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Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA Anno 23 (Nuova Serie) – n. 7 - Luglio 2015 € 5,00

CARLO DI LIETO LEOPARDI E IL “MAL DI NAPOLI” (1833 - 1837) UNA “NUOVA” VITA IN “ESILIO ACERBISSIMO” di Domenico Defelice O scrittore napoletano Carlo Di Lieto è l’autore di un corposo studio criticopsicologico-psicanalitico sugli anni trascorsi a Napoli da Giacomo Leopardi. Lo studioso analizza, tra l’altro, con acribia professionale “il processo della creazione artistica, in Leopardi, (che) è definibile in termini di regressione, perché, in questo sistema di pensiero, emergono impulsi ed energia altrimenti celate” e tenta “di perimetrare questo ambito psichico, attraverso l’indagine dell’appagamento del bisogno e le pulsioni di autoconservazione (...), nel complesso gioco delle interferenze e degli investimenti psichici con i relativi contenuti latenti”. Il saggio è strutturato - oltre che in una Introduzione, una Bibliografia, l’ Indice dell’apparato iconografico e l’ Indice dei nomi - in sette lunghi capitoli - o saggi nel saggio, ognuno in grado di vita propria (ne son prova le tante ripetizioni; di negativo è che molte di queste si... ripetono - identici concetti e quasi identiche parole - nello stesso “saggio”, segno di non revisione del testo. Un solo esempio, riferibile al colera a Napoli: “...si espanse drammaticamente anche a causa della densità della popolazione e per lo stato di degrado igienico-sanitario” pag. 13; “...si diffuse rapidamente, a causa dell’alta densità di popolazione e dello stato di miseria in cui versava la città” - pag. 15).

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All’interno: Gianni Rescigno: ricordo dell’uomo e del poeta, di Marina Caracciolo, pag. 6 Il “Viaggio stellare” di Guido Zavanone, di Luigi De Rosa, pag. 8 Luigi De Rosa: Fuga del tempo, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 10 Renato Greco e l’analisi, di Rossano Onano, pag. 13 Tra transizione ed era tecnologica, di Leonardo Selvaggi, pag. 18 Maria Gargotta: la Napoli letteraria di Francesco D’Episcopo, di Elio Andriuoli, pag. 23 “A Riccardo”, opera del suo tenero nonno, di Anna Aita, pag. 27 Rossano Onano - Domenico Defelice: Alleluia in sala d’armi, di Leonardo Selvaggi, pag. 29 Maria Messina, Gesti di luce, di Tito Cauchi, pag. 34 Un canto appassionato alle bellezze della vita, di Andrea Bonanno, pag. 36 Eleuterio Gazzetti di Domenico Defelice, di Tito Cauchi, pag. 38 Vittime, di Anna Vincitorio, pag. 41 I Poeti e la Natura (Rainer Maria Rilke) di Luigi De Rosa, pag. 43 Notizie, pag. 51 Libri ricevuti, pag. 54 Tra le riviste, pag. 57

RECENSIONI di/per: Elio Andriuoli (...et fuga temporum, di Isa Morando e Egidio Morando, pag. 44); Tito Cauchi (Canti d’amore dell’uomo feroce, di Domenico Defelice, pag. 45); Tito Cauchi (La tua presenza, di Santo Consoli, pag. 47); Tito Cauchi (Selected Poems, di Fabio Dainotti, pag. 47); Luigi De Rosa (Glossario dialettale forlivese, di Antonio Angelone, pag. 48); Caterina Felici (A Riccardo (e agli altri che verranno), di Domenico Defelice, pag. 48); Giovanna Li Volti Guzzardi (La solita vita, di Eugenio Morelli, pag. 48); Andrea Pugiotto (L’enigma della mano sinistra, di Rik Smits, pag. 49); Andrea Pugiotto (Stirpe, di Marcello Fois, pag. 50).

Lettera al Direttore (Ilia Pedrina a Domenico Defelice), pag. 58

Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Corrado Calabrò, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Filomena Iovinella, Antonia Izzi Rufo, Themistoklis Katsaounis, Giovanna Li Volti Guzzardi, Adriana Mondo, Nazario Pardini, Leonardo Selvaggi

La lettura dell’opera ci consente di ritornare su alcune considerazioni da noi espresse nel passato, altrove. Di Lieto si prefigge anche lo scopo, dichiarato, di ridurre a sintesi tutto ciò che finora s’è scritto, in bene e in male, su e intorno a Leopardi; un intento, a nostro avviso, velleitario, perché non può esaurirsi solo a quello caduto sotto la lente indagatrice di Di Lieto. Ci sono saggi che, secondo noi, hanno detto

pure qualcosa di importante sul poeta di Recanati e che Di Lieto non cita nella pur vasta bibliografia, o perché non di sua conoscenza, o perché non li ha ritenuti validi, o perché non specifici al solo periodo napoletano 1833 - 1837; diciamo - e solo per fare, anche qui, qualche esempio - di “Giacomo Leopardi pessimista ma non troppo” di Angelo Manitta (Editore Greco, 1998); “Giacomo Leopardi e i canti napoletani” di Carmine Manzi (confe-


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renza del 1987); “Giacomo Leopardi frammenti di luce di fede e di speranza” di Arturo Esposito (Valori Umani, 1988); e, in particolare, il grosso volume “Leopardi un’ esperienza cristiana” di Antimo Negri (Il Messaggero, Padova, 1997). Gros-Pietro, nella sua Prefazione, definisce il libro “opera maggiore destinata a lasciare il solco e a creare lo spartiacque nella cultura” e usa anche lui il termine “inequivocabile”, da noi contestato a Giovanna Querci (dibattito su Pietraserena, dal numero 10/11 autunno/inverno 1991/1992 al numero 23/24 - inverno/primavera 1995), relativo, con Leopardi, al “tramonto di Dio e (al)l’alba del pessimismo esistenzialista”. A emergere, nel saggio di Di Lieto, sono personaggi come Antonio Ranieri, nel suo cinico arrivismo e la sua abbondante “dose di malafede”; Monaldo, il padre del poeta, dal quale neppure negli ultimi anni di sua vita, cioè da uomo maturo, Leopardi riuscirà a staccarsi, rimanendo legato in permanenza a lui, quindi, come a un secondo cordone ombelicale; e temi come il colera nella capitale partenopea, la morte e la sepoltura del Leopardi stesso e delle altre salme in quel perio-

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do spaventosamente torbido. Napoli stessa è protagonista indimenticabile, con le sue case e i suoi quartieri, unici al mondo per vita vera quotidiana e per rappresentazione della vita. Temi grandi e temi minori, con i quali la poesia sembrerebbe non aver nulla da spartire: i menu, per esempio, elaborati dallo stesso poeta in casa Ranieri. Un intreccio affabulante, che non può fare a meno di esplorare, in conseguenza, anche i giorni trascorsi da Leopardi a Firenze e a Roma e i legami che il poeta ha sempre continuato a mantenere con l’ amato-odiato borgo di Recanati e le persone amate che vi vivevano: il padre, la madre, la sorella Paolina, il fratello Carlo... Giacomo Leopardi era un disadattato “ad ogni ambiente sociale”, non trovava aggio, cioè, da nessuna parte e dopo pochi giorni già odiava luoghi e persone. È stato così a Roma e a Firenze ed è stato così a Napoli, dove tutti i Napoletani gli sono apparsi prima gentili e solari e subito dopo mariuoli patentati. Leggendo il saggio di Di Lieto non si trovano solo gli anni 1833 - 1837 del maggior lirico della nostra poesia, ma l’intera sua esistenza, sulla quale non si finirà mai di indagare, perché una figura complessa come la sua ha luci e ombre difficilmente esplorabili in modo definitivo. Ecco perché contestiamo l’ aggettivo “inequivocabile” da chiunque venga usato. Tutto è aperto, ancora, su Giacomo Leopardi e lo rimarrà per i secoli a venire, come tutto è aperto su Dante (del noto dantista Vittorio Sermonti è, di questi giorni, il nuovissimo commento, in tre volumi, della Divina Commedia, edito dalla Rizzoli BUR), altrimenti non si spiegherebbero i continui e affascinanti studi sulla sua vita avventurosa e sulla sua insuperabile e sempre suggestiva poesia. Si prenda - per quanto concerne il Leopardi - il tema dell’ateismo. Si afferma “categoricamente”, “inequivocabilmente” che egli fosse ateo. Falso. Leopardi ha sempre creduto in Dio e fino alla morte non ha mai rinnegato il suo credo. Da giovane ha scritto anche poesie per la Madonna. Ma - si osserva - solo perché è vissuto in una famiglia religiosa, quasi o del


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tutto bigotta, perché ha fatto il chierichetto; però, cresciuto - si osserva -, la fede l’ha persa, è “inequivocabile”, e, di tal perdita, nel poeta maturo non ci sono ripensamenti. Falso. Un uomo vicino alla morte non può scrivere, come lui al padre Monaldo, il 27 maggio 1837: “persuaso ormai dai fatti di quello che ho sempre preveduto che il termine prescritto da Dio alla mia vita non sia molto lontano (...), prego tutti, a raccomandarmi a Dio acciocché dopo che gli avrò riveduti una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti”. Sbaglia chi, come noi, asserisce, è convinto, che alcuni dei suoi atteggiamenti derivino, se non proprio, anche dalle sue condizioni di salute? Ma è il poeta stesso - si obietta - ad affermarlo, a diffidare i lettori che le sue “opinioni filosofiche” derivino dalle sue “sofferenze fisiche”. Anche Di Lieto riporta le parole di Leopardi in proposito; “Io protesto contro tali invenzioni della debolezza e della volgarità, e prego i miei lettori di distruggere piuttosto le mie osservazioni ed i miei ragionamenti che di accusare le mie malattie”. A quale Leopardi bisogna credere: a questo che protesta o a quello che scrive al padre sul letto di morte? Si potrebbe dire, col Tommaseo, che Leopardi, allorché ammoniva i suoi lettori, in contrasto evidente con lo spirito delle sue lettere, calunniasse “se stesso”. I malanni hanno avuto il loro peso. Inconsciamente lo ammette anche lui, quando afferma di aver incominciato “a sentire l’infelicità certa del mondo” a partire dal 1819, “per uno stato di languore corporale”, cioè, per il lavorio inconscio, in lui, del disordine dello stato fisico! Leopardi non era un pessimista, ma un super realista, uno che aveva capito fino in fondo il mistero del vivere e della Natura. Non si è pessimista descrivendo la realtà: “La Natura, per necessità della legge di distruzione e di riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli

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ha prodotti”. E Di Lieto: “La costante ostilità verso la natura matrigna è data dalla sensazione penosa di dover constatare con un forte sentimento di invidia, di non poter godere dei doni della prestanza fisica, della seduzione”. Prendiamo, per concludere, un’altra affermazione del Leopardi: “Io vivo col Ranieri in libero ed amichevole contubernio”, che Di Lieto mette a titolo del capitolo IV. Contubernio ha vari significati, ma il primo è che, nell’antica Roma, sotto una medesima tenda erano costretti ad alloggiare tanti soldati, un gruppo, comunque. Niente di scandaloso, dunque: una libera convivenza dettata dalla necessità, in uno stesso ambiente, nel quale si poteva entrare e uscire a piacimento. Ma significa, anche, con estensione letteraria, convivenza illegittima. Molta della critica moderna propende, nel caso di Leopardi, per questa seconda, maliziosa interpretazione. Perché non fermarsi alla prima, al fatto, cioè, che Leopardi si trovasse, più che ospite, a pigione, ad abitare nella casa dell’amico, libero, senza restrizione alcuna, dalla quale e nella quale entrare e uscire a piacimento? Si insiste, invece, si preferisce insistere su “tutte le luci e le ombre di un rapporto ambiguo”, cioè, si vuole e a tutti i costi “si intravede un rapporto omosessuale tra i due sodali”. Se relazione vera c’è stata, essa, comunque, non reagisce col valore altissimo della sua poesia - che è quello che deve interessare il critico onesto - e per noi sarebbe opportuno evitare il disaggio che ciò provoca negli innamorati di quella poesia ogni volta la si menziona. Anche Di Lieto, al par di noi e di altri, la nega: “È stata sicuramente un’amicizia molto “particolare”, ma non un amore omosessuale”. Ci siamo chiesti sempre - per Leopardi, D’ Annunzio, Pascoli eccetera - a che giova soffermarsi, insistere sadicamente su qualche miseria, delle quali nessun uomo è esente sulla faccia di questa misera terra. Siamo con Giuseppe Chiarini, quando afferma che “L’anima di un grande scrittore è tutta intera negli scritti suoi meditati non è nelle piccole miserie della sua vita”. Il fatto, ripetiamo, è che in personaggi così


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grandi, nella loro vita e nelle loro opere, ci sono stati e sempre ci saranno ambiguità e certezze. Non solo le une e non solo le altre. E sono entrambe che rendono sempre vivo l’ interesse del lettore e dello studioso, sicché si possa ancora oggi pensare e scrivere di Dante, di Leopardi eccetera, come di personaggi attuali. Se i critici si soffermano tassativamente sulle une o sulle altre, lo fanno per convenienza alla loro tesi e qualcuno - solo qualcuno, per fortuna - per malanimo, perché abituato a razzolare o a scavare nel torbido. Invitiamo a leggere da cima a fondo il lungo saggio di Carlo Di Lieto, ma con animo sgombro da tesi assolutistiche, perché Leopardi ha una poesia rivolta verso l’alto, tanto è vero che, leggendola, non si prova annichilamento, spinta verso il basso, il nulla, bensì amore ed energia, voglia di vivere, di godere la vita. Leopardi è un grande moderno. Egli, quando scrive di Napoli, non dimostra di aver capito solo i Napoletani del suo tempo, ma il mondo di ieri e di oggi. Leggetelo quando scrive di come la gente riesca a mimetizzarsi per eludere due delle più prossime ... calamità: essere disprezzata perché povera o rischiare di venire ammazzata! C’è tutto il germe di uno dei motivi di una piaga italiana dei nostri giorni, in tutti i ceti e a ogni livello: l’ evasione fiscale. Domenico Defelice CARLO DI LIETO - LEOPARDI E IL “MAL DI NAPOLI” (1833 - 1837) UNA “NUOVA” VITA IN “ESILIO ACERBISSIMO” - Prefazione di Sandro Gros-Pietro - Genesi Editrice, 2014 Pagg. 1088 + XII, € 60,00

IL TEMPO Il tempo è ora ed è già passato il tempo quando arriva ha sapore di miele il tempo non ti aspetta il tempo vive il suo momento il tempo non ascolta il tempo è veloce a modo suo il tempo arriva e poi parte subito il tempo ti seduce e poi ti lascia

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il tempo è sfuggente il tempo è sagace il tempo non ama gli innamorati il tempo ti ama fino alla morte. Adriana Mondo Reano, To

L’INCONTRO Non voglio credere ai miei occhi, ti ho vista nel luogo ove trascorro un pezzo delle vacanze; mi ha stancato il minuto crivello al passaggio della gente del corso. È appena spiovuto, le pozzanghere per le strade ci fanno andare come uccelli di stagni, una freschezza che è leggera voluttà di sensazioni, morbidezza giovanile dell’ovatta che si fa calda tra le dita. Lontane immagini ritornate, le scorze delle ferite distaccate, pelle tenera rinata. Ho subito detto che siamo due persone libere. Rinnovato il cielo a squarci azzurrati, purezza della mattina. Ti ho colta immediata, le parole sono estemporanee, non c’è titubanza nel dire quanto mi passa per la mente da alcuni mesi. Ti vedevo di sfuggita, ma lasciavi una scia che si ispessiva nei giorni. Stampato il viso, le linee più rilevanti fissate. Tu hai quel calore che si immette salutare sollievo per tutte le parti. Un ritornare indietro ancora, rifacimento della persona vivendo periodi di convalescenza. Covata nel pensiero la certezza di scoprire contatti non comuni, l’intimità che s’affonda di umori e di tenerezze affinate. Segretezza femminile di attrattiva, fragilità delicata ravvolta, nascosta impenetrabile che si riapre e si avvinghia; il sentimento misto della mamma e dell’adolescente. Leonardo Selvaggi


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GIANNI RESCIGNO: RICORDO DELL’UOMO E DEL POETA di Marina Caracciolo

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AMMENTO ancora la prima volta in cui incontrai Gianni Rescigno: era dicembre del 1994, in un piccolo paese in provincia di Lecco, durante la cerimonia di premiazione di un concorso letterario. Gianni aveva vinto superando tutti gli altri concorrenti con la toccante poesia “Cristo a Sarajevo”. Vidi subito l’uomo semplice, modesto, con un volto buono che tradiva una certa commozione e anche un po’ di stanchezza (aveva percorso più di 900 chilometri per arrivare fin là da Santa Maria di Castellabate!).

