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LA CITTÀ DI GENOVA NELLA POESIA DI
CAPRONI (1912-1990) di Luigi De Rosa
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IORGIO Caproni era nato il 7 gennaio 1912 a Livorno, in corso Amedeo (sulla casa è stata apposta una lapide: “Qui nacque Giorgio Caproni / Poeta delicato e forte come la città/ che lo vide nascere”) , ma già all’età di dieci anni (nel marzo 1922) si era trasferito a Genova, perché suo padre Attilio, ragioniere, era stato assunto da un’industria locale. Il piccolo Giorgio, dopo avere completato la scuola elementare alla “Canevari”, aveva frequentato le medie alla “Antoniotto Usodimare”. Mentre il diploma di maestro lo avrebbe conseguito privatamente, la laurea in Lettere e Filosofia gli sarebbe poi stata conferita honoris causa nel 1984 dall’Università di Urbino. Ma torniamo alla media perché, contemporaneamente, studiava violino e composizione all’Istituto musicale “Giuseppe Verdi”. Lo studio appassionato della musica, pur se molto faticoso, gli aveva consentito di stringere amicizia col poeta e critico letterario Tullio Cicciarelli, per molti anni giornalista al “Lavoro”. Per non parlare delle prime letture poetiche con altri amici, studenti di violino come lui. Ma mentre lo studio della musica (era entrato a far parte dell’ Orchestra del Teatro Regio di Torino) si sarebbe rivelato un impegno troppo logorante, tanto da costringerlo ad abbandonarlo, la passione
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All’interno: Dobbiamo smetterla!, di Domenico Defelice, pag. 5 Orlando Sora in un libro di Giovanna Rotondo, di Giuseppe Leone, pag. 7 Echi e sussurri di G. Busca Gernetti, di Marco Onofrio, pag. 9 Salvatore Porcu, l’uomo e il sociologo dalle cento battaglie, di Domenico Defelice, pag. 15 Martino Zanetti e la donazione al Vittoriale degli Italiani, di Ida Pedrina, pag. 18 Due poemetti di Nazario Pardini, di Maurizio Soldini, pag. 23 Un canto che ha il sapore dei sogni, di Marina Caracciolo, pag. 26 Rachele Zaza Padula: Sancta Teresia Benedicta a Cruce, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 28 La personalità poetica di Elena Milesi, di Paola Insola, pag. 33 Francesco Brunetti e “Il volo di una piuma”, di Luigi De Rosa, pag. 35 La città di Pechino, di Leonardo Selvaggi, pag. 36 Addio, Antonia!, pag. 39 I Poeti e la Natura (Lord Byron), di Luigi De Rosa, pag. 42 Notizie, pag. 54 Libri ricevuti, pag. 57 Tra le riviste, pag. 59
RECENSIONE di/per: Elio Andriuoli (Occasioni e percorsi di letture: Studi offerti a Luigi Reina, di Raffaele Giglio e Irene Chirico, pag. 44); Tito Cauchi (Echi e sussurri, di Giorgina Busca Gernetti, pag. 45); Tito Cauchi (Una raccolta di stili, di Isabella Michela Affinito, pag. 47); Tito Cauchi (Probabilmente sarà poesia, di Isabella Michela Affinito, pag. 48); Tito Cauchi (Sogni, di Mariagina Bonciani, pag. 48); Tito Cauchi (Voci del passato, di Antonia Izzi Rufo, pag. 49); Roberta Colazingari (Probabilmente sarà poesia, di Isabella Michela Affinito, pag. 51); Roberta Colazingari (Lettere, di Maria Grazia Lenisa, pag. 51); Giovanna Li Volti Guzzardi (Il buio e la luce, di Eugenio Morelli, pag. 51); Giovanna Li Volti Guzzardi (Probabilmente sarà poesia, di Isabella Michela Affinito, pag. 52); Roberto Rossi Testa (Echi e sussurri, di Giorgina Busca Gernetti, pag. 53).
Isabella Michela Affinito, Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Lorella Borgiani, Giannicola Ceccarossi, Colombo Conti, Domenico Defelice, Michele Di Candia, Eloisa Massola, Adriana Mondo, Teresinka Pereira, Laura Pierdicchi, Leonardo Selvaggi
per la letteratura si era impadronita di lui e non lo avrebbe più lasciato fino alla morte. Passione che gli si era accesa nel cuore già diversi anni prima, tanto da indurlo a scrivere: “Il baco della letteratura lo presi alle elementari. Ho ancora un quadernino con un racconto rimasto a mezzo. Poi scrissi versi oscurissimi, che oggi si direbbero d’ avanguardia. Buttai via tutto e ricominciai a sillabar da capo, dopo i Surrealisti, il vecchio Carducci. Leggevamo molto, io e un altro amico violinista. Lo choc più grosso lo pro-
vammo quando comprai gli Ossi di seppia nella edizione Ribet, 1928. Chi era Montale ? Lo scoprimmo da soli, come avevamo scoperto Ungaretti, Cardarelli, Valéry, Apollinaire, Machado, Lorca, ecc. ecc… …Mi incontrai per la prima volta con Ossi di seppia intorno al ’30, a Genova, e subito quelle pagine mi investirono con tale energia (come poi Le occasioni e La bufera che contrariamente all’opinione di molti critici considero il frutto maggiore di Montale), da diventar per sempre parte inseparabile del mio
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essere, alimento e sangue della mia vita, indipendentemente e al di sopra dei riflessi, benefici o malefici, che tale poesia ha potuto avere sui pochi e poveri versi che ho scritto. Montale ha per me il potere della grande musica, che non suggerisce né espone idee ma le suscita in una con l’ emozione profonda, e posso dire che egli è uno dei pochissimi poeti d’oggi che in qualche modo sia riuscito ad agire sulla mia percezione del mondo”. Montale e Genova, Caproni e Genova. Per questa città, che per lui è la Città, e che sta in mezzo, tra la Livorno dell’infanzia e la Roma della maturità (quanto rimorso, poi, per aver lasciato Genova per Roma!), Caproni ha scritto versi indimenticabili (così come, del resto, per la amatissima Val Trebbia – si ricordi, ad esempio, il volume Ballo a Fontanigorda). E’ stato lo stesso Caproni, del resto, a dichiarare pubblicamente, e impegnativamente, la sua intima appartenenza a Genova: “Il punto di stazione da cui guardo Genova non è quello, scelto ad arte, del turista. E’ un punto di stazione che si trova dentro di me. Perché Genova l’ho tutta dentro. Anzi, Genova sono io. Sono io che sono “fatto” di Genova. Per questo, anche se sono nato a Livorno (altro porto, altra città mercantile) mi sento genovese. Per un uomo, si sa, la città che conta non è quella della fede di nascita. E’ la città dov’ha trascorso l’infanzia, dov’è cresciuto, dov’è andato a scuola, dove è andato a donne, dove s’ è innamorato e magari sposato: in breve, è la città dove s’è formato…” In questa sede, per ovvii motivi di spazio, devo restringere l’ attenzione ad alcuni momenti della presenza di Genova nella poesia di Caproni. Si veda la poesia “ Sirena”: “La mia città dagli amori in salita, Genova mia di mare tutta scale e, su dal porto, risucchi di vita viva fino a raggiungere il crinale di lamiera dei tetti (…) tralasciando, quindi, il resto della Liguria, e in
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particolar modo quella parte della Liguria di montagna (Gorreto, Rovegno-Loco, Fontanigorda, etc.) che lo vide giovane maestro elementare innamorato, alle prime prove con la grande poesia. A proposito di Genova città, si veda anche Stornello: …Le case così salde nei colori a fresco in piena aria, è dalle case tue che invano impara, sospese nella brezza salina, una fermezza la mia vita precaria. Genova mia di sasso. Iride. Aria. Forse una delle poesie più note di Caproni è L’ ascensore: …Quando mi sarò deciso d’andarci, in paradiso ci andrò con l’ascensore di Castelletto, nelle ore notturne, rubando un poco di tempo al mio riposo… ma sicuramente la sua composizione più originale, che di questa città, carica di storia e di bellezza e di virtù civiche, vorrebbe dire tutto, ma proprio tutto, è Litania. Qui Caproni si sfoga in un esercizio virtuosistico raffinatissimo sulla rima, come se si lanciasse in un frenetico assolo paganiniano al violino. La composizione, compresa nella raccolta Il passaggio d’Enea (1943 - 1955), si estende da pag. 180 a pag. 187 del volume “Tutte le poesie” dedicato da Garzanti Editore a Caproni nel 1983. La sua lunghezza mi costringe a selezionare alcuni versi, fidando nella comprensione degli amici lettori e sperando di cogliere i fiori più rappresentativi: “...Genova di ferro e aria , / mia lavagna, arenaria... Genova mia tradita, / rimorso di tutta la vita... Genova di solitudine, / straducole, ebrietudine... Genova grigia e celeste. / Ragazze. Bottiglie. Ceste... Genova tutta tetto / Macerie. Castelletto... Genova che mi struggi, / Intestini. Carruggi... Genova mercantile, / industriale. Civile... Genova tutta cantiere. / Bisagno. Belvedere... Genova di
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torri bianche. / Di lucri. Di palanche... Genova in salamoia, / acqua morta di noia... Genova nome barbaro. / Campana. Montale. Sbarbaro... Genova di sentina. / Di lavatoio. Latrina... Genova di petroliera, / struggimento, scogliera... Genova d’acquamarina, / aerea, turchina... Genova d’aglio e di rose, / di Pré, di Fontane Marose... Genova dell’Acquasola, / dolcissima, usignola... Genova viva e diletta, / salino, orto, spalletta... Genova di piovasco, / follìa, Paganini, Magnasco... Genova che non mi lascia. / Mia fidanzata. Bagascia... Genova illuminata, / notturna, umida, alzata... Genova di Sottoripa. / Emporio. Sesso. Stipa... Genova di Porta Soprana / d’angelo e di puttana... Genova che non si dice. / Di barche. Di vernice... Genova di Villa Quartara, / dove l’amore s’impara... Genova mia di Sturla, / che ancora nel sangue mi urla... Genova d’argento e stagno. / Di zanzara. Di scagno... Genova di magro fieno, / canile, Marassi, Staglieno... Genova bianca e a vela, / speranza, tenda, tela... Genova sempre umana, / presente, partigiana... Genova della mia Rina. / Valtrebbia. Aria fina... Genova sempre nuova. / Vita che si ritrova... Genova palpitante. / Mio cuore. Mio brillante... Genova dell’Acquaverde . / Mio padre che vi si perde... Genova di singhiozzi, / mia madre, Via Bernardo Strozzi... Genova di lamenti. / Enea. Bombardamenti... Genova disperata, / invano da me implorata... Genova di Livorno, / partenza senza ritorno... Genova di tutta la vita. / Mia litania infinita.” Ma Genova ha corrisposto a questo grande amore? Sì, e non solo concedendo al poeta la cittadinanza onoraria nel 1985, ma anche intitolandogli il Largo Giorgio Caproni, su al Righi, nel 1993, quindi a poca distanza dalla sua morte, avvenuta a Roma il 22 gennaio 1990. Caproni è tumulato nel piccolo cimitero di Loco di Rovegno, accanto alla adorata moglie Rosa Rettagliata (la Rina delle poesie). In occasione, poi, dell’apertura in città di un importante Convegno sulla sua poesia, è stato presentato in Comune, a Palazzo Tursi, il vo-
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lume “Frammenti di diario”, edito da Giorgio Devoto, che già nel 1986 aveva pubblicato un altro libro importante, Genova a Giorgio Caproni. In Frammenti di diario il poeta, povero maestro elementare al battesimo del volo e della “vita pubblica” ma intellettuale autentico e sincero, esprime tutta la sua amara delusione per la strumentalizzante (anche se allettante) politica del Partito Comunista di quegli anni nei confronti degli intellettuali e della cultura, in occasione di un viaggio nel 1948 a Wroclaw, in Polonia, per il “Congresso Mondiale della pace”. Ricordo, anche, che all’inizio del Duemila gli è stato dedicato dalla Regione Liguria un Parco Culturale, la cui sede, con la ricostruzione del suo studiolo e dei suoi “luoghi”, è stata offerta dal Santuario di Montebruno. Luigi De Rosa
Qui sotto: Domenico Defelice, Parziale veduta dell’ex Municipio di Anoia (RC), china, 1961
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Editoriale
DOBBIAMO SMETTERLA! di Domenico Defelice
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IAMO tutti Francesi! Dopo l’ennesima strage, l’ennesima masturbazione mentale, psicologica. No, non ci accontentiamo degli slogan, né del cordoglio apparentemente unanime per tacitare momentaneamente la nostra coscienza. La condivisione del dolore, non pone fine alla mattanza d’innocenti. Cordogli, cortei, solidarietà per le vittime, vicinanza ai popoli interessati, non sono - ripetiamo - che momentanee masturbazioni mentali. È avvenuto dopo l’undici settembre 2001, è avvenuto prima e dopo, tutte le volte che una strage ci ha svegliati dal nostro torpore e la commozione si è sempre evaporata subito, come spesso avviene per le nebbie mattutine. E non ci contentiamo neppure dei pacifisti a giorni alterni, dogmatici, che deplorano soltanto la guerra, ma non propongono alcuna soluzione. Via i sentimentalismi a intermittenza e spesso sfacciatamente ipocriti. Basta con gli anatemi, le minace roboanti, gli slogan infiniti degli “stranieri a casa pro-
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pria”. Occorrono i fatti. E i fatti che bisogna fare in fretta non è l’armarsi e partire, non è lo scaricare tonnellate di bombe, che uccidono raramente i responsabili, i colpevoli, ma macellano sempre popolazioni inermi, donne e bambini innocenti. I fatti sono assai pochi, urgenti e categorici. Dobbiamo smetterla di vendere armi. Anzi: dobbiamo smetterla di costruirle. Dobbiamo smetterla di fare i gendarmi. L’Italia è il principale Paese europeo per militari sparsi nel mondo. I militari se ne stiano a casa propria: gli Americani in America, i Francesi in Francia, gli Inglesi in Inghilterra, i Russi in Russia, gli Italiani in Italia. Al massimo, l’aiuto va donato su richiesta, non andandoci di proposito, solo pensando che così si fa del bene, rovesciando governi, sconvolgendo costumi e, tradizioni e sotto sotto - ma a volte anche scopertamente -, agendo su comando, a favore di lobby dai colletti bianchissimi e da mani e denti grondanti sangue invocante vendetta. Dobbiamo smetterla col voler abbattere i dittatori grandi e piccoli, per poi crearne o farne crescere di nuovi e forse peggiori. Ad abbatterli siano gli stessi popoli, gli unici deputati a fare rivoluzioni che possano arrecare un qualche frutto duraturo e più umano. Dobbiamo smetterla di dire che siamo in guerra con i terroristi. Si può essere in guerra tra Stati che hanno un territorio, non tra uno Stato e bande di assassini. Dire che siamo in guerra, è dare a costoro valore di Stato. Vigilare, lottare per annientarli non significa scatenare una guerra. Dobbiamo smetterla di esportare la democrazia (e, poi, la nostra, superlativamente corrotta e violenta!). La vera democrazia non si esporta, non è una merce di scambio; essa deve sorgere dalla mente e dalla coscienza degli uomini, non dalla imposizione, dalla forza. La vera democrazia non è fiore sgargiante e conturbante, ma delicato e la sua forza è la moderazione. Democrazia non significa totale libertà.
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“Il massimo della sicurezza è in effetti garantito dalle dittature come la Russia di Stalin e la Germania di Hitler - scrive Carlo Nordio su Il Messaggero - che controllavano tutto e tutti. Il massimo della libertà, di converso, coincide con l’anarchia, dove ognuno fa quello che vuole.” Dobbiamo smetterla di volere imporre le nostre idee, i nostri usi, i nostri costumi, le nostre tradizioni. Costumi, usi e tradizioni sono frutto di stratificazioni millenarie ed è giusto che siano particolari per ogni popolo. Non si può livellare il mondo, renderlo orrendamente piatto e artificiale. Dobbiamo smetterla di volere imporre il nostro tenore di vita, che non è né il migliore, né il più ideale. Dobbiamo smetterla di voler imporre la nostra fede, il nostro credo. Dobbiamo smetterla di accarezzare serpi con l’idea manifesta o tacita di utilizzarli contro l’avversario di turno. Dobbiamo smetterla di essere ipocriti. Pomezia, 15 novembre 2015 PACE, FRATELLI! “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. John F. Kennedy Sono simile a te, fratello negro e tu sei come me, fratello giallo; sono simili a noi l’albero, il cane... Lasciamo che le bocche dei cannoni siano nidi agli uccelli e l’armi non più la morte rechino, ma canti di nuove vite e frulli d’ali. Pace, pace, fratelli! Sogni d’angeli avremo questa notte se il nostro cuore è puro; niente puntelli: sarà l’amore a guardia delle porte. Domenico Defelice Da Canti d’amore dell’uomo feroce, Ed. Pomezia-Notizie, 1977. Immagine a pag. 5: Domenico Defelice: “Le favole hanno occhi di pietra”, china, 1961.
Pag.6 “ I nostri alberi “.
Lirica dedicata unicamente al Direttore Domenico Defelice, scritta per encomiare il Suo libro, tutto naturalistico, dal titolo Alberi? I Suoi alberi li ho accostati ai miei, tratti dal mio libro di poesie, pubblicato dalla Casa Editrice EVA di Venafro, dal titolo Dalle radici alle foglie alla Poesia, e ne è venuta fuori un’unica lirica che è quella seguente. Nei nostri alberi scorre una linfa notturna, sangue di luna che si liquefa solo nelle vene dei poeti che in ogni albero vedono sé stessi. Vedono nei tronchi corpi di San Sebastiano trafitto per amore da stagioni che lo hanno fatto diventare santo sotto Diocleziano, perché gli alberi sono soldati destinati a combattere ogni giorno. I nostri alberi si assomigliano e si riprendono al sole, hanno bisogno delle nostre parole per entrare in ogni poesia come una stanza da riempire di foglie, di terra, di malinconia, perché l’estate è un soffio e i nostri alberi lo sanno. Sanno che li abbiamo amati e li amiamo ancora, altri libri riusciremo fare su di loro se la luna ci accompagna col suo sangue che in noi scorre. Abbiamo innaffiato i nostri sogni e sono nate altre forme di foglie, tu hai una quercia è vero, io soltanto radici nascoste eppure abbiamo celebrato così tanto – ma mai abbastanza – i nostri carissimi amici Alberi! Autrice Isabella Michela Affinito Fiuggi
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Un’originale lettura dei dipinti di
ORLANDO SORA NEL NUOVO LIBRO DI
GIOVANNA ROTONDO di Giuseppe Leone
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MAGGIO a Orlando Sora. Artista del Novecento è il titolo del volume che Giovanna Rotondo ha pubblicato in questi giorni con La vita felice, il secondo con la casa editrice milanese. Dopo Non è
colpa di Pandora edito allo scadere del 2014, un racconto-saggio su un percorso di terapia di gruppo per i famigliari dei pazienti in trattamento per sostanze che creano dipendenze, la scrittrice lecchese torna a far parlare di sé, raccontandoci della sua attività di modella nello studio dell’artista Orlando Sora a Lecco. Si tratta di “un’affettuosa rievocazione” del pittore di origini marchigiane giunto nella cittadina lariana all’inizio degli anni Trenta, in 162 pagine, che raccolgono, seguite o precedute da un commento dell’autrice, un’ ottantina circa di dipinti fra nudi, studi, schizzi e disegni, opere giovanili, affreschi, composi-
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zioni, paesaggi, quasi tutti, ad eccezione di quelli dei suoi esordi, scelti “con l’ausilio della memoria e degli avvenimenti di quel periodo che va dalla fine degli anni Cinquanta all’inizio degli anni Settanta. Che cosa sia, o meglio, che cosa voglia essere questo libro, lo precisa la scrittrice stessa già nella premessa, affermando che non vuole essere un catalogo. E in effetti, il volume che, per le dimensioni e la prima di copertina recante una delle due composizioni della Fanciulla con l’ombrellino, sembrerebbe rimandare proprio alla forma di un catalogo, risulta essere tutt’altra cosa. Basta leggere in prefazione che il testo è una testimonianza preziosa che getta una nuova luce sull’opera di Sora, per intuire che il suo andamento muove nella direzione ora del racconto ora del saggio. Cosa che non è di poco conto a proposito di un’autrice che intende l’arte dello scrivere come percorso di conoscenza e di presa di coscienza progressiva. Come in questo libro, dove lei parla e scrive in nome della sua esperienza di modella e non come una storica dell’arte. Non può che avvantaggiarsene la sua scrittura sempre fresca e immediata e la sua ricerca, anch’essa spontanea e istintiva fino a rovesciare il tavolo della tradizione. Ne deriva che è lei, la modella, a ritrarre Orlando Sora. Lo descrive “magro tuttavia possente, con un viso che sembrava scolpito nella pie-
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tra, capelli ricci e neri con qualche filo grigio, occhi scuri e penetranti” (19-20); e non solo, lo ritrae anche mentre è all’opera: “Lui dipingeva assorto, indietreggiando spesso dalla tela per osservare con occhi socchiusi la composizione… continuava a mescolare i colori sulla tavolozza e a dipingere con i gesti di sempre, se qualcuno gli avesse parlato, l’ avrebbe guardato con occhi assenti” (19); per terminare, infine, con un profilo intorno alla sua moralità di artista onesto e sincero, oltre che di marito fedele e padre affettuoso. Omaggio a Orlando Sora è, allora, un libro col quale la scrittrice rivisita, modificandoli, il ruolo e la funzione della modella nell’ arte figurativa. Ignorata per secoli e, quando non è stata ignorata, sinonimo di prostituta, la modella acquista ora un volto, e con esso una nuova identità che rivela quanto la sua presenza pesi nell’economia dell’ispirazione dell’artista. Per cui, è vero quello che scrive Gianfranco Scotti nella sua perfetta e illuminante prefazione: che “il racconto ci restituisce la figura di Orlando Sora, la sua carica umana, le sue debolezze, le sue convinzioni e le sue ostinazioni” (9); e che l’autrice, “affascinata dalla personalità dell’uomo e dell’artista… è riuscita ad avvicinarsi alla pittura, a comprenderne la forza e la bellezza, a impossessarsi dei linguaggi dell’arte, ad amarla nelle sue infinite declinazioni”; ma è altrettanto vero che la Rotondo, con la sua testimonianza di modella, faccia arrivare al lettore, in egual misura che il pittore con i suoi quadri, l’ immagine nitida e limpida di sé come donna e come scrittrice, facendo presto diventare questo suo libro “un medaglione di letteratura che incastona due biografie”. Sì una biografia di Sora, questo Omaggio, ma anche un’autobiografia della Rotondo, perché l’autrice, mentre passa in rassegna la galleria dei quadri dell’artista “per raccontarci una storia, per metterci a parte delle sue sensazioni al momento dell’esecuzione, per rivelarci che cosa il pittore pensava delle sue opere, perché ne amava alcune e ne trascurava altre” (10), trova anche il modo per inserire al-
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tre sue personali riflessioni, tra cui, il dubbio se lui amasse sempre le donne che erano le sue modelle o posavano per lui (21); se l’ opera d’arte figurativa sia ispirata dall’artista o dal soggetto che si fa dipingere; se quando l’artista dipinge, esprime ciò che vede o si lascia guidare dalle sue sensazioni; o se, apparendo serena e sorridente in un dipinto e in un altro turbata e confusa, ciò è dovuto a come è lei in quel momento o è influenzato da ciò che avverte dentro di sé (33). Tutte domande che, se da un lato offrono spunti per un approfondimento dell’opera di Sora, dall’altro – ripetiamolo - gettano luce sulla personalità di una modella che sa interagire con l’artista per il quale posa, che vive con lui “in grande empatia” e col quale “si trasmettevano le reciproche sensazioni senza raccontarsele” (29); che non si stanca mai di porre altri interrogativi a lui e a se stessa: “perché non dipingi i fiori più spesso?” (73), “come mai ti chiamano maestro?” (77), “come fai a dipingere l’espressione delle persone?” (83), “perché eviti di far vedere le tue composizioni?” (105). Dunque, una scrittrice vera, Giovanna Rotondo, autentica anche in questa sua recente pubblicazione che non manca di riconfermare quanto di nuovo e di personale aveva già fatto notare in Non è colpa di Pandora, dove già salde apparivano le strutture portanti della sua letteratura: uno stile impersonale capace di narrare dall’interno l’argomento dell’opera e una scrittura come esperienza e trama del vissuto. Giuseppe Leone Giovanna Rotondo - Omaggio a Orlando Sora. Artista del Novecento - La vita felice, Milano, 2015, pp. 162. € 20,00
OMAGGIO MADRE La madre giammai tiene pena per se stessa. Il suo tempo è infinito e ogni momento di sonno è un pezzo di paradiso. Teresinka Pereira USA, Trad. Tito Cauchi (Italia)
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ECHI E SUSSURRI di GIORGINA BUSCA GERNETTI di Marco Onofrio IORGINA Busca Gernetti è una “sognatrice dell’essere”; ma non si perita di appartenere anche al divenire, scandagliando le profondità nascoste dalla maschera apparente. Cerca l’eterno nel tempo, e questo è il movimento del suo sguardo: inseguendo la chioma della sua stella, affonda gli occhi in cielo e scopre l’iridescente complessità che innerva ogni atomo del mondo. Le materie e le energie innumerevoli della totalità – orizzonte sempre irraggiungibile – vengono da lei articolate sotto forma di scansione puntuale dei singoli portati, cioè di analisi infinitesime delle sfumature, di appercezione dei passaggi nevralgici, di lettura delle soglie critiche, e così ricondotte – attraverso le innumerevoli stratificazioni dello sguardo – ad essere poesia, nella condensazione eidetica ed epistemica dell’esperienza che il percorso delle sessantaquattro composizioni qui raccolte svolge e racchiude, a mo’ di sintesi
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esemplare. Il segnacolo di questo percorso è già nel titolo. Gli echi ci introducono al cosmo dell’ “eterno ritorno”, ovvero a un’idea fondamentale di immutabilità ciclica nell’ impermanenza. C’è un residuo ontologico al fondo del perenne divenire, per cui «tutto scorre come un fiume», ma ciò che è accaduto è incancellabile (neanche Dio può far sì che non sia accaduto): resta e ritorna per sempre. I sussurri alludono alla vocazione linguistica (tra lo svelarsi semiotico e il ritrarsi simbolico) del reale, per cui tutto comunica incessantemente, liberando l’essenza del proprio essere ed emettendo il segnale della sua presenza, nella conferma temporale dello spazio. Il vento, ad esempio, è «affabulante», racconta le fatiche degli uomini, la sofferenza eterna della vita. E le stelle sono «trama di miti / intessuta d’ eterno»: linguaggio cifrato di «segni arcani» che «effondono una casta / ineffabile quiete» e, insieme, un brivido di orrore. Il presupposto della poesia è la disposizione all’ascolto. Occorre raggiungere il silenzio, cioè staccarsi dalle sovrastrutture, gli inganni, le false voci dell’io. Svuotarsi delle interferenze. Trasformarsi in «orecchi che ascoltano», come scrive Rilke citato in apertura di libro: solo così è possibile ritrovare la «traccia infinita» del «Dio perduto». Il silenzio, in realtà, è pieno di magie segrete da sfogliare come infiorescenze, «voci impercettibili», brividi, fremiti, riverberi. Il silenzio parla e sussurra con le «mute vibrazioni del tempo» che il poeta percepisce e raccoglie, iniettandole dentro le parole. Ecco perché il percorso poetico nasce dalla notte (“Fiori della notte” si intitola la prima sezione) intesa come spoliazione, sprofondamento, varco per raggiungere l’essenza. La notte è sacra, è madre, è amica. La poetessa aspira ad annullarsi nel suo alveo originario, in guisa di regressione uterina: «Accoglimi nel seno / del tuo corpo materno, sacra notte». La notte, inoltre, è un simbolo spirituale che esprime, suggestivamente, un’ascesa dentro la discesa: occorre affrontare e attraversare l’ombra per placare le «tenebre dell’anima», poiché «solo nel
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buio» può spalancarsi la radura luminosa dell’essenza. È nel buio, peraltro, che «germina il seme»: «la gemma nel buio / la vita dalla morte attende». Impossibile rinascere, se prima non si è disposti a morire. Giacché la realtà è impastata di metamorfosi, è un caleidoscopio di energie impegnate nella trasmutazione eterna della materia. La “machina” del divenire è come la bocca di un’ immensa impastatrice che tutto rimescola incessantemente: «Tutto trascorre dalla vita a morte / da morte a vita forse in altra forma» in un ritmo cosmico di «vita e morte, rinascita e ancor morte», come il ciclo delle stagioni. Al centro di questa metamorfosi c’è il Logos, il plesso nodale che raccorda le energie e il raggio multiverso delle loro direzioni. È la divina necessità: «la mole / che grava sulle cose», le regge da dentro e le fa andare come devono. La stessa forza per cui nella clessidra i «granelli di sabbia non si fermano. / Non c’è parola magica / per interrompere quel flusso tragico / della vita che fugge inesorabile». Lo sguardo del poeta funge da raccordo olistico tra le figure del nascente che sorgono («tenera foglia danzante nel vento»; «parola che sboccia»; «vibrante a nuova vita») e quelle moriture che scompaiono («Si sta spegnendo quella luce fioca»; «eco vanescente»): le ricompone in superiore armonia dialettica, oltre il conflitto dei loro contrari. È questa la dimensione creativa che spinge Giorgina Busca Gernetti al confronto ineludibile con il rischio dell’Aperto (ἄπειρον) senza
