è compassionevole verso un albero bruciato: Sia consolato quest’albero più non vedrà le sue foglie ad una ad una cadere dai rami, strisciare, imputridire nel fango (L’albero nudo), c’è sempre una luce, un fiore, una rinascita; c’è la vita, unica, sacrosanta e irripetibile, a vincere sul tutto. Perché quel che traspare, al-


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la fine, è l’amore per questa avventura. Dacché il dolore del Nostro deriva proprio dalla coscienza della sua mortalità; dall’ attaccamento al bene più grande che ci sia stato donato. Ma ci sarà una nuova primavera, verzicante, ad azzardare le sue tenere foglie alle intemperie:

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chiedendomi chi fosse mai quel gran uomo. Come un piccolo orticello fiorisce solo se viene coltivato con cura, così ogni uomo, operando con diligenza, ha dato vita a te, o mia grande città natale ben costruita e popolata. Laura Catini Roma

… Presto accorrerà la primavera a rivestirlo di foglie diritto e forte guarderà in faccia il cielo che scenderà tra le fronde a riposare la sua faticosa eternità (D’inverno l’albero), una epifanica primavera che porterà il cielo a riposarsi fra le fragili fronde. Ed è in questa amalgama che si ritrova Zavanone. Nazario Pardini 08/03/2014 Guido Zavanone: TEMPO NUOVO- De Ferrari Editore. Genova. Pp. 80. € 10,00

REMINISCENZE A te, Roma, dedico questo volteggiar di parole, a te, sede di popoli bellicosi ed ora fiorente città. Giù dal Ponte Milvio m’affacciai, l’acqua scorreva tiepida e veloce rimembrando i miei anni passati, quando il mio piccolo volto vide, stupefatto, la sede dei gladiatori, il Colosseo; quando al Gianicolo il rombo del cannone segnava il mezzogiorno e ‘l teatrino s’apriva con Pulcinella; quando correvo tra le colonne di San Pietro e il sol batteva potente sulla cupola; quando gettai la prima moneta nelle acque della Fontana di Trevi; quando passeggiavo tra le stradine di Trastevere, quando giunta a Campo dei Fiori, mi fermavo davanti alla statua di Giordano Bruno,

PAROLA dolce ascolto la voce della parola che parli che tace. Tu non mi guardi, m'incanti. Tu non mi dici, tu canti. I tuoi capelli si perdon tra gigli e tulipani, freschi giacigli su cui mi stringi le mani. E gli usignoli, sono tuoi figli, e fratelli tuoi i rami. Ma io solo te guardo, e ti amo, e godo perché tu mi ami. Gianmarco Perna San Felice Circeo (LT)

MA PIÙ CHE MAI... Dall’inizio mi manchi, come l’acqua alla sete del deserto. Mi manchi quando ti cammino a fianco: non vanno nella stessa direzione, se non per breve tratto, due treni su binari paralleli. Mi manchi quando sono con un’altra, come manca la freccia alla ferita che per la sua estrazione di dissangua. Ogni giorno mi manchi; e in ogni dove perché all’assenza di te non c’è un altrove. Corrado Calabrò Roma Da Mi manca il mare - Genesi Editrice, 2013


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NELLA “FUGA DEL TEMPO” LA POESIA DI

LUIGI DE ROSA di Bruno Rombi

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UIGI De Rosa, già provveditore agli studi e sovrintendente scolastico regionale della Liguria, nel mentre ha speso la sua vita in favore dell'istruzione e della cultura, in pari tempo si è continuamente tuffato nella poesia e nella letteratura, in modo tutt'altro che occasionale, ma anzi, in modo sistematico e profondo. Lo dimostrano le raccolte di versi via via ordinate nel tempo, a partire da Risveglio veneziano ed altri versi (presentata da Diego Valeri nel 1969), per proseguire poi con Il volto di lei durante (prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, 1990 e 2005), Approdo in Liguria ( prefazione di Maria Luisa Spaziani, 2006), Lo specchio e la vita (con saggio introduttivo di Graziella Corsinovi dell'Università di Genova, 2006) per giungere a Fuga del tempo, prefato da Sandro Gros Pietro ( Gènesi, Torino, novembre 2013) che, in qualche modo, fa sentire la sua opinione anche sugli altri volumi. A me il compito di soffermarmi sull'ultimo, che si presuppone rappresenti la migliore tappa di un percorso poetico disteso lungamente nel tempo e, per effetto del tempo, forse più a lungo meditato. D'altra parte nel titolo Fuga del tempo si avverte una sorta di richiamo a se stesso, da parte del poeta, sulla necessità, forse, di un carpe diem, perché il tempo che “fugge” non si afferra, o perché con la “fuga del tempo”, con il tempo che si allontana, si separano da noi gli avvenimenti, e i ricordi, e i sogni vissuti. Se avessimo potuto seguire pazientemente il poeta De Rosa lungo il suo cammino potremmo tracciarne e individuarne meglio il percorso e il senso. Ma poiché l'incontro è recente, non ci resta, pertanto, che affidarci ai testi, dei quali manca il primogenito anche se, nel sondare attentamente ciò di cui disponiamo per una carrellata che introduca l'ultimo ci par di comprendere che le tracce del percorso

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– per lo meno alcune – esistono nei testi transitati – magari con qualche modifica – da una raccolta ad altre successive. In Il volto di lei durante che, come scrive Giorgio Barberi Squarotti in prefazione – è una summa in versi di una gioia vitale, De Rosa parla della vita, e dell'amore, con entusiasmo e intensità, ed ogni occasione – lavoro, viaggi, amori – diventa un gioco di sillabe e di rime “caricate di tutti gli umori e i sapori di un sapientissimo padrone della lingua e dei ritmi.” E se anche emerge un filo sottilissimo di una nostalgia che avrà forma ed espressione più chiara nei volumi successivi, per De Rosa la “ casa del poeta” è individuabile nei seguenti versi: “Eppure ci sarà quel marchio invisibile quella piccola brace inestinguibile in qualche parte dell'”anima”, come melopèa, ecolalìa struggente che sempre versa e sempre si rinnova: dov'è la casa del poeta ?” Di tessitura nel tempo della poesia di De Rosa parla anche Maria Luisa Spaziani nella prefazione al volume successivo Approdo in Liguria, un volume che, se ripercorre itinerari e ricordi della regione che ha avuto e ancora ha grande importanza nella vita del poeta, è anche quella riserva di momenti lirici e di ricordi cui attingerà a piene mani il poeta per il volume Fuga del tempo, ossia il testo ultimo. Comunque non saranno inutili i richiami a titoli precedenti, anche quando i procedimenti lirici sono diversi come, ad esempio, Canzone dell'azzurro e Nuova canzone dell'azzurro forse perché, per una sorta di cortocircùito sentimentale, che riporta il poeta ai momenti clou della sua esistenza, sfaccettandoli, diventano la spia di un processo ab interiore del macero della parola. Cito ancora la raccolta Lo specchio e la vita, che si avvale di un saggio introduttivo di Graziella Corsinovi che parla della poesia di De Rosa come riflesso, in uno specchio, dell'esistenza del poeta, sottolineando, insieme alla liricità del dettato, un sempre desto, anche se larvato, senso iconico che consente al poeta di guardare alla società contemporanea “parossisti-


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camente imbarbarita dagli eccessi del consumismo e della tecnologia, falsamente civile nelle sue città splendenti e maleolenti...” con quel che segue. Per me, come ho scritto nell'ultimo numero della rivista genovese “Satura”, la poesia di De Rosa si muove sul filo sotteso di un sentimento nostalgico del tempo, sentimento che ha radici profonde nell'infanzia dove campeggia la figura paterna, ora con la sua presenza, ora in ombra in un contesto ambientale non bene definito ma dove s'avverte chiaramente la mancanza di una figura importante per la vita di un bambino; la madre. Occhiali neri da sole : questa lirica è apparsa anche in raccolte precedenti e un grosso frammento finale apre, ad esempio, la raccolta “Lo specchio e la vita”. Sullo sfondo la natura, con un flash fulminante sulla Milano del '44 e scorci di una Liguria matrice di gesti, sogni, ricordi e malinconie, come controcanto di una solitudine a tratti raggrumata in un cruccio e, a tratti, vivificata dal senso di una ricercata e acquisita vitalità. Ancora un segno della giovinezza...( v. pag. 28). Ad introdurre quel mondo di sensazioni, ricordi, sogni e delusioni, l'atto di coscienza di ciò che è stata la vita, paragonata, metaforicamente, ad un fiume che si muove Verso la foce. Non a caso il poeta apre la raccolta con questa lirica : “ Tranquilli, amici, non c'è fretta, né ansia, tanto andiamo tutti, inevitabilmente, chi prima, chi dopo, verso la foce. Il fiume della vita può fluire, a volte, più pesantemente, e per troppe dolorose sventure si può anche intorbidare. Ma alla fine tornerà trasparente come filo gelato di sorgente quando si fonderà con un mare aperto e profondo, senza più il limite, laggiù, di un orizzonte.” Con la serenità di chi ha compreso il corso degli eventi, De Rosa riassume con natura-

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lezza la sua esistenza, cercandone il segno nello scrigno dei ricordi , dove tutto è raccolto coscienziosamente per giungere al quesìto fondamentale Cos'è una rosa ?. Senza riuscire, in comunione con Giorgio Caproni, a dirlo: “ Caproni, Poeta amico, anch'io, nel mio piccolo, in una o l'altra sera mi addormenterò, deluso, per sempre, dopo avere scritto in versi e in prosa per una vita intera, senza essere mai “riuscito a dire cos'è, nella sua essenza, una rosa”. E se l'uomo non può conoscere e capire l'essenza di una piccola cosa vivente, precaria, come può capire la Vita o, addirittura, il Dio che sembra assente ?” La figura dominante anche nell'ombra – quella paterna – riemerge in Caro papà . Tale confronto, che è anche un continuo tentativo di autoidentificazione nel genitore, prosegue nelle due liriche successive: una che descrive un dialogo: “ Papà, sempre più mi sorprendo a parlarti all'orecchio, a confidarti...” e l'altra, che documenta i dolci ricordi del passato : “ Ogni volta che ritorno a trovarti in questo immenso Cimitero di Asti tu continui a sorridere sornione dietro i baffetti, con quel tuo sorriso intelligente e ironico: come al solito, forse, non mi ascolti, ma vuoi farmi capire, anche in silenzio, che viene un giorno in cui non vale più la pena di soffrire questa vita...” Se la maggior parte delle liriche della Raccolta testimonia un'indagine retrospettiva, con una forte evidenza dell'io poetante, in molte altre liriche il Nostro svela quanto coglie intorno a sé, e viaggiando per la vita (vedi Malinconia d'un pendolare) ora soffermandosi su scorci di realtà colti attraverso il gioco delle contraddizioni (Un mattino di Liguria/Un mattino del mondo), o meditando sulle sorti della nostra umanità alla luce degli eventi a-


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tomici. E se, riflettendo sulla sorte dell'empio e del giusto, manifesta la sua fede nel Cristo che redime, concede anche fiducia alla natura perché “ Fino a quando le rondini partiranno e torneranno ( anche se in ritardo per una primavera capricciosa, tardiva) ci sarà ancora speranza. Fino a quando le rondini sfrecceranno zigzagando sicure senza andare a sbattere contro i piloni di cemento dei viadotti delle autostrade ci sarà ancora speranza per questo piccolo mondo ingannevole ma stupefacente” ( “Fino a quando le rondini”). Bruno Rombi (Dalla Presentazione del libro di Luigi De Rosa Fuga del tempo (Gènesi Editrice, Torino, novembre 2013) ad opera del poeta, scrittore e critico letterario Bruno Rombi, avvenuta il 4 aprile 2014 presso il Municipio di Genova-VIII -Levante, nell'ambito del Programma Culturale 2014 della Associazione Scrittori Liguri “Il Gatto certosino”, presieduta dalla poetessa, scrittrice e critico letterario prof.ssa Rosa Elisa Giangoia).

AL CIMITERO In questo angolo sacro i cipressi sono liberi di guardare il cielo. I nomi sulle lapidi sono semi di ricordi per chi ha sofferto. I defunti sanno che il seme nella morte vive, il vento sospinge le nuvole cariche di polline sui fiori d’ignote scogliere.

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SONO Sono le prime ore del mattino. Una leggera nebbia ombreggia le case e il sole si nasconde nell’impalpabile velo. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi

CONTEMPLAZIONE Ecco, Signore, mi hai mandato questo disturbo agli occhi perché io finalmente trovassi nel silenzio di queste brevi pause d oscurità il momento giusto per restare con Te in contemplazione. Mariagina Bonciani Milano

Qui la speranza ha i colori dell’arcobaleno qui finisce il mio vagabondaggio! Orazio Tanelli

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 19/4/2014 In Italia, l’emigrazione politica da uno schieramento all’altro non è limitata e fisiologica come altrove; è massiccia e generata dall’ assoluta mancanza di valori nei protagonisti, guidati solo da bassi interessi di cassa e di poltrone. Alleluia! Alleluia! Nessuna vera riforma sarà mai possibile finché non si ripristina la moralità, fino a quando al vertice di ogni nostra azione non ritorna l’orgoglio di appartenenza e la fierezza nell’idea. Domenico Defelice


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UN NUOVO ROMANZO DI

ADRIANA ASSINI: LA RIVA VERDE di Marina Caracciolo

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MBIENTATO nel suo prediletto Medioevo, questo romanzo della scrittrice e pittrice romana Adriana Assini, appena pubblicato dall’editore Scrittura & Scritture di Napoli, ci porta a Bruges, nelle Fiandre, nell’ultimo quarto del XIV secolo. Non una Bruges la morta, come recita il titolo del celebre racconto (1892) dello scrittore belga Georges Rodenbach, ma, al contrario, una vivace città della Lega Anseatica ricca di contrasti, di fermenti rivoluzionari, di accesi colori (come le tinte blu del guado o quelle rosse della robbia dei tintori di stoffe), di vicende drammatiche e delittuose, di pericolose inquisizioni e di amori ardenti, avversati e infelici. Con la sua consueta capacità narrativa e per così dire scenografica, l’autrice mette in cam-

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po una variegata folla di personaggi: tintori, fornai, sarti, naviganti, osti, alchimisti, nobili e commercianti: costruisce così (come già nei precedenti Il mercante di zucchero e Un sorso di arsenico) un romanzo corale, a più voci, in una nitida rappresentazione dello scorcio di un’epoca – sordida, feroce e sanguinosa – dove un popolo giustamente ribelle mal sopporta la dipendenza dal re di Francia e anche le ingiustizie politiche, le angherie e gli arbitrii del suo signore, il conte di Fiandra Louis de Male. Ma su tutti costoro campeggia, nella storia della Riva Verde, la cosiddetta Compagnia della Conocchia, un gruppo di otto donne che hanno accenti e nomi di fate, le quali, non appena possibile, eludono la sorveglianza di padri e di mariti per riunirsi in luoghi segreti, alla fioca luce di una lampada ad olio, e là consegnare alla stabilità dell’inchiostro e di una pergamena i loro cosiddetti Vangeli. Nessun sortilegio o commercio col diavolo (di cui certo sarebbero subito accusate se fossero scoperte) ma soltanto innocui, antichi rimedi da tramandare, beneficî provati dall’ esperienza e dovuti a pregiate piante medicamentose come il vischio che tutto può curare, o lo zafferano bastardo per guarire la gotta e il quadrifoglio per debellare la febbre quartana, oppure l’iperico per vincere le insidie dei demoni, o ancora le foglie di noce miste a bargigli di gallo per risvegliare la passione coniugale. La più anziana della Compagnia, Greta du Glay, che maneggia il fuso come fosse una bacchetta magica, è anche veggente, e per questo talora le capita, con l’aiuto di qualche erba specifica, di abbandonarsi all’ improvviso ad una trance che le permette di scrutare con trepidazione negli eventi futuri. Seppure in disparte come il Coro nell’ antica tragedia greca, le otto dame seguono da presso gli eventi della città, le rivalità e i tafferugli fra i tintori del blu e quelli del rosso, le controversie economiche che oppongono Bruges a Gand con i disordini che ne conseguono; deplorano i


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tumulti, le impiccagioni e gli efferati delitti di piazza (talvolta vendette personali mascherate da avversioni politiche); così come partecipano con affetto e con saggi consigli alla vicenda amorosa della giovane Rose, perdutamente innamorata del bel Robin, e costretta invece da suo padre e dagli eventi a sposare un uomo che non ama. Ma sopra ogni cosa le donne di questa singolare Compagnia accarezzano un sogno che attendono con impazienza di poter realizzare: fuggire tutte insieme, una notte, verso un luogo misterioso, ignoto a qualsiasi mappa; una sorta di Terra di Mezzo o di Isola che non c’è. Là nessuno potrebbe più ritrovarle. Né potrebbero temere ipocrisie di preti o spade di armati. Nessuna tirannia di uomini. Soltanto una completa indipendenza e un pacifico, saggio autogoverno. E così il romanzo si rivela una storia di aspirazione alla libertà e alla giustizia, come pure, di conseguenza, una condanna dell’ inutile violenza, della follia della guerra, delle assurde lotte fratricide. L’evasione nell’ Altrove che le otto donne hanno in mente (e il loro pellegrinaggio a Santiago de Compostela ne diviene una sorta di prefigurazione, di prova generale) non rappresenta la fuga di chi

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non si interessa della società di cui fa parte, ma la volontà di conquistare un regno proprio, di ottenere in altra terra un ruolo che costituisca un autentico valore, un’autonomia e una sovranità che la Storia ha inesorabilmente negato, in ogni tempo, all’universo femminile, costringendolo in vario modo ad una condizione, fisica o morale, di sudditanza, quando non di vera e propria schiavitù. Nella suggestiva conclusione della vicenda, riuscirà la fiera Rose, ormai vedova, a sposare il suo Robin, di cui, dopo tante peripezie, è ancora innamorata? E le otto dame (rimaste in sette dopo la misteriosa scomparsa di una di loro) potranno davvero raggiungere all'insaputa di tutti la loro agognata "terra promessa", o invece, sotto il plumbeo cielo e l'umido vento impetuoso di Bruges, fra il lento fluire delle acque nei canali, torneranno, come sempre e per sempre, al loro consueto quotidiano filare?... Marina Caracciolo La riva verde. di Adriana Assini. Scrittura & Scritture Ed., Napoli 2014. (In copertina, Principesse in fuga, acquerello dell’ Autrice); pp. 183, € 12,50. Immagini: Pag. 33, la scrittrice e pittrice Adriana Assini; qui a fianco, un suo splendido acquarello: “Donna con orecchini”.

L’ESSERE FIAMMA ARDENTE Sentire una soffice carezza, vedere l’immenso, baciare la vita, amare l’uomo, avvolgersi nella tenerezza, accarezzare la felicità, sfiorare i pensieri, camminare nel vuoto, salire verso l’alto, ignorare il buio, rifugiarsi nel profondo dell’animo, esporre il vero, ecco quel che mi fai provare, quando tu, Fiamma, bruci Codesto Legno. Laura Catini


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ANTONIO ANGELONE E IL MOLISE di Leonardo Selvaggi I ON la vicinanza agli altri, lavorando insieme ci si incontrava ci si rettificava negli errori, si sapevano le necessità comuni. L’uguaglianza si dava per un fatto ineliminabile, non era concepibile che fra persone della stessa condizione ci fossero disparità. Passa tra l’uno e l’altro una continuità che è livellamento, scorrono rapporti di somiglianza, identità, desideri, pensieri allineati. Le differenze con i signorotti acuivano il bisogno di rompere le fratture esistenti, che facevano capire di essere persone di altra natura. Le carenze della gente di campagna risaltavano in modo drammatico davanti alle loro comodità e alla disponibilità di mezzi migliori. I vicinati fatti di piccole abitazioni si tenevano stretti, quando si era in pericolo ci si aiutava. Una comunicatività facile che portava quasi a confondersi e sovrapporsi, a divenire una stessa cosa. Si passava una vita insieme, a lungo andare veniva fuori un legame affettivo di amicizia profonda. Un continuo stato di necessità davanti alle limitazioni economiche, alle tristi evenienze di malattia rendeva rigidi, perseveranti e attenti: sempre viva la convinzione che l’uno poteva venire incontro all’altro. Sentimenti e caratteri bonari riparano le circostanze precarie: il forte amore verso la vita, tutto diventa protezione, animali, persone, masserizie, gli alimenti della terra, le piante che crescono.

