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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 23 (Nuova Serie) – n. 8 - Agosto 2015 € 5,00

LETTERATURA COME VITA, NEL PENSIERO DI UN GRANDE CRITICO:

CARLO BO (1911-2001) di Luigi De Rosa

A

NCHE perché abito in provincia di Genova, a Rapallo, a soli venti Km. da Sestri Levante, la cittadina che nel 2011 diede i natali a Carlo Bo, ed anche perché mi occupo da una vita di letteratura, e ogni volta che vengo invitato a tenere una conferenza presso la Biblioteca civica di Sestri, e precisamente nella Sala intitolata allo stesso Carlo Bo, mi riprometto di approfondire ulteriormente la conoscenza di questo grande Critico letterario e studioso che, dedicando la propria vita all'insegnamento universitario e alla Letteratura, ha saldato in un forte legame culturale la sua Liguria alle “sue” Marche di Urbino. Non è facile ricordare un gigante come Bo, dall'imponente bibliografia, in un breve articolo di Rivista. Mi limiterò quindi all'essenziale, sperando nella comprensione dei lettori. Innanzitutto alcune note biografiche; poi alcune considerazioni sulla sua opera e sul suo concetto di Letteratura. Era nato a Sestri


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All’interno: Giordano Bruno Guerri affronta il fenomeno del brigantaggio, di Ilia Pedrina, pag. 6 Maria Messina, di Giuseppina Bosco, pag. 12 Benito Poggio: 58 canti bilingui, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 16 Eugenio Marino: Andandosene sognando, di Carmine Chiodo, pag. 19 Fulvio Caporale, Trivigno e tutta la Lucania, di Leonardo Selvaggi, pag. 21 XXV Edizione Premio letterario internazionale Città di Pomezia 2015 (risultati e materiali di: Paola Insola, Elisabetta Di Iaconi, Maria Grazia Ferraris, Maria Coreno, Maria Turiano Aprile, Fabio Dainotti, Anna Maria Bonomi, Tito Cauchi, Mariagina Bonciani, Nicola Chinaglia, Claudio Carbone, Angelo Mario Cianfrone, Franco Casadei, Emilia Bisesti, Antonia Izzi Rufo, Giovanna Li Volti Guzzardi, Anna Trombelli Acquaro, Filomena Iovinella, Anna Vincitorio, Isabella Michela Affinito, Santo Consoli, Lucia Gaddo Zanovello), pagg. 25-44 Maria Grazia Lenisa scrive a Domenico Defelice, di Ilia Pedrina, pag. 45 Elisa Rampone Chinni, Dialogo con me stessa, di Elio Andriuoli, pag. 49 Domenico Defelice: Eleuterio Gazzetti cantore della Valpadana, di Tito Cauchi, pag. 51 I Poeti e la Natura (Mario Luzi), di Luigi De Rosa, pag. 55 Notizie, pag. 61 Libri ricevuti, pag. 63

RECENSIONI di/per: Tito Cauchi (Anelito d’infinito, di Santo Consoli, pag. 56); Aldo Cervo (Lettere, di Maria Grazia Lenisa, pag. 57); Pasquale Montalto (Palcoscenico, di Tito Cauchi, pag. 57); Nazario Pardini (Il Croconsuelo e altri racconti, di Maria Grazia Ferraris, pag. 58); Ciro Rossi (Da uno sguardo circostante, di Maria Martignetti, pag. 59).

Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Colombo Conti, Domenico Defelice, Themistoklis Katsaounis, Leonardo Selvaggi

il 25 gennaio 2011. Compiuti gli studi superiori dai Gesuiti dell'Istituto Arecco di Genova (quindi, ricevuta un'educazione cattolica) si era laureato in Lettere Moderne a 23 anni, nel 1934, all'Università di Firenze. Ma tutta la sua carriera universitaria si svolse, a partire dal 1938, all'Università di Urbino, prima come docente di Letteratura francese e spagnola, e poi, addirittura, come Rettore. Dal 1940 al 1945 (cioè negli anni della Seconda Guerra Mondiale) visse tra Sestri Levante, Rivanazzano (Voghera) e Valbrona (lago di Como). A guerra finita si stabilì a Milano insieme a Marise Ferro (già moglie di Guido Piovène) che avrebbe poi sposata nel 1963. Ma a Sestri, la bellissima cittadi-

na-penisola sulla Baia del Silenzio e sulla Baia delle Favole, sarebbe poi sempre tornato, come in un amato rifugio estivo, a coltivare le sue origini, a passeggiare, con il solito sigaro tra le labbra, a nuotare nella Baia del Silenzio con la sorella, a leggere, a conversare sugli accadimenti della vita. Anche se burbero e riservato (a volte sembrava perfino accigliato) era buono, essenziale e concreto come sanno esserlo tanti Liguri... Fu nominato Rettore dell'Università di Urbino nel 1947 (quindi a soli 36 anni), e svolse questo prestigioso incarico per ben cinquantatre anni consecutivi, fino all'anno 2000. Tra i suoi numerosi meriti anche quello di aver fondato, già nel 1951, la Scuola


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Superiore per interpreti e traduttori di Milano (che avrebbe poi aperto nuove sedi in Italia). Il 18 luglio 1984 l'allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini lo nominò Senatore a vita. Militò nei gruppi Democrazia Cristiana, Partito Popolare, La Margherita. Carlo Bo non è stato soltanto docente, scrittore, critico, traduttore, ma anche un ottimo giornalista, e ha scritto per trentasette anni, dal 1963 al 2001 (anno della sua morte) sul Corriere della Sera. È morto a Genova il 21 luglio 2001. Ai suoi funerali ha partecipato anche il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Due anni dopo, l'Università di Urbino è stata intitolata al suo nome. Anche come traduttore egli ha contribuito grandemente, con le sue magistrali Traduzioni (nel 1996 l'Università di Verona gli ha conferito la laurea honoris causa in Lingue e Letterature straniere) a far conoscere la poesia europea del Novecento, nonostante certe chiusure nazionalistiche del Fascismo. E questo non solo approfondendo la conoscenza di poeti già noti come Antonio Machado, Paul Claudel, Clemente Rebora, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Camillo Sbarbaro (che era stato suo docente di latino e greco al Liceo a Genova). Ma anche, e soprattutto, valorizzando poeti nuovi come Federico Garcia Lorca, Paul Eluard, André Breton e, nell'ambito dell' Ermetismo italiano, Mario Luzi, Carlo Betocchi, Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo. Mi limito qui a ricordare che ha tradotto il San Tommaso d'Aquino di Jacques Maritain nel 1937, mentre di Lorca ha tradotto sia le Poesie (Parma 1940 e Milano, Garzanti 1979) che le Prose (Vallecchi 1954). Fra gli autori tradotti vi sono stati anche Juan Ramon Jimenez, José Ortega Y Gasset, Miguel de Unamuno, Georges Bernanos, ed altri. Grande importanza hanno anche rivestito le Antologie di testi stranieri da lui tradotti, come Lirici del Cinquecento, Lirici spagno-

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li, Narratori spagnoli, Antologia del Surrealismo, Antologia dei poeti negri, Gustave Flaubert, i capolavori. In tanto fervore di attività, comunque, non ha mai trascurato la cultura poetica della sua regione, la Liguria. Un esempio per tutti: l'appoggio e il riconoscimento critico per un nuovo poeta di Sestri Levante, Giovanni Descalzo (per non parlare del citato Montale, e di Sbarbaro, ed altri). A Descalzo ha assicurato...un posto nella storia letteraria inserendolo nella sua importantissima Storia della Letteratura italiana edita dalla Mondadori. Tra gli Autori che, a loro volta, si sono occupati di Bo, occorre almeno ricordare Mario Apollonio, Oreste Macrì, Silvio Ramat, Piero Bigongiari, Mario Luzi, Geno Pampaloni. Il significato del titolo di questo mio breve scritto scaturisce dal concetto di Letteratura che era proprio di Carlo Bo. Per lui, infatti, la Letteratura è stata talmente importante da identificarsi con la Vita stessa: “...la letteratura è stata davvero, per me, da un certo momento, la vita stessa...” (Diario aperto e chiuso 1932-1944). È stato definito l'anti-Croce anche per la fedeltà al concetto Letteratura uguale vita, espresso a chiare lettere già nel 1938 nel suo saggio Letteratura come vita, considerato il Manifesto non solo dell'Ermetismo ma addirittura della letteratura del secondo Novecento. In tale fondamentale testo, il cui concetto di base, secondo il docente e critico letterario torinese Giorgio Barberi Squarotti (1929) è stato enunciato, dapprima, dal critico e scrittore francese Charles Du Bos (1882-1939) Carlo Bo è arrivato a scrivere, tra l'altro : “ A questo punto è chiaro come non possa esistere un'opposizione fra letteratura e vita. Per noi sono tutt'e due, e in ugual misura, strumenti di ricerca e quindi di verità...Mezzi per raggiungere l'assoluta necessità di sapere qualcosa di noi...La letteratura è la vita stessa, e cioè la parte migliore e vera della vita...Non crediamo più


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ai letterati padroni gelosi dei loro libri...Non esiste un mestiere dello spirito...il valore di un testo dipende dal suo grado di vita, dal modo in cui è stata rispettata la vera realtà dei nostri movimenti...” Da tale concetto di “Letteratura come vita” scaturisce anche la sua fervida attività in seno alla rivista Frontespizio (vicina all'ermetismo di matrice cattolica), la sua collaborazione con Mario Luzi, Giovanni Papini, Vittorio Sereni, Ardengo Soffici, il suo coinvolgimento con gli scrittori francesi, spagnoli e italiani di cuore cattolico o comunque di forte sensibilità spirituale, il suo abbracciare e comprendere anche poeti e scrittori provenienti da altre zone geografiche, spirituali e culturali, come, ad esempio, Kafka ed Eliot. Di qui, com'è ovvio, la sua lunare distanza da Autori che propugnano invece una letteratura nutrita di retorica in nome di un' Estetica pura e disincarnata dalla vita dei comuni mortali. (Inevitabilmente si ripensa a D'Annunzio e ai suoi epigoni, ma non solo …). Di qui, pure, la sua preoccupazione perché non solo il lavoro dello scrittore, ma anche quello del critico, siano informati al concetto di Letteratura come Vita. Il critico deve essere in sintonia con il testo dello scrittore, scandagliandone le ragioni spirituali che lo hanno ispirato e nutrito. Nel saggio “Riflessioni critiche” del 1953 ebbe a dire, a proposito della forma letteraria del romanzo : “ I veri romanzi si riconoscono e dal punto di partenza e dal punto di arrivo, che lasciano appunto questa sensazione di vita. Quando il lettore è costretto a dire “Questa è proprio la vita!” è allora che la funzione del romanziere è definitivamente riuscita...” A questo proposito, non sono mancate le perplessità sul fronte opposto, ma si pensi addirittura alla disputa radicale sulla “morte del romanzo”... L'enorme mole di lavoro svolto fin dagli anni Trenta come critico letterario e traduttore gli ha assicurato una posizione predominante anche in un campo, come quello

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culturale e letterario, e in un periodo di tempo, in cui le leve del potere sono state in mano alla Sinistra, quantomeno fino alla caduta del Muro di Berlino. Per capire, comunque, il pensiero di Carlo Bo, non si può non tenere presente che, al di sopra dei valori puramente critici e tecnicoletterari, per lui contano soprattutto i valori umani e spirituali. Per lui, nonostante il suo cattolicesimo “...non assestato, non formale, nemmeno troppo ortodosso e rigoroso...” è, in ogni caso, di estrema importanza una visione della vita cristiana, etica, spirituale. Si veda anche l'opera Siamo ancora cristiani del 1964, nonché quelle intitolate Don Calzolari ed altri preti, del 1979, Sulle tracce del Dio nascosto, del 1984, Solitudine e carità, del 1985. Particolarmente vicino ai grandi intellettuali cattolici francesi come Mauriac, Claudel, Bernanos, Maritain, è arrivato a propugnare un cristianesimo che esprima le ragioni dell'animo umano, che, contro ogni disperazione e crisi di pessimismo, creda profondamente in una “speranza scandalosa”, quella della preghiera... Bo, oltre ad avere grande rispetto per i Gesuiti che lo hanno formato da adolescente, ha sempre manifestato ammirazione, nella sua residenza milanese della parrocchia barnabitica di sant'Alessandro, per i Padri Barnabiti e per il loro Ordine. Bo è arrivato a scrivere, con estrema chiarezza, che “ se nella letteratura non c'è, incarnato, lo Spirito, la letteratura è secca, sterile, non vale niente...” Ma a questo punto mi piace cedere la parola allo stesso Carlo Bo, che, alle soglie di questo Ventunesimo Secolo ( 31 dicembre 2000 – 1 gennaio 2001) rispondendo ad un “questionario” proposto ad alcuni intellettuali dal quotidiano “Avvenire” sulle problematiche cardine proposte dal nuovo Secolo, aveva detto: “La sopravvivenza, fisica e morale, di ciò che costituisce il fattore umano. Questa sarà la “magna quaestio” del prossimo futuro. Il problema drammatico della civiltà che si affaccia col nuovo se-


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colo sarà il poter ritrovare le ragioni ultime di quei valori che consentono una vita umanamente e umanisticamente motivata, che tenga conto non solo delle cose visibili, ma anche – e soprattutto – di quelle invisibili. Il grande compito dei cristiani e degli uomini di buona volontà sarà fare un po' di spazio nel materialismo e nel consumismo globalizzati per ritrovare un'idea condivisibile delle cose superiori. Bisognerà insomma costruire insieme, credenti e no, un'altra civiltà, un mondo che sappia finalmente ritrovare lo spirito della carità cristiana: cioè saper perdonare e cercare di risolvere problemi epocali, inevitabili e giganteschi, secondo uno spirito di carità... ...Per quanto riguarda la letteratura, essa è sempre figlia del proprio tempo, e mancando oggi valori forti, non vedo all'orizzonte la possibilità di una nuova classicità: i prossimi decenni saranno ancora tempi di sperimentalismi.” Anche queste sagge considerazioni e previsioni (nonostante le aperture a tutti, credenti e no) continueranno ad essere fertili di discussioni a non finire, di incontri e scontri quotidiani. A Elio Vittorini che un giorno gli proponeva un'alleanza contro la disuguaglianza e l'ingiustizia, Bo aveva risposto che il male è difficilmente aggredibile, e che, anzi, il male risiede nel cuore dell'uomo. E intanto i giornali e le televisioni continueranno a inondarci, ogni giorno, con le immagini di falsità e violenza disumana del “vecchio”mondo... Luigi De Rosa

IL LIMITE Frastuono di silenzi tra il gracidare di rane, ascolto la tua voce accarezzando le nuvole, è un canto felice che scioglie la brina. Nostalgico amore dai bruni capezzoli,

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baci frenati da ingenuo pudore. Perché non osai oltrepassare il limite, sarei stato pescatore, t’avrei presa nella rete della passione, t’avrei resa schiava per un tempo perduto dove regnano sussurri di labbra e ardenti carezze, dove il tepore mai si spegne anche quando il gelido vento l’incomprensione trasporta, per cercare di dividere ciò che sempre ci unisce Colombo Conti Albano Laziale

L’UOMO AUTOMA Un mondo vasto che si restringe, lande e steppe cresciute negli animi incolti. Confini spinati, rovi intorno ai luoghi, non fai un passo. Carni aride che non sanno il tepore, pelli insozzate, non le senti morbide vicino. Facce dure senza sguardo. Immobili tronchi che non incontri, occhi smorti che non trovano la tua vita. Da buchi sovrapposti topi fugaci per vie traverse invisibili barbarici. Non c’è nessuno che prende una parte di te. Vanno lontano, si vedono circondare ma non si riconoscono. Idealità che non si muovono per terra, aeree si sfaldano. Come nubi sogni e illusioni si frangono nella mente. La realtà ha costruito binari malvagi. Tutto in linea continua scorre meccanico. Gli arti smontati, dalle ossa sono usciti pistoni di ferro. Leonardo Selvaggi


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‘Il sangue del Sud’: in modo nuovo, lo storico

GIORDANO BRUNO GUERRI AFFRONTA IL FEMONENO DEL BRIGANTAGGIO di Ilia Pedrina

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IORDANO Bruno Guerri, storico e filosofo italiano, docente di Storia contemporanea all'Università Guglielmo Marconi di Roma, Presidente de 'Il Vittoriale degli italiani' ed altro ancora, è avvezzo a portare fuoco, passione, cambiamento là dove mette le mani e quando decide di interessarsi a fondo per inoltrarsi in una ricerca su temi e personaggi della storia d'Italia. Preziose ed insostituibili le sue monografie su Galeazzo Ciano, Giuseppe Bottai, Gabriele d' Annunzio. In questa opera storica 'Il Sangue del Sud – Antistoria del Risorgimento e del Brigantaggio' pubblicata nel 2010 nella Collana 'Le Scie' della Casa Editrice Mondadori ed ora, dal 2013, anche nei volumi Oscar Mondadori, par che venga messa in pratica l'intenzione del grande filosofo e scrittore tedesco Walter Benjamin: accarezzare la storia contropelo, per farne uscire la voce dei vinti. Infatti, già nella scelta del titolo e poi più precisamente nel dettaglio del sottotitolo, Giordano Bruno Guerri si assume tutta la responsabilità del ricercatore sul campo per costruire un lavoro controcorrente, che vada ad investigare con chiarezza e con riferimenti documentati ed

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inequivocabili come sia stata costituita l'Unità dell'Italia, a partire dal primo dei diciassette capitoli che la compongono: 'La vera disunità d'Italia: il popolo e i patrioti, i guelfi e i ghibellini'. Chiarire il ruolo dello Stato dei Savoia rispetto al Regno delle due Sicilie, al resto geografico dell'Italia anche con lo Stato Pontificio al suo interno e poi al resto dell'Europa e del mondo; portare alla luce gli intenti del Cavour che non è mai arrivato oltre Firenze; dipingere a tratti certi, con grande sensibilità ed afflato umano il profilo di Francesco II di Borbone, soprannominato dal popolo ' Franceschiello', quello che dice di sé 'Io sono Napoletano' e che ha a cuore le sorti presenti e future del suo popolo. Poi verranno avanti altri personaggi, oltre a Papa Pio IX anche i generali dell'esercito piemontese Cialdini, La Marmora, Cadorna ed altri ancora, di fronte ai 'generali' del popolo minuto, i briganti con le loro donne, 'Le brigantesse', appunto. L'autore non ha alcun dubbio: si è trattato di una vera e propria guerra civile, organizzata attraverso la prevaricazione ed il sopruso, in nome di una identità unitaria astratta e nebulosa anche nella mente dei suoi ideatori, chi federalista, come il Cattaneo, chi papalista come il Gioberti, chi fondamentalista repubblicano come il Mazzini. Giordano Bruno Guerri disegna un percorso storico tra uomini, azioni, territori e mezzi che va a costruire la controstoria del Risorgimento, un'architettura d'insieme che poggia le sue solide fondamenta su quanto è realmente accaduto rispetto a quella mitostoria che è stata per anni delineata intorno a questo periodo, troppo esposto a costruzioni frettolose, idealistiche, infarcite di propaganda e ben poco legate, nei fatti, a concetti come 'libertà', 'uguaglianza', 'fraternità', che pure tenevano tanta compagnia nella mente e nei progetti degli intellettuali di casa nostra e d'altrove. Affronta con maggiore consapevolezza i pregiudizi contro il popolo del Sud, in vigore tra i reali, i politici, i maggiorenti, al Nord, al Centro, e pure al Sud, tra i 'galantuomini', perché i poveri ed i diseredati, quelli si, sono


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uguali ed in uguali condizioni di vita, dalle Alpi all'Aspromonte, alla Sila, alla Piana di Catania ed a tutti gli altri impervi territori che caratterizzano la penisola tra l'Adriatico, il Tirreno, il Mediterraneo. Il Guerri apre l'Introduzione con una citazione tratta dal testo di Vincenzo Padula 'Cronache del brigantaggio in Calabria' (1864-65): “Finora avemmo i briganti. Ora abbiamo il brigantaggio; e tra l'una e l'altra parola corre grande divario. Vi hanno briganti quando il popolo non li aiuta, quando si ruba per vivere e morire con la pancia piena; e vi ha il brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del popolo, allorquando questo lo aiuta, gli assicura gli assalti, la ritirata, il furto e ne divide i guadagni. Ora siamo nella condizione del brigantaggio” (G. B. Guerri, Introduzione, op. cit. pag. 3). Lo storico Guerri, poche righe sotto questa citazione, sostiene: “Una parte del nuovo Stato era già 'italiana', l'altra non lo era affatto. Occorreva dunque educarla ad essere diversa da sé, a costo di snaturarla. Ai primi segni di insofferenza del Sud, nacque subito una contrapposizione rancorosa: 'noi' contro 'loro'... La verità su cui al Nord tutti concordavano - generali e politici, esuli meridionali e piemontesi è che, appena nata, l'Italia era già madre di due figli diversi: uno di cui andare fieri, l'altro bisognoso di severe lezioni.... Si spiegano così prima la spietatezza della repressione, poi l'adozione di una politica economica e sociale del tutto inadeguata ai problemi del Mezzogiorno; più tardi con la perseveranza con cui quei problemi vennero liquidati come sintomi indelebili di arretratezza e di parassitismo. Il brigantaggio rappresentava il segnale d'allarme di un guasto grave, e non solo per l'ordine pubblico. Il modo in cui fu combattuto sviluppò quella che sarebbe diventata la 'delinquenza organizzata', e accrebbe a dismisura la gravità di una questione meridionale destinata a incancrenire la vita politica del Paese perpetuando la contrapposizione Nord-Sud... Come ogni guerra civile, anche quella tra piemontesi e briganti è

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stata raccontata dal vincitore. Che però, a differenza del solito, non ha potuto vantarsene: si preferì nascondere o addirittura distruggere i documenti, perché non fossero accessibili neppure agli storici... Gli sconfitti sono scomparsi nella zona d'ombra in cui li ha relegati la cattiva coscienza dei padri della patria... Non si tratta di denigrare il Risorgimento, bensì di metterlo in una luce obiettiva, per recuperarlo - vero e intero - nella coscienza degli italiani di oggi e di domani... ” (op. cit. pp. 3-7). Con questa appassionata apertura l'autore avvia il lettore ad entrare nel vivo delle problematiche storiche e concretamente presenti sul tappeto: un vero e proprio distacco tra la classe dirigente ed il popolo; mentre la gente chiede con insistenza il pane, gli intellettuali colti hanno in mente cambiamenti ed evoluzioni legislative, costituzionali; ciò che accomuna veramente il Nord al Sud è la miseria, la fame, le malattie, l'analfabetismo (Cap. I: 'La vera disunità d'Italia: il popolo e i patrioti, i guelfi e i ghibellini' - pp. 9-26). Dopo aver visto Mazzini all'opera con Saffi ed Armellini, attivi nel dar vita alla breve Repubblica Romana, dopo aver messo in fuga il Papa, il 9 febbraio 1849, l'Autore rende edotti sul carattere e sulla personalità politica e non solo del Cavour: “Sia chiaro che il Cavour non fu mai 'un patriota', ossia non credette all'Unità d'Italia e alla sua necessità, almeno finché il sogno non si impose - per lo svolgersi degli eventi come l'unica soluzione possibile. Non ci credeva perché il patriottismo irrazionale e religioso ripugnava al suo pragmatismo. Si era spinto al massimo fino a Firenze, mai più a sud. Non lo interessava affatto conoscere il Meridione, tanto era pieno di pregiudizi... L' Italia Unita di Cavour era un progetto politico che rispondeva a finalità esclusivamente piemontesi, in barba a ogni visione romantica del Risorgimento. Cavour era un politico cinico, che per i propri fini - cioè quelli del Piemonte - non esitò mai a utilizzare ogni mezzo e ogni sentimento, compresi quelli dei patrioti...” (op. cit. cap. II 'Arriva Cavour',


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pag. 34). L'indagine storico-economica portata avanti nel Cap. III 'Un bel boccone' è tra le investigazioni più interessanti del testo perché forse ignota alla maggior parte di noi e perché illuminante sulla modalità della spoliazione delle risorse, da depredare da parte dell'usurpatore: l'Autore chiama in campo Francesco Saverio Nitti ed il suo testo 'Principi di scienza delle finanze' del 1903, riportando un efficace confronto delle riserve auree dei diversi Stati italiani, in milioni di lire, avvertendo che una lira di allora valeva quanto 4,5 euro di oggi. Ebbene: il Regno delle Due Sicilie, nel 1860, era in testa a tutti con una riserva aurea pari a 445,2 milioni di lire, contro i 27 del Regno del Piemonte e su un totale complessivo di 640,7 milioni di lire. Sostiene il Guerri: “A conti fatti, il Regno delle Due Sicilie possedeva oltre due terzi dell'oro di tutti gli altri Stati della Penisola messi insieme, e proporzioni analoghe valgono per il denaro in circolazione nei singoli Stati. Almeno nei trent'anni successivi all'Unità, l'Italia del Sud

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fu come una colonia del Piemonte. E dal momento dell'unificazione, i meridionali furono più sfruttati che sfruttatori. In una lettera a Cavour, Liborio Romano - ministro dell' interno di Francesco II, poi deputato nel primo parlamento unitario – dimostra come vennero depredati la Cassa di Sconto e il Banco Partenopeo, le due banche principali dell'ex Regno di Napoli. Attraverso un sistema di trucchi finanziari e irregolarità contabili in un solo anno il governo piemontese 'prelevò' 80 milioni di lire, spendendone per il Meridione meno della metà...”(G. B. Guerri, op. cit. pp. 38-39). Tantissime le vicende storiche che vengono delineate nei capitoli successivi: nel Cap. IV 'Franceschiello e Maria Sofia', l'Autore non ha dubbi e riporta quanto Francesco II di Borbone, detto appunto 'Franceschiello', si sentisse napoletano, veramente dalla parte del suo popolo, e quanto la sua sposa, tedesca dei duchi di Baviera, si mantenesse al suo fianco ben coinvolta, autonoma, bella, indipendente ed audace in tutto, anche nel rifugio di Gaeta, assediato dai piemontesi; nel Cap. V 'La conquista', viene fatta piena luce su una conquista, cioè su 'un raggiro ben pensato', affiancato da un vero e proprio 'tradimento', vale a dire un insieme di eventi che mostrano quanti limiti, contraddizioni, facili pregiudizi possano prendere il posto di un concreto interesse per risolvere i problemi del popolo meridionale, fino a programmare senza mezzi termini una vera e propria guerra civile, a partire dal massacro dei contadini di Bronte. Quindi, coerentemente, nel Cap. VI 'Come nasce una guerra civile', lo storico apre la sua analisi con una citazione da Italo Calvino: “ 'Per molti dei miei coetanei era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt'a un tratto s'invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa; da una parte o dall'altra sparavano o si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile'. Sono parole di Italo Calvino, nella prefazione a 'Il sentiero dei nidi di ragno', l' altra guerra civile italiana, all'indomani dell'


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8 settembre 1943; possono valere anche per molti briganti. Le contrapposizioni di una guerra civile - benché siano ammantate da buona fede, passioni, sentimenti e alte visioni del mondo - nascono spesso da esperienze e vicende assai più modeste. O forse semplicemente più umane. Altre volte la scelta di aderire a uno schieramento è dettata dalla convenienza... Fino agli anni Sessanta in Italia e in Europa, i briganti che pagarono con la vita e la prigionia la resistenza al dispotismo papalino, erano visti come eroi negli ambienti intellettuali più sensibili alla giustizia sociale...” (G. B. Guerri, op. cit. pp. 69-71). Nel settembre del 1860 i territori occupati dalle truppe di Garibaldi vivono nuove tensioni, i contadini si sollevano a fianco dei soldati guidati da generali e colonnelli borbonici, diffondendo ancor meglio la convinzione che quella dei Mille fosse una vera e propria usurpazione. Sostiene il Guerri: “... Il nuovo presidente del Consiglio dopo la morte improvvisa di Cavour, il 6 giugno 1861, era Bettino Ricasoli, soprannominato il Barone di Ferro... Le campagne erano ormai polveriere, pronte a esplodere al segnale di questo o quel capobanda. Qualcuno provò a censire briganti e simpatizzanti. Ne uscì un quadro terrificante. Nel 1861, agivano 39 bande in Abruzzo, 42 al confine con lo Stato Pontificio, 15 nel Molise e nel Sannio, 33 in Calabria e 6 nella provincia di Napoli...” (G. B. Guerri, op. cit. pag 90). Dopo aver sintetizzato alcuni importanti dati relativi alle condizioni ed alle aspettative di vita dei popoli di queste terre, con una vita media, nell'Italia preunitaria e soprattutto al Sud, di 17 anni e dopo aver dato ragguagli sui briganti ed i loro affiliati, manutengoli, parenti, amici e quant'altro ancora (Cap. VII 'Si viveva così'), lo storico affronta il delicato tema del rapporto tra Papato, regnanti e briganti, in quei territori del Sud nei quali la fede aveva antichissimi legami con un paganesimo viscerale, atavico, incomprensibile alla luce di una riflessione distaccata sulla religiosità, i suoi confini, i suoi strumenti, i suoi effetti. Infatti nel Cap. VIII

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'La Chiesa, i Borbone e i briganti', l'Autore scrive: “... Vescovi e preti continuavano a sostenere i briganti nei paesi e nelle città dove il fenomeno era più radicato. Ecco perché, ancora per tutto il 1863, si inasprirono le misure poliziesche piemontesi contro presunti o autentici manutengoli ecclesiastici. In pochi mesi finirono in galera i vescovi di Foggia e di Muro Lucano, i curati di Reggio, Sorrento, Rossano e Capaccio, i Vicario della Cattedrale di Napoli; inoltre vennero espulsi dalle loro diocesi i vescovi di Lecce, Trani, Avellino... I briganti trovavano nell'aperta complicità del clero una legittimazione nobilitante... Nelle tasche delle loro giacche non mancavano mai ritratti sacri e santini vari, prove sicure di una viscerale fede popolare. Come accade ai mafiosi di oggi - che passano con disinvoltura dal kalashnikov all'ostia consacrata, alternando omicidi e preghiere - anche i briganti non sentivano incoerenti le loro azioni con i precetti evangelici...” (G. B. Guerri, op. cit. pag. 118). Molti gli articoli apparsi su 'La Civiltà Cattolica' dell'epoca a rinforzare questa prospettiva di sopruso forzato e violento contro gli uomini di Chiesa e molto convincenti, per chi ci credeva, gli anatemi e le scomuniche, talora più a parole che a fatti. Come posso fare allora a non soffermarmi sui Briganti e sulle loro Brigantesse, vere e proprie giovani donne spregiudicate, forti, sanguinarie, determinate ed avvezze a seguire i loro amati su rupi e nel fitto dei boschi, alla macchia, con nel sangue l'orgoglio e la difesa a oltranza della dignità del proprio nuovo ruolo? Dal Cap. IX 'Chiavone, il brigante che voleva essere Garibaldi e marciare su Torino', la trattazione entra nel vivo delle vicende legate a questo importantissimo fenomeno storico, con precisazioni sul ruolo dei Borbone e di Papa Pio IX, e si approfondisce con prove indiscutibili la durissima reazione delle truppe piemontesi alle provocazioni dei briganti (Cap. X 'Pontelandolfo e Casalduni: “Un tremendo castigo che sia d'esempio alle altre popolazioni del


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Sud'). Il Guerri non dimentica gli altri, quelli che nelle fila dell'esercito dei Savoia, perdono la vita pensando di fare cosa buona e socialmente giusta nell'uccidere gente considerata alla stregua di criminali (Cap. XI 'Le altre vittime: i soldati “piemontesi” ') e documenta con fotografie d'epoca i reali di Casa Savoia, Francesco II di Borbone e Maria Sofia, papa Pio IX e il Cavour, ma anche i briganti, questi eroi popolari come Carmine Crocco Donatelli, definito il re dei briganti, vero e proprio mito al comando di oltre tremila uomini, che riuscì a dar duro filo da torcere ai soldati dell'esercito italiano per ben tre anni. A lato la foto del suo delatore, al secolo Giuseppe Caruso, poi sotto, nella medesima pagina la fotografia del cadavere di Giuseppe Nicola Summa, detto 'Ninco Nanco', uno dei luogotenenti del Crocco, mostrato a tutti morto dopo la fucilazione, per dar prova concreta della vittoria sul nemico, come succederà in tempi recenti con Mussolini, con il bandito Giuliano, con Che Guevara e con tanti altri ancora. Ma il testo riporta anche le fotografie delle Brigantesse: quelle più famose sono tre: Filomena 'Pennacchio', dal cappello in feltro piumato, il fucile ben in vista, al fianco di Agostina Vitale, amante del brigante Sacchetiello e sotto, semidistesa a terra Maria Giovanna Tito, brigantessa del Crocco. Tutte armate, tutte pronte ad uccidere, a sgozzare, a difendere e a difendersi. L'apparato fotografico è inserito tra pagina 138 e pagina 139. Un capitolo specifico, il XII 'Le brigantesse' descrive con ricchezza di particolari la personalità, le scelte, le decisioni drastiche di queste giovani donne pronte a tutto pur di cambiare la loro sorte, mentre il XIII 'Ciccilla e Pietro: il labile confine fra briganti e banditi', prende in esame la vita, l'amore, la lotta di due veri protagonisti storici in questa sanguinosa guerra civile. Allora vengono emanate leggi speciali contro 'i selvaggi' e la più tremenda di tutte è la Legge Pica (Cap. XIV 'Carmine Crocco, il re dei briganti' e Cap. XV 'Leggi speciali contro “i selvaggi”'). Sostiene il Guerri, dopo aver riportato

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alcuni stralci della relazione del Massari che va a descrivere miseramente e razzisticamente i briganti e le loro consuetudini: “...Quella contro il brigantaggio era dunque 'la peggior sorta di guerra che possa immaginarsi; è la lotta tra la barbarie e la civiltà'... Il testo del Massari fu reso pubblico solo in parte e la lettura integrale della relazione avvenne tra il 3 e il 5 maggio 1863 nel Palazzo Carignano, trasformato in quello che oggi si definirebbe un bunker. Guai a lasciar trapelare all'esterno certe ammissioni... È forse superfluo sottolineare che i documenti dell'esercito vennero in gran parte secretati o distrutti subito, tanto che è ancora oggi impossibile stendere una vera storia documentata del brigantaggio. La censura è riuscita a operare anche sulla storia, cercando addirittura di cancellarne la memoria. E un popolo senza memoria è un popolo mutilato della propria integra identità...” (G. B. Guerri, op. cit. pp. 216-17). Maria Sofia, la sposa di Francesco II di Borbone, che morirà nel 1925, fa in tempo a offrire come un testamento spirituale in un' intervista rilasciata a Giovanni Ansaldo: “Che don Giovanni Rossi ch'era impiegato della Casa Reale nostra, e che aveva la custodia del borderò di quattro milioni di ducati (76 milioni di euro), proprietà privatissima di mio marito, sia andato subito a presentarlo al Garibaldi, appena costui entrò in Napoli, per farsene merito, non mi meraviglia; che il Garibaldi l'abbia subito confiscato, insieme al borderò degli altri principi borbonici, neppure questo mi fa meraviglia; i rivoluzionari hanno sempre fatto così con i re caduti. Ma che i Savoia, dopo che ebbero annesso il regno di Napoli, non abbiano sentito il bisogno di usare un po' di riguardo ai Borbone, che erano stati re legittimissimi, come loro, questo è ciò che ancora oggi, dopo tanti anni, mi fa meraviglia... Ma il modo in cui loro hanno trattato noi è di brutto augurio. Dio non voglia che un giorno anch'essi, non abbiano da difendere, dall'esilio, i loro patrimoni personali...” (G. B. Guerri, Cap. XVI 'Fare gli ita-


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liani', op. cit. pp. 241-42). Lei, dico io, la regina Maria Sofia, definita 'la Regina degli anarchici', sorella di Sissi, la ben più nota Imperatrice d'Austria, non ha fatto in tempo a vedere che i Savoia sono andati in esilio e dall'esilio se ne sono poi tornati in Italia, in tempi recentissimi, non firmando la lettera patente di rinuncia al trono, come ben hanno fatto gli eredi di Casa Imperiale d'Asburgo! A seguire, il Cap. XVII 'Disperdere gli italiani' con i dati impressionanti sull'emigrazione nei decenni successivi all'Unità e le ' Conclusioni'. A fondamento di questa complessa ricerca storica del Guerri, c'è una solida, ricchissima 'Bibliografia' (pp. 261-274) seguita da una opportuna ed aggiornata 'Sitografia' (pp. 275279): tra queste indicazioni il lettore potrà mettersi in viaggio ed arrivare dove vorrà, guidato dalla curiosità intelligente e dalla passione, oltre che dal bisogno di sapere meglio cosa sia veramente accaduto e perché. Tutto il lavoro si snoda tra una dedica, in apertura, e dei ringraziamenti, in chiusura: “A Nicola Giordano Guerri che - nato sull'Isola Tiberina da una pugliese e da un toscano - realizza al Vittoriale degli Italiani sul Lago di Garda, la sua dolcissima Unità d'Italia”; “I miei preziosi amici Giuseppe Iannaccone e Milena Scaramucci hanno sovrainteso alle fondamenta e all'architettura di questo libro. Tanti altri mi hanno aiutato, anche solo con un consiglio, l'indicazione di un volume o addirittura il dono - straordinario – di inediti, come Giuseppe Curcio.... Paola Veneto sarebbe stata una brigantessa”. Allora il risultato è un lavoro serio, sciolto, credibile per la dinamica scelta delle fonti, anche governative e diplomatiche d'epoca, e la rigorosa ricostruzione dei fatti, là dove ciò è stato possibile, perché non inficiato da documenti secretati o distrutti. Dal nostro passato al futuro d'Italia e d'Europa, il testo invita a costruire un presente consapevole e carico di dignitoso, laico, rigoroso senso di responsabilità. Da Nord a Sud. Ilia Pedrina

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SARETE IL MIO FUTURO Non morirò del tutto. Vedrò la luce con i vostri occhi, i colori, le forme, le tante meraviglie strepitose; suoni ascolterò, rumori ed armonie col vostro udito; organi sparsi sulla vostra pelle lo stato mi daranno delle cose, le qualità esteriori, i polpastrelli delle vostre dita per me il pentagramma suoneranno di quel che vi titilla e brama e cuore; sarà la vostra lingua le sensazioni a darmi ed i sapori. Sarete il mio futuro. Alberi voi sarete a porgere frescura alle mie ossa, a coprirmi di odori. Domenico Defelice Pomezia, 16 dicembre 2014

YOU WILL BE MY FUTURE I will not die completely. I’ll see the light through your eyes, colors, shapes, the many amazings wonders; I hear sounds, noises and harmonies through your ears; organs scattered on your skin the state will give me things, external features, the pads of your fingers play the musical score of what titillates, the longing heart; It will be your language and feelings and flavours you give me. You will be my future. Trees you will be to cool my bones, to cover me in fresh smells. Domenico Defelice Pomezia, 16 December 2014 Trad. Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia


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Una scrittrice dimenticata e da poco riscoperta:

MARIA MESSINA di Giuseppina Bosco

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ARIA Messina è una donna che ha trovato nella scrittura uno strumento per esprimere la sua arte narrativa e la sua grande sensibilità. Nasce nel 1887 ad Alimena, uno sperduto paese della Sicilia in provincia di Palermo. Il padre Gaetano era un maestro elementare, invece la madre Gaetana Valenza Traiana apparteneva ad una famiglia baronale, e come era consuetudine in quel tempo, ricevette un’educazione domestica e da autodidatta iniziando a formarsi come scrittrice a partire dalla narrativa moderna leggendo gli scrittori realisti russi quali Turghenev e Cecov. Dell’autrice il critico Borgese, in un’opera dice: “di onesta e modesta fantasia, aliena da pervertimenti sensuali, da smanie teoriche1.. Esordisce con la raccolta “Piccoli gorghi” inserendosi in quel filone narrativo verista inaugurato da scrittori siciliani quali Capuana, Verga, De Roberto. Ma di lei nelle antologie

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scolastiche non c’è traccia. Un tentativo di riconoscimento sarà l’inserimento negli atti del convegno “Letteratura siciliana al femminile, donne scrittrici, donne personaggio” a cura di Sarah Zappulla Muscarà,-docente dell’ università di Magistero di Catania - e la pubblicazione da parte della casa editrice Sellerio di Palermo di tutti i romanzi e le novelle della scrittrice, tradotte in diverse lingue e perciò conosciuta all’estero oltre alle iniziative culturali, che la città di Mistretta le ha tributato. Diversi sono stati a partire dagli anni Ottanta gli studi critici su tutta la sua produzione letteraria, di cui sono stati approfonditi alcuni nuclei tematici, soprattutto in un recente studio di Maria Serena Sapegno, quali il rapporto tra società patriarcale e condizione femminile, coscienza della condizione marginale della donna e desiderio di libertà, costruzione di un’identità sociale. 2 L’esordio letterario di Maria Messina è legato ad alcune novelle ambientate a Mistretta, dove il padre si era trasferito nell’estate del 1903, per cui la scrittrice dovette abbandonare la città di Palermo per quel paese di provincia e nella novelle “L’ideale infranto” e “Sotto tutela” si può scorgere il disagio della scrittrice per un ambiente paesano privo di qualsiasi stimolo culturale: non arrivavano i giornali, non c’erano biblioteche, teatri, ecc... quasi a sottolineare la sua insofferenza per quel mondo popolato oltre che da persone umili, da figure femminili silenziose e rese schiave da una cultura maschilista dominante; nella raccolta di novelle “Pettini fini” (pubblicato per la prima volta nel 1909), Maria Messina ci offre così un affresco del paese di Mistretta con i suoi umili protagonisti, i loro vissuti, le vie del paese in cui si rivela l’ attaccamento alla scuola verista e il canone dell’impersonalità difatti Giovanni Verga ne ricevette una copia dall’autrice in quanto egli rappresentava per lei una “guida sicura, un padre da cui ricevere insegnamento e protezione”3 …e da quel momento ha inizio una corrispondenza col grande scrittore catanese che durerà una decina d’anni. Durante i primi anni del Novecento la scrit-


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trice si trasferisce ad Ascoli Piceno perché il padre era stato nominato ispettore scolastico. Questo è il periodo in cui dalle novelle rusticane la scrittrice passa a quelle di ambientazione borghese. Nelle successive raccolte di novelle, Le briciole del destino (1918), Il guinzaglio (1921) e Ragazze siciliane (1921), il verismo di Maria Messina comincia a spostarsi dal mondo rusticano dei "vinti" all’ analisi della piccola borghesia. Ma i "vinti" sono per lo più le donne, le quali "non posseggono la forza di offendere né quella di difendersi": sia nella condizione di mogli recluse tra le mura domestiche sia in quella di nubili che sprecano le loro esistenze sacrificandosi per gli altri e consumando la propria giovinezza tra fatiche e lavoro. Emblematico è il racconto "Casa paterna”6, in cui si rivela una struttura compositiva più matura, in un abile gioco di architettura letteraria di trama e di intreccio. La protagonista, Vanna, è una giovane siciliana sposata da poco tempo ad un avvocato romano, la quale ritorna alla casa paterna, dopo aver deciso di lasciare il marito e la città in cui vivono, perché non sopporta la solitudine e l’ indifferenza sia della grande città che del marito stesso. Mentre il viaggio si sta concludendo, la ragazza è sopraffatta dai ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza, rievoca le speranze ed i progetti, ritorna a quel nido pensando di ritrovare la stessa pace e lo stesso amore di allora: tante cose però sono ormai cambiate, i fratelli sono sposati, e le cognate non accettano la vergogna che lei porta in famiglia perché ha osato separarsi dal marito, nemmeno il padre e la madre - ormai succubi delle nuore possono più aiutarla e pertanto l’epilogo sarà tragico. In questa raccolta è inserita, anche, la novella “L’ora che passa”. La protagonista è Rosalia, maestra elementare che sacrifica se stessa per la cura della famiglia, la quale si trova in condizioni economiche disagiate. Non riesce ad uscire dal “carcere” del suo ruolo, dalla non-vita. Questa estraneità a se stessa rispetto a quella parte di sé che avrebbe voluto vivere ed amare, invece, di guardarsi

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vivere, sembra riecheggiare il personaggio di Adriano Meis - Pascal, di Luigi Pirandello, meno giocato però sull’assurdità delle situazione, sul grottesco e sul sottile ragionamento (che caratterizza le opere pirandelliane) e in ciò si rivela l’originalità e la linearità dell’arte narrativa di Maria Messina. Non a caso Leonardo Sciascia, in una nota critica, l’accosta alla grande scrittrice inglese Katrin Mansfield definendola una “Mansfield siciliana” forse perché Maria Messina al pari della Mansfield riesce a rappresentare con poche immagini un universo femminile succube dell’egoismo e del degrado morale di una società maschilista e sa descrivere con brevi squarci momenti di vita quotidiana e stati d’animo femminili, resi dal punto di vista delle tecniche narrative, da una struttura sintattica semplice e con diversi ricorsi all’indiretto libero. Anche la scrittrice Ada Negri dedicò una prefazione alla raccolta “Le briciole del destino”, cui fa parte la novella “Casa paterna,” e dell’opera dirà “Tu hai voluto studiare questi cantucci di umanità, che sanno di vecchia polvere, di vecchi stracci abbandonati, di vecchie ragnatele, di vecchie lagrime rancide. Tu vi sei riuscita, piccola sorella Maria”.7 La rassegnazione e l’impossibilità di un riscatto per la condizione femminile sono i temi dei romanzi, presenti soprattutto in “Casa del vicolo”. Nei romanzi “Casa del vicolo”, di cui la Sapegno fornisce chiare chiavi interpretative e tematiche, e “Amore negato” si rivela una maggiore maturità compositiva della scrittrice, difatti in quest’ ultimo romanzo si nota un maggiore scavo riguardo alle psicologie femminili, e l’ attenzione si sposta verso la città, descrivendo un ambiente piccolo borghese (il romanzo è ambientato ad Ascoli Piceno), in cui si deve sopravvivere alle difficoltà materiali e all’estraneità degli affetti. Sembra quasi riecheggiare lo Svevo dei romanzi giovanili, la cui analisi dell’ inettitudine è più legata all’ inconscio maschile. È comunque interessante fornire strumenti interpretativi delle opere di esordio di Maria Messina, analizzando le cinque novelle che


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la casa editrice Sellerio ha raccolto in un volume del 1998 dal titolo “Dopo l’inverno”, grazie alle ricerche di Roswita ShoellDombrowsky che le ha raggruppate, poiché erano state pubblicate in diverse riviste letterarie del primo Novecento. La novella “Dopo l’inverno” risente della scuola verista in cui domina la descrizione dell’ambiente rurale siciliano gravato dalla miseria, dall’ignoranza degli umili e dal dramma dell’emigrazione. Il protagonista, “Ssu Vanni”, un contadino oppresso dalla povertà, dall’ignoranza tenta, nonostante gli anni e la salute malferma, di lavorare in campagna. Ha un solo figlio, “bello e grande come una bandiera”, il quale è partito dal paese in primavera con l’ intenzione di andare in America. ‘Ssu Vanni, era divenuto per quella solitudine, asprigno ed irascibile,” e se qualcuno gli si accostava egli se l’aveva a noia”, aveva ricevuto, dopo poco tempo dalla partenza del figlio, alcune lettere. Con l’inizio dell’ inverno quelle lettere non arrivarono più, quasi a voler simboleggiare la ciclicità delle stagioni presente nel mito di Persefone e kore. Quando Ade rapisce Core, che stava sottoterra, la madre Persefone per la disperazione rende infertile la terra, che non dà più i suoi frutti (periodo della stagione invernale), e quando Core poteva tornare libera sulla terra per sei mesi, la dea la rendeva fertile e lussureggiante. A metà inverno, verso l’anno nuovo, dopo tanto silenzio, arriva una lettera di Turiddu. E Ssu Vanni, analfabeta, corse dal Rosso, il falegname, per farsela leggere così seppe che il figlio era partito dall’America e si trovava a combattere in Turchia, a Bengasi. La novella, pubblicata nel 1912 nel quindicinale “La Donna”, è ambientata in un preciso momento storico, quello di Crispi, e della politica coloniale dell’Italia volta alla conquista della Libia. Anche il Meridione è coinvolto in questa propaganda patriottica, per cui Turiddu combatte per la gloria della patria. Anche l’atteggiamento dei paesani cambia nei confronti del contadino che non

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sarà più deriso ma rispettato: il figlio è un eroe, non uno squattrinato in cerca di fortuna in America. Quando lo’ Ssu Vanni apprende la notizia che un gruppo di feriti della guerra in Libia erano stati rimpatriati e sarebbero ritornati in paese, inizia a sperare di poter rivedere Turiddu proprio nel periodo in cui “il grano accestiva e le rondini tornavano a stridere sul cielo luminoso (…) e la terra sapeva di tanti buoni aromi (ritorna il mito di Proserpina). Difatti “è festa grande in paese, in quel pomeriggio odoroso di primavera per i soldati reduci.” 8 Il contadino che non osava pensare che tra di loro vi fosse il suo Turiddu, improvvisamente lo vide tra la folla festante, accolto dalla banda e dal sindaco del paese che aveva fatto imbandire un tavolo nella piazza per onorare i reduci della guerra “E Ssu Vanni chiedeva perdono a Dio del corruccio germinato nel suo cuore di uomo meschino, di uomo che, roso dalla fatica, non distingue più un bruco dalla foglia; e ora pensava con gioia che quel figlio era suo, era sangue suo…”9 La novella “Il violino di Sandro”, pubblicato nel 1913 nello stesso quindicinale, è centrata sulla psicologia del protagonista, di nome Sandro, musicista e violoncellista, il quale, convalescente per una malattia dovuta a continue febbri debilitati, è costretto alla quasi inattività. La sua malinconica quotidianità è interrotta dall’arrivo dei nuovi vicini della casa gialla: una famiglia che abitava di fronte. La figlia, era una giovane fanciulla dal viso da bambina e dai capelli biondi che brillavano al sole come “pagliuzze d’oro”. Però la separazione tra le due abitazioni era colmata dalla finestra da cui spesso Sandro si affacciava per osservare le abitudini della fanciulla dirimpettaia. Il giovane, invaso da mille fantasie ed emozioni verso di lei, cerca di stabilire un intimo contatto attraverso la musica “La voce umana del violino si diffondeva nella piazza deserta, saliva verso il cielo stellato col profumo dei calicanti ,nelle note lunghe ed appassionate vibrava tutta la tenerezza contenuta nell’anima romantica


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del convalescente, affinata dalla malattia …gli occhi di tanto in tanto si levavano a cercare colei che restava davanti alla finestra aperta”.10 Un giorno mentre il medico parlava sommessamente con la sorella Clara seppe della menomazione della ragazza dal viso di bambina: la sua sordità. La rivelazione lo fece impallidire e tremare perché aveva cercato di comunicare con lei attraverso l’unica voce e l’unica parola che potesse esprimere i suoi nobili sentimenti. Ma lei non aveva potuto sentirli e così, all’improvviso, il ragazzo decise di uscire dalla stanza. La casa, che simbolicamente rappresenta la segregazione, la non vita, l’inazione, la soglia tra ciò che è conosciuto e” l’altrove” da scoprire e da conoscere. Così Sandro cerca di stabilire un contatto vero con la fanciulla per manifestarle il suo amore e lei, se non poté sentire da lontano la dolcezza di quelle note musicali, poteva vedere ed ascoltare da vicino le parole di Sandro. “Vincere” è la più assurda ed anche un po’ grottesca novella di Maria Messina in cui si avverte il suo pirandellismo. Intanto la storia ha quasi un impianto teatrale; due spazi interni, i balconi, mettono in relazione due famiglie nello stesso palazzo baronale. La moglie del professore di disegno (da poco trasferitasi in quel luogo) con la signora Panebianco. La figlia del professore, Carmelina, sarà la novità per il giovane aristocratico Giorgio, il quale imporrà subito alla ragazza il suo potere di classe e di maschio “Giocavano a fare il ritratto e le comandava di stare ferma: Carmelina si metteva nella posa che voleva lui davanti la macchina…, e sul più bello si allontanava, distratta… Giorgio, che abituato a essere contentato dalla mamma, o contrariato dal papà, obbedito dalla serva, diventava rosso sino alla radice dei capelli”. 11 Il desiderio adolescenziale di Giorgio di autonomia dalla famiglia lo portano a fantasticare sul desiderio di sposare Carmelina, sfidando anche la leggenda di famiglia dello

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zio ricco che si suicida perché gli fu impedito di sposare una popolana. La sottomissione di Carmelina nell’ accettare di sposare Giorgio, spinta da entrambe le famiglie, la condurrà a recitare il ruolo di moglie felice ed arrogante - che tutti credevano che fosse, ma che in realtà non lo era. Giorgio assume il suo ruolo all’intero di una gerarchia patriarcale e di classe e si occuperà solo delle sue proprietà, trascurando Carmelina. La donna, cosciente della sua condizione infelice, girellava attorno alla vasca del “giardino”. “Certe volte sedeva sull’orlo. Brutta abitudine quella di sedere sull’orlo… Andò a finire che un giorno, dopo averla cercata qua e là nel giardino… Disgrazia… oppure… ma no! Era stata una disgrazia! Una donna fortunata come lei! Se lo dicevano tutti a una voce: le amiche, le vicine. Che le mancava per essere felice?”12 Un suicidio, una disgrazia, qual è la verità? Ecco riecheggiare un certo piradellismo, nel contrasto tra apparenza e verità. Cosa le mancava per essere felice? Anche Giorgio, avvisato della disgrazia rispose rinfrancato “Una casa spezzata… forse non era destino…” Lo stile e la lingua di queste novelle può essere definito minimalista, con un ricorso ad un periodare breve, lontano da complessi costrutti sintattici. Il linguaggio è colloquiale e risente di espressioni del parlato. Giuseppina Bosco 1 Bartolotta , “ Literary” , studio su Maria Messina. 2 Maria Serena Sapegno, Sulla soglia : la narrativa di Maria Messina, in “altrelettere”, 14-03-2012 3 Bartolotta ibidem 4 Cfr.Palermo, Sandron. 1911. Così scrive al Verga da Ascoli Piceno 5 Bartolotta ibidem 6 M. Messina, Casa paterna. Palermo, Sellerio 1981 7 Bartolotta, ibidem 8 Maria Messina, “Dopo l’inverno”. Sellerio 1998, Palermo, pag 16 9 Maria Messina, ibidem, pag 20 10 Maria Messina, ibidem, pag 25 11 Maria Messina, ibidem, pag 63 12 Maria Messina, ibidem, pag 77


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BENITO POGGIO 58 Canti bilingui di Liliana Porro Andriuoli SPERTO traduttore dall’inglese di importanti testi letterari, come dimostra la sua recente versione in lingua italiana di Spoon River Anthology, accolta con molto favore dal pubblico e dalla critica, Benito Poggio si ripresenta ora a noi con un volume bilingue dal titolo 58 Canti Bilingui (58 Bilingual Poems), contenente appunto cinquantotto poesie da lui scritte negli anni, col testo inglese a fronte. Il volume è suddiviso in due parti (Il sapore del tempo / Time’s Flavour, che è il titolo della Prima parte e Incapace paguro / Incapable Hermit-Crab, quello della Seconda). La prima parte del libro, nella quale si trovano i testi più antichi del Poggio, reca la prefazione di Aldo Capasso, noto critico letterario, nonché valente poeta, mancato ormai da parecchi anni (per la precisione, era nato a Venezia nel 1909 e morì a Cairo Montenotte -

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SV - nel 1997). La seconda parte è invece prefata da Piera Bruno, narratrice, poetessa e saggista tuttora molto attiva nell’arengo genovese, e contiene le poesie più recenti del nostro autore. Nel lodare l’essenzialità delle 21 poesie di questo primo gruppo Aldo Capasso parlò fra l’altro, e giustamente, di “poesia dell’ amarezza”; ed infatti l’“amarezza” è un sentimento che subito emerge dai versi de Il sapore del tempo; e che diviene particolarmente evidente in poesie quali C’è troppo (There is Too Much), che inizia: “C’è troppo su cui piangere / nel mondo” (“There is too much in the world / I could cry over”), oppure E l’uomo invecchia (And Man Grows Old), che ha questo incipit: “E l’uomo invecchia / e ognuno lo disprezza” (“And man grows old / And everybody / Him does hate”). Più acuta si fa poi l’amarezza del poeta al pensiero degli anni inutilmente “trascorsi”: “Perché urlate sì forte questa sera / anni trascorsi…”1 (“Why are you shrieking with horror all night long / O you my past...”2). Ed il rimpianto per il tempo andato affiora anche da poesie come E forse un dì (Hopeless Perhaps, One Day), dove si legge: “… verrò a cercarti ancora / gioventù spensierata dei vent’anni” (“I’ll come to look for you / my youthful years”). C’è inoltre in questo primo manipolo di poesie del Poggio il sentimento incantato dell’ infanzia: “All’improvviso, bimbo, / dalla tua mano / una nuvola s’è sprigionata / di colori // Ridevi / dietro la maschera / felice di carnevale…”, Le maschere (“At once, my child, / Out of your hand / Sparks were given off / Of colours // You, child, were laughing / Your face behind the mask, Happy…The Carnival / was at its height in thestreet”, Masks). Come non mancano in questo primo gruppo versi intrisi dal sentimento di sofferta solitudine: “Nessuno è solo questa notte ed io / da

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Da: Perché urlate sì forte questa sera? Da: Why are you shrieking with horror all night long? 2


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solo veglio”3 (“No man that night alone was but I / All night I was awake alone”4). La seconda parte del libro (quella prefata da Piera Bruno) è di argomento più vario, confluendo in essa anche alcune poesie dedicate alla donna della sua vita, che è per lui “come il sole al giorno necessaria / e alla notte la luna”, L’amore per amore dell’amore (“As is needful the sun to every day serene / and to every night the silent moon”, Love for Love’s Sake). Particolarmente significativo è il titolo di questa poesia (che viene ripreso anche in un verso del testo) e che, come precisa la Bruno nella sua Prefazione alla Seconda Parte della silloge, costituisce davvero “una splendida sintesi” che “dilata i suoi significanti e coinvolge al di là della vicenda di due persone amanti”. Un amore rimasto intatto per una donna che Poggio vede ancora “con gli occhi dei vent’anni”, De senectute (“With mine young age’s eyes”, De senectute) e di fronte alla quale sente destarsi in lui l’antico desiderio amoroso (A Luisa … da vecchio / To Louise … When An Old Man). Significative sono pure in questa raccolta le poesie dedicate da Poggio ai figli Federica, Beatrice e Corrado, ai quali confessa: “Se voi sapeste / l’ardua, indicibile fatica / d’essere, per voi, solo padre, / null’altro…”, Ai miei tre figli (“Oh, if you were acquainted / With the hard, unutterable exertion / To be, for you, only father, / Nothing else…”, To my three Children). Si veda inoltre “Cuore fuggiasco” (“Fleeing heart”), dedicata alla figlia Bea, “che viaggia e dipinge” (“Traveller and Painter”). Tra le fonti d’ispirazione che Poggio scopre in questa seconda parte del libro c’è quella della sua città, Genova, alla quale dedica versi affettuosi e toccanti: “Non più m’ allontanerò da Te, / Genova vecchia e cara!”5 (“No more, no more from You I’ll go away / Genoa, my old town, my sweet dear home!6); 3

Da: Nessuno è solo questa notte ed io. Da: Not to be a man. 5 Da: Non più. 6 Da: No More. 4

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così come dedica altri versi a Figgino, un paese dell’entroterra ligure a cui è particolarmente legato, poiché in esso può realizzare appieno la sua comunione con la natura (Quel rosso sorriso autunnale / That Red Autumnal Smile). Tra queste poesie se ne incontra anche una dedicata a un amico poeta scomparso: Aldo G.B. Rossi, del quale viene ricordata la sua lirica forse più significativa, Émmaus: “La strada era lunga, ma i Due / trovarono il Terzo Viandante” (Émmaus: “Very long was the way, but the Two / Met the Third Wayfarer). Degna di nota è inoltre un’altra breve poesia dal titolo E se… (And if…), dalla quale affiora un intimo sentimento religioso “E se… / profondo il silenzio / nell’animo mio / altro non fosse / che la presenza di Dio?” (“And if … // Silence / - So deep in my own soul - / Weren’t it anything else / But God’s real present”), avvalorato anche dalla dedica: “A Qualcuno” (“To Someone”). Oltre ad abbracciare gli affetti familiari e il ricordo di amici scomparsi, la tematica di questa seconda parte del libro di Benito Poggio abbraccia anche alcuni tragici eventi di vita contemporanea, come quello di Vittime astrali (Victims in the Stars), che ha per argomento il disastro dello Space Shuttle, che si disintegrò dopo appena un minuto di volo, la mattina del 28 gennaio 1986; oppure quella che rievoca la catastrofica eruzione del vulcano colombiano Nevado del Ruiz, avvenuta il 13 novembre 1985: “Assopito da tempo, s’è svegliato / con fragore improvviso il gran vulcano / e dovunque fu morte”, Nevado Ruiz: 13 novembre 1985 (“From time immemorial dormant, the great volcano / A lot of ash threw out with unexpected rumble, / Spreading death everywhere”, Nevado Ruiz: November 13th, 1985). Non manca tra queste pagine nemmeno il ricordo per Martin Luther King, il grande paladino dell’uguaglianza tra gli uomini (Ode a Martin Luther King / Ode to Martin Luther King) e quello per il terribile attentato alle Torri Gemelle: 11 settembre 2001: Non prevalebunt / 11th, settembre 2001: Non prevalebunt.


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Colpiscono particolarmente in questo libro le poesie dedicate ad alcuni giovani prematuramente scomparsi, cui Poggio era molto vicino come insegnante. E’ il caso di Alessio, morto in giovane età, che egli aveva conosciuto quale allievo del Liceo Mazzini di Sampierdarena: “Tu ci hai lasciati, senza te, più soli / e in un’angoscia che non avrà fine”, Al mio allievo Alessio (“You have left us, without you, more alone / And in an endless state of painful anguish”, To Alessio, a Pupil of Mine). Si leggano anche A Simone: “Simone, dolce adolescente inquieto, / No non ha retto il tuo animo puro / Alla falsità e al male del mondo…” (To Simon: “Simon, sweetanxious twink, / No, your poor soul didn’t stand up / To falsehood and to evil of the world…”) e A Michele: “Più maturo dei tuoi quattordici anni, / Sei volato lassù negli alti cieli / Ove la giovinezza non ha fine” (To Michael: “As a teenager of a great experience, / You flew high, in the highest where never ends / Your neverending, your eternal youth”). Da ultimo sono da ricordare le poesie dedicate a Giorgio Caproni e Mario Luzi, due grandi poeti molto amati da Poggio. La poesia dedicata al primo ha per titolo A Giorgio Caproni (To Giorgio Caproni) e contiene alcuni intensi pensieri sulla poesia: “Non importa che muoiano i poeti: / Ci restano – per noi – i loro versi / E tu li palpi come palpi i frutti / Sull’albero e palpi la presenza / D’una morte che non è morte. // Et Verbum…” (“If doesn’t matter whether poets die: / Their own poems still persist for us; / And you feel them as you touch the fruits / On a tree, and you feel the presence / Of a quietus that is not a quietus. // Et Verbum…”). Quella dedicata a Luzi s’intitola Sapore della mia poesia (Flavour of My Poetry) e costituisce una vera e propria dichiarazione di poetica: “Poeta è chi vive le piccole cose; / chi soffre in silenzio e, sognando, / rimira ogni giorno con occhio ridente / l’inane agitarsi dell’uomo. // Da sempre” (“A poet is he who lives on tiny things; / He who silently suffers and, on dreaming, / With smiling eyes every day does gaze / At

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man’s useless anxiety. // Always”). Si veda anche Le mie ricchezze (My Own Riches), dedicata a Sandro Penna. A lettura terminata, si ha l’impressione di aver attraversato quelle che sono le poesie di una vita, della quale contengono lo slancio e il ripiegamento interiore, così come il bene ed il male; ma sempre con quell’aderenza alla verità umana che è propria di chi desidera penetrare a fondo nei segreti dell’arte dello scrivere in versi. Compiute e fedeli al testo le traduzioni, come facilmente risulta dagli esempi sopra riportati. Liliana Porro Andriuoli BENITO POGGIO: 58 Canti bilingui (AGF Edizioni, Genova, 2015, € 12,00)

LA VENERE DI MILO Simulacri ritrovano l’aria dopo secoli di futile oblio. Plastiche forme sintetizzano il nesso tra arte e realtà. Fosti tu a crearla la Venere di Milo su sembianza di giovane acerba, amante sensuale al chiarore di luna, luce che vibra su turgidi seni. Il chitone drappeggia le curve linee sfogo istintivo di voluttà immaginaria. Lo scalpello si mosse sull’onda creativa, l’occhio fu vigile e sognatore disegnando a memoria quel morbido ventre. Accarezzasti quel marmo soffiando le mani, come a portare desiderio d’amore. Ti stupisti… d’innanzi a tanta bellezza come se degli Dei il frutto la tua opera fosse. Colombo Conti Albano Laziale


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EUGENIO MARINO: ANDANDOSENE SOGNANDO di Carmine Chiodo

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UGENIO Marino, responsabile Nazionale del Partito Democratico per gli italiani nel mondo, si occupa anche di emigrazione: l'autore, laureato in lettere moderne, si è occupato, scrivendo una tesi di laurea, dei rapporti tra la letteratura e la canzone italiana d'autore, concentrando la sua attenzione in particolar modo su Guccini e de Gregori. Con questo poderoso e ponderoso libro, che giustamente sta avendo un notevole successo e nel contempo è stato presentato e si presenta in varie città italiane ma pure estere, Eugenio Marino affronta l'emigrazione come è stata trattata nella canzone . Ci si trova davanti a un bel libro che presenta sei capitoli, densi e corposi, e più le conclusioni. Ne vale veramente la pena leggerlo. Il fenomeno dell'emigrazione viene dapprima descritto partendo dall'Unità d'Italia alla Repub-

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blica, e qui si parla diffusamente dell'emigrazione americana e delle canzoni melodrammatiche; poi si passa ad analizzare il contesto culturale post-unitario, le traversate fatte con bastimenti, e ancora le scene della partenza, scene ovviamente molto malinconiche. Ancora l'emigrazione vista e analizzata nella tradizione napoletana, le "mandulinate e l'emigrante", la musica popolare e folck del resto d'Italia, e poi si passa alla tradizione molisana e qui sono mostrate e analizzate le canzoni afferenti alla cronaca. Eugenio Marino dei testi delle canzoni non solo studia i temi ma pure le parti più propriamente letterarie, lo stile, la metrica, e poi ancora il ritmo, le varie tematiche. Leggendo il ricco e ben articolato volume ci imbattiamo in nomi noti della musica, autori di famose canzoni in cui si parla di emigranti: ad esempio il celebre artista napoletano Renato Carosone. Comunque dai bastimenti si passa ai "treni del sole". Ecco ancora un altro grande della canzone italiana: Domenico Modugno, il celebre Modugno di "Volare". Ancora ci è dato leggere una fine analisi che attiene allo stretto legame tra folk, protesta e politica, il che determina una "canzone diversa, alternativa e intellettuale". A guardar bene il volume ci offre una articolata storia della canzone italiana, di quella canzone che parla di emigrazione, di emigranti. Cosi nel quinto Capitolo "I Cantautori e l'alternativa-politico-morale": si parla degli anni sessanta e della"Scuola genovese", dei cantautori con la solita- canzone amore-cuore; e anche in queste pagine ci imbattiamo in nomi arcinoti: Bruno Lauzi, Luigi Tenco di "Ciao, amore, ciao", e ancora Lucio Battisti, gli anni Settanta , e ancora Modugno di "Amara terra" e il calabrese Mino Reitano di "Calabria mia", e poi ancora l'Equipe84 (con "Casa mia"), seguono ancora il cantante Rino Gaetano, figlio di emigranti e non mancano De Gregori, Dalla, Edoardo Bennato, Guccini, e arriviamo agli anni Novanta: Ivan Fossati "tra emigrazione e viaggio", Edoardo Bennato: "Ancora treni da Sud a Nord", Mia Martini: "dal suo Oriente agli immigrati con la faccia di Dio", e ancora Fabrizio De Andrè. Cosi si


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arriva al Duemila e qui ecco Davide Van De Sfroos e "l'emigrazione attraverso il dialetto laghèe; Gianmaria Testas: "L'uomo verso, cantautore impegnato per senso di responsabilità"; Kento: "Sacco e Vanzetti tra rap, emigrazione e anarchia"; Brunori Sas: "Dalle speranze dei bambini anni Ottanta alla crisi degli adulti del Duemila", e per finire Gualtiero Bertelli, veneziano, nato nell'isola della Giudecca nel 1944, figlio di un operaio e di una casalinga. Leggendo il libro si vede pagina dopo pagina come Eugenio Marino con intelligenza e sensibilità sa leggere e presentare questi testi, affrontandone le tematiche storico-sociali connesse alla emigrazione. Insomma storia, musica, letteratura sono ben fuse tra di loro e ci danno questo libro che esamina il fenomeno dell'emigrazione in testi poetici come sono le canzoni, certe canzoni italiane. Ciò è fatto per la prima volta, ed è fatto bene, ed è merito di Eugenio Marino che è stato giustamente lodato e viene lodato da più parti, da diversi critici, da storici, giuristi, oratori vari che hanno presentato questo libro che getta maggior luce sull'emigrazione vista e considerata in dei testi che sono analizzati da Marino, che

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ne mostra le caratteristiche di fondo. Di ogni artista, di ogni autore e testi son colti la fisionomia, gli elementi importanti ed emergenti, l'ironia talvolta, l'impegno politico di De Gregori altre volte e poi ancora quella che viene chiamata la”Profondità" di De Andrè e Guccini, ad esempio. Insomma Eugenio Marino sa penetrare i testi e ci ha dato un libro esemplare che ci mostra come emigrazione e nell'ultima parte del volume - l'immigrazione sono legate alla canzone. Questo volume di Eugenio Marino è un testo imprescindibile nello studio della emigrazione e quindi anche un contributo nuovo e innovativo. Un libro che si raccomanda non solo agli specialisti ma a un più vasto pubblico, a quelli che amano leggere e imparare. Orbene ringraziamo Eugenio Marino di averci dato un libro importante e di piacevole e utile lettura. Carmine Chiodo Eugenio Marino, Andandosene sognando: L'emigrazione nella canzone italiana. Quaderni sulle emigrazioni, diretti da Norberto Lombardi, Cosmo Iannone Editore, Isernia 2014, pp. 389, € 23,00.

ILMIO CUORE SI GONFIA … Il mio cuore si gonfia se ti penso, se ricordo la tua figura, il tuo viso e il tuo sorriso, se ricordo la tua dolce voce … Il mio cuore si gonfia, e allora ancora ti sento vivo nel mio ricordo e nel mio pensiero. E allora ancora vivo con te, nel tuo ricordo, nel ricordo di te, nel pensiero di te, nel tuo pensiero … Sei tu che adesso aleggi a me d’intorno e mi costringi a scrivere ? Mariagina Bonciani Milano


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Nella poesia di

FULVIO CAPORALE TRIVIGNO E TUTTA LA LUCANIA di Leonardo Selvaggi I A Lucania tra monti e terre aride con arcaiche caratteristiche, pare sprofondata in tempi che si perdono in lontananze infinite, tra scoscendimenti e dirupi. La troviamo riconoscibile per le sue asperità, con i calanchi che contrassegnano le erosioni proprie di terre alluvionali: l’ aspetto frustrante di una regione in gran parte povera, fra anfratti e spaccature uguali a tagli sanguinanti mai rimarginati, voragini a picco, bocche enormi assetate che paiono dilaniate, fiumare dai greti pietrosi con acquitrini secchi con cortecce di argilla accartocciate. I versi di Fulvio Caporale con realismo e icasticità, vibranti dal profondo dell’ animo, tra amarezze e scetticismo, fanno sentire i pensieri tormentati dei grandi meridionalisti, riportano nei contenuti ricordi di solitudine e di desolazione, stato di abbandono e di incomprensione in lunghi periodi di dominazione che si sono succeduti attraverso varie epoche storiche. Il volume “A Trivigno non nascono bambini” fa notare che la Lucania è regione depressa non priva di luoghi ameni e di risorse, di paesaggi di

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straordinaria bellezza in azzurri tersi, di orizzonti incantevoli, soffusi di luce, estesi all’infinito. Trivigno come tanti paesi e borghi della Lucania, è semiabbandonata in seguito ai massicci esodi verso i grandi centri. I pochi abitanti rimasti si aggirano fra i vicoli come ombre di un passato di virtù e laboriosità, di grande passione per i mestieri e nel contempo di fede e di perseveranza. Per chi vi è nato è un paese tutto vivo nelle ansietà e nella speranza di vederlo ritornare attivo come una volta, ci si sente legati con lo stesso attaccamento di quando con pochi mezzi si era combattivi tra stenti ed estenuazioni continue. Le case, come le vecchie persone, paiono visi induriti con le rughe, guardano fisse, da lontano ti riconoscono, quasi vengono incontro con le braccia tese. Si ricordano le capacità di industriarsi, il senso di saggezza e i modi naturali che dominavano l’ambiente rurale, ancora oggi presenti tracce resistenti. Il volume “A Trivigno non nascono bambini” di Fulvio Caporale, poeta e giornalista, ha vastità di sentimenti e di memorie storiche: la Lucania tra personaggi e centri della Magna Grecia e soprattutto la grandezza di Federico Imperatore che ha dato in tempi tenebrosi luce di vitalità e di progresso. I versi hanno intrecci di contenuti, fra immagini poetiche in dilatazione che prendono realtà, stati psicologici e impeti di inestricabile amore verso i luoghi amati. Espressività con solennità ritmica esprimono fremiti e insieme inquietudini. II Essenzialità di tempi e di esistenze che riscoprono profondità di energie interiori, figure umane che tengono della primitività e del magico in una sentimentalità che fa, in un tutt’uno, vicinanze e pienezza di sé. Vitalità del passato ritroviamo inestinguibili in fondo all’animo, nonostante i capovolgimenti di costume che ci travolgono nel nostro tempo. Storicità e poesia intessuta di principi morali in Fulvio Caporale, materialità e spirito in un cerchio unico di intercomunicabilità. La sua Trivigno, nonostante le fughe verso i centri,


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esprime questa specie di monumentalità delle forme e dei modi di essere che rimangono radici ramificate inestirpabili: eternità delle tradizioni della vita dell’uomo nella sua fonda mentalità, genuinità delle affettività in spontaneità di legami, “Servi e famigli a riporre i covoni/sotto tettoie predisposte, donne intente a governare cucine e lavatoi”. Le pagine del volume poetico, edito dal Centro Culturale Studi storici di Eboli nel 2003 in bella veste tipografica, con illustrazioni fanno evidente la presenza di coerenti volontà, pronte agli impeti generosi in caratteri inflessibili. Il nome di Lucania nella complessità dei significati esistenziali, scuote i più latenti moti interiori, esprime il nostro essere in tutta la sua struttura, “non evoca foreste, lupi, mostri/...ma luce...”, una figura di regione esposta a tutti i cataclismi geologici, con ferite che non si chiudono e la gente forte nelle tribolazioni e sempre spinta alle lotte, invincibile e trionfante con le più connaturate inclinazioni. Trivigno, come altri piccoli paesi del Sud, con i pochi abitanti pare in stretta simbiosi con i ricordi e quelle costumanze che, nonostante la modernità, non si corrompono, l’ intonaco rude è uguale alla semplicità, all’ orgoglio e al senso di dignità. La carne corrosa, macerata dalle angustie, pari alla terra frantumata dal vento e all’intemperie, come le pietre radicate, ricoperte di muschio, non avverte neppure il peso dei malesseri. Per le persone, testimoni del passato, non è facile staccarsi dalle matrici che le hanno sostenute e allevate. Fulvio Caporale, direttore della rivista “La grande Lucania” vede dell’ arcano indistruttibile che avvolge Trivigno con i vicinati, i vicoli e le presenze come mimetizzate e stratificate. Un istintivismo tiene in amalgama, ogni vecchio abitante assomma tutto quello che è rimasto, incrostato con lo stesso colore della terra: in altri luoghi ci si sentirebbe in emanazione, inconsistenti, tormentati in esilio infinito. III Linguaggio incisivo che si esprime in versi risonanti, levigati e rilucenti, vi si specchia

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l’atmosfera fine e assolata delle estati interminabili, con gli spazi ampi in profondità e in altezza: come estasiati ci eleviamo in piena celestialità e in immensità interminabili, ci muoviamo “Dove la poiana/cerca cime di monti a larghi giri”. Gli incanti di notti lunari dentro un cielo in movimento ondeggiante di armonie, sopra la terra serena e purificata tra ombre e luci esaltata dallo zirlare con estese sonorità dei grilli. Quadri di universale mistero che ci hanno inondato nei tempi felici, facendosi spiritualità diffusa per l’etere. La Lucania ha tutta una intensità di vita, fra le più belle regioni del “Sud lontanissimo d’Italia”, si riconosce subito come geografia del territorio, frammentata, diversificata, si avverte una panteistica movimentazione di presenze inavvertibili, si pensa con la immaginazione accesa dei Lucani di incontrare fauni e ninfe secondo le credenze dell’antica mitologia. Non manca in Fulvio Caporale una vena ironica che manifesta una espressività senza retorica, propria di chi, amante della verità, ha fierezza, indipendenza di spirito. Forza di carattere si rileva fra le persone che incontriamo a Trivigno e nei borghi vicini, gente legata a modi di essere del passato, anche se in una forma poco evidenziata, ostinazione, senso di sacrificio, di previdenza. Le illustrazioni del volume “A Trivigno non nascono bambini” raffigurano le varie parti dell’abitato e i segni di corrispondenza con le persone di altri tempi: la rusticità significa concretezza, essenzialità di pensieri e spontaneità, contentezza del poco. La parsimonia e la moderazione, virtù diverse da quelle del nostro tempo, tutto improntato al consumismo, all’egoismo esasperato, aberrante, irritante, vanaglorioso. Le virtù che si leggono sulle pareti, sulle finestre e sulle porte delle case, un tempo piene di calore e di senso della famiglia, sono state proprio dei paesi del passato in ristrettezze economiche, in esultanza ed espansività, nella vitalità della Natura con le piante e gli animali, con autosufficienza, con tanta passione di vivere ed entusiasmo. Oggi la noia ci rende inetti, non sappiamo che cosa


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vogliamo. IV La grande virtù di saper spartire le sofferenze, come le sostanze, si può accomunare con i sentimenti di uguaglianza che abbiamo tenuto e terremo sempre nei sogni. Le vecchie abitanti di Trivigno incartapecorite in ansia attendono sempre qualche ritorno. La case paiono vigili come madri che, tutte interiorità e pensieri che non finiscono mai, sono con le gonne pesanti e calze di lana di pecora. Tanta collaborazione, ci si sentiva ravvicinati da una certa sintonia di intenti. Addosso pesano le instancabili antiche fatiche. Il focolare ancora è visto come simbolo di comunanza e di affetti: “...una magia/ accende mille segni evanescenti,/proiettati sui muri, a fuoco vivo:/io t’ho già visto,/ cineteca infinita di visioni/e a sonoro/soltanto il crepitio di brace ardente,/e la voce di nonna”. Le immagini poetiche di Fulvio Caporale fanno andare a ritroso: tutto un mondo di illusioni e di vera vita, tanta esuberante eccitazione. “...il camino d’infanzia era più grande,/amplificava la mia fantasia”... C’è dell’antico, ma infiltrazioni di modernità non mancano. Le terminologie si sovrappongono, quelle odierne sono artificiose, gli umori e le espressioni che si tengono vive negli occhi e nei gesti fanno la parte naturale che non può estirparsi dalla struttura umana. Quando si ritorna ai propri luoghi si ha la sensazione che tutto più decrepito si è fatto, all’intemperie ferrigne le pareti sotto le piogge scroscianti. Si ritorna con altre esperienze, “... qualche volta quasi inorgoglisco/ma a casa mia c’erano i libri”... Nel luogo natio persistente è il ritrovarsi in se stessi, si risentono le prime forti, dominanti emozioni in pien’aria, in espansione e in estasi per tutto quello che si ritrova vicino. Profondi i segni di esistenza primigenia che hanno fatto la propria persona. Ci si vede in un mondo tutto fermo, anche i visi sono immobili, ti guardano negli occhi. Il primo vivere forte, tutto penetrato, ci si riveste con i panni di un tempo, i vecchi legami si ride-

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stano in quelli che vengono da lontano: “E quel dialetto a me ancora più dolce/ora ti rifiorisce sulla bocca,/aulico, antico, a pegno d’amore!” La lingua del paese, tutta espressività di gesti, di parole a metà, viene da dentro, quasi con le membra si riversa in flusso di incontri immediati, spontanei con l’ambiente. Più dei personaggi, che in Lucania hanno lasciato tracce, forte è la presenza della gente del passato con la sua storia vera, autoctona di pazienti attese, di aspirazioni: “...a dimensioni umane:/altri gli eroi veri:/mamme vestite di nero/come a lutto perenne/e padri sul volto i solchi dei campi,/da sempre già vecchi, per fatiche,/antica, lucana milizia di stenti/a coltivare grano e una speranza,/senza nemmeno vedere il miracolo”. Nulla si è ottenuto, si comincia di nuovo a risalire, abbiamo le fatiche di Sisifo per gran parte dei vecchi poveri paesi. V Le identità per tutta una vita integra con prontezza giorno per giorno ad essere costanti. I racconti nei vicinati, trepidanti e amorevoli le persone dagli occhi penetranti che si intenerivano, si stava raggomitolati sui gradini a raccogliere in grembo tutte le sensazioni eccitanti, il senso di meraviglia per fatti strabilianti. Oggi di quelle narrazioni paesane che incutevano timore e nel contempo creavano attrattiva è rimasta “...solo qualche immagine sbiadita/e vecchie storie/che nessuno vorrà mai più ascoltare./E qualcosa si spegne ogni giorno”... I segni di luce dell’interiorità, fatti di umiltà, di sensibilità fine che va in spiritualità di slanci, di profondi affanni arrivano dalle figure più tormentate che danno espressioni di più stretta appartenenza alla terra d’origine, come fossero i primi virgulti venuti da essa, dalle parti più sconvolte. Salvatore Sciallamacante con malformazioni, introspetto, complessato. “E lui pazzo, almeno questa volta,/si portava la mano al sopracciglio,/ mimava il gesto di lanciare contro//la tumescenza,/che abbruttiva il suo volto”. Le sofferenze, che si sono addensate su certe figu-


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re patite, sono le nostre che non avvertiamo e le deridiamo: trasferite in tanti miseri che paiono simboli della vita più amara e più vera. Le poesie in sofferente ebollizione nell’ animo del poeta, fuoriescono denudate con la semplicità delle case di Trivigno, tutte avvicinate come in un solo blocco, sono il paese stesso con i suoi aspetti, senza abbellimenti, esprimono quello che si vede, le crepe come ferite che sanguinano sempre. Intagliate bene, scandiscono i fremiti, le passioni, le ansietà dei pochi abitanti che si sentono come sospesi, fra vicoli gravati di silenzio e di vuoto. Il volume “A Trivigno non nascono bambini” di Fulvio Caporale risveglia le tristizie della mia vita, fatta a brandelli, esule in altre terre, rimasta sfibrata anima divisa senza un luogo. Trivigno mi è nelle profondità del mio essere con le voci di mia madre che mi accompagnano dovunque, ombra e sguardo vivi nelle mie solitudini, nelle mie battagliate ansie di vivere. Per le strade di Trivigno ossa e polvere di trapassati, le tracce di mia madre che non si dileguano mai, ferme nella loro inafferrabile consistenza. Trivigno più forte dei miei luoghi natii che ho lacerato, tradito, tenuti nella malinconia della mia assenza, fattesi tetraggini di dissolvimento nei miei arrivi e partenze. Trivigno, paese materno, che risuona di richiami, la tengo in esilio a macerarsi poco per volta con le mie membra che non hanno mai avuto pace. VI Per Fulvio Caporale il paese natio è il grande grembo che è stato il suo nido, dove si è alimentata la propria persona, attraverso di esso sono trapassate le storie della gente, il colore della terra, i fremiti di antichi desideri insoddisfatti. Odio e amore verso i propri luoghi. I sogni erano diamante, bisognava tenerli nascosti, sono fuggiti dalle mani, strappati dalla fatalità e dalle negatività che non hanno saputo capire. Le troppe angustie hanno fatto nascere spesso la voglia di evadere, di trovare altrove quello che non si è avuto. Ci si è sentiti barcollare sui ciottoli

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messi a caso col muso interrato. Una specie di agorafobia, non ci si teneva in piedi negli spazi più aperti, si avvertiva un vuoto che si faceva stato di ipocondria. Anche gli affetti irritati dalle fatiche e privazioni. La madre distratta come la casa scarna e disadorna “di rado indugiava a sorprendersi/per tenerezze”. Voci stridenti di severo cipiglio, freddezza di modi. Le ristrettezze facevano tenere le poche cose con accortezza rigorosa, “la tua ricchezza/di formica lucana./Io ho attinto a piene mani:/ma forse volevo/che tu accettassi con un sorriso/qualche mio verso/e la mia ansia di camminare/anche per strade a te sconosciute”. Si sentiva il bisogno di maggiore espansione, di una compenetrazione con i propri ferventi moti di un animo ammorbato. Non si entrava nelle inquietudini con facilità, arrovellati si era dai pensieri triti, frammentati che non si aprivano a maggiori spazi. Tutto questo creava un circolo vizioso, repulsione e attaccamento insieme a persone e luoghi: ci si sentiva interiorizzati e si capiva che le espressività erano più volte tacite, che i legami erano mescolanze di un insieme. Nella vita del tempo passato nei paesi depressi del Sud si era maturati tutti, uguali ad ogni età, stesse urgenze, stessi turbamenti. I versi di Fulvio Caporale, oltre le annotate caratterizzazioni, hanno del drammatico: le immagini si muovono in recinti chiusi, vanno avanti e indietro, un senso di libertà freme dentro e dal tetro si vuole andare verso le “albe chiare”, che hanno del primigenio, dell’ innocenza, della purezza dei primi anni, suscitano risvegli di vita. L’ illusione fa andare sempre lontano, si vede il proprio paese con le sue sotterranee forme sul punto di scuotersi, le case sentono passi incerti e rari aggirarsi attorno. Si coglie una visone d’insieme, come se tutto fosse una figura animata, una persona che si muove e viene avanti. Aspetti caratterizzati con intensità, immobilità che si aprono da un tempo lontano, da un silenzio fatto di impercettibili, sfuggenti spirituali esistenze. Leonardo Selvaggi


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XXV EDIZIONE PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE CITTÀ DI POMEZIA 2015 Comunicato Stampa

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el ringraziare, per la pubblicità accordata, le Testate (cartacee e on line) che hanno pubblicato in tutto o in parte il Regolamento del Premio, si comunica che la Commissione di Lettura del nostro Periodico, dopo un primo esame delle opere pervenute, tra il 20 e il 30 giugno 2015 ha selezionato, per le diverse sezioni, i lavori dei seguenti Autori (ma ricorda che, in base al regolamento, “Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, può decidere anche la non assegnazione del premio”): Sezione A (Raccolta inedita, max 500 versi): Probabilmente sarà poesia, di Isabella Michela Affinito (Fiuggi Terme, FR); Aurora di un Giorno Nuovo, di Santo Consoli (Catania); Odi impetuose, di Filomena Iovinella (Torino); Donne, di Antonia Izzi Rufo (Ca-

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(Australia); Emozioni sparse al vento, di Anna Trombelli Acquaro (Australia); Bambini, di Anna Vincitorio (Firenze); Consapevolvenze, di Lucia Gaddo Zanovello (Faedo di Cinto Euganeo, PD). Sezione B (Poesia singola, in lingua, max 35 vv.): “Pensieri negli specchi”, di Emilia Bisesti (Pomezia, RM); “Fanciullino scherzoso”, di Mariagina Bonciani (Milano); “Arruffati pensieri”, di Anna Maria Bonomi (Roma); “Canto del canarino”, di Claudio Carbone (Formia, LT); “Mamma, se posso torno”, di Franco Casadei (Cesena, FC); “Serena sorge l’alba”, di Tito Cauchi (Lavinio, RM); “Clochard”, di Nicola Chinaglia (Spinimbergo, VR); “...e se non piangi...”, di Angelo Mario Cianfrone (Australia); “Lamento per la morte di Gina”, di Fabio Dainotti (Cava de’ Tirreni, SA); “In cerca di pace”, di Maria Turiano Aprile (Australia). Sezione C (Poesia singola, in vernacolo, max 35 vv.): Nessuna poesia selezionata. Sezione D (Racconto, novella): “La mia Mamella”, di Maria Coreno (Australia); “Il viaggio di nozze”, di Elisabetta Di Iaconi (Roma); “Cassandra”, di Maria Grazia Ferraris (Gavirate, VA). Sezione E (Fiaba): Nessun brano selezionato. Sezione F (Saggio critico): “Poesia e aspetto critico”, di Paola Insola (Torino).

stelnuovo al Volturno, IS); Da Melbourne con amore, di Giovanna Li Volti Guzzardi

Da un successivo esame della Commissione di Lettura, e a suo insindacabile giudizio, è scaturita la seguente graduatoria: Sezione A: 1) Isabella Michela Affinito - la cui opera verrà pubblicata, gratuitamente, nei Quaderni Letterari Il Croco (presumibilmente sul supplemento al n. 10 - ottobre 2015 - di Pomezia-Notizie) -; 2, ex aequo) Filomena Iovinella e Anna Vincitorio; 3, ex aequo): Sano Consoli e Lucia Gaddo Za-


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novello; 4) Anna Trombelli Acquaro; 5°, ex aequo): Antonia Izzi Rufo e Giovanna Li Volti Guzzardi. Sez. B: 1) Fabio Dainotti; 2) Franco Casadei; 3, ex aequo): Nicola Chinaglia, Claudio Carbone, Angelo Mario Cianfrone; 4° Tito Cauchi; Segnalazione: Mariagina Bonciani. Sez. C: Non assegnato. Sez. D: 1) Elisabetta Di Iaconi; 2) Maria Grazia Ferraris. Sez. E: Non assegnato. Sez. F: 1) Paola Insola. Pomezia, 11 luglio 2015

Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di Pomezia-Notizie Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli: Canti del ritorno; Solange De Bressieux: Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio.

POESIA E ASPETTO CRITICO di Paola Insola L “DIRE” poetico ha una funzione catartica, sia in relazione al concetto greco di rito magico della purificazione, sia riguardo all’estetica, facilitando la condizione interiore che permette il superamento delle passioni umane. L’atteggiamento che merita un libro di poe-

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sia deve dunque disporre il recensore a “COGLIERE”, oltre al linguaggio, al ritmo, alle metafore e alla polifonia dei versi, che insieme comunicano l’emozione, quel GUARDARE (che sottolinea l’aspetto durativo del vedere) che gli permette di partecipare al teatro della parola. Se questo avviene, la scena poetica diventa l’estensione dell’Io, con tutte le sue possibilità. Provando a codificare la poliedricità implicita nel linguaggio dell’ autore, il critico si atteggia ad elaborare, in risposta ad ogni stimolo, caratterizzazioni inverse al processo creativo. Credo che l’uomo creativo, che compendia il suo estro in una recensione, ri-crei, il messaggio, lasciandosi afferrare, trascinare nei recessi dell’altro, dal quale riceve una materia sonora, un corpo e un’immagine. La parola riemerge dall’ inconscio che il poeta ha assorbito nella sua entità biologica e in quella psichica. Consideriamo pure che, trovandosi di fronte allo specchio del proprio immaginario, l’autore abbia provato a strumentalizzare la parola, inserendo una cortina di finzione per isolare (o proteggere) la sua essenza interiore. È possibile e pur vero che, trovandosi ad affrontare il plusvalore della significazione, il critico sia impedito a risalire alla trama originaria del pensiero, ma seguendo le varie tappe creative può trovare, col poeta, la sequenza delle emozioni che lo portano a scoprire il senso celato del (suo) mondo. La domanda più ovvia di chi si appresta a vivere il linguaggio della poesia è: “che cos’è il bello poetico?” Quali sono gli elementi della poesia che ce la fanno considerare bella e gradevole da leggere e da fruire? Quali elementi sono storicamente determinati universali? Sono fattori individuali sui quali ci possiamo interrogare oppure sono legati esclusivamente ad un gusto individuale? Entrando nello specifico il “bello poetico” è legato alla forma linguistica? Al contenuto, ad entrambi? Da questi primi, importanti interrogativi, dipartono altre domande, spesso legate al problema del contenuto e soprattutto riguardanti la funzione della poesia. La poesia è o deve


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essere “utile”? E utile, in che senso: morale, universale, individuale? I veri poeti sanno bene che solo lontano dal calcolo e dalla fretta è possibile coltivare la poesia: “Essere artisti - confessa Rainer Maria Rilke, in un passaggio delle LETTERE A UN GIOVANE POETA - vuol dire non calcolare e contare; maturare come l’albero che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senz’apprensione che l’estate non possa venire”. I versi non si piegano alla logica della precipitazione e dell’ utile. Anzi, talvolta, come suggerisce il Cirano di Edmond Rostand nelle battute finali delle pièce, l’inutile è necessario per rendere ogni cosa più bella. Abbiamo bisogno dell’inutile come abbiamo bisogno, per vivere, delle funzioni vitali essenziali. “La poesia - ci ricorda Ionesco - il bisogno di immaginare, di creare è fondamentale quanto quello di respirare. Respirare è vivere e non evadere dalla vita”. A pensarci bene, però, un’opera d’arte non chiede di venire al mondo. O meglio, ricorrendo ancora ad una splendida riflessione di Ionesco, l’opera d’arte “chiede di nascere” alla stessa maniera di “come il bambino chiede di nascere; egli nasce per nascere”. Anche l’ opera d’arte (per noi la poesia) nasce per nascere, s’impone al suo autore, chiede di esistere senza domandarsi se è richiesta o no, senza spiegarsi il perché. Questo non toglie che gli altri possano accoglierla, utilizzarla, condannarla o distruggerla, che possa adempiere o no ad una funzione sociale. Non dimentichiamo che la poesia, (in sé) non ha una funzione sociale, perché è ascritta al suo ideatore. Gli interrogativi ancora incalzano e le risposte ci arrivano dai poeti: Suggestive le parole pronunciate da Federico Garcia Lorca nel presentare i versi di Pablo Neruda: “Io vi consiglio di ascoltare con attenzione questo gran Poeta e di cercare di commuovervi con lui; ognuno alla propria maniera”. Ognuno alla propria maniera, perché diverse sono le note che fanno vibrare le corde del cuore! E diverse sono le corde che ri-suonano nell’altro!

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E aggiunge Garcia Lorca: “La poesia richiede una lunga iniziazione, come qualsiasi sport, ma c’è nella vera poesia un profumo, un accento, un tratto luminoso che tutte le creature possono percepire”. Quindi allenamento, dedizione, letture di altri poeti, capacità di sintesi e di selezione di ciò che è essenziale, atteggiamento critico e ribelle nei confronti di ciò che fanno tutti, un po’ di sedimentazione per garantire, nella rilettura, quel ripensamento o quella conferma, per nutrire “quel granello di pazzia che tutti portiamo dentro” e senza il quale sarebbe veramente “imprudente vivere” (G. Lorca agli studenti, in un’aula dell’ Università di Madrid, 1930). Riguardo l’analisi del linguaggio poetico, mi pare estremamente utile, quando attuale, la lettura della prima opera sistematica della cultura occidentale sulla poesia. “La “Poetica” di Aristotele ci indica chiaramente la concezione del filosofo greco sulla natura, sulla funzione e le caratteristiche della poesia. Poesia è per Aristotele imitazione della realtà. Il poeta imita e rappresenta la realtà con mezzi che in parte gli sono propri - il verso -, in parte sono comuni ad altre arti, come la musica il ritmo e l’armonia -. Aristotele distingue poi la poesia in diversi generi, che permettono di sviluppare tutti i contenuti possibili e immaginabili. Di particolare interesse per il nostro discorso è l’analisi che Aristotele fa del linguaggio poetico, che deve essere “chiaro ma non sciatto” e deve comprendere in giusta misura vocaboli “ricercati” e non usuali. In questa classe di vocaboli Aristotele fa rientrare anche quelli metaforici. La metafora è definita come “il trasferimento di un vocabolo estraneo, o dal genere alla specie e dalla specie al genere, o da una specie ad un’ altra, oppure secondo analogia” (Poetica, XXI). Sull’importanza della metafora nel componimento poetico Aristotele insiste, vedendo, nella capacità di far metafore, l’elemento che contraddistingue il buon poeta: “Soltanto ciò (il saper fare metafore) non si può prendere da un altro ed è segno di buona predisposi-


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zione; il saper fare buone metafore, infatti è lo stesso che saper vedere il somigliante nelle cose” (Poetica, XXII). È pur vero che ci sono poesie che pare eludano le metafore, ma l’atteggiamento che il critico può disporre è quello di considerare “altro” il significato suggerito (in modo problematico, ambiguo) da quel testo. “Quando una poesia non ha metafore, tutta la poesia è una metafora” (M. Soreson, poeta rumeno contemporaneo). Per De Sanctis il compito del critico non è quello di valutare l’opera poetica in base alla sua aderenza a canoni fissi e a regole formali, e neppure di “spiegarne” il contenuto; invece di rivivere la vita dell’opera, considerata come un tutto “organico”, “individuale” e “concreto”, in cui forma e contenuto sono idealmente inseparabili. Il critico deve “rifare quello che ha fatto il poeta, rifarlo a suo modo e con altri mezzi” (De Sanctis 1952, vol. 2 p. 90), portare cioè a livello di consapevolezza ciò che per il poeta è “opera spontanea del genio”. “Ogni opera autentica ha di conseguenza, quando nasce, l’oscurità disorientante del nuvo” (G. Ungaretti, Saggi e scritti vari, 1943 1970). Certamente la poesia esprime la naturale verità delle cose, ma si tratta di una verità artistica, non certo di una passiva imitazione della realtà. La grandezza dei poeti come Dante e Leopardi è stata nella loro capacità di “astrarsi” affermando un’identità assoluta di forma e contenuto. Il poeta si identifica con la sua personalità poetica, cioè del suo approcciarsi alla poesia che può essere: approssimativa, sommaria, astrusa o definita. Solo nella poesia definita il sentimento aderisce al particolare, il limite si distende nell’infinito. È chiaro che la poesia deve essere pensata e deve far pensare. “La poesia vera non è né facile né difficile: è poesia” (G. Ungaretti). È fondamentale la parola, quando il termine si converte per “quell’alone d’indeterminatezza che lo circonda, per quel suo irriducibile margine vago, infinito, anche se minimo; là è il sogno (...) dove sentimento e immaginazione possono liberamente spa-

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ziare” (G. Ungaretti a proposito di G. Leopardi). Al critico è concordata l’impressione soggettiva, benché la sua scoperta del testo sia oggettiva. In questo contesto è chiamato a “caratterizzare” la poesia, tenendo conto che il suo giudizio sarà sempre approssimativo perché la poesia è “ineffabile” e il suo compito è quello di spingere il lettore ad immergersi nel nucleo del testo. Il critico - non asservito alle potenti case editrici - prende in esame preferibilmente i testi che favoriscono il suo campo d’indagine. È persona che sa leggere la modernità come compresenza degli stili, che sa cogliere, nella poesia, la concatenazione significativa di eventi e di azioni. Numerosi, preparati, impegnati, i critici lanciano petali in aria, sperando non ricadano tutti per terra, che ci sia qualcuno che li afferri al volo per far tesoro di quel velluto, di quei colori, di quel sottile profumo. Vorrei consideraste questa espressione come un omaggio ad un impegno che si identifica nella capacità di cogliere i momenti culminanti dell’intuizione poetica e rende al poeta il suo contenuto umano. Paola Insola Torino 1° Premio (Sezione F) alla XXV Edizione del Città di Pomezia 2015. Paola INSOLA è nata a Livorno Ferraris (VC) nel 1949 e vive a Torino. Ha scritto saggi di letteratura ed arte e svolto attività critica. Dal 1977 ha partecipato ai concorsi letterari. Premio “Città di Brindisi” (1988); “Rotari, Città di Fucecchio” (1996); “Formica Nera”, Padova (1998); “Cesare Pavese”, Grinzane Cavour (2000); “Donne, Eros e altre donne” (2003). È stata finalista, nelle diverse sezioni del premio “Rhegium Julii” di Reggio Calabria. Ha pubblicato: “Il segreto della crisalide” (1988); “Confluenze” (2000); “Il miele della luna” (2007); “Corimbi” (2007); “Lessico d’amore” (2012); “Elogio alla mimosa” (2014), opere tutte accolte con entusiasmo dalla critica (solo per “Elogio alla mimosa”, apparso nei Quaderni Il Croco, ricordiamo gli interventi di: Luigi De Rosa, Innocenza Scerrotta Samà, Tito Cauchi, Roberta Colazingari, Elisabetta Di Iaconi, Paolangela Draghetti, Filomena Iovinella, Andrea Pugiotto, Aurora De Luca, Laura Pierdicchi, Maria Antonietta Mòsele eccetera).


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IL VIAGGIO DI NOZZE di Elisabetta Di Iaconi

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ER rievocare le care figure dei miei incomparabili genitori (scomparsi da oltre un decennio), posso ricorrere, come accade a tutti, a centinaia di foto, a qualche lettera, a diversi filmati; o posso ripetere, con alcuni parenti, fatti e discorsi, il familiare lessico che impiegavano, accennando a tratti del loro carattere e della loro personalità. Però ciò che mi ha sempre incantata ed emozionata è stato il racconto, più volte ripetuto, della gioia che provarono il giorno del loro matrimonio, dell’entusiasmo con cui partirono per il viaggio di nozze, tanto desiderato e vagheggiato durante il lungo fidanzamento. Infatti, solo quando mio padre, continuamente imbarcato come furiere sulle navi, ebbe il trasferimento a Roma al Ministero della Marina, si poté fissare la data della cerimonia. Era il 30 ottobre 1939 e il rito religioso si svolse in una moderna chiesa del quartiere Appio. I miei hanno conservato un’interessante documentazione dell’evento; ciò mi consente di stabilire un parallelismo con la realtà odierna.

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Sulla partecipazione, accanto alla data, era riportato il numero romano (XVII), anno diciassettesimo dell’era fascista, postilla da scrivere tassativamente su qualunque attestato cartaceo. Erano già forti i venti di guerra, anche se nessuno sospettava in quei giorni l’arrivo dell’immane tragedia che stava per sconvolgere l’Italia e il mondo intero. Dopo la messa, fu offerto un rinfresco, festeggiamento nuziale più in voga rispetto al pranzo con centinaia di invitati. La scelta cadde su un bel locale (oggi diremmo su una “location”) di piazza del Popolo: il Caffè Rosati, che esiste ancora. Il cartoncino del conto ci trasporta in un’ epoca lontana anni-luce dalla nostra . Lo ricopio: “F.lli Rosati” (pasticceria, confetteria, liquori, tea room, sale superiori per rinfreschi, vini esteri e nazionali, gelati). L’indirizzo è lo stesso di oggi, mentre il numero di telefono riporta solo cinque cifre. La somma pagata per ventisette invitati (£ 12 a persona) fu di £ 324. Il servizio era a parte: i due camerieri ebbero il compenso di £ 46,70, per un totale di: £ 370,70. Che tempi! Nell’astuccio di velluto, che protegge questi amati cimeli, spicca il color rosso mattone del biglietto ferroviario. Eh sì. Il mezzo di trasporto preferito dagli sposi era il treno. Le tappe, in genere, erano codificate: sarebbe stato complicato progettare altri viaggi, sia per motivi economici che pratici. Le automobili, che tanto facilitano gli spostamenti con i bambini, in quello scorcio di Novecento erano poco diffuse. Il biglietto speciale Roma-Milano, andata e ritorno, nominativo e firmato dagli sposi, aveva una validità di trenta giorni, e costava £ 190. Leggo il timbro di Venezia, stazione di ritorno, soffermando la mia attenzione sulla data del 5 novembre 1939. Quel fantastico viaggio, scolpito nell’anima dei due protagonisti, non durò neanche una settimana! Estraggo dalla custodia tre depliants e trovo: 1° Albergo Ristorante “San Marco”, a 5 metri dalla piazza (Buoni d’Albergo Gruppo “C”) vicino al ponte dei Dai. Dopo una rapida


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ricerca su Internet, scopro che esiste ancora. E del “Monaco Hotel Meublè” (modernissimo, camere con bagno, acqua corrente calda e fredda in tutte le camere, raggiungibile con i tram 4, 17, 25, 26, 27, 38) si troverà una traccia? E l’enorme salone del Grande Ristorante Toscano “Da Emilio” (via Bossi 5, Milano) avrà sempre una vetrata al centro del soffitto e il pavimento a losanghe come nella cartolina? Vengo a sapere, sempre via Internet, che la stessa cartolina è ancora in vendita presso una cartolibreria antiquaria e ne deduco che il ristorante non esiste più. A questa Italia pacifica, a questi luoghi ove si soffermarono i miei cari, il conflitto mondiale avrebbe arrecato lutti e distruzioni. Ho ritenuto che fosse il caso di portare alla luce questi ricordi, perché li considero minuscoli tasselli, in parte utili a completare il vasto mosaico della storia. Inoltre segnano il percorso di coloro che mi hanno regalato la vita. In questa sorta di museo del cuore mi è dato di seguire la loro immagine in una dimensione per me misteriosa: quella che ha preceduto la mia nascita. Elisabetta Di Iaconi

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1° Premio (Sezione D) al Città di Pomezia 2015. Elisabetta DI IACONI collabora a riviste (“Silarus”, “Pomezia-Notizie”, “Voce Romana”, “Voci dialettali”, “Romanità”). Frutto di appassionati studi sul dialetto romanesco del Seicento è il libro sul poeta Giovanni Camillo Peresio (editore Rendina). Ha dato alle stampe le sue poesie, raccolte da decenni (“Quel fremito antico...”) e il romanzo per la gioventù “Un enigma di quartiere”, oltre alla silloge “Er celo s’arischiara” in dialetto romanesco, nonché il quaderno letterario “La chiave ignota”.

CASSANDRA di Maria Grazia Ferraris

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ICENE è la città dove si maturerà il mio destino. L’ho sempre saputo. Sono arrivata, infine. Giù, presso la porta dei leoni, sono in attesa che tutto si compia, trasportata e chiusa in una cesta di salici, così resistente, come possono esserlo solo i rami raccolti tanto tempo fa sulle rive dello Scamandro, il mio fiume, il fiume amico che non cesso di ricordare. Guardo con occhi socchiusi, in apparenza estranea a tutto, questa folla di cittadini greci che mi osservano incuriositi ed ostili, in un qualche modo paurosi, quasi la mia fama di veggente mi avesse preceduta anche tra le masse della popolazione greca. Vedo irrisione ed odio nei loro occhi, ma forse è solo timore. Vedo, vedo, rido, non posso smettere di vedere… è questo “il dono”, la maledizione, che ho avuto da Apollo. Sono ostili, come è il mio destino di sempre, nei rapporti sociali. Sanno di non poter controllare i miei pensieri ed il mio riso, che giudicano un insulto superbo, per questo mi temono. Clitennestra, la regina altera, dalle bionde trecce, osserva dall’alto della terrazza del palazzo di Micene, con occhi immobili e gelidi, l’arrivo di Agamennone, il marito bestiale che, tronfio di successi, sta facendo il suo ritorno, immemore dei lutti, delle devastazioni della guerra di Troia. Pensa, orgoglioso, solo al suo trionfo in pa-


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tria. Il suo successo! Le è accanto il cupo Egisto, fosco nell’ aspetto, trepidante, nero, complice consapevole. Non sa scegliere gli uomini la regina Clitennestra: questo non è meglio del tozzo animalesco e tronfio marito. Tutto tremore ed inettitudine. Una folla di sentimenti tempestosi fanno rissa dentro di me, che nulla lascio trasparire pur guardando nel mio sguardo immobile. Superba e determinata la regina. Neppure un cenno all’angosciato Egisto. Lo sta misurando con disprezzo, con scherno. È una donna potente Clitennestra, sicura, imprendibile. Ha ucciso tenerezza e pietà, dopo la sconvolgente morte di Ifigenia. La ammiro. In altre occasioni avremmo potuto essere amiche. Orgoglioso e impudico, violento e superficiale come è sempre stato, il re ritornato infine, si attende certo grandi festeggiamenti. Uno stolto toro che non sa di andare al macello. Micene si erge alta sulla rupe solitaria, grigia di pietre di contro il cielo smaltato, lucido di sole. Mezzogiorno senza ombre sul paesaggio solitario. Febo saettante immobile nel cielo. I papaveri rossi a ciocche tra i sassi annunciano l’estate e nascondono con grazia effimera la violenza nascosta che s’annida nella vita dell’Acropoli. Clitennestra non ha dimenticato. Lo vedo, lo capisco dalla sua postura irrigidita, dal suo sguardo fulminante eppure lontano, nero. Quanto nero, nel cielo luminoso di Micene! Ripensa forse alla sua storia, all’uccisione del suo primo marito, alle nozze forzate e sacrileghe, …al sacrificio, senza neppure il coraggio della tragica verità, da vile quale è sempre stato, della più piccola delle sue figlie, la dolce Ifigenia, indotta a seguire il padre con la falsa promessa di festosi sponsali con il fortissimo ed ammirato Achille. Il passato che non vuol morire. Ifigenia. Una ferita insanabile tormentosa che non potrà mai perdonare.

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Agamennone è partito soddisfatto… e purtroppo è anche ritornato. Arrogante e vile. Che cosa si attende da lei? Che abbia dimenticato? Che lo accetti serena ed ubbidiente con la nuova concubina muta e nera che ha portato con sé orgogliosamente come trofeo di guerra in quella maledetta cesta di salici? Il sole di mezzogiorno è infuocato, ferisce come una lama la pelle nuda: Febo Apollo è più che mai presente ed immobile sulla rocca. Regale e gelida, Clitennestra prepara l’ accoglienza fingendo festa e sorpresa. Ha fatto stendere i tappeti di porpora, degni degli dei: un vero spreco per un re vigliacco. Il carro regale si è fermato stridendo alla porta dei leoni, la porta gira sui cardini ed il carro sale lentamente seguendo le giravolte del terreno scosceso. Clitennestra in piedi, immobile, guarda: non è altro che uno straniero che avanza, pensa, un nemico che si crede un padrone atteso con gioia. Avrà il giusto compimento della sua sorte. Febo Apollo saetta il meriggio acceso di Micene la tragica. Che dono terribile mi ha fatto il dio! Perché ho voluto a tutti i costi la preveggenza? Volevo parlare con la mia voce, senza la mediazione maschile. Era il massimo per una donna, a Troia, anche per una figlia di re. Pura superbia, la mia. In fondo, lo so, ho voluto il potere, dominare i sentimenti, non essere schiava delle emozioni, dell’amore, della paura, della tenerezza, della pietà… quello che come donna non mi sarebbe mai stato concesso…Non sapevo, non valutavo, che questo dono è mortale. Io vedo: vedo dove gli altri, tutti gli altri, chiudono gli occhi. Solo in questo sta la mia preveggenza tanto temuta. Ho visto Troia e tutto quello che in essa accadeva e mutava senza che gli uomini, ciechi, ne avessero consapevolezza. Ho visto il padre Priamo da re diventare tiranno per mascherare la sua debolezza, la sua stanchezza, la sua incapacità di reggere al dolore.


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Ho visto mia madre Ecuba impazzire di dolore dopo la morte di Ettore, il suo preferito. Vedo il limite tra invisibile e visibile e lo supero. Non so stare dentro di me, non so sottomettermi al palazzo e alle sue leggi. Io vedo. Il mio ruolo era dire no. No, come il mio ultimo inutile dire: -Non allargate le mura, quello non è un cavallo per Atena, è la nostra tomba!- dissi. Risero i miei concittadini, vincitori. Che temevo? Achille non era più, il campo era deserto, i Greci lontani sulle loro navi verso la casa! Inutile ogni scongiuro, ogni invito, ogni accento. Pazza: ero solo una pazza. Ed allora maledissi il mio dono, quel velenoso dono di Apollo. Sto, nera e silenziosa, accucciata, seduta sotto l’arco del grande cortile; sono consapevole di essere in un palazzo-sepolcro. Taccio ormai da tempo, scura, orfana e schiava, inascoltata. È inutile che palesi le mie premonizioni, lo so: non saranno ascoltate. Neppure da questo popolo che mi guarda, aspettando. Se dicessi che cosa li aspetta, mi dilanierebbero subito, ora e qui. Benché schiava ed esiliata, non maledico né la causa prima, il ratto di Elena, né la mia sorte, né il superbo vincitore, né la mia condizione. E non per orgoglio, ma perché so vedere: questo è il mio dono che vorrei non aver avuto. Forse è migliore la sorte di Andromaca che, perso Ettore, si è abbandonata al pianto senza conforto, alla disperazione inerme, come qualsiasi donna innamorata e vedova, senza valutare la sorte della schiava. Solo una donna debole ed infelice. Ho dovuto accettare con disgusto l’ amplesso del re mortale, proprio io che ho rifiutato quello col dio…Io che ho amato fin nel profondo Enea, l’uomo forte, buono, generoso, tenero e clemente, … l’uomo dal destino segnato e che non poteva condividere con me. Lo sapevo, come sempre.

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Se chiudo gli occhi mi torna alla mente questo terribile viaggio, questa coabitazione forzata col toro tracotante, lo stupro, le tempeste superate, il mare impazzito, le sue invocazioni tremanti perché intercedessi con Nettuno, le sbornie, gli amplessi, il vomito in cui si trascinava… uno schifo che mi sembrava non poter sopportare. Come capisco Clitennestra! Che alleata, che amica, avrebbe potuto essere! Anche per me la sorte sta per concludersi. So che non è colpa dei Greci, neppure del bestiale Achille, né dell’astuto Ulisse: è ancora la punizione del dio che si abbatte inesorabile su di me e su quello che mi sta intorno. Ah, la mia infanzia protetta dentro le mura di Troia, l’amore di Priamo, il padre che mi poneva in cima alle sue figlie predilette, alla pari coi figli maschi, la severità di Ecuba, che preoccupata intuiva un destino crudele per me, orgogliosa ed incapace di obbedire! E Troilo, il fratello più tenero, ucciso dal voglioso Achille, figlio di dea, e il fantasma di Elena, la donna più bella del mondo, la causa, si diceva con risentimento e odio, della guerra…mai davvero giunta entro le mura di Troia, Elena…, che Paride perse nel viaggio, in una tappa nel lontano Egitto…, un fantasma che invano cercai di esorcizzare, ristabilendo la verità, mai creduta, come è stato sempre il mio destino. Il dono di vedere: perché ho voluto conquistarlo? Sento l’urlo bestiale del re che si strozza là nella stanza del bagno purificatore. La vendetta di Clitennestra si è consumata. Ora è arrivato il mio turno. Mi alzo e mi dirigo sicura verso quelle stanze fatali, verso quella voce strozzata che muore. Nessuna emozione scomposta. Tutto deve compiersi, come inutilmente ben so, come sempre inascoltata, muta come se non avessi voce, come se il mio urlo fosse completamente senza suono. Ah! Non è la vendetta di Clitennestra, orgogliosa figlia di re, sorella di Elena, moglie


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offesa, madre disperata! È la vendetta di Apollo che saetta dall’alto dell’Acropoli i suoi raggi luminosi, splendenti come le lame dei coltelli che penetrano dentro di me. I papaveri sono diventati sangue nelle mie stanche pupille. Tutto è sangue. Il tramonto rosso declina nel nero, come l’ultima sera a Troia. Le buie ombre della sera mi raggiungono, mi abitano… Mi accascio finalmente: definitivamente arresa, vinta, al dio della luce. Maria Grazia Ferraris Gavirate (VA) 2° Premio (Sezione D) al Città di Pomezia 2015. Maria Grazia FERRARIS vive a Gavirate (VA), ha insegnato letteratura italiana e storia nelle scuole medie superiori, si occupa di critica letteraria ed in particolare studia il contributo della scrittura femminile del Novecento. Ha pubblicato articoli di critica letteraria sulle riviste del territorio varesino e sul web. È collaboratrice del blog letterario Alla volta di Lèucade (nazariopardini.blogspot.it) Ha pubblicato: “”Di Terra e di acque, Aprile di fiori”, poesie (2013), “Lettere mai spedite”, racconti (2009), “Occhi di donne” racconti (2012), “G. Rodari, un fantastico uomo di lago” (2010). È finalista in concorsi letterari e poetici. Alcune delle sue poesie e dei suoi racconti sono stati pubblicati in volumi antologici.

LA MIA MAMELLA di Maria Coreno

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PESSO andavo da Piedi di Serra a Coreno per trovare mamella (nonna) Maria, di soprannome Ponteleone, la quale abitava agli Ore. Trascorrevo con lei anche delle lunghe vacanze poiché mi piaceva tanto dividere il tempo con lei e sentivo di volerle molto bene: mi dava l'affetto e le carezze che in casa mia mancavano. Forse le nonne ed i nonni esistono proprio per questo motivo, per rimediare alle dimenticanze dei genitori! In questo senso mamella mi appariva una "fata magica." Di ricordi ne ho tanti; ma adesso mi preme raccontare un particolare piccolo evento. Un giorno, io e mamella Maria, eravamo

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nei pressi del pozzo a lavare dei panni sporchi. Veramente, io combinavo poco essendo piccola, ma pretendevo di essere utile a qualcosa. Ad un determinato momento arriva una donna sconsolata, con le lagrime negli occhi e con un secchio vuoto. Mia nonna allora subito le chiese: "Cosa ti è successo?" E la donna (della quale non ricordo il nome e nemmeno il soprannome) rispose: "Comare Maria, i pozzi sono tutti chiusi a chiave! Potete darmi dell'acqua per bere e per cucinare? Fatelo per l'anima dei morti!" Al che nonna replicò : "Hanno chiuso i pozzi?" La donna: "È la verità, comare Maria! Dicono che l'acqua è poca, non ha piovuto da tanto tempo, come tu sai, e quindi l'acqua la devono risparmiare per loro stessi!" Non dimentico mai l'espressione di mamella turbata vistosamente, nell'apprendere la brutta notizia! Quasi non voleva credere una cosa del genere... Intanto, calmandosi disse alla comare (comare per modo di dire!) così: "Il mio pozzo resterà aperto fino all'ultima goccia d'acqua! E se resterò senza, farò come stanno ora facendo gli altri i quali non hanno l'acqua... Io ho fede, Dio è grande e sicuramente provvederà, vedrai comare!" La donna ancora piangeva, ma stavolta le sue erano lagrime di consolazione e non più di disperazione. E così se ne andò via tutta contenta col secchio pieno d'acqua fresca... Adesso poteva accudire la sua famiglia, cucinare e lavare i piatti per almeno un altro giorno! E mentre si allontanava dal pozzo la comare mormorava con voce gentile: "Che Dio ti benedica comare Maria; che Dio ti benedica!" Io avevo appena cinque anni allora, ma senza meno capivo che nonna aveva fatto un'opera buona e mi sentivo felice di avere una nonna così brava, così generosa. Abbracciai, con tutte le mie forze, le sue gambe e guardandola dal basso in alto negli occhi le dissi: "Mamè, io quando mi faccio grande voglio diventare come te!"


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Mi sollevò alla sua altezza, mi fece fare un giro attorno a se stessa e poi ci lasciammo andare, contente, in una grande risata! Che momento magico! Melbourne, gennaio 2011. Maria Coreno Selezionato (Sezione D) al Città di Pomezia 2015, ma, poi, in seconda lettura, escluso, perché s’è scoperto che lo stesso brano ha partecipato all’edizione del 2012 e pubblicato sul numero di agosto di P. N. di quello stesso anno. MARIA CORENO è nata a Coreno Ausonio, Frosinone, il 2 giugno 1941. Dal 1956 si trova in Australia. E' madre di 4 figli e nonna di 6 nipoti. Vive a Pascoe Vale, Melbourne. Ama cantare, ballare, recitare e scrivere. Fa parte del Gruppo Folk Sicilia Bella e della compagnia il PICCOLO TEATRO DI MELBOURNE. L'anno scorso al concorso A.L.I.A.S. nella Sezione Narrativa, ha vinto il Premio Speciale Moonee Valley City Council. Ringrazia l'A.L.I.A.S. per averle dato l'opportunità di provare, di allungare i primi passi nel viale misterioso della poesia. Fa parte del coro A.L.I.A.S. e non manca mai agli incontri in sede.

IN CERCA DI PACE Fu opera della solitudine se ho creduto di sognare, distrugge ogni cosa cara la voce del mio silenzio. È ormai un lontano ricordo l’amore che nasce in famiglia, immaturi sono nati i genitori rinchiusi in quel mondo di fiabe, sono piccoli eterni bambini i figli di questi signori, ma che dire sul contesto amicizia dove esiste soltanto gelosia, creata dalla perfida cattiveria a questa triste realtà, anche il gallo non canta al mattino, così siamo soli in cerca di pace. Abbiamo esasperato la natura, violata e calpestata e da noi tutti contaminata, poi le stagioni quasi cancellate, trema la terra con tanta rabbia, spezza alberi e distrugge monti

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accartocciando ogni cosa al suo passare, al fine di arrivare al nostro buon senso per dare un nuovo volto a questo mondo, fatto d’amore e grande rispetto, così da unire tutti noi a una sincera eterna fratellanza. Maria Turiano Aprile Melbourne – Victoria - Australia Selezionata (Sezione B) al Città di Pomezia 2015. Maria Turiano Aprile, nata a Francofonte, Siracusa, il 27 – 11 – 1947. Titolo di studio: Primo Liceo Classico. Lavoro: Attività propria nel campo dell’abbigliamento al 148 Union RD. Ascot Vale, Melbourne. Coniugata con un figlio e due nipotini. Per quattro anni ha partecipato al concorso per poeti di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, sempre classificata fra le sei finaliste. Otto anni fa, al suo primo concorso A.L.I.A.S. si è guadagnata il Premio Speciale del Comune di Moonee Valley. Sette anni fa, la Menzione d’Onore. Sei anni fa, la Medaglia del CRASES di Palermo. Cinque anni fa, ha vinto il Premio Speciale Medaglia d’Argento del Papa. Quattro anni fa, tre anni fa, due anni fa e l’ anno scorso Menzione d’Onore poesia e narrativa. Fa parte del Coro A.L.I.A.S. È una grande affezionata sostenitrice dell’A.L.I.A.S. e non manca mai agli incontri in sede.

LAMENTO PER LA MORTE DI GINA Mamma? È là, che prepara un po’ di cena Pascoli Porque te has muerto para siempre Lorca Scomparso già nel teschio Ungaretti O immaginata a lungo come un mito Saba E di quell’altra volta mi ricordo Sbarbaro Ora che stai distesa col bel viso cereo, che scompare nel teschio, non ti potrò vedere, né parlare mai più, perché sei morta per sempre. Per me più non c’è la tua casa, con l’albero piantato dal nonno nel giardino,


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dove potevo arrivare senza preavviso, e avresti riso di contentezza nel vedermi. Dove studiavo, dove scrivevo, sognavo; dove mi rifugiavo da malato. Dove mi avresti chiesto le ultime novità, preparando, in cucina, un po’ di cena, e avresti rievocato i vecchi tempi. Ai vecchi tempi ti scrivevo lettere, come se fossi un’amica lontana, come se fossi la mia fidanzata, come se fossi la mia madre buona. Volevi conversare fino a tardi, volevi sapere tutto dei miei amori, volevi raccontare i tuoi problemi (tua suocera, la madre di lei in casa), volevi che io ammirassi il tuo benessere di donna ricca, moglie del medico condotto del paese. Però vivevi come una reclusa nella grande villa, in un paese che non era il tuo e ora vivi sotto terra, sola. Fabio Dainotti Cava de’ Tirreni (SA) 1° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2015. Fabio DAINOTTI vive a Cava de’ Tirreni (Sa), dove ha insegnato, facendo parte del Comitato culturale e del Comitato per le onorificenze del Comune. Presidente onorario della Lectura Dantis Metelliana, che ha diretto a lungo, ha tenuto letture di canti del “Paradiso”. Condirige l’annuario tematico di poesia e teoria “Il pensiero poetante”. Sue poesie sono state ospitate in antologie, come “Il verso all’infinito”, Marsilio Editore, 1999 e “Poesie d’amore”, Demetra, 2000; e su riviste di settore come “Gradiva”. Ha pubblicato presso Bulzoni il vol. “Gli ultimi canti del Purgatorio”. Di prossima pubblicazione l’ “Antiparadiso”. Ha a suo attivo alcuni libri di poesia, tra cui “L’ Araldo nello specchio”, prefazione di Francesco D’ Episcopo, Avagliano, 1996; “Sera”, con un disegno di Salvatore Carbone, Pulcinoelefante, 1997. Articoli di carattere culturale sono apparsi su quotidiani come “Cronache del Mezzogiorno” e su riviste, come “Misure critiche” e “Pomezia- Notizie”.

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ARRUFFATI PENSIERI Questo andare e tornare sempre uguale nell’ inutile vacuità di un giorno eterno. Incerti passi marcano incessanti lo stesso cammino. Fiumi di parole sconnesse ripetute all’ infinito senza trovare una conclusione. Spento e morto il sorriso, niente dell’ antica persona, solo scheletri di ombre si aggirano nell’ aria. E tu assisti impotente senza più forza allo sgretolamento della sua mente. Anna Maria Bonomi Roma Poesia meritevole di premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2015, ma, in seconda lettura, esclusa, perché, per regolamento, l’Autrice non avrebbe potuto partecipare alla stessa sezione, avendola già vinta nel 2014. Anna Maria BONOMI è nata a Roma, dove risiede. Ha vissuto anche ad Artena e a Pisa. Laureata in Pedagogia e specializzata come Consigliere pedagogico. Ha insegnato fino al 2003. Si è interessata di poesia in vari periodi della sua vita. Negli ultimi anni ha partecipato agli incontri dei “Poeti al Caffè”, Centro letterario romano. Ha pubblicato alcuni saggi critici e poesie su riviste, come PomeziaNotizie. Suoi elaborati figurano nelle belle antologie curate annualmente da “Poeti al Caffè”.

SERENA SORGE L’ALBA (8 marzo 2015) Otto marzo: festa della donna. Ma leggiamo sul viso delle donne un eterno perché, senza risposta. Nuda e terrorizzata, è timorosa oggetto di sacrificio o sacerdotessa urla accerchiata da uccelli neri come avvoltoi, d’un destino segnato. Nebbia che ti toglie il respiro, cielo


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scuro, rischiarato appena dalla luna. Distesa su un letto di rocce fra detriti travolti dal fiume, un rifiuto come altri sguardo stralunato, vittima o complice di un serpente lascivo. Non profuma di rosa, non di viola adorna ma la mantella ne porta il colore su rocce aguzze e inviolata e fredda neve una aurora metafisica l’accoglie. Quale festa celebriamo, quali donne portano primavera o un ramo di mimosa. Questi non sono tempi di poesia ma questo è tempo, è tempo che tu veda l’alba sorgere serena perché tu lo sei. Tito Cauchi

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nel salire le scale verso casa, impertinente un poco, mi chiedesti, sorridendo curioso, di mia vita e degli amori miei … “Ti parlerò – risposi – giunti in cima di questa scala” (e intanto ripercorrendone il corso mi chiedevo cosa avrei raccontato e da dove avrei cominciato… sempre c’è stato un amore nella mia vita). Ma mi sono svegliata. Forse c’è ancora molto da vivere e da sognare. Mariagina Bonciani

Lavinio, RM 4° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2015. Tito CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Calendario dei poeti” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2014). Monografia “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (2014). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’ aperto. E’ incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita Leandro Polverini, giungo alla quarta edizione (2014).

Milano Segnalazione (Sezione B) al Città di Pomezia 2015. Mariagina BONCIANI vive a Milano dove è nata nell’aprile 1934. Diplomata in Ragioneria nel 1953, ha sempre prediletto le materie letterarie e le lingue. Conoscendo il francese e lo spagnolo ed avendo perfezionato soprattutto lo studio dell’ inglese, ha lavorato, dal 1953 al 1989, come segretaria di direzione, capo ufficio e corrispondente presso tre diverse ditte nel settore import-export. Ama la lettura, i viaggi e la musica classica. In pensione dal 1989, per alcuni anni si è dedicata alla madre inferma, smettendo di viaggiare, ma studiando pianoforte, russo e greco antico. Non si è mai sposata. Da qualche anno ha iniziato a presentare nei concorsi letterari le sue poesie, ottenendo sempre riconoscimenti e premiazioni. Sue poesie sono state pubblicate in antologie e riviste. Nel 2010 ha pubblicato nei quaderni “Il Croco” della rivista “Pomezia-Notizie” la silloge “Campane fiorentine”, accolta con entusiasmo dalla critica e nel 2011, sempre per “Il Croco”, la silloge “Canti per una mamma”. Nel 2012 è uscita presso le Edizioni Helicon la sua raccolta “Poesie”. Sue poesie vengono regolarmente pubblicate nella suddetta Rivista e su “Silarus”. Vince il primo premio al concorso “Città di Avellino - Trofeo verso il futuro” 2013 con la silloge “Poesia e musica”. È presente nel volume “Poeti contemporanei Forme e tendenze letterarie del XXI Secolo” (2014), a cura di Giuseppe e Angelo Manitta.

FANCIULLINO SCHERZOSO …

CLOCHARD

Fanciullino scherzoso che nel sogno

Sono un’immagine di luce,


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una goccia d’acqua un granello di sabbia un cole che risplende per poi svanire.

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s’innalza si proietta fuori nel silenzio cullando spazi ridotti. Claudio Carbone

Sono un fragile verso maturato con le ore e le proprie emozioni, alla sera risplendo fra le stelle per poi mescolarmi con polvere e lacrime di rugiada. Sono un bambino che sogna ancora il paradiso perfetto, una matita che tratteggia sagome d’ombra una penna pronta a dar voce al silenzio. Sono il sarto del proprio vestito, mi confondo tra i passi della folla, credo ancora nei colori del domani nel caldo progredire dei pensieri. Sono un’entità avvolta nel mistero materia di un attuale presente, domani sarò solo un’illusione il mio nome non troverà pace perché niente è per sempre. Nicola Chinaglia Verona 3° Premio ex aequo (Sezione B) al Città di Pomezia 2015. Ci manca il curriculum di Nicola CHINAGLIA, ma sappiamo che egli scrive non solo in lingua, ma anche in dialetto e che ha partecipato a numerosi premi letterari, piazzandosi sempre a posti di onore.

CANTO DEL CANARINO Nella stranezza del gelo la Primavera scompone Dio in tessere per il tuo mosaico. Si specchiano nei sogni le preghiere come ciottoli di fiume per gli anni che giacciono. Ecco un richiamo fedele gorgheggiare a tratti intenso nella mia prima indifferenza che vidi nascere con stupore dai mutamenti del corpo

Formia (Lt) 3° Premio ex aequo (Sezione B) al Città di Pomezia 2015. Claudio CARBONE è nato nel 1958 a Gaeta (Latina) e vive a Formia. Poeta e pittore ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: “O Laureat” (1988), “Al posto delle rose” (2013). Insegnante al Liceo Scientifico “E. Fermi” di Gaeta ha sempre avuto un forte interesse per la letteratura e la poesia in particolare. Diversi scrittori e poeti hanno mostrato interesse per la sua opera.

“...E SE NON PIANGI...” (Dante - Inferno - canto 33) Oh, uomo bianco nell’Africa Nera! Aridi seni, straccetti appesi su manichini d’ossa e pelle nera, fragili ombre di pietose madri. Immensi occhi tristi e visi spenti in crani enormi poco più che teschi. Rastrelli di costole su corpi miseri con arti di ragno e ventri gonfi di vecchia fame. Polvere e mosche ed avvoltoi pazienti sull’acacia! Oh, uomo bianco! “...e se non piangi, di che pianger suoli?” Angelo Mario Cianfrone Campbelltown, Australia 3° Premio ex aequo (Sezione B) al Città di Pomezia 2015. Angelo Mario CIANFRONE, nato nel 1932 in Val di Sangro (Chieti), è emigrato a Torino nel 1952 e in Australia nel 2012. Medaglia d’Oro come donatore di sangue AVIS nel 1995, ha un totale di 27 mesi (in 4 viaggi) di volontariato in India. Si diletta a scrivere racconti e poesie dal 2010. Ha vinto al-


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cuni premi e ha pubblicato il libro “I racconti del nonno”.

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sie sono tradotte in spagnolo e in lingua romena. Fra gli ideatori de “La poesia nelle case”, proposta di modalità di divulgazione della poesia in vari luoghi della città.

“MAMMA, SE POSSO TORNO” (La Grande Guerra sulle Dolomiti) PENSIERI NEGLI SPECCHI Nel fienile della vecchia casa, tanti anni fa, rovistando tra arcolai e rastrelli coperti dalle ragnatele, trovai un elmo: un rugginoso elmo della Grande Guerra, sanguinosamente combattuta fra questi monti. Delle trincee delle Tofane avevo sentito i vecchi più volte raccontare, ma ciò che mi colpì, di quell’elmo, fu una scritta, rigata sopra con un coltello: “Mamma, se posso torno”. Era la promessa di un soldato, qualcuno di quella casa, forse già morto. Compresi l’infinita nostalgia di quei ragazzi relegati lassù, nel sangue e nella neve. Ragazzi che, quando taceva il fuoco, guardavano giù verso la valle. Cercavano un tetto, il tetto di casa, dove la madre li aspettava. “Mamma, se posso torno”. Quattro parole graffiate sopra un elmo, come una ferita. Franco Casadei Cesena (FC) 2° Premio (Sezione B) al Città di Pomezia 2015. Franco CASADEI, medico, vive e lavora a Cesena. Ha pubblicato le raccolte di liriche: “I giorni ruvidi vetri” (2003), “Se non si muore” (2008), “Il bianco delle vele” (2012). Primo classificato nei premi di poesia: “Ungaretti” (2005), “C. Levi” (2005), “Giovane Holden” (2008), “Città di Venezia” (2013), “Calvino” (2013), “C. Pavese” (2013), “G. Gozzano” (di Agliè, 2013), “Città del Tricolore” (2014). Fra i primi classificati nei premi: “Neruda” (2006), “D’Annunzio” (2006), “Baudelaire” (2008), “Foscolo” (2009), “D. M. Turoldo” (2011), “J. Prevert” (2011), “Manzoni” (3011), “Kafla” (2012), “Ossi di Seppia” (2012), Premio nazionale di “Filosofia”, sez. paradossi (2012), “G. Pascoli” (di Barga, 2014), “Antonia Pozzi” (2014). Sue poe-

Scivolando per le vie affannanti della città, rincorsa da molteplici pensieri logoranti, sono attratta da uno striscione incollato sul muro su cui c’è scritto “Ritrova te stesso”. È un monito che mi entra nell’animo, è una frase che incute riflessione. Volti informi dentro specchi infiniti cercano, scrutano l’appiglio a cui aggrapparsi. Mattina dopo mattina, il consiglio è sempre là… Ritrova te stesso. E allor quando si crede di rotolare nel baratro della vita, ed il manifesto è ormai logoro per la pioggia e per le mani di qualch’uno che non gradisce, una voce, la voce di un amico poeta, continua a ripetere di non arrendersi. Sembra di essere in trincea. Il freddo nelle ossa preannuncia l’arrivo di una notte tremenda. I cecchini sono là e la notte umida è rischiarata solo dal lumino delle poche cicche che ci fanno compagnia. Domani forse molti compagni cadranno come mosche ai miei piedi, domani forse non rivedrò mia madre. Una lettera è tutto ciò che mi distoglie da questa notte buia. Tra poco sarà l’alba, il sibilo della palla di cannone tornerà a fischiare sulle nostre teste, amore mio bello spero di tornare, rigenerata e lontana da questa trincea che è la vita. Emilia Bisesti Pomezia (RM) Poesia meritevole di premio (Sezione B) Al Città di Pomezia 2015, ma esclusa in seconda lettura perché l’Autrice ha già vinto la stessa Sezione nel 2009. Emilia BISESTI è nata a Roma il 23 Febbraio 1967. Coniugata è mamma di due ragazzi. Oramai da 25 anni partecipa attivamente alla vita dell’ As-


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sociazione Coloni di Pomezia, che si propone di diffondere la storia e la cultura del territorio. Presenta le tradizionali manifestazioni storico culturali dei Coloni e cura la declamazione delle liriche dei poeti della Spiga D’Oro, settore artistico della stessa associazione, di cui è coordinatrice dal 1996. Scrive poesie tentando di liberare le più semplici e segrete emozioni racchiuse nell’intimo; nel prossimo futuro si propone di radunare le poesie “ più significative ” in una raccolta, la sua prima antologia. Recentemente ha promosso la mostra d’arte “Anime oltre l’Autismo” , rassegna artistica di proprie poesie e disegni realizzati dal figlio Davide.

ALLA CASTA, BELLISSIMA MELISENDA Le ali spiegate sul mare battendo veloci dal cielo d’oriente i paesi la fama toccò d’occidente, il nome e le lodi di Melisenda contessa di Tripoli cantando, e nella terra di Francia infin risuonò. Il cuore di Jaufrè Rudel Eros mirò e d’amore lo incendiò. Vuole conoscere Rudello la donna e parte immantinente. “Da Cipro avanzando volteggia la nave latina. A poppa di febbre anelante sta il prence di Blaia e cerca col guardo natante di Tripoli in alto il castello”. Nel placido porto arrivati, “velato di funebre benda e con sé lo scudo di Blaia”, così alla contessa Bernardo scudiero: <<Io vengo messaggio d’amore io vengo messaggio di morte>>. Pensosa la donna lo guarda, poi s’alza, “d’un velo nero s’adombra la faccia” e <<Andiamo, ov’è che Giaufredo si muore?>>. Giaceva sotto un bel padiglione Giaufredo al cospetto del mare e una dolce canzone cantava. L’ultima nota ascoltando, pietosa la donna sostò sull’entrata, poi di scatto il velo gittando

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<<Giaufredo>> ella disse << son qui>>. “Voltossi, levossi sul petto il morente”, e gli occhi sull’amato volto fissando, così mormorò: <<Contessa, che è mai la vita? E’ l’ombra d’un sogno fuggente, il vero immortale è l’amore… Ed or Melisenda, accomando a un bacio lo spirto che muor>>. “La donna sul pallido amante chinossi recandolo al seno, tre volte la bocca tremante col baciò d’amore baciò, e il sole dal cielo sereno calando ridente sull’onda l’effusa di lei chioma bionda sul morto poeta irraggiò”. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno (Is) Da Donne, 5° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2015. Antonia Izzi Rufo, definita “ La Poetessa Pentra “ da Mario Di Nezza , “La Ninfa delle Mainarde “ da Aldo Cervo e “La Saffo italiana” da Luciano Nanni, è un’insegnante in pensione laureata in Pedagogia. È nata a Scapoli (IS) e risiede a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta (IS). Ha pubblicato, finora, oltre sessanta opere (Narrativa, Poesia, Saggistica e altro). Ha ricevuto numerosi riconoscimenti letterari. Collabora a note Riviste Culturali. Affermati critici e personalità della cultura nazionale e internazionale hanno scritto di lei.

COME LA FENICE Oggi mi afferra la speranza e cerco di godermi questa stanza, tanti libri fan bella mostra e il cuore balla in questa giostra. La giostra di poeti, scrittori e pittori, la giostra dell’arte e dei cantori, la gioia ci prende per mano e tutti felici in coro cantiamo. Come la Fenice dalla cenere risorgerò, mi passeranno gli affanni e felice in giro me ne andrò, Osanna al nostro Signore canterò.


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L’A.L.I.A.S. la mia dolce creatura, sempre bella e grande sarà, mi riempie il cuore di felicità, con tutti gli amici di gioia si canterà. Son triste, ingoio la mia preoccupazione, son tutta piena di dolori, non capisco niente, mi sento sola tra tanta gente. Mi asciugo gli occhi che mi fanno male, piangono da soli senza ragione, scende su di me la disperazione, ma il mio cuore è stracolmo d’amore! L’amore per la poesia, per chi la scrive e con me corre per tutte le vie! Giovanna Li Volti Guzzardi Australia, 16 – 9 – 2014 Da Da Melbourne con amore, 5° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2015. Giovanna LI VOLTI GUZZARDI è nata il 14 febbraio 1943 a Vizzini CT. Nel 1964, insieme al marito pensò di visitare l’ Australia come secondo viaggio di nozze e vi rimasero, affascinati da questa grandiosa isola, che ha alimentato la sua grande passione per lo scrivere. Ha pubblicato i libri di poesie: “Il mio mondo” in Italia nel 1983; “Isola azzurra” in Australia nel 1990; “VOLERÒ” maggio 2002 – Editrice A.L.I.A. S. Melbourne; “Le mie due Patrie” (Il Croco/ Pomezia-Notizie, 2012). Nel 2007 “IL GIARDINO DEL CUORE”, Milano. Nel maggio 1992 fonda l’ ACCADEMIA LETTERARIA ITALO AUSTRALIANA SCRITTORI – “A.L.I.A.S.” Giovanna ha avuto tanti riconoscimenti, tra i più importanti: nel 2003, Medaglia del Centenario della Federazione Australiana assegnata dalla Regina Elisabetta II, con gli auguri del Primo Ministro e del Governatore d’ Australia. 2004, invitata in Italia (una settimana a Palermo) per partecipare al Work Shop di Partenariato indetto dal Ministero degli Esteri, Roma. Maggio 2005, giorno della Festa della Repubblica Italiana in Melbourne, il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, e controfirmato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, le assegna l’alta Onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana OMRI per aver diffuso la lingua italiana in Australia, Italia e nel mondo, tramite il Concorso Letterario Internazionale A.L.I.A. S. e per aver insegnato la lingua i-

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taliana con amore e passione per 25 anni. Sempre nel 2005 a Palermo le viene consegnato dalla REGIONE SICILIANA l’ importante riconoscimento: SICILIANI NEL MONDO AMBASCIATORI DI CULTURA, e invitata a ritirarlo di persona con grandi festeggiamenti. Dicembre 2006 dagli USA: the Board of Directors, Governing Board of Editors and Publications of the Board American Biographical Institute do hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi Professional Women’s Advisory Board. Maggio 2007, riconoscimento dal Primo Ministro d’Australia the Hon. John Howard MP. Settembre 2007, premio “Carretto Siciliano 2007”, definito l’ Oscar della Sicilianità. Maggio 2008, The American Biographical Institute, does hereby recognize that Giovanna Li Volti Guzzardi INTERNATIONAL WOMEN’S REVIEW BOARD, FOUNDING MEMBER. 2008 International Writers and Artists Association, Pres. Teresinka Pereira: Diploma to certify Giovanna Li Volti Guzzardi is recognized as THE BEST DAME OF POETS OF AUSTRALIA. 27 Maggio 2009, invitata in Italia dal CRASES: Centro Regionale Attività Socioculturali all’Estero ed in Sicilia. Presidente Gaetano Beltempo e Vice Presidente Ezio Pagano, in occasione del 40mo Anniversario del CRASES e assegnato l’importante riconoscimento, delegata del CRASES. Ha insegnato italiano ai bambini di ogni nazionalità, come volontaria per 25 anni. Ma la sua gioia più grande è stare in mezzo a poeti e scrittori, per questo è riuscita a riunirne tanti, italiani e da ogni parte del mondo, creando un punto d’incontro nell’Antologia A.L.I.A.S.

VENTO DI PRIMAVERA Quante volte ho cercato il sole per riscaldare il mio volto e la mia anima, quante volte ho sognato il mio mare e la vecchia casa natìa e poi nel buio senza parlare tenevo i pensieri stretti al cuore, quante volte mi è venuto il desiderio di stringerti fra le braccia lungo il viale sotto gli archi nevosi dei salici, di quel bosco incantato che tu amavi e cantavamo il ritornello di una canzone in voga da te amata, mamma! Tu hai amato la vita con gioia


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come i fiori amano la luce del giorno, amavi l’estate come la terra ama il calore del sole. Volevo invecchiare io per dare a te la giovinezza mia, ti regalerei tutta l’allegria del cuore per rivederti sorridere e furtivamente accarezzo questi pensieri, come accarezzo in una foto il tuo volto. Tu sei stata il bene, la più bella cosa che la vita sa regalare. Anna Trombelli Acquaro Altona North, Australia Da Emozioni sparse al vento, 4° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2015. Anna TROMBELLI ACQUARO, nata a Bianco Reggio Calabria. Emigrò in Australia nel lontano 1958. È molto appassionata a scrivere poesie e racconti, ha partecipato a parecchi concorsi letterari ed ha ricevuto riconoscimenti e premi anche internazionali. È stata scoperta dall’A.L.I.A.S. dieci anni fa, da allora scrive con tanta gioia e partecipa ai concorsi sia dell’A.L.I.A.S. che internazionali. È una cara collaboratrice e sostenitrice dell’ A.L.I.A.S. Ha pubblicato un libro di poesie nel 1999 con l’A.L.I.A.S. Editrice “Le Mie Poesie”. Nel 2002 ha pubblicato in Italia un libro di favole in italiano ed in inglese dal titolo “IL LAGO INCANTATO” ottenendo un lusinghiero successo. Nel 2005 “UN ALITO D’AMORE” poesie, con A.L.I.A.S. Editrice. Partecipando al concorso A.L.I.A.S. ha vinto il premio speciale Medaglia d’Argento del Papa Giovanni Paolo II per due volte e altri primi premi. Nel 2006 ha vinto il Secondo Premio. Nel 2007 Terzo Premio. nel 2008 Menzione d’Onore. L’anno scorso Premio Speciale Moonee Valley City Council. Nel 2010 Menzione d’ Onore per poesia e narrativa. Nel 2011, Premio Speciale del CRASES – Palermo, per la narrativa e Menzione d’Onore per la poesia. Nel 2012, Menzione d’Onore Poesia, Terzo Premio Narrativa. Nel 2013 Terzo Premio poesia, Secondo Premio Narrativa.

SONO Mi sono amata per un po’ ammirata tanto a volte mi sono odiata fino alle stelle credendo che con loro sarei rinata

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mi sono compatita e ferita perpetrando nel pensare che illusione fosse verità ho gettato le basi per la solitudine convogliando la mente in un tunnel lasciando ogni strada poi di ritorno per un istante di rientro su quella via un volto tra i volti mi complimenta e di quei complimenti mi faccio lustro elogio degli elogi in mezzo ad una via specchio di chi sono aspettando il sono che mi manca da tutta una vita sentendo che il tempo non mi cambia non mitiga non stravolge. Filomena Iovinella Torino Da Odi impetuose, 2° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2015. Nata a Frattaminore, in provincia di Napoli, Filomena IOVINELLA vive a Torino. Scrive solo da pochi anni e l’appassionano i testi di filosofia. Ha pubblicato tre racconti: nel 2012 “Traccia di vita”, nel 2013 “Il ritorno di Stefano”, nel 2013/2014 “L’ eros e la strada”. Segue sempre il suo blog dal titolo “Gli indistinti confini”. Scrive anche poesie, una delle quali è stata pubblicata in un volume delle Edizioni Aletti. Nel 2013, ha vinto la sezione fiaba al Premio Internazionale Città di Pomezia.

CRONACA L’azzurrità era lì nella quiete silente allo zenit del sole Frinire di cicale tra le stoppie Fuoco che brucia Nella luce radiante cala a un tratto l’ombra Nel blu, impalpabile il mistero incastonato nella tela del ragno Voci e, all’improvviso, due braccia e una morsa


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atroce, innaturale Nemmeno l’incubo il più oscuro può immaginarne il compimento La fiducia violata dall’inganno Vinta l’antica pietà per l’innocente inerme Si spegne la luce d’una estate l’ultima per quell’esile fiore L’omertà tribale occulta il lutto nel precipitare improvviso dell’ombra Per queste ali d’angelo recise non basterebbe il mare Solo pietà rimane alle sue sponde Anna Vincitorio Firenze, ottobre 2010 Da Bambini, 2° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2015. Anna VINCITORIO è nata a Napoli, ma è vissuta quasi sempre a Firenze. Studi classici, laurea in Giurisprudenza. Ha insegnato materie giuridiche. Dal 1974 si occupa di poesia, critica, letteratura, collaborando a prestigiose riviste letterarie. Tra i suoi volumi di poesia: “Nebbie e chiarori” (1982); “Trama verde sull’aria” (1986); “Il canto fermo della fine” (1988); “L’esilio delle tartarughe” (1991); “I girasoli” (1992); “Alchimie” (1993); “Dissolvenze/flots” (1995); “L’agguato sommerso” (1997); “Le nozze di Cana” (1999); “L’ultima isola” (2000); “Filastrocche per l’angelo” (2001, versione francese 2010); “La notte del pane” (2004); “Sognando Estoril” (2007, versione spagnola 2009); “Il richiamo dell’acqua” (2009); “Sussurri” (2013). Prosa: i racconti “San Saba”, dall’inedito “Il limo di Eva” (1990); “L’Adelina” (1994); “Lettera ad un amico” (1996); “Ermanno” (1996) e poi “Il limo di Eva” (2010); “Per vivere ancora” (2012). Numerosi saggi critici e traduzioni.

“ Pagine di alberi “. Bisogna recarsi là dove essi si esprimono tra mille specie di uccelli e tante virgole che sanno disporre tra una stagione e un anno che vede crescere le loro pagine. Differenziati

Pag. 42 fogli con la scrittura dai tanti rotondi, non indicano la vetustà degli alberi, non è una simbologia, scrivono così da millenni in pochi sanno capire quei discorsi incerchiati. Diffingo per sentire la loro voce che spiega la strana scrittura, cos’è che hanno redatto e perché? Non è vero che non hanno occhi e non vedono le epoche, sanno tutto e poi scrivono solleticati nelle foglie escono dalla concentrazione, se ci fosse un fiume vicino tradurrebbero anche la sua gorgogliante voce. Di tutto questo c’è un libro? No, sta solo nelle loro pagine intraviste qua e là sopra cappelli di funghi e margherite inclinate, fiori di bosco e fili d’erba schiacciati, c’è un albero-padre che corregge gli errori di tutti raccoglie le pagine e poi torna sul posto a fare finta che nessuno si è mosso. Isabella Michela Affinito

Fiuggi Terme (FR) Da Probabilmente sarà poesia (Iniziano tutte con la P), 1° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2015. Di origini pugliesi da parte di madre, Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria il 22 novembre 1967 e si sente donna del Sud. Risiede a Fiuggi Terme. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’ Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 - 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, la fotografia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artisticoletterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’ Italia,


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tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Primi Premi vinti alla IV Edizione “San Teodoro” di Nicola Calabria (Messina, 1999), al Concorso dell’ Accademia Universale ‘Neapolis’, sezione saggistica ((2000), alla V Edizione “Peltuinum” di Poesia (2002), al Concorso “Una poesia per Maribruna Toni” de “Il Foglio leterario” (Piombino, 2002). Secondi premi: XXXIIIa edizione “Silarus” Battipaglia (poesia, 2001), 12° Edizione “Rosario Piccolo” (Patti, 2001), 18° Edizione Gran Premio Internazionale d’Arte e Cultura InterArte (saggistica, 2001) e poi ancora terzi e altri premi. Ha reso edite quasi 50 raccolte di poesie e un volume di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierno del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Esprime la sua creatività anche in settori come la critica d’arte e letteraria. Scrittrice e collaboratrice di riviste con articoli su cinema, teatrro, astrologia, arte. Disegna copertine di libri.

LA QUETE DELLA SERA La sera era quieta ma ti sentivi dentro al petto un vento tempestoso. Temevi di non avere amore dentro la tua anima, ma si stava avvicinando, innamorata, la Primavera. Scavalcava le siepi per giungere a te, memore di averti un giorno abbandonato. Nuove erano

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le ore che ti portava in dono, piene di spighe fiorite. Nuovi sogni potrai continuare a sognare. Tornava per ridonarti l’amore perduto e le favole di un tempo. Santo Consoli Catania Da Aurora di un Giorno Nuovo, 3° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2015 Santo CONSOLI nasce a Misterbianco (CT) nel 1946. Conseguita la Laurea, si trasferisce in Veneto e inizia la sua carriera di docente, insegnando per quasi un trentennio Lingua e Letteratura Inglese nel Liceo Scientifico di Dolo e negli Istituti Superiori di Mestre e Venezia. Dopo il ritorno in Sicilia, inizia, dal 2005, la sua attività poetica e la partecipazione ai Concorsi, arrivando a conseguire ben 636 Premi, tra i quali son da menzionare 66 Primi Premi, 66 Secondi Premi, 60 Terzi Premi e 81 Premi ‘Speciali’. Ha, inoltre, ricevuto 27 ‘nomine”, tra le quali, degne di nota: a Reggio Calabria, Premio ‘Universal Victory’ 2012 ed ‘Accademico Leopardiano a vita’; a San Cipriano d’Aversa (CE) nominato ‘Cavaliere della Cultura’ 2012; a Gallipoli (Lecce), nominato Gran Maestro della Poesia e Poeta dell’ anno. Premio Speciale a Lugano (Svizzera) al Premio Internazionale “Europa”, coppa IWA (International Writer Association). Nel 2014, ad Eboli (Salerno), Premio Speciale U.N.E.S.C.O.. Sue liriche sono pubblicate in varie antologie e riviste letterarie; è presente nel Dizionario di Autori Siciliani nel Mondo, nella raccolta “Poeti Italiani nel Mondo” e nel Dizionario Bio-bibliografico degli Autori Siciliani. Ha pubblicato numerosi libri di poesie e l’ opera omnia “Melodie ed Emozioni”.

IDIOTA DI DIO Innervosita non so giocare a questa vita, ogni minuto spalle al muro mi si impiccia e si scompiglia il futuro. Devo darmi una scossa e indovinare la mossa senza temere o non darlo a vedere.


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Non è stare soli mai quanta brava gente mi si affolla alla mente. Non traspare dal nero cosa conti davvero non capisco da idiota come giri la ruota e non si vede perché il tempo torni da me. Acido stabilisce pallido dell’insopportato quotidiano viaggio il mio essere ostaggio. Lucia Gaddo Zanovello Faedo di Cinto Euganeo (PD) Da Consapevolvenze, 3° Premio (Sezione A) al Città di Pomezia 2015. Lucia GADDO ZANOVELLO (Padova 1951) scrive dalla prima adolescenza. Dopo un periodo giovanile dedicato a diverse attività lavorative, ha poi impegnato la maggior parte del suo percorso professionale come docente di scuola media. Ha condotto studi, fra gli altri, su Niccolò Tommaseo e su Pierviviano Zecchini. Per la poesia ha pubblicato: Porto Antico, Edigam, 1978; Bramiti, La Ginestra, 1980; Da serpe amica, Padova Press Edizioni, 1987; Semiminime, Padova Press Edizioni, 1988; Per erbe piú chiare, Edizioni Dei Dioscuri, 1988; nel 1998, per le Edizioni Cleup, la raccolta retrospettiva relativa agli anni ’88 -’98, in cinque volumi: Nóstoi (che include Fiordocuore), Fatalgía, In lúmine, La trilogia del volo, La partitura. Ed ancora Il sonno delle viole, Cleup, 1999; Un parlare d’ acqua, Cleup, 2000; Solargento, Cleup, 2000; Memodía, Marsilio, 2003; Silentissime, Imprimenda, 2006; Ad lucem per undas, Joker, 2007; Amare serve, Cleup, 2010; Illuminillime, Cleup, 2011, Rodografie, Cleup 2012, Buona parte del giorno (Premio Milo 2012), Incontri 2013 e Disforia del nome, Biblioteca dei Leoni, 2014.

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IL CROCO Il Quaderno Letterario di POMEZIA-NOTIZIE il mezzo più capillare ed economico per divulgare le vostre opere. Prenotate il vostro numero individuale rivolgendovi alla Direzione.

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MANOLETE Oggi Manolete è morto. Ha vinto molti tori che erano tutti pericolosi, ma si è presentato davanti a lui il tremendo Islero. Grazie alla tua differenziazione sei diventato eletto per i tuoi ammiratori, tra tutti gli altri toreri. Adesso tutti ricordano le tue grandi vittorie gloriose. Tuttavia, la prima e l'ultima volta che hai lottato, saranno le lotte più vive della tua arena. Adesso, alla fine, sei stato giudicato, e i commenti per te erano positivi. L'inizio della tua carriera è arrivato al punto massimo, che è anche l'ultimo. Addio, Re della tua arena, dove hai lottato tante volte e hai sempre vinto, perdendo per la prima e ultima volta come tutti i toreri. Maledetto Islero! Tutti sanno che verrai. Nessuno però ti aspetta. Mai! Themistoklis Katsaounis Traduz. dal Greco di Giorgia Chaidemenopoulou D. Defelice: Angolo di via San Pietro a Mirabello Sannitico (CB), 1983 - olio su compensato 13 x 18↓


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“... Dalla poetessa più pagana che esista...”:

MARIA GRAZIA LENISA SCRIVE A

DOMENICO DEFELICE e lascia tracce di quotidianità nella poesia di Ilia Pedrina

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I lei, di Maria Grazia Lenisa, ricerco ancora elementi di vita, di pensiero, di ispirazione. In questo percorso personale ora si inserisce la raccolta de 'Il Croco', allegata alla pubblicazione di Pomezia Notizie del mese di Luglio. Il Defelice aveva avvertito tutti ed ora ha mantenuto la promessa: rendere pubblica la corrispondenza

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della poetessa friulana, dolce ed affascinante in ogni suo tempo, Musa ispiratrice anche di Francesco Pedrina, che della corrente del Realismo Lirico è stato il diretto protagonista critico ed il testimone 'mediatico', al fianco del Capasso, di Gemma Licini, di Elena Bono, di Fiumi, di Gerini, del De Maria e di tanti, tanti altri. Marzia Alunni introduce questa preziosa raccolta con un'osservazione che la rende acuta interprete del fenomeno artistico del fare 'Poesia', sul quale molti studiosi e filosofi ancora sondano aspetti e valenze, che vanno oltre i confini del linguaggio metaforico: “...Solo chi scrive però testi poetici, dal canto suo, è in grado di parlarne come se la poesia, personalizzata con intenzione, fosse un'amica confidente, una sodale che attende la parola amata, eletta, sul foglio bianco della lettera. Maria Grazia Lenisa ha dedicato la sua vita al dialogo incessante con la poesia, fin da ragazza, quando avvertiva una maturità, superiore ai suoi anni, manifestarsi e, conquistata, si apriva alle esperienze culturali più significative, proprie della rivista Realismo Lirico di Aldo Capasso...” (da M. G. Lenisa 'Lettere' (1974-2003), Il Croco, quaderno letterario allegato a Pomezia Notizie, luglio 2015, pag. 2). Come la giovane filosofa suggerisce, interrogando ciascuno di noi, per darci tracce prima di addentraci nella lettura di queste lettere, il volto assente al quale la Lenisa si rivolge ha sembianze anche di sogno, ha i tratti che si incarnano “… nel confidente aperto e vivace, nell'amico fedele, o nel critico partecipe e sensibile...” (op. cit. ibid.). “… In Sicilia non andai in esilio come Saffo, ma vinsi, prima dei vent'anni, diversi premi... È magnifico che il mio canto sia sorgente d'altrui, non Le pare? Il libro delle poesie da me ispirate sarebbe ben folto e non meno bello dei miei canti, in quanto la poesia vera è un fiore e un seme. Onde spero di smuovere con il vento della poesia il Suo giardino addormentato....” (op. cit. pag 7). Corre l'anno 1974 ed il poeta greco Febo Delfi, legato alla Lenisa da profonda stima, ammirazione, fascinazione, aveva scritto un


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libro dedicato proprio '… alla Saffo d'Europa...' e profili di questo legame si intravvedono di frequente in queste confidenze a distanza, all'Amico di Anoia. Si, bisogna ricordarlo: la Lenisa spesso sottolinea questa origine calabra del Defelice e gli rammenta, in segreto, tra le righe di poesie inedite che gli invia, di non trascurarne la matrice. Cito: “LA PAROLA La parola per me non è che quella meravigliosa, filo d'erba o raggio mi sfiori la caviglia o mi colori come fiore sul prato; non è che astro cui tende il mio viaggio, speranza di cui vivo, alleanza col mondo. Non si usura una stella, la fontana ha bocca di ragazza, la montagna è piena di se stessa, misteriosa... Mi son svegliata e un nido tra le mani vivo cantava forte inascoltato. Dietro barriere di dolore un canto fuori dal tempo, dove sono un'altra” (op. cit. pag. 9) In queste lettere che sono traccia di quotidianità impegnata nel dare, sempre e senza misura, sia negli affetti familiari che nelle cose della cultura letteraria e del canto tra i segreti silenzi della notte, che la Lenisa spesso riserva per sé, mondo altro per darsi nella vita altra, scopro molto dell'Amico incontrato ed amato in purezza come creatura del suo Sud: egli talora assume i tratti del giovane poeta che ricerca contatti importanti e successo per i suoi lavori, successo che via via non tarderà ad arrivare, poi i tratti dell'uomo intelligente, dotto, consapevole che ha impegnato la sua vita di critico letterario e di poeta nella rivista Pomezia Notizie: la Lenisa vi collabora con intensa ed illuminata costanza, allargando di molto la schiera dei lettori e dei collaboratori (la Pereira, Allegrini, Selvaggi, Onano, Bàrberi Squarotti e tanti altri), nonostante gli o-

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nerosi impegni ai quali risponde sempre con serietà ed alta professionalità. Infatti spesso in queste missive gli ricorda un dono, quel 'serpentello' intagliato nel legno che la fa sentire davvero una nuova Eva: 'Caro Domenico dell'Eden e delle Fiumare, ragazzo coi piedi nell'acqua a sollevare spruzzi come un felice animale, a intagliare serpentelli di legno, ad amare e amare 'La bambina di Cristallo' nell'epopea familiare, Domenico dei 'Dodici mesi con la ragazza', Domenico di un'eternità con la poesia, amico, amico nell'amorosa e risentita critica, nella lode altrettanto accesa... non spegnere ' Pomezia'. Ci tiene in vita, è la nostra bandiera anche se sembra un fazzolettino.... Divenuta sempre più bella nel vento e pare un Airone, Domenico di Anoia che faceva l'amore in una barca... Domenico, Domenico... che non è felice come tutti noi....' (op. cit. pag. 59- senza data, ricevuta il 28. 10. 95). Si è arrivati allora alla confidenza più diretta, nel succedersi degli anni ed allora torno qualche pagina indietro per cogliere ancor meglio gli integerrimi aspetti di una personalità forte ed intransigente, che non accetta né soldi né compromessi. Cito: “... senza compromessi ho credibilità, si, ma vita molto difficile... Non ho appoggi politici ed ho rifiutato (parola sottolineata nel testo – n. d. r.) la fatidica presentazione nei salotti romani. Quindi il mio successo è all'opposizione, non a scaldare divani tra coctail e altro. Ritorna quel discorso che il morale appartiene alla vita, al comportamento, non ostante ciascuno possa fare i suoi errori....” (lettera del 1 Gennaio 1990, op. cit. pp. 3637). Rigorosissima e fiera anche nell'affrontare la via crucis del viaggio con Cancer, l'amante imprevedibile, imprevisto che ammala e che la spinge alla lotta, la Lenisa ha sempre parole che orientano e sono testimonianza di grande generosità ed empatia: “... Nel processo critico (i due termini sono sottolineati, n. d. r.) ha più importanza il seme da cui nasce il libro che il libro stesso, perché se ne studia l'allargamento delle te-


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matiche. Devi stare in pace, nessuno ti toglierà i meriti che hai come poeta e come operatore culturale...” (lettera del 10. 1. 2004, op. cit. pag. 85). E poi, poco più avanti, nella lettera ricevuta dal Defelice il 22 gennaio 2004, Maria Grazia gli scrive: “... Ti confesso che piango di paura e che scrivo per tenermi su il morale e fare un po' di confusione come il bimbo al buio...” (ibidem). Infatti tutto qui è Poesia, in semi di una quotidianità sublimata, elogio del canto interiore, quando è forte, talora intermittente ma incessante sempre come linfa interna al corpo tutto, di ragazza, di donna, di amante nell'amore in sé pieno del suo doppio e nei sentieri della sofferenza contro la quale ella lotta come contro avversari concretissimi. Voglio concludere queste brevi note alla pubblicazione del Defelice con alcuni cenni tratti dallo studio di Aldo Capasso sulla Lenisa: “... 'Dorme la notte immensa sul tuo cuore che veglia e sulla terra, Dio. Certo tu scendi ancora dai tuoi cieli per parlare con l'uomo; l'uomo che non t'attende, non crede a Dio che passa sulla strada che conduce alla morte. E tu non puoi gridare d'esser Dio, né avere un volto da scoprire all'uomo. Ma ogni sera ritorni sulla terra, ogni istante t'illudi che il tuo morire ci salvi dalla morte.' (Ogni sera ritorni sulla terra) Non stiamo a formalizzarci su una parola isolata (t'illudi), ricordando del resto il pio Verlaine di Sagesse: 'Eté-vous fous/Père, Fils, Esprit?' Verlaine, seguace, a sua volta, di Sant'Agostino... Consideriamo il 'fantasma' nel suo insieme: ed è una sublime figurazione d'Amore quel Dio che veglia mentre gli uo-

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mini dormono nella notte, quel Dio che desidera parlare con l'uomo chiuso e sordo che non l'attende, quel Dio che viene ogni sera, inutilmente ritorna ogni sera, condotto dalla sua pietà, quel Dio che non può, che non deve ogni sera rigridare all'uomo la sua rivelazione e il suo monito e tuttavia lo desidererebbe, per salvarlo, quel Dio che vuole illudersi di salvare, con il prezzo della sua passione e morte l'uomo non salvabile. Un brivido tragico corre questi brevi intensissimi versi ed è la tragedia dell'amore non degnamente ricambiato, l'Amore di quel Dio che soffre e si tormenta per pietà dell'uomo...” (tratto dallo studio critico di A. Capasso sull'opera poetica di M. G. Lenisa, Il tempo muore con noi, Liguria Editrice, 1955, ora disponibile in Internet al sito 'Poesia 2.0'). Il Capasso le è stato mentore e padre spirituale, entrando in luce nelle pieghe più profonde della sua spiritualità. Il Pedrina le è stato al fianco, nella diffusione tra gli studenti delle Scuole Superiori Italiane dei suoi canti giovanili, in ideale simbiosi nel culto delle terre del Friuli. Il Defelice le è stato Amico sincero ed ha assolto ad un compito che ognuno di noi apprezza, perché chiaro, diretto, documentato. E sopra tutti, dopo la fase del Realismo Lirico, Giorgio Bárberi Squarotti, dotto e sensibile, acuto interprete del suo talento, mai dato per prevedibile, ma sempre orgoglioso, infiammato, provocatorio e puro. Ora meglio comprendo il dono che mi è stato fatto, con tutto il cuore, da Marzia Alunni, ricevuto mentre avevo tutte e due le braccia al petto, in pezzi, nel dicembre del 2009: si tratta del testo di Maria Grazia Lenisa 'Verso Bisanzio', (Antologia dal 1952 al 1996), con panoramica critica di Giorgio Bárberi Squarotti ed introduzione di Jean Jacques Méric, per la casa editrice Bastogi di Torino, ed avrò maggior determinazione nell'ordinare e catalogare le molte lettere della Lenisa a Giuseppe Gerini, materiale originale a me gentilmente concesso dalla nipote Erica Giaretta Sartori. Per scoprire tracce di quotidianità nella Poesia. Per incontrare ancora, nel mio tempo, Maria Grazia Lenisa oltre i confini, i


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tratti in canto di questa vita altra, che permane eterna. Ilia Pedrina

E RICOMINCIA LA BATTAGLIA! Il dorso d'un "Palazzi" sessantenne mille e mille volte consultato impietosamente lacerato dalle tue dita inquiete; devastata la pila dei giornali; i miei poveri versi accartocciati; matite rotte e penne sotto la scrivania; lettere di cari amici doloranti gettate alla rinfusa... Metto ordine a sera, quando con mamma e papà t'allontani verso casa; barelliere pietoso, sopra il campo raccolgo ed accarezzo libri feriti.

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thrown away carelessly ... I put everything in order at night, when mum and dad take you home far away; pitiful chaos, through the fields I collect and caress the injured books. I already miss my enemy! When you return in the morning jumping up and down, waving your arms I smile, my heart full of joy crashes, reminds me of the galaxies. And the good fight continues! Domenico Defelice Pomezia, 9 August 2010 Trad. Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia

CANTI DI GRILLI Ho già nostalgia del nemico! Quando al mattino ritorni saltellando e, agitando le braccia mi sorridi, il cuore dalla gioia si schianta, risale alle galassie. E ricomincia la lieta battaglia! Domenico Defelice Pomezia, 9 agosto 2010

STARTS AND THE BATTLE! The back of a sixties "Palaces" looked up thousands of times mercilessly torn by your restless fingers; the stack of newspapers destroyed; my poor verses crumpled; broken pencils and pens under the desk; letters from dear friends

Grigi i capelli, grigio il tepore tra Lande erose dal fiume. Silenzi, canti di grilli, sciabordio d’acqua come le nenie che addormentano i bimbi. Sognai cioccolata per anni mentre il quotidiano era il pane e lo zucchero. Ginocchia sbucciate solcavano l’erba, i pantaloni tagliati da foreste di rovi. Se l’amore tieni distante sarai sempre felice… Diceva mia madre mentre toglievo le foglie a vermigli papaveri. Volevo tatuar nella fronte una piccola stella per sentirmi almeno una volta il signore dei campi. Colombo Conti Albano Laziale


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ELISA RAMPONE CHINNI DIALOGANDO CON ME STESSA di Elio Andriuoli

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LI aforismi e le poesie che Elisa Rampone Chinni ha raccolti or non è molto nel suo libro Dialogando con me stessa, rivelano in lei una duplicità di vena: quella sapienziale e quella elegiaca, che si alternano e s’intrecciano in questi suoi testi, nei quali troviamo racchiusi i tratti principali della sua personalità di scrittrice. Ironia e commozione emergono infatti un po’ dovunque dalle pagine della silloge, che si avvivano a tratti di una profonda pensosità. Si prenda ad esempio un passo di Non farti mai domande: “Non ubriacarti mai / né di felicità, né d’infelicità / mia cara Paola. / Non farti mai domande / se sei contenta o lo sei stata”. Qui l’esortazione fatta all’amica sembra avere le sue radici in un’intima saggezza del vivere che trova dei riscontri nel “medén ágan” (nulla di troppo), dell’antica sapienza greca. Un testo dalle indubbie movenze liriche è invece E’ notte, nel quale l’atmosfera appare come sospesa, quasi nell’aspettazione di un evento misterioso che stia per sopraggiungere: “Il silenzio sembra palpabile,/mentre l’ ombra del nulla/si allunga sul selciato grigio”. Certe frasi della Rampone hanno sovente l’ incisività dell’aforisma, come: “Dove c’è scelta, c’è anche libertà” (La libertà); “Essere vecchi / non è una colpa / è un dono” (I vecchi); “Non si può vivere / per interposta persona” (Errare è umano); “Le parole non dette

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/ girano a cerchio / senza meta” (Le parole non dette); “Gli amici veri non / hanno presente, passato / o futuro: sono solo «gli amici»” (Gli amici); “E’ importante riscoprire/ ogni tanto il valore/ dell’attesa./E’ nell’ attesa che ci si/prepara a riconoscere/la verità delle cose,/a pregustare la gioia” (L’ attesa); ecc. Espressione di un movimento poetico nascente dalla contemplazione della natura, è invece Una triste sera d’inverno, che ha questo incipit: “Foglie secche spazzate/dal vento si rifugiano / impaurite in un / angolo di strada”, La chiusa però riporta la poetessa al mondo degli affetti, dal momento che ella così termina la sua lirica: “E’ una triste sera/ d’inverno e tu non/sei più con me,/amore mio”. Un’altra poesia che costituisce l’espressione di un intenso sentire è La morte di mia madre, nella quale questo tristissimo evento è narrato dalla Rampone in maniera semplice ed efficace: “La morte l’ho sentita / respirare nel buio, / l’ho vista in piedi / vicino al letto, / mentre lottavi in una / battaglia che ti / segnava il viso. / La morte non è / più un mistero / per me, non è più / un fantasma, è / solo la Morte”. Altri compiuti movimenti lirici s’incontrano poi anche altrove in questo libro, come quello di Senza una parola, dove sommesso è il compianto per una vita troppo presto spezzata: “Sara, dolce ed esile creatura / sei andata via in silenzio, / con discrezione, senza una parola/ portando con te un poco di noi”; o come quello de Il colloquio oltre la vita, percorso da un sentimento di profondo rimpianto: “Vorrei ascoltare ancora/una volta la tua voce,/avvertire il segno della/tua presenza, sentirti/al mio fianco per un/muto dialogo tra noi”. Ma un po’ dovunque troviamo in queste pagine dei passi degni di citazione, come quello con il quale si apre Un cielo terso, una poesia dedicata dalla Rmpone all’amica Tina Palumbo, che così recita: “Un cielo terso, condensato / nei tuoi occhi mutevoli, / occhi che leggono nel cuore”, dove è colto qualcosa della personalità di colei con la quale a lungo la poetessa si è accompagnata negli anni; ed è qualcosa che va ben oltre il solo aspetto esteriore.


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Talora la Rampone si ripiega su se stessa, come in un moto di arreso sconforto: “Non vedo più il futuro, / perché questo ha senso solo / se desideriamo qualcosa” (Si può impazzire); più sovente però le sue notazioni sono improntate ad una visione serena della vita o quanto meno ad una visione illuminata da un’intima saggezza del vivere, com’è quella di Un raggio di luce, che inizia: “ C’è sempre un raggio di luce / che ti indicherà / la strada” o com’è quella de Il presente, il testo con il quale il libro si chiude: “Uno sguardo al passato / mi rivela che non è / più l’isola da cui / fuggire, / ma il luogo del ritorno, / per godermi senza / nostalgia il presente. / Senza più fuggire”. Ed è proprio quest’intima saggezza, che offre alla nostra autrice il coraggio per affrontare serenamente la sua avventura terrena, quella che noi scopriamo al fondo di questo libro nel quale la Rampone ha racchiuso tanta parte di sé, per farne dono agli altri, con un gesto di semplicità e amicizia: il che è proprio del suo autentico e caldo sentire. Elio Andriuoli D. Defelice:Avvolto nel silenzio, china, 1965.

LA MIA POESIA Al mattino, raffinato il corpo nella notte, escono i pensieri fini e ripuliti, nell’aria sono frementi, se non li prendi

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subito si fanno diafani e si dissolvono. Sono fili, fatti di sostanza pura, non hanno crosta di protezione, una sottile epidermide li avvolge, liberi nell’ora ampia lunga fino all’orizzonte. Non toccano turpitudini né le rudezze, vanno dove i contatti allineati si tengono in forme giuste. La mia poesia corre, se non le vai dietro vaga uguale a nubi frastagliate trasmutabili. Non ha perso la mano dell’intuizione, arriva erompente come getto di acqua, è rimasta quella dell’adolescenza, stesse naturalezze piene di accensioni e di estasi. Non è andata avanti, la veste uguale, nella sua leggerezza, i colori vivi non si sono sbiaditi. Non si sono aggiunti gli anni venuti dopo, li ho visti estranei, non dovevano essere miei: fatti sovrapposti a caso con artefatti e calcolati elementi. C’è dentro l’abile fattura delle parole che passano con il lavorio della lima, squadrate, sono collocate in modo dovuto. Quello che dentro si muove è raffinato e sano, sono sostanze vive, fuori hanno una veste ordinata e linda, gentilezza di figura e compostezza, stanno al loro posto con la dignitosa fermezza. L’amore senza frammentazioni, con il suo uniforme scorrere alla luce, all’aperto con i fluenti movimenti dei sentimenti. La mia poesia allarga i territori della mente, mi porto in veloce estensione e in viaggi con l’immaginazione che ha le linee e la linfa delle illusioni. I miei stati psicologici aprono profondità e altezze. Entro nel cielo e sono pieno di terra, con i tormenti interiori e le catene delle contraddizioni. Nella mia poesia ci sei tu. Mi passi davanti, figura purificata, genuina struttura natia, sei un alimento dolce per i miei versi. Leggera con le ali e dentro il reale e il consistente, hai il semplice aspetto senza appariscenze, l’interiore integro della mia poesia. Come frutto cresciuto all’aperto con poche irrorazioni, fattosi pieno denso, mantenuto chiuso in coriacea pelle, devi fare forza per spaccarlo. Leonardo Selvaggi


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DOMENICO DEFELICE ELEUTERIO GAZZETTI CANTORE DELLA VALPADANA di Tito Cauchi

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OMENICO Defelice con la pubblicazione di Eleuterio Gazzetti cantore della Valpadana (Il Croco/ PomeziaNotizie, maggio 2013), si propone di togliere l’artista, da un “immeritato oblio”, stimolando nel contempo le autorità ecclesiastiche e comunali modenesi, ove il più anziano amico ha esercitato il suo ministero sacerdotale, oltre che la Parrocchia e i cittadini di Sozzigalli (frazione del Comune di Soliera), nonché quanti l’abbiano conosciuto e gli abbiano “voluto bene”. La “calda fraterna amicizia”, come la definiva il religioso, si è cementata attraverso il telefono, almeno una volta a settimana, con la corrispondenza epistolare e con visite reciproche dal 1964 al 1998; ma il loro primo incontro è avvenuto il 2 giugno 1969, a Roma, presso un Istituto di Suore, ove il Nostro si era recato insieme con il grande amico poeta Geppo Tedeschi.

Il Quaderno si articola in tre parti, illustrando rispettivamente il Saggista e Pittore, il Poeta e Scrittore, infine le Lettere inviate dal religioso al Nostro. L’illustrazione in copertina mostra, nello studio tappezzato di quadri, i due personaggi in cui sono evidenti la differenza di un ventennio di età e di stazza fisica in avanzo del sacerdote. Eleuterio Gazzetti nacque a Magenta di Formigine, nel Modenese, nel 1917, da famiglia operaia, discendente del venerabile Pietro Gazzetti (1617-1671), le cui spoglie riposano a Noto, in Sicilia, secondogenito di nove figli, fin da ragazzo amava dipingere su cartoni ed ogni sorta di superficie, ispirato dalla ricca natura della Valpadana. Egli, appassionato fin dai primi banchi liceali di storia locale, incominciò un lavoro storico che dopo anni di studio vide la luce solo all’affacciarsi del nuovo Millennio, a dimostrazione della sua tenacia, con il titolo di Cardinali, vescovi e abati nella storia delle diocesi di Modena e Nonantola (sec. IX – sec. XX), volume di trecento pagine, di scorrevole lettura. Prese i voti sacerdotali all’inizio della Grande Guerra (nel 1944); dieci anni dopo (nel 1954) diviene parroco della parrocchia di Sozzigalli di Soliera, terra di lambrusco, fino alla fine dei suoi giorni. Nella sua vita artistica ha prodotto oltre duemila dipinti ben accolti dalla critica e da personaggi pubblici notevoli che ne hanno acquistato, i cui guadagni gli hanno permesso di comperare terreni ed altro a beneficio dei parrocchiani, come ristrutturare la chiesa, mettere su un Asilo, edificare la nuova Canonica. Domenico Defelice richiama un’opera del Canonico, “Proverbi miei e passatempi tuoi”,


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che a suo tempo ebbe a rivedere, ma che a oggi non ha visto la stampa, e che intanto egli ne pubblicava, sulla propria rivista di Pomezia-Notizie, nel 1998, la prefazione approntata, esortando oggi come allora, che non rimanesse nel dimenticatoio. Rileva, nelle opere del Pittore, chiarezza delle rappresentazioni e colori accesi, che sembrano trasudare dell’ umore dei soggetti, indicando la presenza di simbolismo, così ne elenca alcune, e lo annovera fra gli impressionisti. La tematica è varia risentendo dell’età irruente giovanile, e più avanti, della posata maturità; così si va dal “Tramonto sul mare” alla “Desolazione della terra”, dal sacro della “Flagellazione” sanguinolenta, alla maternità, alla Madonna. Ma anche a temi sociali sensibili, oggi più che mai rilevabili soprattutto nell’elemento dell’

acqua, fluida sì, ma capace di rasserenare l’ animo. Eleuterio Gazzetti è stato un sacerdote concreto come uomo, limitandosi alla pubblicazione di quattro sillogi e di quattro saggi, lasciando in disparte il poeta in sé e lo studioso che era; propendeva per la pittura, più che altro, perché gli consentiva delle entrate per vivere e per la parrocchia; sapeva che la poesia non gli avrebbe permesso di coprire nemmeno le spese di stampa. Per ognuna delle sillogi, il Nostro in maniera diretta, fa un’analisi da cui emerge la semplicità d’animo e la capacità di sorridere ai bambini, come pure temi in cui dominano la fede, il sociale, il tormento dell’anima e l’anelito all’eterno, che si riflettono nella natura “specchio del divino”. Nel contempo le note critiche mettono in eviden-

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za l’evoluzione stilistica che va dall’iniziale metro classico con rima, fino all’abbandono della stessa, ma sempre coerente con il dettato poetico. Le lettere trascritte, nella loro interezza, riportano l’iniziale recapito postale del Nostro, di Roma, e a partire dal matrimonio, nell’ ottobre del 1970, con il recapito attuale di Pomezia. Sono meno di una cinquantina, compresa una sola lettera superstite del Nostro del 1971, riguardante la sua disapprovazione nei riguardi di un certo dott. Carloya, perché maldisposto verso i meridionali. La corrispondenza risulta conviviale, passa tra il ‘tu’ del più anziano, al ‘don’ del giovane, i cui argomenti riguardano piani di lavoro, opere pittoriche, confidenze sulla ristrutturazione della vecchia Canonica e cenni sulla precaria condizione economica del Nostro e sulle sue doti intellettuali che certamente la Provvidenza avrebbe premiato; ma soprattutto progetti letterari, così, incidentalmente, assistiamo alla nascita della rivista fondata e diretta da Domenico Defelice che ha ospitato più volte recensioni e poesie del sacerdote (nel 1973). Gazzetti è riconosciuto, attraverso le bibliografie specializzate, pittore di talento, i cui quadri vengono quotati sul mercato; il suo impegno profuso nelle mostre gli ha dato i meritati frutti. Essere recensito favorevolmente dal celebre scrittore Marino Moretti, è come respirare una boccata d’ossigeno; ma anche altri scrittori-critici se ne sono interessati, come Francesco Fiumara direttore de La Procellaria, cui Defelice collaborava, Nino Ferraù direttore di Selezione Poetica, Franco Saccà, Raffaella Frangipane, Solange de Bressieux. Le Lettere di don Eleuterio Gaz-


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zetti dirette a Domenico Defelice, ci fanno entrare nella quotidianità delle loro vite; lo fanno senza retorica, ci restituiscono la dimensione umana concreta dei due uomini, artisti-scrittori, il sacerdote accompagnato da una salda fede, e il giovane alla ricerca di una occupazione professionale più consona da rassicurargli tranquillità economica. Don Erio, come qualche volta veniva chiamato, lamentava la mancanza di tempo; scriveva: “Ogni tanto, vengono alla mia canonica giovani scrittori e poeti per chiedere aiuto nella correzione o revisione di opere da stampare” (27.1.1965), dividendosi fra i vari impegni personali e l’ufficio pastorale. In quanto a se stesso, alle sue poesie, assicurava: “sono pensieri, stati d’animo, conclusioni di meditazioni, perciò non era tanto da cercare l’ispirazione poetica, quanto il concetto e lo

stato d’animo nel cammino quotidiano dell’ uomo” (6.6.1968). Sono lettere prive di retorica, ma tanto ricche di insegnamenti, che dovremmo tenere sempre presenti; come, per esempio, in merito alla recensione essa deve avere i seguenti requisiti: “deve dire qualcosa di vero (e bisogna leggere il libro), di saggio (e bisogna assimilarlo, per entrare nell’ animo e nella mente dell’artista che scrive) e di utile (e perciò ci vuole riflessione)” (5.5.1973). Del Defelice scopriamo la data del matrimonio (1970), il nome della moglie (Clelia), assistiamo di striscio alla nascita dei figli. Percepiamo la sintonia fra i due, che hanno in comune origini operaie, entrambi cresciuti fra ristrettezze economiche, accomunati dalla passione letteraria e da quella pittorica; passione, quest’ultima, che in parte si evince da

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un’opera del Defelice citata nel corso della corrispondenza, “Andare a quadri”. Le Lettere emanano calore, trasudano d’ansia, lasciano riflettere noi lettori delle tante aspettative che in particolare gli artigiani della penna ripongono nelle loro fatiche. Ma rimane anche il timore che le attese vengano deluse, proprio da quelli che dovrebbero mantenere un rispettoso dovere; la preoccupazione che quello che viene considerato “balsamo per l’anima”, venga ignorato; senza con questo volere fare delle gratuite lusinghe. Ansia che ritrovo in altre precedenti carteggi di cui si è occupato Defelice (p.es.: de Bressieux, Paul Courget, Nicola Napolitano; scomparsi da qualche anno; per non citare il suo “Diario di anni torbidi”). Domenico Defelice aveva dedicato spazio sulla rivista Pomezia-Notizie, ad Eleuterio Gazzetti cantore della Valpadana, come il titolo richiama, poeta e pittore, fin quando nel 1998 gli è stato richiesto da Oddo Casalgrandi, nipote del sacerdote, tutto il materiale di cui era in possesso; interrogandosi sul perché sia stato il nipote e non il sacerdote a fargli la richiesta della restituzione; tuttavia credo che auspichi che esso non marcisca in qualche scantinato. Qui il Nostro, sicuramente, pensa, con gran dolore, ai tanti amici poeti, scrittori,


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artisti, le cui opere inedite o lasciate dopo la loro dipartita, rimangano nel dimenticatoio, o peggio, vengano distrutte. Credo che l’intero materiale del carteggio, costituisca oggetto di riflessione ed una fucina per molti militanti. Tito Cauchi Immagini in sequenza: Eleuterio Gazzetti “Studio per nudo” (1967), olio su tela 30 x 40; “Paesaggio” (1965), olio su tela 30 x 40, proprietà Iannitto Antonio, Campobasso; “Tramonto sul fiume” (1980), olio su tela 40 x 50, proprietà Dorando Mugnaini, Pomezia (RM); “Natura morta con cocomeri” (?), olio su tela 30 x 60; “Paesaggio” (?), olio su tela 40 x 50; “Studio per figura” (?), olio su faisite 31 x 40,50; qui sotto: “Strada lungo il fiume” (1963), olio su tela 40 x 50.

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furente sui visi estasiati. Dall’involucro sfogliato la crisalide dell’amore balza dentro il trasparente velo aleggiando. I sarmenti proiettano le fiammelle per essere i pronubi felici in questo momento. Primavera degli anni e dei sensi, la gioia dei verdi fiori, labbra pregne di nettare. In rituale congiunzione come per trasfondere da un calice all’altro, le mani vanno sulla pelle fine del corpo amico. Miro la corteccia lucida rovente, le lingue bluastre ribollono, gli scoppiettii lesionano i ceppi in frammenti di carbone. Il languore fisico diventa desiderio, friggono i pensieri, fiammeggiano gli umori. Leonardo Selvaggi Torino

SPIRITO GUIDA

INNOCENTI BRAME Caricati i tizzoni, la fiamma inghiotte la bracciata di sarmenti, si amplia il cerchio luminoso nella cucina acre di fumo. Una festa: gli steli secchi cadono sul mucchio di brace, una vampata in orgasmo attorno alla catena del focolare. Sulla parete un gioco di figure; i riflessi agitati fanno ombre sagomate intorno. Le prime innocenti brame si destano dalla membrana tenue dei boccioli; i rossi petali apparsi subitanei ai raggi dell’adolescenza in un’accensione

Detti le parole, poesie crescono come asparagi selvatici, tra fitte canne su acquitrinosi suoli. Riverberi di luce all’ultimo crepuscolo intrecciano storie, illusioni vivono. Non si può spiegare… La mente è sgombra la mano scrive, un fiume in piena, non si può arrestare. Chi sei? Un presentimento… Un’ entità che m’ amò ed io ho amato. Un tenue sussurrar che si fa presente e ancor ci unisce. Colombo Conti Albano laziale


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I POETI E LA NATURA - 46 di Luigi De Rosa

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“NATURA La terra e a lei concorde il mare e sopra ovunque un mare più giocondo per la veloce fiamma dei passeri e la via della riposante luna e del sonno dei dolci corpi socchiusi alla vita e alla morte su un campo; e per quelle voci che scendono sfuggendo a misteriose porte e balzano sopra noi come uccelli folli di tornare sopra le isole originali cantando: qui si prepara un giaciglio di porpora e un canto che culla per chi non ha potuto dormire sì dura era la pietra, sì acuminato l'amore.”

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

“NATURA“: UNA POESIA DI MARIO LUZI ( 1914-2005)

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ià prima di Cristo, e anche prima di Socrate, nella Fisica dell'antica filosofia greca, si erano individuati ed evidenziati i Quattro Elementi fondamentali, e cioè la Terra, l'Acqua, l'Aria e il Fuoco. Questi erano gli elementi costitutivi di quella complessa realtà materiale rispondente al concetto di Natura (in greco, Fùsis). Secoli e secoli dopo, il poeta italiano Mario Luzi, nato a Castello di Firenze il 20 ottobre 2014 ( e morto a Firenze il 28 febbraio 2005), ci propone i Quattro Elementi insieme nel contesto di un'unica poesia, il cui titolo è, appunto, Natura. La riporto integralmente per gli amici lettori che, per caso, non l'avessero letta:

Certo, ci troviamo davanti ad un testo alquanto difficile da decifrare, che tende fra l' altro a dimostrare che la Natura è e rimane un mistero. Terra e mare sono concordi, e sovrastati da un altro mare, quello dell'aria, nel quale navigano i passeri, veloci e guizzanti come la stessa aria, e come il Fuoco. Un Mistero materiale dove tutto assume una valenza spirituale, dove si vive l'amore e si vive la Vita, che in sostanza non si distingue dalla Morte. È una questione di alternanza di momenti e di situazioni, di veglia e di sonno, di presente e di passato, che vede il tramutarsi di dolci corpi (la vita materiale, fisica, non manca poi di attrattive affascinanti!) in voci che scendono, in porte misteriose, in uccelli folli, in giacigli di porpora... È un linguaggio arcano e misterioso come la realtà che vuole evocare. È un linguaggio ermetico, come è ermetica la poesia di Mario Luzi. Dopo il Liceo classico “Galileo” di Firenze, Luzi si era laureato all'Università di Firenze in Letteratura Francese, discutendo una tesi su Francois Mauriac (e pensare che all'inizio avrebbe dovuto iscriversi a Giurisprudenza!). La sua firma era apparsa poi sulle pagine di Riviste come Paragone, Campo di Marte,


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Letteratura, Frontespizio. A Firenze aveva frequentato autori e studiosi appartenenti all' area della poesia e della saggistica dell'Ermetismo. Ricordiamo Oreste Macrì, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi, Leone Traverso. Senza dimenticare un grande critico ligure, Carlo Bo. Sarebbe estremamente interessante, ma troppo lungo, esaminare in questa sede la produzione poetica di Luzi, che si estende dal 1935, con la silloge La barca, fino ad Avvento notturno, a Quaderno gotico, e, nel 1978, ad Al fuoco della controversia, libro vincitore del Premio Viareggio. Luigi De Rosa

FACCE RIGIDE METALLICHE Fuori della casa che si stringe con peso di monotonia. Rinserrati in una gabbia, faccia contro faccia, stridente l’ingranaggio ha interruzioni. Per gite e sollazzi in liberi moti, in individuale staccata posizione. La casa immota con idee burocratiche e gli eccitati conteggi di divorzio. Acrimonia dentro battagliati raffronti. Tacchi grossi estraniati trascinano in insolente indipendenza inguine e pube fervidi di acida lussuria. Facce rigide metalliche di livore. Per campi all’aperto si libera la morsa irritabile. Il malumore si insacca in ogni vuoto dell’animo fra le pareti mute ossificate. Compresso spazio che non si apre a morbidezze per rompere asprezze con chiari e dolci eloqui. Il calore divenuto spine, isterilita la sentimentale vita, scomposto il nido domestico vivo di ansie e di espansione, di vasi comunicanti e di linfa di ramo in ramo. Leonardo Selvaggi

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Recensioni SANTO CONSOLI ANELITO D’INFINITO Edizioni “Il Saggio”, Eboli (SA) 2015, Pagg. 38 Santo Consoli ha una voce instancabile che alle falde dell’Etna fa eco dai ventricoli del vulcano (mi prendo la libertà di una metafora). Il poeta siciliano (classe 1946) affida a un libro bifronte la raccolta Anelito d’Infinito, su cui sostiamo, ripromettendoci di soffermarci in altra occasione, sull’altra faccia (‘Il nostro cammino’). Giuseppe Barra, nella presentazione alla silloge, assicura della genuinità del nostro Poeta, che provoca al critico stesso nostalgia per un tempo in cui non seppe pronunciare quelle stesse parole del poeta, alla persona amata. Noi proviamo a varcare questa soglia di infinito. In un verseggiare libero da canoni metrici, le parole possono riferirsi tanto all’amata, quanto ad altra figura in un sentimento che va oltre l’umano. Tuttavia sostando sulla prima figura, perché mi sembra più congeniale, mi pare che il contatto o la vicinanza dell’amata è, per il Poeta, come un’acqua sorgiva, fresca e tonificante; entrambi i cuori custodiscono memorie della bellezza che si perde al loro sguardo. Forse adesso si tengono per mano giungendo al loro nido d’amore; ma in un idillio, che mi pare incerto. Santo Consoli, per sua natura di poeta, trasfonde i sentimenti in poesia, dentro se stesso, ed è una emozione che lo fa rinascere. Rivive perciò il fascino di un incontro, immaginando di essere atteso dall’amata in una terra pronta ad accoglierli ed entrambi trasformarsi in farfalle che si posano sui fiori. Come amanti sfidano il silenzio della notte, tra-


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sformando tutto in un eden che rappresenta il loro palcoscenico della vita, un amore variopinto nelle alterne fasi della quotidianità. Nel componimento eponimo pensiamo che l’ amore si sublimi in qualcosa di sacro “Il mio cuore continua a battere/ nella culla della Tua mano./ È stato chiamato/ sotto le ali dell’Amore,/ e le mie vele vanno, spiegate,/ verso la luce dell’orizzonte,/ nell’anelito dell’Infinito.” In uno scambio osmotico di luci e di colori fra gli amanti, in un divenire che si rinnova ad ogni alba, le due voci si cercano e si ritrovano nella certezza che il loro legame vada oltre gli orizzonti, nella certezza che la loro unione sia senza termine: “Noi due,/ cuori tremanti,/ custodi di eterne memorie,/ negli archi solitari/ del nostro infinito!” (pag. 6 e pag. 26). La poesia di Santo Consoli è intima, non intimista, nel suo manifestarsi ha un interlocutore etereo ovvero poliedrico; così nel suo palcoscenico metaforico della vita, come mi pare di intendere, non poteva mancare il sipario quale tela per il pittore o quale foglio chiaro su cui vergare versi. Il Nostro si sente come un poeta bambino in attesa di una carezza, in attesa che l’amata si ripresenti nelle sembianze della primavera dove l’amore nelle sue molteplici forme affettive, innalzi un inno alla vita, un inno alla sua musa. In ultima riflessione, mi pare che Consoli, in Anelito d’Infinito, si identifichi in un tutt’uno con Poesia, Musa, Amore, forse perdendo contatto con la realtà. Tito Cauchi

MARIA GRAZIA LENISA LETTERE Il Croco, I quaderni letterari di POMEZIANOTIZIE, luglio 2015. Il nome di Maria Grazia Lenisa (confesso la mia ignoranza) era l’unica cosa a me nota della poetessa friulana. Nome che per anni ho letto a firma di sporadiche liriche pubblicate in riviste varie, sbirciate appena – le liriche - con l’attenzione che ti può insorgere quando sei al cospetto di calderoni cartacei ripieni di insulse stupidità in abbigliamento letterario. Oggi che in Il Croco ne leggo l’epistolario intercorso col direttore di Pomezia-Notizie, lo scrittore Domenico Defelice, provo il rammarico di non avere mai avuto la possibilità di leggere – di Lei ancora in vita – una raccolta, almeno una, delle tante pubblicate e gratificate da premi di dimensione nazionale, che mi consentisse di approcciarne direttamente la poetica senza la deleteria, fuorviante interferenza di oscuri quanto maldestri compagni di pagina.

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L’epistolario (che il Defelice farebbe bene in un futuro prossimo a ripubblicare corredato delle lettere sue alla poetessa) rende testimonianza di un sottosuolo culturale ricco di radici classicistiche, dai lirici greci agli elegiaci latini; di una sensibilità umana viva, profonda, spiritualmente - direi - ipertesa; di una voglia inesauribile, infine, di partecipare in pienezza e con gioia alla festa della vita. E le pagine finali, dove la donna, mortificata nella sua femminilità, fronteggia il male che l’ha proditoriamente aggredita espropriandola della bella chioma, così folta un tempo, e bruna, veicolano un sentimento di religiosità popolare che ne ingentilisce viepiù la personalità conferendole tratti di francescana, fiduciosa letizia ed umiltà. Aldo Cervo

TITO CAUCHI PALCOSCENICO Editrice Totem, Lavinio Lido (RM), 2014, pp 64, € 10,00 Tito Cauchi, nato a Gela nel 1944 e abitante a Anzio (Roma), continua il suo tracciato in poesia, raccogliendo in volume tante sue poesie pubblicate negli anni su antologie e riviste, unificandole sotto il titolo di Palcoscenico, dove, come accade nella vita, si porta in scena il bello e il brutto del nostro vivere quotidiano e che parla del modo di condurre e di rapportarci con l’esistenza, a livello personale e comunitario, sociale e umanitario globale. Una poetica di sentimento, di travaglio interiore, ma anche di coscienza storica e di risveglio della memoria, che il poeta Cauchi ripercorre con partecipazione e coinvolgimento, apportando il suo contributo trasformativo e creativo, espressivo e artistico. Da vero protagonista della sua vita “s’alza il sipario e io entro”, egli dice, per svolgere il suo ruolo e la sua parte, indossando di volta in volta l’elemento trasformativo più idoneo ad entrare nel personaggio da far giocare, aspettando l’applauso che ultima la comparsa e richiude il sipario, nella consapevolezza che quello che si è rappresentato “è tutto vero”. Ecco il messaggio e la verità di questa intensa e colta silloge poetica, che trova unitarietà nella parola del cuore del poeta: vivere la propria vita con amore e recitandola con sincerità e umiltà, nell’ autenticità dell’espressione relazionale e comunicativa, idonea a costruire la felicità e la gioia del vivere, la bellezza dell’incontro con l’altro, con il creato, come segno tangibile di una vita ben spesa e aperta ad aggiungere il suo quantum di luce nel salto evolutivo che l’umanità è indirizzata a percorrere. “La felicità è proteiforme/ si presenta comunque la


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cerchi/ ma non si lascia addomesticare” dice il poeta, diventando il protagonista principale, che rinnova fedeltà alla poesia e con amore chiede d’essere guidato e ispirato “con passione e tenerezza”. “Natale sia tutti i giorni/ il pianeta sia casa comune”, è questo l’insegnamento del poeta che all’ umanità intera “Ti voglio bene”, dice, “Così senza aggiungere altro”, nell’impegno di trovare i giusti correttivi ad una pericolosa deriva del progresso incontrollato che avvelena la terra e infrange i sogni prima ancora di poter essere espressi (“… Noi scarti di cucina e rifiuti vegetali/ nutrivamo la terra che ci faceva da madre/ adesso imputridiamo e infettiamo l’aria …“ ; “Le foglie vorrebbero prendere le ali/ dal vento per librarsi come gli uccelli/ … quante foglie rinseccolite di alberi/ giacciono per terra e quante di virgulte/ pianticelle ancor prima di fiorire/ sono sparse senza volontà ai venti/ strappate al picciuolo ancora tenero …/ Il fruscio degli alberi … invita ad amare …” (pg 13, 18). E la storia, la nostra storia, come singoli e come società globale, se una storia la vogliamo ancora, non può che essere questa prefigurata dall’intuito dell’animo poetico “Una storia d’amore” (cfr la poesia Storia spuntata, pg 44), dove sì c’è il dolore “Vento pioggia sereno, da passare/ domani domani domani domani” (cfr la poesia Vita da pendolare, pg 48) e altro ancora, il bisogno di depredare ad esempio “come famelici lupi”; ma anche e soprattutto la capacità, tutta umana, della preghiera e del perdono (“A mani giunte preghiamo/ il perdono per esserci/ dimenticati di loro”, cfr. la poesia Amiamoci a mani giunte, pg 15), capaci di riscattarci da ogni male commesso (“Giovanna d’Arco … Accetta le mie lacrime per lenire/ le carni che ti avvampano ancora.”, cfr la poesia Jeanne d’Arc pucelle d’Orléans, 1412-1431, arsa sul rogo il 30 maggio, pg 43) e riprendere a progettare il futuro del nostro progresso, a sognare il mondo migliore che vogliamo e vederlo realizzare attraverso i colori dell’ immaginazione creativa e gli strumenti dell’arte poetica (“I poeti parlano al tramonto/ odono le onde del mare/ leggono nei petali dei fiori/ vivono l’ armonia del silenzio (…) I poeti parlano alla luna/ alle stelle al sole alle pietre/ e ascoltano tutto viaggiando/ per infiniti spazi siderali.”, cfr. la poesia Poeti d’oltre, pg 28). Grazie caro amico Tito, di questo splendido viaggio, attraverso la tua poesia, nei complessi meandri dell’animo umano, convinto, come ben tu dici nell’ introduzione del libro, che sul palcoscenico della vita “c’è chi non ha di che coprirsi”, ed è questo che fa grande la poesia e impareggiabile il talento del poeta, capaci di “capovolgimento della norma

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antropologica”, come auspica Gianfranco Cotronei in Prefazione, perché i vissuti possano essere rielaborati, per liberare inediti orizzonti esistenziali. Pasquale Montalto

MARIA GRAZIA FERRARIS IL CROCONSUELO E ALTRI RACCONTI Menta e Rosmarino Editrice. Caldana di Crocquio (VA). 2015. Pg. 164 Scrivere sulla prosa di Maria Grazia Ferraris significa introdursi in tutto il suo patrimonio ontologico; forzare la cassaforte del suo animo per scoprirne i sogni, le memorie, i propositi culturali e il profondo amore per la letteratura; concretizzarli in fatti e personaggi che si fanno corpo delle sue cospirazioni epigrammatiche; dei suoi intenti emozionali: amore, nostalgie, radici, storie, solitudini. Tutto viene rielaborato dall’anima dell’Autrice. E tutto si trasferisce sul foglio dopo una generosa decantazione. La cultura stessa, il suo profondo patrimonio poetico-narrativo, filosofico-cognitivo, è oggetto di meditazione e rievocazione. Il suo bagaglio umano e umanistico si è fatto immagine; non più semplice realtà, o momento di abnegazione di un presente circostanziato. Tutto viene filtrato, e dopo lunga macerazione i singoli elementi escono fasciati da un sentire nuovo, originale, personale, in cui il dire e il sentire si fanno forma desanctisiana. E questo è un libro di urgente forza esploratrice, in cui la Nostra offre un quadro complesso, semplicemente complesso, della sua forza narrativa, e di come riesca a imbrigliare in strutture stilistiche, morfosintattiche e creative il suo pensiero e i suoi impatti emotivi. Sedici racconti che diluiti in misure di accattivante compiutezza etimo-fonica, si reggono su una narratologia ora sobria, ora effusiva; ora ferma e apodittica; ora riflessiva e parènetica; ora nostalgica ora melanconica; su una narratologia che mai scade in sentimentalismi di bassa lega, ma che ci tiene sospesi, incalzandoci alla lettura; a sfogliare le pagine fino all’ultimo capitolo in cui “gli avvoltoi pazienti si istallavano sui tetti delle case dove qualcuno sudava l’agonia”; dove “la morte di Leclerc portò Paolina alle soglie della demenza”. Un vero amore, comunque, non solo per la cultura ma per i paesaggi della sua terra. Paesaggi rivissuti con una tenera e edenica nostalgia e che si fanno alcova rigenerante in cui la Ferraris ritrova se stessa e il suo mondo per fuggire dalle aporie di una società liquida. Gli ambienti, i fatti, i piccoli gesti vengono finalizzati a delineare il ruolo analiticointrospettivo degli attori; e la natura stessa con tutta la sua complessità fa da elemento portante nel rile-


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vare la loro interiorità. In certi momenti ci troviamo di fronte a vere proposte poetiche, a veri melologhi, o ecfrasi tanta è la musicalità delle parole che, come perle, si combinano in collane di preziosa euritmia; di vasto respiro lirico donato a versi di profonda e articolata forza strutturale: Era silenzio intorno, muto non già incantato, sospeso, respirante nella camera protetta da tende scure… La casa, quîeta, taceva. Il viso chino sui fogli, immobile ascoltavo le voci emergenti, voci mute, eppur presenti, insistite. Ferma, china sui fogli, silenziosi… Udivo profumi caldi di glicini arrampicati fuori la casa, silente. Si fondevano, come de’essere, per chi legge le voci solitarie che vengono dal di dentro misteriose. La casa ombrosa taceva trepidante, ricerca di senso nuovo da decifrare, calma sinestesia di colori e luci, silenzio traboccante dentro e fuori. La casa aspettava, taceva quieta (Viaggio intorno alla mia camera). “Io leggo… leggo, studio. Non c’è un confine preciso tra le due attività, si integrano, si danno forza e senso, nel silenzio e nella solitudine della mia camera…”. D’altronde non si deve dimenticare l’anima poetica della Ferraris; il suo messaggio intimistico che ci riporta a voli di largo lirismo, di ampio fonosimbolismo “Parafrasando Jules Renard, possiamo dire che nella casa della poesia la stanza più grande è la sala d’attesa”, sì, quella sala in cui la Nostra immagazzina realtà fenomeniche a cuocere a puntino per farsi poesia e in questo caso fluente narrazione, dacché le parole "Mostrano il loro legame con la musica...La parola nasce dal ritmo, come la musica. La poesia utilizza il ritmo in modo letterale e la filosofia, che non canta, si muove sulle tracce del ritmo e attraverso di esso vede. Vede il Ritorno. Vede l'Enigma" (Carlo Sini). Il croconsuelo e altri racconti il titolo dell’opera divisa in tre nuclei tematici: Memoria, Storia e storie, Donne. Ed è il primo capitolo che si pone come momento incipitario con valore eponimo. Un racconto di ricordi, di tempi andati riportati a memoria da un bar provvisto di pochi tavolini dell’amico di studi Gianni: DA GIANNI – PIZZA D’ASPORTO: pizza margherita, quattro stagioni, quattro formaggi… e… CROCONSUELO. Ombre di querce, giochi giovanili; castagni in boschi autunnali, mondelle (arrostite); lezioni di Gianni sull’arte culina-

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ria; la sua passione per la letteratura: melange di memorie e natura; di storia e cucina, di affetti e simpatie. Ed eccoci al titolo del testo: <<Credo però che Gianni abbia raggiunto l’apice della sua passione il quinto anno, durante gli esami di maturità. Intrattenne la Commissione su quel capolavoro che è La Cognizione del dolore del milanese Carlo Emilio Gadda, indiscusso e iroso lombardo, ma lo fece in modo molto originale, soffermandosi sul tema culinario stabilendo paragoni con la letteratura… Il gorgonzola, allora…: formaggio ben conosciuto e diffuso da noi… Gadda non lo cita col suo nome, spiegava compiaciuto (Gianni alla commissione), lo traveste in “croconsulelo”>>. Ma la vita divide come succede nella storia: Gianni era partito per una esperienza di lavoro in Inghilterra per poi tornare a fondare il suo negozietto. Fu giusto fargli una visita per parlare delle vicende di quegli anni e festeggiarlo con una cena in suo onore. Poi addii e promesse di ritorni. “Ma non prima delle sette. Il croconsuelo va consumato subito, flagrante di forno, e non ammette di essere riscaldato – rispose ironico ridendo,Gianni”. Memorie che sanno di poesia; amicizie persesi nel tempo e ritrovate a suggerire emozioni; radici di verdi primavere; di nature fresche e incontaminate rimaste da tempo a ingrossare nell’animo. <<Se gli anni fanno macerie, la natura vi semina fiori; se scoperchiamo una tomba, la natura vi pone il nido di una colomba: incessantemente occupata a rigenerare, la natura, circonda la morte delle più dolci illusioni della vita>>. “Chateaubriand dans le “Genie du Christianisme”. Nazario Pardini

MARIA MARTIGNETTI DA UNO SGUARDO CIRCOSTANTE Aletti, 2013 “Da uno sguardo circostante” è una raccolta di 14 racconti di Maria Martignetti, poetessa e scrittrice, edito dalla casa Editrice “Aletti Editore” - Villanova di Guidonia - (RM), maggio 2013, € 14,00. Sono racconti che, di là dalla fantasia, hanno una matrice di verità, di vita vissuta e rappresentano, nel loro insieme, una vera e propria denuncia. Una denuncia fatta in modo sottile con parole semplici che si diramano in vari settori del vivere quotidiano. La Martignetti non ha peli sulla lingua e va diritta allo scopo dei suoi racconti; racconti che parlano dell’immondizia ma non in forma generalizzata, più specificatamente particolareggiata perché più volte, e ne hanno parlato spesso i quotidiani di tutta Italia, l’immondizia non si accumula mai nelle strade do-


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ve vi sono politici o rappresentanti delle istituzioni. Emblematico il caso di Napoli, sommersa da tantissima immondizia, la strada dell’allora Sindaco Jervolino era sempre pulita, pulita dai lacchè e dai tanti ruffiani. Infatti, nel racconto “Solo un tratto di strada”, la scrittrice dice che due ragazzi vanno a veder giocare a tennis per una strada colma di immondizia, però in loro nasce la curiosità e la domanda del perché la strada, più avanti, ritorna lucida e pulita, pulita perché vedono una grande villa con piscina e campi di tennis, abitata sicuramente da qualche personaggio di spicco, per cui l’ operatore ecologico rivolge, probabilmente, maggiore attenzione a quel posto, mentre gli altri cittadini continuano a nuotare nell’immondizia. Il racconto “Brevi amori” mette in mostra un amore nato con forza, a prima vista, ma per una sciocchezza, una piccola incomprensione, si sfascia irrimediabilmente. Il detto “chiodo scaccia chiodo” è un detto brutto, lascia tanto amaro in bocca, ma soprattutto lascia un immane dolore per l’uno o per l’altra, senza pensare a quelli che ci rimettono di più: i figli. L’amore vero, duraturo, non esiste più, forse non è mai esistito. Nel passato c’era, dettato da una forma di educazione, un diverso modo di vivere, una società più omogenea, coesa, rivolta al bene comune, al rispetto reciproco, c’era, insomma, comprensione, e in tantissimi casi il perdono. Ecco, da questo punto di vista, l’amore durava tutta la vita anche se litigi e riappacificazioni erano all’ordine del giorno. Oggi c’è l’abitudine a non sopportare un errore dell’uno o dell’altra, a non avere quell’ equilibrio mentale caratteristico dell’uomo savio, perché il perdono non esiste più, e il divorzio è diventato una moda: non si è capito lo spirito del legislatore. Il divorzio doveva avvenire solo per situazioni complicate e difficili da redimere. No! È diventato solo moda al punto che coppie di fidanzati per anni si amano e all’indomani del matrimonio, addirittura in viaggio di nozze, si separano. Dov’era il loro amore? Ecco perché diciamo, in modo soggettivo, che il termine “amore” ha perso il suo valore, il suo significato. Tutto questo si è tramutato in possesso, perché l’uno vuole prevalere sull’altro, nascono così i contrasti e l’avventura finisce ma, considerando che la solitudine è una cattiva medicina, per forza di cose bisogna riprovare di nuovo, sperando che duri a lungo e per tutta la vita ma, purtroppo, c’è sempre un ma. Il racconto “Uno di alcuni (il bamboccione)” rappresenta la denuncia clou di tutta la raccolta. La mancanza di lavoro per i giovani, aggravata dall’offesa fatta, nei loro confronti, da chi rappresenta le Istituzioni e dovrebbe, per dovere, provve-

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dere a che i giovani, una volta lasciata la scuola, abbiano un lavoro per crearsi un’indipendenza e non gravare sulle spalle di tante famiglie, resta solo un sogno. Al danno anche la beffa. Una piaga che i governanti fanno finta di non capire e raggirano con parole di promesse senza una vera e propria realizzazione. Nulla fanno per mettere in pratica quella che dovrebbe essere la cosa primaria per una nazione, cioè, creare lavoro per tutti, perché solo così l’ Italia o qualsiasi altra nazione possa sollevarsi e dare quella vivibilità alle famiglie senza preoccupazione e senza patemi d’animo. Con il lavoro diminuirebbe anche la delinquenza, invece oggi ci troviamo di fronte a tanti farabutti, magari non lo sono mai stato, ma che per tirare avanti la famiglia rubano e, in certi casi, forse senza volerlo, ci fanno scappare anche il morto. La Martignetti, nel racconto “La diversità” mette in luce la diversità che la società, non solo italiana ma anche di altre nazioni, sta vivendo in questi ultimi periodi. I contrasti nascono soprattutto nelle scuole dove il colore della pelle crea tante situazioni di invidia e incomprensione tra i bambini, in alcuni casi fomentati anche da genitori, per fortuna però c’è sempre qualcuno dal cuore d’oro che dipana ogni matassa e dà la possibilità ai propri figli di frequentare bambini dal colore diverso. In questo racconto la Martignetti, è un nostro pensiero soggettivo, si è superata, positivamente, nella metafora. Analizzare tutti i racconti non è cosa da una sola cartella, citiamo solo alcuni titoli: “Non è un sogno”; “Un sabato notte”, “Lo scippo di un drogato”; “La ragazza Fortuna”; “L’uomo antico del sud”, ecc. I racconti della Martignetti, scritti con un linguaggio semplice, senza paroloni, penetrano nel cuore del lettore e lo mettono nella condizione di ben assimilare non solo lo scritto ma soprattutto quello che la scrittrice intende denunciare. Sono racconti che vanno letti e Maria Martignetti merita, per la sua bravura, l’attenzione e il plauso dei lettori. Ciro Rossi

MILLE STELLE La sera chiudo gli occhi per dormire e nell’oscurità vedo brillare un’infinita quantità di stelle. Penso che in una stella ci sei tu penso che in ogni stella ci sei tu e a un certo punto poi tutte le stelle


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si riuniscono in una grande luce e dalla luce viene la tua voce e il sonno in paradiso mi conduce. Mariagina Bonciani Milano

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE IL LEOPARDI DI DI LIETO - Nella nostra nota all’interessante volume di Carlo Di Lieto su Leopardi e il “mal di Napoli” (1833 - 1837) una “nuova” vita in “esilio acerbissimo” , scrivevamo, a pag. 2 del numero precedente, che l’Autore non cita alcuni saggi, per noi validi, come quello del nostro amico Angelo Manitta: “Giacomo Leopardi pessimista ma non troppo”. Il saggio di Manitta, invece, è citato in ben tre note: alle pagine 601, 797 e 885. Ce ne scusiamo con entrambi: il prof. Di Lieto e l’amico Manitta; così come citato è anche il corposo e bel saggio di Antimo Negri: “Leopardi. Un’esperienza cristiana”, in una nota a pag.765. Il carattere minuto, ormai da qualche tempo, gioca brutti scherzi ai nostri occhi sofferenti. A proposito del numero di luglio e della calorosa accoglienza del ricordo di Leopardi tramite l’opera di Di Lieto, ecco, per esempio, la testimonianza di Leonardo

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Selvaggi, da Torino: “I vent’anni di collaborazione all’attività di Pomezia-Notizie, mantenuta costantemente con inappuntabile precisione dei tempi di pubblicazione, hanno fatto conoscere i cammini di intenso progresso della qualità letteraria di una rivista di grande rinomanza nell’ambito del secondo ‘900. Piena ricchezza della varietà dei contenuti, partecipazione critica all’interpretazione delle problematicità sociali dei nostri tempi. Enorme la capacità di scelta degli scritti, oltre alla sempre più vera e concreta sua vitalità acquisita nel seguire le tradizioni culturali nazionali e internazionali. Emblematica la presenza nel numero di luglio della figura del più grande poeta di tutte le letterature Giacomo Leopardi nel saggio autorevole del direttore Domenico Defelice relativo all’opera di Carlo Di Lieto sul periodo napoletano vissuto dal sublime Recanatese. Importante il cammino di PomeziaNotizie come rivista di grande formazione, oltre che di guida sempre stata da parte dei suoi tanti Scrittori di valida capacità critica e di profondità intellettiva per acutezza, ampia e riconosciuta professionalità. Torino, 12 luglio 2015 Leonardo Selvaggi Nel ringraziare il Dott. Servaggi per la squisita testimonianza e tutti gli altri che ci hanno scritto e telefonato, ma che non citiamo, per non ridurre P. N. a un palcoscenico di elogi, preghiamo i Collaboratori, che ancora non lo facessero, a inviare, in futuro, i materiali tramite e-mail, perché i nostri occhi non ci permettono più sforzi per ribatterli al computer. Facendolo, si evita il cartaceo, con risparmio di cellulosa e, inoltre - che non è poca cosa -, della spesa postale, sempre più onerosa, diciamo scandalosa, in rapporto a un servizio tra i più pessimi del mondo. D. Defelice *** LE LETTERE DELLA LINISA: PERLE DI RARA BELLEZZA - E-mail del 20 luglio 2015 dalla giovane lettrice laureanda Claudia Trimarchi: Carissimo Domenico, (...) Ho ricevuto le lettere della Lenisa; non sono ancora riuscita a leggerle tutte! Non si tratta infatti, come all'apparenza potrebbe sembrare, di una lettura "leggera"...meritano tempo e attenzione, perché contengono, sparse qua e là, perle di rara bellezza che assumono maggior valore nella misura in cui sono inserite in una scrittura "privata", non sono cioè pensate per la pubblicazione ma spontanee, a ribadire una vocazione autentica della Lenisa (e del suo interlocutore) per la Poesia, necessaria come l' ossigeno nell'aria per respirare: "poter creare poesi-


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a, non solo scrivendo, ma vivendo, è il massimo delle nostre aspirazioni. Ci sono anche nella vita quotidiana momenti di stupore magico, per cui un mondo prima grigio, deserto, profuma di gelsomini"..."Noi, con la poesia costruiamo il nostro spirito, senza di essa "moriamo"..."Non ci sono prigioni più vere di quelle dell'anima che non si accetta nella sua infinità libertà (...) Ama dunque la vita, le creature, le cose, portale in te, come un tesoro da "cantare" in quelle ore in cui viaggi nella città di te stesso ai confini con l'assoluto"..."La diagnosi della tristezza è fin troppo ovvia: si finisce per perdere la capacità di vivere gli affetti più cari (...) Più ci si estranea dall'armonia, più tutto è assurdo come un debito che si continua a pagare, in ragione di una gioia dispersa che si fu incapaci a custodire"..."La mia solitudine è un regno (...) Il mio disco gira stupendamente la Sua musica in una stanza abbandonata. Qualche volta è udito nelle Sue note più vicine: da qui l'amicizia. Ma l'amore è nell'anelito socratico: ciò che non si ha, non è vero? "Averla quella cosa per non amarla più"... "Sono poesia inerme, che passa attraverso la Storia (...) Io non concilio col potere, sono sempre Antigone contro Oreste"..."la croce del successo è pesante ed io, ad esempio, preferisco un fiore"("essendo l'esser compresi il premio più ambito!")..."La poesia basta a se stessa"..."ciò che è valido, parla da sé e il vero successo dell'opera è l'opera stessa, la sua vita"..."Non sono io a dirti che vale, ma tu prima devi esserne convinto. (...) Continua la tua opera di poeta; alcuni sono troppo pieni di se stessi e le parole vanno a peso...che t'importa? Forse non eri lieto di aver fatto l'opera? Ricorda la gioia di essere poeta un po’ come gli uccelletti che cinguettano"... "La mia fortuna è proprio la gioia di scrivere che mi ha accompagnata attraverso tanti dolori"..."La poesia è così misteriosa che niente è definitivo, è come un riflesso di paesi nell'acqua (...) Ma quale miglior scrigno per la perla se non il cuore di un vero amico che si fa contenitore di poesia o qualcosa che Le somigli?"... Bellissime... peccato che la tua voce si ascolti solo "di riflesso" (...); sarebbe stato magnifico il carteggio completo, e senz'altro più semplice anche per i lettori la fruizione... La figlia Marzia, che ha curato la presentazione, non ha modo di risalire alle tue lettere? Sicuramente, la Lenisa le avrà conservate da qualche parte... (...) Scusami per le eccessive citazioni di questa mia...non riuscivo a rinunciare a nessuna! Un abbraccio, Claudia Claudia Trimarchi è una giovane che frequenta la Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università di Ro-

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ma Tor Vergata, in procinto di laurearsi, forse nell’ottobre prossimo. Da tempo la invitiamo a collaborare col nostro mensile, perché abbiamo notato, in lei, una rara capacità di leggere e penetrare opere di poesia e prosa, l’attrazione a far suo il mondo volta per volta contenuto in un volume, il dono di commuoversi. Speriamo ci dia retta; in lei vediamo una brava, geniale investigatrice di opere letterarie. Grazie, Claudia, qualora ti deciderai di far parte della grande famiglia di Pomezia-Notizie. Ti aspettiamo, dopo la laurea. Domenico

*** BATTESIMO DI VALERIO - Sabato 27 giugno, alle ore 17, a Pomezia, nella chiesa di Santo Isidoro Agricoltore, da

poco completamente rifatta - località Santa Procula -, il piccolo VALERIO


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ha ricevuto il sacramento del Battesimo dal parroco Don Giuseppe Di Savino. Madrina e padrino i giovani Rosaria Costa e Luca Defelice. A far da cornice, per un momento così solenne e gioioso, oltre a mamma e papà - Emanuela Vignaroli e Stefano Defelice -, le due coppie di nonni e nonne, la bisnonna della famiglia di Emanuela e una folta schiera di parenti che, tutti insieme, hanno poi festeggiato fino a tardi in un locale sulla spiaggia della vicina Torvajanica.

Domenico Defelice - Scaffale (1964)

LIBRI RICEVUTI GIUSEPPE LEONE - D’in su la vetta della Torre antica. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce - Edizioni Il Menabò, 2015 - Pagg. 142, € 16,00. Dopo il saggio “Silone e Machiavelli” (2003) e altre composizioni poeticomusicali scritte in collaborazione con il critico musicale Roberto Zambonini, fra cui: “LeopardiMozart” (2008), “Silone-Puccini” (2009), “Mazzini-Mozart” (2011), “Gadda-Malher” (2012), Giu-

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seppe Leone propone un confronto fra Giacomo Leopardi e Carmelo Bene. Partendo da un luogo emblematico come la torre (quella Campanaria di Recanati che rimanda al “Passero solitario” di Leopardi e degli Asinelli di Bologna che evoca la “Lectura Dantis” di Carmelo Bene), Leone legge l’opera dei due grandi attraverso i contrasti “scrittura/oralità, silenzio/voce, significante/significato”, che furono alla base delle performance teatrali dell’artista salentino, ma che non sono stati meno determinanti nello sviluppo dell’opera leopardiana. Una lettura attenta e puntuale che il critico conduce attraverso un andirivieni di comparazioni fra analisi testuali e testimonianze biografiche e autobiografiche, che rivelano inospettate similitudini fra due geni che perseguirono l’identico fine di orientare la poesia e il teatro nel segno della voce, nel tentativo di strapparli al silenzio della scrittura. Giuseppe LEONE si è laureato a Pavia nel 1973 in Lettere Classiche, ha insegnato letteratura italiana e storia nelle scuole superiori. Ha pubblicato i saggi: “Ignazio Silone scrittore dell’intelligenza” (1978), “Silone e Machiavelli. Una scuola che non crea... principi” (2003), “La poesia di Carlo Del Teglio” (2003), “L’ottimismo della conchiglia. Il pensiero e l’opera di Giuditta Podestà fra comparatismo e europeismo” (2011). Ha curato: “Carlo Del Teglio, Il ricamo della Regina” (2012), “Carlo Del Teglio, Tutte le poesie” (2014). È autore anche di romanzi e opere teatrali. Vive e lavora a Lecco, dove collabora con riviste letterarie nazionali e internazionali e con il Centro Studi Ignazio Silone di Pescina. È direttore artistico dell’associazione culturale “Il Menabò”. ** SERENA SINISCALCO - Il Poesiario X - Prefazione di Sandro Gros-Pietro; in appendice, giudizi critici di Pasquale Balestriere, Giannicola Ceccarossi; Postfazione di Maria Ebe Argenti; in copertina, a colori, foto di Elena Siniscalco; in quarta, sempre a colori, foto dell’Autrice - Genesi Editrice, 2015 - Pagg. 104, € 20,00. Serena SINISCALCO è nata a Milano. Dopo il Liceo Classico - al G. Carducci di Milano - si è laureata alla Facoltà di Farmacia a Pavia. Sposata con 4 figli. Vedova dal 1985. Conosce Inglese e francese. Titolare, dal 1972 al 1976, della “Eco” Galleria d’Arte contemporanea di Finale Ligure (SV). Dal 1972 fondatrice e presidente del Premio Internazionale di Poesia “Streghetta”. Ha viaggiato e soggiornato in diverse nazioni; ha portato la poesia anche sulle navi di crociera. Ha vinto Premi importanti. E’ stata inserita in numerose antologie e in Storie della Letteratura Italiana. E’ socia di molti Centri, anche di Centri universitari. Ha pubblicato, uno ogni anno, ben nove volumi de Il Poesiario: 2005, 2006, 2007, 2008,


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2009, 2010, 2011, 2012, 2013. Si sono interessati di lei, e della sua opera letteraria, poeti, scrittori e critici di chiara fama, in Italia e All’Estero. Nell’ ambito del Premio Stregetta viene assegnato anche la “Laurea Apollinaris Poetica”, che, con il 2013, è stata assunta in onere dalla Università Pontificia Salesiana, con la celebrazione presso l’Aula Magna della stessa Università, all’interno della Facoltà di Scienze di Comunicazione Sociale, in piazza dell’ Ateneo Salesiano 1, Roma. ** ANTONIA IZZI RUFO - Raccontarsi - Presentazione di Marco Delpino; in copertina, a colori, “Megaliti (Menorca)”; in quarta, sempre a colori, foto dell’Autrice - Edizioni Tigulliana, 2015 - Pagg. 52, € 10’00. Antonia IZZI RUFO, insegnante in pensione, laureata in Pedagogia, è nata a Scapoli (IS) e risiede a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta (IS). Tra le sue tantissime opere (saggi, poesia, narrativa), ricordiamo: “Piccolo caotico zibaldone”, “La nonna racconta”, “Castelnuovo e il brigante Centrino”, Di tutto un po’, streghe, malocchio e fatture”, “Un posto chiamato Scapoli”, “Gira la ruota del tempo”, “Volando... Sognando...”, “Ho conosciuto Charles Moulin”, “Ricordi d’infanzia, ricordi di guerra”, “Quando la Musa è con noi”, “Tristia - Ovidio”, “Perdonami, Galdino”, “I colori dell’anima”, “Le novelle della Pescara”, “Saffo, la decima Musa”, “Senderos de azul, Sentieri d’azzurro”, “Voli nei sogni”, “Pensieri per te”, “La Ginestra di Leopardi”, “Riscopriamo Mimnermo e Solone”, “Continuano a chiamarmi la Maestra”, “Les couleurs de l’âme - I colori dell’anima”, “Emozioni”, “Profumi”, “Una rivisitazione di Virgilio”, “Omnia vincit amor L’amore vince ogni cosa”, “Intus”, “Meraviglioso mare”, “Passi leggeri”, “La Vita Nuova di Dante”, “Enrico Marco Cipollini e le sue opere”, “La mia vita con te”, “Pasquale Vecchione e la Capitale della zampogna”, “Lamento dell’animo”, “Ritorno alla terra”, “Ricondurre ad unità”, ”Donna”, “Catullo”, “Io, natura e amore”, “Azzurro”, “De Profundis”, “Ti cerco”, “29 racconti”, “Miraggio”, “Aldo Cervo e gli odori della terra”, “Il poeta e l’emozione”, “Stralci di vita”, “Dolce sostare”, “Dilemma”, “Flusso di coscienza”, “Desideri”, “Mi manchi”, “Perché tu non ci sei più”, “Felicità era...”, “Scapoli e il suo dialetto”, “Paese”, “Castelnuovo, paese di canti e di suoni, di miti”, “Voci del passato”. Lavori e saggi critici sull’Autrice: “Antonia Izzi nella Critica” (Volume I), “Antonia Izzi Rufo nella Critica” (Volume II), Enrico Marco Cipollini, “Invito alla lettura dell’opera di Antonia Izzi Rufo”, Leonardo Selvaggi, “Nelle opere di Antonia Izzi Rufo Poesia e Tra-

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dizioni”, Aldo Cervo, “Antonia Izzi Rufo tra soggettivismo lirico e neorealismo”. AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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