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appigli, e quindi anzitutto col pensiero della morte (il pensiero dei pensieri) che tutto azzera, ogni cosa riconducendo alla verità. Ecco allora l’effimero dei giorni come sogni, o bolle inconsistenti di sapone, e la vita brevis, la «lotta del vivere» e lo sforzo «vano». Ecco la consapevolezza di essere «un nulla» nel tutto «immenso e vago» che fugge «verso un baratro oscuro, un nero abisso. // Abisso che sprofonda in un abisso». Ed ecco il «vuoto amaro», il «carcere / d’amarezza», l’«abisso dell’ animo straziato» che opprime l’uomo solo: solo perché incapace di scendere a patti con le ipocrisie e le maschere del vivere sociale; solo, come visse e morì Cesare Pavese. Eppure la vita «trova un varco tra gli ostacoli / più avversi». Non tutto è perduto! Scrive Rilke nei Sonetti a Orfeo che le immagini della realtà e ogni minima cosa esistente, in qualunque momento del tempo, appartengono «al Tutto, al radioso disegno». Quali sassi opporre al Vuoto per circoscrivere lo spazio umano del focolare? Anzitutto l’amore, il talismano che dà senso e sapore all’esistenza: «Buia è la vita senza amore, è vuota / come guscio, in inverno, di cicala». Il calore e la dolcezza dei sentimenti («anni di baci e tenere carezze») proteggono il cuore dalla minaccia del gelo cosmico, che incombe per legge di entropia. C’è poi il conforto delle ricordanze: «Memorie mie, ombre vaghe dei sogni, / tornate ad affollare questo vuoto, / (…) tornate a me, fermatevi: / in voi la salda mano che m’afferra, / la sola dolce voce che mi salva / dal baratro, dal buio / del mio silenzio eterno». Affondare il cuore nella memoria significa sublimare la perdita di ciò che pure è ormai inafferrabile, per ritrovarlo magicamente “salvo” nel dominio struggente del canto; i versi, così – rinnovando l’illusione di un tempo inalterato – sciolgono i lacci del distacco “retorico” e si effondono, con trasporto intimistico e sincero, sotto forma di confessione privata, ovvero dolente catarsi elegiaca. Così è, ad esempio, per le bestiole perdute dell’ infanzia: il boxer Artù, il topolino Francis, e soprattutto il canarino Lillo: «Ti ho sentito cantare come prima / della tua amara morte
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(…) / Lillino mio adorato, torna ancora / nei miei sogni, ti prego, canta e vola! / (…) il dolce tuo piccolo corpo / che solo immobile ho potuto stringere / tra le mie mani, freddo e senza vita. / Solo allora ho baciato cento volte / la tua soffice, amata “palla gialla”. / Ritorna Lillo! Torna nei miei sogni!». Dove, peraltro, ha modo obliquamente di rinnovarsi la mitologia orfica della Ποίησις come termine ideale che, nel suo oggetto, «solo immobile» (cioè soltanto come “forma” estratta dalla “vita”) è possibile raggiungere e afferrare: Orfeo ha bisogno di perdere Euridice, voltandosi a guardarla, per averla – finalmente sicura e ferma – nell’eternità. Affidarsi a cose che non ci sono più come ad appigli di «salda mano» significa porre su fondamenti invisibili la realtà più autentica del proprio tracciato evolutivo e, in questo, corrispondere alla propria vocazione poetica costitutiva. Il muro della memoria viene percorso a ritroso, perlustrato in ogni andito e addirittura oltrepassato, fino a sfiorare il riflesso del suo coté “metafisico”: ed ecco il ricordo senza tempo della condizione prenatale, la nostalgia della pienezza perduta, astratta in quintessenza, nella deriva di una «musica celeste / ignota alla mia mente, ormai lontana / dall’assordante musica terrena». E c’è poi, al pari del ricordo, il rifugio del sogno, dove accade l’ignoto, la misteriosa apertura del segno che si svela. La condizione umana si definisce nel dubbio “amletico” «Vita o esistenza?». Usare la cultura per trasfigurare la propria natura evolutiva, completando l’opera di Dio, ma con ciò stesso aprire i canali energetici a una sensibilità più acuta, vasta e dolorosa; oppure accettare di essere “sereni” in quanto più vicini all’animale? Vengono subito in mente luoghi celebri della nostra cultura, come il «fatti non foste» della Commedia (Inf. XXVI) o la natura umana indeterminata e libera di cui argomenta Giovanni Pico della Mirandola (De hominis dignitate, 18-23). Ugualmente e profondamente umani sono sia lo slancio evolutivo verso l’ignoto, proteso alla maggiore conoscenza; sia la tentazione dell’oblio, il biso-
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gno di perdere i confini e confondersi con le cose. Ecco, da un lato, l’ansia metafisica che induce il poeta a bramare il vertice, come attratto da turbini svettanti di ascensione, per cui l’anima che anela all’infinito è «albatro puro assetato d’azzurro», e si dibatte nel carcere della materia, e sente la terra non come patria ma doloroso esilio dal cielo, e chiede all’Angelo di liberarla dai lacci dell’angoscia, di spezzare le catene, di farla vagare libera «oltre le bianche nuvole» per raggiungere la pienezza della verità; dall’altro, con movimento opposto e complementare, il cupio dissolvi dove tuffare l’immensa stanchezza di esistere e resistere («Dormire a lungo. Forse un sonno eterno / piuttosto di una scheggia d’atra vita») fino ad abbracciare la smemorante quiete del non essere: «la pace io attendo, / il Nulla, piuttosto, nell’Oltre, / purché svanisca quest’atra amarezza, / quest’ angoscia che l’anima tormenta». Sono qui i nutrimenti simbolici – ovvero il retroterra percettivo e gnoseologico – da cui sgorgano certe composizioni intessute di ricerca conoscitiva, di scavo infinitesimo, di struggente chiarificazione autologica. La lirica di Giorgina Busca Gernetti ha incisa, negli apici del suo “entusiasmo” panico e del suo ardore creativo, una radice “epica”, di apertura cosmica e meditazione metafisica, che utilizza la parola per consentire alle cose di manifestarsi, di incarnarsi in suono. Il mondo appare alle parole in ragione della loro capacità di circoscrivere “un” mondo, anzi: di farsi mondo. Ecco ad esempio, particolarmente riuscita, una rappresentazione ritmica e fonosimbolica del fiume: «Scorre lento il mio fiume tra i piloni / del ponte che due terre opposte unisce / mentre l’acqua le scinde e le lambisce / con lutulenta e grigia acqua fluente». O la pittura viva e benigna del mare: «turchino, azzurro, smeraldino / lamella calmo nell’aurata luce. / Indaco vivo segna l’ orizzonte / dove il cielo s’inarca e bacia l’ onda». O il farsi di un tramonto sullo Jonio: «Ma fu il tramonto. Il mare s’imbruniva / sempre più rapido verso il crepuscolo (…) / Il buio invase la distesa equorea / la rena scura e
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fredda, la scogliera / ormai invisibili». Le cose salgono vivide dalla pagina poiché distillate dopo lunga macerazione e raccolte nel pieno della loro maturità. A un certo punto è possibile leggere una metafora della condizione del poeta nella figura del pescatore ligure assetato davanti al mare: «Arde la gola di sete nel vento / che gonfia le vele su strade azzurre». Le «strade azzurre» sono le infinite rotte percorribili nell’oceano dell’Essere: il pescatore, uso di mare e temprato dalle tempeste, non si lascia paralizzare dall’enigma del possibile, né scoraggiare dal vento che brucia, ma impara proprio dai rovesci a bere e assaporare il «vino d’oro», cioè la quintessenza della vita. La poesia, anzi, è specchio della vita e della memoria: come il vento, che «non è soffio solamente, / ma spirito vivente che riecheggia / ciò che ascolta nel suo vagare intrepido». Si scrive per vivere: la poesia è una delle forme più alte e autentiche di vivere l’esistenza. Giorgina Busca Gernetti interpreta un tipo di canto che raggiunge la potenza delle sue visioni attingendole da una sorgente arcana e profonda, dimorante nei pressi dell’Essere, oltre la soglia dei sentieri fallaci, il rumore delle chiacchiere, la crosta delle inutili apparenze. Sfondare la superficie significa addentrarsi nel regno polisemico della complessità, senza dirimerne le aporie o fugarne le ambivalenze. Cade per conseguenza la barriera divisoria tra dentro e fuori, ricordo e sogno, soggetto e mondo. È allora che, da lì in poi, si esplora il buio. Si affrontano baratri. Si percepiscono misteri. Si raccolgono sgomenti. Il fuoco mentale è uno specchio interiore che rende traslucido lo sguardo e dona la forza di sfiorare corde profondissime, per musiche sublimi. Le cose “ascendono” nel canto del poeta, sorgono nel suono illuminate. In questo libro si celebra ampiamente la potenza trasfigurante del canto, che il poeta non inventa a capriccio, ma raccoglie dal cuore stesso delle cose, e ascolta, e trascrive con fedeltà necessaria, come sotto dettatura, impossibilitato a fare altrimenti. La musica «nasce nell’animo» come un «soffio divino» che
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«sfiora labbra ridenti». Il poeta deve abbandonarsi confidente al cuore delle cose, se vuole che esse gli porgano il cuore – per confidenza, per sovrabbondanza di energie. Chi rimane chiuso nella gabbia gelida dell’ intelletto resta ognora precluso ai doni della rivelazione. Ecco prevalere il cupio dissolvi sullo slancio metafisico (o forse coincidere entrambi in unica tensione?), da cui il bisogno irrefrenabile di con-fondersi ai colori (quelli del cielo e del mare: «nell’azzurro / e nell’ indaco puro m’abbandono»; o quello vegetale della terra: «Nel verde la mia anima s’ immerge / e s’annulla in un magico naufragio»), di unirsi all’abbraccio del mare «m’annullo, mi trasformo / quasi marina creatura io fossi / per la divina equorea metamorfosi»), di «dimenticare tutto» nella luce dell’Acropoli di Atene. Si avverte l’amore sconfinato che Giorgina Busca Gernetti, forse a contrappeso dell’ origine padana, nutre per la dimensione geografica e storica del Mediterraneo. Natura e cultura in accordo di “echi”, racchiuse e oltrepassate nella superiore sintesi umana. Ecco il vento, il sole, l’acqua (elemento primordiale, «grembo materno», origine «fremente di forza / vitale»), e la bellezza sublime del mare, dove l’anima «si ridesta / alla serenità, alla dolcezza» e il cielo benigno «sorride e avvolge il mondo»; e allora il «meriggio dell’ Ellade assolata», l’ora divina e panica delle apparizioni, e l’infinita solitudine di Capo Sounion, già cantato da Byron; e la Grecia del Mito – Corinto, Micene, Olimpia – che ha posto le pietre angolari dell’Occidente, con il fascino dell’antichità, lo splendore dei secoli, le rovine che parlano al tempo di memento mori («ogni pietra (…) / mi ammonisce / che tutto ha fine, tutto divien polvere») significando la loro eternità («La sacra Olimpia (…) / è solo bianca polvere che il vento / nel silenzio disperde. // Ma nel silenzio echeggiano parole / eterne»). L’attrazione per il mondo classico non è solo questione di gusto, di educazione estetica, ma obbedisce a un impulso etico fondamentale: la ricerca della pace, dell’armonia, del “ri-
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torno a casa” («Vorrei avere anch’io una mia Itaca») alla fine della deriva «verso oscuro abisso», laddove invece esistere è «vagare senza rotta certa». E allora «dimenticare la disarmonia / (…) abbandonarmi / e perdermi nel favoloso Mito» che non è qualcosa di remoto e irrecuperabile, ma un nucleo «palpitante» poiché eternamente vivo dentro noi. C’è un movimento doppio e talvolta simultaneo, sul “nastro trasportatore” della percezione poetica: se il presente sprofonda fino alle scaturigini del mito, il mito può a sua volta emergere dal presente, attualizzandosi nell’ attimo del suo manifestarsi. Come quando l’ autrice si sente chiamare tra la folla della Plaka ad Atene: «Giorgina, vieni! Sono Menelao». C’è un sospiro nostalgico senza tempo all’origine del porsi sospeso di questa scrittura, in equilibrio precario tra incanto e disincanto. Gli echi e i sussurri del mondo con cui si entra in risonanza conducono alla «quiete assorta» del presagio, a un “allarme” di stupefazione. Emergono irradiazioni oniriche, figure, epifanie, «sagome traslucide», attraverso cui ha modo di apparire il «colore del sogno», la «mistica parvenza», «l’incanto di magico oblio», l’«estatica felicità». La percezione oscilla tra l’«eco del ricordo» e il «sogno del presente», entrambe le dimensioni trasumananti, apportatrici di gioia e profondità. Ma la luce apollinea è turbata dall’inquietudine delle «voci difformi»: l’«arcana armonia» è tanto più efficace e convincente quanto maggiore è la lotta sostenuta per con-tenere la dialettica degli opposti (la vera cultura classica nasce dall’agonismo). Niente potrebbe rivelarsi, tuttavia, se l’ autrice non confidasse nella natura orfica della poesia, ovvero nella capacità da parte del poeta-seduttore di cogliere la pulsione musicale delle cose, per cui le cose – ascoltandole con passione – sciolgono spontaneamente (come i capelli una donna, prima di fare l’ amore) il loro “canto”, il suono metafisico che ne traduce la presenza e ne diffonde ovunque l’energia. Ecco dunque l’«arcana musica» degli astri, l’«aria-sinfonia» della luce atmosferica, l’«arpeggiare melodioso» del
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vento sul mare, il «lento / ritmato salmodiare» delle onde sul bagnasciuga, lo sciacquio che mormora «parole dolci-amare», e la «musica serenante» delle spighe «ondeggianti nel vento carezzevole», e i campi di papaveri «squillanti». Il tempo che tutto divora e che di ogni cosa cancella anche le tracce, non può e non deve impedire il godimento della bellezza, della vita nella pienezza dei suoi aspetti buoni e dolci (pur fra tanti calici amari), poiché spetta anzitutto alla bellezza, da ultimo, vincere la morte. Il tempo impera tiranno su ogni cosa dell’universo, eppure – con tutto ciò – non è in grado di «spegnere / la voce del poeta». Non a caso il libro si conclude con una sezione interamente dedicata alla celebrazione del potere orfico della parola, l’ «eterno canto di Orfeo», musica dolcissima e profonda, poesia d’amore e morte, che avvince la natura e vince il tempo: «Ovunque è poesia. Ovunque guardi / con animo commosso ed occhio attento / (…) // Orfeo risorto, non mai morto Orfeo. / Perenne il canto suo nella natura, / nel cielo, nelle stelle, nella luna / (…) Ovunque è poesia. Eterno è Orfeo». Orfeo è simbolo di consonanza e intersezione dell’uomo nel cosmo, poiché mette in equilibrio natura e cultura: la natura canta dal momento che il poeta canta, ovvero gli consente di cantare giacché lui a sua volta gliene dà modo. Credere in Orfeo significa mettere in gioco “tutta la natura” insieme a “tutta la cultura”: per questo l’autrice, che tende alla coltissima naturalezza del suo particolare «dolce stile eterno» (vale a dire alla quintessenza del linguaggio poetico italiano) può permettersi, senza stonare, cultismi e arcaismi come [iemale] [germine] [lungi] [dianzi] [atra] [rubescenti] [virenti] [sacerrimo] [pelago], e varie forme apocopate di parole più comuni; non si tratta di veli esornativi, né tanto meno di ostentazioni professorali, quanto piuttosto di attributi storici di precisione, utili ad armare e rendere saporosa, prensile e sempre aderente, una lingua priva di impacci, che procede diritta allo scopo, nulla al ver detraendo, dove sembrano ricapitolarsi e rivivere secoli di sto-
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ria e di cultura. Il respiro naturale di tale dimensione poetica è – verrebbe da dire “ovviamente” – l’endecasillabo, sia pur giocato sulle pause d’interpunzione e sulle spezzature sintattiche, e alternato ad altri versi funzionali. Il retroterra “classico” e “letterario” (con gli infiniti echi di letture assimilate) non soffoca il vitalismo innato della voce poetica, con la sua impronta inconfondibile, ma anzi la fortifica, dandole corpo e peso di memoria, attraverso un ritmo interiore che solidifica l’ apertura in fondamento. L’armonia finale non è un guscio prezioso sovrapposto da fuori, ma il frutto organico di una conquista umana, esercitata nell’arduo tirocinio dello stile. Con questo libro di classico nitore, intriso di umori romantici distillati e plasmato al fuoco liquido di una passione purissima, Giorgina Busca Gernetti propone un itinerario poetico dirompente e felicemente inattuale, nella misura in cui non rinuncia a priori alla dicibilità del mondo, alla fede nella parola, alla possibilità di affrontare con efficacia, lasciando una traccia, i temi più importanti. Ed essere inattuali, in tempi di insulso minimalismo, è forse quanto di meglio possa augurarsi oggi un poeta. Marco Onofrio Prefazione a: Giorgina Busca Gernetti, Echi e sussurri, Polistampa, collana Sagittaria, Firenze 2015, pp. 120, € 10
CARE IMMAGINI Oscilla veloce con nostalgica premura la bramosia del sapere … viaggiano sui binari i dotti ricercando un passato intenso di parole. Care immagini nel vortice di una danza inducono a sperare un’indomabile ambizione. Mentre scorrono ai fianchi della vita paesaggi ridondanti di natura
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accattivante melodia si erge sull’orizzonte del finire di un giorno che attende la sera. Insonni nella notte carezzevoli lemmi accompagnano le grazie di un sogno vestito di versi tra le pieghe del tempo un sopito sospiro si risveglia e travolge come fiume in piena brandelli di un’amara esistenza povera d’amore … ricca di poesia. Lorella Borgiani Ardea (RM)
TRA L’ERBA PRIMA Tra l’erba prima l’inizio ebbe il vanto di tenerci fuori del tempo. E già l’amore era sovrano. Ora accompagno la tua solitudine per riempire il baratro che incombe. Mano nella mano uniamo i passi nel poco che resta. Nella finzione leggeri mentre le cellule gravide hanno breve respiro. Laura Pierdicchi Dalla raccolta inedita OLTRE.
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 7/11/2015 Finora, abbiamo solo avvelenato le campagne con intrugli vari e pesticidi; ora, però, finalmente, grazie a una direttiva europea, abbiamo un ottimo rimedio per la lotta agli insetti - Alleluia! Alleluia! -: mangiarceli nel piatto, ben salati e conditi! Domenico Defelice
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SALVATORE PORCU L’UOMO E IL SOCIOLOGO DALLE CENTO BATTAGLIE di Domenico Defelice
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N volume nel quale il nostro mensile primeggia in citazioni: almeno una trentina di volte, segno di quanto spazio Pomezia-Notizie abbia dato a Salvatore Porcu e a tanti altri personaggi che hanno avuto con lui contatti o sostenuto vere battaglie. Ed è su Pomezia-Notizie che lo stesso
Cauchi, autore del saggio, legge di Salvatore Porcu prima di avere la fortuna di conoscerlo di persona e godere, poi, per anni, della sua
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inestimabile amicizia. Un giorno si dovrà pur scrivere la storia di questo nostro mensile, nato come testata locale e poi assurto a rivista internazionale, perché conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo e sul quale sono apparse in gran numero firme importanti. Il sociologo Salvatore Porcu, studioso attento di problemi umani ed esistenziali, quali la politica, la religione, la lingua, la disoccupazione, l’omosessualità, l’aborto, ha pubblicato con noi articoli che hanno avuto rinomanza, reazioni pro e contro, ma sempre improntati alla massima onestà, perché assolutamente oneste sono state la sua esistenza e le sue indagini e, quindi, ogni suo comportamento: “la sua - scrive Cauchi - era sempre una posizione chiara e netta, di una persona incorruttibile, senza vie di mezzo”). Uno studioso a tutto tondo, che ha fondato e diretto periodici
- come l’Ordinismo, per ben 20 anni - e collaborato a centinaia di testate, insistendo su autentici suoi chiodi fissi fino a farli diventare autentiche istituzioni: l’Unione di Convergenza Universale, la Fratellanza dei Popoli, il governo Mondiale, il Comisalv, il Comincontrol e la lotta estrema tra il Bene e il Male. Cauchi incontra, un bel giorno, personalmente Salvatore Porcu e questa conoscenza diretta, tra lui, il sociologo e la moglie Signora Lina, si trasforma subito in autentica fratellanza: “le visite si intensificano - racconta fino a cadenzarsi a un giorno stabilito a settimana (il sabato)”, sicché lo studioso sardo, quasi centenario, decide di donare al nuovo amico tutti i suoi faldoni contenenti scritti vari, libri, riviste, appunti, lettere: una autentica miniera che Cauchi, lavorando notte e giorno per anni, ha ordinato e catalogato. Ed è da
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questo pozzo che ora ha ricavato questo Salvatore Porcu Vita, Opere, Polemiche, strutturato in tre parti e in 20 capitoli complessivi. Essendo lavoro collettaneo, qualunque tipo di organizzazione può essere opinabile. Pur mantenendo quasi in toto la struttura data da Cauchi e la stessa cronologia, al posto suo, noi avremmo collocato all’inizio i nostri scritti riguardanti l’autore sardo, cucendoli l’un l’ altro e ponendoli dopo le notizie biografiche in modo da ricavarne un vero e proprio saggio; poi avremmo fatto seguire l’antologia e senza altri ulteriori nostri interventi. Salvatore Porcu muore a Nettuno il 2 gennaio 2005 a quasi 99 anni (era nato il 23 gennaio 1906 a Gonnosfanadiga, in provincia di Cagliari); l’anno precedente, il 16 agosto, a 101 anni, era morta la moglie, Lina Minozzi. Uomo di fede incrollabile nei suoi principi -
scrive Cauchi - Salvatore Porcu “finisce per rifiutare (...) quanto è contrario alla propria morale o al proprio credo, attaccando brutalmente, come in una vera crociata, chi si comporta e pensa diversamente, perdendo di vista il valore del recupero dell’altra persona (se di recupero si può parlare), pur dichiarandosi aperto sempre al confronto”. Noi in parte dissentiamo da questo giudizio. Porcu non era un violento (“brutalmente”), ma un mite, animato solo da una gran fede interiore a favore dell’umanità e giustamente difensore delle proprie idee fino a quando le ha ritenute valide. In alcune pagine quasi pedanti, Cauchi ci fa sapere le difficoltà che ha dovuto sostenere immaginiamo assieme a moltissime spese! nell’ordinare quella montagna di carte a lui donata. Un lavoro non del tutto concluso. So-
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lo per trasportare il materiale, egli annota “di avere riempito l’auto dieci volte”; più di “200.000 tra carte varie, stralci di giornali ecc. I faldoni accatastati a casa lungo una parete hanno occupato circa 4 metri di lunghezza per l’altezza di un metro; oltre a questi pacchi, un altrettanto volume occupavano le pubblicazioni a stampa di libri suoi e di altri a lui dedicati e a vario titolo, o di raccolte di giornali e riviste, molto rovinati dal tempo e dal luogo ove erano stati prima tenuti a deposito (una baracca fra gli alberi)”. Questo lavoro agevolerà sicuramente tutti coloro che il Porcu hanno conosciuto e che - ci auguriamo - decideranno di ricordarlo come un tale uomo ha meritato e merita. Porcu è stato accusato d’essere di parte, della destra estrema: “l’ordinismo - scrive Carmelo Rosario Viola - è trasparentemente di fibra fascista”. Falso. Egli amava solo la verità e la pace e ha lottato sempre per questo, senza pensare a fede politica e a momentanee convenienze. Era convinto che i guai dell’ intera umanità non fossero conseguenza della cattiveria dei popoli, ma della smodata cupidigia dei capi e del loro contorto narcisismo: “se un nuovo conflitto scoppierà, non dovremo certo credere che siano i popoli a volerlo, ma piuttosto i capi, che non volendo o non sapendo mettersi d’accordo ricorrono all’ azione bellica nel disperato tentativo di risolvere con tale mezzo le controverse questioni internazionali”. “E pensare che basterebbe un sincero spirito di collaborazione e di comprensione dei pochi “Grandi” per dissipare la foschia internazionale e ridare agli uomini quella serenità tanto necessaria dopo le distruzioni materiali e morali delle ultime guerre”. L’ampia battaglia, portata avanti per tanti anni da Salvatore Porcu, ha avuto più successo nelle coscienze che sulle pagine dei giornali o sugli schermi televisivi. E si tenga presente il tempo in cui una tale battaglia è stata combattuta, con la presenza in campo di due grandi partiti entrambi corrotti e gesuitici: l’ uno, la DC, peggio dell’altro, il PCI, che hanno entrambi letteralmente inquinato gli animi
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degli italiani, asfaltando la loro moralità e la loro coscienza, corrompendoli fin nelle radici. Cauchi mette in risalto come Porcu si batteva non solo perché fosse eliminata la guerra, ma perché ci fosse anche “la cultura della pace, del buono”; egli aveva “l’animo generoso e idealista” (Gran Pavese, aprile 1959). In questa antologia, figurano brani di molti autori, come del già citato Carmelo Rosario Viola, Dimitrij di Russia, Guerino d’ Alessandro, Rino Pompei, Lydia Senes, Carmine Manzi, Francesco Buttarelli, Enzo Gugliotta, Giovanni Salucci, Giulietta Alfonsi, Lina Gabrielli eccetera, tratti da diverse testate, e brani anche anonimi o con pseudonimo, alcuni dei quali possono essere facilmente attribuiti: quello su Il Pungolo Verde è del direttore Guido Massarelli e quello firmato Amog, di AZ=Arte-Cultura, pure del direttore: Antonio Magnifico. Porcu affronta, in diverse riprese e pubblicazioni, un problema da sempre endemico nel nostro Paese, proponendo analisi e soluzioni non sempre condivise, da noi come da altri, quando afferma che “Vi è comunque un fattore rilevante ad aggravare la disoccupazione: la cosiddetta “scuola forzata”, che informatasi all’erroneo e innaturale principio di fornire anche ai cittadini inetti allo studio il massimo grado di istruzione scolastica, dà luogo a una ingente massa di laureati e diplomati, ai quali le attività nazionali non sono in grado di fornire una occupazione”; e non perché non siamo d’accordo che la scuola non debba essere forzata, ma libera, per scelta, dando, però, a chi la chiede, la possibilità di frequentarla senza limitazione per ricchezza od altro: non siamo d’accordo, perché il lavoro ci sarebbe, senza egoismo e volontà perversa (perfino la miseria è fonte di speculazione, perché permette la parvenza della beneficenza, sulla quale tanti ci speculano) e, principalmente, perché l’istruzione non dovrebbe servire solo per cercar lavoro, ma per cultura e poi tutti dovrebbero essere disposti ad accettare e svolgere qualsiasi attività, anche la più umile. Del tutto condivisibili sono, invece, le sue analisi e i suoi rimedi sulla rac-
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colta differenziata e l’utilizzo dei rifiuti e sull’aspetto sociale del lavoro, ch’è necessario “sia per l’impiego di tutti i disoccupati, sia per rendere più ordinata e confortevole la vita dei cittadini”. A non condividere tutte le analisi e le proposte del Porcu c’è, in particolare, il filosofo sociologo Carmelo Rosario Viola che, tra l’ altro, scrive: “Lo studioso Salvatore Porcu consiglia “Come eliminare la disoccupazione” in un lavoro così intitolato conservando i meccanismi che lo producono. Io credo nella sua sincerità - conoscendolo ormai da troppi anni - e ne sono oltremodo commosso, ma ritengo che consigliare di applicare i meccanismi capitalistici con spirito socialistico (direi cristiano) sia tanto gratuito quanto consigliare la guerra con spirito antimilitarista - piuttosto che spiegare “come non fare la guerra”! Il Viola, che l’ha combattuto, ha, infine, aderito all’Unione di Convergenza Universale creata dal Porcu! Onesto, ha creduto nell’ onestà dell’avversario! Anche noi abbiamo duellato con il Viola e anche verso di noi, infine, è stato onesto riconoscendo la validità del nostro parere sulle armi. Perché Viola era, come afferma Porcu, un “assertore di un comunismo ideale, alieno da qualsiasi forma di violenza e d’ingiustizia”, come lo stesso Porcu era un assertore del capitalismo ideale; in entrambi, cioè, c’era, alla base di tutto, l’ idealismo, non l’egoismo e l’ipocrisia. Entrambi hanno difeso le proprie idee fino a che le hanno ritenute difendibili, per poi riconoscere ciascuno le ragioni, o alcune ragioni, dell’altro. Entrambi, perciò, uomini e studiosi di un alto valore morale. Tito Cauchi, dando spazio, in questo volume, alle idee e alle battaglie di entrambi, ha contribuito ad approfondire la loro conoscenza, perché le battaglie di questi due sociologi non hanno perso valenza e son da proseguire, solo, all’occorrenza, correggendole. Domenico Defelice TITO CAUCHI - SALVATORE PORCU Vita, Opere, Polemiche - Editrice Totem, 2015 - Pagg. 304, € 20.
