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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 23 (Nuova Serie) – n. 2 - Febbraio 2015 € 5,00

...UNA GRAN VOGLIA DI ROVESCIAR LE CARTE... di Oriana Fallaci Quale orrore! Al Qaeda, il terrorismo islamico, ha massacrato a Parigi quasi per intero la redazione del giornale satirico “Charlie Hebdo”. 12 morti solo lì, perché ce ne sono stati altri nella città. L’ ennesima strage in nome di Dio. Qualunque cosa scrivessimo sull’onda dell’orrore sarebbe inadeguata e senza senso. Rabbia e pietà fanno ressa e senza che riusciamo a controllarle. Balbettiamo. Preferiamo lasciar parlare una Scrittrice e Giornalista d’eccezione, profetica, che aveva chiara già molti anni fa la caverna terribile della pazzia nella quale l’Occidente si stava cacciando, imprigionato dal suo stesso buonismo. E noi, allora, a giudicarla eccessiva! Ecco alcuni brani tratti dal suo La rabbia e l’Orgoglio, apparso nella Bur (Biblioteca Universale Rizzoli) nel 2009 - Pagg. 162, € 10. (ddf)

L mondo c’è posto per tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel che gli pare. E se in alcuni paesi le donne sono così stupide da accettare il chador anzi il velo da cui si guarda attraverso una fitta rete posta all’ altezza degli occhi, peggio per loro. Se sono così scimunite da accettar di non andare a scuola, non andar dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se son così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per loro. Se i loro uomini sono così →

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All’interno: Giuseppe Gerini, di Ilia Pedrina, pag. 5 Silone secondo Renzo Paris, di Giuseppe Leone, pag. 10 Aldo Capasso in un saggio di Mario Landolfi, di Luigi De Rosa, pag. 12 Rosa Elisa Giangoia: Margaritae animae ascensio, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 14 Giambattista Vico e il suo tempo, di Ilia Pedrina, pag. 17 Federico II e la Lucania, di Leonardo Selvaggi, pag. 20 Quanti Gesù? di Aldo Sisto, di Luigi De Rosa, pag. 23 Rossella Cerniglia: Penelope e altre poesie, di Elio Andriuoli, pag. 25 Anna Vincitorio e la nave vichinga, di Rossano Onano, pag. 27 Palcoscenico di Tito Cauchi, di Andrea Bonanno, pag. 30 La recente produzione poetica di Ciro Rossi, di Antonio Crecchia, pag. 32 Premio Città di Pomezia (regolamento), pag. 34 I Poeti e la Natura (Giacomo Leopardi), di Luigi De Rosa, pag. 35 Notizie, pag. 49 Libri ricevuti, pag. 51 Tra le riviste, pag. 53

RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Abitare il foglio, di Giuseppe Rosato, pag. 37); Tito Cauchi (Amores, di Giorgina Busca Gernetti, pag. 38); Tito Cauchi (Elogio alla mimosa, di Paola Insola, pag. 38); Tito Cauchi (D’un trasognato dove, di Felice Serino, pag. 39); Aldo Cervo (Amores, di Giorgina Busca Gernetti, pag. 40); Roberta Colazingari (Elogio alla mimosa, di Paola Insola, pag. 40); Antonio Crecchia (Barcollando nell’indicibile, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 41); Domenico Defelice (Pasquinate al peperoncino, di Aldo Cervo, pag. 42); Luigi De Rosa (Stralci di vita, di Antonia Izzi Rufo, pag. 43); Elisabetta Di Iaconi (Elogio alla mimosa, di Paola Insola, pag. 44); Lino Di Stefano (Castelnuovo terra di canti e di suoni, di miti, di Antonia Izzi Rufo, pag. 44); Paolangela Draghetti (Voglio silenzio, di Rodolfo Vettorello, pag. 45); Paolangela Draghetti (Cellulosa, d Aurora De Luca, pag. 45); Paolangela Draghetti (Elogio alla mimosa, di Paola Insola, pag. 45); Filomena Iovinella (Elogio alla mimosa, di Paola Insola, pag. 46); Laura Pierdicchi (Cellulosa, di Aurora De Luca, pag. 46); Andrea Pugiotto (Voglio silenzio, di Rodolfo Vettorello, pag. 47); Andrea Pugiotto (Cellulosa, di aurora De Luca, pag. 47); Andrea Pugiotto (Elogio alla mimosa, di Paola Insola, pag. 47); Andrea Pugiotto (L’infiltrato, di Teresa Regna, pag. 48).

Lettere in direzione (Ilia Pedrina a Domenico Defelice), pag. 54

Inoltre, poesie di: Loretta Bonucci, Giorgina Busca Gernetti, Tito Cauchi, Giorgia Chaidemenopoulou, Renzo Ferraresi, Filomena Iovinella, Antonia Izzi Rufo, Rossano Onano, Luis Carlos Pereira, Ciro Rossi, Leonardo Selvaggi, Gian Piero Stefanoni

grulli da non bere la birra e il vino, idem. Non sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto di libertà, io,

e la mia mamma diceva: “Il mondo è bello perché è vario”. Ma se pretendono d’imporre le stesse cose a me, a casa mia... Lo preten-


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dono. Usama Bin Laden afferma che l’intero pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all’Islam, che con le buone o con le cattive lui ci convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci. E questo non può piacerci, no... Deve metterci addosso una gran voglia di rovesciar le carte, ammazzare lui. Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la morte di Usama Bin Laden. Perché gli Usama Bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi arabi. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della tecnologia. Quella tecnologia che qualsiasi ottuso può maneggiare. La Crociata è in atto da tempo. E funziona come un orologio svizzero, sostenuta da una fede e da una perfidia paragonabile soltanto alla fede e alla perfidia di Torquemada quando gestiva l’Inquisizione. Infatti trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso. (...) Sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente oppure d’apparire razzisti, (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata all’Inverso. Abituati come siete

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al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia e dalla cretineria dei Politically Correct, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione forse, (forse?), comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad, Guerra Santa. Una guerra che forse non mira alla conquista del nostro territorio, (forse?), ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime: alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà, all’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci... Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri... Cristo! Non vi rendete conto che gli Osama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador anzi il burkah, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v’importa neanche di questo, scemi? Io sono atea, graziaddio. Irrimediabilmente atea. E non ho


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alcuna intenzione d’esser punita per questo da barbari che invece di lavorare e contribuire al miglioramento dell’umanità se ne stanno col sedere all’aria cioè a pregare cinque volte al giorno. Da vent’anni lo dico, da vent’anni. Con una certa mitezza e non con questa collera, con questa passione, vent’anni fa su tutto ciò scrissi un articolo di fondo. Oriana Fallaci L’umanità sembra essere piombata nel più profondo medioevo: chiese incendiate in molte nazioni, milioni di cristiani perseguitati,migliaia lapidati, crocifissi, uccisi. A Roma abbiamo permesso che si costruisse la più grande moschea d’Europa, e il cambio? La promessa che l’Islam conquisterà la città eterna, che un nero vessillo sventolerà sull’obelisco di Piazza San Pietro. Ma quella legata a una frangia dell’islamismo non è la sola violenza dei nostri giorni, anche se la più inquietante e la più incombente per l’ attenzione particolare che le stanno dando i mass media; egoismi, pressapochismi, insaziabile sete di ricchezza, disprezzo della vita altrui, follie individuali e collettive, malattie che si evolvono e si rafforzano: un continuo grido di sangue innocente che annichilisce ogni anima sensibile. Ecatombe in mare di migranti in cerca di un tozzo di pane; malati di ebola che muoiono a migliaia come foglie spazzate da un vento glaciale; navi e aerei che si inabissano o si infiammano; intere scolaresche rapite stuprate, trucidate; donne vendute come schiave;adolescenti assassinati perché, tifosi, assistono a una partita di calcio; madri che uccidono i propri figli, che li buttano nella spazzatura appena partoriti; padri che sterminano moglie e figli per gelosia o una minaccia di separazione... E su questo sanguinolento, dolorante carname, tra grida strazianti, invece di unire le forze, darci una mano, affratellarci, una minoranza ingorda di iene e caimani (perché nel mondo sono una esigua minoranza coloro che detengono potere e ricchezza), notte e giorno banchetta, ride e sghignazza. Abbi pietà di noi, Signore, abbi pietà di noi! Ecco, l’orizzonte è in fiamme e incombe già su noi l’Apocalisse! D. Defelice

LA SOSTANZA PRIMIGENIA Si è chiuso lo spazio, il bianco della neve tutto ravvolge intorno. Si è ristretta, tornata indietro

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la vita. Nel nulla tutto dileguato, a frantumi le strutture. Le poche cose divise, sostanza vera primigenia, rimane quello tenuto fra le mani. Sentimenti intensi, innalzamenti all’amore, azioni di bene, l’uomo ricrea se stesso. Ogni angolo riempie la donna come vaso, ricchezza di pane, calore fumigante, tutto sapore. Da dentro la dolcezza riversata piena di alimento con cura attenta. La neve, densa coltre di gelo, orla le superfici nella piatta afona atmosfera. Andiamo raggelati uguali ai rami piegati sul tronco. Nei passaggi, segnati dalle pedate, sparute sagome in fila. Nuda la terra senza cielo è il mondo eterno che ci sostiene, sentiamo tutti insieme ritornati. Vedo mia madre, volto antico di sempre, nella dimora fatta unica, amata e felice. Famiglia e neve, rudimentali oggetti, persone che ricercano come cominciando nell’ammassato biancore il cammino retto, perso nelle ambiguità del tempo confuso nostro. Leonardo Selvaggi

L’ITALIA DI SILMÀTTEO Chiediamo venia agli affezionati Lettori che hanno finora seguito con attenzione e costanza le “avventure” di Silmàtteo e dell’Italia. Non troveranno, in questo numero, la nuova puntata. Gli avvenimenti nel mondo, nella nostra Nazione in particolare e nel nostro Parlamento, in questi giorni sono stati tali da deprimere ed abbattere financo la nostra ironia. Speriamo che tutto ritorni almeno passabile e in noi la voglia di raccontare! Domenico Defelice


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Spulciando nel materiale inedito di

GIUSEPPE GERINI di Ilia Pedrina

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TO elaborando accuratamente l'analisi di tutto il materiale inedito che mi è stato gentilmente e generosamente messo a disposizione dalla signora Erika Giaretta Sartori, nipote di Giuseppe Gerini, scrittore, poeta e critico letterario appartenente alla corrente del Realismo Lirico. L'impegno mi condurrà avanti per un tempo lungo ma l' entusiasmo non mi manca perché si tratta di una eredità spirituale, culturale, etica e politica che ha profondi aspetti strutturali, non solo di ordine estetico e letterario. Come si è ben capito, Francesco Pedrina è stato il più leale, sensibile, competente divulgatore, nelle sue opere sulla Letteratura Italiana pubblicate dalla Casa Editrice Trevisini di Milano, di questa corrente tra i giovani studenti delle Scuole Superiori da Nord al Centro, al Sud d'Italia, fin dai primi Anni Cinquanta del secolo scorso. Entro nel vivo del tema e porto l'attenzione su un'Agenda in blu scuro, del Monte dei Paschi di Siena, anno 1967: quella del Gerini è una grafia che ben conosco da bambina, mi è facile sfogliare le pagine dell'agenda, fittamente scritte in matita ed all'interno trovo anche lettere di Aldo Capasso e di altri. È come entrare in una quotidianità senza tempo, che si illumina via via di dati e di fatti, oltre che di emozioni vissute con grande, leale sincerità: lettere agli Amici della corrente del Realismo Lirico e ad alcuni famigliari, ricopiate prima di essere inviate al destinatario, quasi presago, il poeta Gerini, il 'Caro Cefas...' per il Pedrina, che al loro interno ci sia come un invisibile seme che potrà dare il suo frutto. La prima lettera, scritta nella pagina del 2 gennaio, è indirizzata ad Aldo Capasso, priva di data: “Carissimo Aldo, sono molto dispiaciuto che la tua salute continui a non andare bene... Ho ricevuto oggi il n. 88 bis di Realismo Lirico....Sento che il mio articolo su Delcroix

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è già partito per la tipografia e te ne ringrazio anche a nome di Pedrina a cui sta a cuore la pubblicazione...”. A onor del vero, che lo si sappia bene, il nostro Aldo, in questo momento male in arnese, troverà il coraggio di lasciare la fidanzata, Solange de Bressieux, legata a lui da sentimenti profondissimi, e dopo il matrimonio avvenuto nel 1971 con la poetessa Florette Morand Capasso, Musa Nera della Guadalupe, ritroverà salute e vigore fino ad oltre i novant'anni, perché l'amore, la dedizione, la linfa vitale di poesia fanno anche questo ed al Pedrina, è chiaro, sta a cuore 'VAL CORDEVOLE', perché tra la produzione poetica di Carlo Delcroix, il grande mutilato ed invalido di guerra, sotto Mussolini, vi ha selezionato 70 sonetti ed ha profuso, nel commento di ciascuno di essi, limpide energie esegetiche commoventi e coinvolgenti, atte a sottolineare il particolare, intensissimo clima tra le vette delle Italiche Dolomiti, evocato da quei versi durante la Prima Guerra Mondiale. Il volume ha visto la luce per i tipi della Casa Editrice Cappelli di Bologna nel 1970 ed il Pedrina morirà il 16 Gennaio 1971, dimostrando a tutti di essersi


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'assentato' nel pieno dell'attività che lui ha amato sopra tutte le altre sue esperienze di vita, in un intreccio mirabile tra emozioni vitalissime e professionalità caricata di ardore. In una missiva 'volante' del Capasso, inserita poche pagine oltre, nell'Agenda, datata 'Inizio 1973', Aldo ha modificato addirittura la sua grafia che, da minuta, quasi da formula matematica, appare ora piena, articolata in modo quasi infantile e con righe distanziate: il Poeta di Altare avvia il pensiero su quegli Amici che si sono allontanati per sempre dalla vita, come Francesco Pedrina, dopo altri tra cui Galletti, Borgese, Jenco, Caprin, Ugolini, Palazzi, Allodoli, avvio sincero per segnalare un forte vincolo che ancora lega loro due, il Capasso ed il Gerini, con sincero affetto. Alla pagina che porta la data del 10 Gennaio trovo, sempre a matita, la copia di una lettera 'particolare', senza data ma quasi sicuramente del 1968: “Carissimo Francesco, il mio lungo increscioso silenzio a ringraziarti della bella lettera che mi facesti dare tramite Nerina in risposta a quanto ti scrissi sulle puntate inviatemi di 'Vela d'Argento', è dovuto al fatto che in Luglio fui investito, mentre attraversavo via San Gallo, ed ho riportato la frattura del malleolo della gamba sinistra e l'infrazione al polso della mano destra. Ho tenuto l'ingessatura una quarantina di giorni, poi ho fatto l'elettro-terapia Marconi ed ora continuo a curarmi con massaggi. Ringraziamo il buon Dio, poteva andar peggio! E tu come stai? Quali notizie di 'Vela d'Argento', dell'altra tua infaticabile attività e dei tuoi di famiglia? Spero che tutto proceda a gonfie vele, come tu meriti. Scrivimi presto e scusami se non mi dilungo. T'abbraccio tuo Cefas”. Il Pedrina ha per le mani oltre a 'Val Cordevole' e a 'Vela d'Argento' anche il poderoso commento ai 'Promessi Sposi' di Alessandro Manzoni, quella sua creatura culturale pregevole alla quale teneva moltissimo e che per pochi mesi non è riuscito a veder pubblicata. Il successo di quest'opera è stato minimizzato, ma è apparso a dir poco travolgente. Non posso trascrivere le altre missive ad

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Aldo Capasso, ancora al Pedrina e ad altri destinatari di famiglia, perché mi avvio veloce alla pagina dell'Agenda blu che porta la data del 16 marzo, un giovedì. Trovo scritto, sempre a lapis: “Caro Delcroix, la dolorosa notizia della morte del nostro amato Francesco Pedrina l'ebbi dalla pittrice Nerina Battigalli, soltanto oggi mi giunge la partecipazione da parte dei familiari, benché abbia già spedito un telegramma di condoglianze. Veramente, come tu dici, la solitudine aumenta ogni giorno intorno a noi ed oggi s'allarga maggiormente perché ci apre un vuoto che sentiamo incolmabile; tanto l'uno e l'altro eravamo uniti al grande amico da un sentimento di ammirazione e gratitudine: tu per la mirabile esegesi di 'Val Cordevole', a cui s'affiderà certamente il tuo nome, io per l'incomparabile saggio dedicato alle mie poesie e per l'accoglienza delle migliori d'esse ch'ebbi nelle Antologie scolastiche. Si, onoriamo la memoria del caro Francesco rileggendo le sue opere e l'Epistolario, che testimoniano il suo temperamento, alle volte un po' aspro, ma sempre rivelatore della generosità del suo cuore e dell'acuta sua mente che lo fanno senza dubbio, come tu affermi, uno dei più insigni studiosi e sapienti maestri che la letteratura greca latina e italiana abbia avuto da noi. Ora non ci rimane che pregare per l'anima sua, conservarlo sempre vivo nel cuore ed operare per la sua ben meritata fama.(...) Lascia che ti abbracci con grande affetto”. Segue la copia di una lettera a Luisa Cartone Pedrina, la mia Mamma, poi quella di una missiva a me, sul foglio dell'Agenda che porta la data del 21 Marzo, un martedì (sicuramente l'anno è il 1971): “Carissima Ilia, (…) Ti sono profondamente nel cuore e continuo a prendere parte viva al tuo immenso dolore e a quello dei tuoi familiari. Anche a me è di conforto il pensiero che il nostro Francesco è morto solo fisicamente e che quindi il suo spirito continua a vivere in noi e in quanti gli abbiamo voluto bene, lo stimammo per le sue doti non comuni di ingegno, per la sua sincerità e prodigiosa atti-


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vità di esegeta e di letterato, il cui nome resterà legato alle sue opere che lo collocano tra i più insigni studiosi e sapienti maestri che la storia della letteratura greca latina italiana abbia avuto da noi. Tu che all'ospedale lo hai assistito sempre giorno e notte puoi ora essere più profondamente in lui perché ne hai raccolto gli ultimi pensieri, le ultime volontà. Egli certamente ne avrà avuto conforto per il suo viaggio ultraterreno verso l'eterno. Ilia cara, sei tanto una buona e brava figliola: lasciati fraternamente stringere al cuore del tuo aff.mo Cefas”. Altre copie di lettere, ancora a me, a Carlo Delcroix, ai parenti e familiari, poi, alla data 25 Giugno, una domenica, con precisa indicazione scritta a matita, in piena pagina, trovo scritto: “ Firenze, Pasqua 1973 - Gentile Defelice, La prego di scusarmi per il ritardo a ringraziarLa del bel dono di poesia suo 'La morte e il Sud' e di Solange de Bressieux 'Un Autore Immortale'. Purtroppo le mie condizioni di salute non sono buone e da molto tempo ho tralasciato ogni attività letteraria e quindi non potrò recensire i volumi come vorrei e come meritano. Essi infatti sanno dare quasi sempre la gioia della raggiunta espressione in cui, isolando il sentimento o lo stato d'animo, non è più particolare contenuto, ma è l' universo tutto goduto sub specie aeternitatis. Me ne compiaccio vivamente e la prego di scriverne alla de Bressieux salutandomela affettuosamente e ringraziandola di gran cuore. Nel formulare i migliori auguri di largo successo, La prego di gradire pensieri grati di stima e cordiali saluti”. Seguono quattro pagine in scrittura a penna poi, dalla data del 1 luglio le pagine dell'Agenda sono tutte bianche; alla fine vi è inserito un ritaglio di giornale, ripiegato, dall' intestazione: 'ARGUS de la PRESSE', con sede a Montmartre, a Paris 2°, con sotto, a timbro in rosso 'POINTS ET CONTREPOINTS DECEMBRE 1968. A mano, in biro rossa 'Giuseppe GERINI', mentre all'interno trascrivo integralmente: “GIUSEPPE GERINI - Goutte dans l'immen-

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se fleuve. Choix et traduction de Solange de Bressieux. Préface de Lucien P. Lecocq (Subervie). L'auteur est maintenant septuagénaire. Il a produit assez lentement une douzaine de recueils, toujours fidèle à l'esprit de ce rèalisme lyrique dont Lionello Fiumi et Aldo Capasso furent les initiateurs en 1949. C'est un poète contemplatif et meditatif dont les œuvres sont gènéralement assez courtes, parfois même à la dimension des haȉ-kaȉ. Le recueil nouveau, où voisinent des poèmes anciens et des inédits, a été remarquablement traduit par madame Solange de Bressieux dont le rôle aura été si important pour la connaissance des poètes italiens en France. La forme de Gérini est condensée, élégante, harmonieuse. Ses thèmes, gènéralement ispirés de la vanité de la vie et de l'omniprésence de la mort, sont traduits avec un frémissement discret et profond, comme au-delà du désespoir et de l'espérance: une sorte de résignation adoucie par la splendeur du monde. Quelques vers donnent une idèe de la sensibilité du poète: Le prêtre psalmodiait. J'adhérais au dallage âme et corps étendu au centre du rectangle de cierges sous la draperie noir. Mais c'etait Elle, la recluse, ma Fille la fleur chérie de mon sang, scellée... Et je vivais...” La morte della figliola del poeta, scomparsa nei fiore degli anni, ha lasciato segni di sofferto e crudele vuoto, quasi a testimonianza di una costrizione al credere anche quando lo sconforto totalizza la pena, tradotta in travolgenti effetti: la sua salute andrà via via indebolendosi, lasciando lo spazio ad una tristezza che troverà consolazione solo in una fede assoluta. Allora gli accenti di poesia, così intensi perché preghiera in canto, elevati nel corso


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della sua esperienza di vita, sono stati raccolti e preservati con l'attenzione dovuta alle cose che hanno la connotazione della sacralità. Si, la Poesia riesce a cambiare, nel suo divenire, il sapore del mondo. Ilia Pedrina

A LEGGENDA DI EZZOLINO di Rossano Onano Ezzelino da Romano, scomunicato e sconfitto a Soncino da Papa Innocenzo, si rende all'Inferno strappandosi le bende che gli coprono le ferite. La bionda Ivelda lo respinge. Dall'Inferno Ezzelino ritorna ogni notte sulla Rocca di Bassano, in combutta col diavolo per spaventare i passanti.

un castello ti donai ove il talamo apprestare da cotanto che t'amai, ché a Monselice turrita ago e filo manovrando nelle stanze ti pensavo sospirare me aspettando. Ma restando alla campagna dopo avere guerreggiato una maga per tre scudi dell'amore lesse il fato: 'A Monselice turrita altra cura dal cucire pone Ivelda onde l'eterna giovinezza perseguire

Come d'aquila è lo sguardo di Ezzelino da Romano che governa genti e bestie dalla Rocca di Bassano.

che ritiene sia nel seme e nel sangue dei villani che raccoglie nel suo letto purché belli siano e sani,

Alla luce della luna chiuso nel mantello nero di dolore colmo e d'ira dentro sé volta il pensiero:

poi traverso piombatoi in segreta li sprofonda ove tronchi a punta aguzza nelle viscere gli affonda'.

“Occhi belli, bionda Ivelda

Bella Ivelda, io la maga afferrando per la strozza misi a cuccia e di mannaia della testa resi mozza. Ma tornando alla castella occhi belli, per amore ti baciavo mentre il ferro affondavo nel tuo cuore. Amor mio, che da quel giorno come falco quando artiglia nostalgia di te mi prende che le viscere attorciglia”. Così piange nella notte sulla rocca di Bassano ricordando Ivelda bionda Ezzelino da Romano,

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che si fece ghibellino per maggior belligeranza onde avere dell'amata nulla o poca ricordanza, tanto che tronca di scure diecimila padovani altri mille per la forca come guelfi partigiani. Onde a Padova scerpata viene il messo papalino che per voce d'Innocenzo punta il dito su Ezzelino: “Perché a Santa Madre Chiesa altro danno tu non faccia il Vicario di san Pietro l'anatema ti minaccia”.

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con le dita messe a fica che ghignando gli fa scherno: “Ezzelino, nelle stanze dell'inferno fredde e nere dacché il cuore mi spartivi non ti voglio rivedere”. Sotto forma di demonio torna il sire padovano che non è vivo né morto sulla rocca di Bassano, i passanti a spaventare nella chiarità lunare che la buiainonda. Sorride all'Inferno Ivelda la bionda. Rossano Onano Reggio Emilia

CASA MIA Ezzelino trova il nunzio di consiglio poco accorto, come fece con la maga di coltella lo fa morto. Di rimessa manda il Papa al signore patavino di sua mano l'anatema con i guelfi di Soncino, dove spiega alla battaglia Ezzelino il suo furore fino a che di lancia e mazza è colpito sotto il cuore. Affinché dalla ferita non ne fosse dissanguato Innocenzo ne comanda una fascia sul costato. Ma strappandosi le bende per avere sorte degna Ezzelino ancora vivo all'Inferno si consegna. Ove posa Ivelda bionda sulla porta dell'averno

I miei pensieri segreti affidare vorrei alla carta, ma non ci riesco; mi sento condizionata, è come se fossi legata -e vorrei sciogliermi, fuggirein una prigione, se avessi paura... Mi manca la libertà, interiore, traboccante di casa mia, la mia spontaneità, il mio intero disporre di me, lo spazio ristretto-infinito nel quale muovermi a mio agio, il mio espandermi, senza ostacoli, in ogni direzione. "Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia, mi sembri una badia". In te ritrovo me stessa, il mio senso di vita, la mia poesia, i miei ricordi, il mio vissuto realizzato; nel tuo vuoto, ora tutto mio, ogni mio sogno si avvera, ogni mio ideale. Antonia Izzi Rufo


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Continuano le offese a uno scrittore in perpetuo esilio

IL “FENICOTTERO”

SILONE NELLA REVISIONE DI RENZO PARIS di Giuseppe Leone

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ERTO che quella Scuola dei dittatori è ancora un pugno allo stomaco che non lascia sonni Tranquilli alla critica revisionistica, ma - ahinoi! - anche alla critica di sinistra. Quei suoi aforismi come “Il duce non ha creato il fascismo ma il fascismo il duce”, oppure “il fascismo è stata una controrivoluzione contro una rivoluzione che non ha avuto luogo”, oppure ancora “non il socialismo sarebbe stato sconfitto dal fascismo… ma il fascismo e il nazismo sono nati dalla sconfitta socialista”, sono a tal punto indigeribili che qualcuno accusa ancora dei mal di pancia alla sola idea che Silone, attento osservatore della storia del Novecento, possa avere avuto ragione. E non ci sono dubbi che Silone abbia avuto

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ragione, grazie alle sue “verità pazze” e la sua “uscita di sicurezza” da istituzioni che, nate come movimenti di liberazione, si sono poi trasformate in dittature. Tra coloro che non si rassegnano e continuano a disconoscere ancora la letteratura siloniana, sembra esserci anche Renzo Paris, che ha pubblicato recentemente, edito dalla romana Elliot, Il fenicottero. Vita segreta di Ignazio Silone, una storia romanzata sullo scrittore o, per meglio dire, su una parte della sua vita, dal 1900 al 1930, quando era ancora Secondino Tranquilli. Non sono bastati a chiudere l’annosa querelle su Silone né il successo avuto dalla sua letteratura in tutto il mondo, né la caduta dei “muri”, né il “convegno-processo” tenutosi a L’Aquila nel 2006, nel quale Silone verrà assolto dalle accuse mossegli da Biocca e Canali, né gli autorevoli interventi in difesa dello scrittore da parte di Vittoriano Esposito, Giuseppe Tamburrano, Mimmo Franzinelli, Indro Montanelli, Enzo Bettiza, se Renzo Paris si ripresenta ancora con pietanze cotte e decotte, provenienti da una mensa (quella di Biocca e Canali) già in sentore di rancidi odori; e che ora ripropone in uno stile che ricorda i toni della stampa futurista: “Io voglio descrivere la discesa agli inferi di un marsicano e la risalita con l’analisi junghiana e la riscoperta della bellezza della sua etnia”(92). Vede Paris, questo suo libro non ci convince. Non ci convince già nel titolo (Silone nel partito comunista era molto di più di un semplice “fenicottero” che volava da una città all'altra per consegnare la stampa clandestina); e nel sottotitolo, dove malizioso e capzioso a un tempo suona l’aggettivo segreta che sembra voler alludere e ammiccare alla presunta “doppiezza” di Silone, al suo doppiopetto, sbattuto, qualche anno fa, in prima di copertina su un testo della Rizzoli e su un noto rotocalco italiano come L’Espresso. Non ci convince, caro Paris. Non ci convince perché la sua disamina si ferma artatamente al 1930, a Secondino Tranquilli, quando il giovane non si firmava ancora Ignazio Silone. A differenza del suo maestro Biocca, che


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qualche anno fa ci aveva propinato un Silone per eccesso, sottotitolando il suo saggio: La doppia vita di un italiano, lei ora ci rifila un Silone per difetto, appunto la metà, forse anche meno se dalla sua biografia romanzata rimangono fuori ben 48 anni, che sono poi quelli vissuti da Secondino Tranquilli con la nuova identità di Ignazio Silone. Inutile dirle che Ignazio Silone è il grande assente dal suo libro e quel suo sottotitolo sia già un’illazione, come del resto tante altre sue dichiarazioni, tra le quali: “Silone non aveva consumato il matrimonio con Darina” (329); “uno che non fa l’amore con le donne che sposa ha qualcosa da nascondere” (330), “dentro un faldone era contenuto un paginone dove c’era scritto a penna, Silone impotentia coeundi e generandi”. Le ricordo che la letteratura siloniana nasce europea ed europeista in Svizzera, germinata dal dialogo con i maggiori intellettuali fra le due guerre, con i quali Silone è stato in costante e proficuo colloquio, come provano migliaia e migliaia di lettere, e non nella Mar-

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sica o come scrive lei, in seguito a disturbi nervosi, in una clinica svizzera, dove Carl Gustav Jung “gli aveva riaperto le porte della sua etnia marsicana, permettendogli di scoprire, dentro quel cespuglio di spine, la rosa selvatica di Fontamara”. Per cui, ci può anche star bene che lei scriva “l’ombroso Silone”, ma non che la parte del Lombroso la faccia lei per dirci che la sua letteratura sia nata in diretto rapporto con quelle che lei chiama anomalie sessuali, omosessualità e impotenza, e ridimensioni Fontamara, facendola passare da capolavoro artistico e letterario a diario delle sedute dell’autore nello studio di uno psicanalista. Il suo Silone, pertanto, è un Secondino Tranquilli senza la letteratura, che non diventerà mai Ignazio Silone, che poi è quello che interessa a noi. Vede Paris, lei, del personaggio Silone, ci fa vedere metaforicamente ed eufemisticamente solo “il cespuglio di spine”, ma mai le rose che sbocceranno di lì a poco. Queste ce le nasconde, per cui alla fine riesce finalmente a convincerci che aveva pienamente ragione Vittoriano Esposito quando scriveva che “l’aspetto più sconcertante del nuovo “caso” Silone è il serpeggiante sospetto che, demitizzata la figura tutta d’un pezzo del “maitre a penser”, possa essere fortemente incrinata anche l’immagine dello scrittore”. E Vittoriano Esposito, guarda caso, è colui che lei accusa di aver occultato il faldone che conteneva indiscrezioni attorno alla vita sessuale di Silone. Ma questa è tutta un’altra storia, che è meglio riprendere in un altro momento e non ora, in questo mese di febbraio, quando, nella ricorrenza del terzo anniversario dalla sua morte, ci piace ricordare Vittoriano nella veste di galantuomo delle lettere, usando la stessa felice espressione che è risuonata nel Salone delle conferenze del Centro Studi Ignazio Silone di Pescina, durante un convegno a lui dedicato nel settembre del 2012. Giuseppe Leone Renzo Paris - Il fenicottero. Vita segreta di Ignazio Silone - Editore Elliot, Roma, 2014. € 19,50. pp. 347


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ALDO CAPASSO E IL “REALISMO LIRICO” IN UN SAGGIO DI

MARIO LANDOLFI di Luigi De Rosa

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un saggista letterario di valore e di provata esperienza come il casertano (di Recale) Mario Landolfi si deve il pregevole saggio intitolato Aldo Capasso e il Realismo lirico, opera prescelta per il Premio Letterario Int.le “Aldo Capasso” che viene assegnato in Liguria. Tra le numerose pubblicazioni di Landolfi mi limito a ricordare Carlo Castellaneta (1986), Il romanzo di Giorgio Saviane (1989), Pagine sul Novecento letterario (1997), La famiglia nel teatro di Eduardo (2005), Civiltà contadina e cultura in Antonio Angelone (2008), i segreti dei Gonzaga di Maria Bellonci (2013), e altri libri dedicati a Giuseppe Bonaviri, Alberto Bevilacqua, etc. Questo su Capasso è uno studio che si inserisce autorevolmente nella ripresa di interesse da parte della critica nei confronti del poeta e critico di Altare. Aldo Capasso era nato a Venezia nel 1909, ma subito dopo la morte del padre si era trovato trasferito ad Altare, in provincia di Savona, dove si era sistemata la madre.

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Aveva solo tre anni. E tutta la sua vita l'avrebbe trascorsa nella Liguria di Ponente, fino all'anno della sua morte, il 1997, dopo una vita fatta di gioie procurategli dai libri e dalla letteratura (era un letterato autentico) e, soprattutto, dal 1970 in poi, dalla dolce moglie, la poetessa afro-caraibica Florette Morand. Ma dopo una vita fatta anche di amarezze causategli da inimicizie e invidie da parte di altri letterati, che miravano a tenerlo in isolamento e a fare intorno a lui “terra bruciata”, perché nel suo rigore morale non era mai disponibile a compromessi, sotterfugi, ruffianerie, accondiscendenze. A Capasso si era finalmente dedicato un Convegno di studi a Venezia, nel 2003. Vedi Filippo Secchieri, “Aldo Capasso, Critica e poesia”, Granviale, Venezia. Un altro importante Convegno Nazionale di Studi su Capasso si è tenuto il 20 aprile 2012 presso il Liceo Calasanzio di Carcare, a cura di Fulvio Bianchi, dirigente del Liceo, Giannino Balbis e Paola Salmoiraghi. Gli Atti sono stati pubblicati dall'editore genovese Zaccagnino nel 2013. Particolarmente notevole l' intervento del prof. Giovanni Farris, dell'Università di Genova, su “Letteratura e vita in Aldo Capasso”. Nel suo saggio Mario Landolfi si occupa, con analisi penetrante resa più efficace da notevoli doti di sintesi, della vita letteraria di Capasso nel periodo successivo al 1947. Lo stesso Autore ci chiarisce, infatti, che “...se proprio volessimo tentare di suddividere i momenti della sua vita, potremmo sostenere che, se gli anni Trenta-Quaranta furono caratterizzati da un'alacre attività critica, il periodo compreso in particolare tra il 1947 e la seconda metà degli Anni Sessanta sarà quello dove Capasso riuscirà a raggiungere i risultati più importanti nella poesia”. Secondo Gandolfi, Capasso sarà ricordato negli anni a venire più per la produzione poetica che per quella critica, pur avendo egli pubblicato saggi di notevole profondità e spessore sull'Ariosto, il Bojardo, il Tasso, il Carducci, il Pascoli, il Leopardi e il D'Annunzio. Per non tralasciare Dante, Cardarelli,


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Paul Valéry, André Gide e Marcel Proust (con una tesi su Proust si era laureato brillantemente, con pubblicazione). Vengono esaminati criticamente i libri di Capasso Il passo del cigno (1931), con prefazione di Giuseppe Ungaretti, Il paese senza tempo (1934), Per non morire (1934/1943), Formiche d'autunno (1952), Tredici recitativi (1956), Recitativi quasi meditazioni (1958), Turno di notte (1963). Specialmente per “Il paese senza tempo” (ma anche per libri come “Per non morire”, “Formiche d'autunno”, “Turno di notte”) Landolfi cita pregressi, pregevoli studi dei critici Elio Andriuoli e Liliana Porro Andriuoli, che prima di trasferirsi a Napoli hanno operato lungamente in Liguria. Emerge il pessimismo di Capasso sul “senso della vita”. L'abbandono della turris eburnea dell'intellettuale avulso dai problemi materiali della Società in cui vive. Il desiderio di contestare l'Ermetismo di Montale, Ungaretti e Quasimodo (specialmente quello del “borghese” Eugenio Montale, non tenero nei suoi confronti) contrapponendogli il Realismo Lirico (o realismo nella lirica), Movimento fondato nel 1949 dallo stesso Capasso insieme ad altri poeti e scrittori com Lionello Fiumi, Giuseppe Gerini, Elpidio Jenco, Alberto

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Macchia, Riccardo Marchi, Amedeo Ugolini, Arrigo Bugiani. Il critico siciliano Anton Giulio Borgese, nella foga della polemica antiermetica, arriverà a parlare della “superbia dell'enigma”. Nel paragrafo I (Nascita e sviluppo del realismo Lirico) Landolfi ha scritto, fra l'altro : “ L'obiettivo del Gruppo, come traspare dal Manifesto che accompagnò la sua nascita, fu di abbattere il muro da sempre esistente tra la poesia e la realtà del mondo circostante. Infatti, nel suddetto documento si legge : “Il realismo del poeta lirico consiste nel non rompere i legami sentimentali con l'uomo comune, e per ciò stesso nel rispecchiare - a suo modo – la realtà quotidiana”. “ Pertanto – aggiunge Landolfi – il concetto di Realismo Lirico nasce dal tentativo di mettere insieme la realtà con il sentimento, provando con questa operazione a raggiungere un livello di nitidezza, grazie all'uso di un linguaggio basato su forme comuni in grado di arrivare al maggior numero di lettori....” Luigi De Rosa Mario Landolfi – Aldo Capasso e il Realismo Lirico – prefazione di Mario Bottaro – SamniCaudium Edizioni, Montesarchio, Benevento – pagg. 77 – € 8

VOGLIO SENTIRE L’aria intorno a me voglio sentire liberarmi dalle invisibili trattenute che mi sottraggono che mi agitano che mi legano al dolore Voglio sentire l’aria intorno a me e farne una danza di leggerezza tirare in alto le mani ed afferrare il cielo tirare in alto le mani ed afferrare il cielo. Filomena Iovinella Torino


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ROSA ELISA GIANGOIA MARGARITAE ANIMAE ASCENSIO di Liliana Porro Andriuoli

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ER le Edizioni Nemapress (AlgheroRoma, 2014, € 10,00) è apparsa, nel giugno 2014, una pièce in versi di Rosa Elisa Giangoia, dal titolo Margaritae Animae Ascensio (L’ascensione dell’anima di Margherita), che ha per protagonista Margherita di Brabante, “una donna del Medioevo”, resa immortale dallo splendido monumento funebre di Giovanni Pisano, che la ritrae nel momento in cui due angeli la conducono in Paradiso. Di quel capolavoro scultoreo oggi, purtroppo, poco resta; ma quel poco, tuttora visibile nel Museo genovese di Sant’Agostino (dove è stato trasferito negli anni ’70), è ancora capace di trasmettere, pur nella sua incompletezza, un’intensa emozione a colui che lo osserva: un’emozione probabilmente molto simile a quella che provò la stessa Rosa Elisa allorché, bambina di nove anni, condotta dal

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padre a Palazzo Bianco (dove a quell’epoca la statua si trovava), la vide per la prima volta. Il suo sguardo, scrive oggi l’autrice ricordando quella lontana mattina, “mi fece uscire dall’infanzia e mi arricchì di una nuova consapevolezza, che andò via via crescendo” nel tempo (Introduzione a Margaritae Animae Ascensio). E fu proprio quell’emozione che condusse Rosa Elisa ad interessarsi “fin da allora alla figura storica” di Margherita ed oggi a ricostruirne, in questa bella pièce, la vita, che, attraverso uno studio attento e scrupoloso, mette in luce il giusto valore del suo impegno civile e del costante appoggio al marito, Enrico VII di Lussemburgo. Ella infatti lo sostenne nell’arduo compito di regnare su un grande impero e nell’opera di pacificazione delle opposte fazioni, sempre in lotta fra loro, consigliandolo in ogni occasione con grande saggezza. Molte furono le sue virtù, in particolare quelle di Fortezza, Giustizia, Prudenza e Temperanza (cioè le quattro virtù cardinali), che, personificate da quattro fanciulle, ven-


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gono qui a renderle onore, accanto alla tomba, proprio nel momento in cui, sorretta da due angeli, s’appresta ad ascendere al Cielo. Ed infatti, quasi ad apertura di scena (la quale si svolge nella chiesa di San Francesco in Castelletto, il luogo dove, probabilmente, fu dapprima posto il monumento funebre del Pisano) troviamo, insieme ai due angeli che si dispongono ai due lati della tomba, quattro fanciulle (incarnanti appunto le quattro virtù cardinali) che vanno a porsi ai quattro angoli del sepolcro. Dapprima gli angeli invitano Margherita a destarsi per poter ascendere gloriosamente al Cielo, non senza però aver raccontato la propria vita, al fine di poter lasciare un ricordo di sé ai posteri. “Parla, perché non s’inveri la morsa dell’oblio / sopra la cronologia dei tuoi anni” la invitano in coro gli angeli, a cui fanno eco le quattro virtù: “scrolla la cenere dalla memoria”. Cedendo a tali inviti, Margherita inizia così il racconto della sua vita, ricordando come le piacesse aggirarsi “nelle grandi sale / del castello” avito ed avvicinarsi a quei bei camini, soprattutto nelle fredde giornate invernali; ed ancor più come l’attraesse il giardino, con le sue rose (“che coglieva per adornare l’altare”) e con le digitali purpuree, “selvagge ed altissime nelle selve”. Presto però il corso della sua vita mutò bruscamente; e fu a causa della contesa che si aprì per la successione (1283) al Ducato di Limburgo, che vide suo padre, il duca Giovanni I, in lotta con Enrico VI di Lussemburgo e che terminò con la battaglia di Worringen (1288). “A decidere della mia vita” ci racconta infatti Margherita “fu la dura giornata di battaglia / sui campi insanguinati di Worringen”, che vide il padre vincitore e Enrico VI, caduto sul campo, sconfitto. Giovanni volle però compiere opera di pacificazione, dando in sposa la propria figlia Margherita all’erede della Casa di Lussemburgo, un giovane “celta dallo sguardo fiero / dalla fluente chioma ondulata”. Fu così che, sposando Enrico (il futuro Enrico VII), anche Margherita fu trascinata “nel vortice turbinoso della storia” e si trovò a do-

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ver condividere il “progetto di pace e di concordia per tutti” del marito ed a collaborare con lui per la sua realizzazione. Un’ aspirazione, quella di costruire un grande impero, che porterà Enrico a seguire un’accorta politica matrimoniale per mezzo dei suoi tre figli, Giovanni, Maria e Beatrice (che si uniranno infatti con membri delle Case di Boemia, Francia e Ungheria) e che lo porterà a farsi eleggere re di Germania nel 1308 e successivamente a farsi incoronare (6 gennaio 1309) ad Aquisgrana, “sul trono che era stato di Carlo” Magno. Fu inoltre tale aspirazione che lo condurrà ad intraprendere quel viaggio in Italia che risultò fatale a Margherita. Ma procediamo con ordine e ritorniamo alla scena nella quale Margherita rievoca la sua vita di moglie, di madre e di regina, accanto a Enrico. È con voce sommessa che ella ricorda il giorno del suo matrimonio: “Quando mi sposai era Pentecoste / ed i narcisi bianchi ed oro / inondavano i prati della mia terra / … / Anch’io vestivo di bianco, ricamato d’oro”. Fu un matrimonio felice, il suo con Enrico, basato su sentimenti autentici e sinceri da parte di entrambi, sulla “reciproca collaborazione” e sul “mutuo sostegno”. Fra i ricordi di Margherita vi è anche quello del giorno dell’incoronazione di Enrico ad Aquisgrana: “Fu bella la giornata ad Aachen, fredda, / ma luminosa di luce di buon auspicio”. Ella capì subito quale doveva essere il suo compito: aiutare Enrico “ad individuare / la traccia di Dio nella storia”. E così in tutti gli anni nei quali visse accanto a lui, lo assecondò nel suo sogno di pacificazione mirante al raggiungimento della concordia in Europa: un sogno che purtroppo per varie circostanze non poté avverarsi. Con riferimento al compito svolto da Margherita a fianco di Enrico, una delle Virtù, la Fortezza, precisa: “… sapevi che non era minima la tua parte / se volevi condividere l’ideale / di pace e di concordia per tutti / che illuminava la vita del tuo sposo”. In tale “progetto” di pacificazione credettero anche molti italiani, tra i quali Dante, che pose Arrigo nel suo Paradiso, nella candida


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rosa dei Beati. Infatti nel Canto XXX Beatrice mostra a Dante un seggio vuoto su cui è posta una corona, che era destinato all’alto Arrigo. Nel racconto della sua vita Margherita ricorda anche la sua discesa in Italia, accanto al marito: “Era tarda primavera, quasi estate, / ed io immaginavo l’inverno / quando la solitudine cantava con i lupi. / Lui cavalcava con i cavalieri su pesanti cavalli…”. Cosi come ricorda il giorno dell’incoronazione a Milano, in Sant’Ambrogio, dove Enrico ricevette la corona ferrea di re d’Italia e lei quella laurea (di alloro). Ma, purtroppo, vennero anche i giorni degli scontri tra le fazioni opposte e i giorni che videro l’imperatore impegnato a combattere le città avverse, la più fiera delle quali fu Brescia, il cui assedio terminò con il saccheggio e con la morte del suo difensore, Tebaldo Brusati, fatto morire atrocemente da Enrico. A raccontare sulla scena la sua fine è lo stesso Brusati il quale però orgogliosamente rimarca come “furono i bresciani a vendicarlo”, quasi a voler riscattare lo scempio che del suo cadavere fece Enrico VII. Nel loro itinerario verso Roma Margherita ed Enrico fecero tappa a Genova, “per suggerimento del cardinal Fieschi”; e vi giunsero dopo “un’altra aspra traversata di monti”, restando incantati dalla visione della città, che si presentò alla loro vista “bellissima, / nel luccichio del suo mare … / …/ inondato di luce nella calma meridiana”, rivelandosi così in tutta la sua magnificenza. Genova fu però per Margherita l’ultima tappa del suo viaggio e della sua vita terrena, dato che in questa città si spense, uccisa dalla peste, nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1311. Anche Enrico morirà in Italia, dopo aver ricevuto la corona imperiale in San Giovanni in Laterano (24 agosto 1313). Certo Margherita fu nel suo tempo una figura di non poco rilievo per l’opera che compì accanto al marito e pertanto appare giusto ricordarla, come ha fatto Rosa Elisa Giangoia, in un testo che si contraddistingue per la serietà della ricerca storica, nonché per la resa

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d’arte con cui è stato composto. E si tratta di un testo nel quale la narrazione procede veloce e avvincente, affidata com’è al dialogo tra la protagonista e gli altri attori che di volta in volta agiscono sulla scena, e che a lei si rivolgono, offrendole il modo di raccontare quella che fu la sua vita e valorizzando così l’ impegno da lei profuso per l’espletamento della sua missione nel mondo. Liliana Porro Andriuoli

PUÒ ESSERE Può essere che all’improvviso la Terra diventi un cubo... Può essere che il fiume torni indietro e se ne vada dal mare alla sorgente... Può essere che Arlecchino si vesta di un colore soltanto... Può essere che nell’universo la linea retta diventi una circonferenza infinita... Può essere che la vita sia morte e la morte sia vita... Può essere che un giorno nasca la Verità... Ma in tutto questo Io chi sono?... Renzo Ferraresi Fontignano, PG


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Pensatore e critico della cultura e della filosofia del suo tempo

GIAMBATTISTA VICO di Ilia Pedrina

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IAMBATTISTA Vico mette a dura prova ciascuno di noi, se lo si vuole seguire nella sua opera 'La Scienza Nuova sulla comune origine delle Nazioni'. Filosofia della Storia? Filosofia politica? Genesi e costituzione del Diritto tra le Nazioni? Genesi e costituzione del linguaggio nell'evolversi dei Popoli? Quanti altri ancora i campi di indagine che egli ha messo sotto acuta osservazione ed accuratissimo studio d' insieme? Uomo del suo tempo, perfettamente consapevole delle idee che circolano nel Meridione d'Italia e nelle Nazioni dell'Europa di allora, si proietta nel futuro affinché il suo respiro possa accedere a più ampi spazi senza confine, restando ben legato a quel principio che egli stesso ha posto a fondamento delle sue investigazioni: '...Verum ipsum factum...', è vero solamente ciò che si può concretamente osservare e cogliere, nelle azioni proprie ed altrui come nei fatti. Il filosofo italiano Roberto Esposito, professore ordinario di Filosofia teoretica presso l'Istituto Italiano di Scienze Umane, mette da anni in circolazione il suo pensiero e le sue

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opere sono tradotte per davvero in tantissime lingue, un lavoro teoretico fatto di esperienze e di audaci scandagli interni alla Filosofia Italiana, si, quella Filosofia che si distingue da tutte le altre in Europa perché investigazione sul reale, portata avanti da coloro che non rispondono agli interrogativi imposti dalla Legge e dal Potere di una Nazione, ma snodano le loro vicende di vita nella storia degli eventi, d'Italia, d' Europa, del Mondo, per appropriarsi delle loro leggi, segrete o manifeste che siano. Dice il prof, Esposito: “Quali sono i caratteri specifici, se ce ne sono, della Filosofia Italiana? Spesso si è fatto riferimento a due elementi. Da un lato l'impegno civile: spesso i filosofi italiani sono stati personaggi con un impegno politico, civile, morale; e l'altro elemento è il carattere stilistico: la Filosofia Italiana si è espressa a volte anche nei modi della Letteratura, della Poesia e quindi in definitiva potremmo concludere che il tratto che più di altri caratterizza la Filosofia Italiana è il fatto che anziché occuparsi di propri problemi interni, della propria storia, la Filosofia Italiana guarda fuori di sé, guarda al mondo esterno: non è tanto una filosofia della coscienza, del soggetto, della conoscenza, ma è un pensiero immerso nella storia, nella politica, nella vita. Pensiamo ad autori come Dante, Machiavelli, Cuoco, e naturalmente appunto Vico, Croce e Gentile, vediamo che c'è questo rapporto con il mondo esterno. L'altro grande elemento di differenziazione del pensiero Italiano è che, come tutti sappiamo, l'Italia non ha avuto uno Stato, fino a cento cinquanta anni fa circa e quindi il pensiero Italiano non nasce all'interno di un determinato Stato-Nazione: l'Italia non ha avuto fino ad allora neanche una capitale e quindi è diversa dalla Filosofia Inglese, Francese, anche Tedesca, che sono state proprio delle filosofie nazionali, rivolte ad una comunità nazionale. Il pensiero Italiano è stato fatto spesso da Autori a volte che si sono posti anche in conflitto con le istituzione, con la Chiesa e con lo Stato: pensiamo al fatto che Dante e Machiavelli sono stati esiliati, Giordano Bruno è stato


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bruciato in Campo dei Fiori, Tommaso Campanella imprigionato per lunghi anni e alla fine anche autori come Gramsci, come Gentile sono, ai lati opposti di una stessa barricata, morti in fondo in difesa del proprio pensiero e perfino Croce ha contrastato il Fascismo, è stato un uomo politico importante. Possiamo appunto concludere che la Filosofia Italiana non è stata una filosofia del Potere, ma è stata una Filosofia a volte anche della resistenza al Potere, del conflitto, dello scarto e in fondo questi caratteri rimangono anche nel pensiero italiano contemporaneo: dagli Anni Sessanta fino ad oggi spesso i pensatori italiani sono pensatori del conflitto, di un elemento di contrasto rispetto al mondo dei poteri esistenti...”. Questo il tono della 'Introduzione', che apre la trattazione del prof. Roberto Esposito su ‘Vico, Croce e la Filosofia Italiana’, un interessante DVD che appartiene alla seconda serie de 'Il Caffè Filosofico - La Filosofia raccontata dai Filosofi', materiale pubblicato dal gruppo Editoriale L'Espresso nel 2013. Il testo dal quale riporterò le citazioni è: ‘Principi di una Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle Nazioni’ – Secondo l'Edizione del MDCCXXV, con annessa la 'Vita di Giambattista Vico scritta da lui medesimo', che vi è inserita in Appendice e che contiene testimonianze legate intrinsecamente alla storia viva sua e del suo tempo, con indicazioni pratiche per come leggere gli eventi particolari e generali. La Prefazione e le note sono di Pio Viazzi, che inserisce la data 'Milano, settembre 1902', la casa editrice è la Sonzogno, a Milano, con sede in via Pasquirolo, 14, per la serie 'Biblioteca Classica Economica' ed all'interno, sul frontespizio, una data e una firma: 'Francesco Pedrina, Vicenza, 24.12.'20'. Il Pedrina, nel 1944, dà alle stampe, per i tipi della Casa Editrice Trevisini di Milano, i quattro volumi della 'Storia e Antologia della Letteratura Italiana' per gli Istituti Tecnici Superiori (questa serie, quasi consunta, l'ho reperita via Internet a 5 euro al volume): al Machiavelli, nel Volume II, il Pedrina dedica 112 pagine, mentre il Vico lo impegna nel Volume III per un numero di pagine ancora superiore.

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È la Storia ad essere considerata da Vico come 'Scienza Nuova'! M'interessa a questo riguardo il frontespizio dell'edizione del 1744 de 'La Scienza Nuova', la così detta 'dipintura proposta' e pubblicata dalla Stamperia Muziana, nel quale viene raffigurata un'interessante allegoria che sintetizza il contenuto di tutta l'Opera, immagine facilmente reperibile in Internet. Utilizzo la spiegazione che ne dà il prof. Esposito: “... Vico è il primo a guardare le vicende umane da un punto di vista scientificamente storico, ad applicare un sapere scientifico alla storia dell'uomo. Naturalmente come la Storia per Vico ha un carattere scientifico, anche la Scienza, anche il Sapere ha una sua dimensione storica. L'immagine del frontespizio della 'Scienza Nuova' è molto significativa al riguardo: vi si vede un occhio da cui parte un raggio, che colpisce una fanciulla, questa fanciulla rappresenta la Metafisica, e poi a sua volta si rifrange questo raggio su una statua, la statua di Omero, che segna per Vico l'importanza decisiva della Poesia. Sullo sfondo poi c'è una grande selva che si innalza fino al cielo, che sta a simboleggiare l'origine appunto selvatica dell'uomo, che dai primordi di questa 'ingens silva', grande selva, arriva poi al mondo della storia compiuta. E quindi la 'Scienza Nuova' rapporta il mondo della Provvidenza Divina, il raggio di luce che scende, con il mondo degli uomini, fatto di contraddizione, fatto di contrasti, fatto di ritorno all'indietro, quindi nella Scienza Nuova, che è assomigliabile a un grande quadro barocco, fatto di luce e di ombra, di storia e di mitologia, di poesia e di diritto, tutto questo viene fuso in uno straordinario ed affascinante affresco...” (DVD cit. sezione VI, 'La Storia come 'Scienza Nuova'). A decorare tutta l'immagine, alla base, nella concretezza del nostro tempo, del tempo degli uomini e delle differenti storie e governi, una serie di simboli che da destra a sinistra si presentano carichi di senso: il fascio littorio, la spada, il mercantile, la bilancia e il caduceo, simbolo d'Hermes e del suo unico, insostituibile ruolo di comunicatore e di interprete, di


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messaggero e di guida. Allora dalla 'ingens silva' a questi momenti storici tutti sintetizzati dai differenti elementi si snoda il valore dell' opera, quasi oscuro per i contemporanei di Vico: infatti non due diversi ordini distinti tra la Natura e la Mente, ma una stessa prorompente forza, quella del corpo, che scopre, fonda, modifica, innova e rinnova, costruisce e sospende, ripiegandosi su se stesso, per poi audacemente ripartire da capo. Sostiene Giambattista Vico (il corsivo è nel testo): “Nuovi Principi di Poesia. Sopra queste verità convenienti all'uomo di Grozio, di Pufendorfio, di Obbes, si scoprono i Principi della Poesia, tutti opposti, non che diversi da quelli che da Platone e dal suo scolaro Aristotile infino a' dì nostri de' Patrizi, degli Scaligeri e de' Castelvetri sono stati imaginati: e si ritrova la Poesia essere stata la Lingua prima comune di tutte le antiche Nazioni, anche dell' Ebrea, con certe differenze però fondate sulla diversità della vera religione dalle gentili e di Adamo, quantunque nudo di parlari, restato però illuminato dal vero Dio...” (G. B. Vico: 'Principi di una Scienza Nuova, op. cit. pag 152). A questo punto il curatore del testo, Pio Viazzi, annota: “Anche in questo passo quantunque 'con certe differenze' la storia del popolo Ebreo è ricondotta nel giro della storia comune e lo stesso Adamo biblico appare 'nudo di parlari'. Cosa abbastanza ardita per chi proclama di fondare il suo sistema essenzialmente sulle verità della 'Cattolica religione'” (cfr. ibidem). Vico dirà nella 'Vita': “..Nell'apparecchiarsi a scrivere questa vita, il Vico si vide in obbligo di leggere Ugon Grozio de Jure Belli et Pacis. E qui vide il quarto autore da aggiungersi alli tre altri, che egli si aveva proposti: perché Platone adorna più tosto che forma la sua sapienza riposta con la volgare di Omero; Tacito sparge la sua metafisica morale e politica per li fatti, come dai tempi ad esso lui vengono innanzi sparsi e confusi senza sistema; Bacone vede tutto il saper umano e divino, che vi era, doversi supplire in ciò che non ha, ed emendare in ciò che ha; ma intorno alle leggi egli co' suoi canoni non s'innalzò troppo all'universo delle

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città ed alla scorsa di tutti i tempi né alla distesa di tutte le nazioni...” ('Vita di Giambattista Vico, op. cit. pag. 292). Allora, in questa tensione di contenuti che si accavallano tra loro, il mio pensiero va a Dante, nel momento in cui i suoi occhi guardano Beatrice e lei, lei sola può elevare il suo sguardo a Dio: il percorso è, nel Paradiso di Dante, inteso in una precisa direzione, dall' umano al divino, per tramite della Virtù, della Purezza, della Bellezza, doti tutte intensamente presenti nell'anima di Beatrice. Beatrice è la Poesia e la Metafisica al tempo stesso, mentre il Vico, carico di tutta l'esperienza storica e letteraria dal passato fino al suo presente, porta avanti una elaborazione originale di tutto questo percorso e fa in maniera tale da concepire la Provvidenza Divina proprio come luce che attraversa gli spazi ed ogni tempo ed arriva dall'eternità al tempo degli esseri umani, che si faranno via via Linguaggio, Arte, Storia, in un continuo differente avvio e riappropriazione della corporeità, matrice stessa di ogni obiettivo raggiunto. Se una civiltà dimentica questa origine, del tempo eterno in Dio e dei tempi particolari e differenti dei popoli e delle loro concrete corporeità a partire da questo, in una finitudine che ha il sapore della necessità, allora il ripiegamento su se stessa è inesorabilmente alle porte e condurrà ad una nuova barbarie. Lascio ancora la parola al prof. Esposito: “... Potrei dire addirittura che Vico è forse il primo autore che lega costitutivamente storia e crisi. La crisi non è un momento, una vertigine che poi viene superata, ma è una dimensione costituiva della storia. La storia ha sempre implicita dentro di sé la possibilità, la potenzialità di entrare in una fase critica...” (DVD cit, sez. VIII). Le sezioni successive alla IX, sono tutte dedicate alla biografia e al pensiero di Benedetto Croce, che per primo ha dato a Giambattista Vico, nell'opera a lui dedicata e pubblicata da Laterza, un'attenzione così profonda da portarlo decisamente all'attenzione dei filosofi di tutta Europa. La riflessione rimane per me interessante, aperta ed ancora da investigare. Ilia Pedrina


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Febbraio 2015

FEDERICO II E LA LUCANIA di Leonardo Selvaggi I EDERICO II nato a Iesi nel 1194, nipote del Barbarossa e di Ruggero II di Sicilia, figlio di Costanza d’Altavilla e di Enrico VI. A soli quattro anni nominato re di Sicilia è affidato alla tutela di Innocenzo III. Da bambino lo vediamo in Sicilia, denominato puer Apuliae, dai cronisti del tempo. Il futuro imperatore cresce nella Palermo normanna di grande fascino per la varietà infinita di paesaggi che hanno davvero del magico; in una terra progredita e colta che costituisce un centro di richiamo cosmopolitico: dalle vallate ubertose, movimentate dal traffico di commercianti bizantini, musulmani. L’ intelligenza, il carattere vivacissimo del re fanciullo rimangono accesi e incantati, subiscono un’influenza straordinaria. Il giovane svevo si sente illuminato e in espansione spi-

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rituale al contatto di una civiltà polimorfa e di una gente piena di vita; il clima di Sicilia scioglie le brume nordiche, in atmosfera di bellezze scintillanti che sanno di armonia e di poesia. Si trasforma il duro carattere, la stessa volontà e l’intelligenza si sensibilizzano, di vengono duttili e la fantasia concepisce sogni di eccelsa ambizione. Si incontrano per accrescersi due aspetti diversi, lo spirito germanico e l’aria ellenica presente in Sicilia. Diciamo un contatto ampio e sollecitante che mette nell’ animo del fanciullo una fermentazione che lo avvia al suo glorioso destino. Ha sùbito una vita di responsabilità, conosce intrighi di corte, la prepotenza del potere. Sempre sostenuto da Innocenzo III, il Papa che ha il più alto concetto della missione temporalistica della Chiesa, il più abile di tutti in politica. II Federico si educa nella Sicilia bizantina, araba, normanna, qui affronta prove e amarezze: le incertezze che seguono i grandi uomini di azione e di intelletto. Ottone IV di Braunschweig sembra incarnare la plenitudo potestatis sognata da Papa Innocenzo, realizzando l’identità tra potere regio e potere curiale, dopo la morte violenta di Filippo di Svevia. L’ astro nascente di Federico II è sul punto di scomparire. Nel 1211 Ottone scende in Italia meridionale impadronendosi di Bari e Barletta, della Calabria e della Lucania, si accinge ad occupare la Sicilia, ivi chiamato dai Saraceni. Il giovane Federico conta diciassette anni, non dispera, quantunque sommerso da una situazione di crisi. Ordina che sul suo sigillo venissero incisi i simboli della signoria del mondo, il sole e la luna, che si incontrano nella simbologia medievale, quali attributi della divinità. Ottone in seguito ai ripensamenti di Innocenzo III che facevano valutare l’ inopportunità di unificare all’Impero il Regno di Sicilia e di Puglia, desiste dall’attacco alla Sicilia per far ritorno in Germania dove i principi tedeschi a Norimberga ne hanno dichiarato la decadenza dal trono. Federico ha campo libero, può starsene in Sicilia ascoltando il canto dei trovadori sempre presenti alla sua


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corte, ma i fatti lo spingono ad andare in Germania per riconquistare la dignità imperiale già appartenuta a suo padre. III Federico II è vincitore, con la sua tempestività e il suo genio politico si avvicina al Papa, agevolando così il suo programma e la sua incoronazione regale avvenuta a Magonza il 9 dicembre 1212. È il trionfo del glorioso Federico che nella storia diventa un mito per le sue realizzazioni che hanno anticipato i tempi dei grandi progressi. S’impone pure con la sua prestanza fisica, la bellezza del corpo, lo sguardo vivo, la generosità e il modo solenne di incedere. Gradi fatti per la storia d’Europa: la battaglia di Bouvines (1214) che segna la vittoria sveva, l’incoronazione imperiale ad Aquisgrana (1215). L’attività di Federico II favorisce fervore culturale, urbanistico, sociale. Sono con lui poeti, uomini di scienza, politici. Dal 1212 al 1220 l’Imperatore dimora in Germania. È sempre attratto dai luoghi della sua fanciullezza, dove sente che la sua presenza è necessaria per svolgere tutta la sua politica. Con la morte di Innocenzo III nel 1216, considera l’’Impero universale non di carattere tedesco, ma mediterraneo. Federico II torna al Sud, pensando alla sua missione da svolgere, quella di Imperatore assoluto, libero dalla soggezione papale. Principio che Dante farà suo, opponendosi alla politica del proprio tempo. Si ha un Imperatore nel pieno significato della parola, si ha un processo di emancipazione, senza ingerenze religiose, promosso pure un avvio alla tolleranza verso ogni forma di culto e di civiltà, per la prima volta verificatasi in Europa, superata l’autocrazia papale. Tolleranza verso le altre religioni, specie nei riguardi dei Maomettani, gli Ebrei, i Greci ortodossi. Politica di pacifica coesistenza dei culti che rende salda l’esistenza dello Stato. IV L’amore per il Sud dell’Italia è incontestabile, non solo per la Sicilia, ma anche per la Campania, la Capitanata, l’Apulia, la Luca-

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nia, tutte province confinanti con lo Stato della Chiesa. Per Federico II le terre del Mezzodì d’Italia sono meravigliose: dice nelle sue dotte conversazioni di Corte che quei luoghi gli sono cari più dei suoi occhi. La sua attività non concede sosta, sempre ansioso di novità, di ricerca, di conoscenze: non sit quiescendum, continue sit agendum. A Palermo è un autodidatta, conversando coi mercanti ha appreso le lingue maomettana, greca ed ebraica, conosce, inoltre il latino, la lingua paterna, il provenzale. Aiuta ad ingentilire il dialetto, avviandolo a diventare volgare illustre, convinto che la lingua fa il popolo e la nazione e nel contempo si rende saldo il Regno. La “Scuola poetica”, da lui istituita, consente grandi progressi civili. Di questa fa parte lo stesso Imperatore, i figli Enzo e Manfredi, Pier della Vigna, Iacopo da Lentini e Odo delle Colonne. Con la morte di Federico II e la fine della dinastia sveva si è interrotto un grande progresso civile e culturale che tanto benessere ha arrecato a gente e territori. Questo straordinario sviluppo si sposta nella terra toscana, ove l’esperienza comunale fa da sostegno alla parlata fiorentina, cui i sommi trecentisti consentiranno la gloria della lingua. Attorno all’Imperatore, che coltiva ogni ramo dello scibile, sia nella corte sia nei castelli che costruisce dovunque si ferma, sempre si uniscono uomini di cultura. V Richiama artisti e cistercensi in Puglia e in Lucania dalla Germania e dalla Francia per le costruzioni realizzate a Castel del Monte, a Lucera, a Melfi, a Lagopesole. A Federico II si devono progetti e concezioni architettoniche per strutture colossali, fa venire costruttori abili da Caserta e dintorni. È presente Nicola Pisano, detto Nicola d’Apulia, l’autore delle statue che adornavano la porta di Capua voluta dall’Imperatore sul Volturno, tutte di marmo, anticipando l’arte del Rinascimento. A Melfi anche Leonardo Fibonacci da Pisa che si incontra con altri uomini illustri nel castello: Enrico da Colonia, Riccardo da Venosa, umanista, Gualtieri da Ocre. Viene fatto


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venire da Bologna il giurista Roffredo da Benevento allo “Studium generale”, cioè all’ Università di Napoli, che Federico II fonda nel 1224, con questi lo scienziato scozzese Michele Scoto. Un altro sommo giurista Taddeo da Sessa accanto al famoso Pier della Vigna da Capua, logoteta del Regno, sempre vicino all’Imperatore, che tra l’altro, è in legis peritus. Federico II rappresenta la legge, promulga nell’agosto del 1231 le “Constitutiones augustales”. Il diritto garantisce pace e giustizia. La fonte del diritto è nell’ Imperatore, gli esecutori sono i funzionari dello Stato. La legge non come beneficio, ma come servizio, strumento per ravvivare il senso della convivenza. Le Costituzioni melfitane sintetizzano una concezione di uno Stato molto progredito con una sua propria organizzazione. La legge, una necessità, stabilisce una proporzionalità tra la pena e il misfatto commesso. Novello Giustiniano, l’Imperatore introduce un’innovazione giuridica e un proprio potere a somiglianza di Cesare e di Napoleone. Si dà una forza dinamica e tempestività di azione alla legge e alla giustizia con un documento di grande civiltà, che precorre i principi della burocrazia moderna. Il concetto di necessità come forza autonoma della legge si introduce in una filosofia di Stato in pieno medioevo, che va al di là degli intrighi, delle avventure e dei favoritismi. Si anticipano l’ Illuminismo e Vico. Lo stesso Dante, la mente più eccelsa apparsa nella storia dell’ Umanità, prende dal grande Federico II questa importante idea politica intitolando il primo capitolo del “De monarchia”, “Necessità della monarchia”.

della cancelleria e i libri di Aristotele e di Avicenna, tradotti dalla Studio di Bologna. L’ impero di Federico II lascia nella storia segnata un’epoca gloriosa, specie per la Lucania, divenuta Basilicata con i nuovi dominatori che si sono succeduti, cambiandone le sorti, portando decadenza e stato di servilismo. Una catena di castelli ricordano la grandezza di Federico II: dalla Reggia di Foggia alla rocca di Lucera, dalla fortezza di Bari ai castelli di Andria, di Fiorentino, di Gioia del Colle, ai manieri di Monserico, di Palazzo San Gervasio, Castel del Monte. Federico II muore a Castello di Fiorentino di Puglia il 13 dicembre 1250. Mancano quindici anni alla nascita di Dante, sedici alla definitiva fine degli Svevi con la morte di Manfredi nei pressi di Benevento. Leonardo Selvaggi

VI L’Imperatore ama molto la Lucania: segue i lavori del castello di Lagopesole, iniziati nel 1242 e finiti nel 1250, mentre ogni estate preferisce dimorare a Melfi. Negli spostamenti passa per diversi paesi, Ruoti, Rapolla, Barile, Rionero, Agromonte, accompagnato dal protonotario Pier della Vigna, dal figlioletto Manfredi. Con una fila di muli porta il bagaglio della persona e della casa del re, le carte

UN LIEVE VENTICELLO

IERI La stretta del tuo braccio sulla mia spalla che forse tremava calore e protezione infondeva in una fragile foglia travolta dalla furia impetuosa del vento che rapina. Ma sfumato è quel giorno. Fuoco fatuo per te forse quel gesto d’affetto per chi il freddo patisce d’una vita senz’amore fin dall’infanzia opaca che non può dirsi lieta fanciullezza. Giorgina Busca Gernetti

Un lieve venticello fa correre le carte che cantano nella sera l’ultima loro canzone. Loretta Bonucci


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“QUANTI GESÙ?” Un originale romanzo di

ALDO SISTO di Luigi De Rosa

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IÀ la domanda racchiusa nel titolo di questo libro incuriosisce. Come sarebbe, “quanti Gesù”? Ne conosciamo uno. Non pensiamo che ce ne siano anche degli altri... E invece, proprio per rispondere a questa domanda, lo scrittore torinese di origini tarantine Aldo Sisto ha scritto un “romanzo” di circa quattrocento pagine, che spicca per originalità nella massa dei libri di prosa degli ultimi anni. Ho virgolettato la parola romanzo perché si tratta di un romanzo sui generis, né tradizionale in cui si raccontino avvenimenti, né del tipo “commerciale” ricco di colpi di scena, magari di argomento poliziesco o di spionaggio, o mafioso e camorristico. Avvalendosi sia delle proprie doti letterarie che di una robusta e profonda preparazione filosofica e giuridica, Sisto ha immaginato che due amici “soliti incontrarsi con una certa frequenza”, il protagonista Aldo (...strana omonimia), pensatore logico e razionale, e il co-protagonista Michele, discutano animatamente e appassionatamente, per varie giornate, della possibilità che non vi sia un solo Gesù, ma che ve ne siano necessariamente molti. Anzi, che ve ne siano in numero imprecisabile, non potendo noi quantificare, alla luce delle conoscenze scientifiche di oggi, il numero “esatto” di mondi abitati da alieni intelligenti come e più dell'Uomo. E per 378 pagine questa ipotesi viene vivisezionata e discussa in un dialogo fitto e incalzante tra i due amici, abitanti in una grande città (Torino?) a sole due fermate di tram l'uno dall'altro, con mogli normali e famiglie normali. Eppure, nonostante il livello altissimo del discorso (altro che “che ne dici di fare due

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chiacchiere?” di Aldo a Michele) e nonostante i sostanziosi riferimenti storici e culturali a sostegno delle varie ipotesi e contro-ipotesi, il tono della esposizione rimane sempre scorrevole e scattante. L'attenzione del lettore (ovviamente, di un lettore interessato a questo genere di problemi, che poi sono quelli più importanti per l'uomo e il suo destino) viene tenuta continuamente sveglia, sulla corda. Non c'è ombra di noia, perché l'Aldo Sisto scrittore dà una mano potente all'Aldo Sisto filosofo e giurista. “Quanti Gesù pensi che esistano?”, chiede Aldo a Michele. E l'amico, passato il primo stupore, risponde: - Uno, di Gesù ce n'è stato uno solo e quel solo era proprio lui, Gesù.” “ O forse dobbiamo pensare ai probabili fratelli di Gesù, o a suoi figli avuti da rapporti sessuali con la Maddalena ?”. Ma questo ultimo accenno non regge, perché in ogni caso di tali Gesù non è rimasta alcuna traccia nella storia, al contrario di quello che conosciamo. Né si possono definire Gesù quelli delle altre religioni, Maometto, Mosè, o il Messia che gli Ebrei ancora stanno aspettando, e tanto meno Buddha, Confucio e Zoroastro. Profeti o maestri di vita, ma pur sempre semplici uomini, e non figli di Dio come noi cristiani riteniamo di Gesù... E poi la Resurrezione. Dove la mettiamo? La resurrezione di Gesù (e il suo ritorno allo stato di “eterno”) costituisce la garanzia, la base e il fondamento di tutto il Cristianesimo. “Nella storia immediatamente postuma alla morte di Gesù parecchie sono state le apparizioni, ma sempre dello stesso uomo e cioè Gesù. Infatti i discepoli, che lo conoscevano benissimo, dopo qualche esitazione dovuta al comprensibile sbigottimento che il fatto straordinario provocò in loro, lo riconobbero come il Maestro, il Signore, Gesù...” Ma diciamo subito, anche per non occupare troppo spazio in questa Rivista (nonostante il libro lo meriti) che il “salto di qualità” dell'intera questione che dà il titolo al romanzo è rinvenibile da pag. 47 in poi . “...Chi può dire


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che Dio si è materializzato e personalizzato soltanto sul nostro pianeta e non altrove ?”. Oggi l'uomo, grazie alla Scienza, può ragionare in termini di Universo, e non più soltanto di pianeta Terra. “ L'esplorazione diretta dello Spazio, affidata non più soltanto ai telescopi ma a viaggi interplanetari, è diventata una realtà da quasi mezzo secolo, mentre gli strumenti di osservazione a disposizione di astronomi e astrofisici sono sempre più potenti e sofisticati...Il mondo al quale appartiene l'uomo non è più la Terra ma l'intero Universo...” Ed è proprio Aldo a tirare le fila del discorso affermando: “Se sono ormai un cittadino non più del mondo ma dell'Universo, è giusto che la mia mente impari ormai a pensare tenendo conto di questi nuovi confini, anzi dei non confini della conoscenza umana!”. Per aggiungere, subito dopo, che se ci sono altri mondi abitati, Gesù non può non essersi materializzato anche su quei mondi, e con fattezze di volta in volta consone agli “abitanti” di quei luoghi. E che ci possano essere altri mondi abitati nell'Universo, ce lo dimostra la Scienza. “ La Scienza ci dice – prosegue Aldo – che le leggi fisiche, valide sul nostro pianeta, sono le stesse che governano tutto l'Universo, e la composizione chimica del Sole e delle altre stelle della Via Lattea è uguale a quella delle innumerevoli galassie sparse nell'universo...” Queste galassie sono miliardi di miliardi. Solo nella Via Lattea ci sono più di 300 miliardi di stelle, la maggior parte simili al Sole: E ogni stella ha intorno a sé, come il Sole, dei pianeti che le orbitano intorno. Secondo l'astrofisica Margherita Hack solo nella via Lattea ci sarebbero cento milioni di pianeti su cui potrebbero esserci forme di vita. Anche “ ammettendo che solo su alcuni di essi la vita si sia evoluta al punto di avere esseri intelligenti – conclude Aldo Sisto – il numero di questi mondi sarebbe pur sempre sterminato...”. Già dal lontano 1585 il filosofo e letterato del Rinascimento Giordano Bruno, ex monaco, aveva presentato la nuova cosmologia di Nicolò Copernico e aveva sostenuto tesi simi-

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li nella sua opera De la Causa, Principio et Uno (ma si veda anche un'altra opera, De immenso et innumerabilibus...). I tempi, però, non erano ancora maturi. E anche per l”infinità dei mondi” (oltre che per altre proposizioni definite eretiche dalla Santa Inquisizione) nel 1600 finì abbrustolito vivo in piazza per ordine del Papa Clemente VIII. Luigi De Rosa (Aldo Sisto – Quanti Gesù ? - Genesi Editrice, Torino – Presentazione di Giampiero Leo – pagg. 378, € 20).

VERSO TUTTE LE DIREZIONI In ogni momento della nostra vita, se le nostre sensazioni viaggiano verso tutte le direzioni, viaggiano verso il fondo del mare, verso la luna, verso le vette alte delle montagne, viaggiano verso l'infinito. Viaggiano per scoprire l'ignoto e questo viaggio è proprio quello che offre tutto ciò che abbiamo, avevamo e avremo. Questo viaggio però, prima di tutto, ci dà la nostra ragione di esistere. È l'obiettivo che cerchiamo di raggiungere, (che è sempre diverso per ognuno di noi), ma prezioso per tutto. Il centro dell'obiettivo che mai raggiungeremo in tutta la nostra vita e in ogni vita. Quando crederemo di aver colpito il centro, vedremo un cerchio più piccolo in fondo all'obiettivo, che sarà ancora più difficile raggiungere. In quel momento, con i sentimenti, scopriremo, per uno sforzo migliore, utensili, tecniche e metodi e qualsiasi cosa che esiste, con combinazioni sempre più complicate per la vittoria finale. Qualunque cosa è un mezzo necessario, come un bicchiere, un grattacielo, lo specchio e questo libro che tenete nelle vostre mani e voglio credere che vi servirà. Buona lettura e buon viaggio a tutti!!! Introduzione della raccolta poetica: VERSO TUTTE LE DIREZIONI Kavala, 2004 Themistoklis Katsaounis Traduzione dal Greco di Giorgia Chaidemenopoulou


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ROSSELLA CERNIGLIA PENELOPE E ALTRE POESIE di Elio Andriuoli

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I sono figure del mito che assumono un valore altamente simbolico, sicché divengono emblematiche della nostra condizione umana: è ciò che è accaduto per Penelope e Ulisse, che hanno ispirato e continuano ad ispirare numerosi poeti e narratori e che per questo risultano, nonostante il trascorrere dei secoli e dei millenni, sempre attuali. È facile comprendere pertanto come anche Rossella Cerniglia, una poetessa e narratrice a noi contemporanea, abbia voluto scrivere un libro intitolato Penelope e altre poesie (Campanotto Editore, Udine, € 10,00), che proficuamente si aggiunge ai molti altri da lei pubblicati. Il libro assume la forma del poemetto, diviso in un Prologo, cui fanno seguito dieci testi (o canti) e un Epilogo. Nel Prologo si configura il tema trattato, che è quello dell’attesa: l’attesa che Ulisse ritorni. Ad aspettarlo è Penelope, rimasta nella reggia di Itaca, assediata dai Proci, pretendenti della sua mano. La Cerniglia subito ce la presenta con pochi tratti, ma molto efficaci: “Conta i suoi giorni Penelope generosa: / molti sono trascorsi nell’attesa / … / Il tempo non perdona; quand’anche / passi silenzioso, furtivamente ti entra / nella casa, tra le tue cose cerca, / financo in fondo all’anima rimesta / e non visto ti ruba qualche tesoro” (L’ attesa). Nei testi successivi sempre meglio si delinea quello che è il dramma di questa donna che vuole restare fedele al suo sposo e di anno in anno sempre più vede affievolirsi la speranza che egli faccia ritorno dalla guerra e poi dal lungo viaggio verso Itaca. In tal modo Penelope è colta nei vari momenti della sua giornata, che sono poi i momenti di una riflessione filosofico- esi-

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stenziale molto sottile, fermata in versi di sicura resa, come questi che qui riportiamo: “Lentamente scivola intorno a me / un velo così che la realtà che vedo perde / i suoi angusti tratti di realtà. Già l’aria / si prepara a imbrunire…” (Visita al mare: il molo), dove il rapporto tra l’io e il mondo esterno si fa quanto mai problematico. Si veda anche: “E io ancora duro in questo spazio, / ancora, nella sruggente debolezza / la forza trovo per donare ai miei giorni / qualche residuo avanzo di saggezza” (La casa), dove il conflitto per Penelope è tra la volontà di resistere e la propria fragilità di donna. Nei testi successivi sempre più si va delineando il tema della solitudine, unito a quello dell’assenza. Si vedano a tale proposito poesie quali Nell’orto: “Sul sedile di pietra scaldato dal sole / ascolto parole lontane / … / … così che mi pare / che anche il tramonto sia assente, stasera” e Dentro il cuore: “Tutto, tutto il grigio in cui / l’anima passa navigando, tutto / traduce questa immane assenza”. La morsa della solitudine compare anche nell’incipit di La metà (“Amici non ho, mi fuggono / i parenti”); una poesia nella cui chiusa però si affaccia anche il tema dell’ orizzonte da scrutare, che può essere inteso come un orizzonte metafisico, oltre che fisico, al di là del quale s’intravede il mistero. C’è poi in queste poesie (o canti) il tema del rapporto tra le speranze e gli accadimenti concreti della vita; tra aspettative e realizzazioni: “Bambina pigra, attesi sulla via / lo spettacolo che allora era la vita” (Un tempo) e c’è il sentimento della sconfitta: “… dove soffia la vita / che allora animò le vecchie mura?” (Le rovine). Si veda anche Il sogno: “Ma Ulisse è il sogno naufragato / in una vita che non ha che il sogno”, dove però si affacciano pure delle efficaci immagini, come: “Notturno e uguale giace / e respira il mare” o “Ulisse che tende / e ammaina vele, corre veloce / per i verdi flutti”. Il sentimento della solitudine e dell’ abbandono, unito a quello della sconfitta, compare anche in poesie quali Pioggia: “Guardo la pioggia scendere furiosa / sui pini / … / Sem-


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bra / ogni cosa condurre a questa / morte obliqua …” e Errare in me che resto: “Questo io sono: lo spazio / in me: in me si disegna il paesaggio / … / l’ora ossessiva che mi gocciola dentro / l’ieri che è diventato oggi / e che rigiro nelle mani convulse”. Ed è questa una sconfitta che coinvolge anche Ulisse, il quale nell’Epilogo dice: “Vado dove la strada mi conduce, / Non io, ma la strada è che mi porta”; e ancora: “… quel che incontrai / ed incontro, ombra è del Mistero”; “ … ostile è il giorno, / così piena d’ostacoli la sorte”; “Sarà solo / la morte, la fine dell’attesa e del cammino”. Una visione pessimistica della vita e del mondo è dunque quella che scaturisce da questi testi, riscattata però dalla incisività del verso, che procede sicuro e senza intoppi e dalla “volontà di conoscere e di desiderare” nonché dal “richiamo quasi ossessivo alla natura”, come osserva Pietro Civitareale nella sua introduzione al libro. Le poesie della seconda parte della raccolta riprendono temi e movenze della prima, con tuttavia un più netto alternarsi di luci e di ombre, evidente nelle citazioni seguenti: “La mia strada è sola / con me che passo” (La strada); “Come un vasto premio / ad allietarmi viene il giorno / autunnale” (Il bosco); “Come un nero drappo / sul mio sonno / è caduta la notte” (Il drappo); “Nel silenzio ora il verde / il fresco verde che il mio sguardo / accoglie” (Il fiume); “Ha un viso cupo / il paese della mia inutilità” (Paesaggio); “Dammi, mio Dio, la forza / di attingere a questo mondo / d’uomini, miei fratelli” (Preghiera); ecc. I versi che chiudono il libro presuppongono comunque un’attesa e quindi contengono una speranza: “Quando camminerai insieme agli uomini, compagno / o compagna dell’ ebbrezza, quando la dirompente / tua fermezza frantumerà i cuori di carne / trasformando in pura gioia la bellezza?” (Canto dell’amore insperato). Una speranza che in fondo era insita anche nell’attesa di Penelope e nel viaggio di Ulisse e che costantemente li sorreggeva nel loro operare. Elio Andriuoli

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DENTRO UN DESERTO L’orgoglio libera fiammate intessendo di spine i pensieri irretiti, si rimane spogliati in frammenti. Il verme più minuscolo sale e scende folle di piacere sull’arena cocente. L’istinto ha intrecci invisibili, striscia come serpe entro nascondimenti. La donna fugge alterata da mano subdola stretta nei facili scontri. Tenebre infittite, si esce dissennati dal recinto mani non congiunte non si afferrano, svaniti i momenti di gaudio. Le vene intasate di grumi quando spezzata si è la sincronia dei legami. Il divorzio è secchezza dai panni lacerati, si corre dentro un deserto: il sole ardente sopra la giallastra distesa non fa nascere un fiore. I vuoti della solitudine, le pareti non si ergono vicino. L’uomo automa non ha il vestito di colore unico, quasi di metallo senza piega. Non porta un’andatura diritta né il passo misurato con i pensieri. Leonardo Selvaggi Torino

HOLIDAY SEASON 2014-2015 We wish for peace But there is always a war... Families get together Sharing holiday’s food And acting in harmony. We enjoy this family peace. Then life goes back to normal. We keep the memories of our HOLIDAYS With love and joy. Luis Carlos Pereira Toledo, OH, USA


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ANNA VINCITORIO: “Il dopo Estoril” LA NAVE VICHINGA E L'ANABASI Appunti corsari di lettura di Rossano Onano

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NNA Vincitorio, napoletana stanziale a Firenze, studi classici e laurea in Giurisprudenza, attiva in poesia narrativa e critica letteraria, licenzia la sua ultima pubblicazione in versi: Il dopo Estoril, Blu di Prussia, 2014. Estoril è una nota villeggiatura balneare portoghese, nota agli sportivi perché attrezzata di un circuito motoristico. Il viaggio dirotta la nostra Anna alla mitica Belem (Betlemme) lusitana, torre di difesa eretta da re Giovanni II alla foce del Tago, XVI secolo, attualmente simbolo e memoria delle caravelle partite all'esplorazione del mondo. L'escursione di Anna vira e si conclude nello spazio dell'attualità affettiva: una casa di riposo affollata da un'umanità stuporosa e dolente.

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Eugenio Rebecchi (introduzione) e Gaetano Chiappini (postfazione) illustrano il testo concordando sulla natura del viaggio, che non è di natura spaziale, ma introspettiva: dalle gloriose esplorazioni oceaniche al sentimento del viaggio estremo verso l'Ignoto metafisico. La dedica iniziale pone: a Costanza e Martina. Non è dato sapere di chi si tratti, e non è giusto indagare. Sono comunque figure infantili di languore pascoliano: il fanciullino biondo esangue cui la madre pettina i capelli, piano, perché non senta male. La poesia è, sempre, un processo di identificazione proiettiva: Costanza e Martina sono colei che scrive. Colei che narra il proprio viaggio nel mondo, del tutto simile al viaggio di qualsiasi essere umano. Viaggio che prevede un punto di partenza, e riconosce l'identico punto di approdo: il ventre della madre (p.14): Dormi fanciullo nell'anfora fiorita come il ventre di tua madre Il pianto insegue le stelle e vara spazi verdi nell'azzurrità di cieli mai conquistati Tu sorridi, forse nel tuo sonno di tempi lunghi come silenzi. Chi legge, è disposto al confronto con un testo di sentimento quasi impudico. E invece (Exodus, p. 25) due bambini affrontano l'oceano schiumante, leggeri e impavidi nei lisci capelli d'oro, per il viaggio che li separerà da loro stessi e dal mondo. Si ragiona, sempre, a partire da associazioni mentali inconsce, tanto soggettive e gratuite quanto infallibili nella sostanza affettiva. Nella mia, vedo la nave vichinga di Erik il Rosso, o altri per lui. Saluto all'eroe defunto collocato sulla nave guerresca affidata alla corrente dell'oceano. Così i bambini di Anna: l'introiezione dolorosa diventa saluto militare, epica. Il dondolare turchese dell'acqua conduce la nave vichinga verso il Pianeta ignoto / di lontani dèi mai paghi (p. 27). Per Erik il Rosso,


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per Costanza e Martina e per tutti noi, il sentimento onnivoro degli dèì è sempre stato un problema. La nave vichinga continua il viaggio (a Lisbona, alle sabbie ignote, ai pallidi ghiacciai, a Cana) diventando via via bastimento, treno, bicicletta (p. 29; p. 35). Il viaggio è viaggio, qualunque sia il mezzo di trasporto. Anna utilizza, non so quanto consapevolmente, tutto il simbolismo erotico cui è avvezza la psicoanalisi: la nave solca il grande mare dell'amnios, il treno imbocca diritto (e veloce, altra simbologia) il fascinoso tunnel oscuro della galleria; la bicicletta no, Freud non ne era al corrente. Mi soccorre la barzelletta che ci faceva sganasciare, da ragazzini. Signorina: “Grazie, signore, per avermi dato un passaggio sulla canna della sua bicicletta”. Signore: “Guardi, signorina, che la mia è una bicicletta da donna”. Mi accorgo, da questa associazione mnesica, di avere temperamento che pone difesa al pathos di qualsiasi viaggio. Non è così per la nave, o il treno, o la bicicletta di Anna Vincitorio. Il suo viaggio parte da Estoril, e ha come meta il ritorno. Non è un viaggio di esplorazione, ma di ri- conoscenza. Oi nòstoi, il ritorno. Il viaggio di Anna come l'anabasi di Senofonte. Del resto, non esiste viaggio di conoscenza che non diventi ricordo, e introspezione: in interiore corde. Fonte lucente (p. 47) accarezza le proiezioni intime: un portico, un muretto nascosto, due amanti abbracciati nell'ombra baracca, fra i cipressi. Mito di Ciparisso: il fanciullo mutato in albero sempreverde, per piangere in eterno l'amato cerbiatto trafitto per errore. Piange eternamente la morte, e piangendo eternamente appunto vive. Le uniche cose eterne presenti nel cuore dell' uomo sono l'amore e la morte. Anna bacia un giovane all'ombra dei cipressi, non sappiamo chi sia e forse neppure lei ricorda. Eppure la riconosciamo, addossata al muretto nascosto, sospirante all'ombra dei cipressi. Fino a quando (Inerzia, p. 50), l'ala della morte compare sul balcone fiorito: il colombo forse colpito da un ictus, càpita anche a loro. La donna della poesia non vuole toccare con

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mano, perché la morte è sacra: con il piede spinge l'uccello giù dalla ringhiera, sulla strada deserta. Ho assistito alla morte di un piccione, a Trieste, sul tetto del bagno asburgico, quello dove un cordone sull'acqua distingue i settori maschile e femminile. Mai avevo assistito ad una scena così brutale, così fortemente significante il male che occupa il mondo. Il piccione agitava convulso le ali, uno spasimo di morte imminente. Piomba un gabbiano, quello delle poesie che si libra sulle onde e tutti i poeti dicono: oh, invece il gabbiano assalta a becco arcuato il gabbiano già moribondo, lo finisce strappando a morsi la carne. Come gli dèi, la natura è onnivora. Anna Vincitorio lo sa. Come sa che soltanto la passione del ricordo resiste alla morte. Per Luca 21 settembre 2013 (p. 59): l'adolescente Luca che legge Neruda nell'ombra delle coperte, nell'ultimo autunno rosso per l'uva dei mosti. San Martino, la nebbia a gl' irti colli. Neruda e Carducci. Mancano gli orologi liquidi di Dalì: non possono esserci, perché la passione fissa il tempo per tutta la durata del viaggio terrestre. Il tempo non si dissolve. Perché infatti riporta alla memoria,vetta elegiaca del racconto, la figura della mamma. (San Vincenzo – Ricordo di mia madre, p. 70). Il viaggio approda al ventre della madre, là dove il viaggio è cominciato. Ti ho cercato tra i ciottoli lambiti di azzurro come il tuo vestito di antica fata … Più Madonna azzurrata che fata, per la verità. Come la Madonna di Antonello da Messina. La mamma di Anna è ossimorica, altera e quieta. E' memoria e nello stesso tempo è presenza. Ecco perché, nell'aria salmastra, nei ciottoli marini della memoria, l'orologio liquido di Dalì non ha luogo. La nave vichinga approda al grembo materno ed osserva, in attesa dello sbarco. La parte conclusiva della raccolta è la strepitosa osservazione di un campionario umano prossimo al disfacimento. La maestrina di villa Iole (p.


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80), soave nei capelli bianchi freschi di parrucchiere, senza sorriso ma leggera nel suo “essere in vita per ricordare”, a sua volta vicina al ventre materno che accoglierà la fine del suo viaggio. C. B. (p. 82), il vecchio novantenne ed oltre ospite nella stessa Casa di Riposo, prossimo a concludere il viaggio (nel sonno?) verso la pace. Alma (p.97), nel lettino bianco della cameretta bianca, che approda alla fine del viaggio smemorata nel braccio abbandonato alla flebo. La vita è soprattutto ricordo: si vive per ricordare (Garcia Marquez), la morte è abbandono all'utero materno, morte del ricordare. Alcuni (Alzheimer) muoiono ancora in vita, perché muore il loro ricordo della vita. Ad eccezione di Alma, non è il caso dei vecchietti di villa Iole: muoiono consapevoli di morire, nave vichinga trafitta dalle frecce incendiarie di una passione ancora memore della vita. Mi chiedo da cosa derivi la forza patica di Anna Vincitorio, nella straordinaria rappresentazione di questa umanità agonizzante. Mi sembra di capire: Anna non cede alla tentazione dell'identificazione empatica. Non dice: riconosco nella fine di questa umanità quella che sarà la mia fine. Anna rimane sulla riva del mare, Anna è l'arciere vichingo che scaglia la freccia incendiaria sulla nave affidata all'oceano. Anna saluta gli eroi dell'esistenza, li onora con il fuoco della sua riconoscenza. Passa la nave mia con vele nere. E' una mia proiezione; peggio, una reminiscenza letteraria. La nave vichinga di Anna torna al seno materno, là dove il viaggio è cominciato. … Hai saputo lottare, affrontare l'ignoto di un difficile vivere sorretta da una brama di azzurri di purezze incontrastate … p. 99. Ho visto vecchi morire, assistiti dall'Alzheimer gentile. Pronunciano il nome della mamma. Passa la nave mia con vele nere. La nave

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vichinga di Anna spiega le vele azzurre. Rossano Onano ANNA VINCITORIO: Il dopo Estoril, Blu di Prussia, 2014, Introduzione di Eugenio Rebecchi, postfazione di Gaetano Chiappini.

VIALE TRASTEVERE Sulla 180 “La sofferenza è una perdita bruciante”, ripensavo, come da un rapporto dalla fine del tempo. E a te poesia, che così bene lo comprendi dentro a una morte solo rimandata. Non dànno sconto le parole che non giungono ma tu le rimescoli nella condizione abitata, dài loro ascolto nel primo mattone strappato alla diga. Ed allora scuoti Tu Padre questo paese prima che sia lapidazione ed ira; rompi, divelgi Tu adesso, argine giusto giacché anche i morti qui hanno perso le ossa ed altre misericordie sotto le macerie le Tue donne non hanno in questo tempo che sempre sconsacra. Gian Piero Stefanoni da Da questo mare (Gazebo, 2014) PASSA TUTTO Passa tutto nella vita! Passa tutto come una girandola. Passano i giorni i mesi gli anni fino alla fine della nostra vita e come in una ragnatela si rimane nella trappola. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi


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Le ricognizioni di un’anima sulla vera dimensione spirituale dell’uomo

PALCOSCENICO DI

TITO CAUCHI di Andrea Bonanno

L

A recente silloge poetica dal titolo Palcoscenico, edita dall’Editrice Totem di Lavinio Lido (Roma), con prefazione di Gianfranco Cotronei e introduzione dell’Autore, Tito Cauchi, nativo di Gela e residente a Lavinio, con all’attivo la pubblicazione di molti volumi, monografie e recensioni, raccoglie delle poesie riguardanti il primo decennio degli anni Duemila, il cui titolo “Palcoscenico” viene spiegato dal fatto che “siamo tutti come tante comparse che si muovono su un palcoscenico”. Secondo il dire dell’Autore, però, talvolta l’ attore riesce ad identificarsi totalmente con la finzione e il ruolo del personaggio interpretato, annullando il suo profondo Sé, mentre più spesso la maschera assunta “non riesce a celare del tutto l’anima di chi vi sta sotto, tal altra c’è chi non ha di che coprirsi”. Il Cauchi, più aderente al teatro pirandelliano che a quello classico, apparenta la poesia ad un atto di una ricognizione introspettiva, che alzando il sipario, porta a stringente commisurazione le sue connotazioni soggettive, sia passate che

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attuali, con i tanti problemi e negatività che offendono e ledono gli altri esseri umani e la nostra medesima identità di esseri umani, oltremodo civilizzati. Espressiva in tal senso, è la poesia dal titolo Sipario, in cui la finzione di sé non può celare l’intera pietrificazione dell’anima: “Mi fingo un dolore/ per celare quello intero,/ applaudono, ma nessuno sa/ che è tutto vero”. Inizia così per l’Autore un viaggio nelle profondità del suo io, caratterizzato da una atonia apatica solcata da lacerazioni ed ambivalenze, che pur non gli impediscono di instaurare una forte solidarietà con i problemi di tutto il reale, sentito come una partecipata totalità vitale. Se pur statico l’io dell’Autore, non è però assente o teatro vuoto come l’io zanzottiano di “Dietro il paesaggio” o approdante al nichilismo apatico dello Sbarbaro. La ipersensibilità sofferente dell’io, pur negante l’ assolutezza di essere depositario del vero, non perviene ad una disgregazione formale, così tipica di tanta poesia frammentaria contemporanea, in forza di un ethos invacillabile e solido, spesso intessuto di annotazioni elegiache e di una sincera affabulazione nutrita di caldi affetti familiari e dal sentimento casto dell’ amore. L’io del poeta vive la condizione esistenziale di chi (quasi tutti ormai) disarmonico sta in ascolto di sé: “Prigioniero del mio pensiero/ ascolto la voce nel silenzio/ della mia anima rafferma” (Vera mia moglie, p. 11) o di ritenersi incapace di agire, rimanendo in attesa di liberarsi da una “forma di torpore” (Mimesis musa marina, p. 33), perché si confessa “fatto di mille opposti”(p. 11), rimanendo “muto nell’ascolto/ zitto nella mia sofferenza” (p.11). L’identità perduta così si configura come un desiderio nostalgico che freme nel canto poetico: “ …ma solo un’isola/ di cielo mi conduce alla mia


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voglia” (p. 33). L’esigenza pressante dell’individuazione dell’io, sondando e commisurando il passato con il presente, incontra però il duro ostacolo contrappuntivo dato dalle concretizzazioni della non-vita, dalle esistenze mancate o preposte all’odio e allo spargimento del sangue innocente, tramite le insensate guerre o i velenosi inquinamenti e le varie contaminazioni di sostanze radioattive: “Fratelli contro fratelli, lutti/ nelle famiglie. Non basta./ Il cielo s’oscura e la pioggia/ non lava; il vento spazza/ portando veleni./ Piange la terra.” (Fratelli del mondo, p. 23). Il richiamo al considerarsi tutti fratelli vive nella seducente lirica dal titolo “Storia spuntata” di pagina 44, “per scrivere una storia di pace” e per le tante altre storie che sono difficili e dolorose da scrivere. La massificazione dell’esistenza, la spersonalizzazione a causa dell’ipocrisia umana, dopo il fanciullesco rapporto panico con il mare della sua amata Gela, si ritrovano in tante liriche come sintomatiche emergenze di un dolore senza fine associato al malessere di una disumana solitudine. (Cfr. Amiamoci a mani giunte, p. 15; Sordi bombardiamo, p. 16; La mia chiesa, p. 20; Zombi senza età, p. 36; ecc.). Nei momenti di un maggiore ripiegamento interiore, le sue liriche semplici e meditative, in cui ricorre spesso una rima ipermetra, che cede però ad assonanze e a rime imperfette, ripassano al rallentatore della coscienza, momenti e problemi della perdita dell’innocenza e del suo passato, del mito negativo della caotica e frenetica città moderna, dell’amore verso la donna amata, dell’esigenza della pace e della fratellanza umana, dell’insensatezza di ogni guerra, dell’amore verso la natura e delle persone sofferenti di ogni luogo della Terra. Risaltano le liriche inneggianti all’essenza e alle eccelse potenzialità espressive della Poesia e quelle comunicanti il sincero amore verso la moglie da parte di un valido poeta, che si riconosce oggi come “l’uomo intenerito di quel bambino che amo” (Tornare bambino, p. 38), che torna a commuoversi e a sentire l’ anima delle piccole cose, come le foglie nella

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delicata e suggestiva lirica Fruscio d’alberi di pag. 18, oltre che esaltare l’amore verso i più sfortunati e i più sofferenti che soffrono in uno estremo abbandono, ritrovando l’ innocenza e il candore dell’anima e gli accenti più significativi ed autentici di un vero poeta, perfino nell’ora crudele della fine di tutto: “Vorrei un po’ di sole/ un po’ d’amore/ un po’ di te/ prima di morire” (Prima di morire, p. 50). Per concludere, in tutta la silloge, il Cauchi rivela, in un tono dimesso ma suggestivo e sensibile e in uno stile semplice e fluido, la composta e suadente dicibilità di una poesia che esprime sia le esacerbanti negatività della vita che gli aneliti e le ebbrezze più elevati e vitalizzanti dell’anima, con la trasparenza e la grazia di un sentimento sincero e di un coinvolgente afflato poetico. Andrea Bonanno Foto di pag. 30: Tito Cauchi e Domenico Defelice, a Pomezia, nel salotto di quest’ultimo, nel gennaio 2014.

ZOMBI SENZA ETÀ Braccia mani gambe piedi stampelle qua petti dilaniati là lasciati indietro con lo spirito segnato con lo sguardo vitreo con i visi asciutti senza significato s’alzano schiere di zombi senza età ammutoliti e attoniti oggetto di spettacolo d’una guerra sofferta non combattuta di qua non voluta di là ma da tutti raccontata. Tito Cauchi da Palcoscenico - Editrice Totem, 2014


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LA RECENTE PRODUZIONE POETICA DI

CIRO ROSSI di Antonio Crecchia

I

L poeta Ciro Rossi, di Recale (Caserta), ha pubblicato con Bastogi Editrice Italiana, due raccolte poetiche: la prima, “Le mani in grembo”, nel 2006, prefata da Brandisio Andolfi; la seconda, “Forme d’ apparenza”, nel 2009, prefata da Anna Gertrude Pessina. Ancorato a una sana concezione della vita e della storia, fondata sugli elementari valori umani della semplicità, trasparenza, equità, giustizia e libertà, Ciro Rossi si presenta come un autore fedele alla tradizione umanistica che vuole lo studioso, lo scrittore, il poeta impegnati in un’opera di educazione perenne ai principi che maggiormente incidono sui buoni e solidali rapporti interpersonali. Tradizione, oggi, messa in crisi da modelli di vita senza regole, senza freni, costruiti in omaggio a una libertà che non conosce limiti, che si avvale di ogni forma di trasgressione, anche linguistica, per “apparire” moderna, innovativa, in netto contrasto con ogni forma di “cultura” quale retaggio del passato. Il “singolo”, l’individuo, rifluito dentro la scorza dell’ egoismo, si costruisce un suo “credo” - morale, civico, politico, culturale – finalizzato all’ affermazione di sé per se stesso. La legge evoluzionistica lo vuole in lotta con tutto e tutti per la conquista della sua nicchia vitale, della poltrona migliore nella sala di comando. Il genere e la specie sono concetti astratti. La concretezza è tutta nell’unicità dell’essere. La stessa classe politica addestra tori da combattimento nelle piazze e nei luoghi non più istituzionali ma di contese, e giovenche per la corsa ad ostacoli e al salto lungo sopra le folle. Il poeta vissuto dentro la scatola dei sacri valori, subisce lo shock degli atteggiamenti anticonformisti, rivoluzionari, dei fondamentalisti della religione degli affari propri e del-

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lo sfacciato menefreghismo di fronte ai drammi umani che riempiono le cronache di tutti i giorni. Le sette poesie inviatemi in lettura, si connotano per il senso di distacco dalle cose che fanno la storia di questo mondo, che cerca, trova e osanna il male, che si crogiola nelle “tragedie che si consumano lungo / la gamba malata priva di medico”; dove è chiaro il riferimento a questa Italia, ormai “nave senza nocchiere in gran tempesta”, terra in cui “il ladro colpisce e va via”, dove il calvario di tanta onesta gente “si snoda lungo il tempo / e la strada è senza fine”. Versi calibrati, che dirigono la luce del buon senso a illuminare gli spazi oscuri che sono all’origine di una depressione psicologica, economica e finanziaria che investe da anni la gente italica, rassegnata al peggio, dal momento che ha perso la fiducia nella democrazia e … nei santi. Al poeta, consapevole della sua come dell’ altrui impotenza a porre un freno all’avidità predatoria dei centurioni che fanno ressa alla corte delle democratiche istituzioni, non resta che chiudersi nella sua amara solitudine, scrivere versi con la svogliatezza del fanciullo orfano dell’attenzione di coloro che gli stanno intorno, tesi a progettare e accrescere il proprio tornaconto. Appartato, chiuso nell’ angoscia della propria marginalità, nell’ inedia opprimente del tempo che scorre, vive nella sofferenza di vedere accrescere ogni giorno che passa la folla degli “insoddisfatti e affamati” di giustizia, dei disoccupati e dei precari. Quanta disparità tra “uomini di comando con portafogli a mantice” e chi “ha fame, / fame di giustizia e di lavoro spento da tempo”! Quanta delusione, amarezza e tormenti di fronte alla povertà diffusa fra “tanti disgraziati illusi / da politici ingordi, privi di umanità”! Eppure, nonostante le ombre grigie che oscurano l’orizzonte del futuro, il buon senso ci consiglia ancora a sperare in un cambio di rotta ad opera dei timonieri che sono alla guida del popolo, in una loro riflessione sui gua-


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sti che hanno provocato con la politica dell’ odio, dell’insensatezza e della discordia: “Non si spezza la catena della speranza, / anche se le intransigenze di amare potenze / impongono deraglianti imposizioni / per affamare il popolo e spingerlo / alla schiavitù morale e materiale”. La quarta poesia – Senza volontà – il poeta si manifesta nella sua fragilità di essere “annientato dal nulla e dalla noia”. Solitudine e immobilità, pensieri vuoti, inerzia, assenza di reazioni alla “chiamata” della vita che ferve e si svolge frenetica e vorticante fuori dalle mura domestiche. Passività. Nichilismo. Automatismi di gesti e azioni del prigioniero che ha rinunciato a ogni pensiero di fuga, a ogni possibile contatto con il mondo esterno: la strada, la piazza, il bar, il giardino pubblico… Eppure, l’estro poetico non manca; forse manca la motivazione a porsi come protagonista sul palcoscenico della vita dove ognuno recita la sua parte, con varietà di toni e di accenti, pur nella consapevolezza che il pubblico può essere assente o distratto. Ciro Rossi preferisce rimanere dietro le quinte, con il naturale timore di non essere all’altezza del ruolo assegnatogli dal destino. Quando si affaccia dal palcoscenico lo fa con estrema timidezza. La sua parte si configura come quella di una comparsa, che non aspira all’applauso del pubblico, ma unicamente a mostrare la bontà della farina del suo sacco. Ed è nobile farina, la sua, ricavata da semi linguistici pregiati, selezionati, passati attraverso il filtro di sentimenti umani, nutriti di morale, culturale ed estetica propria, di delicata sensibilità, resi espressivi dalla fertilità di una condizione umana che di continuo si specchia nella purezza della sua interiorità. Le poesie attuali, da me esaminate, hanno un fertile retroterra nella raccolta “Forme d’ apparenza”, dove il poeta slarga la sua rete d’ indagine a temi di natura psicologica, ecologica, antropologica, sociale e (nella seconda parte) politica. Le motivazioni di fondo, che inducono il poeta a produrre versi, vanno tutte ricercate nelle reazioni estremamente differenziate suscitate da urticanti condizioni esi-

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stenziali, in cui la tragicità del momento, sia esso interiore sia legato a fenomenologie esteriori, trova nell’animo del poeta la composizione formale, rappresentativa di una realtà che appare sempre più illogica, irrazionale, priva di quei valori vitali che costituiscono la ragione di ogni vera, autentica civiltà umana. La stessa poesia ha perso la bussola del sentimento e della ragione. Naviga solitaria e col vento in poppa, senza meta e senza ispirazione; al comando, timonieri/parolieri che pescano alla rinfusa parole nel vocabolario, le congiungono, le assemblano, le incollano su un foglio, danno loro la forma snella di verso (con l’andare spessissimo a capo) e si compiacciono del colore, dell’odore, del “rumore”, della trovata “originale” (per loro), della vita “autonoma” di un “dire” senza senso, in cui il significante è tanto più eloquente quanto meno “canta”. Ma allora – si chiede il poeta – la poesia è morta? No. “La poesia non morirà amai: / è nell’aria che si respira; / è nel mare immenso, nei monti, / nei tramonti, è … nei cuori / e nelle parole degli uomini”, quando questi sanno confessare, esprimere, comunicare - significativamente - le gioie, i dolori, le passioni, i travagli della vita, propria e altrui; quando sanno entrare in sintonia con la storia, la geografia, la cultura del proprio mondo e del proprio tempo. Antonio Crecchia TRONEGGIA IL MATTINO Troneggia il mattino in forma squillante di sole. Nel centro la calca spinge e gli occhi gira curiosando tra prezzi e prezzi, di vetrina in vetrina. Smunto, scheletrico, lo sguardo appesantito da bava di supplica, l’uomo di colore all’angolo, elemosinando sparge la fame. Ciro Rossi da Forme d’apparenza - Bastogi, 2009


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Comunicato STAMPA XXV Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2015, la XXIV Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, c. s., lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2015. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in

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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia- Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2015). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P. -N. Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio.


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I POETI E LA NATURA – 40 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

ANCORA SULLA NATURA VISTA DA GIACOMO LEOPARDI (Recanati 1798 – Napoli 1837)

C

hi legge, oggi, le poesie di Giacomo Leopardi ? A parte i docenti e gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado; a parte chi “vive” nelle Facoltà di Lettere dell'Università e nelle Istituzioni culturali, o comunque gli studiosi e gli appassionati di Letteratura, chi lo legge ? Eppure Leopardi ha messo il dito sulla piaga; ha detto una volta per tutte la verità nuda e cruda sul destino di tutti gli uomini, nessuno escluso. Ma forse è proprio per questo che i suoi versi (come quelli di tanti validi poeti di ogni epoca e luogo) non sono adeguatamente conosciuti dalla generalità di uomini e donne, nonostante l'affinamento dei mezzi di divulgazione di massa.

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Forse dà fastidio l'ammettere platealmente che la Natura, troppo spesso, è più una matrigna che una madre nei confronti dell'uomo. Ricordiamo, dalla celebre composizione dedicata A Silvia, morta giovanissima (tenerella), da chiuso morbo combattuta e vinta, i versi ...o natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor ? Perché di tanto inganni i figli tuoi ? …................ Anche peria fra poco la speranza mia dolce: agli anni miei anche negaro i fati la giovanezza. Ahi come, come passata sei, cara compagna dell'età mia nova, mia lacrimata speme! Questo è quel mondo ? Questi i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi onde cotanto ragionammo insieme ? Questa la sorte delle umane genti ? E non si tratta di una denuncia occasionale e passeggera. Bensì di una protesta accorata e disperata, contro l'inganno permanente perpetrato dalla Natura ai danni dell'essere umano. Una denuncia e una protesta che sostanziano e innervano tutta la produzione letteraria del grande Recanatese durante i pochissimi anni (solo trentanove!) della sua infelice vita. Qual è il senso della vita dell'uomo e di tutto ciò che esiste nello Spazio? Perché tante stelle in cielo? (A che tante facelle?). Perché questa sequela interminabile di dolori e sofferenze ? E qui gli amici non possono non riandare col pensiero a quel capolavoro poetico e artistico che è il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Dove le angosciose domande poste dal misero pastore (l'uomo) alla Luna silenziosa in cielo sono formulate dal Poeta allo scopo di dimostrare l'insensatezza della vita e del dolore umano di fronte al destino ineluttabile di annientamento, di morte, che lo attende. Perfino gli animali, in questo caso le pecore, sono meno infelici del pastore:


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…............... O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno quasi libera vai; ch'ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi, ma più perché giammai tedio non provi... …................... Se tu parlar sapessi, io chiederei: dimmi: perché giacendo a bell'agio, ozioso, s'appaga ogni animale; ma, s'io giaccio in riposo, il tedio assale ? Questo del tedio, della Noia (che colpisce e affligge soltanto l'essere umano) è un tema cruciale nella visione leopardiana. Un tema che ricomparirà anche in altri Autori nella storia della Letteratura, specialmente nel Novecento. Luigi De Rosa

TANTE LE PRIGIONIE Il fantasma che mi seguiva e non trovavo il suo corpo. Evanescente immagine sempre come lume sull’acceso fuoco dei desideri. Sei venuta nell’organza per l’erta del sentiero che in alto sui ciottoli tra gli alberi arriva fino all’arco dell’orizzonte. Sei venuta pallida sembianza appena impressa passando pronta per la porta. Sei venuta per sciogliere le varie prigionie; l’amore un manto che copre con il suo soffice peso di caldo. L’immagine viva per tanto covata nell’animo, il viso ampio come sorriso già conosciuto, pieno di parole, gli occhi profondi e fissi che vanno per la mente con sadica immissione, come già incontrati e ravvisati

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negli anni volati. Sei venuta a trovarmi nelle solite ore di mattine uguali alle altre. Lampo di luce, piena espressione di candore sulle solite cose del giorno in questo cielo grigio ed umido che non ho mai voluto, che mi sta attorno come piovra odiata sul petto e le braccia, peso al respiro, nebbia al viso. Leonardo Selvaggi Torino

SENZA AMORE Scenderemo nel gorgo muti Cesare Pavese A che vale la vita senza amore scevro d’infingimenti, autentico, profondo, inarrestabile, eterno, forse, come nei poeti che l’amore ideale professarono qual sacra religione lievemente cantandolo nei versi con dolce stile eterno? Buia è la vita senza amore, è vuota come guscio, in inverno, di cicala che con il canto l’estate allietava nell’ardente calura. L’amore spento, simile a quel canto che tace nella bruma, l’animo, un tempo chiaro e luminoso, oscura, svuota, ottunde ed intristisce come quel guscio vuoto tra le foglie ormai stridule, secche, accartocciate, morte anch’esse nel freddo, nella triste penombra dell’inverno. Resta una via soltanto, senza amore né luce: muti scendere nel gorgo. Giorgina Busca Gernetti Gallarate, VA dal volume Amores - Youcanprint, Tricase (LE) 2014, Pagg. 52, €10


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Recensioni GIUSEPPE ROSATO ABITARE UN FOGLIO (Ianieri Editore, 2014, € 10,00) Abitare un foglio significa allegoricamente per Giuseppe Rosato “abitare una casa senza confini grande come un foglio, che basterà domani bruciare o disperdere a un colpo di vento e non sia peso di sbaraccamento, né pena di spartizione, o di vendita”: significa cioè vivere in piena libertà, senza vincolo di sorta e senza paura per il domani. Ed è appunto questo il titolo che egli dà al suo più recente libro di prose brevi ma succose, da poco uscite nelle Edizioni Ianieri. Sono raccolti qui dei pensieri che l’autore coltiva nei giorni e che gli nascono dalle più diverse occasioni, come quella della ricerca di un libro, che lo fa soffermare sul destino di tanti volumi dimenticati nelle parti alte dello scaffale, dove solo occasionalmente si giunge a dar loro una rapida occhiata. O come quella di un progetto sul futuro dei figli che poi si rivelerà inconsistente. Rosato ha raccolto i suoi pensieri in diverse sezioni (dieci, per la precisione), ciascuna delle quali reca un titolo che la contraddistingue (Abitare un foglio, La scala a forbice, Finale di partita, Da qui all’eternità, Parole in esubero, Meteorologie, L’ uomo in frantumi, Come perdemmo la guerra, Arrivi e partenze, La gallina esemplare); titolo che lascia intravvedere i contenuti. Così Finale di partita tratta della morte, presenza che inevitabilmente accompagna tutta l’avventura umana e che di tanto in tanto si riaffaccia alla nostra mente, ad esempio col pensiero del mutare delle nostre fattezze, che perdono la loro freschezza con l’avanzare dell’età. In Da qui all’eternità nasce subito il pensiero che

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rendendo sempre più piacevole la vita se ne rende più amaro e doloroso il distacco; pensiero seguito da altri, come quello del “pulvis est et in pulvere reverteris” o da quello della presenza del diavolo nella vita di tutti i giorni; presenza alla quale va addebitato “ogni guasto e ogni rovina” o meglio “l’ enorme male che viene sommergendo la terra”; il che finisce con l’assolverci dalla responsabilità dei nostri peccati. La deprecazione dei vaniloqui si ha nella sezione Parole in esubero, dove ad essere colpiti sono anche gli scrittori di romanzi di scarso peso, che presto escono dalla scena senza lasciare traccia. Va poi in questa sezione notata, oltre ad una riflessione sul Brunetto Latini dantesco, una deprecazione delle “insulsaggini” delle “scurrilità” e delle “risse serali” di certi programmi televisivi nostrani. Meteorologie contiene alcune sapide osservazioni sulle previsioni meteorologiche; sull’arrivo dell’ inverno e sulle catastrofi naturali che colpiscono l’ umanità. L’uomo in frantumi è quello moderno, il quale può sentirsi in poche ore “utente contribuente acquirente credente paziente ricevente mittente ricorrente conducente”, come a Rosato è avvenuto al rientro di una “feria d’agosto”. Seguono alcune meditazioni sul rapporto tra elettori ed eletti; sull’uso che si fa della parola “anonimo” e della sottrazione delle caratteristiche proprie di certi alimenti, come il caffè decaffeinato e il latte totalmente scremato, che li rendono molto diversi dall’originale. Come perdemmo la guerra contiene due riflessioni sulla retorica patriottarda vigente nell’Italia di altri tempi, allorché un alto ufficiale dell’ aeronautica poteva scrivere su una fotografia che lo ritraeva “a torso nudo in atteggiamento di grande fierezza”: “A me stesso, con ammirazione” e si poteva, senza il timore di cadere nel ridicolo, parlare degli indefettibili destini della Patria. Arrivi e partenze ci propone un quesito che fa molto riflettere: “A che serve partire, ossia separare sé da ciò che si vuole lasciare, quando non sia possibile dividersi da se stesso, ch’è sicuramente l’ oggetto primo dal quale nella maggioranza dei casi ci si vorrebbe allontanare?”. L’ultima sezione del libro s’intitola La gallina esemplare e ci cattura con il pensiero che “perfino la vista di una gallina … col suo muoversi lento e dignitoso, … viene a ricordarci l’enormità e la irriducibilità della nostra ignoranza”. Essa infatti “probabilmente non sa nulla, però con un vantaggio decisivo nei confronti dell’uomo e della sua decretata infelicità: che essa (così almeno si crede) non sa neanche di non sapere”.


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Un libro di assorte meditazioni questo nuovo di Giuseppe Rosato: certo un libro che muove il lettore a delle profonde riflessioni sul nostro vivere e sul nostro destino. Elio Andriuoli

GIORGINA BUSCA GERNETTI AMORES Youcanprint, Tricase (LE) 2014, Pagg. 52, €10 Giorgina Busca Gernetti è docente in discipline umanistiche, a riposo, nativa di Piacenza con la vocazione della poesia fin dall’adolescenza, ha pubblicato vari testi poetici, di narrativa e di saggistica, è presente in antologie e riviste, guadagnandosi stima e apprezzamenti. Riconoscimenti merita certamente la recente raccolta Amores, preceduta da alcuni passi del Simposio di Platone, sul dio Eros, in cui il Filosofo, conclude: “Così io sostengo che Amore è il più antico fra gli dei, il più meritevole di onore e quello che è più padrone di spingere gli uomini, da vivi e da morti, all’acquisto della virtù e della felicità.” Questa raccolta si divide in tre sezioni: Eros, Meminisse iuvat, Amores; ciascuna riportante una citazione, precisamente le prime sono due di Saffo, la terza è di Mimnermo; nondimeno la successione si rivela conseguente facendone un canto unico. Potremmo paragonare Amores a un inno all’amore; ma, credo, che sia qualcosa di più: è un mettere a nudo l’anima. La voce di Giorgina vibra come le corde di un violino, esprime una dichiarazione d’ amore, un codice che rivela l’amore contro ogni difficoltà: né tempo, né distanza possono porre fine a un sentimento profondo (un ricordo, una sensazione). Le composizioni, generalmente sono brevi o di media lunghezza, con rare ripetizioni; i versi sono sempre freschi e piani. Aspettative e progetti si coniugano con attesa e ansia, ma l’incertezza raggela l’anima. Nel silenzio la solitudine pesa di più, la percezione si fa più acuta, le pene si ingigantiscono; ci si convince di dovere espiare chissà quale colpa. Rimane il rimpianto di un momento d’amore non colto che, tuttavia, dà colore all’anima. Sublime è l’ ammissione di un sentimento straziante nell’incipit della raccolta, che a sua volta mi sembra una dichiarazione di intenti, un manifesto poetico di cosa significhi fremere d’amore: “Eri di fronte a me; eri vicino/ tanto da inebriarmi/ con l’ardore improvviso del tuo sguardo./ …// Forse anche tu rimpiangi quell’istante/ non colto per la nostra esitazione.” (pag. 9). Cosa resta di un grande inesaudito amore, se non un ricordo replicato con tante immagini, suoni, odori, visioni, illusioni; è l’amore che si nu-

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tre di se stesso. Il mondo circostante, i vari elementi della natura diventano parole privilegiate degli innamorati, così vento, aria, notte; ma trovano dimora anche la furia delle Erinni, il timore, l’incertezza. La Poetessa paragona l’assenza dell’amore a una pianta spoglia o a una stagione sempre grigia, ma dice che giova non perderne memoria. Così affiora il ricordo di un luogo che era divenuto simbolo d’ amore: “Le tue parole/ cadevano dolci nell’aria,/ dolci a udirsi/ per chi le bramava/ e temeva/ che non fossero vere” (pag. 21), anche se dopo tanti anni, invece, diventa un simbolo di tristezza, poiché rivolta al suo interlocutore, dice: “Ma tu non c’eri.” È come una delicata lettera d’amore sul filo lirico della tenerezza, dove a primeggiare è l’assenza, la cattiva stagione, ed in ombra rimane solo un rammarico: “Il velame di Lete/ …// Tenue, labile ombra/ nella memoria vana/ resta il tuo etrusco volto.” (pag. 25). In Amores, la sezione eponima, l’anima della Poetessa, rimane trepidante e mantiene indelebile un segno: “Eppure sento vibrare il tuo animo,/ timidamente rispondere il mio./ E noi, così turbati, stiamo immobili/ nel silenzio che l’amore disvela.” (pag.30). Eppure è sempre presente il contrasto tra passione e disfida, è il sogno che non vuole svanire: “Purpuree vibrazioni nel profumo/ del fiore di Afrodite:/ petali rossi del sangue divino/ per un’ infausta spina.” (pag. 32). Giorgina Busca Gernetti eleva una lode ad Afrodite, ma con il suo Amores non intende dare né precetti, né consolazioni. Direi che la Nostra ha fatto una radiografia, a un corpo vivo, annotando su un registro le emozioni rilevate: sentimenti umani genuini, senza intermediari frivoli e senza artifici linguistici. Così, si dibatte, sacrifica il suo sentimento, ma sa che l’amore non può morire; l’immagine dell’amato è sempre presente, anche se tende a dissolversi. Le ferite possono cicatrizzarsi, ma non nascondersi. Eros è la forza vitale che muove gli esseri umani e, come dice Dante, muove gli astri. Le emozioni registrate sono pura poesia. Tito Cauchi

PAOLA INSOLA ELOGIO ALLA MIMOSA Il Croco/ Pomezia-Notizie, dic. 2014, Pagg. 24 La poetessa Paola Insola di Livorno Ferraris (Vercelli), con la silloge Elogio alla mimosa, è risultata vincitrice del 2° posto al Premio Città di Pomezia 2014, andando così ad accrescere il suo considerevole numero di successi. Domenico Defelice intitola le sue due pagine in-


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troduttive “Un fiore per tanti drammi”, avvertendo che non dovremo aspettarci un inno alla mimosa, come il titolo potrebbe suggerire, ma fa una panoramica sui componimenti additando le atrocità che hanno attraversato la Società umana, sempre più deprivata dai suoi valori. La mimosa è la maniera con cui la Poetessa si apre alla speranza e all’ amore, rappresentati dalle nipotine Gaia e Adele. “Un bel florilegio, insomma, meritevole che venga accresciuto e ristampato, magari per onorare un prossimo otto marzo.” La raccolta è dedicata, difatti, alle due nipotine e non poteva che principiare con ‘Mimosa’ che si conclude così: “Il giorno si colora di speranza/ e il cuore ride/ mentre s’intesse/ tra morbidi richiami/ uno smarrirmi breve/ che già si chiama Amore.” La Poetessa attinge a fatti di cronaca, come: la morte “dell’operaia bengalese/ intrappolata da ore tra le macerie/ del Rana Plaza”. Oppure la rinascita della vita dopo un tifone abbattutosi nelle Filippine nel 2013, ove “una tavola di legno lercio” diventa lettiga da parto. O anche nell’osservare la “Gente di Cracovia, città dove la storia/ ha scolpito tutto il bene/ e tutto il male del mondo.” (pag. 15), ove sembra udire le voci delle tante vittime di Aushwirtz, sentire “l’odore acre del carbone”. Ricorda Ivana Iozzia vincitrice di una Maratona che non si arrese dinanzi alle sue “cellule impazzite”. Paola Insola commenta quanta diversità di voci parlano lingue straniere. “Sono naufrago quando indago/ i recessi dell’anima/ sconvolti dal rombo grondante/ tra due istanti consecutivi.” (pag. 9). Ci riporta ai tempi passati del padre o dei nonni, quando si giocava con un pallone fatto di stracci, ricordando certo Piola alla Pro Vercelli. Si immedesima in giovani protagonisti costretti a vivere in spazi ristretti e grigi, dietro le sbarre a condividere “sofferte visioni tra cigolii di porte/ e rimbombi di voci sconosciute.” (pag. 12). Vorrebbe rompere muri di silenzio, freddi e spessi. Osserva che ovunque, emigranti, provati da delusioni, passano come ombre portandosi un fardello carico di illusioni. Ancora bambini stavolta rallegrati da una pioggia di neve in una regione arida della Galilea, che realizza una momentanea tregua della guerra, arridendo al Babbo Natale. Il tempo passa inesorabilmente, la storia scorre e si impone un urlo di marca femminista “Se non ora, quando?” Paola Insola, con Elogio alla mimosa, si è cimentata in un campo rischioso, l’impegno sociale, in una Società diventata disumana; ha trasformato la cronaca, soprattutto ai danni delle donne e dei bambini, in letteratura; sono certo che i passi riportati ne siano un esempio. Tito Cauchi

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FELICE SERINO D’UN TRASOGNATO DOVE Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano, 2014, Pagg. 128, € 12 Felice Serino (classe 1941) è campano di Pozzuoli, autodidatta, vive a Torino, vanta una “copiosa e interessante” produzione letteraria, è noto in Italia ed è tradotto all’estero. Giordano Genghini nella prefazione a D’un trasognato dove, indica il tentativo che il Poeta rivolge alla ricerca di un oltre “inesprimibile”, che conduca al Divino, uno sforzo entro cui si rifugia. La raccolta comprende componimenti brevi o di media lunghezza, dai versi sciolti dal metro variabile generalmente raccolti in strofe; si rivolge in prima persona a un interlocutore in modo confidenziale. L’assenza dell’interpunzione e delle maiuscole, tranne eccezioni, può disorientare. Sono citati (con iniziale minuscola) Kandinsky, Van Gogh, sindrome di Stendhal, San Sebastiano, i Maya. Frequente è l’uso di alcune parole come specchio (d’acqua, di cielo, di vetro), luce, arco, sogno; la voce inglese unforgettable; alcuni termini specifici informatici e scientifici, o esoterici. Il libro si articola in cinque sezioni che procedono in maniera conseguente, così da disegnare un itinerario spirituale ben preciso che giova ripercorrere, per meglio conoscere l’Autore (Di palpiti di cielo, Del trasognare, La parola che fiorisce e dintorni, Dell’impermanenza, Dediche). Il suo cuore non pomperà sangue ma palpiti di cielo, etere, anzi, luce. Egli si confonde negli spazi siderali e pur nella sua piccolezza, si sente prossimo al Creatore dell’universo. Novello Ulisse viaggia nei cieli facendosi voce di Dio, così spiega che il Figlio s’è fatto crocifiggere per fare posto all’ amore. In attesa di una seconda rinascita di Dio in terra, il Poeta vorrebbe risorgere come particella di cielo, pur fra ostacoli per emendarsi. Mi pare irriverente mettersi nei panni di Dio, o semplicemente stravagante: “in verità ti dico/ l’Albero di sangue/ virgulto di mio Figlio/ il Giusto/ si è ingemmato// ed espande nei secoli le sue radici/ in un abbraccio totale” (pag. 20). Il trasognare, è la conseguenza del bagno di luce, in una ricchezza di colori, in una contemplazione che eleva lo spirito, in cui ci si fonda con le particelle cosmiche e divine. Ma l’uomo-poeta ha anche visioni terragne, del vivere quotidiano, fra cui fanciulli giocare, ma anche relitti come bare sommerse nel mare, i migranti del Mediterraneo ne sanno qualcosa. I sogni sono “un’oasi di pace” che ci portano fuori di noi stessi, si dispiegano nel profondo dell’anima, come segno di salvezza. Felice Serino travolto dai vortici, tra acque e stelle, si sente stor-


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dire “in sogno sovente ritornano/ amari i momenti del vissuto/ che non vorresti mai fossero stati/ si affaccia nel tuo sogno sudato/ quel senso di perdizione/ incarnato nel figlio/ prodigo che fosti/ emerge dai fondali/ dell’inconscio dove naviga il sangue/ e tu non puoi disfartene” (pag. 39). Il Poeta considera la meraviglia della parola che fiorisce, che diventa poesia su fogli di carta; che ci permette costruzioni fuori dal Sé e permette di padroneggiare la materia. In una sorta di estraniazione sente di ritrovarsi nel mistero, in tanti io diversi, nuotare badando di non soccombere dinanzi al male; ma sa che la vita è anche un morire a poco a poco, così commenta: “ti coniughi ad un presente che s’infrange/ dove l’orizzonte incontra il cielo:/ e ti sorprendi a chiederti chi sei/ oggi da specchi rifranto/ e moltiplicato/ mentre il tempo a te ti sottrae” (pag. 85). L’ultima sezione comprende dediche, in una sorta di discesa in terra, un doveroso riconoscimento di impegno affettivo, religioso e civile; così alla moglie, a Elio Pecora leggendo Sandro Penna, a Karol Wojtyla, Simone Weil per la sua solitudine, a Dino Campana, David Maria Turoldo, a Madre Teresa, J. L. Borges, Padre Pio; ai ragazzi vittime del sistema: così Iqbal “portatore dei diritti dei bambini lavoratori” ucciso nel 1995, così Davide vittima stradale, Carlo Acutis stroncato dalla leucemia, Nkosi Johnson morto perché nato sieropositivo; anche ai migranti di Lampedusa; e infine “a tutti i carcerati e alla loro metà”. Felice Serino, con D’un trasognato dove, credo offra una poesia cosmica. Erige mattoni per superare i limiti umani e pure quelli spirituali. Il suo dove emerge da “profondità oniriche”, forse perché ha trovato il divino dentro se stesso, pertanto invita a spendersi per gli altri; tuttavia esprime oracoli alla maniera della mitica Pizia. Tito Cauchi

GIORGINA BUSCA GERNETTI AMORES Youcanprint, Tricase (LE) 2014 Giorgina Busca Gernetti si conferma poetessa dalle robuste radici classicistiche. La silloge Amores, eccezion fatta per un paio di liriche di nuova fattura, si costituisce di componimenti già pubblicati in altre opere (Ombre della sera, Asfodeli, Parole d’ombraluce), assemblati – per così dire - in sezioni, che nel numero di tre richiamano quello delle figure umane (reali o immaginarie che siano) avvicendatesi nella storia sentimentale della Busca Gernetti.

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L’agevole volumetto, recante in copertina AMORE che trionfa, del Caravaggio, offre al lettore colto e di buon palato prelibatezze culturalmente metabolizzate della classicità, che vanno da Saffo a Catullo, da Mimnermo a Ovidio – per fare qualche nome - , spingendosi fino alla modernità, dove Cesare Pavese s’impone di diritto per una evidente empatia con l’Autrice di Gallarate. La struttura formale della silloge evidenzia in quasi tutte le liriche una opzione per il verso libero, che nella sua eleganza e compiutezza insegue e consegue un proprio ritmo, una propria armonia, un personalissimo pentagramma. L’impianto espositivo, che nella scansione accentuativa e nel gioco delle allitterazioni ben rende la sensibilità commossa e partecipe dell’Autrice, si presenta sintatticamente sorvegliato, bilanciato nel rapporto reggenti-subordinate. Infine pregno di significanza. Aldo Cervo

PAOLA INSOLA ELOGIO ALLA MIMOSA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 La raccolta di Paola Insola, intitolata “Elogio alla Mimosa” si apre proprio con un elogio a questo fiore diventato nel tempo simbolo dell’arrivo della primavera, ma soprattutto simbolo della Donna. Il fiore, infatti, si dona l’8 marzo durante la Festa della Donna, che lungi dall’essere un evento commerciale, vuole ricordare le donne operaie tessili del Cotton di New York, che nel lontano 1908 scioperarono per protestare contro le terribili condizioni in cui erano costrette a lavorare. Dopo alcuni giorni, il proprietario per far smettere lo sciopero, bloccò le porte della fabbrica per impedire loro di uscire, ma scoppiò un incendio in cui morirono 129 donne. Con i suoi versi la poetessa riallaccia i fili della storia, quella che le donne hanno fatto e fanno tutti i giorni. La raccolta si apre speranzosa e gioiosa con “steli d’anima sottili di capolini globosi”, per poi lasciare spazio a versi molto duri, inquieti e velati di dolore, molti dei quali ispirati da fatti di cronaca. Insomma, con la scusa di elogiare questo fiore particolare, giallo come il sole, simbolo di vita, entra nelle viscere più profonde raccontando quanto è dura la realtà femminile di tutti i giorni, guardando anche al passato con le atrocità dei campi di concentramento (“…qui ancora è musica…tra miniature di volti e lo stupore dei mattoni la memoria, il sacrificio il fiume inarrestabile di sangue che ha raggiunto Aushwitz…”). Ecco allora nascere poesie per le lavoratrici tessili, per le donne che spesso la-


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vorano come autisti sui tram (“…i tram di notte sferragliano nostalgie lungo strade diffuse di luci…”), per quelle in carcere spesso con i loro figli, per le numerose figure femminili che la migrazione porta sulle nostre coste su vascelli sgangherati a rischio della loro vita. Donne, figure femminili, che sono delle piccole eroine perché difendono i loro diritti, la loro libertà: “…da sempre ci appartengono i fili del destino storie condivise, segreti non traditi. …E siamo voci, insieme ad altre voci a chiedere un posto nel mondo”. Roberta Colazingari SALVATORE D’AMBROSIO BARCOLLANDO NELL’INDICIBILE Bastogi Editrice, 2009 Questa silloge poetica di Salvatore D’Ambrosio, casertano, pubblicata dalla Bastogi Editrice Italiana (Foggia), nel 2009, reca la prefazione del noto poeta e scrittore Brandisio Andolfi, nato a Casale di Carinola e residente a Caserta, prolifero e acclarato autore di poesie, saggi storici e critici. Il titolo non lascia adito ad alcun dubbio: in due sole parole l’autore racchiude lo stato di crisi, di stordimento, disorientamento, di assenza di stabilità psicologica in cui vive l’uomo moderno stretto nella morsa di una condizione socio-politica-culturale completamente guasta e corrotta: “indicibile”, indescrivibile, mortificante per chi ha creduto nei valori delle istituzioni democratiche e ha sperimentato la slealtà, l’arroganza, il cinismo, i saccheggi a oltranza, le storture, le sperequazioni e divergenze sociali, i mali endemici causati da una classe politica che tutto ha imparato fuorché l’arte di governare con virtù e saggezza, tutta tesa a legiferare e agire” pro domo sua”, ossia per la Casta. Poesia difficile, severa, meditata di un poeta che mette avanti tutte le sue idee, le lacerate sensazioni provocate dalla visione di una civiltà inaccettabile, fatta di parvenze, falsità e ipocrisie, impigliata nelle solide reti di vecchie e nuove mafie, legalizzate o meno. L’età dell’innocenza, del “ tempo corrotto”,” dei pasti di bucce lessate/e condite con la speranza/ di un mondo diverso/migliore!”, è finito per sempre, divorato dalla famelica insaziabilità delle arpie che hanno stretto nelle mani il bastone del comando e hanno dato largo spazio (e tempo) agli affaristi corrotti e corruttori, oggi pienamente ”integrati” nei liberi pascoli della “caput immunda”. L’uomo sperimenta l’abbandono a se stesso, la solitudine, il “disperato naufragio” nel mare gelido dell’ indifferenza e dalla precarietà di un’ esistenza consuma-

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ta a guardare “ le rilucenti invalicabili porte” dei satrapi e lucumoni con privilegio e potere di farsi “servire”, incensare, osannare dai lacchè, maggiordomi e persuasori palesi e occulti assoldati per tenere desto e divulgare a tutto volume il gracchio molesto dei corvi-padroni. Alla grande massa dei delusi dall’azione dei poteri forti, resi ormai estranei e del tutto disinteressati al bene della collettività, non resta, di conseguenza, che voltare sdegnosamente le spalle alla ”politica”, la quale si identifica sempre più come “demagogia”, ossia come falsa e “corrotta democrazia”, come attività perversa finalizzata a innalzare a ruolo di dèi gli scaltri padroni della cosa pubblica e sprofondare nell’incertezza e nella miseria tutti quelli che hanno fatto del lavoro e dell’onestà sacre regole di vita. Un libro da leggere, questo di Salvatore D’ Ambrosio, anche per scoprire come la chiaroveggenza del poeta spesso si conforma come una luce intellettuale che scavalca il tempo presente e si proietta con veridicità, sagacità e perspicacia sulle ombre del futuro per diradarle e piantarvi “i semi della nuova umanità”, anche se si tratta dei semi infecondi dell’utopia, ossia della speranza, che ancora resta custodita nel fondo dell’animo umano. Chi ha seguito da vicino in questi anni le vicende scandalose e inaccettabili legate al potere politico a livello provinciale, regionale e nazionale, ha avuto abbondanza di tempo per vedere, alfine, “scoperchiato” il vaso pandoriano della politica e dei poteri forti di questa “serva Italia” di partiti imperanti e assistere, impotente e nauseato, alla fuoriuscita di tutte le nefandezze fatte proprie dalla Casta padrona e applicate secondo l’antico detto : “Cicero pro domo sua”. Nella poesia di protesta, ma di rivelazione di uno stato coscienziale che non è soltanto individuale ma collettivo, maturato dentro lo spirito nefasto del tempo storico dominato dai “grassi generali”, dai politici “lupi fatti agnelli/confusi nelle masse” per predicare uguaglianze e creare, con la loro pratica prevaricatrice, abissali disuguaglianze. In questo stato di cose “I molti soggiogati dai pochi” hanno aperto gli occhi, hanno scoperto i torbidi inganni di cui sono stati vittime per decenni e “hanno cambiato per una volta il gioco”; hanno messo da parte il loro ancestrale ossequio alle classi dominanti,”hanno invaso/le strade le piazze le intimità dei quartieri alti”; si sono decisi ad alzare la voce, a parlare, a mostrare “i cervelli che non sono negletti”, ma consapevoli del diritto a chiedere conto “ai pochi” del loro ambiguo operare, origine di sperperi, disvalori, sperequazioni, disuguaglianze sociali ed economiche. Le masse sono uscite allo scoperto, convinte di avere carne “uguale ed anche superiore” ai titolati


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a sedere ai “posti di potere”, che hanno mostrato a iosa la loro inaffidabilità, la perversa ed egoistica natura di “saccheggiatori” del pubblico erario. Ma anche le masse hanno le loro colpe, e la principale è quella di dare il potere a soggetti tarati di malversazione a danno dello stato e dell’intera società. E la società ha il diritto e il dovere di “fermare” i palesi e riprovevoli atti di rapina che si compiono ormai in ogni centro di potere, dove si fa continuo abuso del mandato elettorale/istituzionale per creare ad arte leggi e leggine istitutive di regole che determinano la caduta a pioggia del pubblico denaro nelle valigie dei marpioni adusati alle rapine alla luce del sole e sotto lo scudo di una legalità artificiosa e ingannevoli, inaccettabile dalle masse costrette a stringere la cinghia e ad assistere passive alla spettacolo degradato di una politica al limite dell’ assurdo, almeno per quanto riguarda l’inanellamento della splendida collana dei privilegi a vita che portano con orgogliosa ostentazione al collo. Un tempo, quei colli, finivano sotto la lama della ghigliottina. Oggi sono materia da affidare alla cure di estetisti, gioiellieri, stilisti, massaggiatori, in attesa di un nuovo passaggio della Nemesi storica, l’ implacabile punitrice delle azioni e atti biasimevoli, “indicibili”, cagioni di estesi mali a danno della società. Le accalorate riprovazioni di D’Ambrosio si estendono anche a tante manifestazioni disumane, oggi così frequenti in varie parti del mondo, da annoverare tra le figlie della guerra e di padri scellerati con prerogativa di “capi”, che armano e istruiscono mostri sanguinari, kamikaze e ”cecchini”: gli spietati seminatori di stragi, definibili con una sola parola: ”assassini”. D’Ambrosio, però, non dimentica di porre attenzione ai moti interiori, agli affetti che lo legano alla famiglia e ai luoghi della memoria e di lavoro. Le ultime poesie, nell’affrontare temi, impressioni e sensazioni della vita quotidiana, cambiano tono e stile. Il poeta, tutto raccolto nell’alveo del sentimento, rivela la tenerezza dei suoi pensieri, lo slancio emotivo della sua passionalità verso cose e persone amate. Antonio Crecchia

ALDO CERVO PASQUINATE AL PEPERONCINO Ed. EVA, 2014 - Pagg. 48, € 8,00 Stando a quanto afferma in una Noticula, Aldo Cervo aveva steso in lingua latina gli epigrammi contenuti in Pasquinate al peperoncino; poi, però, s’è pentito e, per “renderli di immediata fruibilità”,

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col permesso, o meno, di Dante, li ha tradotti in terzine. Peccato. Avesse pensato, almeno, di darcelo a fronte quell’originale! Il Latino, per chi ci governa ormai da tanti anni, è lingua morta. Nella realtà non è così. È che son morti loro, almeno nello spirito (e, per alcuni, anche nel corpo). Ci sono, in Italia e nel mondo, tanti territori fortunati, nei quali non si è mai affievolito. È stata la nostra dabbenaggine a toglierlo dalle scuole ed è per essa e per il nostro servilismo nello scimmiottare gli altri, per il nostro mancato orgoglio, a non permettergli di divenire la vera lingua universale, al posto del nato morto Esperanto e dell’asfittico Inglese. Ne aveva tutti i requisiti e la duttilità straordinaria in grado di coniugare presente, passato e futuro. Ma non è detto che ciò o prima o poi non accada. In Italia si svolgono ancora concorsi in questa lingua; ci sono riviste e giornali interamente scritti in Latino, come Ephemeris (http://alcuinus.net/ ephemeris/leonina.php), nato nel 2004; a Milano, per esempio, c’è l’Associazione “Sodalitas Latina”, guidata dal giornalista Giancarlo Rossi, che ha come programma di diffondere “l’amore per il Latino e il suo uso come lingua viva” e si serve, per realizzarlo, oltre che del cartaceo, delle tante diavolerie dei nostri giorni: “internexus” (Internet), “computatrum” (computer), “prosopobiblion” (facebook) eccetera; si pubblicano ancora volumi in Latino e sul Latino, ultimo dei quali, a quanto ci è dato sapere, è Tempus fugit. Il grande libro delle sentenze latine, di Pietro Migliorini (Book Time, Pagg. 386, € 20); da amici cinesi, abbiamo appreso che, in quella grande nazione, il latino si studia ancora in alcune scuole; associazioni varie che si richiamano al glorioso Latino esistono nelle Americhe e in tutta Europa... Vogliamo scommettere, allora, che, o prima o poi, questa lingua, scacciata dalla porta, finirà con il rientrare e ritornare in auge dalla finestra? L’elegante volumetto di Cervo è suddiviso in quattro brevi sezioni: Epigramma, Oltre i confini dell’infinito, Poesie irriverenti e Irriverenze in dialetto. Nella prima, soggetto è uno dei tanti politici nostrani, “oratore modello” e dell’ovvio che più ovvio non si può, come il sostenere “che il Bene è bene, e non è bene il Male”, o l’escludere “categorico!” che il Tamigi “bagnasse, oltre che Londra, anche Parigi”! L’autore di “Oltre i confini dell’infinito” - ci avverte lo stesso Cervo, che si nasconde sotto uno pseudonimo -, “è stato di recente dimesso dalla nota clinica psichiatrica di Castigliana, in provincia di Scardonecchia. Segnali di squilibrio gli compar-


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vero (...) mentre tentava di capire Del Principio, uno “sfilatino” da cinque etti di filosofia teoretica. Interrottane la lettura - prosegue Cervo -, lentamente tornò alla normalità. Qualche mese dopo gli capitò di acquistare Il nome della rosa, ma dopo poche pagine finì di nuovo in depressione”... “Poesie irriverenti” sono, a suo dire, “semplicemente scherzi”. Questa sezione comprende un sonetto a “Dafne”, dodici versi a una “Bella” (della quale egli non vuole “più riudire/il dolce verso che ad Amore inneggia”, ma vorrebbe, invece “sentire/dal (suo) ben sodo culo una scorreggia”!), un altro sonetto in cui afferma di desiderare esser pittore per poter ritrarre la bella nello spasimo del defecare, nello sforzo “della stitica mitraglia” e, infine, una breve lode “Al bidet”, che trascriviamo per intero: “Salve bidet, poi che tu solo puoi/sollazzar nostra bella alla lavanda/quando, sfilate via calze e mutanda,/opimi glutei affida ai bordi tuoi”. Chiudono il volume le “Irriverenze in dialetto”, gustose quanto mai, che si concludono con un sonetto su un “convegno/dei poeti-volatili”, giudice un “passero solitario”, che redarguisce gli altri convenuti con questa irriverente battuta: “Stronzi che siete! Er corvo nn’è spontaneo?”. Un libricino quanto mai piacevole, leggero, ironico, che denuncia ridendo vanità e bassezze, le nostre tante fragilità. Domenico Defelice

ANTONIA IZZI RUFO STRALCI DI VITA l’Autore Libri, Firenze Nonostante la marea di libri che continua ad arrivarmi con preghiera di recensione (e che naturalmente non riuscirei a recensire tutti nemmeno se stessi a leggere e a scrivere per 24 ore su 24...) ho letto con interesse e simpatia i libri che da Castelnuovo al Volturno (Isernia) mi ha spedito a Rapallo Antonia Izzi Rufo, maestra elementare in pensione, laureata in pedagogia, che ha al suo attivo varie opere in poesia e in prosa e si è affermata in molti Concorsi letterari. Anche perché, lo confesso, nei venti anni in cui ho lavorato come provveditore agli studi (a Trieste, Alessandria, Torino, Savona) e come Sovrintendente scolastico regionale (a Genova) continuando sempre a svolgere attività letteraria, ho nutrito amicizia e stima, oltre che per professori e capi d'Istituto validi scrittori, anche, e particolarmente, per vari insegnanti elementari che coltivavano con altrettanta, o superiore, passione l'attività letteraria. Non credo affatto di esagerare se dico che la Scuola Elementare è stata per anni la spina

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dorsale della Scuola italiana, e che per merito di essa e dei suoi aggiornamenti siamo stati apprezzati in Europa, quando nel settore della Scuola Media e di quella Superiore, per troppi anni, l'unica riforma seria restava quella della scuola media Unica del 1962. Restando al piano letterario, e ad Antonia Izzi Rufo, ho posato l'attenzione su un suo volumetto di una settantina di pagine, Stralci di vita (L'Autore Libri Firenze). Si tratta di 38 ricordi (stralci) espressi in forma autobiografica. Alcuni brevissimi (tre righe), altri lunghi ed elaborati. Ciascuno col proprio titolo (La mia vita, Il risparmio, Il ricordo di me bambina, Contrasti in famiglia, La felicità, L'amore, La libertà, La famiglia, La mia poesia, Viaggi, Il mio primo, grande dolore, Anni Quaranta, Le preghiere della nonna, Aule senza banchi, Il tempo delle persone anziane, La vecchiaia... etc.). Posso dire che la pagina della scrittrice Antonia Izzi Rufo è limpida e onesta. Senza cercare una certa “originalità” a tutti i costi, senza oscurità maliziose e senza “trucchi del mestiere” per captare il lettore. Provenendo da una mente onesta e da un cuore onesto non ricorre a stratagemmi astrusi, ma si esprime in un italiano corretto, con frasi e periodi costruiti “come Dio comanda”, cioè nel rispetto non solo di grammatica e sintassi, ma anche della personalità e della serenità del lettore normale. Un linguaggio del genere, così pulito e appropriato, è l'ideale per veicolare concetti e contenuti pieni di moralità, secondo un codice etico familiare ben noto. In altre parole, la prosa di Antonia Izzi Rufo è da narratrice autentica ma è anche educativa, intrisa di calore pedagogico. Trasmette messaggi positivi anche se proviene da un'autrice che soffre di delusioni e di romantiche nostalgie in un'epoca come quella attuale, in cui sembra che Stampa e Televisione facciano a gara per offrirci il ritratto di un'Umanità sempre più sconcertante e incattivita, disorientata e sostanzialmente priva di valori, tanto crudele quanto vacua ed effimera. Antonia Izzi Rufo esprime il meglio di sé quando ci offre il proprio cuore (sempre fino a un certo punto, comunque...) e quando rievoca e descrive con naturalezza il modo di vivere di un tempo passato. Le usanze e le tradizioni, le difficoltà economiche e sociali di un'Italia che usciva da una disastrosa seconda guerra mondiale e da una dolorosa guerra civile. Un'Italia che pur nella miseria dilagante trovava, nella solidarietà umana e sociale, la forza materiale e morale per far rinascere il Paese. Luigi De Rosa Antonia Izzi Rufo – Stralci di vita – L'Autore Libri Firenze – pagg. 70 – € 6,80


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POLA INSOLA ELOGIO ALLA MIMOSA 2° Premio Città di Pomezia 2014 - Il Croco, I quaderni letterari di POMEZIA – NOTIZIE Paola Insola, poetessa e saggista piemontese pluripremiata in numerosi concorsi letterari, ha al suo attivo varie pubblicazioni di successo. Questo “Croco” ha meritato il 2° Premio al “Città di Pomezia 2014”. La silloge, dal titolo che già evoca il tema prescelto, è un inno alla figura femminile e (come sostiene il professor Defelice in prefazione) “alla sua eroicità di ogni giorno”. Solo nella prima lirica l’allusione della festa della donna è lampante. Poi una limitata carrellata di immagini approfondisce l’argomento. La scrittrice evoca figure di operaie fra macerie crollate; di badanti che rientrano a casa con i tram notturni; di bimbe sopravvissute ai tifoni; di malate vincitrici di gare sportive. I versi delle altre liriche, in un caleidoscopio di rimandi, riguardano ricordi personali, rievocazioni di stati d’animo e meditazioni su tragedie epocali, come la memoria dei campi di sterminio. Da “I violini di Cracovia” cito questi versi delicatissimi come esempio di un linguaggio lirico armonioso. “Qui la musica muove le note / tra il legno e il richiamo / le corde e il lamento / l’archetto che graffia indignato / l’ultima invocazione. / Sono le notti incantate di Cracovia / a tergere la sospensione dei giorni / tessuti in filigrana d’anime.” Elisabetta Di Iaconi

ANTONIA IZZI RUFO CASTELNUOVO TERRA DI CANTI E DI SUONI, DI MITI Ed. Il Convivio, 2014 Un Presepe abbandonato Così potrebbe essere definito il grazioso paesetto molisano Castelnuovo al Volturno in provincia di Isernia, che inesorabilmente sta morendo, con i suoi 150 abitanti, per tante ragioni, non esclusi l’incuria degli uomini, la caratteristica del terreno, la collocazione geografica - per tanti versi felice, perché protetta dalle maestose Mainarde – e non ultimo per il selvaggio fenomeno della globalizzazione ivi inclusa l’ unione europea - che tutto sta distruggendo con la presunta condivisione delle vicende umane e il non meno presunto incontro tra i popoli. E, si potrebbe continuare. Da orgogliosi molisani quali siamo, anche se residenti un un’altra regione, tra l’altro confinante col

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Molise, conosciamo non solo quasi tutta le località patrie, ma anche l’aggraziato piccolo centro di Castelnuovo - nei cui pressi si trovano, tra l’altro, le imponenti sorgenti del fiume Volturno - da noi visitato apprezzandone le leggiadre, anche se minuscole, fattezze, sorrette, queste ultime, da una storia risalente a diversi secoli fa. E basta osservarlo, sebbene minuscolo, anche da lontano, oppure su una cartolina commemorativa, per avere immediatamente la certezza di trovarci al cospetto di una località degna di essere salvata e preservata dalle continue ingiurie del tempo che tutto travolge, oggi, nella sua frenesia verso l’ ignoto. Ragion per cui meritevole risulta l’impegno, in tal senso, di una cittadina del menzionato centro abitato, Antonia Izzi Rufo, per altro, già meritevole per i numerosi e pregevoli lavori letterari, ivi inclusi quelli relativi al proprio paese, la quale ha dato, di recente, alle stampe un interessante libretto – ‘Castelnuovo, terra di canti e di suoni, di miti (Il Convivio, Castiglione di Sicilia, 2014) – quale testimonianza dell’amore per la propria terra sebbene l’ Autrice sia nata a Scapoli, a tre km. da Castelnuovo, sempre in provincia di Isernia. Ma come ben dice un poeta latino arcaico: “Patria ubi bene”. Il saggio si avvale della Presentazione di Giuseppe Manitta il quale osserva, opportunamente, che “scrivere la storia di un luogo è l’unico modo per salvarlo dall’oblio” e che, inoltre, “Castelnuovo è anche una terra ancestrale, di miti (…) il cui fulcro ed elemento importante è costituito dalla figura del cervo”. Questo perché, chiarisce la Izzi, “i castelnovesi anche se evoluti, anche se al passo con i tempi, hanno conservato lo spirito adamantino, sognatore dell’uomo primitivo, il gusto per le cose belle e per l’allegria, l’amore per la musica e per il mito. Da tempo immemorabile, ogni anno, nell’ ultima domenica di Carnevale, nel piccolo borgo si recita la pantomima del ‘Cervo’”. Vale a dire, continua Manitta, “un essere spaventoso, dalle fattezze del cervo con attributi umani e caprini”. Ora, il saggio dell’Autrice si fa apprezzare non solo per la minuziosa ricostruzione degli eventi storici del paese in questione, ma anche per la messe di notizie relative sia agli usi, costumi, tradizioni, e consuetudini del luogo – ormai quasi del tutto scomparsi – bensì pure per le notizie dei personaggi che sono vissuti, caratterizzandola, in tale località. A parte alcune personalità locali, il piccolo centro molisano ha ospitato anche qualche nome di un certo rilievo. Ci riferiamo, nella fattispecie, a due figure provenienti, la prima, da un’altra nazione europea, la Francia, e la seconda, da un’altra regione d’ Italia; infatti, il grande pittore francese Charles Moulin


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(Lille 1869-Isernia 1961) scelse la località delle Mainarde come seconda patria - conducendovi una vita umile a contatto con la natura, ed esercitandovi la pittura – così come, per necessità, fece Giaime Pintor, un intellettuale sardo (1919-1953), che dopo i trascorsi giovanili nell’ambito di altre ideologie, sposò una diversa causa diventando patriota e scrittore. Il pittore, conosciuto personalmente dalla Izzi, resta, comunque, la figura di maggior spicco vissuta a Castelnuovo perché egli, pur proveniente dalla Francia dove si formò, “a contatto con personalità note, affermate nel campo della cultura”, volle, a detta dell’Autrice, “tornare alle origini della specie umana, al primitivo, all’incontaminato”, riuscendovi a contatto con un ambiente a lui più congeniale ed ovverosia quello molisano. Tutto ciò ed altro, è presente nel volumetto dell’ Autrice; libro da raccomandare non solo ai molisani, ma anche a tutti coloro che hanno a cuore le sorti dei piccoli centri d’Italia, meritevoli di essere salvaguardati e salvati perché ancora fonte di insegnamenti, di ammonimenti, di storia patria e non solo di quest’ultima. Lino Di Stefano

RODOLFO VETTORELLO VOGLIO SILENZIO Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 È con vero piacere che mi accingo a dedicare alcune mie impressioni alla silloge “Voglio silenzio” di Rodolfo Vettorello, complimentandomi con lui per il Primo Premio ricevuto al Concorso letterario “Città di Pomezia 2014”. Premetto che ho deliberatamente letto le sue 22 poesie partendo dall’ultima “La Belle Epoque” che descrive con ritmo indovinato e, aggiungerei, quasi a passo di minuetto, il bel tempo passato, cioè quello breve della giovinezza, senza la retorica del rimpianto e della nostalgia. Poi ho scorso le altre che parlano di profumi, di fragilità d’animo, di fuochi d’artificio, ma che raccontano anche la vita sui Navigli alla romantica ricerca della luna, la vita in via Garibaldi, sul litorale dove le conchiglie e i granchi lasciano “Polvere di mare”. Ci sono poi i giochi dei fanciulli con i fragili castelli di carte, con i cerchi concentrici nell’acqua, l’altalena appesa ad una trave e l’attesa delle stelle cadenti nella notte di San Lorenzo. Il tutto per terminare all’oggi. E Vettorello oggi dichiara apertamente il suo desiderio, perentorio (voglio), di volere solo il silenzio, il silenzio di una vita quasi monacale che lo conduca placidamente al

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commiato... che farà semplicemente con il saluto della mano. Nella sua prefazione sul quaderno letterario, Domenico Defelice si domanda se la poesia di Vettorello è decadente, facendo riferimento a Gozzano e a Pavese, ma si risponde subito di no. Ed io sono d’accordo, anzi aggiungo che la sua è “vera” poesia, con tanto di ritmo e di cadenza di rime, cosa assai rara nei versi di oggi. Paolangela Draghetti

AURORA DE LUCA CELLULOSA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 “Per fare un albero ci vuole un fiore, per fare un fiore ci vuole il seme... etc.” Questi sono i versi di una ben nota canzone. E... dall’albero, dal fiore, dal seme... nasce anche la cellulosa, dalla quale si ricava la carta impastandone le fibre con quelle dei cenci. E con la carta ci si fanno tanti “fogli bianchi” sui quali scrivere, scrivere, scrivere... Ecco, questo è ciò che traspare dalle parole di Aurora De Luca che, nella sua raccolta “Cellulosa”, vincitrice del 2° Premio Città di Pomezia 2014, esalta l’importanza di esprimere le proprie emozioni sulle pagine tangibili di un libro con una penna intinta d’inchiostro, e non attraverso la fredda tastiera di un anonimo computer. “Abbiamo le sorti del seme/rocciosa vena che pulsa.../e la terra ci nutre.../Saremo bosco sulle macerie/campo fiorito in inverno”: questo dichiara Aurora De Luca, difendendo quel seme; il seme della Poesia. Paolangela Draghetti

PAOLA INSOLA ELOGIO ALLA MIMOSA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie 2014 “Elogio alla mimosa” di Paola Insola, vincitrice del 2° Premio Città di Pomezia 2014, è dichiaratamente l’elogio al fiore della Donna per eccellenza. In ogni suo bocciòlo o... in ognuno dei suoi “capolini globosi”, come li chiama l’autrice, c’è dentro una donna, come Rosaria “la rosa che non colsi”, la maratoneta Ivana Iozzìa che, prima di vincere la Turin Marathon nel 2013, vinse la sua battaglia contro il cancro, la giovane madre filippina che partorì la piccola Bea Joy mentre cercava rifugio dal tifone Haiyan, l’operaia bengalese che con le sue compagne filatrici tra le macerie del Rana Plaza alla periferia di Dacca desiderava solo dissetarsi pri-


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ma di morire, e tutte le altre donne, come quelle che rincasano tardi la notte sui tram solitari, come le madri dietro le sbarre di una cella con i loro bambini a condividere, innocenti, la loro sorte e costretti a sognare uno spazio giallo fra quelle fredde mura, come i bambini e le bambine della Palestina e d’Israele che, approfittando di un insolito giorno di neve, cercano di dimenticare la guerra giocando con i pupazzi. Con “l’enfasi di farfalla” la mimosa “muove incontro al sole” per dare una speranza al futuro, una speranza “che già si chiama Amore”. Paolangela Draghetti

PAOLA INSOLA ELOGIO ALLA MIMOSA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 Leggo tracce di biografia della poetessa Paola Insola e nello scorrere la sua storia, con la partecipazione a concorsi letterari e sempre più lusinghieri riconoscimenti, inizio a leggere i suoi versi. Cerco una mia personale definizione, da donarle, e giunge quasi subito : “I diritti umani racchiusi in un palmo di mano contenente granelli gialli di fiore di Marzo”, questa è per me in “elogio alla mimosa” l’ autrice Paolo Insola. Mi soffermo sul verso “ seduti accanto a mondi ostili ” una denuncia di quotidiana mancanza di integrazione, di seguito vengo all’ empatia “in simbiosi” la delicata e meravigliosa empatia, che tutto renderebbe più semplice, se avvolgesse interi in quel suo mare, a superare ogni barriera e giungere alla fratellanza. Belli i versi “ sono mare in empatia di luna… filamenti di quiete oltre confine” mi aggancio a quel confine ed immagino i contorni che osserva la poetessa quando si interroga sul silenzio e sull’osservanza delle varie minoranze che soffrono, che patiscono, che periscono “ ciò che appare diverso è soltanto troppo uguale”. Nell’andare avanti attraverso le rime resta pur costante, in un angolo di intelletto ricettivo, l’ immagine della mimosa che tarda ad apparire. Si citano i paesi “evoluti” la denuncia forte e determinata a colpi di versi che devono scuotere le menti e le coscienze ed è qui, preciso in questo punto, che per me c’è la mimosa, il simbolo di una donna che non si arrende, e come fare? Con i simboli. In “ più forte della malattia” Ivana Iozzìa simbolo di coraggio e di vittoria. Il dono del sentire civile, del rappresentare e testimoniare i diritti civili, è la mimosa di questa splendida autrice. La letteratura e la lirica possono essere uno strumento di meravigliosa battaglia di sensibilizzazione. In “di nuovo” si fa cenno alle so-

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relle Comencini in “Libere” e così si estende ad altre forme d’arte la mimosa, tale mirabile intento al femminile, ma io estenderei il tutto ad ogni anima che ne sente l’esigenza e il bisogno. “Io vedo che, quando allargo le braccia i muri cadono.” Don Andrea Gallo. Io ci credo. Filomena Iovinella

AURORA DE LUCA CELLULOSA Il Croco / Pomezia-Notizie – Novembre 2014 L’evoluzione poetica di Aurora De Luca si riscontra a ogni nuova lettura. Già dai primi scritti si notava una voce sincera, una vena profonda. Ora, con questa nuova silloge Cellulosa (che ha ben meritato il 2° premio Città di Pomezia 2014), il dettato ha acquisito nuove sensazioni, pensieri concettuali importanti e uno stile ancor più conciso. Mentre nei suoi precedenti lavori il tema principale era l’amore (nelle sue varie sfumature), ora spazia in libertà. Già il titolo è accattivante: Cellulosa, un’unica parola che fa da eco a molte varianti. Essa richiama, infatti, il nostro ambiente, la madre terra con l’eterno ciclo vegetale: inverno, estate, primavera, autunno, in un susseguirsi di morte e rinascita. All’interno di questo ciclo vi è la vita di ognuno, e l’assieme degli uomini costituisce la storia con i diversi modi di vivere e pensare. Aurora De Luca si sente parte del tutto, e solo un poeta può avere tale percezione. Inoltre, non tralascia neanche in quest’ultimo lavoro momenti di amore e di passione. Nell’alternarsi di gioia e dolore scorre la sua linfa affinché possa provare emozioni forti, cadere per poi risollevarsi: “E tutto insieme è il dolore / e tutta quanta è la luce”. Nella raccolta non mancano belle metafore, come per esempio nella lirica “Quanta casa” dove la poetessa s’identifica con le sue mura: “Una casa che per raderla al suolo / dovrete tagliarla, / che ha una sola digitale impronta, / una via labirintica di vicoli e fossi / personalissimi.”. Le immagini scorrono e variano di poesia in poesia, ma il suo animo poetico è sempre partecipe e capta continue sensazioni tramutando gli elementi naturali in qualcosa di vibrante che penetra nella sua carne. Lei sa che al mondo tutto è passeggero e nessuna materia può sottrarsi al passare del tempo, neanche una montagna può combattere contro l’ erosione dei venti, ma sa che nel nostro essere (se pur polvere dell’universo) c’è una forza speciale, un soffio divino: “Non resisteremo un attimo oltre il soffio, / noi che neppure montagna siamo; / eppu-


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re qualcosa ci erige, / qualcosa si fa pietra buona / nelle nostre mani.”. Una silloge, dunque, che denota un passo avanti e un pensiero maturo. Laura Pierdicchi

RODOLFO VETTORELLO VOGLIO SILENZIO Ed. Il Croco, 2014, supplemento a Pomezia-Notizie La quarta di copertina di questo nuovo numero de Il Croco, ci informa che l’Autore, nato a Castelbalbo (PD) e residente a Milano, è laureato in architettura ed ha già pubblicato un romanzo e una ventina di raccolte di poesie, che gli hanno fruttato, negli ultimi sei anni, qualcosa come 180 Primi Premi assoluti in sezioni diverse di Poesia e Narrativa. E, infine, è Membro di Giuria o addirittura Presidente di circa dodici Premi Letterari, oltre che fondatore del Cenacolo Letterario Internazionale ALTREVOCI. Insomma, non è un imbrattacarte improvvisato, come ce n’è tanti al giorno d’oggi. Tuttavia, le poesie, meravigliose!, inserite in questo piccolo spicilegio, mostrano che Vettorello è innanzitutto e principalmente un architetto fatto e finito. Un architetto nato. I carmi qui presentati sono molto chiari, sintetici e diretti. Un autentico scheletro, pronto per costruirvi sopra un grattacielo tutto uffici o un condominio in un quartiere residenziale. Incredibile, vero? Eppure, questa è proprio l’impressione che io ne ho ricavata, leggendo queste composizioni e, a dirla tutta con sincerità, non l’ho trovato un difetto, ma, al contrario, uno stile originalissimo. Il fatto che Vettorello si sia impegnato nella poesia non significa che fosse obbligato ad imitare lo stile di Leopardi o di Pascoli o, a scelta, di Ungaretti o di Penna. Ognuno ha il suo stile, come è giusto! Ciò che conta davvero, alla fine di tutti i conti, è il contenuto stesso del brano poetico. Non importa se è strappalacrime o tutto in acciaio, geometrico ed algido. Se c’è un contenuto ed ha qualcosa di interessante da dire, non c’è bisogno di far commenti. E il contenuto c’è. Ed anche di ottima qualità! Alla deriva, riflessione pensosa sul fatto che siamo tutti stranieri gli uni agli altri, non necessita certo commenti. E il carme che dà il titolo alla silloge, Voglio silenzio, si commenta da sé per quanto è schietto e diretto. Davvero notevole, in queste composizioni! E non è un complimento a caso. Andrea Pugiotto

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AURORA DE LUCA CELLULOSA Ed. Il Croco, Novembre 2014, supplemento a Pomezia-Notizie Su questa giovane esordiente ci sono varie notizie in quarta di copertina de Il Croco che provano che la De Luca è una esordiente di qualità e che ha davvero qualche cosa da dire a tutti noi. Il titolo stesso della silloge presente è più che trasparente. I versi delicati di questa Autrice mostrano un’ anima sensibile, pur se attenta alla realtà odierna, messa particolarmente in rilievo da composizioni come L’orologiaio (oggi tutto è meccanizzato ed ultrarapido) o Aprimi (preghiera ad un Cielo sempre più lontano da questo nostro mondo, prono ai Beni Materiali) o come Un’impronta di mano, che non necessita certo commenti. Un vecchio proverbio recita: il buon giorno si vede dal mattino. Generalmente parlando, è corretto, sia in senso meteorologico che allegorico. E se questa silloge è il mattino (o almeno una parte di esso) di Aurora De Luca, certo avremo un ottimo giorno con carmi siffatti e quelli che certo seguiranno. Un’Autrice da seguire con attenzione ed interesse e che potrà di certo sorprendere ancora parecchio i suoi lettori. Andrea Pugiotto

PAOLA INSOLA ELOGIO ALLA MIMOSA Ed. Il Croco, Dicembre 2014, supplemento a Pomezia-Notizie I campioni di Salto alle Conclusioni sono diffidate dal leggere questa silloge, giunta al II Premio Città di Pomezia 2014, in ex aequo con la silloge Cellulosa della De Luca. Non si concede un premio in posizione sì alta solo perché si è belli e simpatici ed i numerosissimi premi, elencati in quarta di copertina (Città di Brindisi (1988), Città di Fucecchio (1996) Grinzane Cavour (2000)… solo per fare un excursus a volo d’uccello) provano che la gentile Autrice, che ha iniziato nel 1977 a partecipare a concorsi letterari ed ha scritto saggi di letteratura ed arte ed ha svolto attività critica, è una poetessa da non prendere in sottogamba. La prova, caso mai ce ne fosse bisogno, è una delle prime poesie della silloge presente: sette. Un commento doloroso su un fatto accaduto davvero (e non in un film drammatico), nell’aprile 2013, in


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una fabbrica tessile alla periferia di Dacca. La tragedia, vissuta dagli operai di quell’industria, trasuda da ogni parola del carme e bisogna essere uno squalo di Wall Street per restare insensibili innanzi ad un simile disastro! Sul fronte opposto, giacché, grazie a Dio, esistono anche momenti lieti o addirittura felici, citerò Insieme, colma di serenità. Una Vie en Rose di nuova concezione. Viva la faccia della Speranza e della Serenità! In mezzo a questi due estremi, sfumature di colore per tutti i gusti. Si ride, si piange, si sospira di tenerezza, si riflette seriamente… La Poesia, generalmente parlando, è la voce stessa della Vita ed ha mille espressioni diverse, come la Vita stessa, dall’Odio all’Amore, con un milione di sfumature intermedie troppo lungo da elencare. E questa silloge ne è un esempio brillante. E non per modo di dire! Fatevi la vostra idea e buona lettura! Andrea Pugiotto

TERESA REGNA L’INFILTRATO Giambra Editori, 2014 - 155 pagg., 12,00 € In un futuro (speriamo) abbastanza lontano, la popolazione terrestre è stata ridotta drasticamente a solo tre miliardi di individui. Tutto ciò che resta, duecento anni dopo una Peste Nera (equivalente odierno di quella che interessò l’Europa fra XII e XIII secolo) che aveva sterminato quasi affatto il genere umano. Tolto ciò, la Luna e Marte sono state colonizzate e sovr’essi sono state fabbricate due basi avanzate, Selenia ed Olympia, che però sono da considerare dei semplici uffici, adatti a ricercatori eterogenei con le loro famiglie. Appunto su Olympia, eretta alla base del Monte Olympus, il vulcano più alto di Marte, è stato commesso un assassinio, forse premeditato. E’ stata uccisa una donna, astrofisico abile e prezioso, incinta e che aveva un amante. Oriel Gupka, di origini asiatiche e perciò basso di statura (quasi un nano, circa l’altezza) è un ottimo investigatore e deve scoprire il colpevole ed il movente. Ma non è facile. Quasi tutti i sospettati sono reticenti o disposti comunque a mentire perché, anche se il tempo è passato, siamo ancora all’Età della Pietra e la condizione sociale ed i pregiudizi dettano legge ancora e sempre. Non sarà facile per Oriel Gupka smascherare il colpevole. Ma la cosa non finisce qui!

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Degli alieni, provenienti dal quarto pianeta della stella Alpha Centauri, rapiscono Oriel perché indaghi su un caso di sabotaggio alla loro base, posta sul pianeta Plutone, il nono pianeta del nostro Sistema Solare. Oriel deve ricominciare da zero, e non solo come investigatore ma anche come scolaro… per apprendere e comprendere il modus operandi dei suoi rapitori ed aiutarli a scoprire chi è il traditore che ha rischiato di uccidere tutti, sabotando una paratia della base. Quello che Oriel scoprirà nel corso dell’indagine ha dell’incredibile. Ecco un nuovo romanzo di fantascienza di Teresa Regna con, in più, un giallo (anzi, due) da risolvere. Stavolta la Regna ha superato sé stessa perché, tanto per cambiare, ha scritto una storia a modo suo, sì da prendere in contropiede, del tutto, i lettori. Il poliziesco, in sé e per sé, non è all’altezza di Otto di Picche e perciò i giallisti non si reputino troppo delusi. Non tutte le ciambelle riescono col buco. Però è davvero ben articolato, a onor del vero, e non merita disprezzo! Quello che risulta davvero notevole è che l’ ambientazione SF ricorda, molto da vicino, un qualsiasi romanzo di Isaac Asimov, per la struttura generale ed i termini usati… ma con un forte pizzico di Gulliver (Gupka stesso) ed un niente delle anime di guerra galattica nipponica. È tutto da leggere e non ci sarà davvero da annoiarsi. Fatevi la vostra idea. Ne varrà davvero la pena! Andrea Pugiotto

MISTERO SENZA SOLUZIONE L’alito della vita si è donato, il seme è germogliato, i petali si sono aperti, il fiore è sbocciato! Che cosa succederà quando questo appassirà? Tornerà al flusso infinito del Mondo? Il Pianeta Terra sempre girerà e un giorno nuovo sempre comincerà. L'orologio in continuazione suonerà, e il suono mai finirà. Il gomitolo dell'Universo per sempre srotolerà, un nuovo Mistero davanti a noi sempre svelerà. Senza inizio né fine le Galassie penetrerà, e in questo intreccio la vita continuerà.


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STELLE, SISTEMI, NATURA, un mistero, un'eterna avventura. Il TEMPO senza sosta scorrerà, ma mai indietro tornerà. In fondo al Cielo, un Portale di Luce... il Caos... un fascio di Raggi e di Sole Brillante. Se qualcuno i limiti infrangerà quanto lontano arriverà? Al di là dell'Oriente, al di là dell'Occidente, profonda riflessione, Un mistero senza soluzione. Giorgia Chaidemenopoulou Traduzione dal Greco della stessa Autrice

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE Omaggio a GIUSEPPE MILESI - Nel centenario della nascita di Giuseppe Milesi (1915 - 2001), la Fondazione Credito Bergamasco, dando seguito al proprio progetto espositivo dedicato agli artisti del Gruppo Bergamo, ha proposto una significativa selezione di opere degli anni sessanta dell’artista nel contesto delle due rassegne dedicate all’arte antica, moderna e contemporanea presso la Fiera di Bergamo dal 28 novembre al 1° dicembre 2014 e, successivamente, dal 24 gennaio al 1° febbraio 2015. Tra le opere esposte: “Eros e la luna”, 1960 (olio su

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tela, cm. 140 x 110), “Tellus”, 1963 (olio su tela, cm 110 x 135), “Rimembranze”, 1964 (olio su tela, cm. 110 x 135), “Nudo di donna”, 1961 (olio su tela, com. 135 x 110), “I fiori di Eros”, 1965 (olio su tela, cm. 70 x 50). Giuseppe Milesi nasce a San Gallo di San Giovanni Bianco il 27 ottobre 1915 da Pietro falegname e da Orsola Riceputi casalinga. Ama disegnare già da bambino. Incontra il pittore Rinaldo Agazzi e decide che da grande lui pure sarà pittore. All’età di otto anni dipinge su un canovaccio da cucina la sua prima opera: “San Giovanni”. Figlio di grande invalido di guerra, viene accolto nell’istituto San Carlo, che avvia all’artigianato i ragazzi difficili e qui apprende l’intaglio e la scultura; nel 1933 è ammesso ai corsi dell’Accademia Carrara “con particolare riguardo ai suoi saggi di plastica”. Allievo di Contardo Barbieri, si diploma nel 1938. Passa a Brera dove consegue la maturità artistica; si iscrive alla facoltà di architettura nel Politecnico di Milano. Gli eventi bellici non gli permettono di conseguire la laurea: arruolato nel 1° Reggimento Granatieri di Sardegna, inviato sul fronte greco-albanese, tornerà a casa nel 1944. Inizia a partecipare a mostre nazionali di rilievo ottenendo riconoscimenti e premi. Fu tra i fondatori del Gruppo Bergamo di pittura nel 1957 e negli anni sessanta è docente di figura disegnata al Liceo Artistico di Bergamo. Dal 1970 è titolare della Cattedra di pittura e decorazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha decorato con un imponente “Cristo” realizzato a mosaico l’abside della parrocchiale di Azzano San Paolo; sue opere si trovano in collezioni pubbliche e private: nelle Gallerie d’Arte Moderna di Perugia, Ravenna, Reggio Calabria, nelle Gallerie della Fondazione Michetti, nella Galleria della Fondazione Suzzara, nel centro direzionale Dalmine, nel Collegio Costruttori di Bergamo, nell’Istituto Bancario di Torino, nella Pinacoteca Civica di San Michele Talentino,


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all’INA Assicurazioni Roma, nelle Quadrerie della Provincia di Bergamo, nel Museo Casa Ceresa di San Giovanni Bianco. Suo a Valnegra il progetto del monumento ai caduti. Socio dell’ Ateneo di Scienze Lettere e Arti di Bergamo che lo ha annoverato tra i Testimoni del Secolo, socio dell’ Accademia Clementina di Bologna; dal Comune di Grassobbio insignito del premio alla cultura, dalla Provincia di Bergamo del Premio Ulisse alla carriera. È morto a Roma l’8 dicembre 2001. *** OMAGGIO A RENÉ VARENNE - Da un ritaglio del giornale La Montagne del 20 agosto 2014 inviatoci a dicembre da Sylvianne Baud e ricevuto solo a metà gennaio - apprendiamo la notizia della morte, a Néris-les-Bains, del direttore della rivista La Forêt del Mille Poètes. Condoglianze alla Famiglia e a tutti i componenti la benemerita Associazione, alla quale era particolarmente legato il nostro indimenticabile amico Paul Courget. I nostri lettori sanno che in quella Foresta, una quercia è stata intestata pure al nostro nome. In onore di René Varenne è stata posta una targa su un faggio del parco del Casino. “L’uomo che ha piantato alberi e che ha amato al di sopra di tutto gli uomini, se ne è andato il 13 agosto 2013” ha detto lo scrittore Victor Varjac nel corso della cerimonia in omaggio del poeta. René Varennes - riportiamo liberamente dall’artico di cui sopra -, umanista, poeta, scrittore e conferenziere, era nato a Montluçon il 22 gennaio 1922. Il pensionamento è stato per lui l’occasione di ritorno nella sua amata Borgogna e acquistare una dimora “Belle Époque” a Neris-les-Bains, nel novembre 1982. Si è da allora senza riserva consacrato alla letteratura in generale e alla poesia in particolare. Nel corso dei primi venti anni è stato assai attivo. È stato cofondatore de “l’Instance Culturelle Nérisienne (ICN)”, animatore di un incontro poetico settimanale nella Casa di coloro che venivano alle cure nella città balneare e, infine, con la cerchia degli amici fedeli, ha diretto le serate letterarie e musicali della stazione radio RMB. Durante i primi anni neriniani, René Varennes ha avuto l’idea di creare un luogo dove artisti e uomini illustri potessero trovarsi fianco a fianco, mescolando il passato al presente, abbozzando i lineamenti di un pensiero che non conosca né frontiere di secoli, né di Stati. Così è nata una Foresta particolare. A mettere a fuoco il progetto è stato Jean-Marie Dumontet, sindaco di Vesdun. Nel 1994, René Varennes ha piantato il primo albero. Così, “La Forêt des 1000 poètes veniva a fare il primo passo”, ricorda Victor Varjac.

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René Varennes ha ottenuto molti premi per la sua attività e le sue opere. Ha mobilitato numerose personalità per ottenere cinque minuti di poesia alla televisione. Ha scritto, assieme ai suoi amici, la Carta della Poesia e ha organizzato i primi Stati Generali della cultura e della poesia. L’eredità di tante validissime iniziative viene ora raccolta da Sylvianne Baud, alla quale facciamo i nostri auguri, assicurandola che continueremo, come abbiamo fatto in passato, a dare spazio sulla nostra testata a tutti gli avvenimenti in prosieguo da lei organizzati. (D. Defelice) *** OMAGGIO A LUIGI NONO - Con piena soddisfazione colgo il progetto 'RESISTENZA ILLUMINATA 1945-2015. OMAGGIO A LUIGI NONO NEL 70° ANNIVERSARIO DELLA RESISTENZA E DELLA GUERRA DI LIBERAZIONE', realizzazione che si svolgerà in diverse sedi a Bologna e non solo, lungo il corso di tutto il 2015. Questa Rivista ha contribuito, con scadenza mensile, a dare ampio spazio a questo compositore veneziano di intenso valore, perché egli, con i suoi lavori e con i suoi interventi etico-politici, era perfettamente consapevole ai massimi livelli del ruolo che l'arte deve svolgere all'interno della società e della cultura, al di là ed oltre ogni confine, perché la politica rappresenti il territorio più articolato per denunciare e comporre i conflitti, per modificare le coscienze attraverso un modo nuovo e diverso di essere tra le cose del mondo, perché nell'artisticità che le rappresenta si possa portare avanti una rivoluzione che parte dall' Amore, che si avvia in ciascuno di noi, mettendosi in cammino. Tantissimi gli enti istituzionali coinvolti in questa pregevole iniziativa, come il Teatro Comunale di Bologna, grazie al suo coordinatore artistico Nicola Sani, e poi il Conservatorio G. B. Martini e la Regia Accademia Filarmonica, l'Università della città con il Dipartimento delle Arti e l'Archivio Maderna, il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell'Economia ed ancora le città di Ferrara, di Reggio Emilia, di Modena e Marzabotto. Importante ed irrinunciabile il contributo della Fondazione Archivio Luigi Nono, che attraverso la guida e la presenza di Nuria Schoenberg Nono, metterà a disposizione del pubblico materiali e preziosi strumenti di informazione multimediale: evidenzio gli eventi che si terranno presso il Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, dal 17 Aprile al 17 Maggio 2015 'Luigi Nono, una biografia. Immagini dall'Archivio Luigi Nono di Venezia', a cura di Giorgio Mastinu e con la collaborazione di Nuria Schoenberg Nono, Presidente della Fondazione stessa, che andrà a presentare, nel giorno 8 Aprile, il libro: 'Per Luigi Nono.


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Dediche', da me già recensito proprio su questa Rivista, nel mese di Dicembre 2014. In programma anche musiche del compositore padovano Silvio Omizzolo, di altra impostazione ed orientamento, ma ben dentro le problematiche della Resistenza, in particolare con la sua opera 'Elegia per gli impiccati di Bassano', della quale caldeggio con tutto il cuore l'esecuzione, magari in un 'fuori programma', con la struttura coreografica di Teatro-Danza Arti della Rappresentazione, del regista Giorgio Bordin. Gli studiosi Veniero Rizzardi ed Alvise Vidolin guideranno gli approcci e le esecuzioni delle composizioni di Luigi Nono che poggiano la loro tessitura sull'utilizzo degli strumenti della musica elettronica: infatti nelle giornate del 8, 9, 10, 16 e 17 Aprile 2015 Veniero Rizzardi curerà l'evento che prevede l'integrale delle opere elettroacustiche composte tra il 1960 e il 1974, con Alvise Vidolin alla guida del suono per AngelicA, Centro di Ricerca Musicale. Tante saranno anche le altre conferenze e gli incontri che andranno ad approfondire i molteplici aspetti della personalità e dell'arte di questo compositore che, nell'intrecciare la sua voce con i protagonisti del suo, del nostro tempo, come Bruno Maderna, Pierre Boulez, Karheinz Stockhausen, Olivier Messiaen ed altri, si avvia lungo un cammino ancora inesplorato, ci avvicina, sconvolge e fa meditare. Tutto il dettagliato programma si può conoscere sul sito della Fondazione Archivio Luigi Nono, alla Giudecca. Ilia Pedrina

Domenico Defelice - Scaffale (1964)

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LIBRI RICEVUTI MARIA VITTORIA SCARAMUZZA - Cardiocollage - Venilia editrice Valentina editrice, 2014 Pagg. 34, € 10. Maria Vittoria SCARAMUZZA è autrice ormai nota ai vigontini (ritiene Vigonza il suo paese di appartenenza), essendo al quarto libro di poesie: “La fertile sofferenza” (2013), “Un po’ per celia e un po’...” (2014), “Storie” (2014). Prima del 2013 l’autrice non aveva mai scritto per il pubblico. Le sue raccolte vertono principalmente sui sentimenti rivolti ad ogni componente del mondo vivente: persone, animali, piante. Per la prima volta affronta gli aspetti aspri ed, al contempo, umanissimi della malattia severa con lo scopo, non recondito, di far meditare chi gestisca, sia amministrativamente che operativamente, questo vitale settore. ** AA. VV. Sintonie - Antologia di poesie in italiano e dialetto e di racconti brevi - Premio di poesia e narrativa “Vigonza” - In copertina, disegno di Maria Vittoria Scaramuzza; Presentazione di Nunzio Tacchetto, Sindaco di Vigonza; Prefazione di Alberto Rizzo, Assessore alla Cultura; Introduzione di Stefano Valentini, Direttore responsabile della rivista La Nuova Tribuna Letteraria - Sono ospitati i seguenti autori: Franco Donati, Alessandro Nannini, Carla Baroni, Salvatore Cangiani, Tiziana Monari, Mario Macioce, Alfredo Panetta, Chiara Pinton, Lino Roncali, Giancarlo Frainer, Lorella De Bon, Lucia Beltrame Menini, Giuseppe Muscetta, Franco Ponseggi, Lia Cucconi, Gianfranco Bartolomeoli, Donatella Nardin, Giovanni Benaglio, Nerina Poggese, Francesco Sassetto, Marilisa Trevisan, Rita Mazzon, Massimiliano Morelli, Gianluca Staderini, Serenna Penni, Simonetta Cancian, Paola Fabris, Iosetta Mazzari, Massimo Paternostro, Ettore Bucci - Venilia Editrice, 2014 - Pagg. 80, € 8,00. ** BRUNO VESPA - Italiani volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica sempre sul carro dei vincitori - Rai Eri Mondadori, 2014 - Pagg. 376, € 20. Bruno VESPA ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione “Porta a porta” è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la


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televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello della carriera; nello stesso anno ha vinto l’Estense per il giornalismo. Fra i più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: “Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi”, “Vincitori e vinti”, “L’Italia spezzata”, “L’amore e il potere”, “Viaggio in un’Italia diversa”, “Donne di cuori”, “Il cuore e la spada”, “Questo amore”, “Il Palazzo e la piazza”, “Sale, zucchero e caffè”. ** ANDREA BONANNO - Il romanzo e la Verifica trascendentale - Edizioni dell’Archivio “L. Pirandello, 2011 - Pagg. 218, € 14,50. Andrea BONANNO, nato a Menfi (Ag), risiede e lavora a Sacile (Pn). Ha iniziato ad esporre all’età di 16 anni in una mostra, vincendo il primo premio e, fin dal 1966, è stato presente a livello nazionale, con partecipazioni a molte rassegne che lo vedono vincere molti premi. Pittore e scrittore svolge da anni un’intensa attività pittorica e letteraria, spaziando dalla poesia alla critica d’arte e di letteratura, partecipando a molte manifestazioni nazionali ed internazionali e ottenendo lusinghieri consensi ed importanti riconoscimenti tra i quale: “Artista dell’ anno”, Milano 1988; 1° Premio ‘Giorgio Vasari’, 1989; 1° Premio Internazionale “Artisti per l’ Europa, I Grandi dell’Arte Italiana”, La Spezia, 1990; 1° Premio della critica “I Geni dell’Arte”, Salsomaggiore Terme. Nel 1988 è stato nominato “Professore d’Arte Onorario” della scuola di Storia dell’ Arte <<Giorgio Morandi>> di Fidenza (Parma), in riconoscimento dei meriti culturali conseguiti per la sua attività artistica e del rilevante contributo dato dal suo operato allo sviluppo della cultura italiana. Infatti la sua produzione artistica si è distinta per

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un’altissima capacità di ricerca ed una qualità tecnica professionale ed artistica non comuni le quali, accompagnate dall’impegno culturale con cui ha da sempre operato, hanno consentito all’Artista di conquistare una posizione di primo piano nel mondo e nella cultura dell’Arte contemporanea. Collaboratore di svariate riviste e periodici, è autore di diversi volumi ancora inediti, tra i quali “Van Gogh e la pittura <<verificale>>”. Nell’ambito della critica letteraria, sua è la nuova ipotesi della “verifica trascendentale” per la lettura critica di opere letterarie e pittoriche, intesa quale via metodologica riflessivo-verificale per la ricerca e la fondazione di un’unitarietà psicologica e trascendentale (sovrapersonale) dell’anima dell’uomo. Ha fatto parte della redazione della rivista “L’Involucro”, dal novembre 1994 fino al luglio del 1997, anno della morte del direttore Pietro Terminelli, che ha segnato pure la fine della storica rivista letteraria, pubblicando il commento alle 21 liriche de “Lo schiaccianoci” dello stesso. Tra i suoi volumi pubblicati, si ricordano: “Le Poesie di Ferruccio Brugnaro” (2001), “Saggi sulla poesia di Maria Grazia Lenisa” (2003), “Saffo chimera di Maria Grazia Lenisa” (2005), “Poeti contemporanei per la “Verifica trascendentale”” (2007), “L’arte deviata - Otto Biennali di Venezia ed altri saggi” (2010). Tra le firme che si sono interessati di lui: Beniamino Vizzini, Antonio Magnifico, Mariella Risi, Silvio Vitale, Giovanni Ianuale, Giovanni De Noia, Domenico Defelice, Anna Rita Zara, Andrea Ovcinnicoff, Carmine Manzi, Nicola Venanzi, Saverio Severi, Salvatore Porcu, Mario Meozzi, Lucio Zinna, G. P. Tonon, Silvana Folliero, Pietro Mirabile, Nunzio Menna, Mauro Donini, Tito Cauchi, G. Luongo Bartolini, Giovanni Cristini, Alex De Nardo, V. Gasparro, Dino Papetti, Domenico Cara, Daniele Giancane, Antonio De Marchi-Gherini, Sandro Bongiani, Guerino d’Alessandro, A. Sandron, Gianluca Bocchinfuso, Gianna Sallustio, Giulio Palumbo, Giuseppe Bonaviri, Giuseppe Perciasepe, Rino Giacone, Carla Fiorino, Guido Cecchi, Alberto Cappi, Franca Alaimo, Italo Tomassoni, Luciano Cherchi, Giovanna Modica, Demetrio Paparoni, Carmelo R. Viola, Giorgio Di Genova, Luigi Galli, Vittoriano Esposito, Giovanni Amodio, Giorgio Saviane, Maria Grazia Lenisa, Pietro Terminelli. ** GIORGINA BUSCA GERNETTI - Amores - In copertina, a colori, “Amor vincit omnia” di Caravaggio - Youcanprint Self-Publishing 2014 - Pagg. 46, € 10,00. Giorgina BUSCA GERNETTI è nata a Piacenza, si è laureata con lode in Lettere Classiche, specializzazione in Storia del Teatro Classico, all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano


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ed è stata docente di Letteratura Italiana e Latina nel Liceo Classico di Gallarate, città dove tuttora vive. Ha studiato il pianoforte al Conservatorio di Piacenza. Ha composto liriche fin dall’adolescenza, seguendo un’intima vocazione con l’intento di dare forma duratura alle proprie emozioni, ma ha iniziato tardi a pubblicarle e a partecipare ai Concorsi letterari con inediti e opere edite. Ha pubblicato i libri di poesia “Asfodeli” (1998), “L’isola dei miti” (pubbl. 1° premio 1999), “La luna e la memoria” (pubbl. 1° premio 2000, breve silloge confluita nel libro omonimo), “La luna e la memoria” (2000), “Ombra della sera” (2002), “La memoria e la parola” (pubbl. 1° premio 2005), “Parole d’ombraluce” (2006), “Onda per onda” (2007), “L’anima e il lago” (pubbl. 1° premio 2010 con prefazione del prof. giuseppe Panella della Scuola Normale Superiore di Pisa; 2a ed. con rassegna critica 2012). Ha in elaborazione un nuovo libro di poesia. Per il Centenario della nascita di Cesare Pavese ha scritto il saggio critico “Itinerario verso il 27 agosto 1950” (in “Annali del Centro Pannunzio” di Torino 2009; in volume individuale 2012). Di narrativa ha pubblicato la raccolta di racconti “Sette storie al femminile” nell’annuario di prosa contemporanea “Dedalus” n. 1, 2011; in volume individuale 2013. È stata protagonista di vari “Incontri con l’Autore” a Torino (2001, 2003, due volte 2006), a Piacenza, sua città natale (2004, 2007) e a Firenze (2010 nel “Pianeta Poesia”, 2012 nel Caffè Storico Letterario “Le Giubbe Rosse”). Sue poesie, alcune tradotte in diverse lingue straniere, sono incluse in numerose antologie a tema oppure destinate agli istituti superiori. Ha sempre ottenuto giudizi di consenso dalla critica più qualificata. Ha conseguito più di settanta primi premi per editi ed inediti, due Medaglie del Presidente della Repubblica Italiana e numerosi Premi per la Cultura. ** FORTUNATO ALOI - La Chiesa e la Rivolta di Reggio - Nuovo Domani Sud, Reggio Calabria, 2009 -Pagg. 8, s. i. p.

TRA LE RIVISTE IL CENTRO STORICO - organo dell’ Associazione Progetto Mistretta, Presidente Nino Testagrossa, direttore responsabile Massimiliano Cannata via Libertà 185 - 98073 Mistretta (ME). E-mail: ilcentrostorico@virgilio.it Riceviamo il n. 10-12 (ottobre-dicembre 2014), del quale segnaliamo: “A colloquio con Hubert Jaoui: Creatività: ecco la te-

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rapia”, di Massimiliano Cannata; il servizio fotografico “Premio Maria Messina 2014; “Paolo Giaconia dialoga con il prof. Filippo Ribaudo”. A pag. 23, Filippo Giordano ricorda due pubblicazioni del nostro direttore: Alberi?, poesie edite dalla Genesi di Torino e il recente Alleluia in sala d’armi. Parata e risposta, scritto insieme a Rossano Onano e edito da Il Convivio di Castiglione di Sicilia. * IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT). E-mail: angelo.manitta@tin.it Riceviamo il n. 58 (luglio-settembre 2014), del quale segnaliamo “Guido Ceronetti Un viaggio in Italia”, di Giuseppe Manitta; “Brina Maurer Lord Glenn. L’anima di Byron nel cuore di un cane”, di Angelo Manitta e le firme di Andrea Pugiotto, Giovanna Li Volti Guzzardi, Alda Fortini (una bella “Natura morta” e due poesie), Enza Conti, Antonia Izzi Rufo (che recensisce, tra l’altro, “Alleluia in sala d’armi - Parata e risposta” di Rossano Onano e Domenico Defelice), Aurora De Luca, Orazio Tanelli eccetera. Allegato, il numero 24 del supplemento Cultura e prospettive di 192 pagine, con numerosissimi interventi, tra cui quelli di Antonio Crecchia (“Emerico Giachery: Il canto XIII dell’Inferno”), Orazio Tanelli (“George Delmarmo. Narrative and ideology”), Carmine Chiodo (“Giuseppe A. Camerino, Il “metodo” di Goldoni e altre esegesi tra Lumi e Romanticismo”) eccetera. * IL PONTE ITALO-AMERICANO - Rivista di cultura, arte e poesia fondato e diretto da Orazio Tanelli - 32 Mt. Prospect Avenue - Verona, New Jersey 07044, 973-857-1091 USA. E-mail: carmelacohen1@verizon.net Riceviamo il n.3, dicembre 2014, quasi interamente scritto dal direttore. Tra le altre firme, rileviamo quella di Mariagina Bonciani e quella di Teresinka Pereira. A pag. 32 viene segnalato il volume Alleluia in sala d’armi - Parata e risposta, di Rossano Onano e del nostro direttore Domenico Defelice. * MAIL ART Service - Bollettino diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN). Riceviamo il n. 88 (dicembre 2014), nel quale Andrea Bonanno si interessa di <“Alleluia in sala d’armi. Parata e risposta” di Rossano Onano -Domenico Defelice: Una satira rinnovata sulle storture italiche>. * SENTIERI MOLISANI - Rivista di Arte, Lettere e Scienze diretta da Antonio Angelone, responsabile Massimo Di Tore - via Caravaggio 2 - 86170 Iser-


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nia. E-mail: sentieri.molisani@katamail.com Riceviamo il n. 3 (42), settembre-dicembre 2014, con le firme, tra le tante, di: Leonardo Selvaggi, Elio Andriuoli, Antonia Izzi Rufo, Giorgina Busca Gernetti, Ciro Rossi, Giovanna Li Volti Guzzardi, Loretta Bonucci, Orazio Tanelli, Silvano Demarchi, Luigi De Rosa, tutti anche nostri collaboratori.

LETTERA AL DIRETTORE (Ilia Pedrina a Domenico Defelice) Carissimo, Maria Grazia Lenisa, la Musa Friulana di Papà, come Elena Bono era la sua Musa Ligure! Proprio stanotte, e siamo ancora entro il 16 di Gennaio, lo penso attivo e solerte in tutto, nella Villa di Brazzacco, a pochi chilometri dal Castello dei Nievo. Cultura, letteratura, Poesia, vita e Storia in quella sintesi che ha affascinato anche Giambattista Vico, spingendolo ad affermare che la Poesia ha al suo interno le fonti della fantasia, dell'immaginazione e del linguaggio, cioè la vita, i corpi, le emozioni, il mondo tutto più e meglio che la Ragione, ed è su questo sicuro terreno che ha potuto dar battaglia a Renato delle Carte, come lo chiama lui nell'Autobiografia, cioè al francese Descartes, così debole e malaticcio, così tutto teso nel tracciare quel confine netto tra il pensiero e il mondo da far camminare la Filosofia europea, dopo di lui, per secoli in modo bifronte, su due binari paralleli solo raramente intersecantesi! Così il Vico ha dovuto scontare il fio di questa sua audacia intellettuale e poi è arrivato Benedetto Croce, a fare un poco di giustizia intorno a questo 'Gigante' Italiano: perfino Edmund Husserl ha detto, secoli dopo, nel suo 'Idee per una Fenomenologia e per una Filosofia fenomenologica', proprio le stesse cose dell Vico, chi sa mai se lo avrà citato! La tua sintesi sulla personalità umana ed artistica della Lenisa, allora, mostra come di Poesia ci si possa anche nutrire: questo tuo la-

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voro ci attira come magnete, in attesa di meglio coinvolgerci e saziarci con la pubblicazione delle tantissime lettere che lei ti ha inviato. Mi soffermo sulla sezione 11 a pagina 14 del Quaderno letterario 'Il Croco', che hai inteso dedicarle e sulla tua riflessione intorno all'opera lenisiana 'Un pianeta d'amore', del 1998 per i tipi della Bastogi, là dove tu sostieni con decisione e sicurezza esegetica: “...È evidente una gran dose di narcisismo ( per altro sempre presente nella poesia lenisiana), che porta la creatura a calcare la scena con la consapevolezza della super elitaria e fino all'identificazione con la stessa divinità. Anzi, perché il gioco possa apparire più veritiero, la divinità la poetessa non esita a detronizzarla, o a sgretolarla con la corrosiva arma del sorriso. 'Un pianeta d'amore' è un'ennesima e bella prova della vasta e creatrice fantasia di M. G. Lenisa, un'opera straricca di movenze foniche, richiami storici, invenzioni lessicali e geografiche, vere e proprie rime, onde sonore che si accavallano, gragnuolate improvvise....”. Allora mi prendo il suo volume 'Verso Bisanzio', (Antologia dal 1952 al 1996), per i tipi della Bastogi/Poesia, che la sua figliola mi ha inviato e sul quale porterò attenzione ed approfondimento, e ti ricopio qui le parole di Aldo Capasso “...La modernità della cultura-sostrato, la modernità delle finezze musicali nel plasmare il trepido verso, l'amore novecentesco della concisione, gli effetti lirico-drammatici più controllati e sapienti, fanno di M. G. Lenisa, come si suol dire, una poetessa 'di avanguardia' e un'assoluta padrona di tutte le più suggestive risorse della forma aperta e del verso libero.” Avrà lei, allora, respirata anche tutta l'aria possibile della filosofia collaborando al fianco di Capasso nel Realismo Lirico? Si sarà intrecciata, intessuta, avviluppata al sesso ed alle sue variatissime spire, cariche di omoerotismo, sperimentando la poesia dannunziana e criticandola? Avrà penetrato in profondità il tema della carne e del corpo che assaporano nell'amplesso amore e morte insieme, assetando senza scampo ai confini di un abbandono quasi mistico? Si, sei saggio e ben con-


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sapevole quando dici, a pag. 16: “... Perché la lingua -impastata di terra e d'anima, che specchiava viso e cuore della gente-, a furia di essere stravolta, è divenuta tutta psicologia e interiore, assolutamente personalizzata, corazzata, blindata e quindi incapace di comunicare. Prima un unico, immenso oceano in cui tutti si bagnavano e si abbeveravano; adesso dal punto di vista almeno della capacità comunicativa- mille rivoli, le cui acque difficilmente si abbracceranno e si confonderanno. E non sono diverse solo le acque....”! Il Vico sostiene, gettando la sua verità in faccia a tutti i filosofi d'Europa nel suo tempo, che ogni età possiede una sua specifica qualità nel costruire e nell'esprimere il linguaggio, e la nostra è non età degli Dei, né età degli Eroi, ma età di uomini avvezzi ad ubbidire, senza forma né luce. Perché siamo stati messi così a tacere? Siamo diventati tanti nani a cui è concesso, solo per taluni di loro però, di arrampicarsi sulle spalle dei potenti e così veder un poco più di orizzonte? Io non ci sto e mi metto in cammino, con tra le mani o in valigia Pomezia Notizie, ben s'intende, e la ricerca che avvio, così poco pre-meditata, mi porta dritto dritto al cuore delle cose e di coloro che si lasciano stupire, che si abbandonano al mio dire e che danno in cambio, in semplicità, la loro anima. Come André Richard, compositore, direttore del suono e direttore artistico dell' Experimentalstudio des SWR, che è stato grande Amico e collaboratore di Luigi Nono a Friburgo e altrove e che ho incontrato prima ad Amsterdam poi a Venezia: mi ha donato un doppio CD con due opere intensissime del 'GiGi' veneziano: 'Guai ai gelidi mostri' (1983) e 'Quando stanno morendo. Diario polacco n. 2' (1982), di cui scriverò in modo attento e dettagliato; come il prof. Aron Shai, sempre pronto ad interpretare gli eventi storici, in tensione tra Oriente ed Occidente, con estrema competenza e lungimiranza; come Nuria Schoenberg Nono, Musa ispiratrice del suo GiGi e grande, sensibile curatrice di eventi e pubblicazioni legate al suo mondo; come Jeannine Burny, la Musa ispiratrice del poeta belga Maurice Carême, sul quale ho

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ancora mille cose da dire; come tutti quelli che sono entrati dal vivo nella mia esperienza, che hanno trovato spazio in questa Rivista e che rappresentano mondi da conoscere, da amare, da difendere, mondi nei quali rintracciare quel filo conduttore che porta a sostenere ed a rinforzare la dignità del nostro essere, qui ed ora, in verità e in ricerca. Ti scriverò dal Friuli, dandoti contezza del Premio Nonino, istituito da Giannola e Benito Nonino, giunto al suo quarantesimo anno: nel 1977 è stata inserita la sezione 'Premio Letteratura', allora presieduto da Mario Soldati, poi nel 1984 l'evento si è allargato a Premio Internazionale (tutte le informazioni mi sono state gentilmente date da Fabiola Modonutti, dell' Ufficio Stampa della Distilleria Nonino). Avrò il cuore in palpito, quando riuscirò ad arrivare in Friuli, in quella terra che Maria Grazia Lenisa si è portata dentro, nelle parole, nei versi, nelle vene. Un abbraccio grande, in nome della Vita. Ilia Carissima Ilia, è necessario ricordare il tuo Papà sempre, anche se, in particolare, il 16 gennaio, giorno (nel 1971) della sua scomparsa. Bisogna fare come tua sorella Aida, il cui ricordo, veramente stupendo, è apparso nel novembre dello scorso anno, proprio su queste nostre pagine. Giambattista Vico, uomo del nostro tempo - così come tu scrivi (pag. 17) -, saldamente e coraggiosamente ancorato alle idee che circolavano nel Meridione d’Italia e nelle nazioni dell’Europa di allora, era anche un intellettuale proiettato nel futuro, perché il respiro dell’umanità intera potesse accedere a spazi sempre senza frontiere materiali e ideologiche. Il suo pensiero si distendeva libero, senza farsi condizionare da alcun potere, mai piegato neppure su se stesso, proiettato sui fermenti e gli avvenimenti che gli pervenivano e che si svolgevano da e in ogni parte del mondo. Il ritratto che tu ne dai, sulla scia degli studi del filosofo Roberto Esposito, è fervoroso e accattivante e sarà apprezzato dai nostri lettori. Maria Grazia Lenisa è totalmente ancora da esplorare. Il mio piccolo saggio vuole soltanto ricordarla e lo farò ancora con la pubblicazione delle sue lettere. Non è, perciò, sufficiente a toglierla dall’ oblio e chiarire ogni aspetto e ogni tema della sua


POMEZIA-NOTIZIE

Febbraio 2015

straordinaria e, per certi aspetti, anche discussa poesia. Formatasi alla corrente del Realismo Lirico, l’ha, poi, se non tradito, almeno ampiamente superato a partire da Erotica. So che ne era consapevole, pur non confessandolo esplicitamente: “Il mio intento ci scriveva il 5 maggio 1984 - è la provocazione a tutti i livelli”, ciò che non risponde ai canoni della corrente fondata da Aldo Capasso, che non era certo per le provocazioni. È lei a confessarmi, in una lettera del 4 ottobre 1990, che la sua poesia nel Realismo Lirico ormai era “uno strappo”. L’ultima poesia lenisiana ha più del Palazzeschi che del Capasso. Il suo livello provocatorio era salito a tal punto da inventarsi personaggi come - per esempio - il poeta commerciante di diamanti Max Bender, assieme al quale, alla fine del 2003, compone Il canzoniere bifronte, da me pubblicatole nel Quaderno n. 50 de Il Croco del marzo 2004 e introdotto da Pietre Visser, di Amsterndam, altra sua invenzione, fino a prova contraria, almeno nella composizione del testo e nel gioco delle parti. La Lenisa non è stata la sola a partecipare alla violenza sulla nostra lingua, giacché sono stati in molti a praticarla. C’è stato un periodo - e non è detto che si sia concluso - nel quale ci si è dilettati - Lenisa compresa - a elasticizzare il linguaggio - ne accenno nel saggio -, con la moda-gioco degli “evento, tra-mando, ti-moroso, tra-scendenza, corrodono, ti-tubante, di-sceso, sol-levata”, senza alcuna reale necessità e senza efficaci risultati, perché ancora non c’è stato uno solo in grado di spiegarmi la differenza sostanziale e geniale tra “trascendenza” e “trascendenza”. Anche lei ha usato il punto fermo o la virgola prima di una parentesi (moda ormai divenuta quasi regola), quando la forma corretta è mettere la punteggiatura solo dopo, altrimenti è come se la si mettesse doppia; anche lei ha usato spazio dopo la parentesi e prima di chiuderla, o prima dei punti esclamativi e interrogativi. Si dirà, sciocchezze! Già, sciocchezze, piccolissime trasgressioni fatte apposta (altrimenti che trasgressioni sarebbero?), per distinguersi, come, ancora, il frantumare il verso in tanti brani anche nel caso di meravigliosi e sonanti endecasillabi: per la moda, cioè, per il gusto di trasgredire, assassinare l’armonia. C’è molto da dire sul realismo Lirico e sulla fedeltà ad esso di tanti poeti- me compreso - del Novecento; come c’è quasi tutto ancora da scoprire di Maria Grazia Lenisa, che è stata e resta, comunque, una delle nostre grandi poetesse (e dico poetessa e non poeta, altra trasgressione, alla quale tutte le donne che scrivono versi dovrebbero ribellarsi, per la dignità della loro bella condizione di natura).

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Un fraterno abbraccio. Domenico AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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