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Interrogandoci sulla poesia di
CORRADO CALABRÒ Intervista di
CARLO DI LIETO La matrice della sua “poesia d’amore”. ’amore è forse la principale porta della poesia. L’amore rompe la scorza del nostro ego, ci spinge a uscire dall’incomunicabilità e, al tempo stesso, nel momento cioè in cui avvertiamo un’immagine nuova di bellezza – un’immagine che vediamo noi soli-, ci spinge ad usare un’espressione inedita, tutta nostra, forse indicibile, per esprimerla. Ci spinge, quindi, alla creatività. E’ talmente forte la spinta dell’ amore che, dopo aver cercato di fare di noi carne e anima dell’altro-da-sé e dell’altro 1)
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Nell’interno: Il pensiero magico e la speranza, di Rossano Onano, pag. 8 Irène Némirovsky: Il bambino prodigio, di Marina Caracciolo, pag. 11 Leivi e dintorni, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 14 Curzio Malaparte, di Antonia Izzi Rufo, pag. 18 Il bacio sotto le stelle di Antonio Angelone, di Luigi DeRosa, pag. 21 Intervista a Nazario Pardini, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 23 La materia grezza di Aurora De Luca, di Eugenio Nastasi, pag. 28 Maria Teresa Epifani Furno, di Leonardo Selvaggi, pag. 30 Domenico Defelice: Maria Grazia Lenisa, di Tito Cauchi, pag. 35 Giornata del ricordo delle Foibe, di Giuseppe Giorgioli, pag. 38 Premio Città di Pomezia 2015 (Regolamento), pag. 41 I Poeti e la Natura (Pablo Neruda), di Luigi De Rosa, pag. 42 Notizie, pag. 58 Libri ricevuti, pag. 63 Tra le riviste, pag. 65
RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Sui sentieri del Figlio, di Ciro Canfora, pag. 44); Elio Andriuoli (Scritto nelle saline, di Viviane Ciampi, pag. 45); Roberta Colazingari (Maria Grazia Lenisa, di Domenico Defelice, pag. 46); Carmelo Consoli (Materia grezza, di Aurora De Luca, pag. 46); Domenico Defelice (Il romanzo e la verifica trascendentale, di Andrea Bonanno, pag. 47); Aurora De Luca (Elogio alla mimosa, di Paola Insola, pag. 48); Luigi De Rosa (Dal seno dell’aurora, di Giovanni Maurilio Rayna, pag. 49); Salvatore D’Ambrosio (Materia grezza, di Aurora De Luca, pag. 49); Maria Antonietta Mòsele (Voglio silenzio, di Rodolfo Vettorello, pag. 51); Maria Antonietta Mòsele (Michele Frenna nella sicilianità dei mosaici, di Tito Cauchi, pag. 52); Maria Antonietta Mòsele (Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa, di Luigi De Rosa, pag. 52); Maria Antonietta Mòsele (El retrao femenino, di Carlos Chacon Zaldìvar, pag. 53); Laura Pierdicchi (Elogio alla mimosa, di Paola Insola, pag. 53); Andrea Pugiotto (Castelnuovo, terra di canti e di suoni, di miti, di Antonia Izzi Rufo, pag. 54); Andrea Pugiotto (Tutto cominciò con un’estate indiana, di Milo Manara, pag. 55); Andrea Pugiotto (Prime emozioni, di Tito Cauchi, pag. 56).
Lettere al direttore (Ilia Perdrina a Domenico Defelice), pag. 66
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Caterina Felici, Alda Fortini, Nazim Hikmet Ran, Attila Ilhan, Filomena Iovinella, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Rossano Onano, Ciro Rossi, Francesco Terrone, William Wordsworth
carne e anima nostra, ci induce all’oltre da entrambi noi stessi. Racconta Platone (nel Convivio) che in principio gli uomini erano l’uno e l’altro (αμφότεροι). Un giorno Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in
due. Da allora ciascuno di noi è il simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente. Per curare questa lacerazione Zeus inviò Amore, colui che cerca di medicare l’umana natura riconducendo all’ antica condizione, cercando cioè di fare uno
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ciò ch’è due. La metà separata cerca l’altra parte incontentabilmente, finché non la trova. La trova? Raramente. La cerca? Certamente. L’amore ci rivela la nostra incompletezza e il bisogno d’integrarci nel rapporto con l’altro. L’altro-da-sé ci manca perché e finché non si realizza l’incontro, l’incastro. Ci manca quando l’intesa non c’è più. Ma ci manca, comunque, nella misura del divario intercorrente tra la nostra aspettazione e la realizzazione del rapporto, di qualsiasi rapporto. L’ amore, insomma, ci manca sempre, in qualche misura. C’è una potenzialità enorme nel sentimento d’amore in incubazione. Ma è proprio l’impossibilità di far coincidere la potenzialità con la realizzazione a far scattare e ad alimentare l’amore, come tentativo- irrinunciabile (a pena di rinunciare, ci sembra, alla ragion d’essere della nostra stessa vita), e inattuabile- d’immedesimarci con l’altro-dasé. Cosa ci spinge ad innamorarci? Se la nostra individualità ci bastasse non ci innamoreremmo. Se la vita ci bastasse non si farebbe poesia (possiamo dire, arieggiando Pessoa). In amore, come in poesia, a spingerci è il bisogno della parte mancante al senso-non senso della nostra vita. L’apparizione dell’amore può essere fulminante. Sei apparsa sul mio sentiero come una nuvola fredda che in un istante è grande quanto il cielo. (“Natura fredda”) Ma, quasi subito dopo l’inizio dell’ innamoramento, avvertiamo un senso d’ insufficienza. Perché? L’amore è figlio di povertà (πενία) afferma Socrate. La penuria di te mi affolla l’anima enuncia la mia poesia ”Ressa”. Puisque ce qu’on a obtenu n’est jamais qu’un nouveau point de dèpart pour dèsirer davantage. (Marcel Proust, A l’ombre des jeunes filles en fleurs). “Sei la mia nostalgia di saperti inaccessibile
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persino nel momento stesso in cui t’afferro” ha scritto N. Hikmet. Sì, l’amore tende a più di quanto non possa raggiungere. Ecco perché l’amore è sempre accompagnato da un senso di mancanza. Se esiste una ragione perch’io t’ami / ci sei nella misura in cui mi manchi, si legge nel mio “Marelungo”. Lo stesso nostro modo di relazionarci con l’ altro, nel rapporto a due, è in gran parte immaginato unilateralmente. La reciprocità dell’ amore nasce dal rapporto speculare, non da una proprietà commutativa, dell’amore (l’ amore inclina piuttosto alla proprietà transitiva). E, in un giuoco a rimando di specchi, molti sono gli inganni dei sensi e vi è annidato ogni giorno il rischio della delusione, se non della disillusione: S’inoltrano in mare gli amanti / come Alice entrava nello specchio; / cercano dimensioni al loro amore / - di sé perdutamente innamorato - / che siano almeno a misura d’oceano. / Ma prima o dopo tornano alla riva / portando, a dondolo, un secchiello d’acqua. /Un po’ come l’amore è la poesia (“Il vento di Myconos”). L’amore –l’Amore con la a maiuscola- ci sfiora, balena e sparisce. Prima o poi il vento s’affloscia, l’amore o finisce o si ridimensiona nel quotidiano; diventa routine, assuefazione dell’uno all’altro, vale a dire reciproco adattamento di due soggetti diversi; non compenetrazione, integrazione in un solo frutto delle due mezze arance che un dio aveva separato all’origine e un altro dio ha fatto sì che si ritrovassero e riconoscessero. L’amore, tanto atteso, trascorre come un’ala e di esso resta solo la visione confusa e inquietante d’un sogno. Se un po’ alla volta mi stai dimenticando amore mio a poco a poco ti scorderò anch’io. Ma se un mattino ravviandoti i capelli non ti ricorderai d’aver sognato vuol dire che quel sogno amore mio non l’ho sognato mai nemmeno io. (“Variazioni”)
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L’amore è come il mare: lo si porta verso il petto a ogni bracciata ma non lo si trattiene. Eppure chi s’inoltra nel mare non dimentica più quella sensazione d’indeterminatezza e di appartenenza al tempo stesso. Se non sognassi non avrei un passato Non appartiene al navigante il mare che ha solcato Non trattiene chi nuota altro che il sogno del mare che ha abbracciato. (“Mi manca il mare”) L’immedesimazione con l’altro-da-sé è una scommessa sfuggente. Come il mare, appunto; come i sogni; e come la poesia. 2) Quanto c’è di autobiografico nella sua scrittura? “Autobiografia? Certo, ma non la mia” potrei dire ricorrendo a un’espressione famosa. Se non attinge dalla vita la poesia non è autentica. « I versi non nascono gli uni dagli altri. La poesia per poeti non esiste. Non c’è che una poesia per i poeti: la vita. I versi nascono dalla vita, non da altri versi »: sono parole di V. Shalàmov. I poetanti, i letterati a una dimensione che si riconoscono solo in un certo tipo di letteratura e che coltivano un’impoverita rappresentazione della realtà sono come i Koala che si nutrono esclusivamente di foglie di eucalipto, o i Panda che mangiano solo canne di bambù: specie destinate a debilitarsi e intorpidirsi col depauperamento del valore nutritivo del loro alimento. «Il vero poeta sa di terra», diceva Goethe; di terra, di mare, di voglia d’oceano, d’illimite. Nel mio romanzo Ricorda di dimenticarla il vitalismo della narrazione anticonformista dell’eros trae innegabilmente alimento anche dalla vita vissuta: la mia vita è stata attraversata (e forse sconvolta) da amori intensi. Ho amato la bella per la sua bellezza, impronta della dea; la fredda per il desiderio di farla palpitare (e quasi sempre ci sono riuscito); la fedele perché è il mio porto; la sfuggente per la sua elusività; la passionale perché ho raggiunto con lei la fusione erotica, la com-
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pulsione delle due mezze arance che fremendo si riconoscono e si fanno una; l’ intelligente per il dialogo; la sensibile per la comprensione profonda; l’istintiva perché sa, senza saperlo, cose che gli animali sanno e che gli uomini hanno dimenticato. La poesia attraversa il vissuto e ne porta i segni e le cicatrici (le porte della comprensione sono l’amore e il dolore). Ma tende ad andare oltre, medianicamente, come nell’evocazione di presenze inafferrabili e che pure ci parlano. Nella poesia si condensa, si sublima tutto quello che il poeta ha dentro e -ancor piùquello che non sapeva di aver dentro. Il poeta scrive perché non può tacere quello che non sa di avere dentro. Innegabilmente la mia poesia dice il mio vissuto, ma lo dice in un modo in cui nessuna autobiografia avrebbe saputo dirlo. Lo dice, tra l’altro, immedesimando la mia esperienza di vita nella natura, immergendola nel mare, affidandola al vento e…all’amore. All’amore raggiunto e afflosciatosi col cadere del vento, all’amore inseguito e non raggiunto, all’ amore non cercato e trovato per serendipity. Non ho esercitato, se non involontariamente, potere o pressione sulle donne amate. Ho subito piuttosto la suggestione irresistibile dell’ attrazione che esercitavano su di me. Nessuno ha tanto potere su di noi quanto colei (colui) cui noi glielo diamo; ancora di più ne ha colei (colui) cui non possiamo e non vogliamo resistere. E nessun potere è così grande quanto l’amore. Il peggior dittatore può condizionare i nostri comportamenti con restrizioni e con il timore di punizioni, può limitare la nostra libertà d’espressione, ma non la nostra libertà di pensiero. L’amore, l’amore divampante, totalizzante ci rende incapaci di pensare ad altro; tre, quattro, dieci volte al minuto, il pensiero di lei (lui) ci torna in mente, c’impedisce di concentrarci nel lavoro, di godere di un qualsiasi innocente divertimento senza di lei (lui): persino la bellezza di un’alba o di un tramonto diventa tormentosa perché vorremmo che l’altro-da-noi la condividesse. Quale tiranno
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ci guasta con la sua ossessiva immagine la visione d’un film, ci distoglie dal seguire il filo di un libro, una sequenza di versi, martellando sempre e solo il suo nome? Quel nome più insistente della pioggia battente, improfferibile come quello dell’arcano, ritmato come lo sciacquio cadenzato del mare alla battigia, entra onda a onda nella mente e ne scaccia il sonno, resta come un’eco somatizzata nell’orecchio interiore e rende febbricitante il dormiveglia; è una realtà aliena che si è impossessata di noi e che ci fa venire meno ogni altro riferimento, fa impazzire il nostro sistema informativo come un virus introdotto nel nostro software, altera i nostri sensori come accade alle balene che, smarrito l’ orientamento magnetico, s’arenano sulla spiaggia. La causa è lei o è in noi? E’ la stessa domanda che possiamo porci per la poesia; e vale la stessa risposta. Il messaggio poetico non sta in quello che il verso dice, sta nel non detto. Ma è un non detto indotto da quello specifico detto. Noi percepiamo quel messaggio poetico solo se siamo predisposti a recepirlo, solo se risponde a una nostra attesa inconscia. Solo, quindi, se interagiamo col poeta. Ma l’ interazione viene prodotta proprio da quel verso e da quello solo. Nessun altro può sostituirlo nella trasmissione di quel messaggio che, pure, esso non dice. Ci capita così, mentre amiamo quella donna e solo lei, d’incontrare altra donna che potremmo amare e che mostra di essere disposta all’amore verso di noi. Ma noi non possiamo interagire con lei, e anzi la fuggiamo, perché ci è precluso da quel sentimento dominante e esclusivo. Quale tirannia, come questa, s’impone nel nostro privato, nella nostra sfera più personale, plagia la nostra volontà e il nostro modo di vedere? Ebbene, Aristotele dice che quando non c’è altro mezzo per liberarsi di un tiranno è lecito ucciderlo. Sì, sia o non sia lei l’unica causa, bisogna uccidere dentro di noi la presenza di chi ci fa amare in tal modo. Ma ucciderla non basta, perché dopo resterebbe il suo ricordo, ineliminabile come “la
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presenza rimandata di un’assenza”. Occorre tutto un rituale raffinato di torture inaudite per soffocare, una a una, le cento teste di quell’idra. E’ una vendetta, certo, contro chi ci ha resi così succubi. Ma una vendetta ritualizzata. C’è una mia poesia, L’esorcismo dell’ Arcilussurgiu, in cui questo rito viene celebrato. E’ una poesia inquietante, in cui il dolore insopportabile provocato da una donna che ha preso l’anima del poeta fino al delirio porta a figurazioni atroci e adoranti. Il fine è di liberare l’innamorato da quella presenza ossessiva sottoponendo l’innamoratrice a una sequenza di allucinanti torture fino a farla morire per il suo peccato. Qual è questo peccato? E’ duplice: di averci drogato d’amore (anche se quella droga ci ha fatto uscire fuori del nostro ego e ci ha elevato al di sopra di noi stessi) e quello di non avere, lei, assunto quella droga. E’ una spacciatrice, una portatrice sana del male di cui ci ha contagiato. No, ucciderla non basta. Bisogna trasformarla attraverso una dedizione tanto esclusiva quanto spietata al suo dressage; bisogna privare una giovane donna bellissima –oh, inimmaginabilmente bella!- della sua bellezza, ch’è stato lo strumento attraverso cui si è impossessata demoniacamente di noi. E come? Beh, anche la donna più bella finisce per perdere la sua bellezza invecchiando. E quanto più è stata bella tanto più la vecchiaia la renderà repulsiva. Ecco, l’esorcismo, il sortilegio consiste in questo: nel far vedere all’innamorato adesso come sarà quella donna a ottant’anni, facendo affiorare sul suo volto la cattiveria, la colpa che lo deturpano. Qual è questa colpa inespiabile? L’ho detto: di non corrispondere l’ innamorato di un amore assoluto, omologo cioè al suo. 3) Amore sacro e Amore profano: sesso e amore… Certo, ci sono molte forme d’amore. Viene definito limerence dalla psicologa Dorothy Tennov lo stadio finale, quasi ossessivo dell’ amore romantico, una sorta di ultra attacca-
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mento. Se la mente cosciente è avida di denaro e di successo, quella inconscia ha sete dei momenti di trascendenza in cui, mettendo a tacere la skull line – la “linea del cranio”- ci abbandoniamo perdutamente all’amore per l’ altro, all’esaltazione per una missione da svolgere, all’amore di Dio (David Brooks, Le cinque virtù dell’uomo nuovo). Ho conosciuto delle persone meravigliose che abbracciano nel loro amore, con slancio senza pari, tutto il prossimo: i deboli, gli inabili, i derelitti, spesso non attraenti fisicamente e talora nemmeno spiritualmente, se non per l’ impronta che portano dentro. E anch’io ho sperimentato nuove forme d’amore con i figli, con i nipoti, con amicizie animate da una sensibilità comune (per la letteratura, la musica, la pittura, la filosofia, la storia, la fisica), non meno che da un’attrazione repressa. Ma non sarei sincero se non confessassi che ancora scuote l’anima mia Eros, / come vento sul monte / che irrompe entro le querce; / e scioglie le membra e le agita, dolce amara indomabile belva. (Saffo). Sì, in me Eros, / che mai alcuna età mi rasserena, / come il vento del nord rosso di fulmini, / rapido muove: così, torbido / spietato arso di demenza, / custodisce tenace nella mente / tutte le voglie che avevo da ragazzo. Sono ancora così, anche se dentro di me ora io trepido quando si avvicina, / come cavallo che uso alle vittorie, / a tarda giovinezza, contro voglia / fra carri veloci torna a gara (avrà riconosciuto i versi del mio concittadino Ibico nella traduzione di Quasimodo). Nel mondo d’oggi c’è facilità, c’è subitaneità negli incontri sessuali. Si potrebbe pensare, quindi, che il rapporto corrivo con l’altro/a ci strappi alla nostra solitudine esistenziale. Ma non è così. L’amore è fatto anche (e molto) di rapporto sessuale, ma va misteriosamente al di là. Il cambiamento più significativo cui assistiamo è questo: è stata (quasi) sempre la donna a scegliere: ma una volta la sua scelta era in seconda battuta, limitata cioè agli uomini che avevano fatto delle avances o, quanto meno, alla ristretta cerchia degli uomini con cui la
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donna aveva frequentazione. Oggi la donna va in giro per il mondo, frequenta i più diversi ambienti, punta l’uomo che le piace a prescindere dalla condizione sociale (o in considerazione di questa), dall’età, dalla circostanza che sia già sposato, dal colore della pelle, e prende spesso lei l’iniziativa: vuoi per una notte di sesso come per un viaggio insieme o per un rapporto più duraturo. Oggi il contatto virtuale, via internet, dà sfogo alle fantasie inibite ma non realizza un’ alternativa vivibile se non nella misura in cui si è disposti a barattare la realtà con la fiction; e questo è proprio quello che non pochi fanno. Il contatto tramite sms invece è stimolante, preparatorio dell’incontro, molto meglio di una conversazione. Le donne, oggi, mandano messaggi espliciti, spudorati, che non oserebbero dire a voce. Poi possono sempre dire d’avere scherzato (ma non scherzano affatto). Nel momento in cui un corpo si schiude all’ amore è come se aprisse gli occhi su un altro mondo; un mondo che guardava senza vederlo e che lo risucchia in un diverso contesto che comporta un cambiamento radicale. L’eros molte volte ne è il grimaldello. Ma l’ eros ci sfiora, ci travolge, si spegne. Può riaccendersi, ma non esaurisce il nostro desiderio di assoluto. Che non è solo di fare di due corpi uno: è di fare di due esseri uno. Sulla mia spalla stanca la tua guancia su su su sbianca il giorno sbiancano le labbra su su, ancora un colpo d’ala fin là dove l’ossigeno ci manca. (“Sbianca il giorno”) L’eros fornisce l’energia alla psiche, la psiche fornisce le ali all’eros. L’amore è una cosa strana: a volte può nascere addirittura dalla difficoltà di comunicare con l’altro-da-sé in modo diverso dall’eros. Senonché l’amore fisico, ancor più del sentimento d’amore, si rivela, alla lunga, una realtà deprivata rispetto al suo potenziale che ci aveva sgomentati come un oceano ignoto, come un viaggio interplanetario. Non per questo, tuttavia, è detto che l’amore, acceso dall’eros, venga meno. Persiste, spesso, muta-
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to; e alimentato dal ricordo. Persistente è l’amaro che il dolce troppo dolce lascia in bocca Stordisce più del vino fissare il cielo estivo dall’alba al tramonto Sto bene attento a non aprire gli occhi e a non allungare la gamba: si risente per anni l’assenza-presenza dell’arto amputato Tutta l’acqua del mare non placa la sete a chi non la può bere Lungo è il bisogno d’amore in chi t’ha amata. (“Retrogusto”) E il fatto che, al limite, l’amore possa sopravvivere al rapporto (alla sua inadeguatezza e persino al suo venir meno) offre all’amante una risorsa di cui l’amata non lo può privare: Ma c’è una cosa che non puoi riprenderti: / l’amore che al di là del capolinea / dei miei percorsi inconsci, / quest’amore che al margine estremo / della mia identità hai spalancato, / non ha bisogno della tua presenza. / Io me lo stringo addosso col lenzuolo / che mi fa da vela e da coperta. / C’è una soglia per ogni privazione: / l’eccesso, di per sé, ci anestetizza. // Dal tuo scaltrito volto di fanciulla / dal tuo corpo acerbo e irrequieto / da te stessa il tuo amore mi protegge. / Di quest’amore tu sei stata l’esca; / ma il legno che brucia, di se stesso, / delle sue stesse fibre s’alimenta. (“Il vento di Myconos”). In realtà più che la persona amata noi amiamo l’amore. E tuttavia è lei, la persona amata, a farci provare la terribile intensità del sentimento d’amore. Senza amore non si conosce appieno la nostra realtà esistenziale. Eppure l’ amore è un’ultrarealtà, è un protendersi oltre l’effimera concretezza del nostro quotidiano; esprime la tendenza al prolungamento, alla procreazione (ch’è una forma di creatività), alla rigenerazione dell’essenza fuggevole del nostro passaggio su questa terra. Solo la tensione verso il contatto con l’altro consente di sospendere quel circuito dell’identico in cui si risolve la vita individuale. Sentire il bisogno di andare oltre e rendersi conto che al di là del rapporto con la persona amata non c’è un al-
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trove, questo è l’amore. Dall’inizio mi manchi, come l’acqua alla sete del deserto. Mi manchi quando ti cammino a fianco: non vanno nella stessa direzione, se non per breve tratto, due treni su binari paralleli. Mi manchi quando sono con un’altra, come manca la freccia alla ferita che per la sua estrazione si dissangua. Ogni giorno mi manchi; e in ogni dove perché all’assenza di te non c’è un altrove. (“Ma più che mai”) Carlo Di Lieto Foto di prima pagina: Lo scrittore e poeta Corrado Calabrò a Melbourne, Australia, insieme alla poetessa Giovanna Li Volti Guzzardi, Presidente dell’Accademia A.L.I.A.S..
PIOVE Pare lamiera cupa il cielo. Violenta scroscia la pioggia, s’infrange in spruzzi sulla ringhiera del balcone, sui rami degli alberi, serpeggia in rivoli sui vetri, picchietta sui tetti, sembra in bollore sul lucido asfalto della strada. Rigurgitano i tombini; le automobili, passando sulla via, alzano ventagli d’acqua. Senso di solitudine nelle rare persone che procedono in fretta, divise fra loro da cortine di pioggia. Malinconia in me, avida di sole, dell’azzurra calma del cielo sereno. Caterina Felici
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Il gatto Kaspar e il maglione di Rozin
IL PENSIERO MAGICO E LA SPERANZA La bizzarra psicologia sperimentale della superstizione di Rossano Onano
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L ramo d'oro. Il pensiero magico e superstizioso pervade la nostra esistenza. Ha avuto peso nella mia formazione una frase leggiucchiata fra quelle disordinate dell'età giovanile. La frase affermava che il modo di pensare dell'umanità è cambiato nel corso del secolo scorso ad opera di quattro ragionatori: Marx, Einstein, Freud e Frazer. Il nome di quest'ultimo mi era sconosciuto. Ho indagato, e scoperto come la sua opera fondamentale (Il ramo d'oro) rappresenti il contributo più alto agli studi di antropologia culturale. Al contrario dei noiosi Marx ed Einstein, Frazer è uno scrittore entusiasmante. Non è possibile iniziare la lettura del ramo d' oro e lasciare lì perché annoiati. Frazer inda-
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ga le paure primitive dell'uomo nelle diverse culture, ed insieme le condotte che l'uomo adotta per combatterle. Il gatto Kaspar. Poi sono venuti gli studi di psicologia sperimentale. Tutti sanno che i gatti neri portano sfortuna. La superstizione avrebbe una ragione storica. I pirati saraceni imbarcavano gatti neri sulle navi, per difendere dai topi le loro scorte alimentari. Quando approdavano alle coste d' Europa, i topi abbandonavano le navi alla ricerca di cibi più raffinati. Incontrarne uno, significava che i saraceni erano sbarcati alla marina. Girare alla larga, per gli abitanti della zona, era cosa salutare. La spiegazione lascia un po' così. Bisognerebbe ammettere che i gatti dei saraceni fossero tutti neri, e i gatti d'Italia tutti chiari. In Inghilterra, dove i saraceni non sono mai sbarcati, i gatti neri non sono oggetto di superstizione. Al contrario. Il Savoy Hotel, a Londra, era famoso per la cucina eccellente e per un gatto nero di legno, alto 90 centimetri, collocato all'ingresso del locale. Nel 1898 un uomo d'affari sudafricano, tale Woolf Joel, prenotò una cena per 14 persone. All'ultimo momento, uno dei commensali diede forfait. Il proprietario del locale non si perse d'animo: collocò il gatto Kaspar a tavola, con tanto di tovagliolo e coperto completo. Da allora, e fino alla seconda guerra mondiale quando Kaspar venne rapito da una combriccola di ufficiali, al Savoy Hotel si servivano cene a comitive di 13 commensali, più gatto. Affezionato cliente del Savoy Hotel era nientemeno che Winston Churcill. Disinvolti riguardo al gatto nero, gli Inglesi sono come noi sensibili alla credenza che il numero 13 a tavola porti sfortuna. Uno dei commensali sarebbe destinato a morire. La spiegazione, facile, rimanda all'Ultima Cena. Destinato a morire, precisa Agatha Christie, sarebbe il primo ad alzarsi da tavola. Il che lascerebbe supporre che Nostro Signore, spezzato e distribuito il pane, abbia detto agli Apostoli: “Adesso vi lascio perché vado nell' orto di Getsemani a pregare”. In questo caso, il comportamento scaramantico di difesa sa-
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rebbe facile: si può pranzare tranquillamente in 13, e aspettare per alzarsi che prima qualcuno abbandoni la tavola. Meglio alzarsi per ultimo, non si sa mai. La credenza che rovesciare il sale sia cosa che porti disgrazia ha una spiegazione storica precisa: il sale serviva anticamente per la conservazione del cibo. I legionari romani venivano pagati con una scorta di sale, da cui il termine “salario”. Rovesciare il sale voleva dire perdere moneta, disgrazia. Lasciar cadere lo specchio, e spezzarlo, porta ugualmente sfortuna. La spiegazione è fornita dalle teorie psicoanalitiche: si chiama “fase dello specchio” la fase evolutiva del bambino che, guardandosi allo specchio, impara a riconoscere la propria immagine come persona “uguale al prossimo” ed insieme “diversa dal prossimo”. Vedere spezzata la propria immagine allo specchio significa vedere spezzata la sicurezza che l'uomo ha costruito di sé. La tangenziale di Londra. Il sentire comune di fronte alla superstizione oscilla fra due sentimenti contrastanti: non è vero ma ci credo, dichiarano i più possibilisti (nessuno ha cuore di dire che la superstizione è cosa intelligente); non è vero, non ci credo e chi ci crede ha uno psichismo orientato alla stupidità. A dirimere la questione si sono interessati illustri personaggi del mondo scientifico. Il paludato British Medical Journal, nel 1993, ha pubblicato l'esito di un'inchiesta effettuata osservando il flusso del traffico sulla tangenziale di Londra e i ricoveri ospedalieri per incidenti ivi accorsi nei giorni di venerdì (il venerdì porta male) con particolare riferimento al venerdì 13 (che più male di così non si può). Esito della ricerca: il flusso automobilistico diminuiva sensibilmente nei giorni di venerdì, segno che la superstizione condiziona il comportamento umano; i ricoveri ospedalieri, nonostante il traffico limitato, aumentavano sensibilmente, addirittura del 52% nei giorni di venerdì 13. Faccenda londinese, casistica alquanto limitata. A questo punto entrano in gioco gli psichiatri, con il ricercatore Simo Nayha, che ripete la ricerca coinvolgendo l'intera Finlan-
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dia, per un arco di tempo considerevole (7 anni). L'esito fu pubblicato sull'autorevolissimo American Journal of Psychiatry nel 2007. I decessi per incidente d'auto, nei giorni di venerdì 13, registravano un aumento del 38%. Con maggiore incidenza per il sesso femminile. Medici e psichiatri, in entrambi gli studi, trassero le conclusioni: chi si pone al volante, nel più iellato dei giorni iellati, si sente particolarmente nervoso, per ciò incorrendo più facilmente in errori di guida. Messagio: la superstizione uccide. Il cavallo di fuoco. Le difese scaramantiche appartengono ad ogni cultura. In Italia, fermo restando il venerdì, il giorno iellato non è tanto il 13, quanto il 17. Mio padre, militare in Aeronautica, mi raccontava che i bravi aviatori, di venerdì 17, appena possibile evitavano di alzarsi in volo. La cultura giapponese, meno pitagorica della nostra, non assegna importanza ai numeri, ma ai segni zodiacali. Il calendario giapponese qualifica gli anni servendosi di due fattori: uno di 12 animali (la scimmia, la capra, eccetera) e l'altro di 10 elementi (la terra, l'aria, i metalli e così via). Càpita così che, ogni 60 anni, intervenga il terribile anno del Cavallo di fuoco, funesto soprattutto per le donne. Nel 1682 la soave fanciulla Oshichi si innamorò di un sacerdote, e accese un fuocherello in rappresentanza del suo amore per lui. Purtroppo Oshichi era nata nell'anno del Cavallo di fuoco, cosicché il fuocherello divampò fino a distruggere quasi tutta la città di Tokio. Risale a questo episodio la credenza che le donne nate nell'anno del Cavallo di fuoco siano apportatrici di sventura. L'ultimo anno di fuoco fu il 1966. Con puntiglio nipponico, il ricercatore Kanae Kaku studiò l'impatto del pensiero superstizioso sull'intera popolazione del paese, pubblicando gli esiti negli Annales of human biology. Beh, saltò fuori che gli evoluti giapponesi limitarono l'esercizio procreativo nel corso del 1966 (25% di nati in meno) per il timore di dare alla luce una bambina iellatrice. Quando poi la gravidanza era in atto, si ricorreva all'aborto, che aumen-
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tò significativamente in relazione al sesso femminile del nascituro. Il prossimo anno del Cavallo di fuoco correrà nell'anno 2026! La guerra del Golfo. A scombinare le carte interviene, a questo punto, lo studio condotto da tale G. Keinan in Israele, pubblicato sul Journal of Personality and Social Psycology nel 1994. I figli di David sono sempre stati speciali per vedere le cose del mondo da un loro personale punto di vista. Durante la prima guerra del Golfo (1991) era diffusa l'opinione che alcune città (Tel Aviv) fossero più esposte al rischio di attacco da parte dei missili Scud rispetto ad altre (Gerusalemme). Il pensiero magico, da quelle parti, prevede che in caso di calamità imminente sia consigliabile stringere la mano a un individuo fortunato, oppure portarsi dietro un amuleto. Gli studiosi di Tel Aviv predisposero un questionario, nel quale risultò che i soggetti residenti nelle zone soggette agli attacchi missilistici avevano adottato le opportune condotte scaramantiche: a Tel Aviv era tutto uno stringersi le mani e passeggiare portandosi nelle tasche amuleti di ogni genere. Messaggio: la superstizione non uccide affatto l'uomo, ma anzi lo soccorre. Gli abitanti di Tel Aviv, anziché darsi sopraffatti alla paura dei missili, comunque vivevano, e passeggiavano. Il maglione di Rozin. Intorno alla superstizione ho coltivato, a partire dagli studi liceali, idee piuttosto confuse. Calpurnia, la brava moglie di Cesare, alle Idi di marzo dice allo sposo: “Oggi non uscire di casa, perché mi sono immaginata cattivi presagi”. Calpurnia era superstiziosa. Cesare no, esce di casa e viene ammazzato. Fosse stato superstizioso come Calpurnia, Cesare si sarebbe salvato. Successivamente, agli studi liceali si è sostituito Frazer, ad esempio con la sua “legge del contagio”. Secondo una teoria primitiva, quando un oggetto entra in contatto con una persona entra in certo modo in contatto con l' “essenza” di quella persona. Se la persona è maligna, anche l'oggetto diventa maligno. La parte razionale di noi è portata a ridere di
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questa sciocchezza. A questo punto interviene la ricerca di Paul Rozin, dell'Università della Pennsylvania, pubblicato su Ethos nel 1994. Il ricercatore chiese agli intervistati se fossero disposti a indossare un maglione blu e morbido, stile unisex, lavato due giorni prima e mai da nessuno utilizzato. Non c'è problema, rispondono tutti. Quando il ricercatore chiarisce: il maglione è stato lavato due giorni prima, però era stato indossato per mezz'ora da un soggetto che aveva contratto l'AIDS a causa di una trasfusione di sangue. All'improvviso, nessuno degli intervistati osò più toccare il maglione. Il ricercatore: il maglione apparteneva a un pluriomicida. Nessuno volle toccarlo. Ultima prova: scegliete fra un maglione caduto tra le feci di un cane e mai lavato (a lavarlo pensateci voi) e un maglione appartenuto a un pluriomicida. Gli intervistati preferirono indossare il maglione sporcato dalle feci del cane. Conclusione: il pensiero magico, anche nella moderna civiltà occidentale, gode di ottima salute. La speranza. Preferisci il maglione blu sporcato anziché quello appartenuto a un malato di AIDS? Sei stupido, senza dubbio. Ma intanto la superstizione ti riferisce di un pericolo, verso il quale è opportuno adottare un comportamento di difesa, magari più intelligente. Il comportamento superstizioso, dico oggi a chi se ne preoccupa, è come uno dei segnali rossi che dicono: qualcosa che non va nell'automobile che stai guidando. Allora, devi fermarti per scoprire di quale guaio si tratti. L'unica cosa sbagliata è trascurare il segnale, e continuare la guida. Il paragone, alla mia intelligenza, sembra piuttosto brillante. Peccato che, nel pronunciarlo, la maggior parte degli interlocutori mi guardi con qualche sospetto. E invece: tieni il pensiero magico, e vivi in pace. Le religioni, tutte quante garantisce Frazer, coltivano le procedure magiche. E' superstizione, in fondo, avvertire un pericolo e pregare chiedendo l'intervento di Dio. Si chiama: speranza. Sempre meglio di una razionale disperazione. Rossano Onano
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L’affascinante prova d’esordio di una grande scrittrice:
IRÈNE NÉMIROVSKY: IL BAMBINO PRODIGIO di Marina Caracciolo
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RÈNE (propriamente Irma Irina) Némirovsky, scrittrice di origine russa, figlia di un ricco banchiere ebreo ucraino, nacque a Kiev nel 1903 e morì nell’agosto del 1942, non ancora quarantenne, nel campo di sterminio nazista di Auschwitz. Durante l’infanzia dovette trasferirsi insieme ai genitori in varie città del Nord Europa, prima a San Pietroburgo, poi in Finlandia e in Svezia, per via degli spostamenti connessi al lavoro di suo padre, mentre all’interno del nucleo famigliare continuava a vivere il disagio di un perenne conflitto psicologico con la madre, donna dal carattere insensibile, egoista e superficiale. A soli ventuno anni si laureò in Lettere alla Sorbona; due anni dopo sposò Michel Epstein, un ingegnere russo emigrato che divenne poi banchiere come suo padre, e fissò stabilmente insieme al marito la sua residen-
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za a Parigi. Donna avvenente e di rara intelligenza, spigliata ed elegante, assai colta e capace di parlare correntemente cinque lingue tra cui l’yiddish, Irène entrò presto in contatto con numerosi esponenti dell’élite culturale francese, da cui ricevette subito stima e ammirazione. Quindi iniziò a scrivere articoli e brevi racconti che faceva pubblicare su diversi quotidiani, finché si fece conoscere da alcuni editori che seppero intuire e valorizzare il suo originale talento. Col tempo, tuttavia, i suoi scritti suscitarono opinioni molto controverse, in bilico tra il freddo apprezzamento e l’invincibile avversione: assai originale nella sua capacità espressiva e rappresentativa, la Némirovsky fu alquanto osteggiata dalla critica antisemita per via delle sue origini; ma non meno ebbe a subire l’antipatia della stessa intellighenzia ebraica per il fatto di tracciare spesso nei suoi racconti un ritratto ironico, obiettivo ma stranamente distante, se non pure in qualche caso grottesco, caricaturale e beffardo, di tanti personaggi appartenenti alla sua stessa razza, come ad esempio David Golder, il protagonista dell’omonimo romanzo (1929) che le diede un’immediata notorietà. La sua fama letteraria vera e propria, che la portò ad essere considerata forse la più grande scrittrice di lingua francese della prima metà del Novecento, è in ogni caso quasi del tutto postuma. Con la persecuzione dovuta alle leggi razziali le fu vietata ogni possibilità di pubblicare (così come al marito fu tolto il lavoro). Arrestata dalla Guardia Nazionale nel luglio del 1942, fu deportata nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Da quel momento di lei e dei suoi scritti scompare ogni memoria. Finché, parecchi anni dopo la fine della guerra, Dénise Epstein, la maggiore delle sue due figlie – che si erano sentite abbandonate e l’avevano persino odiata per non aver voluto sfuggire alla cattura dandosi alla latitanza, come in effetti avrebbe potuto fare – trova in un baule una quantità di fo-
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gli manoscritti (romanzi e racconti tra cui le pagine di quello che poi sarebbe stato giudicato il suo capolavoro, Suite francese) e decide di curarne ordinatamente la pubblicazione. Proprio agli esordi della sua carriera di scrittrice – Irène aveva appena vent’anni e non aveva ancora completato gli studi quando lo scrisse nel 1923 – troviamo questo incantevole racconto lungo (dove la vellutata euritmia espressiva unita a una sontuosa immaginazione farebbe pensare ad un autore già maturo) in cui si rivela pagina per pagina la precisa pittura di una realtà oggettivamente rappresentata mentre quasi per magia essa si converte in una sorta di sogno malinconico e prezioso, in una favola dal finale lugubre e dalla morale sottintesa, visibile nel suo sottile simbolismo eppure nascosta come un fiume sotterraneo che attraversa in segreto tutta la vicenda. Un inno, peraltro, elevato all’eccezionale fascino della musica e della poesia, a un genuino incantesimo, delicato e fragile, che può sgretolarsi e irrimediabilmente distruggersi se lo si soffoca con dottrinari artifici e con pedanterie erudite e tediose. Protagonista è Ismail Baruch, un povero ragazzo ebreo figlio di un cenciaiolo, nato sulle sponde del Mar Nero in una famiglia di quattordici fratelli che perde tutti, uno dopo l’altro, o morti nell’infanzia o emigrati lontano. Lui sopravvive da solo, come unico bellissimo fiore di una pianta inaridita. E la sua solitudine si trascina fra la riva del mare e le sudicie vie del porto e la piazza del mercato, o anche nelle taverne malfamate dove marinai, facchini e vagabondi cantano la loro inconsolabile tristezza. Con la miracolosa bellezza di una voce limpida, dolce e vibrante, Ismail comincia lui pure a cantare le canzoni che il suo cuore di fanciullo inventa lì per lì, prendendo fra le mani la propria ed altrui malinconia, per rivestirla spontaneamente di una musica antica e nuova ad un tempo. Così ha inizio il “prodigio”…
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«La musica agiva come il vino su tutti quei temperamenti grossolani e sognanti; ascoltavano, sbigottiti, le parole nuove. Ismail continuava a cantare, e il suo cuore diventava leggero, leggero nel petto, come un uccello in procinto di spiccare il volo. E una strana lucidità pervadeva il suo pensiero, come quella suscitata talvolta dall’ ebbrezza o dalla febbre. Per tutta la notte lo fecero cantare; riprendevano in coro i ritornelli che lui scopriva nella sua anima, come tesori che Dio vi aveva deposto da tempo immemorabile; gli versavano da bere quando si fermava, esausto; infine tacque e, senza farsi male, rotolò giù dal parapetto sulla sabbia, dove si addormentò tra le bucce e i cocci di bottiglia.» Così poteva rimanere il fanciullo Ismail, bello come la statua marmorea e delicata di un efebo, innocente cantore rapito dall’ umana infelicità. Ma un giorno nella taverna arriva il barin, un signore sconosciuto, forse un nobile possidente dei dintorni. Egli paga da bere a tutti, distribuisce monete d’oro, fa ballare le donne di piacere e lui stesso si ubriaca come una spugna. È ricco ma visibilmente infelice. Il fanciullo dai grandi occhi e dai folti riccioli diventa per lui il delizioso giocattolo da portare alla sua “principessa”, una donna inquietante, ora dolce ora crudele, che l’ha soggiogato con il volubile e sinistro imperio della sua passione. Ismail viene quasi rapito a forza, e dopo un viaggio in piena notte su una slitta che striscia rapida sulla neve, giunge alla dimora della donna misteriosa, adorna di lunghe vesti nere e di un unico splendido diamante. Nella sua casa, nel “Villaggio Nero” frequentato dagli zingari, il giovinetto conosce una vita nuova e affascinante, fatta di chiassose compagnie, di lussi ignoti, di cibi sopraffini, di canzoni barbare e memorabili, di danze esotiche e trascinanti. L’altera “principessa” lo prende a ben volere, lo protegge e gli dona tutto quanto può desiderare. Dal ragazzo cencioso, dal piccolo “miserabile,
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ignorante ed affamato” essa vuole trarre un raffinato principino che sembri uscito da un ritratto di corte di Van Dyck. Ismail studia materie nuove, impara a capire libri difficili, apprende a suonare più di uno strumento, a cavalcare. Gli ormai vecchi genitori sono orgogliosi di lui ma quasi non lo riconoscono, le rare volte che torna a trovarli. La raffinatezza che ha acquisito, però, stranamente corrode e distrugge a poco a poco il suo genio innato… Il ragazzo ne somatizza gli effetti, si ammala all’improvviso di un’infermità sconosciuta. Poi guarisce, ma è l’ultimo superamento, l’ultima rinascita… Continua a crescere, diventando da prezioso ninnolo un giovane uomo. Nella pace della villa di campagna della principessa conosce e contempla gli spazi sterminati, la bellezza immensa della Natura. Intanto passano le stagioni: «…il magico inverno russo s’impossessò della terra, degli alberi e del fiume; ci furono giorni di un’immobilità, di una serenità sorprendenti, cieli rosa sopra foreste simili a zucchero candito, ore di silenzio bianco che erano turbate solamente dai sonagli lontani delle slitte dei boscaioli; ci furono sere di apoteosi, di meravigliosi tramonti che incendiavano le steppe, e notti gelide dove tremolavano stelle enormi e blu, vicine come sguardi amichevoli.» Il giovinetto, rannicchiato nel tepore della biblioteca del palazzo della principessa, scopre i capolavori della letteratura e della poesia, tenta di conoscere le imponenti opere della critica e le severe leggi che governano il narrare e il poetare. Si sente sempre più piccolo, impotente, annientato. Vorrebbe copiare quella grandezza ma non gli è e non gli sarà mai possibile. Le dolci, malinconiche canzoni che improvvisava da bambino nelle bettole del porto seducendo il suo umile uditorio, ora gli paiono rozze e barbare e prive d’ingegno; ma nemmeno sgorgano più dal suo cuore e dalla sua voce ammutolita.
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È scomparso il bambino prodigio: al suo posto è cresciuto un ragazzo goffo, incapace, profondamente infelice. «Un’immensa tristezza lo schiacciava, un sentimento spaventoso di decadenza, una vana e sterile rivolta contro la vita, gli uomini, Dio… ». Neppure il breve idillio adolescenziale per la giovanissima Rachel può sottrarlo a questo avvilente torpore fisico e morale. Tanto meno il ritrovare dopo molto tempo il barin, l’infelice amante della principessa, più di prima consumato dall’alcol e dalla maligna febbre di una cocente delusione, amorosa ed esistenziale insieme. Ismail Baruch, perduto il raro fiore del suo prodigio, si sente un comune, inutile individuo, spoglio di quell’eccezionalità divenuta sostegno e ragione di vita. E alla sua vita, allora, preferisce rinunciare: come quel cavallo bruno sul cui corpo disteso quasi inciampa una notte, per strada; povero animale forse soppresso, perché ormai vecchio, azzoppato e buono a nulla… Così finisce, in una nuda e muta disperazione, questo lungo racconto a cui la giovane autrice volle negare un superamento conclusivo più fiducioso e ottimistico, quasi timorosa di lasciarlo cadere nella consolatoria mediocrità di un lieto fine. La vicenda termina come rigirandosi lentamente verso il suo punto d’origine, verso quella buia ma rassegnata afflizione che serpeggia fin dalle prime pagine; dopo averci raccontato di un talento meraviglioso ma snaturato e sopraffatto, di un sogno dissolto come un’incantevole bolla di sapone che scompare d’un tratto insieme ai suoi fantastici colori e alla sua sferica perfezione. Marina Caracciolo (Titolo originale: L’enfant génial. Trad. e note di Maurizio Ferrara. Passigli, Firenze, ottobre 2014; pp. 77, € 8,50. In copertina: elaborazione grafica di E. Manet, L’enfant aux bulles de savon. Museu Calouste Gulbenkian, Lisbona).
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MIRNA BRIGNOLE E CESARE FERRANDO: LEIVI E DINTORNI EDICOLE VOTIVE SUI PERCORSI DELLA FEDE di Liliana Porro Andriuoli ’EDICOLA, nella sua accezione di piccolo tempio (dal latino aedicula che deriva da aedes, tempio), custodisce, quasi sempre, al suo interno la statua o il dipinto di una divinità. Nel mondo grecoromano questi tempietti erano per lo più dedicati ai Lares: se protettori della comunità, si trovavano ai crocicchi delle vie, se protettori della famiglia, erano posti all’interno della casa. In tempi a noi più vicini sono invece dedicati a Santi, o più frequentemente alla Vergine Maria, nelle sue varie iconografie, e possiamo vederne ancora molti, oggigiorno, sia nei centri abitati che in luoghi isolati, e finanche lungo alcuni sentieri accidentati e poco battuti di montagna: sempre, in ogni caso, ora come in passato, essi rappresentano per i credenti oggetto di culto o di devozione, testimoniandone la fede o la gratitudine (edicole sacre o votive). Particolarmente diffuse sono queste edicole votive in talune città italiane, come Genova (oltre che Roma, Napoli e Palermo), dove se ne contano, secondo il censimento del 2004, circa trecento; il che pone il capoluogo ligure al secondo posto tra le città italiane in tale settore, subito dopo Roma1. Ma, oltre che nella città di Genova, molto diffuse sono altresì nel restante territorio ligure, in particolare nei paesini di provincia, e forse anche più frequentemente nei campi o nei monti del circondario. E’ da dirsi inoltre che tali edicole, nelle grandi città, raggiungono in alcuni casi un livello artistico notevole, tanto che, a vol-
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Mirna Brignole e Cesare Ferrando, Leivi e dintorni - Edicole votive sui percorsi della fede, Centro di Cultura La Torre – Leivi, GE 2014, p. 14.
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te, le statuette vengono sostituite da copie e gli originali conservati nei musei cittadini; mentre, per quanto riguarda il territorio, non rare sono le opere che, pur nella loro semplicità (a volte nella loro commovente ingenuità), sono di ottima fattura: tutte poi comunicano sempre la profonda devozione degli abitanti del luogo, talora addirittura di casuali passanti. Di queste, e in particolare di quelle situate nel comune di Leivi (frazione di Chiavari, in provincia di Genova), si sono recentemente occupati Mirna Brignole e Cesare Ferrando, con un’accurata ricerca che ha dato luogo alla pubblicazione del libro Leivi e dintorni Edicole votive sui percorsi della fede. Diversi sono stati i compiti che si sono assegnati i due autori: mentre il Ferrando, percorrendo i vari sentieri, si è dedicato al ritrovamento concreto delle singole edicole nei diversi luoghi dove erano state edificate, la Brignole, a tavolino, sfogliando libri o navigando su Internet, si è occupata della loro descrizione e della loro storia; e lo ha fatto in modo molto accurato e direi “empatico”, tale cioè da rendere godibili tali piccoli monumenti anche a chi li guarda su una semplice foto in bianco e nero. Interessanti inoltre le notizie fornite dalla gente del luogo che hanno permesso di aggiungere utili informazioni e simpatiche curiosità, destinate, purtroppo, se non pubblicate, a perdersi col trascorrere degli anni. Precipuo oggetto di questa ricerca sono state le edicole che s’incontrano percorrendo i sentieri che da Leivi, Chiavari, Zoagli e Maggi portano al Santuario di Montallegro, meta di un pellegrinaggio che si svolge ogni anno la prima domenica di maggio, “per ringraziare la Madonna d’aver preservato i leivesi dal colera del 1713”. (Una tradizione che dura ormai da tre secoli!). Sei sono gli “itinerari” che gli autori hanno individuato ed illustrato, descrivendo con molta cura le edicole ivi situate, tutte rigorosamente riprodotte in fotografie in bianco e nero. Di particolare interesse in questo contesto appare lo scritto di Francesco Brusco, inserito nel primo itinerario e tratto dal “Notiziario
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della TORRE del Centro di Cultura di Leivi (Anno V n.14-15), Il voto della gente di San Ruffino di Leivi, in cui viene fatto un diffuso resoconto delle varie cerimonie che accompagnano e seguono il pellegrinaggio fino al Santuario. In particolare è descritto il “sorteggio” per la scelta tra tutte le fanciulle nubili del paese di quella che “avrebbe portato in processione il cosiddetto «Crocifisso delle donne» dalla località nominata «Cisterna» sino all’interno del Santuario” e per quella “delle due damigelle” destinate ad accompagnarla. Delle numerose edicole prese in esame in questo volume, sono da segnalare, per la loro particolare espressività: quella posta sulla facciata di Villa Rosa (ex Villa Lagorio) che si trova in località Ri Alto (p. 37); quella di Villa Copello (ivi), recante un medaglione, calco in cemento di un’opera di Francesco Falcone, raffigurante la Madonna dell’Orto (p. 41); quella delle Suore Carmelitane Scalze di Leivi in località San Bartolomeo, restaurata da Albino Palazzolo (p. 43); quella del Portico della Chiesa di San Martino in Chiavari, costituita da un semplice bassorilievo in cotto, rappresentante una Madonna col Bambino (2003, p. 105); quella di Casa Camiade (Chiavari, sul sentiero per Montallegro), contenente un’Immagine scolpita nella pietra a bassorilievo della Madonna del Carmine col Bambino, entrambi nell’atto di consegnare due scapolari (p. 113); quella della Madonnetta della Chestia (Chiavari, in mezzo al paese di Sanguineto), con una nicchia, sulla cui parete di fondo è affrescata una Madonna del Rosario (p. 117) e quella di Via al Santuario della Madonnetta (Zoagli2), che contiene una statua in ceramica raffigurante l’Immacolata (p. 123). Ma l’elenco potrebbe essere più lungo. Minuta è poi la descrizione delle singole e2
È forse il caso di ricordare che Mirna Brignole in passato si è già occupata di Zoagli, ed in particolare della sua storia, in due pubblicazioni: Zoagli dall’ età preromana al medioevo (1998), in collaborazione con Paolo Gennaro, e Zoagli dal 500 al 700 (2000).
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dicole, che vengono individuate con estrema precisione e con numerosi particolari, così come lo è quella dei percorsi lungo i quali esse si trovano. Presenti nel libro con fotografia sono anche alcune edicole tristemente vuote, come quella di Ri Alto, a Chiavari, dove pare che la Madonna che vi fosse una volta contenuta sia ora conservata dai proprietari all’ interno della villa (p. 39), essendo stata rubata (anche se restituita) per ben due volte; vuota ormai da quasi una cinquantina d’anni è la nicchia nell’angolo del muro di cinta della Torre di Leivi (p. 55), come vuota è quella incassata nel muro di pietra sopra una porta di Via Longaroli a Zoagli (p. 121). Un’attenzione particolare la meritano due quadri a mosaico (pag. 47 e pag. 147), l’uno raffigurante la Madonna della Guardia, l’altro la Madonna dell’ulivo di Bacezza, realizzati entrambi con pietre di mare su legno ed entrambi “incorniciati in alluminio e protetti da vetro”. Sono opera dei bambini di Leivi, realizzati durante il Mese Insieme del luglio 1988 dedicato all’Anno Mariano, sotto la guida di Mirna Brignole. Il che testimonia a quanto lontano risalga in lei la passione per le edicole e come sia riuscita a trasmetterla anche ai bambini! Due capitoli precedono e seguono quelli precipuamente dedicati ai sei “itinerari”. Il primo, intitolato Il culto mariano nel nostro territorio, mette in luce quanta diffusione abbia tale devozione nel territorio di Leivi. (“Quasi ogni chiesa di Leivi e del circondario ha altari e statue dedicati alla Vergine, a riprova della grande fede che queste popolazioni rurali avevano nella Madonna”3). In esso, oltre alla segnalazione degli altari e delle statue presenti nelle varie chiese, vengono particolarmente posti in rilevo due eventi: l’ annuale pellegrinaggio al Santuario di Montallegro “per portare l’olio […] per il lume sull’altare”, che i fedeli di Leivi e dei paesi limitrofi compiono la prima domenica di Maggio e la festa in onore della Madonna 3
Leivi e dintorni - Edicole votive sui percorsi della fede, cit , p. 15.
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della Guardia, celebrata in ricordo dell’arrivo della statua a Leivi, dopo la prima guerra mondiale, la seconda domenica di settembre (e non il 29 agosto). L’altro capitolo, quello che chiude il libro, è intitolato Tipologie iconografiche della Madonna venerate nel nostro territorio, e sono esaminate le diverse raffigurazioni che rappresentano la Vergine in immagini venerate dai fedeli. Prima fra queste immagini è proprio quella della Madonna di Montallegro, apparsa, secondo la tradizione, il 2 luglio 1557 a Giovanni Canevale Chichizzola, un contadino originario di una frazione di Coreglia ligure, all’altezza del Monte Letho4. Fermatosi a riposare, si addormentò e fu destato dalla luce di una “dama vestita d’ azzurro e bianco e dall’ aspetto grazioso e gentile”, la quale gli disse: “Va’ e dì ai rapallesi che io voglio essere onorata qui” e lasciò, come testimonianza della sua apparizione, “un quadretto di arte bizantina, raffigurante la Dormitio Mariae, da donare alla comunità rapallese”. Il contadino corse subito a raccontare ai suoi compaesani quanto gli era capitato, ma non fu creduto. Soltanto il parroco vi prestò fede e si recò con altri nel luogo dell’ apparizione, dove trovò il quadretto, che trasportò a Rapallo nella Basilica dei Santi Gervasio e Protasio. Il mattino seguente però l’icona fu ritrovata sul monte Letho. Trasportata nuovamente nel borgo rapallese, fu ritrovata ancora sul monte Letho; il che convinse il Vicario dell’Arcidiocesi di Genova e lo stesso Arcivescovo dell’avvenuto miracolo, sicché, anche in seguito ad altri avvenimenti, e dopo gli accertamenti del caso da parte delle autorità ecclesiastiche, fu decisa la costruzione del Santuario. Altra immagine della Vergine particolarmente venerata è quella della Madonna dell’ Orto, fatta dipingere nel 1493 da una donna scampata dalla peste dal pittore Benedetto 4
Il monte Letho è conosciuto dai locali come “monte di morte” o “monte della morte”, a causa delle numerose scorribande dei briganti” Leivi e dintorni - Edicole votive sui percorsi della fede, cit , p. 152 .
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Borzone sul muro esterno del suo orto (onde il nome). Dopo due miracolose apparizioni della Madonna raffigurata proprio in quell’ Immagine, venne costruita, nel 1610, una chiesetta per proteggere il quadro e successivamente, nel 1613, dopo le opportune verifiche da parte delle autorità competenti, ebbe inizio l’edificazione della chiesa, che subì in seguito notevoli mutamenti architettonici, come la costruzione del “poderoso pronao” (fine XIX sec. – inizio XX sec.). Il 3 luglio 1907 la chiesa fu elevata a cattedrale e tre anni dopo a basilica. Tra i Santuari liguri quello che è però oggetto di maggiore devozione è quello della Madonna della Guardia, apparsa a Benedetto Pareto nel 1490. Il Pareto, mentre lavorava sul Monte Figogna (in Val Polcevera, Provincia di Genova), “ebbe la visione di una Signora maestosa, dal viso bellissimo, i modi dolcissimi, l’aspetto splendido”, la quale gli indicò il punto di quel monte su cui voleva fosse costruita una cappella a Lei dedicata. Il Pareto, che subito raccontò quanto gli era accaduto, non fu dapprima creduto neppure dalla stessa moglie; ma, trovandosi il giorno dopo in fin di vita, in seguito alla caduta da un albero, ebbe una seconda apparizione e all’ istante guarì dalle gravi ferite riportate: il che convinse tutti che non si trattava di un visionario. E su quel luogo fu costruito il Santuario. Altre immagini della Madonna oggetto di particolare culto in Liguria sono quelle dell’ Immacolata Concezione; quella della Madonna del Rosario, apparsa a San Domenico nel 1208; quella della Madonna di Lourdes apparsa a Bernadette Soubirous nel 1858 e quella della Madonna del Carmine, apparsa il 16 luglio 1251 a San Simon Stock, priore dell’ordine Carmelitano. Da notare infine l’originale copertina del libro che riproduce una mappa della zona del Monte Letho, con le varie edicole, rappresentate con stelline, che creano in chi lo guarda la sensazione di un “firmamento pieno di stelle e di costellazioni, proprio come quelle che cingono il capo della Vergine Immacolata”
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(dalla seconda di copertina). A conclusione di questo breve esame di Leivi e dintorni ci sembra di poter dire che il nuovo libro di Mirna Brignole appare scaturito da una ricerca attenta e rigorosa, che aggiunge un altro importante tassello alle sue pubblicazioni su Leivi e sul suo circondario, per il quale ha anche scritto Leivi – Storia di una comunità (2011). Liliana Porro Andriuoli Mirna Brignole e Cesare Ferrando - Leivi e dintorni - Edicole votive sui percorsi della fede (Centro di Cultura La Torre – Leivi, GE 2014, 12 €).
AMORE E MONDO... Cos’è l’amore in un’era in cui il mondo corre così velocemente che non fai in tempo ad accorgerti che esisti...? Un raggio di sole nel buio e nel silenzio della notte...! Francesco Terrone da Il linguaggio delle stelle - The Language of the Stars - Edizioni Il Ponte Italo-Americano, USA, 2013.
I DENTI DI LEONE Calpesto l’erba del prato e i denti di leone mi fissano, il loro color del sole stuzzica la mia fantasia, ne raccolgo un bel mazzetto e me li appunto al petto. Mi siedo sull’erba morbida del prato e aspetto il sole che mi baci in fronte, ma arrivano le api che si posano sui fiori
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e il mio petto batte colpi strani, ma loro non si muovono, succhiano il nettare e se ne fregano del mio batticuore, non so se piangere, o ridere della situazione, vorrei essere un aquilone e volare via, agguantare l’aria pura e liberarmi dalla paura. All’improvviso arrivano le farfalle e le api scappano su altri fiori e li trafiggono, le farfalle mi solleticano sfarfallando, mi alzo e corro e i denti di leone cadono sull’erba, il loro profumo, che sa di api e farfalle è rimasto con me, sull’erba cado dalla felicità e per cuscino mi ritrovo fiori in quantità. Giovanna Guzzardi Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.)
LAGO Il vento su questa parte di lago e gli scogli alti nell’onda. Gocce di pioggia sbattute contro le persiane e cespugli fioriti. Lento nel cielo una nube forse a dividere i pensieri su questa parte di campo che la siepe ne è di confine. Lento ritorno a questo vicolo chiuso dove le persiane sono alte e entro una fievole luce. Le aiuole sono fiorite nel giardino dove sbarre chiudono il cancello e qualche panno steso sul davanzale sporgente. E i ricordi si consumano al fuoco nelle sere di nebbia. Alda Fortini Villongo, BG
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CURZIO MALAPARTE di Antonia Izzi Rufo vissuto nella prima metà del Novecento ( Prato 9-6-1898, Roma 19-7-1957), nel periodo delle due guerre mondiali. Il suo vero nome era Kurt Erich. Il padre, Erwin Suckert, maestro tintore di origine sassone, dopo svariati problemi in patria e dopo aver lavorato in varie città d’Europa, si stabilì a Prato dove sposò Evelina Perelli. Ancora piccolo, Kurt venne lasciato dai genitori, i quali non avevano tempo per dedicarsi a lui, e affidato alla famiglia dell’operaio meccanico Milziade Baldi. A tredici anni, nel 1911, entrò nel liceo Ciccognini. A seguito della sua ammirazione per Mazzini e Garibaldi, si iscrisse alla sezione giovanile di Prato del Partito Repubblicano e di questo, due anni dopo, divenne segretario. Grazie all’amicizia del poeta Dino Binazzi, cominciò a frequentare il Circolo degli intellettuali che facevano capo alla rivista la “Voce”. Fondò il “Bacchino”, un giornale locale di carattere satirico su cui pubblicò i suoi primi articoli. Nel 1914, dopo lo scoppio del-
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la prima guerra mondiale, scappò di casa e si unì alla legione di Giuseppe Garibaldi che correva in difesa della Francia occupata dai Tedeschi. Nel 1915 tornò a Prato dove s’ impegnò nella campagna interventista. Appena l’Italia entrò in guerra, si arruolò nel 51° reggimento di fanteria della Brigata Alpi. Trascorse tre anni al fronte, in prima linea, come soldato semplice. Nel 1916 tornò con il grado di Comandante della 94° Sezione lanciafiamme d’assalto guadagnandosi la croce francese come “Oficier de Grande Valeur” e la medaglia di bronzo al valore militare. Rimase nell’esercito e venne scelto come “Ufficiale di Ordinanza, prima in Belgio e poi nei territori del Reno. Nel 1919 diresse l’ufficio stampa del Consiglio Supremo di Guerra durante la Conferenza di Versailles. Nel periodo 1920-1921 lavorò come addetto culturale del ministro degli Affari Esteri a Varsavia. Fu poi in Polonia. Nel 1921, rientrato in Italia, abbandonò il Partito Repubblicano e si iscrisse al Partito Fascista. Riprese l’attività politica e letteraria e pubblicò “Viva Caporetto”, opera che suscitò uno scandalo e venne ritirata. Nel 1922 partecipò alla marcia su Roma, come luogotenente del console Tamburini. Ripubblicò,dopo pochi mesi, “Viva Caporetto” con il titolo “La rivolta dei santi maledetti” e con una postfazione in cui rivendicava l’esigenza dell’azione politica da parte degli intellettuali, in un’ Italia in cui chi si occupava di cultura, si teneva lontano dall’impegno politico, rendendo impossibile “una vera rivoluzione nazionale”. Nel 1925 firmò il “manifesto degli intellettuali fascisti” e subito dopo cambiò il suo nome in Curzio Malaparte. Pubblicò “Italia Barbara”. Frequentò salotti importanti guadagnandosi, per il suo atteggiamento anticonformista, la protezione del Partito e dell’ alta borghesia romana. Nel 1928 cominciò la stesura di “Don Camaleo”, opera che gli procurò le ire del Duce e che pubblicò nel 1946. Nel 1927 diventò redattore del “Mattino” e si trasferì a Napoli dove incontrò il senatore Agnel-
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li dal quale si fece assumere come direttore della “Stampa”. Nel 1931, però, litigarono e venne licenziato. Si trasferì a Parigi e pubblicò “Technique du coup d’état”. Molte furono le polemiche. Tradotto in Europa e negli Stati Uniti, il libro venne proibito in Italia, Germania, Unione Sovietica. Fu proprio la pubblicazione di questo libro che, al rientro in Italia , gli costò il carcere e poi il confine (per cinque anni a Lipari). La condanna fu mitigata da Ciano e lo scrittore si trasferì a Forte dei Marmi. Ricominciò a scrivere. Uscirono “Il sangue” e “Donna come me”. Nel 1938 si recò in Africa, inviato dal “Corriere della sera”. Venne richiamato nell’ esercito. Combatté senza smettere mai di inviare corrispondenze in Francia, in Russia (dove iniziò a scrivere “Kaputt”), in Polonia, in Germania, in Croazia, in Finlandia. Nel 1943 venne a sapere della deposizione del “Gran Consiglio del Fascismo” e tornò in Italia. Per il suo passato fascista, venne arrestato prima da Badoglio poi dagli Alleati. Liberato, lavorò come “Ufficiale di collegamento con le truppe alleate che stavano risalendo l’Italia. Nel 1944 pubblicò “Kaputt”, che ebbe un successo mondiale. Con la fine della guerra si trovò isolato nel panorama culturale italiano. Nel 1947 tornò in Francia, ma ebbe un’ accoglienza fredda. Solo Halévj gli concesse un po’ d’amicizia e gli mise a disposizione la sua casa di campagna. Cominciò ad occuparsi di teatro, ma con scarso successo. “La pelle” rinnovò gli scandali dei romanzi precedenti. Nel 1949 tornò in Italia. Girò il film “Il Cristo proibito” che ottenne un premio speciale a Berlino. Nel 1955 tentò ancora con il teatro, senza successo. “Maledetti toscani” fu l’ ultima opera. Continuò i suoi viaggi e si recò in Russia e in Cina. A Pechino scoprì d’avere un tumore. Rientrato a Roma. si spense nel 1957. Uno dei primi documenti fu “Alla brigata Cacciatori delle Alpi” (Prato, dedicato a Garibaldi). Racconta la sua esperienza ed esprime le sulle riflessioni sul vero volto della guerra e sulla miseria dei soldati mandati a morire in prima linea. Nel 1921 scrive “Viva Caporetto”. La rivolta di Caporetto evidenzia
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gli strumenti sacrificali con i quali la borghesia conduce la guerra. Nel 1922 scrive la satira “Le nozze degli Eunuchi”, nel 1923 “L’ Europa vivente”, con prefazione di Ardengo Soffici , nel 1925 “Italia Barbara”, con prefazione di Piero Godetti, nel 1927 ancora una satira, “Avventure di un capitano di sventura”, segue “Don Camaleo” in cui lancia un duro attacco a Mussolini e lo chiama “tiranno”, “autore di trasformismo”. Con quest’ opera e con le poesie “L’arcitaliano” Malaparte entra in una traiettoria extrafascista (già l’aveva fatto con “Intelligenza di Lenin” e “I custodi del disordine”). E’ “La tecnica del colpo di stato”, scritta a Parigi in lingua francese nel 1931, ad avere una risonanza internazionale (La conquista del potere è dovuta ad un fatto tecnico). In “Le Bonhomme Lenin”, il personaggio della rivoluzione d’ ottobre viene smitizzato, è “un piccolo borghese inquieto in balia del proletariato”. Opere che ricordano la sua infanzia: “Sodomia e Gomorra”, “Fughe in prigione”, “Donna come me”. La stagione letteraria più importante, la seconda esperienza della guerra, risale agli anni quaranta. “Kaputt” è definito dall’autore “un libro crudele”. Parla dell’Europa devastata dalla guerra e della possibilità di un suo rinnovamento. Così si esprime.: << Preferisco l’ Europa kaputt all’Europa di ieri >>. Lo stesso sguardo spietato emerge da “La pelle” (Vi è presentata l’Italia del dopoguerra e, in particolare, una desolata città di Napoli – miseria e disperazione per chi “non combatte più per non morire, ma piuttosto per vivere”). Le commedie scritte dopo si rivelano un fallimento, mentre più successo hanno gli articoli giornalistici. Nel 1958 viene pubblicato postumo “Io, in Russia e in Cina”. La produzione di Malaparte ha avuto, dagli anni trenta, fortune alterne, riconducibili alle vicende dello scrittore e alle difficoltà ad inquadrarne l’opera. Ottiene qualche recensione solo da Vittorini. Bisogna attendere il 1950 per leggere qualche giudizio su di lui. In quest’anno Einaudi pubblica “Quaderni dal carcere di
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Gramsci”. In “Letteratura e vita nazionale” questi si esprime molto duramente su di lui: << Malaparte è capace di ogni scellerataggine per ottenere successo>>. Lo difende Enrico Falqui “contro quei critici che vedono in lui solo un mistificatore”. Dopo la morte si scrivono molti articoli commemorativi. Lo ricordano in modo positivo Montale e Saba, con la distinzione tra l’ uomo e la figura politica. Montale tenta di conciliare fratture e contraddizioni, Saba afferma che dietro l’ossessione per il successo si nasconde “una vena di umiltà, anche di bontà”. Rimane viva, comunque, l’idea di un Malaparte “volubile e opportunista”. Scrivano parla di lui come degli “opportunisti di sempre”, come Prezzolini; Luti “degli opportunisti di turno, come i vari Malaparte”; Asor Rosa, Martelli e Grana affermano che “il populismo malapartiano è una tematica viva che uscirà presto dalla tematica fascista, rivelando una grande ricchezza”, ‘Malaparte è legato a matrici etiche e autobiografiche’ (Grana), ‘Malaparte è un uomo di teatro, di maschere’ (Martelli). Dobbiamo considerarlo un redento o un opportunista, o l’uno e l’altro, inserirlo nel gruppo, numerosissimo, degli “intellettuali che vissero due volte” ? Nel 1987, nel “Convegno su Malaparte”, si fa nuova luce su di lui, si parla di “Malaparte scrittore d’Europa che, nel panorama novecentesco, ha pochi uguali in Italia”. In “La pelle”, ma anche in altre sue opere, Malaparte precorre i tempi per due motivi in particolare: primo perché afferma che “sua patria è l’Europa”, di cui fa parte, con altri stati, l’Italia sua terra natia. Il motivo? Egli si sente “europeo”, “italiano d’Europa” e i problemi dell’Italia – lo ribadisce più volte – sono gli stessi dell’Europa; secondo perché nella scrittura inserisce termini e frasi stranieri in grande quantità (americani e francesi in maggioranza) proprio come noi oggi: i nostri scritti, infatti, sono intercalati da espressioni e parole inglesi. Non ho intenzione di giudicare il modo di far politica dello scrittore di Prato né il suo essere passato, così come tanti altri scrittori e
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politici del periodo bellico (seconda mondiale), dal fascismo all’antifascismo, né il suo arrivismo e il suo opportunismo, soltanto sottolineare il suo attaccamento alla città di Napoli e ai suoi abitanti, poveri ma generosi, la sua comprensione e simpatia per i napoletani veraci, quelli dei “bassi”, averli capiti come nessun altro, la sua sincera umanità per la gente che soffre, che sa soffrire con dignità, il suo amore per l’Italia e gli italiani (quelli onesti, quelli autentici, degni di essere chiamati tali), “gli italiani cittadini d’Europa”. Mi chiedo come abbia fatto, in breve tempo, a conoscere così bene Napoli e dintorni, la natura stupenda e rigogliosa, usi costumi e tradizioni dei partenopei. Tutto quanto osservato, constatato, è descritto con incredibile, sorprendente realismo, con bonaria ironia a volte, sempre con trasporto affettivo. Quale il significato del titolo? Ce lo spiega l’autore: <<Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle. Tutto il resto non conta >>. “Salvare la pelle”: è una frase che si ascolta spesso da gente che lavora, che fa sacrifici per vivere, per sbarcare il lunario: <<La vita è dura, ma bisogna ‘salvare la pelle’, lavorare per non morire di fame, per non chiedere l’ elemosina, per ‘vivere male’>>. Mi piace riportare un passo del romanzo, vivo, tra i tanti vivi, come vivo, parlante è tutto il libro: <Seduti nella stanza che dà sul giardino, al buio, guardavamo il Vesuvio e l’ argentea distesa del mare, dove il vento sollevava le dorate scaglie della luna… Era quasi l’alba, l’aria era così trasparente, che le verdi vene del cielo risaltavano nell’ imo azzurro disegnando strani arabeschi… Tutto il cielo tremava nella brezza mattutina come una foglia…Il golfo, tra Sorrento e Ischia, era come una rosea conchiglia aperta: Capri lontana, pallida pietra ignuda, mandava un morto bagliore di perla>>. Antonia Izzi Rufo
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IL BACIO SOTTO LE STELLE
IL RIMPIANTO DI NONNA TERESA (Note su
Antonio Angelone commediografo dialettale) di Luigi De Rosa OM’è noto, il molisano Antonio Angelone nella sua vita ha scritto e pubblicato libri di poesia e romanzi, ha dipinto quadri naifs-naturalisti, ha scritto libri di ricerche storiografiche sulla sua amata Forli del Sannio, ha fondato e dirige sia l’ Accademia Lucia Mazzocco che la Rivista quadrimestrale di Isernia (dove vive ed opera) Sentieri Molisani. Ma soprattutto ha trasfuso tutto se stesso in una quindicina di commedie dialettali di successo, da Il matrimonio a La sperimentazione dei maestri, da La ruota della fortuna a Ciccotè, il maiale di Tata Giovanni, da La banda Centrillo a Felmèna la lengacciuta e così via .Poichè me ne sono occupato specificamente in un libro uscito nel 2008 per i tipi delle Edizioni Lucia Mazzocco , “La vita e l’opera dell’artista e scrittore Antonio Angelone”, qui mi limito a ricordare che nelle commedie dialettali c’è il poeta, il pittore, il narratore, il ricercatore storiografo appassionato di tradizioni popolari, c’è l’ innamorato di Forli del Sannio e del Molise, c’è tutto Angelone, con la sua sensibilità e la sua creatività, con la sua pignoleria di studioso e con la bonomia e la saggezza del classico poeta-contadino-filosofo. Fra tutte le sue commedie, comunque, ce n’è una su cui mi piace richiamare l’ attenzione degli amici lettori, ed è quella intitolata Re vuasce sotta ‘lle sctelle- (Il rimpianto di nonna Teresa). I fatti si svolgono in una primavera degli anni Novanta. In una splendida giornata di maggio, il sole arroventa le pietre sparse qua e là sull’arida terra. Le rondini scendono a dissetarsi al torrente e risalgono verso la
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grondaia rincorrendosi allegramente. Il merlo fischia nella siepe. Nonna Teresa è già là, dalle prime luci dell’alba, sulla montagnella a zappare le patate. Sofferente di asma da diversi anni, la donna intende rincasare prima che possa darle fastidio l’afa nauseante che emana dal fosso sottostante. Verso le dieci si alza una nuvola di fumo seguita da un odore insopportabile che soffoca nonna Teresa e la costringe a tornare a casa dove giunge sfinita e avvilita a causa di un forte mal di testa. Intanto tornano dalla scuola i nipoti Alberto e Rosetta che, vedendo la nonna accasciata sul divano, dopo un momento di paura, decidono di chiamare il medico. Questi, appena arrivato, visita nonna Teresa e le fa prendere una pillola per la disintossicazione. La donna, a giudizio del medico, sarebbe stata intossicata probabilmente dalla inspirazione di qualche sostanza infetta. Calmato il dolore, nonna Teresa non esita ad esaltare i tempi della sua giovinezza, un mondo beato e pieno di allegria in cui la natura era veramente sana e profumata. Nonna Teresa : A quand pare, dottò, n’ avarimma scì mangh dalla casa cchiù. Andò te gire gire vide jettate buttiglie de medecine, bariattele de robba scaduta, buscte de plascteca chiène de pezzenuaglia, sctèrr de chiase vècchje c’arpuliscene. Quand mena re viend sembra ca ce scta la nègghia. Ormaie sctarimm buone solamènd dénda una buttiglia, solamènd loche sctarimm buone, può dice ca pecchè diche ca ze sctéva mèglie prima. Tutt chésct malattije che ce sctiann mo, chi te le déva prima !”. Re miédeche : “ Zia Tèrè, ne mbarlà de prima, ca nge sctà nesciune paragone. Mo è tutta n’ata cosa, bella mèia. Ate che prima”. Nonna Teresa : “ Zitta dottò, ne me fa parlà ca ne me fide; mangh tutta chéll allégrija che ce sctéva ‘llora. Andò scta mo chélla cundendézza che ce sctéva na vota ? Sémbra ca sémm passate tutt ne uaje.. Cameniamm e penzamm, magnamm e penzamm, durmimm e penzamm; mo penzamm sèmb. Quisct è ne munn de penzeruse, care dottore mija; è inutele ca dice ca nn’è le vère”
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Re miédeche : “Ca vuojie la gènd è penzerosa è le vère. Quisct è re munn de vuojje, ne nn’avemma che ffà. Se ce scta re bènèssere è chiare ca ce scteiann pure tanda problième.. Però pe quanda reguarda re nguinamènd la colpa è pure la nosctera, anze pe la verdà è tutta la nosctera...” Nonna Teresa : “ ...ma te giure ca s’avéssa dice ca ne m’arechiagne le passate, me la rechiagné ‘ccome...Pure la ièrva cruda e sènza lavà ze putavamm magnà ch’eva saprita. Mo chéll che te miagne miagne ne ndè nesciune sapore...” Re miédeche : “ Zià Teré, prima di tutt, come songh ditt prima, è le vère ca mo ce scteiann tanda préoccupaziune, però nde créde ca ce scta pure l’armunija ! Ma dimm la verdà: t’archiagne le passate ca ce sctéva l’armunija o pecché sive quatrara ?” (La quatrara, nel dialetto molisano, è una ragazza in età da marito, fra i 18 e i 25 anni circa). Qui Angelone fa esprimere al medico le proprie idee, dimostrando di essere pienamente cosciente di quanto ho sottolineato a proposito di un’altra sua pièce teatrale, ottimamente riuscita, Il dramma d’amore di Nicola e Loreta, a proposito dei ricordi e della nostalgia del “bel tempo andato”. Angelone fa trionfare l’amore sullo strozzinaggio dei condizionamenti socio-economici, perché ripudia con tutto se stesso quelle ingiustizie sociali a cui il mondo contadino è stato costretto, per troppi anni, a sottostare, a tutto vantaggio dei ceti dominanti e privilegiati (Altro che bel tempo passato!). Così che, quello che dà il titolo alla commedia, e che costituisce la sostanza più segreta del “rimpianto” di nonna Teresa, è un bacio, anzi, il bacio sotto le stelle. In un sogno vissuto nel fiore della giovinezza, non solo nel fremito dell’eros, ma anche e soprattutto nell’abbandono romantico alla bellezza e alla dolcezza senza limiti, come solo da giovani si può veramente fare, è poi rinchiusa la quintessenza del rimpianto. Anche qui, nelle commedie dialettali, Angelone si rivela quel poeta romantico che è sempre stato e che è, l’artista che rimane fol-
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gorato dalla sensibilità e dalla bellezza della Donna. I suoi personaggi più belli e più incisivi sono donne.. I suoi libri sono dedicati in prevalenza alla moglie o alla mamma. (ad eccezione di Ciccotè, che è dedicato al padre Domenico, che gli “ ha reso meno faticoso il cammino della vita con fatti e non con parole.”) Della donna è celebrata la bellezza, la grazia, e anche quella sana civetteria che la rende adorabile perché infonde gioia di vivere. Di lei Angelone esalta, però, anche le tradizionali virtù di modestia,, serietà, senso della famiglia e delle responsabilità familiari, spirito di sacrificio e di abnegazione. Luigi De Rosa
RECIPROCO POSSESSO Sui ruderi di un muro del passato scure bocche di mattoni sgretolati mostrano a noi le loro lingue verdi: ciuffi d’erba, protesi nella luce. La vita s’impossessa della morte come questa ghermisce ciò che vive. Caterina Felici
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 5/2/2015 Allorché c’era Sandro Bondi ai Beni Culturali ed è crollato un pezzettino di muro a Pompei, tutta la Sinistra - e, in particolare, Dario Franceschini, Walter Veltroni, Giovanna Melandri, Pier Luigi Bersani - ha urlato scandalizzata e invocato le dimissioni del ministro; oggi, che c’è Franceschini e Pompei va crollando in più posti, la Sinistra tace e nessuno ne parla! Domenico Defelice
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INTERVISTA A
NAZARIO PARDINI (a cura di Liliana Porro Andriuoli)
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Hai alle spalle un lungo iter poetico, che ha dato luogo a più di venti libri di poesia; qual è la linea che ti ha sorretto e che hai seguita negli anni? Posso parlare di evoluzione della mia linea, ma non certo di stravolgimento. Di sicuro, misurando la cifra poetica dei primi volumi Foglie di campo. Aghi di pino. Scaglie di mare, L’ultimo respiro dei gerani, Il fatto di esistere, Elegia per Lidia, Gli spazi ristretti del soggiorno, La cenere calda dei falò, Suoni di luci ed ombre,… - con le ultime produzioni, penso che da un verso libero, pur tendente sempre alla musicalità (uno dei principi cardini della mia poetica), mi sia sempre più orientato verso una struttura classica, in cui il mito, fortemente umanizzato ed attualizzato, ha sempre giocato un ruolo determinante nel processo ispirativo che mi riguarda. Il mito come simbologia degli intrighi delle vicissitudini umane. Mito come ipostasi della vita. Anche se la ricerca di un equilibrio classico fra figurazioni significanti e abbrivi emotivi è sempre stata nelle mie corde; magari su un tessuto più narratologico con impiego di endecasillabi spezzati a centro verso e inanellati da ripetuti enjambements a evitare il rischio di una lettura cantilenante a cui si va incontro con quel metro. I contenuti sono sempre stati più o meno gli stessi: meditazione, memoriale, panismo simbolico, input emotivo- esistenziali sui perché dell’essere e dell’ esistere,
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coscienza della caducità del luogo e del tempo, immaginazione, azzardi iperbolici oltre il limen in cui siamo racchiusi, eros e thanatos, inquietudine e saudade, realismo lirico. Sì, il rapporto con la morte mi ha sempre coinvolto in maniera misterica e inquietante. Ma su tutto una grande simbiotica fusione con la natura, quella dei miei posti, quella che contiene tutte le mie primavere, vista come decantazione e concretizzazione dei miei stati d’ animo. Sentimento, però, traslato in oggettivanti motivazioni. Penso che quest’ultimo sia il filo conduttore che determina, in qualche maniera, l’organicità delle mie opere con una evidente icastica presenza. Una cosa è sicura. Ho sempre creduto nel sentimento e in una poesia nata da forti subbugli emotivi, controllati però da argini ben solidi di ricerca verbale e stilistica. Non credo ad una poesia intoccabile, ma in un lavoro continuo di limatura della parola e dei suoi nessi. E che alla base del canto ci siano proprio le emozioni, senza ordine, libere, sbrigliate così come nascono, senza bisogno né di limiti né di restrizioni. Semmai è la ragione agli antipodi della poesia. È essa che toglie spazio all’ immaginazione e che cerca di limitare e frenare le cospirazioni di un cuore e di un’anima vòlti oltre gli spazi delle ristrettezze umane. 2 Fai parte di numerose giurie di premi letterari qualificati: cosa puoi dirci di questa tua esperienza ? La ritieni ancora oggi utile per le sorti della poesia? Ci sono valanghe di premi, ed ogni giorno ne nascono di nuovi. Quello che hanno di positivo è che invogliano i poeti a scrivere, a misurarsi, a lavorare, a studiare, anche la metrica, a leggere, e a conoscere per un continuo viaggio odisseico. Bisogna però che alla base del tutto ci sia il rispetto per questi scrittori; lo chiedono con la loro partecipazione; i componenti di giurie devono mettersi nel capo di leggere seriamente i lavori, di valutarne con competenza il valore semantico-allusivo e compositivo. In questo sta il rispetto. Sotto questo punto di vista è una esperienza utile anche per gli stessi giurati, sia umana che so-
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cio-culturale. Hanno la possibilità di venire a contatto con le più svariate forme di scrittura e leggendo le molteplici espressioni, dalle più semplici alle più complesse, ne ricevono importanti contaminazioni, motivo di ulteriori riflessioni e approfondimenti stilistici e innovativi. La poesia non può restare isolata, chiusa in un mondo a parte. I premi dànno luogo ad incontri, a confronti, e credo che tutto ciò significhi crescita, soprattutto parènesi ad approfondire e studiare. Solo conoscendo le regole si è in grado di destrutturarle. Anche se la scintilla iniziale del poièin è un misterioso dilemma. La dobbiamo avere innata in noi, forse; poi, certamente, la si deve affinare con tanto lavoro. 3 La tua è una poesia di stampo classico, dai ritmi ampi e distesi: quale importanza attribuisci al rapporto col passato e in particolare con quello greco-romano? Senza passato non c’è futuro. Non si deve escludere niente, ma bisogna dare continuità e consistenza al nostro bagaglio culturale. Dacché sarà quel bagaglio con il suo peso etimofonico e memonico a costituire la plurivocità del canto, il nerbo sostanziale del dire artistico. La Poesia con la “P” maiuscola non ha tempo, un canto di Saffo è tanto Bello quanto un idillio del Leopardi, o una poesia di Montale. E credo che la lirica dei poeti prepericlei sia alla base di tutta la cultura estetica occidentale. Dico di un Alceo, di un Anacreonte, di un Alcmane, di uno Stesìcoro, di un Ibico, Saffo… Senza dimenticare, naturalmente, la grande schiera di poeti, oratori, e storici della letteratura greco-latina, come Eschilo, Sofocle, Euripide, Esiodo, Catullo, Cicerone, Virgilio, Tibullo, Orazio. Apprezzarne le odi, le elegie, i poemi, le orazioni, i drammi o altro; leggerli e rileggerli, meditare e riflettere sulla forma e i contenuti, significa vedervi quella modernità che, poi, si ripete nel tempo: si tratta sempre del rapporto dell’uomo con la morte, con l’amore, con la vita. Del rapporto dell’ uomo con se stesso e con il mondo che lo circonda. Cambiano i mulini ma i venti sono sempre gli stessi. Dum loquimur fugerit invi-
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da aetas: l’uomo ha sempre sofferto della sua posizione scomoda di fronte all’infinito e proprio nel tentativo di elevarsi alle vette che più si avvicinano all’inarrivabile sta il nocciolo della vera poesia. Si sente se in un canto c’ è la misura e la cognizione della parola; si percepisce da subito se questa assolve alla funzione di abbracciare le motivazioni dell’ anima; quel bagaglio creativo che ti prende per mano fino ad affiancare il tuo sentire. La missione della parola è difficile e cosa dura. Ci possono essere grandi emozioni, ma se il dizionario è scalzo, se lo studio deficitario, si il n’y a pas de connaissance, per dirla alla francese, viene meno quello che è il nerbo del “poema”: quell’equilibrio desanctisiano fra dire e sentire, indispensabile paradigma di ogni attività estetica. 4 La musica del verso è propria della tua poesia: quale rapporto c’è a tuo parere fra poesia e musica che sono arti sorelle? I principi basilari di una buona resa poetica sono la musicalità, il sentimento, l’ immaginazione, il memoriale, e il panismo simbolico, che dà corpo agli input emotivi. Non c’è poesia in un verso che stride all’orecchio e all’anima. La musica è nata con l’uomo che, fin dagli albori, ha mosso i primi passi ad un ritmo in lui innato. L’ha fatto inventando strumenti primordiali, battendo ossa di animali su pietre o legni essiccati; è stata quella sonorità, quell’armonia di cui ebbe ed avrà sempre bisogno a farlo umano. Chi tradisce questa sinfonia tradisce ogni forma di attività artistica. Il verso non si può permettere di andare a capo a piacimento. O di copiare la realtà così com’è. La creatività sta tutta nella rivisitazione che la traduce in immagine. 5 Come giudichi la “rivoluzione novecentesca” nel campo della poesia? Cosa pensi che essa ci abbia dato di valido? Nel contesto antecedente la Grande Guerra l’ arte in generale viene vissuta come elemento di svago e gli artisti perdono il ruolo che avevano nel secolo precedente. A questa svalutazione reagiscono Baudelaire e les poètes
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maudits (Verlaine, Rimbaud, Mallarmé), ma anche quelli, tipo D’Annunzio, che fanno della vita un’opera d’arte. Situazione confermata anche negli scritti di autori europei come O. Wilde. Il poeta così da vate si fa interprete di una natura sempre più vicina. Di una natura che gli serve per scavare nella psiche fino ad approdare ad una inquietudine esistenziale che si attorciglia su se stessa allontanandolo dalla realtà. E nasce così quel malum vitae e quello spleen che saranno gli elementi portanti di una letteratura poetica che reagisce ad un mondo meccanizzato e spersonalizzato, naufragando spesso in solitudine esistenziale. Secondo Gozzano, la poesia può solo parlare delle piccole cose, essendo scomparsi i valori di una società non più presente. È a seguito delle grandi dittature che il poeta sente di nuovo la necessità di impadronirsi di una funzione sociale: nascono così le numerose riviste fiorentine che segneranno, coi confronti dei diversi intellettuali, le inquietudini del tempo. È il momento delle rivoluzioni linguistiche e contenutistiche con le “Avanguardie” che nella loro diversità si caratterizzano per la contrapposizione al passato. Come l’Espressionismo che disegna una società sperduta nelle città caos, industrializzate. Il Futurismo che, al contrario, esalta la velocità e il progresso a scapito di biblioteche e musei. E lo fa con parole in confusione senza rispetto alcuno della morfosintassi. Il Surrealismo, di grande influenza freudiana, secondo cui la poesia deve esprimere l’inconscio al di fuori dei tempi, mescolando presente passato e futuro. Ma è l’Ermetismo che deve essere veduto, nella sua totalità, come uno dei momenti più interessanti e innovativi del panorama letterario novecentesco: Ungaretti, Quasimodo, Gatto, Sinisgalli, Cardarelli, Luzi e il primo Montale. Fino ad una esasperazione fuorviante, ad un parossistico intendimento di stesure liriche come escrescenza della corrente. Questi in sintesi i punti cardinali: rinnovare l’ endecasillabo, fare della esperienza bellica un “Allegria”, ricercare l’essenzialità della parola. Il suo verseggiare è stato paragonato al gorgoglio affannato di un liquido che esce da
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una fiasca rovesciata: una poesia intricata e poco comprensibile, per questo trae il nome da Ermeste Trismegisto, personaggio leggendario dell’Ellade, le cui opere erano famose per la loro densità concettuale. È Saba che fa dell’eros e del quotidiano la musicalità di un Canzoniere. Altro apporto innovativo di cui tener conto è costituito dalla concezione eliotiana de Il correlativo oggettivo, che avrà una certa influenza sulla poetica dei postmoderni. Vale a dire la spersonalizzazione del messaggio; non far sentire la presenza del soggetto nella confessione sentimentale; distacco dal sentire, con allegorie e metafore di un diverso campo semantico. Influenza Montale degli Ossi di seppia. Cercando di avvicinarsi il più possibile a noi scopriamo che il post-moderno incarna la crisi culturale della globalizzazione. La rivista Officina di Pasolini si oppone al Novecentismo e propone nuovi linguismi sperimentali. Ma il fatto sta che la poesia non viene letta e forse lo dobbiamo, anche, ai linguaggi confusi e complicati di cui ci siamo abbondantemente serviti con azzardi immotivati che hanno oscurato il più delle volte il Bello, il canto inteso come puro lirismo, quello che con la sua musicalità riporta a memoria romanze tipo il coro muto della Butterfly di Puccini. Ed io credo che la poesia non debba ricorrere all’abuso di campi figurati che ne complicano la comprensione; ma debba avere come fine quello di trasmettere con immediatezza il messaggio; e che lo debba fare con l’intenzione di rivolgersi ad una platea varia e articolata, che chiede di capire. Insomma il novecento è stato un secolo di grandi tragedie che hanno costituito un immenso e doloroso patrimonio per la poesia. Le grandi avventure belliche, le lotte sociali, i terrorismi: materiale importante per la narrativa cinematografica del neorealismo… Ma la vera rivoluzione consiste proprio nel trasferimento dell’anima poetica dal malum vitae e dallo spleen ad una finestra aperta sul mondo; anche la forma poetica ha cercato di svincolarsi da schemi fissi per seguire con la massima libertà semantica queste ipotetiche visioni di realtà migliori. Certamente l’ha fatto
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a volte con interventi parossistici in cui la parola ha preso il sopravvento sui contenuti e tutto si è trasformato in una sonorità vuota e sgangherata, o intricata, tipo quella della voce di un Sanguineti del “Gruppo 63”, per fare un nome. Ma in generale la rivoluzione del novecento è quella di aver capito che la vera poesia è più legata alla tradizione che alle finalità che aveva sperimentate. Il poeta, gira gira, ha ripescato, dopo sperdimenti di carattere parainnovativo, la normalità, il vero valore del canto; quell’equilibrio di cui abbiamo parlato, alla base del quale c’è tutta l’urgenza schietta e sincera di un aveu con cui ogni autore sente il bisogno di liberare la sua intima vicissitudine. Per cui non vedo grandi rivoluzioni nel secolo in oggetto, sennonché quella di ricredersi. 6 Qual è secondo te il rapporto tra arte e sentimento, tra ragione e emozione? L’arte vive di sentimento, di impulsi emotivi, di voli oltre gli orizzonti che ci limitano. È umano, fortemente umano ambire all’eccelso, e non lo si può fare certamente con la ragione, dato che la razionalità frena questi azzardi emozionali. Si può dire che la ragione ha il potere di aiutare a far confluire questa interiorità entro canali dagli argini ben robusti a che non cada in sentimentalismo eccessivo, che creerebbe squilibrio nella produzione artistica. 7 Qual valore ha per te il “correlativo oggettivo” di stampo eliotiano? Ritieni che esso trovi posto nella tua poesia? Credo di avere già risposto a sufficienza a questa domanda. Comunque non sono del tutto d’accordo con la teoria estetica eliotiana. Le figure retoriche servono per creare certe punte creative, certi slanci poetici, certi azzardi iperbolici, ma non devono arrivare alla totale spersonalizzazione dell’autore. Condanno questo trasferimento dell’ego in un oggettivismo neutro. A volte sentiamo il bisogno di scrivere in prima persona e di farlo quando, nei momenti di intenso lirismo, ci sentiamo presi in modo strettamente personale e autobiografico. Il tutto, poi, sta nell’ esse-
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re semplici. Nel raggiungere il maggior grado possibile di semplicità nell’esporre la complessità del nostro sentire. 8 Quali sono i poeti italiani che preferisci? E quali gli stranieri? Naturalmente Dante e Leopardi. Quindi Umberto Saba, Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Leonardo Sinisgalli, Guido Gozzano. Fra gli stranieri Baudelaire, i poeti maledetti, John Keats, Philip Larkin, Thomas Gray, Pablo Neruda, Ezra Pound, Paul Valéry, André Gide. 9 Dove va secondo te la poesia? Per quanto mi riguarda non esiterei a sottoscrivere la poetica di un manifesto che rifiuti, con tutto il suo potere critico, il materialismo, il consumismo, la globalizzazione, l’ industrializzazione, il condizionamento ad un comportamento omologante, il telecomandismo. Tutto a favore di un tipo di convivenza drogata di schopping e infarcita di disvalori a cui si contrappone un postmodernismo con una visione completamente opposta a quella conservatrice. Opposta ad un mondo in cui l’ industrializzazione e l’omologazione al consumismo hanno creato una società piatta, condizionata e senza spinte creative che affonda le radici nell’Illuminismo; in tutta la cultura ottocentesca del pensiero modernista che riconosce un'importanza suprema a ideali come la razionalità, l'oggettività, il positivismo ed il realismo. Ora ci si interroga sulla veridicità di tali ideali. D’altro lato non sottoscriverei di sicuro una poetica che volesse ingabbiare la poesia nella rete di un mero realismo spersonalizzato e senza anima; nell’oggettivismo più crudo, vòlto solo ai problemi della questione sociale. Si tratterebbe di una poesia condizionata, a senso unico. Di una poesia che si fa ancella di una questione, pur giusta, limitante, restrittiva per la resa creativa. La poesia richiede libertà, pluralità, totalità; ed ogni argomento è adatto a nutrirla, purché filtrato da un sentire che possa essere trasferito in arte. E credo che vadano evitati gli eccessi sia da parte di chi vuo-
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le rinnovare che di chi vuole conservare. Però una cosa è certa: il futuro ha sempre avuto bisogno della storia per crescere. Come è certo che in gran parte di ogni produzione artistica, quello che conta è la generosità emotiva del singolo. La sua energia immaginifico- intellettiva. Si può fare poesia ispirandoci all’ ambiente in cui viviamo; digerendone le contaminazioni; traducendole in esperienze personali che si possono trasformare agevolmente in memoriale-serbatoio per il nostro dire. E credo che il verso debba essere movimentato da quel senso di musicalità baudelairana che ha influenzato gran parte della poesia contemporanea. Musicalità che chiede e detta; e che non permette al verso di andare a capo a piacimento. D’altronde col tardomodernismo c’è il pericolo di cadere in un oggettivismo invasivo che rischia di riprodurre le stesse limitazioni estetiche della società dei consumi. Senza contare che taluni sostengono che la stessa postmodernità sia già finita, dacché definiscono l'attuale periodo come post- postmoderno (Alan Kirby, nel saggio The Death of Postmodernism, and Beyond, definisce la cultura odierna "pseudo- modernismo"). Quindi dove andrà questa benedetta antica arte? La poesia è immortale, o perlomeno durerà quanto l’uomo. I poeti non fanno niente e non servono a niente, ma la loro poesia, pur non essendo utile, è un mezzo tramite il quale possono staccarsi da terra e respirare uno sprazzo di cielo. Di quel cielo o di quell’ azzurro di cui sentono un forte bisogno senza spiegarsi il perché. E prende sempre più corpo quanto più l’uomo si divide dallo spirito. Perché è lei a richiamarlo alla funzione di anima eletta. 10 Hai in cantiere nuovi libri? Quali progetti hai per il futuro? Ho una silloge che penso di pubblicare il prossimo anno. Contiene una ventina di poemetti in endecasillabi; endecasillabi sperimentali, di ampio respiro narrativo. Il titolo: “Poemetti onirici”. 11 Si delinea qualcosa di nuovo, a tuo pa-
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rere, nella poesia del terzo millennio? Credo che la poesia seguirà immancabilmente le vicende che sempre ha vissuto: vale a dire le contrapposizioni fra schieramenti: minimalismo, esistenzialismo, poesia civile, materialismo naturalistico, misticismo spiritualistico, classicismo, post-post-modernismo, e chi più ne ha più ne metta. Ma sono convinto, anche, che, dalla dialettica dei contrapposti, sortirà come vincitrice della contesa, e me lo auguro, la Poesia. 12 Pensi che la misura del poemetto andrà affermandosi su quella del frammento, che è stato tipico della poesia novecentesca? In verità penso che il poemetto prenderà sempre più piede. Dacché offre maggiore possibilità di narrare, di raccontare, di trasferire sul foglio l’anima a tutto tondo. È meno criptico è più espanso, più disponibile ad accogliere una narrazione poetica. Visto il bisogno che l’uomo sente sempre più impellente di raccontarsi. Perlomeno è quello che io sto provando con le mie ultime esperienze. Nazario Pardini Gennaio/2015
SIAMO Si sa dove si nasce non dove si muore, né dove si verrà interrati e dalla terra fagocitati; non viviamo sempre nella stessa casa e nello stesso luogo, siamo gitani che da un paese errano all'altro senza sosta, piume che vanno inconsapevoli nell'aria, in su in giù di qua di là, dal caso mosse, dalla loro leggerezza, imponderabilità; siamo esseri rassegnati alla sferza dei venti e delle spine e sorridiamo, anche se infelici. Antonia Izzi Rufo
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LA MATERIA GREZZA DI
AURORA DE LUCA di Eugenio Nastasi
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NEVITABILMENTE, quando ci si immerge in un libro di poesia amorosa, si aprono alla mente versi scolpiti dalla tradizione e dalla lunga e variegata modalità di scrittura che è giunta fino a noi dal primo farsi, dalla letteratura greca e oltre, di questa maniera di comporre. Accade anche che al di là dei testi più noti, talune pagine se non proprio taluni passaggi di opere più o meno conosciute, restano maggiormente impressi alla memoria, vuoi per la temperie degli studi vuoi per un autore piuttosto che un altro. Così leggendo la pagina introduttiva della nostra Autrice, mi ha colpito questo passo: “Tu lo vidi, tu mi vedesti prima di me”, e subito il riferimento memoriale è corso prima a Garcilaso de la Vega: “…ma con la lingua morta e fredda nella bocca intendo muovere la voce a te dovuta…” Egloga III, vv.11-12, e, subito dopo, a Pedro Salinas che proprio degli ultimi versi citati si serviva per il suo poema d’amore più noto, “ La voz a ti debida”, che è divenuto uno dei paradigmi dei poemi amorosi del secolo scorso: “…Al di là di te ti cerco./Non nel tuo specchio/e nella tua scrittura, / nella tua anima nemmeno. /Di là, più oltre”. Aurora De Luca nel suo poemetto “Materia grezza”, ampiamente avallato da firme autorevoli (Sandro Gros-Pietro, Domenico Defelice, Franco Campegiani e Sandro Angelucci) lavora specularmente alla sua solitudine di fantasmi di amore ma sempre, come nota Defelice, rivolgendosi allo stesso “ tu” indefinito o con parallela pregnante ambiguità di riferimento - come dire l’oggetto dell’amore e l’ amore stesso – insistendo sulla “materia grezza” del sentimento , come canta nell’amore lo stimolo costante a una ricerca interiore : “… Che tu non abbia ori nello sguardo,/né aquiloni nelle braccia,/ma verità negli occhi/e grazia giù a fondo,/ perle strade delle ossa”. (pag. 21) Siamo solo alla prima lirica e il programma
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è già sotto gli occhi del lettore, come sentimento effusivo alla ricerca del proprio “ antitipo” all’interno di se stessi, un impulso incessante verso una meta intravista e intangibile, verso il prototipo ideale e carnale di quanto di eccelso l’uomo è in grado di concepire. Il rinvio dei versi in direzione di una composizione poematica viene emergendo pagina dopo pagina, mentre la lettura ferve continua e distesa: “Tu ti allunghi verso di me, con i tuoi rami di braccia/ e mi sussurri “la mia giornata di sole”. / E mi sfiori poi, /poi mi guardi e di nuovo mi sfiori”.(pag. 23) “La poesia prova da sempre, come forma meno deperibile del discorso umano, a raccontare e forse prima ancora a inventare l’amore, cioè a trovarne la radice”, scrive Daniele Piccini nel n° 300 di Poesia, gennaio 2015. E a me pare che la De Luca sia andata proprio a cercare le radici, la “materia grezza”, il non ancora albero e già foglie, il non ancora rami e già polloni, già linfa propulsiva, prepotente e sfuggente che nel suo progredire verso la superficie s’incrosta di parole doloranti e imploranti, dolcissime e fluide, volteggianti e immerse, ab intra e ad extra, ruscello e fiume in piena: “Come foglia d’autunno/per me sei ramo//corolla di primavera/per me sei ape//e fruscìo di conchiglia/spalle di spiaggia e schianto//come strada/per me sei luogo”. (pag. 25) Poesia di memoria e poesia in progress, monologhi serrati, esclamativi, dialoghi con l’ amato-amore: l’“io” del poeta si colloca di volta in volta in situazioni diverse. Le pause di silenzio tra una componimento e l’altro hanno un aggancio di connessione sovente fornito dalla ripresa di un motivo (per intrinseco senso o per antitesi), da un’associazione verbale o da una semplice analogia formale. E pure quando si intrecciano nuclei centrali intorno a cui si organizzano i riferimenti (declinazione e conoscenza dell’amato, trepida attesa della gioia in arrivo, celebrazione di un incontro, dubbio e dolore, la novità sensuale di ciò che è stato) si capirà che non si tratta di fasi matematicamente successive: un signifi-
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cato o un altro prevalgono nei diversi brani della raccolta, ma con accenti e variazioni e riprese che rimettono in discussione l’empito progressivo della vicenda narrata. Ecco, allora, il grezzo della materia, la pietra sbozzata e pure ancora incerta ma già tanto somigliante alla forma voluta, all’immagine amata, somigliante ai “Prigioni” o alla “Pietà Rondanini” di Michelangelo, come l’andare oltre il definito per tentare l’oltre del dicibile, del plasmabile, concatenazione del farsi conoscibile verso una parcellizzata indipendenza: “E se le cose che ci tengono uniti/ sono fatte di vento e di sole, / di polveri primaverili/ che si lanciano in aria/ e pare si disperdano come pozioni di magia e fato…”, (pag. 33). Si fa strada la convinzione, fatte salve le proporzioni della ricerca, che qui l’atto creativo, essendo di natura poetica, maschera l’ essenza della lotta che è tutta interna al soggetto-poetante, ma in primis al suo “campo di battaglia psichico”, e uno degli assunti più saldi dell’Autrice – non so fino a quanto consapevole – è che il valore esistenziale della sua impresa scaturisce dalla memoria e dunque dal dolore (come direbbe Nietzsche), il dolore di rinunciare ai piaceri più facili per altri molto più ardui. Non si vuole mettere in campo, non sarebbe neanche il caso, di citare Il Canone Occidentale di Harold Bloom e la sua particolarissima e discutibile visione critica. Qui non si tratta di questione succedanea né di andare alla ricerca delle letture e/o dei prestiti della nostra “giovane” Autrice: indici di una larga apertura umana nella poesia della De Luca sono innanzitutto il tono di colloquio con cui il poeta scandisce quasi il tempo diremmo umano della sua ispirazione, che scaturisce, man mano che il paesaggio affettivo assume esatta configurazione, da elementi quotidiani ma anche favolosi o sognati come veri recuperati in sede autobiografica, ed ecco come i fantasmi d’amore diventano vivi e palpitanti e genuini, e poi la lingua. La lingua, nel complesso dei fatti lessicali e sintattici, alla De Luca, per la realizzazione del tono colloquiale, si offre non come uno strumento per fare della poesia, ma come un a-
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spetto del momento umano che il poeta cerca di realizzare con la poesia perché a lei non interessa costruire la frase poetica, ma la frase umana, che, per essere carica di tutta la somma di significati, qui è già frase poetica d’ amore. La parola colta, allora, diviene occasionale, il movimento perifrastico o strofico elaborato in modo da dare l’impressione di qualcosa di diverso del fatto umano e solo qua e là si notano residui di passate poetiche che danno luogo a suggestioni strofiche di portata diversa dal tono generale. Un movimento linguistico quotidiano, discorsivo non privo di colorazioni e scatti, nuovo nel piglio e nell’aggregazione metaforica che già delineano una personale e riconoscibile scrittura che si può senz’altro sottolineare nel suo aspetto lingua-fatto umano, del quale la poesia, nella determinazione del canto, rappresenta la sintesi, come nei versi finali “…serbatoio di buio a calamaio di raggio, / stammi tutta in punta d’occhi”. Eugenio Nastasi Aurora De Luca, Materia grezza, Genesi Editrice, Torino, 2014
SENZA DI TE Come sarebbe stata vuota la mia vita senza di te ! Se tu non fossi nato per volere del fato o per volere di egoistici umani desideri, se tu fossi mancato per volere del fato o per volere di atroci umani pensieri nella tua tenera età ed io così non avessi potuto conoscerti, né sentire la tua voce e il suono del tuo violino, né vedere il tuo volto, né guardarti negli occhi, né parlarti … Come sarebbe stata vuota allora la mia vita senza di te ! Mariagina Bonciani Milano
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Approfondimenti di contenuti e consapevolezza etico-religiosa nelle poesie di
MARIA TERESA EPIFANI FURNO di Leonardo Selvaggi
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TTIMI di purezza interiore come esaltazione nell’immenso tra mare e cielo. La bellezza di Sorrento ci ammalia e trasporta l’esuberanza di sé in profondità di silenzi e di echi. Paesaggi divini spiritualizzati. Torquato Tasso per la sua poesia tormentata, fatta di sublimità, di miti, di fremiti, di raffinatezze dalle rive di Sorrento ebbe slanci di trasmutazione, la stessa ebbrezza che hanno i gabbiani, portati in alto con impeti folli come erompenti dalle membra lacerate lungo traiettorie impercettibili nello spazio.
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La stessa poetessa Epifani FURNO dalla natura magica trae ispirazione per un approfondimento dei contenuti sociali espressi nella raccolta “Ombra di clessidra”. Tutta una poesia sull’uomo, eternamente combattuto dai contrasti con le situazioni attuali. I versi nella loro ricchezza vengono da una razionalità consistente ed hanno un’assonanza, il reale limato togliendo le asprezze, armonia i contesti e rotondità, la materialità si smussa, ogni legame pare si rompa, si sta in sospensione, senza allineamenti con la piatta superficie oltre i relativismi. La Epifani è con la sua poesia all’aperto, una soldatessa del vero, va dove i deboli vivono stretti in dure morse. Un lavoro perseverante per giungere ad altri approdi sbandierando i propri ideali. Il titolo “Ombra di clessidra” condensa ansie e impazienze, i granelli di sabbia sono un nulla, ma hanno dentro le spine del tempo infido, scivolano sulle sofferenze, rendono taglienti le ferite. La Epifani spinta dai pensieri eccitati e contenuti nel contempo, sono irrompenti i suoi versi che si raffinano quando spesso hanno struttura frammentaria, come gocce di cristallo riflettono l’azzurro del mare, sprazzi di luce, battiti d’ala, pulsazione di intensa vita, vogliono gli spazi, usciti fuori da ogni peso, da ogni ambascia che tiene incatenati. Le lontananze che sublimano come quelle della “Stella Sirio”, si vuole in superumanazione “Afferrare/la verità poetica”. La poetessa Maria Teresa Epifani Furno è autrice di svariate raccolte poetiche, ha una connaturata inclinazione a inquadrare concetti, a vedere la realtà da tutte le angolazioni. Ha un facile eloquio nelle trasfigurazioni: le immagini nella loro delicatezza raffigurativa, nella loro linearità di vita naturale vivificatrice si mettono, come per nascondere i grovigli ispidi, davanti, contornando tutto, c’è sempre un parallelismo fra condizioni opposte. La lotta che combattiamo consiste nello smantellare le malefiche contrapposizioni. La friabilità umana nella sua esistenza e l’ animo diafano accanto come da uno specchio vedono il mondo esterno. L’ombra della clessidra di nascosto compie l’erosione continua,
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il tempo fugge arroventato devastando quello che a noi è più caro, scava fosse e inquina pantani, si serve della irruenza della tempesta per prostrarci. La realtà che appare grifagna, mostruosa, resistente immutabile mito, proteiforme come prometeo sempre intatto e con tanta parte distrutta. La raccolta “Ombra di clessidra” ha tanta materia poetica, i temi disparati sono amalgamati in un unico coacervo. I pensieri si riversano, invadono tutto, come faville per lo spazio della mente, partono da dentro, dal fuoco interiore, “Il cuore/è terra/rugosa di solchi”. Si legano in intreccio con l’essenzialità degli elementi primordiali, come se avessero un’origine di carattere cosmogonico. Si legano con l’ arcaicità dei primi filosofi studiosi della Natura. La stessa materia ha slanci spirituali, non deve essere assalita dai lupi voraci, carne e ossa fanno polvere, che non è quella di terra fangosa, sbriciolata portata dal vento. I limiti debordano. “Il fiato/è monolito/che passa strati sovrapposti/di impalpabili inconsistenze./Il corpo/è aria/piena di sospiri”. La clessidra sempre all’ombra ingannevole, va per agguati, batte in sotterranei luoghi, invisibile da dare a noi l’illusione di essere attaccati al mondo inorganico, incrostati, di ferro. Con la fatale sua impavida figura: fa crollare, trovare i punti dei disastri, fa scaraventare per terra tutti gli equilibri instabili. La clessidra che rappresenta l’avidità del tempo istiga alla perversità a superare gli altri, ad abbatterli per creare posizioni di privilegio. Se non fosse preso il tempo da dannazione nei movimenti ostinati ad andare fugace e rimanesse immobile, non ci sarebbero lotte intestine, guerre per distruggere il popolo minuto, depauperato di tutto. Nessuno sarebbe afferrato dalla smania di essere primo, di essere ingordo, di realizzare nella brevità della vita l’impossibile, di strappare tutto quello che può rendere felice e potente. I pensieri si oppongono al tempo che corre, danno stabilità, fanno maturare e rendono consistenti, danno vita all’anima che si espande al di sopra della superficie, al di fuori di tutto quello che rotola e si consuma in passaggi di trasmutazione e
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di sostituzioni. La profondità dei pensieri è poesia, “Impeto, passione/rivo, torrente...”, moti furiosi che erompono, arrovellamenti, desiderio di essere gli altri, tutti i luoghi, di arrivare nelle parti più segrete, come deflagrazione che lascia frantumazione, desiderio di superare barriere, “di vincere l’invisibile armata/dei perché rimasti impigliati/al fondo come mistero/d’ alghe alle maree”. Lo spirito si muove nelle catene, nell’infinita luce pare inesistente, diluita evanescenza, è nello scontro con il materiale che esso esiste. Nei passaggi compressi e nel movimento di uscirne fuori, vive di doppie forme e di contrari. “Dovizia-avarizia/delle cose/razionale-irrazionale/nelle mutazioni/in assoluta libertà di spazio”. Non si può dire che le forze demoniache che tengono legati e vogliono opprimerci ce la facciano. Le dobbiamo smantellare uscendo dagli incastri e dalle miserie. La poesia della Epifani è in quest’aria di contrasti, la materia ha dentro forze superiori, esiste con un sommovimento travagliato. Le stesse azioni umane si fanno e decompongono, si raffinano, cadono, tolte le scorie si ricomincia, quando pare raggiunto l’ equilibrio siamo daccapo a frantumarci la mente. Dentro abbiamo aperture dove ardono fuochi che non si vogliono tenere domati. Lo spirito ha bisogno di una meta, di catene e di libertà. Del cielo e del sole che sono la nostra luce, i nostri occhi. La poetessa in un giorno di eclisse si è sentita dispersa nel nulla, ha avvertito il senso della morte. Il gabbiamo come impigliato in una rete, ha avuto lamenti nel cielo oscurato; l’uomo si è rotolato su se stesso, ha perso le forze, i suoi meccanismi si sono inceppati. “Spiaggia senz’orma/cypraea senza sorriso/vela senza scia/e mare/tanto mare/spento nei fondali/tinti a lutto: abissi senza Dio”. Una mostruosità sorta dalle simmetrie, dalle simbiosi - sintonia, una deformazione generale; tutto uscito dagli alvei, una corruzione di tutte le forme: “le zampe infette/gli artigli in progressione”. ...”luna d’agosto, piena/e mezze lune/appese come falci/ai chiodi delle stelle” ... “i grilli,/accartocciati... sfiniti dal cantare”. Se il
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cielo si oscurasse, come stretti in lacci soffocati staremmo, tutto uno scardinamento, uno sconvolgimento. L’armonia, il firmamento, l’ infinito smembrati. Per la Epifani la perdita del cielo e dello spazio, che sono vie della libertà, costituisce la fine. La materia è ebollizione, epidermide che respira nell’aria; non esiste l’uomo senza materia che è il suo tormento, la sua prigione. Per la Epifani la spiritualità è questo uscire fuori dagli anfratti passionali, dalle cecità che non vogliono andare verso la luce che è incontro, immedesimazione, chiarezza di vedute. Una socialità senza discontinuità: realizzare rapporti in libera espansione, senza lotte, senza oppressioni. Un senso di profonda religiosità che amalgama tutti in reciproca intesa. Questo si vuole, “...in cerca/di una terra dove /la pace degli ulivi/ scioglie l’aria di uccelli/e di speranza”. La bellezza della nostra esistenza con ansie e illusioni, “il tempo rende/nuovi giorni alla vita/e luce/dopo luce/s’incammina/ un’altra primavera”. Non il battito dell’ora in monotone, egoistiche giornate. Il tempo come un fiume in ampiezza di trasformazioni deve correre lungo vallate fiorite. Il nostro animo sempre nella veste della purezza, vuole liberarsi dalle drammaticità, non vuole “ombre fratricide/disseccate al gelo...”. L’entusiasmo e la vitalità con movimento verso aperture di passaggi in continuazione. Gli slanci di sentimentalità, i pensieri poetici che vanno lontano per superare i fatti tristi di cronaca, per realizzare una completa pacificazione della società per sempre. Né vinti né vincitori. Senza “uomini, in catene!/Addossati a lamiere di paure”... Senza la brutalità delle aggressioni, la voracità del dominio, la lotta contro gli inermi di popoli pronti a sferrare i colpi mortali. La terra uniforme sparsa di persone, senza fuggire, senza andare in cerca di protezione, senza il terrore dei massacri. “I moti sconvolgenti/delle zattere vertigini/di più vasta oppressione”... In “Ombra di clessidra” la poetessa Maria Teresa Epifani Furno concentra le sue idealità, si vorrebbero eliminare le brutture e le irrazionalità che conturbano tanta parte dell’
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umanità. Abbiamo visto dove sono le sorgenti che danno vita e azione, fremiti alla personalità della Epifani. Dalla spiritualità i pensieri alimentati vanno a cercare i luoghi della fame, della guerra, dell’arroganza. La poesia non prende pace, vede osserva, grida, si allieta con l’immaginazione che corre. C’è un’ enucleazione ideologica fermentante che ha riferimenti filosofici e storici: addiviene a rinnovati modi strutturali di una società che tanti legami e accensioni deve prendere da una cultura umano-religosa. Manca la linearità e la ragionevolezza nella classe politica ci si chiude su posizioni egocentriche. La terra non ha rapporti con tutti gli uomini, si inaridisce, si delimita con barriere e divisioni amministrative: “Sostano in fila/sui moli del rimpatrio,/ostinati e delusi/da quei disegni oscuri/di leggi e di frontiere”. Si pensano ai luoghi del Sud che ancora tanto hanno da realizzare per un tenore di vita più adeguato, avevano bisogno della nostra mano, invece un giorno si dovette partire pressati dalle ristrettezze economiche, ci sentiamo in colpa. La nostalgia struggente per il Sud, come una stretta al capo ci comprime. Si è rimasti sradicati, esiliati senza un luogo proprio. L’ animo allagato dalle lacrime della partenza, una ferita mai rimarginata, sempre la voglia ardente di ritornare. I giorni sono passati con l’amarezza, niente ti appartiene, sei un disperso e un estraneo con i ricordi che bruciano dentro. “Torni al Meridione/e il cielo non ti accoglie col sorriso/ma ti fanno cenno di voler guardare:/lo barattasti con la ciminiera/e nell’esilio della tua memoria/perse lo smalto e l’alito d’azzurro”. La Epifani in un intreccio di idee che irradino da tutti i punti nevralgici evidenzia concretezza di arrivi per quei cammini che la società nel suo insieme, in piena sintonia, in stati di maturità, di evoluzione e di mezzi dovrebbe percorrere sempre secondo i principi di uguaglianza, di libertà e di dignità verso le alte mete cui tutti noi saremmo destinati con le virtù insite, con la ragione, l’ intelligenza, con il senso del divino che tanto oggi rimane pestato, dissolto, negato.
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La raccolta “Ombra di clessidra” è un volume poetico che condensa problemi vari che assillano, tormenti nel cuore sopra una matrice forte per pensieri stratificati, per patimenti avuti, per situazioni abnormi, contraddizioni che tengono frastornati. I versi hanno tanta sostanza, rappresentano realtà, dentro c’è la vita con le asprezze, il dolore umano, quello nostro e quello degli altri. Fatti e spiritualità, presente accidentato che vanno ogni giorno ad alimentare la cultura della vita fatta di lacerazioni, di ricordi di momenti che parevano felici, di fratture per tutte le membra che la sensibilità vede sempre aperte. La fragilità umana ogni giorno decade sotto i colpi della violenza. “Al pianto della madre/strappammo il primo figlio... Al gemito dell’ erba/ strappammo il primo fiore... Erano gigli/i fiori che immolammo”... I paradossi che sempre più insanguinano il dissidio tra materia e spirito in una lotta dilaniatrice. “Mattoni di dolore/aggrappati alla pelle/come piaghe/al flagello del tempo/Io vi trascino...” “Ruote di speranza/sotto il giogo/di carri senza buoi/io vi sollevo...” L’espressione della poetessa si fa densa, riflette i malumori della vita, le pietre taglienti sopra cui i nostri passi ci portano addolorati. Quando si sente il peso dei contrasti stridenti la nostra interiorità impaziente corre assetata alla luce. Allora siamo convinti che la pelle, gli arti, l’addome come panni lacerati avvolgono la migliore parte di noi, impalpabile, sfuggente, che dappertutto si muove, che per entro gli sconfinamenti volatilizzata passa dal marciscente all’indistruttibile immenso, dentro c’è il nostro Dio. La Epifani non pensa che sia realtà distruttrice la condizione di oppressione, è stimolo ai sentimenti e agli slanci. Le visioni smarrite di rovina portano agli occhi lucentezza, fanno trovare punti di illuminazione che significano speranza. La Epifani ha momenti di prostrazione, ci richiama ad un’altra sua raccolta poetica “Breviario di una guerra”. Nel deserto dell’ Arabia si lotta per il potere e per la ricchezza del petrolio. Tante sono le belve che si avventano “con unghia di morte,/di dolore.”, “... cieco l’uomo/in pieno sole...”, il deserto è in
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fiamme, “Lo scorpione.../scaverà tombe/a cerchio come pozzi”. I versi grondano malessere, pesanti, armati di rabbia, hanno ritmi che percuotono l’animo. Il cielo è “acre di fumi/opaco di colori”. Il sole è tetro guardando “orme di sangue” sulla sabbia, non risplende quasi, in fuga lascia cadere per terra i raggi spezzati. Si desidera la fine della vita per non sopportare le distruzioni della guerra. I soldati vogliono il cataclisma che annulli il mondo. Non è concepibile la violenza. “Non cercare l’alibi/tra i lumi insensibili/della Dea ragione/che ti ha spinto a indulgere/all’ orgoglio e alla superbia”. Dopo giornate truci, annebbiate, di gelo si attende la primavera che sarà come un inizio di vita rinnovellata in rapporti di dolcezza, in momenti di rinascita. Abbattute le crocifissioni che hanno fatto morire l’uomo umile e Cristo, simbolo di pace e di resurrezione. “La libertà del mandorlo/col fiore, strappato/al morso duro dell’inverno”. Dal letargo usciranno gli incontenibili sentimenti per ridare vita e amore. Lo strapotere, la forza malvagia che domina: “...non ha pupille/l’altra faccia del mondo/ad occhi aperti/dietro ciglia d’ oro/non vede le ferite”. Grande luce emanano i principi della grande saggezza, il senso dell’umano e della fratellanza. Le rette parallele non debbono esistere, devono non creare solitudine, scontri, debbono convergere. La terra sarà una coltre confortante che porterà calore e tutte le discrepanze saranno nullificate. Non più una valle di lacrime che sprofonda, che apre fauci, che ha precipizi. Sulla stabilità la gente si incontrerà riconoscendo i segni comuni, le simmetrie che uniscono tutti lungo uno stesso cammino. L’uomo deve incontrare l’uomo. In “Ombra di clessidra” ferventi la speranza e la speranza e la fede. Tanta consumazione fra tanto dolore, “parole crocifisse” che divengono silenzio, moto di penetrazione. Sugli accadimenti infausti, sulle sofferenze e privazioni la Divina Provvidenza porta sollievo, come d’incanto tutte le rovine e gli abbattimenti che hanno dato senso di fine si dileguano, le visioni tristi si illuminano. “Mani e cielo:/stimmate come/carezze malate/d’ amo-
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re...”, “il pianto della fede vedrà/ferite rimarginarsi/nel Verbo di Dio”. I miseri giacigli “di stracci e di cartone” accolgono tra tepore e morbidezze come fra delicate mani l’animo diafano, tenero, implume, che riluce di purezza, leggero sfuggente. Il tempo non graverà sulle membra smorte, inerti, macerando, riducendo in scorie. Il tempo-stillicidio delle ore che svaniscono sarà da noi intensificato come dilatato, arricchito dalla volontà e dalla intraprendenza indirizzata al bene comune, a costruire, ad innalzare gli animi angustiati per metterli in movimento, per recuperare quello che è andato perduto. Il tempo della clessidra non avrà automatismi, ma energia e progetti. I versi della poetessa Epifani reclamano il vero e il bene, il senso della misura e del giusto, gridano con un raziocinio che non può essere contrastato per le sue meditate motivazioni. Sentirsi rinnovato come rinato alle prime luci dell’alba. La poesia scopre discordanze, malevolenze, trova nelle parole impeti che vogliono scuotere stati di abulia. C’è una moralità diffusa in pensieri che si stagliano come bastioni di difesa e di guida. “Che serve!/La luna alta nel cielo/se il buio della cella/ti tiene prigioniero”. Il tempo dell’uomo non deve correre per trascinare rottami, ferite. Il tempo non ci terrà legati per trasportarci come massi-automi, andando alla deriva. Saremo noi nel tempo protagonisti di vita futura, sopprimendo tutti gli ostacoli che fanno rotolare in basso. Il sentimento d’amore serpeggia dovunque, occorre alimentarlo con la luce dell’umiltà. L’ evidenza dei fatti dice che stiamo in stati di crisi. C’è una proiezione di idee ribollenti, assillanti che non possono non trovare credito. “Tu non puoi dire alla primavera addio/all’albero non vestire le foglie/al cuore non battere ancora/all’amore non amare sempre./Tu non puoi dire all’oggi/non avere domani”. Molti versi hanno una forza didascalica, si imprimono nei lettori, sono come incisi su lastre per indirizzarci e agire secondo le leggi della natura. La gente che muore per le guerre e per troppa desolazione ha diritto alla vita, a essere immessa nel moto generale dei giorni in una
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continuità evolutiva insieme agli altri, quello che si vuole è la meta, l’altezza dei propositi. I giorni attraverso le stagioni devono ristrutturarci, dare il senso del vero progresso, della maturazione, momenti di accensione e quelli di pausa. Il senso di rinnovo, riprendendo con ansia ed entusiasmo i cammini lasciati a metà. Sono le idealità alte che daranno sempre visioni di immenso mirando all’assoluto nella loro espansione e nella loro purezza al di sopra di tutte le tortuosità, in gineprai che fanno perdere l’intelletto. La poesia della Epifani si articola intensamente, cronaca, realtà, mondo moderno con le sue aberrazioni, il passato e il presente che non possono scindersi: stretti da legami ci renderanno impegnati in un lavoro di scandaglio, di integrazione. L’uomo nella sua interezza, con le facoltà sue innate senza deformazioni, in nome sempre della pace e della giustizia. Con concretezza nelle azioni, con coerenza, sempre alla luce guardando i passi da farsi per il bene di tutti i popoli insieme. Energie pure e naturali con i mezzi tecnologici per spaziare di più, per giungere in luoghi che non sapevamo, per dare a se stessi consistenze durature, per realizzare tutte le potenzialità insite in noi. Religiosità e umana comprensione, mente acuta nel saper vedere le lacerazioni, le deturpazioni. La poetessa con i suoi versi pieni, massicci, colmi di interiorità, espressi in libertà senza ombra di infingimenti, con audacia è andata dove occorre risanare ferite che già da tanto sono rimaste insanguinate. Con l’apporto della spinta di quelle forze che non possono fallire, con i sentimenti e le idee dinamiche che sanno arrivare nel momento giusto. Leonardo Selvaggi
DONDOLA Dondola la notte buia tra le braccia fredde in un angolo triste il sonno che non mente Filomena Iacovella Torino
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DOMENICO DEFELICE MARIA GRAZIA LENISA di Tito Cauchi
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OMENICO Defelice, direttore di Pomezia-Notizie, apre il nuovo anno, 2015, con il Croco, Quaderno della Rivista madre, dedicandolo a Maria Grazia Lenisa, per onorarne la memoria (Udine 13 febbraio 1935 – 28 aprile 2009 Terni), compianta poetessa, scrittrice e saggista friulana che ha calamitato intorno a sé l’interesse di molti critici. Il Nostro ha attinto a precedenti sue recensioni pubblicate sulla Rivista, rinverdendone il ricordo, anche grazie alla conoscenza personale della Poetessa. Il quaderno di 32 fitte pagine, è diviso in due parti, la prima, preponderante, tratta della Poesia; la seconda, dei Saggi. M. G. Lenisa fin da giovanissima fece parte della corrente del Realismo Lirico fondata da Aldo Capasso; dichiarava che per lei scrivere di poesia “è sempre un atto d’amore”. Amava l’arte figurativa e non era pittrice da poco; amava viaggiare, era entusiasta della Sicilia e molte delle sue liriche sono dedicate al Sud e alla questione meridionale, più di quanto non dicano vari trattati. E molte altre sue composizioni sono dedicate alla questione femminile che il Nostro puntualizza “in tutte le più svariate sfumature”; per es. prendendo posizione sul concetto di verginità che non deve essere intesa strettamente come rinuncia “all’ atto sessuale”, ma deve essere intesa, tanto per la donna, quanto per l’uomo, come purezza secondo natura. Collaboratrice di PomeziaNotizie, provvedeva per il Direttore a redige-
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re prefazioni, recensioni e una rubrica tutta sua; e vari impegni altrove, come curatrice di una collana presso la casa editrice Bastogi. Al suo attivo conta trenta o quaranta opere su alcune delle quali il Nostro si sofferma. Al sottoscritto sono note in particolare La ragazza di Arthur (Pomezia-Notizie, giugno 2003), con chiaro riferimento al poeta Rimbaud, Il Canzoniere bifronte (2004 Pomezia-Notizie, maggio 2004), per il quale, si inventa un coautore. La sua poesia sa di classicismo, anche per l’ uso di figure femminili di poetesse (Saffo), dee (Persefone, Afrodite), ninfe (Euridice), e facendo rivivere il mito attraverso storie d’ amore (Dafne e Cloe); senza per questo trascurare le cronache del suo e nostro tempo. Ha cantato l’amore in tutte le possibili intonazioni: dal dolce e soave, al passionale bestiale, tanto da essere additata e qualche volta ricevendone avversione. Poetessa disinibita dell’amore sessuale, sul piano letterario, ma sempre con la lievità del verso. La forza della sua poesia, a parere di Domenico Defelice, sta nondimeno nell’essere riuscita, a sublimare l’amore perfino in tutte le sue situazioni più spinte. Per esempio nella raccolta di Erotica che tratta, comunque, temi vari di attualità, troviamo argomenti circa la libertà sessuale, l’ aborto e altri temi sociali. In tutte le occasioni carica di metafore sessuali le descrizioni; parla del rapporto di coppia, della solitudine al sopraggiungere della senilità. Sesso e sesso, di cui si nutre, perfino dissacrando Cristo, la Madonna e i Santi; nondimeno “del sogno ha, spesso, l’illogicità e la forzatura estrema; un sogno-invenzione”; la conoscenza della morte le ha fatto esaltare la vita nelle sue manifestazioni più forti della passione. La sua è una poesia che fa meditare sul senso della vita e della morte. C’è chi vi vede l’ evasione, il divertimento, ora con il verseggiare classico, ora con versi barbari. Il Defelice osserva che forse siamo noi, per formazione culturale, a rimanerne intimoriti, sconvolti, con sentimenti di repulsione; condizioni queste che “avviliscono la Poesia”. Forse perché
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perdiamo di vista il senso della pura creazione letteraria e artistica. Rammenta, il Nostro, che “la poesia il lettore la deve ricantare ad occhi chiusi e mai sezionarla con il bisturi. Non è un cadavere la Poesia.” Maria Grazia Lenisa si è creato il suo “pianeta d’amore” dove il fuoco non brucia, dove si cammina sulla superficie dell’acqua, si vola e si fa l’amore senza paure o colpe; suoi compagni ideali sono poeti come Rimbaud e Luzi, Pasolini e Squarotti, “atei e credenti, marxisti e cattolici, tutti accomunati, però, dall’amore del bello e del sublime”; una Terra surreale, onirica, che si rinnova di continuo. Oggi “la poesia, che doveva essere pane per la gente – per tutta la gente – è divenuta cibo per pochi eletti”, poiché ogni poeta ha il suo linguaggio e oggi più che mai abbiamo smarrito il senso della comunicazione, lineare. Oggi la parola che usiamo ha significato molteplice, è polifonica, ognuno la intende come vuole; frutto dello smarrimento in cui ci troviamo, soli e senza riferimenti certi. “proviamo sempre più vergogna davanti alle opere ‘difficili’. Ci sembrano peccati di superbia.”, sono parole del Defelice. È come se interrogassimo le antiche Sibille e la Poetessa, a questo riguardo, afferma che alla fine “non rimase/ più un verso che non fosse una smorfia”. A questo punto è importante richiamare l’ attenzione per i risvolti che determinano il rilassamento dei costumi, il permissivismo, l’ eccessivo perdonismo. Abbiamo perduto l’ innocenza dell’infanzia. Abbiamo bisogno per comunicare di tante citazioni, così che non sappiamo più se camminiamo con le nostre gambe o con le stampelle. Il confine tra poesia e prosa è sempre più labile; siamo figli della complessità del nostro tempo; l’io è confuso nella molteplicità delle sembianze che movimentano il teatro della vita; l’anima sperduta s’impregna e restituisce un Io smarrito. La poetessa ha raccolto “l’io smarrito” vivificandolo nella sua identità. In quanto ai saggi, possiamo ricordare che M. G. Lenisa si è occupata molto dell’opera di Giorgio Bàrberi Squarotti con il quale c’è
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stata amicizia, “affinità di stili e contenuti”, la trasgressione; entrambi critici di leva; ma dello scrittore torinese ci restituisce un poeta guardingo per via dell’essere egli aduso alla critica. Altro poeta oggetto di studio è Antonio Coppola, che alla Lenisa appare schivo, al contrario di quanti vogliano mettersi in mostra. Per Andrea Zanzotto scopre chiavi di lettura diversificate per “piani fondamentali” (fenomenico, psichico, metafisico). La Lenisa valorizza gli autori mettendone in luce aspetti spesso ignorati, come nel caso del poeta e scienziato Giovanni Ruggiero, scoperto dal Nostro grazie alla Poetessa. La sua attenzione si è posata anche su altri autori su cui varrebbe la pena soffermarsi con saggi (Corrado Calabrò, Aldo Capasso) o con note critiche a vario titolo, che meriterebbero il nostra studio. La poetessa friulana si caratterizza per il suo scavo, gode dell’ apprezzamento di molti critici anche se non è alla ribalta dei rotocalchi. Domenico Defelice trova occasione di criticare i vari premi letterari, anche e soprattutto quelli notevoli di cui si occupa la grande Stampa: “la critica è stata quasi sempre appannaggio di prezzolati e di cattedratici”, una ragione in più perché poeti genuini se ne stiano rinchiusi. Lei nelle sue disamine non trascura gli interventi riguardanti le opere di cui si è occupata. La Lenisa ha intuito, capacità investigativa di sondare nelle pieghe dell’anima. Il suo fare critica alleggerisce della aridità tecnicista, per farsi narrazione coinvolgente, fondendo così critico e poeta, “Ed è proprio attraverso congetture che Ella ama leggere autori per certi aspetti difficili, pervenendo sempre a conclusioni logiche e affabulanti, dando a componimenti, apparentemente tetragoni, insperate porte e finestre, varchi attraverso i quali il lettore comune può anche lui meno fortunosamente incamminarsi.” I richiami del Defelice sono come un manifesto di poetica; Egli non manca di soffermarsi su singole opere con pennellate, mettendo in luce quanto la Friulana entri nel magna depositato nei meandri della psiche dei personaggi considerati. Credo che la fatica di Domenico Defelice
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abbia aperto un credito ai tanti lettori che abbiano o no conosciuto, Maria Grazia Lenisa. La Poetessa ha convissuto per anni con un male invincibile; perciò il sottoscritto, senza mancarle di rispetto, entrando nel suo humus letterario ed emotivo, pensa che la Poetessa, sposa e madre felice abbia prima resistito e poi, non per arrendevolezza, ma perché ne veniva sopraffatta, avvinta, ha ceduto per non cadere prigioniera, così ha scelto di convivere e di diventarne l’amante, fino all’ultimo alito: questo è il miracolo della poesia. Tito Cauchi BIR MASAL - UNA FAVOLA Riposare vicino a una sponda il platano ed io. I nostri riflessi adagiati sull’acqua quello del platano e il mio. Il luccichio dell’acqua ci colpisce il platano e me. Riposare vicino a una sponda il platano io e il gatto. I nostri riflessi adagiati sull’acqua quello del platano, il mio e del gatto. Il luccichio dell’acqua ci colpisce il platano, me ed il gatto. Riposare vicino a una sponda, il platano, io, il gatto e il sole. I nostri riflessi adagiati sull’acqua quello del platano, il mio, del gatto e del sole. Il luccichio dell’acqua ci colpisce il platano, me, il gatto ed il sole. Riposare vicino a una sponda, il platano, io, il gatto, il sole e la nostra esistenza. I nostri riflessi adagiati sull’acqua quello del platano, il mio, del gatto, del sole e della nostra esistenza. Il luccichio dell’acqua ci colpisce il platano, me, il gatto, il sole e la nostra esistenza. Riposare vicino a una sponda.
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Per primo se ne andrà il gatto si perderà sull’acqua il suo riflesso. Poi me ne andrò io si perderà sull’acqua il mio riflesso. Poi se ne andrà il platano si perderà sull’acqua il suo riflesso. Poi se ne andrà l’acqua rimarrà il sole poi anche lui se ne vorrà andare. Riposare vicino a una sponda, il platano, io, il gatto, il sole e la nostra esistenza. L’acqua è fredda il platano grande io sto scrivendo una poesia il sole è caldo è bellissimo essere vivi il luccichio dell’acqua ci colpisce il platano, me, il gatto, il sole e la nostra esistenza. Nazim Hikmet Ran Trad. Piera Bruno
È in uscita, con le Edizioni Il Convivio, il volume di poesie
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10 Febbraio 2015: GIORNATA DEL
RICORDO DELLE FOIBE di Giuseppe Giorgioli
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OME premessa a questa ricorrenza faccio presente che a Pomezia il ricordo della giornata delle Foibe è sempre lasciata alle iniziative dell’ Associazione Coloni Fondatori che supplisce alle sistematiche carenze delle Amministrazioni Comunali da quando è stata ufficializzata la giornata del Ricordo delle Foibe nel 2004. Ciò mi sembra non corretto in quanto è diventata una ricorrenza a carattere nazionale con interventi del Capo dello Stato. Come l’anno scorso per la commemorazione delle Foibe l’Associazione Coloni ha fatto una breve Cerimonia alle ore 16 del giorno 10 febbraio a Via Martiri delle Foibe – Pomezia. Il Presidente dell’Associazione Coloni Pietro Bisesti ha fatto installare una lapide recante scritto: “10 Febbraio giornata del ricordo dei Martiri delle Foibe”. E’ incisa sulla lapide anche la preghiera dell’infoibato. E’ stato trasmesso l’Inno d’Italia, il rg Benito Giorgi ha letto la preghiera dell’infoibato. Poi presso la Sede dell’Associazione Coloni alle ore 17 è stato tenuto un dibattito: ha esordito il Col. ® Cosimo Romano facendo presente che nel 2012 il Presidente Giorgio Napolitano nel celebrare tale ricorrenza ha detto che bisogna lasciare ormai alla storia tali vicende. Il Col. Romano invece sottolinea l’ importanza di continuare ad onorare tale Ricordo. Successivamente ha preso la parola l’ ing. Risorto Marcello, che fa un po’ di storia passata, ricordando che quando i tedeschi vennero in soccorso degli italiani in Grecia, si erano comportati male nell’attraversare i territori dell’Istria. A seguito di ciò, come ritorsione, vi sono stati quei terribili fatti dopo il 1945 in Istria e Dalmazia. Gianfranco Bolognesi ha fatto presente che nel giorno dell’ istituzione della giornata del Ricordo delle Foibe nel 2004, la sinistra ha duramente contestato tale iniziativa. Poi vi è stato l’ inter-
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vento di Rodolfo Serafini e del sottoscritto Giuseppe Giorgioli. Il Rg Benito Giorgi ha letto alcune poesie di Edda Garimberti. La seduta si è tolta con la proiezione di un breve filmato storico. Di seguito si propone quanto da me letto: Le Foibe: una strage troppo spesso dimenticata! Inizio con alcune considerazioni a carattere generale riguardo le pulizie etniche ed eccidi di massa: Vorrei ricordare che le attuali cronache di migliaia di esseri umani in fuga davanti all’ avanzata dell’Isis riportano inevitabilmente alla mente alcune delle pagine più atroci della storia del ‘900, fra cui il dramma delle Foibe. L’Isis, gettando, spesso ancora vivi, uomini, donne e bambini nelle fosse comuni, fa ricordare il modo in cui iniziò lo sterminio degli ebrei nell’Est Europa, il massacro del popolo armeno ai primi del ‘900 (un milione di morti!). A questo punto occorre fare alcune riflessioni: mentre di alcuni massacri si fa fatica a parlarne e a far entrare nel culto della memoria i milioni di persone morte ad esempio nei gulag sovietici o il massacro dei polacchi nelle fosse di Katyn da parte dei russi, come se esistono massacri di serie A o di serie B. Altro episodio che sta finendo nel dimenticatoio è quello di Porzus, citato da Bruno Vespa il 4 febbraio scorso mentre “A porta a Porta” ricordava il dramma delle Foibe ed oggetto di una visita di Giorgio Napoletano nel maggio 2012. A Porzus è avvenuto uno degli episodi più controversi della Resistenza, l’uccisione di un gruppo di partigiani della Brigata Osoppo da parte di un gruppo di partigiani del partito comunista, nel febbraio del 1945. Anche quest’episodio è stato taciuto per decenni! Sull’eccidio di Porzûs è stato fatto anche un film intitolato Porzûs, girato da Renzo Martinelli (quello di Vajont e di Barbarossa), che ha avuto una storia particolarmente travagliata. Venne presentato al festival del cinema di Venezia nel 1997, causando moltissime polemiche. La RAI ne acquistò i diritti e non venne mai distribuito nelle sale o in home video, fino a quando, il 10 febbraio
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scorso, è stato mandato in onda per la prima volta da RaiMovie (canale del digitale terrestre). A conclusione di ciò vorrei ricordare che questa ricorrenza e questo ricordo dovrebbe significare che tutte le stragi non devono più passare nel dimenticatoio e non devono più ripetersi, purtroppo tale desiderio è continuamente disatteso! Avevo detto l’anno scorso che da parte del Comune di Roma erano state annullate le visite scolastiche dedicate al ricordo delle Foibe, facendo passare una visione ideologica di questi viaggi, come se ce ne fossero di destra e di sinistra! Ricordo con piacere la notizia pubblicata sul Messaggero del 12 gennaio 2015 riguardo la pubblicazione all’Albo pretorio del Campidoglio di un bando per l’ organizzazione del progetto “Memoria di una storia europea. Il dramma del confine orientale italiano tra foibe ed esodo”. Tale progetto prevede la realizzazione di un viaggio tra Friuli Venezia Giulia e Croazia, riservato agli studenti delle scuole superiori romane. Oggi, undici anni dopo l’istituzione della Giornata del Ricordo (il 10 febbraio), quel silenzio opportunistico e omertoso sembra appartenere al passato. Il tempo, insomma ha emesso il suo verdetto, la parola riconciliazione può essere pronunciata: resta, però l’ esigenza dell’obiettività storica. Quante sono state le vittime delle foibe? Secondo uno degli storici più accreditati, Elio Apih, poco più di 11.000. Se poi consideriamo gli effetti generali della repressione in Istria, Fiume e Dalmazia, che portò all’esodo, arriviamo ad una cifra ben superiore, probabilmente intorno ai 350.000. Ma ormai non è tempo di limitarsi ai conteggi: occorre capire “perché” è successo. E chiarire che il crimine fu più politico che etnico: i partigiani di Tito miravano a eliminare preventivamente gli oppositori del regime comunista nascente in Jugoslavia. Infine concludo con un riferimento bibliografico sulle Foibe: In occasione della giornata del ricordo delle foibe e del decimo anniversario della legge 30 marzo 2004 n. 92, lunedì 10 febbraio
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2014, alle ore 17.00 a Roma presso Palazzo Ferrajoli (piazza Colonna , 355) è stato presentato il volume“Foibe ed Esodo. L’Italia negata. La tragedia giuliano-dalmata a dieci anni dall’istituzione del “Giorno del Ricordo” di Carla Isabella Elena Cace edito dalla casa editrice Pagine nella collana de “I Libri del Borghese”. L’incontro è stato introdotto da Domenico Gramazio presidente della Fondazione Rivolta Ideale. Sono intervenuti: Antonio Ballarin (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia), Gian Marco Chiocci direttore de Il Tempo, Luciano Lucarini editore de Il Borghese, Emanuele Merlino responsabile attività culturali “Comitato 10 febbraio”, Marino Micich segretario generale della Società di Studi Fiumani, Lorenzo Salimbeni ricercatore del “Comitato 10 Febbraio” e della Lega Nazionale. L’evento si è svolto con il contributo di varie associazioni: Amici del Fuan, Amici della Giovane Italia, Centro Iniziative Sociali (Cis), Donne per la Fiamma Tricolore, Fronte della Gioventù, Laut per la Difesa del Consumatore, Raggruppamento Giovanile Studenti e Lavoratori, Volontari Nazionali. Giornalista professionista e storica dell’arte, Carla Isabella Elena Cace è esule di terza generazione proveniente da un’antica famiglia di medici irredentisti di Sebenico. Ha scritto, sempre sul tema del Confine Orientale, “Giuseppe Lallich, dalla Dalmazia alla Roma di Villa Strohl-Fern”, “Foibe, martiri dimenticati” e “Foibe, dalla tragedia all’esodo”. Nel 2009 ha curato, con Matteo Signori, la celebre mostra sulle foibe al Vittoriano. Fa parte del direttivo dell’“Associazione Nazionale Dalmata” e del “Comitato 10 febbraio”. Scrive l’autrice:“Questo volume è dedicato a mio nonno, Manlio Cace, ufficiale medico esule da Sebenico e presidente dell’ Associazione Nazionale Dalmata. Egli ci ha lasciato numerosi scritti e documenti fotografici che hanno contribuito a smantellare “la congiura del silenzio”. A lui una promessa: non smetterò mai di raccontare la tua storia, che è anche la mia. Ma il testo è stato scritto con la
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mente piena dei personali ricordi di tre personaggi, recentemente scomparsi, che mi hanno insegnato tanto e che tanto ci hanno lasciato: Luigi Papo, Licia Cossetto e il maestro Ottavio Missoni”. Giuseppe Giorgioli
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da Yagmur Kaçagi (Il fuggiasco nella pioggia), 11° edizione 2001, traduzione di Piera Bruno
DIETRO LA PORTA … 2
Pomezia, lì 19 febbraio 2015
VIA BONAPARTE Io non conosco la via bonaparte, non la conoscete voi senza sapere che ne venite traversate la via bonaparte dal caffè dei deux magots alla gola della senna fermati finché la tua ombra si rifletta sulle vetrine poi come fossi tutto ignudo tira via di mattina nella via bonaparte non vedete nulla per la nebbia di mattina traversa dalla via bonaparte se credi di farcela prendi i tuoi vecchi libri sparpagliali nella via bruciali come fossi diventato una battona metti da parte senno e ragione io non conosco la via bonaparte non la conoscete voi nella via bonaparte si rallegra il vostro cuore di notte nella via bonaparte la galaverna di frammenti di vetro gli spiriti della via bonaparte sono andati alla senna a giocare a palla davanti alla chiesa una coppia di mantelli in bicicletta la lancetta delle ore la lancetta dei minuti unite a mezzanotte l’ambiente notturno della via bonaparte è un altro nemici della moralità i cantoni sono inviti alla cupa prostituzione fa dunque un ciao di due parole alle lampade della via per un bicchiere di galvados vendi razza e caratteri io non conosco la via bonaparte non la conoscete voi la traversate come angurie e meloni rotolano via
La porta di Francesco è sempre aperta(*), la mia è sempre chiusa. Vivo all’ombra di tanti perché e non trovo pace né soluzione. La poesia non mi rima più e le parole si perdono sulla cima dei monti, fra le onde assassine del mare, nel giardino disfatto, disfatto come l’animo spento. Senza baldanza spingo sulla balza del monte corroso alla gioia a capriole per essere nella valle ma non oso: il tempo è tiranno. Spengo lento la falsa illusione che mi trascina su e giù tra colli innevati spenti al biancore degli occhi non più vigili, alle gambe in continuo piego alle foglie morte e mortaretti silenti all’ombra di luminarie paesane e passeggiate di Santi. Non c’è chi ti ascolta o non vuole ascoltare lamentele di un vecchio diventato bambino non capriccioso, amorfo direi – come lo stagno che porta fetore di marciume là abbandonato all’incuria e il tempo trascina verso la piena di lampi e tuoni e scroscio di lacrime seminate sul terreno non più alleato. Non c’è riparo né tempo a tragedie che si consumano lungo la gamba malata priva di medico, non della mutua, il medico, medico contabile che spinga l’uomo sulla strada della produzione-lavoro ma non c’è volontà né amore: il ladro colpisce e va via. Senza speme il calvario si snoda lungo il tempo e la strada è senza fine. Ciro Rossi Da “La mia porta è sempre aperta”, Intervista di Antonio Spadaro al Papa. (*)
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Comunicato STAMPA XXV Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2015, la XXIV Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, c. s., lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2015. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in
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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia- Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2015). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P. -N. Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio.
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I POETI E LA NATURA - 41 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
PABLO NERUDA (1904-1973) e la sua Ode “all'aroma”
T
ra le molte poesie di Neftalì Ricardo Reyes Basoalto (il vero nome del notissimo poeta cileno che solo a 42 anni cominciò a chiamarsi legalmente Pablo Neruda) vi sono numerose Odi (Odas). Ricordo qui velocemente i titoli di alcune tra quelle dedicate al rapporto col mondo della Natura. Fatta eccezione, quindi, per l'Ode, pur bella, scritta per il poeta Federico Garcia Lorca . Alludo quindi all'Ode al carciofo, all' Ode al fiore azzurro, all'Ode al dente di capodoglio, all'Ode al limone, all'Ode alle acque del porto, all'Ode al gatto, all'Ode al cane, all' Ode a un mattino del Brasile, all'Ode alla Croce del Sud (stupenda) e, in particolare, all'Ode al suo aroma. Quest'ultima, anche se è dedicata ad un al-
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tro essere umano (cioè, alla donna del poeta) può rientrare in questa rubrica per il suo eccezionale anelito al rapporto con la Natura nel suo complesso, per il suo sfrenato vitalismo naturale, per la delicatezza della sua liricità e la grazia e l'eleganza della sua sensualità. Dove si dimostra che un vero poeta può trattare qualsiasi argomento portandolo anche all'apice del sublime, a dispetto di qualsiasi esagerazione (purché questa non rimanga prigioniera di una sua oggettività “volgare”). L' Oda a su aroma, che fa parte delle “Nuove odi elementari” è troppo lunga per essere qui riportata (107 versi, molti dei quali brevissimi, anche di una sola sillaba), ma possiamo farcene un'idea (per accettarla o respingerla) anche solo citandone una parte, e precisamente quella comprendente certe caratteristiche tematiche e formali che hanno finito per contrassegnare Pablo Neruda come Poeta d'Amore. Poeta fisicamente, psicologicamente e artisticamente innamorato della terrestrità della vita umana. Ma anche, ahimè, uomo transeunte come tutti gli altri, precario sulla scena del mondo (e proprio per questo, così disperatamente attaccato alla vita dei sensi e dei sogni ad occhi aperti...). “ Soave mia, di che odori? Di che frutto? Di che stella ? Di che foglia ? E di qui prende le mosse l'estasi olfattivopoetica dell'Autore. Partendo dal piccolo orecchio e dalla fronte, tra i capelli e il sorriso, per cercare di “riconoscere/ la stirpe” dell'aroma di lei. Escludendo il garofano penetrante e il gelsomino violento, il poeta innamorato crede di poter dire: “......è qualcosa, è terra,/ è / aria/ mele o legnami/ odore/di luce sulla pelle/aroma/della foglia/dell'albero/della vita/ con polvere/ di strade/ e freschezza/ d'ombra mattutina/ alle radici/ odor di pietre, di fiume/ ma/ più simile a una pésca/ al tepore/ del palpito segreto/ del sangue,( odore/ di casa pura/ e di cascata/ fragranza di colomba/ e capelli/ aroma /della mia mano che perlustrò la luna/ del tuo corpo,/ le stelle/ della tua pelle stellata/ l'oro,/il grano,/ il pane del tuo contatto/ e lì/per
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tutta la lunghezza/ della tua luce furiosa/ sulla tua circonferenza d'anfora/ sul calice,/ sugli occhi del tuo seno.../ su tutto/ la mia mano lasciò/ odor d'inchiostro e selva/ sangue e frutti perduti,/ fragranza/ di obliati pianeti....”. La freschezza d'amore della sua donna fa vivere il poeta in estasi, come in una sorgente o nel suono di un campanile, tra l'odore del cielo e il volo degli ultimi uccelli. Attraverso il corpo della propria donna il poeta entra in contatto, come in trance, con l'intero mondo della Natura, sia terrestre che cosmica. L'Amore è anche odore, parola sulla pelle, idioma della notte nella notte di lei, del giorno nello sguardo di lei. L'aroma di lei sale dal cuore così come la luce sale dalla terra fino alla cima del ciliegio, e il poeta odora e nello stesso tempo vive integralmente, in un concerto sinfonico di sensi (che ci ricorda Rimbaud), su vari piani reali e in varie dimensioni, ben al di là delle quattro dimensioni finora conosciute (tre spaziali ed una temporale). Perfino un non-credente non può ostinarsi a ignorare che la Natura ha comunque riservato all'uomo dei doni sublimi per contrastare il Dolore e le negatività che lo opprimono. Che ci sono stagioni e momenti della vita in cui si intravede il “Paradiso Perduto” (Paradiso non solo intellettuale e spirituale ma anche dei sensi). Si sente a volte una forza misteriosa che mira con ostinazione a raggiungere l'acme, il punto dell'unione felice. Si può arrivare a questo punto di felicità ? Pablo Neruda lo intravede anche nella fragranza della frutta sommersa / nella notte che respiri/ nel sangue che esplora / la tua bellezza/ fino a giungere al bacio/ che mi attende/ nella tua bocca”. Luigi De Rosa
SIEPI Lenta la stagione si cala nello sguardo e trovo le siepi fiorite.
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Il crocevia è distante e lento il tempo nella sera. Il lago è calmo e liscio e la luna si flette nella collina irta a pochi passi. Tempo nuovo e distante silenzioso nelle brezze e terra brulla arata dal contadino nella ruota del carro che cigola. Il passante è lento e nella storia narrata un vecchio sulla panchina alta nel sole avaro. La fontana all’angolo stretta nella via copre una memoria taciuta nelle sere più aspre. Alda Fortini
TERRAZZATA ROMANA Chi sono io per giudicare? Sei Pietro, tanto per dire. Se tutto va bene madama la marchesa non c'è ragione che Pietro esista. Ciò detto, la marchesa servì gli stuzzichini. L'happy hour fu molto interessante Rossano Onano Reggio Emilia
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 6/2/2015 In un manuale di strategia per la conquista di Roma, L’ISIS afferma che, per riuscirci, occorre prima distruggere la Mafia. Alleluia! L’Italia è salva, possiamo dormire sonno tranquilli! Nessuno, infatti, è mai riuscito ad abbattere la delinquenza organizzata sul nostro territorio di Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta, Barbagia Rossa, Sacra Corona Unita. Domenico Defelice
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Recensioni CIRO CANFORA SUI SENTIERI DEL FIGLIO Associazione “Il Sebeto” Edizioni Magna Grecia, 2005 - Pagg. 32, s. i. p. Il gioiello che la Pasqua possiede è la Via Crucis, il sentiero della Passione di Cristo che termina con la resurrezione: senza di essa sarebbe come una scogliera senza il mare, o la luna senza il suo candore niveo. Ogni anno, il Venerdì Santo, l’ anfiteatro Flavio, meglio conosciuto con il nome di Colosseo – da colossale per il nesso con l’enorme statua di Nerone che si trovava nei paraggi e perché poteva contenere cinquantamila spettatori alla volta, che nell’epoca romana assistevano alle lotte dei gladiatori e non solo – si presta a fare da proscaenium luttuoso dove si celebra in mondovisione la solenne funzione della Via Crucis. E ogni anno la collettiva commozione è capace di riempire non solo tutta l’ ellisse del monumento – la cui circonferenza misura oltre mezzo chilometro – simbolo dei martiri cristiani, ma raggiunge anche gli spettatori, italiani e stranieri, che assistono dal teleschermo il seguitissimo rito. In questo caso la Via Crucis diventa una porta attraverso la quale si entra nella festa della Pasqua, della Resurrezione di Cristo, del risveglio degli animi tutti, della gioia. Ecco perché non può esserci la Pasqua se prima non avviene la Via Crucis. E ogni anno i commenti alle quattordici Stazioni sono sempre differenti, sempre toccanti e catechizzanti. Nel 2005, lo stesso anno di pubblicazione di questa spirituale silloge, le meditazioni e le preghiere alla Via Crucis da Roma
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– che fu l’ultima di San Giovanni Paolo II°, in quanto già gravemente malato, ci lasciò pochi giorni dopo da quel solenne momento – furono scritte dall’allora Cardinale tedesco Joseph Ratzinger, che divenne il papa successivo col nome di Benedetto XVI°. Riprendiamo un breve stralcio di una sua Meditazione di quell’anno, relativa alla Terza Stazione: Gesù cade la prima volta. “ (…) Nella caduta di Gesù sotto il peso della croce appare l’intero suo percorso: il suo volontario abbassamento per sollevarci dal nostro orgoglio. E nello stesso tempo emerge la natura del nostro orgoglio: la superbia con cui vogliamo emanciparci da Dio non essendo nient’altro che noi stessi, con cui crediamo di non aver bisogno dell’amore eterno, ma vogliamo dar forma alla nostra vita da soli. “ (Alle pagg.25-27 della Guida alla Via Crucis, a cura dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, Anno 2005, pagg.103). Di percorso abbiamo parlato e il poeta partenopeo, Ciro Carfora, per l’ occasione ha con le parole ‘ritracciato’, rispolverato il miserandus tragitto, allestendo per ogni stazione una particolare ambientazione fatta di versi. Lui, in pratica, è ‘entrato’ in quella speciale parte di storia per riportare a noi, con la poesia, le quattordici tappe che Gesù fece prima di morire. E’ entrato ed ha calpestato quel ‘sentiero’ irto, macchiato del sangue di Cristo, in salita, e man mano che egli si è avvicinato al luogo del Cranio il paesaggio intorno gli è diventato ostile, spettrale, carico dei peccati degli uomini, che soltanto Gesù riuscì a redimere e nel contempo assolse il mondo intero con il suo estremo sacrificio. Nel 1999, invece, fu lo scomparso poeta fiorentino, senatore a vita, Mario Luzi a redigere le meditazioni e nella sua presentazione della guida alla Via Crucis di quell’anno così si espresse: “ Quando mi fu proposto di scrivere il testo per le meditazioni della Via Crucis ebbi, superata la sorpresa, un contraccolpo di vero e proprio sgomento. Ero invitato a una prova ardua un tema sublime. La Passione di Cristo – ce ne può essere uno più elevato? “ (A pag.3 della Via Crucis al Colosseo, Libreria Editrice Vaticana, Roma, Anno 1999, pagg.60). Nella plaquette, insieme alle crescenti liriche, compaiono i disegni a colori del pittore Ciro Riccardi che non fanno che aumentare l’atmosfera irreversibilmente condannatoria che impera su tutto, perché in effetti si tratta dell’esecuzione ingiusta di una condanna di cui il governatore romano Pilato a suo tempo si lavò le mani, nel vero senso del termine. La poesia d’apertura trae il titolo da quello in copertina e poi ci sono le liriche per ogni stazione attinenti. “ Sui sentieri del Figlio/ interrogo la fede/
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che mi accompagna,/ ma la rabbia/ che ho nel cuore/ mi nega conforti/ di risposte./ “ (A pag.11). Ogni stazione riporta l’autentica denominazione della Via Crucis cristiana e poi si svolge la poesia, che è una preziosa nicchia entro la quale liricamente si reitera la scena relativa con Gesù protagonista: da quando è condannato a morte fino a quando verrà adagiato nel sepolcro. E poi “ E’ l’ora che i fiori/ ingemmino le strade/ per offrire alla terra/ un profumo di dolcezze./ E’ l’ora che il canto/ si sciolga nei cuori/ perché violenza e crudeltà/ brucino per sempre/ nei camini dell’inverno./ (…) E’ l’ora che i colombi/ danzino coi falchi/ per il risorgere della vita./ E’ l’ora, finalmente è l’ora;/ mio Dio/ perché gli angeli/ asciughino le lacrime/ di un poeta disperato./ “ (Alle pagg.30-31). In quarta di copertina della raccolta poetica è stato dichiarato che queste liriche sono servite per lo svolgimento artistico e religioso della Via Crucis cittadina, dove è avvenuta appunto una versione coi figuranti. Ciò conferma che la Passione di Cristo, oggi nel terzo millennio, affascina ancora e sempre di più, e la poesia è un modo per trasmettere a noi quella testimonianza dolorosamente rinnovatrice dei cuori degli uomini tutti. Isabella Michela Affinito
VIVIANE CIAMPI SCRITTO NELLE SALINE Genesi Editrice, Torino, 2014, € 7,50 Scritto nelle saline è il titolo del nuovo libro di versi di Viviane Ciampi, nato da un soggiorno della poetessa in Linguadoca, dal quale ha raccolto suggestioni e visioni per tradurle in compiute composizioni poetiche, nelle quali l’immagine interpreta con efficacia l’emozione. E qui in verità le immagini sono molte e significative, sorgendo esse dallo splendore del mondo circostante, del quale tutte s’ illuminano, anche se talvolta rivelano qualcosa d’ inquietante, che si nasconde tra le pieghe dell’ora. “Case salarie scoperchiate // nessun’ombra in vista / nessun passante // Gazze fratini calandre / qualche airone di passaggio. / Sono loro a tenerti prigioniera / … / Hai varcato il cerchio dei ripensamenti, / raggiunto l’esilio estivo” (Case salarie scoperchiate); “Pezzi del reale s’ incontrano // si contraddicono tra loro. / Nessun’arma per modificare le cose. / … / La marea arriva sempre di sorpresa” (Pezzi del reale s’ incontrano); “Vi è un solo fiore sul prato // un solo albero. // Sulla collina, un solo cavallo. / … / Vi è una lucciola. Una. Che dà il senso. // Vi è l’ orec-
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chio attento che ascolta / la ruminazione della terra” (Vi è un solo fiore sul prato). Qui la natura si rivela in tutta la sua forza selvaggia e in tutta la sua ricchezza di forme sempre nuove. E la parola si fa interprete del suo apparire e del suo mutare. La poetessa si sente coinvolta in una nuova condizione esistenziale che la seduce e che ella descrive con la consueta abilità espressiva. C’è in questo contesto anche la presenza dell’altro, che dà un senso diverso al mondo e al suo divenire: “Lui diceva: quando i tuoi occhi // diventeranno sentiero / forse c’incontreremo / … / Morivi e rinascevi a ogni nuovo bivacco / dentro l’ uvaspina / la mela verde / i larghi specchi / ricavando miele dall’angoscia // toccando il grande cerchio della terra” (Lui diceva: quando i tuoi occhi). Ciò che più conta in questo libro è però la costante presenza della natura, con le molteplici sensazioni che essa sa suscitare: “Il mistral s’è calmato / ha smesso di lanciare chiodi / - le dune materne e modellate in nuove forme - / non vola una carta” (Oggi hai comprato i sonagli alla fiera); “Passano i cavalli camarghesi nel viottolo. / Ne cavalchi uno / ma non arrivi al cancello che sai” (Gli parli da un difetto di lingua). Ed è il paesaggio (essenza quasi metafisica) che s’impone e che domina: “Ciò che appare: // forma di luce, / presenza che si staglia / sul bordo dell’assenza” (Ciò che appare). Anche il senso del mistero talora s’affaccia in questo libro e fa sì che sorgano dall’ignoto improvvise presenze: “Da qui, dal mare // intravvedi soltanto la coda dello squalo. // Ma c’è altro / c’è come un movimento verso qualcosa / un ritmo interno inafferrabile / non sai da dove arriva / a quale secolo appartiene” (Da qui, dal mare); “Vi è di notte quel certo modo // d’avanzare / così lento che non si spiega. // Tra veglia e sonno / appaiono i volti degli assenti” (Vi è di notte quel certo modo); ecc. Un libro intenso Scritto nelle saline e ricco di immagini molto efficaci (“Un nero sole di saline / diventa volto”, Non adesso non adesso dici); “… il mare ti viaggia accanto”, Il fuoco d’agosto ha chiuso le palpebre; “Di che materia è questa quiete?”, Ciò che appare); un libro che trae lo spunto da un viaggio, ma nel quale le apparenze, con le loro molteplici forme, rivelano sensi nascosti alla mente che le indaga. Certo, per l’autrice si tratta di un nuovo traguardo, dal momento che questa silloge ha ottenuto il riconoscimento del Premio “I Murazzi” per l’ inedito nel 2013. Elio Andriuoli
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DOMENICO DEFELICE MARIA GRAZIA LENISA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 Un omaggio molto sentito quello che Domenico Defelice fa su Il Croco di Gennaio 2015 nei confronti di Maria Grazia Lenisa, scomparsa nel 2009 a causa di un brutto male che non perdona. Defelice analizza minuziosamente la produzione letteraria della poetessa – scrittrice - saggista, che ha sempre desiderato vivere in un mondo parallelo a quello che si vive ogni giorno e ci è riuscita attraverso la poesia. Un mondo che lei è riuscita a crearsi dove non c’è assolutamente spazio per la malattia e per il pianto: un mondo gioioso e carico di immaginazione, pieno di valori e di amicizia vera. Lo scrivere, il poetare ha aiutato molto Maria Grazia Lenisa durante la sua terribile malattia, le ha dato la forza di continuare, di non mollare mai anche quando è sopraggiunta la fine. Del suo lavoro resta moltissimo materiale, a cominciare dalle raccolte di versi fino ad importanti saggi (su Giorgio Barberi, Antonio Coppola, Giovanni Ruggiero, Andrea Zanzotto e Corrado Calabrò). Certo la poesia è stata la sua opera principale abbracciando, almeno nella prima fase di scrittura, il Realismo Lirico. Poi per lei c’è stata una seconda fase di contaminazione, poiché ha spaziato su diversi temi quali per esempio, il sociale, l’amore, l’ erotismo e altri. Nei suoi versi si nota subito un’acutezza di pensiero, un’immediatezza nell’espressione e anche un po’ di ribellione. Spesso si rivolge alla figura femminile, in sua difesa soprattutto per ottenere maggior emancipazione e lo fa identificando le quote rosa con la natura. Ed ancora nelle sue poesie le è capitato di ricercare il divino, arrivando ad essere anche dissacrante. Maria Grazia Lenisa è riuscita ad essere anche ironica ed ambigua grazie ai suoi versi, aiutandosi con colori e sfumature. Insomma, nella sua travagliata vita a causa della malattia, la Lenisa è riuscita ad essere e lo è ancora, grazie ai suoi versi, poetessa raffinata ed innovativa. Roberta Colazingari
AURORA DE LUCA MATERIA GREZZA Genesi Editrice, 2014 - Pagg. 66, € 12,00 Non capita facilmente di leggere una poesia d'amore in cui la richiesta e la necessità di coinvolgi-
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mento e fusione con la persona amata sia tanto possente, ben rappresentata e a tal punto da produrre una affascinante, totale, unione d'anima e corpo, una inscindibile e perenne simbiosi. Come affermare che le due opposte identità oggetto d'amore sono energia allo stato puro, attrazione, protezione, semi che germogliano nello stesso humus, nature che si intrecciano sulla pelle, odorose fragranze che si fiutano e si riconoscono. Insomma materia grezza, come la definisce l'autrice di questo interessante volume, ossia dirompente energia da convogliare, plasmare, unire nel trionfo di una totale integrazione. Ma è anche, quello della poetessa, l'appello supremo ad uno stato di ubriacante identificazione di sguardi e d'anima dove a vincere è il chiarore sulla oscurità e dove la grazia dell'amore rappresenta l' ancora di salvezza. Una materia grezza che va continuamente modellata e sottoposta anche al vaglio delle prove più ardue e dolorose, nel disincanto del quotidiano, sempre con la consapevolezza di realizzare la fioritura di un sogno. Quello di Aurora De Luca è un canto d'amore ininterrotto, asciutto, assoluto, lapidario, mai romanticamente mieloso, che in certi passaggi ci riporta al poderoso e fantastico affabulare amoroso della grande e passionaria poesia di Alda Merini. E' evidente allora che la motivazione pressante ad agire della poetessa è quella della ricerca di un modus operandi in cui l'energia amorosa scaturisca da una matrice assolutamente non affinata, ma affidata allo stato primordiale della miscela materia e spirito. Una totale compenetrazione di odori, sapori, gestualità in un lui sognato a cui affidarsi in toto come si fa con lo spettacolo della natura, delle fioriture, delle terre e dei mari che si uniscono, dei venti che modellano, dei fiori che irrompono nella loro prepotente esplosione. Poco o niente c'è di rappresentato con gli occhi della ragione e del calcolo amoroso nelle liriche di questa poetessa ma invece si assiste ad un ricorso a 360 gradi ad una grazia d'amore totalizzante che esala dalla viscere più profonde della materia umana. Molteplici sono le aperture ed i riferimenti ad un territorio di selvagge bellezze, alle fragranze, alle cromie, alle unioni tra terra, mare e cielo. Scrive : “ Ti allunghi verso di me, coi tuoi rami di braccia/ e mi sussurri “ la mia giornata di sole/”... Ne viene fuori un poetica in cui è l'energia vitale a dominare in una continua tendenza a intersecare e intrecciare le componenti di una vogliosa naturalità, quando recita : “ Come la foglia d'autunno/ per me
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sei ramo/ ...” oppure : “ E' sempre mattina/ nei tuoi occhi di brina e di luna bianca./”... Già, perché è proprio un esigente riconoscersi e identificarsi nell'altro questa rigenerante poesia della De Luca. Un tutt'uno in divenire senza ombra di condizionamenti e con la massima devozione, la massima umiltà. In questo scenario di selvaggi e incolti territori si dipana quindi la poetica di questa giovane autrice che sa saggiamente miscelare innocenza e vogliosa carnalità , spiritualità e materialità, slanci di euforia e cosciente consapevolezza di possibili lontananze e separazioni nell'attesa di un ritorno felice, di un approdo onirico. Recita: “ E allora ti lascio piccoli ciottoli/ a fare da strada, / piccoli, soli,/ e cadono dalle mie tasche/ senza di me, / ma se tu li segui / è da me che verrai/ ”... Del resto è la stessa poetessa nella sua dichiarazione dal titolo “A Voi” a pagina 59 e 60 del libro che sottolinea la matrice genuina del volume e cioè la costante rigenerazione della materia grezza che è: “speranza che genera speranza, tempo passato che cede il passo al tempo nuovo”. Dunque una seminatura continua sui terreni aspri e seducenti del corpo e dell'anima, come in: “Tu la terra io il mare”, quando annota: “ Sei tu la terra/ confine intagliato e scosceso, / abissi da scalare; / io il mare, / tu la terra, costa mia,/ mio altro abbraccio, / secondo polmone/”... Versi fulminati nella loro brevità ed in cui spesso ad iniziare le liriche sono le “E” o il “Che” o il “Se” che imprimono da subito il timbro di familiari passaggi dialogici su cui innestare incantamenti e dichiarazioni. Come in : “E se le cose che ci tengono uniti/ sono fatte di vento e di sole, / di polveri primaverili/ che si lanciano in aria / e pare si disperdono......./ allora sono queste le cose / che saranno sempre vere / ”... oppure come in : “Che tu sia il mio sonno / ed io il tuo; /lì ci sarà l'avvenire/ ”.... Insomma un bel volume di liriche, una poesia a cui si aderisce come intimo e caldo rifugio d'amore, ben impostata nella metrica e nella musicalità e la cui lettura, nonostante la monocorde tematica, seduce e non stanca e che si apre con una lirica di perentoria affermazione, colmata di essenzialità, che va al cuore della questione e ne irradia le ragioni e si chiude dolcemente nella delizia di un bacio nei versi: “ Fatti vento/ anima di pane/ stammi di bacio a bacio/ come contagio/ ”... Un plauso dunque ad Aurora De Luca rivelatasi matura e pregevole poetessa d'amore. Carmelo Consoli
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ANDREA BONANNO IL ROMANZO E LA VERIFICA TRASCENDENTALE Edizioni dell’Archivio “L. Pirandello”, 2011 Pagg. 218, € 14,15 Andrea Bonanno, nato a Menfi (Ag), ma residente a Sacile (Pn), oltre che scrittore, è pittore e critico d’arte. Gli sono stati assegnati diversi e importanti riconoscimenti nei vari campi nel trascorso degli anni e della sua attività letteraria si sono espresse firme importanti, come Maria Grazia Lenisa, Vittoriano Esposito, Giorgio Saviane, Carmelo Rosario Viola, Giuseppe Bonaviri, Guido Cecchi, Alberto Cappi, Carmine Manzi, Lucio Zinna, Silvana Folliero. Il recente lavoro critico riguarda il romanzo sottoposto alla “Verifica trascendentale”, corrente di indagine creata dallo stesso Bonanno - a quanto ci risulta - e valida non soltanto per la narrativa, ma per l’arte in genere e la poesia. È ad essa, infatti, si richiamano anche le altre sue opere, come “L’arte e la <Verifica trascendentale>”, (del 1992), “Per un’arte della <Verifica trascendentale>” (1994), “La verifica nell’arte figurativa contemporanea ed altri saggi” (2003), “Poeti contemporanei per la <Verifica trascendentale>” (2007), ma anche “La poesia di Pietro Terminelli” (1995), “Saggi sulla poesia di M. Grazia Lenisa” (2004) e “L’arte deviata, otto Biennali di Venezia ed altri saggi”, del 2010. Filo conduttore, che unisce i vari saggi che compongono quest’ultima sua opera, è “la crisi”, non soltanto del romanzo in sé e degli autori stessi, ma della società in genere e del mondo intero; l’uomo, insomma, è talmente frastornato e confuso da non riconoscere più neanche se stesso. Una indagine affascinante, resa ancora più accattivante dal riporto che Bonanno sa fare con sapienza, sicché, molto spesso, non sembra essere lui ad usare il bisturi, ma gli stessi autori. Lavori del genere non si prestano a recensioni: vanno letti, magari accompagnati alla lettura delle stesse opere sottoposte a verifica. Il romanzo e la verifica trascendentale è intanto suddiviso in due parti: “Il romanzo, il senso della crisi e l’esigenza della ‘Verifica trascendentale’ “ e “Gli scrittori e la verifica trascendentale”. La prima racchiude i saggi: “La “Krisis” e la “Verifica trascendentale” “, “Il romanzo e il senso della crisi”, “Kundera e l’esplorazione dei codici esistenziali”, “Il romanzo polifonico e la “Verifica trascendentale” “, “Il metodo dostoevskiano e la verifica trascendentale”; nella seconda parte vengono esaminati opere e scrittori come Elio Vittorini, Guido
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Piovene, Giorgio Saviane. Ormai, “...i grovigli in cui si dibatte l’uomo - scrive Bonanno - si sono estesi ed infittiti a dismisura destinandolo ad un’ identità sempre più ambigua ed imprecisabile”. “L’ uomo di oggi in realtà è lo schema sconvolto di tutte le esclusioni della sua vera identità condotte in nome della Logica e della Filosofia”. L’artista (scrittore, pittore, poeta), secondo Bonanno, è messo davanti a un bivio: “o sfida il labirinto (tale è ormai la realtà ridotta a caos e al non-essere) o attua l’immedesimazione mimetica di esso, per accrescerne o farne risuonare al massimo livello il suo caos e il suo disordine”. L’industria e la tecnologia dei nostri giorni, secondo Bonanno, hanno asservito lo stesso io dell’uomo e trasformato il mondo in una trappola. Uno studio meticoloso, portato avanti con metodo quasi scientifico, questo di Andrea Bonanno, che fa di lui uno dei più seri e accattivanti critici nell’ odierno panorama culturale e artistico e che rivela, impietoso, la “triviale pantomima di larve di uomini che una certa ideologia ha rivestito di una forma fittizia che contraddice la loro rispettiva coscienza, creando uno iato abissale ed angoscioso fra ciò che essa pretende che siano e ciò che effettivamente ed umanamente sono”. Il loro stato, perciò, è “un tormentoso itinerario autoanalitico”, “una drammatica contrapposizione fra l’ossessiva e feroce autorità del potere (...) ed il senso della libertà (...) che si evidenzia nelle manifestazioni del [loro] trasgredire”. Domenico Defelice
QUANDO FINISCONOI SOGNI Dove va l’amore? Dove va il pensiero quando finiscono i sogni e la speranza? Tutto va nel limbo della nostra eternità... Francesco Terrone da Il linguaggio delle stelle - The Language of the Stars - Edizioni Il Ponte Italo-Americano, USA, 2013.
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PAOLA INSOLA ELOGIO ALLA MIMOSA 2°Premio Città di Pomezia 2014 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 “Sono mare in empatia di luna/complici di un moto che respira la terra” Elogio alla Mimosa è il canto del disfacimento “Sono sabbia a declinare le rive/e mi scopro nel tumulto di risacca/a indagare l’amara certezza che insegue/l’onda frantumata nel dubbio” (da Simbiosi). La tecnica poetica si fa profondamente metaforica, l’eufonia dei versi richiama ritmi lenti, gravi alle volte, alle volte neri. Non ci sono consonanti che stridono, ne punte aguzze, né sonorità graffianti, non sono versi duri, sono come la nebbia, un’opaca nebulosa che oscura il giallo della mimosa. Il Poeta dà voce a certi silenzi, declinando la mancanza, l’ assenza, il vuoto, facendoci udire solo di lontano la voce di un flauto, come un richiamo forse. “Voglio uno spazio giallo/dove incontrare chi pena tra queste mura” (da Uno spazio giallo) e poi “Resisti ancora popolo minuto” (da Ri-Nascita) e infine “Per una tregua bianca di neve/altri giorni di fango e sabbia/verranno a lacerare vincoli di pelle” (da La culla del mondo) : non può che essere il gene umano, cellula divina ed infernale, corrotta, malata, che spegne la fratellanza seminando discordia, sfiducia, la distruzione dell’anima e del corpo. Elogio alla Mimosa è quindi canto del disfacimento, la passeggiata tra le macerie di una città bombardata, sulle rive dove sbarcano naufraghi, tra le corsie dove la lotta è tra la vita e la morte. Una lotta quindi, dove la mimosa è simbolo di luce, di tenero amore, di accordo con la vita, di gesto carezzevole “Di Nuovo” insieme! Se non ora, quando?” (da Insieme). La raccolta si alterna tra testi di belle immagini poetiche e testi di prosa poetica, a questi ultimi dà il compito d’indagare con gli occhi umani – vedi “Sete” o “Talcoban” o “I violini di cracovia”- le cronache odierne, alternando gli eventi reali ad abbrivi poetici. Ma è, a parer mio, in testi come “Simbiosi” o “Silenzi” o “Insieme” che il poeta riesce a raggiungere l’unità tra presente (in disfacimento) ed eterno, a trasformare cioè la materia (disfatta) umana in bellezza poetica (cioè bellezza che si fa). È così che il lettore è portato, senza sapere distinguere perché o per come, a rabbrividire, ad essere sul punto di piangere senza però piangere, a provare uno stupore estremo e profondo, che lo commuove per qualcosa di esterno eppure di carnalmente suo. Ci si dimentica dell’identità dell’autore,
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o che ve ne sia uno, si è portati a credere che il tormento sia proprio il nostro, o di tutti, non è più certamente appartenente all’autore, non è più la sua indagine, la sua ricerca, il suo sguardo; è la Poesia, che si alza e cammina con le sue gambe: lo stile e la bellezza. Il dolore del mondo entra nelle ossa di ognuno ed è il punto di contatto che trasforma il reale, nella completezza dei suoi contrari vita-morte, in lampo assoluta eufonia. “A tradirmi è questo cielo/rammendato di nubi/chiuso ai riverberi/dove eri preciso attimo/d’un intenso calore” (da Riverberi). Aurora De Luca
GIOVANNI MAURILIO RAYNA DAL SENO DELL’AURORA In copertina, olio di Domenico Moraglio - Santarosa Editore – Savigliano (Cuneo) Ho conosciuto don Giovanni Maurilio Rayna qualche anno fa in Liguria (era venuto a ritirare il primo premio a un Concorso di poesia organizzato a Chiavari da Alberto Dell'Aquila). L'ho apprezzato, ne ho scritto, e da allora mi manda regolarmente i suoi libri. E' dal 1957 in poi che il sacerdote-poeta, che vive e opera a Savigliano (Cuneo), pubblica sillogi, collabora a riviste, vince concorsi, è membro permanente di giurie (come quella del Premio Massimiliano Kolbe). Ormai il numero dei suoi libri si avvicina a trenta, e ciascuno di essi si distingue non solo per la raffinata qualità dei versi e delle immagini, ma anche per la grafica preziosa, le illustrazioni a colori, l'abbondanza di calibrate citazioni da altri poeti e scrittori, tra i quali, in modo rilevante, i sacerdoti-poeti. Ad esempio, David Maria Turoldo, un esergo del quale ci accoglie già dal frontespizio dell'ultima opera: “ O Poeti, fratelli miei, sempre più solitari ed esclusi: fanciulli di Dio, a questa generazione ancora più inutili di una colpa voi siete liberi: di volere tutto spiegare.” L'ultimo libro di Don Rayna dal titolo Dal seno dell'aurora, comprende sue liriche degli anni 2013 e 2014. Come precedenti sillogi, trae il titolo dalla Bibbia: “Dal seno dell'aurora, come rugiada, ti ho generato” (Salmo 110). E, come quelle, cerca di arrivare al cuore dei lettori attraverso immagini belle e consolanti del mondo della Natura, per attingere il Sacro attraverso il Bello. Nell'inviarne copia agli amici e ai lettori, quest'ultimo Natale, il poeta spie-
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gava : “ Il mio dono s'accompagna ad un augurio e ad un invito: provate a leggere... queste poesie con raccoglimento, adagio, una per sera, nella quiete della giornata finita, nella povertà del cuore e del sentimento, nella nudità del vostro pensiero, e facilmente vi troverete più vicino a Dio.”. Quanto alle tematiche preferite, non possiamo non ricordare “…..il dono della meraviglia per le piccole cose che sempre vivono e muoiono accanto a te dove trascorre l'eterna danza della vita.” Solo la Bellezza su questa Terra, benedetta dall'amore di Dio, può consolare l'Uomo della sua “eterna pena”. Non nella follia del mondo, ma nelle piccole buone cose di ogni giorno, puoi vedere finalmente l'epifania di Dio. Cercalo oggi accanto a te prima che sia troppo tardi. E non disperare. Ma continua a credere nella forza dell'amore. “ Occorre aver camminato tutta una vita per imparare a sorridere e soltanto quando si ridiventa bambini …. Sciogli il tormento della vita che t'ha rubato la felicità e fermati al quadrivio della strada dove incontri una mamma col suo bambino nell'estasi del grande mistero. Negli occhi dei bimbi racchiusa è la speranza e l'innocenza perduta per le strade del mondo: il sorriso è il pane del cuore!”. Luigi De Rosa
AURORA DE LUCA MATERIA GREZZA Genesi Editrice-2014 Riprende Aurora De Luca, in questa nuova raccolta “MATERIA GREZZA”, perché è più forte di lei, a cantare la cosa più bella al mondo che è fonte di gioia e anche di dolore. Riprende con slancio e convinzione il canto per l’amore che, come ebbi già a riflettere in un’altra occasione, è il puro e semplice canto per il sentimento amore. Questa convinzione nasce dal fatto che ”un lui” o ” il lui”, è figura sfuggente, defilata rispetto alla forza del sentimento della poetessa. Certamente l’indirizzo è noto a colei che manda i messaggi ed è sicuramente qualcosa di reale, ma a chi legge rimane però la vaghezza, anche se la sua figura si delinea molto bene: “saturo di sale; verità negli occhi; materia grezza/ e genuina essenza”. Nell’analisi del testo
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non voglio fermarmi nella valutazione della sua perizia nel sapersi destreggiare con metafore ed altre figure retoriche che è normale vengano adoperate soprattutto in poesia. Voglio andare su un campo diverso, voglio incamminarmi su di un sentiero che è forse solitario e mi porterà probabilmente lontano, più in là del significato e del significante dalla poesia di Aurora. Ma questo mi attrae molto di più delle solite parole in condominio che in molti spesso si scrive nei confronti di un autore. Ella stessa nella sua dedica mi cita come quello che “sa trovare l’ angolo di visuale giusto”. Non vorrei però che questa affettuosa dedica mi ponesse agli occhi del lettore come colui che vuole proporsi come un eccentrico analitico. Certo è però che mi piace, mi diverte, mi stimola, navigare nel poeta: considerarlo corso d’acqua da esplorare. Indispensabilità, dunque, per la poetessa del parlare d’amore: MATERIA GREZZA di una disperazione o preciso fine per proporre un ingigantimento dello sguardo su questa materia, al fine di fare comprendere l’universalità del sentimento amore. La pagina scritta ridotta, l’attenuazione di registro, in alcuni momenti l’attenuazione di sonorità, sono tutti strumenti maieutici per realizzare la sfida del piccolo al grande, ossia far comprendere come si possa passare da un grande schianto (..il tuo viso, fra molte facce, mi vide..), al battito più lento per poi alla prossima occasione ripartire (se tu mi strappassi il cuore/sarebbe per averne uno, /per sentir bene tutto il dolore…).Itinerario in questo lavoro della De Luca, di sentimenti ed inquietudini di una viaggiatrice che si avventura nel mondo dell’ amore: un mondo quotidiano apparentemente nuovo ma sufficiente a suscitare una metafora della vita e delle cose antiche con essa legate. Segni del mondo scontati ma anche i più sicuri a cui ci si può aggrappare. Il bisogno umano di certezze, di scoglio al quale restare avvinti possibilmente tutta la vita. Scoglio, una volta che si è trovato quello giusto, sul quale tenere le mani ben salde cercando di non ferirsi troppo o magari di non ferirsi affatto. C’è in questa raccolta un’ansia di comprendere oltre che vivere una vita, che svelano una religiosità quantunque essa si sia laicizzata proprio per un bisogno quasi etico di capire cosa c’è e resti realmente nell’ amore, o forse sarebbe meglio dire delle cose della vita. Da terra aristotelica la poetessa ama guardare e sentire le nuvole lontane nel cielo, il mormorio delle acque, il volo degli uccelli, i sussurri del vento, lo schiudersi dei germogli, il respiro della pelle, le cose e le mura che ci contengono, la tensione intima di un sogno. Il tutto per cogliere quel mistero di chi le abita queste cose, sottolineando in una natura ordinaria i segni e i dogmi teologici che eppure e-
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sistono. L’immanenza, la conoscenza, la metafisica, la logica formale, l’etica : unità segniche minimali per vivere un ‘esistenza felice, soprattutto se questa si può realizzare con la persona che “sia tuo quel momento in cui era inizio”; e ancora la specialità, il particolare, il comune per tutti: il diverso, l’unico per chi si è fatto scegliere: “la magia si scatenò nel mezzo di uno di quei giorni qualunque”. La precipua caratteristica poetica della De Luca è quella, specie quando fa poesia d’amore, di trascrivere e di creare corti circuiti tra spirito e mondo, che diano una scossa, che tengano sempre in vita: anche se la “materia grezza” su cui si sta operando è di quotidiana banalità, nel senso che entra nell’ordine naturale delle cose, tale da rischiare di passare inosservata o peggio ancora da risultarci indifferente. Ma ecco la perizia linguistica di Aurora che scaccia via prepotentemente questo pericolo. Il contesto semeiotico che organizza è di una precisione e rispondenza ben indirizzata e mai banale. Si appropria, per esempio, della fiaba di Perrault “Le Petit Poucet” per invitare l’Amore a raggiungerla seguendo i pezzi di dolore che come sassi cadono dal suo cuore. Come un consumato attore teatrale la De Luca sa gestire i tempi, che nella sua poetica sono sia il chronos che il kairos. Conosce quando è il momento di usare il tempo logico e sequenziale di chronos, e quando è il momento invece di usare quello del tempo di mezzo, kairos: quando qualcosa di speciale accade. Il tutto dipende dall’ uso della parola e soprattutto da chi usa la parola. Chi usa la parola definisce la cosa e nel contempo l’ essere della cosa e per converso l’essere speciale della cosa. È quindi la parola che definisce l’essere speciale nella quantità(chronos) e nella qualità(kairos). C’è tanto kairos nelle sue azioni, che devono essere compiute tempestivamente senza esitazione né ritardo ed è indipendente dalla volontà divina (aspettavi ti vedessi anch’io, ma io non lo feci). La poetessa conosce anche molto bene i problemi connessi con l’uso segnico della parola. Sa ben distinguere il momento in cui usare un onoma segno che significa una cosa: pelle, lillà, vento…; un rema ossia riferimento temporale: i miei inverni, luce notturna, il mare salato si fa calmo... Oppure usare il logos per un intero discorso significativo: ” preziosissimo minuscolo mio, la mia pelle respira, questi giorni vestiti di nebbia…”. Esiste ancora in questa lettura dell’opera di Aurora, una problematica filosofica legata ai rapporti tra segno(scrittura), pensiero e realtà, nel senso che l’amore è materia grezza? ; e tra le due cose esiste un rapporto di ordine logico e semiotico?. Esiste un rapporto di ordine semiotico da un lato e ontologico dall’altro?. L’oggetto(lui) è in qualche modo causa del se-
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gno(ovvero di scrittura poetica)? E quale è il rapporto funzionale tra la poesia che si è scritta e l’ oggetto a cui essa di fatto si riferisce, mancando il quale l’opera sarebbe priva di ogni valore denotativo, o addirittura potrebbe non prestarsi ad asserzioni dotate di senso? Qui la cosa non è affatto semplice e nessuna delle domande esclude l’altra. Aurora è consapevole di tutto ciò? E se fosse così perché nel suo commiato A VOI, rimette nelle nostre mani questa MATERIA GREZZA? La sua lingua, proiezione fisica di un involucro spirituale, esprime razionalmente l’inesprimibile, come in genere è l’amore, che ha ragioni che la ragione non comprende, per cui ha bisogno di cospargersi, di riempirsi di segni per diventare un prodotto culturale riconoscibile, leggibile, e direi connotativo dell’ autrice. E come accade in genere guardando un quadro di un grande artista, come magari De Chirico, o Magritte, o altri maestri, vi è nella loro espressività artistica una collocazione ben determinabile tale da far dire :questo è De Chirico, Guttuso, Magritte. Così succede che anche il significato e il significante che la De Luca dà alle sue opere, deve essere tale da fare risultare facile il suo riconoscimento artistico che porti a dire: questa è Aurora De Luca. Obiettivo questo palesemente espresso, oppure mal celato da chiunque adoperi una delle qualsiasi specie culturali in cui l’uomo ha affinato la sua natura selvaggia elevandola verso una spiritualità, a volte anche lacerante. Per raggiungere il suo obiettivo di riconoscibilità, la poetessa sa bene quanta paziente cura bisogna mettere nel lavorare la materia grezza che non è l’amore, ma la poesia che celebra questo sentimento o meglio deve servire a plasmare l’oggetto a cui è rivolto l’amore. E sa anche che può succedere che il risultato non soddisfi se stessa e quelle persone a cui è rivolta la cura, per il semplice fatto che i destinatari non sanno o non riescono a capire che il nuovo nascete scaturisce sempre dalla rigenerazione di un passato .Il mondo e le sue cose, tra cui l’amore, sono cose nuove per colui che è nuovo a queste cose. Ecco la preziosità di essere giovani e volenterosi plasmatori della materia grezza. Ad un certo punto però la De Luca sembra quasi che voglia liberarsi dal peso della responsabilità, che le grava sull’anima, di forgiatrice della materia grezza che si trova tra le mani, e al tempo stesso vuole rispettare questa responsabilità senza intaccarla con i brevi momenti di smarrimento e allora si aggrappa al suo scoglio: ”stammi tutta in punta d’occhi” oppure ”stammi di respiro a polmone”. È l’invito a un “tu” a starle vicino nel momento così importante in cui la MATERIA GREZZA deve prendere una forma definita e definitiva. La cosa si avvererà ma occorre il tempo
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chronos, questa volta, e le parole; perché come dice Paul Eluard : Le temps se sert de mots comme l’ amour (Il tempo si orna di parole come l’amore). E la De Luca è naturalmente dotata all’uso delle parole, che scrive in piena armonia non solo con se stessa, ma con tutte le cose belle che il creato le sta donando e che le donerà, le auguriamo per lunghissimo tempo, per arrivare “ dove tutte le promesse/ sono semi protetti”. Salvatore D’Ambrosio
RODOLFO VETTORELLO VOGLIO SILENZIO Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 Rodolfo Vettorello ha meritatamente vinto il I° Premio “Città di Pomezia” presentando la silloge poetica “Voglio silenzio”, pubblicata su “Il Croco” di settembre 2014. Sono liriche tutte pervase da una sottile malinconia dovuta a delusioni sentimentali subìte e alla nostalgia della vita semplice ed essenziale della sua giovinezza. Per questi motivi, ora egli desidera stare solo con se stesso e con i propri pensieri, isolato, nel “silenzio”, a contatto solamente con i flebili suoni della natura circostante, per riflettere come poter dare una svolta al proprio “male di vivere” e poter ricominciare, finalmente, ad amare, facendo ciò che non aveva “osato” a causa della propria eccessiva timidezza e per il grande rispetto che portava verso la sua ragazza, a cui dice: vorrei ”fare di te il mio punto all’infinito,/ verso cui tendo.” Infatti, come basterebbe un incontro fuggente per cambiare la propria vita in un senso o nell’altro, così può accadere che “la sicurezza si farà cristallo,/ la mia fragilità// quasi certezza.” E, riconoscendo le proprie insicurezze, egli ci confida: “Mi arrendo presto come fa col vento/ la foglia che si lascia trasportare…” Come i castelli costruiti con le carte da gioco facilmente crollano, e come dopo il tripudio dei fuochi d’artificio ritorna il buio, e come dopo l’estate ardente tutto ritorna come prima, così “La vita lascia tante cose dentro,/ qualche sorriso e a volte un po’ di pianto./ Basta aspettare si consumi il tempo./ A farci compagnia solo il rimpianto.” Ed aggiunge: i profumi sono come i ricordi: svaniscono. La sua vita è un continuo dibattersi fra arrendersi alla propria fragilità o sperare in un raggio di luce. Egli, inoltre, è preso anche dalla nostalgia della sua casa e del suo paese natale, un tempo così pieni di vita ed ora invece, soli, abbandonati, come lo è lui. Maria Antonietta Mòsele
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TITO CAUCHI MICHELE FRENNA nella sicilianità dei mosaici EdiAccademia Isernia, 2014 Di Tito Cauchi ci è pervenuto il volume “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” a cura di Gabriella Frenna (EdiAccademia Isernia, 2014, pagg. 192, e.f.c.), scritto in occasione del primo anniversario della scomparsa del grande Mosaicista. “Il battito di un bambino si propaga per tutto il pianeta”: così la perdita di Michele Frenna “poeta dell’immagine” ha sconvolto l’intero mondo dei suoi amici e degli artisti in genere. E la sua valenza sarà riconosciuta ancor più dopo la morte. L’Autore qui ricorda la visita effettuata al Mosaicista (già malato) nella sua casa tutta tappezzata di quadri, e la squisita accoglienza ricevuta. A sorpresa, Frenna aveva appena realizzato il mosaico del Castello medievale di Gela per donarlo a Cauchi, nativo proprio di quella città: altro motivo, la sicilianità, per una loro speciale affinità d’animo di artisti (chi nel mosaico, chi nella scrittura). Quanti Autori hanno parlato di Frenna! Quante pubblicazioni e bibliografie sono uscite su di lui! Qui, dopo un’attenta biografia, Cauchi passa in rassegna le molteplici opere a lui indirizzate - riportandone le foto di copertina e di altri quadri - fra cui “L’Antologia, L’Arte del mosaico di Michele Frenna, La Via Crucis, Simbolismo e spiritualità nelle opere, Dai mosaici alla poesia, Sintesi dell’antico e del moderno, La serie dello zodiaco”: tutte ricche dei commenti di valenti critici dell’arte, della religione e della storia (fra cui Giuseppina Maggi e Orazio Tanelli, Salvatore Perdicaro, Vincenzo Rossi, Carmine Manzi, Domenico Defelice, Leonardo Selvaggi, ecc.) che rilevano l’umanità espressiva ed estetica, l’impegno sacrale e sociale, l’ immediatezza del sentimento, la fantasia, nonché la tecnica personale sulla scia degli antichi bizantini, arabi e normanni: giudizi ai quali, a sua volta, Cauchi fornisce le sue ulteriori puntuali considerazioni. E quante Riviste d’arte hanno pubblicato i suoi lavori! Per finire, l’Autore riporta una testimonianza della figlia di Michele Frenna, Gabriella, che è pure una curiosità: da anni, suo padre stava preparando una monografia proprio su Tito Cauchi, strutturando la disposizione dei testi di Cauchi con le proprie opere musive; ma data la sua quasi improvvisa scomparsa, non è stato possibile portare a compimento l’opera che, però, Gabriella si promette di ultimare al più presto per esaudire il grande desiderio del padre. Per poco, le due rispettive monografie sarebbero uscite insieme: che sorpresa reciproca e che affinità! Maria Antonietta Mòsele
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LUIGI DE ROSA IMPERIA TOGNACCI e i suoi poemi in poesia e in prosa Edizioni Giuseppe Laterza, 2014 Luigi De Rosa ci presenta “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa” – saggio monografico sull’opera della poetessa e narratrice di san Mauro Pascoli (Edizioni Giuseppe Laterza, 2014, pagg. 262, € 20,00). E’ questo un impegnativo ed importante lavoro di rassegna delle singole opere della Scrittrice, abbinate ai giudizi critici dei più autorevoli letterati attuali, tutti sotto lo sguardo attento dell’Autore che, fin dagli esordi, ha seguito e altamente apprezzato la vasta produzione della Tognacci. Distinguendo le opere in poesia, e in tutto accordo con quanti hanno detto di lei, Luigi De Rosa mette in evidenza il passaggio da un mondo di felicità interiore tipico dei primi lavori della Poetessa ( “Traiettoria di uno stelo”), verso via via riflessioni di carattere religioso (“La notte di Getsemani”) o nostalgico (“Natale a Zollara”) o umanistico/letterario (“Odissea pascoliana”) o sociale (“Il prigioniero di Ushuaia”) o esistenziale (“Il lago e il tempo”) o addirittura mistico (“Là dove pioveva la manna”): tanto per citare alcuni fra i temi - arricchiti da stimolanti viaggi all’estero - trattati in qualche sua opera. L’Autore, passando ad esaminarne la produzione in prosa, rileva il flusso unitario e continuamente creativo, intessuto di alta poesia, di delicatezza di pensiero e di spiritualità: doti non comuni, ma peculiari di questa Narratrice. Naturalmente, è Giovanni Pascoli che la ispira per primo, in un saggio, perché entrambi simili per sentimenti di umanità, luogo d’origine e tradizioni. Ma troviamo anche una raccolta di storie (“Non dire mai cosa sarà domani”), soprattutto di donne contemporanee, belle dentro, intelligenti e dal cuore generoso: storie dal tono autobiografico, come autobiografico è il romanzo”L’ombra della madre” che dimostra i forti legami affettivi famigliari, una saga delicata e misurata, dalle immagini altamente poetiche, di lirica pura. De Rosa ci porta a conoscenza di un romanzo attualmente inedito (è una prima stesura) in cui la Scrittrice parla di quelle giovani che, costrette da condizioni famigliari disagiate, entrano in convento senza vocazione, e poi vorrebbero uscirne, ma, sentendosi quasi costrette a restarci, rimangono frustrate, umiliate e indignate. Mi scuso di non riportare alcun nome della lunga lista di Critici letterari citati dall’Autore. Maria Antonietta Mòsele
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CARLOS CHACÓN ZALDÍVAR EL RETRATO FEMENINO Ed. Sanlope, Las Tunas Cuba 2013 Naturalmente tutto scritto in lingua spagnola, ci è giunto il volumetto “El retrato femenino” en la poesia de Carilda Oliver Labra (della quale ammiriamo in copertina il bellissimo volto!) – di Carlos Chacón Zaldívar. Questa riedizione è stata realizzata in occasione del conferimento del titolo di Dottore Honoris Causa in Scienze Umanistiche alla poetessa Carilda Oliver Labra (Autrice di più di trenta opere liriche), presso l’Università di Matanzas (Cuba), nel marzo 2013. Chacón, all’inizio, fa alcuni richiami sulla storia del ritratto femminile nella poesia, e precisamente ci rammenta che, nella lirica medievale i poeti (fra i quali Luis de Góngora) usano fermarsi all’aspetto prettamente fisico; Petrarca, dal canto suo, idealizza il modello femminile con espressioni metaforiche; Suor Juana Inés de la Cruz, messicana, adotta il virtuosismo cortigiano. La poetessa cubana Carilda Oliver Labra, invece, fin dal 1949, attraverso la descrizione dei tratti esteriori, ci fornisce il carattere delle donne presentate e i loro sentimenti, utilizzando spesso originalissime ed inaspettate immagini e similitudini: vedansi, ad esempio, “Versos para Ana”: -Tu che sei triste e ti appoggi sotto il melo,/ ..e sai consolare i poveri con la parola / sabato - (sabato ha qui il significato di festa, allegria). E in “Elegía por Mercedes” troviamo: <Si chiamava Mercedes. Ed era buona./ Dicono che tutto il mondo la desiderava./ Col suo sorriso incantevole/ una statua di nebbia pareva.- Si chiamava Mercedes. Ed era pura/ come il bianco stanco dei suoi capelli>. Nella “Biografía lírica de Suor Juana Inés de la Cruz”, Carilda così la descrive: <E’ di vergine la sua bellezza/…E’ Angelo che procura/ consolar poveri e vecchi>; ed ancora: <casta come la luce,/ duttile come l’alambra> e, più in là: <Pone il miele la sua mano quando tocca,/ porta amore il suo piede dove passa;/ se la chiamano qui, qui è la sua casa,/ sua famiglia è un bacio che la forma>. Altra opera poetica è “Memoria de la fiebre”(1958) in cui Carilda tratta temi sociali, come: La vicina morta, La divorziata, in cui, attraverso la descrizione del portamento di questa donna, ne si intravede l’animo (che, in parte rispecchia l’intimo della Poetessa stessa): <Si veste bene. Cammina come nuvola./Tiene lo sguardo come vinto/ e un’aria di colomba maltrattata,/ ha il sembiante di cadavere./ E’ triste se va vicino al mare./ Che silenzio grave nella sua fronte!/ Questa ragazza, così dif-
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ferente,/ scrive versi per non piangere…> . Bellissima anche la lirica “Retrato de Sara” che sembra una bambola dal vestito a veli, con la cintura alla charleston, le scarpe rosse…- Bevo la tua memoria/ la curo/ come fosse una tisana- : ecco l’ originalità sorprendente delle metafore di Carilda, che fuggono da qualunque convenzione. Già nell’opera “Al sur de mi garganta” (1949), nella poesia “Elegía por mi presencia”, per la prima volta, si apprezzano gli elementi di un autoritratto dell’Autrice: <tristezza negli occhi…capelli colore del mezzogiorno/…Desidero esser solo questa ragazza povera/ questa ragazza bionda/ simile all’erba, al pane e al rame>. Autodescrizione che riprende in “Carilda”: -Ho i capelli biondi; di notte si arricciano./ Bacio la sete dell’acqua, dipingo il tremore del loto// Ho la fronte retta, color del latte puro,/ e una speranza grande, e una matita che mi dura,/ ed ho uno sposo triste, lontano come il mar.// In questa casa ci sono fiori e uova,/ ed anche un’enciclopedia e due vestiti nuovi;/ e senza dubbio, invece…vorrei solo piangere!> : In questo sonetto alessandrino, Chacón vede la poetessa nella sua piena identità. Come, del resto, il critico Virgilio López Lemus dice che qui, se la prima impressione è di frivolezza, invece ci viene svelata la sua anima. L’Autore esamina minuziosamente ed in profondità ogni espressione di Carilda, ne riconosce lo stile elegante, dalla pienezza espressiva; la sua voce lirica è un’essenza rara che dà vigore ad ogni verso; il linguaggio è diretto, fresco, carico di emozioni in ogni parola. E rileva che questa poetessa ha necessità di mostrarsi, di autodefinirsi, per cui così si esprime: -Carilda avrà finito di guardarsi allo specchio dei suoi versi? Solamente il tempo ci darà la risposta.In altri scritti, però, la Poetessa parla dell’amore per la sua città e per il suo popolo, ed anche della Rivoluzione nel suo Paese, per una giustizia sociale. (Avrei dovuto mettere a confronto il testo spagnolo dei versi con la traduzione italiana, ma ho scritto direttamente nella mia lingua anche se non ha lo stesso “colore” e lo stesso “effetto” di quella originaria: accontentiamoci così!). Maria Antonietta Mòsele
PAOLA INSOLA ELOGIO ALLA MIMOSA Il Croco – I quaderni letterari di POMEZIA NOTIZIE – Dicembre 2014 Con la raccolta Elogio alla mimosa, che ha meritato il 2° Premio Città di Pomezia 2014, Paola Inso-
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la ci dona un vasto e pregnante pensiero. Come ha ben rilevato Domenico Defelice nella prefazione, la mimosa per la poetessa rappresenta il mondo femminile (infatti, è il fiore che accompagna l’otto marzo), e l’elogio è rivolto al coraggio, alla forza d’animo, ai sentimenti profondi che spingono la donna ad accettare situazioni anche estreme, riuscendo a combatterle e a volte anche a superarle. Diverse liriche sono ispirate da fatti di cronaca. Tragedie naturali o frutto della cattiveria umana, come in “Sete” che narra il crollo di uno stabilimento per colpa di un proletario aguzzino, e sono sempre donne a morire. Paola Insola adotta una struttura centrale cosicché i versi sembrano danzare sulla carta e la sua fluida voce si apre al racconto. La silloge comprende anche momenti d’introspezione: “Vado per strade di fango ed aria a rovistare / filamenti di quiete oltre il confine / tracciato dalla sola falda del silenzio. “e ricordi, come nella bella poesia “Amen” dove la figura paterna emerge in tutto il suo valore: “Con le scarpe sfondate ha camminato paesi / portando un tributo alla fame di quei giorni / orgoglioso d’essere uomo / senza fama, né macchia o paura.”. Nel complesso regna un’atmosfera gravida delle problematiche di una società ricca di drammi sociali. Sin dal tempo dell’olocausto a quello ancora più antico dei rancori tra cristiani e musulmani; dai disperati che fuggono dalle proprie radici nell’utopica speranza di trovare una migliore esistenza, ai bambini rinchiusi in carcere, che anelano alla luce: “Voglio uno spazio giallo / e musica dolce di certezze / per salvare favole dall’amara / fonte delle offese che ogni giorno / puniscono queste colpe non mie.” Paola Insola ci ha così coinvolto in temi molto importanti e difficili da risolvere, soprattutto per la nostra odierna società che sta andando sempre più alla deriva. Laura Pierdicchi
ANTONIA IZZI RUFO CASTELNUOVO, Terra di canti e di suoni, di miti Uil Convivio, 2014 - 80 pagg., € 12,00 Ecco un’opera eccellente, a scopo divulgativo, della signora Izzi Rufo, già apprezzatissima Poetessa ed Autrice di narrativa e saggistica in passato. Stavolta, si tratta di una “guida turistica” (anche se forse non è la definizione più felice) su Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta (IS) che la gentile Autrice, pur essendo nativa di Scapoli (IS) ha voluto dedicare, da figlia affezionata, ad un luo-
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go ricco di Storia e di storie che, in caso contrario, sarebbe finito nel dimenticatoio! Scrivere la storia di un luogo è l’unico modo per salvarlo dall’oblio. Questo è quanto ci insegna il libro di Antonia Izzi Rufo (…) che rivive la storia del borgo dalle glorie passate all’oblio del presente. Queste e molte altre osservazioni interessanti ha vergato Giuseppe Manitta nella sua eccellente prefazione al testo in oggetto. In effetti, a pensarci bene, chi o cosa è questo ignoto Castelnuovo al Volturno? Considerando che è una frazione di Rocchetta, al massimo è una dipendenza non indispensabile dell’omonima acqua di memoria pubblicitaria. Oppure è il borgo natio dell’attore che, ai tempi di Carosello, saltava gli steccati come solo Bambi avrebbe potuto fare. O magari, ci rammenta il cantante Nino, quello di Rondini nel pomeriggio (pur esso obliato a favore di nuove leve fra i cani di Sanremo, celebre canile ove vanno a latrare canaglie che si spacciano per cantanti!). Di Castelnuovo al Volturno non importa nulla a nessuno, tanto più che l’Italia è matrigna assai peggiore di quella di Hansel e Gretel verso i suoi figli e/o i suoi tesori d’arte. La Casa dei Gladiatori ed i marò potranno ben testimoniarlo! Al massimo, Castelnuovo è la traduzione di Newcastle, famosa cittadina carbonifera inglese, o di Nueuf Chatel, città francese ove si produce l’omonimo, celebre vino (una delizia, per gli alcolizzati italiani)! Ma Castelnuovo ha un qualche valore nella Storia del passato? Su Castelnuovo c’è parecchio da dire, in verità, e dai più diversi punti di vista (specie quello artistico) ed i luoghi ed i personaggi, vivi e morti, degni di essere conosciuti sono davvero molti. La signora Izzi Rufo ha steso una “guida turistica” davvero notevole, ricca di particolari e di curiosità del più vario interesse, mettendovi anche del suo, rievocando la propria, felicissima infanzia. Si sente che chi scrisse le pagine di quest’opera l’ ha fatto con mano affezionata quanto precisa, senza nulla tralasciare, nel nome della Verità. Non è sempre facile parlare di qualcosa o di qualcuno che ci sta davvero a cuore. Intanto, perché non si sa mai con sicurezza da che parte cominciare, e poi perché l’affetto o l’amicizia o altre considerazioni che ci rendono faziosi potrebbero indurci ad omettere dettagli spiacevoli o a migliorare ed aumentare le qualità positive (magari scarse) del soggetto in questione. Ma la Izzi Rufo non si è tirata indietro ed oggi può offrire ai suoi lettori, vecchi e nuovi, un lavoro davvero impeccabile, con tutte le
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luci e le ombre che Castelnuovo può offrire, facendo un ritratto a 360° di una località che, per aspetto geografico, usi e tradizioni, non merita di morire nel ricordo degli italiani anche se, a tutti gli effetti, lo Stato (cioè i soli fetenti di Palazzo Madama, analfabeti ed incapaci) si occupa solo di ciò che frutta denaro, tanto e subito (e la Cultura non paga, è risaputo!). La pagina più bella riguarda il cosiddetto Scemo del Villaggio che, lungi dall’essere dileggiato, era parte integrante (e piacevole) del folklore locale. Oggi, gli scemi del villaggio fondano partiti o movimenti o sono presentatori tv di carriera. Evoluzione! Da leggere con attenzione per conoscere meraviglie generalmente obliate dalle agenzie turistiche per indirizzare la gente… all’estero! Fatevi la vostra idea e vedrete se ne vale o no la pena. Buona lettura! Andrea Pugiotto
MILO MANARA TUTTO INCOMINCIÒ CON UN’ESTATE INDIANA Il Sole 24 ore edizioni, 2006 - 143 pagg. Nel 1658 circa, nel New England. (USA), due pellirosse della tribù di Squando, il biondo Olandese e il nipote del Capo, sorprendono la nipote del reverendo Black, pastore della comunità puritana di New Canaan, sulla riva del mare e le usano violenza, lasciandola semispogliata e svenuta sulla battigia. Abner Lewis, sui 17 anni, figlio della signora Lewis, sorprende quello stupro e uccide i due rei a fucilate e, quindi, reca la povera fanciulla nella propria casa, affinché la madre la curi. La signora manda Abner a cercare gli altri suoi fratelli, Elijah (20 anni) e Geremia (13 anni), che lavorano nei campi, e Phillis (16 anni), esperta di erbe medicinali, per curare la ragazza, sorvegliarla e, soprattutto, avvertire i suoi parenti in città. Ma quando Geremia, che pensa solo al sesso ed ha la destra perennemente all’altezza del cavallo dei calzoni, va in città per avvertire, il peggio è già accaduto: il Capitano Brewster è andato alla battigia, con alcuni soldati, convinto che sia stato un bianco ad abusare della ragazza ed è sorpreso di trovare gli uomini di Squando ad investigare sulla morte dei loro amici. E mentre il Capitano segue i suoi pregiudizi su di una falsa pista, i pellirosse decidono di attaccare e massacrare i Lewis, colpevoli di omicidio premeditato quanto ingiustificato, giacché è risaputo che l’”Estate Indiana”, fra fine Autunno ed
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inizio Inverno, è la stagione in cui i giovani maschi, umani ed animali, sono più infoiati che mai verso le femmine. Il perfido reverendo Black, successore di suo padre nell’amministrazione dei sacramenti e delle messe, giunge dai Lewis con un gruppo di soldati, al seguito di Geremia, e subiscono l’attacco notturno dei pellirosse, che si conclude in un massacro di bianchi e indiani. Alla fine Black, ferito, torna a casa, con la nipote ed i pochi soldati superstiti, mentre la signora Lewis racconta ai figli la sua triste, squallida storia di ragazzina che, nel 1638, era giunta nel New England per essere venduta come schiava, con tutta la famiglia, secondo i costumi civili dei Puritani, in fuga dall’Inghilterra (giacché ogni oppresso sogna di diventare un oppressore, non certo di convivere in pace) e dove, dopo varie vicissitudini, era stata abusata, a 14 anni!!, dal reverendo Black, padre dell’attuale sacerdote, che poi l’aveva scacciata, avendo scoperto che era rimasta incinta… di uno straniero di passaggio! Da quell’unione era nato Elijah. Poi era venuto Abner, grazie alla cooperazione del giovane Black, anche lui pedofilo e sodomita, e quindi Phillis, generata nello stesso amabile modo. Geremia era semplicemente un trovatello capitato lì per caso, portatovi, neonato, dal padre… che mai più aveva fatto ritorno! Il resto è squallore. Ecco una delle notevoli storie di Milo Manara, fumettista, amico di Hugo Pratt, altro fumettista, e del regista Fellini. Una bella storia con uno stile che, graficamente, ricorda molto Pratt, con facce angolose ed inespressive (a meno che si urli, ovvio!) ed u n testo non indegno di De Sade, quanto a corruzione e squallore. Tuttavia, è una tipica “Commedia Sexy” all’ italiana: solo tette e culi muliebri. Nudità maschili, nessuna. Atti sessuali evidenti, nessuno. Un bel lavoretto manzoniano: dire tutto senza mostrare nulla! Non che a me importi, ma devo dire che in Italia l’ unico regista degno del nome fu Pier Paolo Pasolini, che ebbe il coraggio delle proprie azioni e mostrò tutto senza veli ipocriti. Ma, evidentemente, un italiano vero, ipocrita e baciapile, non oserebbe mai arrivare a tanto. E quanto al testo, parla e non mostrare, Il ritratto di Dorian Gray di Wilde resta un capolavoro assoluto, giacché seppe dare un’idea precisa della malvagità di Dorian… senza entrare in dettagli volgari! Ma si deve essere dei maestri, per ottenere questi risultati, e Manara non lo fu. Conosci il tuo nemico, recita un saggio proverbio.
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E’ giusto. Così, la mia invidia potrò spenderla per uno migliore di me e non per un nessuno che non è neppure all’altezza del tacco della mia scarpa, come disegnatore, come il piccolo Manara! Andrea Pugiotto
TITO CAUCHI PRIME EMOZIONI Le Petit Monneau edizioni, 1993, Pagg. 61 Il vecchio proverbio che recita E’ dal mattino che si vede il buon giorno non sbaglia mai. Del resto, i proverbi sono autentiche Perle di Saggezza, ricavate dall’esperienza e dal buon senso del popolo. Ed il mattino cui alludo, nella fattispecie, è questa piccola (solo 49 carmi) silloge poetica a firma Tito Cauchi, che vide la luce nel 1993 e che l’Autore mi ha fatto l’onore di inviarmi, certo soddisfatto delle mie recensioni. Del resto, è nel confronto che si vedono le differenze fra gli individui. Cauchi (classe 1944), attualmente residente ad Anzio, avendo lasciato la natia Gela (Sicilia), muove i suoi primi passi da poeta, verseggiando da ragazzo, incerto e sognatore, curioso di tutto e pronto a dar giudizi recisi sul mondo, come è tipico dei giovani. Questi carmi (versi sciolti, né metrica né rima) sono un ritratto a tutto tondo di un Tito giovane, alle prime armi, un Perseo nudo pronto ad affrontare i misteri della Gorgone (la Vita, il Mondo), non sapendo ancora se potrà sopravvivere a questa sfida audace oppure se perirà per coronare un sogno più grande di lui. Ma ci prova lo stesso. Ed è bene provarci, sempre e comunque, perfino se si fosse certi di fallire. Il perdente vero, il fallito nato al 100%, è quello che si mette in disparte e dice: io non ne ho le qualità adatte. Chiamate Ercole o Superman. Io non sono all’altezza! Cauchi ci prova e mostra una versatilità davvero notevole, in generale, considerando ciò che qui è offerto al lettore. Abbiamo melanconia e speranza (Cettina invocata), mista a lussuria da adolescente (Liliana nuda), sogni donchisciotteschi (Cettina d’aprile) e riflessioni socratiche (Senso della vita) o da Dottore della Chiesa (speranza della fede)… solo per dare qualche esempio della poliedricità tipica dei giovani, che sono sciocchi e saggi ad un tempo, timidi ed eroici, eccetera. Un piccolo libro utile per conoscere un ottimo Autore che, col tempo e la maturità, ha saputo offrire frutti gustosissimi, di cui questi versi sono primizie davvero ghiotte.
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Da leggere con attenzione, per ritrovare tutto il fascino della più bella stagione della vita: l’età Verde. Andrea Pugiotto
VAGAVO SOLITARIO COME NUVOLA … Vagavo solitario come nuvola che fluttua in alto sopra valli e colli, quando d’un tratto scorsi una gran folla, una schiera, di dorate giunchiglie; di là dal lago, là sotto le piante, ondeggiando danzava nella brezza. Compatte come le stelle che brillano e scintillano su nella via lattea, si stendevano in linea infinita lungo il profilo di una baia: a migliaia ne vidi in un’occhiata agitare le sommità in gioiosa danza. Danzavano le onde al di là di loro; ma loro le superavano in splendore: un poeta non poteva che gioire in tale lieta compagnia; guardai, e riguardai, poco pensando che ricco dono per me fosse quella vista; perché ora spesso quando nel mio letto giaccio in pensieri od in malinconie esse mi riesplodono in quell’occhio interno che è benedizione della solitudine, e allora mi si riempie di piacere il cuore e danza in compagnia delle giunchiglie. William Wordsworth traduzione di Mariagina Bonciani, Milano
BISACCIA La collina degli ulivi è matura e fuggono le memorie distanti. Lento il viandante nella via con la bisaccia di polvere e il volto alto sotto leggere gocce di pioggia lungo il viale alberato.
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Il cielo è di nuovo sereno con qualche nube sparsa e nel campo rossi papaveri al sole dove colorano l’orizzonte. Lenta la sera scende dal colle irto ed entra nelle persiane aperte dove sulla facciata colorata l’edera si arrampica e colgo il giardino nelle aiuole appassite.
Pag. 57 LA VITA La vita è il gioco dell’anima, difendila e falla giocare... se vuoi vivere e far vivere Francesco Terrone
da Il linguaggio delle stelle - The Language of the Stars - Edizioni Il Ponte Italo-Americano, USA, 2013.
Alda Fortini LABIRINTO POLITICO MA DALLA LUCE Hai paura del buio, ma dalla luce che ami nascono le ombre che a volte temi. Caterina Felici Pesaro
SENZA DISTINZIONI
Questo budello a visceri d’asino spinge nel labirinto della rabbia alimentata da falange di corrotti, perfidi e gioiosi del loro operato in danno del povero italico: martire di questa assurda crisi. Crisi intavolata da lobbie di spessore criminale e da falsi “fate bene fratelli”. Fratelli non di sangue né di patria, sconosciuti tra queste mura dove la povertà è sinonimo di fame; non si commuovono né spingono lo sguardo oltre il naso per aprirsi all’amore e al prossimo. No! I nostri politici non sono umani, la disonestà è radicata nel loro DNA e nel gusto della sofferenza altrui: prendere e non dare mai nulla. Ciro Rossi
Foschia nella sera. Il mare, sbiadito, pare farsi cielo, e questo acqua. Passa un uccello nel grigiore; sembra aver perso peso e forma: un’ombra. Sfocati, aerei alberi lontani. Nel cancellarsi di confini e forme m’avviluppa la vita senza distinzioni. Mi sento palpitante parte d’un tutto, anche leggerezza di piuma che il vento trasporta, libera dal dominio dello spazio, del tempo.
Recale, CE
PIANGE
Caterina Felici
Piange il mio cuore in questa sera, grigia, stanco e dolorante per il dolore dell’ingiustizia
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nel mondo. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI
È MATURA È matura l’uva nel campo mora, bionda, bianca e il sole sorride nel cielo. Loretta Bonuci
D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE PREMIO INTERNAZIONALE IL CONVIVIO 2015: Poesia, Prosa e Arti figurative e Premio teatrale Angelo Musco - Scadenza per entrambi i premi: 30 maggio 2015. L’Accademia Internazionale Il Convivio, insieme all’omonima rivista, bandisce la quattordicesima edizione del Premio Il Convivio 2015, Poesia, prosa e arti figurative e la nona edizione del Premio Teatrale Angelo Musco, cui possono partecipare poeti e artisti sia italiani che stranieri con opere scritte nella propria lingua o nel proprio dialetto (se in dialetto è richiesta una traduzione nella corrispettiva lingua nazionale). Per i partecipanti che non sono di lingua neolatina è da aggiungere una traduzione italiana, francese, spagnola o portoghese. Premio Poesia, prosa e arti figurative. È diviso in 9 sezioni: 1) Una poesia ine-
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dita a tema libero in lingua italiana. 2) Poesia a tema libero in lingua dialettale, con traduzione italiana o nella lingua nazionale corrispondente. 3) Un racconto inedito di massimo 6 pagine (spaziatura 1,5). 4) Romanzo inedito (minimo 64 cartelle). 5) Raccolta di Poesie inedite, con almeno 40 liriche, fascicolate e spillate (diversamente le opere saranno escluse). 6) Libro edito a partire dal 2004 nelle sezioni: 1) poesia, 2) narrativa, 3) saggio (per questa sezione inviare i volumi in 3 copie. Non si può partecipare con volumi già presentati nelle edizioni precedenti del Premio Il Convivio). 7) Pittura e scultura: si partecipa inviando due foto chiare e leggibili di un’opera pittorica o scultorea. 8) Tesi di laurea su argomento o autore siciliano (da inviare solo due copie). 9) Opera musicata (poesia, canzone, opera teatrale, ecc). L’opera è accettata solo ed esclusivamente se accompagnata da un DVD o CD. Premio Teatrale Angelo Musco - È diviso in 3 sezioni: 1) Opera teatrale inedita in dialetto siciliano. 2) Opera teatrale inedita in qualunque lingua (anche dialettale, ma con traduzione italiana). 3) Opera teatrale edita in qualunque lingua o dialetto. Scadenza per entrambi i premi: 30 maggio 2015. Giuria: Presidente onorario: prof. Giorgio Barberi Squarotti. Premiazione: Giardini Naxos (ME) 25 ottobre 2015. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Gli elaborati vanno inviati in cinque copie, di cui una con generalità, indirizzo e numero telefonico, le altre quattro devono essere anonime se inedite, se invece edite non è da cancellare il nome dell’autore. Il tutto è da inviare alla Redazione de Il Convivio: Premio Poesia, Prosa e Arti figurative, Via Pietramarina Verzella, 66 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. Si raccomanda di allegare un breve curriculum. I vincitori saranno avvertiti per tempo. Il verdetto della giuria, resa nota all’atto della premiazione, è insindacabile. Ai vincitori e ai partecipanti sarà data comunicazione personale dell’esito del premio. I premi devono essere ritirati personalmente. L’ Accademia si riserva la possibilità di pubblicare gli elaborati inediti sulla rivista Il Convivio e, dopo averli selezionati, eventualmente inserirli sull’ antologia dei premi Il Convivio 2015. Premi: Trofeo Il Convivio, coppe, targhe e diplomi. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’ Accademia Il Convivio e per gli studenti che partecipano tramite scuola. È richiesto invece da parte dei non soci, per spese di segreteria, un contributo complessivo di euro 10,00 indipendentemente dal numero delle sezioni cui si partecipa (o moneta estera corrispondente) da inviare in contanti. Tutela dei dati personali: Ai sensi del D.Lgs. 196/2003
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“Tutela delle persone rispetto al trattamento dei dati personali” l’organizzazione dichiara che il trattamento dei dati dei partecipanti al concorso è finalizzato unicamente alla gestione del premio; dichiara inoltre che con l’invio dei materiali letterari partecipanti al concorso l’interessato acconsente al trattamento dei dati personali. Per ulteriori informazioni scrivere o telefonare alla Segreteria del Premio, Via Pietramarina Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) Italia, tel. 0942-986036, cell. 333-1794694, e-mail: angelo.manitta@tin.it.; enzaconti@ilconvivio.org; www.ilconvivio.org Il presidente del Premio Angelo Manitta *** LAUREA HONORIS CAUSA AL POETA E SCRITTORE CORRADO CALABRÒ - Ci congratuliamo con l’illustre scrittore e poeta per l’ ambito riconoscimento tributatogli dalla Mariupol State University - Ucraina -, in data 28.01.2015. Ecco la lettera: Ministry of Education and Science of Ukraine/ Mariupol State University - 129a, Budivelnykiv Ave., Mariupol, 87500 - Tel./fax: +38 (0629) 5322-70, 53-22-51 E-mail: mdu@mariupol.net, mariupol.university@gmail.com 28.01.2015 N° 2850/01 Prof. Corrado Calabrò Roma Illustre Professor Calabrò, a nome di tutto il Corpo docente, amministrativo e di tutti gli studenti dell’Università Statale di Mariupol mi permetta di esprimerLe il nostro più profondo apprezzamento per la Sua intensa e poliedrica attività culturale, letteraria e istituzionale in Italia e all’estero. Sono molto lieto e onorato di informarLa che, prendendo in considerazione i Suoi alti meriti nel campo della letteratura, cultura, scienze umane e
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sociali e il Suo straordinario contributo personale al consolidamento dell’amicizia e della collaborazione tra le nostre due Nazioni, il Senato Accademico dell’Università di Mariupol ha deliberato all’ unanimità di eleggerLa Professore ad Honorem e di conferirLe la Laurea magistrale Honoris Causa. La prego di accettare questa massima onorificenza accademica della nostra Università. La cerimonia ufficiale di consegna e la Sua Lectio magistralis potranno tenersi in una data che ci vorrà cortesemente indicare, compatibilmente con i Suoi impegni. Mi avvalgo dell’occasione per formularLe le mie più sentite congratulazioni e per augurarLe ulteriori successi nelle Sue importanti, molteplici attività. Mi creda, Suo Il Rettore dell’Università Statale di Mariupol, Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia, Console Onorario della Repubblica di Cipro Prof. K. V. Balabanov
*** UNA GRAN VOGLIA DI ROVESCIAR LE CARTE - Caro Direttore, Le scrivo immediatamente dopo aver letto “una gran voglia di rovesciar le carte” numero di Febbraio 2015 P.N. Ho una gran voglia di scriverne quattro anche io, all’Occidente. Siamo i migliori, siamo i peggiori, siamo evoluti e straordinari, navighiamo nelle democrazie e siamo stupidi, insegniamo ad alcuni di coloro che hanno una diversa cultura la nostra identità culturale, li teniamo in casa e li coccoliamo, ma poi li armiamo lasciandoli liberi di circolare con armi, che spesso noi stessi fabbrichiamo; restando poi in attesa che diventino immagini di orrore, la libera circolazione delle armi, solo questo abbiamo a volte, troppo spesso e il bilancio economico dell’ industria bellica è sempre in attivo. Nulla si sconta in questa vita, atti generati da azioni scellerate di indifferenza, volgiamo la faccia e cambiamo strada quando la verità è scomoda. Attendiamo ed inesorabili arrivano le visioni televisive del frutto della nostra superficialità a trattare con il fanatismo, e dopo c’è l’inevitabile. L’Occidente è più forte, ma lascia circolare fanatismo e armi pronte ad agire ( stragi annunciate) e questo è per me una assurdità incomprensibile e inaccettabile . La rivista Charlie Hebdo continua con grande coraggio eppure è difficilissimo ritrovare una parvenza di umanità che è andata persa nell’orrore, ogni colpo di matita ora ha un sapore di forza e una amara verità . La rivista laica Charlie Hebdo , e non solo, è uno degli specchi di questa realtà in
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cui ci tocca riflettere con durezza. Filomena Iovinella Cara Filomena, a governare il mondo, oggi, purtroppo, non ci sono progetti e idee di respiro ampio (ciò non vuol dire che, in passato, siano stati tutti progetti e idee che abbiano fatto bene all’Umanità!), ma solo l’ egoismo, il tornaconto, il denaro, con brevi e meschine strategie. Dal punto di vista etico e umano, siamo nella decadenza della decadenza, nella più oscura barbarie. Domenico ALLAH È PIÙ GRANDE - Sono stanca di ascoltare e di leggere, persino sul mio quotidiano, l’ espressione errata “Allah è grande”. Nell’ invocazione Allah Akbar, con la quale il muezzin dal minareto - ormai più spesso una voce registrata - invita i muslim (mumin) alle preghiere giornaliere, Akbar è il comparativo di maggioranza dell’aggettivo kabir, grande. Pertanto ALLAH AKBAR va tradot-
to nella nostra lingua con “Allah è più grande”, definizione che, purtroppo, in menti distorte, è divenuta da invocazione di umiltà religiosa aberrante grido di guerra. Piera Bruno già Italyançà-Turkçé uzmani Le unisco una vignetta satirica uscita in Turchia all’ inizio di dicembre, prima di quelle francesi: come vede anche i musulmani sanno satireggiare, e in modo non volgare, e contro se stessi. Eski Türkiye = Vecchia Turchia; Yeni Türkiye = Nuova Turchia, tratta da giornale Sözcü = Portavoce. *** PREMIO “IL SAGGIO - CITTÀ DI EBOLI” XIX Edizione Concorso Internazionale di Poesia “Il Saggio - Città di Eboli”. Il Concorso si articolerà in quattro sezioni: Sezione A -Poesie a tema libero in lingua italiana; Sezione B - Poesia a tema libero in vernacolo; Sezione C - Poesia religiosa; Sezione D - giovani a tema libero (fino a 18 anni al 30
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aprile 2015); Sezione E – Libri editi (categorie: Poesia, Narrativa, Saggistica); Sezione F – Libri inediti (categorie: Poesia, Narrativa, Saggistica). Quota di partecipazione - Per ogni opera iscritta al concorso nelle sezioni A - B - C - E si richiede un contributo di partecipazione di 10,00 Euro (gratuito per le carceri e per gli istituti di cura - serve il timbro della struttura). Per ogni gruppo di tre poesie il contributo richiesto è di 25,00 Euro. Per la sezione D non necessitano quote. Per la sezione F la quota è di 25,00 Euro. Ogni concorrente può partecipare con un numero illimitato di poesie o libri (la sezione D con una sola poesia). Tale contributo servirà a coprire parzialmente le spese organizzative. La quota di partecipazione può essere cumulabile tra le sezioni A, B, C, E. La quota di partecipazione dovrà essere versata sul CCP n. 1009316868, intestato a Centro Culturale Studi Storici (tel. 3281276922) via Don Paolo Vocca, 13 - 84025 Eboli (SA), indicando nella causale XIX Concorso Internazionale di Poesia “Il Saggio - Città di Eboli”. IBAN: IT80 B076 0115 2000 0100 9316 868 Copie - I concorrenti debbono inviare 5 copie per ogni poesia (A,B,C,D), una ulteriore copia completa di nome e cognome, indirizzo, recapito telefonico ed eventuale indirizzo e-mail. Onde evitare errori d’ interpretazione le poesie debbono essere inviate scritte in stampatello o digitate e, se possibile anche via e-mail: ilsaggioeditore@gmail.com Per la sezione E e F necessitano tre copie del libro. Scadenza del bando - Le poesie dovranno essere spedite unitamente alla copia della ricevuta di versamento, non oltre il 30 aprile 2015 (timbro postale) a: Centro Culturale Studi Storici - via don Paolo Vocca, 13 84025 Eboli (SA). Premi - La Giuria, il cui giudizio è insindacabile ed inappellabile, premierà i primi dieci classificati più altri 40 premi speciali delle sezioni A, B, C, D, con le eventuali medaglia (se saranno concesse): del Presidente della Repubblica (sezione A), della Presidenza del Senato (sezione B), del Pontefice (sezione C), targhe, diplomi ed altro. La giuria ha la facoltà di attribuire premi speciali e di menzionare o segnalare le liriche più meritevoli. Per la sezione E e F, la Giuria premierà i primi cinque classificati con medaglie e targhe, mentre se il libro è inedito stamperà l’opera e donerà trenta copie all’autore. Alcune poesie potranno essere pubblicate su “Il Saggio, poesia, arte, libri”, organo del Centro. La cerimonia di premiazione avrà luogo in Eboli dal 20 al 25 luglio 2015 (solo per le sezioni A, B, C, D) (La giuria viene nominata di anno in anno dal Presidente del Centro e le norme di valutazione vengono prese separatamente, previo incontro con il Presidente di giuria. Il giurato esa-
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mina e valuta dando un voto da 0 a 60 per ogni poesia. Il segretario, che non fa parte della giuria, fatta la somma di tutti i voti forma una classifica delle poesie e la passa alla giuria. La giuria forma i gruppi: 1°-15°, 16°-30°, 31°-50°. Durante la settimana della manifestazione le poesie saranno lette pubblicamente e la giuria formerà la classifica finale. Sarà presente anche una giuria popolare). La premiazione delle sezioni E e F avverrà nel mese di ottobre 2015. Annotazione - Le poesie pervenute non verranno restituite e potranno essere utilizzate per un’eventuale pubblicazione edita dal nostro Centro. Ogni opera dovrà essere frutto esclusivo del proprio ingegno. Le poesie oggetto di plagio saranno automaticamente escluse dal Concorso ed il partecipante sarà cancellato dall’ elenco dei poeti del Centro Culturale Studi Storici. E’ vietata la partecipazione al Concorso a tutti quelli che fanno parte della Redazione de “Il Saggio”, del Direttivo del Centro Culturale, nonché ai collaboratori editoriali e loro parenti di primo grado. La partecipazione al concorso implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento. Legge 196/2003 - Il Centro Culturale Studi Storici assicura che i dati personali acquisiti vengono trattati con la riservatezza prevista dalla legge e saranno utilizzati esclusivamente per l’invio di informazioni. Ogni poeta può richiedere la cancellazione dagli elenchi cartacei e telematici del Centro inviando una semplice comunicazione. Giuseppe Barra *** MARIA GRAZIA LENISA e SERENA CAVALLINI - Ci scrive, nello scorso gennaio, da Perugia, la grande pittrice, poetessa Serena Cavallini: “... è stato per me motivo di grande soddisfazione, vedere utilizzato il ritratto di Maria Grazia Lenisa, da me a suo tempo eseguito, per la copertina del “Il Croco”, gennaio 2015. La sua pubblicazione, così ricca e partecipata, è una vera summa dell’opera di Lenisa. La sua personalità e la sua poetica sono indagate con estrema conoscenza e competenza, la complessità del suo verso decodificata secondo le possibili e molteplici chiavi di lettura. Se ne riceve un raro piacere intellettuale assieme ad una coinvolgente partecipazione emotiva.” Serena CAVALLINI, poetessa e pittrice raffinata, diplomata all’Istituto d’Arte “Bernardino di Betto” e Accademico di Merito dell’Accademia “Pietro Vannucci” di Perugia, è artista poliedrica e versatile. Premiata per la grafica e la fotografia, ha illustrato numerose pubblicazioni, ha esperienza di restauro, si è cimentata con successo anche in ambito letterario. Nell’intento di trovare risposta alle sue profonde esigenze di ricerca, sperimenta diversi
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percorsi e linguaggi, avvalendosi di una professionalità sapiente, dove armonia ed equilibrio governano sempre le modalità espressive. Dichiara la sua poetica tramite una triade tematica che comprende il paesaggio, il ritratto, ma soprattutto il mondo esoterico e simbolico. Da 1985 ad oggi molteplici sono state le sue mostre personali (Corciano, Perugia, Mugnano, Modena, Cortona); numerose anche le collettive alle quali ha partecipato (Assisi, Perugia, Aix-en-Provence, Agello, Fabriano, Sarteano). Il nome e l’opera di Serena Cavallini sono riportati in numerose e importanti pubblicazioni d’arte; del suo lavoro si sono interessati, tra gli altri, i critici: Sandro Allegrini, Carlo Vittorio Bianchi, Domenico Coletti, Bruno Dozzini, Massimo Duranti, L. Lepri, Claudio Marabini, Franco Piccinelli, Paola Pillitu, Antonio Carlo Ponti, Claudio Spinelli, Duccio Travaglia, Giovanni Zavarella. Tra le sue pubblicazioni, si ricordano: “A passo d’uomo” (1989), “Piccole prose” e “Fiori di donna” (2002), “I Mammoni” (2003), “Amico carissimo, nemico carissimo” (2004). Ha collaborato con tante riviste, come “Il Ponte” e “Pomezia-Notizie”. Ha pubblicato numerosi studi su personalità attive in vari campi d’Arte. Ha ottenuto diversi riconoscimenti per la poesia, tra cui i Premi: “La Rocca Paolina”, “Lune di primavera”, “Il club degli Autori”. Figura nelle tre antologie degli artisti e poeti Umbri Contemporanei curate da
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Luciano Lepri e Giovanni Zavarella. Scrive Claudio Marabini: “Queste scaglie di mondo, queste testimonianze d’umanità vivono di un’esistenza rara: quella della parola che resta”. E Bruno Dozzini: “È una vicenda che risale la via impervia della ricerca poetica per restituirci non l’effimero di un’ apparenza, ma il definitivo che è nell’anima di tutti gli uomini”. E, infine, Sandro Allegrini: “Serena Cavallini è in grado d’indagare tra le pieghe dell’ animo umano e di proporre la propria meditata interpretazione dell’esistenza, sotto forma di eleganti metafore e studiate allegorie le quali, attraverso la misurata contemplazione della bellezza, ci spingono alla ricerca dell’assoluto, sublimando “il male di vivere” e trasfigurando le quotidiane amarezze nella purezza del canto”. La meravigliosa, poeticissima, bellissima grafica che pubblichiamo (p. 61) - donataci dall’ Artista - si intitola “Il giorno della letizia”. *** RIPORTARE IN VITA IL BUCINTORO - Il giorno 17 febbraio 2015 presso la Sala del Cinema di San Stae a Venezia si è svolto un importante incontro per visionare il lavoro artistico del regista francese Patrick Brunie, da anni coinvolto nel progetto della ricostruzione del Bucintoro. Il suo film è come un documento vivo su quanto è stato intrapreso tra la Dordogna e Venezia per unire le forze e riportare in vita il Bucintoro del Doge, che Napoleone aveva distrutto con cupa determinazione nel 1797, quando la Serenissima è stata ceduta all'Austria. Il titolo è molto appropriato: 'Le Repubbliche del Bucintoro', vale a dire quella di Napoleone, che si è conclusa malamente in Impero; quella del sindaco di Venezia Orsoni, presidente della Fondazione Bucintoro, ora allontanato e forse condannato per peculato; il sindaco di Bordeaux Juppé, pure con la medesima macchia civile e civica. Io sono dell'avviso, e l'ho detto a voce alta, che tutto il denaro deve essere restituito alla popolazione e non deviato e trasformato in giorni di prigione o quant'altro, come ammenda. Questo dramma che dilaga da Nord a Sud d'Italia deve fermarsi al più presto. Il progetto filmico ha mostrato come i Francesi sono stati coinvolti per compensare il danno a suo tempo perpetrato da Napoleone, che ha dato fuoco a tutte le navi dell'Arsenale di Venezia, con in testa l'ultimo Bucintoro appunto, per ricavarne chili e chili d'oro, quello sontuoso che rivestiva le sculture e le pareti: hanno deciso di tagliare le querce secolari della foresta per dare avvio alla ricostruzione della mitica imbarcazione, trasportando i tronchi fino in Laguna. Immagini intense, cariche di ironia e di pathos tragico insieme: i tronchi sagomati per costituire la chiglia sfilano lentamente in laguna su
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chiatte unite e con la voce di Maria Callas che intona 'Casta Diva', dalla 'Norma' di Bellini. In effetti il progetto si è arenato per le cause sopra indicate e la nuova amministrazione commissariata ha preso impegni vaghi. Il regista Brunie sostiene senza mezzi termini che il suo intento è quello di salvaguardare il lavoro degli artigiani, che come moltitudine, all'epoca si erano dati da fare per costruire quel gioiello: se muoiono queste iniziative legate alla cultura del fare e del saper fare con arte e maestria, allora consegneremo il vuoto alle giovani generazioni e la loro dignità sarà non solo minacciata, ma violata ed oltraggiata per sempre. Oltre a docenti ed esperti nei diversi settori della cultura universitaria e delle organizzazioni autonome legate al turismo, tantissimi i rappresentanti delle diverse sezioni degli Artigiani, mobilitati a difendere non solo i loro interessi ma prima di tutto la loro dignità di lavoratori che hanno acquisito professionalità tramandata e via via perfezionata di padre in figlio, intervenuti nel dibattito che ha seguito la proiezione del film. Patrick Brunie, innamorato di Venezia, affiancato dalla sua compagna Martine, come cineasta indipendente ha rotto i ponti con la Fondazione ma dice che intende restare a disposizione di tutti coloro che vorranno utilizzare il suo documento come punto di riferimento e di avvio di una lotta per difendere i maestri dei Mestieri dell' Arsenale di Venezia e non solo: dietro e dentro ad essi c'è l'intelligenza del saper progettare; la consapevolezza che il lavoro delle mani, ben fatto, è il risultato della collaborazione appassionata di tutti, e di tutti insieme; la certezza etica e politica del legame strettissimo ed intenso con il territorio e la sua storia. Egli pensa alla gente, tradita da 'La tentazione di Venezia' (mai titolo è stato così appropriato!), a tutti gli studenti di ogni ordine e grado, a tutti coloro che, lavoratori ed artisti, hanno a cuore il destino di questa città: il suo governo deve essere riportato nelle mani del popolo, la sua spinta interna deve chiamarsi 'Libertà'. E non solo per Venezia! Ilia Pedrina *** LUTTO CERIONI - In procinto di andare in macchina, ci giunge la triste notizia della scomparsa, a causa di una grave malattia, di Quirino CERIONI. Ci uniamo nel dolore dei Figli, del Genero, della Nuora, delle Sorelle, dei Nipoti e di tutti coloro che l’hanno conosciuto e stimato, partecipando, nel contempo, le condoglianze anche della Direzione e della Redazione di questo nostro mensile. Quirino Cerioni aveva 71 anni e da più di 50 esercitava l’ attività di parrucchiere nella nostra città di Pomezia; apprezzato per il suo lavoro, ma, in particolare, per il suo carattere, la sua cordialità, le grandi capa-
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cità di relazionarsi con gli altri. Qualità tutte che troviamo anche in suo figlio Alessio, che porta avanti con passione lo steso mestiere. Il decesso di Quirino Cerioni è avvenuto nella sua casa nella serata del 19 febbraio 2015 e i funerali si sono svolti alle 10,30 di sabato 21 nella chiesa parrocchiale di San Benedetto Abate di Piazza Indipendenza, gremita all’inverosimile da parenti, amici, conoscenti, che hanno voluto salutarlo per l’ultima volta, accompagnando l’uscita della bara con un lunghissimo applauso.
Domenico Defelice - Scaffale (1964)
LIBRI RICEVUTI FRANCESCO TERRONE - Il linguaggio delle stelle - “The Language of The Stars” - English Translation by Orazio Tanelli, Ph. D. Verona, New Jersey - USA - 2013 - Edizione Il Ponte ItaloAmericano, Verona, New Jersey USA 2013, Pagg. 174, s. i. p.. Francesco TERRONE è nato a Mercato San Severino (SA) il 5 giugno 1961. Ha conseguito la Laurea in Ingegneria Meccanica presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli dove successivamente si è abilitato all’ esercizio della professione. Fondatore e presidente della società di Ingegneria “Sidelmed S.P.A.”, giornalista, pubblicista, iscritto all’Ordine dei giornalisti della Regione Campania. Fondatore e presidente
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dell’ “Accademia Internazionale per lo sviluppo delle scienze, arte, cultura Federico II, 2010. Fondatore del premio letterario “Sidelmed S. P. A.” di poesia, analisi, critiche ed espressioni pittoriche, con l’alto patrocinio dell’Università degli Studi di Salerno e Sidelmed S.P.A., Salerno 2011. Fondatore e presidente della Fondazione “Francesco Terrone”, Salerno 2012. Fondatore del “Nuovo Parnaso dell’Ingegno della Poesia”, Villa Flora, Fisciano (SA) 2013. Membro del Consiglio direttivo della Fondazione “F.I.A.S.”, Roma. Ha istituito, con la professoressa Rita Occidente Lupo (Direttore del giornale online “Dentro Salerno”), la rassegna di salotti letterari tematici. Ha partecipato a riunioni e convegni presso università, accademie, associazioni, caffè e salotti letterari regionali e nazionali oltre che a trasmissioni culturali televisive. Fondatore e presidente della I.R.S. Edizioni, fin dal 2009, Francesco Terrone ha pubblicato numerose raccolte poetiche riscuotendo grande successo di critica e di pubblico. Membro, socio onorario e accademico di alcune delle più importanti Associazioni culturaliartistiche a livello nazionale e non solo, oltre che di Accademie di rilevante importanza e di riviste di settore. Con la professoressa R. A. Bucciarelli ha scritto “La fucina del testo letterario”, I.R.I.S. Edizioni, Salerno 2010, testo adottato presso l’ Università degli Studi di Salerno. Nello stesso anno, ha pubblicato “The series of paperbacks - Confetti of emotions”; “Quando la poesia diventa musica”; “Ti amo di più amori”; “La grammatica del cuore”, tutti testi coprodotti col la professoressa R. A. Bucciarelli. Ancora, “Immersion in the textual typologies of italian writing, Metodi, Descrizioni e Applicazioni” è un testo scritto con la professoressa R. A. Bucciarelli e adottato dall’Università degli Studi di Salerno. “Ti scrivo poesie”, I.R.I.S. Edizioni, Salerno 2012, invece, è un testo prefato dal dottore Maurizio Fallace, Direttore per le Biblioteche, gli Istituti Culturali ed il Diritto d’Autore. Questo volume è stato fregiato dal riconoscimento ufficiale concesso dalla Repubblica Italiana, nel quadro del Centocinquantesimo Anniversario dell’Unità d’Italia. Alcune sue poesie sono state recitate durante la trasmissione “Zapping” diretta da Aldo Forbice su Rai Radio 1; altre sono state pubblicate su diverse antologie nazionali e internazionali e alcune raccolte poetiche sono state presentate alle varie fiere del libro di tutto il mondo. All’ Università degli Studi Ca’ Foscari di Venezia, ha tenuto una video lezione. Presso la stessa Università e presso la Facoltà di Scienze della Commissione dell’ Università degli Studi di Salerno, durante il corso di italiano scritto, sono stati adottati alcuni suoi testi. Il giornalista Aldo Forbice ha scritto per lui un libro
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di notevole spessore “Io, ingegner Terrone - Vita controcorrente di un imprenditore del Sud”, una sorta di biografia che racconta l’iter professionale e culturale dell’ingegnere. Il libro ha riscosso grande successo tanto da volerlo proporre come guida di educazione civica presso le scuole secondarie di primo grado. Gli sono state assegnate, tra il 2011 e il 2014, 4 medaglie; 6 premi nel 2011; 8 nel 2012; 4 nel 2013; 2 nel 2014. Negli anni, oltre a classificarsi quasi sempre tra i primi posti nei vari concorsi, nazionali e internazionali, cui ha partecipato, ha ricevuto numerosi Premi Europei, Premi Speciali della Giuria, Premi alla carriera oltre che menzioni di merito, diplomi d’onore, encomi e riconoscimenti per la proficua e interessante produzione poetica che sarebbe troppo lungo elencare. Ha pubblicato, oltre quelle già citate, le opere: “I sentieri del cuore (2009), Lo screening del cuore” (con la Bucciarelli, 2010), “Applicazioni” (con la Bucciarelli, 2010), “L’albero dei sentimenti” (2011), “Il linguaggio delle stelle” (2011), “Vibrazioni” (2011), “Il colore degli aquiloni” (2012), “Via Crucis, meditationes Passione Jesus Christi” (2012), “Senza parole” (2012), “Cammino a piedi nudi” (2012), “Il tenero e fragile silenzio” (2013), “Il sogno di una farfalla (2013), “Il piacere della memoria” (2013), “Il linguaggio delle stelle - The Languagge of the Stars” (2013), “Le parole degli eroi - Progetto sulla Grande Guerra” (2014), “Papillon” (2014), “Nella luce dei sogni” (2014). Molte sue pubblicazioni sono apparse su riviste e antologie a tema: “Tra un fiore colto e l’altro donato”; “Gradiva”; “Il Ponte ItaloAmericano”; “Le Muse”; “Miscellanea”; “Fiorisce un cenacolo”. Molti sono stati i critici, non solo italiani, che hanno dedicato una recensione alle sue pagine letterarie e al suo stile poetico: Carmine Manzi, Francesco D’Episcopo, Aldo Forbice, Alberto Granese, Ritamaria Bucciarelli, Corrado Calabrò, Aldo G. Jatosti, Paola Gatto, Orazio Tanelli e tanti altri che, col loro tratto di penna, hanno tracciato una storia essenziale e significativa del poeta Francesco Terrone. Tre sono le sue incisioni discografiche. ** ISABELLA MICHELA AFFINITO - Da Cassandra a Dora Maar - Poesie - In copertina, a colori, “Omaggio a Picasso”, opera della stessa autrice Edizioni EVA, 2006 - Pagg. 74, € 8,00. Di origini pugliesi da parte di madre, Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo con-
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to, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, la fotografia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artisticoletterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 50 raccolte di poesie e un volume di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierno del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004). Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. ** CIRO CANFORA - Sui sentieri del figlio - Poesie, presentazione di Giuseppe Vetromile, premessa di Amodio Grimaldi; in quarta, nota di Arturo Gagliardi - Copertina a colori e illustrazioni a colori all’interno di Ciro Riccardi - Associazione “Il Sebeto” Edizioni Magna Grecia, 2005 - Pagg. 32, s. i. p.. Ciro CANFORA è nato a Barra il 12 giugno 1949. Ha ricevuto molti premi per la sua produzione poetica: Onorificenza della Presidenza della Repubblica Italiana, dalla Presidenza del consiglio dei Ministri, dalla Segreteria della Santa Sede, dall’ Università Popolare di Milano.
TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) enzaconti@ilconvivio.org - Ho ricevuto la Rivista “Il Convivio” di luglio/settembre 2014, fondata da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti: 60 pagine fittissime di interessanti articoli culturali di svariato genere: scientifico (astrofisica, geologia), sociale (fra cui la Sicilianità delle origini, del dialetto/ lingua e delle più belle tradizioni), storico/civile, di at-
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tualità, artistico (con illustrazioni a colori di bellissime opere di pittori di cui viene delineato il profilo critico) e naturalmente, letterario, che comprende una sezione riservata ai Racconti, una alla Poesia non solamente italiana e spesso tradotta in altre lingue, ma anche liriche di autori stranieri, quali rumeni, portoghesi e di lingua spagnola, tutte con varie trasposizioni linguistiche -; inoltre, ci sono le Recensioni, coordinate e selezionate da Enza Conti, di molti scrittori provenienti da tutta Italia. In questa Rivista, troviamo parecchi nomi a noi conosciuti: Gianni Rescigno di cui viene relazionato un libro di poesie; Antonia Izzi Rufo che pubblica varie recensioni, fra le quali - e davvero simpatica su “Alleluia in sala d’armi- parata e risposta” di Rossano Onano e Domenico Defelice; un bel giudizio critico sull’opera “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa” di Luigi De Rosa; un lavoro di Orazio Tanelli per “Il giullare del tempo” di Giuseppe Manitta;un’impegnata relazione di Antonio Crecchia; ed anche alcune note su “Palcoscenico” di Tito Cauchi. Vediamo pure foto e notizie su Cerimonie ufficiali, Conferenze e Convegni, tenuti in Italia e fuori, tutti organizzati da “Il Convivio” - Accademia Internazionale – nonché la segnalazione della candidatura al Premio Nobel per il poeta Alessandro Petruccelli. Vengono anche enunciati molti Bandi di Concorsi Nazionali ed esteri. Noto che, fra i collaboratori fissi, ci sono Edio Felice Schiavone, Carmine Chiodo, Aurora De Luca; e che c’è un altro Manitta, Guglielmo. Bella squadra, questi Manitta! Davvero una Pubblicazione culturale ricca, a vasto raggio e altamente impegnata, con lavori di ottimo livello. Complimenti! Maria Antonieta Mòsele * IL FOGLIO VOLANTE/LA FLUGFOLIO - Mensile letterario di cultura varia - direttore Amerigo Iannacone, resp. Raffaele Calacabrina - via Annunziata Lunga 29 - 86079 Venafro (Is) E-mail: fogliovolante@libero.it Riceviamo il n. 1, gennaio 2015, sul quale, tra le tante firme, rileviamo quelle dei nostri collaboratori Loretta Bonucci, Aldo Cervo e Andrea Pugiotto. * ILFILOROSSO - Semestrale di cultura, direttore resp. Pasquale Emanuele - via Marinella 4 - 87054 Rogliano (Cs) E-mail: filorosso.graziano@tin.it Riceviamo il n. 57 (luglio-dicembre 2014). Tra le firme: Luigi De Rosa. * IL SAGGIO - mensile di cultura diretto da Geremia Paraggio, editoriale Giuseppe Barra - Via Don Paolo Vocca 13 - 84025 Eboli (SA) E-mail: il
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saggioeditore@gmail.com Riceviamo i numeri 225 (dicembre 2014) e 226 (gennaio 2015). Quest’ ultimo, con allegato “Il Saggio libri, poesia, arte” n. 110, apre il ventesimo anno dalla fondazione (1995). Complimenti e Auguri. Sull’allegato “Il Saggio libri, poesia, arte” n. 109/225, invece, di dicembre, troviamo una simpatica e dettagliata recensione ad “Alberi?” - il volumetto di poesie del nostro direttore Domenico Defelice - a firma di Noemi Manna, secondo la quale il poeta “descrive in maniera singolare il mondo analizzato attraverso i suoi occhi”. * IL CENTRO STORICO - Organo dell’ Associazione Progetto Mistretta, Presidente dott. Nino Testagrossa, direttore responsabile Massimiliano Cannata - via Libertà 185 - 98073 Mistretta (ME) E-mail: ilcentrostorico@virgilio.it Del numero 1-2 (gennaio-febbraio 2015), segnaliamo, intanto, il pezzo d’apertura: “L’artigianato globale - Il valore “culturale” del sapere e del lavoro manuale nella società digitale”, di Massimiliano Cannata; poi, “Mistretta 1630 cronaca di un riscatto”, di Francesco Ribaudo. Si ricorda che il Premio Letterario Maria Messina, organizzato dalla rivista, scade il 15 giugno 2015. * BRONTOLO - mensile satirico umoristico culturale fondato e diretto da Nello e Donatella Tortora via Margotta 18 - 84127 Salerno - E-mail: brontolo8@libeto.it Riceviamo il n. 228-229 (gennaiofebbraio 2015) e ricordiamo che il Concorso (satira, umorismo, poesie, pittura, scultura, foto) scade il 30 giugno 2015. Tra le firme di questo numero, Maria Teresa Epifani Furno.
LETTERA AL DIRETTORE (Ilia Pedrina a Domenico Defelice) Carissimo Direttore, ti scrivo dalla camera dell'Albergo Suite Inn, qui a Udine, ed è la notte del 31 gennaio. Nel pomeriggio, all'interno della sala del Parlamento tutta affrescata e parte nobile del Castello che sovrasta la città, si è svolta la cerimonia conclusiva del Premio Internazionale Nonino, giunto alla sua 40esima edizione, dal titolo 'I Dialoghi del Premio Nonino', con il
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filosofo Armando Massarenti che fa da moderatore tra i protagonisti, già premiati al mattino, nella sede centrale della Distilleria Nonino a Percoto di Ronchi, tra alambicchi di varia grandezza e libagioni, scegliendo a tuo piacere le diverse grappe e torte. Sono presenti sia il sindaco di Udine, Furio Honsell, un importante matematico già rettore dell'Università di Udine, che Alberto Felice De Toni, l'attuale Rettore, poi Antonio Damasio, il prestigioso neuroscienziato già Premio Nonino ed ora all'interno della giuria, Giannola Nonino dinamica, esuberante, felice di questo pluriennale evento 'di famiglia'; il poeta Yves Bonnefoy, classe 1923, con la poesia in piano totale nel suo cuore e Martha Craven Nussbaum, premiata in questa occasione come 'Maestra del nostro tempo'. La ministra del Miur (Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca) è volata da Roma immediatamente dopo l'elezione del nuovo Presidente, Sergio Mattarella ed ha chiesto per lui un applauso di incoraggiamento rispetto ai doveri che lo attendono. Sulle pagine della 'nostra' rivista renderò conto degli interventi e del loro importante spessore etico, non solo culturale. Ho registrato tutto! Dopo aver scattato alcune foto, da troppo lontano, io e Armida, una cara signora friulana, intelligente e vivace, ci incamminiamo verso la discesa e ci fa strada il giovane Zaral, con Liza, anche loro tra il pubblico degli ascoltatori: non li conosciamo ma ci vogliono con loro, per cenare alla svelta: hanno l'avventura nel sangue e si vede che mi hanno letto dentro. Dopo peregrinazioni nel centro si fa sosta dalla 'Teresina' per stuzzichini locali ed il classico 'frico', formaggio friulano fritto delicatamente all'interno di una grande foglia di verza. Ci sediamo occupando il più piccolo spazio possibile perché è sabato: arrivano polpettine alle melanzane con altre squisitezze e frittatine e formaggi con il vino rosso dal profumo fruttato irresistibile, mentre lei, Liza, slanciata e bellissima, si racconta un poco, non senza un velo di malinconia. È appena tornata dagli USA, è stata anche nelle zone al confine con il Messico, dove gli immigrati
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tentano il tutto e per tutto balzando sui trenimerci in corsa: chi è alla guida del treno lo sa e cerca di rallentare, ma alcuni hanno perso braccia, gambe e la vita stessa sotto le ruote, maciullati in vista di una vita nuova, si fa per dire! Ha vissuto con un gruppo di loro, ha coraggio, ha scritto anche un libro sulle vie di Berlino ed è rimasta là dieci anni. Ha intervistato Martha Nussbaum e quelli della Nonino sono stati contenti: mi farà avere tutto ed io ho parlato di te e di Pomezia Notizie. Anche lui, Zaral si confida un poco, talora la guarda e ne rimane coinvolto, mentre io interiorizzo la cadenza della Lingua Friulana, che mi affascina ed interrompe lo scorrere del tempo, come in una bolla preziosa ed iridescente, inviolata. Armida ascolta e sorride e promette di accompagnarmi fin dentro all'albergo, mentre loro due se ne andranno dicendosi altre cose. Con un balzo nel tempo, da un momento all' altro della vita, mi ritrovo in questo ultimo sabato di carnevale, il 14 febbraio. Un san Valentino di fuoco, quello di settant'anni fa, a Dresda, si, quel 14 febbraio del 1945, quando su una città illuminata a giorno ed in festa vengono scaricate tonnellate di esplosivo che infuocano le abitazioni e portano a terra una temperatura di 1500 gradi Celsius, con un vento provocato tra fuoco, aria e terra che viaggia a 300 Km ed inghiotte tutto! Ottima, dettagliata, coerente, rigorosa ed intransigente la ricostruzione degli eventi fatta da Eugenio Cipriani, giornalista indipendente. Ingrandirò il suo articolo ed investigherò ancora, mettendomi in contatto con lui. Si, lutto familiare etico questo per noi che bambini ascoltavamo il Papà a tavola ricordare tutte quelle vite straziate in un lampo, quasi una preghiera, un 'de profundis' che mi è entrato dentro. Il Cipriani dettaglia: “... Churchill, sollecitato dal capo del Bomber Command della Royal Air Force - quell'Arthur Travers Harris che verrà poi ricordato col soprannome de 'il macellaio di Dresda’ - ha ormai maturato l'opinione che bisogna dare un segnale forte alla Germania. Gli americani, più restii dei loro alleati alla politica dei 'bombardamenti terroristici' sulla popolazione, alla fine arrivano sulle medesi-
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me posizioni del primo ministro inglese. Con una motivazione in più: oltre che alla Germania, vogliono che il segnale forte arrivi anche ai russi...” (da 'Il Giornale di Vicenza', 14 febbraio 2015, pag. 60, sez. 'Cultura e spettacoli'). Sul centro storico della città vengono scaricate bombe a non finire, oltre 650 mila, poi, il giorno dopo, 300 bombardieri americani B17, le così dette 'fortezze volanti', regaleranno a tutti i pochi sopravvissuti 771 tonnellate di bombe, per completare la preziosa opera e poi festeggiare la vittoria. Sostiene ancora il Cipriani: “... A guerra conclusa gli alleati, che avevano la coda di paglia perché in seguito alla diffusione delle immagini del rogo vennero accusati di essersi comportati alla stregua dei nazisti, minimizzarono il numero delle vittime portando a 20.000 circa...” (ibidem). Ti rendi conto, carissimo? Io non dimentico la Storia dei senza nome, non solo questi eroi di Dresda, ma tutti indistintamente da ricordare, da fare rivivere nella nostra stessa vita: Gesù è morto per quei senza nome che sarebbero stati di là da venire, oltre il Suo tempo. Ma se questo è anche il Suo tempo, allora siamo noi a dover ricordare, per renderGli ragione e conto del nostro impegno in questo tempo e questo solo, accarezzando la Storia contropelo, come voleva Walter Benjamin, facendone uscire le infinite e chiare e distinte voci dei Vinti. Perché i vincitori si sentano minuscoli, instupiditi, afoni, senza credibilità nell'agire se non perderanno il loro nome con un atto pieno della volontà che li farà andare contro natura, contro la loro natura di violenti. Martha Nussbaum, firmandomi i suoi due libri che avevo acquistato al banchetto e che recensirò a breve, mi aveva detto: 'Quickly!fa in fretta!': sarà stata pure stanca ma proprio anche grazie a lei potrà crescere quella coscienza storica che dovrà imporre ad ogni americano di rendersi conto di cosa significa rispetto nella relazione, e su più ampia e differente scala, usurpazione dei diritti delle Nazioni Sovrane e dei diritti della Legislazione d'Alleanza fra essi. O con loro, o 'Paesi canaglia' (motto di Bush padre? di Bush figlio?)!
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Ma 'ogni americano' esiste? Conta veramente? Ha veramente libertà di parole e condizioni reali per costruirsi destino e felicità, come dice la loro Costituzione? A che servono le prese di posizione pacifiste o le sfilate a seno nudo nella neve di fronte alla casa Bianca a Washinton? Tutto è sempre sotto il potente ombrello del Potere, come ben sostiene Massimiliano Tomba! Ieri come oggi si cercano un nemico, magari prima 'amico' e gli muovono guerra: il profitto dalla vendita delle armi e il loro uso sulla popolazione inerme è cosa che incrementa le pagine dei giornali, per creare sempre nuove realtà fittizie e movimenti di borsa, che ormai, credimi, danno il voltastomaco: e l'Europa, in tutte queste tensioni non è più dei suoi Popoli, delle sue Tradizioni, delle sue conquiste intellettuali ed artistiche. Basta depredare anche i gioielli di casa nostra, come la Fiat e la Ferrari, basta giocare al ribasso su tutta la nostra orgogliosa inventiva: il Premio Nonino, che parte dalla salvaguardia di vitigni antichissimi deve insegnare! Ancora e sempre innamorata dell' Amore che è vita e lotta e ricerca ti abbraccio, in un presente che non ha confini. Ilia Cara Ilia, se è vero che tra Messico e USA gli immigrati in fuga si fanno maciullare dai treni o perdono la vita in altri modi cercando di superare le barriere, qui da noi è peggio, l’invasione venendo anche dal nord-est, non soltanto dal mare. A spingere è, intanto, un intero continente. La massa di derelitti finisce prima arrostita dal sole del deserto e sotterrata dalla sabbia, angariata, depredata, stuprata da nuovi e più crudeli mercanti di schiavi (una spregevole mafia), poi schiacciata dai tir, stecchita dal freddo, inghiottita dalle onde del Mediterraneo divenuto uno dei più grandi cimiteri. La violenza che domina il mondo non si sconfiggerebbe tutta con una più equa distribuzione della ricchezza, ma in gran parte sì. Invece, questa continua ad essere appannaggio di una esigua minoranza - Nazioni o singoli che siano - e ci si lamenta quando nel resto dell’ umanità
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poche cellule (immaginate se tutti i derelitti del mondo si unissero!) si ribellano e si grida al terrore e alla guerra. Terrore e guerra fomentati, poi, dagli stessi detentori della ricchezza e del potere! Non è terrore costringere quasi il 99% della popolazione mondiale a patire la fame? Quante son costate (uno dei tanti esempi) le migliaia di tonnellate di bombe scaricate - come tu ricordi - su Dresda? E quante migliaia e migliaia di tonnellate sono state scaricate altrove solo nel corso degli ultimi anni? Quanti derelitti e innocenti, invece di venire uccisi, si sarebbero potuti sollevare con quei denari, allontanandoli, così, almeno in parte, dalla violenza? Perché un lavoro, una casa, una famiglia per ciascuno, sarebbero desiderio e speranza di vita, spirito e forza proiettati verso il futuro, non pensiero di morte da dare o da ricevere. In quanto a Cristo, Egli non si è immolato solo per i “senza nome che sarebbero stati di là da venire”, ma anche per quelli - miliardi e miliardi - vissuti prima del “Suo tempo”; è morto, cioè, per l’inizio e per la fine del mondo, legando - Lui, centro dello spazio e del tempo l’alfa e l’omega dell’umanità, considerata un solo individuo. Ognuno di noi è cellula che deve adoperarsi a questa unità, perché solo quando l’avremo realizzata, il sacrificio divino avrà raggiunto il giusto e pieno compimento e nascerà finalmente il “nuovo figlio d’Eva,/l’ Abele dell’ affrancamento,/l’ uomo dell’ utopia,/che, ignorando il peccato,/possa al mondo venire senza pianto” (Alberi?, pag. 14); l’ umano coscientemente introiettato nella Divina Matriosca, insomma. Dio ha immesso la vita nel mondo e nell’ universo - la fattura di creta è solo una metafora - e la vita si evolve, si espande nel tempo e nello spazio con la nostra collaborazione, col nostro maturare in spirito e materia. Allora, Cara Ilia, “basta depredare”,ma non solo “i gioielli di casa nostra”: basta depredare! Ed è compito dello scrittore, del poeta, del musicista, dell’artista in genere, lottare e prodigarsi perché maturi una tale coscienza. Domenico
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