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MARTINO ZANETTI, UOMO DI CULTURA E D'IMPRESA, DONA IL SUO INGENTE PATRIMONIO DANNUNZIANO ALL'ARCHIVIO DEL
VITTORIALE DEGLI ITALIANI. di Ilia Pedrina
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UTTO ha inizio il 29 ottobre 2015, quando al Grand Hotel et de Milan, dove Gabriele d'Annunzio alloggiava durante le sue soste in questa grande città, l'imprenditore Martino Zanetti, titolare e Presidente di Hausbrandt Trieste 1892, dopo aver acquistato e letto circa tremila pagine di manoscritti autografi di Gabriele d'Annunzio, dona tutto questo prezioso materiale al Vittoriale degli Italiani, affidandolo al suo Presidente, il prof. Giordano Bruno Guerri, che da anni copre brillantemente questa carica perché ardito, competente, instancabile. È una notizia che accende l'interesse degli studiosi, dei ricercatori, degli Italiani e di tutti quelli che in Europa e nel mondo hanno fascinazione e memoria di esperienze e cose d'ogni tempo: infatti Martino Zanetti compenetra in sé le caratteristiche dell'imprenditore lungimirante ed al passo con i tempi e gli spazi della globalizzazione, a
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fianco di quelle legate agli studi ed alle forme varie dell'arte, come la musica, la pittura, la letteratura, la poesia, il teatro. Colgo questa traccia dal comunicato stampa che mi è stato fatto pervenire gentilmente da Giovanna Zilio: “Martino Zanetti sin dalla giovinezza si è appassionato alle opere di d'Annunzio e ne è diventato il maggior collezionista, sia di opere originali edite, di testi storico-critici sul personaggio ed infine di testi autografi. Oltre tremila fogli tra i quali le lettere più importanti della formazione e della maturità e 'La vita di Cola di Rienzo' nella prima stesura autografa... Oggi Martino Zanetti, in possesso di specifiche opere di rilevanza internazionale, oltre che di d'Annunzio, di Shakespeare, Ben Johnson e Inigo Jones, dona al Vittoriale tutta la propria raccolta di documenti autografi di Gabriele d' Annunzio: oltre tremila documenti originali fra lettere dello scrittore alle sue amate, manoscritti e discorsi pubblici del periodo 1882-1883 e 1936-1938, ritenendo doveroso farle 'rivivere' nel luogo più appropriatamente deputato, l'ultima dimora del Poeta. Un patrimonio fino ad ora 'nascosto' che verrà donato al Vittoriale proprio per dare nuovi stimoli e nuove sensazioni a tutti gli appassionati, desiderosi di conoscere al meglio il maggior interprete italiano delle correnti di pensiero e delle mode europee, tra le quali l' esasperato sensualismo, l'estetismo raffinato e paganeggiante, la tendenza a valutare la realtà sociale e a prevederne gli esiti con un' anticipazione quasi secolare”. Sarà poi lo stesso Zanetti a chiarire: “La passione per Gabriele d'Annunzio è nata al momento della maturazione umana, quando da adolescente ho cominciato a leggerlo e immediatamente ho percepito l'abissale discrepanza tra quanto leggevo (e ne venivo affascinato) ed una docenza ed una critica storico/letteraria sistematicamente e cervelloticamente negative. Questo entrava in conflitto anche con le opinioni espresse da scrittori non italiani, che altamente hanno apprezzato l'opera di d'Annunzio (Hemingway primo fra tutti). Ancora oggi, e me ne accor-
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si già allora, durante la prima visita al Vittoriale, questo ha generato una noncuranza da parte del grande pubblico italiano per uno dei suoi 'cinque grandi delle lettere' (Dante, Petrarca, Boccaccio, Leopardi e d' Annunzio). Nonostante l'attuale successo del Vittoriale per numero di visitatori e attività, persistono antichi pregiudizi per le opere e la vita del grande Poeta”. Il Comunicato Stampa porta la data del 29 Ottobre 2015 e viene arricchito da altre documentazioni importanti sul Vittoriale e la sua storia, sulle innovazioni successive al 2008, quando alla sua presidenza e guida si è posto il prof. G. B. Guerri, come il Museo d'Annunzio Segreto o il Museo d'Annunzio Eroe e molto altro ancora, non dimenticando però il Premio del Vittoriale, istituito nel 2011 ed assegnato a personalità d'impegno e di alto profilo professionale e sociale come Ermanno Olmi, Paolo Conte, Umberto Veronesi, Giorgio Albertazzi, Alberto Arbasino, Ida Magli. Posso testimoniare con certezza che l'accoglienza ricevuta nel corso del mio incontro con G. B. Guerri e i conseguenti rapporti con il personale dell'Archivio sono stati improntati alla massima cortesia, competenza, disponibilità e precisione efficace nel reperimento del materiale ingente da me richiesto e della sua riproduzione digitale, materiale che utilizzo via via con scrupolo e viva passione, prima di darne concreta notizia in prossime pubblicazioni. Per dare una idea d'approccio a tutto quel ricco materiale che il prof. Guerri si appresterà ad analizzare proprio al Vittoriale, con i suoi collaboratori, scelgo e riporto sezioni di due lettere tra quelle che sono state inserite nella documentazione a me pervenuta, in fotocopia. La prima porta la data del 9 Ottobre 1883, da Villa: “Mia maga, è un mattino freddo e grigio d'inverno. Ieri il sole vendemmiale inondava tutta la campagna e il mare e mi scaldò per tutta la lunga via. Che cavalcata stupenda nel pomeriggio mite e limpidissimo, in faccia al divino e benigno Adriatico! Stamane il cielo è cinereo, c'è nell'aria un'umidità tediosa che s'infiltra
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nelle ossa. Tu che fai? Sei lieta? Hai tu il sole?...” La missiva continua con toni dolci e perentori insieme, perché Gabriele non vuole sentire l'ansimare ansioso di lei che gli chiede quando si vedranno, si, proprio, il quando ed il dove e sostiene il vantaggio di evitare la pena dell'attesa che potrebbe poi rivelarsi vana. Infatti prosegue: “Mi domandi con insistenza se verrò a Firenze in questo mese. Chi lo sa! La miglior cosa è di fare a meno d'ogni promessa e d'ogni termine fisso, così non ci saranno ansie e disturbi. Probabilmente il mese di ottobre me lo faranno passare tutto qui; quando sarò a Roma allora vedrò di venire, ma non prometto più nulla, non fisso più nulla, nulla. Tu sai che desiderio intenso di te mi tormenta. Io cercherò di rivederti in tutti i modi possibili, quanto prima. Seguirò i consigli del nostro babbo: quando sarò certissimo di partire, allora telegraferò il giorno avanti; e tu mi aspetterai e mi aprirai le braccia e mi porgerai la bocca che io bacio ora tutte le notti in sogno. Dunque non mi chiedere più nulla della mia venuta; abbi un po' di pazienza, mio povero angelo....” (fonte: Documentazione su supporto digitale, fornitami da Giovanna Zilio Ufficio Stampa della Hausbrandt-Zanetti Gagliardi & Partners). Per questa lettera inedita e per tutto il resto del materiale ora in mio possesso, ringrazio qui pubblicamente e sinceramente il Presidente Zanetti, che ha consentito a darmene informazione e copia: infatti il mio lavoro sul pittore Francesco Paolo Michetti, pubblicato su questa Rivista nel mese di Settembre 2015, è stato quasi una intensa, curiosa e vivida anticipazione di questo sorprendente evento che sicuramente coinvolgerà tantissimi esperti e non solo, d'Italia e d'altrove. Si, perché il rapporto d'amicizia tra Gabriele ed il pittore d'Abruzzo s'avvia nel 1881 e proprio a partire dai luoghi legati alla dimora di Francavilla a Mare del Michetti, che è già famoso ed ha dodici anni più di lui, ben conosce Roma, la Capitale, e molto se ne discosta, selvatico! 'Villa', luogo di intestazione della lettera,
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potrà essere allora questa specifica località, dove sorge il 'conventino': il citare l'Adriatico ne fa conferma e poi 'probabilmente il mese di ottobre me lo faranno passare tutto qui' indica il buon affiatamento che si è venuto a creare con l'amico e con la sua famiglia, anche se in questa lettera Gabriele non ne fa menzione. Ne è prova quanto sostiene Fabio Benzi nel suo prezioso contributo su F.P. Michetti: “Il rapporto si stringe nel 1881, d'Annunzio appena diciottenne e Michetti già pittore famoso, probabilmente nell'estate, che trascorre ospite del nuovo 'amoroso amico'. Il ricordo di quella lunga estate, condivisa con il musicista Francesco Paolo Tosti e con lo scultore Costantino Barbella, lo pubblicherà poco più di un anno più tardi, sul 'Fanfulla della Domenica' del 7 gennaio 1883, intitolandolo 'Ricordi francavillesi. Frammento autobiografico'.... Michetti è per lui un fratello maggiore, ma anche un esempio di come conservare ed esprimere l'amore per le proprie origini vernacolari traducendole in forma alta, tramandandone quasi 'etnograficamente' o meglio antropologicamente, le forme espressive, le storie, gli accenti anche linguistici: Terra vergine (1882) e particolarmente Figurine abruzzesi, trova in Michetti, piuttosto che in Verga (che pubblica l'anno precedente I Malavoglia), il riferimento culturale più sostanzioso, l'esempio formale più consistente. Michetti disegna per lui la copertina di Canto Novo edito da Sommaruga nel 1882....” (F. Benzi, Corrispondenze con d'Annunzio, in 'F. P. Michetti. Il cenacolo delle arti: tra
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fotografia e decorazione, ed. Electa, Napoli 1999, pag. 91). Chiaramente nello scrivere alla sua diletta maga Gabriele ha già con sé la forza intensa che può dare un'amicizia come questa, che lo apre ad incontri d'arte e ad emozioni cariche d'ispirazione e di piacere estetico: c'è una distinzione, in questa lettera, tra il luogo da dove scrive e “...quando sarò a Roma..”, perché di certo l'Adriatico non è il Tirreno, ma Roma è più vicina a Firenze, rispetto a Francavilla. E la maga? Quali sembianze si nascondono dietro questo soprannome? Sarà Giselda Zucconi o un' altra ancora? Una cosa è certa e ce la conferma Gabriele stesso in una lunga missiva del 27 Marzo '81/'82 da Roma, con carta arricchita da disegni egizi, tra cui le piramidi o l'obelisco: “Mia bella, bella, bella bimba eccoti un bacio così lungo e fremente e sonoro che la mamma farà gli occhiacci e sorridendo di quel suo divino sorriso ci dirà che bisogna mutar sistema (sottolineato)... Non dar retta alla mamma, sai? Rendimene cento altri di baci e tutti l'uno più lungo, l' uno più caldo, l'uno più sonante dell'altro. Come son contento di questa letterina luminosa, Elda mia.... Sai una cosa? Per causa dei disegni del Michetti il mio volume non potrà uscire che in Aprile e probabilmente prima del 20, anzi certamente. La prima copia voglio che esca il 19 o il 17, e te la manderò subito. Che data memorabile! E poi ardisci chiamare quel libro: il tuo Canto novo (sottolineato)? Ma mio non è davvero, non è, non è, non è! Io senza la tua dettatura avrei continuato a far della robetta (sottolineato) come quella del Primo vere (sottolineato), né più né meno, te lo giuro sull'anima di Apollo Musagete!...” (fonte: materiale documentario Fondo Zanetti/Hausbrandt). Nel 2008 G. B. Guerri dà alle stampe per i tipi della Mondadori, nella Collana 'Le Scie', la prima edizione di 'D'ANNUNZIO - L'AMANTE GUERRIERO', un lavoro concepito in tre movimenti cronologicamente successivi ed in 10 stazioni di vita e d'esperienza, ben interdipendenti tra loro a rendere un profilo chiaro e consistente di questo grande
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immaginifico: L'ASCESA (I “Son venuto fuori io, tutto io” (1863-1881) / II “Arriverò alle utlime vette dell'arte e della Gloria?” (1881-1889) / III “Prepariamo nell'arte con sicura fede l'avvento del Superuomo” (18891895); LO ZENIT (IV Eleonora: “Quale amore potrai tu trovare, degno e profondo, che viva solo di gaudio?” (1895-1904) / V Il Vate: (“Voglio essere e sono il maestro” (1904-1910) / VI L'esilio: “Io sono la puttana d'Italia che si odia per amore” (19101914) / VII Guerra: “Io non sono un letterato dello stampo antico in papalina e pantofole” (1914-1918) / VIII Fiume: la “Città di Vita” (1918-1921); IL DECLINO (IX Il principe di Montenevoso: “Io son migliore come decoratore e tappezziere che come poeta e romanziere” (1921-1933) / X “L'odiosa vecchiezza” (1933-1938). Ora, con questa preziosa donazione di Martino Zanetti, un ingentissimo fondo di lettere, per la precisione 232, a Giselda Zucconi (Elda o Lalla), figlia del suo docente di lingue al convitto Cicognini di Prato, dei primi anni '80 ed altre 228 alla nobile Scapinelli Morasso, dal 1936 al 1938, e legate agli ultimi mesi di vita del d'Annunzio, questo grande impegno dello studioso Guerri si aprirà a nuove e preziose sfaccettature prismatiche che non andranno di certo a modificare il volto del Vate nel suo insieme, ma consolideranno ancor più e meglio quanto già è emerso nel suo libro, in nuovi arabeschi e filigrane tutte tese, intessute, tracciate intorno alle parole. Infatti per il primo periodo Guerri sostiene: “... Poco gli importa che nella lontana e quasi assopita Firenze del secondo Ottocento Elda langua per lui aspettandolo invano giorno dopo giorno. Per ritrarsi Gabriele ricorre a un armamentario di alibi eroici: il mondo del giornalismo romano 'pieno di vigliaccherie', che lo costringe a
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un lavoro matto e a lotte inenarrabili, le agitazioni dell'invivibile metropoli, che gli fa sperimentare 'tormenti nuovi'. I suoi tormenti in realtà sono questi: il Carnevale romano, trascorso a gozzovigliare insieme agli amici abruzzesi giunti apposta nella capitale; frequenti 'febbri torbide della sensualità'... da cui non riesce a liberarsi; serate a teatro, come quella al Valle, per assistere a una recita di Sarah Bernardt, forse già sognando che un giorno la grande attrice avrebbe recitato le sue opere... Con le arti dell'istrione, gli riesce il piccolo capolavoro del passaggio da carnefice a vittima. Gabriele si manterrà sempre fedele alla regola per cui in amore, come in ogni altra schermaglia, l'attacco è più redditizio della difesa. Nel frattempo può mostrare a Elda la serietà e la sincerità del suo sentimento, adducendo come prova la dedica 'Ad E. Z.' che compare nelle copie del Canto novo, appena ricevute dal Sommaruga... Elda, la 'vergine purissima' (ma ormai non più), era una creatura del tutto inadatta alla vicinanza di un giovane con evidenti manie di grandezza... (G. B. Guerri, D'Annunzio - L'amante guerriero, op. cit. pp. 40-41). Per il secondo ed ultimo periodo di vita del Poeta, tra le insidiose e talora cupe spire della dipendenza, del decadimento fisico, della tensione di un Eros non più ubbidiente alle sue fantasie, sfaldate anch'esse da una routine che si propone e ripropone in specchi deformanti, lo studioso G. B. Guerri, che affronterà nell'immediato futuro anche quest'altro consistente carteggio del Fondo Donazione Zanetti, scrive nell'ultima stazione del suo libro: “ 'Quando sto male', aveva scritto d'Annunzio all'architetto Maroni, il 10 novembre del 1926, 'divento più selvatico che mai. Non mi piace di mostrarmi. Abomino l'esposizione della consunta Reliquia'. Le malattie lo rendevano a volte timido, lo costringevano a ritrarsi da nuovi corteggiamenti, specie delle donne
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più belle... Il repertorio dei suoi malanni era vasto quanto quello dei suoi trionfi... Accentuavano la sua mestizia le notizie, quasi quotidiane, della morte di tanti compagni, amici, legionari o amanti che lo avevano accompagnato nello spettacolo euforico della sua vita. Passava giorni interi recluso nella Prioria, l'edificio originario del Vittoriale, senza ammettere alla sua presenza nessuno della corte che lo circondava...” (G. B. Guerri, op. cit. pp.297-298). In questi momenti e nei periodi successivi di vita, dal 1936 al 1938, andranno inseriti quei contenuti vibranti delle tantissime, ultime lettere del Vate alla contessina Hevelina Scapinelli Morasso, da lui soprannominata Manha, Maja, Titti, Sthenele, Tormentilla, che gli offrirà senza riserve e senza ritegno la sua fresca bellezza e verso la quale egli proverà tensioni forti ancora e ancora, d'un Eros che si avvia consapevole verso il tramonto. Ilia Pedrina
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e comprendere le verità di questo gioco o gradienti di bugie. Ed è grande risolvere l' automatico del gioco e l'errare dell' identificare e liberare dall' inconsapevole gioco ogni persona o Essere Spirituale e sapere che sempre in questo gioco ci sono invitte Persone d' Infinito eppoi riconoscere che per tutto questo gioco è ritornata La Risposta. Michele Di Candia SEMI DI CARDO
EPPOI Non innamorarti amore mio un' altra volta perdutamente di materialità. Se guardi bene poi diviene altra forza solamente eppoi niente. Ed è grande scoprire che finanche il soffrire è stato solo un gioco e guardare attraverso questo gioco e vederlo sognare e vedere in tutto questo gioco la Causa d' ogni Essere
Semi di cardo svolazza il vento su queste pietre stanche e assolate, posate dagli uomini in remoti tempi, delle loro vestigia la memoria. Il panorama osservo seduto su esse, il rivivere immagino di questa città che portò la bandiera della gente Rasenna. Tra i meandri dell’ignoranza la scoprì la cultura, attraverso l’amore della conoscenza. Risorse così dopo lungo letargo, sotto la terra graffiata dal vomere. Voglio che sia lasciato qui… a godermi così tanta bellezza, in questo sogno macchiato di lacrime. Colombo Conti Albano Laziale
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DUE POEMETTI DI
NAZARIO PARDINI di Maurizio Soldini Il volo di Icaro Attratto dai richiami del meriggio volò alto, alto volò toccando cime immense, azzardi che gli umani cercano con l’anima e la mente; ma ci si può bruciare se il volo è troppo arduo, si annullano in abissi senza fine le nostre identità; sperderci oltre la siepe, o in cieli fra le stelle è un naufragio per la nostra essenza. E tu Icaro, privo di remeggi, a braccia nude, senza appigli, brancolasti in vertigini d’azzurro quando l’astro di vita e di morte ti rammollì la cera. Cadevi impaurito, risucchiato: “padre, tu che mi hai dato il volo, aiuta questo figlio, dagli l’ali, che il cielo non mi regge ed io sprofondo incauto negli abissi. Padre, io sono qui,
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corrimi incontro, arresta il mio naufragio, tu puoi, con il tuo amore e il tuo superbo ingegno”. “Icaro, Icaro dove sei? dove giace mio figlio eterni dèi? Ditemi alfine! Ch’io sappia almeno ove cercare; carne della mia, figlio imprudente, dove il volo tuo lontano dai miei occhi. Cosa fare? che cosa potrà fare questo padre?” Ma d’Icaro la bocca fu chiusa dalle onde di quei pelaghi. E quando il genitore scorse le vane piume sparse sull’acque a sfiorare gli scogli, non poté che ergere un sepolcro in terra d’Icaria. Maledì la sua arte ed il destino, gli azzardi degli umani, le imprese folli, la violenza del cielo, il regno del sole, maledì quella natura umana, il suo continuo ardire e discoprire, il suo coraggio eterno di sfidare il mare nero, lo scoglio e le sirene, quella pazzia di un fuoco che ci fa scintilla degli dèi, impronta del divino, bocci di libertà. A colloquio con il padre. Il sogno Baluginò il suo volto. Che lucore! Era simile il cielo a quei mattini in cui andavamo ad erpicare il profumo di terra. Era mio padre. Mi prese per la mano trepidante e mi portò a mirare i suoi spazi. Io non sapevo, nella nuova coscienza, ch’era morto. Mi apparve certamente perché stessi sereno. Stava insieme - in un salone immenso e somigliante vagamente a quelli riportati negli affreschi dei rinascenti artisti pontifici con persone serafiche. Una peluria gli fluitava cadente ed abbondante sugli omeri. Brillavano i suoi occhi di un’altra dimensione. Stranamente il soffitto sforava aperto un cielo
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di luce biancicante: “Vorrei tanto rivedere con gli occhi di un terreno i nostri monti simili a puledri rincorrersi tra i lecci ed i castagni rutilanti ai tramonti. Vorrei tanto trascorrere con te un tempo, pur breve, per le cose del giorno e anche di più vegliare una nottata tra i sentori d’erbale umore estivo. Per esempio nel campo dei covoni.” “Che ti prende? Perché non puoi? Domattina farò ch’io possa liberarmi dagli impegni e andremo insieme, tutto un giorno sul Serchio e poi sul piano dei fulvi girasoli. Anch’io lo sento questo bisogno in anima di vivere di nuovo sprazzi e guazzi giovanili”. “Guarda, figliolo, ch’io ti sono in sogno. Quello che vivi è fumo ed io son qui vicino solamente con lo spirito, non col corpo. Son morto. Ti ricordi quella brutta giornata di febbraio? Io spiravo e tenevo la tua mano nella mia tremolante. Dentro il cavo ho sempre il tuo calore.” “Come faccio a sapere che è tale?” “Puoi provare!” “L’unico mezzo è quello di destarmi per saperlo. Perché dovrei distruggere l’occasione di un sogno veritiero. Di un sogno che è realtà più di un reale che non arriva a tanto. Che momento! O sogno o realtà che importa, padre, io ti rivedo, bello, fra quei marmi così lucidi, vasti senza dubbio ben di più degli scrimoli a cui noi eravamo abituati. Con gli amici a dissertare sui concetti astrusi dei misteri del cielo e della terra. Così importante mai ti vidi padre. Che piacere.” “Figliolo tu hai ragione. E’ rara l’occasione che in un sogno si sappia di sognare e che per questo si viva ben più a fondo un segmento coscienti di un prosieguo del reale. Sogniamo! E tutto sarà vero: tu mi parli ed io ti corrispondo. Manca una magia estrema. È in mio potere. Ricostruirò quel tempo del passato,
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e forse il più felice, di quando dodicenne tu passavi (tornando di città schivo e scorbutico) all’ora di mangiare dalla vigna.” “Rivedo tutto! Che magia! Sono laggiù sotto il mio pioppo a rovistare nella borsa del pranzo. Ecco ti chiamo. Tu accorri trepidante poi mi abbracci. Tre cose sulla scuola. E la tovaglia sui crini di gramigna. Che bel pane! Tu stacchi i pomodori e li zuppiamo in picchiata nel sale.” “Vedi bene come si mischia a volte col reale l’immaginario.” “Si! Però per me questo momento dice che tu esisti. In quanto alla tua morte non ricordo; perché dovrei svegliarmi? Continuiamo a vivere così. Nella magia di un sogno. Per domani, quando torno da scuola, nella borsa voglio trovare - diglielo a mia madre il pane fritto. Sai quanto mi piace!” (Da Poemetti onirici, in Canti dell’assenza. Milano. 2015). Canto e intonazione di senso della vita, nelle more del mistero dell’esistenza, prendono il lettore anima e corpo e lo accompagnano sempre anima e corpo al cospetto dell’ emozione attraverso mito e realtà. I sentimenti del poeta si embricano con i sentimenti del lettore e un fiume di sensazioni scorre nella melodia che trascina nei vissuti dell’esistenza, che sono si del poeta, ma che pur tuttavia sono universali, e il lettore e commosso. Mosso insieme alla trascendenza del vero del buono e del bello dall’incipit che abita nella parola. Il rapporto padre figlio lo ritroviamo nei primi due componimenti. Un rapporto che è nella vita e va oltre la vita nella permanenza dell’ eterno. E si riscalda nelle mani di una comunione filiale e paterna che nonostante il fluidificarsi delle ali di cera che parla in metafora della morte si rischiara nella luce immortale dell’anima. Anima dell’uomo e anima della poesia in un gioco continuo di relais metaforici che ondeggiano dal significante al significato in una circolarità ermeneutica che aspi-
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ra alle vette del sempiterno. Poesia appassionata quella di Pardini, che spicca il volo verso le mete sempre più alte sempre più mature di una poesia che non può tradire il presente il passato e il futuro. Nei passaggi della parola di queste poesie vi è forma e sostanza. Vi è tutto e ben condensato. Vi è anche la retorica, ma non nell’accezione negativa a cui ci ha abituato la modernità. Magari anche oggi, oggi più che mai, fosse presente un pizzico di retorica nella poesia! La retorica è il sale della poesia, altro che. Nella poesia di Pardini, vi è l’epica con la sua narrazione pacata e sublime. Vi è l’idillio. Vi è l’elegia. Vi troviamo l’ epicedio. Ma soprattutto c’è tanta lirica. Il canto è elevato al di sopra di una ipostatizzazione di vita di vissuti di arte e anche, mi sia concesso, di letteratura. Perché sì, contrariamente a quanto si afferma oggi, il passato poetico, la tradizione, non può essere dimenticata e in qualche modo il classico deve restare nella contemporaneità. Pardini dimostra quando scrive di conoscere l’arte. I richiami a Pascoli, Carducci, Montale e soprattutto all’ amato D’Annunzio sono evidenti. Ma non perché si possa parlare di un epigonismo. Assolutamente. Pardini attualizza il canone classico e lo rivitalizza attualizzandolo magistralmente nella sua poetica, che sembrerebbe andare controcorrente nella misura in cui oltre al recupero della tradizione sostanziale, punta al recupero di una tradizione formale alla ricerca del canto. Oggi tanta poesia è volutamente impoetica, alla ricerca di forme anti-liriche e giocate in una dimensione materialista e sempre più naturalizzata. Non per criticare questo approccio, comunque lecito e praticato talora anche da chi scrive. Anche perché l’esercizio del naturalismo in poesia e importante, nella misura in cui riporta in auge il corpo. Ma il corpo non può essere visto, fenomeno logicamente parlando, solo come Korper, ma va assunto come Leib, nel senso che le persone non hanno un corpo, inteso come oggetto, ma sono un corpo. Noi non abbiamo, pertanto, un corpo, siamo corpo. Necessario dunque assurgere dal corpo, da cui pur bisogna partire,