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II Nelle comunità rurali dominava la fondamentalità quasi provvidenziale dell’istinto d’ amore. Felici gli animali che si cercano, si ritrovano. Ogni luogo della Natura appare meraviglia; il frenetico intreccio fa andare in delirio. La passione per il sesso in piena appartenenza si stringe, si allaccia nello stesso modo nelle piante che si attorcigliano fra di loro facendo ricami con fiori, i rami si tengono

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forti. L’ardore esclusivo attaccato alla propria compagna, è furente, salta, vive in ogni parte. Vediamo ancorale piante in lungo slancio dalle radici, attraverso la linfa fino alla chioma aperta, sono erette, vivono nella splendidezza dei ritmi dell’esistente. L’ unione che è armonia, spontaneità d’incontri, magnetizza la coppia, ferma, avvinta. L’amore che non si scioglie ce l’hanno pure i mobili che stanno in piedi, hanno sportelli, pieni di cose conservate, lucidi come felici. La legge naturale dal Divino messa fra esseri viventi insieme. I semi hanno un filo diretto che serpeggia invisibile dal limo facendosi pianta. Amore e matrimonio senza tempo che nascono dai primi sogni dorati. L’inclinazione istintiva è attrazione, simpatia, corrispondenza di sentimenti, forza magica. In un flusso si apre un passaggio nel petto, nell’interiore diventa ansia, leggerezza, sospensione, due presenze che si invadono a vicenda. Il matrimonio si sviluppa, si rinnova con orgoglio, che è entusiasmo, trepidazione, una ricchezza preziosa. Senza giocarci sopra, la convivenza coniugale nelle vecchie case dei contadini di altri tempi è vita. Ho visto dei coniugi guardarsi negli occhi, stretti nelle mani, mi pareva che si infiltrasse un filo continuo, ininterrotto di passione. Possesso di un bene, fedeltà nell’ amore, purezza, gelosia con animo fermo; una persona sola in amplificazione di sostanze e di energie nei giorni di fatiche che andavano a ritmo serrato. C’è oggi un’aria di fretta, la tecnologia spinge avanti come strumenti meccanici, senza senno, applicazione, pure la consistenza della vita non è presa nel giusto peso. L’ indissolubilità corrisponde al nobile, alto volere con cui Dio istituì il matrimonio. Il piacere sessuale a portata di mano, mercificato in tante forme ha affievolito il desiderio tutto personale di avere una donna tutta per sé. Si è tanto trasgressivi, attratti dalle inclinazioni lussuriose prese in libertà. In ogni occasione la donna è abbellimento galante per gli sguardi, anche nelle sedute culturali e politiche ha presenza eccitante, mediatrice di libidine, proprio quando insistenti e accanite sono le discussioni sui problemi di attualità, sempre impellenti, gravi


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e contorti. III Antonio Angelone si lamenta della scarsità dei mezzi e dei faticosi strumenti di lavoro, tutti congegnati con ingegnosità personale. Le arretratezze di ogni tipo, le campagne suddivise in piccoli appezzamenti che danno scomodità e lavoro con poco lucro si accompagnano con le amministrazioni dispotiche. Una specie di reclusione psico-fisica che sa di dannato destino, di fatalità che gravano sulla classe dei lavoratori della terra. Un andare e venire, uno scontrarsi con vacuità da cui nulla esce fuori. Le tristizie di una vita magra nel Molise e in tutto il Sud hanno dato sempre momenti di crisi. Giustizia si è reclamata in tanti anni, non volendo essere più spettatori, ma protagonisti con tutte le ferite profonde, subite in silenzio. Le zone più depresse che hanno vissuto estenuazioni e miserie sentono di essere pervenute a inizi di maturazione di esperienze per poter ottenere di più dopo tante lunghe attese. Ci si sente spronati e risollevati dietro i fervori di meridionalisti come Rocco Scotellaro. La laboriosità comincia di buon’ora, accompagnata da ansie e fiducia in se stessi. “L’alba è nuova, è nuova”, sopra le natiche fatiche erompono gli animi. Il mondo rurale come una grande proletaria rifulgente di entusiasmo procede con orgoglio verso un avvenire che vede aperto con orizzonti luminosi. “E’ fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi/con i panni e le scarpe e le facce che avevamo”. La poesia di Rocco Scotellaro tra idealità e azione ha dato esistenza al movimento dei contadini dell’intero mezzogiorno, scuotendo in modo decisivo potenzialità represse condizioni retrive di miseria e di soggezione. L’incuria dello Stato ha fatto essere pietre, tutto si è portato avanti con estremi sacrifici. Nelle opere di Antonio Angelone si avverte il bisogno di raggiungere tappe di vita più dignitosa e giusta, quasi un riconoscimento degli sforzi, mantenuti indomiti, perseveranti, senza mai deflettere dalle caratterizzazioni di equilibrio morale e di virtuosità perdurate di generazione in generazione.

IV Nel Molise la molta neve caduta ha fatto cupole intatte sulle forme delle case, manti gonfi di lana sulle strade. Un silenzio pieno comprime i vuoti, le permanenti attese nei cuori, sempre pronti a dare. I visi accesi. I ricordi si affollano, si fermano negli angoli, si stendono sulle pareti nei giorni d’inverno, vi aleggia intorno tutto il tempo avuto, ha sapore di pane di grano macinato dalla ruota di pietra: tutto porta l’odore della casa in ordine. Si mangia pane e coltello per dire che c’è poco; l’appetito produce gusto. E poi sempre la parlata del paese che è quasi un assaporare i suoni e un adagiarsi sulle cose significative, si vuole prendere in bocca quello di cui si ragiona per mettere dentro l’umore di se stessi. Un connubio vero tra quello che fa il luogo e quello che vicino sta alla persona. La forza maschile domina le femmine soggette sanno fare tutto, i polsi nodosi sono resistenti per i lavori, tutti fatti a mano. Diventano virtuose con l’ago e l’uncinetto, l’abilità magica della fata. I ricami sono intrisi e caldi di sogni, il fiato silenzioso si intesse col filo per farlo profumato e compatto, quasi vivificato. La bocca si inclina sulle forme variopinte dei disegni di lana, sulle rose di filo che si uniscono in successione simmetrica; il pensiero parla tacito, distratto nella casa. Le parti intime strette da impenetrabile pudicizia, uno scrigno colmo di tesori. Il paese è piccolo, si sanno i fatti delle persone, la comare del cuore e le amiche del vicinato raccontano quello che sentono dire. Un realismo minuto si vive ogni giorno, i particolari balzano trepidanti, cose e persone, desideri fermentanti, gli animi si concatenano, la voce emozionata smuove l’ interiore. La gente viva che passa per tanti pensieri con veloce immaginazione. Patimenti e nel contempo felicità intime, propri dei proletari, le figure contrite e remissive, schive e in accensione, le stesse di Giovanni Verga e di Danilo Dolci. Le case amiche se ne stanno a gruppi, l’una in faccia all’altra, si guardano con gli occhi dell’unica finestra posta sull’ architrave. Tutte diverse, come le persone dai


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segni propri. Una lunghezza di storie tramandate che si infioravano di sapore di leggenda. V Il fresco delle sere estive nella penombra delle strade, una tenerezza amorosa dilagava sopra le sottili emozioni: sentire le voci femminili: quelle espressioni che erano vibrazioni di ogni punto del corpo. Un parlare di nascosto, taciti invisibili incontri di sguardi e di accenni. Il cervello si abbaglia guardando l’ esuberanza delle ragazze avventurate sull’ altalena appesa ai rami dell’ulivo, sbilanciandosi liberamente in ebbrezza, disarticolate con le gambe denudate, le chiome scarmigliate, il viso rubicondo, pazze di piacere agreste il giorno dell’lunedì dell’Angelo, con le ciambelle lucide cotte attorno alle uova, la minestra sapida di finocchietti selvatici, le torte dal ricco strato dentro di formaggio e salsiccia, le focacce infarcite di foglie di cipolla fresca e di uva passa. Angelone pensa che fra poco non ci sarà spazio sui marciapiedi; io che sono l’autentico pedone, che mai desiderato la patente di guida, passo stretto lungo i muri. Le macchine sono aumentate a vista d’ occhio, la ragazzetta s’infila dentro, sul manubrio salta come capretta, accompagna le curve con l’inclinazione della testa; solo piaceri e divertimenti, i piatti non li vuole lavare, la casa puzza di chiuso. Adulatrice esibizionista di furberia, mascherata da ingenua adolescenza al primo sboccio. Le persone camminano poco, si allontanano dalle campagne: case nei piani alti, ampio lo stomaco, aperto sempre a prendere ogni tipo di mangiare sofisticato. Avidi di carne gonfia di animali che non vanno all’aperto sui prati a brucare l’erba, chiusi nelle stalle o nelle gabbie, funzionanti appartati meccanici. VI Il pudore e il matrimonio nei paesi del Molise tenevano legato tutto il posseduto. Non c’ era bisogno che la suocera guardasse il lenzuolo disteso all’aperto, fatica ci voleva ad aprire i petali del fiore che il profumo resistente teneva geloso di se stesso. Il direttore

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di “Sentieri molisani”, come fasciato abbraccia tutto il Molise, d’inverno tutto innevato, d’estate con un verde aspro fra monti e valli. Venafro, Fornelli, Rocchetta nuova. Conosce le differenze tra città e i piccoli paesi del Mezzogiorno, il passato vissuto con prudenza e le poche cose guardate con assiduità. Gli anni sono andati avanti, lo spazio si è allungato alle spalle, ci si guarda intorno con un certo timore, in cerca di sicurezza. La solita storia di quelle cose che non si possono comprare. Si annidano dentro di noi, ricchezze che farebbero nuovo il mondo delle persone. L’ egoismo è una barriera di cecità e di malvagia acrimonia verso gli alteri. I principi, che tanto calore umano detengono, potrebbero immettere in ciascuno fiamme di vita, benessere totale come flussi di felice comunione. Il luogo circoscritto, avvolto dai sentimenti, tutto bello, lo prendi nelle mani, lo guardi da ogni parte, al sole, fra le tenebre, viene incontro, a volte pare che si dilegua, tra persone, animali e la Natura intorno in un amplesso di ardore dionisiaco. Un solo volto, tante braccia, si espande, va incontro agli abitati sparsi per la regione. Colli al Volturno, Macchia d’Isernia, Pietrabbondante, Agnone. Sensazioni profonde si hanno durante la pioggia, stando nei paesi del Mezzogiorno, senti di essere all’ aperto, cielo e terra fluidificati, quasi una purificazione prende tutte le case. Il paese natio di Angelone durante la pioggia si ravviva, tutto si smuove apparendo in forme autentiche, antiche, lontane nel tempo. Soltanto Forlì del Sannio con le sue storie, i suoi costumi: siamo ritornati alle sue origini con la sua gente arcaica, in stratta simbiosi tra luoghi diversi fra di loro, risplendenti di angoli di vita. La pioggia annulla le dimensioni, attornia lo spazio proprio circoscritto. Le lontananze del cielo, che vedono l’uomo cellula vivente dispersa, si sciolgono. Sotto la furiosa pioggia le raffiche di colate di acqua all’ozono. La terra porosa inzuppata si sazia, la terra irrorata ci chiude nel recinto più vivo. Le piante le vediamo muoversi. La vita dell’uomo, un grande calice che sente tutto quello che c’è, il mondo è tutto in un quadrato, intercomunica-


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bilità piena. Le case segmentate dalla caduta della pioggia si fanno baracche e noi siamo affacciati sul limitare, le persone si fanno coabitazione di contatti. Antonio Angelone e la passione per la sua terra si sentono fermentare nelle pagine di poesie dialettali. Forlì è nella sua integrità, le parti più intrinseche le senti dentro. Tutto il paese e la sua gente in folla al mercato, il dialetto ha espressività sensuali. La commistione delle persone accodate, sentendo il calore di chi è davanti. La spinta delle femmine prosperose e vivaci stringe in attrattive. Per l’intestino dello spazio, che tra le bancarelle si allunga, le donne fascinose, debbono comprare per abbellirsi, riempire i cassetti, ornare la casa. Lo sguardo a uncino va dove vuole, squadra le forme, seleziona e si mette dove la rosea morbidezza si gonfia. L’autore della commedia “Il matrimonio” ha lo sguardo trasognato, la sua sensibilità si acuisce. Le gocce sospese per l’aria e sulle superficie riflettono la lucentezza mattino purificato, spandono iridescenze dappertutto. La semplicità, bontà senza malizia, la bellezza della figura umana e del suo ambiente, si vorrebbero vivere tutti i momenti presenti e passati in una continuità di rapporti. L’ incomunicabilità e l’anonimato dissacrano i sentimenti dell’uomo che vuole essere capito con i suoi problemi. Le opere di Antonio Angelone mirano ad una pi vera identificazione di se stessi, al di fuori delle eccessività di una civiltà automatizzata, ad una vicinanza con i principi morali, alle essenzialità che ricostruiscono concretezze, equilibrio per una sana, costruttiva cultura della vita. Leonardo Selvaggi

EVEN AT THE COST OF SEEING YOU CRY to Riccardo Carnevalini Milan My heart is torn from the anguish Whilst I do not speak to you, resolved to punish your whims: eating, playing, being with others,

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your selfishness. You say to grandma that you would like to make peace with me, apologize to me. But you get a bit closer, you look at me without saying a word and you walk away. You're still a child and you should sweeten your character. How can I make you understand that it is not right you should always win, that all you ask, is not good that the unbridled pride obscures and life makes you bitter and even kills. You still do not distinguish right from wrong, the good and the bad. It's up to us to moderate our desires. even if I have to see you cry, cry for a long time Dominic Defelice Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi - Melbourne, Australia.

TRAMONTO Signore, si fa sera, lo vedo, lo sento, lento ma inevitabile si avvicina il tramonto. Perciò Ti prego, Signore, fa’ che le tenebre scendano lentamente ed io ancora a lungo possa godere di questo mondo che è bello e che noi con egoismo folle distruggiamo, di questa vita che è bella e che noi nei momenti di dolore disprezziamo. Fa’ che il tramonto sia per me lungo e dolce, Signore, e che ogni nube serale abbia un orlo dorato. Mariagina Bonciani


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Comunicato STAMPA XXIV Edizione

CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it organizza, per l’anno 2014, la XXIV Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, come sopra, lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2014. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in eu-

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ro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia-Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2013). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito.


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I POETI E LA NATURA - 31 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

I GABBIANI NELLA POESIA DI VINCENZO CARDARELLI (1887- 1959)

S

cagli la prima pietra il poeta che, accingendosi a scrivere una poesia sul mare, o nel corso della scrittura di tale poesia, non abbia pensato, o si soffermi a pensare, ai gabbiani. La presenza di questi bianchi uccelli dalle ali lunghe ed appuntite, che a terra sembrano comuni uccelli ma quando sono in volo sembrano solenni e più leggeri dell'aria stessa che li sostiene, sembra quasi obbligatoria, in un paesaggio marino che si rispetti, sia che il mare sia in tempesta sia che si trovi in regime di bonaccia. Ma non è determinante che la presenza di questi fortissimi e instancabili volatori sia immaginata soltanto sulla superficie marina o sulle coste, perché, com'è noto, questi uccelli, onnivori, sono presenti anche lungo il greto e le rive di fiumi e torrenti, che

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spesso risalgono anche per molti chilometri, inoltrandosi fino a raggiungere bacini interni. Quasi sempre, quando si tratta di un poeta ad occuparsi dei gabbiani, essi vengono descritti come elementi caratteristici di un paesaggio, buoni e paciocconi (nella realtà sanno essere, spesso, “feroci”...) e che vivono senza problemi e senza impacci. Al massimo il poeta può valicare il limite dello sterile descrittivismo fine a se stesso caricando questi uccelli di sogni e desideri di libertà e di evasione. Sogni che, ovviamente, non sono i loro. E che spesso neppure gli autori sanno bene di che cosa si tratti, limitandosi comunque ad un'ansia sentimentale, insopprimibile, di libertà assoluta e totale. A volte è tutto un gruppo (o colonia) ad essere incaricato di tradurre in realtà tale sogno di fuga e di liberazione...Ma più spesso tale compito viene assegnato ad un singolo, e ben determinato, uccello. Il gabbiano diventa, così, il simbolo di un'aspirazione fortissima alla “libertà”, nel miraggio di una vita individuale felice e senza limiti e legami di sorta. Col pericolo, non trascurabile, di scivolare nella retorica... Piuttosto diverso il rapporto del poeta viterbese Vincenzo Cardarelli con i gabbiani. Apriamo il volume “ POESIE”, edito da Mondadori nel 1996, e leggiamo la poesia Gabbiani: “ Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace. Io son come loro in perpetuo volo. La vita la sfioro com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch'essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca.” Non credo sia necessaria una parafrasi del testo, per cogliere quello che è il succo del messaggio cardarelliano... Nato il 1° maggio 1887 in provincia di Viterbo, e precisamente a Corneto Tarquinia (poi Tarquinia), figlio illegittimo di Antonio Romagnoli, gestore del bar della Stazione,


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ebbe un'infanzia infelice, soprattutto perché la madre, Giovanna Caldarelli (con la elle), se ne andò di casa quando lui era ancora un bambino. Una menomazione al braccio sinistro, la solitudine, gli studi irregolari, ma soprattutto la traumatica, precoce privazione dell'affetto materno, contribuirono a far tracimare la sua amara infelicità al punto tale da indurlo a scapparsene di casa a diciassette anni. Andò a Roma, e nella capitale esercitò i mestieri più svariati, fino ad approdare al giornale quotidiano Avanti, dove dal 1909 in poi si sarebbe svolta tutta la sua carriera di giornalista... da correttore di bozze fino a redattore. Suoi maestri, nella sua formazione culturale da autodidatta, sono stati Leopardi, Baudelaire, Pascal e Nietzsche, ma la sua poesia è stata sempre aderente alla realtà dell'uomo e della Natura, senza filosofemi tanto roboanti quanto sterili, e senza illusioni facili ma perniciose. La sua forma espressiva è semplice e comprensibile, quasi discorsiva, ed a tratti “narrante”. Ha trascinato la sua vita quasi sempre nella solitudine, e solo e povero è morto a Roma il 18 giugno 1959, al Policlinico. Unico faro nella sua vita vagabonda e malinconica (se proprio un “faro” vogliamo trovare) è stata certamente la “Civiltà Etrusca” alla quale ha dedicato non solo la sua intelligenza ma anche il suo rigore morale. Tra le sue numerose opere non possiamo non ricordare, dal primo volume in poi, Prologhi (Milano 1916) : Il sole a picco (Premio Bagutta 1929), Poesie (Roma 1936 e rist. 1942), Solitario in Arcadia (Milano 1947), Villa Tarantola (Milano 1948, Premio Strega), Invettiva ed altre poesie disperse Milano 1964), Gabbiani (a cura Mondadori, Milano 1998). Tornando ai gabbiani di Cardarelli, è facile individuare una indispensabile ricerca di “pace” interiore, di fuga dalla continua burrasca alla ricerca della “quiete” per chi è costretto a “volare” perpetuamente, sempre sulla difensiva, e sempre alla ricerca, limitandosi ad afferrare il “cibo” quasi alla superficie dell'acqua se non al suolo, e cioè senza mai riuscire

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a sostare e penetrare a fondo nelle varie situazioni della vita, specie quelle appaganti. Quindi nei gabbiani, e cioè nella Natura, Cardarelli ricerca non tanto la “libertà”, quanto la “pace”, non tanto un ipotetico sogno di affrancamento quanto una situazione di tranquillità e di equilibrio. Luigi De Rosa

L’ALTALENA DELL’ANGELO Da oltre nove anni immota langue l’altalena dell’angelo piccino, nell’angolo riposto del giardino. Da quel tempo lontano e pur vicino, gracidanti nel divenir dell’onda, silenti son gli appigli rugginosi. Ma dal piedritto ormai corroso e scabro i canapi pendenti, già sdruciti, sono ravvolti da sarmenti in fiore di gelsomini aulenti. Miracolo e stupore! L’assicella di scuro legno antico. ruvida, rugosa, scortecciata nell’aria marzolina s’è ammantata di capelli di muschio, intatto, fitto, carezzevole al tatto e smeraldino. In timido flautare appena in cenno, passeri e capinere posan lievi, il vello delicato a non gualcire. Rimpiazzar la seduta? Oh, non avvenga! D’angelo senza peso l’assicella solo a lui spetta e gliela serbi il tempo, così, in velluto d’erba tenerella. Zefiro solo or la sommuove e culla e nell’afflato ne blandisce il manto, come un sospiro d’angelo di vento, mio inesorabil pianto. Serena Siniscalco Milano, marzo 2013 (L’altalena del nipotino, suicida a 12 anni)


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(Disegno di Serena Cavallini)

Recensioni LUIGI DE ROSA FUGA DEL TEMPO Genesi Editrice, Torino, 2013, € 11,00 Una lunga rivisitazione del passato, per cercarvi le ragioni segrete del proprio vissuto, può definirsi questo nuovo libro di Luigi De Rosa, Fuga del tempo, vincitore del Premio I Murazzi 2013. L’incipit è colloquiale: “Tranquilli, amici, non c’è fretta,/né ansia, tanto andiamo tutti,/ inevitabilmente,/chi prima, chi dopo,/verso la foce” (Verso la foce). Presto però l’andamento si fa più pensoso e la voce del poeta s’incrina, in poesie quali Occhiali neri da sole, in cui De Rosa ricorda il giorno nel quale i suoi genitori si separarono: “Mi rivedo bambino spaurito - / tenuto nervosamente per mano / da mio padre - / offuscare di lacrime, in silenzio, / i miei occhiali da sole soffocanti / mentre mia madre si allontanava / per sempre”. Un evento lieto della sua vita fu invece per De Rosa quello dell’approdo in Liguria, che divenne la sua patria ideale, luogo di pace e di fecondo lavoro. Si veda Giardino ligure dopo la pioggia, che ha un pensoso explicit: “E io, alla tastiera del computer / tra un mare di carte e di libri, / rimango, consciamente affascinato, / ancora e sempre, ad ammirare / questo caleidoscopio infinito / della Natura. E penso // al perché di tutto questo, / ed a me, a noi tutti, / agli infiniti Universi…”. Pensosa è anche una poesia come Cos’è una rosa, che reca una citazione da Giorgio Caproni: “senza essere mai «riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa»”

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Tema privilegiato di questa silloge è quello dell’avanzare dell’età, con tutti i mali che tale avanzare comporta (Si leggano: La signora senectus mi ha ingannato; C’era una volta il futuro; Ancora un segno della giovinezza); anche se il sentimento della vecchiaia è addolcito da un forte amore per la natura, nella quale il poeta si trasferisce e alla cui vita partecipa. Si veda, ad esempio, Ritorno dal pascolo in Val d’Aveto: “Assomiglia al mio cuore questa valle: / la nuvolaglia inghiotte la foresta / d’ oro e smeraldo, / minaccia temporali violenti, / ma dopo qualche ora / il sole, nuovamente, abbaglia e brucia”. Si veda anche da Sera in montagna: “Verso sera / da una bianca cappelletta su una balza / tintinna il campanino delle ore. / I paesetti adagiati nelle valli / si addormentano in pace, a poco a poco, / lievemente, senza inutili rumori”. Frequente è poi in queste poesie di Luigi De Rosa la presenza del padre, che troviamo in liriche quali Caro papà; Papà, sempre più spesso mi sorprendo; Ma papà, tu continui a sorridere…, animate da un affettuoso ricordo nei confronti del genitore. Mentre la prima parte di Fuga del tempo, intitolata Verso la foce, è prevalentemente rivolta al passato, dal quale riceve spunti e nutrimento, la seconda parte, Intanto … il mondo va è essenzialmente radicata nel presente, da cui coglie spunti e occasioni di canto. E’ quanto emerge da poesie come E dopo Fukushima?, dove leggiamo: “Come si fa / dopo l’ incendio, laggiù, ai reattori / a garantire un futuro a figli e nipoti?” o Human destiny, dove è scritto: “Meglio non agitarci troppo, / meglio essere tolleranti fra noi, / e dedicarci a questo pianeta / ed a questa esistenza, / per renderli più equi, / godere sanamente / della bellezza…”. Si veda anche Alluvione a Monterosso, 25 ottobre 2011, cronaca di una catastrofe: “Oggi, però, la «realtà oggettiva» / mi schiaffeggia. / Mi umilia vedere i telegiornali / (strade e ferrovie interrotte) / mostrare il «dramma della Liguria»”. Così la “storia” entra nella poesia e la arricchisce del suo apporto. “Fino a quando le rondini partiranno / e torneranno / … / ci sarà ancora speranza” dice De Rosa in una di queste poesie: e il suo è un auspicio e una fede nel futuro in cui forse ci è dato di trovare una via di salvezza. Elio Andriuoli

GIANNI RESCIGNO UN SOGNO CHE SOSTA Genesi Editrice, 2014 - Pagg. 160, € 16,00 Il canto della sera La poesia di Gianni Rescigno non tradisce mai:


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splendido esempio di coerenza e fedeltà, ha il timbro della voce familiare, che subito riconosci e con gioia ti disponi ad ascoltare. Come amici del cuore, i suoi versi ti vengono a trovare ogni giorno-quasi sempre verso sera, sul primo tramonto-e con amabile dolcezza raccontano, confidano, consolano, interrogano. Quando se ne vanno, ti senti più ricco, pronto ad accettare la fatica del giorno trascorso e il nero della notte che viene. Così la più recente raccolta di Rescigno (UN SOGNO CHE SOSTA, Torino,Genesi, 2014) è la nuova tappa di un lungo cammino che non smarrisce mai la sua direzione ma, anzi, di tratto in tratto, si fa più sicuro e convinto. Vi ritrovi quell’originale impasto di lirica ed epica che è il marchio dello stile. Vi ritrovi i toni fraterni e paterni-quasi sapore e aroma di pane fatto in casa-di chi ha tagliato il traguardo della saggezza (i vecchi…/ anche se sorridono piangono./ Stagione di verità è la vecchiaia) eppure sa vivere ancora di attesa (sa concedersi / lunghi respiri di mare / prima del ritiro del sole). Vi ritrovi i temi conduttori: l’esistenza, sacro mistero intriso di durate e passaggi, essere e divenire (sogno che sosta);il tempo, quindi, non percepito per teorica astrazione ma nel concreto battito dell’anima e della natura (non rammento l’anno/ma il sole sì), nel suo perpetuo tendersi fra speranza (il lume della speranza) e ricordo ( perché da vecchi il tempo…/ svanisce e si vive di pensieri); la memoria, quindi, tenera e malinconica, scrigno di sconfinata ricchezza interiore, anche quando porti con sé il dolore di una perdita, di una partenza senza ritorno, e dirimpetto la fede in Dio, quieta assicurazione di infinito;infine, a cornice, il macrotema della poesia, confermata nella convinzione della propria alta funzione (alla tua anima/ ho lasciato le mie parole; i poeti… / vegliano i mali/ della terra, li trasmettono/ al cielo: i poeti già da vivi… / li vedi camminare tra le stelle) come della propria intrinseca fragilità (quasi inafferrabile fiore / vola la Parola; farfalle / verso il sole /…in volo / le parole). Come un sublime canto della sera, la poesia di Gianni Rescigno svela la pienezza e la bellezza dei tramonti. Giannino Balbis

GIANNI RESCIGNO UN SOGNO CHE SOSTA Poesie (Prefazione di Mariella Bettarini. Intervento critico di Sandro Angelucci. In copertina: Un sogno che sosta, di Domenico Severino. Acrilico su cartoncino, 1989). Genesi Editrice, Torino, marzo 2014; pp. 156; euro 16,00. Nella poetica di Gianni Rescigno, il tema della vi-

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ta intesa come “sogno”, come esperienza concreta e irripetibile eppure in certo qual modo solo apparente – vicenda che a suo tempo si conclude per spalancarsi su una realtà nuova, vera e imperitura – si affacciava già per la prima volta in maniera evidente una decina di anni fa nella sua raccolta Dove il sole brucia le vigne (Genesi, Torino 2003). Percepibile fin dall’epigrafe iniziale (La morte dietro il sogno /dietro la morte il sole /dietro il sole il ricordo), diveniva più manifesto in versi come questi: “Quando finirà il sogno /ti prego prendine i frammenti./Continua ad imbastire /sul gran lenzuolo del tempo /sole luna terra” (Quando finirà il sogno); oppure “Se fossi creatura /con poteri d’impossibili cose /inseguirei il nulla./Mi piacerebbe farlo parlare./Domandargli se sempre /si finisce la vita sognando” (Se fossi padrone). Ebbene, in questa nuova silloge l’autore fa di questo tema così misterioso il vessillo che identifica e trasporta con sé tutti i suoi versi. Nella prefazione, acutamente Mariella Bettarini individua l’intimo pensiero del poeta e ad un tempo l’atmosfera che avvolge e caratterizza tutte le poesie di questo libro: “Che procede nel suo lucidissimo dire, nel suo talora malinconico, nostalgico canto, nel suo sentire intenso, nel suo pensiero dispiegato, nel suo poetare ricco d’amore, di ricerca, di verità, di dolore (Sono le lacrime a scrivere le parole); ricco di presenze amorose e fraterne (Nomi nel silenzio), ricco di animali, piante, totale Natura”. Ecco, è tutto il mondo di Rescigno che si ripresenta dunque puntuale, sempre identico e sempre diverso; questo “melanconico scialo di risorse poetiche ammassate nei sili della memoria”, come scrive con suggestiva immagine Sandro Gros-Pietro in quarta di copertina. “Da dove venimmo /là torneremo: questa /vita un sogno che sosta /tra acqua e vento /caduta di foglie /e festa di fiori”. Con questo incipit che dà il via alla raccolta, il poeta sembra impostare una sorta di religione del mistero, dove l’Uomo e la Natura disegnano insieme una costellazione che parte dal sentimento e nello stesso tempo lo vivifica, e dove ogni punto che vi sia tracciato è un nodo luminoso, uno svincolo dell’arrivare e del ripartire nell’ itinerario della sua esperienza interiore. E la Natura, come sempre nei versi del poeta di Castellabate, è il centro del cerchio, lo specchio e insieme l’origine di tutto. Lo sottolinea nel suo intervento critico Sandro Angelucci: “E così non potrebbe essere se il suo sguardo non fosse rivolto a tutto il creato: ai pettirossi, ai boschi di carrubi, agli stormi delle rondini, alle canzoni dei cani, ai petali dei papaveri, e con lo stesso amore, all’amica luna, alle indica-


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zioni dei venti, al fragore del mare”. In questa scrittura divenuta con gli anni sempre più affinata e sobria, si annida ora un senso nettamente percettibile di trasparenza, di singolare rarefazione, dove la visione delle cose appare avvolta da una trina sottile, dolce e impalpabile: “Mi guardo mentre afferro per le ali la vita /e sono quasi luce appannata dall’ombra, /fenomeno di pensiero, doloroso corpo senza peso” (Somiglio al silenzio). Sembra di assistere ad una progressiva perdita di densità, di materiale concretezza: la vita è “afferrata per le ali”, come fosse leggera, sfuggente farfalla in volo, e il poeta diviene lui stesso una luce attraversata e resa opaca dall’ombra, un corpo senza sostanza e gravità tramutato in pensiero e dolore. Così, altrove, l’intera umana esistenza è riassunta in un solo nome che potrà continuare ad esistere in un soffio di vento o nella luce tenue di un’alba: “Tu sopravvivrai se il mio nome /lo ripeteranno i venti /che sfioreranno la luna /e il respiro, la voce, lasciati /nei fiori e nelle parole di carta /si rianimeranno quando le illuminerà /l’alba di domani” (Tu sopravvivrai). La vita, vista sempre più da lontano, dalla prospettiva dell’Oltre, fra “le voci affievolite e le scintille rare dei ricordi”, è tuttavia amata e rammentata con viva commozione: “Non avranno/più primavere gli anni./Siamo rami nudi/con scorza spaccata/da ferite bagnate./Nella terra dei sogni /sbocceranno i nostri fiori./Non è più per noi /il canto dell’amore./Ce lo ricordano /nelle notti chiare /gli usignoli” (Anni senza primavere). Il pensiero si sdoppia costantemente nelle dimensioni dell’attesa e della memoria, lasciando un senso acuto di incertezza accorata e sospesa, di gracile inconsistenza: “Fragili creature, /sempre in compagnia delle foglie, /nel sole e nelle tempeste” (Fragili creature). C’è sempre, però, in Rescigno, un antidoto, un valido elemento compensatore di questa angosciosa provvisorietà: l’apertura alla speranza, lo sguardo fiducioso verso un “cielo alla finestra” (come recita il titolo di un’altra silloge di poesie pubblicata in questi ultimi anni) che impedisce all’ombra, al buio, insomma al troppo greve sconforto, di prevalere. La fede sicura in una rinascita dell’esistenza, così come eternamente si rinnova rinascendo la sua amata Natura, non abbandona il poeta e lo sostiene: “La vecchiaia /si aggira tra le stanze. /Ha la lanterna /della giovinezza nello sguardo. /I sogni portati via /da un vento che non s’ode /vanno a rifiorire /in altri prati” (In un angolo gli anni). Ecco dunque ripresentarsi ai nostri occhi questo sogno che sosta, questo pesante sogno di un viaggio, come il poeta lo definiva in un’altra raccolta di poesie, sempre contemplandolo nell’aspettazione di

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una realtà definitiva senza più confini temporali né sofferenze né dubbi né disinganni: “Il tempo è vento. /Apre finestre ogni giorno. /Aspetti che spalanchi l’ultima /perché ti affacci e indietro /guardi su ciò ch’è stato /e avanti su ciò che sarà” (Il tempo è vento). Ci si accorge allora, nell’attenta lettura dei versi, che, in accordo con la spirituale profondità dei contenuti, la parola stessa di Rescigno diviene via via più pura: sempre meglio temperandosi e trasfigurandosi in una limpidezza essenziale, mentre si distilla e si adegua di volta in volta per dare sostanza e forma ad un colloquio continuo, mai effimero, con tutto se stesso e con tutte le creature che accompagnano la sua incondizionata passione per la vita. Marina Caracciolo

ROCCO CAMBARERI DA LONTANO Le petit moineau, Roma 1970, Pagg. 32, lire 800 Rocco Cambareri, di Gerocarne (Catanzaro) classe 1938, è maturato nutrendosi di poesia e di pittura, frequentando artisti come Geppo Tedeschi, Francesco Boneschi ed altri; abbiamo notizie di sue esperienze professionali come insegnante, a Roma prima, e in Cile a partire dal 1968. Apprendo da Pomezia-Notizie (gennaio 2014) della sua dipartita avvenuta in data 6 novembre 2013 (a Vibo Valentia); fraterno amico del Direttore, il quale, proprio nel 1968 gli aveva dedicato il saggio critico ‘Un silenzio che grida’. Nella presente occasione spero di onorarne la memoria attraverso le mie impressioni ricavate dalla lettura della sua raccolta poetica, Da lontano. L’incipit recita: “Il nostro smarrimento/ è simile a schianto/ di passero che picchia/ contro vetro per azzurro.” (Epifania d’amore). Il suo è un procedere umile, quanto descrittivo e musicale, come una preghiera. La sua poesia si rivela intima, in cui si auto-relaziona o si rivolge a un tu colloquiale osservando gli accadimenti nel mondo e desiderando proiettarsi nell’infinito crono-spazio, sia della salvezza, sia della dannazione. La meditazione lo conduce a dialogare con l’ombra del padre con “mustacchi/ alteri e lo sghembo/ cappello sul tuo capo” (pag. 11), che osserva attraverso le fotografie; ora anche il padre è un cantore dell’oltretomba, come pure la nonna che non racconta più favole intorno al braciere. Commenta il Poeta: “Allora vivevano i morti,/ ora muoiono i vivi.” (12), sentenza questa che segna una profonda spaccatura tra i due tempi; e non eravamo ancora ai giorni nostri del Terzo


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Millennio! Si interroga e considera la solitudine che accompagna l’uomo e solo al pensiero di una stella scesa dal cielo, il Nostro si sente confortare. La sua esperienza d’oltre oceano è avvertibile in una località lambita dal Pacifico “tra copihues:/ nel Cile australe che sotto/ arde e la crosta/ sussulta incorreggibile.” (15). Il suo stato di emigrato, di esule, esaspera il sentimento del bisogno, della fratellanza. In particolare il ‘due novembre a Santiago’, sente pesante il cuore, sente d’essere vicino agli ultimi della scala sociale: il lustrascarpe, il barbone; ben consapevole che Caino serpeggia ancora fra noi. Il suo pensiero vola lontano alla sua Patria, alle lucciole e alle zagare; e si sente rinascere. I lavori dei campi diffondevano suoni che equivalevano a musica. Adesso è lacerante la distanza fisica e cronologica che lo separa dalle sue origini: “Ora soliloqui e trasalimenti/ per eco qualsiasi di pianto/ sono mia terraferma.// Forse mai più guarirà/ il vecchio fanciullo.” (21). Quanta tristezza c’è nell’ ossimoro del “vecchio fanciullo”, che non si riferisce al vecchio che si sente tornare fanciullo; ma si riferisce, a mio parere, al giovane che egli è e che vive dentro di sé la condizione del vecchio. Rocco Cambareri usa un tu confidenziale rivolto ad una “madonna/ dipinta nei graffiti.”, col cuore in mano, con la gioia di sapere ancora giocare come un giovane, innamorato di una fanciulla che lo abbaglia col solo sguardo e lo tenta. Una delusione d’ amore, forse, cui oppone una allusione greve: “Puro miraggio è il dono/ del tuo ventre vasto/ che accarezzavo tenero/ marmo da levigare.// Ora so che rechi solchi/ d’innumerevoli arature.” (27). Si alternano fasi di illusioni e speranze, e un cuore fatto a pezzi, sia per amore di una donna, sia per l’amore del suo Sud. Volge lo sguardo alla “fanciulla andina” L. C., ma l’ultimo suo pensiero paradigmatico è per la sua Terra, nel ricordo di una vita povera “senza Amore, senza Dio.”, al quale chiede perdono. Non vorrei indugiare, ma per quanto possa essere attuale l’accenno, costato che il nostro poeta varca i confini nazionali all’età dei trent’anni, come a dire che il fenomeno della emigrazione nostrana, soprattutto dalle regioni meridionali, ad oggi, non si è arrestato. Rocco Cambareri con Da lontano, dà voce a sentimenti contrastanti che convivono in tante persone, le quali invecchiano oltrefrontiera. I sentimenti della lontananza sono sempre struggenti, conflittuali, e non è mai sopito il calore che ha riscaldato i primi anni, che sono quelli veri che forgiano corpo e spirito. Il Poeta leva dal profondo dell’animo quella voce che tarda a scomparire ma che deriva dall’avere vissuto un humus territoriale e culturale dove la necessità si fa virtù. Cari diventa-

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no i ricordi, pur minimi, che riportano al calore che manca, ai suoni e ai colori che hanno accompagnato la propria crescita e i propri sogni, che riportano al tempo che non torna. Tito Cauchi

THEMISTOKLIS KATSAOUNIS PAESAGGI IMMENSI DELL’AFFLIZIONE Aletti Editore, Villanova di Guidonia (Roma) 2013, Pagg. 76, € 12,00 Un cielo scuro, carico di una turbolenza spaventosa, sovrasta un paesaggio appena riconoscibile in una città, per via dei tetti e di due alte gru. Questa illustrazione di copertina che evoca la visione di Paesaggi immensi dell’afflizione, suggerisce bene il titolo della raccolta di racconti di Themistoklis Katsaounis; opera tradotta dal greco da Giorgia Chaidemenopolou. La nota critica di Andreas Kounios sottolinea la valenza esistenziale del giovane autore, la presenza del dolore (afflizione) tuttavia, assicura che “non manca mai il sogno, una scintilla di sogno”, che trasforma la prosa verbale in pura poesia. Infatti si tratta di diciassette brevi racconti, ciascuno poco più ampio di una pagina; ciò mi suggerisce non semplici racconti, “brevi”, quanto dei flash intensi che dalle profondità interiori portano in superficie le emozioni, e prima che esse svaniscano vengono fermate scolpendone i titoli a carattere cubitale a piena pagina. L’andamento assertivo e a volte contraddittorio, mi dà l’impressione che il Poeta (così preferisco riferirmi all’autore), si affidi alla iniziale emozione, colta ed espressa, senza ulteriori discernimenti. Questo, mi pare in linea con la genuina traduzione, che spiegherebbe anche le piccole sgrammaticature, come pure talora l’inversione dei generi maschile e femminile, o del plurale e del singolare dei pronomi personali, che nulla tolgono al senso. Themistoklis Katsaounis asserisce dell’esistenza del caos che imperversa nell’universo e nel microcosmo individuale; ma con la convinzione che un rimescolamento porti poi al sereno; e poi ancora al disordine. Ha la consapevolezza della funzione profetica o catartica dei poeti, o della loro pura denuncia se non il rinchiudersi dentro se stessi; oppure nella confusione si rivelano grandi artefici, così “Rimbaud, ubriaco in un bar di Parigi, compone le sue poesie immortali” ed “Edison scopre la lampada”. Nella turbolenza dei pensieri ammette che ci sorregge il ricordo di un passato che desideriamo rivivere o che si vorrebbe governare. L’afflizione ci rende figli dello stesso padre e fra-