Poche parole e molta ritrosia nel ricevere il premio, come fosse un regalino concesso senza suoi grandi meriti da benevoli amici… Gianni Rescigno scriveva e pubblicava versi già da 25 anni (la sua prima raccolta, Credere, è del 1969). Di certo egli sapeva di valere, e questo lo spingeva ed incoraggiava a proseguire su quella strada senza mai tornare indietro. Ma forse, per l’umiltà che lo ha sempre contraddistinto, non conosceva la sua grandezza. Grande è stato il poeta Gianni Rescigno. E non lo dico perché sono diventata una fedele amica di lui e di tutta la sua famiglia, né per aver pubblicato sulla sua poesia il primo libro che ne desse una visione critica dettagliata e complessiva, né per aver continuato a scrivere su di lui, con immutato entusiasmo, prefazioni e recensioni: ma per il fatto che questa vera grandezza, da molti con-

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clamata, eppure mai invero istituzionalmente riconosciuta, mi è divenuta sempre più percepibile proprio attraverso l’amicizia e soprattutto la costante, appassionata lettura dei suoi versi, anno dopo anno dati alle stampe. In una sua lettera del novembre 1999, Gianni mi scriveva: “Per favore, cara Marina, non si rivolga più a me chiamandomi egregio poeta. Mi considero soltanto un cultore di poesia. Semino parole nel vento, nella terra, nella pioggia. Nient’altro”. Queste parole disperse nel vento, nella terra, nella pioggia come una manciata di perle generate da una splendida ispirazione sono gli autentici piccoli e non piccoli capolavori all’interno del migliaio di poesie che costituiscono la sua intera produzione. Gianni non è mai approdato al fasto della grande Casa Editrice, e non per poca rilevanza della sua statura di poeta nel panorama della cultura letteraria contemporanea, ma perché – come scriveva Vittoriano Esposito nel suo Profilo e bilancio critico all’interno della raccolta Le strade di settembre (1997) – «Nato e cresciuto come poeta quasi allo stato brado, in un angolo sperduto di provincia, lontano dalle conventicole cittadine e dai gruppi che hanno esercitato il potere letterario nell’ultimo trentennio, Rescigno conferma la non comune persuasione che la vera poesia, anche oggi, è una grande solitaria che vive e si alimenta della realtà e del sogno attraverso il filtro dell’anima». Questa è la poesia di Gianni Rescigno: un flusso di parole col tempo sempre più sfrondato, affinato, perfezionato, sempre più ricco di una straordinaria inventiva che persegue il suo itinerario senza mai perdersi né diminuir-


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si, con uno sguardo lucido e preciso ma sempre sognante: egli non descrive nelle sue pagine la realtà che osserva, la rappresenta; non la riproduce, la trasfigura. In quasi mezzo secolo di scrittura poetica, Rescigno ha giocato con un fascio di temi fondamentali: la terra e il mare, i sogni, l’ amore e il dolore, le memorie sopite e rimembrate, i dolci affetti famigliari, le speranze coronate o deluse e la consolazione della Fede; la bellezza della Vita stessa e il suo stesso proseguimento, la francescana sorella Morte. Con questi pochi elementi, apparentemente sempre identici, egli ha costruito un incomparabile e diversificato ventaglio di visioni. Un mondo che porta sullo sfondo campi ed acque, stelle e soffi di vento, fronde e curve di colline, dove la fantasia del poeta sa compiere balzi che portano all’improvviso in luoghi dell’anima, in paesi non suoi, in terre ancora più vaste e senza nome… Più di trent’anni fa Giorgio Bàrberi Squarotti – senza dubbio il più grande e il più assiduo dei suoi critici – scriveva: «Mi piace di questa poesia il senso grandioso di paesaggi pieni di colori intensi, di forme compatte e certe, entro cui passa un senso di avventura quieta e misteriosa, che si muove sulle ali di un vento perpetuo, che porta con sé, negli spazi conclusi delle campagne, il turbamento del divenire, la misteriosità del tempo che non ha pace e non dà pace» (dall’Introduzione critica a: Gianni Rescigno, I Salici-I Vitigni, Lalli, Poggibonsi 1983; pp.5-6). «Chi trova un amico trova un tesoro», recita il proverbio. Anche chi lo perde, purtroppo, perde quel medesimo tesoro. Quante persone

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ha conosciuto Gianni e quante lo hanno conosciuto!… Lo si constata per esempio leggendo il bellissimo libro intitolato La tela del poeta (a cura di Menotti Lerro. Genesi, Torino 2010) dove sono raccolte centinaia di lettere e missive inviategli in tanti anni da scrittori, critici e amici più o meno celebri, i quali in esse gli davano sostegno, consiglio, apprezzamento, autentica considerazione. Tutti noi abbiamo perso purtroppo la persona, l’amico Gianni Rescigno. Ma la sua eredità di uomo buono e di validissimo poeta ci resta. Nessuno può togliercela. Rimane nei suoi versi, ed egli ci ricompare davanti vivo ogni volta che apriamo le sue pagine e ci disponiamo a lasciarci sopraffare dalla bellezza inconfondibile delle sue visioni. Come non ricordare il suo grande cuore che palpitava di umanità dicendo: «Oh quanto sarebbe bello /mettere il mio amore /nelle mani di chi passa! /Ma nessuno si ferma /ad accettare quest’elemosina» (da Quest’Elemosina, Editrice Todariana, Milano 1972). E come non restare quasi ammutoliti davanti alla meraviglia e al mistero della sua ispirazione, leggendo tanti suoi versi che affascinano e restano poi a lungo nella memoria anche quando abbiamo chiuso il libro e ci sembra di poter pensare ad altro?… Gianni Rescigno sapeva che la vita è sogno e la morte soltanto un passaggio. Scriveva infatti: «Quando finirà il sogno / ti prego prendine i frammenti. /Continua ad imbastire /sul gran lenzuolo del tempo / sole luna terra » (da Dove il sole brucia le vigne. Genesi Editrice, Torino 2003). La sua poesia, che resta imperitura al di là del termine della sua vita terrena, ci sembra talora una sorta di selva incantata: i suoi alberi li conosciamo bene, uno ad uno; quasi li possiamo contare e chiamare per nome. Eppure ogni volta che si entra in questa selva e se ne ripercorre il sentiero, ci si accorge che come per magia essi sono cambiati di posto: la foresta meravigliosa si rivela allora un’altra, tutta nuova, ancora tutta da scoprire. Marina Caracciolo


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Alla Alliance française di Genova

IL “VIAGGIO STELLARE” DI

GUIDO ZAVANONE di Luigi De Rosa

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L felicemente riuscito poema di Guido Zavanone “Viaggio stellare” continua nel suo iter di presentazioni in pubblico. L'11 giugno di quest'anno è stata la volta di Genova (Alliance Française, via Garibaldi, 20) a cura della benemerita Fondazione Mario Novaro presieduta da Maria Novaro, parente del famoso poeta. Il volume di Zavanone, edito dalla casa editrice genovese San Marco dei Giustiniani, è stato presentato dal prof. Vittorio Coletti, ordinario all'Università di Genova. Mentre le letture, in francese e in italiano, sono state di Milly Coda (anche pittrice) e della poetessa italo-francese Viviane Ciampi. Con l'occasione è stata inaugurata la mostra di quadri di nove pittori liguri (Milly Coda, Gigi Degli Abbati, Walter Di Giusto, Sergio Giordanelli, Luigi Grande, Bruno Liberti, Sergio Palladini, Raimondo Sirotti, Giuseppe

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Trielli). I quadri esposti sono stati ispirati ai rispettivi artisti dai versi del poeta Zavanone, tutti pervasi da un potente ma moderno afflato dantesco e da una carica etico-poetica ad alta tensione. Viaggio stellare è un poema di 1372 versi, in prevalenza endecasillabi, ma alternati a quinari, senari e settenari per conferire al canto un ritmo moderno e sincopato, in aderenza alle varie circostanze del viaggio di Guido nello Spazio, e tesi a tenere sempre alta, dall'inizio alla fine, la temperatura poetica del poema. A guidare il modernissimo Dante, tenendolo per mano, è una soave creatura con ali di farfalla e corpo flessuoso di fanciulla, volata fino a lui da un lontano e sconosciuto pianeta, seguendo il suo soccorrevole istinto per aiutarlo a ricercare la Verità (“Chi muove il mondo, quale/ l'origine nostra, ove la mèta”) Basta un gesto della sua mano perché nel cuore del poeta, angosciato dai problemi incalzanti, e terribili, del nostro Tempo, scenda una pace sovrumana (“Mi sentivo accettato, una molecola/ felice in sintonia con l'universo...”). Ciò non toglie che il Mistero del Cosmo non continui ad atterrire l'uomo: “Navighiamo entro il vuoto smisurato/ che separa l'una e l'altra galassia/ ciascuna con miriadi di stelle/ e ruotanti pianeti/ punti sperduti dentro immensi veli/ di polvere vaganti/ nella cangiante varietà dei cieli./ Così muove e s'evolve l'universo/ senza scopo apparente/ vascello-fantasma in cui si accalcano/ passeggeri atterriti che si chiedono/ dove vanno :/ e nessuno sa niente...”. La soluzione all'angoscia derivante da quel “nessuno sa niente” risiede in un sano “carpe diem”: “Godi la bellezza/ che giorno a giorno ti vado mostrando/ sullo scosceso ciglio della vita/ cogli il fragile fiore dell'istante...” Durante il viaggio stellare il lettore si sente sprofondare, insieme al poeta, in un abbandono delizioso tra care braccia, ma sente anche il terrificante “rantolo dell'Universo”. Vede nascere stelle, e ne vede anche morire, tocca con mano il mistero dei buchi neri, assiste alla formazione dei sistemi planetari nelle ga-


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lassie, per cui l'eternità si rivela un inganno della mente. “Ora vedrai come tutto/ anche quassù tra noi scolora e muore”. Può visitare il Pianeta dei nani e dei giganti (qui sono potenti le frecce satirico-sarcastiche di Zavanone nei confronti di tanti personaggi dei nostri tempi); il pianeta degli ibernati, quello dei robot, quello delle ombre viventi. Nel cap. XVI c'è il Pianeta dei morti, con la sagace rappresentazione di categorie di personaggi dei nostri giorni, dai politici (corrotti o non corrotti), ai mercanti, alla gente di spettacolo, etc. In un altro capitolo c'è l'incontro coi propri genitori defunti. Questo incontro nell'Aldilà coi propri genitori, mai abbastanza amati e compresi dai figli (“io dissi solo: “Sapete che v'amo” / Altro non volli aggiungere, temendo/ che nel mio dire leggesse l'affanno/ e il dolore di in vivere insensato...” ) lascia nel poeta l'angoscia e il rimorso “per un amore così tardi espresso”. In un altro capitolo c'è addirittura l'incontro col sommo Padre Dante. Il poeta viene a sapere, tra l'altro, che i personaggi che Dante onorò col suo canto, e li fece grandi, “ giacciono ammucchiati/ nel grande cimitero della Terra:/ fraternizzano tra i vermi...”. Alla sua domanda Esiste un Dio che l'universo regge? Dante risponde: “ Se intendi rettamente la visione/ che muove la Commedia e la suggella/ Dio è luce in cui l'uomo si riflette./ Ma se l'arida scienza l'apparenta/ a protoni, neutroni ed elettroni/ ogni fede ha perduto sua semenza.”. Infine Dante dice la sua anche sulla crisi della Letteratura, o meglio, della Poesia nel nostro mondo d'oggi : “ Tu saresti – mi disse – un altro Guido/ e forse vorresti essermi seguace/ ma più nessuno fra i versi fa il nido/ se pur fornito d'ingegno vivace./ Parola e realtà vanno disgiunte/ ormai la prima si coltiva in vitro / fugge il lettore cercando altro lido...”. Il poema si avvia alla conclusione col cap. XXII (“Ammonimenti”) in cui gli strali non risparmiano numerose categorie di persone della società moderna, come certi Papi e cardinali, scienziati, moralisti e maitres à penser,

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delinquenti richiamati in cattedra, politicanti senza scrupoli e truffatori di ogni risma. Purtroppo le invettive non risparmiano neppure le categorie degli artisti e dei poeti coi loro tic e difetti, fatta eccezione per quelli le cui rime sono intrise/ di dolore e d'amore e forse è questo/ che al lettore avvicina e le redime. Il ritorno dell'astronave sulla Terra è descritto con rara perizia. E il primo contatto col suolo del novello astronauta è un affondare coi piedi nel fango e in un freddo grembo. Dopo un sublime viaggio stellare ai confini dell'impensabile e dell'indicibile, una voce banale che grida “ Siete arrivati”, il fango, il buio fitto, il cancello, l'incertezza più assoluta, trasmettono al lettore il fascino e l'angoscia della grande Poesia, dell'ignoto e della solitudine esistenziale dell'individuo, dovunque e in nessun luogo. Luigi De Rosa LA FAGLIA D’ERBA... la faglia che s’apre sotto il terremoto delle tue dita mostra il rosa ardente della terra sua fertile in attesa del migliore contadino che pianti il seme buono a scuotere il silenzio di una terra abbandonata a lungo un fremito d’acqua muoverà il suo grembo lentamente la faglia d’erba nera bionda o fulva dilaterà sarà squarcio di roccia e ciò che chiami frutto riscalderà una casa Salvatore D’Ambrosio


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LUIGI DE ROSA: FUGA DEL TEMPO di Liliana Porro Andriuoli

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OETA e saggista, Luigi De Rosa è conosciuto anche al di fuori della sua regione di elezione (la Liguria) in virtù della sua assidua produzione, come dimostrano, fra l’altro, le numerose comparse su riviste nazionali di varia umanità. Ed altrettanto numerosi sono anche i riconoscimenti che gli sono stati attribuiti nel corso degli anni, tra i quali uno dei più recenti è il Premio “I Murazzi 2013”, assegnatogli a Torino, con dignità di stampa, per la silloge inedita Fuga del tempo. In precedenza mi sono già occupata della sua poesia, proprio sulle pagine di questa rivista, tentando una panoramica della sua produzione poetica con qualche dettaglio. Colgo ora l’occasione del recente Premio per parlare di lui come autore della silloge vincitrice. Sin dal suo titolo (Fuga del tempo) abbiamo sentore di come più assiduo e veloce il poeta avverta ora fluire il tempo e di come, in maniera più compiuta che in passato, comprenda il valore prezioso di ogni giorno che passa. Sentore che ci viene confermato più volte dalla lettura di questi versi, ma che con più icastica evidenza emerge dalle due poesie che aprono e chiudono la raccolta, entrambe ispirate al tempo che passa. Alla prima infatti, Verso la foce, in cui il fiume che giunge alla foce è una chiara metafora della vita dell’ uomo che giunge al suo estremo traguardo, fa

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riscontro l’ultima, Fuga del tempo, che è anche la poesia eponima, nella quale il rimpianto per la vita perduta dietro a vani richiami si fa più assiduo ed assillante: “Chi ci restituisce i nostri anni migliori, / e i diamanti, e le perle che abbiamo gettato / nel vortice banale del giorno dopo giorno?”. Stiamo, dunque, tutti procedendo inesorabilmente Verso la foce - ci dice Luigi De Rosa nella poesia iniziale - ma non vi è tristezza né sgomento nelle sue parole, perché l’ orizzonte a cui egli si affaccia è spazioso e sereno ed egli è certo che il fiume della nostra vita ritornerà ad essere nuovamente fervido e “trasparente” come era all’inizio; e, “come filo gelato di sorgente”, “si fonderà con il mare aperto / e profondo, / senza più il limite, laggiù, / di un orizzonte”. A voler ora inquadrare criticamente la sua poesia, va subito detto che egli è un poeta di limpida vena e dall’andamento narrativo, che oscilla tra l’osservazione attenta della realtà e la ricerca del senso recondito che essa nasconde; tra il pulsare concreto della vita e la sua resa in forma d’arte. De Rosa è comunque sempre pronto a rimettere in gioco il proprio vissuto, sospeso com’è tra il presente e il passato che in lui si rifà ognora presente con immediata evidenza. Si prenda, ad esempio, una poesia come Occhiali neri da sole, nella quale il nostro poeta parla dell’evento più doloroso della sua vita, quello della separazione dei suoi genitori (“una separazione aspra /… / per me incomprensibile e ostile”), avvenuta allorché egli era ancora bambino. Ed appunto “bambino spaurito” egli si rivede nella Milano del 1944, nel momento cocente del distacco dei due giovanissimi genitori, mentre, “tenuto nervosamente per mano” dal padre, tenta invano di “offuscare di lacrime, in silenzio, / i suoi occhiali da sole soffocanti”, per poter evitare di vedere la figura della madre che si sta definitivamente allontanando dalla sua vita. “Mi ricordo che prima piansi a lungo, / sia di giorno che di notte”; “La mia esistenza è rimasta, comunque, / segnata indelebilmente”, scrive


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oggi. E’ questa una poesia nella quale la commozione è autentica ed espressa in maniera sobria ed efficace. Lo stesso può dirsi di altre poesie nelle quali De Rosa si rivolge al padre, come ad esempio di quella intitolata Caro papà, dove la figura paterna balza netta e viva nel ricordo del figlio: “Mi mancano i tuoi occhi indagatori / che scrutavano con ansia i miei ritorni”. Ma ancor più vivo emerge qui, e brucia terribilmente dentro l’animo del poeta, il rimorso per quell’affetto reciproco, sempre tenuto dentro e mai scambievolmente esternato, specie nei suoi “anni maturi”, allorché il padre era ancora in vita; così come gli brucia ancora dentro l’angoscia per non essersi “mai sentito compreso” da quel padre a cui pur tanto era legato, ed anche per non averlo, a sua volta, “compreso”, come in realtà avrebbe desiderato. Si vedano anche Papà, sempre più spesso mi sorprendo, dove l’evocazione si fa assorta e sofferta, e Ma papà, tu continui a sorridere…, nella quale più concreto è il pensiero del tempo che passa e della morte che ineludibilmente avanza: “Ogni volta che ritorno a trovarti / in questo immenso cimitero di Asti / tu continui a sorridere, sornione, / dietro i baffetti, con quel tuo sorriso / intelligente e ironico”, quasi a volermi ricordare che quel “giorno in cui non varrà più / la pena di soffrire questa vita”, prima o poi verrà anche per me. Per ciò che concerne l’osservazione attenta del mondo esterno in De Rosa, la si coglie agevolmente in poesie quali Giardino ligure dopo la pioggia, che inizia: “Anche gli steli più trasparenti / godono, tremando, della frescura / che ha intriso la terra, / moscerini impazziti danzano a mezz’aria, / sullo sfondo celeste del cielo”: dove palese è la profonda ammirazione del poeta per ciò che lo circonda, lasciandolo sempre stupefatto di fronte al “caleidoscopio infinito” che offre la Natura a chi la sa osservare. Ammirazione che, al di là del momentaneo senso di meraviglia, sa innescare in lui profondi pensieri metafisici, come testimonia la stessa chiusa della poesia: “E

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penso // al perché di tutto questo, / ed a me, a noi tutti, / agli infiniti Universi…”. Ammirazione che trapela anche da Cos’è una rosa? (dedicata a Giorgio Caproni), che ha questo explicit: “E se l’uomo non può conoscere e capire / l’essenza di una piccola cosa / vivente, precaria, / come può capire la Vita, / o, addirittura, il Dio che sembra assente?”. E si noti quel “sembra” che contiene in sé un’ esplicita affermazione! Lo sguardo, gettato con acutezza sul mondo esterno lo si trova anche in poesie quali Sera in montagna, dove leggiamo: “Per tutto il giorno si sono rincorsi / fiocchi di nuvole bianche, abbaglianti / in un profondo cielo…” o in Ritorno al pascolo in Val d’Aveto, che cosi inizia: “Assomiglia al mio cuore questa valle: / la nuvolaglia inghiotte la foresta / d’ oro e smeraldo, / minaccia temporali violenti” per poi aprirsi nuovamente al sole, in tutta la sua fascinosa bellezza. Ed è tale l’entusiasmo del poeta da giungere ad identificarsi con la natura. Un contenuto schiettamente meditativo si affaccia invece in poesie come Sottobosco, nella quale l’intento di offrire un ammaestramento è palese: “A volte, per trovare un valore / autentico, bisogna abbandonare / il caldo, assolato sentiero, / bisogna osare”. Un uguale intento gnomico lo troviamo soprattutto nelle poesie della seconda parte della silloge, intitolata Intanto… il mondo va, nella quale la musa di De Rosa tende ad assumere intenti civili, nella constatazione dei molti delitti della Storia. Nella poesia intitolata Un mattino di Liguria / Un mattino del mondo, ad esempio, il poeta contrappone alla pace del paesaggio ligure il “fracasso delle armi”, che purtroppo ancora “rintrona” in troppi angoli del pianeta, e il “sangue degli innocenti”, che ancora molto spesso si sparge per futili motivi, se non per loschi interessi. In Alluvione a Monterosso (25 Ottobre 2011), aspramente stigmatizzata l’incuria di quanti avrebbero dovuto tutelare il paesaggio con opportune opere pubbliche, mentre oggi assistiamo al disastro causato da violente inondazioni, che tutto travolgono. Si veda anche a tale proposito La Poesia


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non è cosa per allocchi, per la protesta civile che in essa vibra. Più sereno si fa lo sguardo del nostro poeta in liriche quali Mediterraneo duemila, in cui De Rosa rivà al tempo della sua giovinezza o nella già citata poesia eponima che chiude la silloge, la quale, dopo aver auspicato una “mappa degli errori da evitare”, ha questo explicit: “Ma questa mappa sarebbe sempre inutile / perché continueremmo ad amare la vita / per continuare a viverla”. Ed è proprio in questo amore per la vita (che sa efficacemente trasmettere ai suoi lettori), che Luigi De Rosa trova la sua salvezza e quindi la forza per seguitare il proprio cammino di uomo e di poeta. Un cammino, certo, non sempre facile, ma che tuttavia gli offre quella luce e quella serenità che gli consentono di concepire la vita come un’ avventura degna di esser vissuta. Liliana Porro Andriuoli

si riproducono, pervicacemente;

LUIGI DE ROSA: FUGA DEL TEMPO (Genesi Editrice, Collana I frombolieri, Torino, 2013, € 11)

lasciatemi vigilare, con gli occhi sbarrati per il timore e lo sconforto; lasciatemi sperare, e disperare, nel groviglio dei dubbi e dei tormenti, con l'unica mia bussola, la Poesia. Luigi De Rosa

LASCIATEMI SCRIVERE, LASCIATEMI VIVERE Ora che sono arrivato fino qui, e che qui me ne dovrei rimanere, lasciatemi scrivere di quello che voglio e che davvero mi interessa; lasciatemi solo, ogni tanto, a meditare in un “ozio” fiorito, a vagheggiare cose dolcissime, inesprimibili; lasciatemi sorridere di gioia nel cuore del mio cuore davanti ai fiori dell'uomo, i bambini, e davanti alle persone sincere e buone, ai segnali di amore, alla Natura; lasciatemi sognare nel gioco intrigante della Poesia, unica mia droga; lasciatemi urlare a squarciagola contro le centomila storture del mondo che in sempre nuove forme

lasciatemi ripartire ( senza trattenermi), lasciatemi tornare, e restare ( senza imprigionarmi) lasciatemi rimpiangere tutta la Bellezza che non c'è più e lasciatemi adorare quella che c'è ancora, lasciatemi viaggiare nello sconfinato Universo per miliardi di miliardi di anni-luce con la navicella della mia fantasia; lasciatemi dormire fiducioso come un bambino con la sua mamma;

Rapallo, GE

AL POETA MALATO Ora che il morbo ti opprime più non suona il tuo nome, Poeta. Un istrione eri, un oracolo. Prima che tu aprissi la bocca stavano ai tuoi piedi adulatori smemorati a chiederti il responso sopra il sesso degli angeli, l’ombelico del mondo. Spariti! Sono tutti scomparsi, Poeta, le più brutte, le belle e chi bene ti voleva veramente. L’albero ammalato per prima l’abbandonano gli uccelli. Domenico Defelice


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“Mattinali e tramonti dell'opera compiuta”

ANNO DOMINI 2002: RENATO GRECO E L'ANALISI Abundantia cordis e difesa dal sentimento di Rossano Onano

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ENATO Greco stampa per la Tipografia Cortese di Bitonto la settima raccolta antologica di poesie inedite (2002-2014). In copertina, una retorica fotografia tratta da Google, un tramonto sul mare addensato e paonazzo. Mi chiedo come Renato si sia lasciato convincere da una sublimità così ostentata, lui tanto misurato nella parola, e personalmente tanto alieno dalla retorica. Me lo ricordo nell'unica occasione d'incontro, cena di pizza a Modena dopo un premio letterario. Seduto di fronte a me, cominciò a parlare di storia, con una passione narrativa gentilmente sommessa, fino a quando l'attenzione dei commensali via via si spostò verso argomenti più ridanciani. Io continuavo ad ascoltarlo. Chiedevo fra me cosa avesse il suo racconto di tanto straordinario, fino a quando mi raggiunse di soppiatto la spiegazione più elementare: Greco parlava di storia antropologica, i miti originari, la migrazione dei popoli, le stratificazioni culturali. Quando compare l'uomo singolo come individualità storica (il primo è Sargon, dicevo fra me, prima o poi lo nomina: invece, niente) il suo racconto finiva. Questo per dire come l'interesse di Greco sia rivolto alla fenomenologia evolutiva dell'uomo. Quando compare l'eroe, fascinoso ma ingombrante, la sua volontà d'identificazione, caratterialmente, svanisce. A Premessa del volume, l'Autore si dichiara consapevole di una intrinseca contraddizione: le antologie per loro natura fanno razzia su testi già storicizzati, quando invece “Mattinali e tramonti dell'opera compiuta sono una

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raccolta di poesie che ha l'elemento caratterizzante dell'anticipazione dei limiti temporali del presente proiettandosi, invece, nel futuro”. Tant'è che a questa, la settima, preannuncia seguirà l'ottava, Il meglio di Renato Greco, con poesie scelte da Daniele Giancane. Tanto mi è facile, e gradevole, ascoltare Renato Greco quando parla, quanto mi è difficile occuparmi di lui quando scrive. Per abito mentale, e per formazione personale, so scrivere di cose e persone di cognizione non perfettamente armonica. La scrittura di Renato, per quanto la conosco, è invece sostenuta da uno schema razionale solidissimo. Quando lo leggo, penso a Orazio: il paragone può lusingare Greco; quanto possa piacergli, o possa concordare, non so. Ora, leggendo Mattinali e tramonti scopro, con sollievo, che questo Orazio ha le sue bravi vampe irritative alla sottocorteccia, quella che presiede ai bisogni e alle tendenze istintivo-affettive. Troviamo in Greco la presenza di un sentimento di forza abnorme, che è il desiderio di eternità. Il quale, sarà pure desiderio ontologico, ma oltre certi limiti diventa una specie di paranoia, un delirio di onnipotenza. O, almeno, un delirio di permanenza in vita (nel ricordo altrui): come dimostra, del resto, il suo felice accanimento scrittorio. Come lettore, il mio impatto alla prima composizione (Domande) è di sorpresa: capoversi di uguale lunghezza, a centro foglio, scomparsa degli interspazi, assenza della punteggiatura, della prosodia, della metrica. Come dire: io scrivo così perché io sono io, e voi arrangiatevi. In fondo, massima arroganza dell'io, per un poeta così attento alla fenomenologia corale. Il contenuto: mi rifiuto di macerare le parole (per la precisione: “dovreiinvecemacerarle”), esprimo invece la massima urgenza affettiva. Disordinata, come tutte le urgenze. Quando un poeta destruttura il linguaggio, spetta al lettore l'impegno intellettivo di ricomporlo. La relazione comunicativa fra poeta e lettore è totalmente asimmetrica, fra la libera e facile espressività di chi scrive e la difficile accoglienza cognitiva di chi legge. Per inciso: così funziona la comunicazio-


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ne fra lo schizofrenico, che troppo liberamente (ovvero in modo sconnesso) esprime le urgenze affettive, e lo psichiatra che faticosamente ascolta. E che quasi mai, infatti, è in grado di capire. Subito dopo, una composizione introspettiva di composto empito sentimentale (L'albero. Il mio brivido). Intimismo e, insieme, sguardo onnicomprensivo sui mali del mondo. Gli alberi sono scheletri esausti nella notte, il vento si abbarbica alle foglie. Una donna geme poco lontano, nel ventre solitario di una stanza. Il serpente (di Eva?) insidia il nido dei passeri. Spesso il male di vivere ho incontrato, il cavallo stramazzato nella fossa, Montale. Rispetto al cupo poeta ligure, Greco utilizza ad accompagnamento una colonna sonora: le note cantanti, ma belle e cupe, del valzer di Sibelius. Nella composizione successiva (Deposizione spontanea resa davanti al magistrato) il male del mondo è sùbito individuato. Palazzo di Giustizia, per un processo in atto per nulla kafkiano, si indaga su un delitto avvenuto, un onesto magistrato ascolta, un indagato che non si avvale della facoltà di non rispondere ma anzi fornisce la sua deposizione: per quel morto ammazzato ho l'alibi, ero al bar che giocavo a carte, fino alle tre passate di notte salvo due puntatine al cesso con licenza parlando, mi hanno visto almeno cento persone. Il lettore avverte l'impotenza del giudice, cento testimoni sono troppi, faccenda sospetta. Può indagare, signor giudice, tanti saluti, resto a vostra disposizione, come sempre. Il lettore avverte che l'impotenza del giudice diventa livore. Manca, sulla scena, l'identità del morto. Non era amico dell'imputato, ma nemmeno era nemico. Insomma, non era nessuno. Muore, nella poesia, senza identità. Come in fondo, senza identità, moriamo tutti in vita. Tutto il male del mondo è questo: l'anonimia delle vittime. Tutto il male del mondo è l'impotenza del giudice nell'attribuzione di colpa, nel formulare la pena. Tutto il male del mondo, del resto, siamo noi che invochiamo il giudice perché pronunci la pena, per tutta la scala gerarchica dei tribunali pos-

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sibili, terrestri e celesti. Traiano fermava l'esercito per ascoltare una donna e darle giustizia. Pietà. Tutto il male del mondo è averla persa. Comincio a riconoscere la maestria descrittiva, ma anche la caratterialità olimpica di Renato Greco: la finta identificazione con il reo dai cento alibi è la difesa verso la facile esternazione dello sdegno. Diversamente l'olimpico si difende dall'abundantia cordis sentimentale: Una canzone per te, siamo sempre nel 2002, è la confessione d'amore verso una donna di scombiccherata costituzione. “Non hai gli occhi come quelli di Monna Lisa”, e infatti precisamente la donna è strabica, gli occhi sono “due attrezzi globulari per triturare cuori”. La giovane donna ha diverse altre bizzarre caratteristiche somatiche, alcune di comparazione vegetale. Una donna dipinta da Arcimboldo. E tuttavia, fortunatamente, la difesa grottesca sembra non avere esito, la maliarda riesce comunque ad attanagliare i cuori. “Quando l'uomo è uomo – cito a braccio da Margaret Mead, l'antropologa – nessuna donna può essergli indifferente”. Il quadro di personalità del nostro Autore (con ciò intendendo il suo modo di porsi, e di agire, di fronte alle cose) sembra essere sufficientemente delineato. Come sia pervenuto a una qualità di questo genere, non è dato sapere, e neppure del resto è importante saperlo. Stiamo parlando di scrittura, e il pudore riguarda ovviamente la resa in poesia dei sentimenti. Come Orazio in epoca augustea non praticava l'abundantia cordis, così Renato Greco trova indecorosa l'abbondanza del sentimento. Quando poi il sentimento deborda, come spesso succede scrivendo poesia, in sentimentalismo, Greco mette in atto le sue difese. Che sono di tre tipi. La prima difesa consiste nel balbettio sconclusionato (Domande): l'Io afferma la propria autarchica originalità, che gli altri soffrano a me non interessa. Niente da fare, il serpente insidia il nido del passero, stramazza il cavallo di Montale, tutto


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il male del mondo continua ad affluire. E' necessario mettere in atto la seconda difesa, indossando l'abito del cinico osservatore delle faccende umane (Descrizione spontanea resa davanti al magistrato): questo è il mondo, a questo mi adeguo perché il male è onnivoro, irrisolvibile. Non solo il male è in agguato, anche la bellezza è insidiosa. E allora, come estremo tentativo di difesa, lo sberleffo pittorico (Una canzone per te): fascinazione e presa di distanza dalla donna vezzosamente strabica. L'ambigua collocazione di sé fra l'empito sentimentale e la negazione razionale del sentimento (autarchia, cinismo, sberleffo) è il preciso conflitto che veste la personalità di Renato Greco. Si tratta di una Nevrosi. E infatti, anno domini 2002, Renato Greco entra in analisi. Abbandona la visione storica onnicomprensiva per guardare, scrivendo, dentro se stesso. Non trovo nel volume indicazione della sua data di nascita. E' un vezzo dei poeti, questo di non rivelarla, che fatico a comprendere: in questo modo, un autore rifiuta di storicizzarsi. Nel mio ricordo di commensale, Renato era mio coetaneo, forse un paio d'anni in più, immagino stia cavalcando l'arco degli anni 70. Qualcosa è successo nel 2002, probabilmente nulla di eclatante, forse solo l'approdo all'età in cui è difficile futurizzare, mentre l'inconscio dà libero corso ai ricordi. E' l'età in cui l'uomo comincia l'inventario delle cose compiute, del perché le abbia compiute, delle cose omesse, del perché le abbia omesse. Nella lettura di sé di fronte alle cose Renato Greco si rende conto, immagino, del proprio abito nevrotico: conflitto fra le qualità sensoriali emotive affettive (sentimento) e la volontà, piuttosto feroce, di tenerle sotto controllo attraverso meccanismi razionali (ragione). Quando si parla di conflitto, è bene non drammatizzare le cose. Contrariamente a ciò che si pensa, il conflitto è una condizione di grazia. Quando esercitavo nel campo della psichiatria, ai nevrotici ponevo come premessa: “lei è una persona ricca, ha due idee che

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fanno a cazzotti fra loro, pensi agli imbecilli che di idee ne hanno una sola”. Una approccio di questo tipo, con i nevrotici, contiene valenze positive straordinarie. Renato Greco di idee ne ha appunto due, ed ha un corredo cognitivo e intellettivo straordinario. Infatti, non ha bisogno di nessuno per entrare in analisi dal momento che, nel corso dell'anno 2002, compie l'operazione per conto suo. Scrive poesia, come sempre, però abbandonando la visione corale (il movimento dei popoli) e quella fenomenologica (ciò che appartiene all'uomo in quanto uomo, cioè a tutti), per scrivere esclusivamente di se stesso. Cosa è successo?, perché non mi fido del sentimento e neppure mi affido completamente alla ragione?, si chiede Renato poetando. Finché, a conclusione dell'anno domini, squarcia la tela del tempo e compone in poesia la scena del primo evento doloroso, la prima sensazione di inadeguatezza di fronte al sentimento (Con gli amichetti): lui ragazzino gioca a pallone con gli amici nei cortili, da quello dell'uno a quello dell'alto per spiare le ragazzine dell'uno e dell'altro cortile. I ragazzini si limitano a guardare. Le ragazzine non guardano, però capiscono tutto. Capiscono come si sta al mondo nelle faccende che saranno d'amore, voglio dire. Le ragazzine fanno finta di non guardare perché infatti parlano fra loro, si spartiscono i ragazzini questo a me questo a te, saranno loro ad avvicinare il ragazzino che gioca al pallone, ragazzino svegliati. Fanno tutto questo mettendoci poco tempo, il ragazzino prescelto quasi sempre ci sta (cede al sentimento) e quasi sempre sono guai. Oppure non ci sta e continua a giocare al pallone (sopravvento della ragione). Renato Greco, da ragazzino, ha ceduto al sentimento. Quasi tutti lo abbiamo fatto. Quasi tutti abbiamo sperimentato la sproporzione esistente fra la nostra maturità e quella delle coetanee. Quasi tutti ne abbiamo ricavato una profonda sensazione di inadeguatezza. La ferita che ne deriva è qualche volta difficilmente rimarginabile. Fortunatamente, il ragazzino se la cava con una scissione: continuerà a sognare la ragaz-


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zina (empito sentimentale), però continuando a giocare a pallone (difesa razionale). Ne deriva uno stallo che, permanendo nell'età adulta, diventa stile comportamentale, nevrosi. La parentesi introspettiva del 2002 (cos'era successo?) è subito conclusa. Il sacro e santo sesso degli angeli (2003) riconduce Greco all'indagine sulla storia e sull'uomo nella storia. Il bambino inadeguato rispetto al sentimento della sessualità (Con gli amichetti) costruisce la propria identità sessuale attraversando diacronicamente la storia della poesia, e la storia dell'arte. Il canto omerico propone il sorriso bellissimo e mortale della sirena, corpo di pesce e quindi assenza di vulva. La statuaria antica copre il corpo della donna, e decanta il sesso degli eroi. E però il perfetto corpo degli eroi, da Prassitele ai Bronzi di Riace al David di Michelangelo, ha il sesso infantile, una quasi ridicola appendice da neonato. Ci siamo tutti chiesti, studiando al Liceo storia dell'arte, perché la statuaria classica fornisse all'eroe un'appendice tanto minuscola. Per pudore o prudenza, nulla abbiamo chiesto all'insegnante su questa faccenda. Ripensandoci ora, penso che l'insegnante, il grandioso Guidone Romagnoli da Bologna, avrebbe risposto correttamente, ricorrendo ad argomentazioni di fisica ottica: il sesso dell'eroe ha dimensione infantile per pura convenienza estetica, dal momento che rappresenta il focus su cui converge lo sguardo. Rappresentato in dimensione naturale, vedremmo solo quello, ingigantito a danno delle proporzioni d'insieme. I Greci, perfetti e pignoli nella rappresentazione dell'armonia, hanno allo stesso modo addomesticato le colonne del Partenone, delegando all'occhio umano il compito di comporre l'armonia. Sì, credo che Guidone avrebbe risposto così. Pensandoci ora, credo che la risposta possa essere diversa. Il sesso dell'eroe non è infantile, ma vergine: il prepuzio è chiuso, sempre. La statuaria antica abolisce il nudo femminile, perché il corpo della donna è legato alla maternità, è sacro. Il corpo dell'eroe è vergine, perché teso alle virtù eroiche, quindi re-

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frattario alla pratica, ludica o funzionale, della sessualità. Nello sviluppo psichico del bambino, alla fase del turbamento edipico (scoperta della sessualità) segue un periodo di latenza, con il bambino che accantona i problemi affettivi per immergersi nel gioco. L'eroe greco, spaventato dalla sacralità del corpo femminile, sta infatti giocando. Nella produzione successiva, Renato Greco dissocia la percezione dell'essere femminile dalla poderosa sacralità classica. Nella sconvolgente Il Minotauro (siamo ormai nel 2012), il povero mostro muggisce furiosamente all'interno del labirinto, da cui esce Arianna viva e vegeta, addirittura visibilmente soddisfatta. Non è stato il Minotauro a violentare la ragazza ma la ragazza a fare violenza all'uomo toro, i cui muggiti sono di disumano esaurimento. Poesia da leggere alle frange di femministe piagnucolose, quelle della donna sempre vittima dell'aggressività fisica dell'uomo. Dalle sublimi Veneri paleolitiche all'”Origine del mondo” di Courbet alle pitonesse tormentose di Klimt non c'è artista, in realtà, che non abbia raffigurato lo strapotere, istintuale erotico e volitivo, dell'essere femminile rispetto al sesso, timido e insicuro, dell'uomo. Organizzo con me stesso le idee. Anno domini 2002: Renato Greco si concede all'autoanalisi. Ovvero, indaga intorno alla conflittualità, affettiva e comportamentale, che lo riguarda. L'analisi, sempre, dà ragione determinante a fatti accaduti che sono in apparenza di modesto significato. Nel caso specifico, la tempesta emozionale per la ragazzina che lo guarda mentre gioca a pallone, e lui che gioca a pallone per non guardare la ragazzina. Voglia di esserci (di fronte alla ragazzina) e voglia di scomparire (dalla vista della ragazzina). Voglia di esserci, e di scomparire, di fronte alla vita. Stallo comportamentale (nevrosi). Di fronte alla nevrosi, Greco si difende da par suo. Mantiene l'empito sentimentale (la


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ragazzina continua a guardare), finché l'empito sentimentale diventa percezione panica (la vulva onnivora di Arianna). Nello stesso tempo mantiene la difesa (continua a giocare a pallone), finché la difesa diventa costruzione mitica di sé (l'eroe classico, incorruttibile e vergine). Anno domini 2012: ha termine la parentesi introspettiva. Prima di allora (inconsapevolmente) e dopo (consapevolmente, a merito dell'analisi), Renato Greco è stato e torna ad essere Orazio: perfetto equilibrio fra empito sentimentale e difesa razionale. E allora, a cosa gli è servita l'analisi? A niente, ci mancherebbe. L'analisi spiega all' uomo il perché delle proprie difese; che sono le stesse identiche difese che l'uomo assume in assenza di consapevolezza. Renato Greco è Orazio prima dell'analisi, e torna ad essere Orazio dopo l'analisi. Fortunatamente, direi. Infatti: chi non ama Orazio? Il fatto che a me non torni congeniale, è solo cosa che va a scapito mio. Rossano Onano

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per poter, da quel punto, dare inizio alla conoscenza della verità. Per poter vivere nella società con dignità e comodità. Tuttavia, le risposte che abbiamo dato con le nostre spiegazioni, assomigliano a divergenze relative al tempo, allo spazio, alla conoscenza e a tutti i sentimenti. Non c'era mai niente di comune, non c'è, e non ci sarà. Inoltre, non ci sarà mai niente di simile all'uomo. Anche il suo clone sarà differente. Ogni Babele viene demolita, e quella che vincerà, senza dubbio distruggerà tutto! Themistoklis Katsaounis Traduzione dal Greco di Giorgia Chaidemenopoulou

PROFESSIONE : PENSIONATA CONOSCENZA E VERITÀ Qual è la verità? Possiamo conoscerla? Forse in futuro, però dopo, arriverà la fine, saremo giunti alla cima finale. Da quel punto in poi, non ci sarà creazione, e di conseguenza, non ci sarà vita. Non possiamo spiegarla completamente perché se isoliamo qualcosa, per poter definirlo, dovremmo spiegare i punti estremi, in relazione a tutta la verità, che, forse per ora, non ha fine. Così, ogni volta, per ogni pezzo che isoleremo, daremo alcune ''corrette'', per noi, spiegazioni. Dato che non abbiamo ancora trovato le estremità finali,

È stata una giornata densa di impegni e di occupazioni, senza un attimo di sosta, senza nemmeno il tempo per pensare. Gli avvenimenti si sono rincorsi e quasi accavallati, al punto che la mente a stento riusciva a tenerne il ritmo. Adesso è sera ed anche l’ultimo piatto è stato lavato. Seduta, ho spento radio e televisione e il silenzio ha soffocato con la sua coltre morbida i tumulti della giornata. 3 giugno 2015 ore 23:30 Mariagina Bonciani Milano


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FRA TRANSIZIONE ED ERA TECNOLOGICA di Leonardo Selvaggi I A raccolta poetica “Voglio silenzio” di Rodolfo Vettorello va alla verità e ai principi di fondamentalità morali, al di là del contingente che è sempre fatto di apparenze ed egoismi. Lontani dalle limitatezze che ci chiudono in recinti asfittici, aperti ai sereni aspetti di una vita in vicinanze affettive, con coerenza e fermezza di carattere. Sana concretezza, essenzialità, approfondimenti di pensieri che si esprimono con saggezza, risoluta autodeterminazione. Forte spirito di osservazione, modi semplici, amore per le bellezze naturali, fuori dalle vacuità e stravaganze della vita moderna. Il poeta incline alle riflessioni e ai ripiegamenti su se stesso, agli impulsi di elevazione da tutto ciò che è squallore. I versi armoniosi di alta ispirazione superano gli stati di ottenebramento, le futilità che deprimono e tolgono dignità al nostro esistere. Rodolfo Vettorello, autore di molti volumi di poesia, di romanzi, promotore di cultura ha forte personalità che è sensibilità fine, aliena da forme decadentistiche. Con autenticità nemico di ogni tipo di mescolanze, delle contraddizioni e di qualunque massificazione. “Amo la vita che non fa rumore,/i giochi che si fanno nel silenzio,/il conversare sottovoce come/per confidarsi pene”. Le poesie levigate e scultoree di “Voglio silenzio” sono originali, creano, lontane dalla mondanità e dalle esteriorità, un mondo proprio, lasciano la magnificenza pagana per avvicinarsi agli aspetti umili della vita. L’arte poetica sublime di Rodolfo Vettorello ha cammini volti a rinnovare le esistenzialità deformate, compiti di missione da svolgere a vantaggio di tutti, senza rimanere in schematismi. Aperture in continuità, con ostinatezza perseverante, con profondità di sentire e una pensosità sofferta. Versi perfetti con contenuti intensi che denotano quanto forte sia la vocazione a trovarsi in piena interezza nel proprio io. “Ed

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amo l’ universo che m’incanta,/la musica di vento tra le fronde,/il volo delle rondini nel cielo”... Poesia delicata, che fa ritrovare fragranze antiche, dolci sorrisi nel presente che viviamo con senso di sperdimento. Guardiamo l’ avvenire e ci sentiamo ottenebrati in quest’era moderna che tutto trasforma. II Il poeta Rodolfo Vettorello sa che viviamo anni di transizione, l’era tecnologica stravolge i caratteri, è ricca di incertezze, di perversioni. I nuovi ritrovati della scienza quasi ci assalgono, togliendoci di dosso i pensieri sereni e umani. Il poeta sa che bisogna vincere i momenti che conturbano, dare vita ai nuovi sistemi organizzativi con le capacità connaturate. Si vogliono sprazzi di vita vera, il senso d’infinito che portano a vincere quegli egoismi che ci vengono contro con voracità. I processi di moderazione e di consapevolezza, le immedesimazioni con gli altri fanno andare per cammini che daranno vita migliore. Passato e presente in successione si fanno unitarietà nelle loro caratteristiche costruttive. Rodolfo Vettorello trova consolazione nella poesia, l’ispirazione lo porta agli innalzamenti spirituali, agli stati di serenità, necessari per procedere verso nuove mete che la vita in continuità di movimenti ha da raggiungere con i ritrovati scientifici, i progressi sociali, l’ evoluzione che è nella natura delle capacità intellettive, in tutte le energie insite in ogni parte del Creato. Abbiamo del primigenio, dell’aurorale in cui cose e immagini insieme si affacciano come rinnovate sulla scena del mondo. La poesia di “Voglio silenzio” appartiene alla migliore letteratura del 2° Novecento, con musicalità dei versi che splendono in incantevoli quadri della Natura. Ha ottenuto il 1° Premio al concorso letterario “Città di Pomezia 2014”. La presentazione critica è del direttore, scrittore, poeta Domenico Defelice che in un denso esame interpretativo ci dà un saggio illustrativo su tutti gli aspetti ideologici, artistici di un autore dallo stile limpido, luminoso, con purezza espressiva, in una poesia che si fa pensiero profondo e nel contem-


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po finezza intuitiva tutta protesa ad evidenziare approfondimenti e riflessioni introspettive. L’umanità di Rodolfo Vettorello con viva immediatezza e chiara visione dà i significati del nostro tempo, osservato in tutti i suoi modi di essere. Una poesia che mette a confronto presente e passato, avulsa da ogni forma di vanità, tutta interiorità e pura, essenziale sostanza, fuori dalle mode logorroiche, insulse, vuote. “Voglio silenzio” in uno stile fluente traccia percorsi di cammini che ci mostrano il tempo presente contorto nei costumi, ipocrita, con molte lacerazioni. La icasticità dei versi è penetrazione sottile nell’ animo del lettore appassionato e dalle ampie vedute, un travasarsi scorrevole in pienezza e senza camuffamenti. Rodolfo Vettorello senza frammentazioni, in ampiezza di visioni vede le diversità che si son fatte nel tempo, con abilità ci dà una sensata rappresentazione, senza perdere di vista la genuinità e la finezza del passato, dell’epoca di oggi con le tante sue deformazioni. Pur consapevole che contraddizioni, modi esorbitanti di una egocentricità eccentrica, arroganza e perdita di tante qualità pregevoli, virtù, dedizioni sono il risultato di una faticosa transizione, intravede processi di riordino, di un riformarsi di questo nostro tempo, con stabilità, maggior comprensione e adeguamento delle strutture tecnologiche in via di continuo progresso, alle situazioni confuse e disorientate che si vivono. Naturalezza di espressione in estensione, comunicatività sottile con ardore di sentimenti, di volontà, senza pregiudizi, con prontezza di spirito rinfrancano e creano immedesimazione, dando versi lineari che paiono spesso splendenti in piena luce. III Vita e poesia di “Voglio silenzio” in un intreccio si sovrappongono, creando connessioni inestricabili. Un cammino poetico che si libera dal temporaneo, in processi di astrazione, quasi le parole si sgretolano, i versi con assonanze perdono le aderenze con la materialità, danno un senso di pace e di conforto vitale. La raccolta poetica premiata di Rodol-

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fo Vettorello è costituita da raffronti di mentalità, dalla descrizione di costumi contrapposti di tempi diversi. Appare la vita contemporanea circoscritta in un ampio campo di conoscenze. Inquinato è tutto quello che si respira, ammassati si è in una bolgia di chiasso e di rumori, si va accodati l’uno dopo l’altro. In contrapposizione sensibilità e forza spirituale amplificano le poche cose che si hanno, “tu sai che mi basta anche un nulla/perché mi si illumini il cielo”. Le delusioni che producono “gli amari veleni dell’ansia” fanno il “male di vivere” che va combattuto, cambiando visuale, osservando “da un angolo nuovo” le cose del mondo. Per il poeta è inutile perdersi in parole e “immaginare paradisi” con la ingenuità di quando si faceva l’amore nei tempi andati. “Voglio silenzio” significa concretezza, non andare dietro alle illusioni. Rodolfo Vettorello con rancore riflette sul materialismo della modernità, sa d’altra parte che non si può essere estranei ai costumi di oggi, è come non aver vigore e non esistere. Occorre avere saggezza, un senso di misura, ciò non ostante riandiamo al passato, ricordiamo che la vita allora aveva tante virtù, rettitudine e vicinanza con il prossimo. Ci vuole un evoluzionismo moderato, una personalità bisogna pure averla, tenere un equilibrio che rende dignità all’essere umano. Il poeta rimane legato al suo paese natio Castelbalbo, ai giorni dell’ adolescenza pieni di candore e di innalzamento alle immagini di bellezza della Natura e alle attrattive che stimolavano le sue accensioni di fantasia e i suoi sogni. Le sensazioni lievi e le prime emozioni lo facevano fremere. I suoi slanci, le idealizzazioni, gli entusiasmi lo portavano con evasioni panteistiche nei luoghi d’ incanto, fra il verde dei prati e le vallate rosseggianti di papaveri e indorate dalle spighe di grano maturo. Rimpianto e nostalgia fanno rivivere gli incontri con il suo dolce amore, le esaltazioni in piena estasi, “ti carezzavo appena/per il timore assurdo di sciuparti”. Una levità reciproca attraverso i languidi sguardi, “gli occhi dentro gli occhi”. La modernità fa usare la violenza, si è irruenti, non si sa vedere il normale, oggi si è ansiosi, i comporta-


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menti sono fatti di irrequietezza e di insulsaggini. L’automazione toglie ogni tipo di dolcezza, c’è una trasgressività che dà una istintuale vitalità, porta lontano dai modi edificanti per mancanza di qualità d’animo irreprensibili. Sregolatezze e insoddisfazioni, eccessività senza limiti che annullano ogni benessere interiore e passione di vivere, la dignità soprattutto che mette ragionevolezza, carattere e fervore di idee che vanno in ampiezza di idealità. IV Il poeta è vicino ai luoghi natii quando si sente stressato fra gli assordanti rumori della città. Sempre il bisogno di quiete lo fa estraniare dagli ambienti che assillano, che spargono irritazioni e confusione. Si adagia sulla levità dei ricordi per ritrovare affetti, stati di meditazione che “... lasciano chiuso di dentro/a pensare”... Rodolfo Vettorello, poeta e architetto, anche se preso da nostalgie, sente un certo trasporto verso le novità, non gli sfuggono le positività del presente, vede la vita come un altalenare che non fa stare fermi, si ha una specie di equilibrio instabile, un tacito, diffuso dinamismo che è proprio della natura umana e di tutto il Creato. Le sue esperienze accoppiate ai patimenti avuti gli fanno vedere anche altri cammini, certamente le riflessioni consentono commisurazioni e rispondenze. Vive la sua transizione che lo tormenta nei taciti pensieri. Il passato nella sua splendidezza lo vede come rifugio, quando troppo aspetti contraddittori appaiono oppressivi e l’egoismo si fa esasperato. Molte fratture si sono aperte nel corpo socioeconomico: arricchimento di certi settori, burocraticismo eccessivo, strapotere monopolistico. Occorre ricreare delle realtà più consone ai principi umani, maggiore impegno sociale, più razionalità delle strutture tecnologiche. Il poeta si sente trasportato dal tempo, dalla sua fatalità, “Straniero a tutto e ovunque prigioniero,/straniero a questa mia realtà presente”... Ruggine addosso, incrostazioni, non mancano incertezze e scetticismo. Il poeta di Castelbalbo ha una personalità ricca di intel-

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lettualità intensive, vive di cultura e di approfondimenti critici. Sa bene che ci sono delle potenzialità che portano a sviluppi di realizzazioni. Nelle poesie di “Voglio silenzio” vede sia dalle “serrande abbassate” per guardare la tenuità dei particolari modi di essere sia dalle finestre spalancate sul futuro. I pensieri nella solitudine hanno visioni allargate, guadano in lontananza come i cammini della vita si aprono verso diramazioni progressive. V La poesia di Rodolfo Vettorello con intuizione pura va all’infinito, ha orizzonti tra terra e cielo. Tutto viene dall’interiorità, i versi hanno vissuto tante primavere, sono illuminati da accensione di immagini, da attimi intensi di vita. Il suo paese Castelbalbo riempito di sogni e di emozioni. “Quello era/la mia città di pietra e d’aria/e di campane/e di felicità di canti esplosi”. Belle le vie polverose, nel loro insieme un unico afflato, quasi non c’è temporalità, in immutabile intreccio le case rudi, imbiancate, con l’intonaco ossificato all’ intemperie. Il silenzio e l’aria tersa hanno la stessa purezza dell’infanzia. I muri erosi, anche i visi sembrano di pietra, induriti dalle fatiche, dalla parsimonia, dalla laboriosità indomita. Le case sembrano fatte di malta e di carne, tutte vive, immedesimate con le persone. Il paese sul colle tutto rappreso, radicato sulla terra, immerso nella Natura, in mezzo agli stupendi paesaggi. Rodolfo Vettorello ha tutta una vita che vive nella memoria. In silenzio vuole “... ascoltare il vento tra le foglie,/il canto degli uccelli sconosciuti,/il fremito dell’acqua dei ruscelli”. Il poeta che trova ispirazione in ogni momento tra Castelbalbo e Milano vede tracciato il cammino dei giorni avuti. Il passato e il presente si contrastano tra limpidezza e serenità di animi e le amare inquietudini. Ora in una Milano in pieno anonimato e sperdimento che ha reso stanchezze in ogni parte di sé, frastornata in un trambusto di movimenti senza termine. “E noi che siamo come siamo, spenti/come si estingue quando è notte il lume”. Nelle ossa rotte si vedono i tragitti fatti, la transizione


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portata avanti. Nei pensieri delle meditazioni tutto lo sviluppo che hanno avuto gli anni, le trasformazioni che sono passate fino a farsi nuovi tempi. Rodolfo Vettorello con la sua nobile e appassionata sensibilità vede anche “le cose di fuori/da un angolo nuovo/così che le possa riamare”. Vuole un presente con cammini non troppo accidentati, ma agevoli che fanno mantenere all’uomo la sua dignità, e pertanto quanto basti per raggiungere forme di integralità. La vita nella sua complessità apre sviluppi e miglioramenti che fanno completezze e nel contempo capire che l’ intelligenza umana ha del divino, dell’indistruttibile e che non potrà mai portare a sconvolgimenti totali. L’era tecnologica avrà nel tempo mezzi e situazioni che faranno ridimensionare il senso di umanità. Il poeta Rodolfo Vettorello in “Voglio silenzio” ci fa conoscere tempi arricchiti, dalla civiltà rurale ci riporta alla vita di oggi, è un uomo universale, con il suo umanesimo vede i progressi di un’era nuova con le sue straordinarie autenticità che oltre gli sviluppi tecnologici consentirà strutture di socialità allargate, trasformazioni istituzionali che sapranno dare possibilità economiche e ricostituzioni di rapporti interindividuali di maggiore estensione. VI Il poeta di Castelbalbo si muove fra due mondi e la sua forza di coerenza sta nel riconoscere che tra passato e presente c’è un passaggio che si attraversa con la volontà, con le virtù esistenzialistiche che sono la passione di vivere, le facoltà di seguire i nuovi cammini con spirito di cooperazione. Superare le fratture esistenti si capirà che passato e presente vanno insieme verso i movimenti di mutazione. Il poeta di “Voglio silenzio” è convinto che occorrono esseri umani più decisi e forti, capaci di vedere le giuste necessità in questa realtà moderna, soprattutto moderazione delle stravaganze e irruenze che snaturano, ristabiliti i modi di essenzialità che portano ordine e vita rinnovata. Riemergeranno molte caratteristiche dell’uomo rurale, perseveranza, ardore, equilibrio, pienezza di sé, serviranno mol-

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to all’era tecnologica. La poesia di Rodolfo Vettorello raggiunge con saggezza sempre più estensioni, illuminandosi di momenti esaltanti con interezza di energie che portano ad affrontare le accidentalità della vita, a rendere più irrefrenabile la spinta di partecipazione a un mondo che cambia, al rinvigorimento dei principi di umanità. Passato e presente, civiltà rudimentale e tempi tecnologici con enormi cambiamenti di costumi e di strutture: sono prodotti dell’uomo, della sua ansia di vedere un mondo sempre più in vastità, con avanzamenti per una vita più complessa e rispondente alle sue divine potenzialità. Le lotte, le riflessioni, i giudizi, i progetti di socialità e di diffusione culturale hanno impegnato tutta la sensibilità di un vero poeta: “La vita lascia tante cose dentro,/qualche sorriso e a volte un po’ di pianto”... Trahit quemque voluptas. Si aprono tutti gli stati psicologici in sintonia con tutto quello che l’ esistente presenta. Rodolfo Vettorello vive in complessi di pensamenti che si muovono tra amarezze e solitudine, uno slancio di spiritualità gli apre la mente ad innalzamenti eterei. “Staremo svegli ad aspettare l’alba/come si fa da giovani le notti/delle stelle cadenti a San Lorenzo”... Allora la poesia di “Voglio silenzio” che tutti ammiriamo ci tiene alleviati e in spazi sempre più ampi con fede e speranza. I versi sono di una sostanzialità e di una leggera musicalità che creano una intercomunicabilità volta alle verità e alle intelligenze di animi aperti a sentire e a comprendere. Abbiamo vera poesia per le sue ispirazioni e le profondità etiche, per ricchezza di idee che si manifesta in ogni verso. Soprattutto la bellezza ritmica e la sostanzialità di vedute. Non si vogliono “... i sogni infettati da attese deluse”. Per combattere il “male di vivere” occorre avere altre abitudini, angoli nuovi, visuale cambiata. Quando si è assoggettati alle pretese fondamentaliste, quando non si agisce con la propria mente, ma da automi, si debbono rifare altre realtà con semplicità e immediatezza, togliersi le irritabilità, le perversità e le violenze che usiamo gli uni contro gli altri. Vivere con il senso della libertà, rispettare il


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prossimo con spirito di cooperazione. Guardare la realtà non con modi meccanicistici, ma con giusti e rimeditati pensieri. Il poeta Rodolfo Vettorello prende del passato quello che ribolle nell’animo, i sentimenti, gli affetti, i pensieri che si esprimono senza chiasso e con riflessione. Il significato “Voglio silenzio” sta nel saper osservare, superare i formalismi, nel comprendere con ostinata fermezza di carattere, nel vedere le lontananze dei nostri giorni dalle profondità interiori. Le realtà nuove vanno vissute con le capacità proprie. Viene in mente che la nostalgia del passato non ha morbosità, ci portano avanti le novità dei cambiamenti in modo meccanico, si rimuovono i fatti conservati nella memoria non sentendoci preparati a seguire i modi nuovi di vivere. Si ama il passato con le sue virtù, la contentezza del poco che si ha, la spontaneità sentimentale, quando il materialismo ci invade e le trasformazioni tecnologiche ancora non le capiamo. VII Il poeta Vettorello vive tra l’antico e la modernità. La vita è varia, ha bisogno sempre di assumere aspetti nuovi, il nostro compito è di accettare il buono del passato, integrandolo con le strutture tecnologiche. I progressi vanno affrontati con strenue capacità, “La verità è la figlia delle lacrime”. Con spirito di grande umanità siamo usciti dalla civiltà rurale, oggi le conquiste tecnologiche aprono altri cammini. Bisogna toglierci di dosso il peso di altre schiavitù, quelle che vengono fuori con il rivolgimento di una civiltà avanzata. Cancelliamo le ferite antiche, i nuovi giorni hanno fermentazioni per nuovi modi di essere. Le radici del passato possono dare stimoli tirati fuori dai nuovi tempi. Ho riletto più volte le poesie di “Voglio silenzio” per meglio approfondire il pensiero di Rodolfo Vettorello. Mi fremono dentro i significati che vivono nelle profondità intellettive del poeta, “mi basta il mio cuore mutato/da un lampo di luce”. Concretezza, forza delle proprie capacità di cultura, di osservazione, senza mai avere cedimenti. Mai sperdimenti, ma una consapevolezza

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di quello che dà sostanza alla vita, al suo procedere in avanti. Le labilità dei giorni vogliono movimenti per essere ravvivati con più forti sostegni. Sappiamo da sempre che tutto ha un proprio divenire. La transizione è brutale, ci fa soffrire, andando dal passato al nuovo, molti ostacoli troviamo e sconcertamenti. Il poeta Rodolfo Vettorello ci ha dato versi in cui abbiamo trovato noi stessi, gli anni vissuti, i tormenti della nostalgia, nuovi sogni per i giorni che abbiamo. Occorre il senso della misura per stare nel nostro tempo con serenità. La poesia di “Voglio silenzio” ha tanta lungimiranza, vede il futuro con attenzione, con profonda interiorità. La produzione letteraria, le ispirazioni poetiche di Rodolfo Vettorello sono costruttive con illuminazione e slanci, arricchiscono il lettore appassionato, proteso agli altri pensieri che si fanno ardore e pienezza di vita. Leonardo Selvaggi

CLOSEYOUR EYES Questo pallore di luce filtrante… E questo copriletto di piqué… Luce crepuscolare poesia crepuscolare. Com’è bianco questo copriletto! E’ quello del mio letto di bambino. È la luce dell’alba o del tramonto? Sono le sei e mezza, se non sbaglio. Ma le sei di mattina o di sera? Come la sanno lunga queste donnette vestite di bianco… Credono che sui ricoverati abbia potere di vita e di morte il primario (e ridacchiano tra loro). Chiudimi gli occhi, mamma! Io non te li ho chiusi e per questo li tieni ancora aperti. Corrado Calabrò Roma


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MARIA GARGOTTA: LA NAPOLI LETTERARIA DI FRANCESCO D’EPISCOPO di Elio Andriuoli

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MPIO è stato negli anni il lavoro critico compiuto da Francesco D’ Episcopo, illustre docente di Letteratura Italiana, di Critica Letteraria e di Letterature Comparate presso l’Università Federico II di Napoli. Di tale lavoro si era già in parte occupata Maria Gargotta in un libro intitolato La Salerno letteraria di Francesco D’ Episcopo (Grauseditore, Napoli, 2015, € 12,00), nel quale aveva diffusamente parlato degli studi compiuti da D’Episcopo su alcuni scrittori salernitani. Ora, questa valente studiosa ha ampliato la sua ricerca, con un volume intitolato La Napoli letteraria di Francesco D’ Episcopo, nel quale espone con precisione e compiutezza l’attività critica del D’Episcopo su alcuni scrittori napoletani o che comunque hanno trovato in Napoli la loro fonte d’ ispirazione.

