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IN DIALOGO CON IL REGISTA

PATRICK BRUNIE IL DESTINO DI VENEZIA E DEL SUO BUCINTORO di Ilia Pedrina

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INGRAZIO il regista Giorgio Bordin e la sua consorte Jolanda Bertozzo, di TeatroDanza, Arti della Rappresentazione, perché mi hanno consentito di incontrare Patrick Brunie agli inizi di febbraio: in quell'occasione privata, nella Sala Arancione del Resort Vergilius Hotel in Creazzo, appena fuori Vicenza, insieme a Melinda Legendre che fa da esperto intermediario, abbiamo potuto visionare insieme, per la prima volta, a porte chiuse, il documento storico-filmico “IL BUCINTORO DELLE REPUBBLICHE”, prodotto autonomamente dal regista francese in collaborazione con Alain Depardieu. Le riprese fatte tra Venezia e Bordeaux offrono un percorso a colori di immagini, di incontri, di silenzi di brindisi, di speranze, di mani al lavoro, di voci che sottolineano l'impegno ed il progetto nel portare avanti il prezioso intervento, mentre si sta aprendo il restauro della statua di San Giorgio, dall'alto della Chiesa sull'Isola, di acuti stridii mentre si sta tagliando la quercia secolare della foresta intorno a Bordeaux e qualcuno, prima del taglio, →


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All’interno: Bernabei Amato Maria: Passio, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 5 La felicità del comprendere, di Marina Caracciolo, pag. 8 La compagnia d’operetta sfida Vicenza, di Ilia Pedrina, pag. 10 Bruno Rombi: La stagione dei misteri, di Luigi De Rosa, pag. 13 Domenico Cara: L’impertinenza del presente, di Elio Andriuoli, pag. 15 Innocenza Scerrotta Samà: In luce d’estasi, di Nazario Pardini, pag. 17 Imperia Tognacci: Là, dove pioveva la manna, di Tito Cauchi, pag. 20 Valerio Casadio: Quanto sembra sfuggirci, di Carmine Chiodo, pag. 23 L’abbandono del paese o della crisi dell’uomo, di Leonardo Selvaggi, pag. 25 Edio Felice Schiavone, di Brandisio Andolfi, pag. 31 Pittura di Eleuterio Gazzetti, di Tito Cauchi, pag. 33 Premio Città di Pomezia 2015 (regolamento), pag. 35 I Poeti e la Natura (Cecco Angiolieri), di Luigi De Rosa, pag. 56 Notizie, pag. 55 Libri ricevuti, pag. 57 Tra le riviste, pag. 61 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Alberi?, di Domenico Defelice, pag. 38); Isabella Michela Affinito (Domenico Defelice: introspettivo coinvolgimento poetico-letterario dell’animo umano, di Eva Barzaghi, pag. 39); Anna Aita (Michele Frenna nella sicilianità dei mosaici, di Tito Cauchi, pag. 40); Anna Aita (Palcoscenico, di Tito Cauchi, pag. 41); Elio Andriuoli (Trasfusioni di sangue, di Gianpasquale Greco, pag. 42); Tito Cauchi (Quel cerchio di luce, di Rocco Cambareri, pag. 43); Aldo Cervo (La, dove pioveva la manna, di Imperia Tognacci, pag. 44); Carmine Chiodo (Revolution, di Marcello Vitale, pag. 44); Luigi De Rosa (Le figure della mente, di Francesco Dario Rossi, pag. 45); Luigi De Rosa (La vita restante, di Rosa Elisa Giangoia, pag. 46); Giovanna Li Volti Guzzardi (Il linguaggio delle stelle, di Francesco Terrone, pag. 47); Maria Antonietta Mòsele (Palcoscenico, di Tito Cauchi, pag. 48); Maria Antonietta Mòsele (Francesco Lomonaco, di Leonardo Selvaggi, pag. 48); Maria Antonietta Mòsele (Cellulosa, di Aurora De Luca, pag. 49); Maria Antonietta Mòsele (Antonia Izzi Rufo tra soggettivismo e neorealismo, di Aldo Cervo, pag. 49); Laura Pierdicchi (Maria Grazia Lenisa, di Domenico Defelice, pag. 50); Andrea Pugiotto (Eia eia alalà, di Giampaolo Pansa, pag. 51); Andrea Pugiotto (Racconti di animali, di C. De Mattia, pag. 52); Andrea Pugiotto (Maria Grazia Lenisa, di Domenico Defelice, pag. 52); Andrea Pugiotto (Conchiglia di mare, di Tito Cauchi, pag. 53); Orazio Tanelli (Maria Grazia Lenisa, di Domenico Defelice, pag. 54).

Lettera al Direttore Domenico Defelice, di Ilia Pedrina, pag. 62 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Domenico Defelice, Elisabetta Di Iaconi, Renato Greco, Filomena Iovinella, Adriana Mondo, Teresinka Pereira, Laura Pierdicchi, Edio Felice Schiavone, Leonardo Selvaggi

abbraccia il gigantesco albero e lo bacia e lo saluta, ringraziando per il sacrificio della sua vita in cambio dell'onore di fornire la base della chiglia per il nuovo Bucintoro che si andrà a costruire. Un inno alla libertà della mente e delle mani insieme, per tornare a far rivivere, dal vero, il Bucintoro della Repubblica di Venezia, a suo tempo dato alle fiamme dalla furia devastatrice di Napoleone, per

disporre in pieno di tutto l'oro che riveste le sculture e le parti nobili della nave. Nave speciale della libertà e della festa, ora, in questo filmato di Patrick Brunie, vero documento iniziatico, concreto ed ideale ad un tempo, per trovare il coraggio di salvare Venezia, il suo Arsenale, il suo destino. Mi commuovo per l'intensità delle immagini, la sfida problematica contro le istituzioni che, pervase dalla corru-


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zione e dalle 'Tentazioni di Venezia', hanno interrotto il percorso costruttivo e significativo di questa impresa, la maestria nel lasciare intatte le radici di libertà che hanno fatto di Venezia un simbolo per il mondo intero. Incontro di nuovo Patrick il 9 febbraio e l' appuntamento è ora in Laguna, all'Isola della Giudecca, al Bar Palanca, io arrivata da Vicenza mentre lui da Castello, nella zona di San Marco, dove si ferma quando è qui in Venezia. Mi accoglie in un abbraccio e mi dice: “Non ho mai voluto essere nella Fondazione del Bucintoro, io non sono la Fondazione Bucintoro. Sono un cineasta indipendente, capisci? Questo è molto importante, è essenziale, oggi. Tutto ciò che si vede nel film è certo che ha a che fare con la politica. Sono stato io ad ottenere i contatti per il taglio del bosco in terra di Francia, strappando un accordo, dunque nessuno può intervenire sul film e su ciò che io dico e devo dire. In questo momento io sono con gli artigiani, io sono con quelli che se ne lavano le mani della Fondazione Bucintoro perché con la nuova amministrazione non si sa bene che cosa capiterà. Ecco perché vorrei incontrare anche a Vicenza i giovani studenti e gli artigiani e fare in modo che i giornali ne parlino: io sono un cineasta indipendente, non sono io che parlo, ma questo è un film indipendente. Non parlo affatto dal punto di vista politico: si vedono i politici a tavola o che firmano negoziati ed accordi, ma nello stesso tempo, la parola conclusiva è questa: il lavoro per il progetto, che cosa se ne farà? Chi andrà a costruire la nave? Capisci? È molto importante! Sono tutti agitati, la città è nel panico, la città può perdersi! Orsoni, il sindaco Orsoni era già un compromesso, un compromesso politico ed oggi, con lo scandalo e tutto il resto, la città è spogliata, è stata messa a nudo. Allora arrivano le mie immagini! Mi hanno detto: 'Brunie, calmati, bisogna aspettare!' ed io ho risposto: 'No, non si può più aspettare!' Non si può più aspettare perché il prossimo capo politico dovrà prendersi in carico l'affare del Bucintoro con gli artigiani. Sei d'accordo con me? Non si può più aspettare. Tu lo sai, in Belgio, per un anno non c'è stato più il go-

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verno. I Belgi hanno funzionato bene, hanno cominciato a riflettere in un altro modo. Ciò è molto importante. Quando le cose si arrestano, il famoso silenzio, quando c'è un silenzio politico sulla città, questo è formidabile. Il silenzio è il vuoto. Si può riflettere in modo differente, ci si può interrogare, porre dei veri problemi. Soprattutto rispetto ai giovani. I giovani non vogliono più una politica come questa, non vogliono più dei truffatori, degli imbroglioni! Allora che si deve fare? Ed in più c'è anche la crisi economica. Hai letto l'articolo ne 'La Nuova Venezia'? Il problema è questo: si ha paura della politica nella città, ma questo problema non esiste. In Francia c'è François Hollande che sostiene il progetto. Ho interpellato Hollande, che ha coinvolto tre ministeri: quello della Cultura, del Lavoro e dell'Educazione Nazionale. Tre ministeri lavorano intorno al Bucintoro. Il problema è il potere politico ed oggi non c'è un sindaco a Venezia. Anche Zaia, il presidente della Regione, ha sostenuto il Bucintoro ed è stato invitato in Aquitania, ma Orsoni ha detto che se va Zaia lui non si presenta... Vera e propria bagarre politica! Il 17 febbraio presenterò il film in una sala a San Stae, qui a Venezia, da solo. Ci sono cinquanta posti, ma saranno in tantissimi a volere vedere questo film. Tutto il mondo vuole vedere questo film: io però sono indipendente, non faccio della politica, mi sono pagato il film tutto da solo e va bene così. Il mio film mi appartiene e questo non l'hanno riconosciuto. Hanno fissato un contratto, ma la verità è semplice: non si è tenuto fede al contratto ed io il film l'ho finito da solo. L'ho finito perché bisogna salvare il Bucintoro per gli artigiani: al mio posto ci sono le mie immagini ed il mio film è concluso. Loro hanno paura, tutto il mondo ha paura e ci sono dei segreti dietro le quinte che io solo so: è una situazione complicata in rapporto al film, hanno bisogno adesso della Francia e nell'aspetto pratico, il lavoro alla chiglia della nave si è arrestato. Il problema è qui e riguarda le autorità: ad esempio c'è un giovane che io apprezzo moltissimo, Roberto d'Agostino, che è della famiglia degli antichi dirigenti dell'Arsenale; e


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poi c'è Bellati, che è un diplomatico, tutti sono con me e ben conoscono la verità di ciò che sta accadendo! Tutto ciò che io penso lo si vede attraverso le immagini. Ho rifiutato che ci fosse una voce fuori campo in lingua francese, quasi un commentario. Ma qui c'è solo la parola dei Veneziani ed è la parola degli eventi stessi: io non parlo e c'è la priorità della parola, la priorità delle parole della gente che lavora, l'hai detto tu stessa, è la mano che parla. Per me la priorità sono gli artigiani, ecco, sono i 'Compagnons', è questo che ci ha coinvolto e fatto agire! Poi sono arrivati i problemi, perché il sindaco di Venezia è anche il Presidente della Fondazione ed adesso il sindaco è stato coinvolto in uno scandalo e quindi si dovrà ricomporre la situazione anche con gli artigiani. Anche tu dovresti entrare e capire il funzionamento della Fondazione e Vicenza, hai detto, è un punto di passaggio verso la realizzazione piena del progetto, non bisogna avere paura. Per quanto mi riguarda posso aprire un dibattito su ciò che si vuole, non c'è alcun problema, ma il problema è nell'interrogativo: vale la pena di fare il Bucintoro, con le parti in oro, nella nostra società in crisi? Si, vale la pena perché si devono difendere i mestieri, bisogna creare un appello forte per Venezia, anche a livello di cultura elevata: si tratta degli artigiani di Venezia, si tratta della Storia di Venezia, si tratta di piccoli uomini necessari alla Storia di Venezia e del Mondo. C'è chi ha paura di me perché sono indipendente: perché il film viaggia tutto attraversando Venezia senza di loro, senza i politici. Ma io non ho fatto che il mio lavoro e lo presento come un artigiano: non possono attaccare il mio lavoro ed io non darò più voce a loro, ma bisogna salvare i Mestieri d'Arte, bisogna salvare gli Artigiani. È ora di smetterla di discutere e non bisogna fermarsi al fatto che un sindaco è stato levato dall'incarico perché corrotto... Noi siamo amici, si lavora insieme, io ti chiedo di vedere il film sotto un'altra prospettiva e vorrei che tu scrivessi al popolo Veneziano, non a me, per quello che hai visto nel film, perché è importante fare il Bucintoro, in qualche modo per

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noi, intorno al tema del silenzio! Il più bel momento, per me, è quando la responsabile del Dipartimento delle Acque dice al produttore, a Depardieu, che è al suo fianco: 'Si, raccontare il silenzio dei gesti!' E si vede San Giorgio, si vede l' operaio che pensa... Vorrei che tu scrivessi: 'Parlo ai miei amici Veneziani... perché il lavoro che fa Brunie, modestamente, da straniero, è importante perché siamo dentro ad un' Europa dei giovani, un'Europa dei dubbi...' Lo sai cos'ha detto Giorgio Suppiej? Se non si fa il Bucintoro, se non si dà ossigeno nuovamente ai mestieri, in trent'anni l'ultima generazione sarà quella dell'archeologia. Sarà un lavoro dell'archeologia, Come Lascaux. Tutti gli artigiani saranno scomparsi, tutti i mestieri saranno scomparsi e resterà solo dell'archeologia. Questa è l'ultima generazione che può testimoniarlo, che potrà salvare tutto! Questo tema è molto, molto importante. È questo il solo senso di fare il Bucintoro, è la sola, l'unica realtà, capisci? È per questo che ci si è messi al lavoro ed allora il mio film racconta tutto questo alla sua maniera. Se non si farà il Bucintoro, allora rimarranno i turisti e Venezia sarà un museo! C'è chi mi ha detto che non ritrova più la Venezia della sua infanzia, ma io, in questo lavoro ho portato avanti la speranza di guardare in faccia la realtà nel solo senso di fare il Bucintoro, per cambiare il corso delle cose!” Mi fermo su questa forza viva, sincera, trascinante e riprenderò ancora con lui questi temi, agendo sulla realtà e sulla gente. Lo accompagno all'Archivio Luigi Nono perché avevo già avvertito la Signora Nuria Schoenberg Nono del nostro arrivo. L'incontro rivela un fluire inesausto di emozioni, di sguardi, di approcci alle fotografie in mostra di Gigi nel suo percorso di vita, di contatti, di composizioni, di silenzi, di scenografie storiche in modellino, di istantanee del suo volto dagli occhi dolcissimi e diretti, interrogativi. Patrick Brunie compra il volume di 'INTOLLERANZA '60' , mentre io gli regalo il Dvd dell'Archipel 'Luigi Nono'. Lascia una traccia nel libro delle dediche. Io mi commuovo. Patrick Brunie tornerà ancora. Ilia Pedrina


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BERNABEI AMATO MARIA

PASSIO di Liliana Porro Andriuoli

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ASSIO è il titolo di un lavoro teatrale in terzine dantesche, apparso nel febbraio 2014 per la Valentina Editrice di Padova, che trae la sua ispirazione dal tema della Passione di Gesù. Si articola in un atto unico, suddiviso in tredici quadri e preceduto da un prologo, suddiviso a sua volta in altri due quadri, ed è firmato Amato Maria Bernabei, un poeta già noto per aver scritto due opere teatrali in versi (L’Inganno, 1990, su commissione di un musicista contemporaneo, e Il Ragno, 2000) e per aver pubblicato due florilegi (L’errore del tempo, Chieti, Vecchio Faggio, 1990 e Dove declina il sole, Ragusa, Libroitaliano, 1998) e un Poema epicodrammatico mitologico, di quasi diecimila versi, ancora in terzine dantesche (Mythos, Venezia, Marsilio Editori, 2006).

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Il tema portante di questo nuovo dramma sacro (come d’altra parte recita anche il titolo) è costituito dagli avvenimenti della Passione di Nostro Signore, che prende le mosse dal giudizio di Gesù davanti a Ponzio Pilato; giudizio che si conclude con la condanna alla Crocifissione, alla quale fanno seguito l’ ascesa al Golgota e la Sua morte sulla Croce. Su tale argomento centrale se ne innestano però diversi altri (ed è questo che rende il lavoro di grande originalità ed interessante) che, pur non essendo strettamente legati all’ evento della “Passione”, sono di grande importanza ed attualità per l’uomo, come ad esempio quelli del peccato originale della “prescienza” divina (e di conseguenza della libertà delle nostre azioni); ma anche del Bene e del Male e della Provvidenza che tollera la presenza del male. A dibattere tali problemi intervengono alcuni personaggi non previsti dalla narrazione classica dei testi religiosi (cioè dei Vangeli), ma per così dire “inventati” da Bernabei i quali, alternandosi e confrontandosi sulla scena, li affrontano da differenti punti di vista. Già fin dall’inizio, Quadro 1 del Prologo, incontriamo infatti L’Empio, che con grande protervia agita uno dei maggiori problemi con cui si è misurata la teologia cristiana: quello di conciliare il libero arbitrio dell’uomo con l’ onniscienza e con l’onnipotenza divine. Egli, riferendosi al Creatore dell’Universo, si chiede: “Perché già pensa - ed il pensar Gli piace - / all’offerta crudele ed all’ inganno / della libera scelta senza pace? // Perché, se sa, non lo distoglie il danno?” (p. 15). Una domanda angosciosa che disorienta chiunque si ponga il problema di conciliare la “libertà” personale di un individuo (e quindi la conseguente responsabilità del suo agire) con la prescienza divina, se è vero, come afferma L’Empio, che la “libertà” dell’ uomo consiste unicamente nel poter “fare o non fare ciò che inesorabilmente farà”, o addirittura ciò che “è già previsto / che farà”.


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Diversi altri sono i personaggi per così dire “inventati” che interpretano questa Passio di Bernabei: all’Empio infatti, cioè a colui che si accanisce contro i dettami della Fede e cerca di scardinarla, con un linguaggio blasfemo e irridente (“empio” infatti nella sua prima accezione significa appunto colui che offende o disprezza Dio e le cose sacre), fa da controfigura l’Angelo, che è la personificazione della dottrina pura, che non conosce ombra di dubbio, e che contrasta le insidie dell’Empio e della sua dialettica. E ai due personaggi precedenti si aggiunge quello del Girovago, il quale impersona un uomo in preda al dubbio, che tuttavia cerca la Verità e che ha quindi una posizione intermedia tra la loro. Anche questi personaggi, per così dire “inventati” da Bernabei, appaiono però vivi e vitali, tali da rendere attuale e godibile il lavoro. Fra i personaggi invece non “inventati” dal nostro autore (cioè fra quelli presi dalla tradizione giudaico-cristiana) troviamo Lucifero, che fu già angelo bellissimo, il quale però, per aver voluto innalzarsi sino a Dio (cioè per un atto di superbia), fu condannato all’ Inferno. Volle poi coinvolgere l’uomo nella sua rovina e per questo divenne “il Tentatore”, che indusse Eva a mangiare il frutto e causò quindi la cacciata dell’uomo dal Paradiso Terrestre. Egli è il portatore della Tenebra, cui è negato lo splendore della Luce ed è per questo che il seguirlo reca sempre tristezza e sofferenza. Ma s’affacciano qui anche altre

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figure, quali quella dell’Evangelista, che interviene a commentare gli eventi, e quella del Salmista che leva la sua preghiera a Dio. Di grande effetto è poi l’avvicendarsi delle “Voci” che commentano la scena, come avviene nell’episodio della cacciata dall’ Eden, che si conclude con la condanna divina: “Te farò madre per feroci doglie, / soggetta all’uomo che dischiude o serra. // E tu, poiché cedesti alle sue voglie, / e mangiasti dell’ albero proibito, / suderai sul terreno che raccoglie, // di stenti e d’erbe tu sarai nutrito. / Finché, di fango, tornerai nel fango, / dalla polvere in polvere finito! // Questi è il giudizio e questo non infrango” (p. 47). Di grande efficacia sono inoltre le scene che rappresentano il contrasto tra L’Empio e il Girovago; mentre ha momenti di notevole suggestione l’Episodio dell’Ultima Cena, dove fa spicco la figura di Giuda, con il suo tradimento e il dramma del suo rimorso, che lo condurrà al suicidio. Compaiono in questa scena anche l’Empio, che cerca di giustificare Giuda, e compare Pietro, che nega tre volte di essere stato con Gesù (“Tre volte negherai d’ essere amico”, p. 61). La Figura che acquista però maggiore importanza in questo contesto è quella di Cristo, portatrice di un altissimo messaggio di fratellanza e di pace: “Nuovo precetto, e modo, specchio e senso, / nell’ora che più l’anima è ferita, // di carità vi lascio e di consenso: / amate l’altro come io vi amai” (p. 61). Vengono successivamente le scene dell’ orto degli ulivi e quella della cattura di Gesù, commentate dall’Evangelista, che segnano l’inizio della vera e propria Passione. Ritorna inoltre, con un nuovo movimento retrospettivo, il processo a Gesù, che passa da Anna a Caifa, da Erode a Pilato, prima di salire al Golgota: “Anna, Caifa, Pilato e quindi Erode / e infine il buon diritto del Romano / che la giustizia assimila alla frode, // che sente l’innocenza e avverte il piano, / ma il furore giudeo più non avversa / e immerge nel lavacro già la mano…”. Il Quadro X si sviluppa con un alternarsi delle voci dell’Angelo, che ricorda Le Tavo-


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le della Legge date da Dio a Mosè e quella de L’Empio, che difende il peccato di Giuda. Nel Quadro XI si sviluppa invece il contrasto fra l’Empio e l’Evangelista, cui si aggiunge la voce di Maria, che leva il suo straziante lamento per la morte di Gesù sulla Croce; un lamento che costituisce uno dei passi più alti di tutto il dramma: “Figlio, perché non ho grido che gema? / perché non posso tendere le braccia? / Perché le spine hanno contratto il riso, / lo strazio che dissangua il corpo impaccia? // Perché sei degno e perché sei deriso? / Perché Gesù se puoi non ti allontani? / Come posso patire il figlio ucciso? // Madre che culla e stringe fra le mani / come dà gli occhi azzurri a questa notte? / Da questa notte che vedrà domani? // Da questo vuoto che le stelle inghiotte?” (p. 93). Conclude il poema, una Processione sulla piazza della Cattedrale di San Giustino a Chieti, che dà luogo ad una Sacra Rappresentazione vera e propria, durante la quale ricompaiono le figure dell’Empio e del Girovago, ciascuno con le sue peculiari caratteristiche. Le ultime parole le pronuncia l’ Evangelista, nel Quadro XIII e suonano come una sintesi di tutto il dramma: “Il martello sul Monte inchioda il cielo…” (p. 103). Dopo di che il sipario si chiude, lasciando lo spettatore pensoso per i molti problemi che sono stati dibattuti in questo testo, nel quale Bernabei ha dato prova della sua indubbia capacità di affrontare i grandi temi che agitano l’uomo posto di fronte al mistero del suo destino. E sono i temi del bene e del male, della vita e della morte, della dannazione e della salvezza nell’Oltre, che da sempre lo accompagnano sul suo cammino terreno. Un lavoro molto accurato questo di Bernabei, come dimostra anche il fatto che al testo poetico (quello in terza rima), riportato sulle pagine dispari del libro, è affiancata, sulle corrispondenti pagine pari, una parafrasi esplicativa, opera dello stesso autore. Ed indubbiamente ciò consente una più agevole comprensione del testo, e quindi una maggior godibilità delle compiute terzine dantesche del Bernabei.

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Sobria ed elegante anche l’edizione che, oltre a un disegno di Maria Luisa Zabeo, contiene molte immagini del Cristo, una delle quali, ripetendosi costantemente sulle pagine dispari del libro, crea una particolare suggestione, conferendo unità all’insieme. Liliana Porro Andriuoli GIORNO INTERNAZIONALE DELLA DONNA 8 marzo, 2015 Donna, Collega, osa gridare con me a gran voce che le torture islamiche di ragazze ribelli e sottomesse cessino! Protesto per la tua sofferenza e per la tua obbedienza alle leggi del tuo paese, della tua religione, della tua comunità, e della tua famiglia! Ascolto il tuo silenzio con orrore, ma se tu gridi, io amplificherò il tuo grido affinché il mondo possa udirlo. Un giorno saremo libere. Ma fino ad allora... non perdonare gli uomini in nome di Allah! Teresinka Pereira Usa - Trad. Givanni Donaudi, Direzione Editoriale Edizioni Universum Via Italia 6 98070 Capri Leone (ME)

FIORE DI PENSIERO Nasce da lontano dentro un vuoto della mente cresce e si annida il fiore di pensiero diventa un faro di luce nell’incrocio di vie intreccio di neuroni comunicanti nasce dentro la mente viva e languida la pioggia porta con sé il nobile concetto che prepotente si affaccia Filomena Iovinella


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Maria Grazia Lenisa in un saggio di Domenico Defelice

LA FELICITÀ DEL COMPRENDERE di Marina Caracciolo ON l’intenzione di celebrare gli ottant’anni che Maria Grazia Lenisa avrebbe compiuto il 13 febbraio di quest’anno, Domenico Defelice – scrittore, poeta e critico che dirige la nostra PomeziaNotizie da ormai più di quattro decenni – pubblica sul “Croco”, supplemento al numero di gennaio della rivista, un appassionato e dettagliato saggio che è come un dono postumo per la grande poetessa nativa di Udine, vissuta poi per buona parte della sua esistenza in Umbria. Defelice ha conosciuto personalmente e per tanti anni la Lenisa, gli è stato fedele lettore e interprete, a volte mentore e a volte anche fiero antagonista: molti di certo ricorderanno ancora la vivace querelle che si scatenò su queste pagine una quindicina di anni fa a proposito di Incendio e fuga… E un’eco ben udibile di quella polemica è ancora oggi presente nelle ben cinque fittissime pagine che il nostro autore vi dedica – il più lungo di tutti i paragrafi – per amore di una leale sincerità a spada tratta, dettata in fondo proprio da quello stesso interesse, da quella medesima viva

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partecipazione che i versi della poetessa in lui costantemente suscitavano. Quest’agile “spillato” di sole 32 pagine (che diventerebbero però il doppio se scritte con un corpo tipografico meno microscopico e con diversa impaginazione) arriva adesso a colmare una lacuna non indifferente, se si pensa che sulla Lenisa hanno scritto decine e decine di critici da più di sessant’anni, ma ben pochi hanno voluto (o saputo) raccogliere in maniera precisa, unitaria e organica il loro pensiero su di lei e sulla sua vastissima opera, sia poetica sia critica. Forse il primo vero e proprio saggio fu scritto da Salvator Rizzo (Maria Grazia Lenisa. Fra poeti e narratori. Casa Editrice Liguria, Genova) nel lontano 1950, quando l’ autrice, a quel tempo un’autentica rivelazione nel panorama letterario contemporaneo, aveva appena quindici anni. Poi, in tempi assai più recenti, dopo innumerevoli interventi e articoli apparsi su riviste e quotidiani a firma dei più illustri recensori, troviamo un pregevole saggio antologico pubblicato nel 2003 da Andrea Bonanno: Saggi sulla poetessa Maria Grazia Lenisa; a cura dell’Archivio - Centro Arte e Letteratura ‘Luigi Pirandello’ di Sacile (PN). Il testo si sofferma in particolare su alcune tematiche fondamentali della poetessa (si basa quindi soltanto su una scelta delle sillogi poetiche e delle opere saggistiche) e si arricchisce di un’estesa bibliografia nonché di ampie citazioni dalle opere oggetto di indagine. Il nostro Direttore giunge ora – in una prospettiva postuma, quindi pressoché completa – a proseguire e a perfezionare questo itinerario critico su una scrittrice difficile quant’altre mai, se si pensa al senso talora involuto e addirittura criptico di molti suoi versi, all’ intenzionale molteplice stratificazione semantica, alla ricchezza dei riferimenti interni e al complesso groviglio delle citazioni: il tutto perfettamente comprensibile, in qualche caso, soltanto agli occhi della poetessa medesima. Come in un intreccio di rami della stessa pianta, l’autore alterna con disinvoltura i personali ricordi che umanamente lo legano all’


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amica Maria Grazia agli stralci di alcune fra le numerosissime lettere scambiate; e intanto con cura meticolosa illustra nell’ordine tutte le sue opere più importanti, citando versi ed esplorando ogni testo con osservazioni critiche puntuali, profondamente indagatrici, sempre intense e mai aride o sbrigative pur nella rapidità di sguardo “a volo d’uccello” che gli è indispensabile in un excursus che intenda esporre globalmente un’opera – poetica e letteraria – di tale vastità e spessore. In questo saggio Defelice sa presentare con assoluta chiarezza la struttura, l’evoluzione temporale, gli orientamenti stilistici, le varietà e le finalità di contenuti dell’opera lenisiana, contrapponendo in certo qual modo all’ intrinseca difficoltà di cui s’è detto una scioltezza e una misura discorsiva che si fanno ascoltare fino in fondo, dando al lettore l’ impressione di assistere de visu a una colta quanto piacevole conferenza su argomenti di non sempre facile assimilazione. Poiché l’autore non possiede, e certo vivamente se ne rammarica, l’opera omnia della compianta amica (avendo per di più voluto donare molti suoi libri alla locale biblioteca) lascia inevitabilmente mancare all’appello – senza che questo pregiudichi tuttavia la compiutezza del discorso o l’integrità dell’analisi – alcuni titoli di non scarso rilievo: tra pochissimi altri vorrei indicare soltanto La dinamica del comprendere (Bastogi, 2000), scritto in collaborazione con la figlia Francesca Alunni, opera probabilmente fondamentale per capire il personale approccio della Lenisa alla poesia e più in generale alla letteratura; e il deliziosissimo libello in versi, edito nello stesso anno, Le Bonheur (Canzonario): mirabile idea nata ai piedi dei sonetti di Shakespeare, che è forse la più “piccola” opera della poetessa, ma talmente avvolta - direi da un dolcissimo smalto evocativo ed espressivo, talmente densa di una fantasia aerea e vellutata da assurgere al rango di unicum in tutta la sua produzione poetica. Il prezioso saggio di Domenico Defelice è arricchito infine da una bella testimonianza fotografica e anche dalla riproduzione di al-

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cune significative lettere manoscritte che l’ autrice, nel corso di lunghi anni, gli aveva inviato. Marina Caracciolo Domenico Defelice: Maria Grazia Lenisa. (Il Croco. - I quaderni letterari di Pomezia-Notizie; gennaio 2015, pp.32).

SPIRITO Il velo del giorno cala sul livido scenario della notte La storia non vissuta respira negli alti spazi stellari. Scende quell'unico spirito lucente su di ogni zolla mentre fragilissima musica vibra di molti mormorii Scuotono i fiori d'acqua il garrulo ruscello e il vento s'adagia fra i pini, gocciole di pioggia, più tenere di rugiada bagnano la rosa, ninfa illanguidita. Da questo innocente sogno, mia anima risorge , la vita s'illumina dopo il buio, Si spegne tra l'aranceto ogni rumore al verginale canto della tristezza. La speranza carezza la fredda notte sotto il peso dell'ora incombente come un'onda che si frange. Adriana Mondo ERA GIÀ IL TEMPO DELL’UVA Era già il tempo dell’uva e un certo acro odore si diffondeva tra l’erba – i sassi i svelti passi nostri nel vasto campo arrossiva un grande tondo sole trasfigurando la stoffa degli abiti i capelli - gli occhi nostri aperti al fermento della terra ricca del giusto umore. Laura Pierdicchi Da Il tempo diviso


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LA COMPAGNIA D'OPERETTA

“TEATRO MUSICA NOVECENTO” SFIDA VICENZA, CITTÀ MILITARIZZATA di Ilia Pedrina

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N due momenti diversi e ben scanditi, perché il pubblico vicentino possa ancora lasciarsi sedurre, la Compagnia d'Operetta “Teatro Musica Novecento” presenta due suoi lavori al Teatro Comunale di Vicenza, costruito con le compensazioni dopo i bombardamenti subiti nel centro storico, nel corso del secondo conflitto mondiale. Allora, con il protagonista di spicco Alessandro Brachetti, attore canoro e regista ed il direttore dell'orchestra 'Cantieri d'Arte' Stefano Giaroli, pure produttore dei lavori in scena, si sta facendo strada, seriamente, la possibilità di aprire al divertimento di qualità, al prezioso gusto dell'ironia e della gioiosa sensualità, che sempre confina con uno sguardo d'insieme, bonario e tollerante, sulle relazioni sentimentali, le loro sfumature segrete e magiche, gli imprevedibili sottintesi fatti anche di tutta quella maliziosa complicità, di cui s'è persa ormai la fattura schietta, nella vita reale. Soprattutto a Vicenza, se pensiamo alla trama del libro 'Il prete bello' di Goffredo Parise, adattato per il grande schermo dall'intelligenza e dalla sensibile maestria di Carlo Mazzacurati, prematuramente scomparso; soprattutto a Vicenza, se pensiamo alle basi militari americane di cui l'ultima, la più recente, ha distrutto con le sue fondamenta a diga, profonde 80 metri, la più grande risorgiva d'Europa, ora inquinata da sostanze tossiche; soprattutto a Vicenza, città del Palladio, che per il passaggio della TAV si vedrà rivoluzionata nelle strutture e martoriata ancora al punto tale da vedersi 'rampognata' dall'Unesco! Allora a Vicenza, per nostra fortuna, arriva questa Compagnia che vanta professionisti qualificati e dal successo ben consolidato e che mette in cantiere due lavori del repertorio operettestico della coppia Ranzato- Lombar-

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do. Virgilio Ranzato, veneziano, classe 1882, violinista e compositore di successo, incontra nel 1923 Carlo Lombardo, napoletano, classe 1869, nobile rampollo di casata che compone e scrive testi e che, fiutando bene lo 'Zeitgeist', lo 'spirito del tempo', ama stupire, dalle strade ai palazzi, passando per le piazze, prima che la gente entri nei teatri dove si replicano i suoi lavori, tutti legati agli intrighi d' amore sotto le diverse latitudini, applauditissimi e dai quali poi la gente se ne uscirà 'cinguettando' tutti quei ritornelli piacevolissimi che gli sono rimasti in memoria. Tra i due nasce un'intesa professionale e d'amicizia che lascia il segno indelebile nella storia dell' Operetta Italiana, con 'Il Paese dei Campanelli', del 1923 appunto e poi, nel 1925 con 'Cin Cin La'. Due autori italiani, questi, che lavorano insieme con inventiva originale, accentuata da una 'italianità' che spazia senza mai arrossire d'inferiorità anche oltre confine, senza emulazioni di sorta nel far copia sterile di ciò che già esiste sul campo e quindi di sicuro priva di brio: Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato sanno come muoversi nel panorama europeo di questo stile d'arte e lo tolgono al loro secolo d'appartenenza, immettendo la loro produzione artistica nel tempo a venire e nel gusto estetico oltre ogni moda. Queste due operette sono state ora magistralmente prese in carico ed innovate dal loro interno con vera intelligenza e gustose, ironiche attualizzazioni. Vito Molinari, che se ne intende di musica e di bel canto, di regia, di spettacoli colti e di intrattenimento, anche per il piccolo schermo, afferma: “ Cin Cin Là è l'esempio perfetto della linea italiana all'operetta. Con Cin Cin Là l'operetta italiana raggiunge l'apice, poi comincia la decadenza. 1925: la premiata ditta LombardoRanzati collabora ormai da tempo, sono in perfetta simbiosi: Lombardo, oltre che musicista è direttore d'orchestra, compositore, organizzatore, impresario di compagnie: arrivò ad averne fino a trentacinque contemporaneamente! Praticamente l'operetta italiana era


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'Lombardo! Era un uomo di spettacolo completo: capisce le mode, fiuta i tempi nuovi e così debutta con Cin Cin Là con Ranzato e nell'operetta gli elementi romantici sono quasi limitati, mentre sono accentuati gli aspetti comici, divertenti, sono come cercati, voluti, moltiplicati gli elementi di comicità anche un po' esasperata... L'azione si svolge a Macao, in una Cina che più Cina di così non potrebbe essere e più falsa di così non potrebbe essere....” (Fonte: DVD dell'Operetta 'Cin Cin Là', con la Compagnia di Sandro Massimini). Certo bisogna prendere in giro il diffuso clima che anela all'esotismo del lontano Oriente, molto presente in quell'epoca, che attira a sé poeti, pittori, musicisti, compositori, stilisti e quant'altro: in questa operetta il tema profondo, sottile e manifesto è l'educazione sentimentale di Myosotis, figlia del principe cinese di Macao, Fung-Chi - già da tempo svezzato al sesso nella lontana Parigi d'Europa dove ha investito molti dei suoi beni 'mobili' per la bella chantosa ed attrice Cin Cin Là, proprio ora a Macao per girare un film -: la giovane cinese, in assenza del padre, è tenuta bel lontana dal turbinio facile e felice dell'età della gioia e del tormento insieme, quell'adolescenza insomma che il mondo delle bambole e delle fiabe tende a ritardare, complice il suo educatore Blum, che costruisce tutto un ridicolo vocabolario di sinonimi che maschera la realtà e svia di brutto i desideri, confondendo, se mai ce ne fosse bisogno, l'interlocutore innamorato. Il matrimonio, organizzato dall'alto, di Myosotis con Ciclamino, figlio del re di Corea, non farà certo sbocciare né desideri in fremito a provocare lieve rossore in volto, né slanci seduttivi e coinvolgenti, senza via di fuga insomma, in quell'abbandono che crea complicità preziosa e curiose, fantasiose aspettative. Allora tutto ciò che servirà, oltre la purezza, a far bambini, sarà offerto, gratuitamente ben intenso, proprio dalla competenza professionale nell' ars amandi da Cin Cin Là per Ciclamino e da Petit-Gris per Myosotis. Tutto il popolo poi potrà godere alla grande perché al momento della fusione dei loro due corpi regali ci sarà

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un vero e proprio risuonar del carillon e si interromperà così il Ciun Chi Sing, periodo di sospensione che va dal colpo di cannone, segno dell'inizio della cerimonia del matrimonio tra i due, al suono del carillon appunto, che i due sposi, raggiunta la felicità dell'unione d'amore, avvieranno per aprire i festeggiamenti, che dureranno ben otto giorni. L'operetta è una perfetta sintesi tra antica tradizione del lontano Oriente e modernissima innovazione d'Occidente nella Parigi dove imperversano le pratiche disinibite del piacere. Il tema del carillon che trilla, qui a segnalare che la fanciulla ha donato la sua virtù, per iniziare con gioia e felicità la vita della coppia regale e di tutti, è stato ripreso da 'Il Paese dei Campanelli', andato in scena qui a Vicenza il 13 marzo, con il tutto esaurito ed applausi ben meritati. Nel fiabesco paese d'Olanda ogni casa è dotata di un campanello e lo scampanellio, in quest'opera non va a segnalare la gioia sottesa dall'amplesso, ma il percorso della virtù di fedeltà che viene interrotto se l' amplesso è fuori regola. La trama è variatissima perché tocca il tema della stabilità, anche politico-amministrativa di un paese tranquillo, visto che il borgomastro ed i suoi colleghi di questo Comune possono far sedute con sicuri risultati nella maggioranza del 'tutti in piedi', per poi andare a bere birra e giocare a carte, tanto a preservare la virtù delle loro mogli ci pensano i campanelli. Ci accorgiamo subito, noi del pubblico, che la scenografia è differente dall'immagine di locandina, perché una delle porte di casa corrisponde all'ingresso di una impresa di pompe funebri, curiosissima trovata questa, dato che il nostro sindaco a Vicenza, Achille Variati, ha proprio parenti stretti in questo campo! C'è spasso e tempesta all'arrivo improvviso di marinai, che hanno la loro nave nei guai: il nuovo provoca sempre curiosità, interesse, desiderio di verificare reciprocamente le proprie competenze, anche amatorie, se occorre e qui proprio, si sa, occorre, perché, si sottolinea nell'Operetta, a Londra, donde provengono i marinai, ed anche altrove, forse,vige la legge del libero scambio: io do la mia donna a te che tu poi la


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passi a lui e lui poi la passa all'altro e gli altri fanno lo stesso con le loro. Proposta indecente? In questo contesto, grazie all'abilità ed alla sciolta, variegata ironia gestuale e mimica dei cantanti-attori della Compagnia Teatro Musica Novecento, sembra che dopo le prime arruffate proteste, tutti siano di comune accordo aperti al nuovo e forse anche i campanelli diverranno complici di questa erotica innovazione. Un insieme poliedrico che viaggia e si impone per l'intarsio equilibrato delle sue diverse componenti: l'orchestra 'Cantieri d' Arte', diretta da Stefano Giaroli, produttore dei lavori, il corpo di ballo 'Novecento', con le coreografie di Salvatore Loritto, l'organizzazione a cura di 'Fantasia in Re', il coordinamento artistico di Claudia Catellani e quello musicale di Carlotta Arata, con Gabriele Sassi come capo della squadra tecnica e Luciano Pellicelli a maestro delle luci, mentre la segreteria amministrativa è nelle mani di Elena Cattani. A piena voce, il regista Alessandro Brachetti chiama in scena Artemio Cabassi, scenografo e costumista che ha lavorato in modo originale ed esclusivo proprio per questa performance vicentina, realizzando con ArteScenica Reggio Emilia tutto un lavoro ironico ed originalissimo che ti farà tener in memoria tutto, anche per far da contrasto al clima talora grigio, cupo, quasi 'segregato' di questa città, nella quale è possibile esercitare la legittima difesa e venire condannati, dove spesso, sempre più spesso ci si sente cittadini di serie B, anche se la squadra del Vicenza potrebbe volare in serie A... Il bell'accento bolognese che spesso accompagna i dialoghi in questo e nell'altro lavoro mi fa ricordare che Bologna, città comunale di gran forza, ha opposto resistenza alle truppe imperiali riuscendo a cacciare il Barbarossa. Bella mossa! Ilia Pedrina

IL MONDO IN UNO SPECCHIO Attraverso la finestra aperta scorre un mondo di auto, le quali sfrecciano veloci,

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passano a piedi le persone ignare del mio osservare, sfilano veloci anche loro e parlano, parlano chissà di cosa. Sul ciglio della strada c'è uno specchio di segnalazione e lì vedo riflesso un mondo nuovo, come mai lo avevo osservato così da vicino. Il mondo in uno specchio, auto luci, velocità uomini che vanno e non si fermano ad osservare il giardino di alberi alti, nell'assordante scorrere di vita che va e non si ferma mai Adriana Mondo CERCANDO L’ISOLA Isole dell’Egeo: paradisi. Un tempo, avevo voglia di vederle per le leggende che mi confermassero. A poco a poco, e nel corso degli anni, ne ho visitate molte. Ma non tutte. Ve ne sono troppe. Oggi, ne sto cercando una che è quella del mio sogno di ragazzo. Un’isola non tanto grande e nemmeno così piccola: con tanto verde da una parte, dei monti al centro e, sulla costa a Sud, acqua abbastanza per poterci vivere. Dove persista la bellezza classica e si mescolino figure tragiche a creature deliziose, mitiche. Dove ogni istante sembri irripetibile: il dono più prezioso degli dèi. Renato Greco Da Mattinali e tramonti dell’opera compiuta L’artedeiversi, 2015.


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BRUNO ROMBI E “LA STAGIONE DEI MISTERI”

(Il mondo sta impazzendo) di Luigi De Rosa

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RUNO Rombi è un poeta originario della Sardegna (Calasetta, Cagliari) che opera da una vita a Genova, anche come rappresentante di spicco della diàspora sarda: eccellente come poeta, si è fatto apprezzare anche come pittore, giornalista, narratore, critico e saggista, traduttore. Concordo col poeta francese André Ughetto quando scrive, a proposito dell'ultima opera di Rombi (La saison des mystères, edita in francese nel 2013 come numero 565 della Collection Encres Blanches diretta da Michel Cosem, a Colomiers): “Ce long poème de Bruno Rombi, traduit de l'italien... par Monique Bacelli, semble établir, au moyen de l'allégorie, une sorte de bilan existentiel , comparable à celui avec lequel commençait l'interrogation en descente par la “foret obscure” dantesque. Les analogies sont nombreuses (qui procèdent d'un héritage littéraire revendiqué par la plupart des poètes italiens). Ainsi que la Divine Comédie, La saison des mystères apparait tel un récit exploratoire de l'au-delà et de ce que présuppose la Voie qui y conduit. Le narrateur semble rongé par l'idée du péché, et notamment par celui d'avoir offensé l'Eglise de son enfance: Bruno Rombi n'a jamais fait “mystère” de sa foi réligieuse. Aussi le poème finit-il par apparaitre comme une veritable confession où l'auteur bat longuement sa coulpe. C'est en mème temps notre époque tout entière qui est jugée à l'aune des fortes convictions de Rombi...” Pur tenendo conto che in francese la parola poème sta ad indicare sia la singola poesia che il Poema vero e proprio, o il Poemetto, qui di tale ultima forma letteraria si tratta. Anche se non c'è nessuna suddivisione dello stesso Poemetto in strofe o in lasse o in parti, e tantomeno in Cantiche e Canti. Se si eccettua l'inizio, che vede un Introibo (recupero

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della sostanziale solennità della liturgia), di soli quattordici versi, precedere tutto il resto della composizione, intitolata Inseguendo il mistero, e composta di 633 versi (per un totale, quindi, di 647 versi, peraltro non numerati) non si riscontra, nell'opera, alcuna suddivisione o distribuzione della voce poetante, che procede ininterrottamente e lucidamente in un unico, vibrante, accorato discorso-fiume, di cui non si vedono né le rive né la foce (salva la visione finale, grazie alla venerazione per Gesù Cristo e grazie alla luce salvifica della propria amatissima moglie Rosalia, stella innamorata che continua a palpitare per lui in cielo). La comparazione, quindi, con la Divina Commedia (nonostante le numerose similitudini di tono e di immagini) è sostenibile solo in parte, nonostante il punto di partenza esplodente sia, anche qui, l'esigenza imperiosa provata dall'uomo-poeta, ad un certo punto della sua vita, di fare un bilancio esistenziale alla luce metallica del Mistero (Mysterium tremendum) che tutti ci sovrasta e ci attanaglia. Anzi, dei numerosi Misteri (ruunt mysteria divina, dice una delle epigrafi). Peraltro, anche qui troviamo la consapevolezza dolorosa, nell'autore, della propria responsabilità nell'aver ceduto alla tentazione del male e al Peccato. La necessità di confessarsi e di battersi il petto per il mea culpa, facendo chiarezza non solo nella propria esistenza ma anche in quella del resto dell'Umanità, che dal canto suo continua imperterrita, sulla scena del mondo, a fare il male e a vivere nella menzogna, nell'indifferenza e nel maleficio, facendo scorrere il sangue anche, e soprattutto, degli innocenti. Mai come in questi anni (le televisioni e i giornali ce lo testimoniano ogni giorno) sono stati trucidati tanti innocenti con le “guerre senza regole” e i “terrorismi senza umanità”. Il mondo sta impazzendo o è già impazzito da un pezzo ? Pur nell'ambito di un rifiorente filone di “poesia religiosa” che, in questi anni di crisi generale delle ideologie, cerca la ribalta letteraria in Italia, il lavoro di Rombi spicca per alcune sue doti di originalità ed autenticità


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(come, ad esempio, la rivalutazione della fede cristiana ma in un quadro moderno, la sincerità e il trasporto etico e sentimentale, le forti convinzioni personali corroborate dall'esperienza della vita, il legame permanente con la concretezza delle difficoltà, anche materiali, di chi vive in difficoltà). Un “racconto esploratorio dell'Aldilà”, dice Ughetto. E alla luce dei connotati del Ventunesimo Secolo, aggiungiamo. Della vita delle grandi e piccole città del pianeta. E alla parola racconto (récit) Ughetto non esita a far seguire la parola “narrateur”, perché in effetti Rombi è un “narratore” anche in poesia, non rinunciando mai, neppure nell'estasi dello slancio lirico, al contatto concreto coi luoghi e coi fatti, con le coordinate della vita quotidiana dell'uomo. Questo poemetto è l'esplicitazione più completa che l'artista Rombi ci abbia dato finora della componente civile (l'altra sarebbe quella intimistica) della sua Poesia. Poesia civile o impegnata che già avevamo letto in libri precedenti di Rombi, come Canti per un'isola (1965), Enigmi animi (1980), e soprattutto Huit temps pour un présage (1998) in cui l' autore lancia la sua invettiva contro i mali e le storture della nostra società, per giungere al solenne e tragico Tsunami – Oratorio per voce solista e coro (2005), ispirato al catastrofico “tsunàmi” indonesiano del 2004. Solo che qui, nella “Stagione dei misteri”, la componente “civile” è intimamente avviluppata con quella “intimistica”, in un mélange insolito e originale di invettiva morale severa e di lirica abbandonata e dolcissima. Luigi De Rosa

RABOCHELE Ti vedo ancor nel parco camminare per il viale, poi andare su e giù nel tuo largo vestito, aerea come fantastica figura che passa di sotto agli alberi fra capelli biondi

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sottili nel fogliame. Per il tanto verde del luogo fremevi di un’ansia continua d’amarmi, che risento alitar qui attorno e nell’erbe che sanno ancora il tuo piede di fata. Era il giorno di San Valentino, faceva un po’ freddo, l’aria aveva della nebbia e del vento; seduta ti stringevi nell’impermeabile ed io contro le tue ginocchia accarezzavo le pieghe della gonna che tepido involucro prendeva i tuoi fianchi, pieni di narciseo calore sul terreno umido del prato. Ancora oggi, sul pendio in faccia al sole, vedo la tua piccola mano cercare i fiorellini tinti di cielo. Leonardo Selvaggi Torino

APRILE UN GIORNO CHE LAVA Aprile - un giorno che lava le consuete polveri sottili (una breve tregua per l’affanno costante della terra) un giorno che si sposa al brivido lungo di gennaio nella pazzia ormai accertata del nuovo tempo e lei col suo troppo peso sprofonda sul divano con i troppi anni s’ingarbuglia e sbaglia a volte il fatto e l’emozione (come la terra anche lei in affanno) ma a volte per una speciale grazia lei sente e nella pazzia dell’abbandono si scioglie nell’abbraccio astrale del suo uomo in reale contatto. Laura Pierdicchi Da Il tempo diviso


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DOMENICO CARA L’IMPERTINENZA DEL PRESENTE di Elio Andriuoli

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UELLA di Domenico Cara, quale ci viene incontro da questa sua nuova raccolta di versi, L’impertinenza del presente (Edizioni FDB, Milano, 2014, € 8,00), è una poesia complessa, sovente percorsa da una sottile ironia, che talora diviene aspra e tagliente, ma che è sempre sorretta da un alto sentimento della parola poetica, dalla quale egli trae numerosi e pregevoli frutti. Cara ha un gusto particolare della lingua, che in lui diviene sapida e capace di collegamenti fulminei e imprevisti, sortendo in tal modo effetti di indubbia efficacia. A volte la sua parola si carica di una profonda saggezza: “La tristezza è presente in ogni atto / dell’ esperienza” (Tra effetti irriducibili, 5); “Estende tra i poveri il suo potere / la libertà” (Ivi, 8). Altre volte si fa tesa e tende all’ epigramma: “Che male c’è riflettere sui maestri, / piuttosto che diventare solerti ladri? (Essenze fittili); “Qualcosa si ritrova dentro / i panni indossati dalla scimmia, / ed è l’inevitabile serie di insetti” (Ivi). Sempre comunque il suo dire è il frutto di lunghe riflessioni o di improvvise illuminazioni: “Soltanto l’ape sa cos’è una rosa” (Ivi); “Dirada il turbamento quando tace / il motivo che ti ha scosso” (Ivi). La poesia di Domenico Cara assume sovente una forma fortemente incisiva, mirando alla rapida sintesi di un pensiero che attraversa la sua mente, come accade in Punti di sottinteso, 4: “Fui un’aquila ferita / condannata alla tranquillità” o mirando a cogliere un qualche aspetto della realtà che lo circonda, come accade in Punti di sottinteso 9: “La protesta della folla / era sembrata al pubblico / un’eco stridula, poi un gemito / secco, una violenza attiva /… / E’ rimasto un borbottio / imperfettamente politico, / definito «prassi abituale», / «estremo tramonto» (bene? o male?)”. O ancora: “La secessione è stata affidata / all’ immaginazione di piazza…” (Ivi, 10) e “L’ immobilità adesso trema / su incerti piedi…” (Ivi, 11).

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C’è poi in Cara il soprassalto di fronte al fuggire del tempo e al pensiero della morte che avanza silenziosa, come accade nei versi seguenti: “Tanto di noi è scomparso, non ha / più lievi indizi la verità” (Dal continuum); “Nelle mie vene, il tessuto vitale già / lascia al gelo il percorso clinico / del sangue” (Futuro privato). E c’è la percezione del dolore e della sofferenza che attanagliano ogni vivente: “Nel freddo piovoso gli animali spenti / osservano il diluvio, tetri di attesa” (I viaggiatori). L’impertinenza del presente appare comunque un libro nato da un lungo scavo interiore, nel quale l’indignazione s’affaccia, ma non è soltanto essa a far nascere il verso, alla maniera di Giovenale (Facit indignatio versum), perché accanto ad essa è anche possibile scoprire in questa silloge la profonda umanità del suo autore, che si manifesta, nel frequente pensiero della decadenza e della morte e specialmente nella partecipazione all’altrui sofferenza (si veda, ad esempio, la prima poesia di Punti di sottinteso, così concepita: “Perduti tutti i diritti, / il clandestino muto / si consegnò al furto, / da cui ebbe in cambio / delle lucenti manette / ed un noioso ozio / carcerario, spietato / soprattutto nel suo / dicembre natalizio / descritto da alberi-luce”), oltre che nel sentimento della precarietà, che è proprio della condizione umana. Talora nei versi di Cara affiora come un disagio esistenziale, una disarmonia scoperta o soltanto intuita, nella macchina immensa del mondo. Si legga, ad esempio: “Dalle varie abitudini spettrali / attinge insulsi modi il ronzio / di un moscone disperato…” (Allodole verso il silenzio, 5); “Qualche anno prima del disastro, / anche l’orecchio seguiva l’ ascolto…” (Ivi, 7); “Non dà speranza la ripresa che toglie / immobilità e polvere alla stanchezza” (Ivi, 11). Tuttavia c’è in questo poeta, come antidoto al male e alla sofferenza, un forte sentimento della natura; e soprattutto c’è la fede nella parola che scopre impensate analogie e compie sempre nuovi collegamenti, quali: “Il valore lessicale della tristezza / non è rissoso” (Allodole verso il silenzio, 10) o


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“Lo scoiattolo ha fretta di ritrovare / la coda che scompare tra i movimenti / strani del suo corpo in assalto” (Il filo non estinto, 1). La sezione eponima del libro contiene alcune interessanti osservazioni sul nostro quotidiano modo di vivere, che riguardano, ad esempio, la città: “… Milano provvede / a possibilità di riscontro, senza risse, / a una forza sontuosa, dimenticata…” (L’impertinenza del presente); o ravviva ’ineludibile rimpianto che sorge dall’inarrestabile fuga dei giorni: “Nella malinconia la pace intanto / ha i suoi grigiori elegiaci, solchi, / e forse misteri di silenzio…” (Ivi, 2), cui si accompagna il sentimento della morte: “In più mutazioni quindi la morte / raggiunge il suo fermento… “ (Ivi, 2), alla quale però si oppone costantemente la vita: “L’innumerevole prevale ed è figlio / dell’amore che si ostina dappertutto, / di rinascere…” (Ivi, 3), anche se a fatica, dal momento che oggigiorno gli uomini più che mai si odiano ed è venuta meno tra essi la “norma dell’amore” (Ivi, 4). Nell’ultima sezione del libro, Estesi turbini, il dire di Cara si fa più fluido e più agile il verso, che trova facilmente il suo ritmo, anche se la presenza del male e del dolore che da ogni parte ci assediano rimangono immutati: “Meticolosamente il cielo cede alle nebbie, / e alle nuvole il suo aspetto vuoto” (Foglio sull’acqua); “… il rettile nascosto fra i gerani / ravviva curve contro un topo” (Un’ era irreversibile). Resta tuttavia il mai sopito richiamo della parola poetica e resta la capacità dell’ascolto delle voci che nascono dal profondo (“Senza un cuore non è certo lieve / la percorribilità del deserto”, L’interrogarsi), a dirci che qualcosa forse si salva della nostra avventura, nonostante ogni sofferenza quotidiana e ogni inganno. Ed è ciò che fa meno aspro il nostro cammino. Elio Andriuoli SCRIVO, ED E’ COME … Scrivo, ed è come

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se ti parlassi. E quando sulla carta leggo quello che ho scritto un senso di gioiosa completezza mi pervade. Eri con me e ti ho parlato. Mariagina Bonciani Milano

COME PASSANO Come passano i giorni! Se ne vanno faticosi e dolorosi, come una carezza fugace. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi

Qui sotto: Alda Fortini: Natura morta, 1976


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INNOCENZA SCERROTTA SAMÀ: IN LUCE D'ESTASI di Nazario Pardini

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onfluenza in un naturismo dal sapore di naufragio leopardiano

Estasi il confine con la morte Iniziare da questa poesia incipitaria significa penetrare già a fondo nella poetica di Innocenza Scerrotta Samà. Estasi, confine, mor-

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te; e, aggiungerei, limen e spazi, mito, trasmutazione infinita: Al di qua del confine trasmutazione infinita. In costante anelito di vita. Termini che nella loro espansione etimosignificante fanno da antiporta, da prodromica apertura ad un viaggio di polisemia levatura. Un andare zeppo di tutti i quesiti dell’ essere e dell’esistere, di ogni propensione verso quell’azzurro che attrae da sempre la nostra pochezza. Forse perché proprio nel mistero di quel colore, l’uomo intra/vede il bilanciamento della sua insufficienza. Vita morte, ordine caos, alfa omega, Ulisse e nessuno, il niente e il tutto: quel polemos degli opposti eracliteo di cui è fatta la nostra essenza; la navigazione in un mare enorme e pauroso che può significare fine, ma anche apertura ad una libertà luminosa e indecifrabile di memoria alfieriana, di palpito neo-platonico, ellenistico; luce aeropagita (Dionigi l'Aeropagita, luce degli stiliti del deserto; o S. Francesco, di Dante, luce luziana ("Nel viaggio terrestre e celeste di Simone Martini"); ed è proprio nella simbiotica fusione delle contrapposizioni che la Poetessa riesce a trovare un faro che illumini il porto; che faccia da bussola per il ritorno ad una spiaggia familiare, seppur nuova, rigenerata; ad un’Itaca dai tramonti eterei, dai giardini paradisiaci, senza Proci, con Penelopi e Telemachi freschi, desiderati ed amati; per vivere tutti assieme in quest’ angolo di felicità e di sogno. Per ricuperare nei confronti di sconfitte, volute forse dal destino, o da chissà mai quali congegni imperscrutabili. Il fatto sta che il cammino è lungo, come lunga e problematica la vicissitudine di un’anima che scopre strade nuove dopo forti, e inquietanti peripezie. Di un’anima che si aggrappa a quell’azzurro come ancora di salvataggio; che si guadagna la cima dopo una


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scalata ripida; che scorge un fascio di luce abbagliante dopo una selva oscura e dolorosa: Nel secolare oceano di dolore, il canto del cuore, il succo dolce delle vigne, il bacio della pioggia amica. Poesia snella, audace, apodittica, generosa di perlustrazioni intime, di interrogativi quotidiani e universali, che si amplificano in un andare di soluzioni eteree, escatologiche, verticali; una via crucis di stazioni dolorose, che, partendo dal terreno e dalle sue molteplici insoluzioni, o dalle sue illuminanti e romantiche nicchie di luna (Estasi/ la/ brezza lieve/ sui/ biondi capelli/ di/ Lavinia/ al sole/ d’aprile./ Alla luce dorata della luna.), si eleva alle soglie del Cielo, con una spiritualità ed uno slancio tali da farsi estasi e pienezza ontologica; confluenza totale in un naturismo dal sapore di naufragio leopardiano: Estasi l’urlo dell’oceano oscuro, il bacio dell’onda sulla riva, (…) senza ieri e domani, con l’insegna d’un mare senza scogli,… di un amletico Ulisse in un mare senza confini. Ed è il verso, con tutta la sua carica verbale, con tutto il suo valore semantico, e con tutti i suoi nessi inconsueti ad accostare folgorazioni ora surreali, ora visionarie, ora parenetiche.

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Una struttura poematica breve e succinta, moderna e meditata, dove la parola è tutto; è sufficiente a se stessa nel verso appagato di essa, architettonicamente gotica, se si considera l’altezza du plafond a cui volge lo sguardo. La Nostra fa del dolore una base di appoggio per una arrampicata diretta agli abissi della poesia; all’ossimorico travaglio fra l’umano e il divino. D’altronde è proprio dell’uomo aspirare all’oltre per svincolarsi dai limiti della terrenità, dacché, cosciente del tempus fugit, ha sempre sofferto della posizione scomoda della sua precarietà di fronte alla morte; o del malum vitae di fronte ad un mandorlo fiorito nella luce di marzo senza dilemmi e angosce. Ma la Poetessa si completa in un superlativo stato di estasi, in una poesia che raggiunge la plurivocità di cospirazioni palingenico-epifaniche, per vincere il tempo: Apoteosi d’un coro senza tempo. Alla fuga del tempo, l’eterno presente col messaggio d’un essere vivente. Dove presente e passato si fondono insieme per scrutare il fremito oscuro del domani: Fremito oscuro Il già Il non ancora Si parte dalla vita vissuta, da tutta la sua pienezza: amore, contemplazione, melanconia, stasi e fughe, andate e ritorni, nostos e nostoi, saudade; “abisso di se stesso”, libertà, sguardo ad orizzonti impossibilmente possibili: Dall’abisso di se


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stesso, alto maestoso lo sguardo. Libero come allodola di prato. Un odisseico viaggio che ci dice del vivere e della sua complessità: un milieu entre rien e tout. E qui c’è tanto di pascaliano, di ricerca, non solo spirituale ma anche verbale in un proposito di fare del lemma un tatuaggio di un’anima tutta volta a completare se stessa. E la Samà sa che solo la poesia può rivelare il misterioso nesso di ricongiunzione fra il non essere e l’essere. Fra quello che siamo e quello che dovremmo e potremmo essere. Ed è alla vita che si ritorna dopo un lungo viaggio, perché è quella che la nostra ama. È quella che brama ed ha bramato vivere in tutta la sua purezza, in tutta la sua epigrammatica esistenzialità, declinandola in poièin, con un atto onirico che fa da leitmotiv a tutta l’opera. Sta proprio in questa identità fra asciuttezza fenomenica e volo pindarico il canto; e si sa quanto sia problematico tradurre in parole tanto sentire, tanto sperdimento esistenziale; per questo la Samà ricorre al mito, a traslati iperbolici, a misure simboliche, ad un discorso metaforico-allegorico, per superare un impatto verbale che la vincolerebbe ad una cifra troppo terrena. Un mito sfiorato, appena accennato, rinnovato; un mito che racconti gli abbrivi emotivi dell’Autrice. Un mito che non dica di sé ma che si assoggetti alla totalità intima di una storia; ad un pathos che sente forte il bisogno di concretizzarsi in figure sapide di classico, di nuovo, di sempre: Su ali di silenzio e d’uragano, il canto

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di Saffo piena d’Alceo e d’antica parabola d’amore. Il memoriale stesso assume una valenza da nirvana edenico, da alcova rigenerante, che poco ha a che vedere con la tensione umana che ri/vorrebbe a vita figure e immagini amate, luoghi e tempi di una storia. Ella desidera perpetrarli con sé; tutti assieme in questo voyage misterico e misterioso; dolce e immacolato; quello di un nostos, di un ritorno a un mondo che ha cambiato i connotati facendosi diverso, sognato e realizzato, grande e, anche, immortale sotto la spinta di una poema che si eleva all’eccelso “Sulle rive/ dello Xanto,/ odorose/ di/ zagare/ e/ verbena,/ esile/ e/ nuda/ con riflessi/ d’alba/ nel totale/ oblio.”. Una rinascita in Luce d’estasi: In luce d’estasi l’ombra dei cipressi. Un urlo di luce a vincere la morte. Nazario Pardini Innocenza Scerrotta Samà: In luce d’estasi Edizioni Polistampa. Firenze. 2015. Pg. 72

NEL COLORE DELLA TERRA La mente indagatrice, esamina gli ammassi delle stelle, tra ombre e luci vola, alla ricerca dell’estrema plaga; ma si smarrisce stanca nell’universo privo di barriere. Sorpresa si ridesta, rientrando nel colore della terra, nel suo precario tempo, assaporando gli attimi concessi. Elisabetta Di Iaconi


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IMPERIA TOGNACCI LÀ, DOVE PIOVEVA LA MANNA di Tito Cauchi

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MPERIA Tognacci, stimata poetessa e scrittrice con all’attivo decine di opere, dedica la recente opera in versi, Là, dove pioveva la manna, a Flavia Lepre “sensibile scrittrice e cara amica”; lo fa con una versificazione dotta e pur semplice, sciolta e pur misurata. Le sue indubbie conoscenze e la padronanza del linguaggio, unite ad una versatilità espositiva e ai meccanismi della comunicazione, generano procedimenti naturali percettivi; sono usati come l’alfabetiere della evocazione, sì che diventano sorgente del dettato narrativo. Così avviene a cominciare dalla manna del titolo, che si rifà a luoghi biblici. Difatti la meta da raggiungere, cioè l’ antica città portuale giordana di Aqaba, che fa da cesura a tre continenti Asia, Europa e Africa, viene citata nei Libri dei Re; così vengono evocati la regina di Saba e il saggio Salomone, i luoghi di Petra e di Qumram [o Qumran]. Ma avvertiamo che non si tratta del viaggio di un turista, né quello semplicemente della fantasia, bensì del viaggio dentro i luoghi dell’anima. Quando si ha la fortuna di incontrare persone che riescano a fare emergere la bellezza di un’opera, è bene soffermarsi, traendone profitto. Spero di riuscire a rendere il meglio di quanto hanno fatto gli Autori prima di me, ne ho apprezzato gli interventi e le citazioni. Le loro note, da sole, potrebbero essere bastevoli; ugualmente giova ricalcarle, a beneficio del lettore e, penso, anche per ragioni di completezza. Alcune affermazioni potranno sembrare eccessive, altre ovvie, tuttavia sottostanno alla verifica della lettura, perciò sarà bene sostarvi. Giuseppe Laterza nella breve nota introduttiva, a chiarimento del percorso letterario di Imperia Tognacci, spiega che questo libro consente di viaggiare nell’anima esplorandone la sensibilità; con qualche libertà aggiungo, che la Poetessa naviga fra le dune silen-

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ziose del deserto a differenza delle acque tormentose di Ulisse. Nella più estesa prefazione di Andrea Battistini, si denomina espressamente il “viaggio nell’anima”; egli, richiamando Gesualdo Bufalino, afferma che “c’è chi viaggia per trovarsi e c’è chi viaggia per perdersi. Nella società odierna, sazia e disappetente, è più facile ritornare impoveriti e ricordare gli alberghi più delle cattedrali, gli aeroporti più delle abbazie, lo shopping più dei musei.” (Quanto è vero!) Il Battistini spiega che il viaggio in Giordania, viene esposto in forma poematica e in sette sezioni, direi sette oasi. Imperia Tognacci indaga per smuovere dubbi e inquietudini, alla ricerca di se stessa e di certezze. Perciò il deserto che incontra si carica di simbolismo, inquieto e tenebroso, al quale oppone come “antidoto” la poesia. Il critico, ricordando agli anacoreti del IV secolo, afferma che il deserto viene visto come luogo di “raccoglimento, il luogo vocato alla conquista della pace interiore, dell’ascesi mistica e dell’ infinito.”, per scongiurare le tenebre. Avverte, altresì, che non si tratta di un atteggiamento solipsistico, poiché i sentimenti trasfusi qui, riguardano l’universalità degli individui; richiamando un pensiero espresso da Giacomo Leopardi, afferma che la persona sensibile vede più cose in uno stesso oggetto; perciò quando arriva il momento di grazia, bisogna approfittarne. In questa sede accenno alla postfazione di Angelo Manitta, per integrare quanto sopra espresso. Il noto critico e scrittore conferma l’ unità poematica del viaggio, sia nell’aspetto stilistico, sia in quello contenutistico, perfettamente fusi in un equilibrio tra caducità umana e consapevolezza; un viaggio in luoghi lontani nel tempo, ma che conducono vicino. Evidenzia le connotazioni simboliche del deserto (sabbia, vento, solitudine) che rivelano il luogo dell’anima di Imperia Tognacci, nella sua realtà, “un percorso verso la Terra Santa del cuore”, facendole superare steccati individualistici per trasformarsi in un ‘Noi’, grazie al miracolo operato dal sogno, dalla poesia.


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*** Potrei fermarmi qui, nondimeno mi faccio guidare da Imperia Tognacci e mi inoltro per condividerne le suggestioni, conscio che esse potrebbero risultare ingannevoli. La Poetessa mi pare muoversi in cerca di un quid che dia senso alla vita, che si faccia spazio per giungere ad una spiaggia o a un porto che l’ accolga, come suggerisce l’incipit della prima sezione (Il sé come orizzonte): “Precipite il tempo: tra onde/ di ritorno chiama il faro/ dell’ultima frontiera.”, senza avere ancora deciso di sciogliersi dai legami che la ormeggiano a bitte di un porto che si lascia, o vuole lasciarsi, alle spalle. Una zavorra di dubbi della sua realtà quotidiana, che tiene agitata la Nostra, di cui è difficile alleggerirsi; in un alternarsi di immagini tra il mito e il quotidiano, che affiorano dai “petrosi pendii” e dal “trillo mattutino della sveglia”. La Poetessa vuole annullarsi, diventare “tabula rasa”. Ma non riesce nel tentativo di staccarsene, perché, come Icaro, i suoi sogni hanno le ali di cera che si sciolgono dinanzi alla verità. Nondimeno la consapevolezza di essere trattenuta nella prigione di Sé, le consente momenti fantastici, pur nel pensiero depurato dai sedimenti dell’anima. In questa sezione l’Io espresso esplicitamente, ha come interlocutore il luogo mitico del deserto, immaginando carovane, cammelli, beduini, commerci; ma adesso il deserto di sabbia è solo deserto di solitudine. Ecco fissare la meta della Poetessa- pellegrina, in quella che chiamo seconda oasi (Spazio aperto): “fino ad Aqaba, mi guidate,/ voi beduini, su maestosi/ cammelli, immagine vivente di stagioni perdute/ su sentieri di sabbia e di vento”, di orientarsi con le stelle e di giorno sotto un sole cocente, sferzata da ventate di sabbia. Sempre assetata, travolta da mulinelli di sabbia, la notte al calduccio entro le tende, sui tappeti colorati, mentre profumi di aromi trasportano in spazi sconfinati della storia e spirali di fumo assumono sembianze anonime di uomini e carovane fantasma, e sembra ascoltare voci silenziose che si modulano con le note del pianoforte dell’infanzia.

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Mistero e realtà, morte e vita, solitudine del luogo e dell’anima; la memoria sovrasta ogni presenza nell’oscurità della notte, ove è reso possibile l’incontro con un’anima cui tende la mano, per giungere ad una oasi, qui in questa terra: un desiderio che non riesce a scendere dalla loro “costellazione, Gemini con le sue stelle, Alfa e Beta” perché chi le sta a fianco è senz’ombra. La persona amata non è più in vita, è solo un’illusione, e come tale può paragonarsi ad una città che non esiste più; ma con pervicacia si ostina ad affermare il suo credo (Non siamo separati, III sezione): “Si apre dinanzi a me Petra,/ città perduta e riemersa./ Una vertigine di tempo/ mi porta a ritroso// …/ Nella parabola del mio giorno/ senza ancoraggio, mi sento roccia/ fessurata dal vento, mentre,/ sibilando, prosciuga la vita.” Una folla di visitatori, veri o immaginari, si tengono per mano, tutti alla ricerca della “sorgente della quiete interiore”, dinanzi a vestigia che sono testimonianza di una civiltà gloriosa e saggia da cui pare prendere il volo l’Araba Fenice, che mi suggerisce la rappresentazione della Felicità, poiché dopo la morte risorge a nuova vita; con la sua apparizione riprendono corpo i sogni tenuti in serbo. In un alternarsi tra vita e morte, la mente vigile della poetessa, Imperia Tognacci, osserva il cammino iniziato da Adamo, ossia con il primo peccato, ripresentando l’antico precetto biblico di separare il grano dal loglio ed estirpare la gramigna, distinguere la giustizia dalla ingiustizia; ciò che è corretto da ciò che è imbroglio. In questo suo percorso (Per sentieri di sabbia e di vento, IV). La nostra pellegrina è diversa da tutti gli altri e sa che quelle antiche mura non potranno restituirle la quiete cercata, sa che la potrà trovare dentro se stessa: “Mi tuffo nella vita,/ nelle sue pieghe segrete/ Le finestre dell’anima si aprono/ a scenografie di mutanti forme.” (pag. 44). Non le sfugge la realtà rappresentata, per esempio, dalla classica valigia di cartone e dalle bagnarole stracariche di disperati con frammenti di speranza nel cuore. I ricordi l’ accompagnano idealizzati e riflessi in ele-


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menti metafisici. L’Io intimo si moltiplica, è dialogico e riflessivo, oppure asseverativo, interlocutore e ascoltatore, vento e deserto, vita e morte. Non so se a sua difesa, per scongiurare il senso della paura, si circonda di cupe visioni, uccelli rapaci e frecce scoccate, spari e spade assetate di sangue, cosi la voce di Imperia Tognacci può dire (Alzo segnali di fumo, V): “croci, infisse sul terreno dell’odio”, frammenti di ricordi come lampi, con valore apotropaico. L’interlocutore è il biblico condottiero dell’Esodo al quale chiede di indicarle il pozzo cui dissetarsi; fa questo osservando la galassia di Andromeda. Incontra anacoreti e anime purificate; e lo spirito, del vegliardo barbuto, la rassicura di guardare dentro se stessa e fugare ogni dubbio. La Poetessa trova una certezza (Nell’ eternità dell’anima, VI), quella che tutti facciamo parte di un progetto, come doveva farne parte la regina di Saba di quelle terre, che divideva la fama con il re sapiente (Salomone). Sente la propria sorte vicino a quella della regina, in un’atmosfera arcana, la cui vita è segnata da dolore, nelle cavità rocciose di Qumram, nelle testimonianze di graffiti, giare, tavolette che narrano storie millenarie deformate. Finalmente è quasi giunta (Verso Aqaba, VII): “Attraversiamo il deserto della vita/ nella rapina del tempo,/ con le radici in territori/ ancorati all’anima.”, trovando semi di sapienza nelle varie forme dell’Amore. Tuttavia Iddio fattosi uomo, viandante dei deserti, è ancora in attesa di essere raggiunto dall’ uomo d’oggi, obnubilato dalla tecnologia, dal benessere smodato, dal disinteresse verso il prossimo. Fra quelle presenze si leva la preghiera del muezzin dai minareti, ma i gabbiani non trovano pesci per nutrirsi e rimangono imprigionati dalle acque oleose del mare. Imperia Tognacci sembra che adesso ritorni: “Non ti dirò, Eolo, l’esatta destinazione,/ che la Parca mi colga andando./ Batte alla porta del cielo una nuova/ alba, mentre, vestite di sole,/ si dileguano le coste di Aqaba.” e come un novello Ulisse, non sente il canto delle sirene, ma porta con sé la sua Itaca.

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Imperia Tognacci con Là, dove pioveva la manna, ha descritto un suo personale viaggio, in progressione ascendente, partendo dalla tabula rasa, che probabilmente sta ad indicare una sorta di predisposizione d’animo atta all’ accoglimento. Traccia la meta, descrivendo luoghi biblici e reali come Petra sede dell’ Araba Fenice e simbolo di rinascita; Qumram sede della regina di Saba la quale si reca da Salomone re di Israele, l’una simbolo di dolore e l’altro di giustizia; e finalmente la meta Aqaba; dopo di che si profila un ritorno, non definitivo, ma pieno di speranza. L’opera può essere riguardata sotto piani valutativi diversi (ovviamente); in tutti casi essa, anche senza la firma dell’Autrice, ne tiene impressa l’impronta, come dire il suo Dna. In ultima analisi, direi, che se si trattasse di pura creazione letteraria, sarebbe sufficiente affidarsi alle suggestioni, che sono senza dubbio fascinose; ma, riguardando un excursus relativo ad eventi, luoghi, stelle, personaggi mitici e biblici, che hanno un riscontro reale, geografico e letterario, è necessario razionalizzare la narrazione e fare un riscontro che passi al vaglio la stessa interpretazione, il che richiede fatica e scoraggia il lettore. Ma questo è un altro discorso. Tito Cauchi

LA PIOGGIA SULLA FINESTRA La pioggia sulla finestra obliqua batte incessante e si riflette (ira di Colui che ci costringe al guscio di lumaca) - l’angoscia s’infiltra tra il sentito (disastri ripetuti trasmessi e ripetuti) la sera con le mani alte implora ogni tanto scivola – pulisce il vetro mi dice ”guarda”. Io vedo fradicio il fogliame appeso - impiccato e tutto trema sotto la fioca luce del lampione… Laura Pierdicchi Da Il tempo diviso


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VALERIO CASADIO: QUANTO SEMBRA SFUGGIRCI di Carmine Chiodo

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UESTA silloge poetica chiara e coinvolgente di Valerio Casadio è introdotta da Giovanni Pascoli, quel Pascoli che afferma che "il ricordo è poesia,/ e la poesia non è se non ricordo".Quanto sembra sfuggirci è una silloge piena, come si nota a una attenta lettura, di ricordi. Qui si coglie ciò che viene pure detto nella Prefazione - il "romanzo" o, anzi il romanzo in versi della vita del poeta, espresso con linguaggio poetico immediato, vivo, diretto. Nulla v'è di letterario e retorico. Casadio non è poeta prolifico ma misurato e ben contenuto. Lodevole questa silloge per contenuti autobiografici in maggior parte e per linguaggio. E al riguardo - come amo fare quando esprimo il mio giudizio su qualche poeta - cito vari versi che scelgo e che illustrano le caratteristiche di fondo del poeta, in questo caso di Valerio Casadio. Eccone alcuni che ci dicono la statura e il sentire poetico della vita e della realtà umana del poeta - "E la mente volgo/là, dove sono nato,/Una casa lontana,/confusa nel tempo:/ e un giardino, lungo, alle corse di un bambino" (là dove son nato); "Un amico che la nera signora - a lungo inseguita - /ha ritrovato /sotto le macerie /di una casa troppo desiderata" (Guido, In ricordo di Guido Zingari). E proprio in questa sentitissima poesia, in cui c'è pure l'immagine serena, come si legge all'inizio del componimento che va oltre il dolore, segue poi l' “ammiccante sorriso/negli incontri casuali /epperò carichi di ricordi /dei frequenti colloqui/di un'università piccola /e orgogliosamente nuova" (Guidio Zingari Professore di Filosofia nell'Università di Tor Vergata, tragicamente scomparso; Valerio Casdio è Professore di Letteratura greca nello stesso ateneo). Secondo me bastano questi versi che rendono la consistenza poetica di Valerio Casadio che consiste in particolar modo nel dire le cose come assaporandole e accarezzandole, ed esprimendole poi con un

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linguaggio che è molto espressivo e partecipato, per cui non è ricercato o lambiccato, artificioso. Ricordi, amici cari scomparsi, eventi lieti e meno lieti di vita si incontrano nella poesia di Casadio ma egli è poeta anche degli animali, e la sua poesia li accoglie e ne mette in evidenza la loro condizione. Il poeta è disponibile verso tutti e trova un bel verso per tutti, come, ad esempio, per il gattino: "Due occhi scintillanti /ed una zampa felina /che anelano alla vita,/trascinando un corpo/ delacerato - senza rimedio" (il gattino ed Eluana); e ancora: "Quei due occhietti /spauriti e curiosi //della micia senza nome", le sue "zampette arrancanti /nell'ultima corsa,/ ed un soffio di vita,/ che si spegneva senza voce" (p. 40). Tutte belle e - lo ripeto - coinvolgenti queste poesie di Valerio Casadio, che sono comprensibilissime e nello stesso tempo si coglie in esse tutta quanta l'anima. La vita del poeta che con serenità e consapevolezza dice: "Con amore e giustizia /sereno percorri/il mestiere di vivere", per poi concludere con un verso ben marcato e assertorio: "egoismo mai fu sano"; o ancora in Alla fine dei tempi: "Tutto è precario:/ salvo la gioia di amare". E questa silloge è piena di gioia di amore, di ricerca di ricordi (per cui il ritorno a Bologna), di cari amici scomparsi, di momenti particolari dell'esistenza, di consapevolezza che la vita non è certo facile ma che bisogna "cercare un futuro" nel fondo del cuore come nel mito - certo quella speranza che è - per fare la parafrasi del pensiero poetico di Casadio "l'antica alleata /per l'ignoto cammino". Ciò che mi colpisce di questa poesia è il ritmo e il tono con cui vengono dette le emozioni, i vari momenti e fatti della vita e del cuore: un ritmo e un tono che combinandosi tra di loro marcano e mostrano il dipanarsi della stessa vita del poeta, piena di incontri, di amore ma pure di dolori, di perdite, di assenza ma sempre con la speranza - si diceva prima - "antica alleata" nel cammino non certo facile della vita, e non per nulla questa garbata, felice silloge di Casadio viene annunciata o, meglio preceduta da una lirica dal titolo emblematico Cercare un futuro, e poi ecco l'apertura con


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un'altra dal titolo Fotogrammi di poesia che è una dichiarazione di poetica: "Captare il ricordo /di una vita, di un sogno,/di un attimo lieve e funesto:/ e fissare per sempre /quanto sembra sfuggirci,/irrimediabilmente", e Casadio nella silloge fa appunto questo, dandoci una poesia che è solo sua, lontana da sperimentalismi insulsi o da mode; una poesia che viene dalla sua anima e dal suo cuore e nel contempo disponibile ad abbracciare ed amare ogni essere vivente e a far rivivere, fissandolo in belle ed emozionati immagini poetiche - quanto sembra sfuggirci - ma che non sfugge ad un poeta sensibile e umanissimo, attento al flusso della sua vita e altrui, che è appunto Valerio Casadio che ci ha donato una poesia caratterizzata da una magnifica disponibilità umana che dice anche il carattere e la sensibilità dell'uomo e del poeta che dona alla paparella senza nome un verso in cui la ritrae col suo capo che "si piega /sulle ali bianche /aperte ad ultimo volo" ma anche all'appena nata nipote, credo, Alessandra: "Eccoti: appena /uscita dal grembo materno,/gli occhi grandi -sparati /in un saluto alla luce", e con questi mirabili versi poetici prendo congedo da questa poesia ed esorto l'amico carissimo Valerio a regalarci in prosieguo di tempo altri momenti di grazia poetica, come i due tratti rispettivamente da Mattinata d'autunno, a Roma e Risposta silente: "E' quasi giorno./ Resiste una falce di luna /e l'ultima stella, nel cielo terso /che via via, illanguidisce"; "Sotto questo cielo notturno/Solcato da un vivido arco di luna/percepire in un afflato palpitante di luna /e l'ultima stella nel cielo terso /che via via, illanguidisce"; "Sotto questo cielo notturno /solcato da un vivido arco di luna/ percepire in un afflato palpitante /che non sei solo"; e infine: "Caro è il momento,/ Donna mia, al cuore:/ non un ricordo,/ma il presente vivo/ di un oggi /che fu ieri e sarà domani", come si legge in Anniversario; Poesia dell'amore, questa silloge di Casadio, e non per nulla essa è dedicata agli amori presenti e a quelli passati; una silloge pure introdotta con intelligenza e sensibilità critica da Asteria Casadio. Carmine Chiodo

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Valerio Casadio, Quanto sembra sfuggirci,ediziioniEvoè,Teramo 20013 pp. 64, € 9,00.

YOU WILL BE MY FUTURE I will not die completely. I'll see the light with your eyes, the colours, the shapes, the many wondrous amazements; Harmonious sounds and noises I shall listen to with your hearing; bodies scattered on your skin I will be given the state of things, the external features, the tips of your fingers for me the pentagram shall play that which shall titillate the longing and the heart; will be your language feelings and flavours given to me Will be my future. Trees you will provide coolness to my bones, to cover me up with aromas. Domenico Defelice Traduzione Giovanna Guzzardi

LE FIABE La voglia di andare lontano al di là del muro per rompere le fiabe di tutti i giorni Quando nella notte ci appaiono nascoste presenze, e ci pare di vedere sotto la quercia tra le stoppie una lunga processione di formiche un crepitio di ceneri, e nel silenzio un'aria di mistero ci avvolge,, ci lascia allo scoperto ci sentiamo sotto tiro, si rompono le parole come calici di vetro, segue il passo di ogni nostro istante pieno di incertezze e paure per un futuro a rischio per la nostra stabilità interiore , con gesti profilati nel vento della sera. Adriana Mondo Reano, TO


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ANTONIA IZZI RUFO: L’ABBANDONO DEL PAESE O DELLA CRISI DELL’UOMO di Leonardo Selvaggi I A solitudine che costituisce la condizione psicologica dell’umana esistenza in crisi. Angoscia e disillusioni vanno insieme nell’animo turbato. La vita non ha consistenza, sulle espressioni di chi è rimasto nel paese leggiamo assenza di vigore e uno stato di noia. Una poesia nostalgica scaturisce dall’anima e penetra con tristezza nei lettori. L’atmosfera di abbandono crea disillusione, si eliminano le caratterizzazioni che hanno fatto l’ambiente, le fondamentalità etiche esistenziali. Un’estesa massificazione che debilita le qualità connaturate umane. Il paese natio della poetessa Antonia Izzi Rufo vive nel suo abbandono, in una desolazione con i suoi pochi abitanti, nella maggior parte in età avanzata, insonnoliti, presi nella tristezza e nel languore. “Siedi al sole, riposi/e l’ansia ti prende:/non vedi non senti,/né persone né mezzi,/solo il vento che onde/rincorre tra l’ erba,/uno stanco stridio d’uccello”... Solo la nostalgia del passato che porta lontano con il desiderio di ritornare ai tempi andati che hanno dato giorni di lietezza prende la scrittrice, saggista, poetessa, fiorente allora Castelnuovo al Volturno, era un paese pieno di allegria, in un’atmosfera tutta fatta di luce, in una Natura splendente fra campi arati e la bellezza intorno di paesaggi. L solitudine di oggi apre dei vuoti nell’anima, partiti gli emigranti, sono rimasti pochi; la limpidezza dell’aria, le piante verdeggianti, l’odore della menta e dell’origano fanno del paese ancora un luogo delizioso soprattutto di quiete e di conforto allo spirito. Il silenzio fa meditare, ritrovare i sentimenti che un tempo erano la vita degli abitanti con le qualità di operosità e i costumi semplici. La malinconia per un po’ si dissipa, basta che compaiano dei tratti di vitalità, come il ritorno dal lavoro dei campi di qualcuno del vicinato, il paese lo rivediamo nella sua

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veste antica. La Natura nel vasto silenzio e nell’immensità degli orizzonti ha l’aria tersa, le stagioni che portano i ritmi di sempre. Quello che manca è l’amore per il paese, i giovani hanno scelto le città, abbandonando luoghi che sono stati sempre con l’ industriosità, virtù e parsimonia dell’uomo. Il paese natio della poetessa Antonia Izzi Rufo è sempre nel suo cuore, inestirpabile con i ricordi e la presenza di abitanti che vivevano in intercomunicabilità l’uno con l’altro, con volti sereni, amabili, che facevano un tutt’uno con i vicoli, con le case che profumavano di pulito e di affetti. Le candide case rimanevano aperte: tutti con vicinanza in una reciprocità di benevolenza, protesi alla generosità. II Oggi Antonia Izzi Rufo, nota per le sue opere di grande umanità e di arte, con una sensibilità sofferta porta a vedere i tempi che cambiano, senza mai dimenticare gli aspetti edificanti di una vita che la tecnologia della nostra epoca ha reso inaridita con la meccanizzazione e i processi di perdita sempre più grave dei valori. I paesi erano angoli di gioia con una passionalità che in estensione prendeva tutto il bello da un ambiente sano. I lavoratori infaticabili, contenti di quello che si aveva, quel poco era sufficiente a vivere senza essere insoddisfatti ed egoisti. Bastava l’ animo buono vicino al prossimo, era ricchezza come quella che si vedeva intorno. Tutto salutare e salubre, era la mano esperta e pratica che abbelliva quello che era di appartenenza. I muri delle case erano luminosi e familiarizzavano con le persone, ogni angolo era come un nido di conforto, si sognava e con l’ immaginazione tutto si adornava, diventava bellezza e oggetto di amore. Oggi si scappa via dai luoghi naturali per raggiungere i grandi agglomerati. Le case di Castelnuovo al Volturno sono tristi, si esce fuori al sole per cercare di alleggerire il peso interiore, malinconia causata dal senso di abbandono che hanno i paesi del tempo odierno. La modernità, una specie di infestazione, ha rovinato non solo i paesi e i borghi, ma le stesse città sof-


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focate da un ammorbamento totale e prese in una confusione che fa paura, da un’ansietà che non dà pace. I paesi in uno sperdimento e nella noia, paiono le persone distratte e inerti, la ragione non ha le qualità di riattivarsi, come negli anni passati e recenti. “Spenta la vita/intensa d’ un tempo./Deserte le strade, chiuse molte case,/pochi vecchi restano/ soltanto”. Antonia Izzi Rufo, rappresentante di valore della letteratura contemporanea, analizza del suo paese di origine tutti i particolari aspetti che sono i segni di trasformazione dei costumi e di quelle virtù spontanee d’un tempo in gran parte scomparsi. Non solo i paesi sono in crisi economico-sociale, anche le città. La solitudine e la decadenza dei grandi agglomerati sono più opprimenti, creano insicurezza con le aberrazioni, le perversità e l’anonimato. L’opera poetica “Paese” è vincitrice del 3° Premio Città di Pomezia 2013, pubblicata nel gennaio 2014. È una testimonianza di poesia sofferta con un’espressività spontanea in uno stile conciso, delineata con profondità riflessiva e umana, in versi di rilevante discorsività e nel contempo limpidi e musicali che lasciano pensosità oltre ad una amarezza interiore. Il quaderno letterario “Paese” presentato dallo scrittore, saggista, direttore della rivista internazionale “Pomezia-Notizie” D. Defelice con un’analisi interpretativa che esprime in ampiezza e chiara rappresentatività, con profondità intellettiva e acume critico gli aspetti di crisi e di abbandono dei paesi di montagna isolati, privi di attività e spopolati quale Castelnuovo al Volturno. Antonia Izzi Rufo studiosa dei costumi del nostro tempo con nostalgia parla del passato, quando la vita si svolgeva con entusiasmo e infaticabilità, con pochi mezzi e tanta dedizione. Le qualità natie creavano ambienti ridenti ed energie protese alla perseveranza, alla cooperazione, una vita d’insieme tra privazioni condotta da virtù e da impulsi di resistenza nei momenti difficili. Per affrontare le tante problematicità insorte ci vogliono altre abitudini, altre volontà, processi di integrazione e nuovi istinti di lotta, interventi organici che sappiano dare norme più appropriate

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alle condizioni di vita che si sono costituite. Abbondano stravaganze, irrazionalità, si è irritabili e iperbolici. Tutti presi da avidità in uno stato di torbidità originata dall’ automazione e materialità delle sottili ed estese elaborazioni tecnologiche. La crisi non si circoscrive a determinati luoghi, è di carattere generale, dovuta al passaggio dalla civiltà rurale all’epoca moderna. Una crisi che riguarda soprattutto l’uomo sconvolto, non si sa dove dirigersi, c’è tutto da rifare, mancano quelle capacità che fanno uscire l’ uomo dall’ automatismo. Una crisi non tanto economica e sociale, ma di carattere morale che altera la spiritualità; l’anima deturpata e annebbiata è soffocata da brutalità, siamo avviati verso una vera scomposizione, frammentati non troviamo le energie primigenie che portano a mete di approfondimento e di conseguente elevazione da angustie egoistiche di disfacimento. III Corruzione di una politica clientelare e di amministrazioni locali che pensano agli interessi particolari e non a quelli di carattere generale che danno vantaggi, sanando dai diffusi malesseri e abbrutimento di costumi. A Castelnuovo al Volturno indolenza, estenuazioni e noia, quasi una coltre di tenebrore copre là dove prima erano luce e modi di essere equilibrati, volontà di operare con attitudini volte a consapevolezze. Non ci si rende ragione delle condizioni di abbandono di luoghi e di persone che potrebbero riprendere il giusto ritmo di risveglio. Il paese della poetessa, che conosciamo da tanto per la sua vasta produzione letteraria e per la vivacità intellettiva, ha ancora le sue bellezze che danno vita, ma rimangono ammorbate da una tristizia che opprime e sconforta. Abbiamo versi altamente artistici, dettati dal desiderio di ritornare indietro, al tempo della giovinezza, dei ricordi, quando esaltati si era presi da un ardore e da una felicità che si infiammavano con l’ immaginazione e gli slanci delle idealità che conoscevano i vasti orizzonti in lontananze di infinito. Tutto sbarrato e aperto, gli animi in interezza, si avevano rudi saggezze in un in-


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sieme di reciprocità, in corrispondenza con l’ ambiente intorno. L’ispirazione e l’intuizione pura delle poesie prendevano l’armoniosità che viveva in ogni angolo e da tutto quello che si ammirava con passione tra case e campi, tra persone e animali in un comune vivere. “Ascolti la pace/nel cielo turchino,/una pace infinita,/del silenzio il respiro/la musica dolce dei rivi/che scendevano a valle dai monti”... Tra monti e valli fanno spettacolo le Mainarde, una bellezza della Natura, immutabile che dona all’anima un senso di dolcezza e di grandiosità. Fanno scomparire quel quadro di torpore e di aridità che nel paese quasi sprofondato pare un abisso, da dove non ci si riesce a portarsi fuori. Tutto smorto, persone e case sgretolate, erose all’intemperie, consumate dal tempo e dalla insensibilità di tanti che hanno preferito andare nelle città, luoghi oggi peggiori dei paesi, inondati da violenza, da masse di emigranti che come cavallette guastano tutto quello che costituisce cultura, tradizioni, senso di civiltà autoctona, rapporti sociali. Le città che sono prigioni di solitudine, in un ammasso informe di caseggiati che non hanno spazio, come in recinti chiusi si vive, presi da smania e da senso di smarrimento. Il paese è ampiezza, una certa gioia e distensione ti prendono nell’anima, “Quando torna la quiete,/voci non s’odono/e di bruno s’accinge/la sera a coprire l’azzurro/del crepuscolo d’oro e di fuoco,/esco di casa/per la mia passeggiata”. La stessa intelligenza si apre e l’ispirazione arriva dolce e spontanea per la poetessa, i versi hanno icasticità e rilevanza policromatica. La città in contrapposizione accomuna il turpe e le aberrazioni, il lercio e l’avidità, qui la poesia di certo acquista altri toni, quelli sconcertati, di ribellione in una prosa che non ha quella semplicità che balza per luoghi limpidi. Una poesia indignata quella che nasce nella città, non trova i suoi cammini, ci si sente inariditi, se c’è dell’ espressione libera con slanci verso altezze che ridonano vitalità viene da necessità interiori di involarsi alle mete ideali, non da una realtà vissuta e rispecchiata. Sogni artefatti, versi sovrapposti, ermetismo che rende non facile

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rintracciare le vie delle fonti di acque sorgive, cristalline. L’informità, l’anonimato si vivono nelle città, nei borghi è piacevole riconoscere le varie caratterizzazioni delle persone, le senti amiche, vedi il minuto e il naturale che danno prontezza alla voce, tutto quello che si dice arriva dal cuore. IV Nei paesi specie quelli di montagna, come Castelnuovo al Volturno, trovi affabilità, si riscontrano modi di subitanea corrispondenza sentimentale. “Si riconoscono, nel borgo,/ suoni e rumori e non solo,/l’alternarsi dei passi sul selciato,/il tossire lo starnutire,/ persino il sospirare”. La vita nei vicinati è uno stare insieme, seduti sui limitari, è un ritrovarsi uniti nei sorrisi e in trepidanti moti di piacevoli incontri di pensieri e di emozioni. I campi sono in gran parte incolti, non abbiamo distese di spighe d’oro, sono cresciuti rovi ed erbacce, non si va nei boschi per tagliare legna. Andiamo attraverso i versi di Antonia Izzi Rufo limati e levigati, sono come scolpiti per la perfezione della forma e pienezza di contenuti. Riempiono il suo animo di brillantezza e ricostruiscono il suo amato paese negli aspetti che un tempo aveva. L’era moderna ha tutto capovolto, ha le strutture di una civiltà disumanizzata, è causa di rovina dei paesi, campagna e città. Mancano azioni di coordinamento, non si ama più la Natura, i paesaggi non si ammirano, la cultura è frammentata, la storia non ha valore. Il paese natio lo si ha sempre nel cuore, anche da lontano, lo vedi nei suoi vari momenti della giornata, le strade, che sono state vicine ai tuoi sogni, fisse nella mente. La poesia “Rifugio” perfetta per la semplicità e l’assonanza ha del classicismo, le immagini scorrono dai versi, quasi un’animazione di cose e di luoghi ti addolciscono l’animo. Si è felici con l’ambiente che è bello per i paesaggi intorno, le ansie ti spingono ad andarci vicino. Dalla Natura si ha un certo senso di antropomorfismo, piante e uomini la stessa presenza, animali e persone si sentono e si capiscono. Belli i campi assolati, da lontano sulle colline vedevi le donne pie-


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gate sulle piante, felici intonavano i canti agresti, le conoscevi a distanza, sapevi i loro andamenti e le vesti. In città non ci si guarda nemmeno, chiusi nell’anonimato, nulla fa essere avvenente, neppure il sole è straordinario con i raggi fra i rami degli alberi, creando tutta una serie di riflessi e di ricami di luce che paiono pezzi di cielo per terra. Per Antonia Izzi Rufo il paese natio è vita: “Aspiriamo l’ aria pura, di cui andiamo fieri,/salutiamo i monti che svettano nell’azzurro/e nel viale c’ immettiamo dei tigli/che fuori porta del borgo./Stormisce il vento tra le foglie/ argentee degli ulivi,/intonano i torrenti sinfonie”... Il paese aggrappato alle rocce costituisce una visione di attrattive fra colline e vallate, con le case imbiancate, dai muri rustici, di pietra, tutte accodate lungo le strade, “appare un presepe/che ammira superbo/l’immenso scenario/di verde di nastri d’argento,/di monti di boschi,/d’incanto,/che infinito si svolge/ davanti ai suoi occhi rapiti”. L’aria non inquinata rende trasparenti i luoghi corcostanti, nelle notti stellate tutto nell’ampiezza luminosa, inaspettata la luna, uno spettacolo sospeso nel cielo. La poetessa si esalta alle manifestazioni primaverili. “Al primo ti svegli/mattino di maggio/e vedi le rondini/che giocano in aria,/ fanno piroette,/sui fili si posano in fila”. Castelnuovo al Volturno con questi versi si ricostituisce come negli anni passati, vedi le persone di tutte le età con assennatezza e spirito di sacrificio, piccoli e grandi quasi con gli stessi anni, i campi arati, ordinati e resi fertili, i contadini all’aperto di buon mattino, al ritorno sono con gli asini carichi di frasche e di fieno. V Non si è mai stanchi, con gli attrezzi rudimentali fatti a mano, il lavoro è la vita, si esprime con virtù e passione. La bellezza della Natura ci è intorno, ci fa essere attivi e benevoli, si è autosufficienti, prendiamo tutte le provviste dalla terra generosa. “Erbe medicinali, orabi e cicorie/ancora qualcuno verrà a cercare”. Antonia Izzi Rufo dipinge i momenti più ammirevoli con la sua arte raffinata, i

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versi sanno farci vedere lo splendore e le meraviglie del Creato: “crepuscoli d’oro/dipinti di rosa/di fuoco d’arancio/all’alba e al tramonto”... Il rimpianto pesa sull’animo che tiene fissi i tempi dell’adolescenza con la freschezza e la spontaneità del parlare, la genuinità dei sentimenti. Un tenebrore è caduto addosso, il materialismo che nella nostra epoca è invadente con le sue turpitudini non sradica lo squallore che ci addolora. La poetessa Antonia Izzi Rufo mantiene nel suo cuore con attaccamento quello che fa appartenenza reale al paese, nulla passa inosservato, le stagioni che si ripetono, le voci, i rumori che sentiti con trepidazione rinfrancano e danno vita ad una poesia che fa gioire. Gli uccelli, i monti sono i custodi fedeli delle poche presenze che vediamo. Le cose semplici e naturali ci danno conforto e la speranza che tutto potrà ritornare come una volta. Abbiamo eventi nuovi, quali l’eccessivo addensamento di popolazione nelle città e l’impoverimento dei paesi. Riavere da una parte e dall’altra la giusta ambientazione che garantisca attività e vita pacifica non è facile. La crisi diffusa ovunque costituisce una particolare condizione esistenziale, come esattamente afferma lo scrittore, saggista, promotore di cultura di grande lungimiranza Domenico Defelice. Abbiamo una realtà nuova fatta dall’automazione con il conseguente processo di massificazione, perdita dei valori, abbattimento delle identità. Scontento e senso di sperdimento sono tanti per le trasformazioni originate dalle necessità tecnologiche, facili le contrapposizioni e le involuzioni. Disagi si vivono nel paese natio, svuotato, i vecchi rimasti sono ombre in silenzio appoggiate agli stipiti. Anche i grandi centri non stanno bene, sconvolgimenti sociali, episodi di violenza, una vita dissolta, artificiosa, priva di ogni entusiasmo, non c’è colloquio, sguardi acerbi in un coacervo di lingue e di costumi, emigrazione di clandestini, come esodi, pare un imbarbarimento, si vive senza una personalità, oppressi e impoveriti. Arroganza ed egoismi belluini che sfoggiano vanità e orgoglio, incertezza e precarietà nel presente, un futuro che non dà prospettive di-


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verse. Non c’è stabilità, ogni situazione ingombrante, pesante si sente addosso, una provvisorietà che taglia tutte le connessioni che darebbero pacifica consistenza ai rapporti sociali. Speranze illusorie, ingannevoli, il paese della poetessa è inaridito, pietrificato, una realtà scarna, inerte. Un tempo in piena attività e ci si sentiva sicuri di sé con una contentezza che prendeva tutti con coerenza e fiduciosità reciproca. Lo spettacolo di desertificazione si avverte fra le case e i campi. Si viveva con gli animali, si correva con loro, si era soddisfatti di quello che si aveva. La meccanizzazione fa vedere oggi gli animali chiusi nelle stalle con mangime artefatto. Oggi la campagna desolata, non senti i belati, il suono del campanaccio all’imbrunire spingeva il gregge dentro gli steccati. I contadini sono diversi, separati dagli animali come rinsecchiti, non c’è passaggio di forze e di unione, hanno perso calore e naturalezza. Dei solerti contadini molti li vedi sperduti, emigrati nelle città, come mortificati nell’aria inquinata. Le metamorfosi eccessive si avvertono dappertutto. Pure gli alimenti di un tempo erano semplici e nutrienti, hanno cambiato aspetto, elaborati artificialmente danno spesso disgusto, quello che si ha oggi, domani non piace. La volontà nelle fatiche fa del paese natio la grandezza e l’orgogliosa appartenenza. La poetessa molisana Antonia Izzi Rufo nelle poesie di “Paese” si sente presa da tutto un insieme, il luogo natio è in amalgama con la sua persona, non c’è nemmeno una piccola parte che non sia presente nel suo cuore. Con superamento del proprio io perviene attraverso stati di contemplazione a principi di vicinanza con l’ambiente d’origine. In approfondimenti di visioni si infiamma in tutta se stessa il sentimento primordiale, arcaico di amore che porta al di fuori della solitudine e delle angosce. Una vera elevazione morale la sua poesia, sorretta da impulso educativo con generosità verso altri cammini fermentanti di vita. La libera vitalità di movimenti della Natura si lega alle proprie membra. Nella mente si vede ancora vicino ai campi con i contadini intenti ai lavori di semina o di raccolta del

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fieno. Tutto un insieme che si livella, i monti paiono in mobilità estensive, le distanze congiunte e parallele. Anche gli avvallamenti si fanno fluidificati, per le strade i ragli dell’ asino, le grida di donne in vesti nere, odori di letame, porte aperte, si sta in una stretta comunanza. Il caldo preme in una solitudine densa che attutisce le voci, facendole lontane. Si muove una spirituale aria attorno alle persone. Con l’opera poetica “Paese” si è in emanazione, in distratta presenza trasognata, i visi intravisti si tengono in immagini diafane. Il visibile in spontaneità espressive, dagli occhi esce fuori il respiro dei pensieri. Ritornano il rimpianto e le malinconie, vedendo il paese natio in una inesistenza che è quasi vita agonizzante. In mezzo a questa passata vitalità e purezza di animi ricompare la visione lercia, infangata della politica insensibile alle problematiche, nella sua avidità di interessi confusa è l’attività che svolge con progetti frammentati e contraddittori che non arrivano ad una conclusione. La povertà dei borghi e il loro abbandono in gran parte dovuti alle tante soppressioni delle linee ferroviarie che per lunghi anni hanno promosso vicinanza fra i luoghi di montagna e dato sviluppo alle attività agricole. I paesaggi attorno ai paesi si tenevano splendidi in virtù dei collegamenti con le zone più movimentate e centrali. Una vera tessitura di comunicazioni, ogni luogo montano sperduto acquistava importanza, evidenziandosi nei suoi particolari aspetti naturali, artigianali. Si sono distrutte tante costruzioni lungo le linee eliminate che significavano alla loro epoca progresso e lo potevano essere ancora oggi. Le linee confacenti alla natura degli abitati e alle loro qualità di vita e relative costumanze. VI La poetessa Antonia Izzi Rufo con il quaderno letterario “Paese” ci ha dato una testimonianza che fa ripercorrere radici di tempi ormai lontani, che fa pensare a caratteristiche di genti che all’epoca odierna sarebbero di esempio per virtù e caratteri di fermezza legati con passione ai mestieri scomparsi. La Izzi


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Rufo con la sua sensibilità rimane legata alla vita del passato che con i suoi costumi e la gente semplice è stata una vera ricchezza. La nostalgia irresistibile per i luoghi natii che hanno dato spazialità, viridezza, si era come le piante smaglianti in un’eterna primavera. Nella raccolta di poesie “Paese” abbiamo problemi scottanti, passionalità, tutto l’amore per la vita che va tenuta nella sua giusta consistenza. Le stravaganze dell’era moderna hanno condotto ad alterare le interiori capacità, al materialismo con le sue tristi condizioni di malcostume e di invilimento. Occorre ristabilire un certo equilibrio, un processo di umanizzazione con una più vera intercomunicabilità. Si vuole valorizzare i borghi, creando legami con le città. Smantellare tutto ciò che è artificioso e asfittico, allargandolo a un maggiore respiro. Le grandi città ammassate, inquinate, prendendo una certa vicinanza con i paesi avrebbero forme di vita armonizzate senza croste di acredine e di turbamento che oggi si manifestano. Si acquista con la vicinanza ai paesi, alle montagne più fiducia in sé, ci si scrosta dai modi disamorati, dalla noia, si avrebbe, vivendo a contatto con la Natura una certa integrazione, non più la grande frattura che esiste fra i borghi e le metropoli. Una più razionale distribuzione della popolazione con maggiori possibilità di orientarci verso altre forme di occupazione. Città e paesi avrebbero un altro aspetto, una rinata rigogliosità, il recupero di certe caratterizzazioni andate perdute. Certamente una ricostituzione sociale più sana, senza quella modernità alienante, lontana dai luoghi della Natura. Con una vicendevole consapevolezza ci si troverebbe verso cammini giusti che portano a miglioramenti, a una vita più progredita, a modi di essere più vitali. Leonardo Selvaggi

nel dì di festa. Dall'alto del Borgo vicino alla croce ed alle due Chiese un canto s'innalza dalle aureole dei Santi. Indugio in quest'ora di solitudine luogo sublime e delicato, mormora l'ulivo al vento, una serena quiete alberga il mare, laggiù oltre quella linea grigia/azzurra, Paesi e Borghi appollaiati, incastonati alle rocce, ricordano gli antichi insediamenti, pirati assillavano queste contrade dove ora dorme in pace la gente di mare. L'antico mulino dei Fenici, rivive in mezzo al bosco per un attimo i misteri del passato. E tutto rimane come incanto nell'eternità. Adriana Mondo

Antonia Izzi Rufo - Paese - Ed. Il Croco/PomeziaNotizie, gennaio 2014, Presentazione di Domenico Defelice - Quaderno n. 113.

Congedo

I BORGHI

19 febbraio 2015

Suonano campane di mare

Reano, TO

SONETTO del 19.2.15 al S. Giuseppe Forse di me si son dimenticati. Son qui sdraiata sotto una coperta ad occhi chiusi e mezzo disastrati: Il tempo passa, ma io resto allerta. Dottore ed assistenti sono andati, ma che ritorneranno sono certa. Non possono essersi di me scordati, né lasciar questa mia pratica aperta. Avverto un lieve pizzicore, invano cerco individuar l’area del fuoco e di alleviarlo con maldestra mano. Ma ecco riapparire in questo loco lo mio dottore, che con abil mano ricuce a lungo l’occhio. Quasi un giuoco….

…per lui. Per me però è un po’ un tormento anche se niun dolor quasi non sento.

Mariagina Bonciani Milano


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(L’Uomo “particella di Dio” e “nella Storia ciascuno a modo suo...”)

IL TEMA DOMINANTE DELLA POESIA DI EDIO FELICE SCHIAVONE di Brandisio Andolfi A raccolta di poesie “Senza l’Uomo” - Edizione del Leone - Venezia 1997 di Edio Felice Schiavone è centrata sull’essere-simbolo del cosmo-universo nel suo manifestarsi come corpo-spirito-prodotto del Volere divino. Questa “particella di Dio” - l’uomo - racchiude in sé tutto il significato del pensiero universale; è microcosmo e macrocosmo voluto dalla Spirito, il quale governa il visibile e l’invisibile del Mondo. Il pensiero filosofico dell’uomo si è sforzato di spiegarne il valore, la funzione e la necessità del suo essere come origine delle cose-azioni nella loro capacità creativa; la Storia ha voluto, nei secoli, registrare i fatti e i mutamenti apportati al Creato dell’uomo come modificatore del suo prodotto; la cultura, in genere, ha luto registrare l’evoluzione del suo pensieroproduzione di idee e concetti; la poesia, infine, ha voluto immortalare con la parola l’ universalità del suo sentire-palpito-voce divinamente umanizzata. Perciò la parola, dice il Poeta di San Severo di Foggia, è “anima, voce, malìa delle cose...”; e “l’uomo nella storia” gioca “alla roulette delle ideologìe”. Ed ecco, allora, da qui a “Tangentopoli”; - “Bosnia 1993”; “Genocidio-olocausto”; “L’ Italia fine millennio” - per citare solo quattro momenti-azioni - storie dell’uomo nella poesìa di Schiavone, il passo-spazio di “un giorno” che racchiude “Trasumanazione - Assassinio” è breve, come “l’io e l’antico” nell’ eternità dell’esistenza. - Fin qui il temaconcetto dominante nella prima parte della silloge. La seconda parte della raccolta, poi, è tutto un canto di variegati sentimenti intravisti dal Poeta nell’uomo del suo Sud; non senza prima aver innalzato, alla maniera dei Grandi

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Poeti del passato, un caloroso inno all’ “Italia paese mio” sotto forma di un “Canto del viandante” di sapore petrarchesco. Il quale termina giustamente, per un obbligo sentimentale e amoroso per il luogo natìo, con riferimento al “ricco... mio Sud”. - In altri suoi componimenti, poi, è evidente la descrizione dei suoi sentimenti trasposti in momenti e luoghi che suscitano in lui nostalgia, ricordi e fiammate di gioia attizzate da un fuoco d’ amore per la sua Terra di Puglia. Tutto il dettato poetico riflette uno stile ed una forma di fattura classica. Il diario, si sa, è un genere letterario riguardante cronaca o relazione giornaliera di fatti visti o vissuti. Però quando esso è descrizione di esperienze spirituali diventa Diario dell’anima, come questo del Poeta di San Severo- Torremaggiore, Edio Felice Schiavone. È questa la sostanza poetica che rende ricca e appassionante l’altra silloge “Quasi un diario” Edizioni Helicon, Arezzo 2000 - del Nostro - che ci ha voluto omaggiare e che abbiamo letto con piacere e interesse, tanto da invogliarci a scriverci queste nostre considerazioni. Anche qui è sempre l’uomo - fisico e metafisico - al centro della poesìa di Edio Felice Schiavone; e la cronaca di lui si fa poesìa narrazione dei moti dello spirito vissuti attraverso il cammino degli anni. - Un diario poetico, allora, che partendo dal 1938 e passando per i tristi tempi della seconda guerra Mondiale (Autunno 1942” li rappresenta egregiamente attraverso la desolata descrizione dei tempi di miseria e di fame; come anche i “Giochi alla guerra” di ingenui ragazzi che niente o poco ancora presagiscano della catastrofe bellica incombente), e poi per quelli degli anni Sessanta, pieni di un illusorio benessere materiale, ma per fortuna, di un forte e grande ritorno di fede ad opera di un frate, Padre Pio, già tutto sustanziato di un Crisma religioso che lo avrebbe portato ben presto alla gloria degli altari, voluto da uno dei più Grandi Papi della Storia, Giovanni Paolo II; arriva infine ai nostri giorni, dove purtroppo


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“La Storia (ingorda) amalgama/in vieta somiglianza eventi e birbi.../meri prestigiatori del potere...”. Il poeta Edio Felice Schiavone si fa qui viandante dello spirito e percorre tutti gli ardui sentieri dell’animo del Tempo, che con “coraggiosa consapevolezza dei mali degli uomini” impone una espiazione dei fatti storici attraverso la Poesìa; la sola Arte che “è ordinatrice e... ricostituisce un po’ l’ armonìa del Mondo... opera un processo di rifusione armonica” dell’operato dell’uomo. Il suo scritto, il suo dettato poetico, perciò, scaturisce dalla esperienza e dai fatti del vissuto storico, sia esso topico che nazionale, reale che immaginario, mentale che spirituale, Ed ecco, allora, l’ “Homo aeconomicus” farsi “Barbone”; “Clandestino”; “Randagio”, ma sempre portatore di “Vizi”. “Ciascuno a modo suo”; con i suoi “Impeti” ma anche i suoi “Mali”, insieme ai quali consuma il Tempo del “Giorno irrimediabile”. Il poeta Schiavone ha saputo trasporre bene nel suo diario il pathos di ciascuno di noi. - L’ importanza della sua poesìa, in quest’ultima silloge, sta proprio tutto qui: l’averci saputo coinvolgere con il suo “Travistimento” poetico, con il pensiero storico del Tempo; e lo ha fatto, peraltro, con un linguaggio chiaro, semplice e Classico allo stesso tempo. Ognuno può e deve rispecchiarsi nel suo “Quasi un diario” per scorgervi la propria vita, la propria anima. Brandisio Andolfi

sensibile altresì e umano - talvolta attento e fermo, chino, a testa bassa, piegata, il mento sul nodo scomposto della cravatta al guaìre struggente d’un cucciolo morente, abbandonato tristemente allo stretto brividìo angolato, sconnesso e freddo malandato marciapiede... Quando, strapiena d’avventori e clienti rionali... da un tranquillo angolo semibuio d’una vecchia trattoria, silente e afflitto e solo, accompagnavo col verso e il bicchiere, appena, quasi vuoto... voci e canti rugosi e ràuchi... di vino ed acqua, di fumo e vecchio tabacco toscano... Quando, per fame e in due e cento lire, si dondolava storditi d’odore vaporoso, urinoso pungente, acuto dal piatto pieno, bollente e copioso di rognone, stravecchio cavallaccio: un boccone d’urina, pane e vino... Quando - l’azzardo lungo di Pensieri, di Riflessioni intorno intorno astanti e fatti e istanti istintivi crescenti... avvertivo, sentivo negli sguardi, nelle parole sensibili e dolci, nelle carezze, nella bontà e fede vere, edeniche della mia donna, Dio, la grazia d’essere buono verso di me, ancora verso gli Uomini. Edio Felice Schiavone

NOI... E IL TEMPO all’Amico Goliardo Medico Giuseppe Passaseo

EMOTIVITÀ

Con l’augurio fraterno d’ogni bene, ti saluto - Peppino, Amico Caro e rivedo... ripasso: e scendo e salgo e vado... e cerco intorno intorno e torno, ritorno... lungo margini indelebili, assoluti d’un Tempo: giovanile e responsabile; operoso e libero... tuttavia, magnifico e grazioso... L’arioso giorno ozioso, goliardico, bonario...

Con me stamane, emotività ti sei svegliata sento da lontano rumore e odore di parole vive che precipitano da ogni dove io invasa da tanto oscillante umore prendo più che posso per sentirmi viva e creare riserva di eterno calore. Filomena Iovinella Torino


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DOMENICO DEFELICE PITTURA DI

ELEUTERIO GAZZETTI di Tito Cauchi DOMENICO Defelice, scrittore e poeta calabrese, trapiantato in provincia di Roma, che non ha bisogno di tante presentazioni, ma non guasta ricordarlo, tiene fra i suoi interessi la pittura, come sta a dimostrare la monografia dedicata al grande maestro del Modenese (nato nel 1917) Pittura di Eleuterio Gazzetti

(Pomezia-Notizie, Pomezia -RM - 1980, Pagg. 68), una delle sue tante testimonianze. In copertina non poteva mancare una illustrazione del pittore-parroco. L’incipit di un componimento tratto da Canti d’amore dell’ uomo feroce, posto in esergo, recita: “Cascata di luce è il tuo pennello”. Il libro è diviso in quattro sezioni, due riguardanti l’opera pittorica del maestro, la terza contenente la scheda bio-bibliografica e, in chiusura, abbiamo l’ assaggio di una quarantina di illustrazioni a piena pagina, che meriterebbero una lunga riflessione.

Il Nostro in precedenza si era già occupato di questo pittore (in Andare a quadri, del 1975), ma avverte di scoprire nuovi aspetti, ogni volta che sosta sui suoi dipinti. Perciò indugia nella descrizione di alcune opere, citandone i titoli e richiamando particolari caratteristiche o simbologie che, comunque, connotano la pittura della memoria. Difatti Eleuterio Gazzetti attinge nei colori che le stagioni alternano nella sua Pianura Padana, lo fa in maniera lieve superando “la lezione degli impressionisti, dei simbolisti, dei creatori del naïf”, facendo rivivere una natura primordiale e neonata. Domenico Defelice così commenta: “Nella terra, più che nelle cose, Gazzetti ha letto, il dramma dell’uomo e sulle tele e per noi ha voluto trascriverlo per mezzo del pennello.” (pag. 9). Una sorta di religioso atteggiamento verso le cose create; un pacato atteggiamento che vede sotto una luce soffusa un placido paesaggio, traslucido della serenità raggiunta dall’Artista. In quanto alle composizioni floreali, il Pittore aggiunge quel quid creativo che rende vivi gli oggetti e i soggetti, con il rispetto alla natura in una specie di dialogo con il mondo circostante; così è, per esempio, per le cime


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delle alpi. Interpreta con realismo i paesaggi siciliani, i fenomeni sociali del malcostume e di barbarie. In ogni caso dalle sue tele traspa-

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re sempre una sorta di preghiera, con un atteggiamento educativo-formativo. La spiegazione di questa sua caratteristica va ricercata nella sua duplice attività artistica di pittore e poeta, oltre che del ministero sacerdotale, per cui le sue creazioni si trasfondono da un’arte all’altra. La conoscenza personale fra i due Autori, consente a Defelice di addentrarsi nella galleria fisica della canonica, dei corridoi che fanno da habitat artistico e religioso, al pittore; ed anche di sondare nello spirito di questo religioso-artista che non trascura mai di servire la Chiesa e la sua vocazione di educatore. Sarebbe interessante osservare don Eleuterio Gazzetti fra gli innumerevoli suoi dipinti relativamente ai paesaggi, a quelli con soggetto religioso soprattutto di Cristo, molti riguardano ritratti (p.es. Anna Magnani, Papa Giovanni XXIII). Una rassegna delle opere richiederebbe un viaggio in lungo e in largo presso vari studi privati. Una immensa galleria di capolavori che meriterebbero fiumi di descrizione contenutistica e della tecnica, nonché, aggiungerei, della metafisica dell’ uomo. Dalle descrizioni di Domenico Defelice si percepisce la sua passione, la sua competenza in materia ed anche l’animus poetico di entrambi. Si percepisce, altresì, la vasta cultura di don Eleuterio Gazzetti, la sua fede, la profondità di penetrazione nelle raffigurazioni. Un uomo che, come artista, ha ben meritato l’ apprezzamento di critici, e come sacerdote si è speso a favore dei suoi parrocchiani, venendone ricambiato. Tito Cauchi Immagini di opere di Eleuterio Gazzetti - Pag. 33: “Crocifissione”, olio su tela; “Natura morta”, olio su tela 1968 (30 x 40), proprietà prof. Donato Olweger, Aprilia (LT); “Paesaggio”. In questa pagina: “Esploratrice subacquea”, olio su tela, proprietà famiglia Giorgio Iannitto, Sassari; “Nudo femminile”, olio su tela (30 x 40).


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Comunicato STAMPA XXV Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2015, la XXIV Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, c. s., lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2015. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in

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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia- Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2015). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P. -N. Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio.


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I POETI E LA NATURA - 42 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

Le “donne giovani e leggiadre” di CECCO ANGIOLIERI ( 1260-1312)

I

n una delle prime puntate mensili di questa rubrica, precisamente in quella numero cinque (quindi di circa tre anni fa) abbiamo ricordato e commentato, fra i testi più noti della nascente storia della letteratura italiana, il celebre Cantico delle Creature di Francesco d'Assisi. In tale Cantico la Natura è glorificata come creazione dell'Altissimo, emanazione diretta di Dio, del quale rappresenta, tra l'altro, la bellezza e la magnificenza. Ma nel secolare e accidentato percorso storico della letteratura italiana noi ci possiamo imbattere nel Tutto e nel Contrario di Tutto. Ad esempio, per un Francesco che in ciascun elemento della Natura vede un principio atti-

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vo benefico per la vita ed il cuore dell'uomo, c'è anche un Cecco Angiolieri, un poeta nato a Siena nel 1260 ed ivi morto nel 1312 (o 1313). Un poeta vicino, nel tempo e nello spazio, al sommo Dante, ma da questo lontano anni-luce, sotto tutti i punti di vista. Tra cui non solo quello della Divina Commedia, ma anche quello delle poesie ispirate dal Dolze Stil Novo. Anche lui scrisse poesie d'amore, ma basta leggerne qualcuna, per rendersi conto del fatto che non solo non sfugge al dominio dello stile dell'epoca (quello Stil Novo di Dante, Cavalcanti, Guinizelli...da lui aspramente combattuto) ma che i risultati, comunque, sono ben diversi... Angiolieri non ha tempo per perdersi nell' ammirazione sconfinata degli elementi naturali, ma preferisce vedere in ciascuno di essi il mezzo più spiccio ed efficace per liberarsi violentemente di tutti quelli che gli impediscono di fare la vita dissoluta che preferisce. Per lui il vento, il fuoco, la morte, sono i mezzi migliori per distruggere non solo i propri genitori, ma tutti gli uomini che popolano il pianeta, a meno che non gli tengano bordone e lo aiutino a fare bisboccia notte e giorno. Pur essendo nato da famiglia ricca, Cecco non ci mise molto a finire in un mare di guai e in ristrettezze economiche. Il che contribuì a peggiorare il suo umore e il suo carattere. Nella sua furia iconoclasta, come nemico dello Stilnovismo, è stato accostato ai propugnatori di un “sano realismo popolaresco”, più vicino alla realtà quotidiana dell'epoca... Rileggiamoci il famoso sonetto “S'i' fossi foco...”: “ S'i' fossi foco, arderei 'l mondo; s'i' fossi vento, lo tempesterei: s'i' fossi acqua, i' l'annegherei; s'i' fossi Dio, mandereil' en profondo; s'i' fossi papa, sare' allor giocondo ché tutti cristiani imbrigherei; s'i' fossi mperator, sa' che farei ? A tutti mozzarei lo capo a tondo. S'i' fossi morte, andarei da mio padre;


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s'i' fossi vita, fuggirei da lui; similemente farìa da mi' madre. S'i' fossi Cecco, com'i' sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre: e vecchie e laide lassereil'altrui.” Luigi De Rosa

SUL CONSUNTO DIARIO E’ racchiuso su fogli ingialliti il fluire dei giorni. Dalle pagine mille parole, anche quelle non dette, si diffondono in strade di vento verso il cielo cangiante e si plasmano in strisce di sole. Il pensiero è gremito, ma si alterna con pause silenti sul consunto diario. Elisabetta Di Iaconi Roma

IL LUNEDÌ DELL’ANGELO Il fresco delle sere nella penombra della strada, tenerezza amorosa afferrava le sottili emozioni: sentire le voci femminili, un parlare di nascosto, taciti invisibili incontri di sguardi e di accenni. Sui gradini con le vicine, inavvertibili trepidi contatti, parole pieghevoli ad ogni dolcezza. Le feste popolari ai Santi nelle chiese dei boschi. A sant’Antonio abate sulla montagna mai andato, ho imparato da lontano a distinguere il luogo dalla sua forma trapezoidale. Il cervello si abbaglia guardando l’esuberanza delle ragazze avventurate sull’altalena appesa ai rami dell’ulivo, sbilanciandosi libere in ebbrezza disarticolate con le gambe denudate, le chiome scarmigliate, il viso rubicondo. Pazze di piacere agreste il giorno

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del lunedì dell’Angelo, le ciambelle lucide cotte attorno alle uova, la minestra sapida di finocchietti selvatici. Le passeggiate da un capo all’altro, una piccola processione ed io mi fermo per mettermi dietro e guardarli tutti in faccia. Le gite, il forno ricco di fiammate per riscaldare la volta e il pavimento di mattoni. Le focacce infarcite di foglie di cipolla fresca e di uva passa. In faccia al mare, viene come riverbero una dolce pelle per tutti gli organi. La vita è ferma, sottile pace la circonda ora. Leonardo Selvaggi

È uscito nelle edicole, edito da Il Convivio di Castiglione di Sicilia, il volume di poesie


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Recensioni DOMENICO DEFELICE ALBERI? Genesi Editrice Torino, Anno 2010, pagg.86. Direi di cominciare dall'inizio come una favola: C'erano una volta gli alberi, un mondo metafisico a parte, fragile e robusto allo stesso tempo. Ci sono stati gli alberi frementi di Vincent Van Gogh; gli alberi fiamminghi di Jan Van Eyck; quelli tratti dalla geometria di Paul Cézanne; gli alberi con le forme di pura fantasia nel Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch; l'albero importante di Piet Mondrian, l'albero delle volute eleganti di Gustav Klimt, e quelli della corrente surrealista di René Magritte, il pittore scelto dal poeta Domenico Defelice, che sulla copertina di questo suo ennesimo florilegio ha posto Le territoire, opera artistica del 1957. Ovvero, uno stralcio di terra sospeso in mezzo alle nuvole – tanto care all'artista belga – con al centro un mistico albero solingo che non ha bisogno di niente ed è rigoglioso lo stesso. C'è tutta una storia attorno ai simboli usati da René Magritte (1898-1967): la sua logica interiore in stretta sintonia con la corrente artistica a cui ha scelto di appartenere, il Surrealismo, e il suo verbo rivolto sempre al condizionale. « Così da come viene disegnato un albero possiamo trarre alcuni elementi che sono la proiezione di come un individuo si percepisce dentro di sé e come possa vivere la sua vita emozionale. Tale proiezione dà la possibilità di comprendere se egli abbia sperimentato una crescita armonica o meno. Se cioè, seguendo l'analogia uomo/albero, egli sia stato giustamente alimentato, accudito, innaffiato o se invece sia stato lasciato inaridire. » (Dal libro E tu che albero sei? di Evi Crotti, Oscar

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Guide Mondadori, Anno 2006, a pag.48). Ci sono terra e cielo sin dalla copertina della silloge, quasi a sottintendere i due mondi, il visibile e l'invisibile, il terrestre e il celestiale; le due patrie, presente e futura, dell'uomo: quella dove svolge la sua esistenza umana e quella dove approderà solo con l'anima. C'è una miniatura del 1457 circa, custodita nella British Library di Londra che appartiene al ciclo La città delle dame, dove « L'illustrazione si riferisce al momento in cui dama Ragione esorta Christine de Pizan a partire per il Campo delle lettere, il paese ricco e fertile dove verrà fondata la Città delle dame: “ Prendi la zappa della tua intelligenza e scava bene “. Il giardino chiuso diviene allegoria del compito di Christine de Pizan, che scava con la pala, ovvero la sua intelligenza, il giardino delle lettere. » (Da Giardini, orti e labirinti di Lucia Impelluso, Dizionari dell'Arte Mondadori Electa S.p.A., Milano, Anno 2005, a pag.243). Dunque, il mondo delle natura con le sue creature verdi, le sue estensioni di prati, le propaggini dei rami degli alberi, comunque esse siano fatte, rappresentano il luogo della mente dove coltivare l'intelligenza, la pazienza, il culto per la vita e la rinascita, e attendere l'illuminazione come fece Siddhǎrtha Gautama (565 a.C.- 486 a.C.), che impose a se stesso di non muoversi da sotto un albero di ficus fino alla completa sua Illuminazione. Quell'emblematico punto interrogativo posto subito dopo la parola Alberi, che fa da titolo alla raccolta poetica, non ha fatto altro che accentuare il mistero onirico che circonda l'immagine di copertina e quindi si rifà alla teoria surrealistica di René Magritte. Un mistero che sa di qualcosa tratto dal mondo dei sogni, di spazi sconfinati dove la psicoanalisi ha saputo cogliere i suoi vantaggi, studiando appunto i simboli, tutti i simboli rivolti al soggetto da psicoanalizzare che, meglio se inconsapevole, nella scelta non deve badare né alle forme, né ai colori. Il mondo di Magritte era fatto di oggetti, di figure umane alterate nella loro integrità fisica per esprimere la metafora; di stati mentali, di situazioni sospese, di sensazioni e da qui alla scelta poetica di Domenico Defelice, il passo è stato breve, brevissimo. La lirica d'apertura è una passerella di personaggi che hanno ruotato e ruotano attorno al poeta Defelice: nomi di amiche e amici, di defunti e di viventi, ad ognuno dei quali ha rivolto un messaggio coperto da un velo emblematico, frammezzandolo alle volte anche con versi tratti dalle poesie del personaggio citato per nome. Sono stati e sono gli abitanti de « L'orto-giardino. Lungo la siepe d'edera,/ che cinge il mio giardino,/ svettano robinie, vecchi castagni,/ oleandri, e pittospori/ avviluppati nella passiflora/


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dalle lanterne magiche; il rovere/ e la solare gaggia/ annunciatrice della primavera/ già dal febbraio capriccioso./ (...) È l'Eden favoloso in cui mi serro/ stanco della città./ Nel lavacro di verde e di profumi/ la mente mia s'inebria e poi sconfina/ oltre le vaste praterie del cielo./ Qui, solitario anelo/ la terra meno asfittica e rapace/ e l'uomo rinsavito, in allegria,/ che abbraccia suo fratello, odia il delitto,/ custodisce l'ambiente, non violenta,/ né se stesso soverchia e gli animali./ » Si tratta di una poesia in forma di poema: lunga, lunghissima e straricca di contenuti tratti dalla letteratura greca, dal senso bucolico che fu di Virgilio, e tanti personaggi che il poeta calabrese ha conosciuto durante la sua carriera di scrittore, saggista, giornalista, critico d'arte e letterario, poeta, e anche drammaturgo. C'è la poetessa veneziana Laura Pierdicchi, l'amico di sempre Sandro Allegrini che ha curato la Prefazione di quest’opera e che nel 2006 ha dedicato un volume al direttore, dal titolo Percorsi di lettura per Domenico Defelice. La pittrice perugina Serena Cavallini, la poetessa romana Rosaria Di Donato, la dottoressa in Letteratura Italiana e Contemporanea Eva Barzaghi, che ha incentrato la sua tesi di laurea sulla figura umana e professionale di Domenico Defelice; la siciliana pronipote di Luigi Capuana, Ada Capuana drammaturga, poetessa, costumista, ceramista, attrice, morta nel 1999 a Roma. L'amico poeta e scrittore Tito Cauchi di Gela; insomma un popolo di suoi colleghi e artisti che con le loro parole, le loro lodi, i loro versi, i loro sorrisi, le loro splendide presenze hanno riempito le stanze della mente dell'autore Defelice, il quale, ancora una volta, ha compiuto il grande atto di amore di inserirli numerosi nella sua poesia iniziale, che arriva fino alla pagina 26 del libro. La scelta bilingue, italiano e francese, è stata un omaggio all'Europa unita: oggi più che mai ci sentiamo tutti abitanti di un unico Stato, un'unica nazione, l'Europa appunto. « Si tratta di una poesia geoepica nel più nobile e pieno significato del neologismo in quanto la storia del regno floreale è connaturata e consustanziata con la storia civile degli uomini, cantata dai poeti, che danno voce all'umanità e contestualmente alla natura stessa. » (Dalla Postfazione di Sandro GrosPietro). Non c'è una preferenza particolare verso un albero per il poeta nativo di Anoia, in provincia di Reggio Calabria. Qui sono nominate tante piante che ci fanno capire anche la sua approfondita conoscenza di giardinaggio: la quercia, il melo, l'ulivo, il pioppo, il sambuco, l'ontàno, il noce, il ciliegio, il pesco e altri ancora. Una chicca nel volume ci svela che in Francia, precisamente a Vesdun, nel Sito n°7 della

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Foresta dei Mille Poeti, c'è una lussureggiante quercia, che noi immaginiamo maestosa e vetusta, la quercia n°549 ed è speciale, perché porta il nome di Domenico Defelice; è dedicata a lui che da sempre ha accolto e protegge chi lo ha conosciuto e apprezzato come uomo, come giornalista, come padre, marito, poeta, saggista, scrittore, critico, amico, estimatore, come amante della natura e delle sue creature, e forse una quercia è troppo poco per poterlo rappresentare in tutte le sue sfaccettature; troppo poco per farci capire la grandezza del suo animo poetico! Isabella Michela Affinito

EVA BARZAGHI DOMENICO DEFELICE: Introspettivo coinvolgimento poetico-letterario dell’animo umano Editrice Totem Roma, Anno 2009, Euro 10,00, pagg.63. È anche questa una nobile collaborazione. È accaduto al direttore del mensile Pomezia-Notizie – da lui fondato nel 1973 – Domenico Defelice, di essere entrato da illustre protagonista, col suo pesantissimo bagaglio di scritti, sulla scena di una tesi di laurea in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea della Facoltà di Lettere e Filosofia all’ Università degli Studi di Roma Tor Vergata. L’anno Accademico della discussione della tesi è stato il 2007-2008 da parte di Eva Barzaghi, col Relatore Professore Carmine Chiodo, firma nota del mensile Pomezia-Notizie e non solo. L’annosa esperienza di giornalista, scrittore, poeta, saggista, critico d’arte e letterario, drammaturgo di Domenico Defelice e le sue oramai innumerabili pubblicazioni, hanno favorito l’impegno per il concepimento di un lavoro che è andato a concludere un ciclo di studi importante, quale appunto l’ università di Eva Barzaghi, ideatrice di questa tesi chiamiamola ‘speciale’, fuori dalle righe, perché è stato sottoposto al vaglio un personaggio della nostra contemporaneità, e chi ha collaborato e collabora con la sua efficiente redazione, sa cosa significa la grande famiglia capeggiata da Domenico Defelice. Far parte della sua ‘scuola’ è un po’ come andare a bottega dal maestro romano di pittura Cavalier d’Arpino, che insegnò al Caravaggio, o dal fiorentino Andrea del Verrocchio, che fu il maestro di Leonardo da Vinci, oppure dall’altro fiorentino il Ghirlandaio, il maestro di Michelangelo. Lui, Domenico Defelice, ha accolto e accoglie tutti come suoi collaboratori della sua testata, impartendo le sue lezioni con la più che generosa distribuzione


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dei suoi libri, e a tutti offre la grande opportunità di apparire sul mensile, che fa circolare le firme di ognuno di noi. Lui ha valorizzato artisti come il mosaicista siciliano Michele Frenna, il pittore Eleuterio Gazzetti, che ha illustrato l’opera di Defelice del 1991 L’orto del poeta; altri direttori di riviste con i suoi saggi specifici, come quello sul direttore di Fiorisce un cenacolo e fondatore dell’ Accademia di Paestum, Carmine Manzi di Mercato San Severino in provincia di Salerno; sul direttore di quella che fu la sua rivista La Procellaria di Reggio Calabria, Francesco Fiumara; sul poeta ecologico Franco Saccà; sulla sicilianità poetica di Ada Capuana, la pronipote dello scrittore grande esponente del verismo italiano Luigi Capuana, critico teatrale e docente; dei quarantacinque poeti e scrittori d’oltre frontiera italiani e stranieri, che scrivono fuori dall’Italia. Insomma, lui come persona e come autore di tante opere di diverso genere letterario, è stato scelto quale fonte di studio di estrema versatilità, dal momento che le opere edite, per esempio quelle di poesia, risalgono al 1957 con Piange la luna, Con le mani in croce del 1962, Un paese e una ragazza del 1964. C’era bisogno per noi collaboratori , ma anche per il vasto pubblico dei lettori di Pomezia-Notizie, e per altri fuori della sua ‘allargata’ famiglia redazionale, di conoscere più da vicino il direttore Defelice attraverso questa dissertazione dagli alti contenuti morali e di riflessione. La laureanda, poi dottoressa con la discussione di questa tesi, Eva Barzaghi, ha scelto dei testi-capisaldi della produzione letteraria di Domenico Defelice: Nenie, ballate e canti – la cui copertina adesso rifà da copertina a codesto lavoro saggistico –, le opere sue che hanno dato omaggio all’Italia del Sud; Resurrectio: viaggio nel dolore; Alpomo; Silvìna Òlnaro quale dramma in tre atti che ripresenta il dilemma della vita fino a che punto viene considerata tale e degna di essere vissuta, in omaggio e in ricordo di Eluana Englaro e alla sua non-inutile vita trascorsa per molti anni in stato di coma. L’autrice dopo aver scelto di fare l’esaminazione dei suddetti testi, ha proseguito con l’assemblazione dei suoi punti di vista critici, per arrivare a spiegare la grande levatura morale, culturale, umana e giornalistica del personaggio in questione, così da comunicare a tutti noi la storia vera, umanizzata, per mezzo delle tante pubblicazioni di Domenico Defelice. « Il nostro poeta prova tanta amarezza e rimpianto per quella che lui avverte dentro di sé come un’ incapacità di commozione. Sente il suo animo come inaridito e si chiede costernato se ciò non sia dovuto ad una sorta di assuefazione all’indifferenza della Società. Colgo in lui questa velata tristezza che racchiude la sottile e legittima paura di vedere in

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noi l’immagine speculare di un modo di essere nel quale non riusciamo ad identificarci, ma soprattutto non lo vogliamo. Credo che il talento di Domenico Defelice nasca soprattutto dalla perfetta fusione della razionalità con l’estro artistico e la raffinatezza d’animo. La consapevolezza del talento dell’autore lo rende a noi ancora più caro perché se è quasi naturale aspettarsi da una donna dolcezza, partecipazione emotiva, attenzione minuziosa alla realtà ed ai particolari, è decisamente più sorprendente quando questi elementi li ritroviamo in un animo maschile. » (Dalle Conclusioni pagg.5758). Isabella Michela Affinito

TITO CAUCHI MICHELE FRENNA NELLA SICILIANITÀ DEI MOSAICI EdiAccademia, Isernia, 2014 Tito Cauchi ci introduce nel mondo di Michele FRENNA, accompagnandoci, come prima tappa, in casa del Maestro. Ci racconta la gentile accoglienza da parte della famiglia e le vicende più rilevanti della loro vita, prima fra tutte la dolorosa perdita di una figlia avvenuta pochi anni prima. Una casa di artista, come ce la fa vedere, con rapide pennellate, il nostro Autore: grande, piena di libri e pareti tappezzate di mosaici. Una casa dal fascino segreto che Tito Cauchi e la moglie lasciano con non poco rimpianto. Foto dell’incontro ne fissano il ricordo. L’Autore di questa importante monografia è molto attento e preciso: non si limita a distendere il suo pensiero, ma riporta quello di critici autorevoli come Vincenzo Rossi, Orazio Tanelli, Leonardo Selvaggi, Carmine Manzi e tanti altri. E vediamo, con qualche piccolo cenno, cosa, dei loro saggi, egli trascrive. Di Orazio Tanelli, dal libro “Sintesi dell’antico e del moderno nei mosaici di Michele Frenna”, l’ Autore riporta il seguente significativo periodo: “La sua arte mosaica si presenta come un “surrealismo moderato” che riesce a raggiungere un certo “trans-espressionismo” in quanto egli parte dal particolare per raggiungere l’universale”. Di Vincenzo Rossi, vengono sottoposti al lettore, attraverso fotografie, l’immagine di copertina della pubblicazione, intitolata “Michele Frenna Mosaicista”, e una paginetta stampata in cui il grande critico, dopo aver descritto perfettamente il mosaico “TRINACRIA”, afferma che tale opera è un “capolavoro indiscusso”, degno di essere custodito “fino alla consumazione dei tempi” nel maggiore dei Musei siciliani.


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In quanto alla pubblicazione di Carmine Manzi, “I mosaici di Michele Frenna”, il saggista esalta lo stile di letterato fattosi da sé, paragonandolo, in questo, al Frenna stesso. Due artisti, commenta Tito Cauchi, con ampie esperienze di vita, “entrambi comunicatori uno con la penna, l’altro con la pinzetta, che essi usano con la leggerezza di una piuma.” Anche Domenico Defelice ha avvertito l’esigenza di scrivere sul grande mosaicista e l’ha fatto con la sua nota capacità introspettiva e la particolare competenza essendo, egli stesso, artista: “…ne parla con tale grazia”, scrive il Cauchi, “da trasformare il lavoro di vetro (tasselli) in leggere pennellate con delicate sfumature da sembrare dei lavori di pastello, il tutto come se si trattasse di un’opera poetica…”. La carrellata di saggisti continua con Gabriella Frenna, figlia del Mosaicista, attraverso il commento della sua pubblicazione intitolata “La serie dello zodiaco nell’elaborazione musiva”. Durante la scrittura l’Autrice “richiama il mistero ‘arcano’ degli astri” che gli uomini hanno sempre cercato di comprendere finendo con il rivolgersi, delusi, a poeti, filosofi o artisti. Leonardo Selvaggi, sempre ricchissimo nel suo annotare, ha lasciato tracce meravigliose di pensiero sul lavoro del Frenna, in due volumi: “La critica di Leonardo Selvaggi sull’arte e sulla letteratura frenniana” e “Dai mosaici alla poesia”. Con la solita, precisa, puntigliosa ricerca, traccia, nel primo, un excursus storico sull’origine dei mosaici, per soffermarsi, poi, sulle motivazioni che hanno convinto Michele Frenna a fissare la sua creatività in maniera così colorata e luccicante qual è il mosaico: l’amore per la sua terra, per la famiglia, il forte sentimento religioso e, sicuramente la perdita della primogenita Rosanna. Nella seconda pubblicazione, il Selvaggi riunisce diciannove recensioni sul Frenna di altrettanti autori. Il libro di Tito Cauchi riporta il pensiero di altri personaggi, interessati all’arte di Michele Frenna, tutti lodevoli nella loro scrittura: Giuseppina Maggi, Salvatore Perdicaro, Lucia Battaglia, Renza Agnelli, Sandro Serradifalco, Tonino e Carolina Citrigno, Giovanni Campisi, Salvatore M. Frenna. Nel corso delle pagine, il nostro saggista espone un profilo storico artistico che ben segnala l’opera mosaicale di questo encomiabile artista. Il volume rappresenta, non soltanto il compendio di precedenti pubblicazioni sui capolavori dell’Artista, ma ne raccoglie alcune immagini. Molto interessante il racconto di Tito Cauchi su cosa abbia rappresentato l’arte di Michele Frenna nella vicenda artistica ita-

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liana; il critico si intrattiene anche sui tanti artisti intervenuti per dimostrare, con un atto d’amore, la profonda ammirazione per il grande Maestro scomparso. La scrittura mette in luce il talento decorativo, la profonda conoscenza della stilistica di tutti i tempi e l’interpretazione che il Frenna ha voluto dare ai suoi lavori seguendo ispirazione e fantasia. Tito Cauchi pone l’accento sulla personalità di prestigio di un Autore che si fa testimone, tra i pochi, di una convenzione estetica scampata miracolosamente alle devianze cosiddette innovatrici. Pertanto, egli merita non soltanto il plauso ed il ricordo complessivo, ma anche la spontanea attenzione degli studiosi. Michele Frenna, sostiene ancora l’ esegeta, non potrà mai essere considerato l’artigiano che tenta di esprimersi con l’inventiva dell’arte, bensì l’artista che raggiunge grandi traguardi creativi ed è per questo che le sue opere continueranno a destare un fremito, in quanti sapranno apprezzare e gustare la vera arte. Concludo con un meritato plauso a Tito Cauchi, autore di un testo ragguardevole che ha inteso ricordare un grande uomo tra i depositari del pensiero artistico, un messaggero di mondi vicini e lontani dalla grande sensibilità e dalla squisita genialità. Una presenza come quella di Michele Frenna si palesa preziosa nella storia dell’arte ma anche nella storia sociale del nostro tempo: un dono ma anche un ammonimento per chi saprà apprezzarne l’ onestà creativa. Anna Aita

TITO CAUCHI PALCOSCENICO Editrice Totem, 2014 La vita, resa poesia da Tito Cauchi, oltre la tenda di un palcoscenico Tito Cauchi, nell’introdurre alla lettura della raccolta poetica “PALCOSCENICO”, precisa che la presente silloge, comprende composizioni scritte nel primo decennio degli anni Duemila. Nei presenti versi, egli ritorna sull’antico e ben definito pensiero che paragona la vita ad un palcoscenico su cui ci mostriamo e ci muoviamo, comparse pronte a recitare un copione. In tal maniera, egli esprime una inquieta inchiesta esistenziale, tra le amare apparenze della vita quotidiana e la necessità di evasione da una realtà deludente ed oppressiva: “L’attore”, scrive Tito Cauchi, “indossa la faccia di chi sta dall’altra parte del sipario, prestandogli la propria voce; la distanza tra pubblico e attore ne fa la differente interpretazione.


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L’attore deve annullare se stesso per risultare più convincente nel suo ruolo”. Alcune volte, continua il Cauchi, il commediante, attuando la finzione, rende la sua vita più leggera; altre volte non riesce a nascondere completamente la propria anima o potrebbe addirittura, non riuscire a coprirla per niente. Basterebbe una doppia mandata per chiudere la porta del proprio intimo e non vi sarebbe chiave in grado di aprirla. Il Poeta si sforza di comprendere ciascuna di queste situazioni. Tito Cauchi esprime i motivi del proprio tormento e della propria angoscia cercando di trovare la misura più qualificante nello svolgere il suo discorso lirico per aspirare ad una vita semplice, lontana dai contrasti, dalle lotte, dalle alternative della drammatica realtà quotidiana: “Mi tingo di cera/ per coprire una lacrima,/ mi porto sul palcoscenico/ s’alza il sipario e io entro/…/ Mi fingo un dolore/ per celare quello intero/ applaudono, ma nessuno sa/ che è tutto vero”. Il suo sguardo si rivolge intorno e fissa momenti inaccettabili della nostra esistenza attuale: “Esse emme esse, videofonino in copia/ miti moderni oltre una cornucopia/ bibite fresche o calde bevande/ partorisce un automa continue merende”. E ancora: “Menzogne pur di avere/ autori e vittime insieme/ aggressioni stupri vessazioni”. Il discorso di Tito Cauchi è vivo ed è il risultato di un attento e sapiente impegno atto ad offrire al lettore immagini valide per una riflessione che si proponga di combattere comportamenti sbagliati e il cattivo gusto dominante nella letteratura contemporanea. Un volumetto che si configura tra gli scritti più intensi di questo Autore che, per certi versi autobiografico, rispecchia tra l’altro l’inquietudine dominante di fronte al mistero della vita. Anna Aita

GIANPASQUALE GRECO TRASFUSIONI DI SANGUE Guida Editore, Napoli, 2010, € 8,00 Una poesia direttamente comunicativa quella di Gianpasquale Greco, quale emerge dal suo libro Trasfusioni di sangue ed anche moderna per l’uso del verso libero, opportunamente pausato e variato. Ma la sua è pure una poesia colta, per i richiami culturali che contiene, come quello fatto ai noti versi dell’imperatore Adriano, “Animula vagula blandula”, la cui eco ritroviamo in “Animula vagabonda, per il deserto te ne vai” o per il richiamo fatto ad un personaggio famoso come Isotta, nella poesia che inizia “Ti scopro ancora nei mille attimi del mio animo, Isotta” o ancora per la citazione di un

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musicista esimio come Mozart: “In ogni nota del mio Mozart ti cerco amore…”. Ampio è in Greco l’andamento del verso, che tende ad assumere un movimento narrativo, mentre le poesie vanno allungandosi, sino ad assumere quasi le dimensioni del poemetto. Si veda, ad esempio, per quanto riguarda lo slargarsi del verso, la poesia che inizia “Mare tempestoso, nel baratro dolente dei miei pensieri mi trascini” o quella che ha questo incipit: “Dannato secolo, che hai ucciso Dio e ci hai spogliati di ogni certezza”. Si vedano anche: “Mi canterà il sole le dolcezze di questo amore” e “Avvampano i quartetti d’archi di Beethoven, ma non è solo la musica”. Anche quando il verso si fa breve, come in “Ipponatte, amico caro”, una delle poesie di più vasto respiro della silloge, è lo stesso componimento tuttavia che tende ad allungarsi, andando al di là della misura di una semplice lirica. Varia la tematica, che trova i suoi spunti innanzi tutto nella città, dal nostro poeta considerata come luogo dell’anima in poesie quali: Napoli, sogno metafisico; Chiesa di S. Francesco al Vomero; Pomeriggio in San Martino; S. Maria maior; Animo napoletano; ecc. (Ma si legga anche la lunga Lirica in villa Cimbrone, arroccata in un balzo sull’ignoto). Altri temi sviluppati in questo libro sono quello del senso della storia, che regge ad esempio una poesia come Tempi ed odori; quello della Fede in Dio, profondamente sentita, che troviamo in Credo in Gesù Cristo e in Alla Vergine celeste; Il richiamo ineludibile della poesia, evidente in Alla ricerca disperata di poesia; l’amore per la cultura e per l’ Arte, che compare in Contro gli svilitori dell’arte; l’ immedesimazione nell’altrui sofferenza, propria di Vecchio, vedovo e solo; l’evocazione dei viaggi compiuti che caratterizza poesie quali di Ho lasciato il mio ricordo più dolce e triste; il vivo sentimento della natura, che s’incontra in Estate, ai tre tocchi smussati, di campane in paese; l’amore per la musica, evidente in Le quattro stagioni di Vivaldi; ecc. La tematica che però qui prevale è quella amorosa, che s’affaccia sin dal passo dell’Ars amatoria ovidiana, tradotto e posto ad apertura di libro: “Alla bellezza della donna amata / noi doniamo la gloria” che trova largo spazio nelle poesie della raccolta, come osserva anche il prefatore, Professor Francesco d’Episcopo, di cui Greco è stato allievo. Tra le più significative di queste poesie ricordiamo: 6 luglio, notte (“Alza gli occhi al cielo amore mio”); Astro del cielo (“Mi canterà il sole le dolcezze di questo amore”); Amore come ignorarti? (“Amore: come fare ad ignorarti?”); Ulisse (“Mi baciasti in quel mattin d’agosto”); ecc.


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Ma, oltre all’amore per la donna, è sovente presente (e già lo si è accennato) in questo libro l’ amore per la poesia, che troviamo in testi quali L’ arma del poeta: “Quella magia di speranza e bellezza / che è l’arte” o Alla ricerca disperata di poesia, che è una delle liriche più emotivamente tese della raccolta. Da tutto ciò nasce in Greco una diffusa inquietudine, che lo accompagna nelle sue ricerche e che gli offre molteplici spunti per il suo poetare. Egli è ancora molto giovane ed ha perciò tutta la vita dinanzi a sé. Noi siamo convinti che essa gli offrirà la possibilità di produrre numerosi e pregevoli frutti: certo degni di chi come lui possiede una fede profonda nella parola pronunciata con sincerità e con un’autentica urgenza del dire. Elio Andriuoli

ROCCO BAMBARERI QUEL CERCHIO DI LUCE Centro Studi Sikania, Vittoria (RG) 1986, Pagg. 32 Rocco Cambareri, classe 1938, nativo di Gerocarne (Catanzaro), ha avuto una vita avventurosa di sacrifici come di tanta gente del nostro Sud; tuttavia è riuscito a conquistarsi un futuro più sicuro. Ha insegnato a Roma, a Santiago del Cile, a Madrid, nel contempo acquisendo vari riconoscimenti culturali per la sua opera di poeta, fra i quali il Premio della

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Cultura delle Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1976. Nella bandella di copertina di Quel cerchio di luce, troviamo brevi lusinghiere note critiche di Andrea Zanzotto (“viva sensibilità”), Piero Bargellini (“speranza redentiva”), Luigi Fiorentino (“suggestiva freschezza”), Mario Petrucciani (“ricchezza dei motivi”), Antonio Piromalli (“notevole rilievo”). Le composizioni sono brevi o di media lunghezza, dai versi sciolti e pur misurati. Un mondo di briciole di memoria, che riportano il Nostro all’ infanzia; anzi possiamo dire, senza alcun dubbio, che la presenza di un bimbo o di un fanciullo è presenza costante. Così si spiega il titolo che sta contenuto in un verso del componimento incipitario, volendo significare che l’Infanzia “È quel cerchio di luce/ che tutto rifrange più chiaro.” Della esperienza di migrante del Cambareri, troviamo tracce, per esempio, nella evocazione di toreri e di ragazzi che li imitano. Poesia della nostalgia dei luoghi lasciati alle spalle, dei lavori nei campi, della madre ginocchioni, degli scorci del paese. Percepibile è la tenerezza nel ricordare “l’ ultima rondine/ che remiga tra viuzze” (pag. 7), il bimbo che pianse per il passero stecchito dal freddo, l’urlo di gioia di un fanciullo alla vista dell’ aquilone che si alza in cielo, le feste rionali e i fuochi d’artificio. Rocco ricorda il sonnecchiare alla scuola elementare, il fanciullo che acchiappa le lucertole con un cappio, il trillo delle cicale; le colombe volteggiare, un bimbo che gioca a nascondino, un monello-menestrello che canticchia per strada mentre la madre lo chiama perché il “desco fumiga”; o che stringe il pallone come se stringesse il mondo, che si rallegra alla vista di papaveri, che osserva le gocce di rugiada brillare come stelle sui fili d’erba, che gioisce per i fiocchi di neve. Il Poeta è felice di questi ricordi che la memoria continua a conservare, memoria fresca, giovane, appunto ‘fanciulla’: “Tu che cresci sempre fanciulla,/ ridammi la triste lieta infanzia.// Ora che la luna è sossopra/ e più lontani astri vi rovistano,/ fai che io ritorni furtivo/ (…)/ impertinente, mani riaffondi/ nelle tasche della nonna cara/ e per chincaglie e monetine/ e immagini di santi io rigiubili;” (pag. 20), un’espressione cara di affetti che si autoalimenta. Adesso nulla è come prima, ma del sole dice: “Mia figlia si dispera del suo/ primo grande mistero, entrambi/ ci stupiamo d’un mondo che non gira.” (21); e meraviglia prova il figlio divenuto ometto, allo spuntare delle gemme su un ramo rinsecchito; mentre il Poeta ritorna fanciullo. In rima baciata propone un festoso componimento “Il renaiuolo e lo stradino/ erano sotto il sole oro fino.”


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(23). Insiste sulla presenza ancora di un bimbo che giocherella con la sabbia bagnata di pioggia, perché ammette che la fanciullezza è il tempo senza tempo: un tempo ricco di emozioni che fa garrire e pure mugugnare il cuore. Adulto ha scoperto il grande valore della fanciullezza, quando immaginava che le brughiere odorose come “aedi-fanciulle/ narrano amori.” (28); ma “Ora soliloqui e trasalimenti/ per eco qualsiasi di pianto/ sono mia terraferma// Forse mai più guarirà/ il vecchio fanciullo.” (29). Credo che Rocco Cambarei abbia assecondato il desiderio della memoria di ritornare al mondo fantastico e genuino dell’infanzia, così come è chiaro nel titolo della raccolta. La poesia diventa per il Poeta un antidoto (come d’altronde per altri poeti) per recuperare il tempo che non ha potuto godere appieno. In ciò trova diletto mostrando spontaneità di ispirazione, senza alcuna forzatura; rinviando al lettore ogni sfumatura. Tito Cauchi

IMPERIA TOGNACCI LÀ, DOVE PIOVEVA LA MANNA Edizioni Giuseppe Laterza, febbraio 2015 Il deserto è per Imperia Tognacci una coordinata geoantropologica certamente, ma ancor più dello spirito, per il fatto che la solitudine da cui il viaggiatore è avviluppato, e l’infinitudine degli orizzonti cangianti, e l’imperversare allucinante di un impietoso sole, e il silenzio della carovana, e l’essenzialità dell’acqua (da pozzo a pozzo), pongono l’uomo nella condizione di leggersi dentro, di autoanalizzarsi, di tracciare con lievissimo margine di errore le delimitazioni psicologiche e culturali entro le quali si muove pur nel frastuono e nelle distrazioni della quotidianità. La distribuzione per capitoli (sette in tutto) del carme, giustamente definito “odeporico” da Andrea Battistini in una nota introduttiva “a tutto campo”, è indicativa di un succedersi di momenti, aspetti e trame esistenziali della poetessa romagnola, di San Mauro Pascoli, connessi con gli elementi paesaggistici, storici ed etnografici di volta in volta incontrati. Il tutto fatto confluire in un assetto formale trasparente, di ampio respiro, e dotto, nel quale le frequenti ascendenze della classicità si espandono in una sintassi ariosa, ricca di subordinate, gestita agevolmente, e con rigore, dalla scrittrice. Aldo Cervo

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MARCELLO VITALE REVOLUTION Koinè Nuove Edizioni, Roma, 2014, pp. 219 Questo romanzo di Marcello Vitale è stato giustamente valutato positivamente da Giancarlo De Cataldo e Amedeo La Mattina, che scrivono rispettivamente: "Marcello Vitale ci racconta con nostalgica ironia il tempo in cui tutti i giovani sognavano di cambiare il mondo. Persino i magistrati"; “Nella Fulminante storia d'amore con la figlia di un metalmeccanico Fiat, un giovane magistrato del Sud scopre un mondo ribelle e una dolce utopia". Giudizi condivisibili sull'opera di Marcello Vitale, Presidente aggiunto onorario della Corte di Cassazione e già Presidente della prima Sezione Penale della Corte di Appello di Roma; ma Vitale è pure un apprezzato poeta (sono ben sette i suoi libri poetici) e scrittore. Calabrese di Lamezia Terme, agli inizi della sua carriera in magistratura si trasferì a Torino, dove in parte è ambientata la storia che qui si racconta. A Torino in quegli anni, nel 1968, rigogliosa era la contestazione studentesca. “ Revolution" è un romanzo storico, autobiografico: ma è pure un'opera complessa in cui si parla e si discute di tante cose. Siamo comunque davanti a un' opera ben fusa e armonica in ogni sua parte e poi è scritta con un linguaggio vivo, naturale, suggestivo che cattura l'attenzione di chi legge. L'opera piace per temi, contenuto e linguaggio, e a proposito del linguaggio di tanto in tanto lo scrittore usa qualche termine dialettale calabrese per precisare meglio una situazione o una azione. Con Revolution abbiamo a che fare con un'opera interessante e che si configura non solo come un documento preciso e sicuro dell'Italia del' 68, anno caratterizzato dalle rivendicazioni studentesche, anno in cui in molte città italiane si fecero sentire gli studenti che reclamavano una riforma universitaria e un nuovo sapere e poi agli studenti, con passare del tempo, si unirono gli operai che anch'essi reclamavano i loro diritti come ad avere un salario più alto e condizioni di lavoro più umane. Il vento del'68 "trascinò tutti", anche i protagonisti del romanzo di Vitale: il giovane magistrato venuto dal Sud a Torino e una giovane studentessa di lettere che appartiene al movimento studentesco: è una rivoluzionaria. Comunque l'opera non è solo storica ma è pure una appassionata storia d'amore tra la studentessa e il giovane e focoso magistrato calabrese, che pur avendo idee diverse si amano furiosamente e fino alla follia, e poi ancora entrambi sono innamorati della poesia. La amano tanto e perciò ecco che la studentessa Carla ama maggiormente il magistrato che è pure un poeta. In varie


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pagine del romanzo appaiono versi dello stesso Vitale o di altri famosi poeti: un nome per tutti Pasolini che si scaglia contro i figli di papà e invece ha simpatia per i poliziotti, meridionali e figli di povera gente. Veramente ci troviamo di fronte a un'opera originale e molto riuscita che ci spinge a dire che Marcello Vitale è pure un bravo scrittore. Questa di Vitale è un'opera - lo dicevo prima - autobiografica ma ci sono pure elementi, situazioni storico-sociali. Comunque lo scrittore parte dai fatti e da situazioni reali ma che poi sono dilatate e magari piene di elementi fantastici. Nell'impianto generale Revolution è un romanzo corale, un romanzo in cui si parla di politica, di contestazione studentesca, di poesia, di mafia, di cultura, della Calabria, di momenti autobiografici, della questione meridionale. Un'opera molto scorrevole e fluida e ci fa assistere a varie situazioni e ci racconta vari fatti, ci presenta diversi personaggi, tutti colti nella loro umanità e caratteristiche di fondo. Personaggi fondamentali sono la studentessa di lettere dell'Università di Torino e il giovane giudice, questi conosce Carla, cosi si chiama la studentessa rivoluzionaria, in casa di amici durante una festa: “Conobbi Carla Bischetti, quella sera di febbraio del 1968 a Torino, in una festicciola organizzata alla Crocetta in casa di comuni amici, i coniugi Alessandro e Lalla Albuinonui: Carla, (...), era una ragazza dalle gambe lunghe e magre, gli occhi scuri e i capelli corvini ed io me ne sentii immediatamente attratto. Parlava con una leggera cantilena, strascicando le parole" (p.15). I due subito si innamorano e subito fanno all’amore. Carla ha una storia triste (stuprata dallo zio quando ancora era piccola; Carla ha un padre, tra le altre cose, matto in seguito alle pessime condizioni lavorative della Fiat). La ragazza trova un punto d'appoggio nel giovane giudice calabrese che spesso polemizzano e poi tutto si ricompone e l'amore tra loro due trionfa. Il romanzo è formato da ben XIV capitoli, uno più bello dell'altro, e qui si parla di molte cose e vengono affrontati diversi problemi afferenti alla giustizia, al Sud, all'organizzazione di vita e sociale a Torino, si parla di emigrazione; si parla ancora dei molti calabresi e delle loro condizioni di vita e lavorative a Torino, si parla ancora di come quest'ultimi venivano trattati e giudicati dai "polentoni". Un romanzo, questo di Marcello Vitale, bello e coinvolgente, interessante, originale, e ancora si lascia leggere facilmente perché è scritto con una lingua fluida, immediata, dinamica: ecco alcuni esempi: " Quando sei qui con me questa stanza non ha più pareti ma alberi" cantava Mina ne "Il cielo in una stanza ", allorché col cuore in gola le chiesi: "Permette signorina questo ballo?" (p.15); "Trovai

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comunque strano che quel pezzo di donna che stava tra le mie braccia riferisse a me che era un estraneo e proprio in quel melodioso e conturbante momento, cose tanto tristi e personali. Evidentemente aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno di cui istintivamente si fidava, ritenendo forse che un giudice, abituato a mantenere i segreti d'ufficio, potesse essere un buon confessore. Il che dopo tutto mi lusingava più di tanto 'picchi io vulia essere un sua spasimanti e nun u cunfessuri sua. ‘Ma chista chi cavulu vò di mia?' pensai a quel punto vagamente sospettoso" (p. 16). Per concludere la scheda è da dire che Revolution è una delle migliori opere, uno dei migliori romanzi apparsi in Italia nel 2014, e ci dà un Marcello Vitale acuto e penetrante scrittore di un tempo che l'ha visto giovane e combattivo. Grazie ancora a Marcello Vitale se di quegli anni abbiamo una testimonianza fededegna e sincera, appassionata ma l'opera vuole non solo ricordare o richiamare alla memoria i temi sessantottini ma è una esaltazione della poesia che tiene uniti due esseri diversi. L'opera è molto complessa e affollata di fatti e personaggi ma è, in fin dei conti, un "poema” della vita di Vitale, poeta e scrittore vero e autentico che con questo romanzo ci fa rivivere fatti, avvenimenti, sogni, desideri, d' un tempo della nostra storia e della nostra vita. Per avere una visione di ciò che è stato il '68 è da leggere quest'opera di Marcello Vitale; e la debbono leggere non solo i lettori comuni ma pure i cosiddetti "addetti ai lavori". Carmine Chiodo

FRANCESCO DARIO ROSSI LE FIGURE DELLA MENTE Pegasus Edition – www.pegasusedition.it – Cattolica, gennaio 2015, pagg. 73, € 10. Francesco Dario Rossi è chiavarese di nascita ma vive a Sestri Levante (Genova). Laureato in lettere classiche, abilitato in materie letterarie, latino e greco, ha insegnato in scuole di vario ordine e grado. Da vari anni organizza laboratori di scrittura creativa sia a Chiavari che a Sestri. Questa sua silloge poetica, introdotta da una magistrale, aderente Prefazione di Alessandro Fo, dà chiari segni di originalità anche se il linguaggio, terso e classico, non si discosta violentemente dalla migliore tradizione della letteratura italiana. La novità assoluta consiste nella materia trattata, Le figure della mente, quelle entità astratte che esistono, appunto, nella mente, e che prendono corpo, di volta in volta, negli oggetti della realtà effettuale e sensibile.


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Si pensi ai titoli delle prime undici composizioni della silloge poetica , quelle della Sezione “Figure della mente”: Sezioni, Sinusoide, Ellissi, Parabola, Tangente, Triangolo, Cubo, Sfera, Coni, Cilindro, Piramide. A queste seguono appositi “commenti” di Andrea Stagnaro, matematico, che appaiono talmente in armonia e sintonia con le rispettive figure da far sì che lo stesso Autore raccomandi ai lettori (a pag. 13) di leggerli di concerto con le proprie poesie. Tanto che, ad un certo punto, i “versi” e i “commenti” sono talmente precisi e cristallini che si può far fatica a discernere la voce del matematico da quella del poeta. Ennesima dimostrazione, dovuta stavolta a Francesco Dario Rossi e al suo amico Andrea Stagnaro, della vastità del terreno di caccia della Poesia, praticamente senza confini. La Poesia può penetrare dovunque. Ad una sola condizione : che ci sia l'uomo. Che ci siano la sua intelligenza, il suo sentimento. Forse per qualcuno, qui, troviamo più intelligenza che sentimento. Ma le cose non stanno così. Non bisogna confondere sentimento con sentimentalismo, di cui è intrisa e grondante troppa poesia (non solo italiana). Alla Sezione Figure della mente fa seguito la Sezione “Recherche”: otto composizioni cui seguono altrettanti, aderenti commenti : Recherche, Vita nelle acque, Falò, Hybris, Cuori antichi, Preistoria, Saccheggio, Maschere. Chiude il volume la Sezione “Sogni vagabondi”, diciotto poesie con le quali Francesco Dario Rossi dimostra di essere sicuro padrone di un linguaggio classico-moderno in un complesso di tematiche, di ritmi e di misure musicalmente classiche. Forse Sogni vagabondi può offrirci una cifra di comprensione. Ma non è univoca, perché sulla tastiera di Rossi la possibilità di combinazioni di suoni, di colori, di forme e di figure sembra infinita. Luigi De Rosa

ROSA ELISA GIANGOIA LA VITA RESTANTE De Ferrari Editore, 2014 Erano tempi, quelli dei primi anni del Novecento, in cui ad emigrare all'estero erano gli italiani. E tra di loro, molti erano i liguri. Di uno di questi, Salvatore detto Salì, ci racconta la storia Rosa Elisa Giangoia, poetessa e scrittrice, di Genova, nel suo ultimo libro, La vita restante (De Ferrari Editore, Genova 2014, prefazione di Guido Zavanone). Il libro è strutturato in due parti, una prima costituita da un poemetto, Emigrante, di 481 versi, e una seconda, di trenta poesie, ispirate a temi diversi. Qui ci interessa la prima parte. Quella in cui è

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narrata in versi la storia di Salì (Salvatore), un giovanotto biondo, sui vent'anni, forte e coraggioso, innamorato di Cinna. Vistosi negare dai genitori di Cinna la mano della figlia perché...non abbastanza abbiente, Salì s'imbarca a Genova sul piroscafo “Equità” per andare a New-York a farsi una posizione economica tranquilla per poter mettere su famiglia. Si imbarca come scritturale “per tenere il registro dei viaggiatori, per lo più analfabeti e aiutarli nelle pratiche di sbarco” come mi ha spiegato l'Autrice, personalmente interessata alla vicenda di Salì che sarebbe un giorno diventato il suo suocero, avendo lei sposato suo figlio Mino. Salì compie il viaggio insieme ad una folla di altri emigranti, tra i disagi morali e materiali, le fatiche e i sacrifici di una traversata dell'Atlantico nelle condizioni di quelle navi per emigranti. Salì sbarca ad Ellis Island il 13 aprile del 1903. Si mantiene lavorando in porto, ma la sera frequenta la scuola per conseguire la patente, poiché intende lavorare come taxista. E svolge questo lavoro per più di vent'anni, superando ogni ostacolo e difficoltà. Le scomodità materiali, specie per il dormire e il lavorare, le umiliazioni e i sacrifici, tutto sopporta, e sempre comportandosi con estrema onestà e dirittura morale, pur vedendo che intorno a lui la caccia al denaro, spasmodica, è condotta con tutti i mezzi. A New-York dominano i furbi, i violenti, i gangster. Il mondo del malaffare è ammorbante. La città è gelida, in tutti i sensi. Nonostante le luci del progresso tecnologico sfrenato, con nuovi prodotti e invenzioni che si susseguono, la città, per chi tenta di viverci e di guadagnare onestamente per risparmiare un peculio, è buia. E' buia ed è anche sorda e muta nei riguardi delle anime dei singoli individui, nonostante le musiche chiassose e gli schiamazzi imperanti. Per la massa, e non solo per i neri, più che l'”integrazione” c'è la ghettizzazione di fatto. Dopo anni di sofferti e sudati risparmi, raggiunta una certa agiatezza economica, Salì si accorge che non ce la fa proprio più a fare quella vita a New-York. E comincia a desiderare, in modo sempre crescente, di tornare nel suo mondo, di tornarsene a Genova. Cosa che fa, convinto nel suo cuore che sia l'unica cosa da farsi. Il poemetto si conclude con otto versi che compendiano perfettamente il suo stato d'animo: “Capì che era partito solo per tornare, che aveva dovuto perdersi nell'ignoto per potersi un giorno ritrovare, ma che ci sarebbe voluta tutta la vita restante per fare un rapporto dettagliato che desse senso e valore


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a quanto aveva vissuto nella pienezza dell'altra parte del mondo.” Considerato adesso un buon partito, gli daranno in sposa, stavolta, addirittura la figlia della sua Cinna, che ha 23 anni (lui ne ha 46). Ma nel frattempo, in quei 26 anni, tutto è cambiato anche in Italia. Anche Genova non è più quella del 1903. C'è il fascismo, la gente ragiona in altro modo e vive in altro modo ancora. E' stata una forte emozione per Rosa Elisa Giangoia, poetessa e scrittrice che vive a Genova , il ritrovare qualche anno fa, visitando il “Museo dell'Immigrazione” ad Ellis Island, la scheda attestante l'arrivo nel 1903 di suo suocero Salì. Prima aveva solo sentito parlare di lui da sua suocera e da suo marito. Più di cento anni dopo ne ha visto anche la scheda, muta ma eloquente. Luigi De Rosa

FRANCESCO TERRONE IL LINGUAGGIO DELLE STELLE” – THE LANGUAGE OF THE STARS Poesie italiano e inglese, traduzione di Orazio Tanelli - Edizione Il Ponte Italo-Americano Verona, New Jersy - USA 2013. L’Autore Francesco Terrone, ci fa sentire veramente tra le stelle, con i suoi versi così belli, delicati, appassionati, semplici, dolcissimi, splendenti di luce propria, e le stelle le vediamo tra le pagine di questo meraviglioso libro, che ci dà sensazioni ed emozioni da farci sentire colmi di luce. Il nostro Autore, ama la natura, ama l’arte, ama ogni pulviscolo del creato, ama la sua famiglia, la sua donna, ma soprattutto il ricordo del suo caro papà che l’ha lasciato ragazzino, ed è cresciuto col suo ricordo rimasto inciso nel suo cuore. “Con forza imbavagliavo il mio dolore/ a denti stretti scambiavo sorrisi/ con chi mi stringeva la mano/ e mi augurava grande futuro.../ dov’eri tu padre,/ che mi avevi lasciato in verde età,/ per andare nel mondo,/ al di là del mondo? – Dalla poesia “Il volto di mio padre”. (Quarta di copertina). “IL LINGUAGGIO DELLE STELLE” un libro da leggere con il cuore in mano, colmo di poesie intrise d’amore, che regalano amore, proprio come se fossero le stelle a parlare, plasmandole con il loro splendore e darci la sensazione di farci sentire nel loro luminoso abbraccio. Poesie in italiano tradotte in inglese dal caro amico Prof. Orazio Tanelli - Ph.D. Verona, New Jersy – USA, Presidente e Fondatore del Il Ponte Italo Ameri-

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cano. Il Poeta Francesco Terrone, ha conseguito la Laurea in Ingegneria Meccanica all’Università “Federico II” di Napoli. È fondatore e presidente della Fondazione “Francesco Terrone” Salerno. Fondatore della società d’ingegneria “SIDELMED S.P.A.” Giornalista pubblicista, iscritto all’ ordine del “Nuovo Parnaso dell’ingegno della Poesia”. Villa Flora, Fisciano (SA). Fondatore di tante Accademie, Istituzioni, Premi Letterari e di tantissime attività di grande successo. Per ragioni di spazio non possiamo nominarle tutte. Ha pubblicato tanti libri di poesie. Ha ricevuto una marea di Primi Premi e Onorificenze, partecipando a concorsi letterari di grande rilievo. Impossibile scrivere tutta la grandiosità della sua vita dedicata tutta alla poesia, alla letteratura e all’arte in generale. È un Poeta molto sensibile, la sua anima è frizzante, straripa di puri sentimenti, le sue poesie sono grappoli di stelle, che creano un’atmosfera brillante ai suoi lettori. L’Ingegnere Poeta Francesco Terrone, ha collezionate pure tantissimi giudizi critici da grandi letterati, come Carmine Manzi, Francesco D’ Episcopo, Aldo Forbice, Alberto Granese, Ritamaria Bucciarelli, Corrado Calabrò, Aldo G. Jatosti, Paola Gatto, Orazio Tanelli, e tanti altri. “Sul nostro volto” – La verità/ di ognuno/ di noi/ è scritta/ sul nostro volto/ la verità dell’amore/ è scritta/ nella nostra anima... Pagg. 91. Ogni sua lirica è un Linguaggio delle Stelle, polvere di stelle che entra nella nostra mente e la fa vibrare d’infinito abbaglio, ci regala la voglia di rileggere ancora e ancora per sentirci paghi di pace, serenità, bontà e di tanto amore, di cui è pieno il cuore del nostro Autore. L’amore/ una sirena senza volto,/ senza corpo,/ vento che sibila/ il nostro tempo/ e risucchia in un vortice/ celeste ed infinito/ il mistero della vita/ il soffio.../ che diventa fuoco ardente/ ed eterno,/ la pazzia dell’amore... “È sirena” pagg. 151. Versi stupendi, che riempiono il cuore di un effluvio struggente, ricamate di un olezzo magico, frastagliato di fili d’oro, nell’abbraccio del mormorio delle stelle e il loro linguaggio supremo donato da Dio. Avere il libro del Poeta Francesco Terrone in Australia, è un tesoro inestimabile, che leggeranno tutti i nostri poeti e scrittori dell’A.L.I.A.S. con tanta ansia, immenso piacere e un infinito applauso Giovanna Li Volti Guzzardi Melbourne - Australia


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TITO CAUCHI PALCOSCENICO Editrice Totem, 2014 Ora, Tito Cauchi ci presenta la raccolta di poesie “Palcoscenico”(Editrice Totem, 2014, pagg.66, € 10,00). Nella foto di copertina, una mano sta aprendo il sipario rosso, e proprio in questo libro, il Poeta apre se stesso – anche se a volte si cela con una maschera – presentandoci una grande varietà di problemi attuali, di ricordi, di episodi, di esperienze e fatti esistenziali ed affettivi, naturalmente a volte lieti, altre volte tristi o di indifferenza, con un enunciato ora palese, ora allusivo. In questa folta carrellata, egli ci parla della sua dolce infanzia; della reciproca commozione alle nozze della sorella; di belle ragazze conosciute che, dopo “folli attimi” spariscono nel nulla; dell’ equivoco di aver creduto di conoscere la graziosa fanciulla che camminava davanti a lui; inoltre, parla di quell’altra ragazza “dono vivente” che sulla spiaggia sembra prendere beatamente (ecco la maschera!) il sole, mentre il suo cuore piange la dipartita del padre. Nell’alternanza di luci e ombre, egli dice: “Mi fingo un dolore/ per celare quello intero,/ applaudono, ma nessuno sa/ che è tutto vero.”. A volte, invece: “Te lo dico:-Ti voglio bene-; piano/ piano. Troppa gioia esploderebbe./ Morire di gioia è un gran dono/ ma io voglio ripetere -ti voglio bene - ”. E si pone alcune considerazioni: - non si fa in tempo a gioire che subito viene il pianto; sono solo, ma non voglio carezze; voglio bastare a me stesso -. Ancora: - nessuno mi ama e sto nella completa solitudine. Lascio che scoppino guerre, indigenze, fame, inquinamento. Nessuno ama; in tutti c’è completa indifferenza-. Ed anche: – Parlo di guerra e sangue, di fatiche e sudori, di lacrime amare, di povertà. Non riesco a scrivere una storia d’amore -. Finalmente, però, egli si riprende:- nell’onda vorticosa ti senti morire, ma ti sforzi di salvarti -. Ed ecco una preghiera: “La mia chiesa sta qui, Signore,/ fra le pareti…” nel candido sorriso di un bimbo, nel giardino fiorito, nel pianto di un malato, nelle bombe della guerra, nel mio cuore che a te mi conduce -. Cauchi è per la verità e per l’amore universale. Tutti i Poeti come lui vivono l’armonia della natura, ma sono lacerati dalle sofferenze del mondo; e, per “vedere oltre”, sognano. Delle ultime tre poesie – tradotte in inglese, greco e russo – mi piace segnalarne almeno due: - “Vorrei un po’ di sole/ un po’ d’amore/ un po’ di

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te/ prima di morire.” - <Desiderio di vivere>: “Un lungo discorso/ poche parole/ solo una/ VIVERE.” (Molte poesie hanno versi e rime; altre sono libere; c’è pure qualche acrostico.) (Di alcune liriche ho ripreso il significato primo, senza riportarne il testo originale: mi scuso.) Qui cala il sipario, dopo un lungo, importante, emozionante e variegato spettacolo. Applausi! Maria Antonietta Mòsele

LEONARDO SELVAGGI FRANCESCO LOMONACO Prospettiva Editrice E’ di Leonardo Selvaggi la monografia “Francesco Lomonaco” – scrittore e patriota lucano amico del Foscolo - (Prospettiva Editrice, pagg. 46). Con grande fervore e passione, l’Autore scrive la biografia di questo suo conterraneo (nato a Montalbano Jonico nel 1772 e laureato in Giurisprudenza e Medicina). Lomonaco, tutto preso da ardore e amor di Patria, aveva partecipato alla Rivoluzione del regno di Napoli per liberare il Sud – ma purtroppo inutilmente! - dal dispotismo dei Borboni. Arrestato, ma riuscendo a scampare al supplizio, era fuggito esule prima a Marsiglia, quindi a Parigi e a Ginevra e poi a Milano. Da vero precursore del Mazzini, in quanto aspirava all’Unità di un’Italia democratica, aveva subito scritto all’allora Ministro della Guerra spiegando le cause del fallimento di quella Rivoluzione. Le sue opere sono molteplici: biografie di personaggi illustri (“Vite di eccellenti italiani” e “Vite di famosi capitani d’Italia”) che suscitano amor patrio e forte desiderio di liberare il Sud dalle condizioni di schiavitù e di miseria; opere di giurisprudenza, come “Analisi della sensibilità”, in cui non vuole troppa severità nelle punizioni dei reati; opere di politica e di metafisica, fra cui “Discorsi letterari e filosofici” (opera sequestrata dal Governo) e il “Trattato della virtù militare” che illustrano le sue idee di Unità d’Italia, di libertà, di democrazia, di cooperazione e di moralità. Durante la Rivoluzione francese, traduce e diffonde il “Contratto sociale” di Rousseau proprio per le condivise idee di sovranità del popolo, e non del re. Amico del Foscolo - in quanto entrambi esuli, letterati, animati da slanci patriottici – lo informa delle drammatiche condizioni del Sud, della necessità della sua resurrezione e di Unità. Inaspettatamente, però, il I° settembre 1810, Lomonaco muore suicida, gettandosi nelle acque del Naviglio presso Pavia, a soli trentotto anni: morte violenta che egli aveva sempre condannato, una di-


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fesa estrema dei suoi princìpi di libertà e di giustizia politica. Le cause quasi sicuramente sono da ritrovarsi nel profondo dolore per la mancata realizzazione dell’Unità d’Italia (dovuta a Napoleone) e probabilmente anche per una delusione d’amore. In queste pagine fitte di notizie, riflessioni e considerazioni, Selvaggi si immedesima molto nell’ animo e nello spirito di Lomonaco, e si dispiace che ancor oggi, nonostante l’Italia si sia unita dopo il Risorgimento, quell’Unità fra Nord e Sud ancora non c’è, anzi si diffondono sempre più differenze sociali, violenze, scandali, sperperi, corruzione, mafia, delinquenza. Nel 1915 è stato dedicato a Lomonaco un busto marmoreo - raffigurato nella copertina di questo libro – che si trova al Pincio. Ma l’Autore si augura che questo eroe, così meritevole e geniale, venga ricordato in più luoghi con intitolazione di strade, targhe commemorative ed iniziative varie. Maria Antonietta Mòsele

AURORA DE LUCA CELLULOSA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2014 Il numero di Novembre 2014 de “Il Croco” ci presenta “Cellulosa”, una silloge poetica di Aurora De Luca. Sono liriche di non facile lettura, date la singolarità, l’arditezza e l’originalità del tutto impreviste dei simboli, dei confronti e delle metafore presenti. Terra> materia grezza> alberi> carta: la Natura trasforma tutto in ciclo continuo – forse è questa la vera immortalità! – per il progresso umano e per accogliere le parole dei poeti che germinano luce. La Poetessa identifica l’inchiostro col proprio sangue che circola, la penna col prolungamento delle sue dita, la carta con la sua pelle viva, la casa con i propri affetti. Mi piace la Presentazione che Defelice ci fa. E mi piace molto la prima poesia, perché gioiosa: <La fioritura>: “Oltre le parole di carta pesta/ ci sono campi di soffioni intatti/ pieni di fiato e di vento, pronti/ a spargere cappelli volanti di semi di idee,/ e metteranno radici e metteranno colore/ e nel silenzio resteranno tali,/ idee che sono, per ogni tempo,/ la primizia e la fioritura.” Per l’Autrice, la poesia è un mare di idee sofferte e vinte; è un filo di crine che cuce tessuti. Essa può esprimere tutto: vita e morte, dolore e amore, nero e luce, gioia e rabbia, “amore sinfonico e indicibile,/ all’interno,/ all’interno di questa carne nuda,/ esposta tutta e tutta irrisolta.” La vita è imprevedibile; “E’ una chiave sperimentale./ E così l’incontro con una parola/ è la rovina

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totale e incontenibile,/ ma l’incontro con quella giusta/ è il mazzo con tutte le chiavi del mondo.” E si sente un pittore che sparge polvere colorata per evitare il dolore. Troppo spesso la Poetessa si accorge che la vita le sfugge di mano, che è già passata, che è come un “fiore sbocciato e presto marcito”, un “frutto sfatto”, nonostante ella si sia impegnata ed abbia faticato tutta la vita, proprio incurante del tempo che passava. Ma poi si riprende, ha una rinascita: “Lenta gemma, sofferto pane è la pianta./ Una terra di dighe e sentieri sotto la corteccia di crosta./ Tenue tepore è la primavera,/ una stella orientale che fa da traino/ nell’invernale steppa ventosa./ La pianta però non si ammala del gelo canuto/ e tira fuori da sé/ la sua alba.” Ed ancora: “eppure qualcosa ci erige,/ qualcosa si fa pietra buona/ nelle nostre mani.” (= la poesia). Ci confida di avere carne umana, “d’anima che ribolle”, e un forte desiderio di essere amata intimamente. E chiede sommessamente al suo <lui> di sostenerla, per non sentirsi cadere a terra. Maria Antonietta Mòsele

ALDO CERVO ANTONIA IZZI RUFO TRA SOGGETTIVISMO LIRICO E NEOREALISMO Edf. EVA, 2014 L’opera di Aldo Cervo “Atonia Izzi Rufo tra soggettivismo lirico e neorealismo” (Edizioni Eva, 2014, pagg. 32, € 9,00) costituisce un profilo critico-biografico di questa scrittrice molisana, affermata professionista ed insegnante, nonché sposa innamorata e madre premurosa; oggi, però, dimezzata nell’anima per la perdita del marito. L’Autore qui tratta i moltissimi scritti di lei: di saggistica, di narrativa e, soprattutto, di poesia. Quanto a saggistica, nelle centinaia di recensioni per importanti Riviste letterarie su Autori attuali e sui Grandi del passato, ella dimostra il suo grande talento nell’esplicare e nel ricercare le chiavi di lettura dei testi esaminati. Inoltre, ha scritto sulla figura e sulle opere di Enrico Marco Cipollini e sullo stesso Aldo Cervo. La scrittrice si è dedicata anche alla Storia, specialmente dei paesi da lei vissuti, Castelnuovo a Volturno e Scapoli (capitale mondiale della zampogna) dei quali parla delle origini, delle vicende via via avvenute e delle tradizioni. Nelle decine di opere di narrativa della scrittrice – racconti e romanzi anche autobiografici - Aldo Cervo rileva la sua grande sensibilità, unita alla de-


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scrizione delle esperienze vissute soprattutto durante la guerra e la successiva ricostruzione. Ma dove risalta ancor più il suo “soggettivismo lirico universale” è nella poesia, in cui ella riversa tutto il suo amore per la natura, per gli affetti, per la vita, prima così a lungo gioiosa e gratificante, attualmente, invece, provata. Naturalmente, le piace parlare del suo paese di nascita, Castelnuovo, “perla” dell’aspro Molise. Sempre circa la sua poesia, Cervo denota la struttura contratta, ma di forte condensa significante, oltre alla modernità e contemporaneità dello stile. E qui egli riporta una decina di liriche tratte da differenti opere. Ne trascrivo una: “Dove siete, mie illusioni?/ Vago nel grigio/ e sprofondo nel vuoto/ senza di voi./ Riportatemi nell’azzurro/ ridatemi la speranza/ fatemi sorridere, di nuovo.” (da <Voli nei sogni>). Aldo Cervo ci dice di aver conosciuto il pittore francese Charles Moulin (a cui la Izzi Rufo ha dedicato una biografia) che, ammaliato dalla bellezza del luogo, aveva scelto di vivere, quasi da eremita, fra quelle montagne. Pittore estroso, quasi mistico, prolifico di opere e generoso, schivo del denaro, schietto con la gente, soprannominato l’”orso delle Mainarde”, non si era sposato “perché – diceva l’arte realizza pienamente l’uomo”, e sua famiglia era la gente amorevole di Castelnuovo. Le sue numerose opere vennero trafugate nel ’43 da militari francesi. (Morì nel 1960.) L’Autore, dopo l’enunciazione degli scritti della Izzi Rufo, ci dice di averli recensiti quasi tutti. Maria Antonietta Mòsele

DOMENICO DEFELICE MARIA GRAZIA LENISA IL CROCO - I quaderni letterari di PomeziaNotizie – Gennaio 2015 Maria Grazia Lenisa è stata una delle voci più conosciute e valide della vita poetica. Ci ha lasciato molteplici raccolte di versi, pubblicate con importanti editori e prefate da nomi di primo livello, come Bárberi Squarotti, Maffia, ecc. Con il volume a lei dedicato, Domenico Defelice rinnova il suo talento di saggista. Ci dona infatti una nuova, approfondita testimonianza critica che denota pure il rapporto di amicizia che li univa, suggellato da una corrispondenza comprendente “centinaia e centinaia di preziose lettere”. In volume ne riporta due esempi per darci modo di comprendere al meglio il tono cordiale, solare e ironico della Lenisa; troviamo anche una sua poesia postuma, che provoca i brividi per la forza ironica con la quale tratta il can-

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cro che l’ha devastata. Defelice considera alcuni tra i più importanti lavori della poetessa e per ognuno di questi svolge una dettagliata analisi per dar modo a chi non avesse letto il libro di rendersi conto sia della tematica sia del valore poetico in esso contenuto. In questo modo, libro dopo libro si delinea sempre di più il carattere della Lenisa, il suo porsi alla scrittura e l’ evolversi continuo della sua vena poetica. Tra i libri considerati troviamo Test (che raccoglie una scelta di liriche dai suoi precedenti volumi); Terra violata e pura, dove il tema principale è il ruolo della donna nelle sue varie sfaccettature; L’ Erotica francese, dove l’erotismo assume una forza rigeneratrice che spazia dai tempi dei miti a quelli dell’infanzia, liberando il tema sessuale da ogni tabu e ipocrisia e che porta a fianco la traduzione in francese del noto Paul Courget. A questo segue l’ Erotica prefata da Giorgio Bárberi Squarotti. L’esame segue con L’ilarità di Apollo, volume nel quale il sesso continua ad essere importante e descritto con toni forti, che s’interseca però con visioni oniriche, viaggi immaginari, dissacrazione di miti; il tutto avvolto da un’atmosfera densa e ironi-


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ca. Nella raccolta L’agguato immortale la voce poetica di Maria Grazia Lenisa cambia registro e s’ intreccia con un dettato in prosa toccando un certo classicismo, per meglio giocare con la sua vena creatrice. Anche qui il sesso ha la sua importanza ma vi è pure una ricerca del divino, fatta con la sua particolare visione (a volte dissacrante); ed è sempre travolgente. In Un pianeta d’amore la fantasia della Lenisa si lascia andare sino ad inventare un nuovo mondo nel quale l’impossibile lascia il posto al “tutto possibile”, cosicché può fondersi con i suoi amati e rinomati amici poeti, in un clima idilliaco. Un’opera questa molto complessa che abbraccia una pluralità di temi esistenziali. Defelice continua l’interessante saggio valutando Incendio e fuga, un libro importante e ricco di argomenti filosofici dove il dettato poetico si fa sempre più difficile e impegna notevolmente la lettura. Per questo, amplia notevolmente la sua indagine e approfondisce l’intento della poetessa per farlo comprendere al meglio anche al lettore. Segue L’ acquario ardente, nel quale si consolida il cambiamento della poesia Lenisiana, con trasformazioni semantiche e allontanamento dal reale, pur trattando temi a lei sempre cari, come i personaggi mitologici, gli amati grandi poeti, ecc., ma cercando sempre di più di entrare nel mistero della vita. In Amorose strategie (ultima opera), Defelice rileva una poetica sfaccettata e aperta a diverse interpretazioni. D’altronde, da sempre Maria Grazia Lenisa ha giocato con l’ironia, l’ambiguità, la pluralità e l’intreccio delle tematiche. E questo suo “essere” è stato la forza che l’ha accompagnata sino alla fine, facendola lottare contro la “bestia” che a poco a poco la divorava e dandole l’ispirazione necessaria a scrivere sino agli ultimi giorni. Nella seconda parte dell’analisi, Domenico Defelice tratta i saggi scritti dalla Lenisa. Infatti, oltre alla poesia ci ha lasciato diversi testi critici relativi a personaggi importanti della vita letteraria. Tra questi, lo studio su Bárberi Squarotti, Antonio Coppola, Andrea Zanzotto, Corrado Calabrò e Giovanni Ruggiero (poco conosciuto ai più ma che per merito suo assume un posto rilevante). Anche per tali lavori, Defelice evidenzia la capacità critica della Lenisa di penetrare l’animo di ogni autore, senza nessun condizionamento, e di riuscire a far emergere (con coraggio) ogni dettaglio dei testi analizzati. Per concludere, rendiamo merito a Domenico Defelice per averci donato un prezioso documento che fissa nella storia la personalità e l’operato di un ulteriore nome prestigioso della nostra vita letteraria e, senza dubbio, Maria Grazia Lenisa non deve essere dimenticata. Laura Pierdicchi

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GIAMPAOLO PANSA EIA EIA ALALÀ Rizzoli edizioni, 2014, 365 pagg., € 19,90 Gli uomini intelligenti arrivano tutti alle stesse conclusioni. E Giampaolo Pansa, purtroppo per lui!, è una persona intelligente e perciò NON raccomandabile, in questo Paese di comunisti, incapaci e raccomandati! In effetti, questo suo ultimo testo (un libro di Storia e di Verità, come tutti quelli che l’hanno preceduto) è presentato come un semplice romanzo storico. Narrando la vita di Edoardo Magni (classe 1890) e seguendone le vicende politiche ed amorose, Pansa mette a nudo fatti ignorati nei libri di Storia ufficiale, oppure narrati a volo d’uccello, come fossero chiacchiere di bambini, roba senza importanza. Seguendo Edoardo Magni, che si è distinto, col grado di Tenente (Ufficiale di Complemento, III Compagnia), il lettore assiste alla nascita del Partito Nazionale Fascista, fondato da un ex socialista (Lo sapevate? Il Puzzone per antonomasia era un socialista, in origine!) per frenare (e poi annientare) le Lumache Rosse provenienti dal Nord, agli ordini di Lenin (un Pirandello più temibile ed odioso del celebre verista). Tranne Magni e le sue amanti temporanee (Rosa, Anna la giornalista, Elvira e pochi altri), tutti i nomi citati qua dentro sono indiscutibilmente storici. Leggendo questo testo, agile ed accattivante, il lettore (un lettore di razza pari mio, non un alcolizzato che si limita al Corriere dello Sport e all’Isola dei famosi!) potrà notare che, in fondo, non c’era tutta questa differenza fra i Neri ed i Rossi: gli uni e gli altri sono truppe di pecore codarde, pronte a colpire alle spalle (e SOLO alle spalle) e poi a scappare, complice l’assenza assoluta dello Stato e l’ indifferenza totale dei cosiddetti cittadini comuni (che, spesso e volentieri, furono testimoni muti e passivi di aggressioni personali, molto violente, come a Forni, alla stazione ferroviaria). Perché sono in realtà davvero QUESTE le cose che saltano agli occhi, in prima linea: l’eguaglianza dei metodi vili e violenti da parte dei Rossi e dei Neri e l’indifferenza delle cosiddette Forze dell’ Ordine e della gente, che sta lì ma è sorda, cieca e muta. Perché dare addosso alla Cupola (in questo caso, termine generico per qualificare le forze ATTIVE dello Stato: camorra, ‘ndrangheta, Sacra Corona Unita, mafia) per i suoi metodi violenti ed eversivi quando chi ci ha governato ieri e chi ci governa oggi usa gli stessi mezzi per ottenere rispetto e sottomissione?


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Il terzo aspetto interessante di questo testo è che una ideologia di partito non è diversa da una fede religiosa: non sono ammessi Figlioli Prodighi (cioè dissidenti, cioè gente che pensa col proprio cervello). I soli figli ammessi sono gli Isacco, che si lasciano sgozzare sull’altare dal padre padrone senza protestare. Ma, alla fine di tutti i conti, la maggioranza assoluta è tiepida, come fede, anche se potrebbe essere convinta che sì il Capo ha sempre ragione. Poi ci sono i fanatici (di solito, il 2% della massa) disposti ad ogni crimine pur di dimostrare che solo la loro fede è quella giusta, la sola che porterà alla luce ed alla salvezza! Note a margine: per i benpensanti, non mancano piaceri di tipo sessuale, con tutti gli incontri ravvicinati del protagonista con le sue donne e, soprattutto!, col Barone Vitta (davvero esistito) che, dopo essere stato un Casanova per tutta la Vita… a sessant’anni si scoprì Messalina e seguitò a far sesso… nella parte della donna! In questo testo, i Savoia brillano per la loro assenza (ingiustificata) e per la loro brama di denaro (i racconti sui ghetti degli ebrei sono davvero rivelatori)! Un libro scritto molto bene e, soprattutto, chiarissimo nell’esposizione, univoco e non noioso. Un libro che NON finirà certo sui banchi di scuola, appunto perché è di valore. E questo è un motivo in più per comprarlo e dare alle nuove generazioni la libertà di scegliere se vivere secondo Verità o agli ordini di Falso, Re dei Bugiardi. Andrea Pugiotto

C. DE MATTIA RACCONTI DI ANIMALI Editrice Boschi, 1954, 125 pagg. Giudy, zingarella per caso (è stata presa, orfana maltratta tata, da un ricca fattoria da una tribù di zingari di passaggio) , avverte Giacomo, medico veterinario e pagliaccio in un circo, di cui è comproprietario, dell’agguato tesogli da Yanko e Niko, i nipoti della vecchia Sara, per vendicarsi d’un castigo meritato, ricevuto il giorno avanti. Questo avviso tempestivo e poi l’aiuto prestatogli sempre da Giudy per evitare una truffa equestre da parte di Sara, inducono Giacomo a prendersi cura della piccola Giudy e ad adottarla ufficialmente, a onta dell’affetto abbastanza sincero che nutre per lei Sara e del biasimo di Yanko e Niko che la considerano una traditrice della legge degli zingari, che non ammette onestà verso i non zingari.

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A parte ciò, l’orfanella è ben accolta dai membri del circo, che staziona presso Bologna, ed ascolta numerose storie, sulle bestie più varie, dal pagliaccio Giacomo, tra uno spettacolo e l’altro, per consolarla di una cecità temporanea dovuta ad un agguato di Niko, che aveva colpito la piccola sulla nuca, mettendo in forse il nervo ottico. Ma la cosa non finirà qui certamente… C. De Mattia vide pubblicati vari suoi titoli dall’ Editrice Boschi, negli anni Cinquanta e Sessanta, ed anche questo testo va cercato su E bay. A parte ciò, il linguaggio è semplice e lo stile accattivante. Forse un po’ ingenuo, per i giovani mostri odierni, allevati a play station e cartoni in 3 D, ma certamente potrà ancora insegnare bontà, generosità e saggezza a chi vorrà leggerlo e queste qualità positive non sono legate ad epoche storiche particolari. E oggi, soprattutto oggi!, ce n’è davvero bisogno! Andrea Pugiotto

DOMENICO DEFELICE MARIA GRAZIA LENISA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 Questo 2015 comincia con un numero davvero speciale de Il Croco: una modesta (ma solo per numero di pagine) monografia di Domenico Defelice sulla vita e le opere di Maria Grazia Lenisa, ma che ci ha lasciati nel 2009, distrutta da un male gravissimo contro il quale si è battuta fino all’ultimo. La signora Lenisa, Poetessa e saggista, lascia un vuoto difficilmente sostituibile, data la bravura, la grazia, l’accuratezza dei suoi lavori. Bravura e grazia messi in evidenza, col suo stile impeccabile e molto preciso, dall’ottimo Defelice che ha saputo delineare un ritratto a tutto tondo di una donna che ha saputo dare moltissimo, senza mai essere scontata e, soprattutto, essendo meravigliosamente spontanea senza mai cadere nel volgare gratuito, come può capitare a tanti (magari, per ragioni commerciali). Le poesie citate nella prima parte, durante la quale è riesaminata con occhio critico ma non privo di affetto l’ars poetica della Lenisa, non necessitano certo di commenti. Le prefazioni delle sillogi, giustamente citate ad inizio discorso da Defelice, sono garanzia più che bastevole sulla qualità altissima dei carmi della gentile Autrice e non c’è bisogno di aggiungere virgola. Quanto alla seconda parte, non meno ricca di dettagli e precisa nell’esposizione (lo stile di Defelice è noto ed apprezzato da tutti), mostra, una volta di più, il gusto del particolare e la puntigliosa serietà


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della Lenisa, quale Saggista, nel fare il profilo letterario degli artisti da lei trattati. Come giustamente osserva Defelice, “Uno dei tanti difetti della critica, infatti, è quello di studiare l’ opera a brani (…) col risultato di trascurare molti aspetti (non ultimo, l’estetica) o – diciamo noi – di ghettizzare gli autori in schemi e clichés, dai quali sarà poi difficile sfuggire. (…)si veda Leopardi, cristallizzato nello stereotipo dell’ateo e dell’adoratore del Nulla, lasciando in ombra la gioia, la passione, l’amore alla vita, la levatura morale”. Il brano sarebbe anche più lungo, in verità, ma questo piccolo stralcio mi pare che basti a dimostrare che Defelice non è uno che legge a volo d’ uccello (e magari distrattamente) l’opera da esaminare e che questa sua considerazione valga oro, considerando i tempi odierni. E’ pesata e ponderata e ciò valorizza giustamente vuoi l’ opera della Lenisa, che non era affatto un’autrice improvvisata ma, anzi, una donna di grande valore, vuoi lo stesso Defelice che, come curatore e saggista, non è certo uno sciocco e, anzi, dimostra cultura ed attenzione. Un “coccodrillo” (per usare un termine giornalistico) più che dovuto ad un’Autrice di grande talento e di grandissimo valore ed un’ulteriore prova della professionalità di Defelice stesso come critico e recensore. Da leggere con attenzione e senza fretta, per gustarlo sin negli angoli più riposti. Andrea Pugiotto

TITO CAUCHI CONCHIGLIA DI MARE Pomezia Notizie edizioni, 2001, 81 pagg. La silloge poetica che presento stavolta è la seconda pubblicata da Tito Cauchi, dopo Prime emozioni (l’Autore mi ha fatto l’onore di mandarmene copia e di ciò lo ringrazio molto). Profondamente diversa dalla precedente, questa silloge è più pensosa e melanconica, con una tristezza profonda diffusa in ogni composizione. Il ragazzo è cresciuto e, ora, in questa raccolta, sembra più vicino ad un Leopardi riflessivo che al garzoncello scherzoso (per citare una celebre memoria scolastica) delle Prime emozioni, così impudenti e scanzonate. Prime emozioni, come dice la quarta di copertina, hanno ottenuto consensi fra i più vari e prestigiosi (Pasquale Montalto, Bruna Sbisbà, Orazio Tanelli, Leonardo Selvaggi… solo per citare alcuni dei soliti ignoti (per quanto sono celebri ed apprezzati!) Autori, di cui io stesso, a suo tempo,

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ebbi agio e piacere di leggere e recensire qualche opera) e Conchiglie di Mare conferma la buonissima impressione data con la prima silloge. Un’antologia poetica, questa, che dà di riflettere sin dal titolo. Conchiglie di mare. Generalmente, le conchiglie sono fossili che si trovano appunto sulla battigia, in riva al mare, oppure sono gusci che celano molluschi commestibili per noi umani (telline, vongole, cozze) e pertanto precisare che sono di mare è proprio inutile ed insensato. Cioè, lo sarebbe se questa non fosse una silloge poetica. I Poeti, è risaputo, sono gli ellittici figli della Luna. Trovatemi un poeta ragionevole ed io vi mostrerò il ragionier Fantozzi in persona! E allora che significa questo titolo così curioso? Le conchiglie possono anche essere considerate dei semplici oggetti, parte integrante dell’ arredamento. Sulla mensola sotto lo specchio, una conchiglia raccolta a Portofino invece d’una mini torre Eiffel proveniente da Parigi. E difatti, la silloge comincia con una serie di oggetti: Culla d’ottone; Travi in soffitta, che suggeriscono all’Autore riflessioni sul Passato, sul Presente e sulla Vita stessa. Lungo il cammino, troviamo altri oggetti Lapidi loquaci; Lapide senza epigrafe, che parlano, a noi e a Cauchi, con le lingue più diverse, mettendo a nudo dettagli che non sospettavamo neppure che esistessero. E il Mare, cui il titolo accenna? Il Mare è immenso e salato. Da esso nacquero i pesci “dai quali discendiamo tutti” (Dalla), dà vita e dà morte, sa essere generoso come nessun altro, ma sa anche negare con la forza del Demone dell’ Avarizia ed allora non ne ricavi neppure un’alga marcia! Dal punto di vista letterario, il Mare può essere l’ emblema stesso dell’animo umano, i cui abissi, oscuri ed insondabili, celano misteri che forse non osiamo scoprire. L’Autore dunque esplora il Mare, vuoi in senso fisico (onda gigante) vuoi come metafora (L’ ultimo soffio di vita), anche quando il testo pare non parli affatto del Mare ma sia imperniato soprattutto di Dolore e Tristezza. Il Mare (fisico, ma anche spirituale) ha una varietà di colori da far concorrenza all’arcobaleno. Non è facile conoscerne le sfumature. Occorre coraggio. Chi avrà il coraggio di ammirare, anche solo da lontano, le Conchiglie di mare di Cauchi? Una sfida difficile ed una lettura anche più impegnativa. Ma ne vale davvero la pena! Andrea Pugiotto


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DOMENICO DEFELICE MARIA GRAZIA LENISA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 Nel recente Quaderno Letterario di “PomeziaNotizie” (Il Croco 2015, pp. 32), Defelice ci offre una magistrale monografia sulla produzione poetica e letteraria di Maria Grazia Lenisa (1935 - 2009), che è stata direttrice di una collana di Poesia dell’ Editrice Bastogi. Nella sua decennale collaborazione al Ponte Italo-Americano, la Lenisa ci ha fatto pervenire molti suoi libri di poesia di cui Defelice fa un’accurata analisi estetica. La stessa cosa fa delle sue lettere e dei suoi saggi nei quali la Lenisa discute Giorgio Bárberi Squarotti, Antonio Coppola, Giovanni Ruggiero, Andrea Zanzotto e Corrado Calabrò che noi abbiamo conosciuto all’ Università Statale di Ramapo in occasione di una sua conferenza. Prescindendo dai canoni che regolano una vera e propria recensione, qui ci piace sottolineare alcune affermazioni di Defelice che puntualizzano la poetica e l’ideologia di Maria Grazia Lenisa: - È evidente una gran dose di narcisismo nella poetessa che non esita a detronizzare la divinità. Lenisa è poetessa ironica: la morte riconduce la creatura alla sua fonte. - La sua opera filosofica è difficile, lambiccata, aggrovigliata da richiami culturali continui... Or-

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mai c’ è poca differenza tra certa poesia e la prosa: ogni poeta ha il suo stile più o meno sofisticato. - Il poeta che noi intendiamo, oggi è condannato ad essere incompreso. La cultura crebbe dopo Dante, ma crebbe, in parallelo, l’ignoranza. Confessiamo che è ormai da tempo che proviamo sempre più vergogna davanti alle opere “difficili”. - La missione del poeta è di educare la gente, innamorarla alla lettura e alla cultura. - Il poeta moderno vuole stupire, deve stupire ad ogni costo. Oggi non si può più essere fedeli ai poeti perché dell’infanzia il loro spirito e il loro linguaggio non hanno più nulla. - L’uomo continua a misurarsi con Dio: l’uomo è stato sempre, e continua ad esserlo, un superbo e un ingrato. La religione di Lenisa naviga tra misticismo ed eresia. Per chi ha fede salda l’anima non si spegne con il corpo (ma è immortale). Dalla lontana America noi apprezziamo queste asserzioni di Defelice. Noi abbiamo sempre ritenuto che se la poetessa non era veramente atea, era per lo meno agnostica. Ci sono molti che si dichiarano atei durante il giorno, ma poi la notte hanno dubbi e incubi, riflettendo sull’esistenza di Dio, sull’ immortalità dell’anima, sul valore della creazione dell’universo. Ecco la vera ragione per la quale il linguaggio poetico della Lenisa è difficile e sofisticato: esso nasconde sotterfugi ed ambiguità nei riguardi della metafisica e dell’escatologia. Certo: si può essere poeti anche senza la fede in Dio... In tal caso le parole si perdono e si disperdono nell’oblio dell’abisso e della storia. Bravo, caro Domenico, ti ammiro e ti elogio per la tua ideologia che è in perfetta sintonia con la mia! Orazio Tanelli docente Universitario, Verona, New Jersey, USA e Direttore de Il Ponte Italo-Americano

SE UN GIORNO Se un giorno non potessi più vedere, la musica potrei sempre ascoltare: vedrei perciò con gli occhi della mente e ascolterei con l’anima e col cuore. Se nei primi tre quarti della vita suoni e immagini avrò collezionato sarà l’ultimo quarto di mia vita dai miei ricordi ancora illuminato. 26 febbraio 2014 Mariagina Bonciani


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D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE LUTTO - Il 24 febbraio, presso la propria abitazione di Aprilia (Lt), è deceduta la Signora Andreana POLO, vedova Billi. Aveva 93 anni. I funerali si sono svolti mercoledì 25, alle ore 15,30 nella chiesa di San Michele Arcangelo e Santa Maria Goretti, in piazza Roma. Alla famiglia tutta e, in particolare, al figlio don Giuseppe Billi - parroco della Chiesa di San Benedetto Abate di Pomezia -, le condoglianze della Direzione e della Redazione del nostro mensile. *** ANIME OLTRE L’AUTISMO - Mostra personale di poesia e disegno di Emilia Bisesti e Davide Conforti - Nell’ambito delle attività culturali, l’Associazione Coloni Fondatori di Pomezia, con il proprio settore artistico “La Spiga d’Oro”, ha presentato la personale di poesia e disegno “Anime ol-

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tre l’Autismo” di Emilia Bisesti e Davide Conforti. La mostra d’arte “Mamma - Figlio” è stata allestita presso la galleria d’Arte dei Coloni di Piazza Indipendenza, 25 a Pomezia ed è stata inaugurata domenica 1° marzo 2015 alle ore 16,30, col classico taglio del nastro tricolore alla presenza di Pietro Bisesti, Presidente dell’Associazione Coloni, delle coordinatrici della Spiga d’Oro e dei tanti amanti dell’arte e della cultura del territorio. Ha introdotto Emilia Bisesti. Presentatore ufficiale, il direttore del nostro mensile, del quale, qui di seguito, pubblichiamo l’intervento. La mostra è rimasta aperta da 1° al 5 marzo. Ecco quanto ha detto Domenico Defelice: La preparazione di questa mostra è stata un’ autentica scoperta e le scoperte, secondo noi, vanno sempre gridate. Emilia Bisesti non è l’ultima, avendola già letta e pure pubblicata sulle pagine del nostro mensile Pomezia-Notizie. Avere, però, tra le mani, un mannello tutto suo, è altra cosa. La poesia di Emilia Bisesti si caratterizza per un’ intima vena di dolore e pessimismo, inutilmente frenata dal sogno, giacché, i tentativi reiterati per addolcirla e superarla, vengono, ogni volta, vinti dal confronto con una realtà fin troppo cruda. A dominarla, perciò, è, in particolare, il sociale. C’è, in essa, la presenza cara di una persona già fatta uomo rimasto col sorriso di ragazzo, il quale, mentre per un verso le “riscalda il (...) cuore”, per l’ altro le rinnova una piaga sanguinante da troppi anni. Una esistenza che lei aveva immaginato diversa. Il sogno e la realtà in contrasto; il sole - che, caparbiamente, ancora tenta di riscaldarle l’intimo - e “un mondo incomprensibile”, in cui è costretta a vivere, nel quale “dèmoni vivi e spettatori/ prendono a schiaffi la poesia”, perché si odono di continuo urli soffocati e “sordi rumori di mitraglia”. Uno scontro senza tregua, insomma, sicché, sul cuore della poetessa e sulla sua psiche, scorrono brividi come il lieve incresparsi di acque placide sotto l’azione della tramontana. Superare questo continuo smarrimento non è facile. Dinanzi alla “iniquità del destino” solo la Fede aiuta. È nella Fede che si può sciogliere il grumo per poi continuare a credere in un possibile cambiamento e mentre si vive a contatto “di una società scellerata”. Ma la Fede non può venire imposta. Essa è frutto di catarsi, dello scavare, del vangare indefessamente il campo acerbo, per giunta gravato dalla nebbia. Un vero miracolo, allora, vedere spuntare e splendere la


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luce: “Con l’energie fisiche consumate, e la forza mentale spossata, nel più buio del mio io, cerco, ancora una volta, il tuo vigore... fede.” Ma, la Fede non è altro che il Dio al quale raccontare le nostre ambasce, confidando in Lui per non sentirci soli. La nonna dell’ammalata Klara ,“che passa le sue tristi giornate su una sedia a rotelle” (p. 37), dice a Heidi che, quando le pene più ci affliggono, “allora ci si confida con Dio (...), e lo si prega che ci aiuti, perché Lui può aiutarci in ogni pena” (p. 54). “Heidi meditò” - continua l’ autrice, Johanna Spyri - ma ribadisce che la bambina “era proprio convinta che si potesse ricevere da Dio un aiuto per ogni pena1” (p. 86). E Klara guarirà, infatti, a contatto con i monti e con la Natura. La salvezza, allora, può venire veramente dalla Fede e dalla Natura; e simbolo certo della Natura sempre generosa - è l’ “abbondante covone”, davanti al quale l’animo si allarga ed istintivamente sale la preghiera. Ecco, anche se panteisticamente, l’innesto tra realtà e sogno è possibile: “Solo ora inizia l’alba del mio futuro!” - grida la poetessa davanti a uno spiraglio di fuga, di salvezza. Sono molte le immagini che hanno come soggetto la Natura. Abbiamo intanto, in vento, divinità dominante in questo mannello di versi: “un vento dinamico”, che “si sviluppa dalla terra al cielo”; un vento “energia allo stato puro”, come la “brezza di maggio” e quelle di novembre; si va dal sole, al cielo, ai fiori (di pesco, la rosa, la “margherita di campo”), alle ortiche, persino, che vestono “La muffa nella mente” e producono e “lasciano graffi” sul cuore, per approdare al “desio della terra tra le mani” ed al “profondo mare verde”, che racchiude un tu amoroso e dolce ch’è, nel contempo, “tormento ed estasi”. “Sei un dolce dolore, che accompagna, giorno dopo giorno, la mia esistenza. Sei il mio vivere e gioire di parole mai dette. Sei il pensiero in un gesto. Sei il bacio che scioglie lo sguardo fisso e delicato. Sei una sfida, ed una sfida è scalfire quel mondo, misterioso ed enigmatico fatto di fili e nastri colorati.

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Sei la mia luce, che scandisce l’alternarsi del giorno e della notte. Sei amore profondo, gioia e sofferenza, noia, delusione e tante lacrime mai perse. Sei un profondo mare verde che ogni dì reclama aiuto e inspiegabilmente sprigiona speranza. Sei tormento ed estasi.” Insomma, la Natura, la quale, assorbendo il tutto, è pure in grado di sanare le ferite, di rinnovare la speranza, sicché, quest’amore gridato, è sì amore di sposo, ma anche di figlio, di madre e di padre e, perché no?, forse anche di una intera umanità, che vive e pena sopra la rugosa faccia della terra. Accanto alla scrittura della Mamma, qui abbiamo, però, anche le immagini pittoriche del figlio. Un darsi e un ricevere. L’autore delle figure dà all’ autrice dei versi e viceversa. Perché in questa autentica galleria dei visi, si possono trovare la semplicità, la malinconia, la purezza del colore, la poesia, insomma, tutti elementi che si rapportano, sicché il connubio è continuo e parole e immagini stanno bene insieme. Pomezia, 1 marzo 2015 Domenico Defelice 1 - Johanna Spyri - Heidi - Malipiero editore, 1978. *** “...CORRADO CALABRÒ ILLUMINA L’ ANIMA DI OGNI DONNA...” - Torino, 8 Marzo 2015 - Mondo “ donna ” Caro Direttore, Il numero di Marzo 2015 di Pomezia Notizie è pervaso di amore. La profonda e melodiosa interrogazione sulla poesia dell’illustre professore Corrado Calabrò illumina l’anima di ogni donna e dona l’ immagine quasi reale che lascia intravedere l’altra metà che Zeus ha disperso, dividendo ognuno di noi. L’amore è roteante tormento e melodioso incanto, i miei sensi escono ed entrano dalla nebulosa Orione per cercare spesso una scheggia di nuova stella, per inseguire un nuovo e scoppiettante amore, di cui cantare le note del cuore con le voci ammalianti delle sibille o sentirmi dire mille baci/dammi/e poi cento/e poi altri mille/ e altri cento di Catullo. Ritornando a casa alla fine di quella vita stellare di cui mi sono cibata, la solitudine si intravede qua e là a ricordare che la poesia è la nostra solitudine parlante ed implorante.


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Ho volato tra le ali di un airone sognando di soffocare nell’immensa trasposizione amorosa che fiato toglieva alla mia grandissima voglia di amare Filomena Iovinella *** GIUBILEO 2015 - 2016, UN’OCCASIONE ANCHE PER POMEZIA - L’annuncio - a sorpresa -, da parte di Papa Francesco, del Giubileo 2015 - 2016, deve essere accolto, anche dalla città di Pomezia, come una grande e insperata occasione per il rilanciare il suo territorio. Roma non sarà in grado di far fronte alla enorme massa di turisti che vi confluirà e Pomezia, che si trova ad appena 20 km., dovrà inserirsi nell’ avvenimento e viverlo con gioia e perché no?, sfruttarlo economicamente. Non sarebbe di certo un peccato se da esso potesse venire un qualche beneficio ai suoi quasi settanta mila abitanti! Ad essere investiti, saranno, in particolare, i settori del turismo e dei trasporti; i tanti alberghi, i siti archeologici, il museo di Pratica di Mare, la spiaggia di Torvaianica, persino il grande Cimitero tedesco che accoglie più di ventimila caduti, possono diventare volano per una crescita economica e la creazione - anche se a tempo - di numerosi posti di lavoro. Tutti dobbiamo sentirci coinvolti: dal Sindaco e la sua giovane squadra alle poche industrie rimaste; dalla piccola alla grande distribuzione; dai trasporti su gomma a quelli su ferro attraverso un migliore collegamento con la stazione di Santa Palomba; dalle comunità religiose, alle scuole, alla biblioteca, alla stampa... Tutti dobbiamo sentirci mobilitati. Chi dorme non piglia pesci - dice il proverbio - e nessuno verrà mai ad offrirci alcunché se non saremo noi a chiederlo e a dimostrare di meritarlo. Anche le Tante Associazioni - e pensiamo, in particolare, all’ Associazione Tyrrhenum che, tra l’ altro, gestisce il Premio “Fauno”; all’Associazione Coloni Fondatori, specialmente per il suo vasto patrimonio fotografico e le sue tante iniziative culturali - dovrebbero modificare o almeno integrare il loro programma per comprendere in qualche aspetto l’avvenimento. Non c’è nulla ancora di preciso, giacché l’annuncio è stato per tutti inaspettato; si stima, comunque, che solo da parte del Governo dovrebbero piovere, in tutta la provincia, dai dieci ai quindici milioni. Siccome saranno le Amministrazioni locali le più facilitate ad usufruire di tali finanziamenti, la fetta sarà più o meno consistente a seconda la bontà delle loro iniziative. Ma anche i privati possono concorrere. A vincere saranno coloro che avranno il coraggio e la volontà di mettersi in gioco e presentare

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programmi e strategie convincenti. Occorre che vengano valorizzate opere monumentali e chiese che possano rispondere alla richiesta di fede dei pellegrini. Occorre dare un po’ di decoro ai nostri abitati. Occorre che Pomezia si dimostri grande città, capace di partecipare e dire la sua anche in avvenimenti importanti come un Giubileo, che la emarginano solo se si emargina. Pomezia ha in sé, ormai, talenti e potenzialità da competere positivamente con realtà consolidate da secoli di storia, come, per esempio, Albano e tutti i Castelli. Domenico Defelice *** INCONTRO CON CORRADO CALABRÒ Organizzata dall’Associazione degli ex Parlamentari della Repubblica e dall’Associazione Internazionale dei Critici Letterari, lunedì 16 marzo 2015, nella Sala del Refettorio, Camera dei deputati, Palazzo S. Macuto - via del Seminario 76, Roma -, si è tenuta - nell’ambito de Progetto “I contemporanei in biblioteca”, Sapienza - Università di Roma” - la presentazione del libro “L’illimite” Incontro con Corrado Calabrò a cura di Anna Manna Clementi (Aracne Editore). Ad introdurre è stato Gerardo Bianco. Ha porto il saluto Roberto Nicolai, Preside della Facoltà di Lettere, Sapienza - Università di Roma; commento critico di Neria de Giovanni, Presidente AICL. Maria Letizia Gorga ha letto alcune poesie insieme all’autore Corrado Calabrò. Presenti all’incontro, oltre alla curatrice del libro Anna Manna Clementi, un numeroso e qualificato pubblico.

LIBRI RICEVUTI ALDO DE GIOIA - ANNA AITA - Quando a Napoli non c’erano le Stelle - Presentazioni di Fulvio Castellani, Salvatore Veltre, Antonio Crecchia RCEMultimedia Communication Company, 2014 Pagg. 130, € 12,00. Aldo DE GIOIA, storico e poeta, nasce a Napoli il 1° dicembre 1934. Benemerito dell’Università degli studi di Salerno, è stato insignito, dal Presidente della Repubblica Italiana, Azeglio Ciampi, del titolo di Grande Ufficiale. Inoltre, è stato inserito dal quotidiano la “Repubblica” nella collana de “I volti di Napoli”, tra i napoletani più importanti di tutti i tempi. Premiato in Campidoglio per la sua poesia “El Alamein”, divenuto Inno Ufficiale dell’8a Brigata Bersaglieri Garibaldi. Ha fatto parte della Commissione Toponomastica Cittadina del Comune di Napoli, ha dettato lapidi commemorative e varie. Per motivi storici è stato


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nominato cittadino onorario di Atella (NA) e di Calvello (PZ). Anna AITA, Cavaliere della Repubblica Italiana, giornalista e scrittrice, vissuta in un ambiente di musica e poesia. Allo zio paterno, Enzo Aita, tenore del S. Carlo, e al nonno materno, Antonio Cinque, poeta, fondatore e direttore de “La piccola fonte” - primo cenacolo letterario -, è stata intestata una strada ciascuno in Napoli. Volontaria ospedaliera da 24 anni, è addetta alla Cultura e Stampa dell’Associazione “Megaris”. Critico letterario, il suo nome compare su rinomati giornali italiani ed esteri. Recensita positivamente dai più importanti critici, ha ottenuto in premio numerose medaglie d’oro, d’argento e la medaglia del Presidente della Repubblica. Tra le sue pubblicazioni: “Riflessi dell’anima” (poesie), “Sul filo della memoria” (narrativa), “Soltanto una carezza” (poesie), “Trasparenze” (quaderno di poesie ottenuto in premio con votazione nazionale), “Il coraggio dell’ amore” (romanzo verità), “In tre andando verso” (poesie), “Così la vita” (poesie), “Sintesi e commento di alcune opere di Carmine Manzi” (monografia), “Don Giustino tra storia e poesia” (biografia), “La lettera smarrita. La lunga notte” (in collaborazione con Aldo De Gioia), “Domenico Defelice - Un poeta aperto al mondo e all’amore” (monografia), “Aldo De Gioia - Quando la storia diventa poesia”. ** GIOVANNA LI VOLTI GUZZARDI (a cura di) - I colori della vita - A.L.I.A.S. Antologia 2014 - In prima di copertina, a colori, opera di Carmela Monitto (primo Premio pittura); in seconda, sempre a colori, opere di: Jacqueline Osuna, Liliana Malfitana, Francesca Franzè, Adriana Malfitana, Roberto Bramante, Carlo Maria Giudici (tutti terzo Premio); in terza, sempre a colori, opere di: Adriana Repaci, Germano Costa, Rina Rosi, Kathryn Aprile, Angelo Maria Cianfrone, Liliana Ianni (tutti quarto Premio); in quarta di copertina, a colori, opere di: Maria Luisa Caputo, Michèlle Salesse, Giovanni Composto, Giovanna Bramante (tutti secondo Premio). All’interno, sempre a colori, le pagine 157162, ancora dedicate alla pittura, con opere di: Domenico Guida, Angelo M. Cianfrone, Francesca Franzè, Vittorio Di Sandomingo, Angelo Mattucci, Liliana Malfitana, Silvana Eadie, Adriana Malfitana, Domenico Defelice, Antonio Angelone, Edoardo Grecò, Michele Salesse, Giovanna Guzzardi, Adriano Manocchia, Rosanna Corsaro, Paolo Gubinelli, Clara Giandoldo, Germano costa, Kathryn Aprile, Salomè Molina, Ivette Muratti, Silvana Eadie, Maria D’Appio, Carmela Monitto, Marta Riefolo. All’interno, per lo più in bianco e nero, ma anche a colori, più di 300 foto e riproduzione di pittu-

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re ed altro. Abbiamo citato pittori, ma gli Autori antologizzati, tra poeti, scrittori, artisti in genere, sono centinaia e centinaia e perciò non possiamo riportare l’intero elenco. Ricordiamo solo i nostri amici e anche collaboratori di Pomezia-Notizie: Teresinka Pereira, Antonia Izzi Rufo, Ciro Rossi, Adolf P. Shvedchikov, Giovanna Li Volti Guzzardi, Domenico Defelice, Enza Conti, Orazio Tanelli, Nello Tortora, Giuseppe Manitta, Angelo Manitta, Andrea Pugiotto. Ben 268 pagine formato gigante, una fatica improba e una spesa rilevante; denaro, tempo ed energie vitali spesi solo per l’amore verso la cultura e la nostra lingua, che la nostra Amica tiene viva da moltissimi anni nell’isola continente della bella e variata Australia. Giovanna LI VOLTI GUZZARDI è nata il 14 febbraio 1943 a Vizzini CT. Nel 1964, insieme al marito pensò di visitare l’ Australia come secondo viaggio di nozze e vi rimasero, affascinati da questa grandiosa isola, che ha alimentato la sua grande passione per lo scrivere. Ha pubblicato i libri di poesie: “Il mio mondo” in Italia nel 1983; “Isola azzurra” in Australia nel 1990; “VOLERÒ” maggio 2002 – Editrice A.L.I.A. S. Melbourne; “Le mie due Patrie” (Il Croco/ Pomezia-Notizie, 2012). Nel 2007 “IL GIARDINO DEL CUORE”, Milano. Nel maggio 1992 fonda l’ ACCADEMIA LETTERARIA ITALO AUSTRALIANA SCRITTORI – “A.L.I.A.S.” Giovanna ha avuto tanti riconoscimenti, tra i più importanti: nel 2003, Medaglia del Centenario della Federazione Australiana assegnata dalla Regina Elisabetta II, con gli auguri del Primo Ministro e del Governatore d’ Australia. 2004, invitata in Italia (una settimana a Palermo) per partecipare al Work Shop di Partenariato indetto dal Ministero degli Esteri, Roma. Maggio 2005, giorno della Festa della Repubblica Italiana in Melbourne, il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, e controfirmato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, le assegna l’alta Onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana OMRI per aver diffuso la lingua italiana in Australia, Italia e nel mondo, tramite il Concorso Letterario Internazionale A.L.I.A. S. e per aver insegnato la lingua italiana con amore e passione per 25 anni. Sempre nel 2005 a Palermo le viene consegnato dalla REGIONE SICILIANA l’ importante riconoscimento: SICILIANI NEL MONDO AMBASCIATORI DI CULTURA, e invitata a ritirarlo di persona con grandi festeggiamenti. Dicembre 2006 dagli USA: the Board of Directors, Governing Board of Editors and Publications of the Board American Biographical Institute do hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi Professional Women’s Advisory Board. Maggio 2007, riconoscimento dal Primo Ministro


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d’Australia the Hon. John Howard MP. Settembre 2007, premio “Carretto Siciliano 2007”, definito l’ Oscar della Sicilianità. Maggio 2008, The American Biographical Institute, does hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi INTERNATIONAL WOMEN’S REVIEW BOARD, FOUNDING MEMBER. 2008 International Writers and Artists Association, Pres. Teresinka Pereira: Diploma to certify Giovanna Li Volti Guzzardi is recognized as THE BEST DAME OF POETS OF AUSTRALIA. 27 Maggio 2009, invitata in Italia dal CRASES: Centro Regionale Attività Socioculturali all’Estero ed in Sicilia. Presidente Gaetano Beltempo e Vice Presidente Ezio Pagano, in occasione del 40mo Anniversario del CRASES e assegnato l’importante riconoscimento, delegata del CRASES. Ha insegnato italiano ai bambini di ogni nazionalità, come volontaria per 25 anni. Ma la sua gioia più grande è stare in mezzo a poeti e scrittori, per questo è riuscita a riunirne tanti, italiani e da ogni parte del mondo, creando un punto d’incontro nell’Antologia A.L.I.A.S. ** RENATO GRECO - Mattinali e tramonti dell’ opera compiuta - Selezione di poesie inedite dal 2002 al 2014 - In quarta di copertina, a colori, foto dell’Autore - Ed. L’artedeiversi n. 11., Bitonto, 2015 - Pagg. 344, s. i. p. - Renato GRECO è nato nel 1938 a Cervinara (Av) e vissuto fino alla maturità classica ad Ariano Irpino. Nel 1955/56 a Matera istitutore del Convitto “Duni”. Dal ’57 al ’67 a Milano dove lavora alla Olivetti di Adriano e dove abita con la moglie dal ’66. Dal ’67 tre anni a Napoli un anno a Firenze e due anni in giro per l’Italia con tappe a Firenze e a Milano. Nell’ intanto si laurea in legge. Dal ’71 a Bari quadro nella filiale di questa città. Nel ’77 è di nuovo a Milano dopo altri periodi a Firenze. Fino al 1987 a Milano quadro marketing centrale. Ritrasferito a Bari va in pensione nel 1992. Ha vinto molti concorsi in Italia e legge poeti del ‘900 presso due Università Popolari a Modugno e a Bari. Redattore della rivista “La Vallisa” dal 1997. Ha scritto più di 46 volumi di poesia, oltre che numerose Raccolte Antologiche, alcune pubblicate anche all’estero. Ricordiamo, per esempio, i volumi dal 2005 in poi: “Barlumi e altro” (2005), “Memoria dell’acqua” (2006), “Fermenti immagini parole” (2006), “In controcanto” (2007), “Ma quale voce da lontano” (2007), “Poemetti e sequenze - vol. I” (2007), “Di qua di là dal vetro” (2007), “Quaderni palesini - Poesie dell’estate 2001” (2008), “Poemetti e sequenze - vol. II” (2008), “Se con trepide ali” (2008), “Favole per distrarsi” (2009), “”Per scenari di-versi” (2009), “Piccole poesie” (2010), “Inventario” (2010), “Din-

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torni di Nessuno” (2011), “Contiguità, distanze” (2011), “Vicinanze” (2012), “Un brusio d’anime” (2012), “Colloqui e amabili fraseggi” (2013), “Il vero dello sguardo” (2013), “La parola continua” (2013), “Finzioni e altri inganni” (2014) “Variabili geometrie” (2014). Autore anche di molti saggi su Salvatore Quasimodo, Vittorio Bodini, Cristanziano Serricchio, Enzo Mandruzzato, eccetera. Tante le antologie in cui figurano sue poesie. Tra i critici che si sono interessati di lui, citiamo solo alcuni: Pasquale Martiniello, Michele Coco, Enzo Mandruzzato, Stefano Valentini, Vittoriano Esposito, Daniele Giancane, Lia Bronzi, Donato Valli, Sandro Gros-Pietro, Renzo Ricci, Giorgio Bárberi Squarotti, Giuliano Ladolfi, Emerico Giachery, Roberto Carifi, Gianni Antonio Palumbo, Daniele Maria Pegorari, Roberto Coluccia, Ettore Catalano. ** EDIO FELICE SCHIAVONE - Senza l’uomo Poesie, Presentazione di Maria Marcone e Luigi M. Personè - Edizioni del Leone, 1997 - Pagg. 62, L. 14.000. - Edio Felice SCHIAVONE, già primario pediatra ospedaliero, è nato a Torremaggiore (Fg) il 30 agosto 1927. Risiede a Santo Spirito, Bari. Tra le sue innumerevoli pubblicazioni, ricordiamo: “La morte non ha la smorfia del teschio” (1961), “Io e il mio Sud/Prima Parte” (1987), “Io e il mio Sud/Seconda Parte” (1990), “L’uomo questo mistero” (1993), “L’ultima sera di carnevale” (Poesie tradotte in serbo-croato da Dragan Mraovic,1996), “Senza l’uomo” (1997), “Quasi un diario/Parte Prima” (2000). Presente in Antologiee Storie letterarie: “Chi scrive” (1962), “Golfo gruppo 1989” (1990), “Poesia Italiana del Novecento” (1992), “Poesia-nonpoesia-anti poesia del ‘900 italiano” (1992), “Storia della Letteratura Italiana del 2° ‘900” (1993), “Scrittori del tempo” (1994), “La poesia in Puglia” (1994), “L’altro Novecento nella poesia italiana” (vol. 1° - 3° - 5°, 1995), “Poeti e muse” (vol. 4° - 5° - 6°, 1996), “Amore e fedeltà alla parola” (vol. 2°, 1996), “Rassegna della poesia pugliese contemporanea” (1997), “L’erbosa riva” (1998), “Poeti e scrittori contemporanei allo specchio” (1999), “Storia della Letteratura Italiana del XX secolo” (1999) eccetera. ** EDIO FELICE SCHIAVONE - Quasi un diario (Parte Prima), Prefazione di Neuro Bonifazi; in copertina, a colori, “Graziella”, terracotta di Nicola Schiavone - Edizioni Helicon, 2000, Pagg. 48, L. 20.000. ** AA. VV. - Agenda 2015 Arte e Pensiero - Edizioni Helicon, Pagg. 240 - Tra i tantissimi scrittori, poeti e artisti antologizzati, ricordiamo Edio Felice


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Sciavone e Lucia Schiavone. ** INNOCENZA SCERROTTA SAMÀ - In luce d’estasi - Poesie; Prefazioni di Rossano Onano (“Simonetta Cattaneo nel cielo di Chagall (ma torna all’ombra eterna di Ciparisso)”) e Giuseppe Panella (“La poesia di Innocenza Scerrotta Samà come forza lirica della disobbedienza”); Postfazioni di Giuseppe Baldassarre (“Lo sguardo oltre il limite”) e Anna Vincitorio (“Innocenza Scerrotta Samà In luce d’estasi”); In copertina, A COLORI, “Verso la luce” di Franco Manescalchi; in quarta, nota critica dello stesso Manescalchi - Edizioni Polistampa, 2015 - Pagg. 72, € 6,00. Innocenza SCERROTTA SAMÀ è nata a Catanzaro, dove vive, ma da moti anni partecipa alla vita culturale fiorentina. Ha pubblicato molti volumi, tra cui “Come sorella” (1992), “Luce e buio 314”, “Perché non gli somiglio? 353”, “Il colore del gelo” (1995), “La mano e la prua” (2010), “Nel taciuto la gioia” (2013) eccetera. Inserita in prestigiose antologie, tra le quali “Poesia del Novecento in Toscana”. ** IMPERIA TOGNACCI - Là, dove pioveva la manna - Poesie, Presentazione di Giuseppe Laterza, Prefazione di Andrea Battistini (“Un viaggio nell’anima”); Postfazione di Angelo Manitta - Edizioni Giuseppe Laterza, 2015 - Pagg. 80, € 12,00. Imperia TOGNACCI è nata a San Mauro Pascoli. Vive a Roma, dove si è dedicata all’insegnamento. Sempre lusinghieri gli apprezzamenti sulle sue opere da parte di critici di chiara fama. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti e premi nazionali ed internazionali. E’ inserita in testi di storia della letteratura, di critica letteraria e in numerose antologie, ed è stata recensita su Riviste letterarie, quotidiani e periodici. Ha pubblicato, tra poesia, romanzi, saggi: “Traiettoria di una stelo” (2001), “Giovanni Pascoli, la strada della memoria” (2002), “Non dire mai cosa sarà domani” (2002), “La notte di Getsemani” (2004), “Natale a Zollara” (2005), “Odissea pascoliana” ( (2006), “La porta socchiusa” (2007), “Il prigioniero di Ushuaia” (2008), “L’ombra della madre” (2009), “Il lago e il tempo” (2010), “Il richiamo di Orfeo” (2011), “Nel bosco, sulle orme del pastore” (2012). Nel 2014, Luigi De Rosa pubblica il volume “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa. Saggio monografico sull’opera della poetessa e narratrice di San Mauro Pascoli”. È presente in Antologie, Dizionari ontologici, Rassegne di critica e Storie della letteratura contemporanea. Numerosissimi e importanti i Premi. *** ALDO CERVO - Frequentazioni letterarie 2 Volume antologico di prefazioni, posfazioni, recen-

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sioni, conferenze, lettere - Edizioni EVA, 2015 Pagg. 420, € 22,00. Autori interessati: Isabella Michela Affinito, Anna Aita, Ferdinando Alterio, Silvana Andrenacci, Antonio Angelone, Francesco Annese, Paolo Battista, Mariagina Bonciani, Gina Bottone, Carmine Brancaccio, Augusto Bruno, Giorgina Busca Gernetti, Giuseppe Campolo, Francesco Caringella, Giovanni Casaura, Fulvio Castellani, Tito Cauchi, Dante Cerilli, Maria Benedetta Cerro, Ilaria Cervo, Rosolino Chillemi, Domenico Colella, Pasquale Cominale, Angela Cortellessa, Antonio Crecchia, Pasquale Cusano, Maria Luisa Daniele Toffanin, Federico Danise, Filippo (Filiberto) De Angelis, Domenico Defelice, Aurora De Luca, Vincenzo De Michele, Francesco De Napoli, Manfredo Di Biasio, Giuditta Di Cristinzi, Ida Di Ianni, Lino Di Stefano, Maria Stella Eisenberg, Michele Falcone, Giustino Ferri, Michele Francipane, Angela Funaro, Rossella Fusco, Maria Giusti, Alberto Hernández, Dante Iagrossi, Antonio Iampietro, Amerigo Iannacone, Gaetano Iannotta, Antonio Iannetta, Antonia Izzi Rufo, Mario Landolfi, Raffaele Lauro, Michele Leone, Maria Teresa Liuzzo, Daniele Lombardi, Ennio Maldini, Giovanni Marcuccio, Giuseppe Melardi, Jacques Meylan, Valeria Migliore, Antonio Mocciola, Raffaele Mone, Renata Montanari, Giampiero Mughini, Giuseppe Napolitano, Rossano Onano, Carlo Onorato, Adriana Panza, Nazario Pardini, Domenico Parillo, Italo Pasquariello, Antonio Pennacchi, Giuseppe Perillo, Adriano Petta, Menico Pisanti, Tommaso Pisanti, Giacomo Pontillo, Carmen Proca, Liberato Quaglieri, Mario Richter, Maria Stella Rossi, Vincenzo Rossi, Licia Rotunno Nencini, Fabrizia Sala, Edoardo Sanguineti, Giuseppe Santabarbara, Nicola Santacroce, Maurizio Santilli, Maria Luisa Santonicola, Vincenzina Scarabeo, Laura Schioppa, Chiara Scrobogna, Silvana Serafin, Ciro Sisto, Rosario Stabile, Monica Stravino, Imperia Tognacci, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Gerardo Vacana, Irene Vallone, Vincenzo Vallone, Antonio Vanni, Maurizio Zambardi. Aldo CERVO è nato nel 1944 a Caiazzo (Caserta), dove vive. Oggi in pensione, ha insegnato italiano e latino nei licei statali. Ha pubblicato: “Ipotesi narrativi” (racconti, 1987), “Nient’altro che la verità” (racconti, 1991), “Dai De Angelis ai Cervo (Caiazzo e le sue memorie)” (memorie storiche locali, 1994), “L’autunno di Montalba (romanzo, 1998, 2a ed. riveduta 2012), “Le Testimonianze di Amerigo Iannacone” (critica letteraria, 2000), “Cronaca delle cose occorrenti in Caiatia ne’ suoi anni ‘70” (2002), “Gli aneddoti del vescovo” (racconti, 2004), “Carichi pendenti” (racconti, 2005), “Giovanni Papini nel ‘900 letterario italiano” (saggio critico, 2006), “La Cinciallegra”


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(romanzo, 2008), “Frequentazioni letterarie” (2010), “Le radici della memoria” (2010), “Caiatini contemporanei” (2011), “Profilo di un irregolare” (2011), “Pasquinate al peperoncino” (2014).

TRA LE RIVISTE ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Rivista fondata da Giacomo Luzzagni e diretta da Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - Casella Postale 15C - 35031 Abano Terme (PD) - E-mail: nuovatribuna@yahoo.it Riceviamo il n. 117 (1° Trimestre 2015), dal quale segnaliamo: “Patrick Modiano”, di Luigi De Rosa; “John Keats. Un nome scritto sull’ acqua”, di Elio Andriuoli; “Boris Pasternak. Tra la natura e la fatica del quotidiano”, di Liliana Porro Andriuoli; “Tra mito e scrittura. Oltre le colonne d’ Ercole”, di Rosa Elisa Giangoia. Daniela Monreale recensisce, per esempio, “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa”, di Luigi De Rosa e “Il quaderno della sfida”, di Elena Milesi; Stefano Valentini, “Alleluia in sala d’armi” di Rossano Onano e Domenico Defelice e “Materia grezza” di Aurora De Luca; eccetera, perché la bella rivista è, come al solito, ricchissima di firme illustri e di argomenti interessanti. * IL CONVIVIO - Trimestrale di poesia arte e cultura fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina - Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - E-mail: angelo.manitta@tin.it; enzaconti@ilconvivio.org Riceviamo il n. 59 (ottobre-dicembre 2014) nel quale, tra le centinaia di firme, troviamo, oltre quelle di Angelo Manitta, Enza Conti e Giuseppe Manitta: Caterina Felici, Leonardo Selvaggi, Maristella Dilettoso (che si occupa, tra l’altro, del volume di Tito Cauchi “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici”, a cura di Gabriella Frenna), Pietro Seddio (che recensisce “Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa” di Luigi De Rosa), Andrea Pugiotto (con la nota, per esempio, per “Palcoscenico” di Tito Cauchi), Antonia Izzi Rufo, Sandro Gros-Pietro eccetera. Allegato, il n. 25 di Cultura e prospettive, di 192 pagine, nel quale leggiamo articoli interessanti anche di Carmine Chiodo e Orazio Tanelli, nonché di Carlo Di Lieto, Giuseppe Manitta, Fernando Sorrentino, Pietro Nigro, Gianfranco Longo, Maristella Dilettoso, Giovanni Tavčar, Pasqualina Cammarano, Claudio Guardo, Maria Di Tursi, Silvana Del

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Carretto, Lycia Santos do Castilla, Katia Belloni, Norma Malacrida, Anna Salvaggio, Aldo Antonio Cobianchi, Mario Landolfi. * FIORISCE UN CENACOLO - rivista fondata nel 1940 da Carmine Manzi, direttore: Anna Manzi 84085 Mercato San Severino (SA). E-mail: manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il n. 8 (settembre-dicembre 2014), nel quale troviamo firme di nostri amici e collaboratori, come Orazio Tanelli, Leonardo Selvaggi, Antonia Izzi Rufo. Tra “I libri in vetrina”, Anna Manzi si interessa anche di “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici”, di Tito Cauchi. * L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili fondata nel 1689 e diretta da Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (Firenze). E-mail: accademia_de_nobili@libero.it Riceviamo il n. 201/203 dell’ottobre-dicembre 2014, del quale segnaliamo l’ articolo d’apertura “Venti anni di poesia nel nome di Danilo Masini (10a edizione del Premio Internazionale “Danilo Masini” 2014) “Poesia e Vita” “ a firma del direttore e Presidente Marcello Falletti di Villafalletto, del quale non possiamo non ricordare anche la rubrica “Apophoreta”, con l’esame critico di ben 5 volumi di: Tommaso Romano, Antonio Rosania, Simonetta Teglia, Ines Scarparolo e Vito Mauro (a cura di). La rivista è, come sempre, ricca di belle e nitide fotografie a colori. * SILLOGE - Bollettino periodico di poesia edita Direttore Nicoletta Gigli - via Acqua Marina 3 00042 Lavinio - Roma. editotem@mclink.it Riceviamo il n. 1, marzo 2015 e plaudiamo alla nascita di questa nuova rivista, anche perché abbiamo sempre consigliato il direttore della Casa Editrice Totem, Dott. Gianfranco Cotronei, di mettere su una testata che affiancasse le sue pubblicazioni. L’ editoriale è firmato da Valentina Tagliabue. In prima pagina si avverte che “La rivista accetta solo libri cartacei di poesia edita per recensione. I volumi vanno inviati come piego libri (tariffa euro 1,28). Non fare raccomandate. I plichi raccomandati non verranno ritirati”. Tra i componenti la Redazione: Tito Cauchi, Angela Giassi, Renato Conti, Ugo Magnanti, Maria Bartolomeo, Gianfranco Cotronei, Valentina Tagliabue, Paola Eusepi. I pezzi di questo primo numero sono firmati da: Loretta Sebastianelli, Gianfranco Cotronei, Angela Lauria, Maria Ivanova, Tito Cauchi, Chiara Marcari. Si ricorda che la Totem organizza l’annuale Premio di poesia Leandro Polverini e che la scadenza è il 30 settembre 2015. Chiedere rego-


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lamento con l’e-mail su riportata. Tel. 06/90286930 . 389/5468825.

LETTERA AL DIRETTORE Carissimo, eccomi a te dal soggiorno di Giorgina che offre una visione completa della sua magnolia bianca, ora in fiore: le sfumature del bianco e del rosa si alternano al calore dei rami, ancora con poche foglie, in tensione verso il cielo, di un azzurro nitido. Mi offre con gentilezza un ottimo caffè e delle sfogliatine pregiate di Villafranca Veronese, prodotte da una ditta apprezzata da poeti, scrittori, musicisti e non solo. Ora in età, ricorda con me il passato. Il suo Papà le ha voluto dare questo nome in onore della nave San Giorgio e lui non ha voluto studiare, staccandosi dalla famiglia per fare il mozzo, a quattordici anni, sui mercantili veneziani. Poi sono arrivati gli studi pratici, dal vivo, ed i viaggi sulla San Giorgio, verso lidi e costiere d'Africa, nei territori occupati dagli Italiani, perché i Savoia avessero un impero, ma sotto sotto perché ci si facesse largo, a gomitate non sempre leali, in imprese coloniali già clonate malamente dai grandi d'Europa. Ora l'Africa non è più degli Africani, affinché l'Europa non sia più degli Europei, a causa di un miscuglio in zuppiera (traduco così il 'melting pot' americano) di popoli, di culture, di differenze. Libia, Eritrea, Somalia, Etiopia, terre ora martoriate e depredate senza alcuna misura. Un Papà in movimento, sempre, perché chi ama il mare sa che le soste sono brevi e sottendono altre partenze, altri movimenti ed in questa consapevolezza ha sempre sete di quell'acqua salata, estesissima quasi fino ai bordi del mondo, acqua che non disseta mai ma ti entra dentro come odore, come onde del desiderio che incessante si presenta e si ripresenta ancora e ancora, differente in se stesso sempre. Il mio pensiero va all'indimenticabile Stanìs Nievo, che ha viaggiato per tutti i mari del mondo e

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che ha registrato il canto d'amore della Balena Azzurra! Anche il regista Patrick Brunie ha sposato il mare e Venezia gli è entrata dentro, con la sua storia, con tutte le variazioni sul tema dei suoi Palazzi, delle acque che li riflettono in specchio, delle luci e delle voci che in ogni istante del giorno e della notte modificano l'aria che respiri e tutto di te ne rimane imprigionato. Perché Venezia è tentazione, perché Venezia è bellezza delle forme, dei colori, dei suoni in un tempo tutto che ormai è senza più scansioni. Da questa appartenenza benedetta, che crea estasi e sfondamento del sé, Patrick Brunie trova la forza di mettersi al lavoro, in una lotta senza quartiere, per la ricostruzione del Bucintoro: allora produce il documento filmico 'IL BUCINTORO DELLE REPUBBLICHE' di cui, carissimo, hai dato notizia nella tua Rivista per il mese di Marzo; allora si ritaglia orgogliosamente tutta la libertà di cui ha bisogno per incoraggiare il lavoro della mente e delle mani, per dare speranza e voce agli artigiani dell'Arsenale e dell'entroterra veneziano, per affrontare le difficili situazioni che si profilano all'orizzonte; allora mette, con tutta la forza e la tenacia che lo caratterizzano in ogni suo gesto, pensiero e discorso, il dito come freccia acutissima e lacerante nella piaga della corruzione interna alla pubblica amministrazione, a Venezia o a Bordeaux fa lo stesso, che ha dominato e lacerato, non certo dietro le quinte, il percorso della realizzazione del nuovo Bucintoro. Mentre ti sto scrivendo, lui è a Bordeaux, per parlare con i 'compagnons', per lavorare con loro, che sono insieme proprietari di quei 600 alberi di quercia che sono stati destinati alla ricostruzione di questa nave dogale unica nel suo genere, per ascoltarli, per trasformare la condizione attuale di stallo di ogni iniziativa in una concreta prospettiva favorevole alla svolta costruttiva necessaria per far prendere nuovamente il varo a questo progetto. Quando ci incontreremo gli regalerò le fotocopie di un rarissimo volume grande, in dotazione alla Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza: avrebbero dovuto consegnarmi il supporto di-


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gitale in venti giorni ed invece dopo tre giorni avevo già in mano il materiale, perché i nostri 'venticinque lettori' vengano a sapere tante cose sul conto di Napoleone e del suo pensiero intorno alle libertà di tipo repubblicano. Cito: “... Ma quel maraviglioso naviglio, che una sola volta all'anno in gran festa e tra l'esultanza del popolo solcava il mare, accogliendo in sé quanto di più nobile, di più squisito, di più gentile era fra noi, tutte compendiava le venete grandezze: era come il rappresentante di quel valore, che lottò colla furia dei Barbari e la vinse, che seppe mandar a vuoto le trame delle collegate nazioni, che solo stette incontro alla rabbia dei più agguerriti nemici; gran documento di senno, di sapere e di possanza.... Ma venuti i tempi burrascosi per l'Italia e scompigliate anche queste contrade dai furori della rivoluzione, il Bucintoro fu preda di mani stolte e rapaci. Non si dovea conservare un documento che avrebbe mostrato a tutti i secoli le glorie della Veneta Repubblica: l'avidità dell'oro dovea struggere tutto ciò che valesse ad alimentarsi, foss'anche il più grande miracolo dell'arte e dell'ingegno. Di tanta mole nulla più rimase fuorché la carena: gl'intagli tutti furono arsi e ritrattenne le dorature ad esca di cupidigia. Tale atto di avida distruzione mosse a sdegno tutti gli animi dei Veneziani. E durerebbe ancora il rammarico se S. E. il Sig. ViceAmmiraglio Amilcare Marchese Paulucci, Comandante Superiore della Marina, nella generosa mente non pensava a farne ricopiare un modello, affinché almeno la imagine si conservasse a nostra memoria e ad ammirazione degli stranieri....” ( 'Il Bucintoro di Venezia', Venezia, coi tipi di Luigi Plet, MDCCCXXXVII, pp. 4-7). C'è anche la versione francese, perché i francesi non dimentichino, e per ogni grande pagina la forma è quella d'album: il Bucintoro viene descritto minuziosamente in ogni suo particolare e le due ultime facciate ne riportano l'immagine intera ed i dettagli. Con Patrick nella mente e nel cuore, torno ancora da Giorgina, per nostalgia della sua gentilezza, mi parla del suo Armido e di quando andava con lui, tutti gli

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anni a Novembre, sulle coste di Fuerte Ventura. 'Ci andiamo?' le dico innocente, come se lei non avesse gli anni che ha ed io non avessi i problemi che ho! Allora lei mi presta un volumetto illustrativo. Lo apro di fronte a lei e leggo: “... Il grande scrittore e pensatore Miguel de Unamuno, nato a Bilbao nel 1864, ostentava la carica di rettore dell'Università di Salamanca, quando nel 1924 sotto la dittatura del generale Miguel primo de Rivera, si pubblicò in una rivista argentina una lettera scritta da lui in cui criticava il regime e chiamava il dittatore 'oca reale' e 'citrullo con meno cervello di un grillo'. Come rappresaglia, Unamuno fu esiliato e confinato a Fuerteventura. Quattro mesi dopo riuscì a scappare imbarcandosi in un brigantino a Caleta de Fuste per giungere a Parigi...Unamuno sembra quasi sentire nostalgia dell'isola che significò per lui 'tutta un'oasi', in cui il suo spirito 'bevve dalle acque vivificate' e ne uscì 'rinfrescato e corroborato per continuare il mio viaggio attraverso il deserto della civilizzazione'...” ('Fuerteventura', Ediciones A. M., pag. 5). Ho promesso a questo filosofo coraggioso ed ispirato di parlare di lui e di questa meravigliosa terra del suo esilio. Grazie a te ed alla tua Amicizia. Ilia

Cara Ilia, perdonami l’ironia. Giacché tutti siamo destinati alla fine che sappiamo e alla dispersione delle nostre molecole nel vulcano perenne dell’Universo, vale la pena angustiarci della distruzione delle opere d’arte dallo stesso uomo create? Sì, perché l’entusiasmo di Brunie - ma anche il tuo, di Giorgina che ti offre caffè conversazione e sfogliatine di Villafranca, come quello di tanti altri -, l’entusiasmo, dicevo, di voler ricostruire il mitico Bucintoro, deriva dall’ impazzimento, dall’amore per l’arte e dall’inconfessata rabbia, perché tutta interiore, verso colui - Napoleone Bonaparte - che ha deciso di distruggerlo. Vale la pena ricostruirlo? E, se ricostruito, per quanto tempo esso potrà venire ammira-


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to? Viviamo un tempo forse più folle di quello del grande condottiero e forse più di quello a lui remoto, di quello che va dalla preistoria alle Crociate e da queste al Novecento dannato, durante il quale la bocca dell’inferno è stata quasi sempre spalancata ad ingoiare, attraverso due ferocissime guerre mondiali e migliaia di conflitti locali, milioni e milioni di vittime innocenti che avevano il solo desiderio di penare e vivere in pace - si fa per dire su questa rugosa crosta della terra. Se il Bucintoro venisse realmente ricostruito, sacrificando, per questa impresa, ben 600 vecchie querce, per quanto tempo ancora esso potrà rimanere in vita per la gioia degli occhi e del cuore, se la barbarie avanza con il vessillo nero di quell’ISIS che le opere d’ arte distrugge a picconate, a martellate, col bulldozer e grida e giura che, dopo aver conquistato Parigi e Londra, calerà su Roma caput mundi e non abbevererà più i cavalli - fra poco in estinzione - alle fontane di piazza San Pietro - elegia superata! -, ma spianerà il Cupolone e il Colosseo e tutto il resto issando il vessillo sul più alto degli obelischi? Perdonami, ripeto, l’ironia. Ma vale la pena affannarci, entusiasmarci, scrivere ancora poesie, innalzare canti, creare e restaurare opere d’arte, se il futuro non è più nostro ma della follia? Venezia non domina più pezzi di mare e non ha in mente conquiste di terre e di economie; mira alla secessione e, quindi, a un isolamento neppure dorato, visto che il prezioso metallo che ricopriva il Bucintoro, è stato interamente trafugato da colui che Don Lisander definiva “il fulmine” che “tenea dietro il baleno”. Vale la pena gingillarci ancora coi filosofi o con i poeti? Ma spaparacchiamoci a goderci il sole che la primavera e l’estate ancora ci daranno (ma per quanto?), ingollando caffè, bevande fresche, gelati e sfogliatelle e mandando un bel vaffa all’arte, alla poesia, alla musica, alla filosofia, al lavoro ed all’ economia. Godiamo finché è possibile, fino a che non ci ingoia la follia! Domenico

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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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