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IL REGISTA
FRANCESCO LEPRINO ATTRAVERSA I SECOLI ED INTRECCIA 'UN GIOCO ARDITO' CON
DOMENICO SCARLATTI di Ilia Pedrina
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RANCESCO Leprino è musicista, musicologo, organizzatore musicale ed ha pubblicato dischi, volumi e saggi musicali. Si è occupato di audiovisione dal 1995 ed ha tenuto corsi universitari, seminari e conferenze, realizzando video, documentari e film antologici e sperimentali che hanno incontrato il favore pieno della critica e di istituzioni culturali prestigiose in Italia, in Germania, in Canada, in Belgio, in Olanda, in Svezia, in Spagna e negli Stati Uniti. Ho incontrato il regista Francesco Leprino e la sua compagna Chiara Morbidini, assistente di produzione, nel corso della presentazione del suo film- documento 'O dolorosa gioia – Carlo
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All’interno: Fabio Dainotti: la serenità del disincanto, di Marina Caracciolo, pag. 5 La Sicilia di Livia De Stefani, di Giuseppina Bosco, pag. 7 ‘D’in su la vetta della torre antica’ di Giuseppe Leone, di Ilia Pedrina, pag. 10 Ricordi di liceo (il mio Chiabrera), di Luigi De Rosa, pag. 13 Maria Grazia Lenisa: Lettere, di Giuseppe Leone, pag. 15 Scorribande nel tempo che fu, di Lino Di Stefano, pag. 17 Mozart e il Don Giovanni, di Ilia Pedrina, pag. 19 Saffo e Dante a confronto, di Antonia Izzi Rufo, pag. 24 Nazario Pardini dalle opere 1997 - 2013, di Carmelo Consoli, pag. 25 Domenico Defelice, Maria Grazia Lenisa e le Lettere, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 29 Il mio pianto va..., di Adriana Mondo, pag. 31 Grazia Deledda, di Leonardo Selvaggi, pag. 33 Isa Morando e Egidio Morando: ... et fuga temporum..., di Liliana Porro Andriuoli, pag. 35 Canarie, di Anna Vincitorio, pag. 38 I Poeti e la Natura (William Butler Yeats), di Luigi De Rosa, pag. 41 Notizie, pag. 49 Libri ricevuti, pag. 50 Tra le riviste, pag. 51
RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Diario di anni torbidi, di Domenico Defelice, pag. 43); Isabella Michela Affinito (Lettere, di Maria Grazia Lenisa, pag. 44); Isabella Michela Affinito (Palcoscenico, di Tito Cauchi, pag. 45); Elio Andriuoli (Inventario di settembre, di Umberto Vicaretti, pag. 46); Andrea Pugiotto (Amanti di sabbia, di Tito Cauchi, pag. 47); Orazio Tanelli (Lettere, di Maria Grazia Lenisa, pag. 48).
Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Marco Carnà, Tito Cauchi, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Caterina Felici, Giovanna Li Volti Guzzardi, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi
Gesualdo, Principe di Venosa', in visione nella Sala 'Marcella Pobbe' del Conservatorio 'A. Pedrollo' di Vicenza, inserito a conclusione di tutta una giornata dedicata al compositore napoletano che ha coinvolto nella sua rivoluzione armonica, vocale e strumentale, seguaci in ogni tempo, compreso Luigi Nono: rimango molto colpita dallo stile stratificato e multiforme, animato da passione e forza investigativa, adottato dal Leprino per questo lavoro. Acquisto il DVD, saluto i due amanti e pochi giorni dopo mi arriva in dono un plico con altro materiale
importantissimo, tra cui 'UN GIOCO ARDITO - Dodici variazioni tematiche su Domenico Scarlatti -, anche questo, come gli altri, realizzato da 'Al Gran Sole', la sua casa di produzione, sotto il patrocinio della Società del Quartetto di Milano, del Centro di Musica Antica di Napoli, del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, dell'Orchestra e Coro Giuseppe Verdi di Milano, del quale egli si fa regista e sceneggiatore, fatto circolare nelle lingue Italiano e Inglese nel 2006 e vi partecipano municipalità d'Italia, di Spagna e del Portogallo. Dati di vita, d'arte e
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di relazioni si intrecciano a riprese dirette dei luoghi che Domenico Scarlatti ha frequentato e forse amato, come Napoli, Roma, Lisbona, Madrid, con scenari di palazzi, saloni interni, giardini che vanno a creare atmosfere vissute intensamente a far da sfondo alle esecuzioni delle sue Sonate e delle nuove formulazioni che a partire da esse hanno costruito compositori come A. Cappelletti, A. Casella, A. Corghi, G. Falzone, G. Gaslini, Ruggero Laganà, Fabio Nieder, Le Orme, M. Pisati, S. Sciarrino, J. Torres Maldonado, I. Traversi, M. Viel. Sulle prime ascolti al cembalo Ruggero Laganà e ti lasci coinvolgere da chi parla di Scarlatti come di persona con la quale si scambia la vita: non sai i loro nomi, li verrai a conoscere in seguito, ma vieni toccato dalla loro sensibilità e dalla estrema competenza che mettono in campo, in modo chiaro, intimo, diretto. Gli intervistati sono E. Baiano, Emilia Fadini, Gustav Leonhardt, Roberto Pagano, Giorgio Pestelli, José Saramago, Salvatore Sciarrino. Al centro della narrazione storica una strategia da epos popolare, quella della marionetta che impersona il musicologo inglese Charles Burney, animato da Carlo III Colla della Compagnia Carlo Colla & Figli: ci conduce per mano in questa avventura conoscitiva, intervallata da moduli che si avvalgono di straordinarie esecuzioni originali e reinterpretazioni, intrecciate alle interviste che chiarificano ed interpretano gli eventi e la carica creativa ed inventiva di questo straordinario compositore Italiano ed Europeo ad un tempo. Francesco Leprino porta così in vita e sullo schermo, piccolo o grande che sia, delle abilità tecniche di regia, di sceneggiatura e di supervisione che vanno ad accreditare con forza le risonanze dei suoi sogni: essi allora rappresentano quella realtà in divenire, dal passato al futuro, che ci consente di appropriarci ancor meglio della musica di Domenico Scarlatti come fenomeno d'arte totale, spaziando dalle atmosfere dei palazzi d'Italia e d'Europa alle interpretazioni, alle chiarificazioni degli esperti interpellati, dai dialoghi ai monologhi, dalle esecu-
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zioni dal vivo alle riprese di esterni o di interni che per bellezza quasi tolgono il respiro. Veniamo a sapere che il padre di Domenico ne intuisce subito la grandezza inventiva, gli apre porte e relazioni a Roma, a Firenze, a Venezia, ma il giovane riesce ad oscurare di gran lunga la fama del padre, ad acquisire onorificenze prestigiose fino ad essere chiamato alla corte di Lisbona e vi rimarrà per decenni, ad insegnare l'arte del Gravicembalo alla giovane principessa Maria Barbara, per la quale pubblicherà i '30 Essercizi per Gravicembalo per i serenissimi principe e principessa delle Asturie', accompagnati da una premessa dello stesso compositore: 'Lettore, non aspettarti, o Dilettante o Professor che tu sia in questi componimenti il profondo Intendimento, ma bensì lo scherzo ingegnoso dell'Arte, per addestrarti alla Franchezza sul Gravicembalo. Né viste d'Interesse, né Mire d'Ambizione, ma Ubidienza mossemi a pubblicarli. Forse ti saranno aggradevoli, e più volentieri allora ubidirò ad altri Comandi di compiacerti in più facile e variato stile: Mostrati dunque più umano, che critico e sì accrescerai le proprie Dilettazioni.... Vivi felice.' (fonte DVD 'Un gioco ardito – Dodici variazioni tematiche su Domenico Scarlatti', fotogramma del frontespizio originale dell'Opera di Domenico Scarlatti, ed. 'Al Gran Sole', Milano, 2006). Sostiene un Inglese di cui ora non ricordo il nome: 'Quando gli Italiani si lasciano prendere dall'entusiasmo, l'oggetto di questo loro trasporto è qualcosa di veramente eccelso. Allora non si limitano a dimostrare una semplice approvazione, ma esprimono il loro rapimento in una maniera tutta particolare, sembrano agonizzare in preda ad un piacere così intenso da indolenzire i sensi...' (fonte: voce di Shel Shapiro per la marionetta di Sir Charles Burney, ibidem). Allora eccoci di fronte ad un appassionato gioco ardito dell'Arte, quella improvvisazione che prende dentro i timbri del mandolino e della chitarra, le atmosfere gitane ed andaluse dei canti e delle
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danze popolari della penisola iberica. Proprio perché non codificata e variatissima, la musica di Domenico Scarlatti asseconda non l'occhio, che si lascia guidare dalla partitura, ma l'emozione che avvince ed apre al mondo i moti dell'invenzione audace. Due i Cuori palpitanti di questo ottimo lavoro di Leprino sono per me 'ARIA vARIAta' dalla Sonata K 32 in re minore per tre voci femminili, tre flauti e pianoforte, una incredibile composizione del musicista, pianista e clavicembalista Ruggero Laganà, un mutuare di sonorità in giochi d'aria e di respiri, con effetti magnetici che rasentano il sublime, e la ripresa dell'esecuzione della Sonata K 109 in la minore, in una rivisitazione del compositore Arrigo Cappelletti in forma di fado su testo di Fernando Pessoa: vita e morte delle cose e loro rinascita si avvita intorno al brano, mentre la voce di Ana Moura, in simbiosi con gli strumentisti, segnala un avvio alla fascinazione che ti spinge a reiterare l'ascolto del brano quasi all'infinito. Tanti gli eventi storici che accompagneranno Scarlatti segnandone anche il destino, come il terremoto di Lisbona, del 1 novembre 1755, che ha distrutto la città, provocando oltre 60.000 morti, e che ha devastato le zone circostanti, con la gente che cerca scampo verso il Tago, che si rivelerà altra zona di morte, perché quasi uno tsunami con onde alte sei metri arriverà dal mare ed il Portogallo sarà definitivamente prostrato; come la scelta di una prima e poi di una seconda moglie, che in tutto gli daranno dieci figli, ad emulare quasi il quantitativo in prole raggiunto da suo padre Alessandro; come l'arrivo da Londra di Farinelli, per Scarlatti una figura veramente destinale, che allevierà nelle notti la folle angoscia del re Giovanni, padre di Maria Barbara per la cui nascita aveva fatto erigere il Santuario di Mafra: Farinelli permane con lui nella camera regale, notte dopo notte per un anno intero ed intona per lui solo le medesime melodie a coprire talora le sue urla: ma può il popolo venire a sapere che il suo re è folle? La musica ed il canto si diffondono tra il popolo che dorme nella notte,
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relegando al vuoto ed al nulla ogni altra memoria. Allora sarà proprio Farinelli ad ereditare dalla Regina Maria Barbara, alla morte del compositore nel 1757, i libri delle sue Sonate, complessivamente 555, ora in parte alla Biblioteca Marciana di Venezia ed in parte al Conservatorio di Parma. A conclusione del lavoro Francesco Leprino scrive: 'Ho ideato e realizzato Un gioco ardito nell'arco di 9 mesi. In questa gestazione ho riscontrato tanto sostegno da parte di amici vecchi e nuovi, che hanno collaborato in maniera disinteressata e con entusiasmo. Entusiasmo contagiato credo, dalla personalità di questo misterioso musicista che in questo periodo ha catturato totalmente la mia vita...' (fonte: ibidem). Poi ringrazia tutti e sottolinea nel documento di presentazione: 'Ecco che l'antico si salda e rivive nel moderno, dando linfa sempre nuova a questa musica. Luoghi, interpretazioni, improvvisazioni, composizioni, interviste, citazioni che hanno al centro una dozzina di Sonate di un grande musicista che ha saputo, con una facezia giocosa, reinventare la musica per il suo e il nostro gioco'. Ilia Pedrina
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FABIO DAINOTTI: LA SERENITÀ DEL DISINCANTO di Marina Caracciolo
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A poesia di Fabio Dainotti è dominata dalla ricerca della serenità nel disincanto. Anche quando rievoca con sofferta nostalgia i più intimi affetti famigliari, il poeta vela i suoi versi con una sorta di schermo protettivo che gli permette di evitare il rischio del patetico come pure la caduta nell’ autobiografismo. La sua poesia sembra immersa, cioè, in un singolare «straniamento» che gli consente di guardare la realtà da una prospettiva distante, spesso ironica, nel tentativo di creare una rifrazione equilibrata e obiettiva delle esperienze vissute. Un altro accorgimento, se così possiamo dire, messo in atto dall’autore per contemplare la sua vita e la realtà circostante dall’esterno, senza viverle – o ri-viverle – con eccessivo coinvolgimento, è costituito dal ricorso a una rete di rimandi letterari, in parte nascosti all’interno dei versi, in parte esplicitati dagli eserghi e dalle dediche delle poesie (da Lucrezio e Catullo fino a Garcia Lorca e a Pablo Neruda, ma anche a Celan, Proust, Thomas Mann e altri ancora) che assumono in tal modo il ruolo di punti di riferimento in grado di «diluire» e stemperare nell’ universale il vissuto personale. Poco più di dieci anni fa, nella prefazione alla raccolta Ora comprendo (Scettro del Re, Roma 2004) Luigi Reina scriveva in proposito: «La letteratura è anche luogo in cui pos-
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sono definitivamente esorcizzarsi tormentosi fantasmi dell’inconscio […] e può, ovviamente, suggerire distanziamenti e capovolgimenti ironici e ludici, oltre che bagni adesivi per compiacenti emulazioni. Particolarità tutte utili a camuffare, sublimare o declassare l’ esperienza individuale che tende a filtrare attraverso le tramature del verso assumendo connotati aspiranti all’esemplarità». E Carlo di Lieto, nel suo saggio «La coscienza captiva» in Maliardaria di Fabio Dainotti (Sigma Libri, Napoli 2006) afferma: «Lo scenario della poesia di Dainotti assume i contorni di figure oniriche: verità e illusione si con/ fondono, in un distacco critico da parte del poeta e in una messa a fuoco a distanza dalle vicende degli uomini, ma “la medicina illusoria” e la natura ingannevole dell’eros sono lucidamente riconosciute, pur se intatto rimane il suo fascino come esca per l’uomo». Le diciotto poesie che compongono questa antologia di Selected Poems coprono un arco temporale di poco più di quarant’anni (dal 1965, quando l’autore era un giovinetto di diciassette anni, fino al 2006), creando in tal modo un bouquet di versi più ricco di sfumature, variegato e cangiante, e dandoci per di più la possibilità di cogliere possibili mutamenti di contenuti e di stile verificatisi nel corso del tempo. Un esempio significativo della fusione di sentimento, grazia, ironia e distacco che caratterizza, come abbiamo detto, i versi di Dainotti può essere questa poesia senza titolo tratta dalla raccolta La ringhiera, del 1998: Vorrei scrivere versi antichi questa sera ma metterci dentro una figurina moderna veloce futurista come te; scrivere per esempio: «Sei bella come luna inargentata che tremola sulle acque della sera.». Potrei immaginare una fiaba con un finale imprevisto: «Bella come la bella addormentata ti sveglierò nel bosco a primavera». Ecco, qui si vede bene come la «figurina
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moderna» della donna vagheggiata è inscritta in un mondo fiabesco, diventando quasi l’ illustrazione di una pagina di libro per l’ infanzia. La similitudine della luna d’argento il cui raggio vibra nel riflesso di acque notturne, e dopo, più ancora, l’idea conclusiva della bella dormente nel bosco, da risvegliare col rinascere della natura, conservano un certo che di volutamente irreale, come una scena dipinta in un quadro ben noto, ma qualcosa comunque di ben lontano dalla realtà. Così il poeta, pur mantenendo una cornice di grazia quasi fanciullesca, in cui fa dolce eco la rima sera – primavera, riesce a evitare qualsiasi stucchevole languore sentimentale attraverso la proiezione nell’immaginario: convincendo il lettore – ma anche sé stesso – che la sua visione è soltanto un sogno, una fiaba, una sorridente invenzione da non prendere troppo sul serio… Come scrive in uno dei componimenti inediti che compaiono in questa raccolta, intitolato Le parole che non ti ho detto, il poeta sa che la poesia è sempre una possibilità di vita nuova, di «finali diversi», di svolte impensate, poiché «in un mondo di carta» la rinata esistenza può essere persino più reale, più concreta, e sopravvivere a quella vera ormai perduta, scomparsa fra i detriti portati via dal tempo. È la fantasia, incontrastata dominatrice della poesia, che tutto ricrea e trasfigura per renderlo diverso e immortale, come si vede bene nella breve, bellissima poesia (tratta dalla raccolta Maliardaria, 2006) dal titolo Lungomare San Marco: C’è ancora nel tempo invernale quel cercatore di conchiglie solo, sul litorale abbandonato? Coi resti lasciati dal mare decorava le soglie delle case. Diventavano navi La versione inglese di queste poesie, curata da Rosaria Zizzo, segue sempre da presso i versi originali, restituendoli ovunque fedelmente alla lettera. Ma la traduzione li avvolge
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in ogni caso in una veste nuova: quella del significante, del suono, che è ben diverso, e quindi del ritmo, che pure cambia, ovviamente, dall’italiano all’inglese. Col risultato di lasciar affiorare qua e là, all’improvviso, echi sotterranei, ricchi di fascino, di primo acchito non percepibili nel testo originale, che suggeriscono accenti, inflessioni e cadenze di certi poeti americani del Novecento – probabilmente molto amati dal nostro autore – come ad esempio, fra gli altri, Eliot, ma ancor più Lee Masters, regalando al lettore, in quei passi, un incanto nuovo, del tutto inaspettato e particolare. Marina Caracciolo Fabio Dainotti: Selected Poems. Antologia di 18 poesie con traduzione inglese a fronte, con 3 componimenti inediti. (Traduzione di Rosaria Zizzo. Gradiva Publications, New York 2015; pp. 65, $ 20,00).
Immagine di pag. 5: Lettura di brani danteschi da parte di Fabio Dainotti a Cava de’ Tirreni nel febbraio 2014.
VIVA Prigioniera nel bosco frustato dal vento, tra reticoli mobili d’ombre e di luce, cercavo sprazzi di cielo impigliato fra i rami: ero viva, nell’ansia di spazio. Caterina Felici Pesaro
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 15/09/2015 Umberto Eco ha sollevato il problema del darsi subito del “tu”, un abbassamento, nel linguaggio, falso e velleitario. Alleluia! Alleluia! Saremmo tentati di dargli ragione, se sollevasse, però, il problema del suo linguaggio, cruscante, fumoso e prolisso. Domenico Defelice
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LA SICILIA DI
LIVIA DE STEFANI TRA MITO E MODERNITÀ di Giuseppina Bosco
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IVIA De Stefani, scrittrice palermitana, vissuta tra il 1913-1991, è una letterata che si è affermata nel panorama italiano dei primi del Novecento. Figlia di ricchi proprietari e di intellettuali, il suo esordio letterario avviene con la raccolta “Preludio” in cui si risente molto della poesia di D’Annunzio, Pascoli e Gozzano. Ha collaborato a vari giornali e riviste ed ha successivamente pubblicato romanzi e racconti: La vigna di uve nere, 1953 (n. ed. 1968); Gli affatturati, 1955; Passione di Rosa, 1958; Viaggio di una sconosciuta, 1963; La signora di Cariddi, 1971; La stella Assenzio, 1985; La mafia alle mie spalle, 1991), che si riallacciano alla tradizione narrativa siciliana. La sua sicilianità si manifesta soprattutto nell’opera “La vigna di uve nere”, romanzo che viene considerato dalla critica come uno dei più interessanti per la sopravvivenza di miti ancestrali, di simboli rituali in controtendenza con il Neorealismo di quel periodo.
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Il romanzo parla di due ragazzi, Nicola e Rosaria allevati lontano da casa, ignari l'uno dell' esistenza dell'altra. Si ritrovano già adulti, e tra loro nascerà una passione incestuosa che culminerà nella tragedia. Infatti il padre costringerà Rosalia al suicidio mettendo in salvo in tal modo Nicola il quale, in quanto maschio, potrà garantire la continuazione del nome della famiglia. La vicenda narrata ha come sfondo la Sicilia del ventesimo secolo che però sin da subito si configura come un'isola mitico-favolistica, ma con elementi descrittivi realistici. In questa prima opera della De Stefani diversi sono i riferimenti alla cultura greca della colpa e della vergogna, per cui i peccati commessi da Casimiro Badalamenti, coinvolto in loschi affari mafiosi, e della moglie Concettina, ex prostituta, non possono che ricadere e segnare il destino dei loro figli. Come la stessa De Stefani ha scritto in una lettera inviata da Roma il 10 novembre 19831 “Se nella vigna di uve nere è lampante il riferimento al congegno della tragedia greca, è perché per decenni mi ero dedicata alla ricerca del dove e del come applicare i contenuti di passioni madri a individui e luoghi in cui esse potessero verosimilmente resuscitare nel pieno vigore della loro rudimentale logica originaria. Ricerca non facile, data la rarità d’un caso di loro equivalenza motoria in almeno quattro consanguinei che, vincolati l’uno all’altro da un nodo di fatalità, debbano inevitabilmente precipitare, tutti insieme nell’abisso.” “L’hamartia, dunque, investe gli esseri dall’interno e, come una malattia contagiosa, si propaga ai loro discendenti, non dando spazio alla catarsi.”2 Altra importante raccolta di racconti è quella che ha per titolo “Gli affatturati”3 che ritraggono individui appartenenti a classi aristocratiche medio-alte affetti da manie ossessive, vizi: sono morfinomani e vivono separati dalla realtà. Nei racconti emerge soprattutto il carattere grottesco dei personaggi. L’opera che ha reso però Livia De Stefani una scrittrice moderna è “Viaggio di una sconosciuta”4 pubblicato nel 1963. Si tratta di
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una serie di racconti, i cui protagonisti sono per lo più personaggi femminili, vittime della mostruosità della psicologia maschile e delle differenze dell’ambiente sociale che non sono state analizzate secondo parametri sociologici. In questi racconti si nota la modernità della scrittrice soprattutto per il ricorso ad alcune tecniche narrative dal flashback come riferimento temporale, al monologo interiore, ai flussi di coscienza, per cui non c’è una struttura sintattica che rimanda a nessi logici ma troviamo una disorganicità dei collegamenti. Anche le tematiche affrontate sono diverse, dal rifiuto dell’identità maschile di alcuni personaggi per il desiderio di essere donna, fino all’autocastrazione nel racconto “Ferdinando”: l’amore possessivo di Paolino per Armanda (in Sorte di Armanda) in cui l’ assurdità delle situazioni che rasentano il grottesco causeranno la morte della donna. Maggiore originalità si può notare nel primo lungo racconto “Viaggio di una sconosciuta”, che dà il titolo all’intera raccolta, in cui si narra di una ragazza, probabilmente una servetta sedotta ed abbandonata la quale, aspettando un figlio dal suo approfittatore, abortisce custodendo il “macabro fardello” in una valigetta, vagando disorientata per le vie di Roma. Non vi è una vera e propria trama narrativa o un particolare intreccio. Gli eventi si susseguono attraverso la coscienza della protagonista sin dall’incipit con il ricorso al monologo interiore e all’indiretto libero della servetta, la quale associa il nome che avrebbe voluto mettere al figlio Agostino a quello di Agostino Amirru, il quale sosteneva che i nati ad agosto hanno carattere da leone “Su per la salita dell’Acqua Acetosa la valigetta si fece pesante. La passò nell’altra mano. Con grande cautela. Agostino, l’avrei chiamato Agostino. Agostino Amirru dice che i nati d’agosto sono leoni. Ma lui ha la faccia da cavallo, lunga, lunga, i dentoni gialli. E il cuore di un cavallo”. Un altro indiretto lo troviamo nelle righe “Tutto quel sangue, nel letto e a terra. Si partorisce così. Le donne, le pecore, le cavalle, tutte nello stesso modo”6.