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telli tra noi, come pure cittadini del mondo, superando frontiere e sospetti. Il Nostro, da fanciullo, sognava di volare per i cieli intorno al pianeta, solcava mari e oceani e si beava della visione di paesaggi edenici; nondimeno attratto dalle tentazioni sfiorava le fiamme dell’inferno. Adesso, di ritorno dal suo viaggio fantastico, si vede appesantito dagli anni come un vegliardo, carico della esperienza vissuta di persona o semplicemente intellettualmente: “Ho lottato con dei e con uomini. Mi sono innamorato di tutto quello che mi ha odiato e ho odiato tutto quello che mi ha amato. Non mi sono conciliato con nessuna legge o principio. Ero assoluto!” (pag. 43). Un mondo di uomini atroci e di altri che vengono tacitati o inascoltati, si dibattono in una continua altalena. Ribadisco che le visioni che balzano da Paesaggi immensi dell’afflizione, sembrano immagini abbozzate, quasi grezze, non elaborate. Così, un mare torbido per contrasto gli fa pensare ad una passeggiata sulla spiaggia in un giorno d’estate in dolce compagnia; così nella vita del Nostro non poteva mancare una Maria: conosciuta mentre serviva in un bar, ma è rimasta solo una meteora misteriosa. Fra i ricordi emersi, abbiamo la visione di una piazza in cui dei manifestanti gridano “Pane-Lavoro” e che vengono battuti e sono sanguinanti. D’un tratto ci sbalza in una piazza di Kavala, città credo costiera. Si proclama “compagno” dichiarando la grande rabbia che si porta dentro e sembra avercela contro tutti. Chissà se il torbido iniziale non sia stato bell’a posta finalizzato a spiegare il pensiero su cui si ferma Themistoklis Katsaounis; difatti sopra ci ha ricordato che è possibile che dalla confusione o caos, emergano soluzioni (Rimbaud, Edison). Egli vive il problema esistenziale dei nostri tempi, il clima di rivolta degli ultimi anni in Grecia, fino a queste ore; fonde in chiave poetica la denuncia dei fatti e la sua scelta politica. Forse attende il sereno, perché dopo il grande viaggio di andata e ritorno nel cosmo apparentemente disordinato, riprenda la sua valigia per un altro viaggio che sondi i misteri dell’universo, dell’inconscio, della bellezza cui aspira. Tito Cauchi

DOMENICO DEFELICE UN PAESE E UNA RAGAZZA Edizioni L’Annunzio, 1963, Pagg. 48, lire 600 Un paese e una ragazza è raccolta poetica giovanile di Domenico Defelice, dedicata ai genitori, alle sorelle e ai fratelli. È divisa in cinque sezioni, i ver-

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si sono generalmente polisillabi, raccolti in strofe, impregnati di sospiri sentimentali dichiarati alla maniera medievale. È la passione amorosa di un sognatore, ora verso una donna, ora verso un’altra donna, come anche verso il proprio paese, ma è anche capace di ironia, verso sé e gli altri, e di divertire come vedremo. In particolare nella prima sezione, eponima, in endecasillabi e in rima (A-B-B-A), il Poeta canta per una fanciulla: “Per te dì e notte vivo tra tormenti/ al luccichio delle pallide gote;/ per te questo cuor mio trovar non puote/ non dico ore di pace, ma momenti.” (in dedica a Maria P.). Sospira pure per il suo paese di Anoia (Reggio Calabria) tradendo così il suo esodo per via della nostalgia, anche perché ricorda la villa comunale ove baciò “la prima bocca rosa/ sotto quell’alberello di mimosa”. I sentimenti si fondono e le spine delle rose straziano le carni del poeta. La sofferenza procuratagli da Maria gli pesa come una derisione: gli manca il suo paese! I sentimenti dell’emigrante sono indubbi in chi cerchi un’immagine che ricordi il proprio paese, i profumi, il cielo; così segue una categoria di immagini. La statua di Cristo con le braccia alzate che si staglia allo sguardo, sott’acqua, mentre un sub con fucile prende la sua preda. Smeralda, che da bambina giocava con le tre sorelle del Poeta, è adesso volata in cielo, e l’unico conforto per i genitori che la piangono e per lo sposo, è che ora lei è amica delle stelle. Il Poeta tiene in petto la passione per una giovane forestiera e già sente il peso degli anni nell’ammettere che quelli della giovinezza non torneranno più; come è avvenuto per quelli passati sui banchi di scuola, inseguendo le proprie fantasie. Sente il calore e la religiosità della propria casa; si dibatte per il suo ‘Cuore smarrito’ (a Teresa M.). Rivolge un invito ai giovani ad essere più pazienti, ad ascoltare un ‘Canto di primavera’ che è un inno alla natura. Un’invocazione a Maria Madre di Dio perché “il nome Tuo, Maria,/ sia l’ultimo sospir.” (pag. 30) [dove Maria ripete il sospirato nome]. Marcella è posta ‘Alle ridenti sponde d’Eurota’, la terra in Grecia, famosa per le feste ispirate da Erato. L’impaziente innamorato cita il Monti e il Recanatese, Laònde e Polimnia, celebra la terra sua calabra e particolarmente quella Reggina elevata a sorella di Venere. “le labbra vostre vedo, Marcellina,/ aprirsi alle parole deliziose/ che al cuore vanno qual linfa divina.” (20). Il canto si libra etereo e chiama a raccolta uccelli canterini e fiori colorati e profumati, ed anche un nome quello di Nuccia, quello della Fata Morgana. Abbiamo una traccia autobiografica: “son nato in autunno,/ sotto umile tetto,/../ Non pensare al mio pianto:/ ora che sono


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avvezzo/ m’è di conforto, non mi dà più pena.” (29), rivelando così uno stato psicologico che sopravviene a tanti innamorati. Espressamente umoristico è la ‘Ode al signor Tanino cacciatore’, personaggio di ottima mira nell’ impresa contro Michele. Come anche il poemetto ‘Scaldapanche’, in tre canti, per circa 300 versi. Ove il poeta è lo studente fantasioso che durante le lezioni, si addormenta sul banco, sognando avventure con Marcella che suona una zampogna, entro una cornice agro- pastorale; ma come in un gioco di specchi, i ruoli si invertono poiché il poeta si difende con la sua poesia contro una fanciulla di simile aspetto che si prende gioco di lui. In questa avventura si inserisce un brutto imbroglione, Zio Miglione, terrore della Sila, il quale depreda Rosetta e Lionello, una coppia diretta a San Giovanni in Fiore, li porta al suo covile, minacciando di darli in pasto a un leone. Quando a questo punto il Poeta riceve uno scossone dal compagno di banco che lo riporta alla realtà con il richiamo del professore per non avere scritta una riga dopo due ore, apostrofandolo con “Scaldapanche!” Sogno e fantasia, ma anche denuncia, sotto mentite spoglie, di malavitosi. Domenico Defelice, in Un paese e una ragazza, canta l’amore sofferto per una ragazza, ma ciò che lo ripaga è il suo paese di Anoia. L’armonia riflette l’afflato e la solarità del giovane del Sud. E se disperazione c’è, è mascherata da ironia. Prostrato fino a un certo punto, perché l’orgoglio non lo consente, trova conforto nella poesia, nel futuro e nella fede in Dio. Tito Cauchi

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21/11/2011. Una scrittura chiara in un tratto trepido, mi sembra. Non sono una grafologa, forse semplicemente i miei occhi ritrovano nella sua calligrafia ciò che la mia anima ha trovato nella sua poesia. Sono qui raccolte cinque sillogi, nate in anni diversi: In cantiere (1960); Dove i monti ascoltano (1973); Verdi terre (1979); Il grido della terra (1987); Tempo e parola (1994). Non potendomi soffermare adeguatamente su ciascuna e dare rilievo a tutte le cose che lo meriterebbero, pongo luce sull’insieme e il sapore che ne rimane, dopo la lettura. Parlo di sapore tanto sono masticabili i versi; ho gustato un frutto maturo e succoso, la sensazione che dà una bella noce, oppure un’oliva e ancora ho tra le dita l’odore della scorza del limone. Cresciamo con lui noi lettori, maturiamo con il suo maturare, partiamo e ritorniamo, diveniamo alberi e comprendiamo il valore delle nostre radici, di una certa memoria che diventa coscienza di sé e del mondo, della sua Natura d’equilibrio tra i contrari. Rossi ha nelle mani la Poesia della Terra, un linguaggio piano capace di costruire immagini retoriche e profende, lì dove intende far concentrare l’attenzione, lì dove vuole che si scenda al di sotto, sotto la terra, a toccare con mano lo stupore e il dolore. Non è solo la bellezza della parola ma i suoi significati, che sono come scale capaci di salire e sprofondare.

VINCENZO ROSSI I GIORNI DELL’ANIMA Tengo tra le mani questo volume di “I giorni dell’anima” e mi soffermo a passare le dita sopra la dedica, manoscritta, che Vincenzo Rossi vi lasciò il Egli con “I giorni dell’anima” – volume che non reca prezzo e non è vendibile, che nasce con il solo scopo di essere donato a quanti sono disposti a leggerlo con intelligenza e partecipazione- è come se ci regalasse un seme di quercia. In lui, la natura ed il poeta hanno generato una “poesia naturale” ed un “naturale poeta”come linfa e pianta. Umilmente scrivo queste parole e pianto questo volume nella terra della mia anima. Con Gratitudine. Aurora De Luca


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GUIDO ZAVANONE TEMPO NUOVO Prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti – De Ferrari Editore, Genova 2013, pagg.77, euro 10 Sul quotidiano “La Stampa” di Torino del 24 luglio 2013, nella pagina CULTURA, appariva la notizia relativa all'esito del Premio Letterario “Cesare Pavese”: “Il Premio Cesare Pavese festeggia trent'anni di storia con quattro grandi Autori della letteratura e del giornalismo italiano: si tratta di Claudio Magris per “Itaca e oltre” (Garzanti), Sebastiano Vassalli per l'intera opera narrativa, Beppe Severgnini per “Italiani di domani” (Rizzoli) e del poeta Guido Zavanone per “Tempo nuovo”(De Ferrari). Premiazione domenica 1 settembre alle ore 10 a Santo Stefano Belbo (Cuneo) presso la Casa Natale di Cesare Pavese”. Guido Zavanone, poeta e scrittore astigiano di nascita ma che vive e lavora a Genova da una vita, condirettore di Nuovo contrappunto e redattore di Satura, è abituato a vincere, coi suoi libri, Premi letterari importanti, presieduti da poeti e critici letterari di indiscusso valore. Basti ricordare i premi presieduti da Carlo Bo (il “Nigra”), da Mario Sansone (il “David”), da Elio Filippo Accrocca (il “Libero De Libero”), da Manlio Cancogni (il “Massarosa”), da Mario Luzi (il “Città di Catanzaro”), da Luciano Erba (il “Legnano”), da Gianluigi Beccaria (il “Città di Moncalieri”). A proposito del suo ultimo libro, la motivazione della Giuria del Premio “Cesare Pavese” 2013 per opere edite, presieduta da Giovanna Romanelli ( già Docente alla Sorbona), così recita: “ Il titolo dell'ultima silloge poetica di Guido Zavanone, Tempo nuovo, evoca subitaneamente che l'autore è giunto ad una svolta decisiva del suo percorso poetico sia nei contenuti che nella forma: infatti, il tempo di cui ci parla è ora quello della fine dell'esistenza, della sua incertezza e fragilità di fronte al divino. Una nuova tensione antropologica percorre i suoi versi che dicono la provvisorietà dell'essere e il non senso di una ricerca ove “ incompiuto il principio/ va chiamando la fine,/ buia e vuota la fine / grida e invoca il principio;/ in un gemito solo / il principio e la fine/ cercano ancora/ il nulla di prima” (“Il principio e la fine”). Coerente con questa crisi del modo di nominare l'essere, la parola viene a sua volta scarnificata”. Tra i precedenti libri di Zavanone ricordo con particolare piacere un poema affascinante e singolare, “Viaggio stellare”, uscito nel 2009 per i tipi della genovese San Marco dei Giustiniani, e che ho recensito, commentato e parzialmente parafrasato .

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Ma mentre in quel vasto poema in versi la poesia e l'arte di Zavanone vanno negli spazi siderali alla ricerca affannosa del senso della vita e del mondo in un contesto extraterrestre, nei meandri dell'universo, delle vie lattee, dei buchi neri, navigando nel presente e nel passato, qui, in questa silloge di 47 componimenti il problema metafisico, con tutti i noti problemi che gli fanno corona, viene affrontato nel giorno-dopo-giorno che si srotola sullo schermo della vecchia Terra, come in un film visto e rivisto ma che pure, invariabilmente, si dimentica. Il tempo nuovo è anche quello dell'età matura, della senectus, della fase della vita in cui l'individuo, più che a sognare nuovi progetti, è portato a redigere dei “bilanci”. Confrontando il realizzato col programmato, l'ottenuto con l'investito, il verificato con il creduto e il vagheggiato. Incombe ( anche se spesso viene rimosso) il problema della morte ( o, come di dice oggi, del fine-vita), col suo corteo di fantasie funeree. Più che alle memorie d'oltretomba, qui siamo alle Cronache dalla tomba “...Non provo odio né amore / quaggiù l'eterno / ha un sentore di marcio...” Ma per fortuna, finché c'è luce e vita nel proprio corpo e nella propria anima, continua a regnare la Poesia, coi suoi influssi dolcissimi intesi a far sopravvivere la speranza nella Bellezza e nella Giustizia. Perché la Poesia, dice al lettore il poeta Zavanone, non viene coinvolta e travolta dalla “logica” generale che imprigiona tutto e tutti: “ La poesia non è nata sulla Terra viene da qualche lontano pianeta stele misteriosa portata dalle comete Le giriamo intorno stupiti senza sapere cos'è né se pur essa un giorno scomparirà con noi O se il suo canto risuonerà ancora sulla Terra deserta forse solo un fruscio da qualche vecchio disco per l'orecchio di un dio “ Con questa poesia Guido Zavanone ha costruito un altro suo piccolo-grande capolavoro. Con soli quattordici versi ci ha offerto in sintesi la sua dichiarazione di poetica. Ricordandoci che la Poesia è uno strumento meraviglioso di cui noi godiamo anche se non sappiamo con precisione che cosa essa sia, né se continuerà ad esistere alla fine dei tempi, o comunque alla fine del genere umano.


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La Poesia che, nonostante la sua natura positiva e benefica, viene tenuta in scarsa considerazione nella società consumistica di massa, viene letta troppo poco. ( Arguti quei versi in cui Zavanone, con fare modesto, immagina di avere trovato un proprio libro di poesie “in un remainder / ancora intatto”. Ma quello che contraddistingue la poesia di Zavanone nel panorama letterario contemporaneo, al pari di altri grandi poeti, non è soltanto l'amore per ciò che è Bello, o per ciò che è Dolce e Consolatorio. Non è soltanto il rapimento malioso per la sfolgorante tavolozza della Natura o per i sentimenti nobili e delicati. L'arte di Zavanone non ci fa riandare con la mente soltanto all'uomo eccellente e culturalmente completo del Rinascimento. Ma la sua arte si nutre anche della lucida e vibrata protesta per le ingiustizie, efferatezze ed iniquità che ogni giorno vengono commesse, a volte in nome di presunti “ideali”. Nella sua visione del mondo e della vita dell'Uomo rientra anche un'esigenza profonda, insopprimibile, per ciò che è Giusto ed Equo. Forse non tutti i critici, nemmeno quelli dalla firma più prestigiosa, hanno fino ad oggi tenuto nella considerazione più adeguata, oltre all'altezza della sua Metafisica e della sua Estetica, anche questa sua propensione, da poeta completo, non solo per i problemi dell'Aldilà ma anche per quelli dell'Aldiqua, cioè per quelli terrestri e quotidiani della vita degli individui e dei popoli. Eppure, Zavanone è tutt'altro che un “rivoluzionario”. Tutta la sua vita l' ha dedicata all'arte e alla Magistratura, nella quale è arrivato a ricoprire gradi elevatissimi ( fino a Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione). Si leggano composizioni qualificanti come “La giustizia”, “Per i bambini di Gaza”, o come quell'originale, stupendo e “aggiornato” “Padre Nostro”, che peraltro non si ferma soltanto al nostro tempo ma si richiama addirittura ai Salmi (83) : “ O Dio non startene quieto / non restar muto ed inerte, o Dio”. Luigi De Rosa

ANTONIA IZZI RUFO PAESE (3° Premio Città di Pomezia 2013) - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 Molisana, innamorata della sua terra, Antonia Izzi Rufo, narratrice, poetessa e saggista, nota per numerose opere edite, che hanno meritato importanti riconoscimenti, ha ottenuto con questa silloge il 3° premio al Città di Pomezia 2013. Le liriche sono orchestrate all’insegna della nostalgia per una realtà oggi irrimediabilmente scomparsa. “Spenta la vita /

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intensa d’un tempo. / Deserte le strade, / chiuse molte case, / pochi vecchi restano soltanto.” Pare che il deserto invada le strade del paese e il cuore dell’autrice. Mentre la natura emana i suoi profumi “di menta, origano, timo, / rosmarino, / di verde, di terra, / di fiori d’ogni colore”, per la via passeggiano i vecchi con le badanti. Ancora le Mainarde sono un spettacolo di bellezza, ancora le rondini “atterrano virano in alto, / fanno piroette”; ma gli abitanti del paese, anche se arrivano a compiere cent’anni, spesso sono colpiti dall’Alzheimer. Il luogo in estate si riempiva di turisti ed ora sembra un villaggio “abbandonato del far west”. “Il suono triste familiare / delle zampogne” si ode soltanto l’ ultima domenica di carnevale, durante la festa del paese. La conclusione di questo diario dell’anima è straziante: un addio (come quello di Lucia ai suoi monti) al dolce rifugio che vide l’autrice sposa e madre felice. Antonia Rizzi Rufo ci trasporta in una dimensione remota, ma viva nel cuore, di anni irripetibili. E lo fa con versi franti, di lirico spessore. Elisabetta Di Iaconi

VIRGINIA FAZZINI TENDERINI UNA CROCE FRA GLI ABETI Romanzo - Editrice Stefanoni, Lecco 1999. Dopo un trentennio circa di intensa attività letteraria, riproporre un’opera del proprio esordio in campo narrativo come ha fatto Virginia Fazzini Tenderini con Una croce fra gli abeti (Editrice Stefanoni Lecco, 1999), dimostra con tutta evidenza, oltre al coraggio di riscoprire se stessa, anche la necessità di rimeditare sui temi e problemi che ebbero un’incidenza straordinaria sulla propria adolescenza e che segnarono il difficile trapasso, dagli anni dell’ ultima guerra mondiale all’avvento della pace e della democrazia. Si tratta, infatti, di un romanzo ambientato a Premana, al tempo della seconda guerra mondiale, fra gli alpeggi di Soglia detti comunemente Forni, l’ alpe di Casarsa e la valle di Barconcelli con l’alpe omonima, teatro, per cinque lunghissimi anni, di bombardamenti, mitragliamenti, sfollamenti, rifugi provvisori, scontri sanguinosi, timori, angosce, ma anche di ansiosa attesa di un vita serena, di accettazione non sempre rassegnata dei sacrifici e della sofferenza, incredulità e rifiuto sdegnoso dell’odio, premura amorevole per gli umili. Ad una prima lettura, sembra che la narrazione sia tutta riconducibile al modello del naturalismo francese o del verismo italiano, per la stretta aderenza al dato naturale dell’ambiente e delle situazioni non meno che alla realtà delle vicende vissute


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dai loro protagonisti. Ma se si rilegge con animo più distaccato, ci si accorge che la scrittrice non ricerca affatto l’ oggettività impersonale teorizzata da Zola e recepita dal nostro Capuana nella proposta dello “Studio dal vero”, ma piuttosto finisce per immedesimarsi nelle storie belle eppur dolorose delle figure femminili, a cui si è ispirata: Renata, Sandrina, Miriam, Rina, Maria, Bianca. Storie di amori tormentati e infelici, con sbocchi in certo patetismo romantico, contenuti però entro limiti ben ragionevoli, dettati o suggeriti da un’osservazione immediata scrupolosa della realtà, senza escludere eventuali apporti della fantasia. E poi c’è Bice, un personaggio che sembra voglia strappare il racconto all’autrice, soprattutto quando il suo pettegolezzo prende di mira Renata. Peccato che rimanga un dettaglio, limitato solo a questo personaggio. Se Bice avesse detto la sua anche su altri, allora sì che avrebbe procurato alla scrittrice un lusinghiero e nobile confronto con lo scrittore americano James, autore del romanzo Ritratto di Signora, la cui trama è spesso quella ideata da Madame Merle. Ciò che colpisce, sfogliando le 480 pagine del romanzo, è come la scrittrice, affrontando il discorso sulla guerra partigiana, non schiacci mai il giudizio su un piano strettamente dialettico e, pur attenendosi allo scontro di fondo tra italiani e tedeschi, tra fascisti e antifascisti, lo fa estendendo alla lotta partigiana motivazioni e aspirazioni che non si riconducono soltanto all’ideologia della Sinistra. Si pensi all’opinione di Piero riguardo ai partigiani: “sono tutti bravi ragazzi, ma di fede marxista, questo gruppo riceve gli ordini dal Pci di Milano. Io non faccio mistero delle mie idee diverse e ovviamente ne nasce qualche divergenza”. Ne deriva che la Fazzini offra al lettore un’ immagine di partigiano affatto nuova, sottratta allo stereotipo, tanto dell’ideologia comunista, quanto della cultura popolare; un’immagine a tal punto nuova da risultare ancora incerta nel romanzo stesso, fino a proporsi in divenire, come si evince dalla notizia che rimbalza di poggio in poggio, di jal in jal, di alpe in alpe, di quel partigiano morto, di cui non si riesce a pervenire a una sua identità, né fisica, né morale, né politica: non si sa se ucciso dai fascisti o dai partigiani stessi perché forse era una spia. Scambiato, ora con Piero, del quale non si hanno notizie da tempo, ora con un partigiano venuto, anch’egli forse da lontano, lo sfortunato giovane giace fra gli abeti senza un nome, sotto un tumulo di terra sormontato da una croce, dove né una donna innamorata si recherà mai a pregare, né le istituzioni verranno a rendergli omaggio. Per questa via, “partigiano” diviene subito una

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parola che non è mai sintesi di un retroterra di idee politiche o di un pregiudizio pregresso, essa incomincia a vivere nel momento in cui l’autrice la scrive, quasi fosse primigenia, “una parola tremante” o una “foglia appena nata”, per dirla con il poeta. E non solo, anche la parola “repubblicani” suona di prima mano, se con essa la Fazzini ha pensato di sostituire, e in non poche occasioni, la parola spregiativa di repubblichini. Un romanzo bello e interessante, allora, Una croce fra gli abeti, su uno sfondo decisamente storico politico, ma nel senso più nobile della definizione, perché ne sono protagonisti due ragazzi, che pur nello scontro ideale restano puri, ossia non contaminati dagli abusi del potere, anzi fermamente convinti pronti a difendere il proprio sogno di una società libera e giusta; ma bello e interessante soprattutto ora, nella nuova veste del ’99, riscritto, noi pensiamo, dall’autrice con l’intenzione di farlo partecipare al dibattito che proprio in quegli anni ferveva in materia di revisionismo storico. Se a tutto questo, poi, si aggiungono i pregi della lingua e dello stile – l’una fatta d’un lessico attinto all’uso vivo, l’altro sempre piano e lineare, privo cioè di manierismi artificiosi - si può senza dubbio concludere dicendo che questo romanzo merita non solo di essere letto, ma di essere anche meditato, in particolare dai giovani, che, com’è risaputo, conoscono poco la realtà amara del recente passato, da cui proviene l’odierno benessere. Giuseppe Leone

ANNA AITA ALDO DE GIOIA RCE Multimedia, 2013 Presentato da Salvatore Veltre che esalta sia l’ Autrice della monografia, sia l’illustre personaggio a cui è dedicata, è il volume “Aldo De Gioia” (RCE Multimedia, 2013, pagg. 160, € 18,00) scritto da Anna Aita. Descrivendo la biografia di De Gioia, l’Autrice ci dimostra che la vita del Nostro non è stata facile, essendo rimasto senza padre a pochi mesi di vita, primo e unico figlio, ma fortunatamente con una madre che gli si è dedicata tutta, e con sacrifici. Ma Aldo ha un eccezionale spirito artistico ed eclettico che – naturalmente dopo la guerra che scoppia durante i suoi sei anni - si esprime a raggiera: nella storia, nel giornalismo, nella prosa e nella poesia, nel calcio, nel teatro come attore ed autore; si presta anche ad accompagnare concittadini e turisti in passeggiate culturali a Napoli facendo da cicerone; organizza e tiene conferenze e spettacoli


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sull’arte, sulla musica e sulle canzoni della sua cara Napoli; inoltre fa il barelliere ai pellegrini che vanno a Lourdes. Laureato in Pedagogia, storia e filosofia, con la tesi sulle “Quattro giornate” di Napoli, si dà all’ insegnamento sia nella scuola elementare che aveva frequentato da bambino, sia all’Università, allacciando contatti anche con le Università di Los Angeles e di Tokio.Organizza a Brooklyn l’evento “La leggenda di una voce” dedicata ad Enrico Caruso “il più grande tenore di tutti i tempi” presso il museo a lui dedicato, e riesce a far costruire un altro museo carusiano a Calvello (Potenza). Ricordando i bombardamenti sperimentati durante la guerra in quelle tragiche “Quattro giornate”, quando Napoli venne ridotta ad un cumulo di macerie e di morti, scrive il libro “Memorie che hanno fatto la storia”, documentato da appunti, foto e ritagli di giornale conservati, nonché è autore, regista e attore della rappresentazione “Quando a Napoli cadevano le bombe”. Sempre promotore di molteplici iniziative, è stato insignito di innumerevoli onorificenze e premi tutti altamente meritati. Troviamo, infatti, nel libro in oggetto gli apprezzamenti di un’infinità di persone, molto o meno importanti, dalla Presidenza della Repubblica Italiana, a Rosa Russo Iervolino, a giudici, giornalisti, musicisti, generali, docenti, studenti e gente comune. Il lavoro di Anna Aita è davvero importante, perché preciso, approfondito, completo, scrupoloso; ella sa scendere anche in simpatici particolari per rappresentare in modo più efficace la personalità così ricca, calorosa e impegnata di questa importante figura di uomo e di artista, di cui ella riporta molte foto con tante lettere e testimonianze di elogio. Maria Antonietta Mòsele

ANTONIA IZZI RUFO PAESE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 Meritevole del 3° Premio Città di Pomezia 2013 è la silloge poetica “Paese” di Antonia Izzi Rufo, pubblicata su “Il Croco” di gennaio 2014. Condizione esistenziale – così definisce l’opera Domenico Defelice: il Paese della Izzi Rufo ora è vuoto e triste, come l’animo della Poetessa; ma, a ben osservare, come si può vedere vita nel paese, così si può colmare il vuoto del proprio cuore con i ricordi e i sogni, ma anche osservando meglio la realtà, e quindi far vivere sia il paese che il cuore. E’ la solitudine che dà tristezza:“col paese, anche tu/ stai morendo” ella dice, e“pensi ai tuoi morti”.

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Anche l’ambulante osserva: <Questo è un cimitero>, ma aggiunge: <Eppure è un bel paese>. Il Corso principale – di solito deserto - nell’ora d’uscita sembra una corsia d’ospedale, con badanti e vecchi dalle voci tenui e rauche: nel silenzio generale, infatti, si percepisce ogni minimo rumore. I giovani sono “andati altrove/ in cerca di lavoro”. Perfino le scuole sono chiuse, non essendoci bambini. E di sera, le finestre sono tutte buie. Nel passato, c’era tanta vitalità, con movimento, suoni e canti. Ora, solo canto di uccelli e “lo stormire del vento/ quando sonnecchia”. E dove prima era una distesa di spighe dorate, ora sono solo erbacce e rovi. E i cercatori di lumache – cibo ricercato per ospiti di riguardo – ora non ci sono più. Così pure nessuno più va a raccogliere legna nei boschi. La “Piccola Svizzera del Molise” ora non ha più turisti. L’unica via d’uscita per la Poetessa – e qui finalmente c’è la sua ripresa vitale - è andare verso le montagne dove gli animali ancora pascolano e si abbeverano alle fresche fonti; è ricordare le antiche belle leggende ambientate lassù; è visitare a Natale il presepe che lì si allestisce. Al ritorno, l’animo si rasserena un po’, e riesce ad apprezzare la festa di un centenario, dove si balla: “sorridono tutti,/ anche i vecchietti (che buffi!)/ sdentati, e vacillanti”. Inoltre, l’ultimo di Carnevale, si rivive il “primitivo” con un’antica rappresentazione tradizionale, durante la quale si accendono i falò, si fa festa, e a volte anche nevica. Improvvisamente, nelle poesie, c’è un cambio di scena: la Poetessa – non spiega quale ne sia il motivo – deve lasciare urgentemente e inaspettatamente il suo caro paese, abbandonare la sua casa “dolce rifugio” che mai avrebbe voluto lasciare, dove visse “sposa/ e madre felice”, deve dire Addio ai suoi monti (ed in questo si sente addolorata come Lucia dei Promessi Sposi). Ma non dice Addio al cielo: “Te cielo, te luna/ voi stelle non saluto:/ vi vedrò ancora,/ da altro luogo,/ e del mio borgo vi chiederò,/ della mia casa,/ sbarrata e abbandonata”. Maria Antonietta Mòsele

MIMÌ FRISINA PAGINE DI DIARIO Gli allegri racconti di zio Mimì Depa, 2004 - Pag. 94 Sono brani divertenti di questo Autore – che si autodefinisce “zio” - già insegnante, che ricorda certi episodi umoristici della sua fanciullezza, pescati dal suo diario di allora, e che propone sia ai bambini sia agli adulti dal cuore bambino.


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Maria Frisina – autrice delle illustrazioni – ne sottolinea la semplicità del narrato, e come i bambini, nel passato, si divertivano in modo più semplice di ora. L’Autore ci confida che, leggere o raccontare le proprie avventure infantili, costituiva il metodo vincente per ottenere da subito l’attenzione dai suoi scolari turbolenti, attenzione che poi prestavano anche per le altre spiegazioni dell’insegnante. Già dai primi racconti – dal finale comico - vediamo l’Autore-scolaro compiere le sue birichinate al professore di musica; poi abbagliare un altro professore usando lo specchietto preso di nascosto ad un compagno. Più tardi, lui e l’amico Gigi fanno impazzire il Canonico che impartiva loro le lezioni, il quale, poveretto, non riesce a separarli, neanche cambiando loro l’orario. Messi poi in collegio, i due decidono di scappare in modo avventuroso, ma vengono riacciuffati e puniti. Poi parla del compagno Carmelo che, se quella volta, ingenuamente aveva ingerito la supposta, anziché metterla “al posto giusto” (!), successivamente, è Mimì che gli fa lo scherzo di scucirgli, di nascosto, il “cavallo” dei pantaloni, così che, indossati in fretta, fuoriusciva un lembo bianco della camicia! Inoltre, in casa, lo vediamo tirare indietro la sedia all’ospite che si stava sedendo, facendolo così cadere. Per non parlare delle torture che, sempre Mimì, faceva al suo povero cane. In questi racconti, traspare anche come viveva la gente in quel periodo: le signore che facevano salotto; gli amici di suo padre avvocato che, in cambio di “consigli” (= consulenze gratuite), gli facevano dei regali (una volta persino di una capretta poi finita male). Ed anche si parla dei giochi semplici di allora: i bambini facevano gare con trottole costruite da sé, levigando piccole pietre; e gli adulti, giocavano con birilli di legno ugualmente costruiti da loro stessi. Troviamo anche, qua e là nei discorsi diretti, espressioni nel dialetto calabrese locale; vengono pure ricordate alcune rappresentazioni tipiche di feste tradizionali. Maria Antonietta Mòsele

NAZARIO PARDINI I SIMBOLI DEL MITO Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2013 Pubblicate nel Croco, supplemento del mensile Pomezia Notizie (ottobre 2013), le poesie del Pardini mostrano la sensibilità e l’attenzione del Poeta circa le antiche leggende della Grecia e di Roma antica, opponendole e/o paragonandole al nostro

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evo informatico e super tecnologicizzato. Compito non facile, specie oggi e per i motivi più diversi.. Il tempo passa, inesorabile, e sotto la sua terribile mano ogni cosa cambia (purtroppo, non sempre in meglio) e finisce che oggi come ieri, gli Autori (poeti o scrittori che siano) si sentono a disagio e sono incerti su come e cosa esprimere per dare un’idea esatta di quello che intendono dire. Inoltre, personaggi celebri quali riferimenti possono essere travisati e capire, come si dice, fischi per fiaschi. Un esempio? Il carme Con Ulisse non è di facile lettura. Ulisse, forse il più celebre marinaio della Storia (vera o letteraria) di tutti i tempi può essere considerato vuoi come l’emblema dell’uomo, curioso di tutto e pronto a tutto osare, vuoi come emblema dell’uomo greco in specifico (e sappiamo benissimo che i greci antichi erano mercanti e marinai nati, anche se non mancava un forte lato militarista). Ambo queste interpretazioni sono corrette, ma Pardini, in questa sua silloge stupenda, a quale delle due si è davvero riferito? Oppure ha inquadrato Ulisse da una terza prospettiva, finora mai pensata da critici letterari ed estimatori appassionati? E se Ulisse, eroe omerico per eccellenza, è da rapportarsi al nostro secolo attuale, a chi o a cosa va messo in relazione? Non è facile rispondere a tutte queste domande. E mi sono riferito ad un’unica poesia e in questo agile fascicoletto ce ne sono parecchie, una più bella dell’altra. Altrettante incognite da risolvere. Possono piacere o no, possono essere capite o no, ma ciò che più conta è sempre il punto di vista da cui le si guarda: quello dell’Autore, se si riesce ad arrivarci, o quello del lettore, che, evidentemente, ha idee, pensieri ed esperienze diverse da quelle del Pardini. Comunque, è un ottimo spicilegio per conoscere ed apprezzare un Autore di un valore non certo disprezzabile. Fatevi la vostra idea. Buona lettura! Andrea Pugiotto

ANTONIA IZZI RUFO PAESE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 La gentile Autrice mette a nudo la propria anima nei suoi bellissimi carmi e lo fa con una grazia ed una leziosità tutte femminili. Il che, attualmente, è una cosa eccellente. Ninotch’ka sarà pure un’ottima funzionaria sovietica, ma in calzoni e tailleur grigio piombo sembra più un maschio mal riuscito che una donna, anche solo passabile (e la divina Garbo non aveva nulla da invidiare alle dive sue contem-


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poranee!). La precisione (e la grazia) con cui la Izzi Rufo riesce a mettere a nudo lo Squallore o la Lunga età, con tutte le luci (poche) e le ombre (troppe davvero!) tipiche di questo evo meccanizzato, distante da chiunque sia debole o, comunque, in difficoltà, in un modo qualsiasi, non necessita certo di commenti. Questa epoca è un deserto algido di solitudine, in tutti i sensi ed in mille modi diversi. La gentile Autrice ha saputo notare e focalizzare, come meglio non si potrebbe, questo aspetto, terribile e crudele, tipico della vita odierna. Ovviamente, non mancano momenti piacevoli o di speranza(e Festa lo prova), ma è certo che un Poeta deve essere un attento osservatore della vita reale e metterla sul tappeto, a costo di essere considerato volgare o spietato, affinché tutti vedano, notino, riflettano. E questa silloge è un ottimo microscopio, in tal senso. Da leggere con attenzione, per rifletterci a dovere. Andrea Pugiotto

LUIGI DE ROSA FUGA DEL TEMPO Genesi Editrice, 2006, € 11,00 Luigi De Rosa, di genitori partenopei ma attivo a Rapallo (Genova), essendo cresciuto in Liguria, è scrittore, saggista e recensore. Tra le varie sue opere, ricordiamo libri di poesia come Risveglio veneziano ed altri versi (con una lettera autografa di Diego Valeri, dell’Università di Padova) e Il volto di lei durante (prefazione di G. Berberi Squarotti, dell’Università di Torino), solo per citare due titoli apprezzatissimi e restare in tema colla silloge qui presentata, per i tipi della Genesi editore. La Fuga del tempo è una silloge di carmi divisa in due parti: Verso la foce (titolo anche della prima composizione) e Intanto… il mondo va. Nella prima parte, l’Autore è solo con sé stesso ed i propri ricordi, dolcemente melanconico come solo Pascoli o Leopardi avrebbero potuto essere in situazioni analoghe. Lo scrigno dei ricordi e Treno fermo in campagna non necessitano certo commenti, in merito. Ma come ogni buon Poeta, De Rosa non manca di sperimentarsi sulle strade più diverse. Le sue due poesie Rosa rosa che penzola nel vento, Rosa bianca sul ciglio del fossato, Rosa rossa nell’arsura di luglio, sono prova bastevole dell’abilità del poeta nel fotografare, in tre modi diversi, un fiore, la rosa appunto, che nel corso dei secoli ha fatto versare

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fiumi d’inchiostro ai poeti e fiumi di sangue agli innamorati (per tacere della Guerra delle Due Rose, che dilaniò l’Inghilterra del XV secolo, per conquistare il trono… finito poi in mano ai Tudor!). Quanto alla parte seconda Dopo Fukushima è sufficiente, credo, da sola a dar contezza precisa dell’animus del Poeta di fronte a tragedie che qualificare apocalittiche non rende abbastanza l’idea! Certo, Hiroshima e Chernobyl ricadono interamente sulle spalle degli uomini, malvagi ed incauti, ma Fukushima ha ricordato a tutti noi che esiste un Dio, creatore di questo mondo, e al quale dobbiamo prendere conto delle nostre irresponsabilità. Devo commentare? Il giudizio a chi leggerà quest’opera stupenda dopo di me. Io ne sono rimasto ammirato. Buona lettura! Andrea Pugiotto

LUIS SEPULVEDA STORIA DI UNA LUMACA CHE SCOPRÌ L’IMPORTANZA DELLA LENTEZZA Guanda Editore, 2013 - Pagg. 95 Nel felice Paese del Dente di Leone, presso casa mia o tua, viveva una volta un popolo felice di lumache. Tutte senza nome e tutte lentissime, come esige la loro natura, facevano una vita tranquilla e basata su poche, incrollabili abitudini, delle quali erano tutte soddisfattissime. Tutte, tranne una. E questa invertita (alla lettera, poiché la pensava al contrario di tutte le altre) pensò di andare via dalla sua patria tranquilla, in cerca di avventure e, soprattutto, di un nome (per distinguersi dalle altre) e di sapere PERCHE’ era meglio essere lente che rapide. Ci riuscirà? Scritto con grandissima arte da Sepùlveda, già autore d’un testo impareggiabile come Storia di una Gabbianella e del Gatto che le insegnò a volare, questa Storia di una Lumaca è l’ennesima favola per adulti, sulla scorta di Esopo (il favolista per antonomasia) per indurre alla riflessione in un tempo in cui si va a razzo, senza pensare, senza riflettere, senza deflettere dai binari tracciati da questa società viepiù assurda, tecnica e virtuale (ma, in compenso, vacua e poco virtuosa). Ogni tempo ha generato le sue favole (cioè allegorie, a scopo di riflessione) per mettere i puntini sulle i e dare un ritratto preciso (e una denuncia spietata) del contesto sociale in cui si è costretti a vivere. E Sepùlveda è stato davvero insuperabile, da maestro pari suo, nel concepire questa favola, usando un linguaggio molto semplice ma anche molto diretto. E, come sempre, chi vuol capire… capisca, rifletta