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alla corporeità. E la poesia, come ho detto più volte in altre sedi, volendo mirare ad una ricerca in chiave esistenziale della verità, della bontà e vieppiù della bellezza non può non mirare alla ricerca delle fonti della persona intesa come unitotalità somato-psichicaspirituale, li dove lo spirito che riporta all’ essere in chiave ontologica e metafisica ha una somma importanza. Pardini, ritengo, non teme questa scommessa ed è per questo che la sua poesia non ha paura di percorrere le strade dell’essere nel suo senso più pieno e pertanto del sentimento, come quando si distende nel canto nostalgico della terza poesia rivolgendosi alla propria donna nell’orizzonte di Amore. Di quell’ amore, che insieme a cuore, sembrerebbero dover essere banditi come sacrilegio dalla poesia di oggi. Non so se sbaglio, ma la poesia ha bisogno di ritornare al canto, ai sentimenti, alla vita intesa come Erlebnis. Abbiamo bisogno oggi più che mai che nella poesia dopo la desoggettivizzazione dalla modernità in poi, a partire da Baudelaire, si recuperi non solo l’ individualità della lirica e del bel canto, ma vi si faccia sentire in modo forte quello che è e significa persona. Nazario Pardini, mi sia concesso, lo situerei proprio in questa dimensione, che recupero dalla dimensione personalista intesa nei termini filosofici dell’ esistenzialismo personalista a la Marcel a la Mounier a la Ricoeur, che auspico possa un domani essere definita “poesia personalista”. E di questa corrente, se cosi si può chiamare, nella quale in qualche modo mi piacerebbe essere pure collocato, Pardini è un indiscutibile maestro. Maurizio Soldini AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 8/11/2015 Sinistra Italiana, ennesima formazione politica che va a incrementare la “cosa rossa” in opposizione alla “cosa verde-nera”. Alleluia! Alleluia! È tutto una panzana, se, non credendoci neppure i fondatori alla Fassina, hanno scelto il color di melanzana! Domenico Defelice
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UN CANTO CHE HA IL SAPORE DEI SOGNI di Marina Caracciolo
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NTONIO Bonchino, che con intelligente passione introduce questo canzoniere d’amore firmato da Giannicola Ceccarossi, appena uscito presso l’ editore Ibiscos-Ulivieri di Empoli, rileva acutamente l’assoluta musicalità di questa poesia: più ancora che nelle precedenti raccolte, la sostanza poetica pare sorgere qui dallo stesso significante, dal suono e dall’eco delicata che ne riverbera, come pure dalle immagini e dalle sensazioni che esse rifrangono. Viene in mente appunto Claude Debussy, come scrive Bonchino. Una delle più significative conquiste della musica e della poesia del Novecento – non solo francesi – è stata senza dubbio l’ emancipazione del suono, cioè il valore di per sé acquisito dagli elementi fonici e timbrici, che diventano autonomi, cioè indipendenti da idee e concetti non più intesi come un imprescindibile riferimento. E non di meno siamo portati a pensare ad un’ analogia con la musica di Debussy per il senso di fluttuante sospensione, di lievità estatica insito in questi versi, che nel grande musicista francese è dato non soltanto dalla sua inconfondibile invenzione melodica ma anche, sul piano armonico, dall’uso della scala per toni interi. Bonchino si chiede perché il poeta non si sia occupato lui pure di musica (come suo padre, il celebre Domenico Ceccarossi, che fu musicista e valentissimo solista di corno). Io penso ancor più che i suoi versi, e in particolare proprio queste brevi, bellissime poesie della silloge Fu il vento a portarti, siano quanto mai adatte alla musica: potrebbero divenire splendidi Lieder per voce e strumenti in mano a compositori contemporanei come Pierre Boulez o Aribert Reimann o Luciano Berio, se quest’ultimo fosse ancora vivente. L’autore non ricostruisce qui una storia d’ amore, non ripercorre un itinerario di vicende ben definito che ne tracci passo a passo il cammino fino al tempo presente. Egli disegna
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piuttosto un mosaico di frammenti di figure e di forme, di cui lui solo conosce tutte le tessere; oppure una specie di mappa stellare, dove i punti luminosi, con dimensioni e distanze diverse, costituiscono un sentimentale firmamento senza confini, contemplato nel momento medesimo in cui lo presenta ai nostri occhi in tutto il suo incanto. La donna che è al centro di questo quadro – e a cui il poeta di continuo si rivolge – pare uscita ora da una canzone del Trecento, ora da una graziosa pittura pompeiana, ora da un voluttuoso ritratto di Gustav Klimt. C’è in questi versi una rarefazione capillare, direi una «distillazione espressiva» riconoscibile ad ogni pagina. E vi si trova pure una sequela di visioni che, nelle loro frequenti confluenze sinestetiche, approdano ad una multistabilità della percezione in grado, tuttavia, di non sottrarre nulla alla nitidezza del dettato. Il poeta sembra attraversare pensoso un fiabesco giardino colmo di alberi, di fiori e di uccelli, senza mai perdere di vista questa figura femminile cardine dei suoi pensieri, la quale, in perfetta armonia con l’ambiente che l’avvolge – ora concreto ora metafisico ora surreale – forma con esso una sorta di «paesaggio con figura». Si scoprono in questo canzoniere poesie di una bellezza esemplare, di una sensibilità coinvolgente e fascinosa, dove la brevità stessa dei versi non permette mai al raggio dell’ ispirazione di perdere anche di poco il suo splendore: Domani toccherò i tuoi capelli annodati in lembi di caprifoglio Con flebile sussurro le tue labbra mi chiameranno dal giardino dove fioriscono i mandorli La figura (come accadeva con le donne angelicate del Dolce stil novo) non è descritta, è senza volto: eppure in questa assenza di rappresentazione il lettore la «vede» subito bellissima: i lembi di caprifoglio, come fossero le estremità di un nastro di seta, paiono avvolgere in dolci nodi una lunga e morbida
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chioma; il flebile sussurro evoca la malia di un canto di sirena, così come di certo intenso e dolce è il profumo dei fiori di mandorlo che si sottintende nell’ultimo verso. Quel voler toccare i capelli della donna amata, da parte del poeta, raffigura il tentativo di fermare e di rendere reale il sogno, di accertarne la verità, di non lasciar dileguare il suo sortilegio. Altrove il paesaggio (che si rivela non tanto uno sfondo quanto piuttosto un incontrastato protagonista di questo canzoniere) si delinea in nitide pennellate e poi subitamente si trasforma nel giro di pochi versi: Dove ritagli di cortecce disegnano frantumi d’acqua questo scorcio di nuvole che si colora di tortore e vigne ha sete di brezze Nella casa del silenzio a sfogliare il tuo nome è la rugiada Il metro e il ritmo sempre differenti da un verso all’altro creano un palpito inquieto, come un’ansia di soffi odorosi e puri (sete di brezze) che siano balsamo per l’anima. La prima parte dipinge un luogo reale, luminoso di colori e di baluginanti riflessi, che però sparisce all’improvviso nei tre versi conclusivi: qui appare una casa abitata da un misterioso silenzio, forse abbandonata. In essa gocce di rugiada (che riprendono in miniatura i frantumi d’acqua del secondo verso) paiono cadere dall’esterno su pagine aperte: come il limpido cristallo di una lente si posano sul nome – mai abbandonato o dimenticato – della donna amata. Un sentimento sempre vivo, e proprio per questo ansioso di eternità, si annida ovunque nella trama delicata, talora evanescente di queste poesie, e sembra respirare persino negli spazi bianchi che dividono i gruppi di versi, così come la musica si esprime anche nelle pause di silenzio che si alternano alle note o che separano interi movimenti di una composizione. Ai piedi di questo costante amore – tutto intriso della meravigliosa bellezza della
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Natura – il poeta depone i frammenti di un canto che ha il colore dei sogni ma, insieme, il potere di sconfiggere ogni ingiuria del tempo e del disinganno; come deve essere, invero, un gioiello insostituibile e prezioso: Forse andrai nel vento a spargere cenere e granaglie Ascolta Non lasciare che si chiudano le palpebre Lo sguardo che germoglia fili d’erba è amore che non ha fine Marina Caracciolo Giannicola Ceccarossi: FU IL VENTO A PORTARTI. Poesie d’amore. (Saggio introduttivo di Antonio Bonchino. Empoli, Ibiscos-Ulivieri Editore, novembre 2015; pp. 60. Euro 12,00. In copertina: La promenade, di Marc Chagall).
DOVE NASCE IL CIELO … E scorrerà il mio sangue alle finestre dell’antico dono permeabile all’ascolto stretta in una morsa di pianto in seno all’anima vincerò la mia battaglia senza nessuna guerra. Nell’incerto vivere pacata, andrò verso l’oltre affacciata sull’universo dei miei pensieri in un arcobaleno di sogni di pioggia e sole ubriacherò il silenzio di umili parole proprio lì … dove nasce il cielo … tra le tue braccia … Lorella Borgiani Ardea (RM)
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RACHELE ZAZA PADULA:
SANCTA TERESIA BENEDICTA A CRUCE di Liliana Porro Andriuoli
L
A figura di Suor Teresa Benedetta della Cruce, al secolo Edith Stein, ha attratto un numero sempre più vasto di intellettuali e di persone comuni da un lato per la sua attività di studiosa di problemi filosofici e teologici, dall’altro per la sua personalità di Santa e per il coraggio con cui ha affrontato il martirio. Da non molto si è occupata di lei anche la poetessa potentina Zaza Padula in un dramma puntuale ed efficace intitolato Sancta Teresia Benedicta a Cruce, in cui vengono messi in scena gli ultimi anni della sua vita claustrale, ad iniziare dal 1938. Sono gli anni in cui, dopo l’avvento al potere di Hitler, affermatosi nel 1934 come il padrone della Germania, si era venuta a creare per
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Suor Teresa Benedetta della Cruce, di origine ebrea, una situazione pericolosa che l’ aveva indotta a lasciare la sua Terra di origine (la Germania, appunto) per non esporre a rischio la vita delle sue consorelle. Mi sembra però opportuno al fine di inquadrare meglio la complessa personalità di questa eccezionale figura di donna e di comprendere appieno il suo originale cammino verso la santità, quale ci viene presentato con profonda penetrazione psicologica nel dramma della Padula, iniziare con una breve premessa sulla sua vita anteriore alla sua entrata il convento. Proclamata santa e martire, nonché Patrona d’Europa, unitamente a Santa Brigida di Svezia e a Santa Caterina da Siena, Suor Teresa Benedetta della Croce è una delle figure più limpide del martirologio romano. Nacque a Breslavia, nell’attuale Polonia (che però all’epoca era ancora città tedesca), nel 1891 e morì ad Auschwitz nel 1942. Di famiglia ebrea, venne allevata secondo i principi della religione israelitica; ma, dopo una profonda crisi religiosa in età adolescenziale, se ne allontanò, assumendo posizioni agnostiche, a volte addirittura atee. Iscrittasi nel 1911 all’Università di Breslavia, si trasferì nel ‘13 a Gottinga, attratta dalle teorie di Edmund Husserl, uno dei filosofi più influenti della prima metà del ’900, colui che fu il fondatore della scuola fenomenologica. Edith lo seguirà anche quando Husserl otterrà la cattedra definitiva a Friburgo, nella Brisgovia, e con lui si laureerà nel 1916, discutendo una tesi sul Problema dell’empatia e diventando sua assistente. Un incarico questo che la sottoporrà ad un estenuante lavoro di riordino degli appunti del maestro, disordinatissimi e per la maggior parte stenografati, ma che tuttavia lascerà due anni dopo (1918), per potersi dedicare al suo lavoro personale. Tornò così a Breslavia presso la madre, dove si dedicò all’insegnamento in un liceo femminile, pur continuando ancora la sua collaborazione con i filosofi fenomenologici di Friburgo e seguitando ad approfondire le sue riflessioni personali, a cui non aveva
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mai trovato il tempo di dedicarsi negli anni precedenti e che le frutteranno alcune pubblicazioni sullo Jahrbuch degli anni successivi. Nel frattempo però qualcosa in Edith era andata mutando: nella sua assidua ricerca razionale stava avvenendo una graduale e profonda maturazione spirituale, che la conduceva lentamente verso il traguardo della fede. Di grande importanza si rilevarono in tale cammino il rapporto con il filosofo Max Scheler, già da lei conosciuto a Gottinga e da poco convertito al cattolicesimo, e l’amicizia con i coniugi Reinach, di religione dichiaratamente cristiana1. Non meno importanti furono poi, nell’agevolare tale percorso di conversione al cattolicesimo, il rigore intellettuale acquisito, o meglio sviluppatosi in lei, con l’esempio offertogli da Husserl e l’ esperienza di crocerossina fatta al fronte, in continuo contatto con la sofferenza e la morte. Fu così che la razionale Edith cominciò ad avvertire nel suo animo un’inquietudine e un disagio sempre crescenti. Determinante per compiere il passo definitivo verso la fede cattolica si rivelò però la lettura dell’ autobiografia di Santa Teresa d’Avila, compiuta per puro caso, durante una sola notte, nel 1921, mentre era in vacanza; una lettura che fulmineamente le aprì una nuova prospettiva di vita. Il battesimo avvenne nel Capodanno del 1922; mentre l’ingresso definitivo nel Convento delle Carmelitane di Colonia, dove assumerà il nome di Theresia Bendicta a Cruce, avrà luogo nel 1933. Negli anni che intercorrono tra la conversione e l’entrata in convento fu ritenuto opportuno da parte cattolica che Edith continuasse la sua attività di studiosa di filosofia. Affrontò pertanto lo studio dell’opera di San Tommaso d’Aquino, dedicandosi contemporaneamente all’insegnamento della lingua e Edith rimase molto colpita infatti dall’eroico comportamento della vedova Reinach, sua amica, la quale fu capace di trarre dalla contemplazione del Crocefisso la forza di superare il dolore per la perdita del marito, dando la prova di una forte testimonianza di fede cristiana. 1
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della letteratura tedesca a Spira, presso le suore domenicane di cui era ospite. E’ di questo periodo la sua traduzione in tedesco delle Quæstiones disputatæ de veritate, che è un’opera di rielaborazione di estremo interesse, attuata in una versione piuttosto libera ed improntata ai concetti della moderna filosofia. La sua ricerca si proponeva infatti l’ obiettivo di un confronto tra la filosofia di Husserl e la filosofia medioevale di San Tommaso; confronto che sfocerà nel libro Essere finito ed Essere eterno, una sintesi tra filosofia e mistica, che Edith riuscirà a completare soltanto nel Carmelo di Colonia2. Fu inoltre relatrice in molte giornate di studio sia in campo filosofico che pedagogico, tanto in Germania che all’estero, lasciando numerosi scritti di alta dottrina e di profonda spiritualità. Nel 1932 arrivò a conquistare anche il posto di docente all’Istituto di Pedagogia scientifica di Münster3 (conquista oltremodo difficile per una donna e ancor più per una donna cattolica), che però dovette abbandonare l’anno successivo, a causa dell’ inasprirsi delle leggi razziali del tempo. Fu allora che le si aprirono le porte del Carmelo di Colonia, esaudendo così l’antico suo desiderio di una vita dedicata a Dio. E proprio qui, nel Convento del Carmelo di Colonia, si apre il dramma della Padula, nel momento in cui Suor Teresa sta esponendo alla Madre Superiora la sua intenzione di volersi allontanare, insieme alla sorella Rosa, da quel convento, per non mettere in pericolo, in quanto ebree, le altre suore, esponendole alle rappresaglie naziste. Siamo infatti verso la fi-
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Nel convento Carmelitano di Echt nei Paesi Bassi Suor Teresa scriverà la Scientia Crucis (La Scienza della Croce: Studio su Giovanni della Croce), rimasto purtroppo incompiuto. 3 L’ingresso in Convento le fu rinviato per motivi di opportunità, quali la necessità di ambientarsi nella vita della nuova fede, di non urtare ulteriormente la madre, già profondamente dispiaciuta della sua conversione, ma soprattutto per l’importanza attribuita al proseguimento dei suoi studi (dal sito: .http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=SteinE.h tml).
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ne del 1938: ed è ancora molto vivo il ricordo della “famigerata «Notte dei cristalli»” (la notte fra il 9 e il 10 Novembre) che portò alla distruzione di tante sinagoghe, di tanti negozi gestiti da ebrei e alla morte di centinaia di esseri umani colpevoli soltanto di essere israeliti. La Madre Superiora, dapprima esita a soddisfare la richiesta di Suor Teresa, ma successivamente manda a chiamare il dottor Strerath, medico del Convento, affinché l’aiuti nell’impresa. Strerath, pur consapevole della difficoltà che avrebbe incontrato, accetta l’ incarico di far fuggire Edith (ma lei soltanto e non insieme alla sorella Rosa) e farle raggiungere il Carmelo di Echt, in Olanda, che è pronto ad accoglierla. Di grande suggestione in questo contesto sono le preghiere della Madre Superiora a Dio perché l’aiuti a salvare una consorella la cui vita “è preziosa perché prezioso è il suo spirito” e la preghiera a Gesù di Suor Teresa la quale, preoccupata per il suo futuro così incerto, Gli chiede, come Egli stesso aveva chiesto al Padre Suo nell’Orto degli Ulivi, di allontanare da lei il calice amaro della sofferenza. Giunge frattanto il Natale e l’atmosfera si fa meno tesa anche fra le suore. Il dottor Strerath si reca finalmente da loro per gli accordi definitivi; ma alcuni soldati tedeschi, richiamati dal suo guardarsi intorno con fare piuttosto circospetto, lo seguono e fanno irruzione nel Convento. Fortunatamente la loro visita non ha conseguenze spiacevoli, perché lo troveranno accanto al capezzale di Suor Maria Ausiliatrice, che è davvero moto malata. Il progetto comunicato da Strerath prevede che la fuga di Suor Teresa avvenga per mezzo di un camioncino, guidato da un dissidente tedesco, il quale non condivideva “le stragi e la violenza” a cui erano “costretti a macchiarsi i suoi compagni”. Raggiunta la frontiera, avrebbero poi tentato di entrare in Olanda attraverso sentieri impervi, proprio durante la notte di Capodanno, in cui probabilmente la sorveglianza sarebbe stata meno accurata. Commovente è l’addio di Suor Teresa da
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Rosa e dalle altre consorelle e significative sono le parole del Coro che commenta l’ azione: “Come la luce dell’alba si leva / … / così nel chiuso del chiostro ombroso / l’ animo tuo fervente si aprì alla Parola”; il che contribuisce a rendere l’atmosfera ancor più suggestiva. Il secondo atto ha inizio nel Carmelo di Echt; protagoniste le due sorelle Stein, essendo ormai anche Rosa riuscita a raggiungere Edith in Olanda. L’atmosfera è serena e le due sorelle si scambiano parole affettuose. Rosa riconosce l’autorevolezza e la saggezza di Edith, mentre questa esalta la “silenziosa grandezza delle anime semplici” come quella di Rosa. D’ altra parte la vita a Echt, almeno per qualche tempo, scorrerà serena e le due sorelle potranno abbandonarsi ai ricordi, evocando la loro giovinezza. Si scopre così come Edith sia ancora tormentata dal rimorso per aver fatto soffrire, con la sua conversione al cattolicesimo, la madre, ebrea convinta e praticante. E, in un veloce flash-back, compare sulla scena anche la madre, la quale esprime tutto il suo dolore per quella conversione che tanto l’ ha amareggiata. Le sue parole sono: “Prima la filosofia non ti permetteva di aspirare al divino, ora una inaspettata svolta della tua vita ti porta lontano da me, da noi, in una dimensione in cui non posso né voglio raggiungerti”. Edith fu infatti combattuta a lungo tra la gioia di seguire Dio, al quale spesso si rivolgeva con la preghiera, e “la fedeltà all’amore materno” del quale fortemente avvertiva il richiamo. Dio alla fine vinse, ma il suo animo ne fu lacerato. Tra le figure evocate nel libro c’è anche quella di Hans Lipps, un giovane che un tempo, col suo fascino, aveva conquistato Edith; “un incanto giovanile” che però svanì, non appena ella venne a sapere che Lipps era già sposato. E fu proprio questa delusione ad aprirle “le porte del Cielo”4. “Cominciai a sentire il fascino di uno sposo più grande e potente che mi attirava con la forza del suo sacrificio”, sono le parole con cui Edith ricorda il proprio passato, nelle rievocazioni con Rosa (p. 32). 4
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Gli eventi esterni però incalzano e la pace e la tranquillità anche a Echt hanno breve durata: il 1° settembre 1939 ha infatti inizio la Seconda Guerra Mondiale e la Germania nazista occupa proditoriamente l’Olanda. Ancora una volta Suor Teresa Benedetta della Croce e sua sorella Rosa sono in pericolo. Suggestivo è qui l’intervento del Coro, che ha immagini di grande efficacia, come quella del capriolo che corre inseguito da famelici cani, raffiguranti la Gestapo: “I cacciatori a cavallo / vestiti di panno e di cuoio / liberano i cani che, senza guinzaglio, / ringhiando rincorrono la preda. / Il povero capriolo, ora fugge / ora cerca riparo tra il fitto fogliame / ma i cani famelici lo stanano, / lo spingono nella piana / dove alla posta ci sono i padroni” (p. 33). Gli avvenimenti si succedono rapidamente: il 12 ottobre 1941 Suor Teresa apprende la notizia, che profondamente l’addolora, della morte di Hans Lipps sul fronte orientale; e, nell’aprile dell’anno successivo, entrambe le sorelle Stein, insieme a tanti altri ebrei, vengono convocate a Maastricht. Sono interrogate da un capitano di polizia, che con modi bruschi ed arroganti chiede loro la ragione per cui non portano cucita sull’abito “l’iniziale rossa che sta per Jude”, né la stella di Davide, che sono i segni distintivi della loro appartenenza alla razza ebraica e dei facili mezzi di riconoscimento. Edith pronta risponde che obbedirà a quella richiesta, ma soltanto in ossequio alla Volontà Divina e non per sottomissione ad “un potere che persegue la violenza e la discriminazione”; dopo di che esce, non dando il tempo al capitano di reagire. Le due sorelle si allontanano, ma sono molto turbate, perché sanno di essere ormai alla mercé dei loro nemici. L’atto si chiude con le parole del Coro che preannuncia la tragicità dell’imminente futuro: “Viene ululando un vento di tempesta: / le cime degli alberi sconvolte / ne assecondano la foga, / le nubi s’addensano sui monti”; e così seguita: “Verranno i signori del male / a oscurare la pace e l’innocenza, / a rapire i sogni dell’animo / e devastare i cuori e le coscienze” (p. 37).
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All’inizio del terzo atto la Priora del Carmelo di Echt avverte Suor Teresa dell’ imminente pericolo e l’invita a salvarsi fuggendo con la sorella nel Carmelo di Pãquier, nei pressi di Friburgo, in Svizzera. Teresa dapprima rifiuta quella fuga, ma poi, per la salvezza di Rosa, acconsente. Vengono avviate così le trattative, le quali sembrano procedere per il meglio, quando il 2 agosto 1942 le SS bussano alla porta del Convento per arrestare entrambe le sorelle Stein: Teresa e Rosa hanno soltanto cinque minuti per prendere le cose da portare con sé e, mentre stanno ancora salutando le consorelle, vengono sospinte dai soldati verso l’uscita. Si distingue in questa scena per la sua brutalità un soldato che vorrebbe percuoterle, ma viene fermato da un ufficiale della Gestapo. È Franz Heller, un compagno di studi di Edith a Gottinga, il quale la riconosce ed insieme rievocano un passato ormai lontano, in cui ebbero anche parecchie divergenze ideologiche. Franz però ha sempre ammirato, e tuttora ammira, il rigore e l’onestà intellettuale della sua vecchia amica e vorrebbe aiutarla: “Voglio salvarla, non perché è ebrea, non perché è diventata una fervente cattolica, ma per la sua superiorità intellettuale e culturale che ho sempre invidiata” (p. 43). Ma Suor Teresa si oppone: comincia infatti ad avvertire dentro di sé che è giunta ormai la sua ora e vuole “morire con il suo popolo e per il suo popolo”; e pertanto si affida totalmente alla volontà di Dio. Toccanti sono le parole con cui Edith rifiuta l’aiuto dal vecchio compagno di studi: “Ho tanto freddo al cuore. Lasciami al mio destino. Perdonami. Anch’io, talvolta, con la mia intransigenza ho fatto sì che il nostro rapporto amicale si deteriorasse. Addio, ti auguro di non essere solo quando verrà la tua ora” (p. 44). E così, insieme agli altri, le due sorelle si avviano verso la deportazione e il martirio. Duro è il viaggio sul treno dei deportati, molti dei quali, presi dallo sconforto, si ribellano al loro destino. Così è di Rosa la cui fede per un istante vacilla, ma che prontamente viene invitata dalla sorella a guardare più in
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alto e ad accettare la prova alla quale Dio la sottopone. E così è pure di Davide, un altro deportato che, avendo udito il loro discorso, esprime tutto il suo dolore e la sua acrimonia per la tragica fine della sua famiglia e il crollo delle sue speranze, Edith ha parole di pace e di conforto anche per lui, giungendo perfino a raccontargli le vicende che l’hanno portata dall’ateismo alla fede. Un dialogo che dimostra la capacità dell’autrice di cogliere i personaggi nei loro aspetti più peculiari, rivelandone l’intima essenza. Intanto il viaggio continua, con l’intervento del Coro, che commenta l’azione, sinché il convoglio giunge a Westerbork, in Olanda, per raggiungere Auschwitz il 9 agosto 1942. Durante tale viaggio Suor Teresa si distingue per la sua opera di assistenza morale, specie nei confronti dei bambini, e per la sua generosità e il suo altruismo, sino al momento in cui (ed anche qui il Coro ha alte parole) il convoglio giunge alla meta, dove un altoparlante ordina a tutti di spogliarsi, per entrare nel capannone delle docce, nel quale una pioggia mortale porrà fine alle loro sofferenze. Mentre si avviano al martirio, un cono di intensa luce scende su di loro e li avvolge di un’atmosfera sovrumana. Termina così un dramma dal quale emerge netta la figura di Santa Teresa Benedetta della Croce, un’intellettuale e una santa di alto rilievo, che Rachele Zaza Padula ha rappresentato in maniera esemplare con questo suo lavoro, condotto con rigore ed in modo quanto mai efficace. D’altra parte la Padula è ormai già nota al suo pubblico per aver scritto altri testi teatrali di notevole impegno, come i drammi: In casa dell’ Illustrissimo Don Carlo Gesualdo, dialogo tra Maria D’Avalos e Madre Sveva (1997); Gherardo della Porta (2004); Francesco di Messer Pietro di Bernardone (2008) e più recentemente Oscar Arnulfo Romero (2014, con cui lo stesso anno ha vinto il Premio “Città di Potenza”. Liliana Porro Andriuoli RACHELE ZAZA PADULA: SANCTA TERESIA BENEDICTA A CRUCE (Osanna Edizioni, Venosa, 2011, € 10,00)
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Oggi c’è poco vento Ma quando salirà a dipanare le piume delle rondini scioglierà cera dai miei occhi Ti rivedrò allora con un cesto di viole fra le dita Giannicola Ceccarossi Da Fu il vento a portarti - Phalaenopsis Ibiskos Ulivieri, 2015.
II Dove ritagli di cortecce disegnano frantumi d’acqua questo scorcio di nuvole che si colora di tortore e vigne ha sete di brezze Nella casa del silenzio a sfogliare il tuo nome è la rugiada Giannicola Ceccarossi Da Fu il vento a portarti - Phalaenopsis Ibiskos Ulivieri, 2015.
OPPRENSIONI ED AIUTI Stellante è la pazienza mia come e più d'una stella che nonostante tutto ad illuminar continua anche s'è ben differenziare la pazienza dal timore o titubanza e l'aiuto dall' opportunismo o condiscendenza perché... Servire è un dovere Amare è un potere ed è mio il Volere. Michele Di Candia Inghilterra
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LA PERSONALITÀ POETICA DI
ELENA MILESI di Paola Insola
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LENA ha lasciato questo mondo il 9 ottobre 2O15 dopo una lunga malattia, sofferta in tre fasi di "sfide" documentate nei suoi ultimi libri: ALLA RIVA (2005), SISMO/GRAFIA, CON PAUSE (2O12), IL QUADERNO DELLA SFIDA (2O14). Malattia vissuta con la ferrea volontà di resistere per portare a termine l'inventario e la collocazione delle opere del marito, l'artista GIUSEPPE MILESI. IL QUADERNO DELLA SFIDA è dunque l'ultimo libro che ha concesso agli Amici. Mi piace parlarne ora, con la fotografia di Elena intenta a leggere quel quaderno colorato che, a suo tempo, l'ha chiamata ad affrontare la pagina in modo particolare e speciale, adeguando temi e scrittura alla diversa colorazione del quaderno, alternando le sfumature
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degli stati d'animo e delle emozioni. Tra le cose ricevute da Elena dagli anni '80 (lettere, cartoline, biglietti/manifesto con le opere del marito) l'attenzione si ferma su una cartolina, inviatami da Roma, con una missiva affettuosa e l'immagine della Pietà di Michelangelo. Sapendo la sua storia ho accolto il messaggio. Anche Elena ha tenuto tra le braccia un figlio (bambino ) privo di vita. PER NERI (stralcio da una pagina "viola") Lioli', intatto spirito beato costantemente accanto d'aria t'abbraccio, forte stringendoti al mio cuore stanco di sempresempre inseguirti vagabondo per i cieli. La penso nella casa di Bergamo, vicino al suo amato Pitt (così chiamava il marito pittore) con le pareti tappezzate di quadri-colore. In quella stanza ha voluto chiudere gli occhi: (da una pagina "arancione") A ravvivare la casa, tutti i colori della tua tavolozza : predominanti i rossi degli arancioni (......) Color d'arancia i tuoi cartoni supporto di ragazze belle Color d'arancia le sciabolate di luce sulle tele. Nelle pagine "verde scuro" ritrovo il suo fiume che in altra poesia (26 agosto) ha ripercorso sulla chiatta, provando la "familiarità d'infanzia": La mia Adda! Tra mille acque che vanno, la riconosco. Non mi confondo : alle chiuse schiuma bianca un andare verde-terso, placido maestoso, fra disabitate rive verde bosco. Nelle pagine "verde chiaro" colloca i prati, le gemme della primavera che sanno "ricreare un'ombra/della felicità perduta", la verde campagna lombarda e l'autunno che ritorna: "Squilla nel verde l'oro, emerge/come luce, inno alla gioia".
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Poi, nelle "pagine blu" pronuncia notte, luna e ricordi di giorni lievi nella sua "casetta sulle ruote nell'eden di Pallante": E a notte la luna che argentava il mare, quando camminavano - stupore di liquido mercurio nell'argento dell'acqua. Nella mia scelta in questa commemorazione, solo flash di una vita sofferta e ritrovata, in parte, nell'amore, nella parola, tra i colori del marito, nell'abbraccio totale con la natura. La personalità poetica di Elena Milesi si avvale di un caleidoscopio vastissimo di sfumature e di forme, distinti dalla sua individualità, dalla sicurezza apportata da un ampio bagaglio culturale e da un forte anticonformismo critico. Una forte indignazione è dettata nel suo precedente libro: SISMO/GRAFIA.CON
PAUSE, testimonianza di un mondo decadente, dove il sismografo del poeta registra sconvolgimenti e lacerazioni morali, sismi di disperata condizione umana, registrati dall'utilitarismo che sfibra la terra, macera le menti, mitiga il senso di reciprocità. Il poeta può vincere con "la parola non distratta" realizzando la comunicazione. E Poesia possa turbare il mondo scuotendolo decisa.
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A noi cammini accanto tenendoci per mano. Ciao Elena, noi Amici ti pensiamo felice. I tuoi versi li portiamo con noi "quando si annulla il mondo / canta l'universo". Paola Insola A DANTE Sono trascorsi ormai settecent’anni dal giorno doloroso dell’esilio, quando alta levasti la tua fronte per abbracciare con un solo sguardo cielo e terra, l’abisso e lo splendore; e fu dono sublime la parola che ti recò la pace ed il perdono. A noi, persi nei transiti di un tempo feroce, è un chiaro bene ed è conforto ripetere i tuoi versi e ripercorrere il tuo viaggio, dal baratro alle stelle. La tua luce ci giuda e la speranza che infonde la tua fede nell’Eterno. Perduti in questo nostro triste inferno, dal fondo della tenebra che avanza, in te troviamo una nuova certezza ed un porto sicuro ove approdare, dopo le insidie di un infido mare e le ardue fatiche di un cammino oltre il quale ci additi la Salvezza. Noi lo guardiamo: è sempre più vicino quel tuo porto; è di fuoco la speranza. La tua Fede è un acciaio che non si spezza. Elio Andriuoli Napoli
IL SILENZIO DEI GABBIANI Sviolina l’arte il sapere dell’anima. Bussa leggero spirando sogni il silenzio dei gabbiani. Lorella Borgiani Ardea (RM)
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FRANCESCO BRUNETTI E “IL VOLO DI UNA PIUMA” di Luigi De Rosa
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UÒ esserci forse qualcosa di più leggero, e lieve, di una piuma? Più portato, per natura, al volo, alla dolcezza, alla libertà? Forse è l'anima? Solo un poeta e narratore profondamente “lirico” e “affabulante” come Francesco Brunetti, medico scrittore (nato a Sestri Levante, Genova, ma residente a Chiavari, a soli dieci kilometri) poteva far assurgere una soavissima piuma ad un ruolo centrale in un libro di poesie. E si tratta di una piuma che, in una fascinosa fotografia di Guido De Marchi, campeggia sulla copertina, librandosi al di sopra di più comuni nuvoloni bianchi su sfondo blu. La silloge è strutturata in due parti: la prima comprende venticinque Piume, la seconda ventiquattro Poemetti (petits poèmes, piccole poesie...). Il tutto è preceduto da una presentazione critica Al lettore a firma di Elvira Landò, di Chiavari, già docente di scuola superiore e dirigente scolastico, poetessa e critico letterario. Che la “piuma” sia un aiuto efficace per individuare il senso dell'esistenza generale (dell' uomo come di tutti i componenti del nostro pianeta e dell'Universo intero) è un fatto indiscutibile. L'Autore, da poeta autentico, ne è fermamente convinto. L'assunto poetico viene portato avanti da
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Brunetti con encomiabile e commovente passione (non disgiunta, qua e là, da “sfinimento” dell'anima) anche in un altro libro, anch'esso edito da Internos di Chiavari (www. internosedizioni.com) intitolato Strane idee sul volo di una piuma, anch'esso ottimamente presentato dalla Landò. Questo testo, che si presenta, originalmente, come un racconto in versi, è stato presentato con successo (sempre dalla Landò) anche in pubblico, nell'ambito dei Venerdì letterari del Salotto Letterario “Nuova Pen(n)isola San Marco”, il 6 novembre scorso, nella Biblioteca Civica di Sestri Levante. Non si può commentare agevolmente una scrittura come è quella di Brunetti in queste due opere. Una scrittura che è, al tempo stesso, realistica e visionaria, spoglia e lussuosa, anelante e rassegnata, speranzosa e disperata. Una scrittura per la quale, assai efficacemente, la suddetta presentatrice ha scritto, fra l'altro: “... Brunetti dice, con purezza che sembra povera, ma è scarna e compiuta, il sentimento del tempo con il suo rubare e restituire, la caducità degli oggetti e delle esperienze, l' imprescindibile esigenza di un tu in cui specchiarsi...e lo sguardo è vivo perché vi si può aggrappare, e anche la nostalgia, il dolore di un passato il cui ritorno desiderato o violentemente imposto diventa figura umana, si fa compagna intravista nell'ombra, misteriosa presenza a cui dare del tu, in un dialogo frammentato ma ritornante...”. Aggiungerei soltanto che, oltre alla “piuma”, il mezzo e l'interlocutore principe per Brunetti è il “mare”. Poeta del mare, egli può essere considerato, a buon diritto. Egli dimostra di conoscere e di possedere, sul piano umano e artistico, l'elemento mare in tutte le sue implicazioni più importanti, da quella estetica a quella psicologica, da quella simbolica a quella sentimentale. Luigi De Rosa
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LA CITTÀ DI PECHINO FRA LE PRIME NEL MONDO di Leonardo Selvaggi I ECHINO, capitale della Repubblica Popolare Cinese, supera gli 11 milioni di abitanti, ha un’estensione di 17.800 kmq, compresa tra due fiumi, il Peh Ho a est e lo Yungting Ho a ovest. A 43 metri sul livello del mare, ha un porto naturale sul mar Giallo a 110 km a nord ovest di Tientsin. La stagione migliore per visitare Pechino è l’autunno. Ha un clima di tipo continentale. D’inverno i venti freddi provenienti dalla Mongolia fanno scendere la temperatura sotto zero. L’estate è caldissima. Pechino è situata a nord est, a ridosso della Grande Muraglia, costruita a difesa del pericolo delle invasioni mongole. Ha una lunga storia; vicino alla città, nel 1929, in una grotta sono stati trovati i resti dell’ “Uomo di Pechino”, il Sinanthropus pechinensis, un ominide vissuto circa 600.000 anni fa. I primi insediamenti abitativi risalgono al II millennio a.C.. Centro dello stato feudale di Yen dall’VIII al V secolo a.C.. Pechino dal nome Chi distrutta nel 226 a.C. risorge come Yen nel 70 d.C. Viene detta, poi, Nan-ching dagli invasori Kitai, che ne fanno la loro capitale meridionale. Per gli Jurcen dal 1153 Chung-tu, cioè “capitale del centro”. Nel 1215 i Mongoli, guidati da Gen gis Khan, conquistano la Cina settentrionale. Pechino devastata e qualche decennio dopo ricostruita dal suo successore Kubilai Khan che occupa l’intero paese. Abbiamo la Khanbalik, “la città del Khan”, e in cinese Tai-tu,
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cioè la grande capitale, la Cambaluc di Marco Polo. Pechino in questo periodo diventa un centro ricco e splendido, di forma quadrata e cinta da mura, che Marco Polo conosce e descrive nella sua opera “Il Milione”. Ancora oggi un ponte vicino alla città viene indicato come il ponte di Marco Polo, fra i tanti luoghi di cui parla il viaggiatore italiano. Pechino subisce conquiste, distruzioni e lavori di fortificazioni, attuati dalle diverse dinastie che si succedono. Nel XIII e XIV secolo, durante il dominio della dinastia mongola degli Yuan, la città rimane capitale dell’impero. Nel 1368, liberata dal dominio mongolo viene chiamata Pei-ping “Pace del Nord”. Tale denominazione è conservata fino al 1421, quando ritornata ad essere capitale, dopo che i Ming hanno provvisoriamente trasferito la sede dell’impero a Nanchino, la città assume la
denominazione di Pei-ching “Capitale del Nord”. All’epoca della dinastia Ming (13681644) Pechino acquista la sua forma stabile e il suo aspetto monumentale, imperiale, soprattutto nella prima metà del XV secolo. In questo periodo si ha un piano di ricostruzione urbanistica ed architettonica, che dà la fisionomia dell’intera città come appare oggi. I palazzi costituiti da due piani non devono essere superati dalle abitazioni. La vecchia città è una vasta distesa di case basse di colore grigio. Le dimore imperiali hanno muri rossi, terrazze di marmo, tetti gialli. I templi, come altezza e come colori, sono uguali ai palazzi dell’ imperatore, denominato il “Figlio del Cielo”. II Nel 1860 al termine della guerra anglo-franco
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cinese la capitale è occupata, fino alla firma del trattato di pace, dalle truppe delle potenze straniere. Nel 1912, al momento della Repubblica, Pechino viene dichiarata capitale. Nel 1927, instaurato il governo di KuoMintang, la capitale trasferita a Nanchino e Pechino di nuovo chiamata Pei-ping. Dopo l’ occupazione dei giapponesi nel 1937 al 1945, alla loro capitolazione, torna ai nazionalisti, nel 1949 entra l’esercito di liberazione. Il nuovo governo comunista ridà alla città il nome di Pei-ching e diventa capitale della Repubblica Popolare Cinese. La città imperiale cambia, si apre al popolo, viene realizzata la grande piazza Tien-an-Men, la piazza della pace celeste, circondata da imponenti edifici pubblici. La più grande piazza del mondo, ci sono state le immense adunate al tempo di Mao-Tse-tung, oggi seppellito in un
mausoleo al centro della stessa piazza. Dal punto di vista urbanistico Pechino è una città composita: nella parte interna comprende un nucleo antico, costituito da due città murate, la città tartara a nord e la città cinese a sud. La prima detta anche “Città proibita” o “purpurea”, vietata un tempo a chi non faceva parte della Corte. Ricchezza di colori e lussuose decorazioni. I tetti di brillante ceramica, terminano agli angoli con le figure del drago e di altri animali sacri come il leone, la gru, la tartaruga, raffigurati in bronzo e in pietra. Gli edifici sono di colore rosso, verde, giallo. Due volte all’anno, al solstizio d’inverno, a piedi l’imperatore percorreva la strada che congiunge la città proibita al tempio del cielo, compiva gli atti religiosi più importanti dell’ antica Cina. Gli abitanti, chiusi nelle loro case, non dovevano vedere l’imperatore che an-
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dava al tempio a chiedere il favore del cielo per la prosperità della Cina. Attorno un grande parco. Oggi sia la città imperiale che il tempio del cielo, di forma rotonda, con la cupola di legno intagliata e colorata, sono frequentati dai Cinesi in grande folla, ogni giorno. Tutta questa parte monumentale ricorda il tempo passato che testimonia l’arte e la laboriosità del popolo cinese. Nei palazzi imperiali hanno sede vari musei, storico, delle antichità, delle ceramiche e porcellane, geologico, di arte primitiva cinese, paleontologico. Davanti all’ingresso della “Città proibita” si trova la già nominata piazza Tien-am-Men, divenuta il centro spirituale della nuova Cina, in cui vengono celebrate le principali feste e ricorrenze della Repubblica. Nelle vicinanze si trovano i templi principali di Pechino: quello della Terra, della Luna, del Sole, dell’ Agricoltura, il tempio di Confucio. Templi insigni che risalgono alle epoche Ming e Mancia (XV e XVI sec.). III Attraversiamo la città cinese con i caratteri orientali, è centro commerciale. Qui sorge il tempio del Cielo, una delle più belle costruzioni di Pechino. Alla periferia si trova il Palazzo d’Estate, costruito dall’imperatrice Tzuhsi in uno splendido contorno naturale, ornato con padiglioni e fontane di gusto francese della prima metà del XVIII sec. Ricordiamo le tombe dei Ming sulle colline a nord della città e l’altro segno del passato imperiale, la famosa Opera di Pechino, che mantiene viva la tradizione teatrale cinese. Nelle sue rappresentazioni non contano tanto il testo e le scene, ma la mimica, il canto e le acrobazie degli attori truccati, dai costumi elaborati e colorati. Durante la Rivoluzione Culturale molto del passato è stato ripudiato. Pechino è la capitale di una grande potenza mondiale con un forte tasso di crescita economica. Attorno al vecchio centro ci sono quartieri moderni, zone industriali, pur prevalendo il carattere politico-amministrativo. Al di là dei templi, dei monasteri, Pechino continua ad ampliarsi sfruttando la sua posizione geografica, all’ in-
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crocio tra Cina settentrionale, Manciuria e Mongolia. L’area urbana si è allargata specialmente verso nord-ovest, raggiungendo il Palazzo d’Estate con quartieri residenziali e universitari e verso est con quartieri industriali ricchi di stabilimenti siderurgici, meccanici, tessili, chimici, conciari, della ceramica, del vetro, della gomma, della seta. Pechino oltre ad essere la capitale è centro culturale. Ci sono quattro Università, la Biblioteca Nazionale, la più grande del paese, l’Accademia delle Scienze e istituti scientifici. Legata alle tradizioni, ha un artigianato famoso in tutto il mondo. Importante nodo di comunicazioni, oltre ad un aeroporto internazionale, abbiamo un’ampia rete ferroviaria e stradale, 13 linee di metropolitana che congiungono l’area industriale con quartieri residenziali. Un porto fluviale all’estremo nord del Canale imperiale. Numerosi sono stati dal 1949 in poi gli ampliamenti e i progressi in ogni settore, apportati dal governo comunista alla città, che si pone oggi per importanza fra le prime del mondo. Leonardo Selvaggi
WHOIS A S.C. Le tue mani non conoscono pietà né vergogna. Non lo senti – che non ti sopporto, che il tuo peso è una tomba sopra il mio petto. Mi schiacci il seno, tagli il mio respiro in mille frammenti di nero. Ti dicevo: lasciami, lascia che torni a danzare in questa casa che non amavo – che non sapevo di amare. E tu mi schiacciavi, mi schiacciavi, spalancavi le mie ginocchia, togliendomi fiato e sangue –
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era come morire in una scatola (sono un fiore di gelsomino da nascondere sotto la neve) mentre io avrei voluto ridere e ridere, fino a provocare terremoti colorati tra le pareti e danze di scarabei sul balcone. Ma tu mi stringevi e mi stringevi – mi supplicavi di chiamarti Amore e mi colpivi, mi colpivi forte perché mi adoravi: senza volto, senza braccia, non potevo difendermi né respingerti. Oh, pietà, pietà – ti dicevo – io voglio vivere, imparare a gioire di quella leggerezza che non è mai appartenuta al mio sonno, alle mie giornate d’inverno. Lo ripetevo di continuo, senza soste per prendere fiato, ma tu non ascoltavi – non ascoltavi mentre facevi a pezzi il mio corpo, i miei risvegli, le mie elitre perdute. Ti dicevo: lasciami, lascia che torni a danzare – ma tu mi chiudevi e mi chiudevi per sempre, Amore. Eloisa Massola IL CROCO I Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE Il numero di questo mese è dedicato a: ANNA TROMBELLI ACQUARO EMOZIONI SPARSE AL VENTO
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ADDIO ANTONIA, SORELLA D’UN’INFANZIA DI FATICHE Mentre si stava per andare in macchina (lettori e collaboratori sanno che tra il diciotto e il venti di ogni mese chiudiamo con la raccolta del materiale da pubblicare), ci giunge la triste notizia che venerdì 20 novembre 2015, presso l’ospedale di Polistena (RC), è deceduta Antonia Defelice, sorella maggiore del nostro Direttore.
Donna semplice, umile, gentile, ha trascorso l’intera esistenza al servizio della famiglia: il marito Giuseppe Corigliano - uomo splendido e allegro, stroncato, purtroppo, anni fa, da un male incurabile - e i figli Rita, Mariannina e Costantino. Specialmente verso quest’ultimo sono andate le sue attenzioni, perché offeso fin dalla nascita per colpa di un dottore che certamente non sapeva usare il forcipe. Accanto alla perdita del marito, la vicenda di Costantino è il fatto più doloroso che ha scandito i suoi giorni e che il fratello Domenico
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adombra nella lirica “Sorelle d’una infanzia di fatiche”, che qui intendiamo riportare. Mentre porgiamo le nostre condoglianze, ai figli e a tutti gli altri parenti, anche a nome dei nostri lettori e collaboratori, chiediamo al nostro Direttore un qualche ricordo. “Sono stato sempre lontano dal mio paese per ragioni di studio e di lavoro - ci dice - e perciò, con lei, come con tutti gli altri, ho trascorso solo pochissimo tempo. Ma, insieme, abbiamo goduto l’infanzia, insieme abbiamo faticato (lei sempre più di me) e insieme abbiamo sofferto le ristrettezze di un periodo assai triste per l’Italia intera: la dittatura e la guerra; eravamo insieme allorché, nelle campagne di Baldes, tra gli ulivi e gli aranceti, dal cielo ci son piovute le bombe. A dare la stura ai ricordi, riempiremmo pagine. Accenno, perciò, solo a due fermo immagine, a due vere e proprie fotografie della memoria: Antonia bella e prosperosa nelle compagne di Baldes, mentre, alla vigilia del suo matrimonio, saliva, per un viottolo tortuoso, la collina in cima alla quale sorgeva la casa colonica: in testa, in fila indiana, c’era mio padre, a seguire mia madre e poi Antonia, sprizzante felicità. Il fermo immagine memoriale è nei pressi di un pero - che non faceva mai frutti, soffocato com’
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era dall’ombra degli ulivi giganteschi -; di questa pianta di pero accenno nel racconto “La fonte canora”. Il secondo fermo immagine è sulla scala di fronte all’orto nella grande casa di Anoia. Le rare volte che scendevo da Roma al paese, immancabilmente ci si sedeva sui gradini assolati, spesso attorniati dai bambini. Si parlava sempre poco, essendo sempre stati, i nostri, in famiglia, linguaggi interiori, del cuore. Ed ora che Antonia se ne andata, la rivedo ancora più nitida, seduta su quella scala, in silenzio, “a contemplare in cielo” le nuvole, “giganti illimiti e bizzarri” che tanto l’attraevano e mi attraevano, dalle quali sicuramente, adesso mi guarda e ci guarda. Addio, Addio, Antonia, sorella cara d’una infanzia affabulata e di fatiche!” (n. s. p.) SORELLE D’UNA INFANZIA DI FATICHE Se nella notte esco a contemplare alto il pallore della luna astata sull’eucalipto, panico mi assale della tua spettrale solitudine. La torre illuminata daga è nel cielo d’onice
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e statica mi appare la nube della ferriera piegata sui Colli Albani. Dove sono i tuoi figli? Rannicchiati negli alveari, umiliati dal trauma dell’esilio. Tu, rapinata, fredda, tradizioni non hai, Pomezia, affetti, radici che li addolcisca, un passato per farti amare. Sorelle d’una infanzia di fatiche, questo vostro fratello divorato dall’ansia, che fuggire ha dovuto la nostra terra d’odio e di rancore, ignoto vive in questo luogo assediato dalle fabbriche, ove anche i morti se ne vanno quieti, furtivi quasi, quasi senza dramma; ove si fa l’amore complessati, attenti che non scocchi scintilla d’occhi ceruli in grembi levigati. Vive affratellato ai vinti, eterno attore della parte scomoda, in lotta eterna alla nuova genìa che si dilania il cuore per un cane, ma getta i bimbi dentro i cassonetti. Vive sognando un filo d’erba coperto di rugiada come quando a maestri aveva uccelli, alberi, acque, le rane dello stagno. Sorelle radicate nel cuore vi penso sotto il noce dell’orto a dare un senso alla mia poesia. E tu, Antonia, schiantata dal dolore per quel tuo figlio umiliato dalla nascita. La tua infinita pena senza echi
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è per gli altri, come sarà la morte, allorché disperati e soli saremo con noi stessi se la fede non viene a conforto, a schiuderci la porta dell’eterno.
nella pausa del tempo, capaci di raccogliere il vero suono e percepire l'inverno che attende, opaco nell'assorta malinconia. Adriana Mondo
Sorelle di lotte ciclopiche, di paure e vertigini, di fame e di silenzi, parlate ai vostri figli della nostra infanzia avvelenata, della tristezza negli occhi delle capre, del mio e vostro sudore, delle pesanti ansie delle notti... Vogliatemi bene. Ch’io possa avere qualcuno che lotti, dopo la mia morte, ad affermare la mia poesia. Domenico Defelice da: Nenie ballate e canti (1993)
LA ROSA Splendi in silenzio, di luce divina, sarà il vento a posare sui tuoi petali il profumo degli angeli, e tutti i colori dell'iride. Mi dà pena l'atroce brevità del tuo esistere, pur se con la tua grazia mi porgi un lieve dono di serenità. Ti accolgo qui nell'anima mia per un attimo di vita celeste. Adriana Mondo Reano, TO
IL VERO SUONO Le nuvole volano basse oggi, ascoltano gridi selvosi dove sfociano sentieri. Il vecchio abete sta sveglio e pensa, all'ombra delle rocce, vicino a grigi cespugli. Li vedo avvolti nel rigore del vento,
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(Senza titolo) Ti hanno stretto forte con ruvido spago robusto. Le ginocchia, i polsi. Le tue risate turchesi tramutate in smorfie di carta. Ti volevano pentito e rabbioso, minuto e impaurito – di certo non impazzito d’amore, non liberato, non ubriaco di rugiada e della luce della luna e delle stelle. In tutti i modi hanno provato a tenerti lontano dal mio grembo, dalla terra che ti stringe e ti consola, dall’acqua che ti partorisce in cicli perpetui. Hanno annichilito il tuo seme così come ora impallidiscono davanti al mio sangue. E fremono, imprecano per conoscere l’intima frequenza di ogni nostro spasimo. Ma la luce è di perla sull’acqua, cola lungo le mie gambe. E’ il silenzio, mia anima di giada, infine il silenzio. Moriremo d’amore al dodicesimo rintocco – e saremo noi la grande vibrazione, l’ultimo colpo di lombi, il cielo madido che si riversa fertile sul nostro unico orizzonte arrossato. Eloisa Massola Casale Monferrato VC
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I POETI E LA NATURA - 50 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
La Natura senza l'uomo, secondo la poesia di LORD BYRON (1788-1824) “C'è un piacere nei boschi senza sentieri, c'è un'estasi nella spiaggia desolata, c'è vita, laddove nessuno si intromette, accanto al mare profondo, e alla musica del suo sciabordare: non è che io ami di meno l'uomo, ma la Natura di più.” Sembrano scritti oggi questi versi, come estremo desiderio di solitudine e di riposo per le orecchie e per la mente, e di reazione alla folla onnipresente, che si “intromette” dovunque, che occupa tutti gli spazi. E invece sono stati scritti da lord Byron, più di duecento anni fa. George Gordon Noel Byron, più noto come
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Lord Byron, ebbe enorme influenza tra i poeti romantici inglesi. Non ebbe un'infanzia felice, orfano di padre a soli tre anni, e afflitto da un'umiliante zoppìa per un difetto ad un piede. La sua poesia avrebbe creato addirittura una moda, che si sarebbe diffusa più in Europa che in Inghilterra, venendo considerata l'essenza del Romanticismo, o addirittura del “byronismo”. Esordì a diciotto anni, con una silloge stampata a proprie spese, Versi effimeri (1806) seguita un anno dopo da un'altra, intitolata Ore d'ozio. Fino al suo capolavoro, Don Giovanni (1819-1824) si mantenne fedele ad una formazione letteraria classica, snobbando qualsiasi innovazione, specie formale. Insofferente, comunque, delle strettoie della vita in società, Byron tenne uno stile di vita anticonformista, tendente ad uscire dalle regole della morale comune. Non tollerava neppure i rilievi dei critici letterari (specie se non inglesi) con i quali polemizzava aspramente (acquisendo, così, improvvisa notorietà). Esprimeva, con estrema chiarezza, quell' atteggiamento del poeta considerato “romantico”, con una poesia intrisa di malinconia, irrequietezza, incontentabilità, ribellione (oggi si direbbe, anche, contestazione). Con l'amore sempre drammatico, se non tragico: con l'estrema sensibilità e propensione a lasciarsi sedurre dalla Bellezza... Non ebbe bisogno di lavorare per vivere, perché da un prozio ereditò un cospicuo patrimonio (oltre al titolo nobiliare). Nel 1809, a ventun anni, partì per un viaggio di due anni in Spagna, Portogallo, Albania, Grecia. Tra varie opere, scrisse anche una sorta di autobiografia, Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, che tre anni dopo, nel 1812, ebbe un successo incredibile. Fu però preso di mira dalla stampa borghese, fu accusato di una condotta matrimoniale scandalosa, nonché, addirittura, di avere una relazione “incestuosa” con la sorellastra Augusta Leigh. Fu preso di mira dagli ambienti
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evangelici e pietistici, tanto che si risolse ad andare in Svizzera, dove ebbe una figlia (che poi morì) da Claude Clermont. Nel 1816 lasciò per sempre l'Inghilterra, e si trasferì a Milano, poi a Venezia, e al seguito di un'altra donna, Teresa Gamba, si trasferì a Ravenna. Quivi, convinto dal fratello di Teresa (e dalla stessa Teresa, che era una patriota) entrò nella Carboneria, ma, dopo il fallimento dei moti del 1821, andò con Teresa in esilio a Pisa. Nel 1823 si imbarcò a Genova, per mettersi a capo della rivolta della Grecia per l'indipendenza dalla Turchia. Nel gennaio 1824 era a Missolungi, ma, insoddisfatto dei greci, non aveva minimamente combattuto con le armi. Morì di febbre reumatica (o, secondo alcuni, di meningite) a soli trentasei anni. Se rileggiamo, molto lentamente, i cinque versi di Byron che ho riportato all'inizio di questa puntata, (tipico esempio di lirica conversativa di fine Settecento...) possiamo fare molte considerazioni e riflessioni personali sul concetto di Natura e sul rapporto (almeno a parole) del poeta Byron con la stessa. E tutto ciò, si badi, tra la fine del Settecento e i primi anni dell'Ottocento, quando erano ancora lontani il turismo di massa, la rivoluzione industriale, la motorizzazione generalizzata. E' difficile, ai nostri giorni, trovare nel mondo cosiddetto “civilizzato”, boschi senza sentieri che trasmettano “piacere”, o addirittura spiagge desolate, senza alcuna presenza umana (ma dove, proprio per questo, “c'è vita”), spiagge che procurino un'”estasi” potendo ascoltare in assoluto silenzio il musicale sciabordìo della risacca, vicino ad un mare profondo e, naturalmente, puro. (Le eventuali eccezioni confermano la regola). Luigi De Rosa
LA CONVIVENZA È LAVORO L’amore non si muove fuori, ha luoghi reconditi, in fondo all’animo luccicano
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stagni di acqua con fresche erbe. Nodi incastrati in un amalgama. Non vuole la superficie, terra appiattita che si estende. Né le parti diritte come di metallo. Il calore viene di sotto dentro cavità intense di memorie e di tempo. L’amore fonde tutto, nella casa allineati gli oggetti con gli occhi di fronte, viviamo in fila insieme. Senza fatica avanti nel nostro mondo con integrata vicinanza. Linee parallele corrono veloci, l’occhio in lontananza scruta orizzonti, sente le ali addosso, raddoppiate le forze. Il lavoro senza termine, pure la convivenza di strumenti ha bisogno per limare le punte scheggiate. Non andiamo per le nuvole, la via semplice si allarga con le naturali spinte. Quando la dimora è sventrata la strada è dissestata. I pensieri sono andati per tutti i passi errati. I momenti felici parvenze svanite, visti i passaggi di serpi dentro gineprai oscuri. Ci siamo trovati senza linfa abbattuti in un campo incolto, profughi sotto un cielo all’improvviso ottenebrato. Leonardo Selvaggi Torino
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 23/11/2015 Solo perché Bassolino ha deciso di correre le primarie per fare il sindaco di Napoli (per la terza volta), il PD è andato in paranoia: non sa come togliere di mezzo i ferrivecchi. Alleluia! Alleluia! Basterebbe regolamentare le primarie, escludendo chiunque abbia già coperto cariche pubbliche a livello locale e nazionale per almeno due legislature. Domenico Defelice
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Recensioni RAFFAELE GIGLIO E IRENE CHIRICO (a cura di) OCCASIONI E PERCORSI DI LETTURE: STUDI OFFERTI A LUIGI REINA Guida Editori, Napoli, 2015, € 45,00 E’ d’uso presso le Università che allorché un cattedratico lascia l’insegnamento gli si dedichi un libro contenente degli scritti in suo onore. Ciò è avvenuto anche per Luigi Reina, insigne docente presso l’Ateneo salernitano, al quale in occasione del suo pensionamento, è stato dedicato un volume intitolato Occasioni e percorsi di letture – Studi offerti a Luigi Reina, a cura di Raffaele Giglio e Irene Chirico. E’ questo un tomo di oltre ottocento pagine, che raccoglie ben 45 saggi, i quali spaziano da Dante a Leopardi, da Carducci a Di Giacomo, da Sinisgalli a Pavese, da Rea a Jovine, ecc. Si tratta di studi di notevole interesse, a cominciare da quello introduttivo, Lettura di Inferno XXXVIII di Pasquale Stoppelli, che parla del cerchio dei fraudolenti nella nona Bolgia dantesca, dove si trovano i seminatori di scandalo e di scisma, tra i quali vi sono Maometto, Pier da Medicina, Curione e Bertan de Born. Il saggio si contraddistingue per un’accurata ricerca delle fonti e per un’analisi approfondita del testo studiato. Altri saggi si trovano in questo libro dedicati a Dante, quali quello di Emma Grimaldi, “Nel primo aspetto de la bella figlia”, Paradiso, XXVII e quello di Gennaro Mercogliano, La figura di Catone Uticense. Non essendo però possibile dar notizia di tutti i 45 saggi contenuti in questo volume, ne ricorderemo soltanto qualcuno, come quello di Rena-
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to Ricco, Didone nella tradizione umanistica, che richiama specificamente il Landino e gli altri umanisti che si occuparono di Didone, come Coluccio Salutati e Maffeo Vegio. Segue un diffuso riscontro con Ludovico Ariosto e con Torquato Tasso e altri, compiuto con un’accurata analisi testuale. Leopardi, il poeta lirico e la «meridionalità nel tempo»: dall’infelicità del Tasso al «male» nell’ arcano universo è di Rosa Giulio, la quale in questo saggio affronta il problema del primato della poesia lirica rispetto alle altre arti e persino alla filosofia, in quanto non la «ragion pura», ma il «pazzo fuoco» dionisiaco riesce a raggiungere la verità. Viene poi un approfondimento del concetto di noia come elemento contrario alla «vita vitale», che troverà sviluppo nel Canto notturno di un pastore errante nell’Asia. Uno studio sull’interesse di Giosuè Carducci per l’opera di Giuseppe Parini è contenuto nel saggio di Carmine Chiodo Sul Parini del Carducci, nel quale questo studioso si diffonde sul saggio carducciano Storia del «Giorno», dove “il mondo pariniano si pone come il momento di rinascita del sentimento nazionale” e di “educazione al libero pensare”, con un “severo e forte accento morale”. Chiodo evidenzia inoltre come il Carducci dia “notizie importanti per capire il poeta brianzolo e la sua arte”, ponendo l’accento sulla sua “simpatia per le classi umili e oppresse”. Da segnalare tra questi saggi è anche quello di Raffaele Giglio Una probabile fonte pittorica per un sonetto del Di Giacomo, nel quale viene indagato il mondo “degli ateliers dei pittori napoletani tra fine Ottocento e primo Novecento”, per pervenire alla conclusione che il sonetto di Salvatore Di Giacomo Ll’acciso sia stato ispirato dal quadro di Vincenzo Capparelli intitolato L’ammazzato, che tratta il medesimo tema: la morte di un uomo in un duello notturno. Giglio commenta: “I due veristi, il pittore e il poeta, con l’ausilio del loro «sentimento», hanno rappresentato due momenti di una vita partenopea: ai toni e alle sfumature dei colori della tela il poeta sostituisce la musicalità dei suoi versi, un ordito di parole e di aggettivi che egualmente suggeriscono agli occhi del lettore quella veridicità maggiormente visibile nella pittura”. E il raffronto riesce quanto mai probante. Un meditato confronto tra le tragedie che trattano del mito di Medea, rispettivamente di Euripide, di Seneca e di Corrado Alvaro è compiuto da Carlo Alberto Augieri nel suo saggio Medea, una “madre di paese”. Corrado Alvaro e la “ri-scrittura” antropo-narrativa del mito, dove la tragedia alvariana Lunga notte di Medea viene esaminata in profondi-
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tà, per trarne l’intimo significato, che è quello di un testo radicato nell’ambiente contadino in cui nacque, con tutte le sue tradizioni millenarie e i suoi codici di comportamento ancestrali. Scrive a questo proposito Augieri: “La Medea alvariana rimane «misericordiosa», conserva la «pietà» della «madre di paese»”; e soggiunge: “Medea non sale in cielo sul carro alato del Sole (Euripide), né su un carro guidato da una coppia di draghi (Seneca), ma rimane nel luogo tragico, redento dalla parola popolare, paesana…”. Molto interessante è inoltre quanto dice Augieri circa “il fuoco paesano della Medea alvariana (che) è sola testimone «sensibile» di quanto accade in casa”. Ne risulta uno scavo molto illuminante in una realtà drammaturgicamente finora poco indagata. Le particolari virtù dello stile di Emilio Cecchi sono egregiamente messe in luce da Rossana Esposito in un saggio intitolato Emilio Cecchi viaggiatore, nel quale questa studiosa osserva come la “scrittura di viaggio (di Cecchi) si fonda su una particolare dialettica ricordo-rimorso che mette in primo piano l’esigenza di verità e di moralità dell’autore”. L’Esposito esamina partitamente i libri di Cecchi, a cominciare da Messico, che “rappresenta non solo il suo primo libro di viaggio, ma anche una scoperta di stile e di ritmo, attraverso una prosa che riesce a fondere la scrittura giornalistica con la scrittura letteraria”. Venne poi America amara; un libro “ostile e caustico, soprattutto nei confronti dell’urbanistica americana e in particolare dei grattacieli”, nel quale è presente e piuttosto diffuso “il gusto sepolcrale di Cecchi”; e venne Et in Arcadia ego, resoconto di un viaggio compiuto da Cecchi in Grecia, cui fecero seguito Appunti per un periplo dell’Africa e Vagabondaggi, libri che sono accuratamente esaminati dall’Esposito, la quale conclude il suo saggio osservando che Cecchi “ha nobilitato il genere del reportage letterario e pertanto si può considerare, come aveva già intuito Giorgio Luti, un classico del nostro Novecento”. Di notevole interesse è anche in questo volume il saggio di Francesco D’Episcopo Angelo e demonio nel romanzo “Signora Ava” di Francesco Jovine, nel quale D’Episcopo evidenzia l’importanza, attraverso un’analisi approfondita del romanzo, che in esso ha il motivo religioso, ovunque affiorante. Emblematiche sono a tale proposito le osservazioni che il D’Episcopo fa sulla figura di Don Matteo, “il quale, come prete, viene talvolta assalito da ambiguità e dubbi sulla giustizia divina…” e quelle su Pietro Veleno, il protagonista della vicenda, il quale, “giovane e forte come la natura che lo ha partorito, sogna di farsi monaco per poter aiutare gli altri”.
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Penetranti sono a questo proposito anche le notazioni di D’Episcopo su Concetta Minobla, “una vecchia che non può essere nominata «strega»” e quelle sulla natura “carica di misteriose presenze”, che scandisce il ritmo di tutta la seconda parte del romanzo. Molti altri saggi vi sono in questo libro degni di attenzione, ma poiché, come già si è osservato, non ci è consentito di esaminarli tutti, ci limiteremo a citare qualche titolo, come: Viaggiatori italiani a Pompei dall’unità d’Italia al secondo Novecento, di Pasquale Sabbatino; Da Giulio Camillo a Jorge Luis Borges. Il teatro della Memoria di Leonardo Sciascia, di Carmelo Spalanca; Creazione artistica e reminiscenze filosofiche nel “Mestiere di vivere” di Pavese, di Rossella Rossetti; Dei giardini (e di altro) nel “Gattopardo”, di Nicola D’Antuono; Voci lucane come in repertorio, di Mario Santoro; L’ultimo Rea, tra «invenzione» e «combinazione». Appunti per una lettura intertestuale di “Ninfa plebea”, di Raffaele Messina; Nel mondo di Abraham B. Yehoshua, di Dante Maffia. Un libro di molto pregio Occasioni e percorsi di letture, contenente Studi offerti a Luigi Reina, che rende omaggio a un Cattedratico illustre in occasione del suo pensionamento, il quale ha al suo attivo non solo una vasta produzione di critica e storiografia letteraria tra il Quattrocento e il Novecento, ma anche una produzione di narratore, che si è andata sviluppando negli anni, a cominciare dal racconto lungo L’anello del Capitano (Napoli, 1991), per continuare con il romanzo Storia di Rico (1992); Una vita da ex e vari racconti in volumi antologici o riviste: Chambre de bonne; La fotografia; I giorni dell’arcobaleno (anche in traduzione inglese); oltre al romanzo in corso di stampa Una Renault amaranto: tutte opere letterarie di notevole pregio. Elio Andriuoli
GIORGINA BUSCA GERNETTI ECHI E SUSSURRI Edizioni Polistampa, Firenze 2015, Pagg. 120, € 10 Giorgina Busca Gernetti è nata a Piacenza, di formazione umanistica è stata docente di Letteratura Italiana e Latina; scrittrice di racconti, saggista e poetessa, ha conseguito una novantina di qualificazioni tra primi premi e titoli prestigiosi. Questa raccolta, Echi e sussurri, rappresenta il suo decimo libro di poesia, ha in copertina il ritratto presunto di Saffo; si articola in cinque sezioni, tutte anticipate da citazioni di versi di Rainer Maria Rilke, e sono: Fiori della notte, Alba dell’anima, Seduzioni, Im-
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magini elleniche, Il canto di Orfeo. I versi - endecasillabi continui o scanditi da settenari, altri versi della tradizione classica, raramente in metro libero raccolti in strofe consentono una certa scansione della voce e del silenzio, uniti al refrain ne amplificano echi e sussurri; rendono gradevole la lettura. In quarta di copertina, abbiamo una nota critica a firma di Franco Manescalchi, il quale sostiene che il percorso poetico della Poetessa risente della metafisica di R. M. Rilke, attraversa le terre della sua vita giungendo finalmente nelle coste elleniche approdando nei luoghi di Saffo e Orfeo. Il critico ne sottolinea la vena neoromantica, gli echi di Foscolo, Leopardi, D’Annunzio, come pure il linguaggio moderno di Cesare Pavese. Difatti incontreremo, l’esule solo e pensoso, i muti dialoghi dinanzi a una tomba, l’invocazione alla luna alla quale chiede quale sarà la sua sorte. Nella prefazione, Marco Onofrio definisce la Poetessa “sognatrice dell’essere” pur riconoscendole l’ attitudine allo “scandaglio” psicologico, difatti “Gli echi ci introducono al cosmo dell’eterno ritorno (…) I sussurri alludono alla vocazione linguistica”. Con tutto ciò intendendo che bisogna predisporsi all’ascolto di ciò che ci circonda, entrare in sintonia con i fenomeni, nel continuo ripresentarsi delle stagioni, essere aperti al senso della morte, rinnovando la vita attraverso la memoria e quindi giungere alla poesia. Processo catartico, percepibile nelle elegie per i suoi animali domestici cui era affezionata (cane boxer Artù, topolino Francis, canarino Lillo). Troviamo nello scavo della materia vivente il desiderio di libertà, di abbattimento delle inferriate del carcere, per librarsi in alto. Abbattere il limen comporta fondere sogno e memoria, ricordo e realtà, fugare le brume della sua terra. Nell’ultima sezione usa “cultismi e arcaismi” (iemale, germine, lungi, dianzi, atra, pubescenti, virenti, sacerrimo, pelago e figure retoriche). Questi sono i versi incipitari: “Quando scendi invocata,/ o cara sera amica,/ si placano le tenebre dell’anima/ nell’ombra tua serena.” E la serenità viene agognata ovunque per fugare le proprie incertezze in una lotta impari con il tempo vorace, vorticoso e ingannevole che ci lascia soli. In una sorta di comunanza di sentimenti, osserva la tomba di Cesare Pavese, la scarna pietra e l’epitaffio di due date ove regna “Sacro silenzio intorno e solitudine.” (pag. 25); in un muto dialogo paragona la vita senza amore ad un guscio vuoto che vuole riempire del sogno, motivo su cui ritornerà (a pag. 44). “Anima mia intristita e trasognata,/ a che la vita se non vedi un segno/ palese che ti mostri/ qual via seguire nel percorso oscuro/ della triste esistenza?” (31). Durante la notte i ricordi del passato ci sovrastano
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e ingigantiscono le ombre dei fantasmi, si vive un dialogo che diventa soliloquio in cui il dubbio lacera l’anima. E, forse, le uniche voci che Giorgina Busca Gernetti ascolta, sono le sue stesse (che diventano echi). Nel desiderio di rinascere invoca l’ Angelo numinoso. Sentendosi partecipe della natura, ne sente il canto come carezza, ne diventa rugiada, corteccia, foglie, lacrime; ascolta le voci del vento come note musicali (che diventano sussurri). Echi e sussurri che, a loro volta, diventano versi poetici, suoi amici. Così si abbandona alle emozioni e si lascia trasportare dalle ali di una farfalla in un susseguirsi di luoghi: a Capo Palinuro, nel Tyrrhenus, nella Maremma ove ode il frinire di cicale, respira “Profumi intensi e caldi qui m’ inebriano/ tra pini e mare, tra gerani e glicini.” (pag. 52). Vede l’Argentario verde e vivo e, risalendo la Penisola, in dedica a Valerio, ricorda i “rugosi” pescatori liguri. Con altro volo assiste al tramonto sullo Jonio, sente su di sé le folate di scirocco, il vento che sussurra parole. Su questo versante ricorda a Gabriele D’Annunzio la “Nostalgia delle greggi/ dorate nel vello lanoso” (61). Evoca personaggi e immagini, come Franz Schubert, “Nuvole bianche vagano nel cielo,/ serene anch’esse sopra verdi chiome” (62); o “cogliere fiori/ nel giardino di Monet.” (63); odorare un fiordaliso. Giorgina Busca Gernetti immagina la sua pianura emiliana perdendosi nel suo orizzonte, segno di infinito, di libertà; forse desidera anche disperdersi, fare scorrere i pensieri come quelli del suo fiume, confondersi con le rondini volteggianti nel cielo, raccogliere mazzetti di fiori nei prati come si usava da bambini. Forse tutto ciò è frutto del sogno di una bambina che al suo risveglio si vede sola: “Sperava la fanciulla d’incontrare/ il Padre suo vivente nell’oscuro/ bosco di lecci antichi quando…// Svanisce il fatuo sogno meridiano.” (66). Le immagini elleniche, costituiscono una sorta di rivisitazione del mito greco, meritevole di una trattazione a parte, una sorta di vasto panorama didattico, in cui affondano le nostre radici culturali. Ivi, a mio parere, imperano pensieri di morte. Da una visione sull’Acropoli d’Atene, la Poetessa rivive l’ antico mito, pare assistere alla morte del padre in guerra, alle lacrime della madre. Evoca il mito di Teseo e del Minotauro, il clangore delle armi a Maratona, a Troia; fra gli eroi ode Menelao invocarla, e lei gli asciuga le lacrime per il tradimento di Elena. A George Byron dice di percorrere le stesse sue orme; evoca la morte di Egèo che “si scagliò/ per l’ errore fatale di Teséo”. Rivivono Giasone, Medea, Glauce figlia di Creonte, la maga Circe e altri. Pare di ascoltare il canto di Pindaro, di interrogare l’oracolo di Delfi pronunciato dalla Pizia, sul pro-
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prio futuro. Pare invocare l’Itaca lontana, sogno irraggiungibile. Più volte nomina Kore, i Misteri Eleusini; il pensiero della morte diventa incalzante. La vicenda di Euridice e Orfeo, ne è un esempio, ninfa e cantore appena sposi vengono separati dal fato; la loro storia è fatta rivivere attraverso il canto che ha impietosito perfino le pietre. E a vivere sopra ogni cosa è la poesia; ma la nostra confida: “Anch’io, dolce mia Saffo,/ vorrei essere morta!” (pag. 104). Il lettore allora viene colto dal bisogno di urlare: “Giorgina!” Trasportato dalle emozioni che Giorgina Busca Gernetti è riuscita a suscitarmi con Echi e sussurri, mi prendo la libertà di pensare a una sorta di ritorno al passato antico, che noi consideriamo favoloso, un passato che si riflette nell’età bambina per recuperare una fanciullezza forse poco vissuta. Il pensiero della morte può diventare mezzo di conoscenza attraverso ulteriore indagine storica e scavo psicologico, per ritrovare se stessi. Non vorrei stravolgere il percorso fino adesso seguito, ma penso che miti e luoghi riverberino il suo alter ego e penso che la Poetessa si senta vicina alle figure femminili soprattutto come: Medea, Euridice, Saffo; tutt’e tre accomunate da un amore impossibile. Tito Cauchi
ISABELLA MICHELA AFFINITO UNA RACCOLTA DI STILI 15° volume, Carta e Penna Editore, Torino 2014, pagg.40, S.i.p. Isabella Michela Affinito, poetessa, scrittrice e saggista frusinate, ha un curriculum di tutto rispetto, vantando collaborazioni e premi grazie ad una cinquantina di opere, dalla stessa illustrate, fra le quali Una raccolta di stili (15° volume). Le pagine presentano una orlatura artistica. La silloge comprende 14 componimenti, generalmente di pari struttura, preceduti da brevi descrizioni, riguardanti pittori e qualche aneddoto, come è nel climax dei tre interventi d’apertura dell’autrice. Nella prefazione spiega la scelta del quadro del pittore-filosofo C.D. Friedrich, in copertina, dalla stessa rielaborato, un Viandante visto di spalle, metafora per significare che l’immagine vada condotta con l’intelletto, facendone un binomio con l’altro filosofo tedesco I. Kant. Si sofferma ampiamente su Antonio Ligabue che accomuna a Henri Rousseau per lo stile naїf, a Van Gogh per il carattere e a Henri Matisse per le tinte aggressive. Il terzo scritto riguarda Renato Guttuso, pittore antifascista legato alle questioni sociali della sua terra, la Sicilia, intellettuale di spessore correlato ai torinesi Carlo Levi e
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Norberto Bobbio, ai fiorentini Mario Luzi e Paronchi, allo spagnolo Pablo Picasso. Seguiamo la Affinito passo, passo e in breve, omettendo le barre separatrici. Camille Pisarro (1830-1903) e La bergère; la Nostra descrive la fanciulla e commenta “ Il neoimpressionismo è vicino: lo vede la pastorella col frustino, vagheggia mentre controlla il suo lavoro, forse pensa a una vita senza la terra. “ ; con ciò evidenziandone le aspirazioni e la fatica del lavoro. La Poetessa si chiede come mai il Pisarro non le abbia dato un nome; forse, aggiungo io, perché la Pastorella si fa emblema del destino di molte donne. Pierre-Auguste Renoir (1841-1919) e Gli ombrelli; inizialmente impressionista; la Affinito commenta che riparandosi sotto gli ombrelli, le persone intrattengono brevi o lunghi discorsi in attesa che spiova. Jean-François Millet (1814-1875) e Le spigolatrici ; si caratterizzò sempre per lo stile rurale, legato alle proprie origini: “ Raccolgono le preziose ariste lasciate sul campo dopo la mietitura: un dono per i più poveri “, che trasmette un messaggio su reali condizioni sociali. Umberto Boccioni (1882-1916) e La città che sale; vicino ai futuristi; “ il suo perimetro fin dall’ inizio è stato quello della metropoli, al nitrito dei cavalli si è sovrapposto il fischio dei treni e della velocità in generale. “ Giorgio Morandi (1890-1964) e la Famiglia di bottiglie; semplicità di stile, ove il vetro appare trasparente e le bottiglie raggruppate diventano metafora della famiglia umana. Monet e La stazione Saint-Lazare; sul finire dell’Ottocento, “ La città si industrializza, ma la situazione è impressionista, la velocità più tardi cambierà il destino di questo stile affezionato all’imprecisione. “, giustificando la denominazione della corrente impressionista. Caspar David Friedrich (1774-1840) e il suo Stile romantico che aleggia entro una leggera foschia, orizzonti, albe e tramonti, e uccelli che sostano sulle croci. . Pablo Picasso (1881-1973) e l’Arlecchino e la sua amica; i due saltimbanchi non sono felici, recitano un ruolo nel palcoscenico che è la vita: “ Tutto ciò è una vacua commedia umana munita di inutili accessori. “ Silvestro Lega (1826-1895) fra i macchiaioli insieme con Telemaco Signorini e Giovanni Fattori, nello Stile pergolato; dove il pergolato sostituisce una stanza dove le donne si intrattengono. Vincent Van Gogh (1853-1890) e i Rami di mandorlo in fiore; metafora della vita in dedica al neonato Vincent figlio del fratello Theo, difatti: “ Sentiva in quell’albero da frutto la vita riprendere il suo corso, la linfa accelerare dentro le vene calde dei rami. “, così dava tregua alla sua depressione.