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Infine in un monologo quasi surreale il flusso di coscienza è evidente in questo passo “Jumbo, l’elefante Jumbo che ubbidisce agli ordini: Alberto gli mostra la carota poi comanda: Jumbo, in ginocchio! L’elefante piega quelle due colonne di zampe, ci casca sopra come un masso, poi si alza ed allunga la proboscide in cerca della carota […]”7. In un altro indiretto libero le associazioni di idee seguono il ritmo delle onomatopee in posizione anaforica e notiamo frasi mono proposizionali, sintatticamente interrotte, per l’omissione dei segni di punteggiatura propri di un’interrogativa. Si nota quasi uno sperimentalismo linguistico, che sembra riecheggiare Gadda, “le voci della radio […] conducevano […] discorsi incantati, come quelli che nascevano dai campanacci delle vacche pascolanti nel pianoro, quando, fantasticava del mondo sotto il querciolo [… ] Don ,don, don don. Mentuccia, Rosina, Badessa. Don don don. Il mare è tutt’acqua, dice zio Cosma. Ha fatto il marinaio”8 .“Lo sapevo che eri un maschietto. Dai calci, lo sapevo. Quanti calci mi hai dato, Agostino. Tum. Tu tum. Tututum. Nessuno li vedeva. Nessuno poteva sentirli. Io sola. Tum. Tutum Io ti parlavo da dentro. E tu mi rispondevi. Dormi? Dimmi che dormi, Agostino”9 La ragazza nel voler giustificare il suo atto orribile allude al dramma personale che è la conseguenza della tipica mentalità maschilista dell’uomo sposato che inganna una povera ragazza di campagna con promesse di matrimonio e poi l’abbandona quando non vuole assumersi le sue responsabilità. La visione della città con gli occhi della piccola serva è tutt’uno con la valigetta dal macabro contenuto e condiziona le relazioni con gli altri uomini che incontra in questo suo peregrinare per Roma “Al raspio dell’unghie sulla valigetta, spalancò gli occhi e rimase attonita […] Attraversato il viale di Liegi si trovò tra gente che aspettava l’arrivo dell’ autobus. Sudava. La faccia, il collo, giù per il seno, la mano, che sentì malferma intorno al manico della valigetta. Arrivava l’autobus, si portò la valigetta contro il petto, fra le brac-
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cia incrociate a riparo; e salì il gradino, piegata in due”10 Inoltre si può notare un riferimento a Pirandello, soprattutto per quanto riguarda il tema dello specchio e della doppia identità quando l’io della ragazza si sdoppia accusando “un qualcuno”, forse quell’Alberto che è presente nei suoi ricordi, responsabile del mostro che è in lei, ma rientrando nel suo ruolo di madre dialoga con il “macabro fardello”: “Depose la valigetta contro la parete […] Fece ogni cosa con grande precisione e sicurezza, sebbene ad ogni rialzarsi all’altezza dello specchio vi si scorgesse stravolta <<Assassino, assassino. Muori, crepa. E i tuoi figli >>.Ogni parola una esplosione nel petto, le scintille dello scoppio fin nelle unghie e nelle radici dei capelli. Nello specchio due lame nere al posto degli occhi. Un gattino bianco, sul davanzale della finestrella <<eccomi, Agostino, ho finito>>” 11. Un’enumerazione dei luoghi della città nel crescendo” dell’inner flux” rende meglio il dato memoriale tra presente e passato: “Negozi, negozi. Questo col vaso di tuberose in cima alla scaletta di cristallo. C’è un reggiseno su ogni gradino <<una pensione rispettabile, vedrai. Entriamo e buona notte al secchio>> Piumini di cipria. Occhiali e binocoli <<Allora a casa mia. E’ fresca, sentirai quanto è fresca>> l’acqua sgorga dal palazzo, scende fra statue e alberi di pietra […] <<Buttaci dieci lire. E perché non ci vorresti tornare a Roma? Ma a che fare in Sardegna. A sprecare ‘sta grazia di Dio di ciccia e gioventù? a’scema.>> Quest’altra fontana con quattro donne sdraiate nude. <<Belle ciccion come te. Che c’è di male? Pure i ciechi ce lo sanno come so fatte le belle femmine sotto ai vestiti>> 12 Attraverso i dati memoriali la protagonista ripercorre il trauma dello stupro subìto e vede un nemico in ogni uomo anche in quello con il cappotto marrone che tenta di avere un rapporto sessuale con la sconosciuta (la servetta). Lei però non si concede e tenta di sfuggirgli. Trascina in ogni istante, nei luoghi e nelle varie situazioni, la sua ombra fino all’epilogo
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finale: l’annullamento di se e della sua colpa contenuta nella valigetta “La nebbia si ricompose tra i rovi, discese sul fiume e invase la riva, cancellando ogni cosa. Rimase soltanto il silenzio, reso più profondo dal fruscio dell’acqua invisibile che lo attraversava e lo avvolgeva, rimanendo immobile. Che pace. Non vedeva e non udiva più nulla, credette di dormire”13. Giuseppina Bosco Da “Letteratura siciliana al femminile: donne scrittrici e donne personaggio” a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Salvatore Sciascia editore 2 Gisella Padovani in “Letteratura siciliana al femminile: donne scrittrici e donne personaggio” a cura di Sarah Zappulla Muscarà ,Salvatore Sciascia editore, pg.269. 3 “Gli affatturati”, Medusa, Mondadori, 1995,1^Edizione.z 4 Livia De Stefani ,in “Viaggio di una sconosciuta”,Mondadori,1963. 5 Livia De Stefani ,in op. cit. pag. 9 6 Livia De Stefani, in op. cit. pag10 7 Ivi Pag. 11 8 Ivi pag.15 9 ivi pag.28 10 Ivi pagg. 17-18 11 Ivi pag . 39 12 ivi pag. 45 13 ivi pag51 1
A SINTRA A Sintra era una festa di pensieri e di colori che recava l’ora azzurra del mattino o della sera. Si schiudevano splendide dimore ove arrestato s’era il tempo. Intorno profumava la nuova primavera. Fermi a una tappa del nostro cammino eravamo ed ignari del domani, arresi ai dettami del destino. Ci giungevano fervidi richiami di voci dai confini ardui del mondo, che spezzava gli antichi suoi serrami per donarci il suo bene più profondo. Elio Andriuoli Napoli
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'D'in su la vetta della torre antica':
UN ACUTO SAGGIO di letteratura comparata dello scrittore
GIUSEPPE LEONE di Ilia Pedrina
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IUSEPPE Leone è uno studioso italiano aperto all'avvincente fusione tra musica e letteratura-poesia, nei loro Autori ed opere che più lo hanno coinvolto, scegliendo come compagno d'avventure il critico musicale Roberto Zambonini: ne nascono lavori come Leopardi-Mozart (2008), Silone-Puccini (2009), MazziniMozart (2011), Gadda-Mahler (2012). Letterato ed artista, vive e lavora a Lecco, dove è direttore artistico dell'Associazione Culturale 'il Melabò'. In questo volumetto di poco più di cento pagine raccolgo un'esperienza incredibile perché il tessuto connettivo dominante è dato dal senso dell'avventura empatica, l'unica a salvare il limpido ragionamento e, al suo fianco, l'abbandono, che devono verificarsi insieme. Il titolo viene infatti completato da un preciso percorso: 'D'in su la vetta della torre antica. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce', mentre, su sfondo bianco, risalta un piccolo cammeo con l'effige dei due, di Bianca Banfi, del 2015. Di fronte ad un testo scritto a me piace scoprire il
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segreto che fa palpitare la ricerca e la documentazione dall'interno e qui l'Autore si fa 'narratore' delle proprie riflessioni collegate ai fatti ed agli eventi: un fatto storicoculturale l'approccio al Canto 'Passero solitario', il cui primo verso 'D'in su la vetta della torre antica' lo si incontra talora nella prima adolescenza; un fatto storico esperienziale l'approccio all'evento dalla Torre degli Asinelli a Bologna, quando Carmelo Bene legge Dante da lassù e la sua voce si perde tra il vento, la folla nelle vie del centro storico, gli edifici; una decisionalità appassionata e critica, acuta ed investigativa quella del 'farsi scrittore-scrittura' e non solo, di Giuseppe Leone, il quale sostiene: “Questa, dalla Torre degli Asinelli, sarà, a detta dello stesso Bene, la sua 'più alta' prova orale e scritta, perché gli è toccato di 'spiegare l'orale con lo scritto, non più il dire ma la voce...', la voce come ascolto che sarà il punto d'arrivo della sua arte, dopo un lungo percorso iniziato nel buio delle cantine romane. Né più né meno che un punto di arrivo, come è stata la composizione del Passero solitario per Leopardi...” (G. Leone, D'in su la vetta della torre antica. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce. Ed. Il Melabò, 2015, pag. 15). Un punto di arrivo, né più né meno, ma è già moltissimo, perché allora è necessario chiarire al lettore tutto ciò che ha preceduto a livello di vita, di emozioni, di aspettative, il raggiungimento di quella meta, tutto ciò che in realtà ha preparato e predisposto questi due grandi Italiani, a fare di quella meta un nuovo punto di partenza per altre e più differenziate intraprese. Ecco allora l'analisi delle due famiglie d'origine, l'una a Recanati, l'altra nel Salento. A Carmelo Bene, per motivi di studio d'altro genere, non avevo mai prestato vera attenzione, fino a quando l'amico regista Giorgio Bordin, non me l'ha fatto apprezzare in alcune sue performances registrate. Ora questo saggio mi ha risvegliato l'attenzione e la curiosità di investigare, così mi son fatta arrivare per posta materiale in testi e DVD e
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mi ci sono immersa senza frapporre indugi. Il risultato? Un modo dinamico ed originale di verificare quanto Giuseppe Leone andava a segnalare nel suo saggio e dunque un apprezzamento più diretto e consolidato per le sue fatiche intellettuali! Alludo a 'Sono apparso alla Madonna', per i tipi della Bompiani Tascabili, maggio 2014, o all'opera di teatro 'Salomé', in DVD, o ancora 'Nostra Signora dei Turchi', di Gianluca e Stefano Curti Editori, in testo e DVD, lavori questi da tenere in piena considerazione se si intende capire perché Carmelo Bene ha chiesto al Teatro di svuotarsi della parola scritta, per farsi testo d'esperienza nella vocalità più originale: questo ha fatto il nostro studioso G. Leone ed è riuscito pienamente nel suo intento, vale a dire operare una investigazione originale per aprire nuovi orizzonti e metodi calibrati da intenditore per affrontare il rapporto tra l'oralità, nelle sue differenti caratteristiche artistiche e la scrittura rispetto alla tradizione di un popolo, di una lingua. Dirà infatti a conclusione del suo percorso letterario: “... Leopardi e le opere di Bene, si diceva, anche per sottolineare che con loro la cultura italiana alza sensibilmente l'asticella del suo valore nel mondo. Soprattutto ora, quando lo Zibaldone leopardiano sbarca in terra d'America, tradotto per la prima volta in lingua inglese. Dunque, ascoltiamoli ' d' in su la vetta della torre antica'; ascoltiamo, in tutta la sua sonorità, questo '…schiaffo impensabile ai millenni dell'espressionelogos-concetto', come ebbe a qualificarlo lo stesso Carmelo Bene, parlando delle sue rappresentazioni...” (G. Leone, op. cit. pag. 110) Si, due grandi Italiani, Leopardi e Bene, che hanno come archetipo la dimensione umana e di natura della loro terra d'origine e se ne impastano bene la carne ed il corpo, con tutto il loro fare poietico, per estraniarsi ed estrarsi fuori dalla consuetudine, secondo il loro genio: mi ci sono voluti tutti gli studi su Luigi Nono per entrare ben dentro al rapporto tra suono, silenzio, loro dinamica da
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intercettare attraverso l'ascolto, tutto da rivoluzionare. Allora andrò all'Archivio alla Giudecca e vedrò se ci sono lettere e capirò meglio anche il rapporto tra Angelo Maria Ripellino e Carmelo Bene ed il compositore veneziano, perché in mezzo c'è la composizione 'Intolleranza 1960' e c'è Nono che va a Roma per incontrare Ripellino e questo poi dopo progetti tipici della 'Roma Capitale' si adonterà con il compositore veneziano! Verificherò con l'innocenza e l'audacia che mi contraddistinguono. Giordano Bruno, dal quale Luigi Nono si lascia attraversare, arriva a Venezia, fiducioso di poter meglio respirare, verrà tradito da un delatore di nobili origini, si fa per dire, e verrà rubato alla libertà e alla vita, proprio a Roma. A testimonianza di questo intersecarsi di eventi e luoghi che attraversa i secoli, in 'Sono apparso alla Madonna', Carmelo Bene sostiene : “... A questo Sud azzoppato non resta che volare. Ecco il santo dei voli -sommo lusso della santa sanctorum: levitare. Ecco 'Frate Asino'. Accanto a tanta dotta interdisciplinarità. L'anno medesimo (1600) in cui si brucia il Pensiero a Campo de' Fiori (Giordano Bruno), poco distante da Copertino nasce la Grazia. Nasce l'ignoranza. È un altro frutto della manìa greca... Allora queste origini reali e immaginarie insieme sono fondamentali per quanto seguirà del mio non-esserci... Se non si è (dis)-graziati da questo privilegio, là dove la miseria è un lusso -o almeno lo era fino a poco tempo fa-, se non si è graziati da una siffatta premessa etnica, non avrei potuto accedere all'essere senza fondamento, alla spensieratezza, a un'arte teatrantesi che inscena la sospensione del tragico dopo Nietsche, la irraprensentabilità, il piano d'ascolto in quanto dire, la femminilità come abbandono, la fine del teatrino conflittuale dell'io e delle sue rappresaglie, la mancanza di che si consiste. Cercherò di vaneggiare il femminile come un capitolo a parte dell'eroismo...” (C. Bene, Sono apparso alla Madonna, op. cit. pag. 9). Impasto di terra, di luoghi, di gente, di natura e di cultura, come ci mostra Giuseppe
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Leone nel suo saggio comparativo: luci intense da orientare su zone ancora in ombra, operazione questa che egli sa portare avanti nelle cinque sezioni che caratterizzano 'D'in su la vetta..' I D'in su la vetta della torre antica. II Giacomo Leopardi e Carmelo Bene. Geni senza talento? III Carmelo val bene una messa. E Leopardi? IV Giacomo Leopardi e Carmelo Bene. Geni ma senza premi. V Leopardi e le opere di Bene Una scrittura agile ed attraente, uno stile sciolto e con ampi margini di fascinazione intellettuale più che emozionale, questo il contesto che ci si presenta: il parallelo fra i due poeti italiani è portato avanti con competenza e concreta introspezione di dati, circostanze, documenti e le note sono indispensabili per ampliare gli ambiti della ricerca, per tutti coloro che vogliono verificare ed espandere le loro emozioni. Allora il DVD 'Carmelo Bene - Voce dei Canti - Eye Division – 1998 mi darà la piena testimonianza della tesi che in questo testo il G. Leone illumina ed approfondisce. Cito dal risvolto: 'Nell'occasione del bicentenario della nascita, Carmelo Bene ritorna sui versi del Poeta di Recanati. In questo DVD le più belle poesie di Giacomo Leopardi (La Ginestra, Il Canto Notturno, Le Ricordanze, A Silvia, L'Infinito...), ma anche qualche passaggio delle prose delle Operette Morali, nonché l'incompiuto Progetto per un Inno ad Arimane si susseguono con profonda e commossa semplicità, con un'immediatezza quieta che provoca il vuoto di ogni altra voce: perciò l'ascoltare è irretito nelle pause, stregato dalle inaspettate discese del silenzio. La voce assume quindi quella sorta di tono scuro e ancestrale in cui le parole sembrano ritrovare definitivamente le loro sfumature originarie'. Carmelo, una volta arrivato a Recanati, vorrà dormire nel lettuccio di Giacomo, per abitare il suo passato e coglierne quel vuoto che gli consentirà di intonare i suoi 'Canti'. Ilia Pedrina
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SEME NELLA TERRA Nella terra nuda rotolato, la faccia prona per pensare come raccolto, non piace stare verso il cielo bendato mummificato. Non voglio l’ammasso delle ossa concentrate nel recinto dei rifiuti dopo la vita consumata. Fra le mura grigie bastioni di difesa intorno, che prendono odore di fosforo intriso di umidi umori, con i fiori marciscenti dei ricordi. Non voglio il chiuso, dove languido il volto dei vivi si fa ipocrita, si sveste dei malesseri conturbati dai giorni portati nel chiasso di fuori. Si ritorna correndo per le strade strappati i labili pensieri delle promesse. La terra libera per non avere la città addossata che spezza in frantumi che spacca in disarmonie, non si vogliono simmetrie. Come un seme gettato nella terra con le vesti di sempre, intatto tenuto nel sangue rappreso l’amore che ha fatto essere tutto il tempo avuto, ardore di vita innalzato in unica fiamma. Leonardo Selvaggi Torino
QUELLA FORZA Conosco l’ammirevole forza di chi sa cercare pertugi su massicce pareti che lo chiudono al mondo, l’acqua sorgiva nel fango, sa intuire binari morti, le vie senza uscita, i possibili percorsi. Caterina Felici
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RICORDI DI LICEO (IL “MIO” CHIABRERA) di Luigi De Rosa
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O frequentato il Classico negli anni Cinquanta a Loano, sulla Riviera ligure di ponente. Si trattava di una Sezione staccata del Liceo “Gabriello Chiabrera” di Savona. Le sistemazioni logistiche che l’Ente Locale riusciva a trovare per la nostra classe (sì, una sola classe, e siamo rimasti uniti e affiatati dal primo anno fino all’esame di maturità, sostenuto poi a Savona, nella Sede centrale) erano le più disparate. Ricordo che un anno siamo andati a scuola in una cella del Convento degli Agostiniani su a Monte Carmelo, fra gli ulivi, con il mare all’ orizzonte. Un altro anno abbiamo seguito le lezioni in un appartamento vicino a una fabbrica di dadi per brodo (mi sembra di sentire ancora nelle narici quello “strano” e penetrante odore...). Inutile dire che non avevamo palestra, né laboratori, né biblioteca, né niente altro. Tranne i libri, i quaderni, e i professori. Ah, i nostri professori! Ne conservo ancora un ricordo molto positivo. Senza alcuna esagerazione, ci facevano sentire l’orgoglio di appartenere, pur se in
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una sede di lontana periferia, ad un Liceo che aveva avuto tra i propri banchi anche Angelo Barile (Albisola 1888-1967) e Camillo Sbarbaro (Santa Margherita 1888, Savona 1967). Angelo Barile è stato definito da Giorgio Caproni “ il più trasparente e celeste dei poeti d’ oggi”. E quanto a Sbarbaro, quel grande poeta che tutti dovrebbero conoscere (avrebbe poi pubblicato su Riviste molto importanti come “La Riviera Ligure”, “ Lacerba”, “ La Voce”), aveva addirittura visto stampare la sua prima raccolta, Rèsine, grazie ad una sottoscrizione di suoi compagni del Chiabrera. E insofferente della vita impiegatizia, aveva praticamente vissuto, non tanto di licheni, quanto di ripetizioni di latino e greco. Per tornare ai nostri docenti, essi venivano lì, a Loano (a 43 km. dopo Savona, e una decina prima di Albenga) una sede scomoda, e forse poco ambìta, ma erano molto diligenti, mai assenti. Spiegavano benissimo, ci tenevano a farci capire fino in fondo l’argomento trattato. Ci stavano molto vicini, sia culturalmente che spiritualmente (forse anche perché eravamo pochi). Noi studenti sentivamo che essi erano ben preparati nelle rispettive materie. Erano veloci nel riportarci i compiti in classe corretti. Specialmente quello di latino e greco, il professor Canesi. Mi ricordo che gli mancava un braccio (la manica della giacca svolazzava, perché era veloce anche nel camminare). E ricordo il prof. Sacco, di storia e filosofia, un omone dagli occhi grandi, chiari e sempre seri, che spiegava divinamente, senza fronzoli inutili, ma facendoci capire, di ogni fatto storico o teoria filosofica, le cause e i perché. Ricordo con stima e particolare simpatia anche la professoressa di storia dell’ arte, non solo perché la sua materia mi attraeva, ma anche perché lei stessa, come donna, mi piaceva molto, e più di una notte me la sono sognata. Anzi, le avevo dedicato anche qualcuna delle poesie che già da tempo scrivevo. Per quanto riguarda, anzi, la passione per la letteratura, il mio ricordo riconoscente ritorna spesso al prof. Mario Puppo, di Genova (via Lomellini), redattore della rivista Studium, presidente della Commissione esaminatrice,
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che mi incoraggiò caldamente a proseguire sulla strada della poesia e della collaborazione a riviste letterarie. (Anche lui ha la sua parte di “responsabilità” nel fatto che io, in più di cinquant’anni, abbia letto moltissimi libri, abbia scritto su tante riviste letterarie e anche su giornali come Messaggero Veneto, Il Gazzettino, Il Secolo XIX, Stampa Sera, e mi ostini a dare tanta importanza alla vera letteratura e alla vera poesia, nonostante il mondo contemporaneo, spesso, sembri lontano le mille miglia sia dall’una che dall’altra). Comunque, dicevo, quei professori del “Liceo” di Loano ci aiutavano...a studiare come matti. E studiavamo davvero, e ci aiutavamo, eravamo affiatati sotto tutti i punti di vista. Anche perché l’esame di maturità era veramente duro e impegnativo, a differenza di quello che è diventato negli anni successivi. Avremmo dovuto portare i programmi di tutte le materie (italiano, latino, greco, storia, filosofia, matematica e fisica, scienze, storia dell’arte, etc.) e, per giunta, di tutti gli anni del liceo. Tra l’ altro, ci dicevano che con la media dell’otto non avremmo pagato le tasse universitarie, e con la media del sette ne avremmo pagato la metà. Poiché eravamo figli di piccoli commercianti, di ufficiali, di impiegati, di persone che vivevano del loro lavoro, non avevamo tempo da perdere, né tempo e soldi da far perdere ai nostri genitori. Ovviamente, però, dopo lo studio eravamo anche giocherelloni e scanzonati, gli scherzi e i divertimenti non si contavano, sia in spiaggia e in mare che in terraferma. Suonavamo e ballavamo, e pensavamo ad amoreggiare. Poiché le compagne di classe erano poche, e per giunta indisponibili per semplici avventurette, facevamo la corte alle turiste milanesi o francesi e tedesche, coi bagni in mare, le serate al dancing e soprattutto con le tanto desiderate gite in vespa o lambretta verso l’ interno, sull’Appennino (“in camporella”). Gite che, spesso, avevano uno strascico di dolci innamoramenti che, a stagione balneare finita, avrebbero prodotto mesi di nostalgica corrispondenza epistolare, con promesse di eterna fedeltà. Soltanto lettere e foto, ci si poteva
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scambiare, poiché non c’erano... i comodi cellulari e videofonini di oggi. Tornando ai miei bravi compagni, su un diario scolastico di circa sessanta anni fa, ritrovo alcune dediche autografe e non posso che sorridere: “Al mio simpatico compagno di banco Luigi, nei simpaticissimi compiti di latino, con riconoscenza. RIRI” (Cogno). “A un raggio di sapienza che offusca i circostanti. Adriana “ . (Era la Chizzoniti, figlia di un colonnello). “Un giorno sarai fiero di avere la mia firma su questo diario“. E così via di questo passo. Invece non avevano nessun bisogno del mio aiuto nei compiti in classe, per esempio, né Stefano Carrara Sutour, né il buono, serio e riservato Aldo Ghidetti (forte in latino e greco, e non solo), perché erano particolarmente intelligenti e studiosi, ed eravamo in forte competizione. Inutile dire che in occasione dei compiti di matematica, la situazione si capovolgeva... Cari compagni miei, che ricordo tutti con affetto, anche quelli che non nomino qui. Chi è diventato avvocato e deputato (come Stefano), chi una stimata docente, chi un ottimo professionista, chi uno studioso “operatore culturale”. Tutti si sono “sistemati” con merito nella vita. E’ vero che non abbiamo cambiato il mondo, nonostante i nostri fieri propositi e le discussioni accalorate e interminabili su certe scandalose storture della vita e della società moderna. Il mondo ha continuato ad andare per conto suo, anzi ha preso delle direzioni assolutamente impreviste se non imprevedibili. Ma almeno abbiamo imparato e capito come leggere e interpretare le notizie e i fatti che i mass-media, giorno per giorno, ci scaraventano davanti agli occhi e nella mente. Soprattutto, abbiamo capito che i valori minimi, indispensabili per una vita associata degna di uomini civili, sono la solidarietà ed il senso del dovere. Senza questi valori, tutto si riduce a un’egoistica e sorda lotta di tutti contro tutti, con alcuni individui pronti ad usare la più abile mistificazione, con l’ obiettivo di manipolare i cervelli e le coscienze, conquistare il potere e mantenerlo ad ogni costo. Luigi De Rosa
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MARIA GRAZIA LENISA
Lettere di Giuseppe Leone
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ON potevano non essere pubblicate queste Lettere di Maria Grazia Lenisa, comparse nel luglio 2015 su Il Croco – I quaderni letterari di PomeziaNotizie. Questo almeno pare di capire, leggendo la premessa di Domenico Defelice, destinatario di questa corrispondenza con la poetessa, durata circa un trentennio (19742006). E non solo per il loro valore stilistico perché “sono lettere semplici, spontanee non scritte e poi rivedute e corrette per far letteratura” o perché “son di getto”, frutto di “un fluente parlar quotidiano”, ma anche “perché” la poetessa “voleva che la nostra fosse veramente una responsabilità amorosa di testimone e perché le lettere – affermava – sono una scrittura che rimane e che, nei momenti tristi, può essere riletta rivelando potenzialità che la voce, poi persa, non possiede (4). Un impegno, dunque, questa pubblicazione, ma più che un impegno, “un dovere e una promessa” nei confronti di una poetessa che non si stancava mai di ammonire che “l’atto di scrivere una lettera non deve essere con i veri amici formalità ma raccoglimento” (4). E in effetti, Defelice, per primo, si rende subito conto che un “raro dono di umanità”, come possono essere queste lettere, “non vanno tenute egoisticamente nascoste, ma, appunto, donate, all’umanità perché ne possa
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godere… perché in esse non c’è nulla di cui dispiacersi, se non il segno di una stima, reciproca, e di una grande ed affettuosa amicizia. Un legame di poesia” (4). Inutile aggiungere che in questo suo dire vi spiri un’aura di cenacolo, la stessa che si respirava e si respira ancora attorno alla rivista Pomezia-Notizie, di cui Defelice è stato fondatore e poi direttore, ininterrottamente dal 1973, l’anno in cui è datata una delle prime lettere e da cui ha inizio questo dialogo con la Lenisa intorno al loro amore per la poesia. Se poi, a questo, si aggiunge che Marzia Alunni, nella sua introduzione al testo, dal titolo Un dialogo ininterrotto con la poesia, definisca queste Lettere “un contributo di valore per ricostruire pagine di storia letteraria ancora incerte, dare senso al lavoro di tanti, assicurando quella memoria viva afferente al bello, che sentiva di avere in comune con l’ amico e destinatario Domenico Defelice” (3), allora ben s’intuisce quanto anche il direttore della nota rivista vi abbia contribuito a farle nascere. Per questa via, queste Lettere, avvincenti come un romanzo, profonde quanto un saggio, non tardano a diventare un medaglione di letteratura che incastona due biografie, umane e letterarie a un tempo: di una mittente che si confessa, che apre il suo cuore alla poesia e all’amicizia, non celando mai nulla di se stessa e del suo mondo: il marito Dino, le due figlie (Marzia e Francesca Alunni, poetesse esse stesse), le difficoltà editoriali, quelle quotidiane del vivere, la sua malattia, affrontata con dignità fino alla fine; e di un destinatario, a detta della poetessa stessa, “critico onesto” (54) e “generoso” (14), oltre che poeta d’ espressione classica, capace di riunire nel suo canto “delicatezza femminea e forza virile” (5), come seppero fare solo i greci. Il tutto in un crescendo di variazioni di ruoli che la poetessa seppe vivere e interpretare nella veste: ora, di letterata che non ama i compromessi: “Non ho appoggi politici e ho rifiutato la fatidica presentazione nei salotti romani” (37). “La mia poesia è nuda e sola,
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pur con i consensi dei critici” (64). “Io non concilio col potere, sono sempre Antigone contro Oreste (34). “Io stessa, per purezza intellettuale, pur avendo un’alta quotazione anche economica, rifiuto il denaro delle prefazioni” (54-55); ora, di compassionevole amante verso il poeta amico: “Tu non sei separato dalle cose, ma da te stesso e qui è la gravità, non accetti di far ragionare per davvero le nuvole”, oppure: “La vita è una cosa stupenda anche nel “viaggio” che tu fai… ma tu sei confuso, perché non trovi più te stesso” (22); ora, di madre severa, quando a Defelice che le aveva scritto di non essere d’accordo con i suoi sperimentalismi, gli rispose: “Credimi, non ci sono più né vinti né vincitori e l’unica virtù che serve nella vita come nella letteratura è la pazienza e la tolleranza. Non bisogna sbattere la testa contro il muro” (75). Ne vien fuori - per dirla con Ilia Pedrina “una personalità forte ed intransigente… rigorosissima e fiera anche nell’affrontare la via crucis del viaggio con Cancer, l’amante imprevedibile, imprevisto che ammala e che la spinge alla lotta”; o – dicendola con Aldo Cervo - “una sensibilità umana viva, profonda, spiritualmente…ipertesa; una voglia inesauribile… di partecipare in pienezza e con gioia alla festa della vita” (P.N., 2015 / 8). Una poetessa, insomma, ormai lontana dal movimento che la lanciò - il Realismo lirico degli anni ’50 - e assai più vicina, invece, a quella “sorta di surrealismo visionario” a cui pervenne negli anni successivi, secondo Vittoriano Esposito, e allo sperimentalismo, più in generale, che praticò tutta la vita, “dopo aver abbattuto tutti i ritegni - scrive Bárberi Squarotti - le prudenze, le conformità rispetto a una poetica in sé mortificante nella proposta di forme semplici, censurate nella libertà di invenzione”; e che le alienò il consenso di Domenico Defelice. Quanto a quest’ultimo e alla sua personalità, va detto che non se ne escano per nulla sminuiti rispetto alla poetessa. Anche su di lui emerge un ritratto interiore nitido e preciso, perché queste Lettere informano con chiarezza pure sul suo conto. E dove esse non sono
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bastate a render tutto trasparente e chiaro, eccone una, riportata nelle note, questa volta a firma del destinatario, in cui in modo esplicito Defelice manifesta la sua lontananza dalla poetica a cui è approdata l’ultima Lenisa: “No. Cara Maria Grazia, questo sperimentalismo non rinnova nessun “vecchiume letterario”, ma violenta solo il linguaggio e fa sì che il povero lettore si senta un cretino” (75n). Sperimentalismo, però, che non bastò a dividerli negli affetti quotidiani, per questi fu, al contrario, un “saggiatore”, il bilancino che permise ai due poeti di misurare quanto la loro amicizia fosse al riparo anche dagli scontri nel nome della poesia, che furono sì durissimi, ma affrontati ad armi pari, se ogni volta quelle a cui ricorsero furono la sincerità e l’ onestà. Giuseppe Leone Maria Grazia Lenisa - Lettere - Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia-Notizie. Supplem. al n. 7 (Luglio 2015) di Pomezia-Notizie.