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e prenda debite decisioni in merito. Per gli altri… pazienza! Da leggere con molta attenzione. Non deluderà nessuno. Andrea Pugiotto

GIANNI RESCIGNO UN SOGNO CHE SOSTA Genesi Editrice 2014 -Torino L’autore è fedele al titolo, per cui il tempo della vita diviene un sogno, che si spiega nell’ambito etico e metafisico con l’intervento di una forza fantastica capace di coagulare umano e divino. ”A volte chiaro/a volte scuro resta un sogno: /a fatica avanza Dio (pag.91). Quando si cammina nella fede non sempre si avverte sotto i piedi la sicurezza della roccia, non sempre si ha la certezza che Dio ci possa abbandonare, non sempre si è immuni da un turbamento interiore, un dubbio, una perplessità. Ora Gianni può esclamare con sicurezza:” Con me ha cantato il cuore (pag.44) e quando canta il cuore “ quasi inafferrabile vola la parola”(pag.44), che induce ad avere fiducia nella relazione, perché la fede è un atto di fiducia in qualcuno, è un’ascesa che si nutre anche della speranza di vivere e morire per gli altri. Il sogno di Gianni Rescigno sosta “ alla casa del ricordo”(pag. 91), con il desiderio del ” l’ ora della luna”(pag.93) e del “l’amore che maturava ala sole”(pag.101), s’inebria di “ quei baci che ti poggiavo sulle rughe/madre(pag.113), soffre per “Echi di frustate”(pag.102)” ,sente ”pesante il passo/che ci spinge al travaglio di domani”(pag.125). Ma davanti ai suoi occhi, illuminati dal dono della fede, tutto diventa grazia, anche all’opacità del tempo della storia. Per concludere:” Un sogno che sosta” non è una fuga dalla realtà, o rifugio intimistico: è limpida vita di spiritualità cristiana, è l’ essere divinamente inteso col colto dell’amore arricchito dall’esperienza esistenziale. Innocenza Scerrotta Samà

LE ALI DELLA CONOSCENZA Apro le ali della Conoscenza per volare lontano, come un uccello che non ha dolore, nella sua anima c'è ardore. Gli uccelli che volano alto, vedono i segreti del mondo

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che srotolano. Migliaia di pennuti sul cielo mentre soffia il venticello, che passa velocemente rinfrescando la mente. Il mio pensiero impazzisce, e la Conoscenza non finisce... Il Vento mi spinge a conoscere la vita. Nell'aria sto girovagando, non so dove mi sto avviando. Con i miei occhi sto osservando, le cose preziose sto toccando. Mi ubriaco dagli odori, provo tutti i sapori! E questi tesori, al ritorno dal mio viaggio, li nascondo nel mio nido, della vita mi fido... li celo come un talismano, li tengo bene con la mia mano! E poi, chiudo le ali della Conoscenza per riposarle, e per poter volare, il giorno seguente, ancora più in alto, ancora più velocemente! Giorgia Chaidemenopoulou Grecia Traduzione dal Greco della stessa Autrice.

IL CANE RANDAGIO Viene ospitato, nutrito, protetto ma, alla prima infrazione, scacciato a calci, di tutto quanto fatto in suo pro rinfacciato. Con la coda se ne va tra le zampe, senza reagire né protestare. E se lo ri-chiamano, torna mansueto, timoroso, rimossi l'orgoglio e la dignità. Che altro, del resto, potrebbe fare?


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E' solo e vecchio, senza una cuccia, senza un padrone, ed è rassegnato a subire, a sopportare i suoi benefattori finché non lo liberi la Parca dal giogo umano, pardon bestiale dell'uomo, re dell'universo. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, Is

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE DUE SANTI DEL NOSTRO TEMPO - Il 27 aprile 2014, Papa Francesco, che ha ricevuto la consacrazione episcopale e la porpora cardinalizia dal papa polacco, ha proclamato Santi due grandissimi papi del nostro tempo, che hanno cambiato nel profondo la Chiesa: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo

II. Giovanni XXIII è stato spontaneamente definito dai fedeli il Papa Buono e lo si ricorda, in particolare, per il cosiddetto discorso della luna, allorché si rivolse alla folla, in piazza San Pietro, con la preghiera, una volta a casa, di dare una carezza ai bambini, dicendo loro che, quella, era la carezza del papa. Egli è stato il papa della normalità, della santità quotidiana, che non vedeva proprio di buon occhio le tante troppo stiracchiate agiografie che, spesso, hanno snaturato i santi, con il renderli esseri e simboli troppo lontani dalle vicende reali di ogni giorno: “Recenti contraffazioni - affermava - hanno tentato di sfigurare il concetto di santo fra noi; l’ hanno inviluppato, colorito con certe tinte vivaci, che forse in un romanzo si potranno tollerare, ma che nella vita pratica, nel mondo reale sono delle stonature”. Doveva essere un papa di transizione e, invece, ha stupito il mondo col suo carisma e con le sue azioni, in particolare, con il Concilio Vaticano II. Un papa profondamente spirituale e vicino al cuore della gente; un papa dalla santità che ingloba le debolezze e le fragilità umane. Del gigante Giovanni Paolo II non si scriverebbe mai abbastanza. Noi vogliamo ricordarlo come il papa che più di ogni altro ha amato i giovani e che dai giovani è stato profondamente amato. E’ stato il papa che più ha valorizzato la donna, che ne esaltò il genio e che nella “Lettera alle donne” (1995) arriva a chiedere a tutte loro perdono per i torti e anche per il disprezzo che, spesso, nei secoli, hanno subito da una Chiesa mascolina: “Siamo purtroppo eredi di una storia di enormi condizionamenti che,


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in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna”. Assolutamente da consigliare, sul tema della donna, sono i suoi due lavori “Mulieris dignitatem” (1988) e “Lettera alle famiglie” (1994). Egli ha saputo dare anche il giusto risalto al corpo umano che, in passato, dalla Chiesa è stato quasi demonizzato. Poeta e scrittore, in tante delle sue numerosissime opere ha trattato dell’amore tra l’ uomo e la donna e persino di sesso. In “Amore e responsabilità” (1960), ha affermato che “L’amore di concupiscenza fa parte dell’amore di Dio”. In “Varcare la soglia della speranza” (1994), confessa che “Da giovane sacerdote imparai ad amare l’ amore umano”. “In un suo intervento, del 14 novembre 1979, dichiara che “La teologia del corpo (...) diventa, in certo modo, anche teologia del sesso, o piuttosto teologia della mascolinità e della

femminilità”. In occasione della riapertura (8 aprile 1994), dopo il restauro, definì la Cappella Sistina “santuario della teologia del corpo umano” e, riferendosi ai tanti nudi, disse che “Soltanto dinanzi agli occhi di Dio il corpo umano può rimanere nudo e conservare la sua bellezza”. Poeta, ha sempre letto i poeti, li ha sempre cercati e stimati. Ricordiamo la sua quasi ilare sorpresa allorché, in un ricevimento a Castel Gandolfo, il 21 settembre 1989, gli abbiamo fatto dono dei tre volumi della nostra Antologia pometina. Domenico Defelice *** 153° DELL’UNITÀ D’ITALIA - Domenica 16 Marzo c.m. l’Associazione Coloni ha dato luogo alla quarta edizione della “Giornata Tricolore” in ricordo dell’Unità d’Italia, proclamata ufficialmente il 17 Marzo di 153 anni fa. La ricorrenza è stata so-

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lennemente celebrata nel 1911, in occasione dei 50 anni, nel 1961, per i 100 anni e nel 2011 per il 150° anniversario. Grazie al successo delle molteplici iniziative organizzate nel 2011, con la legge n’222 del 23 novembre 2012, la ricorrenza è stata istituita festività civile con l’obiettivo di ricordare e promuovere i valori di cittadinanza e riaffermare e consolidare l’identità nazionale attraverso la memoria civica. Come ricorda il comunicato di Palazzo Chigi : il 17 Marzo è una data dal forte valore simbolico per l’Italia e rappresenta il punto di arrivo nel percorso dell’unificazione nazionale e, al tempo stesso, il punto di partenza del camminio verso il completamento dell’unificazione del Paese…. Ed io aggiungerei che in un momento piuttosto delicato per la nostra Italia in cui incerti paiono essere i primari valori sociali, economici e politici questa rievocazione è essenziale per riappropiarsi del coraggio di affrontare qualsivoglia ostacolo che la vita quotidiana ci presenta. E’ essenziale sentirsi parte integrante di un’ unica coscienza nazionale. L’Associazione Coloni di Pomezia ha festeggiato degnamente la Giornata dell’ Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera. La manifestazione storico culturale denominata “Giornata Tricolore” quest’anno è stata dedicata al musicista e compositore M° Giuseppe Verdi, patriota del Risorgimento; la cerimonia realizzata, con il patrocinio della Città di Pomezia e della Pro Loco e la partecipazione delle associazioni militari, culturali e di volontariato del territorio, ha ottenuto un enorme successo. Già dalla mattina presto Piazza Indipendenza è stata abbellita per l’occasione da drappi tricolore, da mostre di pittura, poesia e fotografia sul Risorgimento, i Padri della Patria e naturalmente Giuseppe Verdi. Quindi l’associazione Assoraider ha preparato la struttura in legno per dar luogo all’ alzabandiera. Verso le 10,00 la piazza si è animata con la presenza di cittadini comuni e dei componenti delle associazioni in divisa sociale, nonché la delegazione della Polizia Municipale, con lo stendardo della Città di Pomezia, il sindaco Fucci con fascia tricolore e le rappresentanti dell’ amministrazione comunale Serra e Filippone. Alle ore 10,30 di domenica 16 Marzo, come da programma, i numerosi ragazzi dell’Assoraider hanno dato inizio alla “Giornata Tricolore” con l’ alzabandiera. Presenti al momento solenne i soci ed i presidenti Bisesti e Monti dell’Associazione Coloni, l’ Amministrazione della Città di Pomezia, le delegazioni dell’ Associazione Nazionale Carabinieri, dell’ Associazione Nazionale Bersaglieri, dell’ Ass. Arma Aeronautica, dell’Ass. Nazionale Finan-


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zieri, i gruppi Alpini, Marinai, Carristi e Combattenti di Pomezia, la Guardia Costiera, la Capitaneria di Porto, il pioniere di Pomezia in divisa della Marina Sig. Pio Schiano, la delegazione della Croce Rossa Italiana, dell’Echo Protezione Civile, del Corpo Cavalleria Civile, dell’Associazione Tyrrhenum, dell’ Associazione Romagnoli, dell’Associazione Amici di Singen, dell’Associazione AVIS, dell’ Associazione Futuro, dell’Associazione Centro Anziani, il gruppo storico Garibaldino ed i coloni in costume d’ epoca. Quando il tricolore è stato innalzato nella piazza gremita, è seguito l’Inno di Mameli suonato ed interpretato egregiamente dal Maestro Nicola Alemanno. Il grido di gioia degli scouts di Pomezia, poi, ha riempito il cuore di tutti i presenti. La celebrazione è proseguita con l’intervento ed il saluto del Sindaco Fucci alla cittadinanza, la lettura della biografia di Giuseppe Verdi e l’esecuzione del brano “Va, pensiero” dal Nabucco. Quindi è seguita la declamazione delle poesie dal tema : “Raccontare la musica : Verdi” in omaggio al patriota del Risorgimento italiano. A conclusione della rievocazione storica è intervenuta la coordinatrice Elena Claudiani Risorto che ha altresì ringraziato tutti gli artisti della Spiga d’Oro, che numerosi hanno aderito ancora una volta alle iniziative dell’Associazione Coloni, realizzando un’ originale mostra collettiva di poesia e pittura sul Risorgimento e sul personaggio Giuseppe Verdi, rassegna d’arte allestita per una settimana all’interno della piccola galleria dei coloni. Come è tradizione la mattinata si è chiusa con un semplice rinfresco conviviale. Nel pomeriggio fino a tarda sera la mostra d’arte esterna a tema

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la Primavera e la mostra interna sull’ Unità d’ Italia ha riscosso un grande successo di pubblico ed amanti dell’ arte. L’ Associazione Coloni ringrazia di cuore ancora una volta tutti coloro che hanno permesso la stupenda riuscita della manifestazione storico culturale ed in particolare i giovani e giovanissimi dell’Associazione Assoraider. Emilia Bisesti *** L’ITALIA DI SILMÀTTEO - Da il Direttore de Il Ponte Italo-Americano, Verona, New Jersey, USA, 20 marzo 2014: Caro Domenico,/anzitutto spero che tu e famiglia stiate bene in salute. Io non mi posso lagnare benché abbia compiuto 78 anni il 10 marzo. Mia moglie sta ancora depressa a causa della morte di Nicola avvenuta l’anno scorso./ Vengo a ringraziarti per aver pubblicato la mia recensione al libro di Aldo De Gioia e Anna Aita. (...)./ Mi sento in dovere di complimentarmi con te per la bellissima satira “L’Italia di Silmàtteo” che contiene risvolti di altro livello sociale con un linguaggio appropriato al caso. Ti ammiro per questo! Io purtroppo sono allergico alla politica e non spenderei un rigo per coloro che sono la feccia dell’ umanità. Oltre Kennedy, ammiro Aldo Moro che è stato mio docente di scienze politiche alla Sapienza di Roma: a quel tempo (1960) vinsi il concorso come Segretario Comunale, ma poi me ne scappai in America./Forse la nuova direttrice del Ponte in Italia, Maria Corfini, potrebbe abbonarsi a Pomezia-Notizie: mi ha regalato il libro “Matteo Renzi in Conquistatore”, che ho subito donato ad un amico. “Ai posteri l’ardua sentenza”./Cordiali saluti (...), Tuo Orazio Tanelli Carissimo Orazio, qui si campa, alla giornata, ma si campa. E lascia perdere quel “benché”: gli anni passano per tutti e pure io ti sono a ruota, 78 compiendoli, a Dio piacendo, il prossimo ottobre! Capisco il morale di tua


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moglie e tuo. Perdere un giovane figlio, non è cosa che si possa gettare subito alle spalle. Grazie dell’ apprezzamento per Silmàtteo. Grazie perché viene da colui che per primo ha avuto tanta fiducia nella mia poesia da dedicargli un saggio monografico. Non potrò mai dimenticarlo. Ti scrivo assai di rado perché non ho tempo neppure per il respiro - come suol dirsi -, lavorando da solo per un mensile, che, grazie alle belle firme che ospita, gode invidiabili consensi, anche se, coi consensi, non si stampa, né si spedisce, si che la cassa è sempre vuota e ogni numero par sempre l’ultimo. Tu, almeno, per il tuo Il Ponte Italo-Americano, godi di qualche pubblicità; io, niente di niente, né ci sono contributi di sorta e vivo con una pensione che supera i 900 euro! I lavori da pubblicare sono sempre di più, ma, a pubblicazione avvenuta, la maggioranza degli autori dimentica che la stampa costa, come costa la spedizione. La politica finanzia la “grande” Stampa, cioè, quella legata ai carrozzoni, ma che vende poche copie, a volte meno di quelle che mette in giro Pomezia-Notizie. La politica... Non conviene essere troppo “allergici” ad essa, caro Orazio; occorre tenerle gli occhi addosso, pungolarla, sferzarla, giammai dimenticare che, per essa, siamo condizionati su tutto e per tutto, anche per una entrata in bagno a defecare. Io non ho mai voluto scendere in campo (e nel passato ho avuto parecchi inviti), fare politica attiva, ma non mi sono mai tirato indietro nel fare il mio dovere di giornalista. Politica si può fare in tanti modi e certamente anche tu la fai. Fraterni abbracci. Domenico *** MARIA, ICONA DI UN POPOLO DEVOTO Autore il giornalista di Pomezia, ma abruzzese di nascita, Franco Di Filippo - CORROPOLI: Presentato il libro sulla Madonna del Sabato Santo - Folto pubblico nell’Abbazia di Mejulano. Gli interventi del Prof. Adelmo Marino dell’Università di Teramo, della Dott.ssa Di Giovannantonio dell’Archivio di Stato, del Direttore della Biblioteca Delfico, Ponziani. Le Lodi dei Poeti. Il messaggio del Vescovo Michele Seccia. L’intervento dell’autore. Alla presenza di un folto pubblico (circa 300 persone) che ha gremito letteralmente la sala convegni dell’ex Abbazia Celestiniana di Santa Maria di Mejulano, con la presentazione del libro: “Maria, icona di un popolo devoto”- la Madonna del Sabato Santo, l’Abbazia di Mejulano e il Santuario mariano di Corropoli, opera del giornalista romano, è residente a Pomezia, ma corropolese di nascita, Franco Di Filippo, sono iniziate a Corropoli le celebrazioni centenarie mariane (1915-2015) a ricordo del

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1° movimento degli occhi della Madonna del Sabato Santo. Un volume corposo: 368 pagine, per i tipi della Martintype di Colonnella, con oltre 250, tra foto e raffigurazioni grafiche di varie epoche, pergamene (Biblioteca Delfico-Fondo Palma) e antichi documenti (Archivio di Stato e Archivio Vescovile Aprutino) dal 1300 ad oggi. Ed un parterre d’eccezione con esponenti della cultura teramana di primo piano: dal Prof. Adelmo Marino dell’Università degli Studi di Teramo, nonché Presidente dell’Istituto Abruzzese Ricerche Storiche; sua tra l’altro la prefazione del volume, che ha posto l’accento come: “l’abbazia di Mejulano e la collegata Prepositura di Santa Agnese nel Borgo, dal 1940 Santuario della Madonna del Sabato Santo, si siano nell’insieme consolidate nella storia del Paese come “connotazione mariana” e come mai tali luoghi continuino ancora ad interessare le popolazioni e gli studiosi. Il Di Filippo – ha detto Marino - ci riporta indietro nel tempo e ci ricorda, in maniera circostanziata, la vita del Paese in occasione della festa di Pentecoste (1480), alla processione del Cristo Resuscitato (1400), annoverata - secondo lo studioso Don Domenico Marcucci, sacerdote teologo della Pia società San Paolo tra le più antiche processioni d’Abruzzo, al millenario culto mariano, alla venerazione popolare della quattrocentesca Effige della Madonna del Sabato Santo e ai prodigiosi movimenti degli occhi espressi dalla Vergine negli ultimi due conflitti mondiali. Prodigi riconosciuti ufficialmente tali dalla Chiesa con sentenze vescovili. Al Dott. Luigi Ponziani direttore della Biblioteca Delfico che ha sostenuto come: “ proprio dallo studio delle Carte dello storico Nicola Palma, conservate in questa biblioteca, è stato possibile individuare e approfondire la nascita dell’


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Abbazia di Mejulano nel X secolo e il crescere della devozione mariana nei successivi.. Alla Dott.ssa Carmela Di Giovannantonio dell’ Archivio di Stato di Teramo che ha posto in risalto il culto dei corropolesi alla Vergine nei secoli XVIII – XIX, emerso nello studio delle riordinate carte dei “fondi” borbonici ed i risvolti che portarono nel 1809, a seguito la soppressione degli ordini religiosi da parte di Giuseppe Bonaparte, alla aggregazione della “Nullius Diocesis” della Terra di Corropoli alla Diocesi Aprutina. Sino al Messaggio inviato per la circostanza dal Vescovo della Diocesi Mons. Michele Seccia, letto dal Rettore Parroco del Santuario Mariano Mons. Ivo Di Ortavio. In esso il Presule ha evidenziato come: “nel tempo la devozione alla Madonna del

Sabato Santo sia divenuta imprescindibile per la comprensione dell’identità cristiana e culturale corropolese. E ciò è molto significativo, perché la Madonna del Sabato Santo è portatrice in sé di un forte messaggio. Il suo antico impiego nella rievocazione processionale della Resurrezione, lega questa venerata immagine all’annuncio perenne del mistero pasquale. Tanto viene a significare che chi si riconosce ammantato della sua protezione materna, si riconosce nella sua stessa fede, nel suo stesso gaudio, nella sua stessa speranza. E non è un caso, se un segno di straordinaria eloquenza, come quello della mozione degli occhi, sia coinciso con gli eventi terribili delle due guerre mondiali. Se i miei predecessori – ha puntualizzato il vescovo si sono adoperati con tanto zelo e tanto scrupolo ad