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Leonardo da Vinci (1452-1519) e le sue Ali del Codice sul volo degli uccelli; genio indiscutibile di tutti i tempi. Isabella Michela Affinito ha il merito di fare rivivere alcuni pittori e le loro opere, offrendo occasione di rilettura di queste, gli stati d’animo che le caratterizza, Una raccolta di stili, i mutamenti sociali; le moltitudini che popolano le stazioni. Particolare poesia esprime quando si identifica in un quadro astratto, pensando alla spiritualità che emanano i castelli raffigurati da Kandinskij e quando sente Venezia come un quadro mai finito, un titolo che parla da solo. Tito Cauchi
ISABELLA MICHELA AFFINITO PROBABILMENTE SARÀ POESIA IL Croco/ Pomezia Notizie ottobre 2015, Pagg. 20, 1° Premio Città di Pomezia 2015 Isabella Michela Affinito nativa del Frusinate si sente figlia del Sud, vantando origini pugliesi; in questa raccolta mostra di essere innamorata della Sicilia, dei suoi templi e delle vestigia greche. La Poetessa precisa che le poesie della presente raccolta “iniziano tutte con la P”. Domenico Defelice, nella presentazione, ne esalta i versi indicando l’apparente gioco espressivo, proprio dell’immaginazione dei fanciulli, la capacità di far parlare gli alberi (Egli ne sa qualcosa per averne scritto in più occasioni, per es. L’Orto del poeta, o anche Alberi? col punto interrogativo). Aggiungo che si percepisce tale capacità espressiva e di immedesimazione nei vari elementi offerti dalla natura, come si vedrà più avanti. La versificazione di Isabella risulta semplice, chiara e distesa nel senso letterale, ma piena di simboli. Nel componimento d’apertura, a un certo punto leggiamo: “Diffingo/ per sentire la loro voce/ che spiega la strana/ scrittura, cos’è che hanno/ redatto e perché? Non è/ vero che non hanno occhi/ e non vedono le epoche,/ sanno tutto e poi scrivono/ solleticati nelle foglie”. Basterebbe solo questo brano per esaltare il pregio della poesia della Affinito e giustificare il conseguito 1° Premio Città di Pomezia 2015. Innamorata della classicità, non manca di citare filosofi e personaggi della mitologia, di adoperare terminologia dell’architettura dei templi. Il suo è un eco-linguaggio, nel senso della pulizia della parola, oltre che metaforico per rivelare i moti dell’anima, così: il mare, il lago, una superficie metallica, fanno da specchio, e sono occasione per soffermarsi sulla natura come fonte di ispirazione per poeti e per pit-
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tori. Così immagina Icaro che nella ricerca di libertà è andato troppo vicino al sole e in questo inutile tentativo trova la morte. Seguendo il suo percorso poetico osserviamo, per esempio, un’antica anfora che è momento per evocare i tanti idiomi che le hanno parlato; oppure le cime dei monti, un aquilone, una pietra che chissà che non sia passata di mano in mano fin dall’antichità. Osservando i templi agrigentini confida: “io figlia di ninfe/ e di sirene ascolto/ le leggende che/ il Mediterraneo mi/ racconta durante le/ sue cobaltiche procelle.” (pag. 11) e prosegue sentendosi “anonima/ tra i rami nodosi/ che l’inverno crocifigge/ sul Golgota dell’Italia.” Si paragona alle cariatidi per la fatica di sostenere il peso delle parole. Gli alberi, che comunicano per voce di Isabella, offrono un ventaglio di visioni che sembrano declinare in un simbolismo mesto. Così i petali stanchi e le lacrime colore rosso antico. “Noi non siamo/ del mondo lunare, non/ c’è cipria che possa farci/ assomigliare alle anime/ chiare che di notte/ ricompongono il cerchio del / perdono.” (pag. 17). La silloge Probabilmente sarà poesia, di Isabella Michela Affinito, ha una chiusa che mi sembra molto significativa: in essa la Poetessa richiama la “natura morta” dei quadri, così vivida che sembra uscire dalla “cornice”. Ebbene la comparazione conduce all’ identificazione: è come rivendicare la propria vitalità, urlare che la natura (sua) non è affatto morta. La storia è affidata agli oggetti come l’anfora, una pietra, oppure l’albero, i petali. Essi raccontano e la loro voce “probabilmente sarà poesia”, da cui il titolo della presente raccolta. Tutti gli elementi intorno alla Nostra comunicano qualcosa e forse lo fanno per lei. Le piante e il loro apparato, nella loro caducità diventano metafora del tempo che passa e delle cose eterne. La Poetessa si pone al loro ascolto. Il suo percorso poetico è costellato dal silenzio che le sta intorno, per penetrare nell’essenza delle cose. Icaro può rappresentare il desiderio di elevarsi; ma, come sappiamo, né può salire più su, né può volare quanto vuole. Lei ha sedimentato il suo vissuto umano, ma ha trovato la sua dimensione poetica, sospesa come l’aquilone tenuto con un filo. Tito Cauchi
MARIAGINA BONCIANI SOGNI Il Convivio, Castiglione di Sicilia (CT) 2015, Pagg. 48, € 8,00 Mariagina Bonciani, poetessa milanese, ormai disimpegnata da attività lavoro, libera i sentimenti in un angolo speciale che si chiama poesia, ed in que-
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sto caso ai Sogni, così come il titolo della silloge cui non poteva mancare l’illustrazione omonima in copertina di Vittorio Matteo Corcos, del 1896 (Donna dal fascino fine Ottocento, con lunga veste, guanti fino al gomito, seduta su panca: osserva pensierosa). Giuseppe Manitta nella prefazione richiama la bellezza insita nella visione onirica, da luogo dell’io intimo diventa luogo del ‘tu’ “di una persona scomparsa e amata, come il più volte invocato Tony o la stessa figura materna.”; ciò permette di crearsi una dimensione soprannaturale. La Poetessa si nutre di sogni; il suo linguaggio riferisce di sogni, ma essi sono e lasciano qualcosa di indefinito e qualche volta se ne riaffaccia anche solo un frammento in modo destabilizzante, che le scuote il corpo. I sogni consentono di abbattere muri e fare cose impossibili, ci fanno incontrare le persone care altrimenti irraggiungibili. La Nostra sa che comunque, un giorno anche Lei farà parte di un sogno e non avrà più bisogno di sognare. “Anche stanotte/ sei ritornato.// Col tuo violino/ suonavi Sarasate/ ed io dall’alto/ (di un palco o di una finestra?)/ ti ascoltavo.” (pag. 11); ma senza riuscire a parlargli, a vederlo in viso; in un disperato tentativo ne invoca il nome, senza riuscire a superare la barriera e il sogno svanisce. Sentiamo la Nostra vicina perché ci accomuna in un sentimento, quello del rammarico, per non avere detto alcune cose quando si poteva farlo. In un dialogo silenzioso Ella dice a Tony tutto quello che non ha potuto dirgli in vita, comunicargli il suo amore (I love you!). Tuttavia prova conforto, e in questo estende il suo abbraccio al padre e alla madre anch’essi volati in cielo. Tony è morto tre anni prima. Ne evoca i momenti più belli, i luoghi visitati, il “Sogno di una notte di mezza estate” di Mendelssohn, “il suono/ struggente e suggestivo di un violino./ È il Notturno per archi di Borodin./ Lo esegue/ l’Academy of St. Martin-in-the-Fields./ Forse sei tu il solista…” (22, puntini di sospensione nel testo). Quante volte nella realtà ci capita che vorremmo riaddormentarci per riprendere un bel sogno. Sogni, sì, ma ad occhi aperti, sotto sorveglianza. Ai sogni non si comanda, ma quelli sotto vigilanza possono costruirsi con nostro piacimento. Tuttavia accade veramente che il volto profondamente amato, non si riesca ad immaginarlo. I versi toccano le corde sottilissime dell’anima facendole vibrare con suoni impercettibili. Immagini, suoni, visioni sono indefiniti. Il sentimento non si può incanalare a differenza del sogno pensato. È straziante. È la sublimazione di un grande desiderio d’amore. Si affida al sogno ad occhi aperti. Accetta di vivere in un mon-
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do parallelo certa che un giorno si incontreranno. In chiusura Mariagina Bonciani fa presente di avere riproposto componimenti facenti parte di precedenti raccolte, oltre ad alcuni inediti. Sogni è silloge che si aggiunge alle quattro sue precedenti, che ho avuto il piacere di leggere e recensire, e che nel caso presente ho potuto riscontrare; in particolare è palpabile il senso della perdita e tanta bellezza interiore. Tito Cauchi
ANTONIA IZZI RUFO VOCI DEL PASSATO Raccontarsi, Edizioni Tigulliana, Santa Maria Ligure (GE) 2015, Pagg. 52, € 10,00 Antonia Izzi Rufo insegnante in pensione è nata a Scampoli (Isernia) e risiede nella vicina Castelnuovo al Volurno; pedagogista per formazione è portata a soffermarsi su particolari aspetti della società umana per coglierne aspetti peculiari che esaltano le mutate condizioni nel tempo suo e in quello attuale. Voci del passato, è raccolta in prosa fra una cinquantina di sue pubblicazioni; in copertina: megaliti (Menorca). Composto con l’acribia di un obiettivo fotografico e scorrevolezza espressiva, con delicata impronta pedagogica ma priva di toni moralistici, con l’uso discreto della comparazione e semplicità stilistica. Si rivela donna d’altri tempi, di forte tempra, essenziale nel dire e nel fare. Rari sono gli atteggiamenti compassati, fra tanto Raccontarsi, come precisa nel sottotitolo, pochissimi sono i riferimenti anagrafici, come vedremo. Marco Delpino, nella prefazione, cita Giuseppe Pontigia “La nostalgia spesso si alimenta, più che di ricordi, di amnesie.” Definisce i ricordi come “Frammenti di vita in un soffio di vento” depositati nell’anima che aspettano solo di essere ripescati per riprodurre emozioni e, nel caso di Antonia Izzi, riproporre profumi di casa e del luogo che la videro bambina. L’Autrice apre il suo lungo excursus semplicemente con questo pensiero: “i suoi movimenti, all’ ordine ribelli, sono senza spazio tanto celere è la velocità con cui si compiono: sono folgori magiche. Se, però, una preoccupazione t’assilla o un’ angoscia ti tormenta, esso s’arresta a meditare” ecc. Nei borghi rurali la vita incomincia alle prime luci dell’alba e al canto del gallo. Gli esseri viventi si riconoscono anche senza essere visti, attraverso gli “scalpiccii degli zoccoli, ragli e belati”, l’ abbaiare dei cani. All’atmosfera agreste e pastorale si affiancano temi di antropologia culturale, con squarci arcadici (madri e giovinette che attingono acqua alle
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fontanelle, il ruscello che fluisce, i fiori che emanano un profumo vitale, ecc.). Antonia Izzi Rufo respira poesia, fin dall’ infanzia, pur fra moltissime privazioni, nella mancanza assoluta delle comodità attuali, quando si viveva compartecipando con la natura, non sprecando nulla; perfino le scie di sterco degli animali lasciate al loro passaggio, venivano raccolte per farne concime. La gente si industriava in mille modi, massima era la solidarietà soprattutto nell’immediato dopoguerra. Vivere fra le macerie, in case diroccate, in mezzo al tugurio, per anni privi dello stretto necessario, in assenza o scarsezza dei servizi sanitari, anche fra i benestanti. L’uso di non chiudere le porte di casa, l’emigrazione soprattutto per l’America generalmente per non ritornare. Le famiglie erano numerose e allargate ai nonni, bisnonni, trisnonni e ai parenti più prossimi; mentre oggi ciascuno di noi è un’isola; allora tutti si raccoglievano intorno al camino o alla radio o alla tv dei primi anni, mentre oggi abbiamo tutto ma non siamo appagati da niente. Antonia alla quarta elementare riceve dal padre il libro Le fiabe dei Grimm e di Perrault, rimanendone affascinata, così che il genitore la invogli a leggere e a studiare; seguirono altri libri, come Cuore, Pinocchio, Piccole donne, I ragazzi di via Pal, Ventimila leghe sotto i mari e nel prosieguo nasce l’ interesse per i romanzi rosa. Oggi in occasione della laurea le famiglie spendono quanto per un matrimonio; così riferisce che lei e il marito, giovane coppia, si presentano per discutere la tesi: per loro, benché emozionati, si trattava di un giorno come un altro. Accenna a qualche notizia autobiografica, per esempio che sua nonna si era sposata all’età di 14 anni, così le famiglie erano molto numerose; la Nostra gioca con il nipotino (pag. 24), l’esperienza dell’insegnamento (34); l’infanzia in compagnia della sorella Rita e del fratello Galdino (47). Oggi più che imparare i mestieri casalinghi, occorre imparare le istruzioni degli elettrodomestici. Ricorda che i luoghi pubblici (strade, piazze, spiagge) erano luoghi di accoglienza e di condivisione; gli antichi rimedi per la salute; la preghiera della sera; il rispetto verso i più grandi, anche se estranei; adesso c’è un abisso rispetto a settant’anni fa. Oggi il paese non c’è più, è deserto, i campi sono abbandonati. I metodi educativi dei genitori erano esagerati, all’insegna del detto: “Mazzate e panelli fanno i figli belli”; oggi c’è il rischio che l’ insegnante perda il posto per un semplice richiamo all’alunno. Cucina e condimenti, forno pubblico, pasta in casa, rammendare e cucire; oggi non più effluvi di fiori, fragranza dei campi, perfino l’aria sicuramente odora di smog. Antonia Izzi, con estremo realismo parla dei biso-
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gni fisiologici espletati in condizioni precarie, all’ ombra di un albero o dietro un vecchio rudere (coadiuvati con foglie e sassi, la carta igienica non era stata ancora introdotta). Sputare per terra era cosa usuale anche dentro casa, però per essere considerato “persona civile, perbene”, la Nostra dice che bisognava “strofinare con la scarpa la saliva o l’ espettorato e disperderne la traccia”, dico è un po’ come si continua a fare con il mozzicone di sigaretta; in seguito inventarono le sputacchiere e aggiunge altri particolari. Osserva quanto, la nostra lingua, a parte residui dialettali, sia inquinata da inglesismi (una volta denominati barbarismi), senza curare meglio la nostra lingua; commenta la genesi delle differenze dialettali attribuendole alle attività lavorative. Ricorda il servilismo della gente più modesta come retaggio dell’età feudale. Quando si partiva i saluti fra familiari erano brevi, senza baci se non qualche abbraccio o stretta di mano fra uomini; oggi sbaciucchiamenti e parole si sprecano, ma sono volatili, durano quanto un soffio. Antonia avverte della necessità del recupero della cultura arcaica, poiché non è tutta da respingere. I matrimoni si festeggiavano in famiglia e con semplicità, mentre oggi non ti bastano centomila euro per la cerimonia, vestiti, pranzo, luna di miele. Piangiamo miseria ma non vogliamo rinunciare a nulla, nemmeno al superfluo. In questo disgregamento di valori, la memoria affiora con nostalgia, al paragone di oggi si rimpiangono le piccole cose e se prende un po’ di malinconia, non c’è da rammaricarsi poiché il cuore è sereno e la poesia ci viene in soccorso. I ricordi lontani vengono depurati dalle immancabili amarezze, ponendo solitamente in un’aurea l’età dell’infanzia. La lettura di Voci del passato si rende piacevole perché si alternano quadretti descrittivi di miseria, oggi inconcepibili, con altri riquadri didascalici, con istanti di relax che ci riportano nella vita odierna della Scrittrice. Definire i vari “frammenti di vita” come semplici flashback, sarebbe riduttivo, ritenerli componenti di un romanzo sarebbe pretenzioso; invece costituiscono un album fotografico non privo di sana educazione ai sentimenti. Descrive stati d’animo che mutano a seconda delle circostanze, frutto della sua formazione culturale e professionale, su cui comunque non indugia. L’ultimo rigo del libro si conclude così: “Si corre, si ha sempre fretta, il tempo per sostare a dialogare non c’è più.” Quanto sopra esposto può sembrare scontato, almeno ai nati dei primi anni Quaranta del secolo scorso. La letteratura del genere è ricca, ma giova soffermarvisi per la piacevolezza espositiva e perché non guasta ricordarlo alle nuove generazioni: il
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Cielo ci scampi da una carestia! Potremmo fermarci qui e non comparare per lunghezza d’onda la molisana Antonia Izzi Rufo con gli scrittori contemporanei, per esempio con il compianto Carmine Manzi di Mercato San Severino (Salerno) per la saggezza descrittiva dei costumi di quei tempi, oppure Leonardo Selvaggi trasferitosi a Torino da Grassano (Matera), ma rimasto legato alla sua terra lucana della quale si porta attaccati alla pelle gli odori e la ferace natura; oppure possiamo nominare Domenico Defelice calabrese di Anoia (Reggio) trasferitosi a Pomezia, per ricordare come gli affetti si mantenevano blindati in un riserbo incredibile e i sentimenti si tenevano inespressi quasi stessero in prigione. Tito Cauchi
ISABELLA MICHELA AFFINITO PROBABILMENTE SARÀ POESIA (INIZIANO TUTTE CON LA P) Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 Quattordici poesie che, incredibilmente, hanno tutte il titolo che inizia con la P. Sarà un caso oppure è voluto? Non ci è dato saperlo, ma quel che è certo è che la Affinito, in questa raccolta, guarda al mondo con occhi di bambino. Un fanciullo che anima tutte le cose che lo circondano, a cominciare dagli alberi: “Differenziati fogli con la scrittura dai tanti rotondi, non indicano la vetustà degli alberi, non è una simbologia, scrivono così da millenni in pochi sanno capire quei discorsi cerchiati…Non è vero che non hanno occhi e non vedono le epoche, sanno tutto e poi scrivono solleticati nelle foglie…”. Fa lo stesso anche con ogni forma d’acqua: che sia lago, stagno, fiume o mare la Affinito-bambino li trasforma in specchi, come quelli della Regina Grimilde di Biancaneve. Ma non finisce qui, sono animate le anfore, gli aquiloni, le pietre, i capitelli e i templi della valle più famosa della Sicilia, che lei ama particolarmente, sentendosi pienamente donna del sud, anche se poi è nata in Ciociaria. Nella raccolta, inoltre, c’è un omaggio a Picasso e alla sua Guernica e a Giorgio Morandi e alle sue bottiglie. Un linguaggio che nasce da dentro, dalla spontaneità di un fanciullo che vede tutto con occhi curiosi. Un fanciullo che si lascia coinvolgere da tutto ciò che lo circonda, raccontandolo con una serie di impulsi capaci di attirare l’attenzione di chi lo ascolta e, in questo caso, lo legge. Roberta Colazingari
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MARIA GRAZIA LENISA LETTERE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 Ancora un omaggio a Maria Grazia Lenisa, scomparsa nel 2009 a causa di una brutta malattia. Domenico Defelice pubblica su Il Croco di Luglio 2015 l’intero epistolario che si è scambiato negli anni passati, fino al momento della malattia, con la poetessa. Una promessa mantenuta, come si legge nella premessa, un modo per rendere pubblico e “distribuire” il cuore e l’anima della poetessa a tutti coloro che l’hanno stimata ed apprezzata e, perché no, farla conoscere a chi non si è mai avvicinato alla sua poetica, alla sua scrittura. Il fitto epistolario va dal 1974 al 2003 e vi si ritrova di tutto: idee, commenti, suggerimenti, denunce appassionate, gioiose, cariche di dolore, descrittive del sistema letterario a volte amato a volte odiato e così via. Ha lasciato un bel contributo al mondo letterario la Lenisa, che ha sempre desiderato vivere in un mondo parallelo a quello terrestre e vi è riuscita creandosene uno tutto suo con la poesia. Questa cosa la rimarca anche in una delle tante epistole a Defelice, significativa anche per capire come sia riuscita ad affrontare con coraggio la malattia che non le ha dato scampo: “Devi sentirti forte e fiducioso: se vacilli sul tuo lavoro, cosa si potrà mai fare? Non sono io a dirti che vale, ma tu prima devi esserne convinto”. La bellezza di questa raccolta epistolare è che le lettere sono state riportate così, senza correzioni o adattamenti per la pubblicazione: sono scritte di getto, con passione, verso un amico carissimo a cui poter confidare tutto, anche quello che magari non si riesce a confidare a se stessi: “L’atto di scrivere una lettera non deve essere con i veri amici formalità, ma raccoglimento”. Come dire: verba volant, scripta manent! Roberta Colazingari
EUGENIO MORELLI IL BUIO E LA LUCE (THE DARK AND THE LIGHT) NARCSSUS (Collection of poems) – Testo inglese a fronte – (Facing-page translation) STREETLIB. 2015 Eugenio Morelli è un medico, poeta, scrittore, saggista e critico d’arte. Ha pubblicato tanti interessantissimi libri che fanno tutti bella mostra alla biblioteca dell’ A.L.I.A.S.
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Questo suo libro di poesie, è un dono prezioso, perché le sue poesie sono tutte preziose, parlano al cuore, alla natura, al cielo e dappertutto con vibrante passione, ogni verso è un canto d’amore che penetra nelle radici dell’anima e la fa fiorire con mille sfumature. “Parole e parole/ inseguivo/ per riempire/ spazi vuoti/ fuori/ e dentro di me. “Da Uomo e poeta” pag. 18. Parole che esprimono tutto ciò che il Nostro, conserva dentro di sé, con la speranza di una vita migliore per un uomo vero. Il Dott. Eugenio Morelli, sa come curare i suoi pazienti con le medicine giuste per le varie malattie, ma le sue poesie, sono un vero toccasana per guarire sintomi di mali oscuri, danno emozioni che fanno bene e danno energia e calore e la forza di vivere, tanto entusiasmo nel leggere i suoi pensieri che fanno dimenticare le avversità che ogni giorno ci assalgono e consumano la mente: “Onora/ il tuo ultimo giorno/ anche se terribile/ e tragico/ da maledire/ il primo/ in cui sei nato”. Da “L’ultimo giorno di vita” pag. 62. Ogni sua poesia è uno stralcio di vita, bagnata di gioia o di tristezza, ma che dà la calma dei sensi e la medicina adatta per la tranquillità del vivere quotidiano. In tanti scriviamo poesie, in tanti pubblichiamo libri che non si vendono, ma ci aiutano ad esternare i nostri sentimenti, scrivere è una malattia incurabile, ma che si cura scrivendo tutto ciò che il cuore detta, è il cuore che ci comanda e ci sprona, e ci suggerisce i versi da mettere sui fogli. Il Nostro Poeta, scrive poesie che sanno curare l’ anima, il cuore, la mente di chi ha la grande fortuna di poterle leggere. Ogni sua lirica fa bene, è la vitamina perfetta che dà la sensazione di navigare in un cielo azzurro, con il sole che ci scalda, o con le stelle e la luna che illuminano il nostro cammino, in questo percorso fatto per cercare di vivere bene nel nome della vera poesia, che il nostro Autore ci regala con questo libro che incanta il lettore, anche per chi legge l’inglese. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia
ISABELLA MICHELA AFFINITO PROBABILMENTE SARÀ POESIA (Iniziano tutte con la P) 1o Premio Città di Pomezia 2015 - IL CROCO - I quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE, 2015 Isabella Michela Affinito, bravissima poetessa, scrittrice, filosofa, critica d’arte ecc. che anche in
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Australia abbiamo ammirato, perché i suoi versi hanno conquistato i nostri lettori, anche la Giuria del Concorso Internazionale dell’A.L.I.A.S. che le ha assegnato degli importanti Premi, è stato un evento straordinario averla come partecipante parecchi anni fa. La nostra corrispondenza è durata per qualche anno, un’amicizia meravigliosa che poi si è interrotta, certamente per i suoi molteplici impegni, ma l’abbiamo seguita nelle sue recensioni, articoli e qualche sua poesia pubblicata in qualche rivista che, immancabilmente arriva dalla nostra Italia, per farci sentire italiani, italiani più di chi vive in Italia. La nostra lontananza ci lega all’Italia perché le nostre radici sono rimaste costì per sempre. La nostra simpatica Autrice ha vinto il Concorso Città di Pomezia con la silloge: “PROBABILMENTE SARÀ POESIA” La sorpresa incredibile è che tutte le poesie cominciano con la P. Un Premio meritatissimo e avere IL CROCO, supplemento della rivista POMEZIA-NOTIZIE, che il nostro Direttore Dott. Domenico Defelice, come sempre c’ invia, è un dono prezioso, apprezzatissimo, che ci colma tutti di una immensa emozione, tutti i nostri poeti, scrittori e pittori dell’A.L.I.A.S. sono molto affezionati a POMEZIA-NOTIZIE e IL CROCO, che arriva sempre puntuale per colmare i nostri cuori di gioia, nel tuffarci tra le pagine con tanto entusiasmo e tanta ansia, e non vediamo l’ora che arrivi il nostro turno per poter imprimere nella nostra mente le frizzanti e importanti notizie e le belle poesie di Autori che ci affascinano con il loro afflato incondizionato, inebriante di multiformi messaggi. Questo stupendo IL CROCO, con le bellissime poesie di Isabella Michela Affinito, ci ha ammantato di splendore. Lo splendore che ogni poesia porta con sé, per trafiggerci con le lance delle emozioni e dei puri sentimenti. Ogni poesia è un racconto, un’immagine luminosa ridondante di riflessi misteriosi, un legame dolcissimo con la natura che si espande aldilà di ogni riverbero di luci e colori, che è lo stimolo della sua fervida fantasia che non ha confine: Vengono fino/ a me le essenze/ di una terra/ arata dal sole/ e dallo scirocco,/ io figlia di ninfe/ e di sirene ascolto/ le leggende che/ il Mediterraneo mi/ racconta durante le/ sue cobaltiche procelle. /Se non fossero/ le zagare a riempire/ il cielo di profumi/ che circolano fra/ le colonne sicule/ dei templi agrigentini,/ forse non giungerebbe/ a me il ritratto di/ quella valle sacra/ circondata d’aurea/ greca e i mostri/ dello stretto sarebbero/ soltanto parte /di un poema.” da “Profumo di Sud” Pag. 11. Liriche splendenti, flash di storie vissute nel ricordo del tempo passato, che stupiscono il lettore, che rimane estasiato dallo stile libero del racconta-
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re, che travolge il cuore e fa volare la fantasia con l’ Autrice, che di ogni poesia fa un film da seguire con attenzione in ogni particolare, per rimanere impresso nell’abbraccio delle vicende, che vibrano di struggenti visioni e avvenimenti del passato e del presente. Complimenti e auguri, carissima Isabella Michela, dell’importante 1o. Premio Città di Pomezia 2015, IL CROCO, ci ha regalato la stupefacente realtà di averti ancora una volta con noi, i tuoi indimenticabili, cari amici dall’Australia. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia
POESIA
GIORGINA BUSCA GERNETTI ECHI E SUSSURRI Polistampa, Firenze 2015, pp. 120, € 10
IL VIALE DELL’AMICIZIA
Cara Giorgina, grazie del bel libro che mi hai mandato. L'ho apprezzato davvero molto: per la prefazione, finalmente un testo non di circostanza ma di degnissima e intelligente introduzione ai versi, e per le tue poesie, che presentano, almeno a mio giudizio, una temperatura emozionale ancora più alta del solito. Certo, il linguaggio controllato e severo fa giustamente da filtro a troppo facili effusività; però si vede bene che la cultura non è tutto l'ubi consistam del tuo lavoro, ma semplicemente il supporto che rende possibile alla poesia ed all'emozione di manifestarsi. E lo mostrano in modo particolare i testi su Pavese e sui tuoi animali, almeno per me che ho nei "Dialoghi con Leucò" uno dei miei Vangeli e vivo con animali da quarant'anni. Insomma, questo è un libro di ispirazione, ma non soltanto; dopo l'ispirazione che ha propiziato la stesura delle poesie è evidentemente intervenuto un montaggio che ha trasformato una sequenza di bei testi in un vero libro, cosa questa alla quale non moltissimi poeti pensano, ed ancora meno riescono a realizzare compiutamente. La sezione "Immagini Elleniche", inoltre, sembra portare positive novità nella tua poesia, almeno per come la conosco io. Questo libro mi appare pertanto come in movimento verso successivi sviluppi, sviluppi che le eccezionali difficoltà di questo disgraziato momento storico non sono evidentemente in grado di arrestare. È, ribadisco quanto detto qualche giorno fa, un segno felice non solo per te e il tuo lavoro, ma rappresenta la speranza di una possibilità di futuro per tutti noi. In bocca al lupo e i saluti più cordiali, Roberto Roberto Rossi Testa