VOLTI Volti che hai amati, volti che hai perduti ritornano da un’infinita assenza: ma non han voce: sono freddi e muti; larve di cui s’avviva l’apparenza nei disguidi insondabili dell’ora. Dentro una notte che tutto divora recan dei sogni la vana demenza. Elio Andriuoli AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 15/09/2015 La Merkel fa prima piangere una bambina immigrata, apre, poi, improvvisamente le frontiere e, improvvisamente, poi le chiude. Alleluia! Alleluia! Da Crudelia Demon a Teresa di Calcutta a Crudelia Demon. Difficile è venir legittimato nel rapporto politico-morale chi da sempre è temuto ed odiato! Domenico Defelice
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SCORRIBANDE NEL TEMPO CHE FU di Lino Di Stefano ’AUTRICE del volumetto di cui ci stiamo occupando – ‘Voci del passato’ (Ed. Tigulliana, S. Margherita Ligure, 2015) – è una scrittrice molisana che ha al suo attivo un notevole ‘corpus’ di lavori che spaziano dalla poesia alla narrativa, dalla saggistica alla storia, dalla pedagogia alla critica, dalla lirica antica al romanzo, per limitarci ad alcuni aspetti del suo ricco mondo. Ragion per cui il presente libretto costituisce un vero e proprio ‘canto del cigno’ – nel significato migliore, beninteso, dell’espressione - di Antonia Izzi Rufo, ex insegnante di lettere e titolare di vasti interessi culturali. Anch’essa, un po’ come tutti coloro che si dedicano alle lettere, all’arte ed alla cultura in generale, non è venuta meno, colla sua ultima fatica – autentico viaggio nel proprio passato – all’affermazione del poeta e scrittore argentino, Jorge Luis Borges, a detta del quale, ogni autore che si rispetti, “scrive la propria autobiografia”; i filosofi idealisti avrebbero detto, al riguardo: “Non si esce dalla soggettività”; entrambe le asserzioni sono vere “per la contraddizion che nol consente”, parafrasando l’Alighieri. Sicché, per dirla col Prefatore del libro, Marco Delpino, “ogni giorno che scorre è un giorno in più; ogni giorno che passa è un giorno in meno da qualcosa, ma il tempo non fa distinzioni, perché viaggia inesorabile, e il passato diventa presente, e il presente si trasforma in futuro, mentre ti restano i ricordi di tutto ciò che hai vissuto”. “Fugit irreparabile tempus”, avrebbe osservato Virgilio. Parole sacrosante – le prime e le seconde visto che scrittrice ha rivissuto, nel libro, il tempo trascorso, dalla prima gioventù ad oggi, attraverso un ‘excursus’, ampio ed articolato, nel paese di nascita e in altri centri della sua regione, il Molise. Tradizioni, consuetudini, usi, costumi, dialetto e tutto ciò che l’ inarrestabile tempo ha travolto e travolge nel-
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la sua fuga verso l’ignoto, tutto questo viene passato in rassegna dall’Autrice la cui nostalgia per un’epoca finita rimane fortissima nonostante le difficoltà di quel momento storico. Difficoltà e carenze evidentissime in tutti i campi dell’umano vivere, in genere, e della vita sociale in particolare ove si considerino le comodità del mondo d’oggi – che durano ormai da decenni - che hanno cambiato radicalmente il modo di vivere della stragrande maggioranza dei popoli più ricchi con tutti i risvolti negativi del caso. Le persone delle età trascorse erano, invece, costrette a subire i soprusi e le angherie dei più forti, dei più ricchi, dei più arroganti e dei cosiddetti nobili. Per quanto riguarda il riferimento ai cosiddetti nobili, basti leggere il celebre ‘Dialogo sopra la nobiltà’ di Giuseppe Parini per avere la conferma dell’insolenza del presunto nobile che dialoga col poeta vantando meriti inesistenti; quest’ultimo, già all’inizio del colloquio se ne esce con tali significative parole: “E che diacine (razza) d’animale egli è mai cotesto nobile? o perché dobbiam noi esser obbligati a rispettarlo?”. Alla fine del lungo scambio di idee, abbastanza lungo, il nobile, o presunto tale, messo in difficoltà dal poeta conclude: “Deh, amico, perché non ti conobbi io meglio, quand’io era colassù tra’ i vivi; ché io non avrei aspettato a riconoscermi così tardi!”. Tornando alla nostra scrittrice, questa non tralascia alcun aspetto della società della sua epoca, talmente numerose risultano le memorie dei momenti in cui, per fare un esempio, le case “non erano decenti, comode, accoglienti (…), ma tuguri aperti alle mosche, alle galline, ai maiali, a cani e gatti”. Così come non trascura di evidenziare gli aspetti positivi delle stesse abitazioni allorquando “le porte erano sempre aperte e le chiavi si lasciavano fuori, fino a sera, a volte anche di notte, nella serratura. Si entrava ovunque senza bussare né chiedere permesso”, perché dei ladri nessuna traccia. La nostalgia dell’Autrice è struggente e sincera e chi come lo scrivente – suo conterraneo – ha vissuto le medesime esperienze può
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confermare poiché è tutto vero e tutto realistico; la gente del tempo, gli attrezzi allora in uso, le relazioni sociali, le amicizie, le usanze quotidiane, le sentite funzioni religiose, i semplici cibi del periodo, le elementari, ma efficaci, tecniche per procurarsi il necessario – anche perché allora ci si accontentava di poco – nulla sfugge alla meticolosa e formidabile memoria dell’Autrice la quale, ad un certo punto, ricorda pure la preparazione di alcuni prodotti. Ma lasciamole la parola: “Il sapone si preparava in casa con potassio e scarti di grasso di maiale, la cenere faceva da regina, era il detersivo più sfruttato; imbevuto di aceto si usava per pulire e lucidare recipienti di rame, bollita in acqua serviva per ottenere la liscivia per togliere le macchie e schiarire la biancheria”. Sembra ieri ed è, invece, trascorso un cinquantennio. E si potrebbe continuare. Naturalmente, la stessa mette parimenti in evidenza, soprattutto, gli sprechi della vita di oggi quando, al contrario, negli anni Cinquanta e Sessanta, in particolare, nulla veniva buttato e ogni cosa veniva conservata e riutilizzata. I paesi del tempo, anche se piccoli e poveri, erano pieni di vita e di solidarietà umana, mentre, a vederli oggi, abbandonati e desolati, stringono il cuore e suscitano soltanto malinconia e tristezza; pure le scuole, oggi, sono vuote di alunni per egoismo coniugale visto che i figli, da una parte, non si desiderano e non si fanno e, dall’altra, sono confezionati in provetta con tutte le mostruosità genetiche sotto gli occhi di tutti. La scrittrice parla anche dei suoi genitori, onesti lavoratori, i quali con immani sacrifici permisero alla figlia di studiare e di conseguire una laurea. Ed i casi ogni tanto si ripetevano, ad onta degli ostacoli oggettivi insiti in quella società. A questo punto, una domanda è d’obbligo: stando così la situazione, si può fare qualcosa? A malincuore, rispondo di no, considerata l’estrema velocità con cui tutto viene travolto e continuerà ad essere spazzato via dalla cosiddetta ‘modernità’ lanciata verso un avvenire onusto di incognite, ma non tanto scono-
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sciute da non far comprendere che l’umanità va verso l’autodistruzione. La Izzi Rufo si accomiata dal lettore scrivendo testualmente: “Si corre, si ha sempre fretta; il tempo per sostare a dialogare non c’è più”; le rispondo con una calzante espressione della fisica, purtroppo, veritiera: “Motus in fine velocior”. L’ignoto, infatti, ci attende – basta dare un’occhiata al pianeta - e al momento opportuno, salvo miracoli, ci sterminerà tutti. Si tenga, pertanto, l’Autrice ben stretti i citati ricordi, unico rifugio alle follie della comunità contemporanea. Lino Di Stefano LA MIA EVA In tanti luoghi ho lasciato pezzi, se passi sopra la terra non ha pietre. Sepolture senza ossa, languide figure che porto in me. I pensieri vaganti lunghe diramazioni hanno vissuto, massi ingombranti sul cammino stressavano i fuorviamenti che nulla hanno fatto prendere. Era davanti alla luce rimbalzava dal selciato il viso tenero come una foglia apertasi al vento di marzo. Era la stessa figura sfuggente nelle immaginazioni di notte che andavano dissolte come nubi. Nati insieme, divideva un muro. Bastava una porta sulla parete, la donna del destino compariva uguale a fantasma in faccia. Naturale arrivo assegnato. Eva ad Adamo completezza dall’una all’altro rimpastata. La propria storia rinverdita con le radici unite nella stessa aria, vicino alle case che stavano assieme a noi concatenate. Le labbra sulle pareti suggevano i suoi umori, scrostavo l’intonaco sentivo più forte il respiro. Leonardo Selvaggi
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Ottobre 2015
Tornare indietro al Don Giovanni mozartiano con regia di Losey per capire la versione di Rigon-Regazzo al Teatro Olimpico di Vicenza.
MOZART E IL DON GIOVANNI di Ilia Pedrina
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OLFGANG Amadè Mozart affascina da tempo i vicentini, che si aggirano abitualmente tra gli spazi d'architettura palladiani, dalla mattina alla sera alla notte, da quando almeno, a mia memoria, concretamente, il regista Joseph Losey nel 1978 assiste alle prove dell'opera con Lorin Maazel come direttore d'orchestra e con Ruggero Raimondi ad interpretare Don Giovanni. Ne nascerà un lavoro, un capolavoro tra i più apprezzati nel settore del 'film-opera'. Al fianco di Mozart, per il Don Giovanni di Losey come per 'Così fan tutte' del doppio a intreccio Rigon-Regazzo, allora come ora, si mette Lorenzo da Ponte, poeta di sonetti in rime d'amore e scrittore di testi scelti a trama da musicare, lui, veneto-veneziano, come Casanova (che sarà presente a tutte le prove del Don Giovanni a Vienna nel maggio del 1788, come ci ricorda Giorgio Appolonia nel pro-
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gramma della XXIV Edizione delle Settimane Musicali al Teatro Olimpico): la magia della seduzione e dei suoi sicuri effetti si lascia respirare in finzione scenica coinvolgente, così si utilizza il tempo come maschera dalla quale uscire, proprio attraverso la perfetta astrazione simmetrica delle armonie concertate. Infatti il Teatro Olimpico di Vicenza aveva ospitato l'anno scorso l'opera 'Così fan tutte' ed anche quest'anno, nelle sue stupende architetture, ha preso vita la XXIV Edizione de 'Le Settimane Musicali': Mozart viene accolto ancora a misura di compagno di viaggio, nell' esplorazione dell'eterno femminino e delle contraddizioni che provoca attraverso la sua sconcertante nudità. Lo scorso anno, per la XXIII edizione di questo prestigioso Festival, quest'opera era stata presa a quattro mani dal Maestro Concertatore e Direttore dell'Orchestra di Padova e del Veneto Giovanni Battista Rigon, e dal regista veneziano Lorenzo Regazzo: tra loro un'intesa solida, prismatica, sfuggente la sua parte, dialettica, dinamica, interrogativa, nella quale musicalità, convergenza di scelte, di stili e di impronte ed interpretazione scenica si intersecavano ed intrecciavano apertamente ed in filigrana. Si, perché questo regista era anche sulla scena ed interpretava il personaggio di Don Alfonso, quel convitato mai invitato che, dagli spazi del caffè napoletano agli altri interni d'opera, invita ed inventa e controlla e ride tra sé divertito, quando via via il suo progetto prende forma, concre-
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tamente e mostra tutto il suo ben programmato sviluppo, quasi un 'deja vu' ricamato intorno alla virtù di fedeltà delle donne. E sceglie di mettere in primo piano una fanciulla, vestita di bianco, seni visibili in trasparenza, bambola in grembo, rossetto acceso sulle labbra, quasi il parallelo femminile del paggio in nero che nell'Opera 'Don Giovanni' di Losey, girata a Vicenza tra le architetture palladiane della Basilica e della Villa Capra-Valmarana detta 'La Rotonda' è sempre presente a sottolineare senza parlare un giudizio sull'andamento delle vicende. Sostiene il mio amico Giorgio Bordin ora scrittore e regista: “Allora, nel 1978-1979, ero stato scelto da Losey per interpretare Don Giovanni, data la mia prestanza fisica assolutamente ammaliatrice: dovevo mostrare ai cantori come 'lavorare' in scena, come acquisire le giuste movenze espressione di vita reale. Nell'opera-film di Losey il paggio è una maschera neutra, bella, efebica, dalla biacca bianca, inespressiva, un poco come si usa nel regno dei morti viventi, spettatori di uno show archetipico, che a volte si incarna in forme demoniaco-ossessive, in qualche storia... Alla distanza ravvicinata della cinepresa, quasi al suo sguardo, le contratture in volto del Don Giovanni-Raimondi sono rese ancor più mostruosamente archetipiche, dando vita al trago in oggetto...” Certo questo non è il caso della giovane fanciulla in bianco, per taluni simbolo dell'innocenza prima dell'arrivo dei desideri d'amore che portano a guardarsi con insistenza allo specchio, simulando lo sguardo dell'altro su di te, per talaltri simbolo della giovane donna-oggetto, che deve dare di sé solo l'immagine, solo la forma, secondo quel canone di bellezza che i media sono pronti a decretare, con autorità inflessibile, immagine e forma, dico, prive d'ogni altro attributo che quello del farsi fruire: a ciascuno l'interpretazione che meglio aggrada, a me il compito di sottolineare lo spontaneo abbraccio della fanciulla al regista-interprete Don Alfonso, alla fine dell'Opera, forse perché l'ha resa protagonista, in vita ed in silenzio, fuori e dentro que-
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st'opera stessa, contemporaneamente, tra le scenografie fisse di una Tebe antica, citazione audace di una finzione palladiana senza tempo. E se poi si volesse portare avanti un alito di emozioni volto a re-immettere l'antico nel nuovo grazie alla mimetizzazione letteraria, è a Busenello che il Da Ponte avrebbe forse potuto fare riferimento, per quel testo de 'L'Incoronazione di Poppea' che Monteverdi ha deciso di musicare in modo mirabile: nell'analisi delle dissonanze e del mono-tono il Monteverdi è maestro insostituibile, perché la musica si evolva ed arrivi a rompere con ogni tradizione che vada ad accettare e a convalidare l'impegno del Potere a mantenere lo stato fisso e consolidato della tradizione, familiare e non solo. Allora in Monteverdi ci saranno già pieni spazi tematici e d'intuizione non emulativa per incoraggiare ogni intrapresa nuova e ribelle a qualsivoglia giogo, in ogni tempo essa si potrà presentare. Sia che si tratti di Mozart o d'altri, questa rivoluzione ci riempirà di conoscenza e di contento, questo è certo. Allora le tre divinità poste all'inizio dell'opera di Monteverdi, la Virtù, la Fortuna e l'Amore stesso sono al lavoro anche nell'opera mozartiana del 'Così fan tutte', che, come partitura seguirà la composizione del 'Don Giovanni' e che l'intenzionalità sapiente e ben documentata della coppia Rigon-Regazzo, ha predisposto in cambio di successione: le tre divinità del Monteverdi vengono interiorizzate ed espresse in concetti, ipostatizzazioni e sfide tra scommettitori che pongono il saggio filosofo don Alfonso non più all'altezza del Seneca suicida dell'opera del Monteverdi, ma abbassato a puro strumento animato e prevedibile di una verifica da portare avanti e tutta centrata sulla volubilità della natura femminile, allo scopo di far scaturire l'abilità ad essere opera di intrattenimento e non solo elegante prospettiva di una libertà da conquistare oltre le consuetudini e i conformismi più inradicati, in nome di un rinnovamento che si era chiamato Rinascimento. Così come, intrigante e svilito la sua parte, il Leporello nel 'Don Giovanni', uno sdoppiamento superficiale dell'an-
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tinomia tra il servo ed il padrone che si scambiano vestiti, svuotati ormai di ogni corporeità intenzionale. Infatti l'Illuminismo impoverirà il ruolo e la funzione della libertà come scelta, perché la esalterà e la innalzerà a Principio, così l'intelligenza sarà impoverita nel suo ruolo, quale vera fonte e caratteristica della vita stessa, quando realizza un gioco che non conosce il suo doppio ma che genera da sé creatività originale e condizioni d'esperienza sempre più innovative e coinvolgenti. La Libertà, insieme con le altre sue due sorelle, Fraternità e Uguaglianza, è stata elevata a Principio: allora, se non sei cittadino, non sei, ecco il vero impoverimento della Persona rispetto al Potere! Infatti la forza virtuosa dei disegni mentali e forse pratici di Ottavia rispetto a Nerone, perché è lei la moglie legittima, e la tensione vogliosa ed erotica di Poppea per sedurlo e diventare così imperatrice, nell'Opera del Monteverdi, si riuniscono in ciascuna delle due fanciulle, Dorabella e Fiordiligi, nel 'Così fan tutte', prima fedelissime ai loro fidanzati, poi, dopo pochissimo, in conflitto per passare al tradimento inteso come liberazione dell'Eros da quei limiti che sono dati dai ruoli: l'interiorizzazione è un processo che avviene per gradi ed artisticamente nelle opere di Mozart tocca livelli altissimi. Nessun dorma, dunque, per capire meglio quel 'dopo' del mozartiano-palladiano 'Così fan tutte', opera che è stato messa in scena 'prima', nel 2014, rispetto all'attuale edizione del 'Don Giovanni' del 2015! Questo tornare indietro nel tempo dello spettacolo, quasi a procedere per unire insieme i due eventi in un tutto che ha al suo interno una continuità significativa, trova la sua forza nella fissità della scena palladiana, che rimane storicamente ancorata al suo tempo ed ancora, insensibilmente ma perentoriamente, ci sovrasta nel suo intento artistico di stupire. Ed allora prende piede il marchingegno innovativo, nelle sue formulazioni multimediali, proprio in questa edizione del Don Giovanni mozartiano, opera su partitura dell'esecuzione viennese del 1788, quando Mozart stesso la dirige e si sceglie - lo veniamo a sa-
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pere da Giorgio Apollonia nell'elegante e prezioso libro/programma che accompagna tutto il percorso della XXIV Edizione delle Settimane Musicali al Teatro Olimpico - quelle voci che più si accordano con il suo estro inventivo. Sostiene G. Appolonia: “Don Giovanni di Mozart approda in prima esecuzione assoluta a Praga il 29 ottobre 1787. Dopo i consensi ottenuti, il compositore riporta con incontenibile gioia: 'L'opera è andata in scena con il successo più clamoroso possibile'. Giubila l'impresario Guadasoni che negli stessi giorni affermava: 'Evviva Da Ponte! Evviva Mozart! Tutti gli impresari, tutti i virtuosi devono benedirli! Finché essi vivranno, non si saprà mai cosa sia la miseria teatrale'. Sei mesi dopo, il 7 maggio 1788, Don Giovanni approda al Burgtheater di Vienna. Per l'occasione vengono effettuati alcuni rimaneggiamenti fra tagli ed aggiunte alla partitura originaria... Nel secondo atto, d'insolita e rarissima esecuzione è poi il duetto 'Per queste tue manine' tra Zerlina e Leporello, che pone a confronto due personaggi che altrimenti non avrebbero l'opportunità di interagire: vi si rivendica la fierezza femminile nei confronti degli uomini che recano loro oltraggio...” (Settimane Musicali al Teatro Olimpico, XXIV Ed. 2015, op. cit. pag 63). Ed ecco allora il breve originale contesto per la Scena X del II Atto (21a, Duetto), per il quale la musica è giocata su dissonanze tra le due vocalità in intreccio, frante e quasi a fil di spada, tra preghiera e supplica da un lato e astuto risentimento e punizione audace ed imprevista dall'altro, in contrappunto abilissimo: Leporello. “Per queste tue manine/ candide e tenerelle,/per questa fresca pelle,/abbi pietà di me!” Zerlina: “Non v'è pietà, briccone;/son una tigre irata,/un aspide, un leone/no, no, non v'è pietà. Leporello: “Ah! Di fuggir si provi....”. Zerlina: “Sei morto se ti movi” Leporello: “Barbari, ingiusti Dei!/In mano di costei/chi capitar mi fe?”
