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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 23 (Nuova Serie) – n. 9 - Settembre 2015 € 5,00

LILLI GRUBER EREDITÀ di Giuseppe Giorgioli

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ILLI Gruber è autrice di diversi best sellers tra cui ricordiamo Chador, America Anno zero, Figlie dell’Islam, ma è nota al grande pubblico soprattutto come giornalista. Dal 2008 conduce su La7 il programma di approfondimento Otto e mezzo e, oltre ad essere stata il primo volto femminile del telegiornale Rai delle ore 20, ha seguito da inviata Rai i principali eventi internazionali, dalla caduta del Muro di Berlino, ai conflitti in Iraq. Ha viaggiato praticamente in tutto il mondo ma non ha mai dimenticato le sue radici, ben salde in Alto Adige, regione splendida e travagliata che essendo terra di confine è stata teatro di tensioni e contraddizioni. Il ritrovamento del diario della sua bisnonna Rosa “dal viso aperto e generoso, illuminato dagli occhi azzurri” nella avita casa di famiglia a Pinzon, “minuscolo villaggio del Sudtirolo” nella Bassa Atesina, sulle alture che dominano l’Adige, offre alla giornalista lo spunto per scrivere


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All’interno: Bene e male di un regime, di Roberto Gervasio/Pier Franco Pingitore, di G. Giorgioli, pag.4 Giuseppe Leone: D’in su la vetta della Torre Antica, di Domenico Defelice, pag. 6 Nino Di Paolo: Le 14 stazioni della misericordia, di Rossano Onano, pag. 8 Gianni Rescigno in un saggio di Antonio Vitolo, di Luigi De Rosa, pag. 11 Ferruccio Brugnaro: Le follie non sono più follie, di Domenico Defelice, pag. 14 Francesco Paolo Michetti, di Ilia Pedrina, pag. 16 Rossana Pavone: Non come te, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 20 La Genova di Giorgio Caproni, di Luigi De Rosa, pag. 23 L’intelligenza indistruttibile, di Leonardo Selvaggi, pag. 25 Il primo leccio nel vasto orto di Abramo, di Rossano Onano, pag. 28 I Poeti e la Natura (Giosuè Carducci), di Luigi De Rosa, pag. 31 Notizie, pag. 43 Libri ricevuti, pag. 45 Tra le riviste, pag. 46

RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (Respiri, di Carolina Cigala, pag. 33); Tito Cauchi (Il nostro cammino, di Santo Consoli, pag. 34); Tito Cauchi (Lettere, di Maria Grazia Lenisa, pag. 34); Aldo Cervo (Voci del passato, di Antonia Izzi Rufo, pag. 36); Carmine Chiodo (Volo a metà, di Filomena Rago, pag. 36); Elisabetta Di Iaconi (Là, dove pioveva la manna, di Imperia Tognacci, pag. 37); Giovanna Li Volti Guzzardi (Lettere, di Maria Grazia Lenisa, pag. 38); Pasquale Montalto (Un viaggio lungo 152 anni. Il “Lucrezia Della Valle” da scuola normale a Liceo, a cura di Loredana Giannicola, pag. 39); Nazario Pardini (Là, dove pioveva la manna, di Imperia Tognacci, pag. 40); Ciro Rossi (Il mio Abruzzo, di Vincenzo Del Giudice, pag. 41). Giuseppe Mallai, di Domenico Defelice, pag. 48 Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Ferruccio Brugnaro, Domenico Defelice, Filomena Iovinella, Antonia Izzi Rufo, Eloisa Massola, Adriana Mondo, Adolf P. Shvedchikov, Leonardo Selvaggi

questo libro in cui grazie ad un paziente lavoro di ricerca, intrecciando testimonianze, documenti, lettere e memorie, ricostruisce in forma romanzata la storia della sua famiglia e di conseguenza di un periodo storico che vede questa regione e l’Europa travolte dalla fine dell’Impero Asburgico e da due guerre mondiali. La scrittura di questo libro ha richiesto oltre due anni di lavoro di documentazione, coadiuvata dal marito Jacques Charmelot. Il libro è composto da un’introduzione (dal titolo: ”La lacerazione”), da 19 Capitoli e da un Epi-

logo (“L’ultima pagina di Rosa”). Quando comincia questa storia, il Sudtirolo fa parte da sempre dell’Impero Austro ungarico. Il 3 novembre del 1918 è stato firmato l’ armistizio, a Villa Giusti, nei dintorni di Padova. In seguito a questo accordo l’ imperatore Carlo I dovrà rinunciare anche al Sudtirolo. Una terra che per Rosa Rizzolli, nata nel 1877 come Tiefenthaler, bisnonna di Lilli Gruber, è la Heimat, la sua patria, una regione la cui popolazione parla il tedesco. La dinastia dei Tiefenthaler si è esaurita per


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le morti precoci dei 6 maschi su sedici figli di Johann Tiefenthaler; l’uniche eredi sono due donne, di cui una è Rosa, che erediterà un vastissimo territorio. Rosa è innamorata di Jakob Rizzolli, che è un nullatenente in quanto le sostanze dei Rizzolli sono andate al fratello maggiore di Jakob. Johann, il padre di Rosa si oppone strenuamente al matrimonio di sua figlia Rosa con Jakob. Dopo numerose preghiere Johann dà il consenso alle nozze inviando una lettera piena di dure condizioni per il suo futuro genero Jakob. Tale lettera mi ha colpito perché evidenzia la mentalità di quel tempo nel Sudtirolo. Rosa si sposerà l’8 aprile del 1902. Lilli fa notare che lei stessa nel 2000 a quasi un secolo di distanza ha celebrato il suo matrimonio con Jacques Charmelot. Il capitolo 3 “La morte di un patriarca” è importante perché si parla di due problemi: uno è l’irredentismo italiano nelle regioni da Innsbruck al Sudtirolo - vengono descritti episodi di violenza - e l’altro è il problema dell’eredità che spetta in ogni dinastia al primogenito maschio, una regola che risale addirittura al VI secolo. La logica sta in questo: suddividere in parti uguali, specie nelle famiglie numerose, nessuno avrebbe potuto vivere in modo dignitoso dei proventi delle proprie terre. Rosa dopo tre figlie femmine ha un figlio maschio di nome Josef-Johann in modo da assicurare la discendenza per l’eredità dopo la morte di Johann Tiefenthaler. Nel Capitolo 4 “Il testamento perduto” si cerca di trovare il testamento di Johann Tiefenthaler, ma invano, anche la cassaforte fu trovata vuota! A Rosa e la sorella Luise spetta la maggior parte dell’eredità, alle altre sorelle viene offerta una compensazione in denaro. Viene fatta una stima dell’intero patrimonio, che risultò ammontare a 850.000 corone d’oro. La terra di Pinzon sarà assegnata a Rosa. Nel capitolo 5 Rosa va a Innssbruck per venerare l’anniversario della morte di Andreas Hofer che fu condannato a morte dai francesi in quanto era per l’indipendenza del Sudtirolo, che fu diviso durante il Regno di Napoleone. Nel capitolo 6 si parla dello

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scoppio della prima Guerra Mondiale e del tradimento dell’Italia verso i tedeschi. Viene descritta, fra l’altro l’impiccagione di Cesare Battisti. Per la penuria dei materiali ferrosi vengono rimosse le campane della Chiesa di Pinzon per poter fare armi e munizioni! Il marito di Rosa è partito per la guerra. A Rosa nasce il sesto figlio nel 1916, una bambina alla quale viene dato il nome di Hella. Alla sorella Luise muore il marito per un’ epatite fulminante. Rimane così vedova a 44 anni e con cinque figli. Nei capitoli 8 (“Arrivano le camicie nere”) e 9 (“L’occupazione”) vengono descritti episodi ambientati nel periodo della Marcia su Roma e della presa del potere da parte del fascismo. In particolare Rosa porta la sua bambina Hella di cinque anni a Bolzano dove assistono all’assassinio di Franz Innerhofer, un insegnante elementare di Marling. Viene bandita la lingua italiana nel Sudtirolo in ogni scuola. Chi studia il tedesco rischia di essere messo in carcere. Vengono messe enormi tasse sui terreni per impoverire la popolazione di origine tedesca. Successivamente esplode la rabbia per la decisione dei fascisti di costruire a Bolzano il Monumento della Vittoria. Mussolini nel 1930 riceve dall’Austria la non ingerenza nella questione sudtirolese in cambio di esoneri dal pagamento delle riparazioni di guerra. Nel frattempo in Sudtirolo l’etnia tedesca spera di essere appoggiata dalla Germania nelle sue rivendicazioni in seguito all’ avvento di Hitler al potere. Nascono vari gruppi nazisti anche in Sudtirolo! Hella non sa darsi pace del fatto che il Sudtirolo sia italiano. Partecipa al Congresso di Norimberga nel 1936 e viene affascinata dal discorso di Adolf Hitler: comincia a sperare che il nazismo possa risolvere la questione sudtirolese. Nel capitolo 14 (“Hella la ribelle”) Hella organizza una riunione segreta a novembre 1937 a casa di Emil per organizzare azioni contrarie al governo fascista. La casa di sua madre Rosa viene perquisita e Hella viene arrestata e imprigionata nel carcere di Neumarkt, successivamente


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viene condannata ad un confino di cinque anni a mille km di distanza nel sud Italia, a Castelluccio Inferiore, in Basilicata. La sorella Berta riesce ad avere un incontro con Gaelazzo Ciano presso l’Hotel Imperiale di Vienna. Mussolini con un telegramma del 13 novembre 1938 dispone che Hella sia liberata. In sintesi, attraverso le pagine del diario di Rosa, oltre alle vicende legate strettamente alla famiglia della donna, passano la caduta dell’Impero Asburgico, la Prima Guerra Mondiale, il passaggio del Sudtirolo sotto il Regno d’Italia, l’avvento del fascismo con il conseguente tentativo di eliminare la lingua e la cultura tedesche da questo territorio, la speranza di ritornare sotto l’Austria durante il nazismo, lo scellerato patto tra Hitler e Mussolini secondo il quale i cittadini di etnia tedesca e ladina devono scegliere se rimanere in Italia e rinunciare a qualsiasi tutela per la loro minoranza, oppure trasferirsi nel Reich e ricominciare lì una nuova vita, la cosiddetta “opzione” che provocherà ulteriori conflitti e lacerazioni tra la popolazione. La famiglia di Rosa, soprattutto per le insistenze di Hella, la figlia più piccola, che per la sua opposizione al fascismo è stata anche mandata al confino in Basilicata, sceglierà l’opzione tedesca, nonostante Rosa non voglia abbandonare la sua casa e la sua terra. Verrà in un certo senso accontentata perché morirà il 25 Settembre del 1940, appena prima di vedere ancora una volta l’ Europa sconvolta da un terribile e sconvolgente conflitto. Il libro è scritto bene, con stile asciutto e immediato, l’inizio è un po’ noioso ma con il passare delle pagine diventa sempre più avvincente ed affronta un tema difficile per i residenti dell’Alto Adige: la coesistenza di due gruppi etnici diversi tra cui esistono ancora oggi delle rivalità che ogni tanto affiorano ma non raggiungono più livelli di intolleranza. Peccato che la narrazione termini con la morte di Rosa, quindi all’inizio della Seconda Guerra e non affronti il seguente periodo degli attentati. Grazie comunque a

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Lilli Gruber perché con questo lavoro ci permette di comprendere un po’ meglio il dramma che si è riversato sul popolo sudtirolese e ci invoglia ad approfondire il tema, leggendo altri libri che trattano questo argomento. Si lasciano al lettore gli ulteriori approfondimenti. E’ interessante leggere anche il nuovo libro di Lilli Gruber “Tempesta”, ambientato nel periodo della seconda Guerra Mondiale. Giuseppe Giorgioli LILLI GRUBER - EREDITÀ - Versione rilegata: Rizzoli - Prima Edizione 2012, pag 355, rilegato, € 18,50 €, ISBN: 978-88-17-04537-7.

Il bene e il male di un regime di Roberto Gervaso Leggendo il Messaggero del 24 luglio ’15 nella rubrica di Gervaso (lo scrittore che collaborò con Indro Montanelli nella stesura della Storia d’Italia) viene riportata un’acuta analisi del fascismo di Pier Francesco Pingitore, l’autore della rivista di satira politica il famoso Bagaglino. Avendomi colpito, la riporto integralmente: Caro Roberto questa è una lettera che ti arriva dal passato: 26 luglio 1943, data del timbro postale (sono passati 72 anni, ma che ci vuoi fare, le Poste…). Questa mattina mi sono alzato presto e sono sceso a giocare in strada. C'era un'aria insolita. Sulla via del mercato è arrivato il ciabattino, ha aperto la bottega, e ne ha tirato fuori un grande ritratto del Duce che campeggiava dietro il suo banchetto di lavoro. L'ha piazzato tra il marciapiede e la strada e l’ha spaccato in due montandoci sopra con tutta la forza. Poi è arrivata la lattaia, una donna grassa al braccio della madre più grassa di lei, ed è davvero raro trovare persone grasse in questo periodo, una che aveva la latteria piena di scritte: "Qui non si parla di politica", "Il Duce ha sempre ragione". Lei e il ciabattino si sono abbracciati urlando di gioia: “Finalmente! Vent’anni!”.


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In quel momento è passato un camioncino pieno di gente che urlava e agitava una bandiera italiana con lo stemma di Casa Savoia. E il camioncino trascinava nella polvere, legato dietro, un grosso busto in bronzo del Duce, che fino alla sera prima adornava il salone delle adunanze del fascio rionale. E Pompeo, una specie di scemo del quartiere, correva dietro al mezzo con una grossa fatta di cavallo in mano e alla fine gliela spiaccicò sul viso al Duce. Caro Roberto, io avevo nove anni e avevo appena finito la terza elementare. Forse non capii bene quello che stava succedendo… ma non è vero, i bambini capiscono pure troppo. Mi resi conto che stava cambiando tutto. E quello che mi avevano insegnato nei tre anni delle elementari sul fascismo, sul Duce, sulla Patria, andava tutto rovesciato, non valeva più niente. Anzi, valeva esattamente al contrario. E tutti quelli che andavano a Piazza Venezia? Chi erano? Tutti quegli alalà che risuonavano ad ogni adunata del sabato, chi li aveva gridati? E tutte quelle divise, quei distintivi, quei medaglioni argentati col testone di Mussolini, che fine avevano fatto? Tutto scomparso, tutto finito, tutto cancellato da un giorno all’altro. Epperò le scritte sui muri si possono cancellare, i fasci di gesso si possono abbattere, l'occhiello della giacca, deformato dal permanervi della cimice (così si chiamava il distintivo del pnf) si può restaurare con una buona stirata… Ma dentro è possibile che non sia rimasto proprio nulla? Niente con cui fare prima o poi i conti? Con chi? Ma con se stessi, certo. Tutta quella partecipazione, tutto quell'entusiasmo, tutte quelle "conquiste" di cui si andava fieri, tutto da buttare nel dimenticatoio? Caro Roberto, dopo tanti anni sarebbe davvero ridicolo riaprire la polemica sul chi c'era e chi non c'era, anche perché la livella, come direbbe Totò, è ormai passata su quasi tutti gli attori, i comprimari e le comparse di quel dramma.

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E tuttavia resto dell'idea che quel che è mancato fortemente all'Italia del dopoguerra, e quindi anche alla nostra presente Italia, sia stata una bella confessione collettiva, in cui ciascuno si assumesse le proprie responsabilità, grandi o piccole che fossero. E al fascismo fosse dato il suo: nel bene, che pure ci sarà stato in qualche misura piccola o grande che sia, e nel male, che certamente ci fu, a cominciare dal più stupido e imperdonabile delle leggi razziali. Ma tale confessione non è mai avvenuta, né mai avverrà. Il fascismo è stato spazzato e nascosto sotto il tappeto della Storia. E' diventato un luogo comune. Quasi sempre un insulto. E con ciò di un intero periodo storico si è capito poco e tra poco non si capirà più nulla. L'Italia ha fatto un po' come quelle signore che si calano gli anni, rischiando, se esagerano, di diventare ridicole. Lei se n’è calati vent’anni di colpo. Troppi. Caro Roberto spero che questa mia ti arrivi. Ma se non ti dovesse arrivare non avrai perso granché. Tuo, Pier Francesco Pingitore Segue il commento di Roberto Gervaso a questa lettera: --Pingitore, come me, non è un reazionario: è un conservatore liberale, che ha letto Croce, Einaudi, Prezzolini. Quel che scrive è sacrosanto. Il fascismo è stato le ignobili leggi razziali e la scellerata alleanza con Hitler. Ma è stato anche la bonifica delle paludi pontine, l'Iri, l'Imi, l'Inps. È stato le riforme della scuola e dei codici, l'Accademia d’Italia, L’ Enciclopedia Treccani. Diamo a Mussolini quel che è di Mussolini e alla Resistenza quel che è della Resistenza. Basta con le menzogne e le imposture. Diciamo finalmente la verità, tutta la verità. Non si vive di odio e di rancore,abbiamo il coraggio di seppellire i morti. atupertulmessaggero.it Giuseppe Giorgioli


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Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce

GIUSEPPE LEONE: D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA di Domenico Defelice N’opera ispirata da due Torri: la famosa Campanaria di Recanati e quella, altrettanto famosa, degli Asinelli di Bologna. La prima, perché legata al celebre “Passero solitario” - che se ne sta a cantare “finché non more il giorno”, incurante della vita spensierata e movimentata dei propri compagni -, e la seconda perché, su di essa, Carmelo Bene vi ha tenuto una delle sue tante discusse performance (la Lectura Dantis). Su quest’ultima, l’attore leccese ci ha messo materialmente i piedi; sulla prima non è sicuro che Leopardi vi abbia mai salito e non si sia limitato a guardarla (e a volte solo col pensiero e gli occhi della mente). Ma ciò non ha importanza; importante è che, partendo da questi due monumenti suggestivi, Giuseppe Leone ci proponga un saggio, parimenti affascinante, nel quale pone a confronto un poeta e un attore che, con le loro opere rivoluzionarie, hanno orientato poesia e teatro verso il parlato e il canto, strappandoli, così, “al silenzio della scrittura”.

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Colpisce subito la dedica. Leone ha voluto bene a Vittoriano Esposito a tal punto da affiancarlo, qui, alla memoria del proprio caro fratello Giovanni Antonio. Col poeta e critico di Avezzano - da qualche anno scomparso - l’ autore ha combattuto battaglie per la difesa di ideali e personaggi come lo scrittore abruzzese Ignazio Silone. Ed è alla gioia della scoperta e dell’indagine dell’amico Esposito che si ispira questo saggio, assai particolare, sul più grande (e oggi controverso dal punto di vista ...igienico e da quello affettivo!) nostro lirico e sul grande (e assai controverso - anche perché assai antipatico) interprete e lettore talentuoso della seconda metà del Novecento. Entrambi autori che hanno voluto “dar “voce” a un’allucinazione senza testo (oggetto) e senza autore (soggetto)”: in Bene, “una delle tante storie estromesse dall’unica notificata su Lorenzo de’ Medici da Alfred de Musset e Benedetto Varchi, che ne hanno fornito in passato una loro versione”; in Leopardi, “una storia di note omesse, che non furono inserite in precedenti traduzioni di un poemetto greco fatte dall’autore stesso; nell’uno e nell’altro caso una prova per liberare la letteratura e il teatro dal testo scritto e dalla messinscena”. Una lotta, insomma, del sonoro contro il visivo, con parole e voci dal cui suono si libera, si origina l’immagine. In Leopardi e in Bene, più che la voce stessa, è il suono il vero protagonista; anzi: è il colore del suono, più che il suono stesso. Leopardi lo dimostra non solo usando parole appropriate, ma descrivendo il comportamento dei soggetti, esempio emblematico gli uccelli i quali - scrive “non pare che sieno sottoposti alla noia. Cangiano luogo a ogni tratto; passano da paese a paese quanto tu vuoi lontano, e dall’infima alla somma parte dell’aria, in poco spazio di tempo, e con facilità mirabile; veggono e provano nella vita loro cose infinite e diver-


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sissime; esercitano continuamente il loro corpo; abbondano soprammodo della vita estrinseca. Tutti gli altri animali, provveduto che hanno ai loro bisogni, amano di starsene quieti e oziosi; nessuno, se già non fossero pesci, ed eccettuati pure alquanti degl’insetti volatili, va lungamente scorrendo per solo diporto”. Se Leopardi continuerà la scrittura, è perché non era un attore, anche se ne aveva avuto qualche pensiero e amava frequentare - specie negli anni passati a Napoli - messinscene e concerti. Egli sapeva che, in origine, il rapporto attore-pubblico si basava solo sulla voce e sul suono; con l’avvento della scrittura attraverso i caratteri mobili, il pubblico da ascoltatore si è trasformato in lettore. “Giacomo Leopardi e Carmelo Bene, due geni che, fra Otto e Novecento - scrive Leone -, si sono affacciati dall’alto della torre per farci sentire la loro voce lirico-drammatica, per ridare armonia al circostante deserto italiano. Con loro, si può dire che l’Italia abbia recuperato prestigio e reputazione, risollevandosi dallo stato di decadenza culturale in cui era caduta”. In questi anni è stata largamente smentita l’affermazione che “Leopardi non avesse potuto vantare, accanto all’ attività di poeta, anche quella di filosofo”; è stato, cioè, riconosciuto che il suo pensiero contiene “i germi della filosofia contemporanea”. Tutto il saggio è supportato da continue e vaste citazioni, sicché rappresenta anche una bella e accattivante analogia del pensiero e del parere altrui su questi due geniali personaggi, ciascuno a suo modo stravagante e un po’ folle, di quella follia, cioè, che, costruendo ponti e abbattendo barriere, ha contribuito negli anni e nei secoli a rendere più agevole il cammino dell’umanità. Molti i punti in comune tra i due protagonisti. Entrambi, per esempio, hanno avuto una educazione cristiana troppo rigida e forse la loro successiva palese o latente abiura è dipesa proprio da questo; entrambi sono stati a volte disprezzati e quasi odiati dagli stessi genitori; entrambi ebbero in dispregio la politica e non accettarono mai di venire irreggimentati, etichettati; così,

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la politica, alla luce del sole o sotterraneamente, li ha sempre ostacolati e combattuti. Nel capitolo secondo, Giuseppe Leone si pone e pone l’interrogativo: “geni senza talento” Giacomo Leopardi e Carmelo Bene? Retorico? Lasciamo intatte suggestione e curiosità al lettore, che assicuriamo di potersi avvicinare al saggio senza strumenti e mezzi di... protezione: non tratta di abbuffate oltre ogni limite di confetti pescaresi e dolciumi vari, della notte scambiata a giorno, di pidocchi, di quasi assoluta ripugnanza al bagno e all’igiene personale, di indumenti indossati costantemente per anni, di miasmi vari, di particolari rapporti sessuali (ci voleva un vero coraggio ad avere rapporti gay con uno che doveva emanare odori nauseabondi più di una iena e di una puzzola!); non tratta di malevolenze, ostilità varie, insofferenze, intolleranze, repulsioni, parolacce, bestemmie; stupisce, ma senza volere ad ogni costo stupire, magari qua e là ricantandoci versi che da sempre ci hanno intenerito: “D’in su la vetta della torre antica, passero solitario, alla campagna cantando vai finché non muore il giorno; ed erra l’armonia per questa valle. ... Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. ... Dolce e chiara e la notte e senza vento, e quieta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna... ... ed ascoltando il canto della rana rimota alla campagna! ... Viene il vento recando il suon dell’ora dalla torre del borgo”... Il suono, le armonie, le voci degli esseri viventi e delle cose, non esalazioni malsane e gli stimoli alle avversioni e quasi all’odio. Domenico Defelice GIUSEPPE LEONE - D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce - Ed. Il Menabò, 2015 - Pagg. 142, € 16,00


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Nino Di Paolo: Il primato della pietà LE 14 STAZIONI DELLA MISERICORDIA E LA NEVROSI (ISTRUZIONE PER L'USO) di Rossano Onano

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L primato della pietà (Fara Editore, 2008), si avvale dell'eccellente prefazione di Carlo Penati. Il quale, da persona intellettualmente onesta, confessa d'essersi accostato al volume con qualche diffidenza. Gli era in sospetto il recupero di formule di memoria catechistica, come le quattordici opere di misericordia poste a titolazione dei quattordici capitoli. Ho provato diffidenza anch'io. Quattordici sono anche le stazioni della Via Crucis, mi sono detto, stai a vedere che l'autore è un ossessivo. Gli ossessivi hanno bisogno di pietre miliari, di “stazioni” appunto, perché il viaggio sia diretto a buon fine. Autore del libro è Nino Di Paolo, 1958, milanese con ascendenze d'Abruzzo. Di Paolo scrive una saga familiare, asciutta e tenera: ogni stazione è un racconto, ed ogni racconto è collegato a un'opera di misericordia, esercitata oppure raccolta dall'archivio di famiglia. A cominciare da nonno Nicola, emigrantebracciante in Argentina, poi bracciante-

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”occupante” in Abissinia, poi braccianteprigioniero in Eritrea, poi coltivatore diretto a Casalanguida, terra sua. (Alloggiare i pellegrini). Nicola racconta alla moglie, Rosina, la bellezza delle donne africane, evidentemente praticate nel corso della sua lunga permanenza coloniale. Così come Rosina, di fede antifascista, si è forse distratta con qualche sovversivo, in assenza del marito. Nino, che frequenta Nicola e Rosina negli anni '60, nei mesi di vacanza a Casalanguida, per quanto ragazzino è già riflessivo: però, tanto tempo lontani, e sono ancora innamorati, “a servizio totale l'uno dell'altra”. Rosina muore fra Natale e Capodanno, nel '72. Nicola non regge la solitudine, e muore undici mesi dopo. Rispetto a Nicola, sognatore, Rosina è il personaggio forte. Dopo Casalanguida, che è la stazione più antica, Nino percorre di persona le tredici restanti, ogni volta sostando nel ricordo delle persone care, non soltanto parentali. Circostanza comune a tutte le storie: come Rosina verso Nicola, così tutti i personaggi femminili hanno maggior forza caratteriale rispetto ai corrispettivi compagni maschili. Sicuramente, per ciò che riguarda la famiglia Di Paolo, si tratta di una costante. Ho conosciuto Nino durante un tour organizzato in Sicilia, per una settimana pranzo e cena insieme. Nino è persona affabile, di qualità non invasive. Accanto a lui, altrettanto affabile e discreta, però più determinata, è stata sua moglie Giovanna a rivelare ciò che il marito non diceva di sé: è uno che scrive libri, per diletto, ma scrive libri. Giovanna è medico, pediatra per la precisione: per attitudine caratteriale e vizio di mestiere, la qualità materna le riesce naturale. In uno dei racconti, Nino descrive la moglie come persona dolce e tenace, direi maieutica. E' lei che lo sprona al lavoro in Comune come bibliotecario: è la tua passione, sèguila. Se Giovanna è determinata, Nino è sognatore. Si dice anche “idealista”, per indicare una


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persona che resta fedele all'idea ottimale che si è costruita del mondo. Come tutti i sognatori, Nino è coraggioso, ovvero capace di aderire all'idea compiendo atti di eroismo. Come quel 12 dicembre 1980 (Consigliare i dubbiosi), quando partecipa al funerale di Walter Pezzali, ex compagno delle elementari ucciso in uno scontro a fuoco con le forze dell'ordine. Walter aveva addosso l'etichetta di “brigatista”, erano anni così. La buona stampa ripeteva con zelo che la partecipazione ai funerali avrebbe rivelato chi fossero i “fiancheggiatori dei brigatisti”: cui fare attorno “terra bruciata”, scriveva un Padre della Repubblica sul più importante quotidiano nazionale. Essere sognatori ed essere bastian contrari è quasi la stesa cosa: Nino indossa l'abito più bello, si prepara per partecipare al funerale. “Lo sai che verrai fotografato” lo avverte, premuroso, suo padre. “Lo so”, risponde Nino. Al funerale, di fronte al fotografo alza la testa, perché la foto riesca meglio. È il primato della pietà, appunto. Racconto eponimo della raccolta. Pietà esercitata con qualche narcisismo, sollevando la testa in atto di sfida. Ci sta, ci mancherebbe. La pietà non è sentimento che circoli facilmente, ed anzi molto spesso non è reperibile nei luoghi ove appunto ci si aspetta che tale sentimento esista. A un racconto successivo (Visitare gli infermi) compete la descrizione, disillusa, del macchinoso corpo costituito dalla sanità pubblica: che Giovanna, medico, affronta come specialista in pediatria e Nino, in quanto ossessivo candidato all'ipocondria, come paziente. Nino troverà giovamento dal consiglio di un prete, don Cesare, che spiega: sei stressato, non c'è equilibrio fra quello che pensi sia giusto fare, e quello che sei in grado di fare. Riposati! Ci vuole un prete, ammettiamolo, per spiegare in modo facilissimo la genesi delle ne-

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vrosi, per giunta indicando la cura: la tolleranza (verso se stessi). Erudito circa il proprio armamentario nevrotico, però tollerante, Di Paolo affronta l'ultima stazione della misericordia (Seppellire i morti). Ci sono stazioni che non è possibile eludere: Nino affronta la contingenza dolorosa della morte di papà Michele. Tutti gli avvenimenti insieme tragici e necessari sono preceduti da presentimenti, a volte corali, più o meno inconsci. Michele parte per la vacanza estiva nel paese natale, bacia il figlio Nino, poi bacia il nipote Luca, un saluto che ha il sapore corrusco del congedo. Da Casalanguida arriva a Milano l'annuncio, via telefono. Risponde Giovanna, che comunica al marito. Gli annunci dolorosi sono sempre riportati a voce bassa, per pietà, ma Luca intuisce. Spetta a lui, 12 anni, l'atto maturo di entrare nel lutto: “Che cosa ti ha detto la mamma?” Nino: “Che il nonno non è riuscito a superare quella crisi che ha avuto”. Luca, determinato: “Che cosa vuol dire non è riuscito a superare?” “Vuol dire che è morto!” Luca rifiuta la tutela della pietà del padre, che tentenna nella comunicazione, come a preservare il figlio dal dolore. Il figlio si affranca dalla tutela, pretende il trattamento alla pari, ha capito tutto ma vuole che sia il padre a fornire la notizia. E' il suo atto di nascita virile, rapporto da uomo a uomo, nel segno della verità. E' Nino, invece, che concede a se stesso il sano abbandono nel dolore. Si isola nella camera da letto, alla finestra aperta dialogando per la prima volta col padre senza il pudore degli affetti: “Dove sei?, dove sei?”. È insieme coscienza d'essere stato abbandonato dal padre, e ontologica speranza di un altrove da dove il padre possa ascoltarlo. L'accettazione del dolore è la forza dei deboli, essendo anche la debolezza dei forti. Nino raggiunge in auto Casalanguida, da Milano per la cerimonia funebre: per la prima volta, compie il tragitto senza ricorrere a farmaci


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contro il mal d'auto. L'ipocondria nevrotica è superata. Durante la messa funebre, Nino e Luca assistono senza contrarre i muscoli del volto. “Sembravate di ghiaccio”, osserva Giovanna affettuosamente. Gli uomini forti non piangono, alla vista degli altri. Piangono dentro se stesi. Nino ha accettato il confronto con il dolore, non ha bisogno di somatizzare, ha sconfitto la nevrosi. Luca è diventato uomo, perché ha superato il primo lutto della vita. Piangere, di fronte a Michele, sarebbe stato un atto di impudicizia. Michele non avrebbe voluto. Nino Di Paolo, del resto, è persona che non ama esporsi a comportamenti invasivi, né ama debordare nell'espressione dei sentimenti. Emy, mia moglie, nel ricordare l'occasione conviviale in comune, dice di lui: “Mi ricordo come guardava le persone, con un sorriso, e con grande attenzione”. E' naturale, per chi scrive Il primato della pietà, ho pensato fra me. La pietà è necessariamente accogliente. La pietà è sempre curiosa dell'altro. Rossano Onano NINO DI PAOLO: Il primato della pietà, FaraEditore, 2008; prefazione di Carlo Penati; copertina di Elvira Pagliuca.

DENTRO UN DESERTO L’orgoglio libera fiammate intessendo di spine i pensieri irretiti, si rimane spogliati in frammenti. Il verme più minuscolo sale e scende folle di piacere sull’arena cocente. L’istinto ha intrecci invisibili, striscia come serpe entro nascondimenti. La donna fugge alterata da mano subdola stretta nei facili scontri. Tenebre infittite, si esce dissennati dal recinto mani non congiunte non si afferrano, svaniti i momenti di gaudio. Le vene intasate di grumi

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quando spezzata si è la sincronia dei legami. Il divorzio è secchezza dai panni lacerati, si corre dentro un deserto: il sole ardente sopra la giallastra distesa non fa nascere un fiore. I vuoti della solitudine, le pareti non si ergono vicino. L’uomo automa non ha il vestito di colore unico, quasi di metallo senza piega. Non porta un’andatura diritta né il passo misurato con i pensieri. Leonardo Selvaggi

NOTTE D'INVERNO C'è di nuovo una tempesta di neve, Tutte le finestre sono gelate Sento dei rumori terribili dappertutto. Sembra che gli spiriti maligni Camminino sul tetto. Il vento diventa sempre più forte. Le ombre cadono sulle mura, La luce della candela è tremolante. Oh, notte d'inverno, sei davvero terribile, Non c'è via di fuga Da questa tempesta Di neve e dall'oscurità! Adolf P. Shvedchikov Russia, traduzione italiana di Tito Cauchi

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 1/7/2015 Il Mezzogiorno affonda sempre più nella miseria e nella disperazione e il Governo Renzi pensa a un Ministero ad hoc, finanziato con 22 miliardi dell’Unione Europea. Alleluia! Alleluia! Così, tra Ministro, Segretari e Sottosegretari, personale per le infinite attribuzioni eccetera (che, come al solito, scalderanno poltrone e sedie), al Mezzogiorno non arriveranno neppure le briciole! Domenico Defelice


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Il rapporto madre-figlio nella poesia di

GIANNI RESCIGNO IN UN SAGGIO DI ANTONIO VITOLO di Luigi De Rosa ELLA collana “Le Scommesse” (redaz. di Sandro Gros Pietro) della casa editrice torinese “Genesi”, è apparso, nel 2012, un saggio di Antonio Vitolo, breve ma straordinariamente intenso, sul rapporto madre-figlio nella poesia del compianto Gianni Rescigno, recentemente e dolorosamente scomparso. Il titolo completo del volumetto è “Il respiro dell’addio – La poesia dell’attesa e il rapporto madre-figlio in Gianni Rescigno”. Antonio Vitolo, cinquantunenne, è un medico scrittore con all’attivo già sette libri di poesie, da “Un pensiero per la speranza”, del 1993, a “Tracce salmastre rosso amaranto”, del 2007. Ha pubblicato anche un’opera di narrativa (“L’amore mai dimenticato”, prefazione di Pasquale Matrone, Bastogi, Foggia 2008). Nel libro di cui mi occupo oggi, Vitolo “analizza”, con un approccio scientificoletterario originale, le liriche scritte dal poeta Gianni Rescigno per la propria madre (e per la “Madre” umana in assoluto). Egli trova conforto anche nei testi di Maria Montessori “Formazione dell’uomo” (Garzanti) e “Educare alla libertà“ (Mondadori), nonché nell’ opera di Carl Gustav Jung (Psicologia e poe-

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sia), alla propria tesi secondo cui “...lo sviluppo strutturale della personalità di Rescigno ritrova e rivive il rapporto con la madre attraverso le pulsioni poetiche.” Gianni Rescigno è quel grande autentico artista di Roccapiemonte trapiantato a Santa Maria di Castellabate, che ha pubblicato una trentina di libri; quel poeta profondo e inesauribile, classe 1937, perennemente giovane di cuore e di mente, di cui mi sono già occupato, in precedenti numeri di “Pomezia-Notizie”, e di cui, nell’arco di una vita, si sono occupati numerosissimi Autori, tra i più recenti dei quali Marina Caracciolo, Franca Alàimo e Luigi Pumpo. Il saggio di Vìtolo è focalizzato su un aspetto (peraltro basilare e fondamentale) della produzione di Rescigno, lodato e – giustamente – “coccolato” da una fitta schiera di critici e di poeti, primo fra i quali (e mi limito a citare Elio Filippo Accrocca, Menotti Lerro, Maria Luisa Spaziani, Domenico Rea, Giorgio Caproni) quel grande critico e poeta che è Giorgio Bàrberi Squarotti , che praticamente lo ha preso sotto la propria prestigiosa ala per un lunghissimo tratto della vita. Ma in un certo senso Vìtolo pone sotto le lenti del suo microscopio un libro in particolare, anzi, quella lirica stupendamente riuscita che è Mia madre, l’asse portante della silloge “Un passo lontano – Poesie per la madre”, pubblicato nel 1988 da Piovan editore, Abano Terme. Secondo Vìtolo “Un passo lontano” è “ una raccolta che imprime a fuoco nella mente del lettore cosa è per l’autore l’affetto materno-filiale ...Quando si è genitori ci si avvolge nell’amorevole sguardo verso i figli e quello che la mente ci detta, attraverso la parola nella preghiera e la vita, la voglia di dare, di donare...”. I figli, per madri come questa, sono una felicità immensa. Tanti figli, tante voci nella casa, tanta felicità. Ma... quanta fatica! La constatazione della immensa fatica diventa per l’autore monito per se stesso e per tutti i figli della terra. “Tutti dovremmo regalare al nostro essere quello che Rescigno ha regalato a se stesso nel corso dei suoi pensieri dedi-


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cati alla madre...” prosegue Vitolo. E ricorda lo struggente addio giornaliero della madre che salutava il figlio “sul ciglio della casa e quieto, come bisogna che sia, era il suo andare verso la giornata. L’amore materno lo rassicurava negli eventi della quotidianità. E ora che il viale verso la terza età lo spinge, attende questa emozione e la trasforma identificandosi in essa, rivive sulla soglia degli anni che passano quei momenti rincarando nel proprio animo il debito di serenità che alla madre deve: “Ed ora io sono te nelle brume dei mattini...” Non si capirebbe compiutamente, però, lo spirito del saggio di Vitolo, anzi! Non si capirebbe correttamente l’intera produzione poetica di Rescigno se non si ricordasse a chiare lettere (del resto me lo aveva confermato lui stesso in una delle nostre tante conversazioni) che il poeta Rescigno è anzitutto e soprattutto un uomo di fede. Il suo viaggio nella vita è, per Vitolo, un viaggio temerario ma inondato di fede ...dove la fede ricopre un ruolo semplice, quotidiano. E il quotidiano prende posto davanti al fuoco, luogo in cui si libera lo spirito della comunione famigliare... D’altra parte non bisogna dimenticare la realtà inconfutabile delle condizioni storiche, economico-sociali, giuridiche, psicologiche, di costume, in cui vivevano i ceti sociali più umili, specie gli instancabili e pazienti agricoltori. E, all’interno della famiglia patriarcale, la condizione della donna, specialmente della madre di famiglia, praticamente titolare di pochi diritti e di moltissimi doveri. Solo una profonda fede in un premio ultraterreno, vissuta con naturalezza giorno per giorno, poteva aiutare queste donne a dare il massimo di sé per la famiglia. E unitamente alla fede, l’ amore e la riconoscenza dei propri familiari, principalmente dei propri figli. Proviamo a rileggere la citata poesia di Rescigno, Mia madre. “ Mia madre: una donna piccola, silenziosa Al passo di tartaruga. Il suo respiro e la parola preghiere. La notte e il giorno appuntamenti: sempre con la morte: E i sogni numeri: da

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uno a novanta ( il dolce l’amaro, la ricchezza miseria, notizia buona il pianto del bambino). Il suo ventre terra: sette volte racchiuse il seme e sette volte vi zampillarono ampolle di latte. Mia madre mangiava per ultima bocconi ripieni di niente e dalla brocca al posto del vino beveva l’aceto: Bianca come la Signora delle nevi: inchiodata – se estate – a pene d’inverno. Così era mia madre: una voce lontana, una mano al tonno sott’olio, una veste frusciante come l’ombra al ragù e contorno di peperoni. Piccola, insignificante: speranza rimaneggiata dall’uno dall’altro in continua marcia, fermata da potente inaspettata scarica sul filo spinato dell’infarto.” Questa poesia magistrale e forte, pur nella sua notevole icasticità, richiederebbe un apparato esegetico di prim’ordine, senza limiti di spazio e di tempo, considerate le innumerevoli e profonde implicazioni di varia natura che sintetizza efficacemente. Questa poesia raffigura artisticamente un personaggio piccolo ma grandissimo, esemplare di milioni di altre madri di un’epoca passata (anche se non da molto). Non solo, ma rappresenta anche altre madri, quelle responsabili e oneste che vivono al giorno d’oggi, che pur non potendo e volendo mettere al mondo tanti figli come un tempo, continuano nella loro strada di sacrifici e di altruismo in favore della famiglia, in condizioni ambientali e socio-economiche diverse ma con lo stesso amore e con la stessa fede. Ma pur senza minimamente pretermettere l’immensa importanza della fede nell’Aldilà e nella giusta “ricompensa” delle anime meritevoli, non avrebbe un gran senso il voler fare una comparazione tra le condizioni della madre di famiglia vissuta tra la seconda metà dell’Ottocento e di gran parte del Novecento e le condizioni di quella che vive ai nostri


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giorni in questi anni Duemila. Le differenze sono enormi e innumerevoli, e non solo nell’ attuale Diritto di Famiglia del Codice Civile che è stato profondamente riformato. Eppure... resta il problema di fondo, ineliminabile. La vita è breve, la morte aspetta tutti al varco, la cosiddetta realtà è precaria e illusoria, la fame di Assoluto (nonostante la secolarizzazione dilagante) è più forte che mai. E il bisogno dell’affetto materno è vitale. Qualsiasi uomo, poeta o non poeta, che abbia avuto serie carenze di affetto materno nella sua infanzia, è destinato a soffrirne per tutta la vita. E non può che sognare, più o meno consciamente, di riunirsi prima o poi a sua madre, in questo o in un altro mondo. Luigi De Rosa

L'IMPERO DELLE LUCI Se avessi avuto cura del tuo dolore sapresti ancora ascoltarle: le voci delle nitticore sono l'orgoglio di dio contro i miei timpani; salgono acute nell'urlo battagliero del vendicatore esausto (nessuna fertile putredine: il cane randagio è rimasto immobile sull'asfalto), ma non possono raggiungere la casa (lontana ogni luce infetta), il nido di ragno che si crogiola nell'oscurità che mi pare di riconoscere. Qui, nella dimora di un tempo (le ore si affastellano e poi si fermano, pietrificate nel gesto che compi quando abbassi sopra di noi lo sguardo), qui ho ritrovato il silenzio. E sono vecchia di mille anni e non ho che da osservare: la farfalla che insegue un brandello di stoffa infuocata, mentre le chiome e le membra di una giovane donna

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s'infiammano al passaggio di un uomo alto e impassibile, dai capelli nerastri. Una morte quieta, un disperarsi senza fanfare. Eloisa Massola

GIOVANNA D'ARCO SENTIVA LE VOCI Non essere esaudite né credute è la disgrazia delle vergini. Sperava di averti in pugno, meschina, con le sue voci nella canicola, una spada e la favola dei folli. Ma Dio non parla alle donne bizzarre e gli insetti ronzano e strepitano, hanno ali di vetro e antenne di spillo. Lui disse: “Teste di morto laggiù nella tua cantina e l'ultima a cadere, sappilo, sarà la tua”, poi la colpì sulla nuca, lasciandola a guardare la terra e i suoi piedi imperfetti. Le tagliarono le braccia e gliele misero al collo in modo che non potesse andare incontro a nessuno: gridarono gli stendardi, che sventolavano come sottane di prolifiche ragazze maritate e gli uomini furono fascine che crepitavano sputando sentenze e lambivano, stringevano, la costringevano per sempre in un ceppo. Ora si beve caffè nella piazza dove ebbe capelli di cenere e i seni come guanti bruciati Eloisa Massola Costanzana (VC)


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FERRUCCIO BRUGNARO

LE FOLLIE NON SONO PIÙ FOLLIE di Domenico Defelice

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I può dire che seguiamo Brugnaro da una vita, certamente dagli anni sessanta. Ma non ne abbiamo mai scritto, perché ci ha sempre disorientato, o meglio: ci ha sempre dilaniato l’animo col suo canto del calvario della fabbrica e dei tanti Cristi che ci lavoravano e ci lavorano, oggi – e non sappiamo s’è un bene o un male -, meno di ieri. Insomma, non ne abbiamo scritto per il troppo amore, fedeli a quanto scrivemmo da qualche parte e che, cioè, finché l’amore è vero e vivo, raramente lo si può tradurlo in poesia o in altro e che, quando riusciamo a farlo, significa ch’è passata la fase acuta, che ormai lo dominiamo; e poi perché, da certi “amori”, come quello di Brugnaro, non può venire che rabbia e furore. Negli anni, le cose sono un po’ cambiate e le fabbriche, oggi, sono meno dispensatrici di morte, anche perché son quasi tutte chiuse; vogliamo dire che esse, oggi, non sono più neppure dispensatrici di lavoro e così sta “chiudendo” pure l’operaio, non perché s’è trasferito nel …paradiso terrestre dei film e delle canzoni - un po’ di frigorifero pieno, una macchina di bassa cilindrata e una qualche Maria che ci accarezzi -, ma in quello dell’Aldilà, per i troppi veleni costantemente assimilati e la miseria che divora più di prima. Insomma, è cambiata la fabbrica, è cambiato l’operaio, è cambiata la società e un poco è cambiato pure Brugnaro, meno virulento e più permeabile alla commozione, quella per la nascita di una nuova vita o per l’incontro di “una farfalla/rossa azzurro scuro”, che gli si posa “su una scarpa” nell’inferno delle ciminiere. A ben riflettere, però, Brugnaro non è cambiato affatto. Meno irruento, è vero, ma i drammi continua a cantarli tutti e pure la gita con la “Dyane rossa” e la Maria ai piedi di un monte. Se si accorge più spesso del “biancospino/ che fiorisce/e della rondine che ritor-

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na”, non per questo dimentica il “minuscolo uccello/rosso grigio/tutto tremante” che gli muore tra le mani per avere ingoiato qualche veleno sputato e sparso dalle ciminiere. Non abbiamo mai scritto della poesia arrabbiata di Brugnaro e neppure oggi ne scriviamo, soverchiati pure noi dalla rabbia e ci limitiamo a trascrivere, per i nostri lettori, qualche sua poesia, evitando di aggiungere la bestemmia che sorgerebbe spontanea. Tanto, tutto è cambiato, pure la Sinistra è cambiata e guarda al profitto e pure gli eventuali nostri sputi rimbalzerebbero sulle tante allisciate facce di gomma che ogni giorno ci coglionano dalle grigie aule del Parlamento e dai tanti … balconi delle Tv, da dove fingono di parlarci d’amore e di pace: Il fungo intanto sale. La morte intanto alza la voce pesante schiacciante. Il vostro amore non l’ho visto. Bisogna opporsi, opporsi mattina e sera. Il vostro amore non lo sento. Bisogna esserci esserci con tutta la carne e con tutta la vita. Ruffiani della guerra. Ruffiani della morte. La vostra pace mi terrorizza la vostra pace e bugiarda e ladra la vostra pace divora anche la notte la vostra pace non la voglio, non la voglio. Brugnaro, “poeta-operaio che parla della condizione dei lavoratori, senza il filtro dello scrittore-intellettuale - come afferma Igor Costanzo nella Prefazione -, (...) è di quelli che amano la pace, la fratellanza e che sogna”. E non sapete quanto danno fastidio i sogni della gente all’accozzaglia di caimani


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che in vari modi ci governa: politici, sindacalisti, industriali, corrotti e mafiosi d’ogni risma e d’ogni colore. Domenico Defelice FERRUCCIO BRUGNARO - LE FOLLIE NON SONO PIÙ FOLLIE - Prefazione di Igor Costanzo – Edizioni SEAM, 2014 – Pagg. 70, € 10,00

BRAVI E BRAVI Bravo presidente bravi ministri bravi segretari sottosegretari partiti sindacati bravi bravi tutti quanti. Mano nella mano cantate gli operai sono tramortiti di botte gli operai lavorano e tacciono abbiamo trovato gli alleati giusti. Evviva evviva siamo gli unici in libertà intelligenti intelligenti. Bravo governo bravi ministri bravi bravi tutti quanti evviva evviva i ladri sono stati premiati gli operai hanno avuto una lezione severa evviva evviva cantate bravo il nostro presidente del consiglio bravi i nostri ministri

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i nostri tecnici bravi bravi cantate più forte più forte cantate evviva evviva. Ferruccio Brugnaro

NON CI SONO TRAPPOLE NEL MIO CUORE Non ti voglio oggetto, non ti voglio subordinata. Detesto i padroni, odio tutti i padroni della terra. Amo le tue mani, il tuo corpo la tua voce inafferrabili come le onde degli oceani. Non ti voglio che libera come il volo delle aquile libera come il vento fondo di marzo. Non ti voglio che così come sei una marea di luce che si avvicina e si allontana tra gli alberi nella campagna. La mia tana non ama il possesso. Sei libera come i cieli più alti le acque più profonde. Non ci sono trappole nel mio cuore nella mia vita. Sei libera come le correnti più impetuose come le foreste che nessuno ha mai esplorato come il mio sangue martoriato e tenace che nessuno schiaccerà mai. Ferruccio Brugnaro Da Le follie non sono più follie.


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FRANCESCO PAOLO MICHETTI

UN PITTORE DELLE TERRE D'ABRUZZO di Ilia Pedrina

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L mio interesse per il pittore Francesco Paolo Michetti parte da lontano, da un'amicizia senza tempo con Myriam Polacco, ebrea, che incontro a Rimini nel corso di un Convegno. Mi invita a Milano, dove, proprio a ridosso della Stazione Centrale, in via Schiapparelli, ha una terrazza letteraria dove si danno appuntamento artisti, scrittori, poeti d'ogni parte d'Italia. Coltissima, elegante, seducente, ha sposato un rampollo della famiglia Gerbi ed ha nel sangue l'amore per l'arte ed il culto della Bellezza. Un giorno vado su da Vicenza con Mariella Vivaldi, per presentare il suo libro autobiografico 'La porta della Salvezza' della Marsilio Editori di Venezia: pranziamo da Myriam ed è presente anche la sua mamma, modella del pittore mantovano Cesare Monti, mantovana anche lei. Le due anziane si guardano negli occhi, in un silenzio che si fa via via sempre più intenso, acuto, trasfigurante. Si sono riconosciute. Mariella, giovane ebrea in fuga dall'Italia con la madre

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nel 1943, approda tra vicende tristissime alla porta della salvezza, la Svizzera, e qui viene internata ed inserita in una sezione del campo adibita a reparto 'prima infanzia'. Terrà in braccio Myriam, per accudirla nelle mille necessità che hanno i piccoli, perché anche i Polacco sono Ebrei e la giovane coppia deve scappare da Milano. Si, perché Myriam nascerà il 26 aprile del 1943, proprio in Svizzera, a Lugano, nel Campo di Concentramento per i rifugiati. Se Francesca ha detto a Dante '...quel giorno più non vi leggemmo avante...', tutte loro, prese dalla grande emozione, mi hanno reso silenziosa testimone partecipe di esperienze incredibili sulla scia del ricordo che diventa rievocazione e preghiera. Il tempo scorre, scandito solo da questo incanto del riconoscimento e della necessaria riconoscenza per la Vita, per l'essere in vita. Da lei, dalla modella del pittore Cesare Monti al Michetti il passo è stato brevissimo, perché Myriam conosce i più importanti mercanti d'arte di Milano e mi mostra dei pastelli originali del pittore d'Abruzzo: 'Fanciulla con foulard' e 'Pappagalli'. Torno a casa con le fotografie e cerco strade maestre, non traverse, per trovare i milioni che servono per acquistarli, dico cinque milioni di vecchie lire per i due capolavori, con firma ben visibile, autentici! Purtroppo l'esito non è positivo e mi devo accontentare delle fotografie, che faccio subito ingrandire perché il fascino che ne emana ha spessore come d'aura. La Regione Abruzzo e la Fondazione Francesco Paolo Michetti, sotto l'Alto Patrocinio del Presidente della Repubblica dell'epoca e la Soprintendenza per i beni Artistici e Storici di Roma, promuovono nel 1999 una mostra con più sedi: 'FRANCESCO PAOLO MICHETTI: IL CENACOLO DELLE ARTI TRA FOTOGRAFIA E DECORAZIONE', per i tipi della Electa di Napoli. Tra gli altri, danno il loro contributo alla pubblicazione di quest'opera la Provincia di Chieti, la Provincia di Pescara, il Comune di Francavilla. Francesca Paola Ricci Michetti traccia poche righe per presentare il volume: “Passo i miei tanti anni a Francavilla e quando torno a


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casa vedo Tatone (così come D'Antino ce lo ha lasciato) con la sua grinta seria e decisa e dietro di lui la facciata scura del Convento. Apro il portone e un mondo di luce mi invade; il bianco ovunque che traspare ha quasi un profumo. Insieme ai ricordi dell'antico cenacolo che hanno sempre riempito il mio cuore e soddisfatto il mio orgoglio perché da quel mondo vengo e a quel mondo appartengo con tutto l'animo. Chiamarlo Tatone mi rendeva diversa da tutti e a tutti voglio dire cos'era il mio grande Nonno. Un uomo che con la sua arte, raccontava della sua terra e della sua gente, i costumi, i dolori e le gioie come le vivevano e l'accettavano, la bellezza della sua terra... con i cieli dei suoi pastelli e il verde dei suoi boschi. Io non so dire altro, le sue opere parleranno di lui e spero vi trasmetteranno tante emozioni” (F. P. Ricci Michetti, Presentazione, op. cit. pag. 9). La signora si riferisce qui allo scultore Nicola D'Antino che nel 1938 ha forgiato in bronzo una statua a grandezza naturale del maestro ed amico pittore, posta all'ingresso esterno del Convento di Santa Maria del Gesù, a Francavilla al Mare, che risale al 1430 circa, poi successivamente sistemato ed ampliato. In questa dimora del Michetti ha trovato amicizia, comprensione, ospitalità, pace ed ispirazione anche il suo conterraneo Gabriele D'Annunzio, nei momenti più difficili del suo percorso di vita, si, proprio qui, al 'conventino' come l'ha soprannominato lui, prima di arrivare a mettere per sempre radici al Vittoriale. Nella cornice del Convento, D'Annunzio dà alle stampe 'Canto novo', con le illustrazioni dell'amico a concludere un percorso insieme tra il 1881 e il 1882; nella splendida dimora medievale, al 'conventino', dunque, il Vate scrive 'Il Piacere' (1889), grandi sezioni de 'L'Innocente' (1891) e de 'Il trionfo della morte' (1894). Francesco Paolo Michetti andrà a produrre la scenografia ed i costumi de 'La Figlia di Iorio' (1903), un'altra opera del D' Annunzio, una tragedia in tre atti composta tra queste atmosfere così intimamente condivise, che porta una dedica stringente come l' abbraccio tra amanti, che si dilata all'infinito:

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“Alla terra d'Abruzzi alla mia madre alle mie sorelle al mio fratello esule al mio padre sepolto a tutti i miei morti a tutta la mia gente fra la montagna e il mare questo canto dell'antico sangue consacro.” Il manoscritto originale è stato donato dal poeta alla città di Chieti e la prima messa in scena pubblica dell'opera avviene il 2 marzo 1904, al Teatro Lirico di Milano. Il D'Annunzio parla di lui tra le righe di un'altra opera, lo si intuisce e lo si capirà successivamente: “...Sapendo che per giungere alla bellezza è necessario indugiare con lunga pazienza sul vero, egli ha accumulato un'incredibile dovizie di osservazioni precise, ha analizzato lo spettacolo delle cose in tutti i suoi elementi per scoprirne i rapporti segreti; con lo sforzo dell'analisi ha tentato di sorprendere il segreto della creazione. A furia di studiare i processi per i quali la natura costruisce e fa apparire i corpi, egli è giunto a produrre, secondo quei medesimi processi, le forme che corrispondono ai sentimenti dell'anima umana. Egli è giunto in una parola a continuare l'opera della natura...” (G. D'Annunzio, Nota su F. P. Michetti, in 'Convito', libro VIII, 1896, pp. 583-592, ora nel testo di Marina Miraglia, Michetti tra pittura e fotografia, op. cit. pag. 15). Sfogliando questo testo assai prezioso, arrivo alla sezione curata da Fabio Benzi 'Corrispondenze con D'Annunzio', dalla pagina 91 alla 112: “...L' Epistolario D'Annunzio-Michetti che presentiamo è composto da due nuclei: il primo, proveniente dalla famiglia del pittore, consta di 85 lettere spedite da D'Annunzio a Michetti, prive di busta, che si collocano in un arco di dodici anni, dal 1886 al 1897 (salvo una del 1904) con un epicentro tra il 1889 e il 1891... Il secondo nucleo, per una singolare coincidenza, copre gli anni successivi a quelli documentati nella corrispondenza di proprietà degli eredi Michetti: dal 1922 al 1928, sono conservate al Vittoriale degli Italiani di Gardone dieci minute di D'Annunzio relative a


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lettere e a telegrammi inviati all'amico pittore... Purtroppo dalla parte di D'Annunzio manca completamente o quasi il riscontro delle lettere inviategli dal Michetti: negli Archivi del Vittoriale non è conservato nulla della certamente colossale corrispondenza precedente al 1911 (data del primo documento michettiano conservato in archivio): perduta forse nel trambusto dei pignoramenti antecedenti il suo esilio francese; e anche della successiva rimane poca cosa...” (F. Benzi: 'Corrispondenze con D'Annunzio', op. cit. pag. 91). Da questa sezione dell'opera leggo ciò che il poeta d'Abruzzo scrive all'amico pittore, suo conterraneo: “.... Ci sono certi atti, caro Ciccillo, i quali più che un giovamento materiale, portano un immenso giovamento spirituale. Tu hai beneficato più specialmente il mio spirito. Grazie..” ( lettera da Roma, del 1886, op. cit. pag. 94). Nell'autunno del 1888, su carta intestata, da Francavilla al Mare, proprio dal 'conventino', ed è domenica, il poeta gli scrive: “Caro Ciccillo, voglio che, giunto in Roma, tu trovi un nostro saluto. Questa casa sembra tutta vuota ora che non ci sei tu, e mi prende un poco di malinconia. Prima, la tua grande vitalità metteva nell'aria non so che d'istigazione al lavoro e metteva nell'anima non so che tranquilla fiducia. Torna presto! Nel mio saluto tu sentirai anche la mia profonda riconoscenza. Io non ti sarò mai abbastanza grato del bene che mi fai. Il mio spirito s'inalza e s'arricchisce, nella tua amicizia. La tua presenza m'è fortificante e consolante come il mare... Addio caro Ciccillo. Voglimi bene sempre. Gabriel” (lettera dell'autunno 1888,

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op. cit. pag 95). E ancora D'Annunzio, mesi dopo, da Roma, nell'aprile del 1889, esprime sincera nostalgia, quasi insinuando tra le parole il riferimento ad un'indicibile malinconia: “Caro Ciccillo, ho un indicibile desiderio di te e di Francavilla... io tento di lavorare ma non riesco. Da ora in poi, non potrò e non saprò lavorare che costì, nella mia stanza conventuale.. Ti abbraccio. Salutami anche il Mare! Vidi, jer l'altro, il Tirreno, di lontano; ma... Gabriele” (lettera da Roma del 4/1889, op. cit. pag. 95). Fabio Benzi cura anche il lavoro successivo a questo importante Epistolario e lo intitola 'Scritti di Gabriele D'Annunzio su Michetti', da pagina 113 alla 124, una testimonianza storica che prende dentro scritti del poeta sulla 'Fanfulla della Domenica', giornale dell'epoca nel quale il D'Annunzio firma anche, il 14 gennaio del 1883, l'interpretazione de 'Il Voto. Quadro di F. P. Michetti'. Riporto qui solo la dedica all'amico pittore, inserita nell' opera 'Il piacere', apparsa per la prima volta per i tipi della Treves di Milano, nel 1889: “Questo libro composto nella tua casa dall'ospite bene accetto, viene a te come un rendimento di grazie, come un ex-voto. Nella stanchezza della lunga e grave fatica, la tua presenza m'era fortificante e consolante come il mare. Nei disgusti che seguivano il doloroso e capzioso artifizio dello stile, la limpida semplicità del tuo ragionamento m'era esempio ed emendazione. Ne' dubbii che seguivano lo sforzo dell'analisi, non di rado una tua sentenza profonda m'era di lume. A te che studii , tutte le forme e le mutazioni dello spirito come studii tutte le forme e tutte le mutazioni delle cose, a te che intendi le leggi per cui si svolge l'interior vita dell'uomo come intendi le leggi del disegno e del colore, a te che sei tanto acuto conoscitor di anime quanto grande artefice di pittura io debbo l'esercizio e lo sviluppo della più nobile tra le facoltà dell'intelletto: debbo l'abitudine dell'osservazione e debbo, in ispecie, il metodo. Io sono ancora, come te, convinto che c'è per noi un solo oggetto di studii: la Vita...” (op. cit. pa-


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gina 116). Seguono gli scritti e le dediche di Gabriele a F. P. Michetti nell' 'Isotteo-La Chimera', pubblicato dal suo editore Treves nel 1890, nel 'Trionfo della morte', ed è ancora Treves a pubblicare quest'opera nel 1894, fino ad arrivare alla 'Nota su F. P. Michetti' (La figlia di Iorio) pubblicata su 'Il Convito', luglio- dicembre 1896, di cui riporto le prime righe:“Riesce assai difficile a un artista isolarsi. I suoi disdegni e le sue superbie non valgono. La vanità con mani abili e instancabili riallaccia intorno a lui quei legami ch'egli ha reciso. Ma un esempio di completo isolamento, forse unico nell'epoca nostra, ci è dato da Francesco Paolo Michetti, dal grande eremita di Francavilla; il quale fin dai primissimi anni fece suo il motto di Leonardo 'Salvatico è quel che si salva'...” (op. cit. pag. 122). Diecimila gli esemplari di fotografie scattate dal Michetti e catalogate con precisione e passione. Su questo aspetto dell'artista- fotografo risulta insostituibile l'opera 'L'ultimo Michetti' edita da Alinari per la collana 'Pittura e fotografia' nel 1995, sponsor l'INA, l' Assitalia e la francese CAMAT, con scritti introduttivi al ricchissimo materiale fotografico allegato elaborati da Renato Barilli ('Combattimento per un'immagine nell'ultimo Michetti'), da Alessandra Borgogelli ('La pittura di Michetti: un percorso verso la libertà'), da Susanna Weber ('L'ultimo Michetti e la fotografia'). Francesco Paolo Michetti è nato a Tocco Casauria nel 1851, comprerà il 'conventino' nel 1883, sposerà Nunziata Cirmignani. Aurelia, la loro unica figlia, coniugata Ricci, darà loro quattro nipoti. Michetti sarà presente con i suoi lavori all'Esposizione Universale di Parigi del 1900 e li lascerà laggiù. Parteciperà a Venezia alle Biennali del 1893, del 1903, del 1909, del 1910. Conoscerà il pittore veneziano Luigi Nono, nonno del compositore veneziano GiGi Nono, che ora mi porto sempre dentro, nei lavori di pubblicazione come nell'anima. Il pittore abruzzese per le sue presentazioni internazionali avrà il mercante Goupil, presso cui lavora anche il fratello di

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Vincent Van Gogh, e città come Anversa e Berlino conosceranno le sue opere. Pur nominato senatore nel 1909 dal re Vittorio Emanuele III, la sua presenza in Parlamento sarà sporadica. Una broncopolmonite lo coglierà a Francavilla al Mare nel 1929. Ilia Pedrina L’EMOZIONE DELLA BELLEZZA Mattinata brumosa, cielo grigio. Nuvole basse coprono le cime dei dolomitici monti. Promettono le previsioni un po’ di sole dopo mezzogiorno. Senza molta speranza si parte e si sale fra le nuvole basse. Giunte infine alla meta ci si riposa sull’alto pianoro nell’attesa che il vento spazzi le nubi dal cielo e ci conceda l’ambita vista. Lunga è l’attesa e intanto l’occhio spazia all’intorno percorrendo tutto completo il giro dell’orizzonte, e fra un fiocco di bianche nubi e l’altro, scorge per brevi istanti ora una vetta e poi un’altra ancora. Ma all’improvviso il sole sfora le nubi, e allora è un tripudio di luce e di colori. Sull’azzurro del cielo, dove ancora vagano bianchi cumuli e fiocchi di nubi soffici risalta netto intorno in ogni tono il grigio delle vette, scintilla il bianco di nevai e di ghiaioni, brilla lo scuro verde degli abeti e dei pini e il verde chiaro delle profonde valli. Nel silenzio che ci circonda tanta bellezza affascina la vista per la sua maestosa grandiosità e l’anima si colma di luminosa serenità. Gioisce l’anima a tal punto che agli occhi affiorano le lacrime. Lacrime d’emozione: l’emozione della bellezza. Mariagina Bonciani


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ROSSANA PAVONE: NON COME TE di Liliana Porro Andriuoli

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IÒ che emerge nettamente, anche solo ad una rapida lettura, dalle poesie della silloge Non come te (BookSprint Edizioni, www.booksprintedizioni.it,2012) di Rossana Pavone, è un’intima esigenza di relazionarsi con l’altro da sé; per cui diventa quasi una necessità per l’autrice il poter instaurare un rapporto con chi le è stato in qualche modo vicino o con chi ha percorso insieme a lei anche soltanto un semplice tratto di strada. Emerge in altre parole da queste poesie, e molto bene lo osserva Piera Bruno nella sua penetrante Nota Critica al libro, un desiderio di confronto della poetessa “con le persone che le sono passate accanto” nell’arco della vita e che hanno in qualche modo lasciato in lei un ricordo. Quella di relazionarsi con l’altro da sé è infatti un’esigenza che palesemente incontriamo sin dalle prime poesie della raccolta. Si prenda ad esempio Voglio regalare, che inizia: “Voglio regalare / un granello di sabbia / a quanti sono entrati nella / mia vita” e che così prosegue: “Un granello / a chi / ho incontrato / ogni giorno. // A chi / mi ha messo / in imbarazzo. // A chi / mi ha fatto pensare / cosa ci sia / dietro la sua vita ”. Qui l’autrice, dopo aver ricordato le tante persone che, seppure da lei incontrate fuggevolmente e sporadicamente (“A chi / incontro a margine / della mia giornata”), le hanno ugualmente lasciato un segno intenso e duraturo della loro presenza, immediatamente entra in una sfera più ristretta e si rivolge a persone con le quali ha invece avuto una vera e propria consuetudine di vita: “A chi / attende il mio rientro. // … / a quanti / ho amato”. Tutta la lirica è mossa dunque da un forte e sincero desiderio della poetessa di entrare in contatto con i propri simili; un desiderio che denota la sua grande apertura e disponibilità verso il prossimo. Non a caso leggiamo poco

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oltre: “La mia spiaggia / ha ancora tante orme / da cui essere segnata”. Una disponibilità tuttavia che si regge sulla speranza che coloro ai quali è stato offerto il simbolico “granello di sabbia” “capiscano” l’importanza del dono che a loro è stato fatto e lo sappiano accogliere con gratitudine, in modo da creare un rapporto di reciproca intesa. Da un punto di vista stilistico va poi subito notato come la lingua di cui si serve la Pavone per scrivere le sue poesie sia sempre quella propria di un periodare asciutto e intenso, con un andamento per lo più schiettamente lirico, attraverso il quale ella esprime sia le immediate emozioni nascenti in lei dal vivere quotidiano sia i più assorti ripiegamenti interiori: “Cobalto freddo/m’illude e mi attira/nel gorgo di una sera” (Tramonto d’inverno); “Nella sera viola/tiepida indugia/l’onda sulla sabbia” (Nella sera viola) e “Guardo il tempo/che va. / E non torna / sui / suoi / passi” (Guardo il tempo). Ma si vedano ancora: “A volte / stretta dalla sofferenza / come nel freddo / rimango immobile. // Non so accendere un fuoco / per me” (A volte) e “Sei tornata cicala / a cucire / da un agosto a un agosto / stagioni / trascorse e recenti / nel caldo profumo / del pino / affacciato sul mare” (Sei tornata). L’autrice d’altra parte manifesta spesso in queste sue liriche, sempre asciutte ed essenziali, dato che mai nulla hanno di troppo, la propria condizione esistenziale, confessando con schiettezza e verità i suoi più riposti sentimenti; così da mettere a nudo totalmente il proprio animo. È quanto avviene in particolare nelle poesie in cui ella, quasi in un processo di identificazione, si rispecchia negli altri e nelle loro sofferenze, come accade ad esempio allorché ci parla di un vecchio che ancora “siede / sotto il ciliegio”, ma che ora da quell’albero non può più ricevere, come avveniva una volta, l’energia vitale. Anche se infatti ancora “L’albero staglia i [suoi] rami nell’azzurro” e se ancora giunge “Linfa nuova / a dar vita / alle promesse dei [suoi] getti” ed anche se, ancora come una volta, la “Linfa nuova” “freme nel [suo] tronco antico”, il suo


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“fluido vitale” non può ora più raggiungere, come in passato, né “il vecchio addormentato / stretto nel pesante cappotto” né “il legno scuro / del suo bastone”. La poesia, che con tanta efficacia esprime lo stato d’animo di questo vecchio ormai giunto alla fine dei suoi giorni, s’intitola Il ciliegio. Un’altra poesia in cui l’attenzione della poetessa è rivolta fuori del proprio io è: Bevendo sogni di sogni, nella quale si presenta al suo sguardo la scena di due innamorati, “abbracciati” l’una all’altro, che in quell’ unione hanno trovato il proprio compimento: “Bevendo sogni di sogni / con gli occhi negli occhi/in piedi/la bocca sulla bocca/respirano / il tempo all’unisono”. E ciò mentre stanno aspettando l’autobus, che finiranno col perdere, tanto intenso è il momento che vivono. Si veda nello stesso filone anche Occhi di mare perduto, dove con affettuosa simpatia è rappresentato un uomo, il quale, “nel tramonto sanguigno”, racconta “all’onda rapace” del mare “il naufragio” della propria vita: “Rauco di sale / e nostalgia / contro nuvole nere / nel tramonto sanguigno / racconti all’onda rapace / la sconfitta / il naufragio / il tuo rottame / alla deriva”. Balza evidente anche dalla breve esegesi di questi testi or ora esaminati quanto costante sia il desiderio della Pavone di relazionarsi con l’altro. È da notarsi inoltre che la stessa affettuosa simpatia non è rivolta dalla nostra poetessa solamente ai propri simili, ma si estende anche al mondo vegetale che la circonda, come avviene ne Il caco, dove l’albero è umanizzato: “Avevi voci di uccelli / affamate di futuro intorno ai nidi / vivaci nel mattino / sommesse dopo la pioggia / grate dei tuoi frutti rossi”. Né va qui trascurata la problematica civile che affiora verso la fine della poesia, allorché l’autrice con tristezza conclude come la cementificazione selvaggia delle nostre città sia riuscita a strappare finanche le radici di quella povera pianta, unicamente per … ottenere “un altro posto macchina”! Da sempre innamorata della natura, Rossa-

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na Pavone pare spesso trovare in essa la pacificazione del proprio animo. Si vedano ad esempio liriche quali Ciottoli: “Ciottoli stanno / sulla riva del mare / tondi / smussati. // Hanno raccolto silenzi immemori / solitudini / barlumi / crepuscoli / da profondità esuberanti / di vita”; Tace la notte: “Tace la notte / di un silenzio di stelle. // Aspetto // soffice / volo / il pipistrello // cauta / intermittenza / la lucciola…” e Cammino sulla sabbia: : “Cammino / sulla sabbia / memore della tempesta / raccolgo conchiglie / … / Sulla battigia / hanno trovato la pace”. E ciò anche se ella ben sa che si tratta di una pace illusoria (“l’elegante illusione / che rimane”), perché la loro “essenza segreta / è tornata / al mare / incessante divenire / ritmato dall’onda”, dove l’inquietudine e il moto sono perenni. Tra le poesie di questa raccolta un posto importante occupa quella eponima, Non come te, nella quale la Pavone stabilisce un raffronto tra il suo modo di essere e di porsi di fronte alla vita e quello che caratterizza la grande poetessa americana, Emily Dickinson. “Non come te / Emily. // Non mi basta / dalla mia stanza / immaginare il mondo. // Mi piace camminarlo” recita l’incipit, in cui è evidenziata una caratteristica fondamentale della personalità della nostra autrice, quella dell’estroversione, che non le consente di vivere appartata, e chiusa nel segreto dell’io, rimanendo attiva solo con l’immaginazione. Al contrario della Dickinson infatti la Pavone desidera proiettarsi all’esterno, per poter percepire il richiamo di tutto ciò che può sollecitare il suo animo: “… volti emozioni luoghi / profumo rumore di passi / gorgheggi canti le orme del tempo / odore di pioggia notte silenzio / il richiamo del / mare…”. Ed è proprio questo aspetto della sua personalità di donna attiva ed estroversa, aperta verso tutto ciò che la circonda, che traspare con grande evidenza dalle poesie di tutta questa sua silloge. Il bisogno di relazionarsi con gli altri, proprio di Rossana Pavone, sul quale ci siamo soffermati in questo scritto sul suo libro Non


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come te, cercando di mettere in luce l’ importanza che in esso vi assume, non poteva non manifestarsi anche nella tematica amorosa, che si scopre in alcune poesie della silloge come ben emerge dalla poesia Mani di baci, che così recita: “Me ne vado / con / le mani / piene / di baci. // Di baci / piene / le mani / vengo da te”, dove la disposizione del testo nella pagina e la compiuta simmetria delle parole nei versi delle due strofe ben esprimono ed evidenziano la reciprocità di sentimenti. Si vedano inoltre a tale proposito: Sono battiti a tempo, che termina: “Ma ho trovato il tuo abbraccio / d’autunno / croccante di foglie / frizzante di vino / fragrante di sogni / castagne e tramonti. // L’amore.” e Questa nostra età, che così inizia: “Questa nostra età / che ci scrive la pelle / e l’anima / ci rallenta e / rende fragili. // E ci dona un amore / completo / di stagioni / percorse / delusioni / attese” e che termina: “Questa nostra / età d’amore // è nostra”. Ed è qui da notare come la chiusa riprenda efficacemente il movimento iniziale. A lettura terminata ciò che resta è un vario succedersi di visioni e di vaghi pensieri che ci danno la misura della capacità della Pavone di ascoltarsi e di proiettarsi all’esterno. “Scintillio di mare/la cicala/il brivido di sole sulla pelle.//Estate.” ella dice in una delle sue poesie; ed è questa molteplicità di sensazioni, catturate nella gioia del verso, che sta alla base della sua creazione poetica e le dona senso e valore. Liliana Porro Andriuoli ROSSANA PAVONE: NON COME TE (BookSprint Edizioni, www.booksprintedizioni.it, 2012, € 12,00)

UN SOGNO … SOGNATO Stanotte ho sognato che ti sognavo e che nel sogno eri una realtà. Mi eri vicino e mi parlavi in italiano ed io intanto accarezzavo la tua mano che con gioia mi abbandonavi

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e mi chiedevi: “Ti importa di me ?” ed io dicevo : “Moltissimo” … ed era tutto bello, ma poi mi riaddormentavo. Ed ora io mi chiedo se era un sogno sognato o realtà. Mariagina Bonciani Milano

Fiaba LA FATA DEL TEMPO Stanca, affaticata, piena di delusioni mentre il suo corpo si piegava sotto i segni duri dei suoi dolori, stampella di dolori la sua esistenza, rughe di rimpianti la sua camminata. I giovani le davano noia, le ricordavano un passato da bella e desiderata, poi parlava con voce incantata: Mi sento strana, il tempo mi accarezza lontano, su una nuvola di sogno mi piace restare a desiderare di guardare il mondo cambiare; mentre il sogno mi blocca nel tempo e mi lascia ad osservare. Mi sento strana stamattina, ho volato in una notte dentro cent’anni di vita e ho ritrovato le forze della giovinezza per divenire fata. “ Vorrei vivere su una nuvola e dondolare di sogni mandando stelle di baci, su un luogo di mare...ai suoi abitanti” questo disse un dì lontano e dopo : “ non ti dimenticare mai di me, tempo, non lasciarmi nel tempo, ricordalo …” Ero una donna, avevo vissuto sulla terra tra gente che fuggiva, poi il mistero mi ha rapita come io volevo e portata lontano, nel cosmo, mi sono riempita di polvere stellare e adesso vivo, in un eterno giovane corpo, guardando la terra da quassù. Tempo non ti dimenticare di me a cui hai invertito le sorti e fata mi hai reso, nell’immagine di un sogno, che vuole continuamente narrare, per non obliare. Mani fatate si muovono nell’aria a sprigionare baci di stelle…a fermare il tempo nei cuori d’amore di una spiaggia di terra. Filomena Iovinella In ricordo delle vittime del mare


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LA GENOVA DI

GIORGIO CAPRONI di Luigi De Rosa

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LLA domanda se il poeta Giorgio Caproni fosse livornese o genovese rispondo senza alcun dubbio: era genovese fino in fondo. È vero che era nato a Livorno, il 7 gennaio 1912, in corso Amedeo (sulla casa è stata apposta una lapide: ”Qui nacque Giorgio Caproni/ Poeta delicato e forte come la città/ che lo vide nascere”, ma è pur vero che all’ età di dieci anni, nel marzo 1922, si era trasferito a Genova perché suo padre Attilio era stato assunto come ragioniere da un’industria genovese. Il piccolo Giorgio aveva completato le elementari alla Canevari e aveva frequentato la scuola media alla Antoniotto Usodimare. In seguito avrebbe conseguito privatamente il diploma di maestro elementare, quello che gli avrebbe assicurato uno stipendio per tutta la vita. La laurea in Lettere e filosofia sarebbe arrivata molto più tardi, nel 1984, conferitagli honoris causa dall’ Università di Urbino. Ma torniamo alla media, perché, contemporaneamente, studiava violino e composizione all’Istituto musicale Giuseppe Verdi. Mentre, però, lo studio della musica si era rivelato per lui un impegno troppo logorante, tanto da doverlo abbandonare, nel frattempo si era impadronita del suo cuore, fin da bambino, la pas-

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sione per la letteratura, che lo indusse a scrivere: “Il baco della letteratura lo presi alle elementari. Ho ancora un quadernino con un racconto rimasto a mezzo. Poi scrissi versi oscurissimi, che oggi si direbbero d’ avanguardia. Buttai via tutto e ricominciai a sillabar da capo, dopo i Surrealisti, il vecchio Carducci. Leggevamo molto, io e un altro amico violinista. Lo choc più grosso lo provai quando comprai gli Ossi di seppia nella edizione Ribet, 1928. Chi era Montale? Lo scoprimmo da soli, come avevamo scoperto Ungaretti, Cardarelli, Valéry, Apollinaire, Machado, Lorca, ecc. ecc.” “Subito le pagine di Ossi di seppia mi investirono con tale energia (come poi Le occasioni e La bufera che contrariamente all’opinione di molti critici considero il frutto maggiore di Montale), da diventare per sempre parte inseparabile del mio essere, alimento e sangue della mia vita, indipendentemente e al di sopra dei riflessi, benefici o malefici, che tale poesia ha potuto avere sui pochi e poveri versi che ho scritto.” Montale e Genova, Caproni e Genova. Per questa città, che per lui è la Città, e che sta in mezzo, tra la Livorno dell’infanzia e la Roma della maturità e del successo editoriale (quanto rimorso, poi, per aver lasciato Genova per Roma!), Caproni ha scritto versi indimenticabili (così come, del resto, per la amatissima Val Trebbia ligure, si ricordi il volume Ballo a Fontanigorda). È stato lo stesso poeta a dichiarare pubblicamente, e impegnativamente, la sua intima appartenenza a Genova: “Il punto di stazione da cui guardo Genova non è quello, scelto ad arte, del turista. È un punto di stazione che si trova dentro di me. Perché Genova l’ho tutta dentro. Anzi, Genova sono io. Sono io che sono “fatto” di Genova. Per questo, anche se sono nato a Livorno (altro porto, altra città mercanti-


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le) mi sento genovese. Per un uomo, la città che conta non è quella della fede di nascita. È la città dove ha trascorso l’ infanzia, dove è cresciuto, dove è andato a scuola, dove è andato a donne, dove s’è innamorato e magari sposato: in breve, è la città dove s’è formato...”. In questa sede, per ovvii motivi di spazio, devo restringere l’attenzione ai momenti più significativi della presenza di Genova nella poesia di Caproni. Si veda la poesia “Sirena”: “ La mia città dagli amori in salita Genova mia di mare tutta scale e, su dal porto, risucchi di vita viva fino a raggiungere il crinale di lamiera dei tetti...” tralasciando, quindi, il resto della Liguria, e in particolar modo quella Liguria di montagna (Gorreto, Rovegno, Fontanigorda, etc.) che lo vide giovane maestro elementare innamorato, alle prime prove con la grande poesia. A proposito di Genova-città, si veda anche “Stornello”: “Le case così salde nei colori a fresco in piena aria, è dalle case tue che invano impara, sospese nella brezza salina, una fermezza la mia vita precaria. Genova mia di sasso. Iride. Aria. Forse una delle poesie più note di Caproni è “L’ascensore”: “Quando mi sarò deciso d’ andarci, in paradiso ci andrò con l’ascensore di Castelletto, nelle ore notturne, rubando un poco di tempo al mio riposo...” Ma sicuramente la sua composizione più originale, che di questa città, carica di storia, di bellezza e di virtù civiche, vorrebbe dire tutto, ma proprio tutto, è “Litania”. Qui Ca-

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proni si sfoga in un virtuosismo raffinatissimo anche sulla rima, come se si lanciasse in un frenetico assolo paganiniano. La composizione è compresa nella raccolta Il passaggio d’ Enea (1943-1955), e si estende da pag. 180 a pag. 187 del volume Tutte le poesie dedicato da Garzanti Editore a Caproni nel 1983. La lunghezza del testo mi costringe a selezionare solo alcuni versi, fidando nella comprensione degli amici lettori, e sperando di cogliere i fiori più rappresentativi: “...Genova di ferro e aria, / mia lavagna, arenaria/ Genova mia tradita/ rimorso di tutta la vita... Genova di solitudine, / straducole, ebrietudine... Genova grigia e celeste. / Ragazze. Bottiglie. Ceste.../ Genova tutta tetto. / Macerie. Castelletto.. .Genova che mi struggi./ Intestini. Carruggi.../ Genova mercantile. / Industriale. Civile / Genova tutto cantiere./ Bisagno. Belvedere...Genova di torri bianche./ Di lucri, di palanche...Genova in salamoia./ Acqua morta di noia... Genova nome barbaro/ Campana. Montale. Sbarbaro... Genova di petroliera,/ struggimento, scogliera... /Genova d’acquamarina,/ aerea, turchina... Genova d’aglio e di rose,/ di Pré, di Fontane Marose... /Genova dell’Acquasola, / dolcissima, usignola... Genova di piovasco, / follia, Paganini, Magnasco... Genova illuminata,/ notturna, umida, alzata... Genova di Sottoripa./ Emporio. Sesso. Stipa... Genova che non si dice./ Di barche. Di vernice... Genova d’argento e stagno./ Di zanzara. Di scagno... Genova della mia Rina./ Valtrebbia. Aria fina... Genova sempre nuova./ Vita che si ritrova... Genova palpitante./ Mio cuore. Mio brillante... Genova dell’Acquaverde./ Mio padre che vi si perde... Genova di singhiozzi./ Mia madre. Via Bernardo Strozzi... Genova di lamenti./ Enea. Bombardamenti... Genova disperata, / invano da me implorata... Genova di Livorno, / partenza senza ritorno... Genova di tutta la vita. / Mia litanìa infinita.” Luigi De Rosa


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L’INTELLIGENZA INDISTRUTTIBILE AL DI SOPRA DEGLI AUTOMATISMI E MALCOSTUMI di Leonardo Selvaggi I A modernità dominata dalle natie energie dell’uomo con spirito di equilibrio e di saggezza, rendendo rapporti sociali in sintonia con parallelismi. Spinte illuminanti attraverso reazioni lunghe e stimolazioni contro gli assalti del sordo tecnicismo faranno affiorare l’autentica natura umana nelle sue identità, come risorta alla luce, fuori dalla piatta, inquinata quotidianità. Si supereranno le fasi sconvolgenti che creano distonie per ritrovare appianamenti, più confacenti applicazioni e adattamenti dei progressi tecnologici nei vari settori dell’attività umana. L’intelligenza avrà la sua preminenza, superati i confusi momenti di transizione da un passato rude ad un erompente scoppio di ritrovati scientifici. Usciremo da quella specie di irruenza istintiva con cui i troppi mezzi sofisticati invadono i vari ambienti sociali. Più vasti campi di azione per creare convivenze e più collaborazioni. Avremo, aiutati dalla stessa tecnologia più commisurata, capacità più affinate per andare avanti in piena chiarezza di allineamenti, elevate spiritualità per riscoprire meglio gli spazi della Natura, le fonti di vita che il Creato ci ha predisposto. Fede e amore, tra ritorni ed evoluzioni, si vuole un’ Umanità meno meccanizzata, libera, integrata e connaturata, fuori dai processi di dissoluzione con un uso più illuminato delle capacità intellettive, costruendo altra Storia in sviluppi sempre più esplicitati.

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II Si corre dietro alle analisi del mondo di oggi con l’auspicio che soluzioni si trovino ai complessi problemi conseguenziali dell’era tecnologica, che si aprano vie più opportune

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verso l’uguaglianza fra i popoli, lungi dalle violenze e dai ricorrenti fatti di terrorismo che portano lacerazioni dovunque, sanando i disfacimenti presenti nei costumi, prodotti da ingordigia, arrivismi e sovrapposizioni di ogni forma. Disordine nelle scuole che sono in crisi, il rapporto tra alunni e insegnanti è pessimo, fatto di arroganza, di querele, di irritabilità. Scuole di massa, aule affollate, didattica inefficiente. Scarsa autorità professionale. Scuole burocratizzate, intricate di formalismi. Scuole di nome, non di fatto con pochi rendimenti, rispecchiano i tempi corrotti che viviamo. Di certo poco contribuiscono al rinnovamento dei costumi e non sono per le nuove generazioni le vere palestre di disciplina e di addottrinamento. L’avidità di denaro e la falsa democrazia hanno rovinato mezzo mondo. Tutta una connivenza con le tante forme di perversione. Nobiltà di cuore, non di etichetta, azioni impegnate. Non nostalgici del passato, ma desiderosi di avere un presente arricchito e vitale. Sempre nella Natura un legame che si fa oltremodo necessario per dare spazialità ai movimenti e ai pensieri. Gli agglomerati cittadini oppressivi. Fondamentale il senso di conciliazione che fa infrangere barriere e asperità, perfezionare in modo concreto e fattivo le doti migliori spirituali ed operative che si posseggono. Le nuove generazioni dovranno incamminarsi verso un futuro guidato dalle risorgenti energie proprie che non possono essere mai considerate estinte, con la ricerca in se stessi di quelle virtù intrinseche che sanno stabilire rapporti con piena corrispondenza. La semplicità di cuore, quella dei miseri, le sofferenze fanno la sensibilizzazione del carattere resistente, pieno di speranze e di attese. Da tutto questo si sono originate le mutazioni favorevoli per una vita migliore. Di certo non dalla parte dei dissoluti e violenti, smaniosi di dominio, promotori di guerre e di eccidi. Gli idealisti portano la luce fra gli uomini vincendo tutte le crisi e gli stati di sperdimento. III Si ribadisce di continuo il concetto dell’


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amore, della sua straordinaria unica forza di poter trionfare sull’odio, di ristabilire l’ equilibrio tra le discordie e le ingiustizie sociali. Sappiamo che dentro di noi c’è senso d’ infinito, una sorgente di stimoli, di passione e di fede. Si vuole evadere da un ambiente che è diventato saturo col tempo di attese e di promesse mancate. La tecnologia ha le sue violenze, automaticamente si espande creando svolte sempre più ampie. Si spera solo che non sia troppo dilaniatrice e che le vecchie strutture esistenti e in gran parte vitalizzanti vengano rispettate. È certo che la tecnologia favorisce la crescita di supremazie e che quella specie di istintività assalitrice che le è propria si fa sentire sugli strati sociali meno fortunati. Frenare i suoi movimenti esorbitanti non è facile, le leggi fanno poco, solo aumentano anarchie e conflittualità. Tanti meccanismi portano l’ uomo all’inerzia. Gli ingranaggi vanno da sé, ma di certo non sarà lontano il tempo in cui la loro saturazione di per sé bloccherà i travolgenti cammini. Sembra impossibile che la marea di macchine e di strumentazioni di ogni genere che porta all’automazione rendendo prigioniero sempre più l’uomo, possa arrestarsi. Non ci sono dubbi, l’intelligenza umana ha risorse infinite, potenzialità imprevedibili che per loro natura sono di nuovi scuotimenti, di rivoluzione per più estesi, superiori avanzamenti portatori di bene per tutti nel cammino della civiltà IV Ci sono volontà primigenie che si pensano mai finite, testimonianze e retaggi di saggezze antiche, le idealità, le anime nobili, gli eroismi che sono forze propulsive verso varchi di liberazione, le sofferenze degli umili, sempre pronte a scuotere le stagnazioni infide e le malvagità, ci sono le forze magiche della sanità che sono vigili sulla sorte dell’ Umanità. Nella nostra mente sono fermi la gentilezza dei modi, il candore dei visi, le vesti lunghe, le gote rosee, sguardi attoniti di una freschezza pari alla seta dei petali, alla lucentezza delle corolle. Il tecnicismo ha messo una scorza dura sulle pelli: facce macerate dai vi-

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zi, aspetti sozzi, dall’andatura senza garbo e decenza. Le donne nella maggioranza appaiono altere e dominatrici, protagoniste prime dei costumi libertini, spregiudicate. Il pudore si è avvolto di modi ambigui. Donne festaiole, sbattono le portiere delle macchine con la baldanza e la sicurezza che non trovi negli uomini. La tecnologia è arrivata anche nelle campagne che non hanno i contadini di un tempo, per i sentieri allargati corrono le macchine a scavezzacollo. Tante comodità, lusso, tutto luminoso geometrico. Tanta strumentazione scientifica che ha fatto fare passi da giganti alla medicina. Ricerche nei laboratori in grande estensione, il benessere elevato, tutto fra le mani, alimentazione arricchita nelle forme più piacevoli. Dai tempi rudimentali che si servivano della capacità dell’uomo siamo arrivati a fasi automatizzate. Aspetti positivi e tante negatività. Occorre mediare i punti estremi. Da una parte straordinarie costruzioni e dall’altra stati di sgretolamento e di abbattimenti, di forme di essere caratterizzanti le più alte qualità dell’uomo. La Natura maltrattata, soffre per esalazioni mefitiche. L’ uomo moderno materialista, portato alle estrosità, è iconoclasta dell’Arte e della Storia, distrugge e aggredisce le bellezze dei paesaggi e dei panorami tagliando orizzonti con la infinità dei mastodontici viadotti. La lussuria e l’avidità le migliori virtù, proliferazione di ladri e drogati. I bei paesi con tanto verde intorno trasformati, c’è un senso di desolazione, non abbiamo i rapporti generosi e pieni di giocondità, non si vivono le belle serate nei vicinati, inondate da penombre e da chiarori, le porte delle case stavano aperte alla cordiale simpatia e ai moti spontanei dell’ animo. Occorrono per armonizzare discontinuità corresponsabilità, compiti da osservare, seri impegni. V Si intravedono traguardi precisi da raggiungere: ridimensionamento delle nostre azioni, un ritorno ai valori umani che non vanno considerati sorpassati e neppure come fisime da retrogradi. Attenuare gli eccessi disgregativi e


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disfacimenti nei rapporti morali e affettivi, ravvivare lo spirito dell’amore, luce che non deve spegnersi, faro unico dalle mille irradiazioni per ottenere la riformazione di vitalità costruttive. Il rispetto delle alte idealità e delle fonti alimentatrici della Storia. Sono di moda volgarità e turpitudini, presunzione e malavita, modi inurbani: mancanza di seri insegnamenti, corruzione dilagante in tutte le forme ci opprimono. Caterve di studenti rissosi, viziati e abulici. Si cercano le evasioni orgiastiche in ogni momento i sotterfugi per i facili guadagni. Oggi siamo lontani dalle essenzialità e dalle forme di sufficienza, l’ animo in leggerezza di estasi non ha momenti di espansione. Non vediamo la bellezza dei particolari, travolti in masse sfigurate dalla frenetica corsa che ci prende. I volti intorbiditi e astiosi sono attratti dalla vistosità delle forme lusingatrici. L’umano è compresso, disarticolato, incrostato, sempre più smorto, quasi parti di metallo e ingranaggi meccanici attraversano le membra creando interruzioni. Incartapecoriti, tutti uguali, si sono perse freschezza ed espressività. I volti del passato, fermi nelle fisionomie, li riconoscevi da lontano, vincevano il tempo, all’intemperie si facevano immutabili, con le diversità evidenziate. Oggi vita di gruppo, come greggi, corrivi verso le ultime mode. Tutto affastellato, non si conosce il senso dell’ordine né l’attaccamento al proprio ambiente. C’è un fugace trasmutarsi degli aspetti che si perdono nelle evanescenze. Luci psichedeliche sfrangiano contorni e stabilità. Fluidità prodotte dai cambiamenti repentini di stile. VI Vanno congiunti i valori della Scienza con quelli della Vita. Oggi come imprigionati dalle strutture automatizzate, assordati da rumori continui, alla ricerca di non si sa che cosa. Non abbiamo punti fermi, disabituati alla riflessione. Uno svuotamento dell’animo, tanta noia, un’infestazione di violenze. Gli alti principi che consentono la rigenerazione dell’ Umanità: si auspica di ritornare ai modi semplici e immediati dei sentimenti. Occorre

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prendere vigore per scrostarci da quel senso di indolenza che toglie ogni moto all’ esultanza. La bontà degli animi affratella, tutti uguali nella famiglia, saggi e maturi, operosi e pronti a seguire le regole di vita che tengono amalgamati e sereni. I tempi frenetici apportano tanta irritazione e alterigia. Ci si guarda a distanza con aria di stanchezza. Si ha voglia di continue novità. La monotonia un tempo era vitalità, consentiva l’ affinamento dei caratteri, continuità, senso di concordia, vicinanza affettiva. Frammentarietà e disorganicità, un nonnulla può far saltare tutto. Una mobilità che sa di irrequietezza, i pensieri hanno perso fluidità, immaginazione e buon senso. Non si è portati alla dilatazione, ci si restringe sempre più nei recinti egocentrici. Occorre riavere naturalezza e regolarità, uscire dalle massificazioni che ci contornano e dalle dissonanze per andare verso orizzonti più liberi e aperti all’espressività piena delle azioni umane. Leonardo Selvaggi Domenico Defelice: Avvolto nel silenzio, china 1955↓


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Domenico Defelice: A Riccardo (e agli altri che verranno)

IL PRIMO LECCIO (CON LA VOCE DI UGO) NEL VASTO ORTO DI ABRAMO di Rossano Onano

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O l'abitudine, sicuramente cattiva, di accostarmi ai testi partendo da miei personali pregiudizi. Niente di male: è sufficiente confessarlo a se stessi, per essere pronti a leggere qualsiasi testo ammettendo chiavi di lettura differenti dal preconcetto, e più favorevoli. A Riccardo (e agli altri che verranno), con la fotografia di un bellissimo bambino biondo in copertina, ha suscitato di primo acchito una mia certa diffidenza. Subito dissolta, per la verità, dalla Prefazione di Angelo Manitta: “Si tratta di un omaggio e di un atto d'amore che, all'apparenza, potrebbe considerarsi alla stregua di una poesia d'occasione”. Quando invece, corregge il prefatore, si tratta di “una riflessione poetica che oltrepassa la descrizione o l'affabulazione di affetti per inserire in esse delle incursioni filosofiche più generali, temi importanti della riflessione attuale come l'aborto o la vita del feto”, eccetera. Meno male: temevo d'essere di fronte al testo del nonno che parte da un assunto sciagurato (“mi godo il nipotino”) e ne approfitta per affabulare appunto di sentimenti. * Vero è che, senza bisogno dell'ottimo Manitta, avevo entro me stesso quasi immediatamente scartato l'ipotesi intimista. Nella sua compiutezza il titolo (“gli altri che verranno”) è garante di come l'aura complessiva non corrisponda al bisogno ontologico della

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proiezione individuale nel tempo, da sé al figlio al figlio del figlio, ma alla proiezione corale, dal tronco del proprio albero alla foresta di alberi che verranno. Dimensione epica. E' ciò che distingue Abramo, per primo, nella storia evolutiva dell'uomo. L'imperscrutabile disegno di Dio adotta il patriarca, fuoruscito dalla terra dei Caldei, e lo accompagna con questa promessa: “Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle. Abramo ne combina di tutti i colori. E' specialmente abile nel prestare la moglie Sara, spacciandola come propria sorella, prima al re d'Egitto, poi al re di Gerar, ottenendone in cambio asini e capre. Dio capisce che Abramo fa un po' di testa sua, e lo richiama al suo dovere di patriarca rinnovando più volte la promessa secondo varie formulazioni. La più espressiva: la tua discendenza sarà numerosa come i granelli di sabbia sulla riva del mare. I luoghi frequentati da Abramo non sono precisamente Rimini, però insomma la promessa è impegnativa. Abramo è sollecitato a una visione di questo tipo: la tua eternità non sta nel figlio che occuperà la tua tenda, ma nei figli dei tuoi figli che occuperanno il mondo. Per tutto l'Antico Testamento i patriarchi successivi saranno addestrati a una promessa di questo tipo. Sarà Gesù, nel Nuovo Testamento, a collocare il premio nel Regno dei Cieli, e non sulla terra. Della nuova collocazione sembra che nessuno degli ascoltatori si stupisca, come di cosa culturalmente acquisita. Quando e come acquisita, dalle Sacre Scritture non è dato sapere. * Fatto è che Abramo crede nella propria discendenza, così come Defelice crede nella propria. A Riccardo è, in fondo, il racconto che Defelice (autore di Alberi?) fa a se stesso dei virgulti recenti e futuri generati dal tronco del patriarca. Con tanto di corredo fotografico: a inizio volume la figlia Gabriella (detta “la perla più preziosa”), sposa di Roberto e mamma di Riccardo; a chiusura la nuora Emanuela (detta “la perla di La-


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buan”), moglie di Stefano. Si vede subito come la tenda del patriarca, a Pomezia, accolga soltanto donne molto carine. Il diario ha inizio con le nozze di Gabriella. “Davanti a Dio gliel'ho consegnata”, mica scherzi, dice il patriarca, che Roberto sappia. Roberto, in fotografia, ha fortunatamente un sorriso rassicurante. Il banchetto di nozze ha solennità biblica, cibo e vino in abbondanza. Da noi, a Reggio Emilia, l'onere del banchetto è a carico del padre della sposa. A Pomezia, non so. Chiunque abbia provveduto, si indovina che non sarà necessario l'intervento di qualcuno, che salvi la festa tramutando l'acqua in vino. Ciò che distingue il patriarca dai comuni viaggiatori del mondo è il sentimento di appartenenza alle proprie radici. L'appartenenza non è sentimento lirico, ma epico. Quando ancora è atteso l'evento, Defelice si colloca con l'immaginazione sulla soglia dell'Eterno, colloquiando direttamente col nipote che verrà (Il primo fiore): l'albero vetusto ha due ramelle (Defelice-Ferraro; CeravoloMonteleone: nell'epica è doverosa la nominazione) da cui proviene Domenico; dall'innesto con la dolce Iannitto sono nati altri germogli; da uno di questi germogli sboccia Riccaro: “tu di loro sarai la prima gemma”. Forse non vedrò altri fiori, confessa Domenico al bambino che verrà. Doverosa scaramanzia. A Riccardo è in distribuzione quando (Pomezia-Notizie ne dà festosamente l'annuncio) da Stefano e dalla perla di Labuan è già comparso felicemente al mondo il piccolo Valerio. Una seconda gemma è comparsa nel vasto giardino del patriarca. * E finalmente (marcata a lettere la data: “Ventisei ottobre duemilanove”) la prima gemma diventa fiore, e sboccia al mondo. “Bello e biondo, come tua madre”. Il biondo è carattere recessivo, Domenico non è, o non era, propriamente biondo, mamma Gabriella sì: sembra di capire che l'innesto Iannitto abbia avuto il suo peso. Ho piantato un leccio: perché cresca insieme al bambino.

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Riccardo, immaginato centenario, potrà sedere felice all' ombra dell'albero. Fra cento anni, promette una sconsiderata previsione evolutiva, l'aspettativa di vita raggiungerà i centotrenta anni. Riccardo sarà un giovanottone. Non saprei riconoscere un leccio, nessuno me lo ha insegnato. Immagino sia un albero né troppo esile, né troppo maestoso, una giusta misura di albero ornamentale. Nonno Domenico, con gli alberi, ha un rapporto privilegiato: sicuramente, la cerimonia rituale del leccio, in luogo mettiamo di un tiglio o di una betulla, ha un significato evocativo che a me sfugge. L'idillio mi rappresenta una specie di squarcio impressionista, insieme mosso e immobile, di oscuro significato. Mistero, meglio così. E poi: Riccardo cresce, sicuramente superando in velocità il leccio piantato in giardino. Siede sulle ginocchia del nonno (In voi spontaneo, naturale: datata maggio 2010, sette mesi) e osserva incantato lo schermo del computer. Doverosa riflessione evolutiva: Riccardo, come tutti i figli della tecnologia, imparerà l'uso del computer come acquisizione naturale, spontanea, diversa da quella che è stata la faticosa applicazione del nonno. Quanto sia stata faticosa la mia, tuttora in atto, non dico. Il bambino imita il nonno, batte le manine alla rinfusa sulla tastiera. Tenerezza, sopra un velo emergente di malinconia: “Tu e gli altri che verranno / digitate un mio verso fra cent'anni”. L'epica, già interrotta dal breve idillio botanico, per un momento diventa elegia. Defelice si abbandona all'ontologia foscoliana del ricordo, evocando l' eternità terrestre nella perenne memoria dei vivi. Esattamente l'immortalità evocata da Ugo, poeta, attraverso la poesia. Esattamente l' immortalità evocata da Abramo, patriarca delle moltitudini. * L'egocentrismo foscoliano, proiettivo e in qualche modo lugubre, è di breve durata. In occasione del primo compleanno di Riccar-


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do, nel 2010, nonno Defelice si riappropria della funzione normativa (La poesia del suo scorrere lento): indica al bambino i quadri affissi alle pareti, e Riccardo sembra dimostrare precocissime attitudini estetiche (“Ti attraggono i quadri / e incantato rimani a fissarli / finché ti descriviamo figure, oggetti, paesaggi”). Ho in mente una fotografia, conservata nell'album di Efis mio figlio. Lui piccolino, non trascrivo la data sul retro della foto e non saprei dire, ma più o meno Efis ha due anni. Io lo tengo per mano, siamo a Venezia di fronte a Ca' Rezzonico, mamma Emy scatta la fotografia. Io sto illustrando a Efis le qualità architettoniche del palazzo, figuriamoci. I papà e i nonni sanno essere, qualche volta, incredibilmente stupidi. Incredibilmente partecipi, anche: il tempo passa veloce, a neppure due anni Riccardo è già assillato dalla scuola materna (Un assaggio), ad ogni mattina soffre il distacco da mamma, ritorna distrutto, si rannicchia sul divano abbandonandosi a un sonno agitato. Esperienza di lutto, spiega la psicologia, cui piace esagerare. “Un assaggio. Uno dei primi. / Il meno lacerante / di quello che la vita ci riserba.”, commenta con se stesso nonno Domenico, la cui capacità empatica di identificazione è commovente. La poesia di riferimento trasmette con tutta evidenza un dolore assolutamente tragico nel bambino. Il nonno argomenta una massima esistenziale con se stesso, si capisce benissimo, come difesa dalla propria sofferenza empatica. Come difesa, anche, da goffi e purtroppo correnti psicologismi d'accatto (forse Riccardo è viziato?, forse mamma Gabriella troppo dolce?, forse c'è qualcosa che non va all'interno della scuola materna, non si sa mai?). Oh, nonno Domenico ha ragione: il primo lutto, il meno lacerante. Nella mia immaginazione, una bambina di due anni sorride a Riccardo, Riccardo sorride alla bambina, Riccardo e la bambina si prendono per mano, le maestre della scuola materna a loro volta sorridono. Così vanno le cose nella realtà, dopo qualsiasi lutto. Vanno così, per fortuna.

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* Al vertice lirico della raccolta (Forse, in qualcuna, scorgerai il mio volto) è steso il patto di alleanza affettiva fra nonno e bambino. L'amore, anche a un livello così differente di maturità esistenziale, è sempre un'operazione di mutualità, si dà e si riceve. Che l'amore consista nell'esclusiva, e gratuita, donazione di sé all'altro è cosa che soddisfa il narcisismo superegoico, però è cosa che non rientra nell'economia reale dei sentimenti. Riccardo chiede al nonno l'onnipotenza rassicurante: nonno, manda via le nuvole, voglio il sole. Il nonno accetta il ruolo, parla alle nuvole, tanto prima o poi le nuvole se ne andranno e il nonno avrà assolto la sua funzione di onnipotente. A contraccambio, il nonno spiega a Riccardo il colloquio possibile con le nuvole, e questo è il dono della poesia. Così che Riccardo vedrà, un giorno, fra le nuvole il volto quietamente sorridente del nonno. Domenico dona al bambino la poesia; il bambino dona a Domenico la cosa più preziosa: il ricordo, la permanenza virtuale nel mondo dei vivi. * Agli altri che verranno, ha titolato Domenico. 14 settembre 2013: Stefano, suo figlio, sposa la Perla di Labuan. La passione del nostro poeta per Salgari è nota, “bisognerebbe studiarlo a scuola, in luogo del Manzoni”, mi ricordo abbia scritto una volta, bestemmiando, Domenico Defelice; inconsapevole, allora, che la sua richiesta sarebbe stata ascoltata a metà: a scuola non si studia più Manzoni, ma nemmeno si studia l'avventuroso eroe della Malesia. A corredo del volume, in chiusura, la foto di Stefano e della sposa Emanuela, a tutti gli effetti Perla di Labuan, perché bellissima. Nell'agosto 2014, Emanuela dà l'annuncio: è in arrivo Valerio. Nonno Domenico potrà piantare un nuovo leccio, nel vasto orto di Abramo. Rossano Onano


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I POETI E LA NATURA - 47 di Luigi De Rosa

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per ricordare (riammirare) il suo Mezzogiorno alpino, una poesia di soli otto endecasillabi contenuta nella Raccolta “Rime e ritmi”. Una poesia in cui è raffigurato un angolo della Natura che particolarmente piaceva all' animo fiero del “classico” poeta versiliese: “Nel gran cerchio de l'alpi, su'l granito squallido e scialbo, su' ghiacciai candenti, regna sereno intenso ed infinito nel suo grande silenzio il mezzodì. Pini ed abeti senza aura di venti si drizzano nel sol che gli penètra: sola garrisce in picciol suon di cetra l'acqua che tenue fra i sassi fluì.”

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

IL SERENO “MEZZOGIORNO ALPINO” DI GIOSUE' CARDUCCI

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bbiamo già incontrato, in una puntata precedente di questa rubrica, il poeta Giosuè Carducci (18351906), professore di Letteratura Italiana all'Università di Bologna, sulla cattedra che sarebbe poi stata di Giovanni Pascoli. Avevamo infatti commentato la poesia “Davanti San Guido”, un canto di nostalgia del maturo poeta dedicato agli anni della fanciullezza e dell'adolescenza, nei quali, tra l'altro, tirava sassi ai cipressi che da San Guido vanno a Bòlgheri, “alti e schietti” e “in duplice filar”, quasi in corsa “giganti giovinetti”. Oggi torniamo brevemente al Carducci

È uno scenario immenso, in cui la luce e il calore del sole dominano sui ghiacciai biancheggianti e luccicanti. E' il trionfo del mezzodì, che silenziosamente regna, con serenità, intensità e senza confini. È l'affermazione della Natura come regno a se stante, autonomo, dotato di proprie leggi immutabili e razionali (serene), senza commistione (e tanto meno confusione) con istanze spirituali del mondo infelice e nevrotico dell'uomo che con essa viene a contatto (per ammirarla o sfruttarla e violentarla). Siamo lontani dall'interpretazione della Natura data da un Leopardi (Natura matrigna) o da un Pascoli (benigna) o da un D'Annunzio (panismo metamorfico) o addirittura, più tardi, dai poeti ermetici come un Ungaretti e un Montale. Gli alberi (pini ed abeti), penetrati dal sole, si limitano a stare fermi, in mancanza di venti o brezze. Il silenzio (forse potrebbe sembrare un po' generico quel “grande” con cui viene definito il silenzio) è una sensazione prevalentemente “fisica” ed è rotto soltanto da un ruscelletto di poca acqua che fluisce tra i sassi (addirittura garrisce!). Anche il rivoletto è una presenza “fisica”, ma proprio nel finale della composizione sembra assurgere a personaggio me-


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tafisico, a simbolo del Tempo che scorre, fluisce inesorabilmente. Nell'attimo in cui scorre, l'acqua non è già più la stessa, quindi non “fluisce”, ma “fluì”, passato remoto che sta a rafforzare il concetto della precarietà all'interno di un paesaggio che spicca soprattutto per la sua “maestosità” e la sua immobilità. Tutto congeniale al classicismo e ad un certo razionalismo del Carducci, ben lontano da certe fumisterie retoriche di un D'Annunzio, o da certe nevrotiche ansie di un Montale che ricerca spasmodicamente, nella realtà, un segno di discontinuità, di mistero, di “anello che non tiene”. (Si riveda comunque quella stupenda poesia montaliana che è Meriggiare pallido e assorto). Luigi De Rosa

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è poter dire grazie alla natura per il sostegno, perché condivide il tuo aborrire un peccato di vanità che stai cercando di rimuovere, anzi di cancellare. Non è facile inghiottire con l’ossigeno l’amara delusione che ti pesa sulla testa e nello stomaco e digerirla ma tu, magia!, già voli, di nuovo libera da bassi sentimenti, nell’azzurro infinito con Atropo. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS

LA MACCHINA È UN ROTTAME CUORE DI REANO Quando il vento con le sue lunghe dita, sveglia il prato e l'oro accende i campi ecco ritorna nella mente l'erba nuova della speranza, sorride a queste genti con un abbraccio d'amore per ricordi lontani, immagini perdute. Resta il segno nel canto delle campanelle fiorite nella notte per accendere ancora una dolce stagione dove balleremo, canteremo in questo giorno di festa, Reano ci attende con il suo cuore guerriero che c'illumina di pace serena. Adriana Mondo Reano, TO

PECCATO DI VANITÀ E’ bello respirare l’aria fresca del mattino, emettere un respiro, lungo, di piacere fisico e poetico;

Presenza ondeggiante senza limiti nell’aria, pelle luminosa dei petali pieni di sole. Foglie verdi disegnate, aperte dita della mano. Teneri virgulti erti vibranti prendono tutto sopra la faccia rubiconda. Vesti leggere d’organza divenute rossastre e ruvide. L’erosione venuta lenta dal tempo che è corso come fiume, lembi di croste sovrapposte. Vermi nei tanti aspetti in giro continuo, piccoli camaleonti non si vedono stirati sui rami, avanti gli occhi, due punti fissi che paiono di pietra, pronti a salti contro mani rapaci. Le ruote ogni giorno alimentate dall’istinto della vita. Lunghezza attorcigliata a segmenti nel cammino frugando per terra, muso che estirpa e sugge. Ruggine degli ultimi passi, gli ingranaggi rotti staccati, la macchina è un rottame. Leonardo Selvaggi Torino


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Recensioni CAROLINA CIGALA RESPIRI Tullio Pironti Editore, 2015 Quello che Carolina Cigala ci dà con Respiri, il suo primo libro di poesie, edito da Tullio Pironti nel 2015, è un diario lirico, nel quale ella ha annotato sentimenti e pensieri che di volta in volta ha percepiti e tradotti in poesia, in un arco di tempo che va dal 13/08/2013 al 17/01/2015. Naturalmente questi testi costituiscono l’ espressione di diversi stati d’animo cui l’autrice conferisce parole e ritmo, puntando più sull’ elemento musicale che sulla diretta e immediata comunicazione dei contenuti, quantunque acquisti valore in lei anche l’elemento visivo. Ne risulta come una partitura che sviluppa un discorso melodico raffinato e complesso, nel quale sovente il significante acquista il valore di significato. A tal fine lo strumento di cui la Cigala si serve è un verso libero, dotato di slancio e armonia. “Gocce cadono sulla soglia / di inchiostro denso come bitume, / Il volo del tempo è fermo / tra le fauci del buio. / Quale coro ingoia la tua voce / in nobile custodia / mentre la terra si bagna avida / appassita madre / con membra umide di pianto” (I, 13/08/2013). La poesia è dedicata a zio Leo e s’ intuisce dal suo contesto che è stata ispirata da un evento luttuoso. Altre volte è la contemplazione della natura che nella Cigala suscita il canto, come accade nella poesia V del 25/08/2013, che così inizia: “Schiuma di mare / immacolata quintana / scolori il blu del dorso salato / in alvei dallo sbarco discorde. /

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Altera falange / non volgi ciglio alle spalle / folle ossessione di approdo / il languire sulla renosa costa / l’urto contro la ritrosa roccia”. E sembra di vederla l’onda che s’abbatte sulla “ritrosa roccia” generando mille spruzzi di spuma. L’autrice ha qui colto un momento di felice comunione col Creato, nel quale si è sentita partecipe di una più vasta armonia. D’altra parte che questa poetessa avverta fortemente il richiamo del mare lo prova il fatto che anche altrove tra queste poesie ne ritroviamo l’eco, come nella XII, del 15/12/2013, dove leggiamo: “Mare / nido per tratte in corsa / strappo a prolungati scali o nella poesia” o nella poesia XLVII, del 04/01/2015, che così inizia: “Il mare ha un fondo / oltre l’abisso / su cui colano desideri” o ancora nella XXXVIII, del 21/08/2014, dove leggiamo: “Mare e sabbia / cuori che fondono scudi / tu che divieni altro”. Altrove Carolina Cigala si contempla e più direttamente esprime qualcosa di sé, come nella poesia XXX, del 20/04/2014, dove ella dice: “Il mio passo non lascia orme. / Forse non so vederle / forse sono troppe da indossare. / Non trovo la porta per uscire / dalla tesa del naufragio”. Né manca tra queste composizioni il rapporto con l’altro, che emerge netto in poesie quali la XLVI, del 17/12/2014: “Una voce non più tua / ha detto cose non più mie. / Andare avanti. / Ancora. / Ma il mio ancora sei tu”. Leggiamo anche: “Verdi di nuova speranza / si sono accesi i tuoi occhi / intrisi di struggimento / smarriti in severa paura” (XVIII, del 19/01/2014) e “Dopo te c’è il punto / dopo il punto c’è oltre. / Vorrei abbracciarti oltre” (XV, del 04/01/2014). Si vedano anche la poesia XXVIII, del 05/04/2014, dedicata a Frida Kahlo: “I tuoi sguardi sono asciutti / come chi ha consumato i colori. / … / Cerco aggancio nella tua debolezza / la tua grandezza in una piccola forma” e la XXIX, del 12/04/2014, dedicata a Maria Cristina: “Ci sei sempre. / Come un paesaggio con più orizzonti / pregio di vista / strido di dolore”. Molto efficaci sono poi in lei talune immagini, racchiuse nel rapido giro di un verso, come: “Stille di insonnia lungo una candela” (XXXI, del 05/05/2014) o “Come brezza sospinta su spiaggia” (XX, del 09/02/2014). Particolarmente riuscite appaiono inoltre certe poesie che colgono momenti magici, nei quali il tempo pare essersi fermato, mentre l’animo è intento a guardare: “Vespro di un’estate mai vecchia. / Gerani su un muro salmastro / donna pallida come alabastro / voce di sangue emozionato” (XLI, del 07/09/2014).


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Ma un po’ dovunque si notano in questi testi momenti nei quali l’autrice pare entrare in comunione con il Creato, come avviene, ad esempio, nella XXXIII poesia, del 20/05/2014: “Nel sentore sospeso / in cui tutto è come deve / sopito il cicalio di incessante richiesta / ho provato ad accogliere il silenzio”. Un libro degno di attenzione questo di Carolina Cigala, che reca la Prefazione di Vittorio Paliotti e una Nota critica di Tommaso Ottonieri e che anche dal punto di vista editoriale appare molto curato, fregiandosi dei disegni di Maria Ciardiello e di Armando De Stefano. Elio Andriuoli

SANTO CONSOLI IL NOSTRO CAMMINO Edizioni “Il Saggio”, Eboli (SA) 2014, Pagg. 86 Il Nostro Cammino è parte di un libro bifronte di Santo Consoli (l’altra faccia si intitola Anelito d’Infinito, riguardata in altra sede). Il testo in versi del poeta siciliano è seguito da oltre trenta pagine comprendenti note critiche varie e l’elenco dei premi assegnati all’Autore; questi ultimi sono stati anticipati sinteticamente in apertura della silloge, ammontanti a 619 (al 2014, molti dei quali risultano primi, secondi, terzi e speciali). Numero che mi lascia impressionato, perché di fronte a tale collezione, temo che la mia riflessione rischi di impallidire. Lucia Clemente nella prefazione cita tre versi della silloge affermando che essi richiamano il “travaglio interiore e la consapevolezza del fugace”; si riferiscono al pane, “parola che può rappresentare l’ universale seppure nella sua accezione umana nella quale diviene figlio e padre”. Le poesie del Consoli sono generalmente di media lunghezza, dal verso libero e dal numero di sillabe fluttuante. Alcuni versi della poesia incipitaria dicono: “Quando con me/ l’unico compagno è il silenzio,/ (…)/ so che andrò incontro/ ad un’ esistenza/ di placato dolore.” Nel suo cammino si rivolge ora ad una Fanciulla, ora alla sua Innocente Bambina. Le stagioni si rincorrono e l’anima con serenità, si dispone a nuove emozioni; una “stagione è perenne,/ raggiungibile/ pur nella sua lontananza,/ tre volte rivisitato da Amore./ A te io canto.” (pag. 15), canta l’ultima ‘ninna nanna’ ad un Angelo Biondo che farà “parte della schiera dell’Empireo/ tra arcangeli, serafini e cherubini.”. Il destinatario mi sembra che transiti in un inno alla vita (fanciulla, bambina, angelo), per un amore che non vedrà mai la fine, un sentimento di tene-

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rezza. Sono emozioni espresse in dissolvenza, tra il velo di tulle e il criptico; si sa che i moti dell’anima non sono monocorde, perciò è possibile passando da un componimento all’altro, confondere il destinatario. Momenti quotidiani reinterpretati secondo la sensibilità del momento lungo il cammino, un cammino costellato di eventi gioiosi e dolorosi, ma senza perdere la speranza, anche se la storia si ripete, fra luci e ombre. Santo Consoli si fa più pensieroso, medita sull’ amore che mai cesserà: “Nel mio margine/ ti ritrovo,/ pronta a ricordare/ le carezze di un tempo,/ pronta a profumare/ carezza nuova per me.” (32) in una realtà fantasmagorica in cui vita e morte sembrano fondersi in un solo sentiero (mi sovviene l’ immagine della farina impastata in preparazione del pane). Nella poesia eponima comprendiamo nettamente di quale legame si tratta: “Sei stato figlio, sei stato padre;/ sono stato genitore, sono stato figlio./ Siamo comunque stati fratelli,/ Fratelli nell’ Amore./ (…)// ‘Quel’ giorno ci siamo accovacciati/ l’ uno accanto all’altro:/ ancora una volta non si capiva/ chi fosse figlio e chi padre.” Questa è la meta cui conduce Il nostro cammino: l’eredità affettiva tra padre e figlio; e questo è quanto basta. Tito Cauchi

MARIA GRAZIA LENISA LETTERE Il Croco/ Pomezia Notizie, Luglio 3015, Pagg. 92 Nel mese di gennaio 2015 Domenico Defelice ha dedicato il quaderno letterario Il Croco alla scrittrice e poetessa friulana con il semplice titolo Maria Grazia Lenisa. Ebbene quest’altro, di luglio 2015, che ha il triplo di pagine rispetto al primo, è come se fosse una ideale continuazione di quello in quanto ci permette di entrare nel privato, senza filtri, restituendoci la Poetessa nella sua dimensione umana, nell’ intimo quantomeno serio (Maria Grazia Lenisa: Udine, 13 febbraio 1935 – Terni, 28 aprile 2009). Marzia Alunni intitola la sua nota introduttiva: ‘Un dialogo ininterrotto con la poesia’, spiegando della passione letteraria della Poetessa fin da ragazza, aderendo appieno alla rivista Realismo Lirico di Aldo Capasso. L’epistolario che ci viene offerto è coinvolgente per gli argomenti vari trattati, avverte che la Lenisa sosteneva che la scrittura è la vera espressione di libertà e la pubblicazione deve avvenire a prescindere dai plausi: “esprimere con calore la felicità di leggere, tutto ciò denota una missione vera, è la dimensione della più completa intellettualità.” Le ultime lettere mettono a nudo la patologia


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che accompagnerà la Poetessa fino alla fine dei suoi giorni (Ammiriamo il garbo di Marzia Alunni che scopriamo esserne figlia). Segue la premessa di Domenico Defelice, destinatario delle Lettere, il quale spiega che, per ragioni di spazio in casa, ha dovuto “sacrificare” molto materiale; avverte, altresì, che gli scritti sono spontanei, fra amici, privi di finezze letterarie, trattandosi di momenti di “raccoglimento”, come la stessa Lenisa raccomandava, aggiungendo che sono un “raro dono d’umanità”, con ciò giustificandone la diffusione come dono all’umanità. Per quanto sopra, nel corso della lettura comprendiamo che della quasi cinquantennale amicizia con il destinatario, le lettere riportate riguardano solo gli ultimi trent’anni, 1974-2003. Così assistiamo ad alcuni eventi come della nascita della rivista Pomezia-Notizie nel 1973, fondata da Domenico Defelice, assistiamo ad alcune vicissitudini come il cambiamento di formato della stessa (nel 1993) e di orientamento (dalle notizie sulla città di Pomezia e della pubblicità ai soli argomenti di interesse letterario) e come abbia attraversato periodi difficili come spesso succede alle riviste senza protettori. Il lettore assiduo riconoscerà gli autori e collaboratori nominati della Rivista, così pure ricorderà i titoli delle opere richiamate, ricevendo così l’ impressione della grande famiglia; ma come in ogni aggregato umano emergono anomalie e contraddizioni (ambizioni e invidie letterarie). Risalta l’ammirazione di Maria Grazia Lenisa per la scrittura di Domenico Defelice, soprattutto della prima maniera, il periodo edenico; infonde sicurezza all’amico più giovane (ma solo di un anno); emerge l’autocompiacimento per gli apprezzamenti ricevuti; compare il lento passaggio dal ‘lei’ al ‘tu’. La Nostra, fin da subito, dichiara di essere “orgogliosa, prepotente e se non mi dicono brava, me lo dico da sola.”, sostenendo che la bellezza dei poeti è che essi hanno la capacità di rinascere sempre. Assistiamo all’ansietà che accompagna le proprie opere prima di stamparle: costi e sacrifici, e durante la diffusione si vivono le aspettative sugli esiti da parte dei lettori e delle giurie; sperare di essere accolti favorevolmente e sollecitare recensioni osservando che “ovunque ‘sub condicione di abbonamento”; ma assistiamo anche a inevitabili delusioni. Qualche incomprensione fra i corrispondenti raggiunge punte acuminate, è causa di contrarietà. La Lenisa controbatte, a proposito di questioni conturbanti, della propria poetica erotica, dicendo di avere vissuto per qualche anno in un collegio di monache francesi a Roma, in tutti i casi si sarebbe trattato di provocazione e di ironia. Ha scelto di uscire dagli schemi che vogliono la donna moglie e madre

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esemplare, vuole stare fuori dall’idillio (allora quarantenne). Il corposo quaderno di Lettere, ci dà uno spaccato anche di vita ordinaria, vissuta nell’arco degli anni: saluti nelle ricorrenze, notizie delle proprie famiglie, il malcostume. Man mano che passa il tempo, sembra rivivere le emozioni e le preoccupazioni della Poetessa e di riflesso di quelle del destinatario. Cresce l’angoscia dei genitori per le difficoltà che i figli incontrano per trovare un lavoro ed anche per le difficoltà economiche degli stessi adulti; così apprendiamo dei relativi familiari (le figlie Marzia e Francesca, e Dino il marito; e dall’altra parte i figli Gabriella, Stefano e Luca, e la moglie Clelia). A volte si soffre per l’ ingratitudine degli autori recensiti, dei poeti che credono loro tutto dovuto; altre volte assistiamo all’orgoglio per i premi ricevuti. Vediamo M. G. Lenisa orgogliosa di essere stata inclusa in prestigiosi libri (per es. nel “V tomo il secondo Ottocento e il Novecento della Storia della civiltà letteraria italiana, edita dall’UTET”). Nel lungo excursus è Maria Grazia che rincuora Domenico, che gli dà consigli, di non disperare, di pensare ai vari casi di autori ignorati dalla critica in vita e poi rivalutati (indicando, per es., Sandro Penna), dice che lo scoramento dell’amico fraterno non è “crisi nella resa poetica, ma come uomo”; consiglia strategie di autopromozione, come per esempio che “È importante scrivere di autori di rilievo” (12.7.90). Vediamo la sua partecipazione al premio Città di Pomezia e abbiamo con le edizioni Pomezia-Notizie La ragazza di Arthur (nel 1990) e nel contempo comunica di essere malata, di soffrire di emicrania fin quando nel 2001 si concretizza il suo male nel cancro da lei trasformato ironicamente nel suo amante Cancer, perciò aveva “una certa fretta” di portare a compimento la sua opera. Ammira Solange de Bressieux, Paul Couget, Ada Capuana, Gino Raya giudicandone il Famismo ideato essere volto ad una “visione filosofica ad estremismi inaccettabili” (oggi tutti scomparsi). Incontriamo Giorgio Bàrberi Squarotti di cui è amica e tantissimi altri autori come possiamo immaginare dalla osmotica comunicazione epistolare e lettura dei rispettivi libri. È orgogliosa di essere tenuta in considerazione come la Spaziani e la Guidacci, ricordando: “Non dico a tutti queste cose, né desidero ‘vantarmi’. Il mio impegno è umile e solitario” (22.10.82), spiegando di non essersi allineata ad alcuna cordata (“le ‘sette’ o ‘orde’ letterarie”). Maria Grazia, non svolgendo attività professionale non dispone di risorse economiche, ciò è motivo che rallenta la pubblicazione delle sue opere o la semplice partecipazione a concorsi. Lei invita Domenico alla pazienza e alla tolleranza per la libertà


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letteraria, ma Defelice risponde, che lo sperimentalismo finisce per violentare il linguaggio; mentre Lenisa replica: “ma ogni polemica ad oltranza diviene aggressione e non è il caso di rivendicare le proprie idee” (18.11.2001). Il direttore di Pomezia Notizie puntualizza che il suo disappunto è dovuto al fatto che non ammette “certe castronerie” per non dare l’impressione che “condivida tutto. Nel 2003 entrambi concordano di pubblicare il Canzoniere Bifronte con l’artificio di un coautore inventato, Max Bender, in una sorta di scherzo. I collaboratori della Rivista rispondono con le loro recensioni, così nel 2004 la Nostra espressamente ringrazia per l’attenzione Silvana Andrenacci, Isabella Michela Affinito, Flavia Lepre, Sandro Allegrini, Tito Cauchi. Maria Grazia Lenisa e Domenico Defelice si controbattevano, ma mai la loro amicizia fraterna è venuta meno. Qualche lettera è del 2006, ma la chiusa è affidata ad una poesia dal titolo “A te” datata 8 giugno 2003, lasciandoci la sua autoironia “Volle ieri la luna prendersi i miei capelli,/ un cespo di riccioli,/ scendere in terra,/ (…)/ Cancer mi strappò di nuovo i capelli,/ in una lite furiosa,/ (…)/ Vedrai/ che bei capelli mi nascono, bella/ da urlo./ Se fai coppia con me, diranno: che bella/ giovane!” Le Lettere sono un esempio di grande amicizia, evidenziano il valore della scrittura epistolare e sollecitano un confronto con i lettori. Possiamo ricostruire un profilo poetico singolare fatto di scelte proprie, un “raro dono d’ umanità”, come assicura il Defelice. Mi immagino la Lenisa non come una Saffo, una Musa, ma come una novella Giovanna D’Arco sostenuta da spirito combattivo. Scopriamo un profilo umano fatto di pace interiore, senza una parola fuori posto. L’ energia emanata dalle Lettere mette in movimento un certo trascendimento. Insospettabile l’ autoconsapevolezza che fa, della M. G. Lenisa, come generalmente preferiva firmarsi, una custode di umanità che la rivela vera artista capace di trarre quiete, nutrimento e ispirazione dal suo amante chiamato Cancer, fino alle esagerazioni espressive, su cui non indugio oltre. Tito Cauchi

ANTONIA IZZI RUFO VOCI DEL PASSATO Edizioni Tigulliana, luglio 2015, Pagg. 52, € 10 Antonia Izzi Rufo, questa molisana che negli anni ha assunto nei cromosomi dello spirito e del fisico – come ben traspare dalla splendida immagine del retrocopertina – le più incantevoli peculiarità pri-

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migenie della sua regione: monti scoscesi, impervi sentieri, inesauribili fonti; poi tramonti ventosi, notturni stellari, serene albe; ed ancora chiacchiericci della gente, martellare di maniscalchi, segar manuale di falegnami; questa molisana – dicevo - che dallo scampanare del gregge, o dal raglio del somaro, distinse – bambina – il pastore, o il contadino, in partenza per l’usato travaglio al principiare del giorno, ci consegna oggi con Voci del passato un messaggio che ne fa testimone di un’età – azzardo a dire – contigua a quella, mitica, dell’oro. Ma non scorrono – nel volumetto – fiumi di latte, o di miele, né si disegnano scene amorose dove il Tasso dell’Aminta direbbe: s’ei piace, ei lice. Fluiscono invece memorie di anni purtroppo irripetibili nei quali la semplicità, la schiettezza, l’ immediatezza trasparente dei comportamenti umani si coniugava coi sentimenti dell’affetto, del rispetto, della gratitudine. Il raffronto col presente si realizza anche su molteplici dimensioni del vivere. Ne vien fuori, ad esempio, lo stacco che direi tettonico tra la sobrietà, la saggezza, la parsimonia che un tempo temprarono il carattere dei giovani promuovendo il valore della moderazione e del risparmio, e gli sprechi su larga scala, dai quali non sanno esimersi talvolta nemmeno gli indigenti. E tanti altri aspetti della quotidiana relazionalità sono toccati negli agevoli capitoletti: la scuola, l’educazione, la famiglia. E nella famiglia l’interscambio dei ruoli tra maschio e femmina, cui la Izzi Rufo, per quanto anche lei donna ben gelosa della propria autonomia, assiste con istintivo rifiuto. Il tutto in pagine dove la prosa veleggia lungo le rotte della poesia lirica. Aldo Cervo

FILOMENA RAGO VOLO A METÀ Prefazione di Gino Rago, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli (Cz), 2014, pp. 85. € 10 Gino Rago, fine poeta e interprete, coglie molto bene la sostanza vera di queste suggestive e sincere poesie di Filomena Rago, provata da un grande dolore: la scomparsa, a quarantasei anni (e 46 sono le liriche della silloge) del diletto marito. La stessa poetessa di Cerchiara di Calabria (8 ottobre 1968) in pagine illuminanti che si intitolano Nota dell'autore ci dà una serie di informazioni e notizie che ci mettono meglio nelle condizioni di capire queste poesie. In questa Nota viene detto espressamente che la "vera scintilla" di questo primo libro poetico l'ha sentita e provata nei versi della Rosselli dedica-


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ti a Rocco Scotellaro, morto per infarto a trent'anni: " Mi sforzo sull'orlo della strada / a pensarti senza vita./Non è possibile,/ chi l'ha inventata questa bugia ...." Orbene nelle belle e intense poesie della Rago appare l'assenza della persona amata, di Giacomo a cui sono dedicati versi profondi, umanissimi, commoventi, adoperando un linguaggio sempre chiaro, diretto, essenziale, e ciò secondo me è la nota fondamentale di questo intenso libro poetico della Rago che si apre con un componimento dal titolo In memoriam (A Giacomo): "Dolce vita della mia vita/un’alba dannata ti ha strappato a me /alba traditrice alba assassina,/ha spaccato il mio cuore ed ha fermato il tuo" (p. 119). Esordisce bene Filomena Rago che ci dà una poesia autentica, originale nei temi e nella lingua, come è ampiamente mostrato dalle citazioni seguenti: "Che confusione nella mia testa/che pensiero fisso nella mia mente!/Solita strada stesso cancello,/stessi gradini stessa fontanella./Li mi fermo..../Osservo ogni cosa!/Ti sento, sento la tua presenza/non ti vedo. Dove sei?/Sarai uno degli uccelli che in volo sfiorano gli alti cipressi?/ Sarai quel venticello che mi accarezza il viso?" (p. 129); "ti prego:/fa che io possa correre lungo lo stesso tuo sentiero/insieme, nella Luce, per essere felici" (p. 19); "Delicato profumato si avvicina/mi guarda con amore /lo imploro non lasciarmi!/Ma pian piano si allontana.../Piango, piango ancora / è tutto vano,/ tornerà per non restare" (p. 23). Comunque Filomena Rago si affida completamente alla delicatezza e alla profondità della poesia, delle parole per dire questo suo immenso, grande dolore per la perdita, per l'assenza dell'uomo amatissimo. Certamente "Scorre il tempo gli anni passano / la fiamma dell'amore /è quella del primo giorno che ti ho visto./Il tempo non lenisce il dolore /per quella improvvisa partenza,/ né si placa nei suoi tagli." (p. 71). Si vede come tutto scorre in modo naturale, semplice ma intenso e profondo. Non metafore strampalate o immagini o oscurità nella poesia della Rago alla quale interessa solo essere in armonia con "Giacomo, con la sua particolare percezione delle cose, con il suo sentimento della vita (...)" (v. Nota dell'Autore). Nonostante sola e affranta dal dolore la donna, la poetessa Filomena Rago lotta, ama la libertà di pensare, fantasticare, anche se soffre, ma si libera nella sua poesia, alla quale affida i suoi sentimenti, le sue emozioni e sensazioni, i suoi pensieri, il suo dolore che coinvolge diverse persone, come il padre: "Anche tu papà sei bello,/ delicato, sensibile./Nel dolore roccia ti sei mostrato/fortezza per la famiglia:/mi sei rimasto accanto./Al tuo cuore quanto è costato?" (p. 30); e poi la madre: "Madre, mamma dolce,/mamma silenziosa, mamma paziente,/(,,,)/ Mamma non maledico la

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mia esistenza/ti dico grazie per avermi messa al mondo:/ non potevi sapere..../Quanto ti adoro" (p. 31). Poetessa sensibile Filomena Rago è pure poetessa di caldi e teneri sentimenti, poetessa che canta la vita nella gioia e nei dolori e lo fa con toni naturali, spontanei che si concretizzano poi in stilemi e immagini incisivi e altamente poetici e umani, ed ecco cosi ancora ci è dato leggere: "Carezze per te che mi hai venerata /e per sempre amata." (p. 46); "Avete deriso il mio dolore /adesso andate via lasciatemi sola" (p. 65); "Perdonami Signore / se confido in Giacomo /e se amo Giacomo /più di TE!" (p. 75); "Mi sento stretta in una morsa/affogare nel lamento dell'umana indifferenza" (p. 26) e per finire: "Siate liberi di andare controcorrente,/ di affermare la libertà, /di esprimere ogni sentimento" (p. 76). Ciò mi pare lo fa molto bene Filomena Rago in questa sua felice silloge poetica che mostra pure il "coraggio" della donna e della poetessa che ha colto "in libertà" la vera essenza dell'umanità ,di se stessa, degli altri: "Porte che si chiudono /pugnali infilati nella schiena /mentre aleggia l'omertoso silenzio/ mentre lento si consuma il tradimento" (p. 62); "Sarebbe bello/ con te poter volare/lontano lontano./poter dire/il nostro sacrificio non è stato vano". Parole semplici, di tutti i giorni, familiari, sono queste della poetessa Rago che ama un linguaggio non complicato ma poetico, sensibile, una lingua, delle parole che si elevano "alla dignità dell'arte", e in ciò consiste uno dei maggiori pregi di questa voce poetica: “Dolce vita della mia vita, aiutami, sorreggimi, proteggimi /come hai sempre fatto, amore eterno ci siamo giurati /e cosi sia, della vita della mia vita" (p. 11); " Nipote mia primogenita / desiderata attesa soffio di primavera,/Piccola,bagnata nella culletta ti trovai./Apristi gli occhi due grandi fari,/Che belli!/Dio li tolse al mare e te ne fece dono" (p. 33). Poesia che convince questa di Filomena Rago, e sono sicuro che a questa silloge ne seguiranno altre. Carmine Chiodo

IMPERIA TOGNACCI LÀ, DOVE PIOVEVA LA MANNA Edizioni Giuseppe Laterza - 12E Il cammino spirituale di Imperia Tognacci, alla ricerca del sé e del vero, continua in questo poemetto ispirato da un viaggio in Giordania. Vorrei introdurre l'analisi di questo incantevole testo con la citazione di tre versi, rintracciabili a pagina 41. "Umano cammino iniziato con Adamo, / cadi nel tuo limite, disunito / dal disegno infinito che ci


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sfugge". (Dalla quarta sezione intitolata "Per sentieri di sabbia e di vento"). In tutte e sette le ripartizioni di questa silloge la poetessa ci rende partecipi del suo profondo interrogarsi durante la permanenza nel deserto. "Si, cerco il deserto, per essere / una tabula rasa". Ella dice addio alle abitudini, alla casa, alla città, agli oggetti per immergersi "su sentieri di sabbia e di vento". La marcia è difficile: "Fermarsi è morire. L'acqua / del prossimo pozzo ci chiama". Intanto cade l'oblio "su ingorghi cittadini" e ci si avvicina a chi solo al vento affida "sillabe di luce". Nell'incanto di Petra la scrittrice rivive la storia di uomini che scavarono dimore e templi nella roccia e ascolta il pianto "di coloro che salivano muti, / sdrucciole scalinate di pietra". Eppure ancora si piange sulle imbarcazione dei fuggiaschi, sui fili spinati delle guerre. Solo dirigendo i passi verso la propria anima si aprono nuovi orizzonti, solo la forza dell'amore può dissetarci. Nelle notti del deserto la Tognacci si sente "parte di un progetto / nascosto tra gli spazi degli eventi". In ogni pagina viene ricreata la storia di chi ci ha preceduto: rievocazioni di alta suggestione, tra figure di beduini, cammellieri e regine, in un paesaggio straordinario. E a Qumran fiorisce un pensiero memore sulle giare ove furono nascosti "tesori di sacre scritture". Anche la vita è un deserto, se non riaffiora dalle sue profondità "il Verbo che ci indica la strada". Il viaggio della poetessa si conclude ad Aqaba; anche lo splendore del mare è offuscato dall'onda oleosa delle petroliere. E poi ella ritornerà alla vita di sempre: "torno tra le illusioni demolite / sperando che pietra su pietra / sorga un mondo migliore". Si vorrebbe citare ogni verso di questo poema dell'anima, affabulante, dallo stile altamente liricomeditativo. Imperia Tognacci conferma in questa recente opera, frutto di un ingegno splendido, le sue doti di esploratrice dell'umano, la sua sapienza intellettuale.

Elisabetta Di Iaconi

MARIA GRAZIA LENISA LETTERE Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, luglio 2015 Carissimo Domenico, ho letto il tuo super speciale IL CROCO, dedicato alla grande Autrice Maria

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Grazia Lenisa, la tua cara amica da tantissimi anni con le sue lettere così piene d’affetto per te e la tua famiglia. Le lettere sono un tesoro inestimabile, la testimonianza di una vera e indissolubile amicizia, che cresce sempre di più e colma di tenerezza e di ansia infinita entrambi. Le ho rilette parecchie volte e mi sono immedesimata con lo sfogo che parte dal profondo del cuore, della dolce Maria Grazia e il suo soffrire, coraggiosa e forte nella sua crudele malattia, non si è mai fermata con le sue critiche, con le sue recensioni, ha continuato a scrivere, a pubblicare i suoi interessantissimi e prestigiosi libri, non si è arresa, ha raggiunto gli obiettivi prefissati, è stata eroica (non erotica) fino all’ultimo. Che Donna stupenda! Che splendida Poetessa! Sono commossa fino alle lacrime per la sua lunga sofferenza e il suo coraggio e la sua meravigliosa corrispondenza con te, grande e unico amico, che gli ha dato tanto conforto e affetto illimitato. Sei stato il suo angelo custode, dal 1950 dura questo magnifico, nobile sentimento di pura ed intensa amicizia, di un bene immenso e indistruttibile, che solo la morte ha potuto interrompere. Leggo e rileggo e la grande emozione m’invade il cuore e la tristezza di aver perso questa meravigliosa Artista, mi colma di dolore, scoprire la sua terribile sofferenza è qualcosa che ti prende e ti catapulta in un labirinto di sconforto. “Caro amico per sempre, mi sono di nuovo caduti i capelli e sono in chemio! Dicono che è un miracolo che vivo.” Da pagg. 90. Sono parole che rimangono inesorabilmente scolpite nella mente e nell’anima, immagino come ti sei sentito tu nel ricevere questa terribile lettera. Apprendere questa infinita sofferenza, lascia esausto e addolorato ogni essere umano, non si può non essere coinvolti in questa immane tragedia. Il suo coraggio, il tuo grande affetto, sono da lodare continuamente, senza tregua alcuna. Un’amicizia solida, inarrestabile, se qualche screzio c’è stato, è stato superato brillantemente, aumentando sempre di più l’affetto reciproco. Carissimo Amico, Dott. Domenico Defelice, Direttore della nostra stupenda POMEZIA-NOTIZIE, come hai fatto a custodire per anni e anni questo mosaico d’amore? Hai costruito un grande capolavoro da conservare per sempre e tenerlo a portata di mano, per dare l’opportunità di poterlo leggere tutti gli amici e fare apprezzare questa miracolosa amicizia, che nessuno ha potuto interrompere. Solo la morte ha avuto il potere di spezzarla. Impossibile descrivere a fondo questo gioiello d’arte come merita, non trovo le parole adatte, tutto


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mi rimane dentro, ben conservato negli abissi del cuore, nel ricordo dolcissimo e indelebile della splendida Autrice Maria Grazia Lenisa. Io, la mia famiglia e tutti gli amici dell’A.L.I.A.S. ti ammiriamo, ti stimiamo, sei il nostro perenne orgoglio, il nostro maestro, ti vogliamo bene per sempre, sei tanto lontano, ma sei vicino con l’ amore immenso che ci accomuna, nella passione di scrivere i nostri puri sentimenti, che non hanno confine. In chiusura di questo percorso triste e luminoso, una meravigliosa poesia dedicata al nostro Direttore dalla nostra Maria Grazia, Lui, Domenico Defelice, grande e unico, sempre pronto a regalarle amore, non solo a Lei, ma a tutti i suoi infiniti lettori vicini e lontani. Bisogna leggere questo prezioso IL CROCO, per valutare il bene, che sicuramente rimarrà impresso nei nostri cuori, per la nostra Autrice Maria Grazia Lenisa e il nostro insuperabile Direttore Domenico Defelice. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia

LOREDANA GIANNICOLA (A cura di) UN VIAGGIO LUNGO 152 ANNI. IL “LUCREZIA DELLA VALLE” DA SCUOLA NORMALE A LICEO Jonia Ed.ce, CS, 2014, pp 256, € 20,00 Nella Collana di studi, manuali e ricerche Mezzogiorno scuola educazione, diretta da Nicola Trebisacce e Brunella Serpe, per i tipi della Jonia Ed.ce di Cosenza, brillantemente e sapientemente organizzato e curato da Loredana Giannicola, attuale Dirigente dell’istituto scolastico, esce Il “Lucrezia della Valle” da Scuola normale a Liceo, un libro prezioso e dai molteplici pregi che ripercorre i 152 anni di vita di questa gloriosa scuola cosentina, che ha dovuto, nel corso degli anni, affrontare problemi di collocazione logistica, di sdoppiamento, di sede, di denominazione, riformularsi e adattarsi alle esigenze dei tempi, ma comunque senza perdere e sempre mantenendo la sua fondamentale funzione educativa, di scuola aperta al fermento culturale e sociale calabrese e nazionale e punto di riferimento certo per la città di Cosenza e tutta la sua provincia. In queste e altre difficili condizioni, ripercorse minuziosamente e con grande competenza e professionalità dal Prof Giuseppe Trebisacce dell’ Università della Calabria, Storico della Pedagogia, l’ Istituto “Lucrezia della Valle” ha fatto e continua a fare storia, come dimostra ora questo importante lavoro di L. Giannicola, che punta l’accento pro-

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prio sull’importanza, soprattutto come insegnamento per le nuove generazioni, della Storia, di una scuola sì, ma anche di un luogo, di una popolazione, di una identità, e della Memoria, perché come sottolinea il Prof Trebisacce “La nostra scuola è una scuola smemorata, che non conserva la memoria del proprio percorso, non ha cura di ciò che produce”, riprendendo e proponendo alcuni concetti base di Maria Teresa Sega (2001) riguardo ad una mentalità essenzialmente burocratica con la quale è stata e viene in gran parte gestita la nostra scuola, dove si buttano i temi svolti dagli allievi, e si conservano invece le Gazzette Ufficiali dello Stato (pgg 16-17). Loredana Giannicola raccoglie e fa suoi quest’ insegnamenti, tanto che dell’illuminante e corposo saggio d’apertura di G. Trebisacce, svolto con amore e con certosino lavoro di ricostruzione dei dati storici rinvenuti e che inquadra tra l’altro il valore immenso che possiede l’archivio e la biblioteca di una scuola, ha voluto giustamente farne il titolo del libro, come migliore interprete dello spirito del “viaggio” che, assecondando la memoria, è stato fatto e che necessariamente deve continuare ad essere svolto da parte di chi, come Lei, la Giannicola, in primis, quest’eredità riceve, ha voluto accettare e arde nel desiderio di portarla avanti, sviluppandola in tutte le sfaccettature che tradizionalmente il “Lucrezia della Valle” ha fatto convivere, intrecciando livelli multidisciplinari e confronto, dialogo e creatività tra gli studi Liceali Classici, Linguistici e artistico Musicali. Giannicola, come curatrice attenta e scrupolosa dell’opera, autrice anche di tanti altri fondamentali lavori sulla scuola, non ultimo Valutazione e Scuola (2014), così motiva questo suo corposo e laborioso e organico lavoro: “Assumere la responsabilità della memoria significa restituire alla realtà le sue radici ridando senso e continuità ai valori della comunità, per consegnare ai giovani una cultura che non dimentica la tradizione storica poiché è in essa che si fonda la continuità delle generazioni”(pg 11), che risuona come vero e proprio proclama di continuità nella programmazione della sua dirigenza dell’Istituto e richiesta di collaborazione rivolta all’intero organico della scuola, nonché d’aiuto e condivisione da parte dei soggetti educativi del territorio, in termini di intreccio sistemico che guardi al nuovo e al rinnovamento democratico, soprattutto nel proposito di iniziative e innovazioni didattiche e arricchimento dell’offerta formativa per alunni e docenti, al fine di ridare centralità nella città a quest’Istituto e a tutto ciò che ha rappresentato e rappresenta per l’intera vita cosentina e per i calabresi.


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L’auspicio augurale che Trebisacce fa allora è che l’impegno dell’attuale dirigente e dell’intero corpo docente possa dare “una sistemazione idonea e definitiva alla Biblioteca e all’Archivio della scuola in locali in corso di ristrutturazione” perché questo possa contribuire a far luce quanto più possibile “sulla storia di una delle scuole più antiche della città di Cosenza” (pg 17). Un libro, come si può ben capire, dal valore immenso, una miniera di spunti didattici e d’idee nell’operatività istituzionale, che si lascia leggere tutto d’un fiato e con piacevolezza, per la scorrevolezza e la proposta organizzativa presentata con coinvolgimento graduale, passando dallo studio della ricerca, alle testimonianze e vissuti di chi della vita del “Lucrezia della Valle” ne è stato diretto protagonista, come gli ex presidi, fino alla dirigenza Giannicola; come i professori che nell’Istituto hanno insegnato e dato il meglio di sé; degli ex allievi, persone che hanno saputo apportare novità e dare il loro contributo d’idee e che oggi continuano ed occupano posti di rilievo in vari settori del tessuto sociale nazionale, come ad esempio: Luigi Pellegrini, Ercole Posteraro, Francesco Costabile, Santo Giudice, Leonardo La Polla, Carmine Chiodo dell’ Università Tor Vergata di Roma, del quale mi piace riportare questa semplice battuta: “Vecchi tempi, un’altra Cosenza e Italia (…) A me è giovato tantissimo nel prosieguo dei miei studi aver frequentato questo glorioso Istituto, giustamente uno dei più prestigiosi della Calabria” (pg 205); e perché no, magari come idea integrativa per una prossima edizione del libro, i pareri dei Genitori, lo dico come genitore che ha avuto iscritto e diplomato al Liceo linguistico suo figlio David e che insieme a lui, e ancor di più ora leggendo le ricostruzioni storiche della Giannicola, ha vissuto le difficoltà della reggenza del Preside Rodolfo Luciani, e quindi la necessaria volontà riorganizzativa da parte della dirigente Ermenegilda De Caro. Ora le istanze innovative, le nuove impostazioni programmatiche, di ripresa dei contenuti e di fervore partecipativo e formativo alla vita della scuola, si concentrano e fanno necessario riferimento alla professionalità pedagogica e manageriale della Giannicola, e che di cuore sinceramente auguriamo lei possa serenamente portare avanti e sviluppare con tutto l’amore e l’attenzione, l’ accoglienza che la contraddistingue e che fa ben sperare nell’ affermarsi di una nuova stagione per tutti gli allievi del “Lucrezia della Valle”, che nella serietà formativa potranno trovare una maggiore facilitazione per il successivo loro inserimento nel mondo del lavoro. Pasquale Montalto

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IMPERIA TOGNACCI LÀ, DOVE PIOVEVA LA MANNA Edizioni Giuseppe Laterza. Bari. 2015. Pg. 80 Precipite il tempo: tra onde di ritorno chiama il faro dell’ultima frontiera. Tutto, all’improvviso, deraglierà. Poco importa a te, madre terra, se sarà stata la punta di una pietra di salice, o la frana dei giorni su di noi, a condurci dove ogni cosa tace e dove l’ombra senza memoria regna. Un inizio di grande essenza significante, dove è possibile leggere l’inquietudine dell’esistere e le tappe di un iter che fa della realtà un motivo d’ indagine. Questo “Poema” lineare e organico per pensiero e forma – un verso libero che permetta a Imperia Tognacci di non restare vincolata a un modus scribendi che può limitare l’effusione lirica del canto – parte proprio da una realtà fisica e spirituale per cercare di agguantare le soglie della verità. Cammino difficile e intricato attingere qualche risposta dai perché della vita; dacché il nostro essere, pur cosciente della precarietà della sua vicenda legata al luogo e al tempo, contiene quegli impulsi che lo elevano e lo invogliano alla ricerca. Lo spirito e la materia, la terra e l’oltre, le cose e la fuga; un equilibrio di contrapposizioni, una fusione di contrari che alimenta con energica forza linguistica la storia di un’anima. Il suo viaggiare in un mare illuminato da un faro dalla scia troppo breve per le esigenze di uno spirito vòlto alla conoscenza di sé, del rapporto col mondo, con le stelle e l’universo, con l’ingordigia di un’ora che tutto trangugia; col rapporto con l’aldilà, e con tutto ciò che comporta questo travaglio interiore per staccarsi dal vissuto, pur facendone motivo di risalita. D’altronde quel mare è troppo vasto e ostile alla navigazione. È un mare che allunga i suoi spazi a orizzonti troppo vasti per la mente umana; che ci rende piccoli piccoli, inesistenti; ma che si apre, anche, a estensioni di libertà per la conoscenza dell’altra parte di noi, del nostro vivere e del perché: soluzioni a quesiti di cui va in cerca la Nostra. “Tutto, all’improvviso, deraglierà”. È il nostro ente che è destinato a chiudere il sipario con in petto tutti quegli interrogativi irrisolti. Un’opera plurima, di polisemica valenza, questa della Tognacci. Un’opera in cui si toccano tutti i tasti dell’andare e tornare; dell’essere e soffrire, di quella vicenda odisseica che ci mette di fronte ad un viaggio zeppo di trabocchetti e insidie, per


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cui niente è facile ma tutto è possibile se misurato col nostro bisogno del ritorno: un nostos di grande significato umano e sovrumano che non significa solo donna, uomo, terra, paese, radici, amore; piuttosto rinnovamento, un nuovo esistere pregno di conoscenze, di riflessioni, e delusioni, in base a quello che ci eravamo proposti di raggiungere. Anche se, pur sempre, storia di nostoi con in cuore Nausiche, Circi, Polifemi, Sirene che tornano a mente mutati in altre fisionomie; in immagini sfumate dal tempo; rivissute con saudade, con nostalgia di un qualcosa che non è più realtà, ma pathos che tiene in sé vicissitudini di primavere lontane. Sì, tutto questo trovo nel viaggio interiore della Tognacci vòlto ad una terra reale e surreale, agognata e, forse, mai raggiunta; una terra che esiste nelle sue aspirazioni; un amore edenico, un suolo incontaminato, un mèlange di memoriale e di parènesi oracolare che riaffiora con forza per sconfiggere il nulla; quel nulla che ci opprime e che la Poetessa trova: “Là, dove pioveva la manna”. Ben VII le tappe di questa “Odissea”: Il sé come orizzonte, Spazio aperto, Non siamo separati, Per sentieri di sabbia e vento, Alzo segnali di fumo, Nell’eternità dell’anima, Verso Aquaba. Una vera ascesa; una scalata verso cime da cui si possa vedere, a cielo sereno, un panorama senza quei confini che delimitano il nostro esser-ci: Nel mio viaggio lungo il deserto fino ad Aquaba, mi guidate, voi, beduini, su maestosi cammelli, immagine vivente di stagioni perdute su sentieri di sabbia e di vento e di ancestrali ritmi dal sangue trattenuti… Un procedere di urgente metaforicità espressiva affidato al supporto di intrecci narratologici; un “Poema” che si fa sempre più allegorico nel dipanarsi di una vicenda immaginifico-esistenziale dove Aquaba, i cammelli, i beduini, i sentieri di sabbia e di vento divengono visualizzazioni concrete di sentimenti e sensazioni, di memorie e aspettazioni alla ricerca di un’oasi in cui: Mi parlerai dell’altra riva, dove gorgogliano acque eterne, dove si raduna ciò che non ha fine… Là è volta l’anima della Nostra, là è diretto il cammino: in un mondo eternamente eterno, bucolicamente affabulante, terrenamente ultraterreno; là dove l’immaginazione poetica possa vincere le sottra-

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zioni del quotidiano; in un continuo cammino, senza sosta, senza esatta destinazione, alla ricerca di un’isola vestita di sole: Non ti dirò, Eolo, l’esatta destinazione, che la Parca mi colga andando. Nazario Pardini

VINCENZO DEL GIUDICE IL MIO ABRUZZO - profumi e sapori di Roccacaramanico Stampa in proprio, 2015 “il mio Abruzzo – profumi e sapori di Roccacaramanico” è il titolo di un libro autobiografico di Vincenzo Del Giudice, dove la memoria accompagnata dai ricordi e da spunti di fantasia, gioca un ruolo importante. Lo scrittore, come dei flash, parla del suo paese, di tanti personaggi e dei suoi abitanti amici con uno slancio d’amore che supera ogni immaginazione, inoltre il libro è impreziosito da molte fotografie in bianco e nero di personaggi del Borgo, nonché di vedute e panorami, facente parte dell’archivio personale dell’autore, o donate da alcuni amici. Roccacaramanico (Pescara) è un paese che si trova nella parte occidentale de la Maiella, a circa 1.080 metri sul livello del mare; nel 1981 ha solo 4 abitanti, infatti, la continua emigrazione lo spopola, possiamo dire non del tutto in quanto, oltre a molti paesani che ritornano al luogo a loro caro nel periodo estivo, molti visitatori hanno comprato vecchi ruderi ed hanno fatto la loro seconda casa. Il paese rivive anche grazie all’impegno dei nuovi abitanti i quali, fondando l’Associazione Roccacaramanico, hanno fatto diventare il borgo “una meraviglia Italiana”. La scrittura di Vincenzo Del Giudice è una scrittura particolare, con un’impronta tutta personale che ci spinge a dire che la sua prosa è una prosa poetica e che al di là di tutto lo avvicina, dal nostro punto di vista, molto allo scrittore Carlo Cassola, soprattutto per quei periodi brevi e concisi che mettono il lettore nella possibilità di godere appieno la lettura. La sua caratteristica, poi, è quella che in certi momenti, essendo in lui forte il desiderio di scrivere e raccontare, si esprime con parole alimentate da una forma di ansia perché sono accompagnate dai tre puntini sospensivi, che dovrebbero lasciare al lettore il completamento della frase ma che sono, a nostro avviso, invece, dei puntini di pausa, ma anche ripresa di fiato, tanto è la voglia di voler dire e raccontare. Dal libro si evince che il Del Giudice è un solitario, non è così. La sua forma d’isolamento è dovuta


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soprattutto al desiderio di voler godere appieno le bellezze della natura, tanto che più volte si alza alle cinque del mattino per andare su una collinetta e ammirare il sorgere del sole dal mare, la Maiella, il monte Amaro, il Gran Sasso e godere in piena solitudine tanta bellezza, e poiché dice, riferendosi alla società di oggi, “è una generazione a cui manca qualcosa, il mio cortile, la mia piazza”, non può essere, perciò, per noi, un solitario. È una persona amabilissima, spinta al dialogo e all’amicizia, quindi, ripetiamo, non è un solitario. L’avvicinarsi di un cane gli fa compagnia e parla con lui come se fosse un amico, perché Del Giudice è amico di tutti e tutti gli vogliono bene. Troviamo, inoltre, nella sua scrittura, dei regionalismi, ma quello che dà calore e colore ai suoi racconti sono le molteplici espressioni dialettali del luogo. Danno al lettore una conoscenza di una parlata paesana e riescono a far sorridere anche il più serio dei lettori. Trascriviamo, al riguardo, un piccolo brano per spiegare quanto amore e preoccupazioni avevano le nonne (e anche le zie) per i nipoti maschi, preservandoli dai pericoli e dalle tentazioni, infatti: “Ricordo quella volta che andammo “a la piscina”, sul Morrone, quante risate con tutte quelle ragazze accompagnate da don Luciano. Dopo un’intera giornata al sole, all’aria, in montagna, tornammo stanchi fradici. Mia nonna “Palmuccia de ’gendarm” che aspettava da tempo il nostro rientro, al vederci in compagnia delle ragazze gridava; “che puzz cacà verdë … cu tuttë stï puttanellë”. L’ espressione è caratteristica ma sta a significare soprattutto che la nonna vedeva nelle ragazze il peccato, la perdizione. Un altro particolare di quel tempo, che non c’è più, c’è dato da un brano dove è espressa la gioia di poter assaporare un qualcosa rimasto nei ricordi e la voglia di voler rivivere i momenti del passato. Scrive il Nostro: “Sono quei piccoli valori che fanno le grandi cose, tengono insieme una comunità… ma oggi tutto è diventato così strano e difficile, la palestra, il pane, no, la pasta, no, si mangia in piedi in fretta e furia, il tempo stringe… ed intanto passa veloce… Agosto… una telefonata… accento roccolamericano… Ciao Enzo… senti… nui semo arrivati aieri da Boston… nui vulemo venì alla Rocca… Ma quando, mò? Sì. Sì, proprio mò! Ma tengo solo du pummarò, na cocchia e pane ancora cauro e furno e vino rosso… Ah sì… allora venemo mo… tutti quanti…”. È passato del tempo, anche se non molto ma, come dice Del Giudice, i tempi sono cambiati e certe piccole cose non sono apprezzate perché non si so-

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no vissute, perciò possiamo affermare, con certezza, che erano cose che tenevano unita una comunità e se ne avvaleva anche la società intera, perché c’era tanto amore, rispetto, tolleranza e comprensione reciproca. Oggi è tutto arido, tutto è materia e i sentimenti sono solo quelli che restano nella mente e nel cuore di uomini come il nostro scrittore Vincenzo Del Giudice. Ciro Rossi

SONO FARFALLE I MORTI Le ali asciuga la farfalla uscita appena dalla crisalide. Memoria non ha, non ha contezza d’essere stata bruco. Leggera svolerà fra qualche istante sul mare lucente profumato e fresco delle corolle. Crisalidi noi siamo per l’Eterno, celesti praterie ci attendono. Se i morti non si struggono per noi è che sono farfalle, cognizione non hanno della terra. Domenico Defelice

PULEDRO Puledro indocile guida appartato dal vento colui che non sa Filomena Iovinella Torino

AVVISO Prima di Ferragosto, abbiamo avuto un irreparabile guasto alle macchine, con la conseguenza d’aver dovuto acquistarne di nuove. Questo numero, pertanto, esce in forma ridotta. Chiediamo scusa ai Lettori e ai Collaboratori. La Direzione


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DESIDERIO Non la tua voce non il rumore dell'acqua non lo scricchiolio dei rami secchi non le foglie ingiallite delle betulle, e nemmeno il falò dei miei sogni che volano davanti a me, ma nel silenzio della stanza spierò il tuo risveglio sfiorerò la ciocca grigia, aprirò il tuo cuore. Perdonami ancora una volta, ritorniamo ai giorni tersi all'esultante gioia che ci riuniva in un'immensa luce, il nostro era un azzurro cielo, i giorni una fila di perle dal fermaglio d'oro. Il desiderio è qui stasera, gli occhi, e noi, da soli in due. Adriana Mondo

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chiedeva e di essere accettato. Ti volevamo bene, eri uno di noi. Addio, Nerone! Antonia Izzi Rufo

Reano, TO

ADDIO, NERONE! Eri, soltanto ieri; oggi, invano ti cercano gli occhi, le mani per accarezzarti, la voce per dirti “ciao”. Non ti scorgo tangibile, oggi, ma ti sento in me reale, ti vedo così com’eri, t’abbraccio con l’animo, col cuore, con l’emozione, la consapevolezza, sconvolgente, che più non sei, più non sarai; col tremito ti piango, e con la nostalgia, di tutto il mio essere. Eri, soltanto ieri: la tua oggi incredibile assenza, il vuoto intorno, incolmabile. Eri soltanto un cane, ma per noi un “cristiano” umile e devoto che dava amore, firmava fedeltà, amicizia

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE BENVENUTA A UNA NUOVA GIOVANE COLLABORATRICE - Eloisa Massola è nata a Casale Monferrato (AL), il 24 novembre 1979. Laureata in lettere moderne presso l’Università del Piemonte Orientale


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“A. Avogadro”, da diversi anni insegna italiano e storia nella scuola secondaria di secondo grado. Al centro della sua poetica, la volontà tenace di scandagliare gli aspetti più autentici della fragilità umana e femminile, in un percorso che intreccia anima e corpo, spiritualità e passione, con rimandi frequenti alle figure degli angeli e delle streghe, alla tragedia e al mito greco. *** LA PRIMA CORRIDA POETICA “Poeti allo sbaraglio” - Con questa prima edizione si intende iniziare un percorso che ogni anno decreterà il Poeta dell’anno per la città di Eboli. Possono partecipare poeti residenti in tutto il mondo. Ogni anno ci sarà una tematica e le poesie declamate al momento potranno essere sia in italiano che in vernacolo. Per il 2015 la tematica è: Eboli, luoghi, personaggi, ambienti e avvenimenti che ne hanno caratterizzato la storia. Si può partecipare con più poesie pagando una quota di iscrizione di 10,00 euro sul conto corrente postale 1009316868 intestato a Centro Culturale Studi Storici- Eboli (oppure direttamente presso la redazione de “Il Saggio”) che servirà per spese di organizzazione. Una percentuale da stabilire, secondo il numero dei partecipanti, andrà a ricoprire il premio in danaro che sarà consegnato al vincitore con assegno circolare. Le iscrizioni sono ammesse fino al 30 novembre e la Corrida poetica si terrà dal 7 dicembre in poi. Il poeta vincitore avrà diritto a vedere i suoi versi scritti su una mattonella che sarà collocata nel Centro Antico di Eboli previa autorizzazione dell’amministrazione Comunale. I versi scelti per la mattonella non dovranno superare gli otto righi. La corrida poetica si svolgerà nel modo seguente. Il poeta potrà partecipare con più poesie che a sua scelta declamerà nella serata in cui gareggerà. Il numero delle serate è legato al numero dei partecipanti, e ogni sera verrà decretato dalla giuria al momento un vincitore con votazione immediata a vista con voti da “1 a

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10”. I giurati decideranno il voto da assegnare in base esclusivamente all’ emozione che le poesie trasmetteranno nell’immediato. I vincitori della serata potrebbero essere anche più di uno se i partecipanti sono in numero esiguo. Se vi saranno parità di votazioni fra poeti, si farà subito lo spareggio ed in quel caso il poeta potrà scegliere se schierare la stessa poesia o sceglierne un’ altra. Un poeta tra i partecipanti sarà sorteggiato per seguire da vicino tutte le fasi della votazione onde scemare ogni dubbio di influenza sulla giuria. Onde evitare dubbi sulla scelta degli accoppiamenti dei poeti sarà la sorte a fare ciò. Infatti i gareggianti saranno scelti a sorteggio tra tutti i nomi inseriti in apposita urna ogni sera. Non sono ammessi delegati, la poesia dovrà essere letta dall’autore. Se qualcuno per motivi personali non potrà farlo, potrà scegliere l’amico che lo farà per lui in sua presenza. Ogni concorrente leggerà minimo una poesia a sera, ma potrà essere necessario leggerne più di una, ciò dipende dal numero dei partecipanti. Il poeta potrà scegliere al momento la poesia da schierare, senza inviarne alcuna copia prima della Corrida poetica. Le poesie declamate saranno pubblicate dalla casa editrice “Il saggio” in un'unica antologia. E’ vietata la partecipazione per i parenti di primo grado dei componenti della giuria. Cav. Giuseppe Barra www.edizionilsaggio.it Ricordiamo ai nostri lettori che Giuseppe Barra è il direttore editoriale (responsabile è Geremia Paraggio) della rivista IL SAGGIO, mensile di cultura in Eboli (SA), via don Paolo Vocca 13, CAP 84025. Il periodico pubblica materiale vario e nell’allegato “Il Saggio libri, poesia, arte) si trovano, ogni volta, centinaia di poeti. Esce regolarmente ed anche per questo la segnaliamo con un certo rilievo, invitando chi è interessato a collaborare e ad abbonarsi: Italia, € 25; Estero, € 35; Soci sostenitori € 50 contributo spese stampa. Versare sul c. c. p. 1009316868 intestato a Centro Culturale Studi Storici, all’indirizzo di


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cui sopra. La rivista è pure riccamente illustrata e pubblica eleganti volumi.

Domenico Defelice - Scaffale (1964)

LIBRI RICEVUTI FERRUCCIO BRUGNARO - Le follie non sono più follie - Poesie, prefazione di Igor Costanzo; copertina di Fabio Mariani; in quarta, giudizi di Jack Hirschman e Stefania Battistella - Edizioni SEAM, Roma 2014 Pagg. 72, € 10,00. Ferruccio BRUGNARO, operaio a Porto Marghera dagli inizi degli anni ’50, è nato a Mestre nel 1936, è autodidatta e vive a Spinea (Venezia). Ha fatto parte per molti anni del Consiglio di Fabbrica Montefibre-Montedison, ed è stato per decenni uno dei protagonisti delle lotte del movimento operaio. Nel 1965 Brugnaro comincia a distribuire nei quartieri, nelle scuole, fra i lavoratori in lotta, i suoi primi ciclostilati di poesia, racconti, pensieri. È uno dei primi in Italia a diffondere la poesia in forma di volantino. Sui muri di Orgosolo si possono leggere

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sue poesie scritte ancora negli anni ’70. Ha pubblicato su molte riviste tra le quali: “La Fiera Letteraria”, “Letteratura”, “Tempo Presente”, “Nuovi Argomenti”, “Tempi Moderni”. Parte degli scritti, tirati al ciclostile e diffusi come volantini, sono stati raccolti dall’Editore Bertani e pubblicati nei volumi: “Vogliono cacciarci sotto” (1975), “Dobbiamo volere” (1976), “Il silenzio non regge” (1978). Nel 1977 un gruppo di sue poesie è stato musicato dal cantautore Gualtiero Bertelli. Brugnaro è presente in numerose antologie tra cui: “Il pubblico della poesia”, “Poesie realtà”, “Scrittori e industria”, “Cent’anni di letteratura”, “Poeti del dissenso”, “L’altro novecento”. Con altri lavori nel 1980 dà vita a Milano ai quaderni di scrittura operaia “abiti-lavoro”. Nel 1984 esce “Poesie” per conto della Cooperativa punti di Mutamento. Nell’ ottobre del 1990 vengono fatti affiggere sui muri di Venezia e Mestre oltre cinquecento manifesti con una sua poesia contro la guerra. Lo stesso manifesto nel gennaio del 1991 è stato affisso sugli spazi pubblici di Roma. Nel 1993 esce il volume “Le stelle chiare di queste notti”, editore Campanotto. Nel 1996 su “Viceversa”, una rivista di Barcellona, appare un gruppo di suoi testi poetici con traduzione in spagnolo di Carlos Vitale. Nel 1997 undici sue poesie, tradotte in inglese da Kevin Bongiorni e Reinhold Grimm, vengono incluse nel n. 29 di “Pembroke Magazine”, una pubblicazione internazionale dell’Università del Nord Carolina. Nel 1998 esce negli Stati Uniti, per conto della casa editrice Curbstone, “Fist of Sun”, un volume antologico della sua produzione poetica con traduzione del poeta americano Jack Hirschman. Nell’ultimo decennio sue poesie sono state pubblicate anche in Germania, Grecia, Inghilterra e Cina. Nel 2000 Jack Hirschman traduce anche “Partial portrait of Maria” per la Deliriodendron Press. Nel 2002 appare in Francia, a cura dell’ editore Editinter, il testo antologico “Le Printemps murit lentement” nella traduzione del poeta Jean-Luc Lamouille e in Italia l’ editore Campanotto pubblica “Ritratto di donna”. Nel 2004 è uscito in Spagna il libro


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“No puedo callarte estos días” nella traduzione di Teresa Albasini Legaz. Nel 2005 esce a Berkeley “Portrait of a woman”, tradotto da Jack Hirschman. È del 2006 “Verranno i giorni”, editore Campanotto. Brugnaro partecipa a San Francisco al Poetry Festival nel 2007 e nel 2009. Nel 2008 viene pubblicato in Francia, a cura di Editinter, “Ils veulent nous enterrer!” nella traduzione di Béatrice Gaudy e in Italia, per la Bohumil, l’ audiolibro “La mia poesia nasce come rivolta”. Nel 2009 Brugnaro viene invitato all’ International Poetry Meeting di Sarajevo dedicato a Jzet Sarajlic. Nel 2011 esce a Berkeley per l’editore Marimbo un testo antologico “The days will come” con la traduzione di Jack Hirschman e a Francoforte, a cura dell’ editore Zambon, appare “Eine faust voll sonne” con la traduzione di Felix Ballhause e Letizia Fuchs-Vidotto. Suoi testi appaiono spesso su varie riviste e giornali internazionali.

TRA LE RIVISTE IL SAGGIO - mensile di cultura, direttore Geremia Paraggio, direttore editoriale Giuseppe Barra - via don Paolo Vocca 13 - 84025 Eboli (SA) e-mail: ilsaggioeditore@gmail.com Riceviamo il n. 231 (giugno 2015), ricco di valide firme (Giuseppe Aromando, Giuseppe Falanga, Andrea Cerrone, Giovanni Antonio Colangelo, Paolo Saturno, Giuseppe Crescenzo, Giuseppe Barra, Armando Voza eccetera) e articoli importanti. Leggiamo con interesse, pure, la lettera a Giacomo Leopardi (“Diman tristezza e noia Recheran l’ore”...) di Geremia... Allegato, il n. 122/231 de Il Saggio libri, poesia, arte, nel quale, a pag. 14, viene riportata la notizia della presentazione - alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata - del volumetto di poesie di Domenico Defelice: “A Riccardo (e agli altri che verranno)”. Nell’ interessante periodico mancano le firme di nostri validi collaboratori, che invitiamo ad abbonarsi e a inviare propri lavori per la pubblicazione. * MAIL ART SERVICE - Direttore Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN). Riceviamo il n. 90, giugno 2015, sul quale leggiamo

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una prima parte di un lungo articolo del nostro collaboratore Tito Cauchi su: “Andrea Bonanno Il romanzo e la verifica trascendentale, Edizioni dell’ Archivio “L. Pirandello”, 2011 - Pagg. 218, euro 14,15”. * L’ERACLIANO - Organo mensile dell’ Accademia Collegio de’ Nobili, fondata nel 1689 - Direttore Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (FI). E-mail: accademia_de_nobili@libero.it Riceviamo il n. 207/209 dell’ Aprile/giugno 2015, del quale segnaliamo “Silvio Pellico da Milano a Palazzo Barolo”, del direttore; “Tamara De Lempicka: la teatralità di un dramma esistenziale”, di Giovanni Cordero. Nella rubrica “Apophoreta”, il direttore Marcello Falletti di Villafalletto si interessa, tra i molti libri, di “A Riccardo (e agli altri che verranno)” del nostro direttore Domenico Defelice. * KAMEN’ - Rivista di poesia e filosofia diretta da Amedeo Anelli - viale Vittorio Veneto 23 26845 Codogno (LO) E-mail: amedeo.anelli @alice.it Riceviamo il n. 47, giugno 2015. * ILFILOROSSO - Semestrale di cultura diretto da Pasquale Emanuele - via Marinella 4 - Rogliano (CS) - E-mail: info.ilfilorosso@gmail.com Riceviamo il n. 58 (gennaio - giugno 2015), del quale segnaliamo: “I cereali nella mitologia”, di Lucia Bonacci; “La via delle spezie”, di Luigina Guarasci; “Il mattino ha l’oro in bocca”, di Maria Lenti; “L’umile Friuli nel linguaggio di David Maria Turoldo”, di Maria Luisa Toffanin; “”Thomas Mann allo specchio”, di Gandolfo Cascio. Tante le rubriche, in una delle quali: “Note e noterelle”, Salvatore Jemma si interessa di “Alleluia in sala d’armi. Parata e risposta”, di Rossano Onano e Domenico Defelice. La bella copertina “Sora nostra madre Terra” è della nostra amica Serena Cavallini, impareggiabile pittrice, grafica, poetessa. * ntl/LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Rivista fondata da Giacomo Luzzagni, direttore responsabile Stefano Valentini, editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone - Casella Postale 15C - 35031 Abano Terme (PD). Email: nuovatribuna@yahoo.it Riceviamo il n. 119 (3° trimestre 2015), dal quale segnaliamo: “La forma di un respiro”, di Natale Luzzagni; “Intervista a Mariangela De Togni”, di Pasquale Matrone; “Il Paradiso recitato da Roberto Benigni”, di Luigi De Rosa; “Josif Brodskij L’opera in versi”, di Elio Andriuoli; “Osip Mandel’stam, un


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poeta-testimone del Novecento”, di Liliana Porro Andriuoli eccetera. Nella rubrica Recensioni: Pasquale Matrone, che si interessa, tra l’altro, di: “Aldo De Gioia - Anna Aita - Quando a Napoli non c’erano le stelle” e “Domenico Defelice - A Riccardo (e agli altri che verranno)”: Anna Ventura (“L’ ultimo libro di Marco Tornar Lo studioso, narratore e poeta pescarese scomparso a febbraio”); Sandro Angelucci (“In luce d’ estasi di Innocenza Scerrotta Samà”). * IL CONVIVIO - Trimestrale di Poesia Arte e Cultura fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 95012 Castiglione di Sicilia (CT). E-mail: angelo.manitta @tin.it ; enzaconti@ilconvivio.org Riceviamo il n. 2 (61) dell’aprile-giugno 2015, dal quale segnaliamo: Pietro Seddio (“Imperia Tognacci La dove pioveva la manna”), Angelo Manitta (“Angelo Pirri, Francavilla nella storia di Sicilia. Dalla preistoria ai nostri giorni”), ma anche le firme di: Antonia Izzi Rufo, Corrado Calabrò, Luigi De Rosa, Loretta Bonucci, Giovanna Li Volti Guzzardi, Mariagina Bonciani, Andrea Pugiotto, Aldo Cervo, Lucia Paternò (“A Riccardo (e agli altri che verranno)” di Domenico Defelice). A pag. 52, inoltre, leggiamo una nota, senza firma, su Maria Grazia Lenisa di Domenico Defelice, quaderno Il Croco del gennaio 2015. Allegato, il n. 27 di CULTURA E PROSPETTIVE, di 192 pagine, con le firme di: Fernando Sorrentino, Guglielmo Manitta, Carlo Di Lieto, Angelo Manitta, Giuseppe Manitta, Silvana Del Carretto, Claudio Guardo, Leonardo Selvaggi, Ivan Tavčar, Aldo Marzi, Vincenzo Vallone, Franco Orlandini, Giovanni Albano, Angelo Ruggeri, Pippo Virgillito, Adalgisa Licastro, Emilio Pacitti, Vittorio Verducci, Maurizio Soldini, Renato Dellepiane, Tito Cauchi, Franca Alaimo. * FIORISCE UN CENACOLO - Mensile di Lettere e Arti fondato da Carmine Manzi nel 1940 e oggi diretto da Anna Manzi - 84085 Mercato San Severino (Salerno). E-mail: manzi.annamaria @tiscali.it Riceviamo il n. 3-4 (aprile-giugno 2015), sul quale troviamo firme di nostri collaboratori e non, come: Leonardo Selvaggi (“Le origini e l’espansione del colosso FIAT”; “L’ Accademia dei Lincei”; “La complessità poetica dell’opera “Pitagora” di Francesco Terrone” e alcune poesie), Orazio Tanelli, Enrico Marco Cipollini (su Antonia Izzi Rufo), Anna Aita, Alda Fortini, Salvatore D’Ambrosio (su “A Riccardo (e agli altri che verranno)” di Domenico Defeli-

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ce), Salvatore Veltre (Su Anna Aita) eccetera. * IL PONTE ITALO-AMERICANO - rivista internazionale di cultura, arte e poesia fondata e diretta dall’amico Dott. Prof. Orazio Tanelli - 32 Mt. Prospect Avenue, Verona, New Jersey 07044, 973-857 - 1091. Riceviamo il n. 2, luglio 2015, del quale segnaliamo molti interventi del Direttore Tanelli, tra cui “La poesia di Aldo De Gioia”, “Letteratura americana” (brevi annotazioni), “News from our contributors”, “Analisi estetica di alcune poesie di Giovanni Di Sandro”, “Domenico Defelice, Saggio su Maria Grazia Lenisa” eccetera. Inoltre, “L’arte pittorica di Ivo David nella critica dell’Artista fiorentino Alessandro Vannini” (del David, in prima pagina, a colori, viene riprodotto il quadro “Spring break sunset at Anna Maria Island, Fl. Oil on canvas, 36” x 48”, 2014), “Così la vita di Anna Aita”, di Salvatore Veltre, “Maria Teresa Epifani Furno, L’intimo volo”, di Gabriella Frenna.

DIMORA Una foglia cade lenta nell'aria fredda. Le corte giornate fanno le querce scure La crosta gelida biancheggia al canto della bufera, ombre striscianti nella neve passano con il passare del vento, su per erti sentieri, le capre brucano fuoco nella radura rosse radici occhieggiano il cielo. E' tutto così rarefatto solo il bianco domina quell'essere fuori dal mondo e ne fanno la mia dimora. Adriana Mondo AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 20/8/2015 Se la Chiesa è la Casa di Dio, poteva un parroco rifiutare un funerale ai Casamonica, i quali, a Roma, guarda caso, spadroneggiano pure a Bella Monica? Domenico Defelice


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GIUSEPPE MALLAI di Domenico Defelice Giuseppe Mallai è nato a Bonacardo, in provincia di Oristano, in Sardegna, nel 1945. A vent’anni si trasferisce in Inghilterra - vi rimarrà per sei anni -, dove studia Storia dell’Arte, più che sui libri, assimilandola direttamente dalle opere di grandi artisti. Infatti, oltre la St Martin’s School, amava frequentare i musei londinesi, attratto, in particolare, da Pollok, Kline e Rothko. Ma anche Bacon, Sutherland, Hockney. “Mallai – scrive Silvia Borghesi su Arte (mensile di Arte, Cultura, Informazione) del maggio 2000 – guarda a Cézanne, ai Fauves, agli espressionisti astratti per giungere alla sua sintesi di colori saturi e brillanti, perfetti e intensi nella creazione di un mondo lontano eppure reale”. In Spagna, poi, a Siviglia, ha subìto il fascino del mondo gitano. C’era andato per fare dei disegni dedicati ai gitani ed è vissuto con loro per un lungo periodo, assimilandone usi e costumi, andando in giro con loro a suonare la chitarra e cantare nei locali. Ha trascorso un periodo anche in Francia. Tornare in Italia, ha studiato all’ Accademia di Brera con Purificato. Ha usato veramente il pennello verso i venticinque anni. Uomo schietto e semplice, ha creato una pittura figurativa e di grande fascino. Tante le collettive e le personali, tra cui quella alla Galleria Selearte (Novara, 1978), Galleria La Bitta (Milano, 1980), Galleria Selearte (Milano, 1981), Galleria Nuova Artelite (Milano, 1985 – 1987 – 1989 – 1993), Palazzo dei Congressi (Salsomaggiore, 1990), D. R. Gallery (Milano, 1996), SpazioErgy (Milano 1999), “Dalle porte del Novecento alle porte del Nuovo Millennio” (Serra de’ Conti, 2004), eccetera. Tra le collettive: Galleria Peretti (Novara, 1980), Galleria La firma (Riva del Garda, 1981), Palazzo del Turismo “Arengario” (Milano, 1982), Sale del Castello (Pienza, 1985), Expo Arte (Bari, 1986 – 1988 – 1991), Expo Arte (Monza, 1996), eccetera. Ha vinto molti Premi e di lui si sono interessati critici di chiara fama. Qui vogliamo ricordarlo con alcuni capitoletti del nostro

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lungo saggio L’arte raffinata di Giuseppe Mallai, che gli abbiamo dedicato qualche anno fa. È morto ad appena 62 anni, la sera dell’otto gennaio 2007, a Milano – dove abitava da moltissimi anni e dove ha creato la maggior parte delle sue affascinanti opere. Il 10 dello stesso mese si sono svolti i funerali e

il 12 la cremazione. Era dal giugno 2004 che soffriva di un brutto male. Le sue ceneri, secondo il volere della vedova Signora Bruna, sono conservate in un tranquillo e piccolo cimitero toscano. Mallai è il pittore che meglio ha saputo in-

terpretare la solitudine e la non comunicazione dell’uomo moderno; un vero paradosso, egli vivendo in un tempo in cui i mezzi di comunicazione sono tra i più sviluppati e sofisticati. Guardate le sue donne: anche in folle, anche quasi a toccarsi le une con le altre, vivono fra loro isolate, ognuna con il suo mondo, i suoi drammi, i suoi pensieri, i


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suoi trastulli. Il quadro La sposa è assai intrigante. Nell’arte del ventennio si amava dipingere di quei corpi e pure i colori di Mallai ci riportano a murales di quel periodo. Non vorremmo sbagliarci, ma ci sembra di aver visto qualcosa che, sia pur lontanamente, richiama colori e forme, nei palazzi romani dell’EUR. La sposa non è un murales, ma una tela di cm. 80 x 100. In Paul Gouguin (1848 – 1903), la perdita della verginità è simboleggiata dalla volpe (che, per l’artista, rappresenta la violenza selvaggia e corrotta, depravata, degenerata) – ma anche, a nostro avviso, dal fiore rosso reciso. In Odilon Redon (1840 – 1916), è significata con un panno verde (da molti critici interpretato con una rana o altro animale). In ambedue, la figura femminile dorme. E’, dunque, quasi incosciente, serena. La violenza sta più nel paesaggio. In Mallai, più realisticamente e più concretamente, la perdita della verginità viene concretizzata dal guanto rosso, simbolo della violenza e del sangue. E la donna non dorme, è terribilmente consapevole. Siamo davanti a un sacrificio. Il pavimento, coi suoi disegni a venature d’onde, dà un senso di vertigine, d’ offuscamento. Gli occhi socchiusi della protagonista dicono di una creatura smarrita, stordita, torturata in un turbinio di pensieri, anelante quiete. Il suo corpo è bianco, freddo marmo, statua. Rappresenta estrema tensione. E’ isolata dal resto della folla che, alle sue spalle, sembra scolpita in un bassorilievo, in penombra. La sposa è investita dalla luce che piove dall’alto e che fa brillare il roseo cuscino dalle dorate bordature. Impostato sulla verticalità delle figure, delle gambe della sedia sulla quale la “statua” è seduta, della colonna, il dipinto trova equilibrio nelle linee divisorie del pavimento e nella parte bassa del velo della sposa, che le poggia su avambracci e seno. I colori scuri (marroni) dominanti isolano maggiormente la figura centrale e sono stemperati dalle luci, sollecitati dalle ombre.

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Armonizza e svaria il verde smorto degli indumenti – copricapi, calze… - che crea ragnatele di riflessi e di corrispondenze e intride pure il bianco marmoreo della sposa. Se non è proprio un sacrificio pagano, poco ci manca. C’è dramma e indifferenza. Dramma nell’isolamento spettrale della protagonista. Indifferenza nelle figure alle sue spalle, intente a scrutarsi a vicenda, assorti in movimenti abituali, rituali, involontari, o nei loro pensieri: sono figuranti in attesa d’indossare il vestito di scena per recitare, ognuno, la sua parte. Alessandro Riva1, ricordando l’errore tipografico che ha trasformato il titolo La coppa svelata in La colpa svelata2, riporta una dichiarazione dello stesso Mallai che ci sembra interessante. Egli afferma, in sintesi, che nelle sue tele “Non c’è mai una simbologia precisa” e che i suoi personaggi “vivono nel mistero di queste forme, di questi colori irreali e di queste relazioni impossibili”. Vuol dire che Mallai non ha nessuna intenzione, mentre dipinge, di caricare di simbologie particolari le sue creazioni. Egli si comporta, né più né meno, come un qualunque artista – artista vero, non mestierante -, che lavora per realizzare le proprie idee, i sogni, le idealità, ma non può evitare in nessun modo che le sue creature vengano imbevute e appesantite delle proprie fobie. Così fa il poeta, così il romanziere, il drammaturgo, il musicista: inventano una storia, la riempiono di personaggi e li mettono in movimento, ma all’improvviso si accorgono che non sono più loro stessi – gli autori - a condurla, ma le proprie creature, che sgomitano e si affannano per realizzarsi in piena autonomia. Tale e quale l’uomo, che venuto al mondo dal ventre materno, cresce poi del tutto indipendente e avrà una sua personale vicenda. 1

– “Magico Irreale Fantastico Mallai”, di Alessandro Riva, in Arte – Mensile di Arte, Cultura, Informazione – Editore Giorgio Mondadori, 1999. 2 – “La (colpa?) svelata”, cm. 30 x 40.


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Ciò vuol dire – per essere ancora più chiari – che all’interno delle vere opere d’arte, di qualsivoglia natura, non ci sono solo elementi legati alla volontà del creatore, ma anche all’autonoma, singola, personale manifestazione di ciascun soggetto da lui inventato, il quale agisce quasi sempre nella massima libertà. Il personaggio sfugge sempre di mano al suo autore, anche quando questo è dotato di personalità ferrea. Sicché si può affermare che non esiste opera in cui il memoriale sia tutto, neppure, forse, in quelle scritte con tale esclusiva intenzione. Nella pittura di Mallai, quando troviamo dell’autobiografia, essa non ha mai, allora, valore personale, perché inevitabilmente si stacca per assurgere a interpretazione di at-

teggiamenti, tic, costumi di generazioni o di intere società. Tenendo presente tutto questo, l’errore tipografico di cui sopra diventa un suggerimento delle tante possibili chiavi di lettura di questo lavoro. La “coppa” può benissimo racchiudere la “colpa”, simboleggiata dalla diversa coloritura delle palline, che possono assurgere a uova. L’uovo è alla base della

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fertilità femminile, ma per essere fecondato ha bisogno del seme dell’uomo. La colpa svelata può essere intesa come la diversa fecondazione delle uova e quindi prefigurare il tradimento. L’atteggiamento delle due donne agevola una tale interpretazione. Quella che svela la coppa ha un aspetto aspro, duro, quasi perfido; la presunta colpevole si volta dall’altra parte per non vedere, fatica a mantenere un certo contengo, si indovina la sua sofferenza, il suo disaggio, l’essere quasi sul punto di una crisi di nervi. Eloquente è anche la posizione delle braccia e delle mani delle due figure: denota sicurezza nell’accusatrice; insicurezza nell’ accusata, la quale appoggia le palme sulle cosce quasi per evitare un imminente e istintivo tremolio dovuto al nervosismo e al disappunto. La luce batte ancora sulle due figure, ma le ombre, nette, minacciano la presunta colpevole, acquistano, quasi sembianze di fiera in posizione di slancio: la coda è il proiettarsi delle gambe della sedia; la zampa posteriore e gli artigli, il buio spettro dei piedi dell’accusatrice. Viste così, anche le ombre acquistano soggettività e simbologie particolari. Ma anche la luce, tutto. La luce è un misto tra lo sfolgorio di certe isole mediterranee e quella più raccolta, marcata e descrittiva di tanta pittura del passato, segno che, in Mallai, c’è una solida stratificazione culturale. E’ luce panica in Terrazza sul mare (cm. 80 x 100); nitida e netta quando batte su balaustre o, filtrando in interni, investe le figure che paiono venire sottoposte a riflettori; velata su certe nature morte; naturale, gentile, fin quasi a diventare una carezza, in paesaggi, che fanno da sfondo in tante sue opere, e sui corpi nudi – in particolare -, dando ad essi un’atmosfera sognante. Ne è prova la quasi assenza di un vero e proprio erotismo nelle sue donne belle e formose.


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Ne La sposa, è la luce che isola la figura centrale e fa risaltare la tragica scena; ed è la penombra, nella quale sono relegate le comparse, a rendere tattile la loro ritualità e indifferenza, il loro egoismo; sono le ombre che, ne Le ricercatrici (1999, cm. 120 x 120), creano un’atmosfera tra il teatrale e il cabalistico, con quel gioco di prestigio delle mele3, il rabdomantico sondaggio del filo a piombo, l’esplorazione, con binocolo, di luna-stelle-cosmo dell’unica figura con la pelle al naturale… Ma gli effetti cangianti e vari della luce sono condizionati dal colore e dalla sua virtualità: colore che – come scrive Giulio Residori – “egli sa usare creando effetti particolari, di intensa attrazione…”. Così, incontrare in Mallai un cielo o un corpo assoluta– Ripetuto, con lievi varianti, in altre tele, come in Il gioco con le mele, appunto (1996, cm. 60 x 70), Sfidando la legge della gravità (1999, cm. 50 x 70), Il gioco (1999, cm. 40 x 50), eccetera. 3

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mente rosso, verde, viola – antinaturalistico -, non solo non suscita scandalo, ma attrae per il particolare fascino e convince che, in quella scena, non poteva esserci altro colore se non si voleva sacrificare una parte d’armonia. Pezzi di cielo e di mare hanno, a volte, nella sua opera, ora lo splendore ridente, ora la collera cupa4 del cielo e del mare di Sardegna. Ciò vuol dire che, anche se in modo non esplicito, egli canta la sua isola di origine, mediante una pittura dal disegno netto, le tonalità intense e nitide, gli impasti di cobalto. Le antiche costruzioni sarde erano torri di roccia5,

- Si veda Il mare le conchiglie il gatto – 1995, cm. 130 x 130 – Il mare è tempestoso. La cupezza del cielo e la furia delle grigie onde si intonano al dramma che avrà colpito la figura di destra, seduta, mentre si copre il viso con le mani. Quella centrale, anch’ella seduta, è pensierosa e intimamente addolorata. La donna calva, all’impiedi, invece, con in mano un laccio rosso, ha lo sguardo torvo e il colore del suo body richiama il verde cupo del mare e quello di una conchiglia. 5 - Il nuraghe. Alla più o meno circolarità di un interno sembra richiamarsi la già citata Rotta verso il futuro. Ma parecchi ambienti di Mallai – pur non circolari -, se privati della sontuosità dei marmi e delle decorazioni, porterebbero a un senso di chiuso e di panico. Quello in cui è ritratto 4


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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________

solide. La solidità degli ambienti creati da Mallai risulta dalla profusione di marmi – se vogliamo, un elemento estetico -, e il marmo alla roccia si richiama. La Sardegna pietra, cieli e mare abissali, ombre e luci che non ottundono e non confondono – né si confondono, perché vivono in una eterna lotta e si completano a vicenda – dà anima a una tale pittura e come nella realtà, anche nella finzione la luce e l’ombra – secche e solide – rendono panica la scena. Domenico Defelice Immagini: Giuseppe Mallai: La benedizione delle croci (70 x 70); La notte di S. Lorenzo (olio su tela cm. 250 x 150); Vista sul vulcano (olio su tela 50 x 70); Il suonatore di liuto (olio su tela 150 x 130); La coppia (olio su tela 30 x 40). Qualche anno fa, la Signora Bruna sembra stesse facendo una ricognizione - doverosa delle tante opere di suo marito, sparse per il mondo in collezioni pubbliche e private. Immaginando le difficoltà, ci piacerebbe saperne qualcosa.

Renato Degni richiama una tale atmosfera, anche, o forse a causa, delle statue.

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