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accertare e dichiarare la verità del miracolo, io mi premuro di sottolineare il significato di speranza, che la Madonna del Sabato Santo, la Madonna della gioia ritrovata, infonde nel cuore dei suoi devoti, anche in tempi non facili, quali i nostri. Con questo augurio di speranza, saluto tutti i presenti, in particolare l’Autore, te carissimo Don Ivo. I relatori ed invoco per voi tutti la costante protezione di Maria Santissima, mentre vi giunga la mia paterna benedizione con un ultimo augurio: conservate nel cuore delle vostre famiglie, tramandate alle giovani generazioni la grande devozione alla Madonna del Sabato Santo, testimoniate con la carità il messaggio di fede e di speranza che la Vergine Santa continua ad affidarci, indicando Gesù: Fate quello che Egli vi dirà”. Ha concluso l’ autore Franco Di Filippo ponendo l’ interrogativo sul perché si è avventurato in una pubblicazione cosi complessa e delicata come quella di scrivere un libro sulla Madonna. Su Maria del Sabato Santo. “Per devozione” è stata la risposta dell’autore . “Non esistono altre motivazioni. Era giusto farlo, soprattutto per rispetto delle vecchie generazioni e per le nuove, ricomporre uno spaccato di storia vera. Ricomporre tasselli di un mosaico di avvenimenti ultrasecolari straordinari: la Festa di Pentecoste del 1498, omaggio del popolo alla Madonna; le espressioni di viva fede che le genti di queste vallate le hanno sempre manifestato nel corso dei secoli, soprattutto nei periodi di calamità naturali: epidemie, guerre, siccità. Le tre solenni incoronazioni della venerabile Effige: la 1^ con aureola d’argento ad opera dei Celestini nel 1700, la seconda con corona d’argento nel 1904, la terza nel 1940 con corona aurea e pietre preziose, benedetta da papa Pio XII. Infine i due prodigiosi movimenti degli occhi, il 1° nel 1915, dal 21 Maggio al 17 Settembre; il 2° nel 1942, dal 24 Maggio al 21 Settembre, di fronte a centinaia di persone “. Hanno fatto corona all’avvenimento le “Lodi alla


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Madonna”, composizioni poetiche dei poeti dialettali abruzzesi: Osvaldo Santoro di Vasto, Gaetano D’Aristotile, originario di Penne, sino a Tito Rubini di Nereto, con gli intermezzi musicali dell’ Orchestra giovanile “I Sinfonici “. Moderatore del pomeriggio letterario il giornalista Gino Mecca, già direttore dell’Araldo Abruzzese con interventi del sindaco Umberto d’Annuntiis che ha portato il saluto della cittadina, il Vice Presidente della Provincia di Teramo, il Dott. Renato Rasicci e la delegazione comunale, guidata dal Sindaco Ivano Colme, di Telve di Sopra, cittadina del Trentino Alto Adige con cui Corropoli è gemellata ed è legata da vincoli di fraterna amicizia.(n. s. p.) Nelle foto: 1°) la Madonna del Sabato Santo. 2°) sala gremita alla presentazione del libro.

Domenico Defelice - Scaffale (1964)

LIBRI RICEVUTI CORRADO CALABRÒ - Mi manca il mare - Poesie, Prefazione (“Capogiri bi-logici e pensiero emozionale nella poesia di Corrado Calabrò”) di Carlo Di Lieto e dello stesso Calabrò (“L’oltre da sé”). In appendice, “Il poeta alla griglia”, Giudizi critici, Biografia poetica, Bibliografia di Corrado Calabrò - In copertina, a colori, “Giove e Io”, del Correggio - Genesi Editrice, collana Letteratura & Psicanalisi, 2013 - Pagg. 240, € 16,00. Corrado

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CALABRÒ è nato a Reggio Calabria, sulla riva del mare, nel 1935. Il primo volume di poesie , scritto tra i diciotto e i vent’anni, venne pubblicato nel 1960 dall’editore Guanda di Parma col titolo “Prima attesa”. Sono venuti poi numerosi altri volumi: “Agavi in fiore” (1976), “Vuoto d’aria” (tre edizioni, 1979-1980), “Presente anteriore” (1981), “Mittente sconosciuta” (1984), “Rosso d’Alicudi” (tre edizioni, 1992), “”Lo stesso rischio” (2000), “Le ancore infeconde” (2001), “Una vita per il suo verso” (due edizioni, 2002), “Poesie d’amore” (2004), “La stella promessa” (2009), “T’amo di due amori” (con un CD, 2009). Assolutamente particolari, perché propongono la poesia in una forma saettante di estrema brevità, sono le due ultime raccolte italiane, “Dimmelo per SMS” (2011) e “Rispondimi per SMS” (2013). Ventisei sono le traduzioni delle poesie di Calabrò, tra cui: 5 in spagnolo, 3 in svedese e in inglese, 2 in francese, russo, serbo, greco, ucraino, una in tedesco, rumeno, serbo, greco, polacco, danese ceco, cinese. Delle sue poesie sono stati fatti vari compact-disc con le voci di alcuni dei più apprezzati interpreti: Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Giannini, Walter Maestosi, Paola Pitagora, Alberto Rossatti, Daniela Barra. Il suo poemetto “Il vento di Myconos” (tradotto in greco) è stato trasportato in musica classica: la prima rappresentazione è avvenuta a Roma, nell’Auditorium Santa Cecilia, il 6 dicembre 2005. I suoi testi sono stati più volte rappresentati in teatro, in recitalsspettacoli, in varie città in Italia e all’estero. Sono vari i saggi critici di Corrado Calabrò, tra cui: “Per la sopravvivenza della poesia uccidiamo i poeti” (2000), “Il poeta alla griglia” (2003), “Rappresentazione e realtà” (2011). E’ autore di un romanzo: “Ricorda di dimenticarla” (1999), dal quale è tratto il film “Il mercante di pietre” del regista Renzo Martinelli. Per la sua opera letteraria l’Università Mechnikov di Odessa, nel 1997, e l’Università Vest Din di Timişoara, nel 2000, hanno conferito a Calabrò la laurea honoris causa. ** AURORA DE LUCA - Primizie - Poesie - In copertina, a colori, “Primizie”, china soffiata su carta (2014) della stessa Autrice; in quarta, foto dell’ Autrice - Leonida Edizioni, 2014 - Pagg. 56, € 12,00. Aurora DE LUCA è nata a Rocca di Papa (RM). Studia Lettere alla facoltà di Tor Vergata. Collabora con varie riviste, tra le quali “Il Convivio” e “Pomezia-Notizie”. Tra le sue opere, “Sotto ogni cielo”, edito dalla Genesi di Torino nel 2012, con Prefazione di Domenico Defelice e Postfazione di Sandro Gros-Pietro. E’ socia del circolo IPLAC e di Habeas Corpus. E’ presente su molti Blog, siti e riviste letterarie, ha ricevuto molti premi, menzioni


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e ottime motivazioni. Nel 2013 ha ideato il Premio “Si accende il Borgo” e il Progetto Didattico “Poeta ci sarai” a Rocca di Papa. ** GIANNI RESCIGNO - Un sogno che sosta - Poesie, Prefazione di Mariella Bettarini, Intervento critico di Sandro Angelucci - In copertina, a colori, ”Un sogno che sosta”, acrilico su cartoncino (1989) di Domenico Severino - Genesi Editrice, 2014 Pagg. 160, € 16,00. Gianni RESCIGNO è nato nel 1937 a Roccapiemonte (SA) e risiede a Santa Maria di Castellabate. Ha pubblicato: “Credere” (1969), “Questa elemosina” (1972), “Torri di silenzio” (1976), “Storia di Nanni” (1981), “I salici - I vitigni” (1983), “Le ore dell’ uomo” (1985), “Tutto e niente” (1987), “Un passo lontano” (1988), “Il segno dell’uomo” (1991), “Angeli di luna” (1994), “Un altro viaggio” (1995), “Le strade di settembre” (1997), “Farfalla” (2000), “Dove il sole brucia le vigne” (2003), “Lezioni d’ amore” (2003), “Le foglie saranno parole” (2003), “Io e la Signora del Tempo” (2004), “Come la terra il mare” (2005), “Dalle sorgenti della sera” (2008), “Gli occhi sul tempo” (2009), “Anime fuggenti” (2010), “Cielo alla finestra” (2011), “Nessuno può restare” (2013), “Il soldato Giovanni (romanzo, 2011), . Nel 2001 è uscito a Torino il saggio critico sulla sua trentennale attività poetica “Gianni Rescigno: dall’essere all’ infinito”, di Marina Caracciolo. Un altro saggio è stato scritto da Luigi Pumpo: “Gianni Rescigno: il tempo e la poesia”. Pure Franca Alaimo gli ha dedicato uno studio intitolato “La polpa amorosa della poesia”, come anche Menotti Lerro: “La tela del poeta (amicizie epistolari di G. Rescigno)”, 2010, Antonio Vitolo: “Il respiro dell’addio (la poesia dell’attesa e il rapporto madre-figlio in G. Rescigno), 2012 e Sandro Angelucci: “di Rescigno il racconto infinito” (2014). ** FORTUNATO ALOI - Piccolo Taccuino di Viaggio - All’interno, foto in bianco e nero - Città del Sole Edizioni, 2009 - Pagg. 72, € 5,00. Fortunato ALOI (conosciuto come Natino Aloi), è stato per anni docente nei vari licei della Città di Reggio Calabria. Sin da giovanissimo ha operato nel mondo della politica, da quella universitaria alla realtà degli Enti locali. Ha percorso un lungo itinerario: da consigliere comunale nella sua Città ed in altri centri della provincia (Locri) a consigliere provinciale, da consigliere regionale a deputato. Come parlamentare (per quattro legislature) ha affrontato temi di diverso genere ed in particolare si è occupato, con grande impegno, di scuola, cultura e di Mezzogiorno. Ha ricoperto l’ alta carica di Sottosegretario alla P. I.. E’ stato coordinatore regionale della De-

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stra calabrese, ed anche Segretario per la Calabria del Sindacato Nazionale (CISNAL). Presidente dell’Istituto Studi Gentiliani per la Calabria e la Lucania, è componente la Direzione nazionale del Sindacato Libero Scrittori Italiani. Giornalista pubblicista, collabora a diversi giornali ed è attualmente direttore del periodico “Nuovo Domani Sud”. Autore di numerose pubblicazioni di storia, pedagogia, saggistica, politica e narrativa. Ha ottenuto riconoscimenti di valore scientifico come il “Premio Calabria per la narrativa” (1990) per il volume “S. Caterina, il mio rione” (Ed. Falzea); il Premio letterario “Nazzareno” (Roma) 1983 per l’opera “I Guerrieri di Riace” (Ed. Magalini) ed il Premio “Vanvitelli” per la saggistica storica (1995) per il volume “Reggio Calabria oltre la rivolta” (Ed. Il Coscile) ed il Premio Internazionale “Il Bergamotto” (2004). Altre sue opere: “Riflessioni politicomorali e attualità dei valori cristiani” (2008), Giovanni Gentile ed attualità dell’attualismo” (2004), “ “Neutralismo” cattolico e socialista di fronte all’intervento dell’Italia nella 1a guerra mondiale” (2007), “Cultura senza egemonie (Per un umanesimo umano” (1997), “Tra gli scogli dell’Io” (2004). ** VITTORIO “NINO” MARTIN - Stevenà amore mio - Poesie, Prefazione di Fulvio Castellani; in appendice, giudizi critici di Antonia Izzi Rufo, Giuliano Federici, Elio Picardi, Marzia Coracci, Pacifico Topa, Claudia Da Re, Carmine Manzi, Pasquale Francischetti - In copertina, a colori, “Borgo a Stevenà”, opera dello stesso Autore e, all’interno, numerose altre in bianco e nero. Cenacolo Accademico Europeo Poeti nella Società, 2014 - Pagg. 54, o. f. c. Vittorio “Nino” MARTIN - leggiamo in quarta, in una scheda a firma Mario Rolfini - artista autodidatta (pittore, scultore, poeta), nasce a Stevenà di Caneva (PN) nel giorno di S. Lorenzo dell’anno 1934 da Giovanni e Ida Michelin ed è il secondogenito dopo la Nina e prima di Esa e Franco. Un’ infanzia normale che però, fino dalle scuole elementari, lascia intravedere una certa vocazione artistica. Le sue opere sono state esposte non solo in città come Roma, Genova, Venezia, Milano, Torino, Napoli, Firenze, Pompei e La Spezia, ma anche in varie città estere tra le quali ricordiamo Atene, Cracovia, New York, Montecarlo, Bonn, Malta, Strasburgo, Hong Kong, Tokyo, Seeboden. Gli sono stati assegnati premi e riconoscimenti di rilievo tra cui il “Sigillo d’oro di Pompei”, il “Premio europeo per la cultura”, la “Palma d’Or des beaux Art”, il “Premio operosità nell’arte”, il “Premio per la pace nel mondo” e il “Premio della critica”. L’ autore ci guida quasi per mano in quel suo paese dell’anima che è il “borgo nativo” con i suoi “rico-


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veri rustici” (dimore di uomini e ad un tempo di animali, come affratellati da un identico e solidale destino di lavoro e di pena), con i suoi, avari, “lembi”, all’intorno, di terre coltivate o di pascoli per pecore e vacche, con i “pochi vecchi” rimasti a presidio dell’ormai deserto villaggio, che “si aggirano furtivi” “nel borgo che non c’è”. E che volo d’ anima, a riscontro di questa amara solitudine delle case, nel disegnare il remoto profilo delle montagne circostanti, che con le loro alte cime sembrano, così “tagliate a metà” come sono “da una nuvola”, toccare le “porte del cielo”! ** CARLOS CHACÓN ZALDÍVAR - El retrato femenino en la poesía de Carilda Oliver Labra Editorial Sanlope Las Tunas, 2014 - Pagg. 36, s. i. p.. La pubblicazione è stata realizzata in occasione del conferimento, da parte dell’Università di Matanza “Camilo Cienfuegos”, del titolo di Dottore Honoris Causa in “Ciencias Humanísticas” alla poetessa Carilda Oliver Labra, marzo 2013.Carlos CHACÓN ZALDÍVAR (Mayarí, 1958). laureato in Spagnolo e Letteratura, risiede a Lomonar - Matanzas, Cuba. Professore Assistente nell’Università di Matanzas. Poeta, narratore e critico. Membro della UNEAC. Ha pubblicato “Ebria de sol y trinos” (1991), “Viejo buscador del agua” (1993), “Cuentos de nochebuena” (1994), “Oratoria lirica por América” (1994), “Antología cósmica lirica” (2001), “El caballo y las voces” (2002). Ha ottenuto premi e menzioni in diversi concorsi. “El retrato femenino en la poesía de Carilda Oliver Labra” è un saggio rigoroso su un tema originale; il suo autore, precisa con nitidezza e chiarezza il trattamento formale, concettuale e profondamente affettivo che la poesia assume attraverso la creazione dei suoi ritratti in versi. Carlos, attraverso una seria investigazione, scende in profondità nel testo per mostrarci il suo più intimo valore. Il ritratto femminino, rimane, allora, distaccato con provata evidenza nella poesia di Carilda. Il lettore troverà, in queste pagine, un cammino, rapido, preciso per arrivare a conclusioni inerenti il tema. ** FRANCO DI FILIPPO - Maria, icona di un popolo devoto. La Madonna del Sabato Santo, l’Abbazia di Mejulano e il Santuario Mariano di Corropoli - Volume di grande formato (30 x 21), carta patinata, ricchissimo di fotografie in bianco e nero e a colori, con la riproduzione di numerosi documenti - Presentazione di Umberto D’Annuntiis, Sindaco di Corropoli; Prefazione del Prof. Adelmo Marino, Università degli Studi di Teramo; testimonianza del Sac. Ivo Di Ottavio, Rettore parroco di Santa Agnese, Santuario della Madonna del Sabato

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Santo - Marte Editrice, 2014 - Pagg. 366, s. i. p.. Franco DI FILIPPO è nato a Corropoli nel 1943. Vive a Pomezia. Giornalista. Ha mosso i primi passi nel giornalismo nella redazione de “Il Tempo” di Teramo per poi proseguire la collaborazione nella redazione romana del quotidiano della Capitale. Ha svolto il ruolo di Quadro per gli Affari Generali e Relazioni Esterne di una società farmaceutica multinazionale. Ha diretto il periodico “Pomezia Diario”, organo d’informazione istituzionale della Città di Pomezia e il mensile “La Provincia, la Città, la Regione”. Ha collaborato con “Avvenire”, quotidiano della Cei e con il mensile “Antiqua”, rivista dell’Archeoclub d’Italia. Nel 1985 gli è stato assegnato il Premio giornalistico “Città di Ardea”.

TRA LE RIVISTE LA RIVIERA LIGURE - quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, direttore Maria Novaro - Corso A. Saffi 9/11 - 16128 Genova. Il n. 1 (73), del gennaio-aprile 2014, è interamente dedicato a Dino Campana, con diversi interventi, tra cui: Veronica Pesce, Franco Croce, Antonello Perli, Isabella Tedesco Vergano, Marco Ercolani, Massimo Gatta, Sebastiano Vassalli, Luigi Faccini, Marcello Gatti. * NUOVO DOMANI SUD - Periodico di informazione politica e culturale, diretto da Fortunato Aloi, responsabile Pierfranco Bruni - via S. Caterina 62 - 89121 Reggio Calabria. Riceviamo il n. 2, Marzo-Aprile 2014. * PENNA SOTTILE - Mensile indipendente di approfondimento politico, culturale, sociale, artistico, sportivo, diretto da Giuseppe Crapanzano - via Verona 5 - 92026 Favara (AG). Riceviamo il n. 2 (marzo 2014) e salutiamo la nascita di questa nuova creatura di carta dalla “pluralità dei contenuti, che, con facilità e garbo, spaziano dai temi più scottanti della società (Lampedusa, per esempio, e i drammi che quasi giornalmente si presentano con lo sbarco continuo di poveri cristi in cerca di pace e di lavoro) a quelli più leggeri e ilari”. Del direttore, oltre l’editoriale, leggiamo “Da emigrante a inconsapevole ereditiero” e “Cose assurde? No, solo cose vere!”. Poi, ecco le firme di Giovanna Li Volti Guzzardi, Carmelina Blancato Pelligra, Pippo Lombardo, Diego Acquisto, Totò Arancio, Giovanni Lattuca, P. Governale, Giuseppe Palmieri, Valentina Piscopo, Vincenzo Crapanzano, Salvato-


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re Pirrera, Giada Attanasio, Gaetano Allotta, Salvatore Crapanzano, Angelo Amato, Paolo Radivo eccetera.

L’ITALIA DI SILMÀTTEO di Domenico Defelice Terza Puntata*

Strillano i dipendenti dello Stato: ne sono a rischio ottantacinque mila. A suggerir per loro il gran bidone è Carlo Cottarelli, che guadagna per questa vasta impresa un bel milione. Sopprimer le Province ed il Senato? Ma via, scherziamo! E’ solo barzelletta! Sopprimere, da noi, ha il significato di preparare un’altra bella sola, che ci faccia rimpiangere il passato. Ecco spuntar cespugli, lobby e mafie; la strada si trasforma in una gruviera o in un sentiero adatto alla gimkana e il primo grosso masso lo depone, allo spuntare della primavera, l’oracol Presidente: Piero Grasso. Sopprimer le Province ed il Senato? Sì, spezzettarle; una riforma a pera, creando altri mille carrozzoni, per sciorinarli, pieni di trombati, di ladri e mazzettari, a gruppi, tra i Comuni e le Regioni. Da noi son morti tutti gli statisti; più non abbiamo uomini capaci d’ammodernare la Costituzione. Manca un vero disegno. Non si riforma a spizzichi e bocconi. In Veneto, intanto, si trasformano trattori in carri armati; si invocano mitraglie e candelotti; s’inneggia Secessione! Secessione! e si finisce come dei leprotti

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ai domiciliari od in prigione. E’ tutto una melassa, una vera presa per il culo, un gioco a rimpiattino, un marameo, manovra adatta a inchiavardar corrotti nel vasto Parlamento europeo. Iniziano le fughe in Forza Italia. Sentendo odore di disfacimento, i topi per non essere annegati azzannano gli amici a tradimento. Berlusca tenta correre ai ripari Dudù arruolando e tutti gli altri cani, la Brambilla1 investendo del comando che sempre più si scarta dagli umani. E’ un welfare per tutti gli animali che coinvolge e poveri e sciancati, l’associazione dei veterinari, gli sdentati vecchietti ed i dentisti, le famigliole in crisi viaggi offrendo e spese alimentari. In attesa del giorno fatale e memorabile, nel quale, per scontare la pena, sarà assegnato ai domiciliari, o, più probabilmente, nel sociale, depistare egli tenta l’attenzione di tutti gli Italiani con il mettere in forse la riforma della Costituzione. Così come il quesito è formulato, FI giammai potrà votare la pessima riforma del Senato. Per non creare un mostro, che produrrà altri mostri, occorre un nuovo incontro al Nazareno con l’ilare Silmàttero Renzusconi; tutti dovran capire che Berlusca soggetto è indispensabile a condurre in porto una qualunque correzione. E’ salito per questo al Quirinale appena l’altro giorno. Non di condanna più si parli, dunque. Tutta dovrà l’opinione pubblica


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definitivamente esser convinta ch’è lui il salvator della Repubblica. A soccorrerlo vien Dan Diaconescu: se vincerà le presidenziali, lo farà Primo Ministro in Romania, levandocelo di torno e così sia! Intanto il movimentismo silmattèo sembra aver perso un po’ di propulsione: la legge elettorale è in quarantena e solamente critiche feroci ha la riforma delle istituzioni. I giorni non son certo tra i migliori: in Forza Italia lascia Bonaiuti2 appena viene a Beirut arrestato il fondatore storico Dell’Utri3. Via Veneto non ha più la Dolce Vita, né il pasteggiar seduti nei caffè, il languido passeggio, il non far niente. La gente è chiusa in casa intimidita. Da piazza Barberini, salgono a centinaia tute nere con petardi, con spranghe e molotov, pedoni spaventando e commercianti. Un popol delirante, assatanato, che fiuta il sangue, sì ch’è già miracolo se veramente il morto non c’è stato4. Ma ci sarà. Profeta è chi l’odore sente alla distanza di ciò che poi s’avvera. Esser vorrei considerato un pazzo che sproloquiando va e che vaneggia, giammai dover verificar nei fatti ciò che da tempo tra di noi serpeggia. Intanto si rinnovan le poltrone degli Enti più importanti dello Stato5: Descalzi, all’Eni, ed Emma Marcegaglia, che sguazza nel conflitto d’interesse; Starace e Grieco all’Enel; per dare a quel servizio un altro stress, Caio e Todini alle Poste Italiane6; Gianni De Gennaro a Finmeccanica con Mauro Moretti il riciclato dal carrozzone delle Ferrovie:

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un incapace a far viaggiare un treno7 è messo a capo della sicurezza, dell’aerospazio; in un battibaleno, della difesa, delle tecnologie, dei gioielli migliori dello Stato. Silmàtteo incontra ancora Berlusconi e, questa volta, a Palazzo Chigi. Fra un tira e un molla e tra un molla e stringi, entrambi fanno il gioco delle parti. Tensioni non ci sono tra di loro e dell’agenda la gestione è un’arte. Chi totalmente han perso ogni decoro son certamente alcuni magistrati: l’hanno costretto a stare nel sociale per sole quattro ore a settimana! Purché non parli male dei togati, non si rimetta in fronte la bandana e non tardi la sera a rincasare, non frequenti drogati e delinquenti, è libero d’ogni altro sacrificio. Per tutti i condannati deficienti, è di marcire in cella e rosicare l’ormai proverbiale par condicio! Domenico Defelice * Riassunto delle precedenti Puntate - In una serena notte d’estate, in Sardegna, avviene improvvisa un’esplosione. Tra fulmini e tuoni e lo spavento generale, Berlusconi erutta attraverso i suoi attributi. E’ imbufalito perché, a Milano, i Giudici l’hanno condannato definitivamente. In Germania, intanto, Angela Merkel è in sofferenza per una perdurante stitichezza (in senso economico e specialmente nei nostri confronti). Le giunge la notizia che, nella colonia italiana, Silmàtteo Renzusconi è stato nominato Segretario del PD., il quale, tra l’altro, vuol combattere contro l’austerità dell’ Europa a direzione teutonica. Il 18 gennaio 2014, a Largo del Nazareno, a Roma, incontro storico tra il Segretario PD e Silvio Berlusconi, i quali si accordano sulla nuova Legge Elettorale e sulle riforme della Costituzione. Ai primi di febbraio, un altro terremoto scuote la politica italiana: Alan Friedman rivela, in un suo libro, che, sei mesi prima delle dimissioni di Silvio Berlu-


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sconi da Presidente del Consiglio, Giorgio Napolitano e Mario Monti avevano tramato per defenestrarlo. A febbraio, cade il Governo di Enrico Letta sostituito da quello a guida Renzi, formato da giovani di belle speranze, per la metà donne. L’inizio sembra travolgente, ma pochi sono i risultati; languono le riforme e sembra tutto una manfrina in attesa delle elezioni europee. Ma anche nei confronti dell’Europa a guida Merkel, Renzi - che in patria afferma che tutto ciò non gli piace - all’ estero e di fronte alla stessa Cancelliera, appare fin troppo ...conciliante: l’Italia ingoierà ogni medicina che le verrà proposta! Intanto, la Magistratura conferma la condanna a Berlusconi, il quale si dimette da Cavaliere. Note: 1 - Michela Vittoria Brambilla, nata il 26 ottobre 1967 a Calolziocorte, laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore, politica imprenditrice, amante degli animali e che, nel 2008, è sta Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con delega al Turismo, nel quarto Governo Berlusconi. 2 - Paolo Bonaiuti, per tanti anni portavoce di Silvio Berlusconi e tra i fondatori di Forza Italia nel 1994, assieme a Giuliano Urbani, Marcello Pera, don Gianni Baget Bozzo, Franco Frattini, Tiziana Parenti, Gianni Letta, Federico Confalonieri, Sandro Bondi, Antonio Tajani, Giancarlo Galan, Antonio Martino, Stefania Prestigiacomo, eccetera. Tra morti e defezioni, nel partito son rimasti in quattro gratti. 3 - Marcello Dell’Utri, altro storico fondatore, con Silvio Berlusconi, di Forza Italia. Ex senatore, dirigente di azienda, studioso. Condannato in appello a sette anni di carcere per associazione esterna mafiosa, è stato arrestato in un lussuoso hotel della capitale Beirut dalla polizia libanese, in esecuzione di un mandato di cattura internazionale emesso dai magistrati di Palermo. 4 - L’incidente più grave, la mano spappolata di un peruviano che stava per lanciare una molotov. 5 - Amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi ed Emma Marcegaglia Presidente; all’Enel, amministratore delegato Francesco Starace e Patrizia Grieco Presidente; Poste Italiane: Francesco Caio ad e Luisa Todini Presidente; Finmeccanica: Mauro Moretti ad e Gianni De Gennaro Presidente. 6 - E’ a tutti noto il disastro della raccolta e della consegna della corrispondenza in Italia. 7 - E’ difficile che un treno viaggi in orario e, durante la sua gestione, abbiamo assistito a treni sporchi, infestati di pulci e zecche, anche insicuri, specie nei viaggi notturni.

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LETTERE IN DIREZIONE Carissimo Direttore, oggi è il 14 Aprile e ti scrivo dal Blue Moon, sulla spiaggia del Lido, qui a Venezia, un lunedì ventoso pieno di sole, che rende il mare blu intenso ad onde bianche in schiuma, gente intorno, tanta, e musica brasiliana di fondo. Ho passato la mattina all'Archivio Luigi Nono per via di Giovanni Pirelli, della sua corrispondenza con questo compositore veneziano che mi sento addosso, per scavare nei solchi de 'A floresta é jovem e cheja de vida', pezzo scritto da Nono tra il 1965 e il 1966, per soprano, clarinetto, tre voci di attori, lastre di rame e nastro magnetico, testi documentari a cura proprio di Giovanni Pirelli, intorno alla Guerra del Vietnam! La signora Nuria Schönberg Nono, gentilissima, mi ha detto che dovremo parlare con calma anche del mio Papà: si, ha detto proprio così, mentre le mostravo sulla tua Rivista il mio lavoro intorno al 'Moses und Aron', del suo Papà. Nella mente e sul filo della memoria, allora, come bene dice Lionello Fiumi, un altro mare più vasto, infinito e nelle infinite, cromatiche tonalità dal grigio chiaro all' azzurro, a seconda del cielo, per poi tornare tutte indietro su se stesse ed irrigidirsi quando il cielo si oscura. Tanti i gabbiani qui, sulla spiaggia di Portobello, la vera, ampia Riviera di Edinburgh e vi si arriva dal centro della città, camminando a lungo verso Est. In fuga da Vicenza, in treno, verso il Nord del Regno Unito, verso la Scozia di Maria Stuart la Cattolica, verso una terra antica ed orgogliosa, terra di pensieri e di azioni in uomini, donne e bambini difficilmente ubbidienti. Il 15 Marzo 2011, preciso giorno di festa qui in Italia per il centocinquantesimo di un'unità che è stata imposta dall'alto, telefono al prof. Shlomo Sand e gli dico che la registrazione della nostra conversazione a Marsiglia è riuscita male; gli dico che lo devo incontrare ancora e lui mi risponde di raggiungerlo ad E-


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dinburgh perché il 19 Agosto sarà lì, all'International Books Festival, per presentare il suo libro su Ernst Renan e il concetto di ' Nazione', oltre a quello, è chiaro, su 'L' invenzione del Popolo Ebraico', che proprio in Italia non ha avuto successo, mentre in Alessandria d'Egitto, prima della primavera araba, ne sono state vendute ben 15 milioni di copie. Troppa fretta nel dirmi un 'si' cordiale e beffardo la sua parte, dopo le varie perplessità che aveva nutrito rispetto alla mia decisa ed approfondita conoscenza del Sionismo, della Mistica Ebraica, di Gramsci e di che cosa significhi 'propaganda'... Allora, carissimo, con te in mente, alla ricerca della Verità, degli uomini come della Storia, parto da Vicenza con grande anticipo, non si sa mai e per via di treno, passando per Milano, fino ad arrivare a Parigi, alla Gare de Lyon e poi ancora, dopo una notte a dir poco burrascosa lungo i boulevard della 'Preziosa', con tanti che mi vogliono aiutare e portare a casa loro ed io che dico 'no, grazie', perché ho il mio Amico che mi attende all'Albergo e poi quell'Albergo c'è (anche se l'Amico manca perché protetto altrove e non in avventura!) e mi riparo lì per 50 euro e poi da lì alla Gare du Nord, il mattino seguente, per prendere il treno verso Londra, quel treno che mi fa superare da Calais il Tunnel della Manica, un cordone ombelicale a riunire due organismi sempre in contrasto e poi da Londra, dalla King's Station via, in treno da Sud a Nord del Regno Unito, verso Edinburgh! Arrivo di pomeriggio e ad accogliermi, in Drummond Street eccoti Julia e la sorella, entrambe in età, l'una vestita tutta di rosa, l'altra di azzurro. Mi sembro Alice entrata nel Paese delle Meraviglie perché quella che mi mostrano è come una casa per le bambole e la mia camera è tutta nei toni del rosa e del lilla, ordinata e con pizzi e tendine in decoro alle finestre. Dopo avermi offerto un merendino di formaggi e verdure fresche, mi portano pensa mio caro che hanno sopra i 150 anni in due!- a passare la serata in un 'Pub' dove cantano e suonano Musica Celtica e dove si beve birra a volontà e si mangia 'Smooked Salmon' in piatti da portata così grandi da far impallidi-

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re Gargantua e Pantagruel dall'invidia e dove, se ti capita di fermare gli occhi e di incrociare quelli di qualcun altro, uomo o donna che sia, li vedi brillare straniti tanto che puoi spegnere le già deboli luci di candela, inferiori d'efficacia! Ho detto a Virgilio, spiegandogli il perché ed il percome: “Cosa vuoi che ti porti dalla Scozia?” E lui subito, senza esitazione: “Lo Smooked Wiskey Tallisker!”. Così è stato e lui l'ha centellinato, assaporandone i gradi d'invecchiamento in botti antiche di rovere e sognando il Nord in giornate ventose, grigie e con tutte le sfumature del verde tenero e spento intorno e con le oche bianche che sorvolano in stormo il cielo. Come avrai ben capito, carissimo, anticipo qui ad Edinburgh il prof. Shlomo Sand di giorni e te lo incontro, guarda caso, il giorno 17 Agosto lungo Nicholson Street, al mattino, stralunato e stanco, in cerca del responsabile del Meeting. Ci fissiamo negli occhi, io sorrido e lui dice “You are my obsession!”. Certo! Lui il 19 sarebbe stato a Glasgow e addio incontro, sarei rimasta come 'quello della mascherpa' come 'disen a Milan', di stucco, come diciamo noi. Ecco: la Verità sta svelando lentamente il suo volto segreto alla Bambina Innocente! Alla Fiera del Libro Edinburghese, per entrare, bisogna essere accreditati, ma io, previdente, mi sono portata via la nostra 'Rivistina' dove mi hai pubblicato l'intervista al prof. Gadi Luzzato Voghera, importantissima, e la recensione del libro proprio di Shlomo Sand 'The invention of the Jewish People'! Le signorine addette non sanno l'Italiano, ma vedono il mio nome e quello del Relatore, così passo a questo e ad altri incontri. Registro la sua Conferenza e lui, scollato e con una collana d'oro al collo che peserà mezzo chilo, perché lo stipendio che gli dà lo Stato d'Israele alla Tel Aviv University è ben alto, può pensare a figli e nipoti e a tanto altro, anche a far passare lo Stato d'Israele come Nazista, Razzista, contro il quale muoversi attraverso i BDS, i boicottaggi e gli embarghi di ogni tipo, a livello internazionale e in molti ci cascano! Lui, mentre parla, mi osserva, in se-


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conda fila, mentre scatto fotografie: si, carissimo, ecco perché quella mia foto pubblicata su Pomezia Notizie dell'Agosto 2012 mi è costata una cifra! Perché, fare in modo tale che la Verità si disveli a te, in segreto ed in modo condiscendente e convincente al tempo stesso è cosa rara, preziosa, senza prezzo! Dobbiamo tornare a quella mia 'Lettera aperta al prof. Shlomo Sand..', perché, nonostante io gli abbia inviato la Rivista, con dentro il testo anche in Inglese, lui non si è degnato di rispondere, non si è lasciato condizionare dal dialogo, da quel dialogo che può scalfire pericolosamente ogni qualsivoglia propaganda.... L'invenzione del Popolo Ebraico e l'invenzione del Popolo Italiano: forse la cosa si addice bene al secondo, non al primo! Un bagno, molti bagni nelle grigie acque del Mare del Nord, per togliermi le scorie di dosso, fredde anche in Agosto, vestita di nero come una foca in carne ed intorno i gabbiani che svolazzano, perché chi sa mai che poi ci sia pastura e ride Virgilio quando gli racconto tutto perché dice che l'ho scampata bella: se si mettono tutti insieme e mi credono un pesce grosso in galleggio, i gabbiani mi attaccano e per me, contro i loro becchi audacissimi, lunghi, adunchi, non c'è più scampo. Le Ninfe Nordiche, mie preziose alleate, invisibilmente mi difendono mentre sul bagnasciuga è arrivata un'ambulanza chiamata da alcuni locali premurosi, spaventati perché non mi vedevano tornare.... Io ho spiegato loro che si, che mi dispiace che si siano disturbati, che sono abituata alle acque gelide ed in scroscio dei Torrenti Italiani del Veneto e, se lo desiderano, offrirò loro qualcosa... Si siedono e pagano loro, mentre la storiella della Foca Monaca Italiana fa in fretta il giro degli isolati. Il giorno successivo, il 18 Agosto 2011 lui, Shlomo Sand si dilegua, parte per Glasgow, dopo avermi dato il nome sbagliato dell'Hotel dove avrebbe consentito di darmi ancora del suo tempo! Io capisco così meglio e più chiaramente che la propaganda farcisce di sé ogni politica e dissuade dal ragionamento, quel particolare ragionamento che è provvisto di etica individuale e collettiva. Serate indimen-

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ticabili a Teatro, che dico, in diversi Teatri e Sale da Concerto, poi al mattino registro il canto dei gabbiani, che per me è balsamo concentrato di libertà, e ancora, in orario più consono, a piedi verso il Parlamento. Si, perché Julia, dopo che le ho spiegato tante cose, mi porta dal Governatore Alexander Salman, Governatore della Scozia, dico e ripeto che gli devo parlare di Umberto Bossi, che è suo Amico. Dopo dieci minuti, consegnata la mia Carta d'Identità, il suo Segretario mi dice con gentilezza che cosa desidero ed io spiego che in Italia non mi lasciano intervistare Umberto Bossi e l'ho chiesto più volte per telefono e in e-mail, senza alcun risultato! Chi sa mai, dico a lui in modo innocente, che con una telefonatina del Governatore quelli arrivino a più aperti consensi. E' serio e mi risponde determinato che io faccia ancora due tentativi perché loro non possono 'scavalcare' lo staff politico che lo circonda, se poi non dovessi ancora ottenere nulla, allora dovrò far loro sapere tutto ciò e decideranno di conseguenza. Come puoi ben immaginare, carissimo, i due tentativi non li ho fatti perché mi è bastata la verifica di come funziona la burocrazia pragmatica che guida un popolo libero, audace, indipendente, al quale anche le gerarchie della Corona devono dare attenzione e seria! Da lidi e costiere lontane, nella memoria, con questo orizzonte veneziano di fronte, ti abbraccio con cuore libero. Ilia Carissima Ilia, del tuo Papà, non dovrebbe parlare (e spero che veramente lo faccia!) solo Nuria Schönberg, ma, specialmente, tutti coloro che l’ hanno conosciuto e pure beneficiato della sua amicizia e del suo grande amore verso la Cultura. Nel corso degli anni, tanti di costoro sono morti senza averlo fatto: un vero peccato. Lo facciano coloro che sono ancora in vita. Pubblicando, magari, le sue lettere a loro indirizzate, come ho fatto io, e narrando di incontri, rinverdendo il suo ricordo col rispolverare le sue opere, ristampandole, pubblicando finalmente quelle inedite come Vela d’ argento. Hai fatto bene a precisare sulla foto di Sand


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pubblicata, a suo tempo, sulle pagine della nostra creatura di carta. Sembrava che io ti avessi chiesto del denaro per stamparla! Invece è che, spendendo soldi e tempo, tu corri sempre sinceramente innamorata all’incontro di personaggi celebri, ma, che, spesso, deludono in fatto di gentilezza e umanità. Ho anch’ io, oggi, delusioni del genere ed è per questo che provo nostalgia di tanti personaggi famosi conosciuti in passato, dimostratisi gentili e alla mano. Dico del tuo Papà, per esempio, di Serra, di Boneschi, di Delcroix, di Carlo Levi, di Montanelli... Grandi e senza boria. Il rischio, cara Amica, è che anche noi ci chiudiamo nel guscio, inaridendoci. Io mi sforzo di non farlo. Non farlo neppure tu. Continua a inseguire gli illustri personaggi, a volte grandi solo in scienza, arte, cultura, un po’ meno nel resto. Sono e siamo umani e la storia ci ha sempre narrato di questo strano dualismo che si annida nell’ uomo. Domenico

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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) composti con sistemi DOS o Windows su CD, indicando il sistema, il programma ed il nome del file. E’ necessaria anche una copia cartacea del testo. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute. Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario). Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I testi inviati come sopra AVRANNO LA PRECEDENZA. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Per chi usa E-Mail: defelice.d@tiscali.it Il mensile è disponibile anche sul sito www.issuu.com al link http://issuu.com/ domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI Per il solo ricevimento della Rivista: Annuo... € 40.00 Sostenitore....€ 60.00 Benemerito....€ 100.00 ESTERO...€ 100,00 1 Copia....€ 5,00 e contributi volontari (per avvenuta pubblicazione): c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice. Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio

D. Defelice - La collina inquietante (1979)


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