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Zerlina: “Barbaro traditore!/Del tuo padrone il core/ avessi qui con te.” (Lo lega con una corda e lega la corda alla finestra). Leporello: “Deh! Non mi stringer tanto,/l'anima mia s'en va.” Zerlina: “Sen vada o resti, intanto/non partirai di qua!” Leporello: “Che strette, o Dei, che botte!/È giorno, ovver è notte?/Che scosse di tremuoto!/Che buia oscurità!” Zerlina: “Di gioia e di diletto/sento brillarmi il petto./Così, così, cogli uomini,/così, così si fa.” (op. cit. pag. 101). Il regista Lorenzo Regazzo ci aveva già avvertito dell'innovazione per scene e costumi nella sua interpretazione dell'opera 'Così fan tutte', nell'edizione del 2014, svolta ancora in coppia con il direttore d'orchestra Giovanni Battista Rigon, ed ora, per il seduttore impenitente, annota nel testo: “... Il Don Giovanni odierno invece deve inevitabilmente fare i conti con gli archetipi sublimati dell'esegesi romantica e novecentesca, e con le dotte speculazioni letterarie e metafisiche. In definitiva, con l'eroe, con il superuomo, con il mito. E tutta questa sedimentata grandeur mitologica trova inevitabile ripercussione nei caratteri femminili, divenuti, nel corso del tempo, sfrontatamente matronali, anche nella tipologia vocale. In realtà le femmine del Don Giovanni sono le medesime che ritroviamo nell'intera trilogia Mozart-Da Ponte: giovani donne, schiette, volitive o tormentate, dotate di straordinaria vita interiore; l'incontro con il libertino diviene quindi pretesto prezioso per sondare nel vissuto inconfessato, per farne emergere desideri e frustrazioni. Le miracolose risorse introspettive della musica di Mozart fanno il resto: ogni personaggio può così agire liberamente, in una contemporaneità virtuale, rendendo sempre plausibile ogni genere di migrazione scenografica e temporale, di un'attualizzazione concepita come contenitore discreto di tensioni e conflitti profondi e non certo come fine ultimo - sia esso oleografico o dissacrante – dell'allestimento teatrale. C'è sicuramente un fil rouge che lega questo Don Giovanni
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al Così della precedente edizione del festival, nella similitudine di uno sguardo disincantato ma irriverente sulle condotte delle nuove generazioni, sul lassismo imperante di certa gioventù indolente, stordita da gadget e sostanze, totalmente addomesticata dai modelli insignificanti dei media; da reality e palinsesti coatti, popolati da aspiranti showgirls, da seduttori-narcisi-tronisti sempre comunque perseguitati da virago e stolkers fantasticanti. Tutti propensi al bieco compromesso pur di sciorinare talenti inesistenti o di prodursi pubblicamente in esibizioni grottesche. Una gioventù spesso tragicamente incapace di percepire qualsiasi senso del ridicolo, dentro e fuori di sé...” (op. cit. pp. 60-61). Così infatti prende piede, dicevo, e pieno rilievo la dipendenza da elementi artificiali, inserita per far naufragare qualsiasi rispetto delle norme che regolano la vita dei comuni mortali: è la dipendenza ad essere divenuta normativa! Si, perché questo Don Giovanni 'Palladiano' a manto d'oro, bretelle su camicia bianca e ginnico in tutto, anche ai piedi, mima se stesso in varie forme, sottolineando proprio quel gioco di seduzione falsa ed artificiale che attraversa tutta l'opera: oltre al mantello dorato, quasi in foggia da imprese di volo alla Superman, soldi alla mano, sempre, anche lanciati all'aria, è un Don Giovanni scattoso, elettrizzato, feticcio di se stesso, che naufragherà alla fine nel paradiso artificiale della cocaina, che sostituisce la grande cena in onore del Commendatore e che gli viene portata su un vassoio da Leporello. Le fiamme della punizione definitiva per le malefatte commesse saranno presenti in scena, nel video del film di Losey, urla del tenore Rinaldi comprese. In questa originale edizione del Don Giovanni, Donna Anna sa quello che vuole, cioè la morte del padre ed è a contatto con quella valigetta bianca, che contiene l'arma e la stoffa color arancione che assumerà via via differenti funzioni; è fugace nella ritrosia a lasciarsi sfiorare dalle affettuosità di don Ottavio, è quasi vergognosa della sua intima femminilità ossessivamente trascolorata ed
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infiammata dalla trasgressione: la pistola nel corso di tutto il lavoro scenico materializza la facilità ad usare armi, la banalità dell'uccidere oggi, senza provare il minimo turbamento. In questa scenografia minimale e piana che altera drammaticamente le relazioni, viene portato in primo piano il delitto come risoluzione banale commessa per 'diletto'. Il Maestro concertatore e Direttore Titta Rigon guida ancora l'Orchestra di Padova e del Veneto con partitura a libro chiuso, perfettamente consapevole del fascino che i suoi segnali trasmettono a tutti gli orchestrali ed agli interpreti e concretizzano, in contrasto estremo e quindi in rilevante, efficace effetto con quanto si va via via snodando dell'opera. Il tempo di Mozart, interno alla partitura del Don Giovanni non va sezionato e selezionato secondo ciò che già si sa e si ricorda, rammemorandolo, ma va costruito via via originalmente in questa precisa situazione scenico-teatrale nella quale si sta svolgendo: ho lasciato volutamente trascorrere del tempo tra l'evento e la sua citazione, per rilevare il resto, ciò che resta di 'classico' in quest'opera che si presenta come un tutto ben articolato tra direzione d'orchestra, esecuzione interpretativa e regia su scene fisse, da animare. Questo 'tutto' che è il Don Giovanni del 23, del 25 maggio 2015 e delle serate successive rimane presente perché sfalda la fissità delle associazioni mentali che si sono stratificate rendendo, con il perfido effetto di rendere quasi sterile e reiterato all'infinito il lavoro del musicista viennese: allora esse vengono estrapolate dalla mente di tutti coloro che le ricordano e proposte sullo schermo grande, esso stesso in scena e finzione di una realtà ripresa altrove, in un tempo altro da questo, quello del filmopera di Losey; questo 'tutto' che è il Don Giovanni di Rigon-Regazzo rimane presente perché riporta il tema del 'Burlador de Seviglia' al livello di dramma-commedia senza valori in quanto, proprio dei valori se ne dimostra la tirannica violenza: chi li vuole far rispettare, infatti, si fa violento proprio in nome di quei valori che deve ed intende far rispettare: sembra quasi che donna Anna armi
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la mano del Don Giovanni assassino, per un complesso di Elettra capovolto e che vada ad accettare don Ottavio solo quando indosserà la vestaglia del Commendatore; questo capolavoro complesso d'arte, d'esecuzione orchestrale e vocale, di interpretazione scenica rimane presente e si colloca pienamente nel presente perché frantuma le relazioni eroticoseduttive esibendone il loro svuotamento: di fronte al don Giovanni atletico seduto in poltrona scorrono sullo schermo e nella scena le fanciulle dai panni coloratissimi, belle la loro parte, ma il video che riprende un qualsiasi talk-show vince la realtà e la frammentazione diventa un tutto in movimento frenetico, con la totale perdita di un senso, qualunque esso sia. Allora ci si rende conto che è la musica a vincere su questo vuoto e che Mozart lavora il vuoto giocosamente, sapendo che da quel silenzio ne uscirà un intrattenimento: egli riuscirà a vincere, tenendo presso di sé, per secoli, il tempo fermo delle sue improvvisazioni in partitura, a reclamare un'interpretazione che sarà sempre e comunque re-invenzione. Ilia Pedrina
MATTINATA SUL MARE S'è levata dal mare una colomba in un cielo incolore. All'orizzonte una nave bianca, delicata come un'ave. L'acqua tremula fra le mie palme riflette il sole nascente. L'anima corre, inebriata, ed il mare, rosso rumoroso fanciullo, vuole ghermirla. Natura e mondo umano, un miracolo precario di armonia... Si levano stormi di gabbiani e fiochi gridi per l'infinito azzurro. Luigi De Rosa Rapallo, Genova
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SAFFO E DANTE A CONFRONTO di Antonia Izzi Rufo l’Amore il sentimento che pervade la più bella canzone della “Vita nuova” di Dante, “Il fascino di Beatrice”; così pure l’Amore è l’impulso interiore che emerge con tutta la sua forza e la sua spontaneità in “Passione d’amore” di Saffo, la lirica più famosa del mondo definita “l’ode sublime”. La stessa intensità e profondità di palpiti del cuore si avvertono nei versi dei due Grandi della poesia d’amore di tutti i tempi, in quelli della Poetessa di Lesbo e in quelli del Padre della lingua italiana, anche se essi non furono contemporanei, anche diversi secoli li separano. Perché l’amore non invecchia, non cambia volto, non inaridisce, ma conserva la sua eterna luminosità se piange o se ride, se scende fino a terra per alleviare angosce o se si spinge nell’alto dei cieli – il suo regno – per dispensare luce e calore a chi brancola nel buio, a chi trema di freddo. Se ricostruiamo le scene con la fantasia, li vediamo entrambi, la “fanciulla di Faone” il cui canto risuona ininterrotto nelle acque del mare di Leucade e il “pellegrin fuggiasco” che imparò “come sa di sale lo pane altrui” e “come è duro calle lo scendere e il salir per l’altrui scale”, mentre estatici, e come fuori dal mondo, contemplano i loro amori. Beatrice si muove per le strade “vestita d’ umiltà”, dignitosa, “sentendosi lodare”; saluta tutti col sorriso sulle labbra tanto che la gente rimane incantata ad ammirarla e non osa, per lo stupore, parlare, non “ardisce” guardarla; ella non appare donna terrena ma angelo, un essere “venuto dal cielo in terra a miracol mostrare” ; così piacente a chi la guarda che infonde, attraverso gli occhi, una tale dolcezza nell’animo che solo chi la prova la può descrivere. E’ un’apparizione miracolosa la sua. Ella passa sfiorando la terra,
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leggera come uno spirito celeste. E tale la considera Dante. Il “libretto della memoria”, così come viene definita la “Vita nuova”, si chiude con l’affermazione del Poeta che un giorno egli dirà di Beatrice ”quello che mai fue detto d’alcun”, preannuncio questo della materia della “Commedia” nella quale sarà Beatrice la sua guida nel paradiso. Non amore materiale quello di Dante, ma spirituale, mistico. E Beatrice è colei che purifica la sua anima, la libera da ogni scoria terrena, rende degno il Poeta di presentarsi a Dio. Siede immobile Saffo di fronte all’uomo, bello come un dio dell’Olimpo, sereno, ed alla ragazza che, tutta grazia, gli parla dolcemente e gli sorride. Quel sorriso sbigottisce il cuore della Poetessa, la colpisce fin nel profondo, la sconvolge tanto che ella non riesce più a parlare, le si riscalda il sangue nelle vene, i suoi occhi più non vedono, le rombano le orecchie, le scorre il sudore lungo le membra e un tremore la invade tutta; diventa pallida come l’erba e si sente morire. Non è gelosia la sua, solo attrazione profonda, morbosa, incontenibile per la ragazza. Il suo amore la colpisce nel fisico, oltre che nell’animo, è un amore reale, travolgente che provoca la reazione di tutto il suo organismo, del suo IO, è un amore psicofisico evidente, sincero, globale. Non così succede a Dante. Questi vede in Beatrice una creatura celeste e non osa toccarla se non col pensiero, con l’anima, è attratto da lei, più che dalle qualità fisiche, dalle sue virtù: dalla sua umiltà, dalla sua onestà, dalla sua bellezza angelica, dal suo distinguersi da tutte le altre donne. Dante canta le lodi dell’amata in terza persona, quasi timoroso, egli essere terreno impuro, di contaminarla, ella donna pura generata per redimere gli uomini; Saffo si rivolge alla ragazza in prima persona; il suo trasporto verso di lei è diretto alla bellezza effimera, caduca, da toccare con gli occhi e col desiderio per avvertirne la concretezza e goderne anche nell’intimo. Antonia Izzi Rufo
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NAZARIO PARDINI DALLE OPERE 1997 - 2013 Alla ricerca di una personale catarsi tra Natura e Classicità di Carmelo Consoli
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AZARIO Pardini, di cui sono orgogliosamente amico ed entusiasta ammiratore, è uno di quegli artisti che fanno uso in maniera superlativa della parola poetica e sono punti di riferimento luminosi di saggezza e cultura. La sua poesia da molti anni è un fiume in piena di versi con immagini incantevoli e contenuti profondissimi il cui corso non accenna a diminuire col passare del tempo, come pure non diminuisce la sua passione e competenza, che si esprime in maniera eccellente, per la critica letteraria e d'arte. Una punta di diamante quest'ultima di cui ci può subito rendere conto frequentando, ad esempio, il suo animatissimo blog. “Alla Volta di Lèucade”. La “Laurea Apollinaris” recentemente attribuitagli, come alta onorificenza per l'attività letteraria, è l'ennesimo, meritatissimo riconoscimento alla sua arte poetica e narrativa; celebra dunque l'uomo e l'artista giunto ormai ai vertici della popolarità nel mondo della cultura nazionale e internazionale. Con questa premessa, ma con grande cautela e rispetto, mi sono avvicinato al suo mondo poetico leggendone attentamente alcune opere che coprono l'arco del tempo che va dal
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1997 al 2013, tentando così di penetrare nelle viscere della sua poesia, scrutarne la fonte e il decorso, fino alla scoperta delle motivazioni segrete e degli approdi finali. Tentativo arduo, se volete, già in partenza, conoscendo la mole e la ricchezza della sua produzione, la grande cultura e conoscenza dei classici antichi e moderni che lo contraddistingue facendone un autore di elevata complessità, poliedrico ed eclettico, dai grandi significati umani e letterari. Il lungo percorso poetico di Pardini mostra col passare degli anni sempre una forte coesione di scenari e finalità in cui la sua parola si è tuttavia sempre di più affinata e resa complessa nel dettato lirico e nella ricerca esistenziale. Da L'ultimo respiro dei gerani del 1997 a Dicotomie del 2013 la scrittura di Nazario s' arricchisce di nervature filosofico esistenziali, di articolazioni e approfondimenti verbali, sempre rappresentando l'uomo che cerca attraverso la parola una personale catarsi, immerso nella natura e nel mondo della più alta classicità. Ma egli avverte col procedere del tempo la fragilità in ciò che lo circonda ed un velo di malinconica sembra calare sul suo canto. Più lacerante si fa il suo dolore nel mondo soprattutto per il consumismo imperante, la tecnologia arrembante, il disfacimento dei valori; di conseguenza più avvertiti sono in lui il richiamo e l'interrogazione verso il mistero della vita e l'assoluto che lo circonda. Quando scrisse L'ultimo respiro dei gerani e siano nell'anno 1997 egli era poeta già conosciutissimo sulla scena letteraria italiana come fine ed erudito interlocutore della natura, narratore dello storia dell'uomo, del suo e altrui travaglio, ma già pronto e maturo per spiccare il salto verso quell'isola del sogno che sarà poi la sua Lèucade, terreno fertile per la nuova silloge che vedrà la luce due anni dopo. Alla volta di Lèucade sarà poi l'opera poetica che riuscirà forse meglio a rappresentarlo come eminenza poetica, se teniamo conto delle considerazioni critiche profuse su questa opera, da alte personalità, ed in generale degli
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onori e dei riconoscimenti vari ottenuti. Ma già in questo testo del “97”che porta l'abile prefazione di Ninny di Stefano Busà troviamo le tipiche tematiche pardiane ad iniziare dalla complementarietà del suo paesaggio d' anima con quello della natura, riscontro evidente, che colpisce immediatamente chi si immerge nella lettura delle sue liriche. Inoltre già si evidenziano e si consolidano ulteriormente le sue straordinarie qualità lessicali, la sua figura di personaggio erudito attraverso la quale attinge disinvoltamente e brillantemente alle fonti della classicità antica. Dalla terra Pardini coglie fragranze, cromie, visioni estatiche, contenuti vitalistici ma anche povertà, fatica e dolore. È il cantore di una vita tanto dura, quanto laboriosa e armonica, capace di calarsi con realismo, obbiettività e commozione nell'humus dei campi, rivelandosi poeta di usanze e costumi, memoria di bellezze che mai hanno il sapore smielato e lamentoso dei ricordi andati ma che invece sono terreno fertile per alimentare gli spazi aurei della vita che prosegue. Un pianeta terra, il suo, costantemente movimentato e sempre di più ampio respiro in cui si integrano e si mescolano l'analisi minuziosa delle creature viventi, la magnificenza dei paesaggi e la commossa partecipazione della sua anima. I due grandi poli che caratterizzano la sua poesia sono da un lato l'adesione estrema alla realtà semplice e complessa della natura, come riferimento ad un assoluto valore esistenziale ed emblema del vivere umano, costituito da vicissitudini tragiche e proiezioni salvifiche, dall'altro il continuo ricorso al richiamo della cultura classica come valore della bellezza idilliaca rappresentata dai grandi mondi e poeti lirici antichi. Appare subito chiaro però che egli non appartiene a scuole o correnti di poesia, anche se i suoi versi risentono della tradizione novecentesca e antecedente da Leopardi a Pascoli, da D'annunzio a Montale, perché il suo scavo d'anima è moderno e con modernità tutta sua sottolinea il dolore e la naturale decadenza della vita annunciandone poi la rinascita e la bellezza ideale. Col senno di poi e sulla scorta delle successive letture
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dei suoi libri se mai una critica, anche pur benevola, si possa fare a questo libro del “97” possiamo parlare di esso come di un contenitore ancora avvolto da una fresca innocenza di immagini, di abbandoni a lecci, pini, querce, vicoli, paesaggi e silenzi, senza quella forte compromissione di cultura e di maturità pensosa ed esistenziale che lo condizionerà successivamente da “Alla volta di Lèucade” in poi. L'anno 1999 segna il momento magico della poesia pardiana, il compendio ideale del suo pensiero poetante e filosofico. Nasce la silloge nella quale meglio si amalgamano e si fondono i momenti agresti con quelli aulici della classicità; l'autore con disinvoltura ed eleganza si muove tra esperienze rurali, personali di vita e modelli ideali a cui fare riferimento. Si completa così l'armonia formale tra questi due contenitori e si fa marcata la materia del viaggio come metafora di una trovata eternità nella intensità e nella qualità della vita. Ancora una volta egli si volge alla stagione autunnale come momento di amara e consapevole malinconia della vita, percependo in essa la precarietà e la fragilità umana, ma anche facendone momento prezioso per fare un consuntivo, accettare un giudizio, immergendosi poi in quelle oniriche acque di Lèucade e ricorrendo al proprio e altrui sogno per una esistenza tesa ad una fecondità di amore senza limiti. Pardini, come sempre, ricorre al fascino seducente della memoria utilizzando magistralmente l'endecasillabo in una completa fusione tra materiale e spirituale; fa appello alla sua natura, sempre più la sua amante segreta, sottolinea il fatalismo della sua decadenza ma anche ne preannuncia la rinascita e la bellezza salvifica. E la memoria è la protagonista col suo inventario delle stagioni dell'esistenza. Disegna la vita come viaggio perenne, fissandone attimi singoli e stagioni intere nella loro realtà di fascino e dolore. La natura primattrice è quindi la sua compagna di viaggio, maestra di vita, madre illuminante, coscienza di sé e della propria umanità. Dunque il viaggio, un ideale itinerario nelle varie fasi di parten-
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za, fuga, ritorno, approdo e ancora ripartenza, ma anche via di fuga, trampolino per proiettarsi in un altrove onirico e catartico, per dimenticare il quotidiano dolore ed esorcizzare la morte. Ed è in Ulisse che si appresta a ripartire ed oltrepassare le colonne del mistero egli disegna la metafora della conoscenza e della sfida. Compie dunque il grande salto nell'isola del sogno, della nostalgia e della memoria. Un balzo verso l'eternità, verso Lèucade terra idilliaca di canti, quelli di Alcmane, Ibico, Saffo, Alceo, Stesicoro. Il poeta entra con fermezza e naturalezza nel mondo classico, assunto di bellezza e armonia, in quell'isola dove sarebbe bello chiudere il ciclo della vita e dare un senso alla fuga dal passato nella catartica soluzione degli amori impossibili, riacquistando la serenità come affrancamento dal turbinio delle passioni e dalla sofferenza dell'amore. Siamo dunque ad un mondo di massima purificazione ed elevazione, ad una conquista metafisica di sé. Pardini è ormai padrone di una poesia piena e matura, descrittiva e riflessiva, con assenze e ritorni, scoperte e stupori, ricordi e talora rimpianti nella completata fusione tra i classici e i moderni. Un altissima testimonianza lirica. Sul piano stilistico si riscontra l'assoluta bellezza del lessico, la padronanza perfetta della metrica, l'uso magistrale dell'endecasillabo più armonioso. Quasi subito dopo il nostro poeta dà alle stampe un altro suo volume dal titolo Si aggirava nei boschi una fanciulla e siamo nell'anno 2000, ancora sul suo terreno preferito e cioè quello della natura. Ma andiamo verso un mutamento dei segni e dell' anima. In questo libro domina una vena di malinconia per un mondo che si involve andando incontro ad una sponda di inquinamento e distruzione. Le tematiche affrontate dall' autore, principalmente nella prima parte del volume, attingono ad una terra di disuguaglianze sociali e di orrori prodotti dall'uomo. Le poesie si allungano, i periodi dialogati si ripetono con una voglia incontenibile di narrare e la prosa diventa strumento di tragicità della realtà. Una natura soprattutto violata quella che canta, e quindi tale è anche la te-
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matica della lirica più rappresentativa Una ninfa di nome natura. La poesia di Pardini, sempre racchiusa nell' endecasillabo, cambia adesso la quiete aulica del paesaggio, con tonalità che si fanno a tratti tragicamente analitiche e fantastiche. Il poeta insiste sui temi trattati, rendendo sempre più evidenti i problemi laceranti che emergono dalle sue prese di posizione, anche se poi la natura riemerge prepotentemente con la sua genuinità di presenze. In Tramonti su itenerari laici appare l'uomo distrutto da un progresso sbagliato. Seguono gli Undici canti, alcuni con tratti brevi, altri più lunghi e profondi all'interno di un ambiente in cui egli ritrova la classicità tra boschi e ninfe. Undici canti di terra in cui ritornano le voci dei padri, le rinascite e gli abbandoni. Nell'ultima silloge Canzoniere pagano il poeta ritorna ad una maggiore intimità, tenerezza e complicità e la sua natura assume toni di melanconia immersa nell'equilibrio tra violenza e morte. L'evidenza maggiore del mutamento della poesia di Pardini ci appare nel suo modo nuovo di relazionarsi con la realtà, attraverso la sua partecipazione diversa al dolore dell'uomo. Alle memorie idilliache si affianca la realtà con le lacerazioni insanabili; persino l'utilizzo della metrica ne risente. Una sezione dell'opera, dal titolo Sul fiume è dedicata al mitico “Pesceraro”, apparentato in pittura con il pesce d'oro di Paul Klee. Qua i toni della sua poesia si fanno evangelici e pagani al tempo stesso di fronte alla riscoperta della vitalità del Cristo a cui il simbolo del pesce corrisponde. Cristo parla al poeta ed egli vi si identifica seguendo la propria linea cristologica. Passano cinque anni ed il nostro poeta si cimenta in un piccolo poemetto con parti dialogate e monologhi nel suo nuovo volume Dal Lago al fiume che appunto porta la data del 2005. Un volume in cui domina il paesaggio lacustre che prelude al fiume, visto nella sua luce settembrina; un ambiente animato da animali acquatici, soprattutto uccelli e dove la presenza dell'uomo è rara anche se ovunque si avverte, rappresentata da perso-
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naggi a turno chiamati Anchise, Nonno Felice, l'io narratore. Riappare il suo tipico mondo palpitante di vita in cui si fondono passato, presente, futuro e dove l'autore, il paesaggio, gli animali vivono in perfetta armonia. La povertà, il dolore assumono un valore positivo dalla contemporanea presenza di vibrazioni positive ed elementi vitali. La parte centrale del poemetto è riservata alla poesia Apparizione che esprime in maniera più tangibile ed incisiva il suo universo poetico. Natura ed umanità si completano, la luce più viva e la gioia non escludono la tenebra, il crepuscolo, il dolore; una terra dove il poeta ritiene di poter recuperare i valori ancestrali della vita nonostante l'età del consumismo e della tecnologia. Il suo linguaggio si fa semplice, piano senza però rinunziare a ricorrere a preziosismi lessicali e neo formazioni classiche attraverso tecniche espressive e stilistiche originali e ardite. E tutto questo per sottolineare il suo sensibilissimo ascolto della natura. Straordinaria poi è la ricchezza dei termini utilizzati per elencare la vegetazione e gli animali, cosa che rende deliziosa e intri-
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gante la lettura. E siamo nel 2013 quando vede la luce la silloge dal titolo Dicotomie. Pardini è un poeta ormai affermatissimo che non deve più nulla dimostrare circa le sue qualità poetiche se non riaffermare una straordinaria e consolidata parola lirica e qua si cimenta ancora più profondamente nella interiorità di se stesso e nella ricerca della espressione creativa del suo verbo. Uno scavo intenso il suo adesso dell'anima e della parola teso a svelare dispute e incongruenze, ma che in realtà rimane sempre essenzialmente canto d'amore a tutto tondo per ciò che lo circonda e per la bellezza in assoluto del creato. Non a caso una delle più appariscenti dicotomie riguarda l'uomo e la presenza di Dio. L'umano si disperde nel divino ed il divino si raccoglie nell'umano. Tre le sezioni. La prima: Dicotomie tra ricordi, considerazioni, visioni e domande esistenziali in cui appare la poesia più rappresentativa a mio giudizio dal titolo Esisto? Poi Racconti in versi, una sequenza di episodi in cui si evidenzia una narrazione poetica contrassegnata da un alto timbro morale e ad indirizzo formativo. Infine la terza ed ultima sezione: D 'amore di terra e di mare dove ancora una volta egli si fa protagonista appassionato di una storia infinita di stati d'animo, di nature, tra vita e morte. Dunque dicotomie ma sempre in presenza di una loro coerenza ed armonia. Giunto al termine di questo lungo excursus poetico, preso in esame, mi pare di scorgere nella parola di Nazario Pardini, prima di ogni altra considerazione, un pluriennale canto alla vita sempre coeso, lucidissimo, raffinatissimo dove costantemente si fanno protagoniste la vita, la morte e la rinascita ed in cui il linguaggio utilizzato è talmente prezioso ed i messaggi contenuti talmente alti da fare di lui una delle voci più affermate della poesia contemporanea; un canto che certamente non si spegnerà fino a quando l'amico ed illustre poeta avrà l'onore e l'onere di appartenere a questa terra e anche dopo quando resterà nel vivo ricordo che gli altri avranno di lui e della sua inimitabile poesia. Carmelo Consoli
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DOMENICO DEFELICE IL CROCO GENNAIO E LUGLIO 2015 MARIA GRAZIA LENISA E LETTERE (1974-2006) di Salvatore D’Ambrosio RAVAMO sul finire degli anni “70 del secolo scorso. Frequentavo in quegli anni a Caserta, un circolo culturale nato sui fermenti prodotti dalla rivoluzione sociale del “68. In quegli anni, per me che arrivavo da Napoli in una città silenziosa e molto borghese come Caserta, quel centro culturale era un punto di riferimento. Per meglio dire la sola isola che raccoglieva dei giovani intellettuali, naufraghi di una cultura così marginale e poco sentita in una città che, seb-
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bene vicinissima a Napoli, soffriva di un grande provincialismo culturale. Ciò nonostante si facevano buone cose. Venne invitata, in uno di questi incontri, Maria Grazia Lenisa che aveva da poco pubblicato la raccolta Erotica. La ricordo ancora: minuta, con i suoi capelli corti, vivace. Conservo dell’incontro un ricordo sì lontano, ma vivo come era lei. Viva e mite: serena, pacata, per niente tronfia della sua importanza di poeta già riconosciuta da quel lontano 1979. Si discusse di poesia ovviamente, e soprattutto di Erotica. Si affrontarono con naturalezza argomenti e contenuti della raccolta, che specie se trattati da una donna qualche decennio prima avrebbero procurato non pochi rossori agli uditori e forse alla stessa autrice. Ma una delle positività di quel magico periodo storico, è stata il liberarsi di pudori e di ipocrisie. Rivendicava e pretendeva M.G.L. in quella raccolta, il diritto a parlare delle sublimi cose della vita. Ci spiegava che donna non è solo l’essere madre, moglie, curatrice di familiari affetti, ma anche detentrice di natura predisposta al piacere, in contropartita con l’uomo. Avemmo una copia del suo libretto e alla mia richiesta di autografarlo vi aggiunse anche l’indirizzo di casa che poteva tornare utile, mi sembra che disse ma non ne sono certo, nel caso avessi voluto scriverle. Certo è che ci lasciò senza chiudere porte. Ma la vita prende sempre delle strade che portano inspiegabilmente altrove. E a me e agli altri del gruppo ci portò effettivamente altrove: fino alla cessazione di quegli incontri. Lasciando però segni che quasi sempre ritornano, magari per un evento normale come quello di una lettura critica o biografica. A me è accaduto con i due lavori stupendi di Domenico Defelice. Il nostro direttore con IL CROCO di Gennaio e Luglio di quest’ anno, dedicati alla poetessa scomparsa Maria Grazia Lenisa, mi ha dato la pungolatura necessaria per riannodare l’interrotto, con il coraggio di ripescare momenti vissuti e messi a
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riposare inspiegabilmente, come inspiegabile è la vita. Nel numero di Gennaio, diviso in due parti: una sulla poesia, l’altra sui saggi della Lenisa, Domenico traccia un profilo della poetessa, con brevi cenni biografici, ma dettagliate specifiche sulla sua attività oltre che di poeta anche di saggista, di curatrice di recensioni o di presentazioni di colleghi poeti, tra i quali beneficiari della sua opera anche lo stesso Defelice. Analizza Defelice, nel primo saggio del Gennaio 2015, con acume e profondità tutte o quasi le opere della Lenisa: da TEST a AMOROSE STRATEGIE. La lettura del testo ci porta a comprendere che il Defelice riconosce nella poetica di M.G.L. in linea di massima almeno i seguenti temi: Il sud-La questione familiare-La potenza della parola poetica-I temi sociali- L’erotismo (non come dissolutezza, ma esaltazione di stati d’animo dalla passione pura all’ironia)Modernità concettuale-Spessore poeticoInnovazione. La seconda parte analizza invece di alcuni saggi prodotti dalla Lenisa nel corso della sua attività. Mi sembra inopportuno rifare il verso all’ autore nel menzionarli, piuttosto mi preme evidenziare ciò che in essi vi ha scoperto il Defelice. Domenico ci dice che la poetessa nella sua attività di saggista è particolarmente professionale e scrupolosa. Le sue recensioni sono frutto di un’attenta lettura dei testi che le sono stati sottoposti. Non si abbassa ai sotterfugi di sedicenti e celebrati recensori, che leggono le notizie sulla seconda o la quarta di copertina e poi svolgono il loro bel temino (tra l’altro pagato profumatamente), senza muovere una virgola da altri precedenti scritti censorii, ma cambiando solo il nome del soggetto di riferimento. La Lenisa conosce profondamente gli autori che sceglie di recensire. Molti le sono amici e hanno intenso e fitto epistolario con lei. Bel lavoro quello di Defelice, che diventa completo o si avvicina alla completezza sulla conoscenza della poetessa, allorquando si
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leggono le LETTERE intercorse con lui tra il 1974 e il 2006, e pubblicate sul numero di Luglio 2015 del IL CROCO. Qui il Direttore compie un atto che per certi aspetti e in alcuni momenti ho trovato commovente. In questi scritti vi è la storia, la vita, il percorso della poetessa fino all’ultimo corpo a corpo con la morte. Morte che si evince non la spaventa, ma che le toglie la possibilità di godere della parola della poesia, come si può godere nel fare l’amore con il proprio desiderato bene: L’amore è questa voglia di far versi, sentirli dentro tutti tra le gambe e ridendo un po’ gemere: mi penetraaa… O più liricamente: La parola per me non è che quella meravigliosa, … Non è che astro cui tende il mio viaggio, speranza di cui vivo, … Un’altra cosa che riscontro nella lettura delle sue lettere a Defelice, è la paura, oserei dire quasi l’ossessione, di non essere accettata e riconosciuta come poeta. E qui si nota, per quanto forte, anche il riconoscimento inconscio della sua fragilità non di donna, perché lei è forte decisa, ma di essere umano in un mondo che è a forte connotazione selettiva. Le sue angosce, le sue paure, i suoi tentennamenti e le incertezze, non le vengono dalla latente emarginazione di un mondo dove è ancora forte il sopravvento maschile, ma bensì dal dubbio se ella stia facendo una poesia che piaccia e se sia bene accetta. C’è scorrendo le sue lettere a Domenico Defelice, questo ”sempre corsi, e mai non giunsi il fine”. Ma non è così: lei sa che è brava. E ironicamente se lo dice da sé. Inoltre gliene danno testimonianza gli scritti e i plausi di personalità del mondo culturale quali Palazzi, Gironda, Galletti, Luzi, Barberi Squarotti, Siligato, Solange de Bressieux, e tanti, tantissimi altri grandi nomi. Questa sua bravura spaventa e forse irrita addirittura il mondo editoriale, che è ancora oggi perfettamente inclinato sull’autore uomo-maschio, per cui la Sua
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poesia, sebbene di notevole spessore, non trova i cosi detti “grandi editori” disposti a pubblicarla. Non voglio aprire nessuna polemica, ma lei stessa fa i nomi di Vallecchi e Mondadori che contattati si rifiutano di stamparla. Mentre invece si stampano strampalate storie di calciatori, cantanti, comici e sedicenti politici: con l’aggiunta di tanto di pubblicità per propinare ai malcapitati acquirenti immondizia che ritrovo poi nei mercatini dell’ usato a pochi centesimi. Personalmente non posso che ringraziare, non è piaggeria ma schietta verità, il Defelice che ha con queste due pubblicazioni menato le basi per procedere ad un lavoro organico sull’opera della Lenisa. Mi spiace solo che, come lui stesso dice, alcuni documenti sono stati già da tempo dati ad altre istituzioni. Sarebbe stato forse meglio tenerle archiviate in una sola “mano”: avrebbe reso un eventuale lavoro critico più facile. Salvatore D’Ambrosio
BATMAN Lui fu la nostra grande illusione d' infanzia che durò finché avemmo la sensazione che le ali del pipistrello che proteggevano l'uomo, caddero. Se gli altri ci abbandonavano nei guai, potevamo contare su l'arrivo di Batman, e nella nostra immaginazione il trionfo era giusto dietro l' angolo. Ora la sua immagine è andata, ed anche questa pazza idea che tutta l' ingiustizia può essere cambiata in giustizia. Le ali di Batman erano fasulle e ritornarono al povero animale nascosto nell' attico. Teresinka Pereira USA (Translated in Italian by Michele Di Candia)
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IL MIO PIANTO VA... di Adriana Mondo Ai padroni della guerra, di tutte le guerre. A noi che tutto distruggiamo agli ecologisti che mentono a se stessi. E così tutti insieme facciamo un bel balletto.. Tutto va be Madama Dorè, Facendo i girotondi, innalzando cartelli, inneggiando ora a quel Capo, ora a quell'altro. Oggi sfilano i disoccupati, i baraccati, i forconi, i drogati, i diversi, i portatori di endicap ecc Io non sfilo mai perché sono vigliacca! Poi alla sera mentre guardo i programmi della televisione, mentre addento un panino, ecco apparire gente sepolta dalle frane, uccisa dai guerriglieri sterminata in nome di chi? Non lo so. Sono quasi rassegnata ed indifferente. Riapro il frigorifero e prendo il formaggio. Ancora appaiono bambini morenti, affamati, denutriti, magri come scheletri, donne vinte dall'inedia, uomini inermi cadono come mosche ed io cosa faccio? Cambio canale. Io sono un mostro, mio Dio, come faccio a resistere a questo sfacelo? Più tardi è l'ora delle ballerine, ninfette scatenate, le quali cercano di allietare gli utenti con scene quasi erotiche; e poi ancora: Reality, notti bianche dalle varie città, gente ululante per strade imbrattate di porcherie, immondizia giornaliera. Ma forse domani spazzeranno, chi se ne frega? Dove siete uomini, la vostra ferocia vi ha svuotato le mani, siete forse là dove la fame è brutta, dove le anime sono dimenticate? Ieri, oggi, era.. “Il giorno della memoria” appaiono sui teleschermi, corone di fiori, lapidi, sindaci ecc. Ma quale Memoria scende nei nostri cuori
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se non sappiamo ascoltare le nostre coscienze, se anche la dignità di esseri umani ha perso la strada dell'amore, della pietà, della solidarietà, solo scritta e parlata nei vari programmi serali, quali dibattiti e quant'altro; Parole, parole diceva una canzone e tali rimangono, oltre c'è il vuoto. Dell'indifferenza. Lacrime di rabbia, e di dolore scaturiscono dai miei occhi, scendono copiose e non lavano la mia anima, il mio essere abbandonato in un mondo sconosciuto. In una pubblica confessione tutta l'umanità dovrebbe chiedere perdono per queste barbarie. Ed io? Cosa scrivo io? Di cieli azzurri, di venti caldi, di nubi rosa? Menzogne. Mi guardo allo specchio e vedo una donna che ha solo voglia di evadere e si limita al sogno,,, Basta chiudo il sipario: “La commedia è finita” Adriana Mondo
C’è anche il Babbo Natale che non soffre il caldo, che imbacuccato com’è a Natale in Dicembre, suda e protesta per il gran caldo.
NATALE A LUGLIO
Nem eu, nem tu veremos este céu, Teresa minha querida, quando seremos terra erma.
A luglio è l’estate bella e calda, per correre al mare per trovar sollievo e godere le spiagge bagnate di schiuma fra la sabbia che scotta. Ma qui è inverno, a luglio fa freddo e le spiagge son deserte, qualche gabbiano dà uno sguardo alle onde furibonde e titinnante vola via. Ma con sorpresa per tanti curiosi, in Australia si festeggia il Santo Natale anche a Luglio, per copiare il freddo Natale al di là del nostro mondo.
Allegria e armonia per tutti, ricordando il nostro Natale con tanto freddo, neve e gelo. Che bellezza il nostro Natale a Dicembre, con le corse alle spiagge nel mare azzurro, limpido e infinito del nostro grandioso oceano ed il pensiero corre al freddo Natale al di là!!! 3 – 7 – 2015 Giovanna Li Volti Guzzardi Australia
TERESA TERRA ERMA Quando o amor não me sorri, meu coração não canta.
Tito Cauchi Tradução feita por Teresinka Pereira, USA
CIELO CELESTE ATTRAVERSO I VETRI Cielo celeste attraverso i vetri e trasognate grida di gallo in lontananza; un autocarro romba nel polverone. Ogni mattino è un sole di speranza Luigi De Rosa Rapallo, Genova
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GRAZIA DELEDDA (Nuoro 1871 – Roma 1936)
VITA E OPERE di Lonardo Selvaggi I RAZIA Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre 1871, l’anno in cui la capitale si sposta da Firenze a Roma. Segue pochi studi regolari, è impossibile continuarli per una donna sarda nell’800 e tanto meno andare verso il mondo letterario al di là del Tirreno. E’autodidatta con letture disordinate e avide delle opere di Dostoievskij e di Fogazzaro. Da giovane è anche poetessa, legge Carducci, D’Annunzio, quest’ultimo rappresenta un vero modello letterario. Abruzzo e Sardegna visti insieme con i loro aspetti folcloristici e ancestrali. A 17 anni, nel 1888, sul settimanale illustrato romano “Paradiso dei bambini” appare “Sulla montagna” e su un’altra rivista, “L’ultima moda”, il lungo racconto “Novelle d’autunno”, dal marzo 1890 al maggio 1891. Si ha un’intensa collaborazione a periodici, che crea un rapporto con un pubblico prevalentemente femminile. Abbiamo una narrativa d’ appendice ad effetti emotivi. In questo primo periodo di attività letteraria anche Eugène Sue viene considerato dalla Deledda come un modello formativo. La sua prima opera è “Nell’ azzurro” (1890). Trascorre una vita tranquilla. Un viaggio a Cagliari nel dicembre 1899 segna una svolta della sua vita. Conosce Palmiro Modesani, romano, funzionario del ministero delle finanze in missione nell’isola. L’ 11 gennaio si sposano e si ha il trasferimento a Roma. La carriera letteraria si intensifica. È amica di Federico Tozzi e Marino Moretti. Abbiamo “Anime oneste” (1895) e “Il vecchio della montagna” nel 1900.
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II Grazia Deledda collabora alle riviste “La Sardegna”, “Piccola rivista”. Ruggero Bonghi e Luigi Capuana presentano le sue prime pubblicazioni. Sardegna e Roma sono sempre
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due punti di unione, la fedeltà alla cultura della propria terra e le mire alla vita continentale. Dall’agosto a dicembre del 1900 sulla più famosa rivista letteraria italiana del tempo “Nuova Antologia” esce a puntate il romanzo Elias Portolu, pubblicato nel 1903. Abbiamo “Cenere” (1904), da cui la Duse fa trarre un film. “L’edera” (1908), rappresentato al teatro Argentina di Roma. “Sino al confine” (1911), “Colombi e sparvieri” (1912). Tiene presenti ampiamente la Bibbia e i romanzi di Dostoievskij. Tra il 1912 e il 1920 i temi trattati subiscono una trasformazione, assumono forme più interiorizzate, più sfumate, ricche di emozione. La vitalità delle opere della Deledda destinata a riaffiorare nella maturità successiva. Dal gennaio all’aprile del 1913 su “L’ illustrazione Italiana” esce a puntate “Canne al vento”. Altri romanzi “Marianna Sirca” (1915), “La madre” (1920), “Il segreto dell’ uomo solitario” (1921), “Annalena Bilsini” (1927), “La danza della collana” (1924), “Cosima” (postumo 1936); importante la raccolta di novelle “Chiaroscuro” (1912). Nel 1926 le viene assegnato il premio Nobel. Durante il periodo romano adegua la sua arte a quella degli scrittori europei. Grande il suo interesse per la pittura, si tiene al corrente delle esposizioni, scrive i testi per presentare le mostre. Abita insieme ad artisti e giornalisti in un quartiere sulla Nomentana, dove ha il suo grande studio Ettore Ximenes, scultore di gruppi marmorei dell’Altare della Patria. Muore a Roma nel 1936. LE CARATTERIZZAZIONI DELLE OPERE DI GRAZIA DELEDDA III L’opera di Grazia Deledda apprezzata da Verga, da Enrico Thovez, Pietro Pancrazi e Renato Serra. I suoi romanzi narrano vicende d’amore, di dolore e di morte. C’è sempre un intreccio tra i luoghi e le persone, tra stati d’ animo e i paesaggi aspri di Sardegna. Tutto il reale assume un aspetto mitico. Non abbiamo il verismo regionale né le fantastiche coloriture dannunziane. La Sardegna della sua fan-
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ciullezza, la saggezza, la religiosità dei vecchi pastori e contadini. Questi hanno l’abitudine a pensare, a contemplare l’al di là, a riflettere sulle grandi verità tramandate, sui grandiosi arcani della natura e del cuore umano. Quasi tutte le opere sono ambientate in Sardegna. Accanto al paesaggio, all’ambiente è trattato il problema del male, del rimorso, il fatto, la passione, l’espiazione. Il mondo visto in una visione fatalistico-religiosa. Le opere dense di inquieti echi e di significati. C’è un certo legame al verismo regionale con le opere in cui i paesaggi e il folclore della Sardegna sono i personaggi principali. Dopo, sulle tracce di scrittori europei, specie russi, Grazia Deledda approfondisce l’analisi delle sue creature, figure primordiali, tormentate, dai tratti profondi e chiusi. Gli uomini in balia di forze più grandi di loro che li fanno cadere, condannati in uno stato di dannazione. Studiate le voci della Natura, fino a considerare il valore della solitudine. Non manca il simbolismo, come la tendenza alla prosa lirica che costituisce uno stile di modernità, dando alla Deledda importanza di scrittrice rappresentante del primo ‘900. Abbondantissima la sua produzione, una cinquantina di opere. Fra i più riusciti romanzi Elias Portolu, Canne al Vento, L’ incendio dell’oliveto, Via del male. In Grazia Deledda non c’è una concezione della vita definita e precisa né una ideologia politica e sociale. C’è un sentimento della vita che non si circoscrive in formule nette, si resta in una incertezza vaga, che crea un’atmosfera commossa e incantata. IV Le opere della Deledda hanno un carattere religioso e una consistenza morale che non avremo nel periodo che viene dopo. Il regionalismo ha un significato diverso dal solito. I problemi dei romanzi sono spirituali. Elias Portolu, L’edera ci fanno pensare a Gogol, Tolstoi, Dostoievskij. Qualità native, non si hanno le tradizioni letterarie, viene ritratto un ambiente primitivo. Il popolo di Grazia Deledda diverso dall’umanità internazionale del romanzo europeo. C’è un senso tutto interiore
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della vita. Non il particolare del momento, ma il colore abituale della vita. Non il realismo, ma la realtà con le sue naturalezze. Spontaneità, non pensieri freddi. La Deledda esprime gli aspetti della vita, come non li hanno sentiti Verga e Fogazzaro. I romanzi migliori vengono dalle proprie qualità. I vari sentimenti sono fusi, il peccato, il desiderio del bene. La banalità, il romanzesco sono superficialità che non riscontriamo. Il romanzocapolavoro Elias Portolu di grande valore umano, scritto con principi morali, va considerato subito dopo i Promessi Sposi. Il peccato tormenta sensi e anima, una lotta fra il bene e il peccato. L’ambiente pastorale, tradizionale, religioso di Nuoro non ha nulla di documentario come nel romanzo realistico. In Deledda tutto è storia spirituale, i particolari sono di carattere antico, come gli oggetti di artigianato sardo. Tutta vita interiore, analizzati il dolore e il senso della colpa. Le forze del male collegate con una misteriosa fatalità. Con pessimismo si commiserano i patimenti dei personaggi. Importante il paesaggio: nella sua naturalezza circonda di silenzio e di raccoglimento, fa capire meglio le passioni. Non una letteratura intellettuale, tutto è nitido, come ogni moto della coscienza. Si rilevano nella generalità delle opere due motivi morali: la fragilità dell’uomo dinanzi al peccato e il destino di essere combattuti dalla sorte. C’è della malinconia, sentimento in cui si esprime la vera comprensione della vita. Quando risaltano il tono della fiaba, della leggenda e il fascino folcloristico di un paese particolare per tradizioni, le pagine divengono belle, ma non hanno coerenza con il tutto. Grazia Deledda ha una forza espressiva simile a quella di Delitto e castigo e dei Fratelli Karamazov: rappresenta l’impeto del peccato e il peccato come il momento di crisi che libera dal profondo dell’animo tutte le energie morali, sollevando lo spirito in un’altezza che non raggiungerebbe in altri modi. Si medita sul drammatico destino che è a tutti imposto di peccare per poter sapere che cosa è il bene e che cosa esso significa. Leonardo Selvaggi
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t fuga temporum hanno intitolato Isa Morando e il fratello Egidio il libro nel quale hanno raccolto alcune loro poesie ispirate appunto all’ inarrestabile fuggire del tempo. Il titolo è chiaramente oraziano (Odi, III, 30), ma qui gli autori non si riferiscono alla durata della fama, come avviene nell’Ode del poeta latino, bensì alla brevità della vita dell’uomo, che veloce trascorre, portando via con sé tutto ciò che fu suo e gli donò luce e gioia. Il libro si apre con le poesie scritte da Isa Morando, ormai giunta alla sua terza prova poetica, dopo Duemiladieci e dintorni (2011) e Il quaderno di Matisse (2012). E particolarmente significativa ci appare, in questo suo nuovo libro, proprio la prima poesia, Ipogeo mediterraneo, per l’ambiente che dischiude: quello di una grotta preistorica del Ponente ligure (“Un organo di pietra, sullo sfondo, / canne di stalattiti iridescenti”), nella quale lo scorrere dell’ora sembra essersi fermato; il che genera nella poetessa una profonda emozione, onde sorgono in lei “immagini fugaci / nel silenzio del tempo”. L’autrice ha qui avvertito la suggestione del fluire dei secoli, che da un passato lontanissimo giungono sino a noi; ed è appunto ciò che genera nel suo animo un sentimento di assorto stupore. Anche altrove trapela netta dai suoi versi la percezione del veloce scorrere del tempo, e quindi della nostra stessa vita. È quanto avviene ad esempio allorché la poetessa coglie nei due nipotini, Giorgio e Andrea, la gioia di godere degli ultimi momenti di vacanza (“Ignaro, è la tua infanzia che dilegua, / inafferrata immagine del tempo”1, Giorgio e “Ma
tu abbracci il tuo mare, con la forza / dei tuoi piccoli anni. Vuoi portarlo / con te, nel lungo inverno”, Andrea). Lo stesso può dirsi di Rita, la quale nell’omonima poesia si rammarica che un’altra estate sia finita: “un’altra estate / se n’è andata con noi”; ed è proprio in quelle parole appena sospirate che l’autrice avverte un “brivido sottile” che le rivela tutto il “rimpianto” di Rita per “ciò che è appena stato” (Rita). Sovrana, sulle strade del tempo, è per noi la memoria, da sempre generatrice di poesia; e così è anche per Isa Morando, cui il ricordare “riporta” vivi e nitidi “frammenti” di vita passata, offrendole inesauribili occasioni di canto. Dalle sue poesie, però, emergono non soltanto dei semplici ricordi di vita, ma specialmente la sua genuinità del sentire e l’ autenticità del suo porsi di fronte agli altri, comprendendone i moti dell’animo che con i suoi entrano in consonanza. Sicché “le ragazze del settantatré” che ella ritrova dopo tanti anni fanno risorgere in lei una felice stagione trascorsa, offrendole il dono di un rapporto umano rimasto intatto; così come la fisarmonica del vecchio Carlin evoca non soltanto il fascino di antiche canzoni, ma tutto un tempo ormai lontano, con la magia dei sentimenti che ad esso sono congiunti. Poesia di evocazione e di tuffi nel passato, quella di Isa Morando, che trova nella tematica di questo libro una vasta materia di canto, come appare anche da Il giorno dell’Europa a San Benedetto, dove leggiamo: “Emergono figure dal passato / (il Figlio del Maestro, il Professore), / l’invito a camminare per le strade / misurate da laiche stazioni / di memorie e parole. Di fatica, / nei riti misteriosi della terra”. Ma la sua è contemporaneamente sempre anche una poesia di caldi affetti, che affiorano da alcune delle liriche già citate, quali Giorgio (“T’illude il palpito dell’acqua chiara / nella luce velata del tramonto. / Gli occhi intenti a cercare la tua pietra / che il mare – quasi un gioco – ti ha rubata”) e An-
Un pensiero, quello dell’“infanzia che dilegua”, che ritorna anche nella poesia Le voci dell’estate,
dove leggiamo: “La ragione implacabile del tempo / ha inghiottito l’infanzia . /Troppo breve”.
ISA MORANDO e EGIDIO MORANDO: … ET FUGA TEMPORUM
…e
di Liliana Porro Andriuoli
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drea (“La corsa e il grido, prima di tuffarti / nel tepore dell’acqua settembrina. / … / Ma tu abbracci il tuo mare, con la forza / dei tuoi piccoli anni”). La percezione del passare del tempo, però, introduce inevitabilmente la tematica della Morte, che enigmatica s’affaccia nella poesia Ospite Nuovo, dove la sua presenza s’insinua di nascosto e stabilmente si radica in noi (“Ma lui, l’ospite nuovo, ci aspettava. / non c’ è fretta nell’arte dell’attesa”); e sarà proprio la sua presenza che alla fine dei giorni troveremo ad attenderci “Al capolinea”. Una poesia limpida e schietta quella di Isa Morando, nella quale il rigore formale si accompagna al dato di cultura, pur essendo indubbiamente legata al presente per l’ occasione che la genera e retta principalmente dall’“amato irrinunciabile endecasillabo”. Sulla stessa linea si muove anche la seconda parte del libro, scritta dal fratello Egidio, alla prima sua prova poetica. In lui però si nota il segno di una più sofferta e disincantata visione del mondo, retta da un accentuato pessimismo, evidente soprattutto nella poesia d’apertura, Sogni, nella quale ingente risulta il divario fra i sogni nutriti e la dura realtà che ci circonda: “Ho sognato l’ amicizia. / Ma non sapevo che per la sola sua apparenza, / si pratichino tariffe non esposte, quindi illecite”. Si tratta evidentemente di una concezione negativa della vita che si traduce talora in versi ricchi di mordente ironia, come affiora ad esempio dal seguente passo: “Ho sognato il rancore. / Ma per pigrizia l’ho lasciato estinguere”, sempre contenuto in Sogni, poesia costruita sul continuo gioco delle iterazioni. Si veda pure, sempre nella stessa poesia, la strofa finale: “Ho sognato la pace. / So che presto l’avrò, ma come goderne, / poiché non sarà attinta, ma subita?”. Il che ci offre la piena misura della pessimistica visione del mondo dell’autore (e in particolare ci illumina sul suo modo di concepire il veloce passare del tempo e la brevità della nostra vita terrena), che traspare specialmente dai versi di una del-
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le ultime poesie della silloge: “Soffermati a pensare / che non è il tempo a scorrere; / è la vita che scorre, anzi fugge, / impetuoso torrente spesso rastremato / in un palpito d’ acqua / nel limo nero del nulla” (Soffermati a pensare). Il tutto è poi segnato dalla ricchezza e novità delle immagini, che pure caratterizzano le poesie di Egidio Morando, come: “Sopra il brillio del mare che disquama” (Ivi); “I colli pettinati a filari” delle colline langhigiane (I tempi delle colline); gli “acini di sole” che offre la mimosa fiorita di Pieve Ligure (La pazienza del ragno); ecc. Per quanto non molto corposa, la raccolta è stata tuttavia selezionata con cura da un numero molto più consistente di poesie, scritte in un lungo arco di tempo, e pertanto, pur nella sua organicità, rivela un’indubbia complessità tematica, che va dall’amore per la natura, proprio de I tempi delle colline (“Colline di Langa, pacate testimoni / di un controcanto tardi inteso, / il sangue del rapsodo / della luna e dei falò”) alla cordiale simpatia per i propri simili (“Cinciano, remoto non più romito borgo, / rianimato da Nanni e Ivana, / propone nuove trame / di riti conventuali o conviviali” (Fine d’anno a Cinciano); dallo slancio amoroso, proprio della sezione Ragazza innamorata (“… punto fermo è per ora il tuo sguardo / che galleggia sicuro come se…”) all’omaggio per l’opera di due insigni artisti, quali Lucio Fontana e Mario Sironi, racchiuso nella sezione Due pittori (“Sopra il brillio del mare che disquama / gonfiano le valanghe candenti / delle nuvole”; “Ma l’ orizzonte del cielo / è una ferita slabbrata”). Tra le poesie più significative della raccolta vi sono Genova – 5 novembre 2002 e La meridiana. La prima costituisce un omaggio fatto da Egidio Morando alla sua città natale, colta in quello che è uno dei suoi elementi più caratteristici, il vento: “in un giorno netto di luce squillante, di colori tesi e frementi”. La seconda è quella che più propriamente si rifà alla tematica dichiarata della silloge: la fuga del tempo, quale elemento centrale dell’ avventura umana: “Tu non cercare di ipotizzare
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/ l’attimo d’ombra della meridiana / che, solo, ti apparterrà. / Ti accarezzerà appena e passerà”. In quell’attimo d’ombra trascorrono il bene e il male della vita, la tenebra fitta e lo splendore, il dolore lancinante e la gioia più pura. E’ ciò che costituisce l’enigma intorno al quale si affatica da sempre, senza speranza, la mente umana. Qualcosa il poeta ha intravisto di quell’enigma: ed è ciò che ha dato forza e risalto alla sua voce. Due poeti molto validi, Isa ed Egidio Morando, capaci di toccare molte corde del cuore umano, come emerge dai testi da loro qui presentati. Elegante l’aspetto grafico del libro, che è uscito per i tipi di “Città del silenzio” di Novi Ligure (la stessa casa editrice dei due libri precedenti di Isa) ed è abbellito da un’ interessante “tecnica mista , olio e acrilico”, di Luciano Albesiano, ispirata al motivo dello scorrere del tempo. Liliana Porro Andriuoli ISA MORANDO e EGIDIO MORANDO:… ET FUGA TEMPORUM (Città del silenzio Edizioni, Novi Ligure, 2014)
che vagano nel mondo senza meta. Non vive chi desidera scordare il suo passato, non ha ricordi chi non ha vissuto. Mariagina Bonciani Milano
GABBIANI Osservo oggi i gabbiani: s’alzano fulminei contro l’azzurro pallido del cielo, il grigiore delle nubi, volano a spirale, scendono in picchiata, sfiorano l’acqua, si posano sul mare formando bianchi tappeti, inseguono barche. È scrigno l’aria di stridi e frulli d’ali.
I RICORDI Non ha vissuto chi non ha ricordi e non vive chi desidera scordare il suo passato. Se pare a noi che solo il presente sia tutto, ecco che quel presente subito sfugge ed è già passato… Più che il presente quindi importante è il passato: questo noi siamo e questo noi creiamo in ogni istante della nostra vita. Noi siamo fatti del nostro passato, quel passato che i ricordi felici o tristi che siano ci fanno rivivere. E rinunciando ai ricordi rinunciamo a quella che fu ed è la nostra vita, come orfani
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Caterina Felici
CRISALIDE E NAVICELLA L’albero che hai piantato, o Dio, s’avvicina agli ottanta, uscito sempre indenne da dolori e tempeste. Tu semini e raccogli. Dei miei tre virgulti due han già dato frutto. Il vento più leggero mi piega, sono pronto per l’estrema potatura. Chiamami quando vuoi. Ossa e carne strizzate, crisalide per la terra e navicella pietosa: che a te mi si conduca. Domenico Defelice
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Il Racconto
CANARIE di Anna Vincitorio ceano Ti ero venuta incontro, nel cilestrino, assordante schiumore Hai stroncato il mio abbraccio L’estrema tua forza mi piega al vigore dell’onda ma non al travolgente mistero che m’annega d’azzurro e di sole
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Dove? Mi domando. “Lo sai già mi risponde una voce. “Tu cerchi un’isola, qualcosa di non ancora visto, qualcosa che possa aumentare in te quei guizzi di luce alimentati dall’amico vento che soffia, ora dolce, ora rude”. L’idea dell’isola Fuerte Ventura è nata dal ricordo di un viaggio d’amore di due giovani sposi1. Nel bianco accecante di un giorno d’estate l’uccello d’acciaio dolcemente plana sull’ antica Planaria poi divenuta Fuerteventura — forte vento — forte avventura —. Così denominata dai Romani che, pochi anni dopo la nascita di Cristo, ebbero notizia sull’esistenza dell’arcipelago scritta da Plinio il vecchio. (Venne effettuata una spedizione intorno al 40 a.c da Giuba II, re nordafricano sottomesso ai romani). Sull’origine delle Canarie ci sono più ipotesi. La più probabile è quella che le isole siano emerse — (erano la parte alta di antichi vulcani sottomarini). I primi insediamenti umani intorno al 2OOO a.c. Gli abitanti indigeni — guanci — erano stranamente alti e biondi. Quale la provenienza? Avventurieri nordici, immigrati celti, oppure baschi? Nulla può dare certezza ma si è propensi a credere che discendessero da tribù libico berbere dal Maghreb. Lo suffragano le pratiche funerarie e le incisioni rupestri. Inoltre tra i berberi vi sono casi di persone con occhi azzurri e capelli chiari.
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Sono a Fuerteventura e ha inizio il mio vagabondare. La gente è festosa e si respira un’ aria leggera ma intensa che scompiglia i capelli. Dalla zona di Cotillo si staglia la nera e tozza torre di avvistamento pirata. Data importante il 1405; l’isola fu conquistata dal normanno Jean de Béthencourt. (Scoprì le proprietà del muschio e sue molteplici utilizzazioni; se ne avvantaggiò arricchendosi a spese dei poveri mahos - aborigeni). All’ epoca c’erano due regni tribali separati da un basso muro lungo vari Km: Jandia al sud fino a La Paria e Maxorata il resto dell’isola. La base di Béthencourt: quella parte interna e montuosa dell’isola dove si poteva trovare l’acqua. Lì sorse una cappella col villaggio intorno — S.M. de Betatancuria. Il paesaggio scarno dai variabili ocra, con spazi tra cieli ventosi e cuspidi lontano dal brusio della parte turistica colorata dalle irnmancabili e note firme internazionali a Corralejo. Sugli spazi che disseminano il paesaggio si aprono grandi porte bianche spalancate sul nulla. Indicano l’ ingresso per altri comuni e proprietà diverse. In questa atmosfera ventosa e rurale sono sparsi ben 43 mulini a vento; il più antico a Pajara. Scorrendo verso La Oliva affiora un altro pezzo di storia: nel XVII secolo gli europei occuparono EI Cotillo, sede del regno guancio di Maxorata. Seguirono Los coroneles (i colonnelli) ufficiali dell’esercito di stanza sull’isola che si arricchiscono a spese dei contadini. Solo nel 1912 l’isola raggiunse una certa autogestione. Si sono susseguite due dittature: Rivera. e Franco. Le vestigia della casa dei colonnelli (ora sede di rappresentazioni e mostre), si staglia, bianca, nel fondo valle. Architettura tradizionale del XVIII secolo. Avvisto la montagna di Tindaia (400 m di altezza) con tracce di affreschi polimorfi. La montagna sacra. M’inchino al mistero del divino rafforzato dal silenzio che pervade il luogo. Avverto su di me l’insistente carezza degli Alisei. Quei venti d’Africa come Harmattan, cari a Senghor. Siamo a 100 km dalla costa africana. Più avanti la Palma canaria accompagna per lunghi tratti il mio vagare. Ci sono due tipi di
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Palma: la canaria e la californiana; dalla canaria gli aborigeni estraevano il liquore che gettavano ai pesci per ubriacarli e così catturarli. Gli antichi abitanti delle Canarie non sapevano nuotare. Si avvicina l’ora magica prossima al calare del giorno dove ogni colore si manifesta nella sua calda essenza. Sono circondata da ambo le parti da grosse e irregolari scorie laviche in forte contrasto con il blu dell’ ancora lontano oceano. Poi, all’ improvviso un caldo accecante mantello: 5 km quadrati di dune. Il luogo è insonoro; vaghe impronte si sperdono nella sabbia ondulata dagli Alisei Ripenso ancora alla mia Africa. Passione ereditata da mio padre che a tratti mi afferra. Cuspidi di sabbia bianco—ocra e alla sommità solo cielo. Un rapido ascendere; poi una mulinante discesa verso l’oceano spazzato da lunghe, verdi onde e spuma gorgogliante. Qualche capra vagante che bruca nei ciuffi verdi e cani guardiani solerti e silenziosi. Sotto i piedi e nell’aria “Calima” — sabbia proveniente dal Sahara. Mi riaffiorano alla mente alcuni versi di L. S. Senghor:” Siate benedetti miei padri che benedite il figliuol prodigo/ io voglio rivivere il gineceo di destra/ ci giocavo con le colombe e con i miei fratelli i figli del leone/ Ah poter nuovamente dormire nel fresco letto della mia fanciullezza! Ah circondano nuovamente i miei sonni le mani nere si care! E nuovamente il bianco sorriso di mia madre! Domani io riprenderò il cammino dell’Europa, il cammino dell’ Ambasciata! Nel rimpianto del paese nero.” ( da Chantes d’ombres IX — traduzione di Anna Vincitorio ne Il Cristallo anno XXXVI no 2—l994). È una mattina fresca e ventilata; in assorto silenzio si taglia la secentesca Iglesia de Nuestra Senora Regia. L’esterno presenta una lieve policromia d’ispirazione asteca con raffigurazioni di animali e simboli. Il vasto interno è in parte illuminato dai lumini rossi della devozione. Ne accendo uno anch’io e mi affido alla preghiera perché qualcosa cambi... Il soffitto, notevole, è di legno intagliato. Una particolarità della chiesa è la doppia facciata: quella policromia per i ricchi e la seconda
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bianca e spoglia per i poveri. Il mio cercare non conosce soste: mi è stato detto di, Lanzarote dove si era isolato per vivere in una dimensione diversa e ci è poi morto José Saramago. Non posso non tener presente le sue parole in “ Lucernario”: ricordare il passato, vivere il presente, temere il futuro”. In questo viaggio per me conta il presente. L’isola è a una mezz’ora di mare da Fuerteventura. Luogo colmo di suggestioni, dalla geologia straordinaria. Ci sono ben 300 coni vulcanici. Dopo l’approdo il paesaggio assume improvvisamente aspetti lunari. Campi surreali di lava nera. I vulcani si inseguono di un color rossastro, quasi nero. Silenzio! Siamo fuori dai nostri secoli. Strette, tortuose strade tra pareti spigolose di lava; strapiombi. Fenditure affioranti in cui il nero ti inghiotte; sagome misteriche. Il tutto scorre come un fiume privo di fragori. Nelle orecchie risuonano le note di “ Odissea nello spazio”. Pellegrini ci affacciamo nella valle della tranquillità. L’occhio spazia ebbro tra folate di vento nel Barrancho del fuego — Siamo nel Parque National de Timanfaya. Non si può non pensare a César Manrique, geniale artista che ha lasciato la sua notevole impronta sull’intera isola e il suo ricordo è vivo anche se lui è morto nel 1992. A Jameos del Agua siamo all’interno di un tunnel vulcanico formatosi dopo l’eruzione del vulcano Monte de la Corona. Siamo sotto il livello del mare e si apre un lago interno dalle acque cristalline simile, per la volta a botte, a una cattedrale. Da un foro in alto, fasci di luce si disperdono nell’acqua fonda. Bianchi granchi della dimensione di un centimetro sono disseminati sul fondo e pesci... Si attraversa il lago su una passerella mimetizzata e poi, verso la luce si apre un giardino con piante e fiori tropicali e palme. Al centro, una piscina di un turchese luminescente e sul lato sinistro una lunghissima palma obliqua svettante nell’ azzurro del cielo. C’è anche un vasto Auditorium per le rappresentazioni musicali e teatrali. Tutto questo insolito e magico paesaggio è stato realizzato da Manrique. E’ forse la sua opera più originale. Non può mancare un tuf-
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fo nelle verdi, trasparenti acque antistanti la playa del Papagayo, nell’oceano trasparente e accattivante che accoglie il mio folle abbandono alla magia equorea dell’attimo. Mentre il catamarano si allontana, il mare s’incupa in blu notte forse ferito da un mio precoce anche se non voluto abbandono. Il tempo scorre e sono quasi alla fine della mia settimana ma ho ancora una meta: la Isla de lobos (lupi). La barca sovrastata da un limpido cielo scorre sull’oceano vibrante di spuma e di vento. L’isola si allunga ai miei occhi e diviene sottile. A sinistra la spiaggia della Concha immersa nel suo sabbioso lucore, ma io m’incammino verso un sentiero alla destra: il faro, il Puertito, las lagunas. Ciottoli, tanti e scuri, la gioia di calpestare quel luogo deserto. Solo il frusciare del vento e i miei passi. S’intravede il villaggio dalle case piccole e bianche con finestre verdi o azzurre, reti, qualche orpello. All’improvviso al mio sguardo si aprono lagune con acqua turchese. Pozze irregolari tra il nero della lava e l’ocra della sabbia che dolcemente sprofonda nell’ acqua. Mi è compagna sorella solitudine ma gioiosa e appagata da tanta incontaminata bellezza. Il faro è troppo lontano, non posso raggiungerlo in tempo e rischio di passare la notte sull’isola se perdo il battello. Paga di quanto mi è stato concesso di vedere, ho vissuto per qualche ora un tempo remoto che ha conservato appieno il suo fascino. Ritorno nella festosa Corralejo. Le ombre della sera, si illuminano di mille fiaccole che accompagnano sulla spiaggia la Madonna dei Marineros. La Vergine arriva sul baldacchino infiorato. Da un balcone con bianche arcate, una donna vestita di nero con voce sensuale e accorata grida nella notte una invocazione alla Vergine. Silenzio assoluto nel vibrare delle note sui vetri. Applausi e dal mare come svettanti saette si levano i fuochi, assordanti, variegati, disegnano nel cielo astratte figure crepitanti prima di spegnersi. Poi il fumo... Visioni ripetute nel tempo che non perdono il loro fascino arcano. Poi le fiaccole si stringono attorno alla Vergine e la processione pian piano svanisce nell’ombra. Cosa dire ancora?
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Resta traccia sulla mia mano della carezza di un bimbo che ha voluto conoscere il mio nome e stringersi a me. In prossimità dell’Hotel mi accompagna il sorriso di un clochard dalla barba argentea sdraiato su una panchina piastrellata di azzurro. Anna Vincitorio 1 - Il racconto di quei giovani anni Allucinate maree nel biancore di dune violate dai passi di amanti Aliti verso una luna quieta nel mugghiare silente dell’oceano nel bacio dell’onda e quel fervore affiorante… S’aggrinza la polpa del frutto nel passaggio di un’era Può ancora esser fiamma il ricordo? Per Francesca e Fabian
Qui sotto: Domenico Defelice: Lo straniero, china (1981)
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I POETI E LA NATURA - 48 di Luigi De Rosa
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riflette un cielo immobile; sull'acqua fra le pietre ci sono cinquantanove cigni...” E' la prima strofa di quella suggestiva, estatica poesia di Yeats intitolata “I cigni selvatici a Cooole”, ispirata a quei luoghi che avevano lasciato un'impronta incancellabile nel suo animo di poeta. “ E' questo il diciannovesimo autunno da quando la prima volta li contai: li vidi, prima che finissi il conto, tutti all'improvviso alzarsi e disperdersi volteggiando in grandi cerchi spezzati sulle ali rumorose...” A contrastare l'immobilità del cielo e del paesaggio incantato, i volteggi e il rumoreggiare di quelle ali di quei cinquantanove cigni simboleggianti anche la bellezza e la creatività della Poesia...
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
I cinquantanove cigni selvatici del poeta irlandese WILLIAM BUTLER YEATS (1865-1939) “Gli alberi sono nella loro bellezza autunnale, i sentieri del bosco sono asciutti, nel crepuscolo di ottobre l'acqua
“ Ammirai quelle splendenti creature - continua il poeta irlandese e ora il mio cuore è triste. Tutto è cambiato da quando io, ascoltando al crepuscolo, la prima volta, su questa riva, lo scampanìo delle loro ali sopra il mio capo, camminavo con passo più leggero...” Proprio quest'anno è stato commemorato il 150° anniversario della nascita di Yeats, e non solo nella natìa Dublino, ma anche nella mia Rapallo (sulla Riviera di Levante genovese) dove nel 1930 il poeta e drammaturgo, già Premio Nobel dal 1923, era venuto per motivi di salute, insieme alla giovane moglie e a due figli, ad abitare e a scrivere. (“Dove troverei un posto migliore per trascorrervi gli inverni che ancora mi rimangono ?”). In quel periodo, a Rapallo, poteva discutere di poesia e di letteratura con un suo vecchio amico e “seguace”, il poeta americano Ezra Pound, anch'egli innamorato della cittadina sul mar Ligure. Appositamente per Pound –
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grande, discutibile e discusso personaggio, autore dei Cantos, Yeats aveva scritto, un anno prima, un libro dal titolo “Un pacchetto per Ezra Pound”. Ma il motivo particolare che mi ha spinto a dedicare a Yeats questa puntata de “ I poeti e la Natura” non è soltanto la ricorrenza, in questo 2015, del 150° anniversario dalla sua nascita, ma anche, e soprattutto, l'appassionato amore per la Natura da lui trasmesso ai lettori attraverso sue liriche impareggiabili, tra cui quella ispiratagli dai cinquantanove cigni selvatici di Coole. Tornano a risuonarmi nella mente quei versi, traboccanti di tenerezza e di nostalgia per la vita ormai trascorsa e, in particolare, per la propria giovinezza perduta. Versi di rimpianto per la bellezza, felice ma indifesa, corrosa dal trascorrere della sabbia del tempo. Ma anche speranza e implorazione affinché tali scene del passato, benché irripetibili, vengano perpetuate da analoghe scene del presente, pur se in forme sempre diverse. Ripenso al finale della poesia, in cui è protagonista una coppia di cigni innamorati: Instancabili, amata e amante, remano nelle fredde correnti amiche o scalano l'aria; i loro cuori non sono invecchiati; passione o conquista ancora li accompagna nel loro errante vagare.
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Ma ora si lasciano andare nell'acqua immobile misteriosi, stupendi. Fra quali giunchi costruiranno il nido, su quale sponda di lago o stagno incanteranno occhi umani quando al risveglio un giorno scoprirò che son volati via ?” Luigi De Rosa
BEI SOGNI AZZURRI DEI VENT’ANNI Bei sogni azzurri dei vent'anni quando ci bastava un sorriso visto e non visto tra un mare di volti a lievitare il cuore di vane speranze... Speranze labili come gocce sui vetri fragili come bolle iridescenti che una lama di vento mette in fuga. Accendevamo fuochi in riva al mare... Cenere resta delle nostre bugie cenere calda che un soffio disperde... Luigi De Rosa Rapallo, Genova
PER L’IGNOTO VIAGGIO Inquilini del mondo, per brev’ora ne abitiamo la stanza e ci attristiamo quando ci è ingiunto di lasciarla. - Sempre inatteso ci giunge quel richiamo. Così nel nostro occhio resta ancora un’immagine, resta ancora un raggio di luce quando la nostra dimora abbandoniamo per l’ignoto viaggio. Ed è un raggio di luce che innamora. Elio Andriuoli Napoli
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Recensioni DOMENICO DEFELICE DIARIO DI ANNI TORBIDI Edizioni Associate Roma, 2009, € 14,00, pagg.216 Non è vero che qui si espongono anni poco chiari. Non c’è appannamento o torbidezza nel resoconto dei giorni trascritti dall’allora quasi trentenne Domenico Defelice. Sono anni faticosi anzi, dove il lavoro, soprattutto manuale abbondava e il cibo non era in proporzione agli sforzi compiuti, e la domenica il più delle volte scivolava via in solitudine. La chiarezza soggettiva di questo diario, a volte conduce il lettore in quella ridotta esistenza romana dove gli incontri con gli amici, le amiche, sono le uniche cose belle incancellabili dalla memoria dell’ autore. Rocco, Lisetta, Carmela, Germano, sono stati diciamo gli ‘animatori’ del 1966 e se non ci fossero stati loro, sarebbero mancati quegli aneddoti che hanno dilungato la narrazione di quei lontani – a loro modo felici – giorni. Si bisticciava, si pensava a far passare la fame in trattoria – quando ci si poteva andare – si lavorava sodo in magazzino, si cercava di superare gli esami di un Concorso per avere magari un posto di Applicato Aggiunto presso il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, ma non solo. Eppure, in mezzo a questo apparentemente caotico e rintelaiato quadro di giovanile esistenza, l’autore già percepiva un sentore artistico dentro di lui. Il luogo intorno a lui, seppure il vano di un magazzino, per un attimo lo hanno fatto sentire protagonista di un’ambientazione metafisica. « La luce viva crea contrasti e giochi, specie sui sifoni, dai fori che sembrano occhiaie vuote. Gli operai addetti all’accatastamento li hanno sistemati alla rinfusa, di spalle, di fronte, di sbieco, creando così,
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senza volerlo, figure geometriche, o strani giganti dal capo aperto (entro cui il sole sfaccetta le ombre) e dalla bocca e dagli occhi spalancati. Mi piace camminare in mezzo a questi strani personaggi. Mi par di vivere in un quadro surrealista di De Chirico, vi respiro la stessa aria, la stessa misteriosa atmosfera, mi sento fermentare dalla stessa calma inquietante. » (A pag.3) Intanto lui, Domenico Defelice, leggeva e scriveva le sue recensioni. Se c’era poco movimento in magazzino, allora apriva un libro di poesia – quello ermetico di Mimmo Morina, ad esempio – e cercava di ‘attraversarlo’ con la lente d’ingrandimento del critico letterario. Sono anni di semina dove gli incontri, a loro volta, si sono trasformati radici di una piccola pianta che si è sviluppata rigogliosa più avanti nel tempo; incontri importanti con il già rinomato Francesco Fiumara, quando l’autore ogni tanto scendeva giù a Reggio Calabria, poi ad Anoia, suo paese natio. Tornava perché magari gli avevano riferito della possibilità di un impiego con un’ ottima paga mensile. O « per incontrare una ragazza insegnante di scuola elementare. Lei (la madre dell’autore) pensa che potrei sposarla! Per me tutto ciò è più che buffo, ma mia madre insiste e non potrò dirle sempre di no. Dovrò fare il sacrificio e andarci. E chissà che la ragazza non mi piaccia veramente e che non ci scappi pure il … matrimonio! Ancora con queste usanze! Comunque, è sempre piacevole incontrare una donna giovane e stimolante perché non la si conosce! Ma a casa sua, e alla presenza di sua madre, di mia madre! » (A pag.125). E allora prendeva il treno con gli scompartimenti e poi, sul medesimo diario, finivano anche i ritratti delle persone che viaggiavano insieme, perché a lui piaceva disegnare in ex tempore i volti degli occasionali suoi compagni di viaggi. Di ritorno dal sud doveva portare i saluti del Direttore de La Procellaria Francesco Fiumara allo scrittore Carlo Levi, il cui indirizzo lo aveva individuato sull’elenco telefonico. « Gli ho portato in omaggio una copia del N.1/1966 de La Procellaria che ospita il mio articolo sulla manifestazione tenutasi a suo tempo ad Ariccia in suo onore. (…) La rivista gli è piaciuta. L’articoletto l’ha entusiasmato. Si è parlato per lo più di pittura. È d’accordo con me che oggi gli artisti del pennello faticano a trovare la strada giusta e si smarriscono facilmente dietro infiniti tentativi. Oggi non esiste una vera scuola di pittura, non esiste una vera, importante corrente, ma infinite correnti che disorientano e non permettono di concludere alcunché. » (A pag.87) Il diario in fondo nasce per un desiderio irrefrenabile di una confessione senza riserve ed ecco che in quelle pagine si possono anche trovare giorni in
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cui si sta poco bene, con lo stomaco in disordine, con le palpebre pesanti, col dolore del ricordo di un impossibile amore; perché si è fatto il digiuno, perché c’è stata un’altra domenica di solitudine. Torno ad asserire che non c’è torpidezza fra queste pagine che riflettono la vita e la società della seconda metà degli anni ’60. Se l’autore nel titolo ha voluto inserire qualcosa di umbratile, è solo perché in quegli anni lui si è sentito ramingo, solo anche in mezzo a tanti amici, spaesato perché lontano dalla sua Calabria, stanco poiché dormiva poco e mangiava altrettanto poco in base al salario che riceveva e che non gli permettevano «le trattorie sono inavvicinabili per le mie verdi tasche. » (A pag.7) Presumibilmente quegli anni torbidi sottintendono il suo sentirsi arido di allora. « Finora ho scritto soltanto delle pagine, quest’ anno ho deciso di tenere un vero e proprio diario. Scriverò un pensiero al giorno. Ma su cosa? Sull ’aridità? Sì, perché mi sento arido. Lavoro e privazioni (anche alimentari e affettive) mi hanno rattristato. La mia fantasia, una volta così limpida e fresca, è a brandelli. Non riesco a pensare più in modo continuo. Non riesco più a “creare”. Dipingo e scrivo di rado. » (A pag.5) Ma a distanza di mezzo secolo, quella chiamiamola ‘impurezza’ è diventata sostanza preziosa in cui si rintracciano , più vive che mai, le prime radici delle esperienze esistenziali e professionali di Domenico Defelice. Isabella Michela Affinito
MARIA GRAZIA LENISA LETTERE Il Croco, i Quaderni Letterari di “Pomezia-Notizie “, Luglio 2015, pagg. 92 L’apostolo San Paolo di Tarso, il filosofo greco Epicuro, la poetessa americana Emily Dickinson, il pittore olandese Vincent Van Gogh e poi, in questa nostra complicata modernità anche la poetessa saggista Maria Grazia Lenisa, scomparsa nel 2009, hanno impiegato una parte della loro esistenza a redigere lettere, che sono state stille di sé stessi inoculate negli animi dei rispettivi loro destinatari. L’ insieme delle lettere sopravvissute al proprio autore, riunite assieme, possono diventare un meraviglioso tracciato imbevuto di momenti in cui l’autore è andato oltre le convenzioni sociali, oltre il quotidiano vivere, oltre i salamelecchi, oltre l’amicizia, oltre gli affetti, oltre le discordanze dei vari punti di vista con i colleghi, fino a riuscire ad esprimere una inaudita sofferenza come quella patita da Maria Grazia Lenisa soprattutto dopo l’entrata del nuovo
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millennio. « Un vero, impressionante “romanzo” moderno, “con qualcosa in più”, come avrebbe annotato lo stesso Van Gogh: ovvero il sangue, non mai rappreso, della verità. Del resto, tutto questo richiede onestà: difficile dire quanti, magari anche curatori, abbiamo realmente letto, meticolosamente, “tutto” l’epistolario. Ogni volta, proprio come capita con la Recherche, uno riprende da capo, riscopre le stesse parole-chiave già lette mille volte, ma ogni volta scoprendo aspetti inesplorati. » Così scriveva Marco Vallora nel suo saggio introduttivo al libro Vincent Van Gogh 150 lettere, edito nel 2005 dalla “ Linea d’Ombra di Conegliano, in cui la maggior parte di esse cominciava con: « Caro Theo, …» rivolgendosi all’adorato e unico fratello che l’aveva capito. L’epistolario dunque, può diventare un intricato percorso alternativo di decifrazione della personalità di chi l’ha composto; un romanzo a puntate che può durare interi decenni e in cui accadono le trasmutazioni personali di chi sta scrivendo ogni giorno, ogni tanto una seppur semplice lettera che inizia in un modo e può finire chissà come. Adesso, dopo sei anni dalla morte della grande poetessa, critico letterario, saggista friulana Maria Grazia Lenisa (1935-2009), ‘esplode’ finalmente il suo epistolario nel senso che è stato posto, per la visione di tutti, nella vetrina del Quaderno della Collana “ Il Croco “, a cura della redazione di Pomezia-Notizie, grazie ad una sistematica ricerca condotta con la pazienza di chi sa di aver condiviso tante cose, belle e brutte, con la poetessa scomparsa solo fisicamente, giacché tutto il suo costrutto, il suo impero di parole entrate nei suoi innumerevoli libri e il monumento epistolografico, continueranno a parlarci di lei perché il Direttore – suo grandissimo amico e stimatore – Domenico Defelice così ha voluto. Dalla Sua Premessa nel Quaderno: « Assolviamo a un dovere e a una promessa e rendiamo pubbliche le lettere a noi spedite da Maria Grazia Lenisa. (…) E siccome Maria Grazia Lenisa nelle sue lettere spesso ometteva la data, adesso è difficile collocare alcune di esse nel loro giusto tempo. Qualche volta abbiamo segnato noi, a matita o a penna, quella del ricevimento. (…) Sono lettere semplici, spontanee, non scritte e poi rivedute e corrette per far letteratura; son di getto, un fluente parlar quotidiano, vergate senza il timore che ci scappasse il refuso e qualche imprecisione; son manifestazione del cuore, acqua fresca di sorgente in territorio incontaminato. » (A pag.4). L’ affezione, il ricordo, il tempo trascorso a fare poesia insieme, gli anni che appartenevano ancora al trascorso Novecento, hanno contribuito a riempire gli spazi – pochi, pochissimi – tra una missiva e l’altra di
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M.G.Lenisa (come soleva firmarsi)e poi le sue poesie che a tutt’oggi sono le finestre spalancate dell’ ardimento che possedeva. « La ruota. Essere bella/ per la donna è un canto,/ ch’ella si specchia/ dentro ogni sguardo./ Questo tuo amore è un dogma/ stanco,/ questo mio amore è un dogma/ muto/ e non c’è spazio per la sua lode,/ c’è solo spazio per il coraggio./ Fedele amore, se pure distratto,/ giorno per giorno il tuo dovere:/ silenzio e muri,/ calcoli e righe,/ parenti e gatti…Il lunedì/ comincia il giro della tua ruota,/ della mia ruota cigola/ il canto. » (A pag.12). Maria Grazia Lenisa negli ultimi suoi anni ha sofferto tantissimo e tanto si è espansa la sua fede, la sua sottomissione a Dio e al patimento che l’ affliggeva: « Caro Domenico, quanti amici perduti e quelli che restano così pieni di disagi! Che ti piaccia o meno la poesia è poco importante. Una persona che io non conoscevo e che ha recensito Rescigno, al telefono, rileggendola, mi ha detto che è una dichiarazione d’amore a Dio. La poesia nasce nella libertà: è che diviene difficile riconoscerla come un amore in quanto la capacità di innamorarsi è frustrata. » (A pag.79). Oggi non sono più delle semplici lettere; oggi rappresentano uno spaccato di letteratura autobiografica, un pezzo di vita di Maria Grazia Lenisa, se soltanto si riuscisse a pensare che per compilarle tutte in effetti c’è voluta una porzione abbondante di non-facile esistenza! E adesso non importano le date, i riferimenti dei destinatari, l’incipit o la fine di ognuna di esse: ora si possono leggere così, aprendo il Quaderno come se fosse il testo sacro della Bibbia per cercare una risposta personale, un indizio soprannaturale per riuscire ad andare avanti, perché, come lei scrisse al Direttore Defelice, su una cartolina postale col timbro del 2-2-1976: « L’atto di scrivere una lettera non deve essere con i veri amici formalità, ma raccoglimento, altrimenti si ricorre al telefono. » (A pag.18). Isabella Michela Affinito
TITO CAUCHI PALCOSCENICO Editrice Totem Lavinio (RM), Anno 2014, € 10,00, pagg. 60 Quando si parla di palcoscenico sopraggiunge immediato il riferimento ad un’apertura e ad una chiusura tipica del sipario, che « È la palpebra del teatro. Stiamo seduti in sala, aspettando l’istante preciso della rappresentazione. Un teatro è come una nave che si appresta a salpare. Di colpo la
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palpebra si apre sul mare di tutti i Sogni ed eccoci pronti a navigare. » (Dal Dizionario delle idee, dei pensieri e delle opinioni di Mario Lettieri, De Agostini Novara, Anno 2002, a pag.605). Così dichiarò il regista e attore francese, Jean Louis Barrault (1910-1993) che fu attore di teatro anche sperimentale e di cinema. Una palpebra artificiale che quando è chiusa infonde curiosità, trepidazione, immaginazione; e quando si apre cattura completamente l’attenzione di tutto il pubblico presente in sala, dinanzi al palcoscenico per l’appunto. In quell’istante la distanza fra gli attori e gli spettatori si annulla, perché non c’è più la barriera di un tessuto pesante – solitamente rosso come quello della foto sulla copertina del libro – a portare l’ oscurità sulla scena. Il palcoscenico è il luogo per eccellenza della Parola, quando nel teatro ci sono gli attori che riscaldano con quella la mente e il cuore del pubblico, e sul palcoscenico si vede scorrere la vita degli altri, che apparentemente non ci dovrebbe riguardare, invece, è anche la nostra vita. « (…) quel Teatro, insomma dove il Verbo prende carne. E dove, perciò, madre e sovrana è la Parola: dacché in esso registi e attori e apparato scenico non hanno, o non dovrebbero avere, altro còmpito che questo, di illustrare e potenziare la Parola regina. » (Dal libro Storia del teatro drammatico di Silvio D’Amico, Bulzoni Editore, alla pag.9 del vol.I°, £24.000, pagg.341). Su questa ‘gradinata’ antica e moderna al contempo, il professore critico poeta Tito Cauchi, nato in Sicilia e residente a Lavinio vicino Roma, ha dispiegato i suoi testi poetici che simbolicamente sono gli attori-protagonisti del suo Palcoscenico. Ad uno ad uno si mostrano a noi spettatori-lettori desiderosi di entrare in contatto con le loro tragedie, o commedie, o drammi, o melodrammi, dipende dalle situazioni che l’autore ha saputo congegnare. Ad un tratto riconosciamo da sotto una splendida armatura la Pulzella d’Orléans, quell’umile fanciulla nota come Santa Giovanna d’Arco (1412-1431) che si vestì da soldato, quindi da uomo, per quei suoi tempi prima del Rinascimento, per liberare la Francia dagli inglesi e proclamata santa solo nel secolo Novecento da Papa Benedetto XV. « (…) Nessuno dei grandi ti ha detto/ grazie per il tuo sacrificio./ Hai mostrato di valere di più/ dei giudici che ti hanno condannata./ Giovanna d’Arco, hai offerto/ il tuo petto al rogo irremovibile/ non hai rinunciato al tuo Dio./ Lorena ti piange da seicento anni./ Eri un fuscello di ragazza e hai/ mantenuto fede e passione ardente/ più forti del fuoco che ti brucia./ Accetta le mie lacrime per lenire/ le carni che ti avvampano ancora. » (A pag.43). Quindi, grandi ma anche piccoli drammi di oggi o
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dei tempi addietro. Lui, l’autore, mentre scriveva questi versi già con la mente stava conferendo voce e azioni agli interpreti, calandosi nei panni del vero regista, di colui che coordina l’insieme. I gesti e la parola; la parola e i gesti come se ci trovassimo veramente ad assistere, seduti in una cavea, ovvero l’ edificio greco antico con gradinate a semicerchi concentrici divise per settori, ai tempi in cui furoreggiavano i testi tragici di Sofocle, Euripide ed Eschilo, e il palcoscenico era detto proskènion dove si alternavano gli attori che, soprattutto per questione di acustica dato che era tutto all’aperto, indossavano la grande maschera, oltre a delle calzature fortemente rialzate per dare imponenza a chi le indossava. Il palcoscenico era ed è anche il luogo delle ‘confessioni’, dove il pubblico ascolta e condivide il destino avverso o favorevole dei personaggi in primo piano e allora «Mi fingo un dolore/ per celare quello intero,/ applaudono, ma nessuno sa/ che è tutto vero.» (A pag.9). Non mancano le traduzioni in greco di alcune poesie del poeta Tito Cauchi, sul finale del libro dai titoli: Esaurimento, Prima di morire e Desiderio di vivere. Perché in effetti la parola palcoscenico e lo stesso concetto di recitazione provengono da molto lontano, dall’antichità greca, di quando c’era il culto di Diòniso coll’inno denominato Ditirambo e da qui la parola tragodìa, ossia tragedia. « Il ditirambo, in principio improvvisato dai devoti del nume, ebbe poi una forma prestabilita e scritta, in versi. » (Dal libro Storia del teatro drammatico di Silvio D’Amico, Bulzoni Editore, alla pag.18 del I° vol., £ 24.000, pagg.341). Il poeta Cauchi, anche Presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita “ Leandro Polverini “, con la sua silloge si è indubbiamente ricollegato alle origini antichissime del teatro con i riti e gli inni de I Misteri d’Eleusi già conosciuti nel VII° secolo a.C. quali rappresentazione sacra e lui, essendo nato in Sicilia dai forti influssi greci, precisamente a Gela, ha sentito internamente e spontaneamente di presentare le sue liriche in forma teatrale aprendo a poco a poco, sin dalla copertina, il pesante sipario del suo entusiasmante Palcoscenico. Isabella Michela Affinito
IL CROCO i quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE Il numero di questo mese è dedicato a: ISABELLA MICHELA AFFINITO PROBABILMENTE SARÀ POESIA
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UMBERTO VICARETTI INVENTARIO DI SETTEMBRE (Edizioni Blu di Prussia, Piacenza, 2014, € 12,00) Quella di Umberto Vicaretti è una poesia che va direttamente incontro al lettore e lo cattura per la sua immediatezza e la sua musica: basta aprire il suo nuovo libro Inventario di settembre per rendersene conto. Qui ciò che più colpisce è gioia dei ritmi, variamente modulati, ma sempre compiuti, sin dalla prima poesia, che ha questo incipit: “Al primo piano, porta ventitré, / apro disabitate stanze: lei / vive altrove, oltre la soglia fragile / del giorno” (Meglio non ricordare). Evidentemente in questa lirica il ricordo riguarda una persona scomparsa, e l’anima, a ripensarla, più duole. Varia la tematica del libro, che va dalla celebrazione del nono compleanno del piccolo Antonio (La pazienza dell’erba) al Trittico Minore di un Vangelo Apocrifo (dove i soggetti sono Pietro, che per tre volte rinnega Cristo “prima che il gallo canti”; Lazzaro, che trasognato esce dal sepolcro, ben sapendo che ancora dovrà ritornarvi, e la seconda volta per sempre; Tommaso, che vive il dramma del dubbio, ma solo per amore); dalla commiserazione dei vecchi che ormai con “passo incerto,/ risalgono la china delle stelle/e annotano le rotte della luna” (Fu lungo il giorno), al ricordo del ragazzo per il quale “i semi dell’assenza/hanno germogli in dune desolate” e che presto ci ha lasciati: “Noi qui più soli, increduli, spauriti,/invano aspetteremo i sogni a nascere,/ora che il vento chiama,/e più atterrisce brezza che tempesta” (Il volo di Icaro). In tutte queste poesie, come nelle altre della raccolta, ciò che maggiormente risalta è la virtù dello stile, sobrio e incisivo, basato essenzialmente sull’endecasillabo, un verso con il quale il nostro autore sortisce risultati di tutto rilievo. Poesia della memoria quella di Vicaretti e poesia del dolore (che sovente alla memoria si accompagna); poesia di care cose amate e perdute nel volgere dei giorni e delle stagioni: “Non so quale dolore ancora manchi / a questa vita arresa ai girasoli” egli dice; e soggiunge: “Negli occhi ho avuto soli e pleniluni / … / Ora redimo giorni e scalo abissi / … / Serbo conchiglie e serti di corallo, / memorie spente e vive di naufragi” (Non so quale dolore). Tra gli eventi dolorosi che maggiormente hanno ferito Vicaretti vi è quello del terremoto dell’ Aquila, città dal poeta fortemente amata, che gli detta versi di intensa commozione: “Sparsi dormono i muri delle case / tra le braccia dei vicoli innocenti. / … / I campanili dormono stremati, / il capo reclinato sul sagrato / consunto dai millenni” (Via delle Cento Stelle).
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Espressione di una visione certamente non rasserenante dell’esistenza sono anche poesie quali Ballata del clochard, il quale, dalla sua casa di carta parla agli uccelli e Sale azzurrino il fumo dai camini, che ricorda il campo di concentramento di Buchenwald: “Di tutti restò un volo oltre le stelle; / di Anna non rimase che un saluto, / superstiti soltanto le parole”. Gli esiti più ricordevoli li troviamo però in certe schiette aperture al canto, che s’incontrano un po’ dovunque in questo libro, come: “I ragazzi di Locri hanno negli occhi / lampi affilati” (I ragazzi di Locri) o “Ragazza mia che più non hai memoria / del fiume attraversato a piedi nudi”, che ricorda Aisha, di soli 13 anni, lapidata a Chisimaio, in Somalia (Stabat Mater). Si vedano anche Di te non ho scordato: “Se canto l’Orsa, Orione e l’Ippogrifo, / Terra, mia Terra tu non condannarmi / di te non ho scordato le ferite” e Itaca sempre: “Ma il vento chiama ancora, ad una ad una / le vele issate all’ albero a garrire”. Dove tuttavia la parola di Vicaretti si fa più sommessa e affettuosa è nelle poesie che evocano le figure dei genitori, dalle quali essi emergono in tutta la loro arresa umanità, come Al passo d’addio, dedicata al padre: “Quello fu l’ultimo settembre, padre, / costretto il tempo ormai nella clessidra / … / Non fu certo la morte il tuo calvario, / ma il grano a crescere / … / Noi fummo vivi solo nel dolore”. Così è anche di Scrivimi che stai bene, dedicata alla madre: “Già sale al borgo antico un’altra luna, / in questa sera dove più non sei. / E’ tanto che ti cerco e aspetto un segno…”. Ma si leggano anche, a tale proposito, Al gelo del natale: “Ecco, torno alla casa di mio padre, / al suo silenzio, al suo sorriso mite” e Dove ora sei, ancora dedicata alla madre. Tutta la sezione Canti d’amore, alla quale queste poesie appartengono, è invero costruita sull’onda lunga della memoria degli affetti perduti. Né è da dimenticare una poesia quale Il prezzo da pagare, dedicata a Mario Luzi, in memoriam: “Amico lieve, che ci lasci / scrigni di parole adamantine, / … / anch’io ho grumi rappresi / di memorie e un tarlo: / se pena da scontare / per ogni nuovo giorno / sono gl’inesausti mostri / di questo aggrovigliato labirinto”. Un libro intenso Inventario di settembre che, come ricorda Pasquale Balestriere nella sua Postfazione, fa riferimento nel titolo al mese dell’ equinozio d’autunno e quindi al tramonto dell’estate, allegoria della parabola della vita umana, Lo slancio però che contiene (e questo lo nota Nazario Pardini nel suo scritto introduttivo) è espressione di un profondo amore per la vita: ed è ciò che resta dopo la lettura di questi versi che ci
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parlano con immediatezza e con quella verità che sono proprie della poesia autentica. Elio Andriuoli
TITO CAUCHI AMANTE DI SABBIA Pomezia-Notizie edizioni, 2003, 61 pagg., € 7,75 Ecco una vera chicca per i lettori vecchi e nuovi di Tito Cauchi. Si tratta di un’antologia poetica che raccoglie i carmi composti negli Anni Settanta. Un’opera omnia nel senso più letterale del termine, riferendosi a quel periodo in specifico. Cauchi (classe 1944) era ancora giovane e sognatore negli Anni Settanta ed i giovani possono fare veramente di tutto, a cominciare dall’Impossibile. La Giovinezza stessa è forza ed energia! E se il giovane in questione è anche poeta… che il Cielo ci salvi! Cosa mai saprà tirar fuori questo Figlio della Luna guardando il mondo e la vita che alle persone normali appare solo in un certo modo? La pazzia più sfrenata va bene solo per Don Chisciotte oppure per Giacomo Leopardi, ambo giustificatissimi per ragioni diversissime. Cauchi, come tutti i Poeti, è nudo innanzi al mondo e, in tutta semplicità, vede le cose come stanno davvero, senza che esse siano coperte dal mantello dell’ipocrisia, magari per evitare un’accusa di Atti Osceni in Luogo Pubblico. Ma una lirica (una lirica vera e ben mirata, meditata) è già di sé un Atto Osceno in Luogo Pubblico. Perché ci parla di Verità. Un esempio? Negri bianchi (una delle ultime composizioni, in fondo al libro) è un dito puntato contro una situazione che, oggi, è una crisi nazionale esponenziale e che nessuno ha né voglia né interesse di risolvere. Eroi senza gloria, altra lirica alla fine del libro, conferma questa visione realistica (e quindi detestabile, da vietare ai minorenni) del mondo così com’è: tutto paratie stagne, asettico, asessuati ed ateo. Certo, un giovane non dovrebbe essere troppo cupo e pessimista, ma Gli altri (che è a inizio libro) non ha certo bisogno di commenti ed è eloquentissima la parte sua, perfino in modo antipatico per i soliti benpensanti! Ho citato tre titoli per dare un assaggio dello stile di questo Autore che, in tutta evidenza, non passa il tempo a guardarsi allo specchio per essere sicuro di essere gradevole agli altri. C’è profondità di pensiero in queste liriche e ognuna di esse è una riflessione meditata a lungo… o un j’accuse che non va sottovalutato e, ahimè!,
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anche troppo attuale. Non dirò di più per non guastare il piacere della scoperta a chi leggerà questa silloge dopo di me. Ma è importante conoscere il pensiero dei Poeti agli esordi e confrontarlo con ciò che scrivono oggi. Un uomo va giudicato nel suo complesso e non a metà. Non siamo mica tutti Medardo di Terralba, Visconte Dimezzato per necessità e convinzione! Andrea Pugiotto
MARIA GRAZIA LENISA LETTERE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie 2015, pp. 92 La pubblicazione dell’epistolario della Lenisa con Domenico Defelice è qualcosa di eccezionale che dimostra un’amicizia sincera che si perpetua oltre al di là della morte della poetessa che ha sofferto molto negli ultimi anni della sua vita. Con la sua corrispondenza Maria Grazia Lenisa è riuscita a coinvolgere Defelice mediante un “dialogo incessante con la poesia”, tramite frequenti lettere che trattano argomenti svariati e dimostrano il suo interesse per il mondo culturale contemporaneo. Defelice stesso afferma che si tratta di lettere semplici e spontanee che segnano la stima reciproca, l’ affettuosa amicizia e un profondo legame di poesia. Ci sorprende perciò l’atteggiamento della moglie di Capasso che, forse per gelosia, proibì al marito di continuare a corrispondere con Maria Grazia Lenisa. In realtà, anche con noi la poetessa ha corrisposto per una decina di anni sia per ottenere dello spazio nella nostra rivista sia stabilire un dialogo poetico inviandoci alcuni suoi libri. Ma noi non abbiamo conservato le sue lettere per una nostra strana consuetudine. Dalle sue lettere con Defelice si potrebbe ricavare la sua ideologia un po’ agnostica un po’ sofferta: “La sua poesia - dice il Direttore di PomeziaNotizie - ricolora atmosfere meliche, nel senso di un cristianesimo tragico e fiabesco: l’Eden e la cacciata dall’Eden”. E la Lenisa afferma: “Io sono Sua coetanea ed ho conservato lo spirito di una ragazza... Ciò che veramente conta è l’anima giovane e antica del poeta”. Inoltre, lei afferma di essere “credente”, ma non dice in che cosa crede. Ha scritto vari saggi, uno su Capasso, un altro su Mastrolonardo, un terzo su Febo Delfi... Nel 1974 stava preparando uno per Danilo Masini. Si è interessata ad Enrica Di Giorgi, Franco Bruno, Zanzotto, Rudy De Cadaval, Ruffilli ed altri ancora. Suo marito era un pittore, “un uomo molto riservato e non troppo socievole”. Lei si definisce “un po’ gre-
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ca in un cattolicesimo repressivo... “Di notte mi alzavo e prendevo il Bambin Gesù nella teca di vetro e me lo stringevo al cuore”. Spesso si lamenta per “la scarsa rappresentatività della poesia femminile italiana”. Conosceva le opere di Paul Courget, Febo Delfi, Solange De Bressieux, Antonio Piromalli, Francesco Fiumara, Silvana Magrini, Lucio Zinna, Silvio Bellezza, Vincenzo Rossi, L. Zamboni, R. Onano, Ernesto Puzzanghera, Padre Cornelio Fabro (filosofo), Mons. Santino Spartà, Teresinka Pereira (USA), Ninnj Di Stefano Busà, Daniele Giancane, Teresio Zaninetti, Liana De Luca... “Ho visto con piacere anche Tanelli ben analizzato”. Fra le sue opere si discute maggiormente di la “Terra violata e pura” (1975) e “L’ilarità di Apollo” (1983). Ha ricevuto numerosi premi. “Io sono stata sempre onesta e non ho mai ceduto a compromessi per piacere più o meno alla poesia. E rispetto le idee degli altri”. Bello ed emblematico è il saggio “Il segno trasgressivo” su Bárberi Squarotti e Zanzotto. Poi afferma: “Dopo Capasso, ... ho scritto un tipo di poesia a cui le donne si rifiutano perché disturba l’uomo da cui hanno le briciole” (1990). Mi ha colpito anche quest’affermazione: “Io non liscio i potenti, li prendo in giro quando posso e un qualche prestigio mi viene dalla mia posizione ironica che non chiede niente, consapevole che oggi non si distingue tra grande e potente. Oggi la poesia potente è grande... Io sono invidiata dal basso e respinta dall’alto e resistere è autentico eroismo letterario”. Dal canto suo Domenico Defelice scrive: “Mi auguro che tu abbia superato il trauma del terzo intervento... Mi raccomandi di non essere litigioso. Mi dispiace che tu abbia di me un tale concetto. Non amo il litigio, ma non permetto certe castronerie.” Infine la ragazza di Arthur è diventata la ragazza di Cancer che rivolge una preghiera al volto di Gesù che, umanamente, aveva orrore della sofferenza. Orazio Tanelli Docente Universitario, Verona, New Jersey, USA
ALL’OLEANDRO Tossico. Ma dei tuoi fiori multicolori e splendidi ingentiliti son gli aridi poggi, i bordi delle autostrade rumorose, sinistre e terrificanti. A Roma, lungo i Fori, frescura e gentilezza doni a pietre e marmi
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e nel verde delle tue foglie da millenni continua il respiro dei Cesari. Il veleno forse occorre perché non venga divorata così tanta bellezza. Domenico Defelice
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE PREMIO ALLA CARRIERA I MURAZZI A CORRADO CALABRÒ - La Giuria del Premio I Murazzi comunica di avere attribuito il Premio alla Carriera al Poeta Corrado Calabrò e di seguito trasmette la motivazione espressa: MOTIVAZIONE DEL PREMIO ALLA CARRIERA A CORRADO CALABRÒ - “Lo straordinario percorso
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compiuto da Corrado Calabrò lo ha condotto a impersonare un ruolo da protagonista della poesia italiana sia in patria sia all’estero ed è valso a consolidare meriti e diffusione per la letteratura italiana nel consesso delle letterature dell’Occidente e delle due Americhe, nonché dell’estremo Oriente cinese. La grande tradizione classica della nostra poesia, che giunge all’acme sia nella lirica d’amore sia nei canti del pensiero poetante, trova completo rinnovamento e rifondazione nella amplissima produzione di Corrado Calabrò che fedelmente ricostruisce per oltre cinquant’anni la poesia d’amore dedicata alla donna come simbolo di “carne e spirito”, intesa a celebrarne il valore di compagna paritaria dell’ uomo nonché di simbolo depositario dei destini profondi dell’umanità. Similmente le grandi angosce dell’uomo moderno posto di fronte alla sua lontananza da Dio, trovano nella poetica della ragione e della pragmatica sviluppata da Corrado Calabrò la dignità di un operoso impegno civile illuminato dallo splendore della natura e in particolare dall’ incanto del mare, assunto quest’ultimo come officina di creazione e di ricreazione della vita. All’unanimità, la Giuria del Premio I MURAZZI conferisce a Corrado Calabrò il Premio alla Carriera per la poesia e per la letteratura in generale, con sentimento di devozione per il magistero creativo da lui svolto nell’ambito della tradizione umanistica nazionale.” Un plauso sentito da parte della Direzione e della Redazione del nostro mensile. *** MARIA GRAZIA LENISA - LETTERE - Entusiasmo e plauso, da parte di lettori e critici, per la pubblicazione delle Lettere di Maria Grazia Lenisa sul nostro quaderno letterario “Il Croco” del luglio scorso; alcuni nostri collaboratori hanno espresso rammarico per non aver conservato anche loro le missive a suo tempo ricevute da parte di questa più che brava poetessa. Anche il grande critico Giorgio Bárberi Squarotti ha espresso la sua gioia per averle ricevute: “Le sono grato - ci ha scritto il 28 agosto 2015 - del prezioso dono della raccolta di lettere di Maria Grazia Lenisa, l’amica vera e sincera anche se la incontrai una volta sola e la grande poetessa inventiva, festosa, visionaria, giocosa.” Invitiamo chi l’ha conosciuta a manifestarci il suo pensiero nel ricordo di una donna eccezionale, che non merita di essere coperta dall’oblio. *** CONCORSO LETTERARIO DI NARRATIVA “MARIA MESSINA” - L’Associazione Progetto Mistretta - via Belvedere 32 - 98073 Mistretta (ME) - comunica che la giuria della dodicesima edizione del Concorso Letterario di Narrativa intitolato alla
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scrittrice Maria Messina (Palermo 1887 - Pistoia 1944), indetto dall’Associazione medesima con il patrocinio del Comune di Mistretta, dopo attento esame delle opere pervenute, ha formulato la seguente graduatoria: Sezione a - Racconto inedito, categoria studenti: 1° Alberto D’Aiello, Cosenza. Sezione b - racconto inedito, categoria adulti: 1° Maria Cristina Clotilde Di Dio, Calascibetta (en); 2° Anna Maria Costarella, Acireale (Ct); 3° Gerardo Giordanelli, Castiglione Cosentino (Cs). Sezione Libri Editi: 1° Bianca Rita Cataldi, Adelfia (Bari) per “Waiting Room”, Butterflay edizioni. La giuria è stata composta da: Prof. Giovanni Ruffino (Università di Palermo), presidente; Prof.ssa Ida Rampolla del Tindaro; Prof.ssa Elise Magistro, Scripps College (California, USA); Mariangela Biffarella, scrittrice; Filippo Giordano, scrittore; Graziella Ribaudo, docente Liceo; Antonino Testagrossa (presidente Ass. Progetto Mistretta); dott.ssa Franca Spinnato Vega (Mistretta); Giuseppe Ciccia, segretario, con diritto di voto. La premiazione: sabato 03 ottobre 2015 alle ore 18,00 presso il Salone delle Feste del Circolo Unione di Mistretta. Mistretta, 08 Settembre 2015 Il presidente Antonino Testagrossa *** ASSEGNATO A FABIO DAINOTTI IL PRESTIGIOSO PREMIO I MURAZZI - La Giuria del Premio I Murazzi” 2015 attribuisce la pubblicazione premiale gratuita al libro del professor Fabio Dainotti “Lamento per Gina e altre poesie”, che risulta così vincitore della sezione B- Silloge di poesia inedita, con la seguente motivazione: “ Lo straordinario percorso di riflessione e di scrittura compiuto da Fabio Dainotti nel corso dell’ intera vita dedicata allo studio della letteratura italiana e al sacerdozio dell’attività di corsivista, saggista e poeta, trova nel mirabile libro di poesia Lamento per Gina e altre poesie una piena rappresentazione simbolica della bellezza e della profondità del pensiero poetante sviluppato dallo scrittore di Cava de’ Tirreni nel corso di oltre mezzo secolo di ininterrotta attività, a principiare dalle forme di tardo ermetismo per giungere ai contrasti poetici del quotidiano, in modo da mettere a confronto le poesie degli esordi con quelle dell’attualità recente, facendo emergere la continuità del sogno della poesia, pur nell’evoluzione e nel cambiamento formale delle mode della parola poetica.” Quello di Fabio Dainotti è risultato vincitore in un gruppo di 15 testi proposti; gli altri erano di: Franca Balsamo (Torino), Michele Battaglino (Pisa), Anna Raffaella Belpiede (Torino), Vanes Ferlini
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(Imola), Ester Ghione (Torino), Maria Giusti (Venafro), Franca Gotti Simonelli (Sorisole), Isabella Horn (Firenze), Pamela Mancini (Torino), Paola Novaria (Torino), Francesco Salvini (La Spezia), Francesco Sassetto (Venezia), Angelo Tronca (Torino), Franco Zoja (Torino).
Domenico Defelice - Scaffale (1964)
LIBRI RICEVUTI RENATO GRECO - Quaderni Palesini - volume secondo - Poesie inedite dell’estate 2002, Presentazione di Daniele Giancane; in copertina, a colori, “Riva del mare” (1886) di Ivan Aivazovsky (1817 1900) - Tabula fati Edizioni, 2015 - Pagg. 200, € 15,00. Renato GRECO è nato nel 1938 a Cervinara (Av) e vissuto fino alla maturità classica ad Ariano Irpino. Nel 1955/56 a Matera istitutore del Convitto “Duni”. Dal ’57 al ’67 a Milano dove lavora alla Olivetti di Adriano e dove abita con la moglie dal ’66. Dal ’67 tre anni a Napoli un anno a Firenze e due anni in giro per l’Italia con tappe a Firenze e a Milano. Nell’ intanto si laurea in legge. Dal ’71 a Bari quadro nella filiale di questa città. Nel ’77 è di nuovo a Milano dopo altri periodi a Firenze. Fino al 1987 a Milano quadro marketing centrale. Ritrasfe-
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rito a Bari va in pensione nel 1992. Ha vinto molti concorsi in Italia e legge poeti del ‘900 presso due Università Popolari a Modugno e a Bari. Redattore della rivista “La Vallisa” dal 1997. Ha scritto più di 46 volumi di poesia, oltre che numerose Raccolte Antologiche, alcune pubblicate anche all’estero. Ricordiamo, per esempio, i volumi dal 2005 in poi: “Barlumi e altro” (2005), “Memoria dell’acqua” (2006), “Fermenti immagini parole” (2006), “In controcanto” (2007), “Ma quale voce da lontano” (2007), “Poemetti e sequenze - vol. I” (2007), “Di qua di là dal vetro” (2007), “Quaderni palesini Poesie dell’estate 2001” (2008), “Poemetti e sequenze - vol. II” (2008), “Se con trepide ali” (2008), “Favole per distrarsi” (2009), ”Per scenari di-versi” (2009), “Piccole poesie” (2010), “Inventario” (2010), “Dintorni di Nessuno” (2011), “Contiguità, distanze” (2011), “Vicinanze” (2012), “Un brusio d’anime” (2012), “Colloqui e amabili fraseggi” (2013), “Il vero dello sguardo” (2013), “La parola continua” (2013), “Finzioni e altri inganni” (2014), “Variabili geometrie” (2014), Mattinali e tramonti dell’opera compiuta (2015). Autore anche di molti saggi su Salvatore Quasimodo, Vittorio Bodini, Cristanziano Serricchio, Enzo Mandruzzato, eccetera. Tante le antologie in cui figurano sue poesie. Tra i critici che si sono interessati di lui, citiamo solo alcuni: Pasquale Martiniello, Michele Coco, Enzo Mandruzzato, Stefano Valentini, Vittoriano Esposito, Daniele Giancane, Lia Bronzi, Donato Valli, Sandro Gros-Pietro, Renzo Ricci, Giorgio Bárberi Squarotti, Giuliano Ladolfi, Emerico Giachery, Roberto Carifi, Gianni Antonio Palumbo, Daniele Maria Pegorari, Roberto Coluccia, Ettore Catalano.
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con devozione ed amore. Teresinka Pereira USA - (Translated in Italian by Michele Di Candia)
PIOGGIA D’ESTATE O calda afosa noiosa estate con te penso ai bagni nelle spiagge affollate, ai piatti freschi, alle bevande ghiacciate; all' anime di qualunque religione da te riscaldate. Tu sei bella, si, e sei "socievole" ma non prendertela se dico che qualcuno di te è più piacevole. Quando tu t'assenti tra le nuvole il mio cuore s'allieta batte forte al sentir dei tuoni: il freddo ha raggiunto questa meta perché io sono e sempre resterò innamorato di te, o pioggia, che accanto a me sempre attenderò. Marco Carnà Reggio Calabria
Qui sotto, “Gocce di pioggia sul vetro della finestra”, foto de giovane Marco Carnà di Reggio Calabria.
AMICI CHE SONO SPIRATI In memoria di Biagio Paternostro Noi moriamo un poco con gli amici che muoiono e portano con loro la tenerezza che usavano dedicarci come una bontà superiore. La loro assenza cristallizza nella nostra memoria come dolore. I versi diventano un fatale doloroso nello spazio fatto con tristezza: ci mancano e li ricordiamo
TRA LE RIVISTE SOLOFRA OGGI - Direttore Raffaele Vignola solofraoggi@libero.it Riceviamo il n. 6-7 (giugnoluglio 2015), ricco sempre di notizie e fotografie. * IL SAGGIO - Mensile di cultura, direttore Geremia Paraggio, editoriale Giuseppe Barra - via don Paolo Vocca 13 - 84025 Eboli (SA). Riceviamo il n. 233
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(agosto 2015) dal quale segnaliamo, tra i tantissimi articoli, la testimonianza di Antonio Fernicola: “Mio padre Giuseppe, mandriano e soldato”. Allegato, come solito, Il Saggio libri, poesia, arte, n. 127/233, con tantissimi poeti e scrittori. * SENTIERI MOLISANI - Rivista di Arte, Lettere e Scienze, diretta da Antonio Angelone, responsabile Massimo Di Tore - via Caravaggio 2 - 86170 Isernia - E-mail: sentieri.molisani@gmail.com Riceviamo il n. 2 (maggio-agosto 2015), sul quale riscontriamo le firme di molti nostri collaboratori, come Antonia Izzi Rufo, Leonardo Selvaggi (che si interessa pure di “Gli eroi di El Alamein in un grande romanzo di Anna Aita”), Luigi De Rosa, Rosa Elisa Giangoia, Giovanna Li Volti Guzzardi, Alda Fortini, Orazio Tanelli eccetera. Carlo Olivari e Brandisio Andolfi scrivono di “Là, dove pioveva la manna”, di Imperia Tognacci e Salvatore Veltre di “Così la vita” di Anna Aita.
Qui sotto: Domenico Defelice: Anziana donna di Mirabello Sannitico (CB) - acquerello, 1976
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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio