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LA SERVA DI DIO

GIULIA DI BAROLO È VENERABILE di Marcello Falletti di Villafalletto

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EL pomeriggio di martedì 5 maggio 2015, il Santo Padre Francesco ha ricevuto Sua Em.za Rev.ma il signor Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi e lo ha autorizzato a promulgare alcuni decreti relativi alla proclamazione di nuovi santi e beati. Oltre ai nomi dei nuovi santi e beati, nell’elenco, figurano ben sette venerabili; cioè i candidati all’onore degli altari dei quali sono state riconosciute le virtù eroiche e che attendono il riconoscimento del miracolo attribuito alla loro intercessione. Tra i nuovi venerabili c’è anche Giulia Colbert Falletti di Barolo, laica vedova del marchese Servo di Dio Carlo Tancredi Falletti di Barolo e fondatrice delle Figlie di Gesù Buon Pastore. Per questo importante riconoscimento, atteso da quasi venticinque anni, e da ben centocinquantuno dalla morte, per la “Madre dei Poveri” torinese, anche se nata in terra di Francia, ci uniamo intensamente nel rendere gloria a Dio, ringraziando con tutto il cuore il nostro


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All’interno: Franco Liguori: Luigi Siciliani, di Carmine Chiodo, pag. 4 “Sac au dos” di Maurice Carême, di Ilia Pedrina, pag. 6 Ricordo di Gianni Rescigno, di Domenico Defelice, pag. 9 Vendemmia a Povolaro, di Aida Isotta Pedrina, pag. 12 “A Riccardo” presentato all’Università di Roma Tor Vergata, pag. 17 Cellulosa di Aurora De Luca, di Giuseppe Leone, pag. 19 Domenico Defelice: A Riccardo, di Liliana Poro Andriuoli, pag. 21 Un viaggio nell’anima, andata e ritorno, di Luigi De Rosa, pag. 24 Marco Ercolani: Sentinella, di Elio Andriuoli, pag. 26 Gli eroi di El Alamein in un romanzo di Anna Aita, di Leonardo Selvaggi, pag. 28 Imperia Tognacci e le esperienze del viaggio, di Anna Aita, pag. 33 La gioia di essere nonno, di Nicola Lo Bianco, pag. 35 Domenico Defelice, A Riccardo, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 37 I Poeti e la Natura (Gianni Rescigno), di Luigi De Rosa, pag. 39 Notizie, pag. 56 Libri ricevuti, pag. 60

RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Letture critiche nella produzione letteraria di Amerigo Iannacone, di Aldo Cervo, pag. 41); Isabella Michela Affinito (Maria Grazia Lenisa, di Domenico Defelice, pag. 42); Isabella Michela Affinito (...Il piacere di scrivere..., di Vittorio “Nino” Martin, pag. 42); Elio Andriuoli (Sulle tracce di segni creativi, di Grazia Sotis, pag. 43); Corrado Calabrò (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 44); Tito Cauchi (Andare a quadri, di Domenico Defelice, pag. 45); Tito Cauchi (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 46); Tito Cauchi (Saverio Scutellà, di Domenico Defelice, pag. 48); Tito Cauchi (Frequentazioni letterarie 2, di Aldo Cervo, pag. 50); Luigi De Rosa (Via Crucis del poeta 2015, a cura di Aldo Sisto, pag. 50); Paolangela Draghetti (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 51); Elena Milesi (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 51); Laura Pierdicchi (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 52); Ciro Rossi (Canti metropolitani, di Matteo Volpe, pag. 53); Orazio Tanelli (Maria Grazia Lenisa, di Domenico Defelice, pag. 53).

Lettera al Direttore (Ilia Pedrina a Domenico Defelice), pag. 61

Inoltre, poesie di: Isabella Michela Affinito, Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Lorella Borgiani, Piera Bruno, Corrado Calabrò, Clarissa Cianfrocca, Colombo Conti, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Themistoklis Katsaounis, Filomena Iovinella, Andrea Masotti, Adriana Mondo, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi

amato Santo Padre Francesco. Giulia Colbert nacque nel castello di Maulévrier, nella cattolica Vandea (Francia), il 26 giugno del 1786 dal marchese Édouard e dal-

la contessa Anne-Marie-Louise Quengo de Crénolle. Dopo la prematura scomparsa della madre, ricevette dal padre una solida educazione cristiana e una completa istruzione. Il


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18 agosto 1806, a Parigi, sposò Carlo Tancredi Falletti, ultimo erede del marchese di Barolo Ottavio e della savoiarda Maria-EsterPaolina-Teresa marchesa d’Oncieu della Bâtie e di Chaffardon; che divenne sindaco di Torino, Consigliere di Stato, Decurione e, unitamente alla sua sposa, si dedicò all’ educazione dei bambini poveri aprendo il primo asilo italiano. Nel 1834 fondò le Suore di Sant’Anna della Provvidenza, affidando loro l’istruzione delle giovani di condizione popolare. Scrisse di storia e di pedagogia giovanile. Fu amministratore saggio e onesto, uomo dalla carità semplice e pronta. Morto a Chiari (BS) il 4 settembre 1838; anche per lui è in corso il processo di beatificazione. La Venerabile Giulia si dedicò in modo tutto particolare al problema delle carceri femminili, visitando le carcerate e intessendo con loro rapporti personali, per condurle all’ esperienza concreta dell’amore di Dio Padre; iniziando una magnifica opera pedagogica e di redenzione sociale. Dette vita a diversi istituti educativi e assistenziali. Nel 1833, fondò la Congregazione religiosa delle Sorelle Penitenti di Santa Maria Maddalena, oggi Figlie di Gesù Buon Pastore. La forza del suo operato nacque dalla profonda unione con Cristo che vedeva come “Rabbonì” e che la invitava a donarsi totalmente agli emarginati, ai poveri, agli ultimi. Morì il 19 gennaio 1864, rimpianta da quanti la conobbero e l’amarono. Riposa a Torino, nella chiesa di Santa Giulia, da lei fatta edificare; dove, da qualche anno, è stata raggiunta dall’amato sposo Carlo Tancredi. In questo atteso e speciale gesto di esultanza, per l’intera Chiesa e tutto il popolo di Dio, ci uniamo a tutte le Suore da lei fondate, a quanti hanno avuto il piacere di conoscerla, apprezzandone le intense virtù cristiane, che oggi la Chiesa ha riconosciuto ufficialmente; ringraziando per il meraviglioso dono di tanta Madre Fondatrice e straordinaria sorella per quanti continueranno a invocarla, nell’attesa di vederla glorificata. Laus tibi Domine! Marcello Falletti di Villafalletto

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IL MONDO IN UNO SPECCHIO Attraverso la finestra aperta scorre un mondo di auto, le quali sfrecciano veloci, passano a piedi le persone ignare del mio osservare, sfilano veloci anche loro e parlano, parlano chissà di cosa. Sul ciglio della strada c'è uno specchio di segnalazione e lì vedo riflesso un mondo nuovo, come mai lo avevo osservato così da vicino. Il mondo in uno specchio, auto luci, velocità uomini che vanno e non si fermano ad osservare il giardino di alberi alti, nell'assordante scorrere di vita che va e non si ferma mai Adriana Mondo IL FOGLIO E IL POETA consuma gli occhi il respiro la calma il mantra del bianco che non germoglia letto freddo per sterilità di segni che nella ripetenza in-finita hanno distrutto ogni linguaggio che morto si fa con-dizione di nuove esperienze prologo di nuove contese caos per ri-dire la vita e quello che il silenzio non dice Salvatore D’ambrosio


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FRANCO LIGUORI: LUIGI SICILIANI di Carmine Chiodo

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RANCO Liguori noto e apprezzato studioso di Cariati (CS), è autore di volumi e opere fondamentali e importanti di carattere storico-archeologico e letterario attinenti alla Calabria, tra le quali mi limito solo a ricordare i seguenti: Stefano Patrizi, un riformatore del Settecento (Rossano, 2004); Grecia e Magna Grecia: Il cammino degli Dei (Roma, 2000); Sybaris tra storia e leggenda (Castrovillari, 2004); Incursioni turchesche a Cariati e nella Calabria Ionica (in "Atti del Convegno internazionale di studi: Guerra di corsa e di pirateria nel Mediterraneo"; Cosenza, 1999); Cariati, piccola città e sede vescovile della Calabria nel settecento (in " Atti Del Convegno naz.le sugli storici Cesare Orlandi e Domenico Alagna", Soveria Mannelli, 2010). Ora a queste pregevoli opere si aggiunge questo altrettanto pregevole ed esaustivo volume su Luigi Siciliani (Cirò (KR), 1881-Roma, 1925): figura complessa di uomo e di letterato. Per la prima volta finalmente si può leggere una monografia completa su questo illustre cirotano, che è stato un poeta, scrittore, uomo politico, appassionato archeologo e ovviamente studioso della civiltà della Magna Grecia. Il lavoro di Franco Liguori è frutto di minuziose e certosine ricerche, che si basa su documenti di prima mano: esiste difatti l'Archivio Siciliani che custodisce molte lettere autografe che Luigi Siciliani ricevette

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nei primi vent'anni del Novecento da parte di moltissimi e illustri poeti, scrittori, critici, artisti del tempo: G. Pascoli, G. D’Annunzio, G. Gozzano, M. Moretti, Boccioni, Borgese, per ricordarne alcuni. Comunque la bella e ben strutturata monografia di Franco Liguiori ripercorre in lungo e in largo tutta quanta l'opera del Siciliani, e lo fa con un linguaggio critico fine e penetrante, chiaro, dimostrando cosi di saper leggere nella poesia come nella prosa e nelle altre opere che il Siciliani ci ha lasciato. Lo studioso ha lavorato in stretto contatto con l'Archivio Siciliani di Cirò, diretto da un discendente dello stesso Siciliani (il dottor Luigi Siciliani). Dicevo prima che Liguori svolge sui vari testi del Siciliani analisi chiare e approda a conclusioni condivisibili che colgono in modo effettivo l'essenza e la fisionomia, oltre che i temi, il linguaggio delle varie opere di Luigi Siciliani. Lo studioso inquadra bene l'artista e poeta cirotano nel quadro culturale e letterario della sua epoca. Faccio mie le parole di Pasquale Tuscano che trovo nella sua puntuale Prefazione al volume: "A Franco Liguori" va il merito "di aver saputo ben analizzare e mettere a fuoco con molta obbiettività l'itinerario lungo e accidentato della produzione poetica, narrativa e saggistica di Luigi Siciliani"(p. IX). Franco Liguori non trascura la bibliografia critica che si è avuta nel corso del tempo sulle opere del Siciliani, ce la presenta e la riassume molto bene. Comunque dal volume esce intera una visione rigorosa e filologicamente attendibile dell'uomo, dell'artista, del poeta, scrittore, polemista, oratore, traduttore Luigi Siciliani. Sono pure ben descritte le frequentazioni culturali del Siciliani e viene ancora dimostrato con argomenti convincenti e analisi critiche sicure e condivisibili che il poeta Siciliani è visto tra classicismo e decadentismo. Liguori ci consegna insomma una perfetta declinazione critica dell' itinerario creativo e artistico di Luigi Siciliani, di cui sono studiati, e bene, ad esempio, i versi, e le sue raccolte poetiche come Sogni Pagani, Le rime della lontananza, Corona (1907), il poemetto epico "I palestriti", Arida


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nutrix (1908, pubblicato dall'editore romano Walter Modes), poi ancora le "poesie per ridere", L'amore oltre la morte del 1912 (Quintieri, Milano), Per consolare l'anima mia, per riferire qualche titolo. Liguori legge e bene tutta l'opera in versi e in prosa del Siciliani, cogliendone i temi e la lingua, i motivi, lo stile. Nella poesia di Siciliani non manca la diletta Calabria, e Calabria appunto si intitola un componimento della raccolta prima citata, Arida Nutrix. Liguori precisa che mentre nei Sogni Pagani il poeta aveva cantato la Calabria antica, quella della Magna Grecia, ora invece ad offrirgli motivo d'ispirazione è la Calabria del suo tempo, la Calabria dei primi anni del Novecento, con la sua miseria e le sofferenze della sua gente. La critica passata e quella più recente (Enrico Ghidetti, Antonio Piromalli, lo stesso Tuscano, Pasquino Crupi, per citare solo pochi nomi) hanno dato del Siciliani un giudizio abbastanza positivo e tutti hanno sottolineato l'attaccamento ai valori spirituali, morali della civiltà magnogreca, il suo attaccamento alle bellezze naturali e alle tracce storiche della sua regione e del suo paese, esaltato per l'eccellenza, tra le altre cose delle sue uve, vino ed olio. Franco Liguori analizza ancora molto bene le novelle del Siciliani come pure l'importante romanzo intitolato Giovanna Francica, di cui sono ben colte la trama, la natura dei personaggi. Tutto sommato Luigi Siciliani merita attenzione non solo come poeta e narratore ma pure come letterato, saggista, polemista ed oratore e anche su questi aspetti lo studioso e ricercatore Liguori svolge analisi perfette e arriva a delle conclusioni condivisibili e pertinenti. Come ancora non viene trascurata la sua attività di traduttore di poeti dall'inglese, dal portoghese, oltre che dalla lettura greca. Certamente, per chiudere questa nota è da dire che questa monografia di Franco Liguori è lodevole non solo perché ci offre una visione completa ed esaustiva dell'uomo e dello scrittore e poeta, letterato, uomo politico Siciliani ma costituisce nel contempo uno stimolo per ulteriori ricerche e approfondimenti su questo autore che ora con questa

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monografia esce dal dimenticatoio in cui era ingiustamente relegato. Questo libro di Liguori deve essere tenuto presente dagli studiosi o dagli studenti qualora volessero, gli uni e gli altri, intraprendere delle ricerche sul cirotano. Carmine Chiodo FRANCO LIGUORI - Luigi Siciliani. Un poeta e scrittore calabrese tra classicità e decadentismo. Prefazione di Pasquale Tuscano. Edizione Archivio Siciliani, Corigliano Calabro (CS), 2011, pp.247.

Immagine di pag. 4: Franco Liguori a Crotone illustra la figura di Siciliani.

A MIO PADRE Chiamo il tuo ricordo qui, in ogni giorno grigio e pieno di tristezza. Piogge nostalgiche nei nostri cuori che battono come se, aldilà della realtà, tu fossi ancora qui. Sereno, animo sereno, torna sempre il sereno dopo ogni tempesta. Si uniscono, attorno a noi, battiti unici ma facilmente scindibili; ogni battito è per te. Per la tua memoria, per la tua camminata goffa che non riempie più i nostri sorrisi, per i nostri occhi che ti vedono ancora qui fermo. Tra le nostre braccia. Aldilà di ogni cielo. Papà. Clarissa Cianfrocca Alatri, FR

A TUTTI GLI ABBONATI E AI COLLABORATORI A partire dal 27 aprile 2015, il nuovo

CAP di Pomezia è 00071 Poiché anche per altre località ci sono stati cambiamenti, preghiamo gli interessati a indicarci le modifiche del loro Codice di Avviamento Postale. Grazie! La Direzione


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IN “SAC AU DOS”

MAURICE CARÊME SVELA LO SGUARDO DEL VIANDANTE IN RICERCA di Ilia Pedrina

“S

AC au dos” è la più recente raccolta di 'canti di viaggio' del poeta belga Maurice Carême, scelta in tutte le sue fasi, conservata ed ora pubblicata con scrupolosa cura dalla sua amata Jeannine Burny, Presidente della 'Fondation Maurice Carême', per i tipi della Casa Editrice L'Age d'Homme, proprio in questi primi mesi del 2015. La foto di copertina, scatta da Jeannine, riprende il poeta 'sacco in spalla', seduto in un prato, ad osservare la natura all'ombra di un grande albero, mentre una mucca pezzata fa ombra sulla riva di un ruscello, altra natura sullo sfondo, in prospettiva. Qui i due amanti sono a Montmédi, a la Chiers, nel 1968 e oltre a questa, tutte le altre 30 fotografie che arricchiscono il testo sono state scattate da lei, dalla sua 'Bien Aimée'. Oltre a questo prezioso materiale documentario, la raccolta si compone di 203 liriche, ognuna di esse collocata in un tempo lungo che si snoda tra il 1968 fino alla morte del poeta, nel 1978. Nel retro di copertina si legge: “On a parlé, à propos de l'œuvre de Maurice Carême, 'de paradoxe d'une vie nomade et d' un travail en perpètuelle itération'. C'est dans Sac au dos que l'on peut mieux suivre le poète lors de ses incessantes pérégrinations. Que ce soit dans les campagnes de son Brabant natal, à Orval et sa célèbre abbaye, ou en France qu'il privilégia de 1972 à 1976 pour ses lieux de création... Que Maurice Carême soit dans cette campagne qui lui est familière, dans ces montagnes qui le subjuguent, au bord de la mer ou dans ces villes de France qu'il découvre avec fascination, sourdent cet existentiel, cette spiritualité qu'il consedère comme les vérités profondes de l'homme...” (Maurice Carême, Sac au dos, Editions L'Age

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d'Homme, 2015, retro di copertina). Segue il testo di una lirica 'QUI PEUT ENCORE S'ÉTONNER!', perché si possa cogliere un esempio breve, una testimonianza diretta del clima che verrà via via ricreato all'interno: “De voir la mer recommencer/Des hauts banc de sable à la plage,/Son éternel et lent voyage,/Qui peut encore s'étonner!...”. Mi concentro su Parigi, perché è una città che adoro, carica di ricordi personali intensissimi, soprattutto legati a Solange de Bressieux, preziosa amica e traduttrice di Francesco Pedrina, instancabile lettrice coltissima alla Sorbona, e al prof. Guy Tosi, pure docente in questa prestigiosa Università, di cui parlerò ampiamente in un'altra occasione. A Parigi ha abitato per lungo tempo Lionello Fiumi, negli 'Anni Trenta', in Rue de Lauriston, aprendo così la strada maestra all'amore, sposando Martha Leroux, ed alla cultura italiana in terra di Francia, attraverso i contatti tra i poeti del Realismo Lirico italiani, francesi, belgi, tra cui appunto Maurice Carême. Scelgo: “LE TRAIN DE PARIS C'est le train de Paris, C'est le train de l'ennui. Aux vitres, des visages Embués de nuages. Sur le bancs, des corps vides, Des cœurs tournant à vide. On sourit vaguement Peut-être au ciel, au vent. Pour l'istant, la vitesse Tue et retue sans cesse Le desir que l'on a De renser à soi. C'est le train de Paris, Paradis de l'ennui.” (Maurice Carême, op. cit. pag. 147) Il treno in movimento, nella notte o di giorno, porta in sé noia e sosta insieme, attesa,


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progetti aspettative, tutto concentrato in statica tensione: volti ai vetri, passeggeri muti, quasi corpi vuoti, forse cuori che battono senza scopo, tale è l'assenza che si viene a creare tra il mezzo ed il suo contenuto umano, in quell'istante nel quale la velocità uccide ancora ed ancora 'Le desir que l'on a/ De repenser a soi'. Sembra che il poeta comprenda in profondità questa condizione che spinge questi volti vuoti, senza nome, così lontani dal sorriso, dal cielo, dal vento. Nella poesia successiva farà parlare i piccioni, quelli de 'LE PONT-NEUF À PARIS', arguto intreccio di strofe quartine in rima, nel quale i rimandi immaginativi sono cesellati da ironia, perché i versi diventano pungolo efficace vòlto a costruire lentamente una sensibilità nuova: i piccioni, quattro a quattro, se ne stanno sulla fronte di Enrico IV, senza conoscere né la storia del re né la matematica. Talora infatti due più due non fa quattro, soprattutto alla scuola dei piccioni, e questo porta il poeta a dire in versi: “.... Et il n'y a qu'un vagabond Qui coupe son quignon en quatre Pour se moquer de Henri quatre Comme s'en moquent les pigeons. Moi, je me promène sans hâte Dans le petit jardin oblong Où, sans nul souci d'Henri quatre À jamais prisonnier du pont, Le ciel s'étoile de pigeons.” (Maurice Carême, op. cit. pag 148) Ecco, si, il vagabondo che spezza il suo pane in quattro diventa simbolo senza nome della libertà, in pieno contrasto con la sovranità regale di Enrico IV a cavallo: egli viene identificato nel prezioso indistinto che gli appartiene e proprio per quel pezzo di pane spezzato in quattro parti il cielo si instella di piccioni, in volo, condividendo briciole. Passo ora a : “LA SEINE, PAR CE MATIN BLANC.... La Seine, par ce matin blanc, Ressemblait à un grand fleuve de rêve Comme on en voit quelquefoi peint

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Sur des paravents. Par le moindre vent. Mais un brouillard tellement fin Qu'on le croirait satiné par les mains Meticuleuses de la lune. Elle était là, encor penchée Si noyée de sommeil Qu'elle s'affaissait au soleil. De longs chalands fantômes S'elevaient des eaux monochromes Et puis disparaissaient sans bruit Derriere les érables gris. Et si parfois un personnage Glissait le long du paysage, Il paraissait si effacé Qu'on doutait, apres son passage, Qu'un homme fût vraiment passé. La terre aussi bien que le ciel, Aidés par le pâle soleil, Tentaient en vain de devenir réels. Émerveillèe De les voir aussi tendrement mêlés, La Seine, dans le matin blanc, Leur passait son anneau d'argent.” (Maurice Carême, op. cit. pag. 180) Giochi di luce e di riflessi, una sottile nebbia, finissima, quasi intessuta dalle mani stesse della luna sulla Senna, fiume di sogno, in quelle frazioni d'ora dell'alba che precedono il suo stanco lasciare posto al sole, nel cielo: tutto viene magicamente mescolato in immagini fantasma, siano esse le chiatte che si sospingono lente lungo le acque monocrome, dietro gli aceri, sia essa la figura d'un passante, al bivio tra concretezza reale ed evanescenza onirica, tra terra e cielo: '...La Seine, dans le matin blanc/leur passait son anneau d'argent': tutto si frantuma per riadeguarsi poi allo sfondo, nell'indistinto grigio-latte dell'alba fluviale, nel vano sforzo di diventare realtà. Si, amo la Senna e la sua storia, ancor più l'amo ora, attraverso questi versi in canto. Concludo con: “LES TOURS DE NOTRE-DAME Voici les tours de Notre-Dame Et les enfants et le jardin. Ne vous retournez pas, Mesdames,


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Les oiseaux vous suivent de loin. Mieux vaut les oiseaux que les flammes, À Paris, l'enfer n'est pas loin Malgré les tours de notre-Dame Et les enfants et le jardin. N'attendez pas, comme Sœur Anne, Le cavalier noir du destin. Ici, le malheurs sont pour rien. Elle n'a puitié que des saints, Lìombre des tours de Notre-Dame”. (Maurice Carême, op. cit. pag. 181). Stasera mi farò leggere queste poesie di Carême da Melinda Legendre, che mi sta aspettando nei pressi della Basilica Palladiana: registrerò quella sonorità dei versi, dei ritmi e delle rime nel loro procedere in successione, per reiterare un fascino che mi è ancora all'orizzonte e che mi attrae, con magnetica insistenza. Poesia dei suoni e delle immagini, tessuto profondo di iniziazione all'osservazione disincantata ed innocente ad un tempo. Melinda mi ha reso in forma scritta il contenuto del DVD 'Maurice Carême. Poète Belge. Poète Européen. Poéte International. Prince en Poésie', nella sezione che riprende Jeannine Burny mentre parla di lui: “Il faut dire aussi - je fais un petit aparté – que chez Maurice, cette joie, ce bonheur de vivre n'est qu'une conquête sur la souffrance, le malheur, la dictature, ce qui se passe dans le monde. Il est très au courant, il a déjà des amis partout. Il sait que ce qui s'est passé sur le nazism, se passe en Russie, se passe en Afrique du Sud, en Amérique. Et donc tout ça est le reflet. Mais il n'a pas trové, à ce moment-là, ce ton pour échapper à un certain pathos et de ses cent et quelques poèmes qu'il a en 1951 il en garde quatre et recommence à zéro, et dans ce quatre il y a ce fameux poème de La Complainte à la Vierge, qui date 1927. C'est vous dire à quel point il a un sense de ce qui vaut ou ne vaut pas dans sa poésie, et il l'a dit d'allieurs: 'Je voudrais que ma poésie soit lue même par le plus humble des servantes, mais cela n'implique pas que ce soit facile, au contraire. Les gens du peuple

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peuvent très bien comprendre la profondeur d'un texte. Ces sont les intellectuels qui croient que ce n'est pas possible'. Mais c'est vrai qu'il y a eu chez Maurice cette - je pourrais preque dire – volonté de la semplicité...”. Ho ricevuto 'Sac au Dos' in dono da Jeannine stessa, alla quale ho inviato per posta la copia di Maggio di 'Pomezia Notizie' e le fotocopie delle lettere e delle cartoline di Maurice Carême a Federico De Maria, sensibile poeta palermitano, profondo cultore di studi letterari, caro, carissimo amico di Francesco Pedrina, legami intensi che tutti convergono nella corrente letteraria del 'Realismo Lirico'. Ecco allora il testo della breve missiva di Jeannine in tempo reale: “Ma très chère Ilia, un immense merci pour l'article. C'est superbe! J'ai lu les lettres et cartes à Federico De Maria. Elles sont vraiment très belles et intéressantes. Ah, Maurice Carême écrivait merveilleusement bien. Ce sont de trésors pour nos archives 'corrispondance'. Nous sommes comblés et te disons toute notre reconnaissance...” (e-mail del 15 maggio 2015). La traduzione del mio lavoro 'Maurice Carême: il volto di un poeta allo specchio', ora in perfetto francese, è stata fatta da Melinda Legendre. Ilia Pedrina

INCHIOSTRO DI PAROLE Nei sudati abbracci appartengo ad meritato amore colorato di saggezza annego tutta la melanconia dell’anima tra mantelli impregnati di poesia inchiostro di parole che nell’assenza mutano con fantasia precipitando tra odorose carni profuse onde di speranza travolgono l’essenza ciò che amo è qui con me senza dolore. Lorella Borgiani


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RICORDO DI

GIANNI RESCIGNO

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A notizia che mai ci saremmo aspettata: Gianni Rescigno, nostro carissimo amico da sempre, è morto a Santa Maria di Castellabate (Salerno). Se ne è andato il 13 maggio 2015. Era nato a Roccapiemonte (Salerno) nel 1937. Abbiamo il cuore strizzato dal dolore, siamo frastornati. Non lo sapevamo ammalato e perciò la sua scomparsa è stata veramente come un fulmine a ciel sereno. Abbiamo ricevuto tante telefonate da amici comuni, come noi increduli alla notizia. Hanno promesso che scriveranno e noi non mancheremo di ospitare i loro scritti per onorare degnamente l’uomo e il poeta. Intanto, Luigi De Rosa se ne interessa nella rubrica “I Poeti e la Natura” (pag. 39). Gianni Rescigno ha scritto molto, poesia in particolare, ma anche prosa. Ricordiamo brevemente: Credere (1969); Questa elemosina (1972); Torri di silenzio (1976); I salici-I vi-

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tigni (1983); Le ore dell’uomo (1985); Tutto e niente (1987); Un passo lontano (1988); Il segno dell’uomo (1991); Angeli di luna (1994); Un altro viaggio (1995); Le strade di settembre (1997); Farfalla (2000); Dove il sole brucia le vigne (2003); Lezioni d’ amore (2003); Le foglie saranno parole (2003); Io e la Signora del Tempo (2004); Come la terra il mare (2005); Dalle sorgenti della sera (2008); Gli occhi sul tempo (2009); Anime fuggenti (2010); Cielo alla finestra (2011); Nessuno può restare (2013); Sulla bocca del vento, (tradotto in francese da Jean Sarraméa e Paul Courget, 2013); Un sogno che sosta (2014). Per la prosa, citiamo i romanzi Storia di Nanni (1981) e Il soldato Giovanni (2011). I suoi lavori sono stati sempre accolti con successo dalla critica migliore e prefazionati da grandi firme, come quella di Giorgio Bárberi Squarotti, colui che l’ha seguito con più costanza, fin dall’inizio. Su di lui sono state pubblicate varie monografie, tra le quali, nel 2001, Gianni Rescigno: dall’essere all’ infinito, di Marina Caracciolo; poi, è la volta di Luigi Pumpo: Gianni Rescigno: il tempo e la poesia, Ibiskos; Franca Alaimo: La polpa amorosa della poesia; Menotti Lerro: La tela del poeta (amicizie epistolari di G. Rescigno); Antonio Vitolo: Il respiro dell’ addio (la poesia dell’attesa e il rapporto madre-figlio in G. Rescigno) e, infine, Sandro Angelucci: di Rescigno il racconto infinito. Nel 2010, Federica Iannucelli si è laureata con la tesi: Tra cielo e mare: l’ amorevole carezza della poesia di G. Rescigno, all’Università Tor Vergata di Roma. Gianni Rescigno è stato incluso in varie storie della Letteratura Italiana e in antologie di prestigio. Ricordiamo l’opera di Giuseppe De Marco Per una carta poetica del Sud (1989), l’ opera critica di Giuliano Manacorda En guisa d’eco i detti e le parole, Vol. II (2006); l’


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opera di Giorgio Bárberi Squarotti Storia della civiltà letteraria italiana. Ha vinto moltissimi e importanti Premi letterari. I temi più presenti nell’opera di Gianni Resigno sono la natura e il paesaggio, che dominano anche nei romanzi, temi non sufficientemente esplorati, né dai suoi illustri prefatori, né dai tanti recensori. Auspicabile è, perciò, una antologia critica che li metta finalmente in risalto, perché l’amore, il sociale, il ricordo e il sogno, in lui scaturiscono e si sostanziano solo da essi imbevuti, in essi sommersi. Nell’attesa - ripetiamo - degli interventi promessi da amici comuni, qui brevemente accenniamo a un suo lavoro poetico, a un suo romanzo e a un saggio critico che lo riguarda. IO E LA SIGNORA DEL TEMPO - Suffragata, in apertura, dagli interventi di Giorgio Bárberi Squarotti, Vincenzo Guarracino e Maria Grazia Lenisa e, in chiusura, da quello di Marina Caracciolo, la quale definisce la silloge una specie di “novena”, Io e la Signora del tempo1 è il canto più commosso, affettuoso e filiale che un poeta moderno abbia mai elevato alla Madre di Gesù. Alla Madre, non alla Vergine Maria, perché, nei versi, Gianno Rescigno la presenta sempre sotto un tale aspetto, archètipo di sua madre - prima e - poi - di tutte le madri del mondo. E siamo certi - come è certo l’autore - che la Madre di Dio gradisca una tale figurazione sopra le innumerevoli altre che la rappresentano, sia nei canti e nelle preghiere innalzati nei secoli dai poeti, sia nelle ieratiche, sublimate, distaccate pitture e sculture che Le hanno dedicato Maestri insigni. E a questa caratteristica umana si conforma anche il pittore Domenico Severino, in icone ovali appena abbozzate, nelle quali anche la ruvidezza della tela, non totalmente coperta dal colore, dà un non so che di tenero, di naturale e di terrestre, di comune quotidianità, di porosità; nelle quali specialmente l’azzurro e il bianco, quasi sempre nella loro purezza, perché non logorati dal pennello, ma distribuiti in una rapida successione di leggeri tocchi, irradiano dolcezza, avvolgono nella grazia e nel mistero.

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Col libro tra le mani, una sera di maggio, abbiamo recitato il Rosario per le strade di Pomezia, contornati da lumini colorati, e siamo andati da un condominio all’altro assieme alle tante donne, alcune giovani e belle come doveva essere la Madre di Gesù quando Gesù era Bambino -, le più ormai madri anziane o addirittura vecchie, dai “capelli sciolti/non folti/brizzolati/.../I troppi segni di pianto/i pochi di sorriso/:::/uno sdrucito scialle/sulle spalle/e il rosario d’osso/in una mano”. Il libro di Rescigno ci appariva tutto squinternato nel cielo del tramonto e noi camminavamo assorti ed oranti in mezzo ai suoi personaggi. Dai balconi delle case i televisori vomitavano luci orgiastiche (non c’ erano stese le coperte colorate e preziose della nostra infanzia e alle quali accenna anche il poeta), voci intrise d’odio e di rancore, una litania e una contabilità di morti (Iraq, Palestina, Israele, Africa...)... Ma la Signora del tempo era tra noi, camminava tra noi, vestita di tenero azzurro, “lo sguardo fisso/sul nostro... diario di dolore”, e le parole comuni, i canti comuni, di sempre, sotto il cielo ormai stellato, nel mare delle fiammelle agitate da mani e braccia di oranti, avevano una intensità altissima, estrema. Anche la Madonna era “una donna qualsiasi” e “i troppi segni di pianto”, all’improvviso, si trasformarono in luce di speranza. IL SOLDATO GIOVANNI - È un agile romanzo2, con personaggi ben caratterizzati, indimenticabili, anche quelli inventati (almeno secondo la finale dichiarazione), come Nicola, il quale, a nostro parere, è la coscienza del protagonista e, forse, anche quella dello stesso autore. Essi agiscono su uno sfondo amplissimo, che va dalla campagna di Libia alla prima e poi alla seconda guerra mondiale e, seppure in sintesi, ci sta tutta la storia di un popolo con le sue usanze, le sue credenze, le lotte epocali o quotidiane. L’insieme delle vicende dà un affresco da saga familiare. Alcuni protagonisti, come Giuseppa, sovrastano per intensità lo stesso Giovanni. E a imporsi nella mente del lettore non sono soltanto gli uomini, ma anche gli animali. L’uccisione dei


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maiali, per esempio, è pagina tremenda, raccapricciante, quasi da incubo, perciò impossibile da dimenticare. Resigno, dunque, non è solo poeta, ma narratore robusto e affabulante. IL RESPIRO DELL’ADDIO. La poesia dell’ attesa e il rapporto madre-figlio in Gianni Rescigno - Gianni Rescigno è poeta cresciuto sotto l’egida di Giorgio Bàrberi Squarotti, che gli ha prefato numerose opere; è, pertanto, giustamente conosciuto e assai apprezzato stimato dalla critica militante. Ricordiamo, per esempio, i già citati saggi che gli hanno dedicato la nostra cara amica Marina Caracciolo, Franca Alaimo e Luigi Pumpo, ma anche i tanti articoli - alcuni apparsi proprio sul nostro mensile - e le pagine a lui dedicate da D. Gugnali, Fabio Tombari, Teodoro Giuttari, Silvano Demarchi, Stefano Jacomuzzi, Alberto Frattini, Benito Sablone, Walter Mauro, Elena Clementelli, Luciano Luisi, Maria Grazia Lenisa, Vittoriano Esposito, Vincenzo Guarracino, Francesco D’Episcopo... Questo breve saggio3 monografico di Antonio Vitolo è come la poesia, la quale, più che spiegare, suggerisce. E Vitolo di indicazioni ne dà veramente tante, ma a volo d’aquila, perché il suo intento è soffermarsi solo sul tema della madre che, in Rescigno, ha un certo spessore. “Tra gli affetti - scrive Vitolo -, quello che per eccellenza rapisce l’uomo è l’ amore per la madre. (...). Rescigno, uomo religioso, eremita della letteratura, viandante della parola, ha dedicato innumerevoli liriche alla madre”. Vitolo, in sostanza, è come se invitasse i critici - che finora hanno affrontato complessivamente il poeta - a soffermarsi su temi specifici, dimostrando come questo sia il modo migliore per scendere in profondità nel mondo rescigniano e scandagliare minutamente un’opera nella quale sentimenti e natura hanno un taglio particolare e sono radicati nel sociale. Aspetto, quest’ultimo, per noi tra i più cari e affascinanti, presente non soltanto nei suoi versi, ma anche nei suoi romanzi, come, per esempio, ne Il soldato Giovanni, apparso (2011) con i tipi della Genesi di To-

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rino, la stessa che ha stampato questo saggio. Gianni Rescigno - afferma Antonio Vitolo ha messo “in atto un percorso poetico che lo ha legato alla madre di vita terrena e lo ricongiunge alla stessa nel mondo dove le terrene parvenze diventano imperscrutabili”. Un saggio agile, imperniato su quei lacci sottilissimi e tenacissimi che legano ogni umano alla madre e che in Rescigno, specialmente dopo che la donna ha chiuso la sua vicenda terrena, son diventati humus spirituale e fertilissimo per il germoglio della poesia. Domenico Defelice 1 - Biblioteca Parrocchiale S. Maria a Mare, 2004 2 - edito nel 2011 dalla Genesi di Torino 3 - Genesi Editrice, 2012 - Pagg. 42, € 6,00.

LA MORTE DEL POETA nelle grondaie del disincanto si condensa e gruma l’orizzonte venuto meno per vizio naturale a coniugare al condizionale mai all’imperativo vibra ma ferma allo stesso punto penna non brama più l’aire Salvatore D’Ambrosio Caserta

FRAZIONE DI ZERO Ho visto tutto: niente esiste per me se non in me. Ho visto tutto ed il tutto era in me: in me, frazione unitaria di zero. Corrado Calabrò


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VENDEMMIA A POVOLARO CON GLI STUDENTI DEL PAPÀ1” di Aida Isotta Pedrina

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ETTEMBRE! Era un mese magico per noi fanciulli, e forse il più bel mese dell’anno. Ricordo il cielo limpidissimo, di un turchese luminoso, quasi trasparente, e l’aria fresca che conservava ancora un tocco d’estate. Ogni anno, verso metà settembre, la vendemmia nella nostra villa a Povolaro era per il Papà tradizione immutabile, quasi rito pagano per celebrare la sacralità dell’uva che Egli considerava dono prezioso della natura; era cioè, giorno di gran festa e giubilo. Il giorno prima della vendemmia, in casa non si parlava d’altro; alla mattina prestissimo, le domestiche erano già occupate a preparare intingoli e dolci per il pranzo il giorno

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dopo, mentre fuori, gli aiutanti del Papà sgomberavano il portico e tiravano fuori dalla rimessa le due immense botti di legno mettendole contro il muro, e mettendo il torchio a un lato dell’entrata del portico. Il Papà dirigeva i lavori e aiutava, parlando in dialetto veneto con gli uomini, amabile e spontaneo come se fosse uno di loro. Era sua consuetudine andare a letto molto presto, verso le nove di sera, per poi alzarsi alle tre di notte (o di mattina!) per mettersi subito a scrivere e studiare fino alle otto quando veniva dallo studio al tinello per un caffè. Quel giorno, Virgilio ed io stavamo mangiando il caffelatte con il pane fresco appena portato dal garzone del fornaio; Egli venne dietro le nostre seggiole, ci diede un bacio sul capo, dicendo: “Domani è la vendemmia!” con la voce piena di gioia come se fosse ancora fanciullo, e si sedette a bere una tazzina di caffè. Non ricordo averlo mai visto mangiare la prima colazione, eppure era sempre pieno di energia, appunto come durante questi preparativi per la vendemmia. Dopo la colazione si andò fuori, il Papà fra gli uomini, e noi seduti a guardare su i due scalini che portavano alle doppie porte di cristallo di una delle sale da pranzo. Dopo aver messo un’ enorme tinozza per pigiare l’uva in mezzo al portico, gli uomini andarono a fare altri lavori, mentre il Papà prendeva un vecchio pentolone, lo riempiva di grano e farina gialla, aggiungendo acqua fino a farne un gran pastone che mescolava con un enorme cucchiaio di alluminio e con le mani; poi se lo metteva sotto al braccio e battendo il cucchiaio sul bordo del pentolone, andava fuori dal portico, camminava avanti e indietro chiamando ad alta voce tutto il suo pollame: “ Piuuù, piuuù, piuuù!” In un baleno, saltavano fuori dalle siepi, da dietro gli alberi, da quasi tutto il parco, dozzine di pollastrelli, galli, galline, tacchini e faraone, nonché oche e anitre; il Papà spargeva gran manciate di pastone intorno: e com’erano affamate e accanite tutte queste bestioline! Facevano un gran chiasso, azzuffandosi, e il Papà in mezzo, parlando loro come se fossero persone: “Ma basta! Ma la-


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sciala stare, ingordo!’ a un pollo che cercava di tirar via chicchi di grano dal becco di una gallina; “Imbecille! Perché ti lasci portar via quel bel bocconcino!” a un pollastrello che era saltato indietro mentre un altro gli rubava il cibo; “Tiratevi in là, prepotenti!” alle oche e ai tacchini che, più grandi, spaventavano galline e faraone. Il Papà li spingeva via con il piede, camminando lentamente fra loro, gridando esortazioni e parolacce, spargendo mangime finché il pentolone rimaneva vuoto; lo metteva poi in un angolo del portico, sorridendo e parlandoci prima di tornare nel suo studio. Per noi era davvero un gran spettacolo questo rito del mangime e ridevamo di gusto per tutto il baccano, le zuffe del pollame, le grida del Papà. (Egli faceva questo tutti i giorni— senza fallo—anche nelle mattinate gelide d’inverno, mentre noi eravamo ancora a letto; e ci svegliava sempre la sua voce sonora: “ Piuuù, piuuù, piuuù!”) Appena il Papà era fuori di vista, Virgilio correva a spaventare il pollame rimasto gridando e battendo le mani. Le domestiche vennero fuori per pulire il portico; dopo aver scopato, andavano a riempire grandi secchie alla pompa dell’acqua che poi vuotavano sui mattoni rossi ridendo e “ciacolando”; più tardi, quando il portico era asciutto, portavano fuori dozzine di cesti per i vendemmiatori. Alla mattina della vendemmia, arrivarono gli studenti del Papà con il treno che veniva da Vicenza e che si fermava a circa un chilometro dalla villa. Ogni anno erano diversi, ed Egli li aspettava con noi al cancello. Com’era sempre bello l’incontro! Appena lo vedevano da lontano, gli studenti alzavano le braccia a salutare e lo faceva anche il Papà; arrivati al cancello, quante esclamazioni e strette di mano! I giovani lo circondavano guardandolo con ammirazione e affetto, mentre Egli, pieno di entusiasmo, li chiamava per nome e ci presentava: “I miei figlioletti Isotta e Gilietto!”, e sempre spontaneo, prendeva a braccetto i due studenti più vicini camminando verso casa e spiegando i particolari della vendemmia. Sotto al portico aspettavano cinque o sei ra-

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gazze del paese, figlie delle domestiche e dei fattori, che salutando e ridendo, davano a ciascuno degli studenti un paio di cesti e un piccolo coltello a uncino con il manico di legno; il Papà fece le presentazioni e poi disse: “Alla vendemmia!” Il gran cancello di ferro battuto dell’orto era spalancato e sembrava in attesa per dare il benvenuto a questa bella brigata di gente allegra. Il Papà diresse tutti nel vigneto alla sua destra; le viti erano centenarie con grandi tronchi scuri e contorti, e lunghissimi tralci dai quali pendevano in profusione grappoli dorati e neri. Il Papà era felice: aveva lui stesso coltivato con gran pazienza e amore tutte queste viti; inoltre, possedeva il dono della gratitudine per tutte le cose belle della vita: per lui, l’uva non era solo uva; era un glorioso inno alla fecondità e alla bellezza della natura da apprezzare e gustare; ed ora comunicava con entusiasmo questi suoi sentimenti mentre dava dimostrazioni sul modo migliore per cogliere l’uva; tagliava i grappoli più belli, li alzava in alto nel sole facendoci ammirare le loro forme e le svariate sfumature dorate. Ricordo che parlando, Egli accarezzava questi bei grappoli e li porgeva a tutti per farceli assaggiare; che buona era l’uva! Aveva un sapore e un profumo di sole. Allegri e pieni di vita, gli studenti e le ragazze si sparsero fra le vigne; il Papà ci prese per mano entrando nella loggetta al lato del vigneto, e si sedette al tavolo tenendoci al suo fianco. La loggetta, con sei colonne e due entrate, una dal parco e l’altra che dava sull’ orto, era il suo luogo favorito per scrivere e studiare. Alzando lo sguardo, poteva godersi non solo la bellezza del parco, ma anche l’ abbondanza del suo orto e vigneto; ed era appunto ciò che faceva in quel momento, sorridendo e ammirando tutta quella bella confusione di giovani che con le loro risate e voci allegre creavano un senso di festa intorno. Diceva: “Che spettacolo! Una scena agreste che meriterebbe essere dipinta: ci manca solo Bacco! Il Papà potrebbe essere Bacco!” E rideva e ci stringeva al suo fianco. Poi si mise a scrivere mentre Gilietto correva fuori nell’ orto a giocare, ed io leggevo uno dei suoi libri.


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Circa un’ora dopo, si alzò dicendo: “Andiamo a vedere quanta uva hanno raccolto!” La vendemmia procedeva bene e molti cesti erano già pieni; il Papà diede a noi piccoli un grappolo ciascuno, lodò i suoi studenti e incominciò a far complimenti alle ragazze parlando di bellezza, guance rosate, occhi brillanti, etc., scherzando con loro e rimanendo a conversare; noi eravamo già corsi a giocare sotto gli alberi di mele. Il pometo, creato dal Papà, era la parte più bella dell’orto. Egli lo chiamava “Angolo di paradiso”; circondati da vigne ancor giovani e basse, i meli, grandi, antichi, e di bellissima forma, con i rami che s’intrecciavano in alto quasi a cupola, erano davvero una visione paradisiaca, particolarmente a primavera quando erano tutti coperti di fiori bianchi, delicatissimi e profumati e di una bellezza commovente nell’azzurro. Erano spettacolari anche nel tardo autunno, carichi di mele dalle svariate e vivide tinte che andavano da un verde allegro al giallo e al rosso. E tutta questa bellezza non finiva qui’: sotto ai meli era tutto un prato fiorito: una profusione di margheritine, di fiorellini blu che noi chiamavamo “Occhi della Madonna”, di altri fiori gialli e rosa, e più nell’ombra, attorno ai grandi tronchi e alle panchine, un incanto di profumatissime violette. Il Papà non faceva mai tagliare l’erba nel pometo appunto per amore ai fiorellini di campo; Egli amava sedersi qui per ore con i suoi libri, mentre io, seduta sull’erba, facevo mazzetti di viole per lui, per la mamma, e per la Madonna nella nostra chiesetta. Quando gli davo il mazzetto, Egli lo odorava sorridendo e diceva: “Grazie Isottina! Ma lo sai che quando fai questi bei mazzetti spezzi la vita alle violette e soffrono; a loro piace godere il sole e il fresco dell’erba e della terra. Tutti i fiori sono un dono da ammirare e non dovrebbero mai essere colti….” E a me veniva da piangere per aver fatto male alle violette…. (Ancor oggi, ricordando questi suoi sentimenti, preferisco metter fiori di seta nei vasi piuttosto che coglierli in giardino; ma digresso). Mentre giocavamo sotto ai meli, sentivamo gli studenti e le ragazze ridere e parlare e an-

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che qualcuno che incominciò a cantare. Quando suonarono le campane di mezzogiorno, ci fu un attimo di silenzio. Che bello e dolce questo suono di campane che si perdeva nell’azzurro come una benedizione! Il Papà venne fuori dalla loggetta chiamando tutti: “Venite! E’ mezzogiorno! Portiamo i cesti sotto al portico e andiamo a mangiare!” Arrivati nel portico, tutti vuotarono i cesti nella tinozza con gran confusione e risa, per poi entrare in veranda e sederci intorno all’ imponente tavola del nonno Riccardo. Il Papà aveva dovuto lottare a lungo con suo fratello Berto per avere e conservare questa tavola in famiglia, dato che questi aveva deciso di vendere la casa paterna a Grantortino. La tavola, massiccia e lunghissima, fatta fare su misura dal nonno Riccardo per tutta la sua famiglia di 13 figli, era assai cara al Papà per i bei ricordi della sua infanzia e giovinezza. Egli stava appunto parlando di questo ai suoi studenti e alle ragazze; io intanto pensavo che quel giorno era ancor più una gran festa perché la mamma era andata a Milano a visitare i suoi genitori; per Virgilio ed io, la sua assenza significava esser liberi dagli assidui lavaggi di mani e viso, pettinamenti e rimproveri, ai quali dovevamo sottometterci giornalmente — e per lughissimo tempo - prima dei pasti. Il pranzo, come sempre, era cosa squisita: antipasto, risotto con i funghi, polli arrosto, insalata e insalata russa, formaggi, frutta e dolci. A tavola, il Papà era di una vitalità incredibile: mangiava molto e di gusto; nelle pause non mancavano mai le belle conversazioni intellettuali, le barzellette, la recita di poesie adatte all’occasione; in quel giorno della vendemmia, Egli scelse per i suoi studenti aneddoti e versi vivaci e arguti. Ricordo come Egli si immedesimava completamente in questi, e recitava animatissimo, a voce alta, ridendo fino alle lacrime durante i passaggi più buffi, come per esempio questi versi: “ ….Chi la squallida cervogia Alle labbra sue congiunge, Presto muore o rado giunge All’età vecchia e barbogia. Beva il sidro d’Inghilterra


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Chi vuol gir presto sotterra: Chi vuol gir presto alla morte Le bevande usi del Norte…..”2 declamando poi – naturalmente — tutte le virtù del vino italiano, incluso il semplice e saporito vinello fatto in casa dal prof. Pedrina. Gli studenti e le ragazze, ridendo e tutti d’ accordo, gli fecero un brindisi entusiasti. Dopo il pranzo, si tornò sotto al portico dove gli aiutanti avevano finito di riempire la tinozza; e arrivò il momento tanto atteso: pigiare l’uva! In un baleno, via scarpe e calze, e senza neanche sciacquarci i piedi nelle bacinelle intorno alla tinozza, Virgilio ed io eravamo sempre i primi a saltar dentro. Quant’ era fresca l’uva sotto ai piedi! Dava quasi un brivido questa frescura, ma anche un senso di gioia viva; infatti, i grappoli sembravano vivi da come sgusciavano continuamente da sotto i nostri piedini! A turno, ragazze e studenti entravano nella tinozza fra strilli e risate e scivolamenti, con gli studenti che si facevano in quattro per sostenere le donzellette. Il Papà camminava per il portico controllando le botti e il torchio, parlando e guardando con il suo sorrisetto arguto questo innocente baccanale nella tinozza mentre parlava con amabile iro-

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nia di coloro che essendo delicati e schifiltosi, rabbrividivano d’orrore al pensiero di piedi nel vino; spiegava poi che il piede umano era molto superiore alle macchine perché quando pigiava l’uva non rompeva i semi, i quali, stritolati dalle pigiatrici meccaniche, davano un sapore amaro al vino. Parlando e sorridendo, si avvicinò alla tinozza e incominciò a scherzare di nuovo con le ragazze che non riuscivano a smettere di ridere. Ormai nessuno rispettava i turni, e tutti si spingevano per entrare nella tinozza allo stesso tempo; naturalmente era solo per divertimento, perché l’uva era già ben pigiata da un pezzo! Uno dei fattori si mise a suonare la fisarmonica, e come se non ci fossero state abbastanza allegria e confusione, tutti si misero a ballare nella tinozza fra grida e risate mentre il Papà, con gli occhi lucidissimi ma sorridendo, faceva venir fuori noi bambini e chiamava una domestica per lavarci e asciugarci i piedi. Ora che ci penso, che miracolo la gioia di vivere della gioventù di allora, che trovava così grande divertimento e felicità in tante cose semplici e innocenti! E che tristezza fanno i giovani d’oggi, ossessionati con gli elettronici e il sex, e sempre mosci e annoiati! A un certo punto, le ragazze e gli studenti dovettero venir fuori dalla tinozza perché l’uva doveva essere trasferita nelle botti e nel torchio per il mosto. Il Papà, al lato del torchio, chiamava tutti: gli studenti, le ragazze, noi, gli aiutanti e le domestiche: “Venite a gustare il nettare sublime del professor Pedrina!” E tutti lo circondavano riempiendo i bicchieri di mosto con un gran coro di: “Salute professore!” Ed Egli, felice, invitava i suoi studenti: “L’anno venturo verrete ad assaggiare il mio vinello che è anche frutto del vostro lavoro!” Qualcuno chiese come si faceva a sapere quando il vino era pronto, e il Papà spiegava il processo di fermentazione, il tempo necessario, l’importanza di mantenere costante il livello del vino nelle botti, etc… Ricordo vivamente tutto questo perché fin da bambina, lo ascoltavo con grande attenzione; penso che anche i suoi studenti apprezzavano la sua profonda conoscenza di


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tanti svariati soggetti, e ne erano affascinati. Senza dubbio, fu sempre suo vivissimo desiderio condividere non solo la sua conoscenza, ma anche il suo immenso amore ed entusiasmo per la natura e le cose belle della vita. Quel bel giorno della vendemmia stava per finire; era già quasi il tramonto e gli studenti dovevano prendere l’ultimo treno che tornava a Vicenza ma non sembravano affatto ansiosi di farlo; e chi avrebbe voluto por fine a una giornata così bella e gioiosa? O lasciare un gruppo di belle ragazze? Penso che il Papà lo sentiva perché disse agli studenti: “Vi accompagno al cancello!” E poi rivolto alle ragazze: “Volete accompagnare i miei studenti alla stazione?” E le ragazze, con risolini e discreti colpi di gomito, rispondevano: “Certo professore!” Tutti contenti, gli studenti facevano la stessa cosa. Arrivati al cancello, dopo un gran coro di: “Grazie professore!“ “Arrivederci!” “Ci vedremo al liceo!”, il vivacissimo gruppo s’incamminò verso la stazione. Tenendoci per mano, il Papà rimase a guardarli finché le loro voci allegre si persero nella quiete del tramonto. Aida Isotta Pedrina Note: 1 - Quando parlo del Papà, non posso assolutamente scrivere: “ Di Papà, con Papà, a Papà”etc.; al Papà questa forma non piaceva. Diceva che era un’affettazione che non suonava bene e che diminuiva di molto l’importanza e l’autorità di un padre. E portava come esempio il Papa: “Ma si dice: “A Papa, con Papa, di Papa? No. E allora? “ 2 - Questi sono gli unici versi che ricordo perché li avevo imparati a memoria; la poesia era molto lunga ed era in una delle antologie del Papà; vedendo come io ridevo con lui quando la recitava, me la diede da leggere.

Immagini - Pag. 12, lo scrittore e critico prof. Francesco Pedrina intento a potare una vite nella sua villa di Povolaro; pag. 15, Isotta Pedrina a braccetto del padre Francesco.

SENZA TITOLO Vecchio mendico, il mio cielo di notte rumina lustri e decenni, li sfalda li inghiotte. Se a caso talora un attimo

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si salva è bricia non significante, la spina infissa, il nonsenso che smemora insensibilmente. Dove il braccio di mare, onda riavvolta e srotolato invito a lande adorne dell’oro che irraggiava un altro sole? L’ebrietà degli aromi dal deserto, i vaghi sogni al rezzo delle palme, il tintinnìo d’argento agli eucalipti da zefiro recati, o i ghirigori da stella a stella stemmante laudario dell’usignolo? Il mio Eden disperso, ora mi restano il ruminio flottante della notte nel cielo avverso, la fame del tempo, me stessa nel folto nero sospinta dalla dimenticanza. Piera Bruno Genova

LA MIA TIMIDEZZA Un morso alla mela, un calcio al barattolo, vagabonda è la noia tra i vicoli del borgo. Sogno te ancora bambina, fiocchi rossi nelle trecce, carbone negli occhi, profondità nel cuore. Esili le tue gambe saltellano… È tarantella pura, innata al suono dell’armonica stonata. Disegni piroette, intrecci i piedi come chi fa la calza, ripetendo a memoria il tintinnio dei ferri. Che fine hai fatto? Mi appari ad ogni lustro poi scompari nel profondo della memoria, Perché ti nascondi? Tu sola hai saputo darmi la gioia… La gioia del primo amore, l’ardore dell’innocenza che ho custodito in me dietro la maschera della mia timidezza. Colombo Conti


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Presentato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia “A RICCARDO (e agli altri che verranno)” ALL’UNIVERSITÀ DI ROMA TOR VERGATA certo che l’istituto familiare oggi vive momenti di crisi e che la politica, anziché proteggerlo, con i suoi atteggiamenti e le sue azioni - leggi, decreti, regolamenti gli sta assestando il colpo di grazia. Chi ancora ama la famiglia occorre che si mobiliti, usando ogni mezzo a sua disposizione per difenderla. Domenico Defelice l’ha

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sempre fatto in tanti anni di giornalismo e di onesta scrittura fino a dedicarle il suo più recente lavoro, una breve ma intensa silloge di versi, nella quale tratta di matrimonio, del miracolo del concepimento, della crescita del bambino nella gioia e nell’affetto della coppia e toccando anche il problema dell’aborto.

La poesia, si sa, non è scienza sociologica, ma, con la sua capacità di precorrere, di intuire, di unire passato e futuro attraverso la sintesi e con l’aiuto delle tante metafore, a volte affronta e chiarisce problemi assai meglio della scienza esatta. In questo agile libretto, appena apparso nelle edicole, protagonista non è solo un bambino, ma la famiglia, appunto, giacché, anche se in versi, in esso - come afferma Angelo Manitta nella Prefazione - “si trattano temi fondamentali per l’esistenza umana”. Questo importante volumetto, venerdì 24 aprile 2015 è stato presentato presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata. A organizzare e a relazionare è stato il prof. Carmine Chiodo, il quale ha messo in evidenza i vari pregi dell’opera, ideata da Defelice, è vero, per omaggiare il nipotino Riccardo e l’altro appena arrivato Valerio, ma, principalmente, per difendere la famiglia. Sono intervenuti anche lo scrittore Tito Cau-


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chi - che conosce e pratica l’autore da molti anni - e la laureanda Claudia Trimarchi, i quali hanno suggerito particolarità importanti non solo riferiti al libro in specie, ma al complesso dell’opera defeliciana, da sempre concretizzatasi non soltanto in poesia, ma in prosa, giornalismo, critica letteraria e d’ arte, teatro e, fino al 1981, anche in pittura e grafica. Carmine Chiodo ha affermato che molti scritti di Defelice affondano nell’autobiografismo, particolare confermato dall’autore nel suo intervento. Defelice si autodefinisce, infatti, un uomo “blindato agli affetti”, nel senso che riconosce di avere avuto sempre difficoltà nell’ esternarli: un pudore, il suo, legato certamente alla famiglia e all’ambiente culturale regionale assai chiuso, almeno al tempo della sua infanzia. Alcune studentesse hanno posto domande, al-

le quali l’autore ha risposto volentieri, leggendo pure alcune sue poesie, come “A mio padre”, tratta dal volume Canti d’amore dell’uomo feroce (1977), e “La luce e il serpe”, dal volume La morte e il Sud (1971). Una piacevole e interessante iniziativa questa voluta dal Prof. Carmine Chiodo, nei confronti di un autore che, a suo dire, meriterebbe di essere ancor più letto e valorizzato, se non altro per la carica umana e sociale che caratterizza in ogni suo scritto. da Città & City - quindicinale di informazione politico-cultura -, 16/30 aprile 2015.

Immagini: Il Prof. Carmine Chiodo presenta l’autore del libro; Domenico Defelice assieme alla laureanda Claudia Trimarchi e al Prof. Carmine Chiodo; Domenico Defelice risponde alle domande di un gruppo di allieve; il Prof. Carmine Chiodo nel corso della

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relazione; Domenico Defelice accanto a un gruppo di allieve con il Prof. Carmine Chiodo.

LETTERA A UN AMICO SCONOSCIUTO Amico lettore, ti scrivo questa lettera, sapendo che forse non ti conoscerò mai. Scrivo a te che ti trovi in una metropoli, in un paese, in una nave al mare, in un posto nella carta geografica, in un'ora indefinita entro la giornata, in un mese indefinito, in un'epoca imprecisa, in un tempo in cui io continuo oppure no, la mia vita, senza sapere di te. Vorrei che tu sapessi che in questo momento, in questo libro, le immagini, i suoni, le visioni, derivano dai sentimenti e dai miei pensieri, e da tutto ciò che io ho percepito con amore e odio. C'e' la possibilità che tu, dopo una o più pagine, legga le mie poesie con la mia voce. Forse le mie lettere cominciano a scaturire, come se fossero stelle, come uno spruzzo brillante che sgorga dalla carta. Allora, verrai come un fantasma luminoso di amore nel mio ufficio, nelle ore in cui elaboro le mie idee. Verrai nei miei piccoli e grandi istanti della mia vita, parlerai con me, senza che i nostri occhi si siano mai incrociati, senza che l'uno abbia mai visto il sorriso dell'altro. Vorrei credere che viaggeremo insieme come due compagni che cominciano, estasiati, a scoprire un mondo sconosciuto e infinito. Con la forza anche della tua fantasia sono sicuro che sarò una compagnia piacevole per te. Cominciamo allora la conversazione o il viaggio. Usa qualsiasi parola che tu voglia, nella letteratura tutto è possibile, se la ami veramente. Introduzione della raccolta poetica Lettera a un amico sconosciuto (Atene, Diogenis-2007)

Themistoklis Katsaounis Traduzione dal Greco di Giorgia Chaidemenopoulou


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CELLULOSA di Aurora De Luca di Giuseppe Leone

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E pareba boves, alba pratàlia aràba albo versòrio teneba, negro sèmen seminaba. Traduzione Si spingeva avanti i buoi, arava un bianco prato, teneva un bianco versorio e seminava una semente nera. Non è per una dimostrazione di erudizione se riporto i versi dell’Indovinello veronese, li cito perché li evoca Aurora De Luca in questa sua recente raccolta di poesie dal titolo Cellulosa, seconda classificata al Premio Città di Pomezia 2014 e pubblicata su Il Croco - I quaderni letterari di Pomezia-Notizie nel novembre dello stesso anno. E li evoca, marcandoli ancora di più, pure Domenico Defelice, nella sua acuta e illuminante prefazione, dove scrive che: “Tutto è vita nella poesia di Aurora De Luca… perfino l’inchiostro ha vene nelle quali essa circola (e) la penna, poi…, quando, leggera, scivola sul bianco foglio - pelle viva -, è “piena di brividi e lacrime” (2). Ma il critico non lo fa tanto per parlare dell’azione dello scrivere, com’è nelle intenzioni dell’anonimo autore dell’indovinello, quanto per seguire la poetessa nell’atto della scrittura, nel momento in cui abbandona “tra le radici della sua pianta” la tradizione letteraria italiana per trasportare il lettore oltre le parole di carta pesta dove ci sono campi di soffioni intatti / pieni di fiato e di vento, pronti / a spargere cappelli volanti di semi d’idee (2), immergendolo, subito, dentro una fioritura di primizie. E in effetti, secondo Defelice, la De Luca fa presto a cambiare le carte in tavola alla poesia, grazie proprio a questo inchiostro venoso in grado di rivitalizzare un Novecento ridottosi a post di tutte le mode precedenti, pri-

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vo com’è di nuove linfe vitali, non più in grado di poter dire la sua in modo originale. Il fatto che la poetessa chieda al suo corpo ispirazione, fa del suo canto una poesia che vive ma non insegna, che non ha un modello ma che non pretende nemmeno di esserlo per gli altri; che esiste come luce che si accende e si spegne, senza altri doveri se non quelli di produrre frutti che non resistono a lungo, che vanno dalla pianta alla gemma, dal blu puntuto del fiammifero (22) alla fiamma. Eccola come pianta di pero alle sue radici, chiedere al suo corpo di mantenerla in questa difficile impresa e di slanciarla poi verso le azzurre alture con le sue parole in punta di lingua, che come passi lievi… / una volta camminati / non lasceranno traccia alcuna (21). Un’invocazione davvero singolare che porta la poetessa a concepire la poesia nel segno dell’immediatezza e dell’attimo fuggente, quanto basta per tenerla lontano tanto dalle tentazioni della retorica quanto dalle insidie della morale. Per cui, se la De Luca è poetessa è perché a lei riesce il miracolo della creazione, perché sa ancora fondere le parole e la luce, senza dover passare da Omero o da altre officine poetiche per farsi dire come la cosa funzioni. Sa vedersela da sola, si fa per dire, e ottenere la luce dal grido della sua carne senza più mediatori e senza altri appoggi se non quelli che lei sa ritrovare nella sincronia del corpo / tutto dentro il morso saettante del Caso… e tutto… / all’interno di questa carne nuda, / esposta tutta e tutta irrisolta (23). Conformi, poi, a questa sua “poetica della luce e della carne” sono anche le sue concezioni, attraverso le quali la poetessa, vedendo la vita come un affare nostro e del caso, e quando non proprio del caso, della necessità, può scrivere: Abbiamo le sorti del seme / e la terra ci nutre… / Non ci diminuirà il nulla / né il dolore ci infesterà. / Saremo bosco sulle macerie, / campo fiorito in inverno (25). Sono concezioni degne del miglior immanentismo a cui si unisce una fiduciosa attesa della vita e nella vita che non la tradirà, in


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Pag. 20 formance della giovane poetessa, tanto che Cellulosa si potrebbe definire la sua raccolta-manifesto, dove chiare appaiono la sua poetica e le sue concezioni, frutto di novità stilistiche e compositive, di tutt’altra natura rispetto alle sperimentazioni dei cultori della poesia pura e dell’ ermetismo, che così tanto hanno sognato il ritorno alla parola primigenia e incontaminata, completamente epurata da ogni incrostazione storica e ideologica. Giuseppe Leone

quanto espressione di una Natura esatta i cui disegni non sono mai imperscrutabili o esibiti agli uomini sotto forma di prove da superare, tanto che la poetessa non si rivolge mai a Dio. L’unica volta che lo fa, lo fa con piglio leopardiano. Parla da pari a pari, come il genio di Recanati con la Natura o con la Luna: Mio Dio, / tutto è davvero nulla / e il tempo è affamato, / il domani è presto terra del passato, / il germoglio è già sfiorito / e noi / cellule passeggere, siamo in un respiro affidati al racconto / come miti, come falene (30). Dialoga con Dio come se stesse facendo una presentazione della condizione umana, come se questi non ne fosse a conoscenza. Si sofferma sulla terra, su di noi, sulla nostra esistenza e sulla nostra condizione di creature mortali: Non resisteremo un attimo oltre il soffio, / noi che neppure montagna siamo. Ma non solo, continuando a scrivere eppure qualcosa ci erige, qualcosa si fa pietra buona / nelle nostre mani (30), la De Luca parla già da poetessa, da donna che sente che il suo corpo è fatto di cellule istruite per la poesia, una vera macchina scrittoriale, insomma, per dirla con un’espressione che rimanda alla “macchina attoriale”, con cui Carmelo Bene amava definire il proprio modo di essere attore. Un vero azzeramento della tradizione letteraria italiana, e non solo, allora, questa per-

Aurora De Luca - Cellulosa - Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia-Notizie Pomezia (Roma), novembre 2014.

Nella immagine, Domenico Defelice, Aurora De Luca e Sandro Gros-Pietro dell’Editrice Genesi di Torino - alla Fiera del Libro di Roma, Palazzo dei Congressi, EUR.

MADRE Ella carga en los brazos la criatura que ha cargado en el vientre. El universo de las madres es el cielo de cada uno de nosotros. Llevamos su eterno ser en tantas vidas que van sumando a las vidas de nuestros hijos. Un día al año no es suficiente para celebrar tal silencioso poder! Teresinka Pereira USA


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DOMENICO DEFELICE: A RICCARDO (e agli altri che verranno) di Liliana Porro Andriuoli

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L miracolo del nascere della vita sul mondo, che rinnova ogni volta in noi l’ antico stupore, è stato scelto da Domenico Defelice come tema portante del suo recente libro di versi, quasi interamente dedicato all’amatissimo Riccardo, il suo primo nipotino, figlio della figlia Gabriella. A Riccardo (e agli altri che verranno) è infatti il semplice, ma eloquente titolo del libro. Il tema non è certamente nuovo nella nostra letteratura, ma Defelice lo tratta con quella freschezza e con quello slancio che lo fanno apparire ancora una primizia, sia allorché, rivolgendo lo sguardo al passato, pensa al nipotino come a colui che discende da “un albero vetusto / che affonda le radici nei millenni” (“Sei il primo fiore / impastato con le mie cellule, / tasselli d’un albero vetusto / che affonda le radici nei millenni”, Il primo fiore) sia allorché, proiettato nel futuro, vede il bimbo, ormai adulto, vivere la propria vita in un mondo migliore di quello in cui è vissuto il nonno (“Penso come sarà il mondo / visto dai tuoi occhi, / quello che non sarà più mio”, Forse…) ed auspica per lui una Terra ideale, in cui tutti possano vivere una vita degna di essere vissuta (“Ci saranno strade affollate solo / di passanti sorridenti e felici / e piazze brulicanti di bambini”, ivi). Preso dall’emozione, il neo-nonno confida al nuovo nato di aver piantato per lui, il giorno della sua nascita, un albero in giardino, quale segno di augurio affinché “fra cent’ anni”, ormai “vecchio”, possa godere, “felice”, ancora della sua fresca “ombra” (“Ventisei ottobre duemilanove! / … // Bello e biondo, come tua madre. // Nuova vita, nuova stella, / luce nuova per noi tutti s’è accesa. / … // Nel tuo nome ho già piantato un leccio. / Insieme crescerete. Fra cent’anni / vecchio t’ immagino e felice / godere alla sua ombra”, Ho piantato un leccio).

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Ma il pensiero di Defelice spazia anche al di là di queste manifestazioni di pura e spontanea gioia che egli ora, come un qualunque nonno, prova nel vedere prolungarsi una parte di sé nel nipotino (“È sbocciato un fiore / nel ventre di mia figlia. … // Sotto la scorza ruvida / di vulcano addormentato / mi bolle il sangue come lava”, L’annuncio). Egli infatti esprime anche alcune considerazioni generali, che investono la sfera morale e civile dell’ uomo: “Dicono che ancora non sei niente. / I laici lo dicono e la legge: / per giorni ancora, / fino a tre mesi” (Dicono…). Ora per Nonno Domenico tutto ciò non è vero, perché per lui il bimbo è già un essere vivente dal momento in cui gli è stata comunicata la notizia del suo concepimento, seppure manchino ancora tanti mesi alla sua nascita… I genitori gli hanno anche già dato un nome (“Han deciso: ti chiamerai Riccardo. / Il nome recherai di prodi e forti”, Ti chiamerai Riccardo) ed egli pensa al futuro di questo piccolo embrione. Lo vede, ormai adulto, arricchire la folta “schiera” di uomini illustri che si sono chiamati “Riccardo” come lui: dal “leggendario re inglese” al “Vescovo di Andria, / anch’egli inglese”; dal “gran Santo di Wych”, un vero e proprio “astro di carità”, al medico “Pampuri”, che dedicò alla “cura di anime e di corpi” la sua vita. Tutti uomini buoni e generosi, ricordati essenzialmente per le loro doti morali e tutti con lo stesso suo nome: Riccardo. Fra questi suoi illustri omonimi predecessori e tra tanti “altri ancora” potrà scegliere, domani, il suo modello di vita: “Sarai tu stesso a sceglierti il campione. // Ricco ed ardito: / come lo sono i cuori degli eroi” (Ivi). Molta è la tenerezza che prova Nonno Domenico per il nuovo nato e profonda è la gioia che invade il suo animo, allorché scopre in lui i gesti che già furono dei figli e che saranno di tutti gli altri figli dei figli che verranno in seguito. Così si commuove quando il bimbo sorride o piange; ed è rapito dalla visione della madre mentre se lo stringe al seno. Ma ancor più lo commuovono le moine che il bimbo fa per attirare l’attenzione degli adulti e soprattutto la sua meraviglia di fronte al ri-


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velarsi delle apparenze del mondo esterno: “All’improvviso un ritmo t’incanta: / l’arte amerai che la parola avanza, / che sembra muta e invece al cuore / più profondamente parla?” (Sorriso legato alle galassie). In tal modo, giorno dopo giorno, tra la commossa e costante ammirazione del nonno per i suoi continui progressi, ha inizio l’ avventura del piccolo Riccardo sul mondo; un’ avventura che lo porta a fare continuamente nuove esperienze e nuove scoperte che accrescono il suo sapere: “T’incanta lo schermo del computer. / Mi scruti digitare. / Seduto sulle mie ginocchia / cerchi imitarmi sulla tastiera / battendo le manine alla rinfusa” (In voi spontaneo, naturale); “Sei partito per una vacanza in Sardegna. / … // Sei salito sopra una nave / a neppure un anno. / Io ne avevo venti!” (L’amico Salgari, sopra tutti amatissimo). È questa l’avventura che lo porta a compiere sorretto dai parenti i primi passi per poi, domani, prendere da solo la sua strada nel mondo: “Un anno, il primo! / Se non cammini ancora spedito / è per la troppa fretta di andare…” (La poesia del suo scorrere lento); e, poco dopo, soggiunge: “Da qualche mese cammini. / Libero finalmente / d’ esplorare ogni angolo di casa. / Verrà la strada, il mondo, / col mistero della vita, fitto fitto / che preziosa la rende, affascinante” (Inseguire verità e bellezza). Così i giorni si susseguono assidui e veloci e, col loro trascorrere, Riccardo cresce e s’impossessa del dono della parola, che per il nonno ha echi dolcissimi: “A chiamarmi nonno / è stato per telefono, dal mare / di Puglia arroventato” (La prima volta), ricorda ancora con emozione. E, dopo le prime parole, ecco il momento in cui il bimbo pronuncia le prime frasi. Particolarmente gradite risultano al nonno quelle che rivelano la fiducia che Riccardo ripone negli adulti che lo circondano, e in particolare in lui: “Nonno, dici alla nuvola di andarsene? / Voglio il sole.” (Forse, in qualcuna, scorgerai il mio volto). È infatti convinto, il piccolo Riccardo, che il nonno sia onnipotente e che, quindi, possa anche “comandare le nuvole” a suo piacimento:

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possa pertanto far allontanare “quelle nere / che coprono il cielo di gramaglie”, lasciando solo i bianchi cirri a brucare a loro piacimento nell’“azzurra prateria” del cielo. Ed ecco poi, col passare del tempo, anche il momento in cui per Riccardo giungono inevitabili i primi dispiaceri e le prime angustie: “Neppure due anni / e già ti assilla la Scuola Materna / … / Un assaggio. Uno dei primi. / Il meno lacerante / di quelli che la vita ci riserba” (Un assaggio). Ed è questo il momento in cui giungono anche i primi divieti e le prime regole da rispettare: il momento in cui Riccardo deve cominciare a comprendere, anche se è ancora un bambino, che non tutto ciò che ci circonda ci appartiene e che anche gli altri esistono, con uguali diritti e doveri; sicché la nostra libertà finisce dove inizia quella altrui. Avviene allora che, di fronte al bimbo che “con forza, / quasi con cipiglio” afferma “E’ mio!”, il nonno senta il dovere di educarlo e si assuma il compito di fargli “capire che mio / sta bene insieme a tuo / nostro vostro loro” e che “Nessuna cosa è bella nella vita, / la vita stessa se non [è] condivisa” (La vita stessa se non condivisa). Nascono così in tanta felice armonia, anche i primi contrasti tra il nipote (che vuole vedere realizzato qualunque suo desiderio, ma che ancora non distingue “il giusto dall’ingiusto”, / il bene dal male”) e il nonno, che è dibattuto fra il desiderio di accontentare il nipote e il dovere di insegnargli a distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, e che per questo suo dissidio prova dolore: “Il cuore lacerato ho dalla pena / allorché non ti parlo, deciso / a punire i tuoi capricci” (Anche a costo di vederti piangere). Si tratta comunque di contrasti di breve durata, dato che ben presto l’armonia ritorna fra loro e il nonno può nuovamente raccontare al nipote Le fiabe, tra divano e poltrona e vivere con lui “istanti felici”: “Cinque anni, Riccardo! / Torno a guardarti / giocare accalorato. / … / Che gioia la tua festa! / Non sarà così sempre. / Ma ti siano stimolo e fortezza / questi istanti felici” (Ti siano stimolo e fortezza). Ed infatti anche per Riccardo giunge pur-


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troppo l’esperienza del dolore; un piccolo dolore, causato dalla morte di Meghi, un semplice cane, la cui memoria però “è rimasta nel cuore” del bimbo per lungo tempo: “Ogni tanto mi parli di Meghi / a mesi dalla morte. / T’è rimasta nel cuore. / Gli occhi ti si appannano”. Rapido allora in questi momenti interviene il nonno, che cerca di distrarlo e di fargli dimenticare la prima esperienza dolorosa della sua vita… (Meghi). Riccardo non è destinato comunque a rimanere a lungo l’unico nipote di Nonno Domenico dato che Emanuela, la moglie del figlio Stefano, è già in attesa di Valerio, che nascerà infatti poco dopo la pubblicazione di questo libro, la cui seconda parte gli è dedicata. Si tratta di una parte composta soltanto da cinque poesie, e quindi numericamente più esigua rispetto alla prima, ma ricca di una calda umanità, che tutta la pervade. Anche a Valerio il nonno riserva parole piene di grande affetto: “Appena percepito, / appena un’unghia / e già ansie procuri / a noi che ti aspettiamo, / alla tua mamma” (Perché tu venga); “Sei atteso a primavera, / nel sorriso di aprile. // Quale sarà il tuo ruolo / nel teatro del mondo / non è dato sapere; / esso, però, sta scritto già dal Fiat / nei disegni divini” (Il tuo ruolo nel teatro del mondo). Il libro si chiude con una poesia, Sarete il mio futuro, nella quale il nostro poeta esprime la sua gioia al pensiero che qualcosa di lui sopravviverà, attraverso i nipoti, sulla terra dopo la sua morte: “Non morirò del tutto. / Vedrò la luce con i vostri occhi, / i colori, le forme, / le tante meraviglie strepitose” (Sarete il mio futuro). Ed è questo un pensiero consolante, che rasserena il suo animo e lo riconcilia con la vita, al di là di ogni affanno e ogni pena. Con esso Domenico Defelice chiude un libro scritto con pienezza di cuore, ma anche con quella scioltezza e con quel gusto della parola poetica, franca e disinvolta, che caratterizzano da sempre le sue raccolte di versi. Liliana Porro Andriuoli

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DOMENICO DEFELICE: A RICCARDO (e agli altri che verranno) - Ed. Il Convivio, Castiglione di Sicilia, 2015, € 10,00. Questo interessante articolo di Liliana Porro Andriuoli l’abbiamo preso dal blog Solofra oggi, di domenica 17 maggio 2015, sul quale viene riportata anche la notizia della presentazione del libro all’Università di Roma Tor Vergata. Nell’ immagine qui sotto, nonno Domenico con Claudia Trimarchi e il Prof. Carmine Chiodo.

SORRISO LEGATO ALLE GALASSIE Non articoli ancora la parola e t’esprimi con gesti e suoni gutturali. Ci catturi con gli occhi azzurri. Apri le braccia, ti stringi al petto, sgambetti e ci strattoni verso l’oggetto che ti attrae. All’improvviso un ritmo t’incanta: l’arte amerai che la parola avanza, che sembra muta e invece al cuore più profondamente parla? E sorridi! Un sorriso divino, legato alle galassie. Anche noi tutti siamo stati angeli all’alba della vita, poi negli anni contorta! Breve è nell’uomo l’innocenza. Domenico Defelice


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UN VIAGGIO NELL'ANIMA, ANDATA E RITORNO

L'ultimo poemetto di Imperia Tognacci di Luigi De Rosa

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L titolo dell'ultimo libro di poesia di Imperia Tognacci, la scrittrice che vive a Roma ma è originaria di san Mauro Pascoli, è Là, dove pioveva la manna, ed è stato pubblicato dall'Editore Giuseppe Laterza di Bari, che ne ha scritto anche la presentazione. Ad introdurre il libro è un breve ma corposo saggio di Andrea Battistini, docente di Letteratura Italiana presso l'Università di Bologna, mentre la postfazione è firmata da Angelo Manitta, direttore de “Il Convivio” e di “Cultura e prospettive”. Del poemetto in questione mi ero già occupato in un apposito capitolo (il Decimo) del mio volume dedicato a Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa (Laterza Editore, Bari 2014). Allora il poemetto era ancora inedito come volume a se stante. Le tre versioni fattemi pervenire dall'Autrice avevano costituito la base per un primo lavoro di inquadramento critico, di parafrasi e commento del testo, di cui avevo valutato subito la superiore qualità poetica e di pensiero rispetto a tutta la produzione poetica precedente della Tognacci, da Traiettoria di uno stelo (2001) fino ad oggi. Mi ha fatto quindi molto piacere vedere poi il poemetto pubblicato come volume a se stante, con lo stesso titolo, con le stesse 7 Sezioni (Il sé come orizzonte, Spazio aperto, Non siamo separati, Per sentieri di sabbia e di vento, Alzo segnali di fumo, Nell'eternità dell'anima, Verso Aqaba) e con alcune modifiche (tutte ad ameliorandum), e soprattutto con i giudizi particolarmente positivi di Laterza, Battistini e Manitta. Condivido quanto scritto,tra l'altro, da Giuseppe Laterza : “Nel deserto della sua esistenza, l'uomo percepisce il dovere di essere attimo di eternità, punto finito e reale di una retta infinita che porta con sé il tutto...”

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Così come concordo con Andrea Battistini sulla individuazione dell'obiettivo del libro: “ Non a tutti è dato di essere stati “Là, dove pioveva la manna”, ma l'obiettivo della raccolta è di consentire che attraverso l'esperienza singola della viaggiatrice i lettori rivedano se stessi, si guardino con sguardi diversi e inattesi....Bisogna che, con l'aiuto della poesia, si arrivino a scorgere le cose con occhi nuovi, per sconfiggere la routine, la prevedibilità delle frasi fatte, e per rivitalizzare la realtà, riscattandola dai miraggi e dalle mistificazioni attraverso una prospettiva che ottativamente aspira all'eterno, ovvero all'irrisolto mistero dell'altrove...” Come diceva mons. Michel Laroche, un teologo ortodosso francese che ha scritto opere di Patristica e sulla filosofia dei Padri del Deserto, c'è chi si perde nel deserto perché col pensiero è rimasto nel mondo, e c'è chi si salva perché, pur essendo nel mondo, è nel deserto con il pensiero. Qui c'è il mondo, rappresentato dai luoghi in cui viviamo, Roma o qualsiasi altro luogo, nella parte tecnologizzata del pianeta. E c'è il deserto, rappresentato, fuori di metafora, da uno dei paesi visitati, in tanti viaggi culturali e spirituali, dalla scrittrice Tognacci, e precisamente la Giordania, nei luoghi in cui anticamente, secondo la Bibbia, piovve la manna dal cielo, in soccorso di una umanità perduta e bisognosa. Non facciamo in tempo a ripensare al volo di Icaro che ci balza alla mente l'immagine di Ulisse, di quell'uomo insaziato di futuro che non resterà tranquillo nella sua Itaca neppure dopo vent'anni di lontananza e mille peripezie. Anche nel deserto, però, oltre al fascino del passato e del mistero, si possono trovare i minacciosi fantasmi dell'odio e di guerre fratricide, la fallacia di luci bugiarde, l'inanità di una vita di massa anonima e ripetitiva, l'insicurezza e i pregiudizi che minano la nostra pace interiore. In un susseguirsi snervante di dubbi e di punti fermi, di delusioni e speranze, il poemetto si avvia verso la conclusione, verso il


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ritorno alla propria terra, di cui il vento, nell' ultima sezione (Verso Aqaba) porta alla poetessa i presagi ( solenni alberi e sorrisi di colline...): “ ...Onda di ritorno mi riporta tra le trame delle mie radici, dove, in solitarie stanze, soffio di parole mute accarezza lo scialle abbandonato sulla spalliera. Alzerete di nuovo la fronte, spighe, risponderete all'appello del sole. ….Torno tra le illusioni demolite sperando che, pietra su pietra, sorga un mondo migliore. ...Batte alle porte del cielo una nuova alba, mentre, vestite di sole, si dileguano le coste di Aqaba.” Il volume si conclude con le considerazioni di Angelo Manitta, che tra l'altro scrive : “ Nella rapina del tempo si scorgono le mete, si possiede la consapevolezza che l'anima soggiace a regole immutabili e che l'uomo attraversa il deserto della vita finché “dalla profondità / del nostro essere riaffiori / il Verbo che ci indichi la strada”. A questo punto il viaggio reale e quello immaginario coincidono, il viaggio verso l'Oriente e quello verso la verità si fondono e divengono un tutt'uno.” Luigi De Rosa

Mare mare mare fammi passare

Imperia Tognacci – Là, dove pioveva la manna – Giuseppe Laterza Editore, 2015 – 80 pagg. - 12 €.

Roma Sono 22 i libri di poesie pubblicati in Italia da Corrado Calabrò e 32 quelli pubblicati all’estero, in 20 lingue. Tra i principali: Una vita per il suo verso, Oscar Mondadori, 2002, e La Stella promessa, Lo Specchio Mondadori, 2009. L’ultimo suo libro (il quinto pubblicato in Spagna), è Acuérdate de Olvidarla (Ricordati di dimenticarla), vincitore del Premio Internacional de Literatura Gustavo Adolfo Bécquer 2015. Delle sue poesie sono stati fatti anche vari compact disks con le voci di Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Giancarlo Giannini, Walter Maestosi, Paola Pitagora, Alberto Rossatti, Daniela Barra. I suoi testi sono stati presentati in teatro, in recitalspettacoli, in 34 città italiane e anche all’estero. Per la sua opera letteraria è stata conferita a Calabrò la Laurea honoris causa dall’Università Mechnikov di Odessa nel 1997, dall’Università Vest Din di Timişoara nel 2000 e dall’Università statale di Mariupol nel 2015.

CANTO SENEGALESE A LAMPEDUSA Mare mare fammi passare Il mare è aperto come il deserto quando è piatto ci puoi camminare Il mare cambia come cambia il vento ma è il terzo giorno e non si vuole calmare

C’è un’isola - hanno detto in mezzo al mare la luna ci vuole accompagnare Luna luna portami fortuna terra terra non m’ingannare Mamma, oh mamma! Il mare è grande - tu me lo dicevi ma indietro non posso tornare Mamma mamma il mare è fondo ma ora piglia sonno c’è un’isola - hanno detto - in mezzo al mare la luna è grande e ci vuole accompagnare piglia sonno e non mi pensare. Mare mare fammi passare indietro non posso tornare. Indietro non posso tornare! Corrado Calabrò


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MARCO ERCOLANI: SENTINELLA di Elio Andriuoli

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ENTINELLA ha intitolato Marco Ercolani il suo nuovo libro, che ha per contenuto delle massime o dei pensieri che paiono dare alla raccolta un carattere meditativo, ma che, a ben guardare, risultano sovente percorsi dal soffio della poesia. E’ inutile dire che la “sentinella” di cui si parla nel titolo è proprio l’autore, il quale guarda a ciò che accade nel mondo esterno o nel proprio io più segreto con quell’acutezza di sguardo e con quella lucidità d’intuito che lo portano a delle felici scoperte. Così, ad esempio, nella prima parte del libro, Stato d’assedio, egli annota: “La poesia nasce da uno shock emotivo che non è riconsegnato al silenzio”; “L’orizzonte che percepiamo aspetta di diventare un miraggio”; “Il limpido atto creativo deriva da una torbida foresta di analogie”; “Lo splendore di qualsiasi cielo finisce sempre nel buio”: il che sembra costituire un invito a riflettere su alcuni aspetti dell’arte dello scrivere o sulla realtà nella quale siamo immersi con maggiore attenzione, nel tentativo di penetrarne l’intimo significato. Le meditazioni di Ercolani nascono sovente come l’espressione di un’ansia metafisica; quasi come il tentativo di penetrare in qualche modo il mistero che ci racchiude; sicché la sua parola assume un andamento sapienziale e sembra diretta a rivelare delle verità prima ignorate: “Chi sale nella terra emersa, ha nostalgia del fuoco”; “Ci rigiriamo nel cosmo, la sintassi incerta, persi nell’aria”; “La deriva è una luce senza origini”. Quella di Ercolani è una ricerca su ciò che siamo e sul significato del nostro vivere nelle pieghe del tempo, nell’attesa che qualcosa o qualcuno si riveli e ci dia un segno chiarificatore dell’avventura. “Nessun miraggio: Ma l’ansia che ne esista uno”; “Chiudi gli occhi. E’ tuo, il naufragio”; “Le verità sono soprassalti”.

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Molte di queste massime (specie quelle contenute nella sezione Per la mano sinistra) sono dedicare all’arte dello scrivere, sulla quale più a lungo l’autore si è soffermato con la sua meditazione, dato che anch’egli l’ha assiduamente praticata. Ne sono così sortiti parecchi profondi pensieri, quali: “Si può essere originali ripetendosi all’infinito”; “Ogni poeta è immerso nel sonnambulismo che lo guida al prossimo verso”; “Nessuna opera vera corrisponde a qualcosa se non al sogno del suo autore”; “Il linguaggio può trasformare, ma bisogna esserne all’altezza”; “Ripeto con le mie parole le idee degli altri, perché diventino mie”; “Scrivere è un atto di violenza, un magico errore, una gioia senza nome”; “La poesia è abitare desideri impossibili”; “La poesia vive nel sonno che ne matura il risveglio”; ecc. Oltre a questa assidua riflessione sul lavoro dello scrittore, sia esso un romanziere o un poeta, si trovano in questo libro pensieri profondi riguardanti il nostro quotidiano essere al mondo, quali: “La luce è segreta a chi la pensa”; “Il sonno rende la veglia un territorio misterioso”; “Annottare, ma lentamente”; ecc. Seguitando nella sua riflessione esistenziale e critica, Marco Ercolani ci offre nelle successive sezioni del libro: Un io, forse; La lezione necessaria; Suono finale, altre acute osservazioni sulla nostra condizione umana ed altre meditazioni sull’uso della scrittura (non bisogna dimenticare che questo autore ha oltre a numerosi libri di narrativa ed uno di poesia, al suo attivo due volumi di critica letteraria sulla poesia contemporanea: Fuoricanto e Vertigine e misura). Tra le massime e i pensieri contenuti in queste sezioni ne riportiamo alcuni che ci sembrano maggiormente significativi, come: “Lo spazio bianco, a sinistra del foglio, sono io muto nell’ombra”; “Una fessura nella cascata: la tua voce”; “Una fessura nella pietra liscia. Un io, forse”. Ed è specialmente qui che la parola di Ercolani sembra maggiormente assumere un movimento ed un ritmo che sono propri della poesia, come avviene in questo breve testo: “Do-


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ve cammini/speri/guardi il fuoco/stringi le gambe/tieni ferme le ossa/sei” o ancora: “Guardo i numeri, le fosse./Niente che sia per noi. Niente che torni./Forse un coccio di vetro, nella terra smossa. / Ma nessun Messìa”. Nella sezione La lezione necessaria invece Ercolani ci offre delle riflessioni che si riallacciano alla sua produzione critica, quali: “Preferisco scrittori dalle idee straordinarie e dai libri illeggibili a scrittori dalle idee mediocri e dai libri leggibili” o Gli artisti contemporanei sono incapaci di una visione unitaria, devono sprofondare nel dettaglio, per inventare”. Nell’ultima sezione della raccolta, Suono finale, Ercolani ritrova il suo andamento meditativo e un po’ surreale in testi quali: “Le ombre non parlano di noi perché noi parliamo alle ombre”; “Che nome ho senza la voce che mi chiama?”; “Albero. Un nulla di rami, nel buio”. La chiusa della sezione però acquista slancio e ritmo, sicché l’impressione che se ne ricava è quella di una continua osmosi tra attività speculativa e creazione poetica, avvertibile in particolar modo in testi quali: “L’ orizzonte che percepiamo aspetta di diventare un miraggio” o “Lo splendore di qualsiasi cielo finisce sempre nel buio” o ancora “Chiudi gli occhi. E’ tuo il naufragio”. Il che trova conferma anche negli ultimi testi del libro, nei quali la voce dell’autore si fa sempre più veloce e come presa dall’ansia espressiva: “Mi salva dalla morte una parola a cui non hanno tolto la luce. / Apro gli occhi: scintilla come una lama. // Incido città favolose e inutili, fatte di nuvole e foglie. // Sopporto le domande, conosco le risposte. // Uso il remo per sollevarmi da letto. // Scrivo per ridurre il foglio a carta bianca. // Sono io la sentinella”. Un libro complesso e nuovo, dunque, quest’ ultimo di Marco Ercolani, che si presenta come un’opera nella quale il pensiero e lo slancio poetico continuamente si alternano e sovente si fondono, con risultati senza dubbio pregevoli, certo degni di molta attenzione. Elio Andriuoli MARCO ERCOLANI: SENTINELLA - Edizioni Carta Bianca, Monteveglio (BO), 2011, € 12,00.

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ASCOLTARE IL SILENZIO Ascoltare il silenzio nel percorso segreto del vento, nel sole che riscalda la terra, nell'azzurro cielo invaso di uccelli dorati, ed è gioia questo attimo infinito di silenzio che ci avvolge, nella mutazione del tempo, solamente il silenzio resterà chiuso nel respiro della sera. Adriana Mondo

VIVO STUPORE Palpare la fine nella sua tangibilità respirare più di ora librare d’essere in vivo stupore Filomena Iovinella Torino

DUSTY ARENA & IVORY TOWER (in ricordo di Liliana Rattaggi Zucchetti) Anima sfolgorante di colori, forte e solare, sei volata via verso l’azzurro cielo negli albori di un giorno di mimose e di allegria. Ora ti penso e con malinconia ricordo i nostri giovanili ardori: il Dusty Arena Club, la poesia, la musica, i discorsi sugli autori dei libri letti, la filosofia di quel lontano oriente che ci dice che l’esistenza è eterna ed è armonia… Ed io vorrei che come la Fenice tu risorgessi viva per magia dalle tue ceneri, sana e felice. Mariagina Bonciani Milano


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Giugno 2015

GLI EROI DI EL ALAMEIN IN UN GRANDE ROMANZO DI

ANNA AITA di Leonardo Selvaggi I A storia diventa memoria fermentante negli animi, tramandata nei secoli, quando viene acquisita dalla passionalità e dal trasporto di una interiorità sofferta. Lo storico Aldo De Gioia rende fermi, sempre vivi i suoi ricordi della guerra mondiale, delle battaglie di El Alamein attraverso la espressività sapiente e la fine istintività di Anna Aita, autrice di un romanzo di grande attrattiva per drammaticità e intensi stati psicologici combattuti, con nostalgia e dolore, tormenti senza fine: una vita martoriata da lacrime e da affetti rimasti come fatti a pezzi, sparsi e lacerati. Anna Aita nell’opera “La lettera smarrita - dai ricordi di Aldo De Gioia”, stampata nel settembre 2011 dalla RCE Multimedia ha un caldo scorrere di umanità tra le pagine alimentate dai più profondi sentimenti, in uno schietto linguaggio che viene da un animo sensibile che si emoziona e si esalta nella narrazione di eventi storici che non si dimenticano. Oltre ai racconti dei reduci, le ansie per i figli e i mariti al fronte, i contenuti di alcuni appunti, sfuggiti ai bombardamenti aerei, fanno la trama narrativa del romanzo. Norberto è il protagonista che negli anni dell’adolescenza vive a Napoli lontano dal padre combattente in Africa Settentrionale, è con lui la madre e la sua amata Livia, attraversano periodi di privazioni e di paure. Anna Aita ha pagine che, per chiarezza e vitalità, fluiscono da una mente riflessiva, i fatti una volta appresi si imprimono come quadri in piena animazione. Norberto è uno studioso di storia patria, conosce di Napoli tutti i luoghi più significativi per arte e storia. Il romano fa rivivere ambiente, condizioni sociali e disagi di una città sconquassata dai bombardamenti. Le idealità fasciste sono impresse dappertutto, tanto amor di patria tiene le men-

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ti deste con ardore. Ai fatti tragici di El Alamein si accompagna l’incancellabile amore di Livia, dagli occhi sfavillanti pieni di sorriso. Abbiamo una sensazione continua di illuminazione che si mette contro il frastuono delle battaglie, secondo quanto espresso nella postfazione di Fulvio Castellani. C’è del drammatico, del romantico, del surreale. I fatti di guerra accendono l’immaginazione, si cerca di sfuggire a se stessi, alle proprie lacerazioni, eroso il cuore rattristato, pare una fossa colma di languore e di lacrime. II Norberto partirà per El Alamein dove suo padre è sepolto con tanti soldati a significare orgoglio e patriottismo. Fra quello che ha messo nella valigia c’è un libro acquistato sulle bancarelle a San Biagio dei librai, il titolo “L’ impossibile amore” scritto a caratteri di fuoco. L’ immagine della donna in copertina nella sua espressione enigmatica si unisce con l’ansia dominante di visitare El Alamein. Dopo una notte insonne Norberto è entusiasta del grande viaggio sempre desiderato. Anna Aita ha una parola creatrice, realistica e nel contempo impressionistica: anima poetica, spontaneità di eloquio, di accesa fantasia nelle descrizioni. Norberto vive un’atmosfera magica, ha davanti un cielo immenso in cui domina il sorriso della luna su un ampio volto misterioso, sembra un personaggio del romanzo. L’ ansia è superata da uno stato di inquietudine. Fra la varietà tormentata dei pensieri si risente la canzone “Tornerai” che per tanti ha voluto essere voce della speranza, ha seguito per giorni e giorni le trepidazioni di una vita angosciata. In aereo appare la visione di via Marina con i soldati che stanno per imbarcarsi, madri, mogli, figli nell’ultimo abbraccio. C’è un’aria di dolore, non manca l’ottimismo del sentimento patrio come bagliore di sole, ci si vede frementi vincitori gloriosi. Norberto stanco, appoggiato al sedile si addormenta, si sveglia alla voce di sua madre che gli appare sempre saggia, bella, sente la sua mano delicata, acanto è Livia, compagna di scuola, dolce, limpida sul volto. La mamma pronta ad


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insegnargli qualcosa di nuovo, accende in lui curioso voglia di sapere. Anna Aita ama la bella Napoli, ce la fa vedere com’era nel 1942, al tempo di Rabagliati, del poeta Libero Bovio, dei piccoli Balilla, orgogliosi, ordinati, devoti alle regole e ai principi del regime, con senso di rettitudine, con onore e responsabilità. Fra i tanti combattenti diretti a El Alamein c’è uno scambio di ricordi sulle battaglie. Le decimazioni di uomini che avvengono ogni giorno, si vive di terrore, gli scoppi dei tubi di gelatina fanno tremare la terra. Nell’aria polverosa saltano rottami e militari straziati. Si parla dei governanti inetti e incapaci, una enorme discrepanza esiste fra i mezzi in abbondanza di cui dispongono gli Inglesi e quelli dimezzati degli Italiani. Oltre alla quantità, il nemico è favorito dalla efficienza di armi moderne. Nonostante tutto, l’eroismo dei nostri militari e la loro impetuosità hanno dato in certi momenti ottimi risultati. All’ insaputa la grande offensiva, fra il 23 e il 24 ottobre, una vera valanga cade sulle misere forze italo- tedesche. Norberto interviene, parlando dei pericoli che tenevano atterriti in ogni luogo di Napoli. I bombardamenti erano catastrofici, le costruzioni saltavano in aria come cartapesta, la vita delle persone agli estremi della sopravvivenza, privazioni, miserie materiali e morali all’infinito. III Anna Aita con intensità di pensieri, risonanti in estensione e raffinatezza di stile, le sue capacità di narratrice hanno raggiunto immediatezza di intuito e una passionalità erompente di partecipazione ai fatti esposti. Tanto calore di un animo in emanazione di sentimenti e di razionali modi di sentire. Il romanzo “La lettera smarrita - dai ricordi di Aldo De Gioia” si evidenzia per le eccellenti qualità, ricchezza di contenuti, storicità di documentazione, pagine che generano sensazioni di smarrimento: guerra, morti e distruzioni, eccidi martirizzano i sensi più interiori del nostro essere. Per preziosità ed elevatezza della narrazione un’opera storico-letteraria perfetta di grande valore che porta Anna Aita

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ad essere una scrittrice fra le più rappresentative del secolo ‘900. Conosciamo la raccolta poetica “Così la vita” in cui si estrinsecano estrosità immaginativa, sentimenti di saggezza umana, ricchezza ispirativa, armoniosità dei versi. Non è molto, abbiamo letto il volume su Beato Giustino, il santo dei Campi Flegrei. Ora un vero dono alla sensibilità di tanti lettori ha dato Anna Aita, un romanzo su El Alamein, un evento bellico fra i più drammatici che si conoscono. Riunisce tutte le sue doti espressive di emozione e di acutezza intellettiva. Un’opera tutta sostanza di essenzialità, purificata che richiama alla fratellanza, all’amore, innalzata agli alti principi delle fondamentalità della vita. Anche come saggista e giornalista pubblicista la produzione è varia. L’ansietà di conoscere la porta ad essere ricercatrice di verità con un ampio spirito di osservazione e un’attitudine a meditare sui fatti culturali e sociali. Il romanzo “La lettera smarrita” ha una sinteticità ideologica che rende Anna Aita aperta con una complessità di vedute. Il suo campo esplorativo coinvolge il lettore, rendendolo edotto delle realtà straordinarie che hanno tanto influito sulla maturazione delle varie problematicità del nostro tempo. Dai racconti dei reduci dalle battaglie di El Alamein la Folgore si è distinta per la propria autentica temerarietà fino al punto estremo di consumazione delle azioni di ardimento, le pagine si illuminano di poesia che fanno del romanzo una vera opera d’arte compiuta e grandiosa, Anna Aita è fiammante e irrompente, ama la vita in tutti gli aspetti, di lotta, di resistenza nelle disavventure, ha una icasticità d’immagini. I nostri eroi paragonabili a cubi di ghiaccio che si liquefanno sulla ghisa bollente. I pochi superstiti, presi dalle virtù patrie, in furiosa esaltazione si lanciano inermi sui carri armati inglesi. Rommel, la famosa volpe del deserto, rimane impressionato dal gesto dei nostri pochi Italiani, ultimi ad emanare, come invasati, luce di abnegazione eroica dopo la strage fatta dalla stragrande forza di armamento del nemico. IV


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L’aereo sta per atterrare, la pagina descrittiva è di commozione, di una incomparabile bellezza, lo sguardo si ipnotizza all’ apparizione del deserto che l’immaginazione vede ancora come il luogo della stravolgente battaglia. L’illustrazione, in prima di copertina, del deserto ondulato con il giallo della sabbia tra ombre e luce dà all’opera un significato di sacralità, come un velo delicato e leggero custodisce per sempre il ricordo degli eroi in tutto il loro impeto di generosità e di amore. La loro spiritualità s’aggira nel silenzio del deserto, le loro voci, come echi, vanno per le invisibili lontananze, per terra e per il cielo, senza fine la loro esistenza è incancellabile nei nostri animi. Di pagina in pagina, tra battaglie sul deserto e ricordi di Napoli, immaginiamo la presenza di Anna Aita fremente in lacrime. Il romanzo si riempie di sofferenze, la figura dei soldati eroici ci innalza in atmosfera di divinità. La poesia di Aldo De Gioia premiata in Campidoglio è come luce che non si spegne, è un inno che inneggia alle gesta eroiche di El Alamein, ci colma di entusiasmo e di trepido amore: la nostra mente tutta presa dalle memorie della grande storia. Anna Aita con l’opera che abbiamo fra le mani come libro sacro ha voluto festeggiare, si può dire, nel modo più solenne, il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Sono i ricordi di ardimento che portano in alto il nome d’Italia, il carattere adamantino dei combattenti, esaltati da spirito di fede e di speranza verso un avvenire migliore, di pace, senza guerre, ricco di virtù. La poesia di El Alamein, i ricordi della guerra d’Africa di Aldo De Gioia riportati nel romanzo di Anna Aita fanno vivere tempi terribili. Il romanzo e la poesia premiata sono capolavori per contenuti umani, per solidarietà, di grande impegno sociale nel nostro tempo materialista, aprono cammini diversi, più giusti, senza orgoglio e versamento di sangue, con spirito di vocazione verso un progresso civile, con religiosità verso la vera esistenza, quella che crea armonia, vicinanza con gli altri. Norberto è arrivato in albergo, l’ ambiente ornato e lussuoso: vede nel rosso del tramonto con un senso di infinito due co-

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lombe sfocate dall’oro accecante del sole incrociate in un afflato d’amore. Armonia e pace si vogliono fra gli uomini. Anna Aita è una poetessa oltre che scrittrice, ama i colori e le sfumature, gli spazi, la luce che si espande verso lontani orizzonti. Norberto si addormenta dopo una giornata di grande movimento. Ritorna ai vecchi ricordi: Napoli tartassata dalle incursioni aeree, si è nella miseria e nell’abbandono, senza luce e senza acqua. Si vive di stenti che lasciano stremati, manca tutto, una città diseredata. Arrivano gli Americani il 4 dicembre ’42. I primi bombardamenti con feriti e morti. Norberto ha otto anni, si sente già maturo, giorno per giorno segue i bollettini di guerra. C’è l’obbligo dell’ oscuramento, le finestre delle case rimangono al buio. Si sveglia Norberto, qualcuno ha bussato alla porta, si parte per l’ambasciata. Si parla sempre di El Alamein, si fa sera, pensando all’indomani, al grande evento, la visita del Sacrario. V Il romanzo ha una concretezza che si insinua in ogni parte di noi, ci sensibilizza e ci addolora. I racconti di Aldo De Gioia, gli Appunti ritrovati dopo la guerra prendono dinamicità, armoniosità e compostezza narrativa dalla spiccata personalità di Anna Aita. Si rendeva proprio necessaria la comparsa di un romanzo sensazionale per vivere fatti che arricchiscono di riflessione e di principi morali. La scrittrice di Napoli ha dato luce con acutezza critica a un periodo storico fra i più tragici e catastrofici della storia, c’è tutta se stessa, cultura, profondità di pensieri, capacità interpretative, non mancano gli aspetti di magicità insiti nell’uomo, vengono dalla complessità dell’animo. I momenti di crisi fanno rivedere gli attimi felici che sono rifugio alle proprie lacerazioni. Visioni surreali superano le situazioni drammatiche. Previsioni, esplicazioni di fatti che divengono rivelatrici di verità. Convergenze di circostanze che danno significazioni. I ricordi, gli affetti sono incisi nella mente, sono sempre pronti a scomparire. Le divisioni Folgore, Littorio con i pochi su-


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perstiti vanno al massacro, la nostra Ariete con la misera consistenza delle truppe nell’ aggrovigliarsi di attacchi e contrattacchi si viene a trovare isolata nel folto della mischia, così che i suoi carri uno dopo l’altro esplodono o si incendiano, mentre i bersaglieri dell’ 8° reggimento sono ricoperti da un violentissimo fuoco d’artiglieria. In aiuto dell’Ariete interviene la Trieste che si prodiga con la propria artiglieria che salta in aria quasi tutta. Siamo alla ritirata, considerata inutile ogni ulteriore resistenza nel pomeriggio del 4 novembre. I camerati italiani, secondo Rommel, hanno dato più di quello che erano in grado di fare con il loro cattivo armamento. Fra le pagine brandelli di carne, si sente feriti alla lettura del romanzo di Anna Aita. Siamo negli anni ’40, tempi romantici, di vita semplice, si crede ancora al senso di abnegazione, si è con spirito di sacrificio fedeli ai grandi principi della vita. Il romanzo lo si legge con trasporto, fermenta in noi lettori, accende l’ immaginazione, come purificati nell’animo, in una infinità di riflessioni alimenta pensieri, commozione e pianto. Riconfortati nei sentimenti e con le virtù congenite mostriamo ancora una volta disdegno verso l’epoca in cui viviamo, insozzata da egoismo, da lerci modi di fare, disamorata, corrotta. Le guerre massacratrici non avranno più un seguito, la vita è dono, non la si distrugge con violenza, va alimentata da idealità, da senso di giustizia. Riascoltiamo nella mente la canzone “Tornerai”, la poesia di El Alamein di Aldo De Gioia, risentiamo frementi la passione riversata nel romanzo di Anna Aita, mentre visitiamo il Sacrario degli eroici caduti. Ci sommerge il silenzio, ci sentiamo sprofondati in una mestizia senza fine davanti ai tanti loculi. La lettura di tutto il romanzo si rimescola nel sangue: soldati, speranze, madri che piangono, la figura di Livia, i suoi occhi che brillano come perle, in un tutt’uno hanno uguale profumo, stessa purezza, la dolcezza e l’impeto dei sensi più ardenti, in una giornata di primavera, in esaltazione di piena giovinezza. Andiamo con il protagonista con il cuore in gola, Norberto è frastornato, va alla ricerca affannosa dei re-

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sti di suo padre. Fra i tanti corridoi del maestoso edificio non sa dove dirigersi, ha il volto rigato da una pioggia di lacrime. VI Il romanzo di Anna Aita ha pagine avvincenti. Il dolore è un germe che sempre fiorisce, non si dimentica, non è labile come la felicità, lascia lacerazioni e cicatrici profonde. Il nome di El Alamein si radica nel fondo del nostro animo, si contrappone ad ogni forma di turpitudine, a tutte le malvagità e fa considerare la vita nella sua sostanzialità, la fa andare in espansione. Anna Aita nel romanzo su El Alamein ha espressività come epitaffi in bronzo duraturo, si allargano i cammini della storia. Pagine realistiche, fortemente rappresentative, vediamo vive le immagini delle battaglie, come se fossimo spettatori: automezzi in fiamme, corpi di giovani spappolati dalle armi, pare di sentire le grida dei soldati feriti. La sabbia rossa di sangue, ossa e carni frammentate. Norberto all’improvviso sente un fruscio di seta, vede una donna in nero, la guarda, gli pare di conoscerla, ha gli occhi di Livia, il suo amore che non ha fine. Un evento enigmatico che lo porta in uno stato di allucinazione. Con un gesto dell’avambraccio la donna gli indica il numero 8, Norberto si precipita per i corridoi, è davanti al n. 8 che non ha nome. Silenzio e pace immensa nel Sacrario. Con la testa sul freddo marmo Norberto sente la vicinanza del padre, un senso di Aldilà lo fa stare in armonia con il tutto, anima e stelle in un unico legame. Del padre dopo la partenza nessuna altra notizia all’infuori di due lettere. Sempre con la speranza del suo ritorno. Il linguaggio di Anna Aita ha un ritmo sempre più concitato. Lo stato psicologico di Norberto è in uno sconvolgimento, nella sua mente ombre e voci che vanno e vengono. Momenti di sopore fanno andare al passato. Con gli Americani si ha l’impressione che sia tornata la vita, accecati come si è dalla fame si prende quello che viene dato con gesto di generosità. Norberto è vicino alla mamma e alla splendida Livia che tornerà spesso, come in magica apparizione, su altri


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volti da quando è scomparsa senza averla più rivista. Il suo amore gli è penetrato in tutta la sua interiorità. Amore, dolore, miseria, paura della guerra sono un intreccio inestricabile. Il romanzo prende per la varietà dei suoi toni, c’ è dell’irreale, della leggenda, della fantasia, un mondo di immagini che si sovrappongono, pensieri che spaziano per divenire diafani, inafferrabili. Tra vita e sogno, si diventa in tempi tempestosi di una fragilità particolare. Quasi ci si frammenta, un senso panteistico ci fa stare in ogni luogo, la necessità degli affetti ci attanaglia, quando si è in stato di dispersione. Si riparte verso casa. Siamo già a Latina, il treno fermo in campagna per un guasto. Norberto al di là dei binari vede una ragazza che lo guarda fissamente, sembra la sua Livia, la forza magnetica dei pensieri la fa sempre comparire. Guarda i suoi occhi dalle lunghe ciglia e riflessi lucenti. La prosa impressionistica di Anna Aita crea stati d’animo in sommovimento, il surreale vince la concretezza dei fatti. La ragazza gli mostra un libro “L’impossibile amore”con la scritta rossa. È lo stesso romanzo comprato prima della partenza, Norberto come svenuto lo prende dalla valigia, lo sfoglia tremante, fra le pagine una busta chiusa, la apre, esce una lettera. Un miscuglio di sensazioni lo immobilizza. Il ricordo della guerra, la vista del Sacrario lo tengono confuso. I giorni di stenti e di stordimento avevano messo attorno una coltre di annebbiamento. Ora, ritornato il sereno, i fatti si chiarificano, vengono alla luce le verità. La lettera era rimasta smarrita, venuta fuori per caso dopo la confusione degli anni di guerra. Norberto sente gli impulsi del cuore creargli emozioni sconcertate. Si tratta di un soldato che si rivolge a suo padre, dicendogli che prima di sposarsi con Elena si era innamorato di una canzonettista, da questa relazione nasce Livia, rimasta sola con una zia essendo la madre andata via per la passione del teatro. Raccomanda suo padre di aver cura di lei. Sposa Elena, nasce Norberto. La lettera arreca scompiglio, Norberto sente addosso una battaglia di pensieri, è fuori di sé, con lo sguardo stralunato gli sembra di aver perso la

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ragione. Livia, l’amata fidanzatina è sua sorella. Gli cade a terra il libro con la scritta rossa che gli penetra le pupille. L’ illustrazione quasi si fa animata, è in gran rilievo, sembra Livia, il suo amore degli anni della guerra. VII El Alamein, il Sacrario. Gli eroi in eterna presenza sembrano passare di notte schierati alla luce della luna. Un romanzo che solo Anna Aita con la sua vivace intelligenza, cultura, facile emotività poteva darci. Con le sue forti doti di narratrice, il suo carattere, l’ amore per i fatti straordinari che toccano il cuore, il suo animo aperto, vibrante. El Alamein è nel cuore di tanti, è un nome che richiama lacerazioni e ferite incolmabili, è esaltazione della dignità dell’uomo, poesia della vita, eroismo in piena spiritualità, opposto a violenza, a brutalità. Una testimonianza per l’ avvenire dei popoli in eterna ansia verso l’ uguaglianza, i sentimenti di umanità. Leonardo Selvaggi LA NEBBIA È scesa la nebbia sulla pianura e ha ricoperto tutto d’intorno mentre la natura giace in questo giorno silenzioso. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi

L’ABBRACCIO Può essere… Intenso come il primo bacio immenso come l’oceano inebriante come il profumo sconvolgente come la tempesta Colombo Conti Albano Laziale, RM


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IMPERIA TOGNACCI TRASFERISCE NELLA POESIA LE EMOZIONI DELLE SUE ESPERIENZE DI VIAGGIO IN GIORDANIA di Anna Aita

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A pubblicazione di Imperia Tognacci "Là dove pioveva la manna" avvince fin dalle prime pagine nelle quali Giuseppe Laterza ed Andrea Battistini introducono alla lettura. Una bella scrittura per entrambi, un'esposizione così emotivamente forte da imporre pause meditative, involontarie ma necessarie. Non è possibile procedere senza far proprie l'efficacia e la validità di considerazioni davvero speciali. Scrive Laterza: "L'eterno Ulisse dei nostri tempi, è solo tra la folla urbana e abbagliata da luci artificiali che hanno cancellato le notti, oscurato il sole e con esso la poesia di albe e tramonti. Questa umanità perduta a rincorrere l'effimero e i piaceri strumentali, piuttosto che l'estasi dell'anima, è l'amara constatazione di Imperia Tognacci...". E Andrea Battistini: "Tognacci si vale della poesia per indagare in se stessa, per fare chiarezza nei propri stati d'animo, inevitabilmente fluttuanti, incerti tra lo smarrimento e la speranza, le inquietudini e i momentanei sollievi, l'incombere del nulla e la ricerca di certezze". Battistini parla, poi, del vento che da quello descritto, dai poeti Leopardi e Montale, come voce gentile, diventa nei versi della Tognacci dinamico, "insaziabile e turbinoso", pronto a travolgere la vita stessa. Egli si sofferma successivamente sul fascino del deserto chiarendone l'estensione polisemica, dal momento che se è vero che la sua visione, reale o immaginaria che sia, possa infondere in noi la sensazione della siccità e della ingenerosità, sotto altro punto di vista ci richiama al pensiero della solitudine, del raccoglimento in noi stessi, della pace interiore. Alla stessa maniera, interessante e appro-

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priata, si sviluppa la postfazione di Angelo Manitta. Egli sottolinea, tra l'altro, i due importanti luoghi del cammino della viandante che, pur fusi tra loro, indicano entità diverse: l'uno è lo spazio fisico, reale, l'altro, quello interiore. Ora, per quanto le tre scritture siano piacevoli, trattando esse concetti affascinanti e coinvolgenti, non vorrei soffermarmi ancora, per non sottrarre tempo e pensiero alla nostra meravigliosa Autrice e, soprattutto, non vorrei prolungare oltre l'attesa della lettura, ansiosa di lasciarmi cullare dai suoi incantamenti. Ed eccola subito la seduzione della scrittura! Imperia, nel suo viaggio in Giordania, ha raccolto e conservato in sé le sensazioni più forti e generosamente le trasmette: solitarie malie, memorabili rapimenti, turbamenti dell'anima, momenti di estasi. Tutto proposto con la sua ammaliante trascrizione in versi. Questa nobile poetessa si è imposta, al suo primo apparire, nel campo della poetica nazionale e la sua fama continua a crescere in una società che riconosce in lei una validissima componente del mondo letterario. La sua feconda attività si rivela importante non solo per la profonda verità delle ispirazioni ma anche per la lucida e controllata vivacità dello stile. Attualmente, a distanza di tempo, con serena osservazione alla luce di un più attento esame critico, gli encomi che continua a ricevere, risultano pienamente meritati. Significativa la crescente simpatia che l'accompagna in un momento in cui il panorama letterario è contraddistinto dalle più diverse e audaci esperienze innovatrici. Ella si colloca, infatti, sulla linea della tradizione, pur con grande modernità e schiettezza di sentimenti e motivi interiori. Ed ecco, oggi, la nostra Autrice, allontanarsi da casa per compiere il programmato viaggio verso la Giordania, alla ricerca del benessere dell'anima. Eccola sul volo "che


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non insegue/ il tempo, ma si dirige dove/ porte non si chiudono/ alla profondità di orizzonti,/ dove carovane transitano da pozzo a pozzo...". Nella mente le restano, sospese, immagini recenti che sciolgono versi ammalianti: raccontano di un'abitazione caduta nella penombra, di suggestivi balenìi d'alabastro e di marmo, di una stanza sonnolenta, di una sveglia addormentata immersa in un silenzio irreale. E, con i suoi ricordi, va la pellegrina. Corre insieme alla speranza verso il luogo magico dove diventerà "ramo/ che non si piega alla tempesta". Cerca il deserto, il luogo senza pensieri, senza le lusinghe del giorno, lontana dal peso della vita. E intanto, riflette: "Ancora sono ali di cera, Icaro,/ a farmi volare oltre l'orizzonte dei quotidiani limiti, oltre/ le oscurità terrose, e non importa/ se, adagio, si scioglierà la cera". Saranno su di lei giornate "di sabbia/ e dardi di sole" laddove "Senza un grido s'incurva il sole". Imperia sente il buio farsi forma sul corpo, lo vede sulle rocce, sulle dune, sulla carovana silenziosa. Un senso di sgomento l'afferra. Ma il pensiero l'accompagna. Le riporta antiche cassapanche del deserto cittadino, che ha rotto, ormai, l'alleanza con l'Infinito; conservano vesti di donne e i loro segreti. E continua il duro viaggio sotto il sole infuocato. Poche chiacchiere rimbombano su tende scosse bruscamente dal vento. Vive e fa vivere l'anima delle memorie: il vecchio pianoforte a coda, le musiche inventate da dita immateriali: è una bimba che suona. Illusioni e miraggi si accompagnano ad una domanda: "C'è una ragione per cui vale/ il viaggio? Dove ricercare la verità che illumina e unisce,/ o fa fiorire il deserto dell'anima?". Il pensiero è costante. Scivola su Dio. È lì il suo fine: un viaggio per raggiungere l'Eterno, la comunione profonda con Lui pure in tanta distanza. Le sensazioni che ci offre l'Autrice sono tante, poche parole e tanti luminosi effetti: la sete d'infinito, il buio della notte, le lanterne, i

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fuochi, la chiusura in se stessa per salvarsi da eventi disturbanti; Il richiamo inevitabile, il fastidio, il fascino del luogo e delle voci, il volto ardente del deserto, l'attesa e la speranza del nuovo mattino, il vento caldo del giorno, quello freddo della notte. La ricerca del Salvatore, l'immersione di parti del corpo nel refrigerio dell'acqua, i cammelli, le palme, la sabbia infuocata. La preghiera ripetuta: "Aiutami a trovare il pozzo che l'anima disseti". E Imperia fiduciosa va. Sa che sentirà la goccia cadere. Sull'arsa pietra. "Basterà un sorso a dissetarmi/.../Cercherò /quel pozzo, finché la luce,/affievolita, si spegnerà". E, un giorno, il suo cammino si ferma. Il lungo viaggio è terminato. Imperia si dirige, finalmente, verso la sua città. Sogna lo scialle, abbandonato sulla spalliera della "dondolo". Anela poggiarlo sulle sue stanche spalle. Non c'è più il sole rovente, non il vento che sussurra parole straniere e incomprensibili alitando tra frange di palme, né beduini nei loro morbidi panni. E nemmeno i pazienti cammelli. Si è spento, ormai, la voce del muezzin dai minareti. E, lontani, ancora tanto lontani, s'intravedono i tetti delle case. Della sua Roma. Com'è già ormai lontana Aqaba! Dopo aver concluso la lettura di questa meraviglia di poemetto, cosa posso dire ancora? Le parole sono limitate, incapaci di esprimere grandi sentimenti; le mie, incerti balbettii, confuse come sono dalle tante emozioni vissute nell'inseguire la nostra poetessa nel suo faticoso viaggio, verso l'acqua che prodigiosamente disseta. Mi resta una certezza: Imperia Tognacci, che rimane estranea alle odierne, audaci esperienze letterarie, ritrova sempre il filo d'oro della nostra tradizione che diventa, nei suoi scritti, garanzia e misura di un destino non effimero, rivelatore della vita interiore, di una fede senza limiti raccontata con un linguaggio limpido, fascinoso, pieno di grazia e di semplicità. Anna Aita


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LA GIOIA DI ESSERE NONNO di Nicola Lo Bianco

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ONO nonno, sono ritornato bambino. Non tralascio alcuna occasione per fare sapere, per dire <sono nonno>, <lo sai, sono diventato nonno>.Come un traguardo d’amore, un’allegrezza, un completamento della vita. Solo ora capisci, dopo che te ne stai imbambolato a contemplare il figlio di tua figlia, che t’è mancato qualche cosa. Non potevi saperlo, ora lo sai:la tua vita è più o meno al tramonto, ma sorge il sole di un’altra creatura, un prolungamento della tua presenza in questo mondo terreno, una memoria di te, di quello che sei stato, di quello che hai fatto. A chi somiglia?E ti metti lì a scoprire bambinescamente qualche tratto della tua fisionomia, qualche espressione particolare che ti appartiene, e intanto cresce dentro di te la consapevolezza di essere nonno. Sei più vecchio e più giovane, più fragile e più forte.

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Riemergono sentimenti ed emozioni sopiti, sei due volte padre, ad amore si aggiunge amore, alla tenerezza di tua figlia madre, si aggiunge la tenerezza di questo altro figlio, ma questa volta con il cuore e la mente di chi ha da tempo sperimentato le traversie della vita. Sei nonno ed hai più paura. Ancora più fortemente, più acutamente speri in un mondo migliore, in una umanità più capace di riconoscere ed orientarsi verso quei valori che di generazione in generazione sono in definitiva la sostanza viva e non accidentale di questa nostra permanenza sulla terra. Stringi fra le tue braccia il nipotino e fra te e lui corre un tempo di sessantanni, un segno tangibile di come tutto in questo mondo è effimero e transitorio, tranne il potere degli affetti:senti di volere più bene a chi ti sta vicino, ti riprometti di essere più tollerante, valuti le tante sciocchezze che commetti, assumi come relativi i fastidi, le contrarietà, i contraccolpi di questa nostra esile esistenza. I vagiti, i primi incerti sorrisi, le movenze del cucciolo indifeso, sono flussi benefici di sangue al cuore. Se hai un grande dolore, ascolta il “pappa” e il “dindi” del tuo nipotino, ti sentirai alleviare il tormento. Se un qualche duro pensiero ti cruccia, pensa alla gioia di coccolarlo, di prenderlo per mano e portarlo ai giardini, di raccontargli una bella favola, o anche frammenti della tua vita, che per lui sempre favola sono, ricordo indelebile. Io sempre ricordo mio nonno e la “favola” del “Piave” e della “grande guerra” alla quale lui aveva partecipato. Tempi bui e uomini tristi quelli che ritengono di non avere bisogno dei vecchi, di potere fare a meno dei nonni. Mamme e papà, qualunque ne sia il motivo, non negate i vostri figli ai nonni:se non volete farlo per i nonni, fatelo per i bambini. I nonni, in un certo senso, sono più importanti di voi. Sono la “favola” di tempi lontani, l’ora del racconto, la parola dell’esperienza, il tempo


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pieno del gioco, la trasgressione delle regole, le immancabili “caramelle”, il confortante “refugium peccatorum”:ma, vi prego, nonni, non sovrapponetevi ai genitori, fate soltanto i nonni. Fate come i Re Magi: arrivano, adorano, lasciano i doni, e riprendono il loro silenzioso cammino. Non ricordo da chi, ma fu detto, forse da un filosofo dell’antichità, che <il bambino è il padre dell’uomo>. Probabilmente voleva dire che i bambini sono l’incanto del mondo, l’ingenuità disarmante, l’intendimento senza malizia, tutto quello che noi adulti inconsapevolmente vorremmo essere e non siamo, e che da loro dovremmo imparare. La preziosa ricompensa dei nonni è quella di ritornare ad accarezzare nei nipoti l’illusione perpetua di un sogno. Essere nonno è un modo, seppure imperfetto e tardivo, di ritrovare dentro di noi quel bambino che, secondo l’insegnamento di Gesù, apre le porte del regno dei cieli. Il mio nipotino si chiama Lorenzo. Felicità a tutti i nonni e nipoti del mondo. Nicola Lo Bianco

Ma abbiamo anche perfezionato le Super-Bombe che annientano decine di città in un colpo solo, le guerre chimiche e batteriologiche, le crudeltà del terrorismo e delle rappresaglie sui civili inermi. Alla ricerca perenne del raggio della morte per ripulire la terra a fondo, senza risparmiare neppure i bambini ! Luigi De Rosa

Immagine di pag. 35: Domenico Defelice - Fuma la pipa il nonno (china, 1960).

Ho ritrovato Dio nella sofferenza delle litanie anglolatine degli africani fuggiti dalla guerra che salgono il portico a passo stanco. Un Dio dei vivi, l’unico incontrato.

CANTO TUTTI I BAMBINI DEL MONDO Canto tutti i bambini del mondo perché, pur vivendo la loro infanzia, la loro adolescenza e la loro giovinezza, si trasformino in uomini e donne molto migliori di quelli che fino ad oggi li hanno preceduti. Anche se non sarà facile, perché non li aiutiamo abbastanza. Dovevamo coltivare la bellezza e la giustizia su questa Terra, dovevamo lottare tutti insieme contro vecchie e nuove miserie, contro vecchie e nuove malattie del corpo e dell'anima.

Rapallo, GE

RESPIRO DI MARE Isola di luce, odore di resina e di onda, penetra fin all'osso conchiglia d'altro tempo, volteggia su spiaggia deserta abbracciata dall'immenso universo. Adriana Mondo

SAN LUCA A BOLOGNA

Nella foschia che copriva la pianura sopra le torri austere la sua voce chiedeva di scoprirsi alla luce del sole e al verde benefico delle foglie rifiorite in collina. Ora a braccetto riscopro il mondo più volte ripudiato da me snobbato nell’attesa. Tra le arcate dominano il rosso e il giallo del mattino. Andrea Masotti Bologna


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DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e agli altri che verranno) di Salvatore D’Ambrosio

M

I ha mandato Domenico uno scrigno di gioie. Non è un semplice volume di poesie questo lavoro dedicato al suo primo nipote. È ripeto uno scrigno di gioielli rilucenti, autentici, dove il falso, la patacca, il surrogato sono disconosciuti. E non potrebbe essere diversamente, in quanto queste preziosità sono quelle che in anni di lavoro, di dedizione, di sacrifici piano piano Domenico ha collezionato e messe da parte in un cofanetto ben nascosto e protetto come il cuore. Ma viene il giorno in cui le preziosità sono talmente tante e trabocchevoli, che non si riescono più a contenere. Esse hanno bisogno di mostrarsi. E l’occasione è quella della nascita di un germoglio, come dice egli stesso, da quella pianta che oramai matura non aspetta altro che vedersi allungata verso il cielo, in rami e rametti giovani e flessuosi. Sollevato il coperchio di quel cofanetto, si va alla ricerca della preziosità più lontana nel

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tempo che si è lasciata cadere dentro. E la prima, lo credo fermamente, è quella della presenza nella nostra vita dei figli. Nel bene e nel male, perché esiste anche questa possibilità, essi sono la nostra prima gioia che depositiamo nel fondo dello scrigno cuore. Quando poi abbiamo la fortuna, come è capitato a me e anche a lui, di avere figlie femmine, penso che la gioia è doppia e sicuramente la più preziosa. Ma Defelice in questa raccolta non si limita a ricercare in quello scrigno quella sola preziosità, per il fatto che gli piace aggiungere e non togliere e nel corso degli anni ha aggiunto moltissimo. Nel volumetto dedicato al nipotino Riccardo, Domenico non vuole fare l’inventario delle gioie passate, ma mostrare come tutto sia stato magnifico e continua ad esserlo. Affidato in buone mani il prezioso femminino della sua famiglia, adesso deve continuare a riporre preziosità su preziosità, desiderando di sentire il tintinnio di gioie che cadono giorno a giorno nel già colmo monetiere del suo cuore. Ma l’accumulo di queste nuove ricchezze, senza togliere la preziosità e la ineguagliabilità delle altre già possedute, hanno un suono diverso. Esse nel cadere nello scrigno del cuore, spandono musica che non si ferma una volta toccata il fondo, ma risale, irrora le vene di un calore e di una tenerezza che è qualcosa di nuovo, è esperienza che ancora non era stata conosciuta. E nell’istante del nuovo evento sovviene che qualcuno ha detto che i nipoti si amano più dei figli, e constati che ciò è l’assoluta verità. La cosa in un primo momento ti dà un poco di sgomento, ti dici che non è così, che l’amore passa dall’una all’altra persona per una specie di proprietà transitiva. Ma poi con il passare del tempo ammetti che non è vero: i nipoti si amano immensamente di più perché sono una sommatoria di affetti. Sono l’ intreccio di due nuovi fili che mani sapienti portano avanti, per fare crescere e allungare il vecchio a dismisura. Sono le tue propaggini, sono come dice Domenico, gli occhi che vedranno un giorno per te, la voce che leggerà di te, la memoria che penserà a te, il nuovo


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scrigno cuore che si riempirà anche di te. È allora che senti che non desideri altro, che la tua vita è colma, paga, felice e che ogni cosa è stata straordinaria. Che è stato tutto bellissimo. Non ti sembrerà strano che le piccole o grandi contrarietà, che pure ci sono state, non le ricordi più. Esse sono state sconfitte da questa nuova presenza, che come una sorta di aspiratore se le è portate via. Tutto il brutto è stranamente dimenticato. Si ricorda, o si vuole adesso ricordare solo il bello; si vuole riscoprire il sapore dei baci sulle candide gote profumate di un aroma indefinibile; si vuole respirare a fatica perché stretti al collo da braccine che non desiderano fare altro; si vuole provare l’ansia di saperlo un poco febbricitante; si vuole avere la precoce preoccupazione per il suo futuro da grande; si vuole avere anche la preoccupazione degli altri che verranno: facendo continuare a cadere, così, gioielli in quel forziere che nessun ladro potrà mai scassinare. Ma nonno Defelice è persona saggia e attenta e sa che anche una sgridatina, un diniego ad assecondare ogni capriccio sono perle che cadono nel piccolo salvadanaio del nuovo cuoricino, oggi coperte da qualche rugiadosa lacrima ma che domani saranno quelle che risplenderanno di più, perché si è fatto di un fanciullo un uomo pronto a qualsiasi contrarietà che la vita distribuisce saggiamente a tutti. Non ha nel dire queste cose in versi al suo Riccardo nessuna presunzione di gran maestro, ma piuttosto l’umiltà di colui che ha vissuto la sua vita guardando sempre avanti, con l’intento di essere visto come un faro a cui fare riferimento. E adesso sente fortemente che deve preoccuparsi, poiché l’età avanza, di lasciare il suo prezioso scrigno, che si va colmando, ai nuovi custodi che lo arricchiranno ogni giorno sempre di più. Attenzione però avverte, a non ficcarci dentro anche le patacche dei falsi miti e delle ideologie illusorie. Non si tira indietro Domenico difronte alla professione d’amore. Non è come tutti che si spaventano di questo sentimento. Fa di questa silloge infatti, un monumento a questo senti-

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mento, innalzato senza retorica e senza l’ aggiunta, anche se sta parlando del suo intimo profondo, di deformanti sdolcinature. Ecco perché c’è bellezza e universalità in questi versi sebbene indirizzati. Devo dire grazie a Domenico per il volumetto che generosamente, come sempre, mi ha mandato, ma soprattutto devo dirgli grazie per la felicità che queste gioie, che ha voluto condividere, mi hanno procurato. Non lo sono ancora nonno, ma ho sentito leggendo questo volumetto quanto sia intenso e di altissimo valore esserlo. Domenico il perché lo spiega chiaramente, a me e a tutti quelli che leggeranno la sua opera, nel primo verso della lirica conclusiva del suo volume A Riccardo(e agli altri che verranno ). Salvatore D’Ambrosio DOMENICO DEFELICE - A RICCARDO (e agli altri che verranno) - IL CONVIVIOMarzo 2015

TIME OUT se due mani in time out fossero sufficienti a fermare il tempo a procurare quella sospensione anche infinitesimale utile alla correzione del viaggio in controsenso del volontario esilio chiuso nel vestito d’ombra che stringe da tempo e rende vano ogni sforzo di segno lasciato sul bianco si quattro mani forse vorrei per l’avvenire Salvatore D’Ambrosio


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I POETI E LA NATURA – 44 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

UMANITÀ E NATURA NELLA POESIA DI GIANNI RESCIGNO Gianni Rescigno, il poeta nato a Roccapiemonte (Salerno) e residente a Santa Maria di Castellabate, nel Cilento, respira la Natura a pieni polmoni in tutte le sue poesie, dal 1969 in poi (dalla silloge Credere) a tutt'oggi. Ma direi che la respira da sempre. La Natura è nel suo mondo, è dentro di lui, anche nelle sillogi in cui il tema dominante è il sofferto ma fiducioso rapporto con Dio, o l'amore, o la memoria, o gli affetti familiari, o la fatica di vivere o il dolore acuto di cui è intrisa la vita dell'uomo. La Natura non è intesa come un altro da sé, come un palcoscenico sul quale l'uomo recita la sua vita, ma come una realtà consustanziale all'uomo, una parte agente in un Tutto costituito dalla creazione divina. A puro titolo di esempio, apro uno dei suoi 24 libri di poesia (ma i libri di lui e su di lui

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sono di più...), e precisamente l'undicesimo, Le strade di settembre (Bastogi 1997). Prefazione, profonda e centrata, di Giorgio Bàrberi Squarotti. Introduzione critica di Vittoriano Esposito e di Vincenzo Guarracino. Le trentanove liriche qui raccolte, ci ricorda Bàrberi, sono “ intrise del senso del tempo, soprattutto di quello passato, contemplato e rivissuto nella memoria, ma anche di quello futuro, che verrà dopo il momento di riflessione, di meditazione, di presa di coscienza delle esperienze attraversate, e dovrà segnare un rapporto pacificato e sereno con il trascorrere degli anni e dell'esistenza.” Il richiamo all'elemento vento è ricorrente in molti poeti. Qui in Rescigno è permanente, il vento è quasi personificato. Pensiamo a quando si insinuava/ tra le foglie la tramontana/ e le scrollava fino a tormentarle, dinanzi a noi null'altro che cielo./ Ne eravamo padroni tutti. Addirittura è al vento che si domandavano ali/ per fuggire a felicità lontane/ viste così chiare/ dagli occhi degli abbracci... Una bellissima poesia, tutta dedicata al vento, è quella intitolata “Vento di novembre”, dove il vento addirittura singhiozza, si arena ai terrazzi delle vigne, sveste fichi e pruni, scioglie in lacrime cumuli pesanti, sa di muschio e di castagne e di pane con la croce, fischia alle campane, gira nella sabbia, schiaffeggia i corvi con le sue folate. Nei versi di Rescigno vi sono lune che incendiano le notti, venti che iniziano a tagliare/ bassa l'erba prima di provarci/ con fronde alte di colline... Il mare è pulito, lo scoglio è vivido, le strade di settembre/ sono solchi ancora secchi./ Vanno per i campi/ tra ragnatele ancora intatte:/ gli fa sussulto il tonfo/ della pera precipitata nel tramonto... Il ricordo del tempo trascorso si trasforma in dolorosa nostalgia, col richiamo al vecchio padre del poeta. Sulle balze delle colline/ non sei più con me padre/ a chiedere alle campane/ l'ora della sera... Il rapporto figlio-padre era silenziosamente, ma fortemente, rinsaldato, dalla natura


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dentro la quale entrambi vivevano, respiravano, pensavano. Si camminava insieme/ anche nella notte./ Insieme in cerca di eventi nuovi:/ spalla a spalla fiato di padre e di figlio... Oltre al vento, il sole, chiamato dal padre lama di fuoco, felicità d'anima, carezza di sorriso (mentre per il figlio, il cielo, compreso il sole, era anche il regno del dubbio e dell'attesa...). Gli elementi naturali, per quel discorso di simbiosi tra uomo e natura di cui si parlava all'inizio, condizionano non solo la vita esteriore dell'uomo e poeta Rescigno, ma anche, e soprattutto, la sua vita interiore, la sua produzione e il suo stile, in una ricchezza sinestesica già notata, a suo tempo, anche da Elio Filippo Accrocca e da Giorgio Caproni. Conseguenza, anche, della fiducia assoluta in un Dio creatore sia dell'uomo che della Natura, nel quadro di un comune destino. Assistiamo così al sopravvenire lento della sera, che si fa velo tra ciò che è stato e ciò che sarà. Ma c'è posto anche per l'irrompere armonioso e saporoso della donna in questo mondo. Della donna del sole, dal corpo perfetto, che si gode il silenzio, si bagna le labbra, respira calore. Quella donna dallo scoppio di pesche alle guance, dall'improvviso gonfiarsi dei seni/ per sboccare liberi nel vuoto. Allora il poeta, in uno slancio di amore, non può più trattenersi dal confessare: “ Quando sbiancava la luce/ era un immaginare stupendo/ buttarle l'anima ai piedi/ con lei banchettare sull'erba/ spezzare pane e formaggio di pecora.” Come si è detto all'inizio, la raccolta Le strade di settembre è un canto lirico di autunno, una rievocazione nostalgica di paesaggi naturali ed intimi che non ci sono più; una presa d'atto, un bilancio, e nel contempo una “programmazione” di ciò che rimane da vivere. E' un fiorire incessante di immagini della Natura. La produzione di immagini poetiche in Rescigno è sempre stata rigogliosissima. Ma col passare degli anni non ha generato affatto quello che in un giorno lontano era stato paventato, nella veste di presidente della Giuria che gli aveva assegnato un Premio Letterario, dall'autore di Tuttafrusaglia Fabio

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Tombari (grande estimatore dell'allora giovane Rescigno) cioè il rischio del prevalere dell'ornato sul quadro. Se c'è una poesia in cui forma e sostanza coincidono è proprio quella di Rescigno. Una poesia nella quale, aggiungiamo, senza scomodare Benedetto Croce, il contenuto (una profonda, “sanguigna” umanità) non potrebbe essere espresso che con quella forma, con quello stile e quelle immagini. Luigi De Rosa FARFALLA NELL’ARIA La faccia adolescente genuina ha le lentiggini sulla delicata pelle. Tutta la primavera si diffonde tutto l’azzurro è trapuntato dal giro delle farfalle. L’eterna fidanzata nel silenzio sopra le brame del cuore. La sua persona s’estende per la piccola stanza, le vesti sono un velo sul calore del corpo vaporoso. La raccolta delle delizie nel canestro felice. Nel nido di piume il flessibile groppo di carne si prende. Scoperto l’ovale candido: la profondità delle curve la purezza lineare di un giunco, il fiore dei ricordi. I petali aperti, assaporati entro il calice, sugli steli gocce di latte, braccia verdi. Sei rimasta lì, ferma con presenza ossificata, oltre gli anni e i luoghi diversi nell’aria del paese nell’ardore drammatico della giovinezza. Ti ho voluto lasciare intatta figura nella gloria del sogno e delle illusioni, al crepuscolo nei rintocchi delle campane, quando l’aria si oscura lentamente e ci si sgretola con le cose. Leonardo Selvaggi Torino


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Recensioni ALDO CERVO LETTURE CRITICHE NELLA PRODUZIONE LETTERARIA DI AMERIGO IANNACONE Edizioni Eva Venafro, 2010, € 10,00, pagg.72. Dopo la lettura dell’assortimento di critiche del professore relatore scrittore Aldo Cervo su diverse opere di Amerigo Iannacone, si ha la coscienza di essere stati testimoni oculari di una delle sue tante conferenze o presentazioni di libri. La chiara sensazione di essere stati seduti, se non proprio accanto a lui, di fronte per gustare la sua critica espansa. Qui non ci sono testi dissertativi freddamente raggruppati per formare un libro. Si leggono i contenuti attraverso la lente dell’esamina etica ed estetica, ma non solo, dell’attento e scrupoloso Aldo Cervo, e poi ci sono i suoi pensieri detti ad alta voce; le sue citazioni che provengono non solo dal mondo Latino che conosce molto bene – è stato insegnante di italiano e latino nel Liceo Scientifico –, ma anche da attori che hanno fatto grande la nostra Italia: Totò, Peppino De Filippo, le cui loro frasi famose ora appartengono anche a questa raccolta di approfondimenti critici. Aldo Cervo è così: profondo e ricercatore delle parole-chiavi presenti nei testi poetici di uno stesso autore – in questo caso di Amerigo Iannacone – e sempre pronto alla battuta oculata e opportuna per rendere il momento della presentazione o dissertazione meno formale, non meno impegnativo però, ma più confidenziale e più aperto al confronto, all’ approvazione dei presenti che sicuramente, con Aldo Cervo relatore, si sentiranno, si sentono più a loro agio e più ricchi di un po’ di quella storia vissuta, personale o dell’autore in que-

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stione, raccontata qua e là. « Davanti alla casa di Amerigo Iannacone, che è tra le prime per chi entra in Ceppagna salendovi dalla strada statale per Cassino, staziona, tranquillo nella sua fiorescenza, e privo di inquietudini esistenziali, un albero: un carrubo. All’ombra di quell’albero, nelle giornate estive, trascorse l’ultima stagione della sua vita un uomo mite, dignitoso, mortificato dal solo pensiero di esser d’impaccio agli altri, ora che non era più buono per la fatica: come il Padron ‘Ntoni verghiano giunto alla sua estrema vecchiezza. » (A pag.21). Questa è una rivelazione che noi lettori apprezziamo più del valore stesso di queste non comuni parole. È meraviglioso sapere di questa storia dell’albero accomunato alla figura paterna che non c’è più. Un meraviglioso connubio che esiste realmente davanti alla casa del poeta di Ceppagna e dobbiamo ringraziare la generosa descrizione di Aldo Cervo, che l’ha messa all’inizio della sua critica al libro di poesie L’ombra del carrubo, quale settimo libro esaminato accuratamente della sua sunnominata raccolta. Ogni libro presentato e commentato da lui arriva a possedere ‘un’anima’, nel senso che Aldo Cervo ci mette molto del suo, molta verità e molta immedesimazione culturale. Lui scherza, come quella volta a San Pietro Infine per la presentazione di un libro di poesie e finì col dire, rivolto al suo amico Amerigo: « Me la legherò al dito, come si dice. » (A pag.32) E poi entra subito nell’argomento come se il momento della battuta, appunto, non deve durare più di tanto per non svilire il programma. Lui sa quando spezzare l’aria divenuta troppo convenzionale e quando buttarsi a capofitto nella critica, andando verso il mondo pirandelliano, verso il mondo latino, verso la semantica, verso l’originalità del suo essere un brillante critico. « Mi consentano, Amerigo e l’organizzazione della Mostra del libro, un esordio – brevissimo – fuori testo. Ho letto sui quotidiani regionali che a presentare ‘Nuove Testimonianze’ sarebbe stato “lo scrittore caiatino Aldo Cervo, amico – come lui stesso dice – del Molise”. Ecco, voglio dire che “scrittore” è decisamente troppo per i miei meriti (ammesso che ne abbia qualcuno), mentre è troppo poco “amico del Molise”. Il Molise, che per delle vicissitudini familiari frequento, si può dire, fin da ragazzo, mi ha dato due cose bellissime: la mia prima occupazione, e la schietta accoglienza della sua gente. » (A pag.40). I volumi da lui recensiti – tutti usciti dalla penna di Amerigo Iannacone – complessivamente sono undici e qualcuno recensito anche due volte. Ci sono libri di poesia e altri di racconti, e lui è stato esperto in entrambi i generi. A volte si fa piccolo, a


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volte si fa portavoce di un richiamo, a volte rievoca gli attori comici del trascorso Novecento, ripetendo le frasi loro più celebri per essere compreso di più. « Poi venne la televisione. E, come diceva Peppino De Filippo, ho detto tutto. » (A pag.19). Isabella Michela Affinito

DOMENICO DEFELICE MARIA GRAZIA LENISA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015, pagg.32 Evidentemente è stato adesso, a gennaio 2015, che sono sopraggiunti, in maniera più duri da sopportare, quei sensi di vuoto e di nostalgia per la perdita di una grande amica, quale è stata Maria Grazia Lenisa per Domenico Defelice. E quando succede questo allora, per uno scrittore poeta giornalista saggista, il rimedio migliore per consolare il proprio animo risulta essere un omaggio letterario a colei che non c'è più; sicuri che con questo dono si elargisce gran parte di quella serenità soprattutto necessaria alla defunta amica carissima. Lei è morta nella primavera del 2009 e ci sono voluti ben sei anni per 'metabolizzare' l'importante perdita, per accettarla interiormente e per pensare ad un qualcosa che potesse encomiarla, perpetuando il significato dell'opera poetica della compianta Lenisa e non solo. In questi anni – tra la dipartita di lei e la pubblicazione del Quaderno letterario a lei dedicato – l' autore Domenico Defelice ha domato le sue 'tempeste' interne nate al riguardo, accettando giorno dopo giorno la mancanza di lei, delle sue lettere che erano fasci di luce regalati periodicamente a lui e alla sua redazione. « Di Lei conserviamo centinaia e centinaia di preziose ed affettuose lettere. Parecchie sono senza data, e, siccome non abbiamo conservato le buste (per mancanza di spazio, bisognava pure sacrificare qualcosa), non sarà agevole, ora, ricostruirne giorno, mese, anno. Quando, poi, ci siamo accorti ch'era, in lei, quasi usuale non mettere la data, abbiamo provveduto a segnalarla volta per volta. » (A pag.3). Il tempo ha progettato ogni cosa: questo canto celebrativo – così come accadeva nell'antica Grecia – in forma di quaderno si è sviluppato secondo un metodo di scrittura che sta fra il critico e l'amico; colui che rammemora ogni cosa, ogni data, ogni incontro in cui è capitato di rivedere lei e l'accanito contestatore che se la prende con il linguaggio poetico attuale troppo congetturato. L'autore spiega, forse troppo con veemenza ma con grande schiettezza, che in passato anche i pastori, i contadini delle masserie di campagna, erano in grado di leggere la Divina Commedia di Dante Alighieri perché

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scritta in volgare per essere compresa da tutti e non solo dai più eruditi. E questa sua prolissità di contenuti si è rivelata maggiormente nel bel mezzo del quaderno in questione, dove lui spiega l'opera superba di Maria Grazia Lenisa, dal titolo Incendio e fuga, pubblicato dalla Bastogi nell'anno 2000. Ma quest'opera fu anche la causa di una vivace polemica avvenuta appunto quindici anni fa, tra Maria Grazia Lenisa e lo stesso Domenico Defelice, forse per una volta caparbi antagonisti proprio perché si stimavano molto e la loro era una vera amicizia che poteva permettersi anche questo. Il quaderno è stato diviso in due parti: Poesia e Saggi. In apertura c'è il lunghissimo elenco delle opere pubblicate, di cui la prima risale al 1955 con la prefazione di E.Allodoli, dal titolo Il tempo muore con noi; poi l'anno successivo con prefazione di F.Palazzi Canti vallombrosiani, e poi continuando fino ad arrivare allo stile vero e proprio della Lenisa e cioè a quel suo gioioso e maturo erotismo, di cui sono pervase le opere della sua età piena. Si scopre in questa lunghissima dissertazione che la Lenisa è stata anche pittrice, una pittrice nascosta perché in effetti non c'è stata diffusione delle sue opere pittoriche, in quanto preferiva farsi conoscere come poetessa e critica. Nella seconda parte del trattatoencomio, ci sono i saggi scritti da Maria Grazia Lenisa a proposito de La scena del Mondo di Giorgio Bárberi Squarotti del 1995 e della poesia di Antonio Coppola del 1998 e « Corrado Calabrò, al quale dedica il suo ultimo lavoro, stampato postumo dalla Lepisma di Roma. » (A pag.29). È stato adesso, a gennaio 2015, che Domenico Defelice ha potuto dire finalmente 'grazie' alla sua amica Lenisa con la divulgazione di questo quaderno; un grazie che comprende la testimonianza di un’irripetibile amicizia che ha superato ogni barriera e 'lei' da lassù ha capito che quando si abbatte un albero tutta la foresta soffre, esattamente come ha scritto il poeta e narratore Amerigo Iannacone di Venafro, nella sua poesia Se muore un poeta del tredici settembre 2012, « Se muore un amico/ muore un poco di noi,/ se muore un poeta/ moriamo un po' tutti » (Dalla silloge Sabbia, Edizioni Eva Venafro, Anno 2014, Euro 10,00, a pag.40). Ed è vero. Isabella Michela Affinito VITTORIO “NINO” MARTIN ...IL PIACERE DI SCRIVERE... Cenacolo Accademico Europeo 'Poeti nella Società', Napoli, 2015, E. f. c. Trovandosi in una condizione già satura di virtuosismi, Vittorio 'Nino' Martin ci conduce ora laddo-


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ve nasce e fermenta quel suo piacere di scrivere, ravvisandoci quali suoi lettori interessati a leggere ancora i suoi passaggi esistenziali, le sue scoperte di ogni giorno quando rivedere, riperlustra il suo territorio sconfinato e ristretto allo stesso tempo. Lui non è stato sempre nel suo habitat natio: ha viaggiato perché è emigrato prima in Svizzera, poi in Francia, e forse è stato lì che ha guardato la sua Caneva con gli occhi trasognanti di chi stilava paragoni, concepiva nuove teorie di vita, cercava un' altra natura simile in qualche modo a quella lasciatasi dietro le sue spalle. Adesso viaggia ancora, ma resta dietro quel tavolo da lavoro che lo ha visto muoversi ora coi pennelli, ora con la matita e la penna, ora assorto circondato dalle muse visibili soltanto a lui. Si tratta di un viaggio in cui si prova un immenso piacere, quando anche la luce del giorno lo aiuta a ricordare, a ricostruire momenti rimasti chiusi nel grande armadio della memoria, ad immaginarsi di nuovo ragazzo con la grinta di chi sapeva di farcela pur essendo consapevole di avere origini, purtroppo, non altisonanti. Lui ha usato due linguaggi - per dirla come il docente Mario Rolfini che ha curato la dotta Prefazione alla silloge - quello della poesia e della pittura " due arti gemelle sin anche al livello, morfologico - allitterante, di penna e pennello. " (A pag.7). Quando si è trattato di conferire la voce ai suoi soggetti preferiti e al suo territorio pervaso di paesaggi, allora ha adoperato la pittura insistendo sul cromatismo che si è intensificato man mano che lui si addentrava nell'esperienza di artista autodidatta, andando oltre la superficie colorata della realtà. Quando, poi, ha sostituito la voce dei suoi quadri con la sua allora è diventato il ‘poeta del suo borgo natio’, dei riscatti sociali, dell'utile e necessaria" Conservazione. Si racconta la pestilenza/ il dramma del terremoto/ gli eventi di guerra,/ le fughe, l'emigrazione/ storie tutte da scrivere/ del poco di visivo che resta,/ foto sbiadite, oggetti artigianali/ in minima quantità/ di importanza affettiva,/ ricordi, che meritano la firma. (A pag.14). Adesso che tutto il suo passato lo sta implorando incessantemente di uscire alla luce, Vittorio Martin è diventato tutt'uno col suo paese d'origine, perché i suoi occhi – fieri di questo – hanno visto tanti inverni e tante primavere, e allora fa i suoi conti insieme alle sue commisurazioni che sono tante. Quando dipingeva non ha osservato soltanto lo spessore della neve in inverno o gli umori del cielo o la conformazione di un muro sulla stradina allorquando " si abbia proprio l'impressione, visiva e insieme sognante (perché immagine e tratto espressivo si fondono), di accompagnare il passo dell'itinerante poeta, che ripercorre, con un affetto antico e sempre nuovo, le vie solitarie della sua terra,

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contrassegnate da tradizioni (...) ". (A pag.8). Tornando a questo incommensurabile piacere di scrivere, si può dire che quel 'tavolo' testimone di tante faticose battaglie artistiche vinte da Vittorio Martin, adesso sostiene il peso dei tanti fogli su cui egli sta trascrivendo, in versi, la sua variegata vita. Su questo grande tavolo il sole ha tuttora il ruolo di rendere qualsiasi cosa più positiva, anche il ricordo di quel periodo lontano da Caneva per ragioni di sostentamento, di quando " Tra la miseria e la fame/ guardavo un milione di stelle,/ i sogni abbandonati/ nel selvaggio borgo natio,/ dal quale mi sono allontanato/ risucchiato poi in qualche modo,/ nel luogo delle memorie/ il peso delle sofferenze,/ crepe e fratture insanabili/ coinvolgevano la gente,/ al dramma umano, la disperazione/ costretti ad emigrare oltre i confini,/ nel mistero del nulla/ che lasciava libertà di scelta,/ per un futuro di pace e di lavoro/ e dignità per tutti,/ parole da vivere in silenzio/ placebo per fare giustizia. " (A pag.56). Oggi l'artista friulano è più conscio della sua vena poetica: i versi che egli scrive si allungano oltre la semplice descrizione, vogliono essere un invito a proteggere le cose più significanti di questo mondo, quali le affezioni, le rimembranze, il proprio territorio e soprattutto il grande dono dell'Arte in qualunque modo la si esprima! Isabella Michela Affinito

GRAZIA SOTIS SULLE TRACCE DI SEGNI CREATIVI Caramanica Editore, Latina, 2014, € 10,00 E’ apparso, nel dicembre 2014, ad opera dell’ Editore Caramanica di Marina di Minturno, un libro di Grazia Sotis, docente presso la Loyola University in Roma, dal titolo Sulle tracce di segni creativi che raccoglie una nutrita scelta di saggi e di articoli di questa studiosa dall’analisi acuta e convincente. Il libro, che reca una puntuale prefazione di Pasquale Maffeo, è suddiviso in tre parti, nella prima delle quali, Ricognizione di scrittori, l’autrice ha raccolto saggi su narratori e poeti che si sono dimostrati nel tempo molto validi, come Giuseppe Bonaviri, Giuseppe Cassieri, Pasquale Maffeo, oltre ad autori più giovani, ma che hanno già dato dei pregevoli frutti, come Clotilde Punzo o che giungono a noi dal passato, come Lorenzo Franciosini. Nella seconda parte del libro, Occhio sull’arte, compaiono scritti su scultori e pittori di talento, come Gerardo De Meo, Normanno Soscia, Raffaella Fusciello, Antonietta Ascione e altri validi artisti. Nella terza parte compaiono articoli su argomenti


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vari, che vanno dalla poesia di Michelangelo ad opera di Glauco Cambon, a uno studio su Rodolfo Valentino di Leo Pantaleo; dagli Studi americani di Tommaso Pisanti ai Roghi fatui di Adriano Petta; da L’amore stregone di Alberto Bevilacqua al saggio su Jacopone da Todi di Pasquale Maffeo, ecc. Ciò che caratterizza questi saggi e questi articoli è l’accuratezza con la quale sono condotti e la serietà dell’impostazione critica; il che comporta, come osserva Maffeo nella sua prefazione al libro, la capacità della Sotis di esplorare “paesaggi intellettuali e spirituali” e di acquisire “giustezza di tono e di taglio”, nonché di operare con “cautela d’ approccio” nei confronti degli autori studiati. Basti guardare come la Sotis affronta uno scrittore quale Giuseppe Bonaviri, nel quale scopre “un linguaggio metaforico che viene tradotto attraverso una tecnica letteraria che è tipica soprattutto della poesia, la sinestesia”, tecnica sulla quale a lungo si sofferma in maniera probante. Si veda inoltre come sappia scoprire in Giuseppe Cassieri “una tensione di ricerca che dà propulsione ad una dinamica di immagini di natura concettuale filosofica e sociologica”. Interessante è poi l’osservazione della “proteiformità del linguaggio” nella poesia di Pasquale Maffeo, che fa sì che in lui “la parola stessa si arricchisca della sua innata qualità”, sicché non è possibile “rapportare la lirica maffeiana a contenuti e correnti prestabiliti”. Uno studio approfondito di carattere comparativo ha inoltre compiuto la Sotis per attribuire a Lorenzo Franciosini l’edizione anonima della Grammatica Spagnola e Toscana, un libro del secolo XVII sulla cui copertina compariva soltanto la scritta Faro. Di molto interesse sono anche in questo libro le osservazioni che la Sotis fa, nella seconda parte di esso, sulle sculture di Gerardo De Meo e sulle ceramiche di Raffaella Fusciello; su Le donne felliniane di Antonietta Ascione e sui Registri lirici di Andrea Martone, nonché su Il dandismo nella iconografia pittorica di Normanno Soscia. Nella terza ed ultima parte del suo volume Grazia Sotis ha raccolto alcuni articoli che riguardano libri di pregio dei quali si è occupata, come quello di Glauco Cambon, tradotto dall’inglese da Paola Ternavasi, La poesia di Michelangelo. Furia della figura o Studi americani di Tommaso Pisanti; i Roghi fatui di Adriano Petta o Sulle tracce di Amundsen di Massimo Maggiari o infine lo studio su Jacopone da Todi di Pasquale Maffeo. Un libro di molto interesse questo di Grazia Sotis, che informa e getta luce su molti testi della nostra letteratura contemporanea talora ai più non molto noti. Elio Andriuoli

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DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e agli altri che verranno) Ed. Il Convivio, 2015 E-mail da Roma del 22.04.2015: Caro Domenico, ho letto questo suo libro sull’amore paterno (di grandfather) . Un lessico familiare dall’andamento pacato (il cuore è più lento della mente,) intarsiato di acute osservazioni psicologiche (“Ridi e aggiungi:- Per finta!”), da simpatiche notazioni di affettuosa ironia (“Mi sembri ormai un bambino navigato.”) Mi piace l’andamento metrico, regolare come il respiro, che consente di assaporarne le considerazioni sapienziali (“Se non cammini ancora spedito/ è per la troppa fretta di andare …”), a volte di sapore esiodeo (“Sappi che il mondo/sarebbe calma e dolce una placenta”//“Del possesso hai un concetto assoluto.”// “Nessuna cosa è bella nella vita,/la vita stessa se non condivisa.”), che tuttavia s’innerva, all’

improvviso, di fremiti di grande forza rappresentativa (“Già s’è formato il delicato/gomitolo del cuore./Vene e arterie si ramificano/Le membra si gonfiano e s’estendono/come gambi, calici,/i petali d’ un fiore”.//”Il contrarsi negli spasmi/del tuo piccolo corpo, occhi e pugni serrati …”) , e che, altre volte, si discioglie in raffigurazioni di grazia botticelliana (“La bionda chioma inanellata’/gli occhi verdi arabo-normanni,/il viso minuto, la veste/leggera legata sotto il seno,/il ventre appena pronunciato…”). Due distici, infine: “Il non avere per chiedere il suo amore/altro che il pianto” “Tu e gli altri che verranno/digitate un mio verso fra cent’anni.” Con stima e amicizia Corrado Calabrò La e-mai è stata letta dal Prof. Carmine Chiodo durante la sua presentazione del libro alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università di Roma Tor Vergata, alla quale si riferisce la foto. (ndr)


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DOMENICO DEFELICE ANDARE A QUADRI Ed. Pomezia Notizie, 1973, Pagg. 80 Un libro non dovrebbe morire mai, specialmente se è ben fatto. Un uomo insieme con la moglie scorrazza in lungo e in largo per la Penisola, unendo al piacere della reciproca compagnia l’interesse culturale di vivere la poesia e di Andare a quadri per goderne l’ arte e la conoscenza degli artisti. La coppia è composta da Domenico Defelice e Clelia, il veicolo è la Cinquecento e molti dei pittori andati a trovare sono gli stessi nominati dal Nostro, nel suo Diario degli anni torbidi, risalente ai Sessanta, su alcuni dei quali ritornerà negli anni a venire, tant’è vero che lo stesso Autore in chiusura del libro precisa che le sue critiche sono state fatte negli ultimi dieci anni. Pagine di letteratura accattivante e di poesia, descrizioni fatte con perizia e piacevolezza, l’habitat del pittore, è affollato da cataste di quadri, molti dei quali sono qui riprodotti. I pittori sono presentati ampiamente in ordine alfabetico: un primo gruppo di nove brevi saggi e ventotto in appendice; pittori e quadri interpretati come se stessero sotto i nostri occhi. Il Defelice, riferendosi a sé e alla moglie commenta: “quadri e poesie producono in noi gli stessi effetti”. Nella città di Roma, Domenico e Clelia si recano in casa di Maria Elena Di Stefano che li “accoglie con un sorriso da mammola boschereccia. L’ambiente è stretto, ma ci pensano i quadri a dilatarlo.” Il Nostro si la-

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scia affascinare dalle pitture, commentando come i soggetti siano penetrati in profondità, in modo che lasciano trasparire non soltanto la psicologia loro, ma anche il pensiero filosofico dell’Artista, grazie alla complessità del sistema rispetto ad un “vero centro focale”. Defelice si stupisce come il pittore Mauro D’ Ottavi, riesca a vivere tranquillamente nel chiasso del mondo, mettendo su tela linee pastose e morbide; un pittore nella sua spontaneità con gli ospiti mettendoli a loro agio che fa onore alla grandezza dell’uomo. Era nato nel 1926 a Roma, egli diceva di sé di essere cresciuto con un padre “disegnatore di ornato e cesellatore orafo”; per anni ha fatto parte di associazioni culturali e di vari sodalizi artistici, il suo primo maestro fu Guttuso. Ha avuto il coraggio di non seguire le mode astratte, ma rappresenta il dramma del mondo con “una simbologia di facile lettura agevolata da una matrice coloristica e figurativa veramente esemplare”, rivelandosi un artista del nostro tempo, sensibile ai temi sociali; diceva che l’artista “si dovrebbe spendere per degli ideali”, il che forse lo ha tenuto imbrigliato nella tematica sociale. Nel Modenese troviamo il parroco Eleuterio Gazzetti, uomo di vasta cultura; la canonica si presenta strapiena di quadri i cui soggetti sembrano debordare dalle tele talmente sono impresse; il pittore diventa naïf, ammantando di poesia la natura, i frutteti, la tavola imbandita di frutta. Mettendone in rilievo i profili specialmente nella serie dedicata alle Alpi o in quella dedicata ai paesaggi siciliani dove esalta i tratti fisici dei volti, facendo trasparire il dramma della vita. Ma non dimentichiamo la copiosa produzione di carattere religioso, specialmente del Cristo. Domenico Defelice ci fa conoscere il pittore e ceramista abruzzese Antonio Folichetti, un giovane capellone ma con l’aspetto rassicurante, tocco pastoso e un simbolismo che raggiunge la sua maggiore espressione nel nudo femminile variamente rappresentato e negli alberi scheletrici; sembra che ne abbia voluto conservare le immagini per i posteri, come testimonianza, prima che scompaiano. Vincenzo Fraschetti, del quale la gran parte dei dipinti sono nati nella Riviera Ligure; una presenza frequente fra i suoi soggetti è il campanile, perché


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gli ispira tranquillità e la natura è pura poesia. Rileva le sfumature psicologiche dei soggetti, come in Romualdo Marzulli, che sono “fiori reclinati, sullo stelo, fiori in procinto di appassire”, volendo sensibilizzare sul tema ecologico, perciò gli sono più congeniali le nature morte e i paesaggi. Conosciamo Pietro Morini, a Pomezia che colpisce per la gentilezza delle sue pitture, specie la Pianura Pontina non deturpata dalle industrie, divenendone un cantore naïf e un sostenitore dell’ ecologia. Il calabrese Saverio Scutellà ha in odio l’ astrattismo, inventore del Panismo in pittura, un uomo di grande cultura che affascina con i suoi dipinti. Altro calabrese è Geppo Tedeschi, poeta, un macchiaiolo o se si preferisce un impressionista alla Monet, precisa il Nostro; la sua è una pittura di denuncia (umanità sofferente di disoccupati, vecchietti bisognosi). Abbiamo esaurito il primo gruppo di nove artisti; adesso ci inoltriamo nell’appendice, che non è meno interessante, soltanto è poco corredata di illustrazioni; nondimeno è molto utile anche per le considerazioni contenute sebbene siano trascorsi diversi decenni. Abbiamo modo di reperire pensieri di Domenico Defelice che vanno considerati come insegnamenti, per esempio contro gli astrattisti, i quali per esprimere l’anima si servono di simboli come “un impasto di sabbia o, addirittura (guardare un po’ dove va a cacciarsi l’anima!) un barattolo di merda.” Non volendo con questo negare le rivoluzioni, ma precisa che esse “si possono e si debbono fare con criterio e non con vuota retorica” (pag. 67). In qualche caso, osserva l’ accostamento delle tinte evitando stonature; o, al contrario, l’

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uso di un solo colore nelle infinite tonalità; nuovi mezzi di espressione come colla e sabbia come l’uso di formica, di comunissimi pettini inumiditi di colore, di spatola; la grafica (disegni a penna e a matita, acqueforti, acquetinte, litografie monotipi, ecc.). Commenta che gli artisti oggi sono disorientati, assicurando che l’arte vera nasce dal cuore. Qualche episodio mette buon umore, per esempio quando per trovare il portone di Primo Levi, a Roma, ha faticato un bel po’. Tra i ventotto ritroviamo Maria Elena Di Stefano con ampio approfondimento; e gli altri sono ‘affrescati’ ora con rapide pennellate, ora con approfondimenti pari a quelli fatti per il primo gruppo. Perciò, solo per completezza riporto i restanti ventisei in estrema sintesi (senza pretesa): Lina Albertini (chiarezza), Ettore Bartolotti (sensibilità), Alberto Biasi (interiorità), Mario Carletti (grafia), Roberto Carmona (monocolore), Paolo Castellani (pettine), Bruno Centaroli (acerbo), Lina Cezza Pinto (spatola), Marcella Chirico (sentimento), Francesca Romana Coluzzi (assenza), Adelmo Covarelli (visionaria), Ida Daniele (autobiografia), Annamaria De Magistris (arieggiata), Antonino De Pace (filosofia), Carmelina Gaeta (religiosità), E. Geoffrey (vitalità), Elio Giori (metafisica), Ambrogio Grassi (equilibrio), Maida (lana), Lillo Messina (disegno), Danilo Modesti (tramonti), Olinda Pasini (ecologia), Beatrice Squeglia (povertà), Vito Stabile (sociale), Iolando Veschini (ceramica), Domenico Vonella (scultura). Tito Cauchi Immagini in sequenza: Pietro Morini: “Paesaggio”, olio su tela; Eleuterio Gazzetti: “Nudo”,1971, olio su tela 40 x 50 (l’artista, pentito dell’immagine osé, le ha dipinto la braca successivamente!), proprietà famiglia Giorgio Iannitto, Sassari; “Paesaggio”, 1966, olio su tela 30 x 40 (proprietà famiglia Bruno Canestri di Grottaferrata RM); “Fiori gialli”, 1965, olio su tela 30 x 40; “Natura morta”, 1968, olio su tela 30 x40.

DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e agli altri che verranno) Il Convivio, Castiglione di Sicilia (CT) 2015, Pagg. 64, € 10,00 Domenico Defelice è autore poliedrico che spazia dai temi d’amore (di epoche passate), ai temi sociali; fustigatore degli apparati corrotti del potere e del sottobosco che vive nell’ombra; egli adopera la penna per quanto basta: ora appuntita come una baionetta, ora carezzevole come una piu-


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ma. Uomo ‘feroce del Sud’, legatissimo alle radici e alle tradizioni, si scioglie al sentimento, diviene quasi irriconoscibile perché esulta per lo stato di grazia in cui si trova: è Nonno! Si sente come un albero che dopo avere affondato le radici e avere accresciuta la chioma, guarda sbocciare altre gemme: il primo germoglio è dedicato A Riccardo e, fiducioso pregusta la gioia per gli altri che verranno, così difatti si intitola la recente raccolta, divisa in due parti. Ben a ragione Angelo Manitta, in prefazione, richiama l’attenzione sul costrutto in progressione dell’opera che ne fa un poema riguardante tutto il suo mondo affettivo: il valore della famiglia; altresì pur essendo un omaggio al nipotino Riccardo, avverte che non deve trarre in inganno e far pensare ad una “poesia d’occasione”, perché nel contempo tratta temi scottanti della società, come l’aborto. La versificazione presenta un andamento narrativo, usa un linguaggio colorito ma certamente i contenuti sono di una bellezza che intenerisce il cuore e invita ai valori essenziali della famiglia, issandone una bandiera. I componimenti, prevalentemente già pubblicati su Pomezia Notizie, hanno scandito l’ attesa, la nascita e l’evoluzione, formando un documento, unitamente a fotografie e alle date più salienti, che testimonia una storia. Domenico Defelice inizia con ‘La perla più preziosa’, Gabriella, la figlia che egli consegna davanti a Dio in sposa a Roberto Carnevalini Milano (in data 27 settembre 2003); “nel tripudio degli alleluia” e nella gioia dei festanti; il Poeta esulta perché “Sarà un’alba radiosa e nuova/ sopra una terra di germogli.” I primi titoli parlano da soli, così all’annuncio del germoglio in grembo, è in sommovimento come un “vulcano addormentato”. Mostra orgoglio che mi pare doveroso riconoscergli e rispettare. L’orgoglio della famiglia risuona come vera poesia epica. Probabilmente questa manifestazione letteraria è dovuta alla tempra di un uomo di

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vecchio stampo che si è preso una rivincita dalla vita; ma rappresenta anche l’affermazione di principii saldi su cui ha creduto e ha costruito. Per stare in materia arborea, considero che oggi, purtroppo, le condizioni contingenti, spesso ci fanno trascurare la conoscenza dei vari tronconi dell’ albero e dei vari rami e dei vari polloni. Così è nella metafora dell’albero “che affonda le radici nei millenni./ Defelice-Ferraro/ Ceravolo- Monteleone./ Forza e fierezza indomite.// Da questa talla indurita/ e dai Iannito/ son nati altri germogli/ e tu di loro sei la prima gemma.” (pag. 12). Domenico Defelice, nelle descrizioni fa avvertire il gusto del pittore, eleva l’inno alle donne nel motivo che tutte “sono Madonne nella maternità”. Nel caso specifico mostra la fierezza del nome di battesimo del primo nipote nato, Riccardo (26 ottobre 2009), il quale si rivela giocherellone, poiché era atteso bilancia, ma giunge scorpione. Pregusta le grandi opere di uomini che avevano portato lo stesso nome (come Cuordileone) e secondo tradizione pianta un virgulto d’alberello nel suo orto-giardino (così adesso sarà da aggiornare la sua raccolta Alberi?). Il Nostro non manca di inquadrare il grande evento nel momento politico in cui si scontrano governo e opposizione (qui tralascio i riferimenti). La narrazione ci fa assistere ai primi vagiti, ai primi pianti, ma anche ai successivi pianti; così il primo dentino, la ninna nanna che il Nonno inventa, il compimento del primo mese, poi del primo anno, la prima parola pronunciata (mamma, papà, nonna, nonno!); poi il primo grembiulino bianco, il primo saggio, le preoccupazioni, i capricci, ecc. che rinnovano le prime emozioni della paternità. Questi sono momenti dolcissimi che riempiono di sogno la vita; ma commenta: “Anche noi tutti siamo stati angeli/ all’alba della vita, poi negli anni contorta!/ Breve è nell’uomo l’innocenza,” (24); le nuove generazioni sono figli della tecnologia. Il bimbo non tiene mai ferme le mani, cammina carponi, tocca di tutto, scompagina la scrivania del nonno, magari stropiccia qualche pagina qua e là, o viene “Il dorso d’un ‘Palazzi’ sessantenne/ mille e mille volte consultato/ impietosamente lacerato”(27), facendo disperare il nonno ed anche la nonna; ma quando Riccardo ritorna a casa con i genitori, il Poeta nonno sente che manca il brio in casa. Anche questa particolare circostanza aprirebbe un argomento sociale di vasta portata, essa è dettata dalle esigenze della vita moderna, ed è una fortuna riuscire a lavorare in due in famiglia. Ansia, patema d’animo, i malesseri che strazia-


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no il cuore; Domenico Defelice pensa alla propria infanzia con i giochi alla Salgari, alla Peter Pan, quando ci si affidava alla fantasia; commenta che oggi si viaggia con molta più facilità. Così sicuramente va con il pensiero a sé bambino in compagnia del proprio nonno; è una legge di natura; si vede che ne ha avuto la fortuna. Nonno e nipotino ammirano la grandiosità del creato, il cielo, la mutevolezza delle nuvole, i tanti perché. Gli occhi del nipotino ora sono come gli occhi propri, tornato bambino, insieme nell’orticello: quanta gioia, i primi giochetti, le prime figurine: “Topolino che ride,/ la scimmietta e Mister Coccodrillo,/ Peppa Pig. E noi/ ad inventare storie sempre nuove./ …// Il tuo viso si gela./ Mi guardi inorridito/ se la fiaba si scontra con il vero.” (48), il cagnolino Meghi che gli ha fatto conoscere il primo vuoto. L’allegria al mare di Torvaianica (frazione di Pomezia), la vista di un aereo che si alza da Pratica di Mare, mentre la cronaca quotidiana instancabilmente trasmette le notizie: la partita allo stadio, questioni sociali, politiche, ecc. Riccardo ha compiuto cinque anni, circondato dall’affetto anche dello zio Luca, e degli zii Stefano ed Emanuela (in dolce attesa). Domenico Defelice apre così la seconda parte della raccolta. Il figlio Stefano ed Emanuela Vignaroli, sposi (14 settembre 2013). Alla sua maniera felice e giocosa e senza perdere l’ironia, leva altre grida di gioia dopo la cerimonia religiosa e urlando, al banchetto, che Sandokan ha conquistato la Perla di Labuan. Anche in questo caso rivive le emozioni per il nipotino che verrà, atteso in questa primavera (2015); ma non perde l’uso di richiamare alcuni personaggi che ne hanno portato il nome (Valerio) fra cui un noto partigiano. E già pensa: “Alberi voi sarete/ a porgere frescura alle mie ossa,/ a coprirmi di odori.” Ho il timore che la mia conoscenza personale dell’albero Defelice con tutti i suoi tronchi e rami, nonché del piccolo eroe Riccardo, possa avermi fatto indulgere nella esaltazione di questa fatica. Perciò desidero indicare un neo (a torto o a ragione); pur ammettendo che la scorza del Nostro è in superficie più tenera, la sua tempra è rimasta robusta, rimanendo asseverativo nelle sue affermazioni, credo che abbia ceduto il passo alla polemica di costume sociale scadendo un po’ nell’alone poetico (ma forse, in questo modo, è riuscito più incisivo). Tito Cauchi Siamo grati all’amico Tito Cauchi per essere intervenuto alla presentazione del libro all’Università di Roma Tor Vergata e per questa recensione, già precedentemente inviataci. Nella immagine, Tito Cauchi è il secondo da sinistra. (ddf)

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DOMENICO DEFELICE SAVERIO SCUTELLÀ Centro Studi Medmei, 1988, Pagg. 42 + XVIII tavole Domenico Defelice, calabrese, andando a quadri (secondo una sua espressione del 1975), ha legato con molti pittori cementando amicizia e interessi coinvolgenti. Egli dedica una monografia al pittore corregionale Saverio Scutellà, la cui effige è raffigurata in copertina. L’immagine di un dipinto che raffigura un “Totem ippo-afrodisiaco” è come l’ esergo che fissa un manifesto artistico e nel contempo promette un’opera poetica. La monografia si articola in tre sezioni, le prime due parti riguardano rispettivamente l’uomo-poeta e il pittore- affabulante, la rimanente riproduce diciotto opere a piena pagina, tutte ad olio. Il Nostro, con vena poetica, così introduce il Pittore: “Per Saverio Scutellà è stato il Leone. Sotto questo segno veniva alla luce mercoledì undici agosto 1910, nell’ora antelucana, nella cittadina di Delianova, un centro arroccato alle propaggini dell’Aspromonte, in un vano di baracca terragno, verso la periferia, tra il verde dei campi ed il mormorio delle cascate.”. Defelice racconta dei fortunati incontri che hanno scoperto le doti del ragazzo Saverio così da indirizzarne il futuro. Il primo incontro avviene con un medicochirurgo, scrittore e poeta, “un luminare per la cultura umanistica e scientifica”, che era Giuseppe Spadaro, il quale scopre nel fanciullo ampie attitudini artistiche che egli incoraggia, consigliando il padre di mandarlo al Conservatorio. Il giovane, per limitate risorse economiche, non acquista la strumentazione necessaria e tuttavia compone qualche romanza. L’incontro con un’altra figura di rilievo, come quella del maestro Filippo Moscatello, scultore di grande ingegno, dà l’avvio agli studi corrispondenti confluenti nell’Accademia di Belle Arti di Roma (1927-1935), seguendo, con enormi sacrifici economici, gli insegnamenti di maestri quali G. Vagnetti e C. Silviero, conseguendo “il diploma con medaglia d’argento, consegnatagli dalle mani di S. Maestà la Regina Elena”. Il desiderio di conoscenza conduce Saverio Scutellà a conseguire altri traguardi culturali, prima la maturità classica e successivamente la laurea in Lettere classiche: la pittura da una parte, come arte nobile che gli permette di sondare e di esprimere il mondo delle idee, e l’insegnamento dall’altra parte che gli permette di far crescere da sé le giovani menti. Giornalista, collabora con una ventina di testate nazionali orientandosi alla critica e al commento delle arti (pittura e musica, letteratura e poe-


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sia), con l’attitudine al servizio degli altri. Valido scrittore di poderose opere dove “spesso la fantasia si sposa con naturalezza alla realtà, l’ invenzione col particolare autobiografico, assolvendo a molteplici scopi: di cultura, di svago, di puro diletto estetico” (pag. 11). Domenico Defelice stima il più anziano Saverio Scutellà, poeta di vaglia, legato alla terra fino a mitizzare la Calabria e a fare dei calabresi i discendenti della eredità greca, definendoli “forti e gentili”. In particolare il Nostro si sofferma su Cattedrale di nuvole, voluminosa raccolta di vari temi, spesso di sonetti in rima, in buona parte dedicata alla madre e alla fede. Altre opere sono Crestomazia (1949), raccolta di laudi, liriche, bucoliche; e I canti della vita (1952), dedicati alla figura del padre, con residui retorici, secondo i tempi, ma lungi da panegirici e da nazionalismi, con uno sguardo rivolto alla giovinezza, alle giovani menti sognatrici con una punta di malinconia. L’uomo-poeta si caratterizza per la delicatezza dell’espressione, la musicalità dei versi, e come commenta il Defelice “l’amore vero canta sempre, ma urla raramente” (pag. 15). Saverio Scutellà, in quanto alla pittura, ha risentito all’inizio del Verismo, vedi i molti affreschi; ma

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ha risentito anche degli eventi gravi come l’ alluvione osservando i visi scavati delle persone, il dolore. È stato attratto dai ritratti dei tanti calabresi disperati, ma Defelice avverte: “Eppure, a leggerli bene, i personaggi non solo non hanno nulla di avvilente e di rassegnato, ma esprimono, anzi, una grande volontà di rivincita sulla forza bruta della natura, il desiderio di riprendere il lavoro, gli affetti, che la furia sembrava avesse per sempre cancellato. Lo si evince da quei giovani che sostengono i vecchi;” (pag. 22). È da queste opere drammatiche che “prende corpo l’Espressionismo, una delle tante correnti create dallo Scutellà” (22), che fa risaltare gli oggetti nei colori e nei contorni (Iperverismo). Crea una nuova corrente, il Panismo, ove si esalta la natura delle cose che circondano le figure umane a svantaggio della personalità degli stessi soggetti umani. E in senso cosmico determina l’Emanantismo (gli esseri che derivano dalla stessa sostanza). Le opere si caricano di simbolismo e di immediata percezione visiva. Poeta, filosofo, cultore della mitologia, trasfonde il suo pensiero nella pittura costituendo una sutura tra le varie branche del sapere e delle arti. Osservatore della realtà, delle istanze sociali ed ecologiche, tanto che raggiunge la perfezione dei tratti individuali facendone trasparire l’ interiorità. Così si verifica sia nei tratti somatici nelle opere figurative, sia perfino degli arredi ambientali nelle numerose opere sacre. Nei paesaggi con figure di persone e animali insieme, percepisco angoli di serena visione; così è nei caseggiati, nei lavori dei campi. Personalmente scorgo qualcosa tra l’onirico e il metafisico; le opere hanno tutte spirito educativo. Numeroso è l’elenco di mostre personali dall’età di ventisei anni alla data di pubblicazione della monografia (1936-1988), di premi di rilievo, dei critici che ne hanno scritto, nutrita è la bibliografia. Quando si incontrano persone che hanno comunanza artistica, il lavoro diventa un piacere e gli incontri diventano una benedizione. Così avviene che Domenico Defelice paragona Saverio Scutellà poeta, con l’altro poeta calabrese Geppo Tedeschi; e lo pone a fianco di altri due pittori calabresi come Mattia Preti e Francesco Cozza.; insieme a loro, inutile dirlo, c’è il Nostro. Tito Cauchi

___________ Qui a fianco: Saverio Scutellà: Arturo dei colori, 1986, lavoro a matita, 30 x 32, per la copertina dell’omonimo volume di racconti di Domenico Defelice.


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ALDO CERVO FREQUENTAZIONI LETTERARIE-2 Edizioni Eva, Venafro 2015, Pagg. 424, € 22,00 Aldo Cervo, casertano nativo di Caiazzo, dove risiede (classe 1944), docente di lettere, ha pubblicato finora 15 volumi, tutti di un certo impegno. Frequentazioni letterarie, non ha due righe introduttive, ma basta un’occhiata per rendersi conto che l’ Autore, in questo secondo volume, ha voluto riunire i suoi oltre duecento contributi critici ad opere, edite prevalentemente, in quest’ultimo quinquennio (2010-2014), molte delle quali pubblicate dalle Edizioni Eva, di Amerigo Iannacone. In questo modo offre testimonianza, o quanto meno, un rivelatore dei fermenti culturali del nostro tempo recente; lo fa con alcuni interventi di poche righe ed altri di lunghezza pari a una o a più pagine. È un lavoro interessante, è un po’ come leggere centinaia di libri insieme, e questo dà l’idea degli scaffali colmi di libri, rappresentati in copertina. Difatti il corposo libro raggruppa una ventina tra prefazioni e postfazioni, 150 tra recensioni e lettere, una quarantina di sue conferenze; i capitoli sono intitolati, generalmente, alle opere; infine l’Indice biografico essenziale degli Autori e l’Indice dei nomi citati, stanno a dimostrare l’impegno profuso. Gli oltre cento autori antologizzati sono elencati su Pomezia-Notizie, numero di aprile. Credo che sia encomiabile questa fatica, poiché porta a conoscenza del vasto pubblico tanti scrittori e poeti, soprattutto attraverso le biblioteche, perché un libro resiste di più nel tempo, rispetto a tanto materiale sparso. Nel contempo il Nostro dà prova di altruismo per essersi speso a favore di tanti autori, noti e meno noti. Una lettura estesa e meditata del corposo volume, arricchisce certamente il lettore e trasferisce un ventaglio di esperienze vissute o solo immaginate. Aldo Cervo procede con sicurezza, va dritto all’ argomento. Il presente libro è come una cartina al tornasole degli umori che attraversano la società, è come una documentazione, e rivela pure un profilo, anche dello stesso Critico, del suo metro di misura o di giudizio. È tempo di bilanci, perciò ha concentrato questi suoi interventi, da cui si possono trarre indicazioni propedeutiche per affinare il gusto estetico. Ricorda che l’avere trascurato il mito classico, ha finito per soffocare la Poesia, lasciando spazio a tanti sperimentalismi che riducono l’anima a un rebus e a un costrutto che massacra il linguaggio (sintassi ed anche semplice grammatica). Perciò auspica trasparenza lessicale perché altrimenti si finirebbe per scrivere solo per se stessi. Egli come docente di lettere pone particolare at-

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tenzione al registro linguistico, e come educatore è un divulgatore culturale che non può chiudere gli occhi dinanzi a doverosi richiami, lo fa con una esposizione piana e con moderazione. Invita alla misura, a non eccedere per esempio nelle similitudini o nelle metafore. Ammira la devozione alla memoria degli avi, la schiettezza espressiva delle emozioni; il discorso che si fa più vicino ai lettori ricorrendo al tono conversativo e, se necessario, anche dimesso. Si scaglia contro la sciatteria plurilinguistica, la proliferazione di letterati oscuri e incomprensibili che si celano dietro forme ermetiche, che loro stessi non comprendono, e magari sono stati incoraggiati da altrettanti pseudo critici, così da creare l’illusione del grande scrittore o poeta da meritare la corona di alloro. Aldo Cervo non manca di segnalare che a volte la voglia di comunicare massicciamente costringe a periodi composti di coordinate e subordinate, che rischiano cadute di stile oltre che di comprensione. Di converso, teme che le forme ellittiche conducano al non senso o al nulla. A volte non si esime di prendere distanza dall’autore recensito quando si tratti di argomenti di coscienza. Ricorda la funzione che un libro dovrebbe avere, quella didattico- educativa, che induca alla meditazione. Ricorda la capacità del potere salvifico della poesia, la scrittura intesa come obiettivo relazionale fra autore e lettore, e terapeutico catartico nella forma di autoanalisi. Occorre recuperare l’anima della comunicazione e della poesia. Mi sembra un peccato, uno spreco, una mancanza di rispetto tacere su un libro come Frequentazioni letterarie, specialmente quando contiene dei pregi. Ho scritto cose scontate, ma giova evidenziarle, perché spesso ce ne dimentichiamo. Tito Cauchi

ALDO SISTO (a cura di) “VIA CRUCIS DEL POETA” 2015 Echos Edizioni, 2015 Anche in occasione della Pasqua di Resurrezione 2015 è uscito il volume antologico “Poesia attivaVIA CRUCIS DEL POETA”, dopo le edizioni del 2013 e del 2014. Tutte curate, con amore e competenza, dallo studioso e scrittore Aldo Sisto, di Torino, che mette a fuoco, con una breve sintesi storica, anche il significato della Via Crucis nella tradizione devozionale, culturale ed artistica : “...Chi contribuì in modo decisivo alla diffusione della Via crucis fu il frate minore San Leonardo da Porto Maurizio che, nel 1750, ottenne da Papa Benedetto XIV la costruzione di 14 cappelle per la celebrazione della


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Via Crucis al Colosseo. Così concepita e tramandata...essa è giunta fino ai nostri giorni, per essere praticata in tutto il mondo cristiano e solennizzata urbi et orbi, la sera del Venerdì Santo, nell'officio del Santo Padre. In questa Via Crucis noi pure ci uniamo alle sofferenze e alla morte del Cristo, rendendole occasione, oltre che di preghiera, di poesia.” Da segnalare una “vibrante” Dedica introduttiva (“A tutti/ Amici e Nemici/ perché siano felici nell'anima e nel cuore...” a firma di Armando Santinato. Le 14 Stazioni della Via Crucis sono state rielaborate letterariamente, attraverso l'arte della Poesia, da 14 Autori, e precisamente da: Giovanni Chiellino, di Torino (prima stazione, Gesù è condannato a morte) ; Raffaella Bettiol, di Padova (seconda stazione, Gesù è caricato della croce) ; Luca Vincenzo Calcagno, di Giaveno (terza, Gesù cade la prima volta) ; Mirka Corato, di Torino (quarta, Gesù incontra sua Madre) ; Ernesto Calilli, di Torino (quinta, Gesù è aiutato dal Cireneo a portare la croce) ; Paola Grandi, di Torino (sesta, la Veronica asciuga il volto di Gesù) ; Pierantonio Milone, di Torino (settima, Gesù cade per la seconda volta) ; Francesco Clausi Schettini, di Bologna (ottava, Gesù incontra le donne di Gerusalemme che piangono si di lui) ; Paola Galliano, di Moncalieri (nona, Gesù cade per la terza volta) ; Erika Lux, di Torino (decima, Gesù è spogliato delle vesti) ; Eugenia Berardo Remondino, di Torino (undicesima, Gesù è inchiodato sulla croce ; Rita Muscardin, di Savona ( dodicesima, Gesù muore sulla croce) ; Umberto Druscovich, Valle d'Aosta (tredicesima, Gesù è deposto dalla croce); Franca Pissinis, di Zoagli (Genova) ( quattordicesima, Gesù è deposto nel sepolcro). Con il suggello di una “Stazione della Luce” a firma di Giorgio Enrico Cavallo, (Torino) Torino. Sintetizza lo spirito della pubblicazione, nella sua Postfazione, Donato Ladik : “...ogni stazione meditata ripercorre con sollecitudine il cammino che Nostro Signore ha affrontato nella via dolorosa con la sensibilità propria del poeta di pensarla come meditazione personale, da confrontare con chi l'ascolterà, per condividerla nelle intenzioni di preghiera e nei momenti di silenzio...” Notevole la chiusa di Franca Pissinis : “...per noi, Signore, mutata è, per sempre, la sorte/ Solo un la-

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drone ha capito!/ Non i discepoli, sconvolti, increduli, impauriti, / non gli anziani, gli scribi, o i sacerdoti, / non la gente di Gerusalemme/ non ancora...” Luigi De Rosa AA.VV. - Via Crucis del Poeta – a cura di Aldo Sisto – Echos Edizioni – Torino 2015

DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e agli altri che verranno) Il Convivio, 2015 Ho trovato il libro assai grazioso nella forma (molto carine le foto del nipotino) e nel contenuto, che rispecchia in pieno il “grande amore di nonno”. Io, non avendo avuto figli, non ho potuto sperimentarlo, ma ho avuto sei nipoti e da loro già tre pronipoti che sono stati (i primi) la principale fonte d’ ispirazione per le mie favole. Ora, inoltre, ho anche altri 3 nipoti acquisiti. Sono bambini, di origine peruviana, che mio marito ed io abbiamo tenuto a battesimo, oltre a fare i testimoni alle nozze dei loro genitori... ormai senesi a tutti gli effetti. (...) Devo congratularmi (...) per aver esposto in poesia i (...) sentimenti senza sovraccaricarli di sdolcinature melense. Sono versi agili che scorrono come un fiume calmo e tranquillo, e che portano con sé la saggezza dell’età. Ciascuna poesia è un dialogo con il nipotino, non solo per dichiarargli l’amore sincero di un nonno amorevole, ma per suggerirgli di volta in volta di fare attenzione agli ostacoli che la vita gli porrà sulla strada.... Paolangela Draghetti

DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e agli altri che verranno) Il Convivio, 2015 Il 27 settembre 2003, Domenico Defelice - che è poeta - consegnando la figlia Gabriella (... che bella figlia, che bella sposa, madama Doré!) allo sposo Roberto Carnevalini Milano, consegna LA PERLA PIÙ PREZIOSA: Splende la sposa come una regina/il re le ha giurato eterno amore/. Nel marzo 2009, l’ANNUNCIO: è sbocciato un fiore/nel ventre di mia figlia. Alleluia! Sino al 26 ottobre, quando presso il Sandro Pertini di Roma, nascerà il nipotino, nonno Domenico sta nel sogno: Dicono che ancora non sei niente/dicono che uno come te, chi vuole/può gettarlo alle ortiche. Pazzi!/ La sacralità della vita, l’orrore dell’aborto!


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Sei il primo fiore/impastato con le mie cellule./Entrar dovrai nel mondo dal verde rugiadoso/quel mondo che sarebbe una placenta/se gli uomini non si divorassero a vicenda. TI CHIAMERAI RICCARDO. E, segno dello Scorpione, Riccardo nasce:/ Rendiamo grazie al Signore/. Nonno Domenico pianta un leccio: Insieme crescerete/tra cent’anni/vecchio t’immagino e felice/godere alla sua ombra/. Ecco per Riccardo NINNANANNA NINNAOO, e l’attenzione al suo pianto, al primo dente, al sorriso di galassie. Oh, le manine alle rinfusa sul computer, sui vocabolari, la scrivania campo di battaglia! E le assenze del piccolo: le vacanze in Sardegna, il viaggio a New York; dal mare di Puglia la voce di Riccardo al telefono che per la prima volta pronuncia la parola NONNO. Il primo compleanno, il pianto quotidiano per l’ingresso alla Scuola Materna, il pianto per l’assenza di mamma e papà, la felicità a sera al loro ritorno dal lavoro. E i giochi tra divano e poltrona. Il primo saggio scolastico. Nonno Domenico che inventa per lui racconti fiabeschi, che si preoccupa per le di lui allergie a polvere e pelo di gatto, che lo ama di grandissimo amore blindato (schivo di abbracci e di esternazione dei sentimenti) dispensa nelle pagine tesori di principî morali, consigli di vissuta esperienza e saggezza. Contro il “naturale” egoismo infantile, l’invito a capire che mio sta bene insieme, a tuo, suo, nostro, vostro, loro. Che lezione! /Tocca a noi moderare le tue brame/A costo anche di vederti piangere/Rimani bimbo ancora a lungo!/Cerca di inseguire Verità e Bellezza/. Ciascuno è fabbro della sua fortuna/. Ama le nuvole: forse in qualcuna scorgerai il mio volto/. Confida il poeta: Ho pregato e prego Dio/per gli altri che verranno. Così ce n’è per Valerio Defelice, atteso a primavera, figlio del figlio Stefano e di Emanuela dagli occhi neri spille lucenti. (Già invita il nascituro a seguire virtute e conoscenza!...). Al congedo, in SARETE IL MIO FUTURO: Non morirò del tutto/Alberi voi sarete/a porgere frescura alle mie ossa/a coprirmi di odori/. Amico Domenico, la Vita si è allungata! Lunga Vita! Affettuosamente Elena Milesi

DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e agli altri che verranno) Il Convivio 2015 - Pagg.64 - € 10,00 Un altro gradito dono è arrivato da Domenico Defelice: il suo ultimo volume dedicato al meraviglioso nipotino, e non solo, anche agli altri che verran-

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no. In questo lavoro Defelice deposita la sua memoria familiare iniziando dal matrimonio della figlia (un distacco dolce/amaro dalla sua “perla più preziosa”); unione che darà alla luce Riccardo. Ancor prima della nascita, però, la fantasia del nonno vaga nel futuro quando potrà essergli vicino e insegnarli a crescere. Inoltre, sa che la vita comincia sin dal concepimento e per questo ama già incondizionatamente il corpicino che si sta formando giorno dopo giorno. Sa pure che quel corpicino è “impastato” con le sue stesse cellule ed è la nuova gemma di un albero genealogico millenario. A differenza degli altri libri, in questo lavoro manca completamente la vena ironica, anzi, il dettato poetico scorre in maniera quasi elegiaca poiché traspare un profondo sentimento. Non solo amore verso il nipote ma amore per la vita stessa, con tutto quello che la circonda. Il mondo che attornierà Riccardo sarà certamente diverso da quello del nonno: “Penso come sarà il mondo / visto dai tuoi occhi, / quello che non sarà più mio.”. Alla figura di Riccardo s’intreccia quella della figlia (preziosa anche nell’aspetto, con i capelli biondi e gli occhi verdi), ora madre, che assume un altissimo valore: “Tutte le donne / sono Madonne / nella maternità.”. Il percorso narrativo di Defelice si discosta in ogni modo dal semplice omaggio affettivo poiché nel racconto confluiscono temi che oltrepassano il dialogo, come per esempio la collocazione della nascita del nipote in un preciso ambiente politico e in un determinato periodo astrale; e in generale si recepisce un impegno addentro l’ambito sociale, culturale ed etico. Egli segue passo dopo passo la crescita di Riccardo, dal primo dente al primo compleanno, alla prima volta che si è sentito chiamare nonno, e così via. Un epistolario che accende scene familiari e fotografa teneri momenti, ma anche la crisi per l’inizio della Scuola Materna: “Cosa non farei perché si avesse/il tuo sorriso nel distacco,/ non assistere ogni mattina a un pianto disperato.”. Riccardo intanto cresce. Arriva il primo saggio della Materna, comincia il dialogo con il nonno e la collaborazione ai giochi e alla vita: “Siamo in campagna, Nonno? Mi aiuti / a piantare e innaffiare?” Tu, a strappar piccole bacche / dalla siepe e spargerle tra l’erba.”. E tra fiabe e capricci arrivano i cinque anni. Per l’importante momento Defelice gli dedica una profonda, significativa lirica, dove appaiono anche i suoi ricordi d’infanzia e, purtroppo, l’amara consapevolezza di essere vicino al traguardo: “Non so quando, Tesoro, non so quando, / ma presto dovrò lasciare questo mondo!”. Nella seconda parte, Defelice sposta il suo augurio a un altro matrimonio, quello del figlio Stefano,


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dal quale avrà inizio un’altra nuova vita, e il suo cuore già trepida nell’attesa dell’evento. Inoltre, è consapevole che i nipoti saranno il suo futuro e che attraverso i loro occhi anche la morte non vincerà del tutto: “Non morirò del tutto. / Vedrò la luce con i vostri occhi, / i colori, le forme, / le tante meraviglie strepitose; / suoni ascolterò, rumori ed armonie / col vostro udito;…”. Nel volume sono incluse delle bellissime fotografie di Riccardo e degli sposi, che accompagnano il dettato rendendolo ancor più pregnante. Laura Pierdicchi

MATTEO VOLPE CANTI METROPOLITANI poesie” Cronache Italiane, 2014 Canti metropolitani – Poesie” di Matteo Volpe, per i tipi della Ediemme – Cronache Italiane Salerno 2014 - € 15. È una silloge poetica dove esplode con vigore, sotto forma di sarcasmo, la rabbia di questo giovane poeta, laureato in lettere e filosofia, per tutto quello che vede e sente in questa società diretta a uso e consumo solo dei furbi e a discapito delle persone oneste. Volpe nella sua poesia mette in luce tutte le stoltezze che giorno per giorno ci trasmette la TV e la stampa, non sempre con chiarezza, ma spesso mascherate per abbindolare e disorientare il lettore in modo da distoglierlo da ogni forma di reazione. Il popolo italiano non ha la forza né la volontà per ribellarsi; si è adagiato, perché costretto a nicchiare, sotto ogni aspetto civile e morale. Ecco, i potenti che intrallazzano in modo vistoso, per loro non ci sarà mai una giusta punizione, ci sarà solo per il povero indifeso, non sempre equa né giusta. Il Poeta Volpe con la sua silloge cerca di mettere in guardia il cittadino presentandogli una poesia leggibile e bene indirizzata, anche se molto filosofica, con metafore che vanno dai soprusi ad una denuncia che non sarà mai accolta, perché sono tutti corrotti e tutti guardano i loro interessi, fregandosene di tutto e di tutti, della perdita della loro dignità di uomini, e soprattutto dell’amor proprio: chi dovrebbe trovare terreno fertile per fermare tanti luridi corrotti, non ha interesse. La giustizia ha altro per le mani, ha il potere di rovinare chi è già rovinato, vedi i vari suicidi di creditori dello Stato, ma oppressi dalle tasse. Nei versi di Volpe risalta il marciume di uno Stato dalle zinne gonfie dove tutti vanno e allattano, perché nei suoi rappresentanti c’è il cancro pestifero, dove ogni legge non viene rispettata o si trova subito il modo per evaderla e aggirarla. In questi lapida-

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ri versi Volpe ci fa, secondo la nostra lettura, capire che occorre una certa “coercizione” per avere il rispetto delle leggi e che gli stessi rappresentanti diano l’esempio affinché tutti i cittadini vengano messi nelle condizioni di bene operare e non seguire la strada di tanti imbroglioni e ladri che, seduti su scanni più alti, si arrogano tanti diritti a discapito dei più deboli: “Solo la legge impressa / a fuoco nella carne/ sarà rispettata”. Questa dovrebbe essere l’operazione ma gli onesti dove sono? Un interrogativo che lascia l’amaro in bocca. Matteo Volpe ha avuto, sicuramente una educazione rigida nel rispetto di tutte le norme del civile vivere. Le sue poesie hanno sì la matrice del sociale ma sono scritte, dal nostro punto di vista, con una rabbia leggermente attenuata. Noi diciamo che il ladro deve essere chiamato ladro, così pure il criminale e l’assassino: non è assassino solo chi ammazza, anche chi priva della possibilità di vivere decentemente la propria vita. Il grande poeta di Mirabella Eclano (AV), Pasquale Martiniello, ha simboleggiato tutti coloro che rappresentano le istituzioni dello Stato, sotto ogni forma di animale, scrivendo una poesia piacevole da leggere e meditare. Matteo Volpe è un bravo poeta e la presentazione fatta dal grande critico letterario Antonio Crecchia, che ne esalta il pensiero e la scrittura, ne è testimonianza ineccepibile. Quella di Volpe è una poesia di denuncia scritta con un sistema tutto personale per renderla accessibile ai lettori, infatti, ha usato molto il verso libero tenendosi, però, nei limiti di una metrica classica in quanto i suoi versi sono vari nel numero delle sillabe e degli accenti. La poesia, oggi, ha perso i valori del bene e dell’amore, del mare azzurro, del cielo stellato, della luna, della fantasia del poeta e si è avviata sulla strada della socialità che non ha nulla di poetico. Una poesia che rispecchi i nostri tempi può essere bene accetta, ma è sempre difficile trasfondere in essa sentimenti che siano di dolcezza. La rabbia è troppa e le parole diventano sempre più offensive, anche se si fa lo sforzo per addolcirle. La critica imperante, il più delle volte, non magnifica tali poesie, forse per paura o per “credo politico”, eppure non sono pochi quelli che si cimentano e denunciano fatti e misfatti degli uomini di potere. Ciro Rossi

DOMENICO DEFELICE MARIA GRAZIA LENISA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 Nel recente Quaderno Letterario di “PomeziaNotizie” (Il Croco, gennaio 2015, pp. 32), Defelice


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ci offre una magistrale monografia sulla produzione poetica e letteraria di Maria Grazia Lenisa (1935 2009), che è stata direttrice di una collana di Poesia dell’Editrice Bastogi. Nella sua decennale collaborazione al Ponte Italo-Americano, la Lenisa ci ha fatto pervenire molti suoi libri di poesia di cui Defelice fa un’accurata analisi estetica. La stessa cosa fa delle sue lettere e dei suoi saggi nei quali la Lenisa discute Giorgio Bárberi Squarotti, Antonio Coppola, Giovanni Ruggiero, Andrea Zanzotto e Corrado Calabrò che noi abbiamo conosciuto all’ Università Statale di Ramapo in occasione di una sua conferenza. Prescindendo dai canoni che regolano una vera e propria recensione, qui ci piace sottolineare alcune affermazioni di Defelice che puntualizzano la poetica e l’ideologia di Maria Grazia Lenisa: • è evidente una gran dose di narcisismo nella poetessa che non esita a detronizzare la divinità. Lenisa è poetessa ironica: la morte riconduce la creatura alla sua fonte. • La sua opera filosofica è difficile, lambiccata, aggrovigliata da richiami culturali continui...Ormai c’è poca differenza tra certa poesia e la prosa: ogni poeta ha un suo stile più o meno sofisticato. • Il poeta che noi intendiamo, oggi è condannato ad essere incompreso. La cultura crebbe dopo Dante, ma crebbe, in parallelo, l’ignoranza. Confessiamo che è ormai da tempo che proviamo sempre più vergogna davanti alle opere “difficili”. • La missione del poeta è di educare la gente, innamorarla alla lettura e alla cultura. • Il poeta moderno vuole stupire, deve stupire ad ogni costo. Oggi non si può più essere fedeli ai poeti perché dell’infanzia il loro spirito e il loro linguaggio non hanno più nulla. • L’uomo continua a misurarsi con Dio: l’uomo è stato sempre, e continua ad esserlo, un superbo e un ingrato. La religione di Lenisa naviga tra misticismo ed eresia. Per chi ha fede salda l’anima non si spegne con il corpo (ma è immortale). Dalla lontana America noi apprezziamo queste asserzioni di Defelice. Noi abbiamo sempre ritenuto che se la poetessa non era veramente atea, era per lo meno agnostica. Ci sono molti che si dichiarano atei durante il giorno, ma poi la notte hanno dubbi e incubi, riflettendo sull’esistenza di Dio, sull’ immortalità dell’anima, sul valore della creazione dell’universo. Ecco la vera ragione per la quale il linguaggio poetico della Lenisa è difficile e sofisticato: esso nasconde sotterfugi ed ambiguità nei riguardi della metafisica e dell’escatologia. Certo: si può essere poeti anche senza la fede in Dio... In tal caso le parole si perdono e si disperdono nell’oblio dell’abisso e della storia.

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Bravo, caro Domenico, ti ammiro e ti elogio per la tua ideologia che è in perfetta sintonia con la mia! Orazio Tanelli USA - Direttore de Il Ponte Italo-Americano

HO SALUTATO Ho salutato l’alba mentre il mio cuore germogliava sinfonie. Loretta Bonucci DISINFORMAZIONE Che ne è della stella che si è spenta? Della cometa che doveva cingerla? E dell’angelo che ha dimenticato chi e perché l’ha mandato? Corrado Calabrò NO TITLE Old-age pauper, my own nocturnal sky revolver five-year periods and decades, Flakes them away, absorbs them. If at times A bit survives it’s unimportant bit, The thorn being poked, the nonsense that does faint so imperceptibly. Where’s the arm of the sea, ware being rewound And unrolled call to barren lands adorned With the gold that another sun was shining? The rapture of the perfumes out of wilds, The hazy dreams in the cool of palm-trees, The silver tinkle of eucalyptuses Brought by the gentle breeze, or the doodles From star to star high emblazing laud book of the nightingale?


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My lost Eden, at the moment I have The floating cogitation of the night In the hostile heaven, the hunger for time, I myself pushed into the black thickness of the oblivion. Piera Bruno Trad. di Benito Poggio Benito Poggio ha pubblicato nell’ottobre del 2013 una splendida ed esaustiva traduzione dell’ Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Una delle tante recensioni ricevute, forse la migliore, è apparsa in Pomezia-Notizie, anno 22 n° 8, agosto 2014, pag. 12/15. Piera Bruno

UNO PIÙ UNO, DUE L’uno si sentiva triste e il tre era chiassoso e nacque il due equilibrio armonioso. Due amori nel cuore di Elena, due poemi scritti da Omero, due decenni per tornare ad Itaca, due torri cadute a New York, due croci accanto a Gesù, due gemelli come Castore e Polluce, due regni prima del Paradiso, due pilastri per reggere un arco, due parole per fare un discorso, due mani per dirsi addio, due lacrime sul volto di Pierrot, due Testamenti per fare una Bibbia, due occasioni per scegliere se andare

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avanti o fermarsi qui. Isabella Michela Affinito Dal volume Viaggio interiore - Ediz. EVA, 2015.

LASCIAMI ASCOLTARE IL SILENZIO DI UN GIARDINO! Sciabordìo parlottìo urlìo, per amore di Dio, lasciatemi assaporare il silenzio. A una sfilata, spesso inguardabile, di ostentati sederi, di mammelle e pance nude si alternano strepiti assordanti di motori e di armi strazi feroci di battaglie quotidiane, occhi infidi di terminali, catastrofi naturali, folla di facce umane e subumane impastate di assordante indifferenza. Lasciatemi ascoltare, per favore, il cuore del silenzio. Grandi città splendenti e maleolenti, denaro e sesso, denaro e potere, diffusione di vecchi e nuovi inganni, tra vecchie e nuove ingiustizie... tra agguati sempre più crudeli e disumani. Lasciatemi assaporare una gioia che sembra perduta, fuori del tempo : il variopinto, enigmatico silenzio di un giardino ! Luigi De Rosa PER STUPIRMI D’INVERNO Chi sei onda come ti chiami? Che cosa vuoi dirmi? E’ la prima volta…. Son venuto da te che sei parte del mare per ascoltare il tuo fragore, per stupirmi d’inverno quando tutto è monotono.


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I pensieri svaniscono dentro raffiche di vento che trasportano gocce pregne di sale. Il sole di mezzogiorno mi brucia gli occhi. Vestita di bianco stento a vederti appena uscita dalla cattedrale. Ti amai a prima vista immatura ed efebica. Allora non correvi, non eri instancabile, tranquilla ti cullavi come il dondolare di barche, sognando quel principe che ti avrebbe rapita, la notte dalla falce di luna con la gobba a levante che raccoglie e diffonde… I limpidi sogni della tua fanciullezza. Colombo Conti

ABISSI DI SALE

Pag. 56 le vele di un'intera vita tra le sponde di un immenso mare di dolcezza. Lorella Borgiani

SPECCHI DI GIOVENTÙ Lusso d’abbracci negli specchi di gioventù … docile orgoglio tra pause di cuore tocca ali di saggezza. Spavalda urti contro una pace spietata che strepita in quest’inverno senza fine tra tuoni d’estate. Lorella Borgiani

Lontano giorno affollato di tristezze sulla riva di un improvviso sentimento

Ardea (RM)

l'anima riaccende il ricordo affievolito dal tempo. Irremovibili scogliere negli infiniti abissi di sale celano quella passione mossa da ardite emozioni. Alba bagnata di cielo qui dove cullo le mie malinconie turbinii irrequieti d'onda D. Defelice: Il microfono (1960)

esplodono nel frangente spumeggiante di un'estate alla deriva. Primeggia quel caldo raggio di sole nell'orizzonte rosso fuoco di una brezza marina dove amica di un turbamento ricco di giovinezza vedrò navigare senza respiro

NOTIZIE AURORA DE LUCA ALLA FIERA DEL LIBRO DI TORINO - Torino 16 Maggio 2015 Salone del Libro - L’editore Sandro Gros-Pietro ha presentato, alla Fiera del Libro di Torino Lingotto, “Materia Grezza” Genesi editrice di Aurora De Luca presso la Sala Avorio .


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Appena arrivati il colpo d’occhio è andato alla vastità dell’esposizione, ai tanti padiglioni che si susseguivano in lunghi corridoi ricoperti di velluto blu e alla moltitudine di stand che esponevano le opere di autori di ogni gamma. Ampi spazi pieni di luce e aperti ospitavano conferenze e presentazioni di grandi personalità, dello spettacolo, dell’arte. Sale di lettura con poltrone colorate erano l’angolo “intimo” di quei visitatori che già si perdevano tra le pagine dei libri appena trovati. Alle ore 21.00 è iniziata la presentazione di “Materia Grezza”; il relatore-editore, Sandro Gros Pietro, apre salutando i presenti e introducendo la raccolta di Aurora De Luca. Prende spunto dalla fotografia dell’autrice, immaginandola come “una venere entrante nell’acque” per introdurre la materia di contrasti in evoluzione di cui la raccolta poetica è la voce; una discesa nella dualità, nel sentimento d’ amore rivolto “a ciò che nasce”. L’attore Angelo Tronca interpreta poi alcuni testi, portando la poesia alla sua forma sonora. In conclusione un dialogo-intervista condotto da Gros Pietro con l’autrice ha reso possibile il discoprire di alcuni meccanismi, consci o meno, che costruiscono la poesia: come funziona una fucina in cui ad essere “battuto” è un astro cadente, qual è la misura del reale, quale quella dell’irreale; quali sono i tempi e i luoghi, la scelta dei temi e delle parole. Ne è uscito fuori un discorso poetico su una poesia definita interiormente musicale e metaforica.

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L’autrice ha salutato il pubblico con l’ interpretazione di “In punta d’occhi”, testo che ben abbracciava gli angoli di visuale da cui si era osservata “Materia Grezza”.

Nella foto qui sotto: Sandro Gros-Pietro e Aurora De Luca *** RINGRAZIAMENTI E RIFLESSIONE : La crisi dei sentimenti - Ringrazio Maria Antonietta Mòsele per le parole usate nella ricostruzione del mio naturale vagare attraverso le sensazioni forti dell’ amore spirituale e carnale, fino a diventare esplicito - asserisce lei, ed io convalido - Vero, il mio Amore Delirio e Desiderio è il volo nella sensazione più bella di tutta l’esistenza umana, esplorata con l’ anima e con il corpo. Ringrazio anche Paola Insola per le sue parole, per la sua indagine nella mia poetica, riportando alla ribalta i passaggi meno espliciti, ma intensi in egual misura e per la sua tenera amicizia. Vorrei, però, passare ad una riflessione che credo coinvolga tutti: la crisi dei sentimenti. Gli amori sono il sole caldo e scoppiettante delle cellule umane, riflesso di quelle particelle di nucleo di elio che si distruggono per arrivare a noi, sotto forma di raggio, l’esempio più solare del meraviglioso cosmo pulsante. Ma gli amori possono finire, cambiare forma, trasmutare, tuttavia non debbono armarsi di violenza e distruggere l’altro a colpi di fendente mortale . Ab-


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biamo un consumo delle emozioni a velocità di fibra ottica, a masticazione messaggistica, a mutamento vertiginoso degli slanci, dimenticando che le sensazioni umane sono più lente e più corpose, del passaggio istantaneo. La crisi dei sentimenti, messa a dura prova dalla doppia velocità, genera spesso ed apparentemente morti inspiegabili, invece è chiaro, come quel raggio di sole che apre e chiude il giorno, che l’amore vive e muore nel naturale circuito esistenziale. Oggi, però, bisogna fare i conti con una velocità tale, che spesso lascia i cuori fragili a non sopportarlo e a quelle menti altrettanto fragili a non comprendere che, non è amore la rabbia e la violenza. Il vuoto lasciato da un amore deve assistere al nostro rinnovamento, pronti a vivere, del nuovo o dell’antico ritorno. Filomena Iovinella Cara Filomena, hai ragione, forse c’è vera crisi di sentimenti. Ho potuto rilevarlo dal calore dimostratomi dalle allieve ascoltando il prof. Carmine Chiodo, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata, presentare il mio volume di versi su Riccardo, dalle domande rivoltemi. I giovani se ne stanno accorgendo che il mondo interiore non può esaurirsi in “un consumo delle emozioni a velocità di fibra ottica, a masticazione messaggistica”. Non credo ci possa essere, a breve tempo, una crisi dei telefonini, ma qualcosa dovrà pure cambiare, perché l’amore di due corpi che si fondono e si danno non va d’accordo con i messaggini e l’amore vero porta al sacrificarci per l’altro, non alla sua distruzione. Domenico *** TESTIMONIANZE PER IMPERIA TOGNACCI - Dalla lettera del 18.03 2015: È bellissimo il Suo poema del viaggio nel deserto allegorico fino alla meta che è il conforto dell’acqua serena del mare, e, al tempo stesso, la fine dell’itinerario della vita. C’è dentro, il sacro, e c’è l’inquietudine costante delle tappe faticose del passaggio nel deserto (come quello degli Ebrei usciti dall’Egitto e come quello di Giovanni prima della predicazione e di Gesù che digiuna prima di affrontare il tentatore)… Giorgio Barbéri Squarotti Dalla lettera del 22.03.2015: Ho ricevuto il bellissimo volume: “Là, dove pioveva la manna”, e ti ringrazio sentitamente per questo dono così prezioso, importante ed ispirato. E’ un’opera nuova e diversa, se ne avverte immediatamente lo sforzo, originalissimo, di decodificare in maniera “dialettica”- riprendendo il giudizio di

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Andrea Battistini- l’apparente, eppure reale, “aperta via dell’umano esodo” non soltanto metaforicamente proiettato verso la “terra promessa”. Occorre scavare, interrogare, indagare nel più profondo delle nostre coscienze confuse e annebbiate da egoismo, viltà, vanità. E’questa la vera sfida alla quale siamo chiamati: evitare illusorie fughe versi l’ignoto, ed affrontare invece le contraddizioni e le miserie della comune “condizione umana”. Sconfiggere, come tu scrivi, il “deserto interiore” delle “brulle coscienze”. Il nichilismo che avanza inarrestabile, il “Male” denunciato da tanti maestri della letteratura, a cominciare da F. Dostojevskij nei suoi capolavori. Il tuo è un grande “exemplum” di umanità e di poesia…. Francesco De Napoli Caiazzo 20 settembre 2014 Gentile Poetessa, Ho ricevuto il saggio monografico sulla Sua opera poetica e in prosa, scritto da Luigi De Rosa. Trovo (e la cosa mi lusinga) una nota mia tra le tante altre di autorevoli saggisti e critici letterari. Ho apprezzato, e apprezzo, della Sua poetica quel procedere lungo una direttrice linguistico- espressiva che, mentre si tiene alla larga da esasperate soluzioni elittiche, ai limiti dell’ impenetrabilità, recupera, con misurate concessioni allo sperimentalismo contemporaneo, strutture metriche e toni dove è possibile cogliere le ascendenze, ancora così vive in Lei , dell’intramontabile Classicità. La ringrazio, dunque, del bel dono mentre auguro alla Sua feconda creatività nuovi, amabili poetici parti. Aldo Cervo De Rosa, Imperia Tognacci e i suoi poemi in poesia e in prosa, Edizioni Giuseppe Laterza. *** AGENDA 2016 - È in programma L’Agenda 2016 per artisti e poeti. Caratteristiche generali: formato, 17 x 24; pagine 320 di cui 160 dedicate all’agenda e 160 a composizioni liriche di poeti e alle tavole di artisti. Coloro che sono interessati, son pregati di rivolgersi a: Prof. Giovanni Zavarella (075. 8040700 – 347.1484684 – giovanni1938@tiscali.it) - LuoghInteriori edizioni (075.8521591 – segreteria@luoghinteriori.com). *** L’ADOLESCENZA E LA NOTTE alla LECTURA DANTIS METELLIANA - Martedì 26 maggio 2015, alle ore 17, col patrocinio della Città di Cava de’ Tirreni e della Lectura Dantis Metelliana, presso la Biblioteca Avallone di Cava de’ Tirreni - viale Marconi - è stato presentato il libro di


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poesie: L’adolescenza e la notte, del prof. Luigi Fontanella della Stony Brook University of Neww York. Il volume, edito da Passigli Editori, è stato presentato dal Prof. Carlo di Lieto - Università Suor Orsola Benincasa - e dal Prof. Fabio Dainotti - Presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana. A porgere i saluti sono stati il prof. avv. Marco Galdi - Sindaco di Cava de’ Tirreni - e la Dott.ssa Teresa Avallone - Direttrice della Biblioteca -; coordinatrice la Dott.ssa Gabriella Avagliano; coreografia dell’Accademia della Danza. Alla cerimonia, alla quale era presente l’Autore, ha assistito un folto e qualificato pubblico. È seguito un Cocktail. *** SETTIMANE MUSICALI AL TEATRO OLIMPICO - Nella serata del 17 maggio 2015 si è aperta ufficialmente a Vicenza la XXIV Edizione delle SETTIMANE MUSICALI AL TEATRO OLIMPICO, evento che, sotto la presidenza di Paolo Marzotto, porta a compimento, fino al 16 giugno prossimo, il lavoro del Direttore artistico Giovanni Battista Rigon, affiancato da Sonig Tchakerian, alla guida del Progetto Artistico per la Musica da Camera e che coinvolgerà in un impegno sempre affascinante musicisti, studiosi ed esperti intorno a contenuti preziosi della nostra cultura musicale italiana, europea, internazionale. Il concerto di questa sera, Vivaldi & Vivaldi recomposed, le Quattro Stagioni di Antonio Vivaldi (1678-1741), Recomposed di Max Richter (1966), in prima esecuzione italiana, ha visto al lavoro Sonig Tchakerian, violino solista concertatore alla guida dell'Orchestra di Padova e del Veneto. L'anteprima di questa Edizione è stata data il giorno 8 maggio, proprio al Teatro Olimpico, con il concerto 'Memorie de la noche fra Musica classica, Jazz e Poesia', in collaborazione con Vicenza Jazz Festival, creatura artistica di Alberto Brazzale, con Sonig Tchakerian, violino, Pietro Tonolo sax, Giancarlo Bianchetti percussioni, Paolo Birro pianoforte Roberto Rossi trombone, Juan Carlos Mestre bandoneon e voce recitante in lingua spagnola su temi e riflessioni poetiche di intensa attualità. Invierò al nostro Direttore copia del programma in volumetto, corredato di foto e di testi d'opera, che porta l'introduzione del vice sindaco Jacopo Bulgarini d'Elci, dono di Elisabetta Rigon, preziosa collaboratrice e segretario generale de 'Le Settimane Musicali al Teatro Olimpico'. Ripensare il passato ed i suoi documenti d'arte attraverso una sensibilità personale a piena distanza, quasi psicologicamente incommensurabile, nello spazio e nel tempo; mettere la propria identità tutta in ascolto di quelle testimonianze e lavorarci su, in modo nuovo, pregnante, artisticamente efficacissi-

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mo; far vibrare al proprio interno creativo tutte le componenti stilistiche e tecniche per arrivare ai temi del 'recomposed work': questo il risultato del lavoro del compositore tedesco Max Richter, che vive tra l'Inghilterra e l'altrove e che nel suo percorso artistico, del resto assai prestigioso, ha fatto sosta a Firenze, presso l'Accademia Luciano Berio, nei suoi esordi pianistici. Una drammaticità imprevista ha attraversato i temi dell'Op. VIII 'Il Cimento dell'Armonia e dell'Invenzione' (1727), la famosa opera 'Le Quattro stagioni' di A. Vivaldi: Sonig Tchakerian, violino solista, ha diretto l'Orchestra da Camera di Padova e del Veneto, con una intensa partecipazione che ha completamente rivoluzionato il suo ruolo, in dialogo esegetico con i contenuti musicali e la stesura dei testi poetici vivaldiani, che, nelle scorse prove, andava via via illustrando al pubblico. Ora questa conversazione non è più possibile perché ciò che era già stato vissuto in ascolto delle stagioni vivaldiane e rimane impresso nella nostra memoria, viene ripreso, frantumato insistentemente, ricomposto utilizzando le imprevedibili potenzialità timbriche degli strumenti a disposizione, quelli si, scelti dal Vivaldi: la furiosa ripetitività del monotono degli archi provoca un effetto intensissimo, un rapporto tra figura e sfondo che viene rivoluzionato dall'interno e talora riposa, per poco però, sugli aspetti melodici, bucolici, didascalici dell'originale. Dopo l'attualità che si proietta nel futuro, incredibilmente matura e con chiari aspetti d'angoscia, ecco l'esecuzione del modello originale, quel 'tutto' di Vivaldi che fa da fondamento all'ispirazione tematica innovativa, rispettosa e rivoluzionaria ad un tempo. La creatività diventa allora quel 'infinitum' nel 'continuum' dell'esperienza compositiva, così Cimento ed Armonia si inradicano nel nostro tempo e ne connotano gli aspetti più problematici. Max Richter ci avverte: niente nostalgie per una riaffermazione statica del passato o fughe sterili da un presente sconvolgente e talora disperato, ma vera e propria appropriazione originale e consapevole di quei nodi intersecatissimi che incrociano insieme composizione esecuzione ed ascolto. Sonig, magistralmente, prende sulle sue spalle questa tensione e ne fa condividere l'originale, preziosa efficacia artistica. A ridosso immediato di questa indimenticabile serata, due opere magistrali a confronto: il 'Don Giovanni', dramma giocoso in due atti di Lorenzo da Ponte, con musica di W. A. Mozart - Versione di Vienna (1788) -, in diverse giornate dal 23 maggio al 14 giugno, con il regista Lorenzo Regazzo a prendere in mano il lavoro mozartiano con vera competenza, e 'Il Signor Bruschino', farsa giocosa in un atto di Giuseppe Foppa, con la musica di Gio-


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acchino Rossini, in collaborazione con la Fondazione Teatro La Fenice di Venezia, in programma il 6 ed il 13 giugno in due esecuzioni per giornata, con Bepi Morassi alla regia. Per tutte queste performarces, la direzione d'orchestra e la concertazione saranno affidate al maestro Giovanni Battista Rigon, quel 'Titta' internazionale e vicentino di vaglia che gli assidui lettori di Pomezia Notizie hanno imparato a conoscere. Particolare poi la novità in programma per questa Edizione: 'Un'ora di attesa per Dante e Bach - Parole e suoni fra gente di teatro, letteratura, musica -', commemorati insieme in una conversazione tra Lorenzo Arruga, critico musicale, Quirino Principe, profondo conoscitore di Dante, e Sonig Tchakerian al violino, Pietro Tonolo al sax, Giovanni Bertolazzi al pianoforte e Sonia Bergamasco, pianista ed attrice, prima che si svolga la serata, quella del 29 maggio, dedicata a 'Dante e Bach - Un incontro a 750 e 330 anni dalla nascita -', una proposta di Lorenzo Arruga. Poi un 'Bach & Bach recomposed', esecuzione di opere di J. S. Bach in collaborazione con i Corsi di perfezionamento dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e del Conservatorio 'Arrigo Pedrollo' di Vicenza, in programma il 31 maggio. Altro ed altro ancora in programma su temi liederistici: i 'Venezianische Lieder - Canti Veneziani', poesie di Riccardo Held e musica di Wolfgang Florey, la prima esecuzione assoluta dell'edizione originale tedesca (2013), per mercoledì 27 maggio, con Silvia Regazzo mezzosoprano e l'Ex Novo Ensemble in Quartetto; 'Chansons da Haydn a Ravel', un concerto con il Trio Albrizzi con Laura Poverelli mezzosoprano, in programma per martedì 9 giugno; l'incontro 'BioResistenze. Semi di Musicrazia', presentato da Guido Turus in collaborazione con Tartini Project 1721, al violino Tommaso Luison per i lavori di Tartini su temi bucolici; 'Il Trio Dabaghyan', con introduzione a cura di Minas Lourian del Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena, in cartellone giovedì 11 giugno. La XXIV Edizione delle Settimane Musicali prevede quest'anno anche un 'Fuori Festival', dal 21 maggio al 23 giugno 2015, una sorta di indagine ad intreccio tra parole e musica, volta a presentare la collaborazione della Casa Editrice Marsilio di Venezia con la Libreria Galla 1880 di Vicenza: quattro appuntamenti per la presentazione di Autori e dei loro lavori su temi di intensa attualità: 'Governatori', di Goffredo Buccini; 'Solo il tempo di morire', di Paolo Roversi; 'Le fragili attese', di Mattia Signorini; 'La virtù dell'elefante' di Paolo Isotta. Ilia Pedrina 18/05/2015

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Domenico Defelice - Scaffale (1964)

LIBRI RICEVUTI FABIO DAINOTTI (a cura di) - Il pensiero poetante 3 Аἴѵιγμa/Enigma - Antologia tematica di poesia e teoria - Genesi Editrice, 2010 - Pagg. 192, € 13,50. Vi si trovano antologizzati (con poesie, grafiche, prose): Annamaria Apicella, Annamaria Armenante, Alessandro Carandente, Domenico Cipriano, Carlo Felice Colucci, Lucia Criscuolo, Luigi Fontanella, Mario M. Gabriele, Paolo Gravagnuolo, Alberto Mari, Giulia Niccolai, Emanuele Occhipinti, Marco Papa, Silvana Piscopo, Ugo Piscopo, Gianni Rescigno, Mario Rondi, Rosanna Rotolo, Salvatore Carbone, Alberto Casiraghy, Carlo Catuogno, Renato Iacente, Tina Vaira, Angelo Guarracino, Marina Caracciolo, Francesco D’ Episcopo, Carlo Di Lieto, Vincenzo Guarracino, Pietro Milone, Giovanni Sorrentino. Fabio DAINOTTI nato a Pavia nel 1948, vive a Cava de’ Tirreni (SA), dove insegna italiano e latino in un liceo. Già membro del Comitato culturale nel Comune di Cava de’ Tirreni, è Presidente della Lectura Dantis Metelliana, di cui è stato socio fondatore e poi direttore dal 2004 al 2008. Ha collaborato con P. Attilio Mellone al volume “Il San Francesco di Dante e il San Francesco della Storia”, 1986. Ha curato i precedenti numeri dell’annuario di poesia e teoria “Il pensiero poetante” usciti presso Genesi, 2001 e 2004. Ha collaborato o collabora a quotidiani e rivi-


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ste (Misure critiche; Cronache del Mezzogiorno; Il Castello; Il Pungolo; Fermento; Brontolo; Miscellanea; Presenza) con articoli di carattere culturale. Ha pubblicato di poesia “Diario poetico” (1965), “L’araldo nello specchio” (Prefazione di Francesco d’Episcopo,1996), “Sera” (1997), “La ringhiera” (con nota di Vincenzo Guarracino, 1998), “Ragazza Carla cassiera a Milano trent’anni dopo” (2001), “Un mondo gnomo” (Prefazione di Vincenzo Guarracino, 2002), “Ora Comprendo” (Prefazione Luigi Reina, 2004). Carlo Di Lieto gli ha dedicato la monografia “La coscienza captiva in “Maliardaria” di Fabio Dainotti” (2006). È presente nella mostra itinerante “Lettera Leopardi” (1998). Figura in numerose antologie: “Poeti italiani nel mondo - Italieschie Dichter in der Welt” (1997), “Iduna” (1998), “Zurcidos Mediterraneos” (1999), “Pasqua 1999), “Infinito Leopardi” (1999), “Il verso all’infinito” (1999), “Hesperos” (2000), “Il Calamaio” (2000), “Poesie d’amore” (2000), “Poiesis” (2001), “Poesia in azione” (2002), “Interminati spazi sovrumani silenzi. Un infinito commento: critici, filosofi, scrittori alla ricerca dell’Infinito di Leopardi” (2001), “Famiglia amara, famiglia cara” (2003), “I poeti della Scaletta” (2004), “Ditelo con i fiori” (2004), “Le città dei poeti” (2005). ** DANIELA DE ANGELIS - Ferrazzi e l’opera perduta di Pomezia 1938 - 41 - In copertina: F. Ferrazzi, “Trionfo della terra” o “Elegia terrestre”, 1938 - 41, già Palazzo Podestarile di Pomezia. All’interno, foto in bianco e nero concesse da Pietro Guido Bisesti dell’Associazione Coloni Fondatori di Pomezia. Gangemi Editore, 2015 - Pagg. 32, s. i. p. È l’analisi del lavoro murale di Ferrazzi per Pomezia, un’opera eseguita tra il 1938 ed il 1941 e perduta alla fine del Secondo Conflitto Mondiale, senza che sia mai stato possibile almeno un suo parziale recupero. Daniela DE ANGELIS ha insegnato, oltre che a Roma, all’Istituto Statale d’Arte di Pomezia per molti anni. Ha pubblicato diverse opere, tra le quali La nascita di Pomezia testimonianze orali e fonti d’epoca (2013). ** DANIELA DE ANGELIS - Natale Prampolini (1876 - 1959) l’ingegnere delle Bonifiche - Dipinto a colori di copertina di . Menozzi, anni Cinquanta; all’interno, foto in bianco e nero - Gangemi Editore, 2015 - Pagg. 48, s. i. p. La biografia dell’ ingegnere reggiano autore delle principali opere di bonifica italiane degli anni Dieci-Cinquanta, tra le quali figurano la Parmigiana-Moglia, quella dell’ Agro Pontino, la Grande Bonifica Ferrarese e quella della Piana di Sibari, oltrer che quella dell’ Albania. **

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SANTO CONSOLI - Il tuo risveglio - Prefazione di Giuseppe Manitta - Edizioni Il Convivio, 2011 Pagg. 40, € 10,00. Santo CONSOLI nasce a Misterbianco (CT) nel 1946. Conseguita la Laurea, si trasferisce in Veneto e inizia la sua carriera di docente, insegnando per quasi un trentennio Lingua e Letteratura Inglese nel Liceo Scientifico di Dolo e negli Istituti Superiori di Mestre e Venezia. Dopo il ritorno in Sicilia, inizia la sua attività poetica e la partecipazione ai Concorsi, arrivando a conseguire ben 619 Premi, tra i quali son da menzionare 65 Primi Premi, 63 Secondi Premi, 58 Terzi Premi e 67 Premi ‘Speciali’. ** SANTO CONSOLI - Anelito d’Infinito - Presentazione di Giuseppe Barra; in copertina, a colori, “Il Panettone”, Dolomiti Bellunesi, Monte Pelmo, foto dello stesso Consoli - Edizioni “Il Saggio”, 2015, pagg. 38. Al rovescio: SANTO CONSOLI - Il Nostro Cammino - Presentazione di Lucia Clemente; in copertina, a colori, “...e il Tuo Prato Rifiorì!!”, foto dedicata a Benny, dello stesso Santo Consoli; a pag. 1, altra foto a colori dello stesso autore; “Calabria, Serra San Bruno” - Edizioni “Il Saggio”, pagg. 86. In appendice, un elenco di Premi Principali, Giudizi critici tra Prefazioni ed altro con le firme di: Giuseppe Barra, Lucia Clemente, Angelo Manitta, Enza Conti, Giuseppe Manitta, Antonio Caristi, Sabato Laudato, Carmelita Randazzo Nicotra, Pacifico Topa, Patrizia Massara, Vittorio Verducci. ** SANTO CONSOLI - Nel Tuo Firmamento - In copertina, a colori, “Fioritura di una via cittadina a Catania”, foto dello stesso Autore; Prefazione di Alfonso Saya - Edizioni “Peloro 2000”, 2010 Pagg. 48, s. i. p. ** SANTO CONSOLI - La tua presenza - Prefazione di Enza Consoli; in copertina, a colori, “Giorno condiviso”, foto dello stesso Consoli - Edizioni Il Convivio, 2011 - Pagg. 64, € 10,00.

LETTERA AL DIRETTORE (Ilia Pedrina a Domenico Defelice) Carissimo Amico, oggi è il 13 Maggio e ti scrivo dall'Isola della Giudecca, qui in Laguna, dove vengo sempre più spesso, in questo periodo che precede le elezioni cittadine per


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Venezia e quelle regionali, per il Veneto. Un segnale piccolo, quasi invisibile, antico, ancestrale, ben più all'indietro nel tempo, d'ogni pietra, d'ogni legno, d'ogni vetro qui a Venezia, ben più antico dell'uomo stesso, forse: è il punto rosso sul becco arcuato di un gabbiano, che si abbandona al moto ondoso calmo del canale lagunare, proprio di fronte al Bar Palanca, con il signor Andrea Barina come punto di riferimento, il vero punto rosso per coloro che vogliono salvare l'Isola di Poveglia. Melinda ed io siamo sedute proprio sul bordo del plateatico e lei, giovane ragazza del 'Mer du Nord' mi spiega che quel punto rosso è come un foro che, beccato con insistenza dai piccoli gabbianelli, fa rigurgitare il cibo che i genitori hanno in serbo per loro, dentro una sacca. Miracolosa realtà che preserva i piccoli da morte per fame, progettando per loro un futuro nella continuità della propria specie: un punto-foro rosso vivo, una preziosa selezione che ha vinto il caos, inserendovi ordine, regola, adeguamento, legge interna che assai superficialmente noi chiamiamo 'istinto'. Melinda mi insegna sempre tante cose, soprattutto in relazione alla lingua francese ed alla sua pronuncia, ma anche intorno alle sue esperienze di viaggio, in India come altrove. Allora io imparo, metto a fuoco e le assicuro, fraternamente, l'amicizia di Andrea, che le sorride gioioso e le sciorina le specialità del giorno. Pensa che nel pomeriggio terrà un incontro con tutti quelli dell'Associazione che hanno visto vincere, con cento euro a testa di sottoscrizione, la vita e la libertà dal cemento dell'Isola di Poveglia, senza per questo rimanere fuori dal tempo, ma altre Isole della Laguna rischiano, sono messe all'incanto e tutti, siano essi Arabi, Cinesi, Russi o chi altro ancora, si fanno sotto per approfittare, per costruire, per snaturare, soldi alla mano! Melinda, maestra di Yoga e di Lingua Francese, sceglie un casto 'Riso Pilaf', perché ha concluso da poco la purificazione dell'organismo, mentre io, che le ho promesso mari e monti in fatto di dieta, scelgo 'Sarde in Saor', che associano il sapore acidulo delle cipolle, nelle quali le sarde vengono messe a macerare, con

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il dolciastro succoso dell'Uvetta gigante, ancora verde-giallo dell'Isola di Creta, o di Smirne, mi informerò meglio: una vera prelibatezza, perché gli acini sono raccolti in freschezza, senza farli passire, appassire, avvizzire sui tralci o altrove, perché acquistino quel colore brunastro che ben conosciamo. Nous sommes ici, en attendant Patrick et Martine! Si, mio caro, proprio così: perché arriveranno qui il regista Patrick Brunie, che ha veramente apprezzato la tua rivista e la prima pagina con fotografia che ci hai concesso ed ha detto che questa battaglia per i mestieri d'arte, le professioni artigianali ed i valori della cultura, della poesia, della gioia trovano in Pomezia Notizie una testimonianza importante, vera, valida, unica nel suo genere, perché, attraverso te, si espone in proprio, come fa lui con il suo lavoro di cineasta, con immagini-verità che arrivano dirette alla coscienza. Arriverà qui tra poco con la sua compagna Martine, medico della sapienza orientale dell'agopuntura e tutti insieme attenderemo Jeannine Turpin, professoressa senegalese di lingua francese ed interprete, ormai da ben 36 anni qui a Venezia! Lei ha ottenuto la cittadinanza italiana solo dieci anni fa ed il suo giudizio sulle cose d'Italia e d'Europa è molto saggio, disincantato, senza prudenza, quella prudenza che blocca ogni iniziativa e che lascia le cose così come stanno, colpevolmente. Patrick me l'ha fatta conoscere la settimana scorsa, lei ci ha portato a mangiare al Gam-Gam, il ristorante Kosher lungo il Canale del Ponte delle Guglie, al limitare dell'ingresso nel 'Gheto Vecio': i muri in pietra portano ancora i grandi fori dove venivano inseriti i pali per chiudere gli Ebrei all'interno, al tramonto. Se poi c'era bisogno di qualche bravo medico o notaio, nella notte, allora gli addetti della municipalità andavano ad aprire lo steccato e facevano uscire il competente di turno. Si fidavano. Ma quella era l'epoca di Lutero e dello scombussolamento cristiano-cattolico... Un' altra volta ti racconterò del suo amico Rami Banin, Ebreo Ortodosso, al quale stamane, prima di arrivare qui alla Giudecca, ho fatto consegnare Pomezia Notizie dell'Agosto


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2012, con la foto in prima pagina del prof. Shlomo Sand. Lui, di certo, mi risponderà! L'altro giorno l'avevo infiammato completamente, questo 'pater familias', quando ho visto suo figlio ragazzino che è arrivato al nostro tavolo, ci ha sorriso e se ne è andato con la sua giacchina nera addosso ed i quattro tzitzit che gli spuntano di sotto, per non dimenticare mai; si, carissimo, quei filamenti che si accarezzano e si avvolgono alle dita delle mani in preghiera; che si collegano ai quattro angoli del mondo ed alle regole della Torah, di cui forse si parla anche nei Vangeli; quelli che rendono, ora, questo giovane ebreo ortodosso bersaglio facile, ma sempre felice, se un nevrotico s'aggira armato con cattive intenzioni, mascherate da odio formale o da fede fondamentalista. Torniamo all'hic et nunc: l'obiettivo in cantiere, oggi, è quello di visualizzare il film di Patrick “Il Bucintoro delle Repubbliche” presso la saletta dell'Archivio Luigi Nono, qui alla Giudecca, dietro consenso della cara Nuria Schoenberg Nono. Ci avviamo e Melinda scatta una fotografia all'installazione artistica del Padiglione di Helsinki, un carrello forse ripescato dai fondali marini al Nord e tutto rivestito d'alghe e di incrostazioni, corroso, stupendamente statico: qui il simbolo del consumismo per eccellenza, nel trasporto frenetico di merci prese dagli scaffali del supermercato si altera nella sua essenza, come il Manzoni s'è bagnato i panni in Arno, e ne esce altra cosa, simbolo potente di una Natura che ci sovrasta, una testimonianza di forza ancestrale che deve abitare al nostro fianco, per poterci dare, in ogni istante, il settimo senso, quello del limite biblico del nostro ruolo di creature rispetto alla Matrice della Vita, rispetto l'Impronunciabile, rispetto a quell'Infinito nell'Universo, che va però a preoccuparsi di ciò che sta al di qua dei cieli, si, del nostro mondo! La signora Nuria ci accoglie in modo sempre affabile e gentile e mettiamo le nostre firme sul Libro, posto sul tavolino nella stanza antistante l'ingresso al cuore pulsante, vero e proprio, dell'antico Convento dei Santi Cosma e Da-

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miano, 'le ventre de Luigi', come ha scritto Patrick. Prima che inizi la proiezione, consegno a lei i più recenti numeri di Pomezia Notizie, quello di Aprile, con la foto di Patrick, e quello di Maggio, che porta la mia testimonianza da Bologna sulle 'Opere Acusmatiche di Luigi Nono', proprio nella mia lettera a te, a te, confidente della mente e del cuore, innamorato distante ed invisibilmente vicino, sempre! Patrick mi ha consegnato una copia del sul Film in DVD anche per te e te la spedirò. La proiezione s'interrompe, per ragioni tecniche, dopo una ventina di minuti dall'inizio e si avvicina l'ora di chiusura dell'Archivio: con un linguaggio delle mani che modella l'aria tutt'intorno, in aperta espansione, Patrick segnala con voce decisa la forza rivoluzionaria di Luigi Nono nel dare orientamento e direzione al cambiamento nella cultura e nella società, profeticamente. Quelle stesse mani, poi, si racchiudono su se stesse, quasi a pugno, la sua voce si fa cupa e la rappresentazione del nostro tempo, chiuso in se stesso e forse pericolosamente senza sbocco, quasi magnetizza tutti noi, perché arriva agli occhi dello spirito: ci vuole una scossa quasi tellurica che emerga dal ventre e ci discosti una volta per tutte dalla banalità del male e dell'ubbidienza. Nuria ascolta, sa, non si ferma, deve andare oltre, perché ama, in un divenire ancora da delineare, ma fervido e fertile delle sue idee, delle sue motivazioni, dei suoi intendimenti, veri perché carichi d'amore, come diceva il suo Gigi! Un giorno ti dirò tutto della sua opera 'Al gran sole carico d'amore'... Ti abbraccio, in vista di un Eden tutto da vivere, intensamente. Ilia Cara Ilia, i comuni mortali come me, che si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni giornaliere, del gabbiano al massimo notano il becco, non già “il punto rosso” che i suoi piccoli stimolano per ottenere cibo; perciò diviene vera sorpresa l’incontro e la frequentazione di personaggi come Melinda, dai quali si apprendono le cose come nuove, perché sanno


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metterle in risalto. Sono come lo zoom di una macchina fotografica, che esplora particolari che difficilmente coglie uno sguardo usualmente generico, corale. Il rischio che alcune isolette della Laguna veneta finiscano in mani mercenarie è grande; ogni cosa in Italia oggi lo corre, dalle industrie, ai tesori d’arte, al paesaggio. Ad osservare bene, siamo un popolo in decadenza, preda di gente nuova e piena di soldi, ma anche piena di voglie, di desideri, di orgoglio, di slanci nel futuro. Noi non abbiamo più nulla e così deperiamo, come le antiche civiltà di cui parla la storia, accerchiate e poi devastate. Così moriremo, così morirà la nostra creatività, persino i nostri musei. Melinda Legendre e tanti altri come lei si salvano ancora, perché hanno ancora curiosità e intraprendenza. Anche Brunie è una spia della nostra decadenza, della nostra ignavia, se lo stimolo per la rinascita del “Bucintoro delle Repubbliche” debba venire - e diciamogli almeno grazie da un non Italiano. Qui mi fermo, Carissima; alla tua lettera, dunque, solo qualche cenno fugace e superficiale. Ti chiedo scusa. Sono quasi inebetito dal tanto lavoro, che, pure, mi dà soddisfazioni, come ho potuto rilevare, in aprile, all’incontro avuto all’Università di Roma Tor Vergta, dal calore col quale si è ripetutamente accennato alla mia creatura di carta, a questa Pomezia-Notizie che tu definisci “una testimonianza importante”. Ma mi costa una dedizione quotidiana, monacale e maniacale, quasi, assoluta, a discapito delle mie forze e della mia salute. Molti collaboratori ancora non si servono della tecnologia e debbo pure battere al computer i loro interventi e la vista non è più buona e le dita faticano a stendersi. La vecchiaia incombe, gli anni pesano! Solo qualche cenno, allora, anche perché, le tue lettere, sono vive cronache umane e letterarie, che non hanno bisogno di commenti: stanno bene così. Domenico Per mancanza di spazio, in questo numero niente rubrica “Tra le riviste”. Ci scusiamo con i lettori e gli editori.

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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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