La poesia parla attraverso le mie mani. Si rivolge a te e cammina con le mie parole. Esse raccontano il mio vissuto, nei momenti liberi, sono vertigini nel labirinto di questa vita. Teresinka Pereira USA, Trad. Tito Cauchi (Italia)
C’era un calore umano, un’allegria genuina e spontanea in quel viale, un fanciullesco meravigliarsi ed un tranquillo godere di cose esotiche vicine. In quel lungo viale fiancheggiato da costruzioni innovative, avveniristiche ed eccentriche, c’era una folla amica e festosa e c’era, un po’ a lato e in mezzo a un lago, immenso un albero illuminato. Chiamavano il viale “Decumano” e l’albero “Albero della Vita”. Ma in realtà il viale era il viale dell’amicizia e la sua casa, Expo 2015, sembrava la casa della pace. Mariagina Bonciani Milano
AVVISO AI COLLABORATORI Per evitare costose ristampe, si prega di indicare, inviando il materiale da pubblicare, il numero delle copie IN PIÙ desiderate. Grazie La Direzione
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D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE L’ANIMA FUGGENTE: di Rescigno il racconto infinito - Il Circolo IPLAC (Insieme Per LA Cultura), nella persona del Presidente Roberto Mestrone e il curatore Sandro Angelucci, con il consenso e la partecipazione dei familiari, hanno svolto un Convegno in onore del poeta Gianni Rescigno, il 24 ottobre 2015, alle ore 16,30 presso il Teatro del Complesso Monumentale dei Dioscuri al Quirinale, in via Piacenza 1, Roma. A condurre è stata Sonia Giovannetti; le relazioni critiche sono state di Sandro Angelucci e Franco Campegiani; gli interventi e le trasposizioni musicali di Giacomo Panicucci; le letture di Loredana D’Alfonso e Paolo Di Santo. *** MISTRETTA TRA MEMORIA E FUTURO - Il 7 novembre 2015, organizzato dall’Associazione Culturale Progetto Mistretta - Presidente Dott. Antonino Testagrossa - con il patrocinio della Città di Mistretta, si è tenuto un Incontro con la contessa Rosemarie Tasca d’Almerita, sul tema MISTRETTA TRA MEMORIA E FUTURO: “ALLA RICERCA DELLE RADICI”. Sono intervenuti: Professoressa Maria Grazia Lo Cicero (Regista), Professoressa Rosalba Imburgia (esperta di musica), Signora Carmen Parra (Pittrice messicana), Signora Germaine Gomez (critica d’arte di Città del Messico). Nel dibattito “Architettura, Storia, Identità: scopriamo i nostri palazzi” sono intervenuti l’Architetto Angelo Pettineo e il Prof. Giovanni Travagliato (storico). Moderatore, Massimiliano Cannata, direttore de Il Centro Storico. La manife-
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stazione si è aperta con i saluti del Sindaco di Mistretta e del Presidente del Circolo Unione. *** L’INPS RICONOSCE ALLO SCRITTORE RUDY DE CADAVAL LA CONDIZIONE DI CIECO PARZIALE - Nel gennaio passato e con decorrenza 1° aprile 2014, l’INPS di Verona ha riconosciuto a Rudy De Cadaval - all’anagrafe Giancarlo Campedelli - la condizione di cieco parziale, accordandogli la relativa prestazione. Siamo lieti che l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale abbia riconosciuto lo stato pessimo della vista che da anni affligge il caro amico, ma intimamente, profondamente addolorati perché, per un uomo come lui - ma, in realtà, per chiunque -, essere fortemente condizionato con la vista comporta disagi e dolori: costituisce, insomma, un autentico calvario. Ma Rudy De Cadaval è stato sempre di forte carattere e siamo certi che saprà reagire per quanto è necessario, continuando a darci splendidi versi. La leggenda vuole che anche Omero fosse cieco. E noi, avendo lavorato per 12 anni con i ciechi del Sant’Alessio di Roma (la nostra dispensa ISE - Informazioni Socio-Economiche e Diritto del lavoro - giunta, con ripetuti aggiornamenti alla VI Edizione, è stata pure tradotta in Braille proprio per i ciechi), conosciamo la tenacia de non vedenti e degli ipovedenti e la loro volontà di non farsi con-
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dizionare dalla menomazione. Su Rudy De Cadaval, tra l’altro, negli anni novanta del secolo scorso, abbiamo scritto uno dei nostri saggi migliori, nel dicembre 2005 poi pubblicato assai male (bozze non corrette e una breve menomazione) dall’Istituto Editoriale Moderno di Milano. Anche per queste ragioni, quel saggio meriterebbe una ristampa, contribuendo, così, a mantenere vivo il nome di questo poeta, scrittore, attore, sceneggiatore eccetera, che ha frequentato celebrità internazionali del calibro di Ernest Hemingway, Enzo Biagi, André Mourois, Giuseppe Ungaretti, Giacinto Spagnoletti, Natalino Sapegno, Claudine Auger, Leonida Repaci, Catherine Spaak, Ursula Andress, Novella Parigini, Ira Fürstemberg, Julie Christie, Giovanni Comisso, Gina Lollobrigida, Giuseppe Saragat, Iva Zanicchi, Fred Bongusto, Lionello Fiumi, Salvatore Quasimodo e qui ci fermiamo perché l’elenco ci porterebbe a riempire il giornale. Sul nostro amico, molti di costoro firmano pagine encomiabili. Diamo qui, per i nostri lettori più giovani (i “vecchi” lo conoscono bene!), una sintetica scheda, in gran parte tratta da Wikipedia. Rudy De Caedaval nasce a Verona da Giovanni Campedelli, operaio delle Ferrovie dello Stato, e da Carolina Elvira Carli. Autodidatta, inizia a scrivere versi nella giovane età. Nel 1959 pubblica la sua prima raccolta “Kocktail di poesie”, con cui vince il Premio D’Amico. Rimane però sconosciuto fino al 1964, anno in cui viene scoperto da Giuseppe Ungaretti. Nel corso della sua carriera frequenta circoli letterari e conosce numerosi esponenti del mondo artistico e culturale: della sua opera si sono occupati vari autori tra cui: Ungaretti, Quasimodo, Montale, Silone. Le sue opere sono state recensite su testate nazionali e varie riviste specializzate, tra cui “La Fardelliana” e “Sìlarus”, che gli ha dedicato una lettura per il 60° anniversario della sua attività letteraria. Il suo nome è inserito in numerose biografie (come Orazio Ta-
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nelli, Rudy De Cadaval, New Jersey, Rutgers university Press, 1988). Alcuni suoi testi sono stati pubblicati dagli editori Guanda e Giannotta. Ha collaborato con la Società Letteraria di Verona fin dagli anni Settanta. Scrittore prolifico e poliedrico, è autore anche di articoli, interviste, saggi e due opere cinematografiche: insieme a Nicolò Ferrari scrive la sceneggiatura del lungometraggio “Laura nuda” (1961), per la regia dello stesso Ferrari; è inoltre autore della sceneggiatura del documentario “Le isole della laguna veneziana” (1989), con la regia di Francesco Carnelutti e la fotografia di Dante Spinotti, trasmesso da Raiuno per RAI DSE (Dipartimento Scuola Educazione), oggi Rai Educational. Le sue opere sono registrate e catalogate presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Onorificenze - Letto e apprezzato anche all’estero, ottiene vari premi e riconoscimenti, tra cui la “Penna d’Oro” (1968) dall’Académie des Poètes de France. Nel 1968 riceve anche l’Attestato di Benemerenza e Medaglia D’Oro dal Presidente della Repubblica Italiana Giuseppe Saragat. Nel 1977 vince il premio “Limone Arte e cultura” e il 20 dicembre dello stesso anno la Medaglia d’oro, conferitagli da Lorenzo Calabrese, Assessore alla Cultura della Provincia di Verona. Nel 1978 e nel 1989 gli viene conferito a Roma il “Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri”. Nel 1980 vince il premio “Lago d’Iseo” per la sua raccolta “Schiavo 1933”. Nel 1981 le edizioni La Vite di Catania pubblicano la cartella di acqueforti “Omaggio a Rudy De Cadaval” dell’artista Stefano Puleo, con scritto di Domenico Cara. Nel 1985, presso l’Università René Descartes di Parigi, l’ Académie Internationale de Lutèce, presieduta da Marceau Costantin, lo insignisce della Medaglia D’Oro. Nel 1989 il Presidente delle Repubblica Italiana Francesco Cossiga gli conferisce l’ Onorificenza di Cavaliere per meriti letterari. Nel 2006 il Sindaco di Verona Paolo Zanotto gli consegna la
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“Medaglia D’Oro della Città per l’Attività Letteraria”. Nel 2010 il Professor Hadaa Sendoo dell’Università di Ulaanbaatar (Mongolia), fondatore del World Poetry Almanac, gli assegna il “Merit Award” per il contributo artistico e culturale dato alla World Poetry. Poetica - Influenzato dagli anni della seconda Guerra Mondiale, vissuti da bambino, la prima parte dell’iter poetico di De Cadaval è caratterizzata da toni drammatici e impegno civile, in un realismo lirico dai forti contrasti esistenziali. Il linguaggio di rottura degli anni ’70 colloca De Cadaval tra coloro che fanno della poesia un mezzo rivoluzionario dell’anima. È collocato tra i molti “irregolari” delle nostre Lettere che hanno movimentato la vita multiforme della scrittura. Le sue opere nascono dallo stesso impulso e dall’intenzione ideologica che sottendono il suo discorso poetico: la povertà, l’ ingiustizia, i soprusi, visti e sofferti come scandalo esemplare dell’attuale realtà politico-sociale. Alla comparsa dei versi di “Terra di Puglia”, una delle poesie contenute nella raccolta “L’ultimo chiarore della sera” (1965), alcuni critici non a torto avvicinano implicitamente ai dannati della terra i “sottouomini” di cui il poeta si fa “storico” e portavoce: era ed è tuttora il recupero della civiltà degli emarginati. Opere - Cocktail di poesie (1959), Calvario della mia vita (1962), L’ultimo chiarore della sera (1965, prefazione di Carlo Betocchi), Stagione delle malinconie (1966), 23 Liriques contemporaines (1968, traduzione di Janne Legnani e prefazione di Andre Maurois), Schiavo 1933 (1979, prefaqzione di Paolo Ruffilli), Et après... (1981, traduzione e prefazione di Solange De Bressieux), Poesie d’amore (1983, prefazione di Roberto Sanesi), Colloquio con la pietra (1985, prefazione di Roberto Sanesi), L’albero del silenzio (1988), Il muro del tempo (1998), Viaggio nello specchio della vita (1994, prefazione di Giancarlo Vigorelli), Muro di pietra (2000), International Poetry (Madras, India, 2003), Mi assolvo da solo (2004), L’ultimo uomo (2004), Selected Poems of Rudy De Cadaval (2010, traduzione di O. Manduhai, Ulaanbaatar, Mangolia), Dove senza di loro (romanzo, 1978) e poi i racconti: Capodanno (Pandora, Cosenza, febbraio 1967), Una mattina a caccia (Il Corriere del Giorno, Taranto, 27 settembre 1970), Laura (Il Corriere del Giorno, 17 ottobre 1970), La solitudine dell’uomo fiume (Il corriere del Giorno, 30 ottobre 1970), 2 novembre (Il corriere del Giorno, 3 novembre 1970), Capodanno (Il Corriere del Giorno, 31 dicembre 1970), Un uomo nel mare (Il Corriere del Giorno, 22 gennaio 1971), Sogno (Il Corriere del Giorno, 21 febbraio 1971), L’ultimo incontro (Il
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Corriere del Giorno, 28 aprile 1971), Il lampadario diabolico (Il Corriere del Giorno, 25 maggio 1971), Storia d’amore vietnamita (Il Corriere del Giorno , gennaio 1974), L’ultimo incontro (Il Corriere del Giorno, 28 febbraio 1974), La vendetta (Il Corriere del Giorno, settembre 1974), La penna turchese (La Procellaria, Reggio Calabria, ottobre 1986), L’ estate di Anselmo (Percorsi d’Oggi, Torino, novembre 1986), Il mio mare (Percorsi d’Oggi, luglio 1989), L’angelo d’ebano (Silarus, Battipaglia, aprile1998), La legenda di Bay of Chaleur (Alla Bottega, Milano, marzo-aprile 2001), Anche il paradiso ha la sua tristezza (Alla Bottega, maggio-agosto 2001), Lo strozzino (Alla Bottega, luglio-ottobre 2003), L’ amante d’ebano (Alla Bottega, novembre-dicembre 2003), Flop (Alla Bottega, gennaio aprile 2004), Incontri amorosi particolari (Alla Bottega, maggioagosto 2004), Il mistero della saletta privé (Alla Bottega, settembre-ottobre 2005), L’onorevole (Alla Bottega, maggio-agosto 2007). Come si vede, sono tanti e meriterebbero di essere raccolti in un bel volume. Saggi - Chiaroscuri nella poetica di Omàr Khayyam (1963), Hemingway letterato e personaggio nella leggenda (1970), Mostri Sacri (1977), Orizzonte per parole - Biografia critica sul premio Nobel Vicente Aleixandre (1981, prefazione di Domenico Cara), Simboli e realtà nella poesia di Salvatore Quasimodo (1983, prefazione di Gilberto Finzi), Ezra Pound (1986), La vita “recitata” di Oscar Wilde (1988, prefazione di Ugo Ronfani), Sogni e realtà di Emilio Salgari (1992), Faulkner (1998), Kafka: un testimone inquiietante (2006), Pasolini - L’ odio ingiusto nei confronti del padre (2012). Testi teatrali - Ho condannato il mio amore (1960), La prima amante (1963), La gioia di tradire (1963), I condannati: i figli del Dio d’Israele (1973). Discografia - Un poeta, una donna e il mare (1984, poesie di Rudy De Cadaval lette da Arnoldo Foà, con musiche di Evelie Kherr, assoli di tromba di Cappy Lewis). Tralasciamo l’enorme bibliografia, tra articoli, enciclopedie, libre e antologie, siti elettronici eccetera. Un grosso nome, un artista a tutto tondo, come si vede, Rudy De Cadaval e noi, alla conoscenza di un così importante artista, siamo orgogliosi di aver contribuito; anzi, a confronto di molti (ma i cui nomi sono certamente più prestigiosi del nostro), che hanno scritto solo pagine (anche se belle e acute), la nostra fatica è stata veramente grande. D. Defelice *** PREMIO NAZIONALE DI POESIA “IL FIORE” - Sabato 28 novembre alle ore 17,30, presso il Centro Civico “Il Fiore” di Chiesina Uzzanese, in
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via XXV Aprile, la Segreteria del Premio del Comune ha presentato la 30a Edizione del Concorso per l’anno 2016. Madrina dell’evento è stata la poetessa Ilaria Parlanti, vincitrice della 29a Edizione del concorso stesso. È seguito un aperitivo per tutti i presenti e si è proseguiti, poi, con una cena presso il Ristorante Giuliani. A dare il patrocinio e la collaborazione al Premio gestito dal Comune di Chiesina Uzzanese sono stati: l’Accademia Collegio de’ Nobili - Istituzione storico-culturale fondata nel 1689 -; l’Istituto Statale Professionale per l’ Industria e l’Artigianato A. Pacinotti; l’Istituto Comprensivo Statale Don Lorenzo Milani; la Scuola Primaria di Chiesina Uzzanese; la Scuola Secondaria dello stesso Comune; le Scuole Primaria e Secondaria di Ponte Buggianese. Per chi volesse partecipare, diamo l’indirizzo de L’ERACLIANO, l’ organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili, Presidente Marcello Falletti di Villafalletto: Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (FI), e-mail: accademia_de_nobili@libero.it Chiedere regolamento. *** CONDOGLIANZE AD ALFIO ARCIFA. Grande e insopportabile è il dolore per la perdita, specialmente quando i genitori si vedono precedere dai figli. Niente e nessuno può sopperire al vuoto che si viene a formare. Esprimo il mio affetto all’amico maestro Alfio Arcifa, direttore de Il Tizzone, alla sua consorte e ai loro cari tutti, per la dipartita della figlia Pina, avvenuta il 22 luglio 2015. Pina Arcifa è stata vicedirettore della stessa testata, da lei illustrata, per molti anni; secondogenita ha raggiunto la sorella Agata Maria venuta a mancare il 25 agosto 2011. Sono certo di interpretare i sentimenti di dolore e di stima del prof. Domenico Defelice direttore di Pomezia Notizie, dei collaboratori e lettori della rivista pometina. Tito Cauchi La notizia luttuosa ci addolora profondamente. Il caro Amico Alfio Arcifa non ha avuto certamente una vita facile, fin dall’infanzia; ha patito come tanti l’immane tragedia della Seconda Guerra, partecipandovi; ha lottato e lotta ancora per l’ affermazione della libertà in tutti i campi e per la cultura; ha scritto opere di poesia e prosa e lavori di critica che lasceranno tracce; ha diretto e dirige importanti, notissime testare come Il Tizzone; è stato ed è un validissimo operatore culturale: una esistenza spinosa e intensa, la sua, e la perdita delle figlie, come afferma l’amico Cauchi che ce ne dà notizia, è di quelle laceranti che non potranno mai rimarginarsi. Assieme alla grande famiglia di Pomezia-Notizie ci uniamo nelle condoglianze, abbracciandolo, pregandolo di continuare nelle sue
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lotte, per la Poesia, nella volontà e nell’aiuto di Dio. D. Defelice *** PREMIO LETTERARIO ITALO-RUSSO RADUGA per giovani narratori e traduttori - È stata indetta la settima edizione del Premio Letterario Raduga. L’iniziativa è rivolta ai giovani narratori e ai giovani traduttori dalla lingua russa. Il Premio è promosso dall’Associazione Conoscere Eurasia. La partecipazione è gratuita. Al miglior narratore sarà conferito un premio in denaro pari a Euro 5000,00. Per il miglior traduttore il premio previsto è di Euro 2500,00. I cinque migliori racconti verranno tradotti in lingua russa e pubblicati con testo a fronte in un prestigioso volume che sarà distribuito sia in Italia sia in Russia. La scadenza è il 20 gennaio 2016. Associazione Conoscere Eurasia Per scaricare il bando: http://www.conoscereeurasia.it/ category/eventi/premio_letterario_raduga Per ulteriori informazioni: Associazione Conoscere Eurasia. email raduga@conoscereeurasia.it tel. +39-0458020904, Polina Chunina
LIBRI RICEVUTI PASQUALE MONTALTO - DOMENICO TUCCI - Il Dialetto Della Vita - Il Sogno La Vita La Bellezza - In copertina a colori, “L’Abbondanza”, grafica acquerellata di Alice Pinto; Una “silloge doppia” - come precisa l’editore Antonietta Meringola nella Presentazione -, contenente le raccolte poetiche di due Autori, dal doppio titolo, arricchite dalle grafiche di due Artisti” (Alice Pinto e Giulio Tucci); Prefazione di Pasquale Montalto e Bonifacio Vincenzi; le grafiche all’interno sono a colori e in bianco e nero; in calce, nella “Breve antologia critica”, firme di Pasquale Montalto, Luigi Pellegrini, Francesco Mandrino, Eugenio Maria Gallo, Flavia Lepre, Vincenzo Rossi, Tito Cauchi eccetera Apollo Edizioni 2015 - Pagg. 156, € 10,00. Pasquale MONTALTO è nato ad Acri (CS) il 16 maggio 1954. Laureato in Psicologia all’Università La Sapienza di Roma. È dipendente della Comunità Montana “Destra Crati” in Calabria. Tra le tante sue opere ricordiamo: “L’amore dell’Alba Sociale”, “Libertà e Persona”, “Ricerca d’Amore”, “I, You, We, You, Others (Io, Tu, Noi, Voi, Altri)”, “Glass Bits (Schegge di vetro)”, “Il tempo perde la sua culla”, “Luci ed Ombre”, “Profumi sapienti” (1989). E’ inserito in più di 40 antologie. Centinaia gli scrittori e critici che si sono interessati alla sua ope-
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ra. Domenico TUCCI è nato a Petrizzi (CZ) nel 1952, dove risiede. Laureato in Medicina e Chirurgia. Ha svolto la sua professione presso vari ospedali e ASL. Si interessa di tossicodipendenza e prevalentemente di quella alcoolica. Ha fondato varie Associazioni e collabora con molte altre. Ha pubblicato diverse opere, tra cui la silloge poetica “Il guaritore ferito” (2005 e ha dato il suo contributo a molte opere letterarie, tra cui: “Fragranze e Profumi” di P. Montalto e O. Ciapini (1996), “Agenda del Poeta” (2001 e 2002), “Pagine per la mamma” di Tatiana Pacella (2003) eccetera. ** AA. VV. - Chiudo gli occhi... Piccoli autori in volo “Sulle ali di una pagina” - Premio Maria Messina XII Edizione 2015 - Sezione Fiabe - Copertina e illustrazioni all’interno a colori - Edizioni Associazione Progetto Mistretta Il Centro Storico, Mistretta 2015 - Pagg. 116, s. i. p.. Il volume, in carta patinata, c’è stato inviato dal Dott. Nino Testagrossa, Presidente dell’Associazione. Si tratta di “una raccolta di fiabe e racconti - come leggiamo in quarta di copertina -, scaturiti dal laboratorio di scrittura “Sulle ali di una pagina”, realizzato dall’insegnante Mariangela Biffarella, con un gruppo di alunni delle classi Quinte della S. P. dell’ Istituto Comprensivo “Tommaso Aversa” di Mistretta, nel corso dell’A. S. 2014 - 2015. Una simpatica raccolta, interamente illustrata dagli alunni, premiata alla XII edizione del Concorso letterario “Maria Messina”, sezione fiabe.” L’introduzione è della Professoressa Maria Grazia Antinoro, Dirigente scolastico; Prefazione di Mariangela Biffarella; alunni coinvolti: Andreanò Pier Francesco, Antoci Elena, Catanzaro Sofia, Cimino Mattia, Lipari Marika, Marchese Manuela Grazia, Marinaro Ilenia, Oddo Giulia, Ortoleva Giorgia, Prestigiovanni Gabriele, Ribaudo Sharon, Spinnato Lucrezia, Testa Ginevra. Per essere più precisi, il primo e il secondo brano (“Nonna Carolina e la coperta magica” e “Il duca arrogante”) sono firmati da “Noi e la mastra”, rimandano, cioè, a lavori di gruppo; “Guastadisegni” è firmato da Ilenia Marinaro, “Abbracciavento” da Giorgia Ortoleva, “Morgana la maestra-maga”da Sofia Catanzaro, “Il super armadio” ancora da Giorgia Ortoleva, “La cuoca golosa” da Ilenia Marinaro e Sofia Catanzaro, “L’albero e l’elefantino” da Giorgia Ortoleva, “Il maialino Pigly vuole volare” da Lucrezia Spinnato, “La farfalla e il suo amico” da Lucrezia Spinnato, Marika Lipari, Giulia La Ganga, Ginevra Testa e Mattia Cimino, “Ultrafiori” da Ilenia Marinaro, “La maestra maga” da Ginevra Testa, “Andy la streghetta” da Giorgia Ortoleva, “L’altalena magica” da Gabriele Prestigiovanni, “Pappacena” da
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Giulia Oddo, “La maestra e la strega” da Elena Antoci, “La maestra streghetta e l’alunno maghetto” da Lucrezia Spinnato, “Lo sciopero dell’armadio” da Marika Lipari, “La maestra pazzerella” da Piefrancesco Andreanò, “Incantalupo” da Mattia Cimino, “Camilla e la matita magica” da Giulia Oddo, “La penna magica” da Sharon Ribaudo, “Nella tana della coniglietta” da Manuela Marchese. Come si può notare dalla ripetizione di alcuni nomi, tra questi alunni ce ne sono di veri e propri dotali, ai quali auguriamo di voler coltivare il dono che possiedono, di non smarrirsi tra le tante vuotaggini della quotidianità. E si nota anche il carisma che le maestre si sono conquistate, se è vero che più di una volta soggetto delle fiabe e dei racconti son proprio loro. ** ISABELLA MICHELA AFFINITO - Una raccolta di stili - 15° volume - Prefazione dell’Autrice, della quale sono anche due schede sulle mostre di Antonio Ligabue e Renato Guttuso - In copertina, a colori, “Viandante sul mare di nebbia” di C. D. Friedrich rielaborato graficamente e pittoricamente dalla Affinito - Ed. Carta e Penna associazione culturale, 2015 - Pagg. 40, s. i. p.. Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’ Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, la fotografia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’ Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 50 raccolte di poesie e un volume di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierna e del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson.
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Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue recenti opere: “Insolite composizioni” - vol, VIII (1972), “Viaggio interiore” (2015), “Dalle radici alle foglie alla poesia” (2015). ** ISABELLA MICHELA AFFINITO - Il mistero Dickinson - Seconda edizione aggiornata con intervista immaginaria - In copertina, a colori, ritratto di Emily Dickinson ritoccato a mano dalla stessa Affinito, usando colori a cera, pennarelli permanenti e colori a tempera - Carta e Penna Editore, 2015 Pagg. 88, € 10,00. ** TITO CAUCHI - Salvatore Porcu Vita, Opere, Polemiche - In copertina, a colori, “elaborazione oligraphic 2015”. Ottimizzazione redazionale di Gianfranco Cotronei - Edizioni Totem, 2015 Pagg. 304, € 20,00. Tito CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Il Calendario del poeta” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2015). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010), “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (monografia a cura di Gabriella Frenna, 2014), “Profili critici” (2015). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’aperto. E’ incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita Leandro Polverini, giungo alla quinta edizione (2015). Ha avuto diverse traduzioni all’ estero. ** GIORGINA BUSCA GERNETTI - Echi e sussurri - Prefazione di Marco Onofrio; In quarta di copertina, nota critica di Franco Manescalchi - Edizioni Polistampa, 2015 - Pagg. 120, € 10,00. Gior-
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gina BUSCA GERNETTI, scrittrice, ma soprattutto poetessa, è nata a Piacenza, laureata in Lettere Classiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è stata docente di Letteratura Italiana e Latina nel Liceo Classico di Gallarate (VA), città dove vive. Ha studiato pianoforte nel Conservatorio musicale di Piacenza. Ha pubblicato i volumi di poesia: “Asfodeli” (1998), “L’isola dei miti” (1999, 1° Premio Bagheria-Palermo), “La luna e la memoria” (2000), “Ombra della sera” (2002), “La memoria e la parola” (2005, 1° Premio Pisa), “Parole d’ombraluce” (2006), “Onda per onda” (2007), “L’anima e il lago” (2010, 1° Premio Città di Pomezia; 2° edizione, con nota dell’Autrice, 2012), “Amores” (2014). Inoltre: “Itinerario verso il 27 agosto” (saggio su Cesare Pavese, 2009; 2° edizione 2012), “Sette storie al femminile” (racconti, 2011, 2° edizione 2013). Molte sue poesie sono apparse su antologie e Blog, come su Blog e riviste specializzate (cartacee ed elettroniche) sono apparsi suoi saggi di vario genere. È socia di molte Accademie e Centri culturali; ha partecipato a Convegni di Poeti e a Incontri con l’Autore. Ha conseguito più di settanta Premi, tra cui due Medaglie del Presidente della Repubblica Italiana, tre Medaglie d’Oro, due Trofei e dieci Premi per la Cultura.
TRA LE RIVISTE MOSAICO DI PACE - Rivista mensile promossa da Pax Christi e fondata da don Tonino Bello, direttore Alex Zanotelli - via Petronelli 6 - 76011 Bisceglie (BT) - info@mosaicodipace.it, www. mosaicodipace.it Riceviamo il n. 8 (settembre 2015), con firme importanti, oltre quella del direttore: Fabio Corazzina, Alberto Zoratti, Maurizio Mazzetto, Giuseppe De Marzo, Rosario Lembo, Francesco Comina, Mauro Castagnaro, Tonio Dell’Olio, Vittoria Prisciandaro, Alessandro Marescotti, Patrizia Minella, Maria Simona Borella, Stefania Granata, Eugenio Morlini, Maria Francesca Pricoco, Giancarla Codrignani, Noberto Julini, Giannino Piana, Simone Morandini, Simona Prete, Floriana Cerniglia. * MAIL ART SERVICE - Bollettino informativo dell’Archivio “L. Pirandello”, diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN). Riceviamo il n. 91 (settembre 2015), dal quale segnaliamo: “La città allucinata di Vincenzo Di Oronzo: una poetica ricognizione sull’inconscio e le potenzialità trascendenti della nostra anima”, di Andrea
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Bonanno e “Andrea Bonanno - Il romanzo e la verifica trascendentale”, di Tito Cauchi. * FIORISCE UN CENACOLO - Rivista mensile internazionale di Lettere e Arti (una delle più vecchie: 76 anni!), Organo Ufficiale dell’Accademia di Paestum, fondata a Carmine Manzi, direttrice responsabile Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (Salerno) - manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il n. 7-9 (luglio-settembre 2015), dal quale segnaliamo “Il ritorno di Tommaso” di Anna Manzi, tre saggi del nostro collaboratore Leonardo Selvaggi (“Nicolaj Vàsilevic Gogol il cantore del romanzo russo”, “Maria Teresa Epifani Furno Inseguendo l’Aquila” e “Seneca presente in tutti i tempi”), pezzi a firma di Orazio Tanelli e Anna Aita, nonché versi di Teresinka Pereira nella versione italiana di Simonetta Genova, Neusa Zanirato e Angelo Manitta. * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha Voce, direttore Raffaele Vignola - e-Mail: solofraoggi@libero.it Riceviamo il n. 10, ottobre 2015. Ricordiamo ai nostri lettori che l’abbonamento annuale è di sole 18,00 Euro.
BUON NATALE 2015 ! e... FELICE ANNO 2016 !
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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio