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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 23 (Nuova Serie) – n. 5 - Maggio 2015 € 5,00

Romanzo sempre attuale per l’universalità dei valori che trasmette, nell’avversare gli assoluti dogmatici

MARGUERITE YOURCENAR L’OPERA AL NERO di Giuseppina Bosco

“L

’OPERA al nero”,romanzo pubblicato nel 1968, prende l’avvio, come dice l’autrice in una nota a margine1, da un racconto di 50 pagine dal titolo “D’apres Durer”,che fu pubblicato a Gand nel 1934 con due altre novelle a fondo storico (D’ apres Durer, D’apres Greco, D’apres Rembrandt), che poi sarebbero confluite nella raccolta “La morte guida il carro”, ma nello stesso tempo costituivano il nucleo frammentato di un “enorme romanzo”, concepito tra il 1921-25, quando l’autrice aveva 18 o 22 anni, come un grande affresco narrativo che si sviluppava su più secoli e “su vari gruppi umani”. Il titolo del capitolo iniziale doveva essere “Zenone”, nome del personaggio principale immaginario, studioso, appassionato di alchimia che si muove dentro un ampio scenario della storia del ‘500. Il titolo “L’ opera al nero” allude ai trattati di alchimia, riferendosi alla fase di “se-


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All’interno: Dalla cattedrale di Trani ai Mostri gentili, di Rossano Onano, pag. 6 Sandro Angelucci: Si aggiungono voci, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 11 La poesia di Danila Olivieri, di Luigi De Rosa, pag. 14 Giorgio Cavallini: Nuovi scritti e pagine scelte, di Elio Andriuoli, pag. 16 Mauthausen, di Leonardo Selvaggi, pag. 19 Maurice Carême: il volto di un poeta allo specchio, di Ilia Pedrina, pag. 24 Premio Città di Pomezia 2015 (regolamento), pag. 27 I Poeti e la Natura (Rosa Elisa Giangoia),di Luigi De Rosa, pag. 28 Notizie, pag. 50 Libri ricevuti, pag. 53 Tra le riviste, pag. 56 RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Il libro e l’anima, di Davide Puccini, pag. 30); Tito Cauchi (Da Cassandra a Dora Maar, di Isabella Michela Affinito, pag. 31); Tito Cauchi (Assonanze e dissonanze, di Rocco Cambareri, pag. 32); Tito Cauchi (Calendario 2015, di Lucia e Edio Felice Schiavone, pag. 33); Tito Cauchi (Poesia e musica, di Mariagina Bonciani, pag. 33); Tito Cauchi (In luce d’estasi, di Innocenza Scerrotta Samà, pag. 34); Tito Cauchi (Da questo mare, di Gian Piero Stefanoni, pag. 35); Aldo Cervo (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 36); Domenico Defelice (Quando a Napoli non c’erano le stelle, di Aldo De Gioia e Anna Aita, pag. 36); Domenico Defelice (In luce d’estasi, di Innocenza Scerrotta Samà, pag. 37); Domenico Defelice (Il vecchio e altri racconti, di Caterina Felice, pag. 37); Luigi De Rosa (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 38); Elisabetta Di Iaconi (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 39); Giuseppe Giorgioli (Ognuno vuole vivere per sempre, di Bertinazzi Dania, pag. 39); Giuseppe Giorgioli (La morte di Ivan Il’ic, di Lev Tolstoj, pag. 40); Giovanna Li Volti Guzzardi (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 42); Paola Insola (Amore delirio e desiderio, di Filomena Iovinella, pag. 43); Antonia Izzi Rufo (I redenti, gli intellettuali che vissero due volte 1938 - 1948, di Mirella Serri, pag. 44); Maria Antonietta Mòsele (Pantaleo Mastrodonato nella vita e nell’arte, di Leonardo Selvaggi, pag. 45); Maria Antonietta Mòsele (Elogio alla mimosa, di Paola Insola, pag. 46); Maria Antonietta Mòsele (Maria Grazia Lenisa, di Domenico Defelice, pag. 46); Maria Antonietta Mòsele (Amore delirio e desiderio, di Filomena Iovinella, pag. 47); Ilia Pedriana (Neve e fango per dissetarmi, a cura di Silvia Calamati, pag. 48); Andrea Pugiotto (Leggende e racconti della Valle d’Aosta, di Tersilla Gatto Chanu, pag. 49); Antonella Rizzo (Materia grezza, di Aurora De Luca, pag. 50). Lettere al Direttore (Ilia Pedrina a Domenico Defelice), pag. 57 Inoltre, poesie di: Gülten Akin, Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Maria Rita Bozzetti, Piera Bruno, Corrado Calabrò, Themistoklis Katsaounis, Antonia Izzi Rufo, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi

parazione” e di “dissoluzione” della sostanza, in quanto questa operazione veniva applicata ad esperimenti sulla materia e ciò significava esplorare quello che inizialmente era ignoto.

La vita del protagonista si svolge nell’arco dei sessanta anni, i cui avvenimenti storici riguardano la divisione del mondo cattolico, la diffusione della riforma protestante, la con-


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troriforma, le nuove scoperte geografiche, il balzo all’economia capitalistica. Un romanzo, dunque, storico che si dipana sia attraverso la ricostruzione oggettiva dei fatti, sia nell’ invenzione, al fine di far immergere il lettore nell’epoca rinascimentale. Un’età piena di contraddizioni in cui, nonostante l’evidente affermazione dell’uomo come “faber fortunae suae”, predomina l’oscurantismo controriformista. Nel personaggio di Zenone sono presenti gli stessi dubbi dei grandi filosofi rinascimentali ed egli è pervaso dalla loro stessa curiosità intellettuale, che lo spinge a studiare e rivisitare il pensiero scientifico di Democrito, Aristotele, Pitagora, restando sempre un libero pensatore. L’autrice, nella rappresentazione delle vicende del passato, vuole trasmettere delle verità che non hanno tempo, e anche la malinconia, il disagio, i ricordi, non sono sentimenti privati, ma accomunano tutti gli uomini. E se ne “Le memorie di Adriano” il protagonista è un personaggio storico realmente esistito e Zenone, invece, è frutto dell’invenzione narrativa, entrambi fanno i conti con la ricerca di se stessi, il senso della vita, la necessità e l’angoscia della morte. Zenone si suppone sia nato nel 1510 a Bruges2, nella casa di Enrico Giusto (personaggio secondario); la madre si chiamava Hizolde e il padre Alberico Dè Numi (giovane prelato di antica stirpe fiorentina) il quale era inserito alla corte dei Borgia e si dilettava a conversare, con il grande Leonardo Da Vinci, di macchine da guerra. A Lione Conobbe Hizolde, sorella di un suo socio in affari, l’avventuroso Lamprecht von Rechterghem. Lei era una “giovinetta dal volto affilato, dai seni delicati, dalle palpebre di madre perla quasi rosa, che incastonavano gli occhi grigi”. La famiglia avviò il giovane alla carriera ecclesiastica sotto la guida del canonico Bartolomeo Campanus. Il suo grande interesse per la filosofia e la letteratura lo portò ad un lento distacco dalla dottrina cristiana. A causa della sua nuova visione del mondo e della realtà, intraprenderà dei viaggi per soddisfare la sua continua sete di conoscenza; dopo che

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scrisse libri e trattati di fisica, medicina e alchimia fu ritenuto eretico e per questo ricercato. Solo all’età di quarant’anni, con il nome di Sebastiano Theus,3 deciderà di ritornare al suo paese natio, dove svolgerà l’attività di medico dei poveri, presso l’ospizio di San Cosma, offertagli dal priore dei Cordiglieri. Accade proprio in questo momento che il protagonista intraprende un percorso di speculazione e riflessione sul legame tra la corporeità e il mondo, ovvero “l’opus nigrum”. Questa prima parte del romanzo segue l’impianto del racconto D’apres Durer, mentre nella seconda e terza parte del libro, dove è narrata la vita del protagonista, sono inglobate le sezioni dell’antica pubblicazione. L’autrice nel tracciare la vicenda del medico Zenone, a differenza di quella dell’ imperatore Adriano (celebrato nel grande romanzo “Memorie di Adriano”, grande personaggio della storia e per questo rivisitato con dovizia di documenti), si serve di biografie di alcuni filosofi e scienziati del ‘500 e sempre nella postfazione de “L’opera al nero”4, informa i lettori che la nascita illegittima del medico, la sua educazione indirizzata alla carriera ecclesiastica, ricorda quella di Erasmo da Rotterdam. Il tirocinio del giovane chierico presso l’abate Mitrano di San Bavon a Gand, di cui si suppone l’ interesse per l’alchimia, è esemplato dalle istruzioni che Paracelso ricevette dal vescovo di Settgach e dall’abate di Spanheim, e dagli studi di Campanella sotto la direzione del giudeo Abraham. I numerosi viaggi di Zenone in Turingia, in Svezia, a Basilea e anche la sua affermazione come medico, sono ricalcati sulle esperienze di Paracelso, medico svizzero, considerato un innovatore della medicina in quanto curava le malattie con i minerali, il quale peregrinò per diverse città dell’Europa. L’operazione chirurgica compiuta da Zenone sul giovane Han, a cui viene salvata la gamba dall’amputazione, è ricavata dal resoconto di un intervento dello stesso genere contenuto nei “Memoires” di Ambroise Parè,5 che fu medico e chirurgo presso la corte francese di Enrico II nel XVI secolo.


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L’ultima parte del libro, in cui l’alchimista viene scoperto ed accusato dal collaboratore Cipriano, è dedicata al suo processo da parte dell’Inquisizione. Tra i tanti capi d’accusa raccolti contro di lui, vi è il sospetto di sodomia (ripreso dalla vita di Leonardo Da Vinci, da Paracelso e da Campanella), gli altri riguardano l’interesse verso l’alchimia (che in quel periodo era legata alla magia), l’aiuto fornito ai fuggiaschi accusati di eresia e, nella lugubre ed opprimente ambientazione dei fatti, la Yourcenar vuole mettere in risalto la libertà di pensiero, l’ansia di conoscenza e di ricerca del giovane medico e la negazione di ogni forma di dogmatismo. La lucida determinazione di darsi la morte è pure una affermazione di libertà per il filosofo-alchimista, visibile in queste parole: ”Tutto era fluido, e tale sarebbe stato fino all’ultimo respiro. Eppure, la sua decisione era presa: egli lo riconosceva non tanto dai segni sublimi del coraggio e del sacrificio quanto da una forma ottusa di diniego, che sembrava chiuderlo come un blocco alle influenze esterne, e quasi persino alle sensazioni. Insediato nella propria fine, era già Zenone in aeternum.”6 I personaggi secondari presenti nel romanzo, ma che hanno una funzione centrale perché interagiscono con il personaggio principale, sono: Bartolomeo Campanus, vecchio canonico e suo maestro, tratteggiato sul modello desueto dell’uomo di chiesa del secolo precedente, il quale vuole indurre Zenone a ritrattare le sue tesi per salvarsi, dimostrando così il proprio affetto paterno e la sua ammirazione nei confronti del discepolo; il priore dei Cordiglieri, uomo pio, esemplato dai personaggi dell’ epoca, il quale prima di abbracciare la carriera ecclesiastica visse esperienze mondane; il monaco Cipriano, che fa parte della sedicente setta degli “Angeli” dedita ai riti di promiscuità sessuale, di cui esistono testimonianze documentate di processi nel ‘500, relative alle eresie sensuali 7. E’ interessante notare come alcune figure di personaggi del popolo, e soprattutto femminili, siano state delineate attingendo a pochi documenti dell’epoca, frutto per lo più di inven-

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zione. Come Caterina, la serva del commerciante Jean Mayer, con la quale Zenone aveva avuto un rapporto carnale: donna materiale, oscena, isterica che, nel processo aveva accusato Zenone di aver avvelenato il suo padrone, o come la contadina di Oudebrugge (villaggio delle Fiandre) che, nella sua affabile ospitalità, si prodigava a far fuggire i protestanti verso il nord, descritta anche lei con potente realismo. Accanto alle popolane, vi sono pure le figure delle nobili, delle principesse, tra cui donna Margherita d’Austria, personaggio storico realmente esistito, in quanto moglie di Massimiliano d’Asburgo, ma l’ episodio in cui lei si ferma nella residenza campestre del grande tesoriere con i festeggiamenti in suo onore, è inventato. Di lei l’ autrice dà una descrizione dimessa : ”E’ una donna minuta, grassotta con il pallore triste delle vedove e con un atteggiamento di buona casalinga che sapeva sorvegliare non solo la dispensa ma anche lo stato”8. Altro personaggio inventato è Idealte, giovane quindicenne, figlia di un nobile, faceva parte della setta degli Angeli, rimasta gravida, fu accusata di infanticidio e per questo condannata dall’Inquisizione. La procedura penale per i colpevoli di infanticidio con il rogo fuori le mura, menzionata dal libro, è stata presa dagli archivi giudiziari di Bruges. Per quanto riguarda la scrittura e lo stile, l’ opera rivela la grande maestria della Yourcenar soprattutto per la capacità evocativa della parola, impreziosita da una terminologia consona alla cultura e alla condizione sociale dei personaggi. L’opera nella sua costruzione ha tonalità scure, le quali rivelano una realtà drammatica, dominata dall’oscurantismo del potere politico e culturale, in un periodo che si avvia verso una conoscenza più laica e scientifica. Negli anni Sessanta il romanzo si è rivelato di grande attualità, perché periodo in cui si contestava la logica del potere capitalisticoimperialista e si cercava di affermare la libertà dell’uomo dai condizionamenti sociali, culturali e la liberazione dei costumi sessuali; e lo è a maggior ragione oggi, in quanto sono


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pure evidenti gli attacchi alla libertà di pensiero, d’informazione e di espressione, e dal Medio Oriente si profilano minacce del terrorismo islamico a causa del fanatismo fondamentalista. Chiari sintomi di un mondo allo sbaraglio di cui l’allegoria inquisitoria e oppressiva della storia cinquecentesca è quanto mai pertinente. Giuseppina Bosco Marguerite Yourcenar, “L’opera al nero”, Universale Economica Feltrinelli, nota dell’autrice pag. 287 2 ibidem, pag. 16-18 3 ibidem, pag. 129-130 4 ibidem, pag. 290 5 ibidem p. 291 6 ibidem, pag. 277 7 ibidem, pag. 182-183 8 Ibidem,pag. 39 1

SONO TORNATE Sono tornate le rondini con la loro veste monacale, nel cielo sembrano stelle irraggiungibili. Loretta Bonucci

IL SONNO DI CATERINA Nel sonno che impigrisce l’aria e fa del tempo una linea di ombra tra sole e notte, ti abbandoni ai sogni che animi di miagolii muti e di moti involontari: vorrei sapere quanto manca al tuo dormire per essere vita, quale intreccio di verità sostiene il racconto e la voglia di ritorno, quanto è come il nostro una fuga modesta dal monotono giorno, quanto è desiderio di pace come il nostro, infastiditi dal giorno. Maria Rita Bozzetti 30 06 2011 da L’altro Regno - Edizioni Polistampa, Firenze 2015.

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SENZA PAROLE Un cancelletto sul retro s’apriva solo per noi sull'immenso vigneto Solo ronzio di vespe su fichi di dolcezza che stordiva Una donna dagli occhi pervinca reggeva con tenera fermezza la grande casa. Corrado Calabrò Roma

“A RICCARDO” ALL’UNIVERSITÀ DI ROMA TOR VERGATA Venerdi 24 aprile 2015, il volumetto è stato presentato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata, dal prof. Carmine Chiodo, dallo scrittore Tito Cauchi e dalla laureanda Claudia Trimarchi. Per mancanza di spazio, daremo più ampia notizia nel prossimo numero.


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Antologia: Tu Quoque (Poesie 1978 – 2013)

DALLA CATTEDRALE DI TRANI AI MOSTRI GENTILI Le coordinate affettive di

ANNA VENTURA di Rossano Onano

A

NNA Ventura sa scegliere bene i suoi prefatori. Giorgio Linguaglossa presenta Tu Quoque (EdiLet, 2014) collocando la poetessa aquilana in controtendenza rispetto ai conati alessandrini della poesia intimistica, e scrive: La poesia della Ventura non ci parla mai del “dolore”, che il capitale trasforma in “merce” con tanto di 'glamour' e di 'réclame vintage', è istintivamente lontana dall'ideologia imbonitoria dei desiderata e del “dolore” che la controriforma teologica di questi decenni ha inflazionato a dismisura, è distante dal 'glamour' della poesia che si autodefinisce “povera” e si veste con un saio di francescana semplicità, prende le distanze da tutto ciò che la falsa cultura del “dolore” ci ha reso familiare e ha sollecitato a convertirsi in transfert. Nella peccaminosa società

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delle merci lo sguardo poliziesco fa man bassa del “dolore” come possibile utile futuro acquirente: si tratta di un 'trompe l'oeil'', di una trappola che la poesia della Ventura si guarda bene dal reiterare (leggasi l'omonima poesia “Trompe l'oeil”), ma lascia parlare le “cose” da una distanza connaturata alle “cose”, quella che intercorre fra noi e le “cose”. E' la distanza che ci parla. E la poesia della Ventura ci parla con la naturalità di uno sguardo che avvicina le cose, ce le porge. Essendo Tu Quoque in gestazione, Claudia Manuela Turco aveva recensito la precedente opera della Ventura (I mostri gentili, Edizioni Noubs, 2011) con la pretesa di un nesso causale, perfettamente agibile, fra le macerie abruzzesi e la sua ultima poesia: Anna Ventura, dopo essere stata costretta a lasciare L'Aquila a causa del terremoto, in “Mostri gentili” ha reso grande protagonista della versificazione il mare, infrangendo i sigilli del suo scrigno, per svelarne sogni e veleni, e ammirare i misteri del grande metafisico liquido. Superata la fase pliniana dell'emergenza, ha concepito un nuovo modo di fare poesia, andando oltre l'orizzonte del già scandagliato, per ideare un mondo parallelo, scaturito dall' assorbimento dell'energia tellurica, impedendo alle macerie di involvere in relitti inutilizzabili. Vero è che, alla lettura dei testi, il mondo di Anna è popolato da una varia umanità diversamente grottesca o deforme, non soltanto proveniente dalla grande pancia del mare: la nana, la mummia, l'ermafrodito, la vecchia viaggiatrice, la poetessa con dodici dita. I mostri possono indurre ugualmente repulsione oppure affettuosità. Anna Ventura sceglie l' affettuosità, ci mancherebbe. Giorgio Linguaglossa e Claudia Manuela Turco disegnano due ritratti di Anna assolutamente convincenti, eppure divergenti fra loro: alla distanza prossemica dell'uno (per vedere meglio la realtà oggettuale) si contrappone la deformazione onirica della realtà oggettuale (i mostri gentili). Ovvero, la parola di Anna amerebbe ugualmente l'oggetto, e la trasformazione empatica dell'oggetto.


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Dove tutti i recensori della Ventura concordano è questo: Anna non parla direttamente di sé, non scrive poesia collocandosi davanti allo specchio. E' cognizione comune, ad esempio in psicopatologia, che l'introspezione sia un esercizio fallace: uno si pone davanti allo specchio, e parla di sé a se stesso come meglio gli aggrada. L'interiorità di una persona è più esattamente decifrabile dal suo modo di rapportarsi alla realtà oggettuale (Linguaglossa), e dalla deformazione empatica ch'egli apporta alla stessa realtà (Turco). Personalmente, quattro poesie tratte dal corpus di Anna Ventura (Tu Quoque è un'antologia) mi sono sembrate sufficienti a definire il mondo interiore dalla poetessa abruzzese. La Cattedrale di Trani C'era una contadina che non aveva mai visto il mare. Suo figlio andò soldato in Puglia e le mandò una cartolina. Ritraeva la cattedrale di Trani, con dietro, sullo sfondo, una striscia azzurra, tremolante: quella striscia era il mare. La donna mise la cartolina al vetro della credenza e la sera, quando finalmente si sedeva davanti al fuoco e il sonno le faceva cadere la testa, nel dormiveglia sentiva un fruscio ritmato: era il respiro del mare, steso come un tappeto ai piedi della cattedrale di Trani. Ricordo di avere guardato la Sagrada Familia, a Barcellona, con la dovuta ammirazione però mista a una sensazione confusa di fastidio. Incontinenza adornativa. In particolare, mi chiedevo come Gaudì fosse stato così sprovveduto da collocare una mole simile senza prevedere uno spazio vuoto attorno, così che la Sagrada possa essere raccolta dallo sguardo onnicomprensivo dell'osservatore. Mi sono riconciliato con Gaudì quando mi

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hanno spiegato che lo spazio vuoto attorno era stato previsto, sono stati gli architetti successivi a collocare edifici quasi addossati alla chiesa, che perde respiro. Altra impressione fa la cattedrale di Trani. Poche cose al mondo sono così belle. A fronte del portale d'ingresso si apre una piazza smisurata, di lato e sul fondo una striscia di mare si perde lontanamente nel cielo. La cattedrale di Trani non è collocata “dentro” uno spazio definito; è invece punto di fuga di uno spazio che non ha fine. La siepe di Leopardi escludeva l'orizzonte al poeta di Recanati, e appunto per questo egli poteva immaginare, oltre il sipario della siepe, infiniti orizzonti. Il rapporto di Leopardi con l'infinito era in tal modo agibile, perché immaginifico. Ma se manca la siepe, come di fatto manca attorno alla cattedrale di Trani, lo sguardo è a contatto diretto con l'infinito, che non può essere immaginato perché appunto presente al vissuto percettivo. Il rapporto diretto con l'infinito è faccenda che i Romantici definiscono “sublime”; ma è anche ciò che la psichiatria, poco incline alla poesia ma molto più fenomenica, chiama “agorafobia” (paura dello spazio aperto). Forse romantico, forse agorafobico, forse entrambe le cose insieme, tale sembra sia stato il vissuto del ragazzo militare in Puglia, visto che alla mamma ha inviato la cartolina della cattedrale, striscia di mare tremolante alle spalle. La contadina, cuore di mamma, capisce e mette la cartolina al vetro della credenza. E' il suo bisogno d'infinito. Tutta l'erba del mondo Disperdere la nuvolaglia addensata per anni sul mio capo da pazienti artefici del grigio è impresa da non tentare nemmeno. Però per me una foglia verde coi mobili orli trinati è ancora tutta l'erba del mondo.


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La natura è la mosca che a piccoli passi percorre ostinata la costa del quaderno, poi al margine si volta e torna indietro, la passeggiata e finita. La mosca accidiosa percorre la costa del quaderno, circoscrive uno spazio finito. C'è mosca e mosca. La Mosca di Montale passeggia con il poeta per le colline liguri, e rimbrotta il poeta che guarda un fiore e dice: “Guarda che bello, chissà cos'è”. “Come cos' è, è il fiore tal dei tali, che hai nominato in una tua poesia”. “Sì, ma io nomino i fiori così, perché suonano bene”. Mosca è attenta a coniugare la percezione con l'universo reale, Montale della realtà si disinteressa, è solo attento a percepire le assonanze interiori. La mosca di Anna Ventura è attenta alla realtà fenomenica, ma la circoscrive. Nulla è più angosciante dell'infinito, nulla è più lontano dal nostro bisogno di appartenenza. I poeti sono capaci di qualsiasi identificazione, è un loro vezzo preciso. Bisogna ammettere che l'identificazione con la mosca non sia fra quelle più praticate. L'animale è repellente e, questo di Anna, per di più abbastanza consapevolmente pusillanime. Passeggia su e giù per i margini del quaderno, non si decide a volare, marca in questo modo un territorio agibile, nega nello stesso tempo la vastità del mondo oggettuale. Il territorio, nel caso specifico, è un quaderno: dove può scrivere l'intimità, dove si scrivono le poesie. Ho conosciuto alcune mosche di questo tipo. Sono persone a volte d'eccellenza, però circoscritte al loro specifico campo d'interesse, intellettuale o di lavoro. Il campo di Anna Ventura è il quaderno, l'impegno intellettuale. Il rischio è che la mosca, soddisfatta del campo, diventi inetta al volo, trascurando di agire l'affettività del reale. I nascondigli Certe vecchie signore ancora belle che sono state bellissime. Abitano

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case i cui nascondigli esse sole conoscono, un nascondiglio anche il loro cuore, stremato e forte. I fantasmi degli uomini che hanno amati sono anche essi nascosti in queste stanze, buie anche quando sono luminose, luminose anche quando sono buie. E' nell'immaginario segreto di queste donne segrete che essi continuano a vivere: un'eternità racchiusa in una teca d'argento, foderata di velluto cremisi. L'universo femminile di Anna descrive, qui come altrove, figure segrete che vivono nell' operosità segreta di grandi case per lo più contadine. Sono donne che vivono di lavoro, e di ricordi. Le stanze sono luminose ma buie, oppure buie ma luminose. L'interno, qui e altrove, ha l'opaca eppure calda coloritura di Vermeer, laborioso Rinascimento fiammingo. Le donne di Vermeer sono intente, sempre, a rassicuranti lavori di artigianato casalingo: rassettano, cuciono, mettono ordine. Una sola, in un quadro, addirittura scrive. Le donne di Anna Ventura occupano l'interno per faccende più direttamente legate alla sussistenza, per lo più fanno la pasta, cuociono, assicurano l'assistenza ai Penati. I casolari della gioventù aquilana di Anna non sono pervenuti al Rinascimento. Ciò che accomuna le donne di Vermeer e di Anna Ventura è la funzione del ricordo. La donna di Vermeer cuce all'opaca luce giallastra, e pensa. La donna aquilana cucina, e pensa. Ai fantasmi della gioventù, agli antichi amori virtuali o consumati. Lavoravo a suo tempo attraversando le campagne reggiane, un navigato infermiere indigeno alla guida dell'auto. “Vedi quella? - mi disse una volta indicando una mostruosa costruzione a tre piani nella campagna di Correggio – noi la chiamiamo 'la casa delle belle donne' “. Si trattava di una specie di condominio agricolo, credo d'epoca fascista, dove s'erano raccolte famiglie di lavoranti la terra, onesti genitori


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con figlie giovani. “Noi partivamo da Correggio e dicevamo: 'Andiamo alla casa delle belle donne'. Per fare la corte alle ragazze”. Le cose del mondo hanno qualche volta un esito strano. Col tempo, gli onesti genitori sono morti, e le belle ragazze, ancorché corteggiate, sono diventate anziane donne sole. La casa delle belle donne è oramai una specie di ospizio autogestito, donne in età affaccendate in opere di mutuo sostegno. Non ho visto antenne televisive. Le belle donne ricordano e forse si riuniscono la sera nell'aia, raccontando l'una all'altra le amorose vicende della gioventù. Le sei dita della mano destra In una clinica vicina al mare nacque una bambina con dodici dita: sei per ogni manina. Crebbe e parlò prestissimo, tanto che qualcuno pensò che fosse una nana. Era capricciosissima e disubbidiente: la vita avrebbe provveduto a renderla umile e silenziosa; tanto silenziosa da sembrare stupida. Poi le sei dita della mano destra impararono a scrivere, e non smisero più di farlo, e lo fecero tanto che un giorno, per tanto parlare sulla carta, lei fu costretta a farlo anche in pubblico. Non smise più di parlare alle masse. Non è la parabola di una vocazione letteraria o politica; è la storia di qualunque donna che abbia il coraggio di fare ciò per cui è nata. Nell'operoso spazio domestico di Vermeer irrompe una bambina con dodici dita. Traggo la poesia dai Mostri gentili, nell'edizione spagnola con dedica che Anna ha avuto la bontà di donarmi: En una clinica cercana al mar / naciò una nina con doce dedos: seis / en cada manita. Traduzione strepitosa. A Cavriago, quando ero bambino, al trivio

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d'ingresso al paese un'edicola raffigurava in dipintura una Madonnina con sei dita nella mano che reggeva il Bambino. Il nonno mi raccontava come il dipintore fosse anarchico, e avesse rappresentato la Vergine in quel modo con l'intenzione di farle sfregio. Eppure, l' immagine era oggetto di devozione popolare. Non tanto da salvare l'opera dalla distruzione. Non ho più ritrovato la Madonnina con sei dita, tornando al paese da adulto. Nella mia memoria il pittore anarchico aveva compiuto un'operazione di spropositata religiosità: sei dita nella mano che regge il Bambino, per meglio contenerlo. Un'opera d'arte non è solo ciò che l'autore disegna: è in modo speciale ciò che l'osservatore desidera vedere. Allo stesso modo, in psichiatria, funzionano le tavole proiettive di Wechsler. Non so collocare cronologicamente la bambina con dodici dita nel campionario dei mostri, gentili o bizzarri o stupefatti, mai comunque repulsivi, che Anna Ventura ha raccontato nel corso della sua vasta produzione. Tu quoque, come tutte le antologie, ha il difetto di non essere onnicomprensiva. La bambina polidattila non compare. Eppure, è una pietra cardinale nell'illustrare il mondo di Anna. La Madonnina di Cavriago ha sei dita per reggere meglio il Bambino; la bambina di Anna, mostro gentile, ha sei dita per scrivere meglio. La bambina dissocia il proprio destino dalle quiete operazioni domestiche, indaga se stessa e il mondo, scrive. L'immagine conclusiva di sé sarà l'identificazione con l'infiammata Isabella di Morra, donna del Rinascimento (Lettera di Isabella): morta per amore, ancora viva nel calore dolente della poesia. Le quattro composizioni disegnano le coordinate affettive di Anna Ventura e della sua poesia. Come sempre succede ai poeti autentici, l'orizzonte di Anna è aperto ai campi dell' anima, e a quanto di panico questa attenzione comporta (La Cattedrale di Trani). Allo smarrimento dell'infinito la parola della poesia pone rimedio delimitando un campo specifico d'azione, definendo nello stesso tempo


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lo strumento del proprio agire, che è quello letterario: la mosca percorre la pagina scritta del libro, essendo il libro una volitiva scelta d'azione e di vita (Tutta l'erba del mondo). A seguito del terremoto aquilano, Anna Ventura è ora stanziale a Montesilvano. Dalla finestra all'ingresso di casa, mi ha confidato una volta, vede il mare; da quella sul retro vede i monti. Il suo campo d'azione è perfettamente delimitato. Il rischio, che la mosca corre, è quello della partecipazione libraria, l' attenzione alla grafia piuttosto che alla vita affettiva. Appartiene alla mia esperienza personale, prima scolastica e poi letteraria, l'impatto con professionisti della scrittura che fanno bella calligrafia, dove il campo introspettivo è convenzionale, dove principalmente la natura è rigogliosa però vezzeggiante come quella del doganiere Rousseau. L'autentica partecipazione alla vita non può prescindere dall'attenzione a ciò che di prosaico, e quindi di vero, la vita propone. La mosca di Anna percorre il libro tuttavia distogliendo lo sguardo dall'inchiostro, per collocare nel campo la quotidianità domestica, ovvero la cultura di tutte le donne del mondo, siano esse le quieti borghesi di Vermeer oppure le quasi sconciate ma formidabili contadine aquilane (I nascondigli). Fino a quando, nella poetica culturale dell' osservanza all'etica del lavoro, irrompe l'irrazionale affettivo. Da Esiodo in poi, i cantori della natura partono dall'onesta fatica del lavoro per approdare infine all'indicibile del sentimento. Fra le contadine dell'Aquila fa la sua apparizione la volitiva bambina con dodici dita. Definito il campo d'amore, si può scrivere, si deve scrivere. Anna Ventura, garantisco, ha soltanto dieci dita. Dimenticavo: la Cattedrale, la mosca, le donne d'Aquila e la bimba polidattila sono pietre miliari, indispensabile a tracciare l'orientamento sul campo. Nel corpus delle poesie di Anna sono comprese poesie più belle. Ma parlare della bellezza, chi è capace? Rossano Onano ANNA VENTURA: Tu quoque (Poesie 19782013), a cura di Giorgio Linguaglossa. Edilet-

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Edilazio Letteraria, 2014.

“...versi datati, ma non per questo meno belli, dedicati al suo nipotino”. Città & City, del 16/31 marzo 2015 “...difesa a spada tratta della Famiglia, che in questi nostri giorni la politica, anziché proteggere e agevolare, sembra intenzionata a distruggere, o quanto meno, a emarginare e snaturare (...). A ben leggere, un vero e proprio poemetto”. Il Pontino nuovo, 1/15 aprile 2015 “Leggere la poesia di Domenico Defelice è un’emozione schietta; è un contatto di polimorfico sapore, di plurale contaminazione: musicale, espressiva, umana, estetica, quindi etica, sociale, e civile. (...) Un “Poema” che si distende con urgenza emotiva su uno spartito di polisemica affettività, di polimorfica connessione fra dire e sentire”. Nazario Pardini Blog Alla volta di Leucade, 9.4.2015


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SANDRO ANGELUCCI: SI AGGIUNGONO VOCI di Liliana Porro Andriuoli

TUTTO torna all’origine dei tempi. / La spada che colpisce, / la ferita / che rimargina se stessa. / Tutto, / tutto si perde e si ritrova / nell’apparente moto della storia”. Sono questi i versi iniziali di una poesia, La spada e la ferita, di Sandro Angelucci, contenuta nel suo nuovo libro Si aggiungono voci (Como, Lieto Colle, 2014, € 13,00) ; versi che bene esprimono una visione deterministica del mondo, secondo la quale ogni evento deve verificarsi in quel determinato modo e non può pertanto verificarsi in nessun altro; secondo la quale, cioè, ogni fenomeno deve necessariamente avvenire seguendo una legge predeterminata. Ma nella visione di Sandro Angelucci pare esserci qualcosa di più, dato che “tutto”, dopo un ininterrotto gioco di giorni e di stagioni, deve infatti ritornare identico a com’era “all’origine dei tempi”; “tutto”, cioè, dopo essersi perso e ritrovato “nell’apparente moto della storia”, deve ritornare alla situazione di partenza. (Si noti come

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l’aggettivo “apparente”, sembri addirittura gettare un’ombra di dubbio sulla stessa realtà del procedere del divenire storico, che parrebbe così costituire una pura illusione). Ad una continua ciclicità del divenire del mondo, del resto, pare ispirarsi anche un’altra poesia di Angelucci, L’anima della fune, dove leggiamo: “Chi decreta la fine?/E dove c’è una fine/non può esserci stato che un principio./E dove ce n’è una / non può che essercene un’altra./E dunque un nuovo / immancabile principio”; tutte affermazioni che sembrano in un certo senso evocare addirittura la teoria dell’eterno ritorno, d’origine nietzschiana. Ed in questo ciclico e sempiterno “moto della storia”, che si ripete sempre identico a se stesso; in questo nostro fugace “transito / nell’universo” Angelucci sovente scopre la presenza di contraddizioni e asimmetrie, che lo turbano e lo fanno soffermare pensoso. È quanto ad esempio accade nella poesia Ai bordi della strada, che ha questo incipit: “Ha le ore contate/l’erba che cresce ai bordi della strada./Ha radici l’asfalto/che non conosce gelate:/nere come la pece/invadono la terra /togliendole la pace ed il respiro”, dove il nostro poeta pare voglia comunicarci “il male di vivere” di montaliana memoria, che egli vede intorno a sé ed al quale tutti i viventi sono soggetti; ed in particolar modo gli esseri pensanti, se giunge a dire: “Ho le ore contate anch’io./Tutti noi le abbiamo/che viviamo di silenzi e di poesia” (Ivi). Non gli viene mai meno però la speranza, dato che così conclude: “Ma resistiamo./Verranno tempi di nuove primavere/per questo lungo inverno/per il tuo prato”. Si legga a tale proposito anche Chiudere gli occhi in un mondo ed aprirli in un altro, dove troviamo questi versi: “Un pettirosso / ha donato il suo corpo alla terra. / Dalla terra / un giovane merlo sfila il suo verme”, che ci ricordano l’alternarsi vita-morte che continuamente avviene in natura e che ci riportano al dualismo principio-fine, cui poco sopra abbiamo fatto cenno. Al di là di ogni riflessione sul dolore insito


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nel mondo, c’è comunque da aggiungere che si avverte in Angelucci anche un’intima religiosità, seppure una religiosità di tipo laico, che sotterraneamente percorre le sue poesie e che a tratti da esse emerge, come avviene in Calvario: “Alle quattro estremità / di quella croce, / uno per chiodo, / grondano sangue / i punti cardinali della vita” o ne Il Battesimo: “Sotto la volta del salice gigante, / dentro il suo tempio / mi sono battezzato / con l’acqua nuova / con l’acqua benedetta della terra”. Né mancano, d’altro canto, in questo libro felici aperture alla gioia e alla vita, che si evidenziano specialmente nei momenti di maggior comunione con la natura. È quanto ad esempio avviene in Attimi di paura, dove il nascere di un nuovo giorno apre l’animo del poeta alla speranza: “Non conosco le voci / ma salutano il Sole questi canti / mattutini. / Appartengono al coro / degli amanti. Sono la civiltà / della luce e del calore”. E ciò nonostante talora avvenga che “Copra, una nuvola, / per un secondo il cielo”; oppure che la vita ci offra “attimi di paura”. Per far rasserenare il nostro poeta infatti basta una voce che canta in lontananza, dato che per lui il rapporto con il prossimo ha una decisiva importanza, così come lo ha quello con il mondo esterno, che si manifesta in molteplici, sempre nuove forme: “Irriga la terra / quest’acqua che scorre / e toglie la sete dai campi” (La spiga matura); “Ali a valanga / vanno tra i cespugli” (L’inventario); “Conosco quel colore: / l’ arancio che riveste la montagna / quando muore / della tua luce l’ultimo sussulto” (Allunga ancora verso di me quel dito). Ma non soltanto la comunione col mondo esterno è importante nella poesia di Angelucci, bensì anche quella tra i vivi ed i morti, come appare da una poesia quale Per un solo raggio di sole: “I morti sono vivi. / Per un solo raggio di Sole / dall’alba tramuta in tramonto / dal buio diviene chiarore / il nostro cammino”. Una continua e sotterranea dialettica tra bene e male, tra vita e morte è d’altra parte un po’ una costante di questo libro, come avviene ad esempio tra due poesie speculari: S’

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aggiungono altre voci, dove è la vita che erompe: “Non canta il gallo. / Risponde a chi lo chiama / sporgendosi al balcone del mattino” e Ustioni, dove, invece, è la morte che domina: “Una medusa / strappata al sogno del suo mare, / lasciata in agonia / sulla sabbia arroventata”. C’è inoltre in Angelucci spesso anche la gioia del canto aperto, che prepotente s’ affaccia, ad esempio, in Feluche: “Sono feluche adesso queste ore,/che navigano mari / d’altri mondi” o in La vecchia fontana: “Sempre di meno l’acqua / della vecchia fontana. / Come se la storia finisca / e le nuvole in fuga / non sappiano bene / da che parte scappare”. Ciò che però ancor meglio con evidenza emerge da Si aggiungono voci è l’immutato amore di Angelucci per la poesia, suo bene e suo ristoro; un amore che egli confessa con arreso abbandono: “Io non sono che per questo scrivere, / non esisto al di fuori / di questa piccola eternità / che mi sopravvive” (Come un primitivo - Il poeta); un tema, questo, che ritroviamo anche altrove nel libro in testi quali Svelare è il rischio, che ha questo incipit: “Chi può dirlo / da dove viene, / dove arriva la poesia?” e Sul fondo del bicchiere, la lirica conclusiva della raccolta, che così inizia: “Una goccia di miele / che cade nel latte bollente, / precipita sul fondo del bicchiere / e si dissolve. / E’ questo / la parola di un poeta”. La sua voce così si aggiunge, come suggerisce lo stesso titolo del libro, a tante altre voci umane, ma soprattutto a quelle della natura: e sono queste voci, ad esempio, quella del Merlo infinito (“Le bacche che pilucchi / merlo infinito / sono le parole che non so ridire, / piccolissimi grani di un rosario / che solo tu conosci”); quella del vento di Scirocco (“E’ dunque questo, quello dell’autunno / il vento che aspettavi? / Quello che fa cadere con le foglie / le parole, / che spoglia gli alberi / e veste le domande”); o ancora quella de La vecchia fontana (sopra citata). L’espressione poetica è divenuta dunque per Angelucci una ragione di vita che a lungo l’accompagna nei giorni; e questo suo nuovo


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libro ci dà la conferma che si tratta di un amore vero e non di effimera durata. Liliana Porro Andriuoli

NOTTE DI SOLITUDINE

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ritorneranno nella mia mente impeccabili. E solo allora animeranno di nuovo, davanti ai miei occhi, come un film cinematografico, i naufragi, i sogni e le aspettative, dei miei anni giovanili.

Stanotte sto da solo vicino alla finestra della camera, anche se snobbo un po' la solitudine. Sto da solo perché con gli «amici» mi sento estraneo, e un estraneo è sempre più maledetto di quello che è da solo. Un bicchiere di buon vino, musica rilassante, e questi pochi, sparsi pensieri, forse colmeranno la mia solitudine e manderanno via la paura del silenzio assoluto.

Bevo il mio ultimo goccio. Lascio il bicchiere sul banco della cucina. Abbasso piano piano la musica fino al momento in cui regnerà il canto dei grilli. Spengo le luci e mi sdraio sul letto lasciando che tutta la stanchezza del mio corpo venga fuori dal fondo della mia anima. E chi sa?? Forse domani verrà fuori il desiderio vero entro la notte della solitudine! Themistoklis Katsaounis

Sul cielo di Agosto, appaiono tutte le stelle, anche quelle che si trovano nelle galassie più lontane. Una di queste cade lentamente, entro la notte, ed esplode come fuoco d'artificio, spegnendo le paure, illuminando il buio della mia anima. Esprimo subito un desiderio, (secondo un gioco vecchio e bambinesco) per la realizzazione di un sogno del passato che ancora arde lentamente dentro il mio cuore. E il flusso eterno delle acque, del fiume del tempo, non ha spento ancora questo sogno. Tutte queste semplici sensazioni quotidiane creano i dettagli della mia vita. La solitudine, la musica, l'attesa del futuro e il liquore, e tutto quello che mi collega con l'Universo adesso, entro questa tristezza dolciamara. Perché anche questa tristezza della solitudine nasconde sempre dentro di sé una gioia dolce.

Traduzione dal Greco di Giorgia Chaidemenopoulou

Sfortunatamente nella mia vita posso avere fiducia soltanto nei fatti «puri» che lascio che accadano. Solo dopo tanti anni questi istanti

IL CIELO SCONQUASSATO Il cielo incupito, il celeste infinito come crollato, un velo nero stretto attorno. Tutte le glorie, le miserie, le storie, i monumenti, gli ori ravvolti. Spenta la luce degli astri, si è annullato il cielo. Solo l’uomo in solitudine smarrito. Il Dio eterno come un gigante caduto, la faccia e gli arti immensi da un orizzonte all’altro, nell’oscurità un cataclisma, chiuso l’Universo precipitato nella rabbuiata fossa della città. L’occidente massa greve con striati filiformi bagliori. Un’aria minacciosa, divorato lo spazio senza cammini. Il petto una voragine, frantumazione del destino umano dissolto, le labili trame dell’interiore sentire nelle lontananze sperse. Leonardo Selvaggi Torino


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LA POESIA DI

DANILA OLIVIERI (Un rapporto d'amore col mare di Liguria) di Luigi De Rosa

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ANILA Olivieri vive a Sestri Levante (Genova), è una ligure doc, e alterna la produzione in lingua a quella in dialetto. Nel campo della poesia in italiano ha pubblicato, negli ultimi anni, quattro sillogi con la Montedit di Melegnano (Milano) nella Collana “Le schegge d'oro – I libri dei Premi”, intitolate Sole di scirocco, Voli nel profondo, I giorni della Merla, Le parole del vento. Ha poi selezionato, da ciascuna di queste quattro raccolte, le poesie ritenute maggiormente indicative dei suoi temi e della sua ispirazione di fondo. Le meglio riuscite, quelle più vicine al suo cuore e alla sua mente, quelle che la potessero meglio presentare al pubblico dei lettori di poesia. Nel 2014 ne è scaturita una quinta pubblicazione, sempre per i tipi delle Edizioni Montedit, una vera e propria autoantologia organica e armoniosa, che è stata realizzata come 3° Premio assoluto del Concorso Letterario “Città di Melegnano” - Sezione Poesia. Il titolo del volumetto, di 35 pagine, è Il mio raccolto canto, ed è integrato da un sottotitolo che recita: (versi trovati sulla riva come ciottoli, raccolti a dare voce al senso d'una vita). In effetti, la poesia della Olivieri, nel suo nucleo essenziale, è la storia di un'anima solitaria e meditativa, estremamente sensibile al bello della Natura e dei buoni sentimenti. Un'anima che cerca e trova dolce consolazione alle pene della solitudine e dell'implacabile trascorrere del tempo (che è visto, tra l'altro, come un subdolo attentatore alla grazia del suo corpo di gazzella) sia negli affetti familiari per i quali vive, e sia, particolarmente, nella Natura che la circonda. Cioè nel mare che l'ha vista nascere e vivere, nella vegetazione di bosco e sottobosco di zone marittime, in quella propaggine di Liguria che dalla penisoletta di Sestri Le-

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vante e dal suo entroterra si sporge fino ad abbracciare lo Spezzino e, ancora più in là verso Levante, la Toscana. Le persone verso cui si dirigono i suoi affetti familiari sono la madre, il figlio, il marito. Specialmente alla madre e al figlio sono dedicate belle liriche (per esempio, per la prima, la poesia Potevi dirmelo, per il secondo la poesia La sera del libeccio). Quanto al mare, tra l'Autrice e lo stesso c'è un feeling particolare, se è vero che lei si trova a suo agio, fisicamente, psicologicamente e artisticamente, sulla spiaggia, particolarmente d'inverno, cioè lontano da bagnanti, nella solitudine più assoluta. La lirica Io e il mare, d'inverno interpreta armoniosamente questo rapporto di vita: “Cammino sulla spiaggia a piedi scalzi su cenere e sabbia e ciottoli da sale erosi. In inverno – al tramonto – io e il mare entrambi soli e in veemente simbiosi. Furiosa con la vita m'alleggerisco camminando, il volto sferzato dallo scirocco. Furente d'abisso, il mare s'allevia frangendo la scogliera e frammentando la sabbia in grani di dolore. Io fulgente delle mie avversità il mare dell'avvampare del cielo entrambi rilucenti e prigionieri della ragnatela del fuoco della nostra solitudine. D'inverno, io e il mare.” Si noti quell' entrambi soli. E si noti, pochi versi dopo, quella nostra solitudine. Come se la solitudine fosse una condizione ineludibile di vita, che colpisce sia l'essere umano che la Natura nei suoi elementi fondamentali. Anche così si può trovare un senso alla propria vita individuale, se non, addirittura, alla vita umana in generale. Col ritorno dell'individuo singolo (in questo caso, di una donna dalla ipersensibilità particolare, di una poetessa) nella consolatoria Unità del Tutto, al di là


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delle migliaia di sfaccettature precarie del vivere quotidiano, continuamente turbato dall' ansia. Amore per il mare significa, ovviamente, anche amore per il sole (vedi La luce del sole) e amore per il vento (quasi onnipresente, nelle poesie della Olivieri, Vedi I due volti del vento, vedi La sera del libeccio, ove, mentre parla a suo figlio, ricorda il canto di sua madre quando la sera del libeccio / sul mare spalancava i balconi.). Luigi De Rosa Danila Olivieri – Il mio raccolto canto – Ediz. Montedit, Melegnano (Milano) 2014 – pagg. 35 – € 6,50.

POEMA AL POETA SOLO

mani che operano sicure e con successo senza causare alcun dolore, come promesso, mani che alla fine dei controlli con delicatezza tolgono dall’occhio operato la lente protettiva … Sono le mani del mio dottore, la cui voce rassicurante e gentile sa anche essere energica e imperiosa se per il mio bene deve impormi un necessario intervento per il glaucoma. Senza dolore. Grazie, dottore ! 25 marzo 2015

Es diferente nuestro universo: estamos más cerca de las estrellas y pronto seremos una de ellas a tiempo de evitar la soledad absoluta. Mientras vivimos los años se empeñan en hacernos recordar la fuerza del combate a la muerte, que afinal, es nuestra mayor victoria! Teresinka Pereira USA

MANI per il Dottor Matteo Sacchi Mani leggere come ali di farfalla che si posano lievi sulle mie ciglia per sollevarle e guardarmi nell’occhio attraverso il luminoso microscopio, mani che riscaldano con dolcezza nella stretta per infondere coraggio prima dell’intervento temuto,

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Mariagina Bonciani Milano

DA L’EPOPEA DI SEYRAN1 Cominciamo a vivere nel pianto Sappiamo bestemmiare prima di apprendere a parlare Se metà del nostro lessico è di lode Il resto è maledizione. Quale brocca si riempie Quale sorgente scorre veloce come noi? Noi siamo la corda più tesa Ma Quanti Eyüp2 si stupiscono della nostra pazienza Le nostre tribù hanno occupato le montagne Siamo un popolo in piedi Le bidonvilles delle città sono la nostra immagine Abbiamo logorato mille civiltà sedentarie Non è logoro il tamburo che batte per noi il segnale della migrazione. Gülten Akin Trad. Piera Bruno Da Segni Lettere Suoni, De Ferrari Editore, 2002. 1 - Quartiere di Ankara dove sono confluite le popolazioni provenienti dalle zone, spesso aride e povere, dell’est anatolico. 2 - Personaggio popolare, noto per la sua pazienza e corrispondente al Giobbe della Bibbia.


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GIORGIO CAVALLINI: NUOVI SCRITTI E PAGINE SCELTE di Elio Andriuoli

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RITICO acuto e fecondo, Giorgio Cavallini ha pubblicato nel 2014 un importante libro di saggi dal titolo Nuovi scritti e pagine scelte (Editore Stefano Termanini, Genova, 2014, € 15,00), che degnamente si aggiunge ai molti altri suoi pubblicati negli anni. Gli autori qui trattati vanno dal Gozzi al Pascoli, da Luzi a La Capria, da Foscolo a Manzoni, cui si aggiunge un ampio saggio sul seguente argomento: Crisi della personalità e dissoluzione delle strutture narrative del naturalismo nel romanzo europeo del primo Novecento. Nel suo saggio su Gasparo Gozzi Cavallini mette in luce come questo scrittore tratti il tema del poetare in maniera diffusa e convincente; il che avviene, ad esempio, nel sonetto intitolato appunto Intorno al poetare, nel quale troviamo questo ammonimento: “Cantate solo quando il cor si desta”; e ancora: ”Stu-

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diate i sentimenti naturali”. Altrove poi egli scrive: ”Avrò sempre a dispetto / quell’ armonia che ognor suona a distesa, / come fan le campane d’una chiesa”. Nel volume La difesa di Dante, Gozzi evidenzia (e Cavallini lo rileva) come questo sommo poeta abbia saputo introdurre nel suo poema “gli effetti dell’epico, della tragedia, della satira, della poesia lirica e di quant’altre mai poesie fossero al mondo inventate”. Passando al Pascoli, Cavallini, nella sua Postilla alla poesia pascoliana Nebbia dimostra come “lungi dall’essere attratto da ciò che è grande e lontano” Pascoli “preferisca rivolgersi a guardare e soprattutto a vedere … ciò che è piccolo e che gli è vicino”; e dimostra inoltre come una poesia quale Nebbia, al pari di altre (e tra queste vi è innanzi tutto Il gelsomino notturno), “riesca ad esprimere una trama di segrete corrispondenze e di sensazioni simultanee, musicalmente modulate e ricche di espressività”. In La parola vita nella poesia di Mario Luzi, Cavallini ci dà la prova di quanto diffusa sia questa parola nella poesia luziana e dell’ importanza che assume in essa “il motivo della vita, percepita e rappresentata nel suo mutamento perenne, nel suo flusso continuo e in arrestabile”. Ed è la vita in Luzi non soltanto “vita dell’uomo, ma anche, e forse più, delle creature animali e delle molteplici forme di vita, silvestri e terrestri oppure marine oppure aeree e celesti, che popolano il nostro mondo”. E accanto alla parola vita, c’è in Luzi anche la parola luce, che assume molteplici e profondi significati. Nei due capitoli: La leggerezza - si potrebbe dire ‹natatoria› - dell’ultimo libro di Raffaele La Capria e Tre brevi interventi su Raffaele La Capria, Cavallini prende in esame la più recente produzione di questo narratore, contenuta nel suo libro Esercizi superficiali, che viene qui studiato con cura. Nella seconda parte del libro, Personaggi moderni e contemporanei: Foscolo, Manzoni, il Novecento, Cavallini si sofferma dapprima sulle Ultime lettere di Jacopo Ortis, con un interessante raffronto tra le diverse edizioni di


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questo libro (da quella del 1799 a quella londinese del 1817) dalle quali emerge l’ affinamento dell’arte dell’autore, combattuto da violente passioni, ma capace anche di sublimarle, in modo da darci il primo vero testo del romanticismo italiano. Cavallini evidenzia inoltre il valore del libro che, al di là dell’eloquenza e dell’enfasi di taluni passi, contiene lettere “ricche di suggestione ed anche di vigore per la schiettezza degli spunti lirici e delle note di paesaggio, per la concisa sentenziosità di certe massime (e) per la tensione profetica che vibra un alcune pagine di alto insegnamento”. Notevoli in questo romanzo sono del pari “le vibrazioni delle creature e delle cose”, “la riflessione politica, etica ed esistenziale”, nonché la “varietà delle soluzioni stilistiche”. Si tratta infine di un libro che “presterà temi, moduli e stilemi alla poesia lirica dei nostri romantici”: il che contribuisce ad aumentarne il valore. Su alcuni personaggi del romanzo I Promessi Sposi, è un capitolo che contiene uno studio accurato e penetrante su alcune figure del capolavoro manzoniano, a cominciare da quella di Agnese, una popolana non sprovveduta e anzi capace di felici intuizioni, come quella del “matrimonio segreto”, che architetta e sostiene, anche se non riesce a condurlo in porto. Di lei Cavallini ci offre alcuni tratti essenziali, cogliendola in momenti cruciali della vicenda narrata. Ben diversa è la figura di Lucia, che qui è colta nella “fondamentale coerenza di parola e di atteggiamento che ne caratterizza il dire e il fare in piena rispondenza con la linearità del suo animo”; figura nella quale “la verecondia e la modestia si accompagnano alla profondità del sentire” in ogni momento del suo operare. Il suo naturale riserbo può farla apparire fredda, mentre invece è commossa e partecipe. Cavallini si sofferma ad analizzare alcuni episodi nei quali Lucia compare ed emerge con singolare efficacia, come quelli del suo colloquio, che si rivelerà determinante per le conseguenze future, con l’Innominato e quel-

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lo dell’incontro con Renzo nel lazzaretto, dove gli parla del voto fatto alla Madonna che comporta la rinunzia a sposarlo. Ma molti sono i punti del romanzo in cui compare, sempre coerente a se stessa: tipico quello del colloquio con donna Prassede, nel quale “il Manzoni spende pagine godibilissime sia per penetrazione psicologica sia per vis umoristica e caricaturale”. C’è infine la figura di Renzo, che Cavallini definisce “pieno di Impeto e di iniziativa, generoso, animato sempre dal desiderio della giustizia, profondamente buono, ingenuo e accorto al tempo stesso”, sicché costituisce un “personaggio vivissimo che si fa apprezzare universalmente”. Il suo amore per Lucia è senza incrinature e la sua lotta per ottenerla non teme ostacoli. Alla fine sarà premiato, sposando la donna alla quale è tenacemente legato. Crisi della personalità e dissoluzione delle strutture narrative del naturalismo nel romanzo europeo del primo Novecento, il saggio che chiude il libro, pone a raffronto due diversi modi di scrittura: quello del romanzo di tipo ottocentesco, nel quale “rimane sempre netto il distacco tra lo scrittore e i personaggi, espressi quasi sempre in terza persona” e quello del romanzo novecentesco, nel quale lo scrittore “a causa della mutata concezione del modo, fondata ora sulla problematicità del reale, … fa della persona umana … il centro o l’essenza di una realtà psichica misteriosa, la quale affiora dalle regioni inesplorate dell’ inconscio per costituirsi come «coscienza»”. Il primo tipo di romanzo è quello di Balzac e di Flaubert; di Zola e di Verga; il secondo quello di Proust e di Joyce; di Svevo e di Kafka; di Tozzi e di Musil; ecc. Ed è questo il romanzo nel quale si assiste alla “disgregazione della personalità umana” e all’ impossibilità “di istituire un rapporto stabile e certo con la realtà”; un romanzo nel quale, grazie alla psicanalisi, si scoprono le “zone oscure dell’inconscio” ed affiorano l’angoscia, l’ alienazione e l’assurdo. Il romanzo diventa così un’operazione “conoscitiva ed espressiva che riesce a far emer-


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gere dalla superficie delle cose il senso nascosto e profondo della realtà”, facendoci scoprire «una porzione dell’esistenza» finora ignota”. Vari e di molto interesse sono pertanto, come può constatarsi da queste brevi osservazioni, gli argomenti del libro di Giorgio Cavallini, il quale ci offre con esso una molteplicità di spunti e di riflessioni che valgono ad arricchire le nostre conoscenze e che ancora una volta dimostrano, la capacità di questo studioso di pervenire, con coerenza di indagine scientifica, a degli importanti risultati. Elio Andriuoli

LA FORZA DI SE STESSI Da dentro come vesti infiammate escono veloci i sentimenti fuori, danno luce ai versi, acerbità rudezza con i ritmi che avanzano nell’eloquio concitato. L’altezza morale innalza l’uomo nella interezza, con spontaneo dire i versi immediati fluiscono, sicure, altezzose figure. Armonia interiore, stabilità di pensieri, ostinatezza che va dietro suoni duri e prorompenti, che audaci si spingono senza arretrare per luoghi liberi e immensi. Nello spazio di sé l’espressione in brillantezza altisonante con baldanza di forme compiute. Gli esseri in concomitanza di moto e di vita fanno i sentimenti. La disarmonia e le divisioni pietre incuneate in aridi deserti. Se ampiezze alle fonti del cammino non ci sono, abbiamo pantani marci, con pelle verdastra non lasciano vedere. Il tempo fatale, lo spingi, una coltre nera sbarra davanti. Nei giorni vili propugnano fede e coerenza, il tempo si riempie senza sosta. Dritti senza piegamenti e tergiversazioni, impavida difesa di sé

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e dei propri fondamenti di vita come nati e come svolti. Leonardo Selvaggi IL MITO Cinquanta grammi di indifferenza cinquanta di magia peso e sostanza del micio bianco e rosso tolto dalla signora solitaria alla mota di un fosso e adottato. Per non barare sul conto aggiungi qualche grammo di nostalgia; mio comunque il dolente ritorno ai cari pensieri ai moti del cuore agli errori creduti sepolti lontano e - inaspettatamente reinventi da un quieto tramonto nell’azzurrino sguardare di un mito che rughe di battigia, le orme non leggibili del Vecchio fuggitivo, hanno affossato il crocifisso randagio. Piera Bruno Da Segni Lettere Suoni, De Ferrari Editore, 2002.

INSONNIA Crimine quo merui, iuvenis placidissime divum, quove errore miser, donis ut solus egerem, Somne, tuis? (Stazio, Silvae, V, 4) Per i vicoli ciechi dell'insonnia vanamente mi aggiro questa notte, in cerca del riposo che mi sfugge. Ma gli occhi restan fissi nel silenzio, mentre i pensieri corrono nel vuoto, ed uno più di ogni altro mi tormenta col suo rovello. Sono in sua balia. E non spero soccorso né perdono dentro l'intrico della mia foresta. Tutto dei giorni miei bevo l'assenzio. Elio Andriuoli


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MAUTHAUSEN di Leonardo Selvaggi I AUTHAUSEN, uno dei tanti campi di concentramento istituiti in quasi tutta l’Europa dal regime dittatoriale nazional-socialista di Adolfo Hitler dal 1933 al 1945, allo scopo di sfruttare e di sterminare i suoi avversari. Nel campo di Mauthausen dal 1938 alla liberazione del 5 maggio 1945 sono passate più di 206 mila persone ed oltre 110 mila di queste d’ambo i sessi sono state uccise o sono decedute per i tormenti e le pene di ogni forma subiti. Il suolo di questo centro di lavori forzati è intriso di sangue di diecine di migliaia di uomini innocenti. Un cataclisma dell’umanità, una battaglia infernale che ha voluto essere un grido blasfemo contro l’autore del Creato. Allo scopo di ricordare ai posteri ciò che la tirannia della Germania di Hitler ha significato per tutta l’umanità, il Governo austriaco ha allestito sul territorio di quello che è stato il campo di concentramento di Mauthausen un Museo. Poche settimane dopo l’occupazione dell’Austria da parte delle truppe germaniche, alti ufficiali delle S. S. e della polizia germanica Himmler e Pohl visitano le cave di pietra di Mauthausen e le trovano adatte per la costruzione di un campo di concentramento. L’ otto agosto 1938 vengono trasferiti dei deportati del campo di sterminio di Dachau ed ha inizio la costruzione di Mauthausen. Questo è il campo centrale, il campo madre, come lo chiamano le S. S. del servizio di sorveglianza per tutta l’Austria. I campi di concentramento, secondo il decreto (I. I. 1941) del capo della polizia di sicurezza, suddivisi in categorie, Mauthausen assegnato alla terza, comprende gli elementi macchiatisi di colpe particolarmente gravi, gli incorreggibili, i criminali pregiudicati, gli arrestati per misura di pubblica sicurezza, difficilmente rieducabili. Consegnato al campo di concentramento, il deportato viene completamente spersonalizzato. Il suo nome cancellato e sostituito da un

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numero progressivo. Un triangolo colorato, portato all’altezza del petto sulla sinistra, indica la categoria, la nazionalità il colore politico. Gli ebrei portano sotto il triangolo una stella gialla di Davide. II Nel 1938 si trovano nel campo in prevalenza dei deportati criminali. Nel 1939 arrivano dei prigionieri politici dalla Germania e dall’ Austria ed in seguito, nel 1940, migliaia di polacchi, di repubblicani spagnoli, successivamente si hanno grandi trasporti di Cecoslovacchi e ancora Polacchi comprendenti molti studenti, artisti, intellettuali e sacerdoti. Tra il 1941 ed il 1942 ha inizio l’afflusso dei deportati dall’Olanda, dalla Jugoslavia e dalla Unione Sovietica, di migliaia di prigionieri di guerra dal Belgio, dalla Francia. Fra le tante nazionalità si contano 2263 Italiani. Fino al 1939 la maggioranza dei deportati è impiegata nella costruzione del campo e degli alloggi delle S. S., successivamente soprattutto nella cava di pietra. Dal 1943 i deportati lavorano anche nell’industria bellica. In quasi tutte le principali fabbriche di armamenti dell’Austria sono occupati dei deportati di Mauthausen. La stragrande maggioranza dei deportati è costituita da uomini che, per la loro nazionalità, per l’origine razziale, attività politica o fede religiosa, sono considerati dalle autorità nazional-socialiste elementi nocivi al popolo da tenere in arresto per misura di sicurezza. Ad alcuni gruppi di criminali fino alla primavera del 1944 vengono affidate mansioni di direzione dei deportati. Il loro allontanamento, da questi posti nell’ultimo periodo del dominio nazional-socialista, costituisce un importante successo dell’organizzazione internazionale della resistenza dei deportati, creata clandestinamente nel campo nell’estate del 1943. All’inizio del 1945 si hanno le formazioni militari illegali, il cui comitato, diretto da un austriaco, assume la direzione del campo il 4 maggio 1945. Le formazioni militari dei deportati disarmano le unità delle S. S. che non sono ancora fuggite e combattono quelle in ritirata nei pressi del campo e lungo il Danu-


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bio. Il 7 maggio del 1945 i deportati vengono in definitiva liberati dai soldati dell’esercito U. S. A.. III Il campo di Mauthausen è situato in cima ad una collina, nell’Austria superiore, sul Danubio a sud est di Linz. I nazisti per costruirlo costrinsero gli internati a trasportare in spalla blocchi di pietra estratti dalla vicina cava per una scala di 186 ripidi gradini, detta “Scala della morte”. Fino al 1942 i gradini consistevano in grossi blocchi ineguali di roccia, ammassati e disposti senza nessun ordine. Per questa scala migliaia di persone sono morte, alcune fucilate, altre uccise dai massi rotolanti. Dal 1943 nella cava, in capannoni appositamente montati, si trovavano anche diverse fabbriche di armamenti. Nella cava erano impiegati un due mila deportati. Sono morti anche qui migliaia di uomini. Ogni parte del campo costituisce un luogo di orrore, di pene. Era impossibile la fuga, il filo spinato, che circondava il campo era percorso da una corrente a 300 volt. Sulle torri di guardia erette lungo il muro si trovavano delle sentinelle armate di mitragliatrici. Grandi riflettori mobili illuminavano durante la notte gli immediati dintorni del campo. Nella baracca n° 20, chiamata il “blocco della morte” dall’aprile del 1944 al 2 febbraio del 1945 sono stati rinchiusi, rigorosamente isolati e strettamente sorvegliati, circa 4300 ufficiali sovietici, in maggioranza evasi dai campi di prigionieri di guerra e poi ripresi, in gran parte lasciati morire di fame. Le torture ed i maltrattamenti di ogni specie cominciavano subito, appena giunti al campo, ai primi interrogatori. I deportati venivano schierati con la faccia contro il muro, si era costretti a rimanere qui per delle ore e delle giornate in piedi, legati agli anelli di ferro. Una disumanità senza limiti, la vita di ciascuno sottoposta alle atrocità più orribili. Nel settore sanitario in un letto dovevano stare fino a 5 malati. Nell’ultimo anno si contano 8 mila malati stabili, fra questi si sono manifestati anche dei casi di cannibalismo. Il sadismo diabolico delle S. S.: si facevano

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precipitare dei deportati dalle pareti ripide della cava di pietra, che si estendeva dalla strada di accesso fino alla “scala della morte”. Gruppi di ebrei olandesi furono fatti morire in questo modo. Nella parte orientale del campo si avevano baracche prive di acqua e servizi igienici. Nell’aprile del 1945 concentrati circa 3 mila deportati fisicamente deboli, 800 dei quali soppressi dalla S. S. nelle camere a gas. I rimanenti poterono salvarsi grazie alla solidarietà del movimento internazionale di resistenza. Nell’ultima baracca della prima fila, nella stanza “B” si trovavano dal 1941 fino a marzo del 1944 circa 2600 deportati politici ebrei, poi tutti massacrati. Al Museo tante fotografie che ricordano le fucilazioni in massa. I monumenti che si osservano di qua e di là eretti dai vari Stati a eterno ricordo delle efferatezze subite dagli internati. Dai cimiteri di Mauthausen, dalle ceneri dei cremati, sparse in ogni parte si eleva una solenne voce di ammonimento contro le atrocità nazista, fra le più irrazionali della storia umana che giammai potranno dimenticarsi. IV Mauthausen, un inferno maledetto che distrugge giorno dopo giorno, ci si sente troppo stremati di forze, non si ha nemmeno l’ energia sufficiente a ribellarsi, vi domina il senso del terrore, gli animi abbattuti, irrimediabilmente perduti. Si vede l’orizzonte chiudersi, la mente ridotta a pensieri sempre più elementari, la volontà affievolita. Unico desiderio che anima è quello di morire senza troppo soffrire. Nel campo principale vi erano tre forni crematori. Vicino al primo era stato allestito anche un locale per il sezionamento dei cadaveri, nel quale, tra l’altro, si procedeva all’estrazione dei denti d’oro. Altri forni crematori si trovavano nelle succursali di Gusen I, Ebensee, Melk e Hartheim. La camera a gas era camuffata da sala da bagno con impianti di docce e scarichi d’acqua. Dal locale di servizio il gas Zyklom-B veniva fatto affluire nella camera attraverso una conduttura che si trovava all’angolo destro. Molte persone sarebbero entrate nella camera a gas volentie-


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ri, senza dire una parola, si sarebbero messe in file. Tanto non c’era più nulla da sperare. Meglio valeva finirla subito. A lungo andare non si soffriva spiritualmente né si avvertivano ansie di libertà. Era un vegetare, un morire poco per volta. Tutto quello che si svolgeva intorno non importava affatto. Speranze e delusioni erano sconosciute. Ma questo non impediva di patire per tutte le torture fisiche che i tedeschi infliggevano, di rattrappire le spalle istintivamente quando la sferza degli aguzzini sibilava, di essere afflitti con continuità dalla fame più resistente, di provare sempre senso di stanchezza. Si desiderava al mattino di avere uno sbocco di sangue o qualche altra malattia che potevano costituire un’ottima possibilità di essere portati al crematorio. A Mauthausen i forni funzionavano giorno e notte senza interruzione. Ognuno di essi fatto come un comune forno da panettiere, con tanto di pala che serviva a spingere i cadaveri, poteva ridurre in cenere un centinaio di corpi al giorno. Gli stessi deportati erano costretti a bruciare i resti dei loro compagni, a dolorosa testimonianza del grado di bestialità a cui la massa era stata ridotta dai nazisti. Il posto era piuttosto ricercato. D’inverno si stava al caldo, ma soprattutto negli stessi forni si potevano cuocere le patate rubate dai cucinieri. I tedeschi accompagnavano i detenuti con una indifferenza mostruosa, come se invece di un atto decisivo per un essere vivente si trattasse di portare dei soldati ad un bagno o ad una visita medica. Le S. S. spesso sfoltivano una baracca, in cui erano rinchiusi molti russi e polacchi, portando molti di essi al crematorio. Di qui a dodici per volta i disgraziati venivano fatti salire al piano di sopra nella camera a gas, e poi i loro corpi seguivano la triste sorte che tante migliaia di altri uomini avevano già subìto. I rimanenti aspettavano fuori, disciplinati e composti. Una coda, come fanno le nostre massaie quando vanno a comprare il pane. V Il pensiero della morte aveva acquistato a Mauthausen un valore del tutto diverso dalle

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altre località. Morire era un lavoro, come portar sassi, spaccare legna. Le altre fatiche a cui si era obbligati erano per le S. S. un modo per sfruttare fino alla fine la vita del partigiano o dell’avversario politico, con la stessa avidità con cui da morto avrebbero ancora sfruttato le sue ceneri per la concimazione del terreno. I tedeschi non dicevano nei paesi occupati cosa avveniva degli uomini avviati verso le miniere di Rubiz, verso le Alpi bavaresi o le pianure polacche. Lasciavano pensare che fossero deportati solo per il lavoro. Voci drammatiche correvano sulla bocca del popolo. In Italia come in Norvegia, in Grecia, in Danimarca, dovunque la rossa bandiera con la svastica sorgesse significava schiavitù per i vinti. Se le voci non facevano nulla vedere, i cadaveri di migliaia e migliaia di uccisi parlavano chiaro. Meglio i convogli a Mauthausen, Auschwitz, Dakau, Buchenwald, che l’ assillo del terrore, del pensiero continuo della morte, del supplizio della fame e del lavoro bestiale per chi si fosse macchiato del terribile crimine di amare la libertà. Le S. S. seviziatori, sterminatori di persone, che amano la vita nelle sue più belle manifestazioni, usano tutti i modi per lacerare anima e corpo di chi è facile ai sentimenti di uguaglianza, di amare gli umili, gli inermi, al di fuori di ogni violenza e di egocentrismi belluini. Alla base delle tante efferatezze che si svolgevano nei lagher, la pazzia. Gli uomini che erano nei campi non erano normali. Di troppo sangue era impregnata l’aria, troppo odio accomunava migliaia e migliaia di cervelli, troppa tensione nervosa era nell’ambiente perché qualcuno potesse sfuggire alla pazzia di Mauthausen. La barbarie gode alle sofferenze, alle distruzioni delle persone amabili, delicate, dalle idee illuminate, dai principi di moralità, dal senso profondo della bontà e della pietà. La crudeltà mentale studiava tutti i modi che facevano la carne dei deportati a pezzi per il dolore provocato: il supplizio delle docce fredde all’aperto, le norme che rendevano impossibile sempre più la speranza di sopravvivere. 1500 deportati hanno preferito il suicidio, quasi per salvare dalle lenti trucidazioni, per-


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petrate con acredine dalle S. S., le loro idealità tenute ogni giorno in piena esaltazione e purezza spirituale. Pazzo criminale l’ufficiale che comandava il campo, pazze le S. S. che uccidevano per divertirsi, i capi camerata, tutti pazzi, anche gli internati lo diventavano a poco a poco. L’aria di Mauthausen dava ad ognuno una specie di ubriachezza del terrore, rendeva inumani gli stati d’animo, i detenuti come avvolti da una scura coltre di nebbia, si era al confine fra la realtà e la pazzia. Questo spiega l’indifferenza con cui si accettava di morire, le sofferenze non si avvertivano. Tanta la tranquillità con cui i capi uccidevano. Tutto appariva normale: vedere il compagno cadere sfinito nella camerata, dieci individui ammazzati a colpi di piccone, un gruppo di trenta avviati nella camera a gas. La sensibilità ritornava nella sua giusta manifestazione nelle officine, nei cantieri di costruzione, tra i deportati vivo si faceva l’istinto della solidarietà umana. Se uno si faceva male, ferito da un sasso, o cadeva dall’impalcatura, era subito un correre di deportati. I feriti sul lavoro venivano assistiti amorevolmente. In baracca un deportato con la testa spaccata da una sgabellata, per aver risposto male al capo, non avrebbe impressionato nessuno. L’ impossibilità più evidente quando si assisteva alle esecuzioni, tali ammazzamenti si dividevano in due specie, quelli solenni, formali, decretati dai tribunali per atti di tradimento o di sabotaggio e quelli spiccioli di ogni giorno, stabiliti dalle S. S. o dallo stesso capo baracca. Per quest’ultimo genere di punizione erano più che sufficienti uno sgabello in testa, l’ affogamento, un colpo di fucile. A Mauthausen come in tutti i campi di sterminio, ideati da Himmler, lo stillicidio di uccisioni giornaliero è continuo. Atroci le impiccagioni, non è il cappio a finire il condannato, ma il gancio del beccaio. VI Il lavoro è l’ancora di salvezza, si lavora come disperati, come macchine. I detenuti sanno di poter vivere solo fino a quando potranno manovrare una pala o reggere un badi-

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le. Schiavi delle S. S., grazie a queste si può restare ancora su questa terra. I lavori vengono appaltati, gli scavi per una galleria, la confezione di tante migliaia di spolette, in concorrenza con le altre ditte germaniche, vengono affidate le opere a prezzo più basso. Le imprese civili si servono di macchine di ferro e di acciaio, l’impresa di Himmler si serve di altre povere macchine, dei deportati, fatte di ossa e di muscoli, di sangue e di vita. Macchine che si logorano, che se non rendono abbastanza, in complesso non richiedono nessuna cura. Si lavora dalle dodici alle sedici ore al giorno. Gli schiavi rendono, il lavoro comincia ogni mattina alle quattro, si fanno turni continui senza un periodo di riposo, spesso si cade sfiniti accanto al torchio o al piccone. La sveglia costituiva un tormento. Chi si alzava in ritardo, rispetto alle urla del capo, rischiava di non alzarsi mai. Le povere membra sempre stanche, si desiderava ancora un po’ di sonno che era come obliarsi di tutti i tormenti della giornata. Il giaciglio in cui si dormiva era un rifugio, vi si gettavano le membra come un pesante sacco fastidioso. Bisognava correre all’adunata, anche se le ossa facevano male per le battiture, anche se si aveva la febbre. Di corsa tra gridi bestiali. Veniva distribuita la brodaglia, tisana o surrogato di caffè che scaldava solo lo stomaco. A Mauthausen ogni movimento è fatto con confusione, si corre, mai in ordine, ammassati come pecore sotto la frusta. Per passare attraverso la porta ci si precipita, lo stesso quando si va al lavoro, schiaffi e calci per chi sosta anche poco. Le botte fioccano ad ogni spostamento. Le S. S. dominano con il terrore. D’inverno il freddo paralizza, chi è lento riceve colpi così forti da restare tramortito. L’ ambientazione di Mauthausen con i suoi sistemi mirava allo sterminio dei deportati. Anche l’ alimentazione nella quantità e nella sostanza mirava a questo. Veniva distribuito un litro di minestra nella quale galleggiavano poche rape o poche fette di patate. Qualche volta c’era un po’ di orzo. Se uno cadeva a terra era massacrato di botte, se sospendeva un momento il lavoro era finito. Terrore e fatica.


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VII Le S. S. sotto la nordica freddezza di carattere hanno avuto accensioni di furore. Uno scatto di rabbia, un momento di malumore, il fanatismo, tutto determina l’esplosione violenta e crudele di manifestazioni sanguinarie. Rare prove sono state di animo buono e civile date da alcuni individui teutonici, eccezionali nel complesso di un popolo che si è dimostrato in cinque anni di guerra con ferocia. Gli anni della barbarie, vissuta nei campi di concentramento, rimangono fissi nella mente, efferatezze folli e inconcepibili che devono servire per stimolarci a cammini di sempre migliore progresso, ad eliminare le violenze, i troppi egoismi, le corruzioni frequenti oggi in epoca tecnologica, le tirannie ancora sussistenti in tanta parte del mondo, le sofferenze, la fame che rendono sempre irrealizzabile la fratellanza che solo potrà creare un’umanità felice degna delle sue più connaturate caratterizzazioni. Mauthausen è un santuario, il cielo si è abbassato, un’atmosfera intorno tutta spirituale si raccoglie. Non ci sono stati limiti espressivi, tutto si è detto sulla barbarie di Mauthausen, sui vari momenti che sono stati vissuti da uomini che hanno lottato per gli ideali di Patria, per la giustizia, contro ogni forma di oppressione. Onoriamo la saggezza di persone volte all’amore per tutto ciò che è bello e buono, ai sentimenti, ai principi che fanno i popoli uniti in una reciprocità di idee, l’uno verso l’altro, in una corrispondenza di rapporti collaborativi. Onoriamo le sofferenze patite dai deportati, le loro energie interiori, la fede rifulgente di vittoria contro i malvagi, di persone che hanno sentito dentro ribollente il senso del divino, tutta un’ampiezza di pensieri e di capacità meditative che le S. S. hanno creduto di distruggere. A Mauthausen vive l’ altezza morale dei deportati che le ardenti volontà sapranno capire in tempo di malcostume: il materialismo di oggi apporta, con tutte quelle discrepanze che creano solitudine e disamore, lotte di potere. I tanti mali che ancora persistono saranno soppiantati solo se imitiamo le grandi virtù di sopportazione, di resi-

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stenza, quelle avute dagli internati di Mauthausen. Saremo uomini combattivi, coerenti con energie di riflessione e intellettive, pronti a raggiungere mete di grande valore umano. Leonardo Selvaggi

PRIGIONE Vorrebbe la mente spaziare nel libero mondo infinito, ma nell'area si sente costretta angusta d'una cerchia di monti che in una la chiudono prigione, oltre le vietano di spingersi quel pezzo di cielo, senza stelle senza luna, senza sole, che appena in alto si scorge. Antonia Izzi Rufo Alda Fortini - Natura morta (1977) ↓


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MAURICE CARÊME: IL VOLTO DI UN POETA ALLO SPECCHIO di Ilia Pedrina

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ORNO per un poco indietro nel tempo. Sono seduta alla Taverne Bellevue, in Avenue Paul Janson, qui ad Anderlecht e si avvicina il tramonto del 12 febbraio 2012: ne vedo i tratti in cielo, interrotti dal profilo gotico della Cattedrale. È passato solo qualche minuto da quando alla Maison Blanche ho salutato con grande affetto Jeannine Burny, la 'Bie-Aimée' del poeta belga Maurice Carême, (nato a Wavre il 12 maggio del 1899 e spentosi proprio ad Anderlecht il 13 gennaio del 1978), sul quale sto ancora lavorando con entusiasmo ed assiduità. Dalla Rue Nellie Melba, sede della Fondazione che porta il nome del poeta, a questa piazza con cattedrale la distanza è breve ed il tratto si compie in pochi minuti. Sono molto emozionata e mi metto subito a leggere 'ÊTRE OU NE PAS ÊTRE', una raccolta di poesie pubblicata da 'L'age d'homme' nel

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2007, che ho appena acquistato e che porta in copertina un disegno di Michel Ciry intitolato 'Emmaus', del 1967. Questa raccolta è inserita nella Collana 'La petite Belgique' diretta da Jean-Baptiste Baronian e Jacques Booth. Il fluire della tessitura poetica viaggia sciolto ed interrogativo ed attraversa 105 poesie, nelle quali le parole si rincorrono in rime e ritmi nei quali la vita del poeta ci viene presentata come un viaggio interno allo specchio dell'esistenza stessa, cogliendo cose di sé in modo concreto e fantasioso, ora assorto nei grandi e severi nodi dell'esistenza umana e sempre vitalissimo, carico di speranza e di innocente, consapevole ironia. Jeannine Burny mi ha fornito, in una lettera in tempo reale del 19 febbraio del 2012, con rara precisione, l'elenco delle occasioni, dei luoghi e dei tempi nei quali sono state scritte e corrette le poesie che compongono questa raccolta, non senza riferire testimonianze delicatissime e toccanti. Parto dalla poesia che ha dato il titolo alla raccolta. “ÊTRE OU NE PAS ÊTRE Être ou ne pas être, Absent et present, Comblé de bie-être, Parfois de tourments, Replié sur moi, Généreux pourtant, Croyant sans la foi Et n'obéissant Qu'à ma propre loi, Range et bohème, Passionné de tout, Mais n'allant quand même Jamais jusq'au bout, Pouvant être aussi Taiseux que chantant, Damné que béni, Prince que mendiant, Hélas! comment faire Pour mieux se connaître!” (Maurice Carême:'Être ou ne pas être', coll. La Petite Belgique, ed. L'Age d'Homme, 2008, pag.19, scritta ad Anderlecht, nella casa del poeta, la Maison Blanche).


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Un profilo sincero, da un lato all'altro di tutti i possibili modi e moti dell'esistere, con quel se stesso dentro dell'essere poeta che lo invita dichiarare con innocenza in tepore: 'Croyant sans la foi/Et n'obèissant/Qu'à ma propre loi...'. Le parole si susseguono a cogliere estremi che tra loro si possono congiungere, fondendosi in misteriosa miscela, là dove la doppia dimensione dell'essere o del non essere affatto lascia al di fuori di sé la complessità shakespeariana e al 'ou' sostituisce il 'et' e il 'que': 'Absent et presént'...'Range et bohéme'...'Taiseux que chantant'/Damné que béni/Prince que mendiant'. Tutto parte dall'aver fuso e confuso le differenti dimensioni del tempo, la presenza e l'assenza tutte tese ora ad essere l'una il risvolto invisibilevisibile dell'altra in segreto, prezioso, originale rispecchiamento. Riporto direttamente dal testo che la giovane studiosa francese Melinda Legendre mi ha inviato in tempo reale, una limitata selezione degli interventi che vanno ad arricchire il contenuto prezioso del DVD 'Maurice Carême Poète Belge - Poète Européen - Poète International - Prince en Poésie' Production Image Création.com et Fondation Maurice Carême, Interviews rèalisés par Jeannine Burny et Martine Barbé, Montage et Postproduction 'Studios Cheyenne', Avec le Soutien de la Communauté Française, nella prima sezione, che risale al 1991, con i seguenti riferimenti: Marguerite Milhaud, èpouse de Darius Milhaud, compositeur: “Alors, quand Milhaud a mis Carême en musique, tous les musiciens à Paris et specialement les compositeurs disaient: 'Qui est ce Carême?' et Darius, ravi, disait: 'C'est un Belge'.” Richard Camand, historien et homme de Lettres: “J'ai écrit un article sur lui; je me souviens avoir parlé de lui à un poète italien, un ami de Prosetti, Rolando Mora. Je lui ai lu six petits vers. 'Ça c'est Carême.' Il en etait rèellement abasourdi. Il a dit: 'C'est vraiment l'homme le plus grand.” George Astalos (poeta, drammaturgo, scrittore rumeno nota di I.P.): “La Belgique, ces 60 derniers années, a aligné une brochette d'e-

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xceptions de poètes dans l'ècurie de la littérature universelle.... À ce niveau d'espression, à ce langage qui frise l'universel, il n'y a plus de régionalisme possible, on ne peut pas interpréter: 'Oh, il est bien belge!' Non, ce ne sont pas des frites! C'est autre chose... Je crois que le tendresse est le mot qui convient le plus dans les qualificatifs, dans les appellations qu'on peut lui coller, qu'on peut lui attribuer. C'était un grand tendre.” Arthur Haulot. Co-directeur du Journal des Poètes, Fondateur des Biennales Internationales des Poésie: “Carême n'a jamais perdu sa fraîcheur dans son écriture. Seulement il va beaucoup plus loin: il sort du cadre classique, qu'il s'était donné à luimême et il est un homme beaucoup plus riche et beaucoup plus signifiant que le poète pour enfants....Bien sûr qu'il est encore pour nous tous ce poète adorable de l'enfance qu'il a été. Il avait un don d'enfance absolument extraordinaire qu'il n'a jamais perdu. Mais ce n'etait qu'une partie de l'homme, du poète. Moi, j'etais très hereux à un moment de plonger dans des recueils de Maurice, qui n'avaient plus rien à faire avec ce bon, gros, charmant et gentil qui enchantait les enfants, mais qui était l'œuvre à ce moment-là d'un homme douloureux, d'un homme à la recherche de lui-même, d'un homme braqué sur les grands thèmes de la vie et de l'inquiétude de la vie....” Akarova. Peintre, danseuse, sculpteur: “Maurice Carême, par sa poésie,pouvait donner de lui de quand il put élever sa personne et chanter dans toutes sortes de langues -qui est cependant le français-, mais de langues humaines, faire parler ou l'enfant ou l'homme, ou la mère ou le pére... Le drame humain joue son rôle... Je sentais dans son œuvre quelque chose d'intense, de profond, de senti.” Claire Dumas, romancière: “Disons que l'idée était: 'le monde doit être si beau que possibleet je ne suis pas là pour y amener des choses quii crient, qui hurlent, qui sont laides; je suis là pour augmenter cette beauté... Il tissait une toile de bonté de douceur autour


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de lui....Je ne pense pas qu'il était un optimiste; c'était un joyeus déterminé. Il voulait que la vie soit belle, il voulait lui faire confiance, il voulait en tirer et en donner le meilleur. C'était le contraire d'un pessimiste...” Si è capito che provo un vero disagio a lasciare sotto silenzio le altre voci vere, di musicisti, scrittori, poeti, artisti, uomini d'arte e di cultura come André Bay, Marcel Béalu, Pierre Béarn, Henry Billen, Jacques Charpentreau, Harry Cox, Felix De Boeck, Jacques Douai, Laszlo Ferenczi, Jules Lismonde, Pierre Menanteau, Andree Sodenkamp, JeanPaul Sterq e Liliane Wouters (per la sezione del 1991) e Jean-Baptiste Baronian, Jeannine Burny, Jacques De Decker, Diana Gonnissen, Krassimir Kavaldjiev, Jacques Leduc, Jean Pierre Vanden Branden (per la sezione del 2010), tutti importantissimi e tutti calibrati intorno ad un rapporto aperto, diretto, competente e leale che gli intervistati hanno intrecciato con Maurice Carême, con questo poeta intenso e profondissimo. Ma torniamo al testo in esame, alla raccolta che mi ha visto commentare e direttamente in lingua francese, di certo senza badare agli errori, tante delle poesie che la rendono quasi necessaria per un incontro intimo con se stessi, fatto di riflessioni, di gioiose fantasie che consolano, di analisi mai tenebrose o contorte della realtà che ci circonda. Scelgo ora quella che Melinda Legendre mi ha letto a voce alta, provocando in me una incredibile suggestione di suoni in cadenza rimata, di ritmi, d'immagini: “LE SOIR TOMBAIT J'ai bien ri, bien bu, bien mangé. Je me suis assis au jardin Dans l'ombre fleurie du pommier Et j'ai parlé à mon voisin. Le soir tombait. Je suis rentré Apres avoir vu les étoiles Faire trembler tout le ciel calme Au-dessus de mon pigeonnier. Alors pourquoi, dans ma maison, Aussi heureux qu'on puisse l'être,

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Ai-je pensé à des prisons, À des libertés sans fenêtres?” (Maurice Carême, op. cit. pag 70, scritta a Souillac nell'agosto del 1975 – per gentile informazione di Jeannine Burny). L'altro ti è vicino, non sei solo. Sazio d'alimenti, t'immergi in un crepuscolo che volge verso l'oltre, mentre l'ombra in fiore del melo via via si fonde con la sera, permettendo alle stelle di mettere in fremito il cielo, prima calmo: i piccioni sono come il simbolo della coppia che s'ama e del ritorno a casa, costi quel che costi, in una dimensione di libertà al naturale che per contrasto fa emergere quell' interrogativo che condensa in sé una condizione umana tristissima, della quale il poeta stesso si prende carico. Perché l'altro, se infelice, scende su di noi con la sua sventura e ci sottomette alla sua tristezza: è vero, il poeta ci permette qui un incontro a sorpresa con l'altro che non ci è al fianco, né è libero di stare sotto il cielo stellato, in una sera di primavera. Allora ci si presenta come un altro specchio, è la poesia stessa, in canto, ad abitare il suo pensiero e questo contamina il nostro e ci forza inevitabilmente a pensare ad una libertà come prigione, a delle libertà senza finestre che forse, spesso, ci portiamo dentro. Jeannine Burny mi scrive in quella missiva che tengo particolarmente nel cuore come testimonianza di una straordinaria e preziosa Amicizia: “.... Comme tu peux le voir, les poèmes sont été écrits entre 1960 et 1976/1977 et mis au point jusqu'à 13 heures le 13 janvier 1978. Je lui dictais les poèmes et il me donnait les corrections. Il est mort à 11 heures du soir ce 13 janvier. Je t'embrasse affectueusement. Jeannine”. Allora si profila un altro viaggio ad Anderlecht, questa volta al fianco di Melinda Legendre, dotta di cose dell'India ed Angelo di dolcezza. Ilia Pedrina Pag. 23: "Maurice Carème nel 1943 Photo Le Berrurier. Fondation M. Carème, tratto dal testo di J. Burny 'Le jour s'en va toujours trop tot. Sur les pas de Maurice Carème', pag. 203, già recensito da I. Pedrina su questa Rivista


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Comunicato STAMPA XXV Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2015, la XXIV Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, c. s., lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2015. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in

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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia- Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2015). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P. -N. Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio.


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I POETI E LA NATURA - 43 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

FIORI E PIANTE NELLA POESIA DI ROSA ELISA GIANGOIA

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osa Elisa Giangoia, genovese di origini piemontesi, già docente di Liceo, presidente del Gatto Certosino (www. ilgattocertosino.wordpress.com) ha al suo attivo numerosi libri, sia come narratrice che come critico e come poetessa. In tale sua ultima veste le do il benvenuto, con piacere, in questa rubrica (che continua ad uscire dal novembre 2011, e la cui prima puntata era dedicata ad un altro ligure, Camillo Sbarbaro, e in particolare ai suoi licheni). Nella poesia della Giangoia (e prima ancora, ovviamente, nel suo animo e nella sua cultura) la Natura ha un posto di assoluto rilievo. In particolare, penso ai fiori, alle piante, agli alberi, ai giardini di cui la Giangoia è grandissima ammiratrice e conoscitrice, e che vivono in sfolgorìo di bellezza nelle sue poe-

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sie. Penso in particolare al suo ultimo libro di versi, La vita restante, uscito per De Ferrari Editore. Genova 2014, nella Collana Chiaro/Scuro diretta dal poeta Guido Zavanone. C'è una lirica di vasto respiro, in questo libro, nella quale la Giangoia confessa che vorrebbe scrivere un poema. Ebbene, lei paragona i caratteri di questo poema anche a quelli del mondo vegetale che lei adora, e comunque a quelli del mondo della Natura. Il Poema che lei vorrebbe scrivere, infatti, dovrebbe assomigliare “...ad un albero altissimo, vivo e sempre verde, frondoso e fiorito, screziato di foglie variegate, un poema che si potrebbe percorrere con gli occhi e con il cuore per cogliere i fiori e le parole, un poema dove circolasse lo spirito bianco della luce per farsi vita nel sangue e nella carne con l'anelito di un animo grande, un poema fatto di sole, d'aria e di luce, di grano, d'erba e di mare, di spuma bianca di onde... Perfino il ricongiungimento con l'amato marito Mino, venuto a mancare qualche anno fa (ed al quale è dedicata una precedente silloge, Sequenza di dolore) viene qui immaginato come un incontro che avviene in un paradiso di alberi e di fiori : “ Tu ed io ci ritroveremo nel nostro giardino tra il melo e il ciliegio quando saranno fioriti e i petali si disperderanno nel tepore della brezza capace di confortarci …......... riprenderemo a camminare nel bosco, dove eterna scintillerà l'aurora tra rosati bagliori oltre la linea scura dei monti


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e sentiremo una forza sconosciuta di slancio verso il cielo. Tutto si ricomporrà nell'armonia della perfezione e la morte non ci farà più paura perché la vivremo insieme.” (A Mino – 3) Il rapporto con la Natura è rappresentato dal sogno dell'orto e del giardino, sogno da vivere ad occhi aperti, giorno dopo giorno, immersi nel Presente che fluisce, forti dell'esperienza del Passato e protesi verso il Futuro, in un mare di fiori e di piante “ a testimoniare / fiducia nella vita / niente al mondo è divino / come il profumo delle rose / al fresco della notte.” Per la nostra Autrice l'orto e il giardino rappresentano un rifugio ideale per il corpo e per l'anima, un luogo dove la vita le riporta le persone che ha amato, “ tutte qui/ già sognate nell'illusione/ dell'assenza: di qui potrebbero partire anche aquiloni/ per i miei sogni...”. In Rosa Elisa Giangoia l'amore e la conoscenza dei fiori e delle piante vanno di pari passo con la passione per la scrittura letteraria. Si tratta di due amori che si arricchiscono a vicenda, fino a integrarsi. Certamente l'ultima parola spetta alla “scrittura”. Dopo il trionfo del bello, la poetessa , alla sera, si ritrova con un po' di cenere in mano. E allora si fa ricercatrice della verità, rincorrendo le parole e inciampando nei sogni. Continua a cercare la verità come un viandante inquieto, senza fermarsi nel grande castello del sapere / aperto sul giardino fiorito... C'è una stupenda immagine, nella poesia Scrivere, che meglio di qualsiasi programma teorico spiega il mistero e il fascino della poesia e di coloro che la amano, i poeti: “Verrà la notte, madre dei poeti, a prendermi nel suo grembo a regalarmi un suono, una parola felice, un'immagine di vita.” Nella notte più fonda, quando tutti dormono, il poeta veglia. Luigi De Rosa

Pag.29 È PRIMAVERA È primavera e ogni cosa si colora di fiori e di foglie che il vento raccoglie mentre il sole le fa seccare e non possono più volare. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi

MERAVIGLIA A ridestarci fu la meraviglia sui sentieri del tempo. Ci rapiva una fuga d'immagini e pensieri. Appena ieri era l'alba dei giorni. Tra attese del futuro e tra ritorni veloci nel passato, trascorremmo gli anni che ci furono donati. Delle immagini il volo ora declina. Corre la vita su un'oscura china. Una Voce lontana s'avvicina. Ci guardano da presso volti amati. Elio Andriuoli Napoli

CANICOLA Una lavagna cancellata il cielo quest'oggi, ove non leggi alcuna storia. Nella luce di tutta la sua gloria si dischiude alla festa dello sguardo. Il sogno che ci lega è vano azzardo. Antiche strade insegue la memoria. Non reca rune a intendere il futuro, neumi non dona né nuove armonie. L'anima tenta per segrete vie dell'enigma di penetrare il muro. Ma sempre il cielo è là, col suo splendore, nel gioco senza fine delle ore. Elio Andriuoli


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Recensioni DAVIDE PUCCINI IL LIBRO E L’ANIMA LietoColle Editore, Falloppio (CO), 2015, € 13,00 Un romanzo nel quale l’elemento fantastico si coniuga felicemente con il realismo di una scrittura legata alla concretezza della vita di ogni giorno è quello che Davide Puccini ha di recente pubblicato col titolo Il libro e l’anima. Vi si narra la vicenda di Vladimiro Visdomini, un uomo che ha scelto come lavoro quello di liberare dalle cianfrusaglie “le case rimaste vuote, di solito per il decesso del vecchio proprietario”; ma in realtà ricercatore accanito di rare edizioni di libri noti e meno noti. Spesso in questa sua attività Vladimiro aveva fatto delle vere e proprie scoperte, imbattendosi in libri anche di molto valore; ed ecco che un giorno trova in uno scantinato un volume di piccolo formato, all’apparenza molto antico, rilegato in pelle e intitolato Liber Universalis – Vel – Liber Librorum. Subito se ne sente attratto e intuisce trattarsi di un’opera fuori del comune, sicché decide di farlo vedere a un amico libraio, Giovanni Leonelli, il quale si offre di acquistarlo, facendogli “un buon prezzo”. Vladimiro però attualmente rinuncia a disfarsene, anche perché il libro sembra avere virtù magiche, dal momento che ognuno che lo prende tra le mani e lo apre pare leggervi cose diverse: Leonelli, ad esempio, la Commedia dantesca, mentre Maria, la moglie di Visdomini, vi legge l’Eneide virgiliana e il ladro che Visdomini incontra per la strada, il Codice Penale. Inoltre il libro sembra capace di suscitare forze

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occulte e nefaste, dal momento che l’uomo che tenta con la forza di impossessarsene, per ricattare Vladimiro, viene sbattuto per terra privo di sensi e in condizioni disperate. Il nostro bibliofilo acquista così sempre più la consapevolezza dei poteri sovrannaturali del libro che ha trovato ed entra in uno stato di agitazione, anche perché da un quotidiano locale apprende che il suo aggressore è morto. Inoltre, procedendo nel suo lavoro di ricerca, scopre nello scantinato in cui sta facendo il suo lavoro, un foglio nel quale si parla di due guardiani del libro, uno oscuro e l’altro chiaro, che possono essere molto pericolosi, specie il secondo, il quale è capace di provocare la “seconda morte”, cioè la perdizione dell’anima; e costui è il “vero signore del libro”. Per saperne di più Vladimiro va a trovare un vecchio, titolare di un negozietto trasandato, metà libreria e metà cartoleria, per chiedergli un parere sul libro che ha trovato, essendogli nota la sua esperienza di antiquario. Il vecchio gli rivela che la sua è stata una scoperta “veramente sensazionale”, poiché il libro da lui trovato contiene, a saperlo leggere, tutti i libri passati, presenti e futuri, sicché potrebbe essere usato anche dalle grandi potenze per ottenere delle informazioni tecniche atte a dare la supremazia o essere adoperato dagli studiosi di letteratura per ritrovare le opere perdute di insigni autori dell’antichità. Sono però soprattutto i libri già letti da Vladimiro che tornano alla sua mente, e di essi egli riscopre il segreto fascino e la meravigliosa bellezza, mentre sfoglia le pagine del Liber Universalis; e questo avviene sia per i libri letti quand’era ragazzo, come L’isola del mistero di Verne o il Tristram Shandy di Sterne, che per quelli letti nell’età adulta, come Alla ricerca del tempo perduto di Proust o La metamorfosi di Kafka. Qui Puccini ci offre una vasta serie di opere di autori famosi, giungendo persino a trascrivere una novella perduta di Franco Sacchetti, la XLIV del suo Trecentonovelle. Segue, nel IX capitolo, l’incontro con un distinto signore, che gli si presenta mentre è seduto al tavolino di un bar e che, senza mezzi termini, gli dice che vorrebbe acquistare il libro, per il quale gli offre un’ingente somma o in alternativa addirittura l’ eterna giovinezza: offerta che fa intuire a Vladimiro la natura diabolica del suo interlocutore, il quale si rivela sempre più simile al Mefistofele del Faust goethiano. Significativa è, a tale proposito, l’ apparizione di Elena di Troia che lo affascina con la sua bellezza. In cambio di che cosa infatti quel distinto signore gli offre tutto questo? Certo dell’anima; sicché la sua schermaglia con lui si prolunga sino al momen-


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to in cui scompare, allontanandosi. A questo punto Vladimiro cade in un sonno profondo che lo trasporta in un mondo fatto di visioni fantastiche, quali quelle di uno studio e di una biblioteca di eccezionali dimensioni, dove egli poteva lavorare a suo agio, producendo opere di grande valore artistico, magari proiettate in un lontano futuro. Allorché si ridesta, Vladimiro decide di andare nuovamente a trovare il vecchio nel suo negozietto, il quale gli apre gli occhi sulla natura maligna del libro, invitandolo a disfarsene, bruciandolo. Ma non appena ha pronunciato queste parole il vecchietto cade fulminato, senza avere il tempo di aggiungere altro. Il romanzo corre così verso la sua conclusione. Vladimiro infatti, dopo una profonda crisi spirituale e una violenta lotta contro le forze avverse che lo dominano, si libera del libro, gettandolo in un fuoco che gli si para dinnanzi. Con la distruzione del libro si attua la liberazione del suo scopritore, il quale si riconcilia col mondo e in particolare con la moglie, con la quale ritrova l’ amore e la pace dell’anima. Costruito con notevole abilità tecnica, il romanzo di Puccini è certamente on’opera di molto interesse, specie per la qualità della prosa, misurata e accattivante, dotata di un suo ritmo e capace di cogliere tutte le sfumature del cuore umano. Emerge inoltre da queste pagine il segno di non comune cultura, capace di affrontare i più diversi campi dello scibile umano; il che rende stimolante la lettura di un testo nel quale pensiero e azione compiutamente si fondono, rivelandoci un altro aspetto della personalità di questo autore, già noto come poeta e come filologo di indubbio valore. Elio Andriuoli

ISABELLA MICHELA AFFINITO DA CASSANDRA A DORA MAAR Edizioni Eva, Venafro (IS) 2006, Pagg. 76, € 8,00 Isabella Michela Affinito è designer e cultrice delle arti, scrittrice e poetessa; si dichiara donna del Sud per avere, per via materna, radici pugliesi; ha all’attivo una cinquantina di opere (al 2006) prevalentemente ispirate al mito classico, privilegiando in particolare la figura femminile. Difatti questa raccolta si intitola Da Cassandra a Dora Maar e la copertina, “Omaggio a Picasso”, è illustrata dalla stessa autrice, con tecnica mista; il libro è dedicato ai nonni materni. Nella sua presentazione spiega che il titolo si riferisce a due donne che costituiscono l’emblema del lungo arco temporale (sempre) in cui la donna

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è stata considerata subalterna all’uomo, occupando un ruolo secondario; l’intento è di esaltare la figura della donna, convinta che nella società continui a essere discriminata. Cassandra è l’omerica sacerdotessa che rappresenta il volere degli dei e Dora Maar è la donna che è stata sempre a fianco di Picasso che rappresenta l’emancipazione. In appendice la Poetesssa in una auto intervista spiega che tra i due estremi femminili esiste una varietà (cromatica) di donne, che devono decidersi a porsi degli obiettivi, affrancarsi dal ruolo tenuto dalle nonne, relegate a mansioni domestiche, totalmente dedicate alla famiglia, vere eroine, con sogni mai realizzati, tenuti in serbo come faceva Emily Dickinson. La successiva intervista, è rivolta ad Adalgisa Biondi, poetessa agrigentina, che in un certo senso sta sulla stessa lunghezza d’ onda, la quale dichiara di essere orgogliosa dei suoi natali, per essersi nutrita di una ricca cultura (gli stessi luoghi della classicità greca e scrittori come Pirandello, Sciascia, Collura); alla domanda risponde che oggi la donna siciliana si mette in discussione, lei stessa si sente molto legata alla sua Isola ed ha il desiderio di scriverne una storia, dichiara il suo debito verso Giuseppe Fava che le ha “insegnato il senso della dignità, l’amore per il giornalismo”. Di quanto espresso sopra troviamo conferma. I componimenti si presentano come un fiume in piena, di lunghezza ampia e dal metro contenuto (senario, endecasillabo), che denotano la grande voglia di comunicare da parte della nostra poetessa. Come è stato anticipato l’incipit è rivolto a Cassandra: “Spargevi predizioni/ come semi al vento/ …/ cercasti nello sconfinato buio/ della comprensione/ un sordo appello/ perdutosi prima di/ raggiungere Apollo./ …/ La Profezia punita/ derisa con lo scherno/ ti rese poi una schiava/ nelle mani di Agamennone.”; come è noto la donna viene tramandata come profetessa di sciagure e tuttora viene denotata come epiteto di sventura. Le donne nel Mito sono numerose, delle quali rappresenta un ampio ventaglio, inneggiando in particolare alla ‘Donna di Creta’, Arianna che con il suo filo consentì all’uccisore del Minotauro di ritrovare il percorso per uscire dal labirinto; alla ‘Donna Romana’ che non era felice già ai “Tempi in cui/ il Vesuvio inceneriva tutto”; così alla ‘Donna tramonto’ dedita totalmente alla casa; alla ‘Donna-Luna’ perché illumini la Terra; alla ‘Donna di colorate stagioni’ poiché molti sono i suoi ruoli, pur continuando a sognare. Così alcuni titoli recitano pure: la donna delle rose, la donna d’aprile, la donna di nuvole, la donna di vetro, la donna di Venezia che al tempo del Barocco si a-


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dornava di monili d’oro a Piazza San Marco, la Lady Dickinson che componeva nel chiuso della sua stanza. Abbiamo pure la ‘Donna Art Nouveau’ “provvista di ali/ di farfalla vanessa”; ma “Le donne sorridono/ sempre, le vedi/ assenti e invece,/ hanno la spesa/ nella mente, le/ chiavi di casa/ stringono dolcemente” (pag. 37). Abbiamo la donna polinesiana ritratta da Gauguin, nell’idea di cogliere la bellezza della natura; ma anche le donne di oggi, di Kabul dal volto nascosto o sfigurato; la donna ebrea impressa nell’immagine di Auschwitz; la donna del Novecento che sognava “di essere già grande”. O la donna dei nostri giorni che sempre risorge come la Fenice pronta per altre attività; ampio l’esempio delle donne della letteratura. Non poteva che chiudere che con Dora Maar “una delle tante muse/ di Picasso” che posava, “estranea” a se stessa. Ma preferisco chiudere con l’ immagine della ‘Amica di settembre’ (28) alla quale si rivolge: “la nostra / amicizia è una tempera/ che non si scioglierà/ più in acqua.” Che mi pare una affermazione robusta, che può valere sempre e in ogni caso. Ho avuto modo di leggere altre opere di Michela Isabella Affinito (ed anche di Adalgisa Biondi) rimanendone ammirato; nondimeno penso che l’ uso del mito, sebbene da molti incoraggiato, possa apparire eccessivo e usurare l’intelligenza del lettore che si vede smarrito; altresì forse c’è un senso di forzatura a seguito del tema proposto ed imposto da sviluppare. Sono solidale con il tema femminile, ma ho il timore che possa essere inteso in chiave di frattura fra i generi. Aggiungo ai vari omaggi alle donne, un riconoscimento ad una grande scrittrice palermitana che risponde al nome di Maria Messina (1887-1944), che completa il quadro sulla condizione femminile, poiché ha saputo descriverne con dovizia e realismo, da fare accapponare la pelle (Pomezia-Notizie, febbraio 2014). Tito Cauchi

ROCCO CAMBARERI ASSONANZE E DISSONANZE Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2004, Pagg. 60, € 5,00 Rocco Cambareri, nel suo girovagare di migrante per Paesi d’oltre confini, si porta stampato il suo marchio di poeta calabrese, come nella raccolta Assonanze e dissonanze, diviso fra due mondi e nel contempo armonizzando la sua comunicazione con versi sciolti, semplici e musicali.

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La silloge è introdotta da Pasquino Crupi il quale con un riferimento raffinato a Paul Eluard e Jaques Prevert, afferma che la poesia è una presenza costante in Rocco Cambareri, anche perché il Nostro vive una sorta di disagio, in terre estranee alle sue radici natie, una discrasia che pesa quanto un lutto, quello della madre. Soffre dell’inquietudine dei meridionali “poeta di aspro contenuto e di dolce musica, quale nel Pascoli, in Umberto Saba, in Sandro Penna.” Nella nota introduttiva, è lo stesso Poeta, dal canto suo, che dichiara le ragioni del suo malessere legato al “girovagare per diverse latitudini (Santiago del Cile, Madrid…)”. Anticipo qui alcune impressioni tratte dalla trentina di note critiche riportate in chiusura, come il suo essere uomo del Sud, carico di tenace rivendicazione e di mediterranea solarità, la semplicità espressiva, la religiosità maturata da una poetica esistenzialista, la varietà degli accenti; in particolare l’ ubiquità-nostalgia (Antonio Piromalli), la struggente nostalgia (Geppo Tedeschi), il canto elegiaco che gli proviene dalla Spagna lorchiana e dei Paesi Latino-Americani (Franco Lanza), il mito dell’ infanzia (Felice Mastroianni), la ricchezza di immagini che sono prerogativa della poesia che ci lasciano trasognati (Domenico Defelice). La poesia incipitaria ha il titolo in spagnolo Recuerdo che lo tiene “pendulo sul cuore”, diviso fra il suo paese e Madrid come “un acrobata/ che pencola e sta/ in lacerante ubiquità.”, sentirsi straniero pensando alla sua Calabria. Staccarsi dai luoghi amati è come morire, vivere con le immagini di una lucertola al sole, con l’erbetta che orna gli interstizi dei muri. Le stagioni cambiano colori, così i campi sotto l’azione dell’aratro. Il cuore di Rocco Cambareri esulta, sensibile al richiamo e alla bellezza femminile, dei corpi sodi e rubicondi, la cui presenza è come una “folata di ghibli”, incantato da uno sguardo, in cui si perde: “Sei estasi e abisso,/ tutto e niente, ansia/ di terre inesplorate,/ pentagramma discorde,/ fiele e miele. Sei/la vita che fatica.// …/ Scilla che canta,/ Cariddi che tormenta.” (pagg. 2021); ma non sai se si rivolga a se stesso. Il Poeta è realista, constata l’esistenza di industrie e fabbriche, di strade di cemento e di uomini disoccupati la cui anima è come un deserto assetato di pioggia. Il pensiero della madre, con la crocchia caratteristica delle donne del Sud, gli riscalda il cuore, la vede sostenersi con un bastone. Consapevole della sua ispirazione rivolge una ‘Preghiera per il poeta’ “Non accecarlo, Signore/ il poeta ha pupille/ di cristallo che riflettono/ le lacrime del mondo./ …// … Proteggilo./ E se muore trasformalo/ in allodola sazia/ di luce e d’azzurro.” (pag. 35). Ha anche una fantasia futuristica. Immagina che


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in un prossimo futuro, delle strumentazioni sofisticate permetteranno di rivedere e di riascoltare visioni e suoni dei secoli passati, come terremoti, le voci gutturali del Fürer e di Stalin, l’ululo dei mammut, i grugniti dei trogloditi, “Dolce sarà riudire/ il vento tra il fogliame”, riudire la voce di Gesù piangere nel Getsemani o il suo grido sul Golgota, i sospiri di Giulietta e Romeo, i boati di Hiroshima e Nagasaki. Il pensiero di Rocco Cambareri torna sempre al suo paese, alla festa di San Martino, quando è permesso eccedere bere vino; agli operai terrazzieri, alla primavera che esplode nei colori e nei profumi dei campi, nel volteggio delle rondini, alle cose semplici di cui si è sempre nutrito. È allora che trova la serenità. Tito Cauchi

LUCIA ed EDIO FELICE SCHIAVONE Calendario 2015 da tavolo bifronte, Edizioni Helicon, Arezzo Anche quest’anno Lucia Schiavone ed Edio Felice Schiavone hanno voluto tenerci compagnia con il Calendario 2005. Questo, come i precedenti con spirale, replica il formato (20 per 13 cm), con freschezza di contenuti. I pensieri sono di Edio Felice; mentre le illustrazioni sono di Lucia, artista e, direi chirurgo delle opere figurative che rappresentano dipinti su tavola lignea, tecnica mista, acquerello, pirografia, incisione, pitto-scultorea. Nella presentazione Cristiana Vettori richiama l’attenzione su un “contrappunto di immagini e parole”, spiegando come le immagini di Lucia e le parole del padre si sostengono a vicenda esprimendo “il senso e il mistero dell’esistenza umana.” A noi non rimane che godere del Calendario e farci cullare dall’ immaginazione. Complessivamente assistiamo a squarci o appena ad angoli di paesaggi: un paio di gabbiani, il mare, ma nessuna presenza umana. Difatti Edio Felice Schiavone, medico e poeta, nei suoi componimenti esprime l’essenza dell’uomo, la parte reale, spogliata dalle sovrastrutture. Parrebbe dire: se l’uomo non esistesse chi onorerebbe Dio? Dio è un’invenzione dell’uomo, quindi è una poesia come lo è la natura con tutto ciò che accade nella società. Significativa è l’immagine di apertura: l’Alba, “Appena giorno”, l’inizio d’anno esprime speranza e desiderio al nuovo corso, alla nuova vita, alla quiete; così “quiete le acque” denotano una persona che ha raggiunto la serenità dello spirito. Segue un omaggio a Taormina, “fiera e bella del glauco Jonio”, alla sua natura di piante grasse e di roccia ar-

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gillosa. Un inno al mandorlo tra file di vigna, ove s’ ode “stridulo dei grilli”. E un omaggio al paesaggio pugliese, con il profumo della vegetazione e delle rose. La Primavera avanza ed esplodono i colori, papaveri e giallo tra gli ulivi; ma anche l’arsura dell’ “l’esile ruscello”; avanza il caldo per le strade di Firenze in una notte estiva, ammirando l’Arno, il Duomo, il Battistero; fin quando il solleone procura sensazioni da savana; e a Venezia si attraversa il ponte di Rialto. Poi con il fresco che sopraggiunge si fa un salto a Materia che presenta come parole, “sintagmi di millenni/ nelle cave, tra i sassi.” Le giornate si fanno più corte e l’imbrunire campestre offre lo spettacolo di “punte aguzze/ dei campanili”, fin quando un altro giorno se ne va con i botti di fine anno e di saluto al nuovo; ma questo è l’augurio di un arrivederci. Abbiamo osservato come i luoghi geografici tornano su se stessi, come luoghi dell’anima (Sud, Nord, Sud). Tito Cauchi

MARIAGINA BONCIANI POESIA E MUSICA Casa Editrice Menna, Avellino 2014, Pagg. 48, Copia gratuita, Vincitore 1° Premio Concorso Letterario “Città di Avellino - Verso il Futuro” Carlo Onorato in prefazione di Poesia e Musica, spiega che l’autrice, Mariagina Bonciani, sostiene che le due arti sono l’una compenetrazione dell’ altra, ossia parole e ritmo. Difatti con molta semplicità l’incipit recita “La poesia è musica/ fatta con le parole,/ col loro ritmo/ e i loro accenni./ …/ Ma solo il ritmo/ delle parole/ la rende musica.” La Nostra lo fa con riferimento a piccole cose della natura e della vita. È la musica che rasserena le anime; che dà colore, come la parlata fiorentina; che fa vibrare il corpo, come il flamenco. Poesia e musica sono la goccia di pioggia che “rimbalza sul selciato”; ma sono pure postille all’Adagio di Barber che accompagna un triste undici settembre. La Poesia è nell’aria profumata che respiriamo. Come ci si poteva aspettare quasi tutti i componimenti parlano di musica e dei i più famosi compositori rendendoli attuali sotto i nostri occhi (Bach, Scarlatti, Chopin, Debussy, Beethoven, Von Karajan, Schumann). Generalmente Mariagina Bonciani evoca circostanze liete per via della compagnia, come di Claudia Vanzini ricordandone il “dono divino” in un concerto del 2000. Così nell’ ascolto alla radio del Notturno di Borodin, ne sente


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vicino la presenza. La melodia del “Lago dei Cigni” di Ciaikowsky le mette tristezza per non trovarsi a Londra, poiché lì ascoltava la musica di Bruckner in compagnia di una persona che le manca molto; così è nell’ascolto di “Sogno di una notte di mezza estate” di Mendelssohn. Ricorda Amalia, la sua prima insegnante di pianoforte, che non suona più e adesso si è ricongiunta con Federico (così mi pare di intendere). Ricorda in più occasioni Vsevolod Dvorkin che “Da poco aveva/ suonato Schoenberg/ …// Mentre suonava/ avevo dimenticato/ che anche i poeti/ sono di questa terra/ e non hanno le ali.” (pag. 19). Il poeta “Mette/ nelle parole l’anima/ e la lascia/ vagare sola per il mondo.// Forse/ qualcuno la raccoglierà se piace./ Allo stesso modo si raccoglie/ una foglia da terra quando è bella.” (28), ma dirà che deve nascere dal cuore. Altri ricordi si fanno più stringenti, così l’ascolto di “Sheherazade” di Rimsky Korsakov, la porta alla realtà dei migranti delle carrette del mare, non certo alla fantasia che rincorre il “marinaio Simbad”. Più volte si culla nel rammentare Londra in West Cromwell Road, ripete “I love you Tony!”, affidandosi ai sogni, che purtroppo svaniscono al risveglio; o pensare all’amico Guido Fink conosciuto a Verona. La versificazione è in libertà, diversificata forse per creare le giuste ambientazioni. In alcune poesie ricorre all’anafora, appunto creando un ritmo. Le sue parole sono dolci come sinfonia o delicati intermezzi; d’altronde, come la Poetessa dice, la musica nasce dalle vibrazioni di strumenti musicali, così pure la poesia nasce dalle vibrazioni dell’ anima. Mariagina Bonciani con Poesia e Musica, raggiunge uno stato di grazia che la trasporta in estasi. Tito Cauchi

INNOCENZA SCERROTTA SAMÀ IN LUCE D’ESTASI Edizioni Polistampa, Firenze 2015, Pagg. 72, € 6,00 In luce d’estasi, di Innocenza Scerrotta Samà, è opera poetica che in quarta di copertina avverte: “Dieci sono le ‘stazioni’, che precedono” questo libro, incuneandosi sempre nel Mito. La poetessa calabrese si divide fra la sua terra d’origine e Firenze. L’opera è accompagnata da quattro note critiche, che al momento tralascio. Il carme, se così vogliamo considerarlo, si presenta come tanti epigrammi. Così il primo componimento è costituito dai seguenti cinque versi, che cito senza le barre separatrici: “Estasi il confine con la morte.”; segue il brano-stanza: “Apoteosi d’un

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coro senza tempo.” e così via di questo tenore; piccoli ma intensi testi che hanno bisogno di essere elaborati in lunghe meditazioni. L’estasi viene definita ora identificandola nella contemplazione di piccoli elementi della natura (prato, allodola, vento, aghi di pino, rose, burrasca, ecc.); ora come limite fra opposti (angeli e demoni, vicino e lontano, realtà e sogno, buio e chiarore). Ora nelle sensazioni, come un attimo caldo o il brivido sulla pelle, che evocano emozioni erotiche: “In estasi il nome degli amanti sul tronco annoso dei cipressi”; messaggio d’amore che transita attraverso i miti evocati, spesso appena denominati, come nel “canto di Saffo piena d’Alceo” (cioè gravida), come Lavinia dai biondi capelli, Ciparisso illuminato dalla luna, Acheronte il nocchiero, la Medusa, Vulcano dalla bocca ardente, Ulisse colto in un momento di incertezza, le rive di Xanto. Alcuni brani-stanza verso la chiusura, riprendono l’ultima parola del brano precedente per ripeterlo all’inizio del brano successivo (vivente, abissi, crocifissa). Quello che risalta è una certa pregnanza significativa del fascino sibilino. Dopo le descrizioni paesaggistiche, la Poetessa conclude così: “In luce d’estasi l’ombra dei cipressi.” La mia impressione è che Innocenza Scerrotta Samà padroneggi il Mito con tale sicurezza da essere estremamente sintetica a tal punto di diventare sincopata. Ed è perciò che cerco di fruire delle quattro note critiche, due in prefazione di ben undici pagine e due in postfazione di due pagine. C’è voluto l’intervento di uno psichiatra come Rossano Onano, per entrare nel subconscio dell’ Autrice e rivelare quanto si cela entro le pieghe dei suoi versi; Egli commenta che la Nostra sopravvaluta le conoscenze dei lettori a proposito del mito e dei vari simboli e metafore. Tuttavia, aggiungo io, anche il Critico, non da meno, prende le mosse con dotte argomentazioni dal titolo “Simonetta Cattaneo nel cielo di Chagall (ma torna all’ ombra eterna di Ciparisso)”. Giudica l’estasi un delirio confusoonirico “abbastanza indefinito”; chiarisce che Simonetta Cattaneo è la modella scelta dal Botticelli per rappresentare sia la Primavera sia la casta Venere, precisando, l’Onano, che la donna essendo sposata non poteva essere illibata, nondimeno è raffigurata con “corpo androgino, è vergine perché la calligrafia non traccia gli attributi copulativi.” Sempre Onano a sostegno della comprensione del testo, spiega che Ciparisso era un bellissimo giovane insidiato da Apollo che, a differenza di Dioniso, non aveva fortuna con le donne (dal giovane prende origine il Cipresso). Riferisce che al giudizio di Veniero Scarselli, che nei versi della Sciarrotta Samà non vedeva un respiro piano, ma un “singhioz-


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zo”, la Nostra rispondeva con un sorriso. Onano giustifica l’efficacia di tale respiro perché “Mai visto qualcuno in estasi, amorosa o funebre, che abbia respiro armonioso.” (personalmente non sono d’ accordo). In sostanza le due figure mitologiche, la Venere-Simonetta e il bel Ciparisso costituiscono i due estremi della “realtà emotiva dell’inconscio”, che nella prima non è “mai sublimato” e che nel secondo non è “mai lagnoso”, descrivendo la fisiologia del rapporto sessuale, il cui piacere se protratto a lungo condurrebbe alla morte per esaurimento della eiaculazione (sublimando Thanatos ed Eros). La Medusa richiamata dalla Poetessa, deve pietrificare l’altro per sopravvivere, l’Io deve riconoscersi come io generante (uccidere per vivere). Xanto è il dio fluviale troiano denominato anche Scamandro che “combatte contro Efesto dio del fuoco. Acqua della vita e passione degli eroi.” (anche qui abbiamo la sintesi di due opposti). Giuseppe Panella, giudica la poesia di Innocenza Scerrotta Samà come “forza lirica della disobbedienza”; riporta, in esergo all’intervento, una citazione di Giovanni Pozzi tratta dall’introduzione a M.M. Dè Pazzi. Nel suo intervento il Critico afferma che la Nostra “disobbedisce alla tradizione consolidata dell’ambito religioso”. Afferma che l’estasi si manifesta nell’espressione pronunciata in modo frammentario, significando “brevi trasalimenti di verità immateriali”. Seguono altre citazioni, per esempio Gabriele d’Annunzio (La pioggia nel pineto), per una comparazione all’albero riferito dalla Poetessa. Richiama il personaggio mitologico di Lavinia che starebbe a rappresentare “l’arco temporale della vita umana”, affermando che “l’estasi è forma estrema delle possibilità del corpo che la produce e la sorregge”. In quanto alle immagini descritte esse sono forti “come mare in tempesta, la furia del vulcano”; la Poetessa tende ad andare oltre la corporeità e la spiritualità. In postfazione Giuseppe Baldassarre, in breve, ammette che la realtà non è immobile ma può assumere “ingenuità di sguardo: dall’abisso fino alla vetta, alla luce dell’estasi”; l’estasi è sommovimento interiore che va oltre i limiti umani, è “Sommo amore e sophìa”. E Anna Vincitorio rinforza l’idea che la sacralità emerge dalla lotta degli opposti, “è vigile e fuga i fantasmi… Innocenza è Ulisse tra sogno e poesia, tra l’agguato e il declino.” Avendo avuto conoscenza di precedenti “stazioni” di Innocenza Scerrotta Samà, mi sono sentito inizialmente un privilegiato, diciamo uno di casa; ma devo ammettere che così non è stato. Necessita metabolizzare la lettura e così si potrebbe scoprire, per esempio, che “In luce d’estasi l’ombra dei cipressi.” potrebbe significare che nell’orgasmo pro-

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tratto si trovi la morte (e qui sono d’accordo con Onano); mentre il linguaggio frammentario potrebbe significare, in questo caso, effettivamente uno stato di estasi (e qui sono d’accordo con Panella). In tutti i casi direi: va bene il Mito, ma bisogna non abusarne. A mio parere le quattro note si rivelano certamente interessanti, ma quasi autonome che, in rapporto alla esiguità compositiva, mi sembrano eccessive Tito Cauchi

GIAN PIERO STEFANONI DA QUESTO MARE Gazebo Libri, Firenze 2014, Pagg. 96, sip Gian Piero Stefanoni è un poeta romano (classe 1967), di formazione umanistica, incluso in molte antologie e su varie riviste. In chiusura alla raccolta Da questo mare abbiamo notizie sull’Autore, una sua nota, suoi chiarimenti sui testi e postfazione dalla quale ultima prendo le mosse. Franca Alaimo ammira la coerenza, fra le convinzioni che il Poeta esprime e la sua poesia. Spiega che le otto poesie della prima sezione sono dedicate alle “Crocifissioni” di Giacomo Manzù e rappresentano il sacrificio di Cristo; mentre la seconda sezione, rappresenta la via crucis dell’uomo di oggi, cioè l’indifferenza dell’attuale società; infine la terza sezione, che è dedicata a un extracomunitario sedicenne morto sulla spiaggia siciliana di Licata (28 aprile 2012), rappresenta il fallimento della società. Aggiungiamo che le tre sezioni sono sottotitolate e costituiscono tre poemetti: L’amore che ti manca (Davanti alle “Crocifissioni” di Giacomo Manzù); 8*, o della città (pregando con l’angelo), così denominata dalla relativa linea tranviaria di Roma, in questo percorso vanno intese le quattordici stazioni della via crucis comprese nell’andata e altrettanto nel ritorno, dei ventinove componimenti; e Da questo mare, riguardante una delle tante tragedie in mare, dedicata a Edith Bruck, poetessa ungherese naturalizzata italiana. La raccolta è contrassegnata da dotte citazioni simili a pietre miliari o a fari, di autori di vaglia, fra cui: Ronald Stuart Thomas (Il senso è nell’attesa), Bartolo Cattafi, Marina Cvetaeva, Jack Kerouac, Divo Barsotti, Jolanda Insana, Rainer Maria Rilke, Antoine-Roger Bolamba, Elfriede Gestl. A prima impressione mi pare che il Poeta reinterpreti, in chiave moderna, la passione di Cristo e conformi la sua vita a una sorta di preghiera. Inoltriamoci fra i suoi versi, che sono sciolti e scorrevoli, scoprendo la grande voglia di comunicare. Tuttavia la lettura si fa faticosa, per via della grande


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quantità di metafore, simboli e riferimenti vari non a tutti comprensibili; ma ci soccorre la nota critica della Alaimo che si rivela illuminante. Mi pare indubbio che l’opera sia frutto di un’architettura ben congegnata: 8 primi componimenti, 8 è il numero del bus, 28 è il numero delle stazioni nei due sensi, 28 è il giorno di aprile in cui si pubblica la notizia della tragedia del giovane immigrato (2012) e inoltre le numerose citazioni. Nella prima sezione Gian Piero Stefanoni contempla il Cristo in Croce e si rivolge a Dio e al suo Artista parlando a tu per tu; e dopo varie considerazioni così conclude: “ORA È A NOI CADERE O CAPIRE,/ sotto la sragione e l’usura/ dove la vita se non affermata si estingue.” Nella sezione successiva ad ogni fermata il Poeta esprime delle riflessioni, trova occasione per esempio per ricordare il 150-esimo anniversario dell’Unità d’Italia o il bambino di due anni (Stefano Gaj Tachè) ucciso in un attentato antisemita alla sinagoga di Roma (9 ottobre 1982). Infine il dramma nel mare di un immigrato egiziano (mi pare rimasto senza nome), volutamente gettato dai trafficanti di carne umana da una carrette del mare e lasciato annegare, viene posto alla memoria con il richiamo a Moammed Scecab, altro egiziano (emigrato in Francia), amico di Ungaretti. In questo ultimo caso notiamo la differenza: il giovane viene ucciso, mentre il secondo si toglie la vita; entrambi respinti dalla società; probabilmente questa è la ragione per cui la raccolta prende titolo dalla terza sezione. Da questo mare meriterebbe una riflessione più approfondita, ma ci porterebbe lontano; quello che mi suggerisce è un percorso a ritroso, il mare che dà la vita, la vita si riprende, il liquido amniotico inghiotte la vita, ma ciò avviene per opera dell’uomo: la tragedia si è consumata. Tito Cauchi

DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e agli altri che verranno) Ed. Il Convivio, marzo 2015 Un piccolo capolavoro, quello di Domenico Defelice. Mai mi era capitato di leggere – così ben colti e rappresentati nel loro naturale mutar progressivo – i moti interiori di un nonno innamorato. A partir dall’attesa, il primo vagito, il primo sorriso, i primi giochi; poi, a seguire, i primi “saccheggi”, le prime separazioni, il primo impattar con il “vero” della vita, sono i motivi ispiratori,

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anagraficamente disposti – per così dire – in un climax ascendente, di questo amabile poemetto, che – echeggiando il Petronio – non esiterei a definire “Epopea della Terza Età”. Lo straripante ruolo della componente affettiva, e di quella filosofico-esistenziale, che eleva le liriche ai limiti della universalità (si legga in proposito l’attenta prefazione di Angelo Manitta), fa passare in subordine ogni considerazione sull’ assetto formale, nel cui merito è utile tuttavia notare come, il medesimo, si adegui, nella sua trasparente semplicità, alla semplicità trasparente di Riccardo, il nipotino che, riepilogando nei suoi occhi lo stupore incantato dell’infanzia protesa alla scoperta del mondo, costituisce il “valore aggiunto” della silloge. Per la qual cosa volentieri gli perdoniamo qualche sua irriverente irruzione devastatrice tra le “sudate carte di nonno Domenico”. Aldo Cervo

ALDO DE GIOIA - ANNA AITA QUANDO A NAPOLI NON C’ERANO LE STELLE RCEMultimedia Communication Company, 2014 - Pagg. 230, € 12,00 Un esauriente ritratto di Aldo De Gioia - scrittore e poeta, docente, pedagogista, storico, che ha praticato il teatro, la canzone e tanti mestieri, che ha tenuto conferenze, incontri con scolaresche, che ha istituito musei, che, per anni, ha accompagnato, come barelliere, ammalati a Lourdes - ce lo dà Anna Aita nell’agile monografia a lui dedicata e pubblicata da RCEMultimedia Communication Company nel 2013: Aldo De Gioia Quando la storia diventa poesia. IL bel volume contiene, tra l’altro, più di 130 fotografie e riproduzioni di documenti, a colori e in bianco e nero. Nessun altro, tranne Lei, avrebbe potuto dare di lui tanti particolari, perché Anna Aita lo conosce a fondo, avendo collaborato con lui in tante occasioni e in molte pubblicazioni, tra le quali il bel romanzo La lettera smarrita, La lunga notte. È da questo intenso sodalizio che scaturisce quest’altro affascinante romanzo Quando a Napoli non c’erano le Stelle, che Imma Serpe definisce un “gioiello letterario”. Il volume, per quanto concerne il pathos e molti altri aspetti, si lega proprio a La lettera smarrita, ma diversi son l’ ambiente e lo svolgimento dell’azione, molto più realistica - ne La lettera smarrita vi dominava anche il fantastico - e la poesia della Natura. A colpire è l’atmosfera, di gioia o di dolore, sempre intensa comunque, e priva di sdolcinature o effetti


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caricati nell’intento di suscitare commozione a tutti i costi. Vogliamo dire che il racconto si snoda nella più semplice naturalezza e pure nella secchezza, privo com’è di ogni inutile lungaggine. Qualità rara, quest’ultima, in tempi come i nostri dominati dai professionisti della parola vuota, i quali, su labilissimi indizi, vi imbastiscono narrazioni straripanti. Qui, invece, escludendo le presentazioni (ben tre!), tutto il racconto copre appena un centinaio di pagine, segno che gli autori mirano al succo e non al menare in can per l’aia. Il fascino del lavoro non sta nel suo contenuto e neppure nell’invenzione (di storie più o meno simili ne abbiamo lette tante), ma nel modo di raccontare; nel lasciarsi andare con l’indole dei personaggi, senza forzarli e condizionarli; nella sapiente miscela tra vissuto e ambiente circostante: Piedigrotta, Forcella; nel sottofondo, o quasi colonna sonora, della rievocazione di molte canzoni del tempo. Tutto ciò è pure conseguenza dell’attività e dell’ amore dei due autori, che hanno sempre operato nel campo della musica e dell’arte, e anche dei due protagonisti del romanzo: Pino e Gianna, entrambi cantanti. Perciò le “atmosfere delle canzoni che hanno preceduto la I guerra mondiale” sono sempre intense e partecipate. Diciamo che per Gianna e Pino sono la stessa aria che respirano ed è in esse che si proiettano e si identificano l’ amore e i tanti volti che, pur velatamente, entrano a far parte della vicenda e che, senza questa identità, forse si sarebbero dissolti nel nulla. Volti della narrazione e volti reali. Volti di protagonisti di canzoni che assumono, come in un caleidoscopio, volti di cantanti e di attori, sicché Mariù e Signorinelle, quando si identificano con la realtà sono ora Mariella Lotti, ora Doris Duranti, ora Clara Calamai, ora Maria Denis, ora Agostino Forte e via elencando. “Quando De Sica cantava Tu solamente tu, l’italiano medio, riflette ancora Pino, trovava subito l’immagine da far coincidere al delirio della sua fantasia. Parimenti succedeva quando Rabagliati ed Enzo Aita trascinavano il loro pubblico con le note incantate di “Tu musica divina”. In quel momento storico, sognavano i giovani italiani e le ragazze attendevano il loro principe azzurro sentendosi personificazione vivente del sogno d’amore proposto dalle canzoni”. La storia è giusto non raccontarla, ma, non possiamo non rivelare che, alla fine, sulla Napoli che, per anni, è stata al buio, alta e luminosa finalmente brillerà una stella. Domenico Defelice

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INNOCENZA SCERROTTA SAMÀ IN LUCE D’ESTASI Edizioni Polistampa, 2015 - Pagg. 72, € 6.00 Poesia? O solamente e solo sensazioni? Ma la vera poesia è sensazione che parte dal reale e sale, sale e si perde negli spazi azzurri ed infiniti dell’ immaginato. I versi di Innocenza Scerrotta Samà sono poesia distillata, liquore secco d’ estrema spremitura, sensazioni tramite le quali - come affermano Rossano Onano e Giuseppe Panella - la poetessa rivisita miti e leggende, in un arco assai vasto di cultura. Hanno ragione i due prefatori a ricordare poeti classici e pittori, Virgilio e Chagall, momenti cristiani e divinità pagane. Sono sempre solari i tocchi di natura evocatrice: “Vivente/il mandorlo fiorito/nella/luce/di/marzo /senza /dilemmi/e /angosce”. Il linguaggio è asciutto, ma è proprio su ogni parola, resa essenziale, che germoglia la fantasia del lettore. Il volumetto, in elegante e sobria veste tipografica, è offerto e assicurato, oltre che dai già citati Onano e Panella, da altre validissime firme, quali Franco Manescalchi, Anna Vincitorio e Giuseppe Baldassarre, il quale chiude affermando: “Siamo di fronte a una testimonianza, perciò, piena di profonda saggezza, a un fecondo colloquio lirico”. Domenico Defelice

CATERINA FELICI IL VECCHIO E ALTRI RACCONTI Maggioli Editore, 1987 - Pagg. 48, L. 6.500 Caterina Felici, oltre che poetessa dallo stile essenziale e raffinato, è scrittrice di talento, in grado di coinvolgere il lettore nelle vicende dei propri personaggi. Ne è esempio Il vecchio e altri racconti, che Walter Mauro, nella prefazione, dopo aver rapportato la sua narrativa alla sua poesia, afferma che l’autrice - nata a Zara ma residente a Pesaro - ha “una rilevante scaltrezza” capace di creare “per naturale e congeniale intuito una proliferazione di temi e di motivi fortemente irreali fra loro da nessi e connessi linguistici che posseggono il loro segreto dato positivo nella semplicità dell’eloquio e della conversazione. Si tratta di un lessico del tutto sfrondato di qualsiasi azzardo retorico o eloquente, e recuperato nella sua interezza all’interno di spaccati sociali decisamente importanti per definire e chiarire poli tematici di carattere più generale”. Il libro ha avuto un successo di critica rilevante per qualità e quantità di firme e testate di pre-


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stigio. Scrive Giorgio Bárberi Squarotti: “I racconti sono limpidi e lineari, con una prosa molto armonica e fluente. I personaggi sono colti con felicità e con grazia nell’essenzialità di un ritratto umano di cui le brevi vicende sono la convincente dimostrazione ed estrinsecazione”. Grazia Palmisano, sul quotidiano Il Piccolo, del 16 marzo 1988, definisce Caterina Felici “Scrittrice intelligente e matura”, che sa “creare con un linguaggio di spontanea e immediata limpidezza alcuni personaggi che, pur nell’estrema essenzialità dei loro tratti, si presentano con una straordinaria compiutezza e completezza psicologica”. Inisero Cremaschi afferma su L’Unità del 3 febbraio 1988 che “I racconti di Caterina Felici vivono nel punto di equilibrio fra il reale e l’immaginario, il vero e il fantastico”; lo stesso articolo, rimaneggiato e ampliato, lo troviamo su il Giornale di Brescia del 5 marzo 1988. Paolo Ruffilli scrive per Il Resto del Carlino che “In un’aria di realismo magico, si muovono le sette storie brevi” di Caterina Felici e che “sono apologhi di grande finezza; capaci, insomma, di essere parabole senza moralismi”. Ma non sono i soli. Bruno Maier, per esempio, apprezza “il libro per la icasticità tematica e la concentrazione formale”; Stefano Lanuzza per il “realismo magico” e Roberto Pazzi, infine, per la “purezza di vena dell’ispirazione e la trasparenza della scrittura”. Un libro favoloso. Qua e là ricco d’ironia e con un po’ di perfidia, per esempio, ne “Il rimorso”. Succinto anche quando si descrive il paesaggio, le case, la natura in genere: “un antico paese con strette vie acciottolate patinate da spatole degli anni, una graziosa chiesa di stile romanico e piccole case ingrigite dal tempo; su alcune, in rovina, spiccano serpi di crepe e lingue d’erba”. La Felici, insomma, è narratrice che mira al risparmio, dando lezione di sintesi a maghi e giocolieri delle parole alla Umberto Eco e valorizzando e titillando la nostra fantasia a creare, insieme a lei, quello che lei non ci dice o finge di non dirci. Caterina Felici crea situazioni interessanti e anche paradossali, ma non ne approfitta per imbastire storie infinite ed estremamente variegate; va all’essenza di quel che s’è prefisso e chiude subito. Si prenda, per esempio, il primo racconto: l’invenzione dello scoglio umanizzato, la riconquistata giovinezza, offrirebbero tante e tali prospettive di narrazione da riempire centinaia di pagine e a lei ne bastano appena quattro e un quarto! Così è per “Il cane”, nel quale la fine di

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un matrimonio è sintetizzata in nemmeno un rigo! Il dramma con tutto il resto è lasciato alla nostra fantasia, alla nostra immaginazione. In parte è così anche ne “L’imbecille”, forse il racconto più bello. Domenico Defelice

DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e agli altri che verranno) Ed. Il Convivio, 2015 Domenico Defelice... nonno-poeta felice Alla nascita del suo primo nipotino, Riccardo, avvenuta il 26 ottobre 2009, lo scrittore e poeta Domenico Defelice, che nel frattempo era arrivato, con la sua freschezza di cuore e di mente, alla soglia dei 73 anni, è diventato “pazzo” per la felicità, anche se carico di tutta l'esperienza di vita accumulata in tutti gli anni trascorsi da quando ha lasciato, per farsi una posizione, la nativa calabra Anoia per vivere in Roma capitale. Pubblicando, per Riccardino, una poesia alla volta, magari su Pomezia Notizie, la miracolosa rivista mensile da lui stesso fondata ( nel 1973!), Defelice ha messo su una raccolta di tutto rispetto, edita da “Il Convivio” di Castiglione di Sicilia (Catania) con prefazione (come al solito, centrata) dello stesso fondatore de “Il Convivio”, Angelo Manitta. Le quaranta composizioni, tutte di originale e fresca ispirazione, toccano temi fondamentali, a cominciare dalla origine della vita umana (fin dal concepimento): “ E' sbocciato un fiore nel ventre di mia figlia. Alleluia! Il Signore ha acceso un'altra stella. Sotto la scorza ruvida di vulcano addormentato mi bolle il sangue come lava, tenerezze apre, fenditure. Mi sorprendo a condurlo per le strade, erudirlo nel gioco dell'infanzia. Perché la vita bella non va oltre. Poi, altre conoscenze sono, e drammi.” (L'annuncio) Quindi, la vita nasce da subito, non dopo tre mesi. Secondo l'Autore, chi dice il contrario è un pazzo. Perché Dio, per creare la vita, non può essere costretto ad aspettare che scada un termine fissato da una legge degli uomini... Un altro tema fondamentale, anche se sul piano umano: l'orgoglio di avere una discendenza di nipoti e pronipoti che continueranno a ricordare con affetto, negli anni a venire, il nonno-poeta, tanto af-


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fettuoso quanto timidamente schivo nel manifestarsi con effusioni sentimentali ( scorza ruvida). Il nonno-poeta e scrittore con i suoi sani e forti principi in materia di famiglia, di rispetto della vita, di propensione alla solidarietà scevra dalla retorica, di poeta – come ha scritto Anna Aita nel 2013 – aperto al mondo e all'amore. Non si tratta di poesie d'occasione o di mozione degli affetti, come le circostanze potrebbero far credere a qualche frettoloso. Basta leggerle per rendersi conto che si tratta dell'espressione di un poeta autentico e affermato da anni, portato da sempre alla poesia poematica più che alla lirica del frammento. Al massimo si potrebbe consentire col concetto di altrettante perle preziose poi infilate in un unico filo, ma nemmeno questo sarebbe vero. Il fatto è che ognuna di esse è come una stanza legata e funzionale al resto della casa, una grande casa piena di aria e di luce e di vita. Una casa pensata e strutturata da un unico soggetto e per un unico, anche multiforme, progetto di vita. Dopo aver dimostrato la sua eccezionale vitalità creativa anche nel campo del poemetto satirico, Defelice, per merito di quella miniera di meraviglie che è Riccardo, si trova al cospetto di se stesso e dei problemi basilari dell'individuo e della propria famiglia. Famiglia che, come istituzione fondamentale, gli antichi sapevano valorizzare e apprezzare (Familia est seminarium rei publicae), prima di pensare a caricarla ... di tasse e a mortificarla in modo diretto o indiretto. Per non parlare delle vicende tragiche che scuotono il teatro del pianeta in questi anni, dove l'asticella dell'orrore viene spostata sempre più in alto. Le sorprese e le deliziose meraviglie suscitate nel nonno-poeta da Riccardo (il primo dente; la prima camminatina per l'appartamento; il primo - e lungo - viaggio lontano da casa; le prime parole; i primi giochi; e così via) non inducono il nonno-poeta a rinchiudersi in un hortus conclusus a godersi in pace le piccole e grandi gioie. Al contrario, lo pongono in una posizione ancora più centrale e amaramente critica nei riguardi della vita associata (o dissociata?) di popoli e individui di ogni parte del mondo attuale. Ecco perché il libro “A Riccardo (e agli altri che verranno)” si inserisce armoniosamente nella produzione letteraria defeliciana più sentita o impegnata, sia sul piano individuale che su quello sociale, artistico e poetico. Con un tono pedagogico ancora più forte e pronunciato che in passato. Si legga ad esempio La vita stessa se non condivisa, dove la preoccupazione educativa del nonno viene ampliata e approfondita dalla visione fortemente solidaristica del poeta : “ E' mio!

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L'affermi con forza, quasi con cipiglio. Del possesso hai in concetto assoluto. Tuo il balocco di chi ti sta accanto, che con te gioca e con gli altri bambini; tue le strade anche, le case; tuo il cavalluccio nel parco sul quale dondoli; tua l'intera pubblica giostra. Tuoi, naturalmente, mamma e papà, la nonna e il nonno: se stai con l'uno, gli altri scacci, escludi. Come farti capire che mio sta bene insieme a tuo suo nostro vostro loro ? Gioia piena, ricchezza ? Nessuna cosa è bella nella vita, la vita stessa se non condivisa.” Luigi De Rosa

DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e gli altri che verranno) Edizioni Il Convivio – 10€ Giustamente afferma l’editore, e prefatore dell’ opera, Angelo Manitta, che queste liriche non sono poesie d’occasione, soltanto canto di affetto per l’ amato nipotino Riccardo. Tutto il volumetto, che Defelice considera “poemetto” sulla famiglia, è in realtà una saggia riflessione sulla sacralità della vita, della maternità, nonché un sensibile “rapporto” riguardante i piccoli, con i loro nascenti egoismi, con le loro sofferenze diligentemente annotate e comprese. La figura di questo nonno, affettuosissimo ma anche giustamente severo, risalta a tutto tondo dalla silloge. I nipotini hanno risolto qualunque problema esistenziale per il poeta. “Non morirò del tutto. / Vedrò la luce con i vostri occhi. / Alberi voi sarete / a porgere frescura alle mie ossa / a coprirmi di odori.” Elisabetta Di Iaconi

BERTINAZZI DANIA OGNUNO VUOLE VIVERE PER SEMPRE Editrice Veneta (Collana Narrativa 2000), Edizione brossura 2013, pagg. 324, € 15,50 Il 21 agosto 2014, mi trovavo ad Asiago dove ho conosciuto l’autrice di questo libro in occasione di una sua presentazione, organizzata dalla Libreria Leggi e… Sogna. L’Autrice, madre di tre figli, ha


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scoperto di avere un brutto male. Per reazione ha trovato la forza di mettersi a scrivere libri, fra cui questo che viene da me presentato, in cui viene mostrato il modo di reagire ad una brutta realtà, quella della malattia. La ricerca, spesso inconsapevole, di risposte o della verità induce a percorrere sentieri sconosciuti e per lo più inattesi. Lungo la strada di Silvia avvengono incontri che in modo irreversibile cambiano il corso di una vita immobile, piatta, facendole prendere onde piacevoli, utili per crescere, ma anche onde pericolose, infide. Silvia vive e lavora nella zona delle ceramiche, nel vicentino. Nella piattezza immobile sente soffiare il vento interiore dell' inquietudine che increspa la sua vita. Eventi importanti si susseguono in breve tempo. La storia con Alfonso, erotica prima e d'amore poi, produce presto i suoi frutti sul piano della coscienza e l'autoinganno non tarda a mostrarsi tale. Emerge una consapevolezza nuova acquisita a caro prezzo in base all'inesorabile legge secondo cui ogni conquista presuppone una perdita. L'amicizia con lo spirituale Guido, poi, la accompagna verso l'ineffabile. Le intuizioni e le spiegazioni semplificate dell'amico le fanno trovare una risposta importante. Forse la risposta per antonomasia alla domanda cantata con passione da Freddie Mercury: "Chi vuole vivere per sempre?". E’ un romanzo, che si legge tutto d'un fiato. La condizione umana è racchiusa in questo romanzo. Ogni persona ha un preciso compito e fa da strumento per illustrare l'introspettivo umano nei diversi stadi dell'esistenza così ho collocato: Silvia: il percorso di vita di ognuno di noi, Angelica: il labirinto del nostro percorso, Guido: l'evoluzione di Silvia, Alfonso: la tentazione, l'altalena del bene e del male, l'UOMO nato da donna, ma che non è come LEI. Mirta: lo strumento di spinta per l'inizio di una nuova salita. Giovanni: l'illusione del vero amore? L'amore umano è una condizione fisica, sensoriale, morale, chimica ... "manca sempre qualche cosa c'è sempre una nuvola che si posa" Tailli': il pozzo senza fondo dove si attinge la visione del buco nero delle nostre paure, la visione della luce in fondo al tunnel ... Suppellettili: i punti fermi che si "crede" di avere. I loro cocci raccolti durante la nostra evoluzione che prendono nuova forma. Colibrì coquette: il mero significato al di là delle apparenze. L'apparenza. Colpisce il nostro stadio visivo di appagamento e non. L'apparenza è il dietro, dove si celano significati da noi ignorati ... poiché non ricercati ...tanto era accecante il risultato ai nostri occhi .!!! OGNUNO VUOLE VIVERE PER SEMPRE: che la nostra vita continui. Oltre ... Giuseppe Giorgioli

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LEV TOLSTOJ LA MORTE DI IVAN IL’IC Rusconi libri, Edizione brossura 2004, pagg. 102, € 4,25 Di questo racconto, classico della letteratura, è stata consigliata la lettura a me e ad un mio amico in stato di grave depressione. Pertanto, dopo la sua lettura, ho pensato di recensirlo. Questo racconto è un’introspezione psicologica sul passaggio che ogni essere umano ha dalla vita alla morte, dallo stare bene dal punto di vista sociale, fisico e spirituale al cadere nella malattia grave (tumore, depressione, ecc…). La morte di Ivan Il’ic è una morte al rallentatore, guardata non come evento istantaneo (che, in quanto tale, è irrilevante, anche perché, nel racconto è già avvenuto), ma come agonia analiticamente cosciente. Questo racconto riguarda la vita di un uomo con un ottimo posto di lavoro, una moglie e dei figli, ottimi rapporti sociali. Tutta la sua vita sembra scorrere bene, fino al giorno in cui si rende di conto di stare male, di avere un tumore. Da allora la sua vita lentamente si avvelena, scopre di essere veramente solo; quel male, che quando colpisce gli altri è tremendo ma pur sempre sopportabile, adesso riguarda lui e nulla può allontanarlo. Inizia a sentirsi un peso, a odiare tutti, a riflettere sulla sua condizione, ad acquistare la consapevolezza che la vita che ha vissuto è stata sempre superficiale e fondata sulle apparenze, fino alla liberazione finale che arriva con una morte che ormai non teme più. Il romanzo si articola in 12 brevi capitoli. Il primo capitolo inizia con un processo nel Palazzo di Giustizia: si sparge la voce tramite lettura dei giornali della morte di Ivan Il’ic. A questo punto c’è chi si rallegra che tale morte atroce (per tumore) non sia capitata ai presenti. Alcuni fanno già delle congetture di chi andrà ad occupare il posto di lavoro, lasciato vacante da Ivan Il’ic. Petr Ivanovic, che è stato compagno di scuola di Ivan Il’ic, va al suo funerale per salutare i familiari. La moglie di Ivan Il’ic lo informa che gli ultimi tre giorni di vita sono stati orribili per le urla strazianti del moribondo. Alla fine del funerale Petr Ivanovic raggiunge gli amici per giocare a carte. Nel secondo capitolo si narra della vita di Ivan Il’ic: è figlio di un funzionario statale. E’ morto a 45 anni come consigliere di Corte d’Appello. Si sposa con Praskov’ja Fedorovna, anche se non ne era fortemente innamorato. Dopo il primo anno nascono le prime incomprensioni. La moglie diventava sempre più irascibile ed esigente, Ivan Il’ic provvedeva sempre di più a spostare il centro di gravità della sua esistenza nel lavoro. Facendo il


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Giudice aveva molte gratificazioni sul lavoro per il potere che esso gli conferiva. Ivan Il’ic era molto bravo nel condurre i casi a lui affidati. In famiglia si rilevano invece contrasti circa l’educazione dei figli. Subisce anche alcune disgrazie (morte di due suoi figli). Nel terzo capitolo, Ivan Il’ic, dopo essere diventato procuratore anziano, mirava al posto di presidente di tribunale, ma non si sa come Hoppe gli passò davanti e ottenne il posto. Ivan Il’ic cominciò ad avere problemi oltre che in famiglia anche sul posto di lavoro e lo stipendio non gli era più sufficiente. Decise ad un certo punto di mettersi in congedo. Successivamente partì per Pietroburgo e grazie ad una sua vecchia conoscenza ottenne un posto al ministero con un aumento di stipendio. In primo tempo si trasferì da solo, trovò un bell’ appartamento, che provvide ad arredarlo di suo gusto. Poi si trasferì anche la sua famiglia. Marito, moglie e figlia cominciarono ad andare perfettamente d’ accordo: a casa loro si radunava la migliore società. Nei capitoli successivi si narra che il quadro idilliaco che si era formato si ruppe: Ivan Il’ic cominciò ad avere uno strano sapore in bocca e dei forti dolori al fianco. Marito e moglie cominciarono a litigare sempre più spesso. La moglie Fedorovna diceva ormai con ragione che il marito aveva un carattere pesante. Insistette perché Ivan andasse da un medico per farsi curare. Il medico a cui si è rivolto fa una diagnosi brillante, comportandosi esattamente come lo stesso Ivan Il’ic faceva nel suo lavoro con i suoi imputati! Nonostante le medicine la malattia si aggravava e Ivan riesce a trovare conforto negli amici giocando a “vint” (gioco delle carte). Ivan Il’ic vedeva che stava morendo, ed era in uno stato di disperazione continua. Era in conflitto con se stesso ed il mondo esterno. Voleva farsi aiutare solo da un maggiordomo di nome Gerasim. Le sue sofferenze oltre che fisiche erano anche spirituali: ripercorreva tutta la sua vita cercando di ricordarsi dei momenti più felici. Vedeva anche gli errori commessi durante la sua vita. Ad un certo punto si aggravò: il prete lo confessò e lo comunicò. Dopo tre giorni di agonia e di indicibili sofferenze, confortato dalla presenza della moglie e dei figli, morì. Breve descrizione di vita e opere di Lev Tolstoj Lev Nikolàevič Tolstòj, in russoЛев Николаевич Толстой?, ( Jasnaja Poljana 8 settembre 1928 – Astapovo, 20 novembre 1910), è stato uno scrittore, filosofo, educatore e attivista sociale russo. La vita di Tolstoj fu lunga e tragica, nell' accezione più vera del termine, ossia nel senso che essa fu

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dominata da una profonda, segreta tensione: la si potrebbe definire una tragedia dell'anima. I genitori sono d'antica nobiltà: la madre, di cinque anni maggiore del marito, è la principessa Marja Nikolaevna Volkonskaja, mentre il padre Nikolàj Il'ìč è discendente di Petr Andreevic Tolstoj, che aveva ottenuto il titolo di conte da Pietro Il Grande. La madre, di cui Lev non conserverà alcun ricordo, muore quando egli ha appena due anni. Dopo qualche anno gli muore anche il padre (corse voce che l' avessero avvelenato i suoi due servi prediletti; Lev lo ricorderà come mite e indulgente, lasciandolo precocemente orfano. Fu così allevato da alcune zie molto religiose ed educato da due precettori, un francese e un tedesco, che diventeranno poi personaggi del racconto Infanzia. Scriverà di sé: “Chi sono io? Uno dei quattro figli di un tenente colonnello in pensione, rimasto orfano a sette anni, allevato da donne e da estranei e che, senza aver ricevuto alcuna educazione mondana né intellettuale, a diciassette anni è entrato nel mondo. Divenuto celebre in patria grazie ad una serie di racconti giovanili sulla realtà della guerra, il nome di Tolstoj acquisì presto risonanza mondiale per il successo dei romanzi Guerra e Pace e Anna Karenina, a cui seguirono altre sue opere narrative sempre più rivolte all’introspezione dei personaggi ed alla riflessione morale. La fama di Tolstoj è legata anche al suo pensiero pedagogico, filosofico e religioso, da lui espresso in numerosi saggi e lettere che ispirarono, in particolare, la condotta non – violenta dei tolstojani e del Mahatma Gandhi. Il destino di Tolstoj, dopo il matrimonio, non poteva essere quello di un tranquillo proprietario di campagna, tanto più che la vita familiare, all'inizio felice, stimolava persino i suoi istinti creativi: in sette anni portò a termine Guerra e Pace (dal 1863 al 1869). La scelta di un tema storico, di fatti avvenuti cinquant'anni prima (la guerra napoleonica), non era un rifiuto a partecipare ai dibattiti sulle "grandi riforme", sullo scontro tra liberali e conservatori, sui primi attentati terroristici (o anarchici come allora venivano chiamati), anzi era una risposta proprio a quei dibattiti, agli attacchi dei democratici contro la struttura nobiliare, alla campagna per l'emancipazione della donna. Molte delle nuove idee furono accolte da Tolstoj con scetticismo. Il suo ideale era una società "buona" e patriarcale, era la purezza della vita secondo natura. In Guerra e Pace Tolstoj affrontò questioni fondamentali di carattere storico-filosofico, come il ruolo del popolo e dell'individuo nei grandi avvenimenti storici. Contrapponendo Napoleone a M.I. Kutuzov, l'autore volle polemicamente dimostrare la superiorità di Kutuzov, che aveva capito lo spiri-


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to delle masse e aveva afferrato l'andamento degli eventi che vanno assecondati e non contrastati. Le due linee centrali del romanzo sono indicate dal titolo stesso: la "guerra" e la "pace". Attraverso l'intrecciarsi dei due motivi nasce un'unità, una sintesi dell'estetico e dell'etico, una summa della vita russa dell'inizio del XIX secolo, vista dall' interno. E se l'ambiente sociale in cui si muovono i protagonisti è l'alta nobiltà moscovita e pietroburghese, il sostrato autentico verso cui tendono è il popolo, la nazione contadina, per lo più passiva, ma che nei momenti cruciali riesce a imporre la propria volontà. Il romanzo successivo, Anna Karenina (18731877), è un'opera aggressiva e polemica, che affronta gran parte dei problemi sociali di quegli anni. L'azione del romanzo si svolge in un ambiente che Tolstoj conosceva perfettamente: l'alta società della capitale. Tolstoj denuncia tutte le segrete motivazioni dei comportamenti dei personaggi, le loro ipocrisie e le loro convenzioni, e forse, quasi senza volerlo, mette sotto accusa non Anna, nobildonna e sposata con un nobile, colpevole di aver tradito il marito con un ufficiale, ma la società, colpevole di averla annientata. Anna alla fine si suiciderà! La forza di Tolstoj artista si identificava con la potenza di Tolstoj moralista, il quale toglieva a chiunque l'arbitrio di giudicare, perché solo Dio può giudicare, come è detto nelle bibliche parole dell'epigrafe: «A me la vendetta, io farò ragione». Anna Karenina è l'antecedente di tutta una serie di romanzi del XX secolo, costruiti secondo i principi della psicoanalisi. Dal 1877 al 1881 si vede un ritorno tormentato di Tolstoj alla religione: “ Tolstoj nota il contrasto fra il governo e la religione. Dal governo degli uomini nascono tutti i mali della società. La religione di Cristo deve essere una religione pratica che non prometta la futura beatitudine, ma la dia qui sulla terra!” Memorie di un pazzo (1884) e Padrone e bracciante (1895), insieme con LA MORTE DI IVAN ILJJC (1884-1886) costituiscono un trittico sul problema della vita e della morte. Ma per Tolstoj “il pensiero della morte futura è solo un trasferimento nel futuro della morte che si va compiendo nel presente”. In Resurrezione, 1889-1899, Tolstoj descrive l' angoscia profonda dell'uomo di coscienza (e in primo luogo dell'autore) stretto nel meccanismo della burocrazia statale, nel ferreo "ordine delle cose". Il romanzo denuncia in particolare la disumanità delle condizioni carcerarie e l' insensatezza delle vigenti istituzioni giudiziarie. Qual è la via di scampo? Un approccio radicale alla morale cristia-

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na, intesa, quale buona novella rivolta agli ultimi della società, come iniziativa etica atta a migliorare concretamente la vita degli uomini oppressi su questa terra, nello spirito del Discorso della montagna ripetutamente citato da Tolstoj in quest' ultima sua grande fatica narrativa. Nechljudov, il protagonista del romanzo, vive le medesime rivoluzioni interiori dell'autore: l'iniziativa di donare (o meglio, "restituire"). Il 20-22 febbraio 1901 il Santo Sinodo scomunicò Tolstoj per le sue idee anarchico-cristiane e inarcopacifiste. Konstantin Pobedonostsev, procuratore del Sinodo, aveva chiesto anni prima di rinchiudere con la forza Tolstoj in un monastero. Ma ormai lo scrittore aveva raggiunto una fama enorme e le persecuzioni non facevano che aumentarne la popolarità. Fuggì dalla sua casa, lasciando scritte queste parole per la moglie: « Ti ringrazio per i quarantotto anni di vita onesta che hai passato con me e ti prego di perdonarmi tutti i torti che ho avuto verso di te, come io ti perdono, con tutta l'anima, quelli che tu hai avuto nei miei riguardi.” Durante il viaggio, a causa del freddo e della vecchiaia, lo scrittore ben presto si ammalò gravemente di polmonite e non poté andar oltre alla stazione ferroviaria di Astapovo. Accorsero parenti, amici (tra cui il suo segretario Valentin Bulgakov) e giornalisti ad attorniare il morente. Febbricitante, Tolstoj dettò alla figlia Aleksandra (la prima tra i familiari ad averlo raggiunto) questi pensieri per il Diario: « Dio è quell'infinito Tutto, di cui l'uomo diviene consapevole d'essere una parte finita. Esiste veramente soltanto Dio. L'uomo è una Sua manifestazione nella materia, nel tempo e nello spazio. Quanto più il manifestarsi di Dio nell'uomo (la vita) si unisce alle manifestazioni (alle vite) di altri esseri, tanto più egli esiste. L'unione di questa sua vita con le vite di altri esseri si attua mediante l' amore. Dio non è amore, ma quanto più grande è l' amore, tanto più l'uomo manifesta Dio, e tanto più esiste veramente.” Giuseppe Giorgioli

DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e gli altri che verranno) Poesie. IL CONVIVIO. Prima edizione: Marzo 2015. Collana Calliope - Direzione e cura di Giuseppe Manitta. In copertina: Foto di Riccardo. Un piccolo-grande gioiello: “A RICCARDO” (e gli altri che verranno). Un piccolo-grande tesoro: Riccardo in copertina,


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col suo dolcissimo sorriso incanta tutti i lettori e li fa sentire bambini come lui. I nipotini sono la gioia dei nonni, li fanno ridere, piangere, gli danno la vita con i loro sorrisi e i loro capricci, la loro forza e impazienza, comandano loro e i nonni ubbidiscono, eseguono tutto ciò che loro desiderano e vogliono, con amore incondizionato. Il nostro grande Autore Domenico Defelice e il suo meraviglioso nipotino Riccardo, ne sono la più viva testimonianza, Riccardo è riuscito a catturare il cuore del nonno, fin dai primi vagiti: Sei il primo fiore/ impastato con le mie cellule/ tasselli di un albero vetusto/ che affonda le radici nei millenni. Da ‘Il primo fiore.’ Pagg. 12. Istanti felici che rimangono eterni nell’abbraccio del suo primo fiore, che tanta ebbrezza gli dà e il suo cuore dalla gioia diventa un allegro bambino. Un anno, il primo!/ Se non cammini ancora spedito/ è per la troppa fretta di andare... / Alla mia età/ vorrei che il tempo si fermasse! Da La poesia del suo correre lento – In occasione del tuo compleanno. Pomezia, 26 ottobre 2010. Pagg. 30. Ogni verso di queste stupende liriche, è un pezzo di cuore che si sbriciola di languide emozioni in ogni attimo vissuto insieme, il nonno e il nipotino sono un unico essere, avvinti da un afflato che li lega anima e corpo, gioiscono insieme, giocano insieme, soffrono insieme, ogni piccolo gesto del bimbo, lo affascina, lo fa rinascere, gli dà tanti batticuori e sospiri d’ansia ininterrottamente. Sono icone d’immagini struggenti che gli fanno vibrare il cuore di delizie infinite. Non morirò del tutto./ Vedrò la luce con i vostri occhi./ I colori, le forme, le tante meraviglie strepitose;... Sarete il mio futuro. / Alberi voi sarete/ a porgere frescura alle mie ossa, /a coprirmi di odori. Da sarete il mio futuro. Pagg. 61. Un abbraccio caloroso di candidi sentimenti, che brillano di luce abbagliante, nel cuore del Nostro Domenico Defelice, per Riccardo e gli altri nipotini che verranno. Un piccolo-grande capolavoro, il libro del Nostro Direttore di POMEZIA-NOTIZIE, è anche magnificamente arricchito di bellissime foto, che lo rendono ancora più prezioso. Ricco di liriche di un amore esclusivo, che cresce sempre di più attimo dopo attimo, per il suo splendido Riccardo. Bisogna leggerlo, tenendolo stretto al cuore per la ricchezza del contenuto, per capire fino in fondo l’ amore infinito del nonno per il suo primo nipotino e per gli altri che verranno. Ecco la nostra versione in inglese della poesia “Forse...” del 10 luglio 2009 (pag. 15):

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MAYBE ... I think about how the world would look through your eyes, a world that is no longer mine. The sky would – perhaps – be the same birds would still fly, real ones and planes; every body – probably you too – will have their own little flying machine. There would only be crowded streets with smiling and happy passers by and squares swamped with children. The face of the earth will change. I hope they don’t take down the mountains. Maybe ... when love for the environment grows the fireflies will return, and the frogs in the ponds, the red ladybugs, the golden butterflies , Multicoloured flowers, on the snow topped mountain too... Eagles and storks will fly by your side Maybe ... It all depends on how big your heart is. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia

FILOMENA IOVINELLA AMORE DELIRIO E DESIDERIO Il mistero dei sensi che scandisce il tempo Edizioni Pagine, 2014 - Pagg. 62, € 23 La poesia di Filomena Iovinella, offerta in libera espressione dei versi, ha la forza del legame che lega il suo corpo fisico alla parte più interiore, attraverso tutti quegli elementi che la natura le offre. È un legame dei sensi "l'incantato bosco dei sensi", con tutte le diversificazioni che le percezioni permettono: la comunicazione di sé con lo spazio, l' espressione e l'armonizzazione degli istinti, la contemplazione della bellezza. Nulla è forse più difficile da tradursi in parole che il concetto di legame (pesante, imposto dalle circostanze della vita) e l'adesione spontanea a quella "litania di catene" che le permette di esserci e di vola-


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re con quel caleidoscopio di parole che da un verso all'altro mutano in avvicendamenti fantasmagorici. Il lettore ha la sensazione di partecipare ad una continua alternanza di riflessioni, che si susseguono in immagini mutevoli, lasciando spazi a plurime interpretazioni, quasi ad assecondare il momento interiore dell'autrice. Il tempo è ben connotato, con la sua espressione di limite: "tu spegni il tempo / azzeri il luogo" e come avido desiderio di "cercare altro tempo da credere / a modo nostro ancora”. La fiamma "germoglia di colore / generato nel petto stanco" si traduce - nella sequenza dei quattro elementi - nella "forza che lungo il mio cammino / mi distrugge e mi infuoca l'esistenza". Versi d' amore-desiderio che mi piace leggere come lampo e illuminazione poetica. L'acqua, come fiume, come "l'onda del tuo lontano momento" è sorgente di vita, mezzo di purificazione e centro di rigenerazione: "scrivo e leggo / e mi bagno nella parola (...) nel tempo io ti riempio / delle mie bolle d'acqua". Versi che fluiscono nei desideri, nelle intenzioni!, che hanno un loro corpo particolare, parte integrante della sua esistenza. Nell'aria, sia un soffio, sia una brezza o il vento, l'autrice prova a percepire “ l'indissolubile essenza (...) che dentro di noi ci conduce nel tempo / ma forte è l'aria dell'unione e noi fermi"//. E nella terra l'autrice rivela la fusione materna che la donna esprime al compagno di vita: "io mi perdo in quel giallo grano / della mia terra / perché è lì che ti ho trovato"//. La fisiologia dell'immaginazione obbedisce alla legge dei quattro elementi; essi sono alla base dei bisogni, delle seduzioni, delle forme. Pensano la materia, sognano la materia. In forma poetica aiutano l'assimilazione intima del reale. Paola Insola

MIRELLA SERRI I REDENTI, GLI INTELLETTUALI CHE VISSERO DUE VOLTE 1938 - 1948 Corbacchio, 2009 - Pagg. 369, € 19,60 Un testo di circa quattrocento pagine. Una lunga, paziente ricerca di documenti d’archivio, di scritti e discussioni apparsi su riviste e giornali degli anni quaranta, una testimonianza tramite la quale la scrittrice <<ricompone le biografie e ripercorre le vicende degli intellettuali che “vissero due volte”, nell’Italia fascista e in quella democratica>>. Sorprende il numero delle persone coinvolte, furono tante, tantissime, uomini della cultura della politica del cinema dell’editoria dell’

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industria, nomi eccellenti provenienti da ogni parte d’Italia. L’autrice riporta, con dovizia di particolari, quanto è riuscita a reperire, e lo fa in modo scientifico e obiettivo, dando massimo spazio alla verità e lasciando al lettore la libertà di esprimere giudizi propri. Da dove il termine di “redenti” ? Così nel primo capitolo: <<Fu Velio Spano a ribattezzare Carlo Muscetta “fascista redento”, per i suoi trascorsi in camicia nera>>. Chi erano i “redenti”? Coloro che avevano aderito al fascismo durante il regime e s’erano poi, alla sua caduta, convertiti, erano passati dall’altra parte, al comunismo. Opportunisti? Non è facile spiegare, in poche parole, il cambiamento dei cosiddetti “doppiogiochisti”, perché non tutti ebbero gli stessi motivi che ne determinarono la scelta politica. Se molti agirono per interesse, per essere agevolati, per inserire articoli, a pagamento, sulle riviste fasciste, per avere incarichi rimunerati, altri lo fecero nell’ombra, da simulatori, fingendo di favorire il regime, praticando la cosiddetta “simulazione onesta” mentre, in realtà, erano contro di esso. Non c’era libertà durante il fascismo, in nessun campo. Si era sorvegliati e, se non si aderiva al partito, si veniva esclusi da ogni attività non solo, anche ricattati e puniti severamente. Il fascismo era nato all’insegna della violenza. Sua espressione erano le famigerate “squadre d’azione” composte da elementi poco raccomandabili che indossavano la camicia nera, propria degli arditi, durante la guerra, e facevano uso delle armi, in particolare del “manganello”. Organizzavano “spedizioni punitive” contro gli avversari politici che malmenavano, non di rado fino alla morte, e ai quali erano soliti far bere una buona dose d’olio di ricino. I giovani che volevano accedere all’università, non erano liberi di farlo se non iscritti ai “Littoriali”. Il gerarca Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale, svolgeva la sua propaganda su “Primato”, la rivista principe alla quale collaborava tutta l’intellighenzia fascista italiana, duecentocinquanta firme. I legami più stretti di “Primato” furono, in primo luogo, con la più ricca e autorevole tra le “navi-scuola” del regime, la rivista dei GUF (gruppi universitari fascisti). Bottai aveva fatto approvare dal “Gran Consiglio del 15 febbraio 1939” la “Carta della scuola” con lo scopo di politicizzare le istituzioni scolastiche, affinché “la fascistazione diventasse educazione”. Si doveva creare il “nuovo uomo fascista”, formare i giovani al punto che “parlassero con la stessa naturalezza con la quale, sotto l’ azione materna della loro nutrice, cominciavano a balbettare le prime parole della loro lingua”. Dai trascorsi in camicia nera degli intellettuali italiani, a partire dall’immediato dopoguerra, si avrà una


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drammatica lacerazione nella vita dell’antifascismo di sinistra, azionista, comunista. Deriverà dalla valutazione dell’operato degli ultimi arrivati nelle file dell’antifascismo resistenziale data dagli antifascisti della vecchia guardia (Spano,tra gli altri) i quali guardavano con scetticismo e perplessità al recente passato dei “nuovi” o “redenti”. Questi vi erano approdati nel 1943 e nel 1944, dopo il 15 luglio. Le nuove leve erano scrittori, politici, economisti, artisti, storici, giornalisti, uomini di spettacolo. I vecchi intellettuali, che erano stati esuli in patria, guardavano con sospetto l’attiva intellighenzia. Questa aveva preso finanziamenti da Mussolini, era stata agevolata nell’ascesa della carriera, aveva trovato libero accesso ovunque. Quelli della vecchia guardia chiedevano, per le nuove leve, una “quarantena”, una “rieducazione”, prima di farle entrare nella dirigenza del paese. Gli intellettuali operanti in Italia nella seconda metà degli anni trenta, nel periodo del dibattito sulla rieducazione percepirono la loro vita lacerata, divisa in due parti; essi, infatti, avevano vissuto una prima vita “non autentica”, una seconda “autentica”. Il decennio 1939-40 / 1946-47 si apre col regime che potenzia il ruolo degli intellettuali nella prospettiva di una leadership dirigente e si conclude con la storia degli “intellettuali che vissero due volte”. Questi cercano in ogni modo di far cadere nell’ ombra, di cancellare il ricordo della “doppia vita”, le differenze tra dissimulatori e redenti e ogni memoria del passato. Sia in era totalitaria che nelle file della sinistra antifascista, già a partire dal 25 luglio 1943, gli intellettuali ricoprono analoghi ruoli di guida e leadership, e a distanza di brevissimo tempo; essi sono gli stessi che pubblicavano i loro articoli sulla rivista di Bottai, su “Primato”, il quindicinale “catturatore di intellettuali” che suggeriva “il senso della continuità” e che aveva stretti legami con la rivista degli universitari, la GUF. I redenti furono uomini che soffrirono molto perché dovettero scegliere tra una “assenza di vita” (astenersi dalla vita politica) e l’essere utilizzati come efficaci strumenti di penetrazione culturale e politica. Essi non si possono definire convertiti o voltagabbana, furono personaggi “cautelosi”, intimamente oppositori della dittatura della quale non aspettavano che la caduta, “doppiogiochisti” li definì Alicata; se fossero vissuti in altra epoca, se non fossero stati schiacciati dal regime, se avessero potuto essere padroni della loro libertà, non avrebbero avuto motivo di giustificare le loro scelte coatte, di vergognarsi della loro vita. Mentre ripercorro le tappe degli avvenimenti tratteggiati con tanta chiarezza dalla Serri e l’attività politica e “pseudoculturale” (così oso definirla)

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svolta dai tanti, sfortunati protagonisti, spingo il pensiero agli Eroi del nostro Risorgimento per un confronto tra gli uni e gli altri: i primi, quelli della doppia vita, si sono premurati di far cadere nella dimenticanza i loro nomi, nella speranza che i posteri non vengano a conoscenza dei loro trascorsi; i secondi, al contrario, col trascorrere del tempo, vengono sempre più ricordati, lodati e additati come esempio di coraggio, lealtà, spirito d’ abnegazione, amor di patria. Pochi (credo) quelli che ricorderanno i redenti, moltissimi quelli che rimpiangeranno gli Eroi. Antonia Izzi Rufo

LEONARDO SELVAGGI PANTALEO MASTRODONATO NELLA VITA E NELL’ARTE Symposiacus Di Leonardo Selvaggi è il volumetto “Pantaleo Mastrodonato nella vita e nell’arte” profilo critico di scrittore e poeta - (Symposiacus, pagg 47), che è una monografia del Direttore della Rivista e Casa editrice Symposiacus, nonché – grande spirito versatile - autore di molteplici opere di poesia, saggistica, filologia, antropologia. Selvaggi esamina passo passo e con grande acutezza d’ingegno, non solo i lavori di Mastrodonato, ma soprattutto lo spirito di questo scrittore dall’ animo semplice e puro, ma sempre combattivo contro le ingiustizie e le sopraffazioni (subite fin da ragazzo!) che ci descrive nell’opera autobiografica “Il figlio della Luce”. Spirito aperto ed amante della cultura internazionale, si laurea in Lettere a Montpellier, tessendo rapporti bibliografici anche con Germania e Inghilterra. La sua anima nobile e religiosa, che si ispira alla Bibbia, al Vangelo e alla croce di Cristo, possiede slanci contemplativi di vera estasi, come appare in tutti i suoi scritti, anche in “La nuova stagione”, in “Eucalyptus”, in “Pagine di polvere divina”e in “Pagine di poesia”, dove invita gli uomini ad un radicale rinnovamento interiore e ad elevarsi in trascendenza verso il Cielo. Selvaggi afferma che alla semplice lettura di queste opere, ci si sente trascinati a quelle grandi altezze, purificati, rinati. Mastrodonato è contro la guerra (che nell’infanzia ha vissuto), contro il materialismo e contro la tecnologia che ha tolto all’uomo l’anima, l’identità e la volontà, attraverso meccanismi folli che vorrebbero raggiungere l’Infinito. L’Autore, sempre ricchissimo di notizie su di lui, ci informa che il Nostro ha dato vita al Movimento


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letterario “Manifesto” dove anticipa il rinnovamento letterario di oggi e detta norme di estetica legate a interezza morale e a religiosità, affermando che la vera libertà viene da Dio e dal suo Spirito. Inoltre, egli è contrario all’aggressività del Futurismo e all’egoismo dell’ermetismo. Selvaggi ci illustra anche “Preistoria e civiltà” (2003), evidenziando che Mastrodonato non accetta la teoria evoluzionistica, ma crede nella Creazione. E’ questo un vastissimo studio sulla paleontologia, sull’arte, sul lavoro e sulla religione: esso inizia dai popoli pre-indoeuropei, seguendoli nei loro vari spostamenti in Occidente, fino ad oggi. Del resto, nella relazione approfondita di “Collana di filologia e di cultura applicata”, Selvaggi ci fa notare la vastità, anzi la mondialità della cultura di Mastrodonato che, partendo dall’esame delle arcaiche forme pre-letterarie, giunge alle produzioni odierne. L’Autore, dall’inizio alla fine, oltre a fare continui confronti con la situazione generale attuale – ben diversa da quella bramata da Mastrodonato! dimostra di avere grande passione, altrettanta partecipazione, zelo ed impegno quando esamina personalità di tanta levatura! Maria Antonietta Mòsele

PAOLA INSOLA ELOGIO ALLA MIMOSA Ed. Il Croco/Pomeia-Notizie, 2014 “Il Croco” – Quaderno Letterario di PomeziaNotizie – ha conferito il 2° Premio Città di Pomezia nel dicembre 2014 a Paola Insola per la silloge poetica “Elogio alla mimosa”. Domenico Defelice, nel presentare queste liriche, vede soprattutto un elogio alla Donna e alla sua eroicità di ogni giorno. Personalmente, mi piace definire la mimosa come il simbolo del cuore della donna; e qui è la Poetessa stessa che, con la sua grande sensibilità, partecipa al dolore a al dramma di tanta gente sfruttata da soprusi legalizzati; che si dispiace dell’ostilità verso i lavoratori stranieri da parte della gente che li ospita; che si addolora nel pensare ai bambini incarcerati per colpe non loro (per i quali ha promosso un’iniziativa umanitaria - Brava!); che prova pietà verso chi viene colpito da dissesti naturali e rabbia per l’incuria dei governi, avvertiti in tempo; che è fortemente contraria ad ogni genere di guerra. Cuore di donna sono pure i contrastanti sentimenti che la Poetessa prova nella propria anima: “sospesa e confusa” fra dubbio e certezza, conforto e

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dolore, silenzio e congedo, illusione o delusione. Cuore di donna o “elogio alla mimosa” è anche ammirare le meraviglie della natura: in questo caso l’esplosione dei “capolini animati” sui dorati rami di mimosa profumata mossi dal vento, che sembrano i sorrisi festosi delle nipotine dell’ Autrice. Cuore di donna è chi riesce a sconfiggere la propria malattia – considerata inguaribile – con azioni mirabili, per poter dare coraggio e speranza ad altri. Cuore di donna è la solidarietà, l’umanità di chiunque – donna o uomo - anche nelle tragedie, aiuta a far rinascere la vita, o a ottenere una tregua all’ interno di conflitti, oppure a intonare “accordi di violini” per sollevare cuori affranti; ad aiutare il bisognoso, come il padre dell’Autrice che ha insegnato ai poveri d’Africa il gioco del calcio “portando un tributo alla fame”! Cuore di donna, “elogio alla mimosa” è ovunque dove c’è amore. Purtroppo – ci ricorda la Poetessa – spesso la donna è ancora troppo distante dall’uomo che invece pensa al potere. E pertanto, ella ci dice, con un sottile riferimento al femminismo, noi donne dobbiamo chiedere tutte insieme “un posto al mondo/ oltre il gioco diffidente delle parti”. Questa poesia è espressa con un’accuratissima scelta di termini spesso velati e simbolici, che richiedono attenzione e riflessione approfondite da parte del lettore. Maria Antonietta Mòsele

DOMENICO DEFELICE MARIA GRAZIA LENISA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 “Il Croco” di gennaio 2015 è dedicato a “Maria Grazia Lenisa” da Domenico Defelice che qui delinea un dettagliato profilo critico sia alla Poesia che ai Saggi di questa notevole Scrittrice, mancata nel 2009, e di cui egli conserva numerose lettere. Vincitrice di importanti Primi Premi Internazionali ed autrice di molteplici opere, tradotte in varie lingue, Lenisa all’inizio segue la corrente del realismo lirico fondata da Aldo Capasso, per proseguire poi affrontando temi quali la religione, il sociale (questione meridionale, emancipazione della donna semi-schiava), l’amore, e quindi passare all’ erotismo reale e inventato. Come detto, Lenisa è molto interessata all’uomo e alla donna nella famiglia e nella società, dove la donna è essenzialmente amore, mentre l’uomo è portato all’odio ed è troppo interessato alla politi-


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ca. Infatti, ella sogna una Terra senza il Male e un mondo ideale dell’Arte e dei Poeti. Inoltre, la Scrittrice affronta il tema del linguaggio, sia nella prosa che in poesia. Per cui ci dice che lo scritto dovrebbe essere comprensibile anche alla gente comune – come si orientavano i Classici nel passato – in modo che non risulti un “groviglio barbaro di suoni” o una “smorfia”, con espressioni troppo personalizzate, o scopiazzate, o senza alcuna originalità, oppure che creino confusione; mentre invece, proprio le opere con questo linguaggio “violentato” vengono premiate dai maggiori critici e dalle migliori Case Editrici. E’ vero, però – ella aggiunge - che la poesia, come tutte le arti, è miracolo ed è misteriosa anche per chi la scrive. Altro tema caro alla Lenisa è la sua particolare concezione della fede, per cui mette in dubbio la perfezione di Dio che ha creato – a sua immagine e somiglianza – l’uomo così imperfetto: sono interrogativi che – come fa presente Defelice – non è compito nostro giudicare. Ella poi, ispirandosi dall’erotica francese, avente una dissolutezza raffinata, passa dapprima all’ amore puro e mitico e all’amplesso; successivamente parla della rivoluzione sessuale, dell’ aborto, della droga. Poi ricrea, nelle sue poesie, un erotismo di fascino e di mistero, affrontando la rischiosa tematica del sesso - nel suo differente approccio dei giorni nostri, rispetto alla rigidezza del passato - di cui, attraverso l’ironia, ne diminuisce il tono esasperato e dissacrante. E la morte, che negli ultimi anni l’ha terrorizzata ed ossessionata (a causa della grave malattia), la affronta con ironia e sadismo, parlandone spesso per esorcizzarla e trasformarla in motivo di vita: figura da abbracciare per non esserne travolta: “Soccomberemo insieme”, dice. I saggi di Lenisa riguardano le opere di critica di Giorgio Bàrberi Squarotti che – secondo lei – è frenata da qualche pudore; e di alcuni altri valenti esponenti della critica letteraria italiana. Ella si rammarica che, a volte, i Critici vengono considerati superiori ai Poeti stessi. Ogni argomento ed ogni concezione che figurano nelle svariate opere di Lenisa sono qui esaminati a fondo da Defelice il quale a volte ne condivide l’ opinione con la Poetessa e con i suoi vari critici, a volte ne dissente, apportando le proprie valide, interessanti considerazioni. Defelice inoltre, mette in risalto la preziosità della poesia di Lenisa, così creativa, originale, artistica. Maria Antonietta Mòsele

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FILOMENA IOVINELLA AMORE DELIRIO E DESIDERIO Pagine, 2014 La giovane, ma già affermata scrittrice Filomena Iovinella ci presenta il libro di poesie “Amore delirio e desiderio – il mistero dei sensi che scandisce il tempo” (Editrice Pagine, 2014, pagg. 62, € 23,00) che comprende liriche sull’amore e sui quattro elementi che compongono l’universo, attraversati dall’amore. Già dalla Presentazione, l’Autrice illustra in modo globale il contenuto della sua opera, raccontandoci dapprima l’esplosione del fuoco d’amore, e poi – dice – “sola mi fai essere/ a sognare di incanti”. Ella ci invita a desiderare e a sperimentare anche noi, come lei, l’amore “esploso con un botto devastante, come freccia di fuoco”, perché la vita è amore; e questo lo mette per iscritto perché vuole che le sue esperienze perdurino nel tempo, in altri. Il resto – aggiunge - è buio e tempesta. Ed ancora: “Attendo una rosa rossa al risveglio, di un fuoco di fiamma amorosa.” Le prime liriche parlano dell’amore “sentimento e delirio” che, a sorpresa, ha colto loro due innamorati, e si dispiacciono che gli altri abbiano cuori spenti, mentre essi stanno godendo della reciproca folle intimità che, successivamente, viene descritta a lungo e con abbondanza di particolari, come ”vortice impazzito” in un “roteante delirio” di “filo magnetico” tra “lenzuola intriganti”: tu “giaguaro della tua felina”. Purtroppo, però, il fuoco d’amore che ”ha saziato i sensi” non è stato duraturo; li ha lasciati “da soli poi/ ma non soli/ nella pesantezza del distacco”, con lei disperata nell’ ”urlo dell’allontanamento”, con lui “silente e indifferente” alle “doloranti parole” di lei. Così la Poetessa si sente delusa, in un “tormento e delirio agonizzante”, messa in prigione dietro “sbarre/ fredde e scure”, giocata nel suo intimo, piena di sogni, e per spezzare i sogni devi spezzare il cuore – dice, aggiungendo - l’amore non si ricorda: resta nel cuore, non nella mente. A volte, le sembra di vederlo per un attimo, anche se lui non c’è. Fortunatamente, però, le rimane la speranza. Nella sezione intitolata ai quattro elementi della natura – acqua, aria, terra e fuoco – il tema è sempre il medesimo: lei è sola, ma lo aspetta, lo desidera; e nello stesso tempo vorrebbe vendicarsi di lui, anche se la vendetta la farebbe stare male. Ora – dice – “il fuoco dell’inferno brucia le mie ferite”; ed anche se lui è indifferente, lei non si arrende: “Nessuno mai mi ha spento/ passo tra le fiamme/ e non


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mi arrendo/ nel silenzio sento le fiamme/ aspetto e ti invoco/ e non mi arrendo.” Conclude dicendo che il viaggio nell’amore dei sensi è stato esorbitante, misterioso, e non pensava di “sentire al di là”. Poesia molto comunicativa, a volte simbolica, a volte molto chiara ed esplicita. Maria Antonietta Mòsele

SILVIA CALAMATI (a cura di) NEVE E FANGO PER DISSETARMI Diario di Sotiris Kanellópoulos, partigiano della Guerra civile greca (1 marzo-17 maggio 1949) Prefazione di Caterina Carpinato. Edizioni Socrates - Roma, € 14,00 Il 17 aprile nella Sala al secondo piano di Palazzo Cordellina in Vicenza si è svolto un evento particolarissimo ed uscito da coincidenze senza precedenti: la presentazione di 'Neve e fango per dissetarmi'. Diario di Sotiris Kanellópoulos, partigiano della Guerra civile greca (1 marzo-17 maggio 1949). Un testo a strati, legato a vicende storiche reali e sofferte in prima persona dal partigiano greco Sotiris Kanellópoulos: il suo 'Diario', costituito di poche pagine è stato gelosamente conservato fino ad ora prima dal figlio Nikos, nato nell'agosto del 1945, alla cui memoria questo duro lavoro è dedicato, poi dalla moglie di quest'ultimo, Luisa Tombolan Kanellópoulos, presente in sala a fianco della curatrice Silvia Calamati e di Dimitri Deliolanes, corrispondente della televisione pubblica greca ed autore di testi importanti legati alla urgente attualità storico-politico-amministrativa della Grecia in Europa. Perché questo popolo, il popolo greco, lo apprendiamo con decisione e senza mezzi termini anche dal partigiano Sotiris, vuole riconoscimento e dignità, autonomia e rispetto per le tradizioni, pur in epoca di globalizzazione. Lui offre a noi tutti, oggi, i suoi palpiti del cuore, le sue testimonianze sofferte nello sforzo di lasciare una traccia di quanto si possa patire quando una guerra è in corso tra fratelli, una voce sola, la sua, questa del giovane Sotiris, braccato in condizioni di vita pessime e senza sbocco, negli anfratti delle montagne del Taigeto, a nord della città di Calamata, nel Pelopponneso. La sezione dedicata alle pagine del suo 'Diario' è infatti circondata ed avvolta proprio da investigazioni storiche preziosissime, che la studiosa Calamati ha deciso di inserire e che vanno a dettagliare con doverosa minuzia periodi bellici e precisi eventi che son ben fuori dalla nostra portata di memoria, sui quali, infatti, anche nei testi di storia specifici è stato dato limitato rilievo.

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Prima di diventare partigiano ricercato, Sotiris è stato nella commissione regionale per il fronte unito dei lavoratori e dei coltivatori delle terre dell'uva passa, prodotto importante e specifico di questa zona; catturato e carcerato riesce a fuggire e si dà alla macchia con pochi compagni sulle montagne del Taigeto, mentre la Grecia è travagliata da una guerra civile proprio successiva alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale! La Grecia, dopo le spartizioni dell'Europa firmate a Yalta ed alla presenza di Stalin e Roosevelt, viene data a Churchill che vi porta Giorgio II re d'Inghilterra: questi gli eventi che si conoscono, ma quanti altri ancora, come ad esempio la prima verifica dal vivo e dal vero della bomba al napalm su queste zone da parte degli Stati Uniti, questo libro riesce a chiarire una volta per tutte, rappresentando un documento storico inequivocabile che associa rigore di ricerca ed afflato umano profondo? Il libro è costituito infatti oltre che dalla biografia di Sotiris Kanellópoulos (pp. 17-27) e dal suo 'Diario' (pp. 27-63), anche da documentazioni preziose e dettagliate: 'Dittatura, occupazione, resistenza e guerra civile (1936-1949),testo di Richard Clogg (pp. 65-116); 'Il ruolo dell'Esercito Democratico della Grecia (DSE) nella guerra civile (1946-1949), testo di Polymeris Voglis (pp. 117-170). A seguire tre contributi essenziali, che vanno da pagina 171 a pagina 182: Appendice 1. Giuramento dei combattenti e dei capi dell'Esercito Democratico della Grecia (DSE) Appendice 2. Il Piano di azione militare del DSE (“Piano Limnes”) - 10 settembre 1947 Appendice 3. Annuncio della fine delle operazioni di guerra da parte del “Governo Democratico provvisorio”, trasmesso via Radio da Bucarest (Ottobre 1949). Molte le fotografie che vanno a dare testimonianza diretta degli eventi storici generali e dei protagonisti particolari, provenienti dall'Archivio del Comitato centrale del KKE di Atene, mentre a corredare ulteriormente il testo è presente una sintesi degli Acronimi ed una Bibliografia nelle tre lingue, italiana, inglese, greca. Sopravvivenza; spirito d'amicizia e trame di tradimento in essa, pur di sopravvivere appunto; coinvolgimento totale nella sofferenza e distacco del pensiero quando traccia parole significative sulla carta, prova indelebile di una vita in respiro; canto della natura e del cuore che rimane ancorato all'amore per la poesia anche quando si lascia attraversare dalla tragedia; dignità vera e rispetto per le tradizioni della propria gente, anche se qualcuno tra loro si è già venduto miseramente al nemico: queste


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in tensione le vibranti testimonianze che Sotiris ci offre e di cui io qui do un breve percorso, in ascolto: “ Giovedì 21 aprile 1949 Oggi il nemico sta setacciando la nostra zona, in direzione di Ghèfira.... Dobbiamo cambiare zona. Ma come? E per andare dove? Nessun luogo sul Taigeto ci può garantire cibo, acqua e sicurezza... Una domanda mi tormenta quando e in che modo riusciremo a collegarci con il nostro gruppo?... Venerdì 22 aprile 1949 ...Notte piena d'angoscia...Ghiorghis dice che gli agnelli belano perché i pastori li portano al mercato di Kalamata, a venderli per Pasqua... Ah, quanti ricordi mi riportano alla mente questi giorni... La famiglia, le nostre usanze, le emozioni, i sentimenti...Stasera, assieme a Ghiorghis, da una distanza di quattro chilometri ho sentito la processione pasquale di Varùssia. Che bello sarebbe se potessimo essere anche noi con tutti gli altri... Di chi è la colpa di tutto questo? Domenica 24 aprile 1949 C'è qualcosa che mi stringe il cuore e mi commuove. In questi giorni di Pasqua dovrei essere a casa, con i miei familiari.... Stanotte non ho chiuso occhio, perché gli insetti mi hanno tormentato in continuazione.... Mercoledì 27 aprile 1949 A partire dalla Settimana Santa se n'è andata la Nona Divisione e noi ci siamo tolti un gran peso... Mercoledì 11 maggio 1949 Da quando ci troviamo sul monte Kalathi non ho chiuso occhio, a causa del freddo... Con ansia aspetto l'incontro segreto... Giovedì 12 maggio 1949 Da stamattina siamo nascosti dentro gli anfratti. Mitros è diventato irriconoscibile e tutti hanno fatto fronte comune contro di me. Ma che colpa ho io?...Ho una grande angoscia...Ho chiesto a Ghiorghis e Mitros di nascondermi. Non so cosa stia succedendo. Non riesco neppure a immaginare che possano tradirmi... Domenica 15 maggio 1949 Inebriante il canto degli uccelli, oggi, che ci riporta alla mente un passato così bello e umano...” (Sotiris Kanellópoulos: 'Diario' in opera citata, pp. 49-58). Non senza commozione Silvia Calamati, che ha alle spalle pubblicazioni storiche legate alla Guerra nell'Irlanda del Nord ed alla figura del 'blancket man', l'eroe Bobby Sand, acquisendo per questo premi di prestigio, condivide con il pubblico gli eventi che hanno portato alla pubblicazione ora anche di questo testo, tutti particolarmente emozionanti e legati tra loro da un filo conduttore destina-

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le, questo è certo. Dedicherò ogni mio ulteriore lavoro su questa studiosa e sull'intreccio di ramificazioni umanissime che da lei si muovono, alla memoria di Virgilio Pedrina, che mi ha dato dal vivo e dal vero l'apertura mentale e la determinazione a lavorare sulla Storia Contemporanea e sui fatti concreti che la caratterizzano, con rigore e coerenza, per salvaguardare la dignità di ciascuno e di tutti, anche in tempi di globalizzazione. Ilia Pedrina

TERSILLA GATTO CHANU LEGGENDE E RACCONTI DELLA VALLE D’AOSTA Newton Compton editori, 2006, 298 pagg. Come è noto, la Valle d’Aosta sta tra la Francia ed il Piemonte e forse solo perché è una Valle non esiste, a tutti gli effetti, sulla carta geografica italiana, anche se è un posto meraviglioso, traversato dal Lys e ricco di paesi stupendi, con castelli pittoreschi. Un angolo italiano tutto da visitare, ma misconosciuto a tutti gli effetti perché gli alcolizzati ricorderanno più facilmente il Piemonte, ove si produce l’ orribile vino d’Asti, mentre i tifosi, nella loro meschinità, rammenteranno il Piemonte a causa della squadra del Torino. Nessuno si occuperebbe mai di un posto che non è incluso né nella lista Vini Pregiati né in quella della F.I.F.A.! La riprova di quanto affermo è che, allorché, a suo tempo, la Mondadori organizzò la stupenda collana Fiabe e leggende regionali italiane, la Val d’Aosta brillò per la sua assenza! Perfino come semplice valle secondaria del Piemonte! E tuttavia esiste ed è ricca di fiabe e leggende meravigliose, come può ben testimoniare questo ottimo tomo, pubblicato per i tipi della Newton Compton nel 2006. Un tomo curato (incredibile a dirsi!) da una donna che fa Gatto di cognome. In un paese di squallidi cinofili come è l’Italia, un Gatto fra i cognomi è una vera aberrazione. Eppure esiste. Per fortuna! Questo libro contiene in sé le storie più diverse, per accontentare tutti i gusti, e c’è davvero di che scialare, come si dice, dato il materiale vario qui presente. Si comincia, come è giusto, con la Creazione: perché la Valle o i monti che la circondano o i rivi che in essa serpeggiano (fiumi o ruscelli non importa) sono proprio siffatti ed hanno proprio quel nome. Chi preferisce il Verismo alla Poesia sarà soddisfatto nell’ultima parte, specialmente con Le storie di


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compare Crestàz, che, da buon villano, fa fessi tutti i bietoloni locali e campa di truffe ben riuscite e sempre impunite (teniamo alta la bandiera d’Italia, paese di ladri ed imbroglioni!). I baciapile e gli intolleranti di altre fedi religiose saranno ampiamente soddisfatti nella sezione inerente leggende pie. Non mancano Storie di draghi e, per gli appassionati della magia, c’è una Fata del lago (e non è la sola!). Insomma, ci sarà davvero da divertirsi, da sognare… e da riscoprire un angolo favoloso d’Italia, ignorato ingiustamente e che invece merita di essere valorizzato. Da cercarsi su E-bay. Ne varrà la pena! Andrea Pugiotto

AURORA DE LUCA MATERIA GREZZA Genesi, 2014 Torno a parlare di poesia con grande gioia. "Materia grezza" per Genesi editrice è l'ultimo libro di Aurora De Luca, giovanissima poetessa dei Castelli Romani. La De Luca giunge alla sua terza silloge con una padronanza letteraria sempre crescente e si colloca a un livello espressivo superiore e completo. Da una iniziale dichiarazione di appartenenza alla natura umana, dove l'Amore nella sua accezione universale è unione sacra e antropomorfica con la Natura stessa, le liriche si susseguono ordinate e complementari come se l'una fosse preludio alla successiva svelando il segreto dell'Eden proibito e inaccessibile. La materia grezza è matrice di vita, terrigna e misterica, femminile e materna, sensuale e orfica. Non si cimenta mai l'Autrice nei linguaggi destrutturati né nella difesa dei sentimenti aulici e conformisti in cui il lettore si potrebbe ritrovare solo in parte, convinta che la Poesia vera parla in termini universali e non individuali, che i sentimenti non si rifugiano nel compiacimento individuale del proprio vissuto ma sono patrimonio del genere umano. La poesia di Aurora De Luca ricorda a tratti la mistica della poesia sufi dove la forza e l'intensità delle parole diventano un unico corpo con i concetti che evocano, con i simboli che rappresentano, forte della dimensione privilegiata con la Natura stessa che deve essere considerata come un punto di vista ideale di osservazione del mondo. Il territorio che ospita e che ha dato i natali alla poetessa, la Rocca simbolica da cui volge lo sguardo, è anch'esso pregno di suggestioni e di presenze

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silvane, di rimandi a un paganesimo intellettuale ancora vivo e palpitante che si rivela nella modalità esperienziale e creatrice del Sentimento piuttosto che nel perfezionamento concettuale. "Ovunque scorgo gemme premature, girandole fugaci come battiti di ciglia, come visioni di sboccio" Attraverso una dichiarazione di attivismo di intenti e di cuore sbocciano gemme seppur premature, in una flora pigra di sole e di cure tale è la giungla urbana, in una vorticosa e appassionata dichiarazione d'amore che non potrebbe trovare parole più suadenti per venire alla luce. Il linguaggio dell'autrice è poi piacevolmente colto, quasi d'antan in certi passaggi senza mai dissociarsi dalla carica erotica sottintesa che funge da tramite per traghettare l'anima verso sentimenti di eternità e di assoluto. Antonella Rizzo "Fatti vento anima di pane, stammi di bacio a bacio come contagio" Lascio che questi versi intensissimi si diffondano come una vera virulenza sulla tastiera, trasportando il messaggio poetico al lettore come urgenza di Sentimento autentico.

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE IL MIO INCONTRO CON PAOLA INSOLA Leggo per la prima volta Paola Insola in “elogio alla mimosa” da il CROCO, i quaderni letterari di Pomezia Notizie, scrivo della sua interiorità di getto, senza pensieri lasciandomi trasportare dalle sue melodiose e ricercate parole, sapore di lirica tra le


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mani e negli occhi. Lei si presenta a me in forma epistolare con una lettera di ringraziamenti, io e lei decidiamo di conoscerci in un pomeriggio tiepido di Marzo, il 10 per l’esattezza, giorno di incontro per Paola con i suoi ospiti, nella Torino di sempre, la sua, la mia. Trovo nella sala dell’incontro una scrivania in legno ed un leggio, sulla scrivania lungo tutto il bordo tanti fiori realizzati con la carta; questa è la prima immagine di Paola Insola, poi la ritrovo, la saluto presentandomi, io davanti a lei, entrambe emozionate. Il pomeriggio scorre tra la platea in ascolto e Paola Insola che si racconta, la sua poesia è emoglobina, è adrenalina ma anche quiete, il suo puledro artistico in libertà : la metafora e i ricordi dei suoi legami. Paola declama la sua poesia e le stesse poesie cambiano tono, cambiano emozione, si trasformano. Su “ SIMBIOSI” versi intimisti legati da metafore con la caratteristica metrica centrata, simbolo della sua poetica, cita il mio nome, con lei saluto i suoi ospiti dal leggio, insieme in una stretta di mano proviamo a trasmettere l’interiorità di quei versi. La poesia è strada, è dolore, è amicizia, è conoscersi per la prima volta. Il mio primo incontro con Paola Insola non finisce qui, da allora lei mi scrive ed io rispondo. Il mondo della Poesia non è sempre fatto di incontri aperti e leali, ma quando si conosce una donna dallo spirito pulito, che ha una metrica poetica ritmica e generosa, che ha la duttilità emotiva ed espressiva ampia, allora il mondo della Poesia genera incontro e crescita e questo mio mondo ha segnato un altro passo. Quel mondo a cui credo, quel mondo che credo debba sempre parlare con sinonimi nuovi con simboli moderni alle anime che popolano il globo terrestre. Siamo goccine in un mare immenso, siamo istanti di lotta, siamo forza nel dare, siamo la non resa, siamo parole e ritmo che non si fermano mai. Filomena Iovinella *** PINI PERICOLOSI A POMEZIA - Il pino che mercoledì 25 marzo, nel cortile della Scuola materna, è piombato, sbriciolandolo, sul muro interno che la vide, sul lato di via Virgilio, dalla scuola elementare Don Bosco, per miracolo non ha provocato una strage: semplicemente perché, a quell’ora le 19,00 circa -, i piccoli allievi erano tutti via. Già nello stesso cortile, l’Amministrazione Fucci ne aveva abbattuto un altro, da noi precedentemente segnalatole sulle pagine del nostro mensile del luglio 2013. Nella Pomezia Centro ci sono attualmente parecchi pini pericolosi, perché a rischio crollo se investiti da poderosi colpi di vento. Diciamo di tutti gli altri

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all’interno dello stesso plesso scolastico; dei cinque su Viale D. Guerrazzi, già privati di molte radici quando è stato rifatto il pavimento intorno alle aiuole; dei tre di via Orazio; dei quattro di via Varrone - i più precari, perché le radici hanno dissestato manto stradale e marciapiedi - ; dei due di largo Plinio. Noi non ce l’abbiamo con i pini e con gli alberi in genere; chi ci conosce, sa del nostro amore per essi, tale da dedicar loro, nel 2010, un’intera opera, edita dalla Genesi di Torino: Alberi? (sì, col punto interrogativo, perché associati agli umani). Ma prima di loro, per noi viene l’uomo, la donna, il bambino: tutti quegli innocenti, insomma, che potrebbero diventare vittime incolpevoli di questi colossi che, più crescono, più divengono precari, e che perciò non possono stare su strade trafficate o, addirittura, a fianco di abitazioni e di edifici scolastici. E incidenti da loro causati sono stati tanti negli ultimi mesi, a Roma, a Napoli, altrove. Questi pini, dunque, vanno al più presto abbattuti, ma sostituiti, nello stesso istante, da altri alberi più consoni perché in grado di essere mantenuti bassi attraverso le periodiche potature. E se si rivolge alla Forestale, l’Amministrazione Comunale avrà quanto necessario a un costo abbastanza basso, se non proprio a costo zero. C’è, poi, ancora il problema del sughero secco di piazza Indipendenza, da noi sollevato più di una volta, anche in una conferenza nei locali dell’ Associazione Coloni della stessa piazza. Su questo tronco che, col passar degli anni si imputridisce e rischia di cascare addosso a qualcuno, abbiamo sentito “progetti” che ci indignano (imbalsamazione e altre sciocchezze), tutti miranti a spillar denaro pubblico. Vero? Falso? Da giornalisti, non possiamo non registrare le voci e diffidare l’ Amministrazione a imbarcarsi in simili iniziative; da giornalisti e da cittadini, non potremmo non denunciare alla Magistratura e alla Procura della Repubblica speculazioni del genere. Quel tronco va semplicemente abbattuto e sostituito all’istante con altra giovane pianta dello stesso genere e dopo avere arretrato l’ aiuola all’interno della piazza per almeno tre metri, eliminando, così, la parziale strozzatura della strada. Domenico Defelice *** PREMIO I MURAZZI - 5ª edizione - L’ Associazione Elogio della Poesia indice la quinta edizione del Premio I MURAZZI per l’anno 2015. Sono previste le due sezioni, Poesia e Narrativa, ciascuna con due sottosezioni, una per l’edito e un’altra per l’inedito, come indicato di seguito. Inoltre, verrà attribuito un unico Premio alla Carriera a uno scrittore italiano o straniero, di prosa


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ovvero di poesia, per valutazione extra concorsuale della Giuria. Tutti i premi sono in danaro, il cui importo riservato verrà comunicato solo ai Vincitori. POESIA - Sez. A – poesia singola: si partecipa inviando tre poesie (a tema e ad ampiezza libere) a info@elogiodellapoesia.it, in un unico file, contenente anche i dati anagrafici del Concorrente. È ammesso anche l’invio per posta tradizionale, spedendo tre copie delle tre poesie e una scheda biografica a Elogio della Poesia, Via Nuoro 3, 10137 Torino. (Quota di partecipazione: € 20,00) Sez. B – silloge inedita di poesia: si partecipa inviando una silloge inedita a info@elogiodellapoesia.it, in un unico file, contenente anche i dati anagrafici del Concorrente. È ammesso anche l’invio per posta tradizionale, spedendo una sola copia della silloge inedita e una scheda biografica a Elogio della Poesia, Via Nuoro 3, 10137 Torino. (Quota di partecipazione: € 20,00) Sez. C – libro edito di poesia: si partecipa inviando tre copie di un libro edito di poesia pubblicato non anteriormente al 2012, a Elogio della Poesia, Via Nuoro 3, 10137 Torino (Quota di partecipazione: € 20,00) NARRATIVA Sez. D – libro inedito di prosa (racconti, romanzo o saggio letterario): si partecipa inviando a info@ elogiodellapoesia.it una raccolta in prosa inedita, in un unico file, contenente anche i dati anagrafici del Concorrente. È ammesso anche l’invio per posta tradizionale, spedendo una copia della raccolta in prosa inedita e una scheda biografica a Elogio della Poesia, Via Nuoro 3, 10137 Torino (Quota di partecipazione: € 20,00) Sez. E – libro edito di prosa (racconti, romanzo o saggio letterario): si partecipa inviando tre copie del libro pubblicato non anteriormente al 2012, a Elogio della Poesia, Via Nuoro 3, 10137 Torino (Quota di partecipazione: € 20,00) Norme generali di partecipazione - Il versamento della quota di partecipazione, preferibilmente, potrà essere effettuato tramite bonifico bancario sul conto corrente avente IBAN IT49J0326801008052490841430, intestato alla Genesi Editrice, ovvero con versamento sul c.c.p. n. 97373682 (causale: Premio I Murazzi) ovvero in contanti spediti a Elogio della Poesia, Via Nuoro 3, 10137 Torino. L’invio dei materiali concorsuali può avere inizio dal 1° febbraio 2015 e dovrà concludersi entro il 30 giugno 2015. La segnalazione dei vincitori verrà fatta dalla Giuria con comunicazione scritta per e-mail ovvero per posta tradizionale in data 1° settembre 2015. La cerimonia di premiazione consegna dei premi verrà celebrata in data sabato 10 Ottobre 2015. Per ogni informazione rivolgersi telefonicamente alla Signora Eleonora al cellulare 329.0060705 ovvero inviare e-mail a info@elogiodellapoesia.it

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*** PREMIATA ANNA AITA - Il 31 gennaio 2015, la Giuria della XXVII Edizione del Premio Nazionale Italia Letteraria ha proclamato vincitrice, per la saggistica, la scrittrice e poetessa napoletana Anna AITA. Il premio è organizzato da Editrice Italia Letteraria di Milano, diretta a Rubina Maltempo. Scrive Amedeo Finizio su il quotidiano Roma di mercoledì 18 marzo 2015: “La napoletana Anna Aita, poetessa, scrittrice, giornalista, critico letterario, nominata per queste peculiarità, dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano Cavaliere della Repubblica Italiana, ponendosi tra gli scrittori più sensibili ai problemi della cultura e della società del nostro tempo, ed inserendosi di diritto tra le più importanti personalità nel panorama della narrativa contemporanea, ha vinto la XXVII edizione del “Premio Nazionale Italia Letteraria”. È entrata nell’agone letterario con un saggio originale e moderno dal titolo “Sul filo della memoria”, andando sempre più a sperimentare una nuova dimensione narrativa, una forma d’arte con sottile penetrazione all’interno dei personaggi e degli ambienti sociali. Da ricordare anche lo scritto “Il coraggio dell’amore” una pacata denuncia della società contemporanea nel campo della sanità, dove ha svolto per ventiquattro anni attività di volontaria ospedaliera. Da ricordare le eccellenti collaborazioni con lo storico Aldo De Gioia.” All’ Amica carissima, le nostre congratulazioni e il nostro augurio per sempre più meritati successi. *** LIETO EVENTO: È NATO VALERIO! - Il 13


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aprile 2015, alle ore 23,09, presso l’ospedale San Pietro di Roma, è nato VALERIO, primogenito di Emanuela Vignaroli e Stefano Defelice.. Alla felice coppia, ai nonni - Mario Vignaroli e Rosanna Costa, Domenico Defelice e Clelia Iannitto - e ai parenti tutti, gli Auguri più sinceri e affettuosi.

Domenico Defelice - Scaffale (1964)

LIBRI RICEVUTI CATERINA FELICI - Il vecchio e altri racconti Prefazione di Walter Mauro - Maggioli Editore, 1987 - Pagg. 48, L. 6.500 - Caterina FELICI ha pubblicato i libri di poesia: “Reciproco possesso” (1975), “Vastità nei frammenti” (1978), “Oltre le parole” (1982), “Poesie scelte” (1992), “Labili confini” (1994), “Confluenza” (1997), “Tessere di vita” (2004), “Tratti d’insiemi” (2007), “Fogli di vita” (2013). Sue poesie sono presenti in antologie. La Felici ha pubblicato anche il libro di narrativa “Il vecchio e altri racconti” (1987). Ha ricevuto vari primi premi in noti concorsi letterari nazionali. Tra coloro che si sono interessati di lei, si ricordano: Cesare Segre, Giacinto Spagnoletti, Giuliano Gramigna, Giorgio Bárberi Squarotti, Walter Mauro, Bruno Maier, Giorgio Cusatelli, Claudio Toscani, Maria Lenti, Paolo Ruffilli, Antonio Piromalli, Marino Moretti, Giambattista Vicari, Luigi Volpicelli,

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Gian Luigi Beccaria, Vittorio Coletti, Gina Lagorio, Domenico Rea. ** MARIA RITA BOZZETTI (Maribò) - L’altro Regno - Diario di una voce a difesa degli animali. Un pensiero che incontra il diverso. Poesie e saggio testimonianza. Presentazione di Franco Manescalchi; in copertina, a colori, “Lino, pasticcino di bellezza”, foto dell’autrice - Edizioni Polistampa, - Firenze, 2015 - Pagg. 80, € 7,00. Maria Rita BOZZETTI nasce a Roma, si laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma, si specializza in Ematologia Clinica e di Laboratorio; si dedica con passione alla sua professione divenendo presto Primario di Patologia Clinica. Attualmente si dedica esclusivamente alla attività letteraria e opera sul territorio come operatrice culturale. Ha pubblicato (poesie, fiabe, meditazioni, romanzi): “Polvere di giorni” (1992), “Canta l’ Eterno Presente” (1998), “Il Dio che non parla” (2002), “Nell’ozio delle erbacce” (2004), “Meditazioni in poesia su brani del Vangelo di Matteo” (2004), ”I dintorni della tua memoria” (2004, versione in albanese 2007), “Segmenti ex temporanei” (2006), “Monade Arroccata” (2008; brani musicati dal maestro Alberto Giglioni e recitati dall’attrice Grazia Ferrali compongono il CD edito nel 2010)), “Senza potere” (2009), “Sulla soglia” (2010), “La mia Cappuccetto Rosso” (2010), “Tu, l’altra carne” (2012), “La parola pura del nostro destino” (2013), “Lettura a rovescio” (2014). ** MAURO VALENTINI - 40 passi. L’omicidio di Antonella Di Veroli - Prefazione di Marco Marra Sovera Edizioni, 2014 - Pagg. 192, € 15,00. Il 12 aprile 1994 viene trovata morta a Roma Antonella Di Veroli di 47 anni affermata consulente del lavoro che viveva sola nel prestigioso quartiere Talenti, uccisa con due colpi di pistola e poi chiusa in un armadio sigillato con della colla. Un omicidio con molti possibili moventi ma con un solo accusato, un uomo che aveva avuto una relazione con la donna e che fu processato e assolto in tre gradi di giudizio e in un iter giudiziario lungo 7 anni. Ma che donna era Antonella e chi poteva odiarla al punto di ucciderla con tanta determinazione e in quel modo così crudele? Cosa è accaduto dopo quegli ultimi 40 passi percorsi dalla vittima dal garage alla porta del suo appartamento da cui non uscirà più viva? Quali misteri ancora sono nascosti? Mauro Valentini con questo libro inchiesta ripercorre le tappe di una storia di cronaca che ha appassionato l’opinione pubblica e che i giornali battezzarono come “il caso della donna nell’armadio”. Mauro VALENTINI, romano, blogger per vocazione, collabora con di-


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verse testate giornalistiche e blog magazine occupandosi di cronaca e cinema. Ha partecipato come relatore a convegni sulla violenza di genere e su alcuni dei più controversi casi di cronaca italiana degli ultimi anni. Ama il cinema di inchiesta e la nouvelle vague francese. “40 passi” è il suo primo libro. ** MARIAGINA BONCIANI - Poesia e Musica - 1° Premio Concorso Letterario “Città di Avellino Verso il Futuro” - Prefazione di Carlo Onorato; in copertina, “Bianchi villaggi”, olio (40x30) di Vittorio Nino Martin - Casa Editrice Menna - Avellino 2014 - Pagg. 48. Mariagina BONCIANI vive a Milano dove è nata nell’aprile 1934 e si è diplomata in Ragioneria nel 1953, ma ha sempre prediletto le materie letterarie e le lingue. Conoscendo il francese e lo spagnolo ed avendo perfezionato soprattutto lo studio dell’ inglese, ha lavorato, dal 1953 al 1989, come segretaria di direzione, capo ufficio e corrispondente presso tre diverse ditte nel settore import-export. Ama la lettura, i viaggi e la musica classica. In pensione dal 1989, per alcuni anni si è dedicata alla madre inferma, smettendo di viaggiare, ma studiando pianoforte, russo e greco antico. Non si è mai sposata. Da qualche anno ha iniziato a presentare nei concorsi letterari le sue poesie, ottenendo sempre riconoscimenti e premiazioni. Molte sue poesie sono state pubblicate in antologie e riviste. Nel 2010 ha pubblicato nei quaderni “Il Croco” della rivista “Pomezia-Notizie” la silloge “Campane fiorentine”, accolta con entusiasmo dalla critica e nel 2011, sempre per “Il Croco”, la silloge “Canti per una mamma”. Nel 2012 è uscita presso le Edizioni Helicon la sua raccolta “Poesie”. Sue poesie vengono regolarmente pubblicate nella suddetta Rivista e sulla Rivista “Silarus”. Vince il primo premio al concorso “Città di Avellino - Trofeo verso il futuro” 2013 con la silloge “Poesia e musica”. E’ presente nel volume “Poeti contemporanei Forme e tendenze letterarie del XXI Secolo” (2014), a cura di Giuseppe e Angelo Manitta. ** PIERA BRUNO - Segni Lettere Suoni - Miniantologia; Prefazione di Liliana Porro Andriuoli; in copertina, Milly Coda: “Due figure”, 2002 - De Ferrari Editore, 2002 - Pagg. 72, € 7,23. Piera BRUNO, laureata in lettere, ha operato nella scuola ricoprendo anche incarichi universitari e direttivi. Distaccata al M.A.E. italiano ha svolto attività culturale in alcune capitali mediterranee. Ha pubblicato tre raccolte di poesie e il poemetto in prosa “L’Arca di Noè”. Collabora a riviste specializzate con articoli di varia letteratura e traduzioni. Musicalità del suono e ricercatezza della parola si uniscono nell’ e-

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spressione poetica di Piera Bruno che in quest’ ultima silloge traduce in versi il ritmo della vita. Segni Lettere Suoni, “... un libro dal quale affiora ad ogni passo il respiro della vita vera: delle reali vicende di un’anima, con i suoi amori e le sue rinunce, ma anche con le sue entusiasmanti conquiste, ottenute giorno per giorno sull’ardua materia della parola”. L’autoanalisi e il racconto autobiografico sono tra i temi prediletti dell’autrice che ci regala in questo suo itinerario poetico in un’alternarsi musicale delle parole anche testi scritti in francese e in inglese e traduzioni da autori turchi tra cui la poetessa contemporanea Gülten Akin. L’ accuratezza stilistica e la cura formale del testo, frutto di un animo colto e raffinato, non impediscono la sperimentazione lessicale nella ricerca di nuove combinazioni semantiche, nel tentativo di superare i confini della parola. ** FABIO DAINOTTI - Selected Poems Trasnslated by Rosaria Zizzo, Edited by Irene Marchegiani - Gradiva Publications/Stony Brook, New York, 2015 - Pagg. 68, $ 20,00. Fabio DAINOTTI (Pavia, 1948) honorary chairman of the “Lectura Dantis Metelliana” of which he was for years president and director. He is co-director of the annual journal of poetry and theory “Il pensiero poetante”. He published the volumes of poetry: “L’araldo nello specchio” (1996), “La Ringhiera” (1998), “Ragazza Carla Cassiera a Milano” (2001), “Un mondo gnomo” (2002), “Ora comprendo” (2004). His name is included in many trade magazines and anthologies. Rosaria ZIZZO born in Salerno, graduated in English Language and Literature; she is a poet and published three books, that have been translated in English. ** ISABELLA MICHELA AFFINITO - Viaggio interiore - Prefazione di Aldo Cervo; Introduzione dell’Autrice; in copertina: “L’ideogramma dell’ anima” grafica su cartoncino, opera dell’Autrice Edizioni EVA, 2015 - Pagg. 112, € 12,00. Di origini pugliesi da parte di madre, Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’ Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, la fotografia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito


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ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’ Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 50 raccolte di poesie e un volume di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierno del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. ** LEONARDO SELVAGGI - Sui sentieri del cuore di Maria Teresa Epifani Furno - Casa Editrice Menna, Avellino, 2004 - Pagg. 40, € 5,00. Leonardo SELVAGGI è nato a Grassano (Matera) e risiede a Torino. E’ stato dirigente superiore del Ministero per i Beni Culturali. Scrittore, poeta, saggista, ha ottenuto numerosissimi premi ed è collaboratore d’importanti testate editoriali. Ha curato sei antologie di poesia contemporanea. Della sua attività letteraria hanno scritto centinaia di critici su giornali e riviste. Il Centro di Studi e Ricerca “Mario Pannunzio” gli ha conferito il Premio Speciale del Presidente della Repubblica per la letteratura 1988. Il 13 giugno 1989 gli è stata conferita l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana”. Tra le opere, in versi è prosa, si ricordano: Le Ombre (1955); Diario poetico (1964); Frammenti (1970); Desiderio di vivere (1973); Vent’anni di poesia (1975); La transizione (1978); Lo sradicato ed altri scritti (1986); Pagine di un anno (1988); Le radici del’essere (1990); L’ultimo dei romantici (1991); La croce caduta (1993); Le feste degli altri (1993); Il mattino dell’ufficio (1993); Franti pensieri d’autunno (1994); Poesie in due tempi (1996); Eterne illusioni (1997); I giorni del baratro (1998); Realtà e poesie (1998); Michele Martinelli, La terra di Lucania e la sua gente negli anni cinquanta (1998); La poesia nel Dialogo Serale di Francesco De Napoli (1999); Stimolazioni e colloqui (1999); Arpeggi di mare - Saggio etico su “pensieri di sabbia” di Graziano Giudetti (1999); Sugli assetati di ordine e di giustizia (2000); Francesco Lo Monaco

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(2001); Saggi sulle “Poesie di Francesco Brugnaro” (2001); Brandisio Andolfi in “Alberi curvi d’ acqua” (2001); Lontano è il tempo della notte (2001); Le ultime pagine del Duemila (2001); Andrea Bonanno pittore e saggista dell’ uomo nella sua essenzialità primordiale (2002); L’amore sopra il precipizio (2002); Vita e pensieri (2002); Poesie nella tempesta (2002); Nicola Festa il classicista sommo della Basilicata (2002); I tempi felici (2002); Iddio non conosce gli uomini (2002); L’altra valle (2003); L’anima e gli echi lontani (2003); Il divorzio e l’amore (2003); Storia e autobiografia (2003); La poesia di Carmine Manzi nella sua ultima evoluzione (2003); Ruggero Bonghi (2003); Brandisio Andolfi cantore dei tempi nostri (2003); Il nostro tempo (2004); Alle fonti dell’essere (2004); La terra tutta ci prende (2004); Poesie di sempre (2004); Sui sentieri del cuore di Maria Teresa Epifani Furno (2004); Tra crisi di transizione la poesia di Amerigo Iannacone in stimolazioni etico-sociali (2004); AA. VV. Rino Cerminara nel secondo Novecento letterario italiano (2005); L’indignazione poetica (2005); Luigi Pumpo - Poeta della vita e della Natura (2005); Gli Italiani eterni immigrati (2005); Letteratura di ieri e di oggi (2005); Personaggi e storia umana (2005); La costante lunare e spirituale nell’ars poetica di Isabella Michela Affinito (2005); Polvere di ossa (2005); Vincenzo Rossi voce rappresentativa del ‘900 (2005); Lo specchio del cielo - Poesie 1996-2005 (2005); Bruno Giordano cantore dei nostri tempi (2005); La poesia di Amerigo Iannacone (2006); La critica di Leonardo Selvaggi sull’arte e sulla letteratura frenniana (2006); Estrosità immaginativa e Armonia poetica di Anna Aita (2006); Dalle poesie di Antonio Vitolo: il cuore antico dell’uomo in sentimentalità ed eterno amore (2007); Natura ed umanità (2007); Dalle opere di Antonio Angelone ritornano i pensieri e le amarezze dei grandi meridionalisti (2007); Umanità e grandezza lirica di Carmine Manzi (2008); Le dolcezze della vita (2008); Dai mosaici alle poesie (2009); Il mio esilio (2009); Domenico Defelice e le sue opere etico-sociali (2009); Giudizi critici “Le avventure di Fiordaliso” di Antonio Angelone (2009); Poesia e tradizione nelle opere di Antonia Izzi Rufo (2009); Le poesie di Giovanni Cianchetti (2010); Alle fonti dell’essere e della vita - saggio sull’opera di Vittorio Martin (2010); Vittorio Martin poeta e pittore (2010); Nunzio Menna; Opere e attività culturali (2010); Il fantasma e altre poesie di Vincenzo Rossi (2010); Nel Diario di Domenico Defelice giovinezza e poesia (2011); Pantaleo Mastrodonato nella vita e nell’arte - Profilo critico dello scrittore-poeta (2011); La poesia di Francesco Terrone (2012); Il dissolversi dell’uomo moderno


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(2012); Luce e saggezza nella poesia di Pasquale Francischetti (2012); Le commedie dialettali di Antonio Angelone (2012); Antonio Angelone e il suo mondo ideale (2013); Le opere di Nunziata Ozza Corrado (2013); Il percorso letterario di Vincenzo Vallone (2014).

TRA LE RIVISTE IL CONVIVIO – fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti – N.58 - luglio/settembre 2014 – 105 pagine - Ho ricevuto la Rivista “Il Convivio” grazie alla mia attività di recensioni per Pomezia – Notizie, bimestrale, fondato dal Prof. Domenico Defelice. Le pagine sono piene di articoli interessanti. Sono articoli culturali di svariato genere: scientifico (astrofisica, geologia), sociale (fra cui la Sicilianità delle origini, del dialetto/lingua e delle più belle tradizioni), storico/civile, di attualità, artistico (con illustrazioni a colori di bellissime opere di pittori di cui viene delineato il profilo critico) e naturalmente, letterario, che comprende una sezione riservata ai Racconti, una alla Poesia - non solamente italiana e spesso tradotta in altre lingue, ma anche liriche di autori stranieri, quali rumeni, portoghesi e di lingua spagnola, tutte con varie trasposizioni linguistiche -; inoltre, ci sono le Recensioni, coordinate e selezionate da Enza Conti, di molti scrittori provenienti da tutta Italia. In questa Rivista, ho trovato interessante la recensione di “Un viaggio per l’Italia” di Guido Ceronetti. Recensito da Giuseppe Manitta: siamo di fronte ad ‘un particolare viaggio in Italia, che sonda la bruttezza e l’irritabilità del nostro paese. Altra recensione che mi ha colpito è quella di Antonio Crecchia su “D’Annunzio napoletano e antidannunzianesimo meridionale” di Francesco D’ Episcopo: questo studio verte sulla permanenza di D’ Annunzio a Napoli. A pg 15 mi colpisce un sonetto che mi fa ricordare l’ironia del Belli e di Trilussa, applicata ai tempi nostri, “La crisi dell’euro”, scritto da Umberto Bernabai, che integralmente ho il piacere di trascrivere: Ar decennale de ‘sta moneta nova C’aritrovamo co ‘na disgrazia vecchia: un buco de mijardi sur bilancio, la tassa sula casa, ed è parecchia, l’invito a strigne cinta e magro rancio. Cresce lo spread e puro la miseria, ce crolla la fiducia ner futuro; li giovani so’ chiamati a lavora’

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doppo studio e tirocinio duro, ma ‘n s’è capito che prodotto fa’! Er tedesco, quer che s’enventa se lo fa da sé e forte ce guadagna, il resto fa er cinese a metà costo; è solo l’italiano che nun magna chè de lavoro ‘n c’è rimasto posto. Forse me venno la casa de città, torno ar paese dell’origin care, compro du’ stanze, ‘n orto ed un pollaio, visto che ‘na bolla immobiliare, si scoppia, farà più grosso er guaio. Altra bella recensione è quella di “Il Donizetti dell’opera buffa” di Ivan Tavčar: vengono messe a confronto le comicità di Donizetti e Rossini. Le marionette buffe di Rossini, per le quali il compositore non prova nessuna pietà e compassione si trasformano nelle opere di Donizetti in personaggi umani; anche quando sono stupidi e ridicoli, Donizetti li tratta sempre con indulgenza e con tenerezza. Fra i quadri recensiti da Enza Conti mi ha colpito il quadro di Eleonora M. Barbaro “Sospesa fra mondo angelico e umanità”. Dice Enza Conti di quest’ opera: “Gli occhi parlano con l’osservatore, il quale si sente catturato dalla forza comunicativa, mentre il mare e l’isola fungono da compagni di viaggio verso quel mondo misterioso che è la vita. “ A pg 66 si trova il commento di Atonia Izzi Rufo sull’opera di Rossano Onano e Domenico Defelice: “ Alleluia in sala d’armi – Parata e Risposta”, che fa rinascere l’antica arte, se pur rinnovata, del Pasquino. Sarà interessante leggere lo spazio di “Alleluia” sui numeri di “Pomezia – Notizie” per condividere i disappunti sulla situazione critica del nostro paese. Vediamo pure foto e notizie su Cerimonie ufficiali, Conferenze e Convegni, tenuti in Italia e fuori, tutti organizzati da “Il Convivio” - Accademia Internazionale – nonché la segnalazione della candidatura al Premio Nobel per il poeta Alessandro Petruccelli. Vengono anche enunciati molti Bandi di Concorsi Nazionali ed esteri. Noto che, fra i collaboratori fissi, ci sono Edio Felice Schiavone, Carmine Chiodo, Aurora De Luca; e che c’è un altro Manitta, Guglielmo. Bella squadra, questi Manitta! Davvero una Pubblicazione culturale ricca, a vasto raggio e altamente impegnata, con lavori di ottimo livello. Complimenti! Giuseppe Giorgioli * VERSO IL FUTURO - Periodico di cronaca cultu-


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rale della casa Editrice Menna, direttore Nunzio Menna - Casella Postale 80 - Via Scandone 16 83100 Avellino. Riceviamo il n. 45 (gennaio/marzo 2015), nel quale troviamo firme di nostri collaboratori, come Leonardo Selvaggi, Fulvio Castellani (che intervista la nostra amica Mariagina Bonciani), Gabriella Frenna (recensione di Giuseppe Petroni), ancora la Bonciani in una recensione di Vittorio Verducci. * IL CENTRO STORICO - organo informativo dell’ Associazione “Progetto Mistretta”, presidente Nino Terstagrossa, direttore responsabile Massimiliano Cannata - via Belvedere 31 - 98073 Mistretta (ME) E-mail: Ilcentrostorico@virgilio.it Del n. 3-4 (marzo-aprile 2015) segnaliamo: “Mattarella: un arbitro per la partita italiana”, di Bartolomeo Sorge S. I.; “Una mostra che parla di noi”, di Massimiliano Cannata; “Una perla nello scrigno”, di Mario Lorenzo Marchese; “La “deliziosa allucinazione” del fiabesco in Luigi Capuana”, di Maria Nivea Zagarella. * IL SAGGIO - Mensile di cultura - Direttore Geremia Paraggio, editoriale Giuseppe Barra - via don Paolo Vocca, 13 - 84025 Ebooli (SA). ilsaggioeditore@gmail.com Riceviamo il n. 228 (marzo 2015), con allegato Il Saggio libri, poesia, arte n. 116/228. * LA GAZZETTA DI BOLZANO - Periodico di informazione arte cultura attualità, diretto da Franco Latino, responsabile Eugen Galasso - Casella postale 96 - Bolzano 1 - 39100 Bolzano. Riceviamo il n. 45 (giugno 2014), sul quale troviamo nomi legati pure al nostro mensile, come: Silvano Demarchi e Edio Felice Schiavone * SOLOFRA OGGI - Direttore Raffaele Vignola solofraoggi@libero.it Riceviamo il n. 2, febbraio 2015.

LETTERA AL DIRETTORE (Ilia Pedrina a Domenico Defelice) Carissimo, oggi è il 7 Aprile e ti scrivo da Bologna, città rossa della resistenza e della pena, della cucina squisitissima e del vino di qualità. Ho ap-

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pena preso una stanza piccola ma graziosa all'Hotel Paradise, in Vicolo Cattani, a pochi passi dalle due Torri ed ho gonfiato un palloncino blu, che ho trovato in una scatoletta sul comodino, in onore del vostro Valerio, quando arriverà in questo nostro mondo, sotto il prezioso segno dell'Ariete. La scritta che accompagna il palloncino è legata al soffio della vita e della gioia, alla felicità che danno i palloncini quando, ben gonfiati, ti scappano di mano e volano verso il cielo e tu stai su su col visetto, quando sei bambino ma anche dopo, fino a quando non li vedi più. L'ho fatto diventare grande, grande, l'ho chiuso e l'ho lasciato libero di muoversi per la stanza, secondo le correnti che arrivano dalle finestre. E la metafora che rappresenta, la nostra prima culla segreta e nascosta agli occhi di tutti, quel ventre benedetto che cresce giorno dopo giorno fino al nostro arrivo sotto gli occhi di tutti, in questo mondo, questa metafora, dico, rimane incollata nel nostro immaginario e non ci abbandonerà più. Ora sono qui per 'RESISTENZA ILLUMINATA 1945-2015', un omaggio lungo tutto quest'anno dedicato al compositore veneziano Luigi Nono, in occasione del settantesimo anniversario di quegli eventi storici che hanno segnato il futuro dell'Europa e del mondo. Lui sta al centro, tra composizioni, conferenze, incontri pubblici, esecuzioni delle sue opere dal vivo e quant'altro ha potuto offrire generosamente a chi lo ha incontrato e ne ha mantenuto l'Amicizia, sul piano morale, etico-politico e professionale, ora riproposto in testimonianze preziosissime grazie all'intervento di Nuria Schoenberg Nono che guida l' Archivio e la Fondazione Luigi Nono alla Giudecca con pieno ardore e competenza organizzativa. Esco, faccio due passi e mi trovo nel cuore pulsante della città. Mi siedo al Caffé Maxim, sotto i portici e mi leggo parti importanti del testo 'Presenza storica di Luigi Nono' a cura di Angela Ida De Benedictis e con la collaborazione di Laura Zattra, della LIM Edizioni, nella collana di studi musicali 'Quaderni di Musica/Realtà' diretta da Luigi Pestalozza, in particolare quello relativo al


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contributo di Matthias Kontarsky: 'Alla ricerca del mondo di domani. Luigi Nono e le avanguardie della Repubblica Democratica Tedesca e dell'Unione Sovietica', dalla pagina 55 alla pagina 76, nella traduzione dal tedesco di Pietro Cavallotti ed A.I. De Benedictis, in particolare per quella risorsa insostituibile che Nono ha rappresentato mantenendo contatti culturali e professionali con gli Artisti della Berlino divisa e con gli invisi alla politica dell'antico regime che vigeva fino a pochi anni fa a Mosca! Mi soffermo sul regista Andrej Tarkowskij, sulla sua Amicizia con il compositore veneziano, su quello che questo regista al limite estremo dell'essere cristiano sostiene, cosa che vale anche di certo per noi tutti: “... ritengo un mio preciso dovere provocare riflessioni sullo specificamente umano e sull'eterno che vive in ognuno di noi...” (cfr. op. cit. pag 74). Poi, nella pagina successiva, alla nota 65, leggo: “ Parlando dell'incontro dei due artisti (a Freiburg 1987), Nono rivela: '...tutto fluiva come se ci conoscessimo da sempre. Era quasi una gara a chi poneva le domande più intime e dirette. Forse mi trovavo predisposto ad un incontro del genere perché pochi giorni prima avevo partecipato a Mosca al forum internazionale organizzato dal governo di Michail Gorbacëv'...” (cfr. op. cit. pag. 76). Questa confidenza Nono l'ha fatta ad Enzo Restagno, grande musicologo che ha raccolto in un'intervista stupenda il suo percorso autobiografico sciolto ed intensissimo, una viva voce ed un immaginario memoriale a due voci, che scorrono nel profondo rispetto dei due mondi (reperibile in 'Un' autobiografia dell'autore raccontata da Enzo Restagno', in 'Luigi Nono. Scritti e colloqui', a cura di A. I. De Benedictis' e V. Rizzardi, Milano-Lucca, Ricordi-LIM 2001, vol II, pag. 486). Pensa che lo studioso Veniero Rizzardi sarà proprio qui domani 8 aprile, nel corso della manifestazione 'LUIGI NONO RESTITUZIONI ACUSMATICHE, che affronterà l'integrale delle opere elettroacustiche di Luigi Nono dal 1960 al 1974, in ben cinque giornate complessive: il tema di domani sarà 'Memoria e Ricerca con Nuria

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Schoenberg Nono' e con la partecipazione appunto del Rizzardi, di Alvise Vidolin e di Massimo Simonini, che farà gli onori di casa al Teatro San Leonardo, perché è alla guida di 'AngelicA', il Centro di Ricerca Musicale che si trova in via san Vitale qui a Bologna ed ascolteremo 'San Vittore 1969' (1971), opera discografica stereofonica con canzoni di Mario Buffa Moncalvo e con trattamenti sonori di Luigi Nono e proiezione sonora su quattro canali. Quel che ci vuole ora, per sospendere un poco questa circostanza ad intreccio relazionale, carica di interrogativi e di vissuti quasi insondabili, è di certo rispondere a chi mi si accosta al tavolo! Mi faccio consigliare ed ordino 'Lasagne alla Bolognese': ti dico in fede che sono una delizia per il palato! Ma la tua Clelia come lo fa il ragù? E quali sono i suoi piatti preferiti che fa gustare ai familiari ed agli amici più cari? Scusami se adesso entro così perentoriamente tra i vostri fornelli, lasciando un poco di lato e Nono e Restagno e Tarkowskij stesso, ma è lo spirito del luogo che lo impone. E tu, tu, caro nonno Mimmo, ci sai stare tu tra i fornelli? Ricordo Papà e la sua 'Lepre in Salmì', una prelibatezza che necessita di ben otto ore tra periodo di infusione, sbollentamento e cottura vera e propria, da impiattare poi con polenta friulana di grano dorato macinato grosso ed innaffio di vino rosso Tocai dei vitigni di Casarsa. Quando si stava su a Brazzacco ed in particolare quando è arrivato l'editore Garzanti con i due figlioli, ospite più giorni per le battute di caccia in Riserva, questo piatto era il più succulento, mentre altri avevano al centro il Prosciutto di San Daniele e quanto ancora di buono si può immaginare: quel grande focolare al centro della antica cucina, tradizione tipicamente friulana, al piano terra della Villa settecentesca, è nella mia mente quale simbolo di circolarità che rappresenta il cuore palpitante della condivisione, con il calore che emana dal fuoco e che contamina senza riserve, nessuno escluso, a meno che non si alzi e se ne vada via! Adesso che per voi tutti arriverà Valerio, si


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rinnoverà l'epoca d'oro dei biberon e delle pappine e dei giochini improvvisati, a far ridere i grandi prima ancora che il nuovo piccolino, che avrà sicuramente lineamenti bellissimi ed occhi chiari (mi smentirai, se non sarà così ed io accetterò a cuore aperto la sconfitta!). Proprio nei giorni della Pasqua ho ricevuto, dono graditissimo, il tuo 'A RICCARDO ( e agli altri che verranno)' edito da 'Il Convivio' proprio nel marzo di quest' anno, con la bella fotografia del tuo biondo nipotino in sorriso, che ha splendidi occhi chiari appunto. L'ho aperto a caso ed ho letto alla pagina 36: Dopo! Dobbiamo andare al Nido. Dopo! Adesso si mangia. Dopo! È ora di dormire. Dopo! Dopo! Dopo per te è un rifugio, luogo utopico, il deposito franco di ciò che in quell'istante non vuoi fare. Vi ammassi anche i giocattoli dopo averli scartati! (Pomezia, 25 marzo 2012) Si, carissimo, me lo sono portato dietro, questo tuo piccolo libro, non solo perché pesa poco, ma perché è dono d'amore, quell'Amore che hai saputo costruire intorno a te ed a Clelia e che certamente passa attraverso i fornelli, ma non si ferma lì: un canto che segna i momenti dell'amore in divenire nelle sue prismatiche sfaccettature e nei suoi molteplici effetti: padre oculato e previdente quando inserisci nella piccola, importante impresa che è la 'nostra' POMEZIA NOTIZIE i tuoi figlioli; nonno tenero ed in affanno quando canti in versi le ricorrenze di casa e ti affianchi al gioco ed al respiro di questo nipotino e 'degli altri che verranno'! Quando arriverà Valerio noi tutti saremo con te, con voi, nel limite esterno della vostra gioia, così intima ma realmente

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condivisibile, come esempio di concreto vissuto, non senza palpiti e difficoltà! Vi abbraccio con tutto il mio cuore. Ilia Carissima Ilia, Valerio è arrivato: alle ore 23,09, di lunedì 13 aprile, presso l’ospedale San Pietro di Roma. Un bambinone di tre chili e novecento, la faccia rubiconda ed una folta massa di capelli neri. Anche gli occhi sono neri, ma forse cambieranno. Bimbo e mamma stanno bene, già a casa fin dal terzo giorno. L’ansia in tutti noi s’è un po’ placata. Abbiamo ringraziato e ringraziamo Iddio per questo splendido dono, per questa nuova vita. È bello accostare il lieto evento alla musica, volutamente o inconsciamente, come fai tu. Amerà anche Valerio Luigi Nono? L’augurio, è che la sua esistenza possa essere tutta una sinfonia, un crescendo di gioie e di conquiste. È un bimbo paffutello, che non mancherà di onorare la buona cucina, come Stefano, suo padre. Non come me, il nonno. Conosco, so quanto sia più che ottima la cucina bolognese. Ne ho fatto esperienza più di una volta. E pure Clelia sa fare buona cucina. Ma io non sono stato mai un grande intenditore e un patito. Preferisco quasi sempre mangiare in bianco e cibi semplici. Riccardo a tavola se ne esce spesso: “Nonna, perché non dici a nonno che deve anche lui mangiare la pasta rossa, che gli fa bene?” Né so stare ai fornelli. Ho sempre vissuto, prima del matrimonio, qua e là in strette camerette di pensione (Reggio Calabria, Crotone, Roma eccetera), mangiando a tavoli appartati di trattorie periferiche, quasi sempre, però, in compagnia di gruppi di amici ciarlieri e strafottenti. Ho acquisito l’abitudine di mangiare e non di cucinare cose semplici, chiacchierando, e quasi sempre di sera, quando, invece, secondo i medici, bisognerebbe mantenersi leggeri! Ho, allora, il timore di deluderti. Ti confesso che non amo le carni, pur mangiandole, a volte. Perciò non so dirti quanto e se avessi potuto apprezzare la <’Lepre in Salmì’> di


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tuo padre. E neppure amo la polenta, forse avendone ingurgitata troppa (e di granturco) da bambino, visto che c’era ben poco d’altro a riempire lo stomaco. Non sono, dunque, come suol dirsi, un gran mangiatore e un frequentatore di ottime cucine; sono, nel mangiare, assai frugale, assai vicino al vegetariano. Domenico

Qui sotto: il primo incontro tra Valerio e Riccardo.

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