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Il libro si apre con Il Virgilio di Giovanni Pontano, un saggio nel quale D’Episcopo chiarisce come il Pontano tenda “ad assimilare l’accentuazione metrica a quella più propriamente grammaticale, proliferando il numero di accenti dell’esametro classico… con una scelta stilistica in grado di fondere il livello latino e volgare della metrica e della prosodia”. Il che viene a “contaminare l’ originaria purezza dell’esametro dattilico e spondaico … con una serie di audaci accostamenti, opposizioni e ribaltamenti”, tendenti a tener desta “l’attenzione e l’ammirazione del lettore”. Il risultato è quello di instaurare una “stretta interdipendenza” tra “fluido lirico e narrativo”, capace di “trasfondere prosa e poesia e viceversa”, utilizzando in maniera “fortemente personale e strumentale” la prosodia e la metrica virgiliane. Segue un capitolo intitolato Pulcinella, nel quale vengono poste in luce, secondo il pensiero di D’Episcopo, le “radici rinascimentali di Pulcinella”, che sono da ricercare nell’ Antonius del Pontano, il quale con costui crea un personaggio che “si muove e parla come farà poco dopo il più illustre Pulcinella”. Lo stesso può dirsi dell’Asinus, sempre del Pontano, un dialogo nel quale l’“asinità” viene “contrapposta alla civile e intelligente urbanitas”. Il che fa “riconsiderare il Rinascimento meridionale come la naturale camera di incubazione storica del personaggio”; e ciò in contrasto con il Croce e con lo Scherillo, i quali concordavano nel collocare la nascita di Pulcinella in data 1621. Nel libro della Gargotta a questo punto compare un capitolo su Giambattista Vico, un autore a lungo studiato da D’Episcopo; capitolo nel quale, partendo dal saggio Stile e umanità: gli studi vichiani di Mario Fubini, si evidenzia come questo autore faccia risaltare in Vico l’“intima osmosi tra livello poetico e filosofico” e il “progressivo avanzamento, nella seconda edizione della Scienza, del livello poetico, che strappa terreno a quello concettuale”. D’Episcopo, così come Fubini, concordano


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pertanto nella sussistenza in Vico di uno stretto legame tra l’“universo fantastico e poetico con il mondo nel suo momento aurorale”; momento nel quale larga parte avrebbe avuto l’incanto della fantasia e della meraviglia. Nel capitolo dedicato a Luigi Settembrini, Maria Gargotta si rifà al saggio di D’ Episcopo Luigi Settembrini cospiratore e comunicatore, nel quale – come ella osserva – il nostro critico rileva la scrittura «psicologica» di questo autore, che “non è mai asettico o astratto”, ma sempre calato nella concreta realtà, con quella “passionalità” e con quel “coinvolgimento emotivo e sentimentale” che sono tipici dell’homo neapolitanus. Il che comporta “la predominanza della fantasia, ma soprattutto del sentimento, sui meccanismi sia pure affascinanti, della mente”. D’Episcopo fa in questo suo saggio alcune osservazioni importanti, come quella che l’ impegno dell’intellettuale è quello di “recare la vita nella cultura”, così come il Settembrini seppe fare; e che l’intento di questo scrittore fu quello di “rivendicare l’identità meridionale e napoletana” di molti uomini di lettere di valore, quali, ad esempio, Masuccio Salernitano, autore del Novellino, di cui Settembrini fu ammiratore e nel quale scoprì il “gusto del comico e del piacevole, sovente venato di malinconia”.

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Rivendica inoltre D’Episcopo “l’estremo scrupolo filosofico … dello scrittore Settembrini e il suo «metodo artistico» nel trasformare le parole in immagini; la sua “chiarezza comunicativa” e la sua capacità di ri-creare i testi studiati, per penetrarne l’intimo significato: il che è puntualmente rilevato dalla Gargotta. Tra gli scrittori trascurati dalla critica ufficiale, e perciò “escluso dal gotha della letteratura per il suo afflato «popolare»”, di cui D’ Episcopo si è occupato, c’è anche Francesco Mastriani, che fu un “profondo conoscitore dell’universo napoletano”. Narratore, drammaturgo e giornalista, Mastriani fu dotato, come scrive D’Episcopo, di “calore e colore, nati da una fantasia avida e ardente”. Non riuscì mai ad essere “freddo e distaccato” e pertanto non fu un “Verista”, ma comprese meglio di tanti altri la città in cui visse: la Napoli dell’Ottocento. D’Annunzio napoletano e antidannunzianesimo meridionale è uno dei saggi più interessanti di Francesco D’Episcopo, tra quelli studiati dalla Gargotta. In esso il nostro critico, nel parlare della parentesi napoletana vissuta dal grande poeta tra il 1891 e il 1893, fa emergere un d’Annunzio “se non proprio inedito, alquanto imprevisto”. Importante in questo periodo, che vide tra l’ altro la nascita dell’elegia Nella certosa di San Martino, oltre che de L’Innocente e di Giovanni Episcopo, fu anche il carteggio delle Lettere a Barbara Leoni, nel quale si trovano alcune descrizioni efficacissime di Napoli che meglio ci fanno comprendere il rapporto tra d’Annunzio e questa città. Feconda la stagione napoletana di d’Annunzio fu inoltre per la sua collaborazione a giornali, come “Il Mattino”, su cui apparvero molti suoi articoli, e per la frequentazione di Case Editrici, librai, studi di pittori, come Filippo Palizzi e Domenico Morelli, oltre a vari salotti letterari. Ma fu soprattutto fecondo il rapporto di d’ Annunzio con Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, che a Napoli lo fecero venire e lo accolsero sul giornale da loro fondato, “Il Mattino”.


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Quella napoletana fu per d’Annunzio anche una stagione di violente passioni: emblematica tra queste, quella che diede luogo alla la sua relazione con Maria Gravina Cruyllas, nobildonna sposata con il conte Ferdinando Anguissola, dalla quale ebbe due figli. Ma fu anche una stagione di grande creatività; tra le più feconde del nostro poeta: ed è per questo che va ricordata. Di Alfonso Gatto D’Episcopo si è occupato in varie occasioni. Qui però è presente per la sua Introduzione a Napoli N.N., un libro che costituisce “il viaggio di Gatto nel ventre di Napoli e del Mezzogiorno”; un libro nel quale Napoli diventa “una città metafora, costretta ad essere e a sostare, a tempo indefinito, sul limite della soglia vita-morte”. Una città “carica di appuntamenti mancati; un po’ surreale; ma dove il sentire e il pensare sono strettamente congiunti. Città “inquieta” e “purgatoriale”, “sospesa tra inferno e paradiso, tra morte e vita”, Napoli è stata ed è profondamente amata dai suoi poeti e dai suoi uomini di cultura: come Alfonso Gatto ed anche come Francesco D’Episcopo, che di Gatto è stato un interprete intelligente e fedele. In questa carrellata di scrittori napoletani non poteva mancare la presenza di Francesco Bruno e del figlio Elio, che di Napoli sono stati assidui ed efficaci interpreti. Quella che Francesco Bruno ritrae – osserva D’Episcopo – è una Napoli “scapigliata e colta dal vivo”, tra fine Ottocento e primo Novecento, “che è fatta delle sue contraddizioni e delle sue sussultorietà” e nella quale “stretto è il connubio tra arte e vita, tra letteratura e vita”; ma anche una città che giornalisti e narratori, come Francesco Bruno e il figlio Elio, seppero intendere ed interpretare, coagulando “le diverse sfere culturali” che sono le sue diverse anime. Quello che D’Episcopo rileva nei Bruno è la “comunicativa, umana, umanissima, fatta di immaginazione e di realismo”, che fu propria di Giambattista Vico, il quale pose al centro della sua speculazione l’uomo; così come rileva la “vocazione realistica e metafisica ad un tempo” di tanti scrittori meridiona-

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li, che dà luogo a un “realismo surreale”, tipico della Serao, di Marotta e di Bernari. Elio Bruno avvertì in particolare “l’urgenza di ristabilire una sorta di «giustizia letteraria»”, rivendicando le felici intuizioni di autori come Masuccio Salernitano, Giambattista Vico e Antonio Ranieri, a lungo disconosciuti nella priorità delle loro creazioni artistiche. Molto opportuna è stata poi l’operazione compiuta da Francesco D’Episcopo con l’ Antologia de «Le ragioni narrative», che ha riproposto il lavoro compiuto da questa importante rivista all’inizio degli anni ’60 del ‘900. Tra gli interventi apparsi sulla rivista sono da segnalare quelli di Enzo Striano sui legami tra letteratura e società e quello di Domenico Rea sul Neorealismo, che si è rivelato “un’occasione perduta, che ha confermato il distacco tra letteratura e vita nazionale”. Interessante è anche l’analisi compiuta da Luigi Incoronato sul Capitalismo, sempre su questa rivista. Ciò che questi scrittori (tra i quali vi fu anche Gian Franco Vené) propugnarono con i loro interventi fu “una difesa ad oltranza contro la disumanizzazione e la tecnicizzazione dell’arte” e la difesa del «personaggio», affinché non diventi soltanto un alter ego dell’ autore, privo di vita propria. La loro opera fu importante in quanto tesa a ripristinare le «ragioni» di una verità artistica tutta fondata sulla «creatività» e la necessità per la critica di “attingere direttamente alla fonte”, cioè ai testi degli autori studiati. Le ragioni narrative fu pertanto una rivista “libera da schemi preconcetti e soprattutto da consorterie di potere”; ed ebbe l’intento di “ripristinare un mondo a misura d’uomo”, anche per la virtù dello stile. L’ultimo scrittore di cui si parla in questo libro è Enzo Striano, molto noto per il romanzo Il resto di niente. Di lui si è occupato D’Episcopo in un saggio apparso nel 1992 per i tipi dell’Editore Liguori di Napoli, nel quale esamina l’opera di questo scrittore rilevandone “la congiunzione strettissima tra il momento ideologico e quello più propriamente narrativo”, nonché l’“aggancio costruttivo


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con il sociale”, che la Gargotta mette bene in luce. Di Striano è evidenziato in questa sede anche l’eros «traboccante» e la sperimentazione espressiva “ironica, spericolata e spiazzante”. La Napoli che emerge dalle pagine di Striano è un po’ “Sirena” e un po’ “Sibilla”, in cerca di una sua identità, tra estroversione e individualismo, ma affascinata dal mito della bellezza e dall’amore della conoscenza. Nella conclusione del suo libro la Gargotta evidenzia la virtù dello stile e la capacità comunicativa di Francesco D’Episcopo, che rendono quanto mai gradevole la sua scrittura. A completamento del volume compare un’ Intervista a Francesco D’Episcopo, con domande molto pertinenti e con illuminanti risposte. Compaiono inoltre un testo di D’ Episcopo, Via Mezzocannone, nel quale l’autore rivà con nostalgia agli anni trascorsi a Napoli nel periodo della sua formazione; una sua compiuta ed intensa poesia, Quadrittico per mio padre, e un’affettuosa testimonianza di Gianpasquale Greco, Francesco D’Episcopo e il rigore sereno della conoscenza. Un libro di molto interesse questo di Maria Gargotta, La Napoli letteraria di Francesco D’Episcopo, per tutti coloro che si occupano di letteratura, non soltanto a livello regionale. Elio Andriuoli

PROFUMO DI ZAGARA Profumo di zagara in questo giardino di aranci, limoni e mandarini, un allegro ricordo scivola via dal cuore e il profumo che respiro mi fa rabbrividire, perché non è lo stesso di quello che ho lasciato in quel luogo d'incanto che non ho mai scordato. Il profumo, il colore e il sapore degli agrumi siciliani è solo in Sicilia e nessuno mai lo può uguagliare, gli altri profumi sono un surrogato

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che dobbiamo accettare perché ogni volta, ci riportano nella nostra Sicilia. Le arance si nutrono di sole, di sole sono colorate e portano dentro gocce di sole che regalano salute e allegria, le stringo forte, per farmi passare la terribile malinconia di trovarmi lontano da quel luogo tanto amato di dove son nata. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia

SEME NELLA TERRA Nella terra nuda rotolato, la faccia prona per pensare come raccolto, non piace stare verso il cielo bendato mummificato. Non voglio l’ammasso delle ossa concentrate nel recinto dei rifiuti dopo la vita consumata. Fra le mura grigie bastioni di difesa intorno, che prendono odore di fosforo intriso di umidi umori, con i fiori marciscenti dei ricordi. Non voglio il chiuso, dove languido il volto dei vivi si fa ipocrita, si sveste di malesseri conturbati dai giorni portati nel chiasso di fuori. Si ritorna correndo per le strade strappati i labili pensieri delle promesse. La terra libera per non avere la città addossata che spezza in frammenti che spacca in disarmonie, non si vogliono simmetrie. Come un seme gettato nella terra con le vesti di sempre, intatto tenuto nel sangue rappreso l’amore che ha fatto essere tutto il tempo avuto, ardore di vita innalzato in unica fiamma. Leonardo Selvaggi Torino


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Tanto amore e tanto sentimento nel volumetto

“A RICCARDO” OPERA DEL SUO TENERO NONNO di Anna Aita

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UE grandi occhi di cielo spalancati alla vita, in copertina, ed è già poesia. Quando poi le pagine riportano liriche di un certo Domenico Defelice che ci ha fatto sempre tremare di emozione di fronte alla bellezza e alla profondità dei suoi versi, ebbene, non c’è da dubitare: ci predisponiamo a leggere una raccolta di VERA poesia. Come dicevo, dunque, una splendida veste tipografica: un bimbo dai capelli color del grano maturo, un sorriso limpido e innocente, occhietti furbi e gai. In alto il titolo: “A Riccardo” completato da un sottotitolo, carico di attese, chiuso tra due parentesi “e agli altri che verranno”. Aperto il libro, ecco nella prima pagina l’ appropriata prefazione di Angelo Manitta, ecco gli sposi, madre e padre di Riccardo, nel

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giorno del matrimonio e la poesia a loro dedicata. Siamo nella prima parte del libro quando il nostro Autore attende il lieto evento raffigurando, nella sua fertile mente, quel fiorellino che sboccia: ecco il cuoricino che già batte, ecco il reticolo delle arterie, ecco le membra in piena formazione: siamo nell’ aprile del 2009. Il tempo di attesa infinito ed il trepido nonnino, intanto, riflette e sogna: “Sei il primo fiore impastato con le mie cellule/.../ancora ne verranno/che forse con questi occhi non vedrò./.../Crescete fior tra fiori, miei virgulti,/giammai s’incurvi il vostro stelo,/né impallidisca il vivido colore”. Dopo questa bellissima chiusa, da riportare inevitabilmente, passo ad un’altra lirica in cui il Poeta immagina la felicità di ogni nascituro immerso nel liquido amniotico del ventre materno che non vorrebbe mai abbandonare: un mare dolce, limpido e silenzioso, esente ancora dalle lotte della vita. Così, non può evitare di sussurrare al bimbo: “Sappi che il mondo/sarebbe calma e dolce una placenta/se gli umani, a vicenda,/poi si confortassero,/se combattessero solamente il Male...”. Inizia così, Domenico Defelice, la sua “professione” di nonno in attesa, con le prime ansie, i primi consigli, la consapevolezza che verrà al mondo la carne della sua carne che tanto gli preme e che sarà costretta, inevitabilmente, alle difficoltà di una vita con tutto il carico di gioie ma anche di inevitabili sofferenze e dolori. Contemporaneamente, nasce e cresce nell’ Autore la speranza di un mondo migliore: “Forse.../”, vagheggia “Se crescerà l’ amore per l’ambiente/torneranno le lucciole, le rane negli stagni,/la rossa coccinella,/le farfalle,/i fiori di mille colori/sopra i monti la neve...”. Nell’animo di Defelice è pressante anche l’ amore verso la figlia e la donna in genere alle quali dedica, in alcuni versi, il suo canto. E, finalmente Riccardo nasce: sono le ore 20,30 del 26 ottobre 2009. Con la sua venuta nel mondo, esplode nell’amoroso nonno quella gioia che soltanto chi ha raggiunto tale traguardo può ben comprendere. Ed esplodono


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versi nel sentirlo piangere a pugnetti stretti, per comunicare il suo segno zodiacale, sulle tante ninna nanne ripetute per accompagnarne sonno e sogni, sull’uscita del primo dentino, sull’emozione di goderne il sorriso, per la sua prima vacanza,. il primo compleanno, nel sentire la sua vocina pronunciare finalmente la parola “nonno”, fino al suo primo pianto per essersi dovuto separare dalla mamma e andare alla Scuola Materna: “Un assaggio. Uno dei primi./”, considera il nonno pensoso, “Il meno lacerante/di quello che la vita ci riserba”. Riccardo cresce e impara. Apprende il concetto del possesso, fa amicizia con la musica, con la bellezza della natura, con il fascino della campagna e nonno Domenico, scrive e registra il poesia le sue tappe. C’è, ora, da lottare con i capricci, educarlo all’obbedienza, fargli comprendere la differenza tra il bene e il male: lezioni che amareggino Riccardo e ne soffocano l’orgoglio. Ma il pianto e d’o bbligo, è necessario per capire, per diventare pian piano un giudizioso ometto. Cita la prima scuola, nonno Domenico: l’ asilo “Raccontami”. Perché il suo nipotino possa ricordarlo ne traccia l’atmosfera, si sofferma sul gran da fare dei bambini. Acenna successivamente alla storia politica perché Riccardo possa sempre ricordare cosa accadeva nel momento in cui era venuto al mondo. Incomincia da più lontano: “... Quando è nato mio padre,/Faccioli costruiva il primo aereo/Re Vittorio onorava Marconi/e sui campi di battaglia/ci si scannava con le baionette”; si attarda sulla storia più recente: “Renzi acclamato alla Leopolda,/la Camusso accigliata,/Barack Obama che incontra la folla/un grattacielo di Hong Kong,/ un villaggio africano/infettato da ebola, / Berlusca e Putin durante un vecchio incontro...”. A tutto questo dire, si affiancano le favole e la storia di Meghi, l’amato e rimpianto cane non più in vita. Siamo giunti così alla seconda parte del libro dedicato agli altri nipotini che verranno. Si preoccupa, nonno Domenico. Il tempo corre e un altro nipotino si annun-

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cia: verrà al mondo Valerio, figlio di Stefano. Questi due nipoti e gli altri che nasceranno saranno per Domenico Defelice il prosieguo della sua vita, la luce dei suoi occhi, il suo udito e i sensi tutti: “Sarete il mio futuro”, dichiara contento. Accarezzato da questa certezza, l’ amorevole Poeta chiude l’ultima lirica del volumetto comunicando ai suoi rampolli la verità enunciata dal più grande Poeta di tutti i tempi: “Fatti non foste a vivere come bruti,/ma per servir virtute e conoscenza”. Si conclude così il tenero viaggio di Defelice, dedicato a suo nipote Riccardo, a Valerio e “agli altri che verranno”, una eredità prematura che compendia la speranza di un mondo migliore, uno stile di vita sano e onesto per i suoi cari e tanto tanto amore veicolato attraverso la più suggestiva modalità espressiva. Anna Aita HO GUARDATO Ho guardato un pettirosso volare. Estasiata avrei voluto volare anch’io per provare l’ebbrezza dell’aria. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI

LIMPIDO IN METAMORFOSI Limpido è quel mare che vola nel cielo che nuota tra le nuvole specchia e annulla l’orizzonte separa dentro e unisce gli ostacoli Ecco in terra, la metamorfosi il rimescolo percettivo Filomena Iovinella Torino


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ROSSANO ONANO DOMENICO DEFELICE ALLELUIA IN SALA D’AMI Parata e risposta di Leonardo Selvaggi I L volumetto “Alleluia in sala d’armi. Parata e risposta” di Rossano Onano e di Domenico Defelice è un vivace dialogo in prosa e in poesia, prende in esame vari eventi della nostra società. Si è assillati da problematicità, turbati da perversità e irregolarità in un presente amorfo contraddittorio. La satira di Domenico Defelice risponde alle evidenziazioni di Rossano Onano, dando una completa espressività con acume alle caratteristiche del nostro tempo che sconvolto ha perso molte virtù che hanno nel passato dato vita a società e al rispetto del bene comune. Una partecipazione intensa agli eventi più significativi che cadono sotto i nostri occhi, po-

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litica, morale, fatti di cronaca. Un linguaggio appassionato di due scrittori che porta ad osservare una civiltà alla deriva senza buon senso e senza capacità di riflessione. Modi di essere privi di equilibrio e di coerenza. Una testimonianza in queste botte e risposte sui costumi in gran parte corrotti, una valida documentazione storica di una particolare contingenza di tempo, che mira con acutezza a far vedere le tante dissolutezze e come la stessa modernità si dimostra nella satira priva di qualsiasi sostanza civile. Vivaci epigrammi si lanciano come schermate a una società che si è resa illeale, discordante nei modi di pensare. Alle battute di Rossano Onano Defelice dà risposta con sarcasmo, con vena poetica molte volte mordace. Si integrano le due parti, dando conclusioni e decise interpretazioni con spirito di forte indignazione ai tanti fatti umano-sociali che accadono ogni giorno. Tra le canzonature di Rossano Onano e l’ironia del direttore di “Pomezia-Notizie” viene fuori un linguaggio dispregiativo contro una società disorientata che non sa vedere con sani giudizi la saggezza nelle proprie vedute. C’è uno scambio di idee che arricchisce le discussioni che si fanno di continuo sugli eventi politici, di costumi, istituzionali. Si nota con chiarezza come la verità va da una parte all’altra, come i comportamenti si muovono insulsi e con ipocrisia. Nelle battute di Onano c’è un senso di rincrescimento e in Domenico Defelice una rabbia che si fa esecrazione quando nelle diverse situazioni non si sa prendere il nesso dei fatti, tutto pende dalla parte del proprio egoistico modo di vedere. II Si manifesta tanta amarezza nell’attenta osservazione sullo stato di decrepitezza della vita di oggi. I temi sono svariati, dalla tassa dell’Imu alle questioni delle pari opportunità, la crisi del matrimonio e la durata che hanno le convivenze. Discussioni e malcontento per gli stipendi d’oro e tristezza davanti ai poveri vecchi abbandonati in case di cura, la mancanza di colloquio tra giovani e anziani. Lo sdegno da una parte e rabbia dall’altra creano


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conflitti di idee. Argomenti di attualità come i problemi morali, la politica, i vari aspetti dei costumi trattati nelle parodie di Domenico Defelice e nelle riflessioni di Rossano Onano. Sempre una vena poetico-satirica vivace, spontanea esprime i lati di crisi di una società in periodi di forti cambiamenti che hanno tutto deformato, rendendo normali il consumismo e l’automazione. Onano sa bene penetrare nella mente umana, leggendola nelle sue evoluzioni, nei suoi sperdimenti, sembrano perse del tutto le saggezze che un tempo davano compostezza e lietezza ai comportamenti umani. Oggi scomparsi i valori che davano fondamentalità morali al vivere civile. La società è egoista, violenta preferisce vivere i drammi anziché la serenità. Il dialogo satirico condotto da Rossano Onano e Domenico Defelice pubblicato con il titolo “Alleluia in sala d’armi” dall’Editrice “Il Convivio” nel settembre 2014, è presentato con intensità di concetti dal prof. Giuseppe Leone. Prevale sulle satire violente un’amara ironia. Ci si scaglia contro la decadenza dei costumi del nostro tempo. Vengono criticati gli uomini di governo per la poca efficacia delle loro iniziative. Contro il fisco troppo esoso. Quando si parla di assunzioni fatte con privilegi, importante è giustamente l’affermazione di Defeli-

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ce, per lo svolgimento delle mansioni attribuite si deve conoscere bene il mestiere e ci si deve adoperare con spontanea passione. Contro il risparmio energetico nei confronti degli ospiti di una casa di riposo di Reggio Emilia con sorriso si controbatte, si vuole che i vecchi si rifacciano giovanili, hanno bisogno di stare poco al caldo. Si critica il burocraticismo in riferimento ai provvedimenti presi per l’allerta climatica, c’è da una Istituzione all’ altra una specie di scarica barile che non fa ottenere nessuna risoluzione. III Si riscontra a volte un linguaggio caustico e tanto umor nero per le condizioni di malessere in piena diffusione nel nostro Paese. Si va in fondo alle verità con una lapidaria comunicazione sul degrado del nostro vivere, con efficacia espositiva, con una sintesi che coglie l’essenzialità delle condizioni. Ci si scaglia sia nelle riflessioni che nelle risposte contro il falso e il convenzionale. La prosa di Rossano Onano è schematica, si fa frecciata cui va la risposta immediata di Defelice, spesso con un tono di comicità. I versi sono espressi con sostanziale oggettività, con realismo, senza artifici, con una linearità poetica che tocca il vero con subitaneo intuito. Nel volumetto “Alleluia in sala d’armi. Parata e risposta” di Rossano Onano e di Domenico Defelice sia la prosa che i versi si corrispondono, dal raffronto vengono i contenuti di spiegazione in forma conclusiva sui vizi, sulle contraddizioni, sulla violenza, sul materialismo oggi dilagante. Si evidenzia un parlare chiaro dalle constatazioni che Rossano Onano fa sugli eventi più rappresentativi ai versi di Domenico Defelice, un’espressività bonaria, un’ironia che ha toni vari, una certa rabbia, spesse volte anche un’accentuazione di brio. Sempre con una certa illusione di speranza che le cose vadano meglio nell’ avvenire. Siamo in tempi di crisi, violenza, ipocrisie, corruzione dappertutto. I rapporti sociali appaiono sempre più contrastanti, abbiamo una politica in piena decadenza che non riesce a dare una vitalità con leggi saggi


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e rispondenti alle necessità del Paese. Si sono create delle situazioni di maggiore miseria accanto ad arricchimenti monopolistici. Una vita problematica che non trova via di uscita, rendendo sempre più difficili la vicinanza con il prossimo, la comprensione, il dialogo, c’è un diffuso automatismo, non ci si incontra nei ragionamenti, i fatti travisati, ognuno dà una interpretazione mistificata. Le assurdità frequenti, quando si tenta di risolvere qualche problema che ci assilla. Defelice si scaglia il più delle volte con sarcasmo feroce nei riguardi di personaggi della politica e delle Istituzioni. Sembra impossibile poter trovare chiarimenti su contrastanti fatti che hanno creato polemiche e dissidi. IV La satira che viene fuori dal dialogo fra l’ Onano e il Defelice considera spesso il carattere di massificazione della società, uno sdegno vero contro le vanità di Celentano che si sente al di sopra di tutti, che pare di essere un Messia venuto dall’alto. Veleno vomitato sulla persona di Monti che con le tasse maggiorate ha danneggiato le classi modeste, arricchendo le banche, ha continuato a mandare in rovina le strutture dello Stato. Altro personaggio colpito dalla satira il comandante Schettino che dovrebbe essere condannato all’ergastolo invece di essere benemerito alle agenzie turistiche e festeggiato con onore dopo la morte di trentadue persone. Le leggi che vengono dalla partitocrazia, che non ha il minimo senso del concetto di rappresentanza del popolo, hanno portato diverse aziende sull’ orlo del fallimento. Altra causa di dissesto la Tav in piena contraddizione quando l’ abbiamo per i brevi tratti, creando sperperi senza limiti. La Tav, falsa modernità con troppi costi e poco rendimento, ha influito sulla distruzione di molte linee ferroviarie, danneggiando l’ economia di molti paesi di montagna. Nei versi di Defelice una fede incorrotta e uno spirito umanitario ed etico-sociale che superano le amarezze prodotte da certe situazioni assurde. Il dialogo ironico di “Alleluia in sa-

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la d’armi” ha forme rinnovate e efficacia morale: mira alla ricerca della verità, dando un equilibrato commento agli eventi del nostro tempo. I versi hanno forza inventiva, fantasia e immagini, c’è una contrapposizione tra la contemporaneità decadente che crea malumore e rabbia e un elevato rincuoramento che conduce a vedere, nonostante l’ aridità che oggi ci opprime, la possibilità di una politica con capacità sociali verso prospettive di miglioramento. Il dialogo in prosa e poesia con elevatezza di giudizi coglie i punti di crisi che si fanno transizione tra un passato vissuto con virtù e senso di abnegazione davanti ad avversità e povertà di mezzi e l’era tecnologica che sconvolge principi di umanità e idealità in lontani orizzonti visti da sane e intemerate intelligenze. Gli “Alleluia” di Onano e di Defelice costituiscono un’ esperienza collaborativa con espressività sintetiche e nel contempo con tanta ampiezza intellettiva. Alle provocazioni di Onano che esprimono inverosimiglianza e paradossi corrispondono le poesie lungimiranti di Defelice, sempre con una visione etica della vita. Le composizioni sarcastiche richiamano l’antica arte delle Pasquinate. Le satire venivano appese a Roma alla statua di Pasquino per colpire con un linguaggio colorito specifiche persone o Istituzioni o usanze. Anche se richiamano le Pasquinate, le parate e risposte appaiono rinnovate e degne di un genere letterario perfetto come completezza e articolazione, adottando la forma dialogica. Defelice si abbandona al riso per far attenuare la rabbia. Complessa è la poesia ironica di “Alleluia in sala d’armi”, trova riscontro in quella di Gioacchino Belli: arte spontanea, fuori dalle ipocrisie e dagli artifici con surrealismo sofferto e drammatico. Il dialogo è dotato di grande umanità con un minuto verismo spesso mordace contro i vizi, i soprusi, si denuncia l’ingiustizia e la miseria. Quando il linguaggio si serve di espressività popolare ci si sente liberi da esulcerazioni. Sempre rilevante è il giudizio morale, ogni volta che le considerazioni sono rivolte alle falsità, al-


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le leggi che vanno oltre il senso del giusto. La sperequazione fa adirare e mostrare che siamo in un’epoca di rovina. La poesia satirica che viene dalla collaborazione di Onano e di Defelice è piena di indignazione, esprime essenzialità e spirito critico. V Il volumetto “Alleluia in sala d’armi” è originale, rappresenta un’espressività letteraria di carattere umanistico e di grande sensibilità. Secondo Giovenale “Si natura negat, indignazio facit versus”, se non c’è poesia ispirata una forza istintiva erompe in ogni maniera con violenza per dire la verità su eventi che non soddisfano il senso dell’ equilibrio e della coerenza. Si va per il sottile, il prof. Rossano Onano con la sua esperta professione di Psichiatra con minute osservazioni va in profondità per trarre tutte le significazioni dalle situazioni che viviamo e il direttore Defelice con pensieri aspri e duri si scaglia sferrano quasi schegge vive. La satira viene da patimenti, da virtù e sacrifici durati una vita intera. L’arte satirica ha la forza di un ferro reso acuminato sopra l’incudine. L’animo oppresso è venuto dalle fatiche inflessibili. La poesia supera tutte le accidentalità per esprimersi quasi con rabbiose lacrime, è sempre dominante la socialità, il mezzo appropriato per tracciare lunghi cammini. Siamo alla fine della coerenza, con tanta volgarità ed egoismo in processi di disumanizzazione. La poesia satirica viene fuori agguerrita, nella pienezza di sé, decisa con prontezza, senza abbellimenti, ha una rudezza che rende l’andatura sicura, senza cedimenti. Quando ci si sente feriti, addolorati, si è con tutto l’animo infiammato dalle insopportazioni, dalle maldicenze, da una interiorità che sanguina lacrime amare. I versi come le osservazioni sono in tutta una chiarezza in momenti travagliati avuti nella sottigliezza dei pensieri. Siamo lontani dalla sinteticità di Carlo Porta. La complessità di “Alleluia in sala d’armi” è piena di strali, di scontri e di combattività contro le malefatte di una politica insulsa, contro approfittatori

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e mafiosi. Si piange sulle tristi condizioni dei miseri abbandonati a sé, con oggettività i fatti sono trattati. Come il Belli, Onano e Defelice danno vita a un dialogo che ai nostri tempi ha tutta la forza di scontrarsi contro lo sconquasso di una civiltà che si perde nelle ottusaggini, nello squallore, nelle povertà di idee e nella più felina voracità. Nello stato di totale corruzione c’è di tutto, Onano e Defelice hanno efficacia espositiva, sanno penetrare nei più impercettibili particolari per osservare tutto il deprecabile e le contraddizioni che si assalgono furiosamente. Accanto all’ abbrutimento risalta la necessità di usare la saggezza più vera che nasce da sconsolazione. Quello che tiene lontani dal Belli è la speranza, la fede in un avvenire che ci faccia vivere e collaborare per il bene comune. Non pensiamo a visioni catastrofiche, a dissolvimenti totali. I due coautori nelle parate e risposte appaiono identici, una sola persona, con un’unica prospettiva, quella di vivere una civiltà autentica, degna delle più alte qualità umane ed etiche. Per la complessità psicologica si è uomini universali, davanti alle nefandezze che ci opprimono, si è di volta in volta con personalità differenziata, ribelli con il popolo in misere condizioni, con gli abbienti, si è nemici di ogni novità, poiché l’esasperato egocentrismo e la smodata vanità creano situazioni che si contrastano. “Alleluia in sala d’armi” è un’opera di grande rappresentatività in un’epoca particolare che attraversiamo, di valore assoluto e meritevole di far parte della più vera autentica letteratura contemporanea. Adulazione, servilismo, intrallazzo sono tra i più ignobili modi di essere del nostro tempo. Non si ha personalità, ci si muove in sottomissione e in forme ingannevoli, con ipocrisia elevata alla massima espressione. Attraverso la satira si permette all’uomo occidentale di esprimere le proprie idee. Si permette di rivivere con brio e anche con amarezze fatti di cronaca, avvenimenti politici sempre mantenendo, alla base del rapporto con gli altri, principi di vicinanza, di fratellanza, giusti atteggiamenti. Il


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dialogo tra prosa e versi lascia osservare modi di vita, come aberrazioni, contraddizioni molto in voga nel tempo presente. La satira fa dire senza ipocrisia e fa mettere l’ attenzione su problematiche etico- esistenziali e storico-ambientali come razzismo, politica, fede con larghezza di vedute, con esperienze culturali. L’arte poetica, come gli interventi di Onano, non è inerte, esprime sete di verità, prende il sopravvento sugli istinti. L’obiettività di Gioacchino Belli la troviamo nel dialogo tra Onano e Defelice, si è sconvolti per le situazioni di corruzione, una realtà verso cui si è nemici. C’è uno spirito di osservazione su realtà di varie forme, trattate in modo del tutto nuovo, una satira diversa anche da quella di Giovenale, fervida, solenne, piena di indignazione, vengono affrontati tutti gli aspetti brutali dei vizi, degli scandali dell’epoca di Domiziano. Una satira amara da cui si hanno notizie sui costumi dell’antica Roma. Per Giovenale la satira non è più classica, ma imperiale, eccita immaginazione e sensibilità. “Difficile est saturam non scribere” davanti a tante sconcezze del costume. Una poesia che nasce a caldo, come subitanea risposta ai fatti. In tempi corrotti, di egoismo esasperato e dannato, sempre i miseri, i semplici, i sofferti, i generosi, quelli che pensano tutti gli altri uguali a sé, gli ostinati idealisti hanno la peggio. La satira di Giovenale non si propone di educare e di correggere, il suo compito è la denuncia, contro adulteri, lesbismi, si presenta in termini più visivi che narrativi. Un aspetto altamente morale è dato dal fatto che i vizi sono considerati non sfera individuale, ma nei loro riflessi sociali, cioè nelle conseguenze che hanno per gli altri. Una satira piena di sdegno, senza sorriso né animo sereno, con ostinazione feroce. VI Il dialogo satirico tra Onano e Defelice, oltre ai fatti particolari, considera in genere le virtù del nostro tempo che si trovano come substrato in tutte le situazioni aberranti. Troviamo la superbia, nemica del prossimo, si at-

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tribuisce singolarità al di sopra di tutti. Il superbo crede di aver tutto meritato. Ha desideri insaziabili, pretendendo innalzamenti impossibili. Dominato da passioni sterili, inutili che si consumano in aspirazioni disordinate. Cieco nell’intelletto, ostinato nella volontà. La superbia è un vizio diffuso, è forza che trascina a tutte le nefandezze, si unisce all’ ambizione. Sappiamo bene che chi comanda è oberato di lavoro, chi è il primo negli onori ha poco tempo per sollazzarsi. È semplicemente il servitore di tutti, non deve pensare alla propria vanità, ma al bene pubblico. Ipocrisia e malcostume regnano nella politica che vive di tanta confusione e di dispendio di denaro. Negli eventi rappresentati nel dialogo tra Onano e Defelice il nostro tempo è tanto ricco di paradossi. Il peccato è un merito. Ci si assoggetta a tutti, non si ha dignità. C’è della brutalità contro ogni senso del giusto e dell’ umano. Le doti morali, la consapevolezza di sé, il senso di responsabilità sono frantumati. Non c’è applicazione né entusiasmo ad agire per lo Stato. Si è allargata la sopraffazione, si gareggia a chi riesce di più a raggiungere posizioni di maggior peso e arricchimenti. Altre virtù che sono combattute dalla satira sono l’ istintivismo e l’avidità, fanno crescere l’amor proprio e tutte le passioni più deplorevoli. Chi ancora è semplice e schietto e crede alla coerenza e all’onorabilità della persona, alla dignità passa per retrogrado e incapace. Quando la satira diviene rabbiosa si pensa alla natura dell’uomo, fatta di miserie, di temporaneità, di sostanza corruttibile, i difetti, le limitazioni e le tristezze della vita sono le condizioni che rendono necessari bontà, sentimento, vicinanza reciproca per soccorrerci nelle avversità. In “Alleluia in sala d’armi” sono odiati i privilegiati, nemici dei principi essenziali della razionalità. Abbiamo una società stravolta, si perde l’ aspetto umano, andando per le esagerazioni e gli eccessi, fuori dalle norme naturali. Non si vogliono né il dialogo né il confronto. Quando sprofonda nei gravi abusi, rimane oltraggiata l’autentica natura umana. Leonardo Selvaggi


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Passeggiata letteraria sulle tracce della scrittrice

MARIA MESSINA GESTI DI LUCE di Tito Cauchi

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INA Mandolfo è scrittrice, regista e sceneggiatrice; Maria Grazia Lo Cicero è docente e formatrice didattica. Entrambe hanno curato il documentario che è stato montato da Marta Ruggiero sulla “passeggiata letteraria” che ha avuto luogo a Mistretta, un paesino in provincia di Messina nel territorio del Parco delle Nebrodi, luogo dell’ infanzia della scrittrice siciliana Maria Messina, che ne caratterizza l’intera produzione letteraria. L’evento è nato con lo scopo di ricordarla facendo uscire dall’ombra il suo nome mediante una lettura e un approfondimento delle sue opere. La Scrittrice è nata a Palermo, ebbe una corrispondenza epistolare

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con Ada Negri e Giovanni Verga. La celebrazione si è articolata in un convegno al Circolo Unione (ex casino) e nella passeggiata che è stata organizzata da Gisella Modica che ne sottolinea la “scrittura bitestuale” e da Pina Mandolfo in collaborazione con l’associazione Progetto Mistretta e il Comune di Mistretta, svolgendosi in due giorni, 14 e 15 giugno 2014; con soste a Villa Nives, Villa Chalet, Largo Cavour, Chiesa di san Giuseppe, Sede della Società Operaia, e al Cimitero comunale. Si sono alternati i relatori Giuliana Masserville presidente della Società Italiana delle Letterate (SIL); Liborio Porracciolo, Sindaco di Mistretta dichiarandosi lieto di come il paese, che gode già di una meravigliosa posizione geografica, adesso potrà avere risonanza mondiale; Vincenzo Oieni, assessore alla Cultura; Mario Salamone, presidente del Circolo Unione di Mistretta; Nino Testagrossa presidente dell’associazione Progetto Mistretta che plaude all’alto livello svolto dall’ organizzazione; Pina Mandolfo, Nadia Nappo dell’associazione Donne in Nero, di Napoli; e Mariella Fiume, scrittrice. Per tutta la durata della passeggiata e delle soste, hanno contribuito con la lettura di brani Patrizia D’Antona con particolare enfasi nell’ interpretazione e sei studentesse con un notevole contributo: Martina Spinnato, Benedetta Sgrò, Aurora Catanzaro, Giusy Caspio, Angela Mollica Nardo, Chiara Salamone (salvo mia erronea interpretazione). I brani letti sono


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stati tratti da Ragazze siciliane (L’ ideale infranto), da Pettini-fini (che reca la nota di Leonardo Sciascia), La casa nel vicolo (con la voce di D’Antona) , Piccoli gorghi (La nicchia vuota; Sotto tutela; Oggi a me, domani a te). Si sono potuti ammirare squarci paesaggistici meravigliosi. Nel corso della passeggiata Giuseppe Ciccia spiega che nonostante le ricerche storiche, rimane qualche incertezza circa i luoghi abitati da Maria Messina, tuttavia indica presuntivamente l’abitazione in cui era registrato nel 1903 il padre, Gaetano Messina. In una sosta al cimitero Lucia Graziano spiega che le spoglie della Scrittrice sono state traslate da Pistoia ove giacevano insieme a quelle di soldati, essendo morta durante la guerra, perciò dal 2009 vengono custodite nel cimitero di Mistretta dove una lapide ricorda lei (14.3.1887 – 19.1.1944) e pure la madre (Gaetana Traina 24.5.1863 – 20.12.1932). Nella Azzolini vedova Giorgetti riferisce che della Scrittrice, malferma, si prese cura l’infermiera Tagliaferri che a sua volta ha abitato a Mistretta. All’evento ha partecipato un pubblico in prevalenza femminile; fra le collaboratrici si aggiungono Mariangela Biffarella e Graziella

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Ribaudo; inoltre le fotografie sono di Claudia La Franca. La lettura appassionata è a difesa delle donne che si può sintetizzare in questo: “una donna può amare, più degli uomini, ma non la si può obbligare”. La “passeggiata” si conclude in Via Maria Messina ove viene scoperta una lapide a ricordo della Scrittrice. Ben vengano manifestazioni del genere; per me è valsa la pena scoprirla, sulla quale ho avuto modo di esprimermi (Pomezia-Notizie, La casa nel vicolo, febbraio 2014). Il documentario è disponibile in DVD della durata di 51 minuti; per ulteriori notizie si rimanda ai siti elettronici. www.centrostorico.altervista.org, ilcentrostorico@virgilio.it, www.societadelleletterate.it, comunicazione@societadelleletterate.it, pinamandolfo@virgilio.it. Tito Cauchi PINA MANDOLFO E MARIA GRAZIA LO CICERO, GESTI DI LUCE, Passeggiata letteraria sulle tracce della scrittrice MARIA MESSINA, DVD 2014

PARODIANDO DINO CAMPANA Vogliamo vogliamo che il tempo in fretta passi in fretta, ché ci portino nuove ci portino le ore e i nostri appaghino desideri i nostri desideri. Che passino passino i giorni e gli anni gli anni e arrivi quanto aspettiamo, arrivi arrivi: per vedere sapere, stupire gioire o provare delusione e soffrire. Che scenda scenda la colonna che la nostra età controlla, età dimezza dimezza età, non c'importa non c'importa e che solchino le rughe le rughe il nostro viso e che prima prima giungeremo alla meta finale giungeremo della nostra nostra liberazione. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno, IS


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La silloge poetica A Riccardo (e agli altri che verranno) di Domenico Defelice:

UN CANTO APPASSIONATO ALLA BELLEZZA DELLA VITA E AL SUO RIFIORIRE NEL SORRISO DEI BAMBINI di Andrea Bonanno del marzo 2015 la pubblicazione dalla Editrice Il Convivio della silloge poetica dal titolo “A Riccardo (e agli altri che verranno)” di Domenico Defelice, con prefazione di Angelo Manitta. L’iniziale ispirazione di questa silloge poetica si deve ascrivere a quella trepidante attesa del miracolo dello sbocciare di una nuova vita, tanto poi da seguirne la stupefacente evoluzione della sua crescita. Le liriche, testimoniando delle sue fasi, ubbidiscono ad un disegno e progetto unitario molto limpido. Ogni lirica ha però il pregio di originarsi da attente osservazioni e descrizioni, che poi danno adito a delle commisurazioni e a delle riflessioni secondo le quali l’età passata, ossia l’infanzia del poeta viene raffrontata ad una precisa fase evolutiva del fanciullo, come altresì la sua età adulta, in forza della conoscenza ed esperienza del poeta, offre al fanciullo una corretta guida per la sua crescita educativa.

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Le liriche, allora, avvincono per la loro struttura compositiva singolare, ravvivata dalle autentiche emergenze di un’alta vena poetica, rivelando un alto registro comunicativo, incentrato su delicati sentimenti ed affetti di un’indubbia sincerità espressiva. La serena e pacata descrittività iniziale si apre sovente a spazi caratterizzati dall’ evidenziazione di coinvolgenti emergenze di seducenti accenti poetici sullo sbocciare di una nuova vita: “Già s’è formato il delicato / gomitolo del cuore. Vene e arterie si ramificano / in un reticolo immenso di colori” (Dicono…, p.11). Nel cantare ed inneggiare al miracolo della vita, beninteso, il poeta non può approvare, in generale, chi condivide ed è disponibile alla pratica disumana dell’aborto. Ne “Il primo fiore”, di p. 12, la lirica, composta per il matrimonio della figlia Gabriella con Roberto Carnevalini, ascende a toni più lirici, rivolgendosi al nipotino Riccardo col dire: “Sei il primo fiore / impastato con le mie cellule, / tasselli d’un albero vetusto / che affonda le radici nei millenni”. Un’altra bella e seducente lirica è “La divina matrioska” per essere un’alta sinfonia di note poetiche che esaltano il nascere della vita dal “seno di Dio” (p. 13). All’esultanza rivolta a tutte le donne che “sono Madonne / nella maternità” non poteva il poeta non erigere un ritratto della figlia, diventata madre, e ringraziare il Signore della nascita di Riccardo, “Bello e biondo”, come la madre. Con lo spuntare del primo dente e il sorriso di Riccardo, che è “Un sorriso divino, /legato alle galassie”, il poeta Defelice, ricordando la sua infanzia, si apre a delle oggettive considerazioni riflessive sulla caducità dell’innocenza tipica dell’ infanzia: “Anche noi tutti siamo stati angeli / all’alba della vita, poi negli anni contorta! / breve è nell’ uomo l’innocenza” (p. 24). Nella lirica di p. 30, “La poesia del suo scorrere lento”, si ha la contrapposizione tra l’istintuale “troppa fretta di andare...” di Riccardo con la espressa volontà del po-


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eta di voler fermare il tempo con il seguente e saggio avvertimento: “maledici l’ansia, dai tempo al tempo, non dimenticare mai la poesia della vita, / del suo scorrere lento”, aggiungendo di “non volere tutto e subito” (p. 31), ma di amare la “Verità e Bellezza”. La lirica “Anche a costo di vederti piangere” si rivela caratterizzata da giuste annotazioni educative sul punire i capricci, istintuali dei bambini e l’”orgoglio sfrenato” di Riccardo che cerca di averla sempre vinta: “Ancora non distingui / il giusto dall’ ingiusto, / il bene dal male. / Tocca a noi moderare le tue brame. / A costo anche di vederti piangere, a lungo lacrimare” (p. 47)1 . Nell’ altra lirica “Ti siano stimolo e fortezza” (p. 50), il tempo giocoso del bambino viene commisurato alla giovinezza amara del poeta con in finale il pensare consapevole che presto dovrà lasciare questo mondo. La seconda parte del volumetto “Per gli altri che verranno”, inizia con la festa matrimoniale di Stefano Defelice con Emanuela Vignaroli (p. 57) e la conseguente attesa “nel sorriso di aprile” di un altro nipotino del poeta, invitato a privilegiare l’ “Amore e Libertà” (p. 60) 2. L’ ultima poesia “Sarete il mio futuro” (p. 61) si rivela una suggestiva sintesi poetica fra la gioia e bellezza della vita e il suo lento e malinconico trascolorare, dettando al poeta Defelice la pacata e poetica consapevolezza che non morirà del tutto: “Vedrò la luce con i vostri occhi, / i colori, le forme, / le tante meraviglie strepitose”; […] “Sarete il mio futuro. / Alberi voi sarete / a porgere frescura alle mie ossa, / a coprirmi di odori”. Un’avvincente lirica, che alla gioia e all’ esultazione della nascita dei suoi nipotini, fa seguire dei pensieri dolci e palpitanti anche sul suo venire meno alla vita un giorno, da sperare molto lontano, allietato ancora da suoni, rumori ed armonie della vita, tramite l’ udito dei suoi amati bambini, che il suo vecchio cuore di poeta saprà sempre sentire di continuo. Il libro, percorso da una marcata corrente affettiva di gioia, a lettura ultimata, sa ancora effondere vitali alimenti al cuore e all’ a-

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nima intristita dell’uomo di oggi e i suoi germoglianti pensieri di amore nei riguardi del flusso ammirevole della bellezza della vita e verso quella medesima carica e comunicabilità dell’essenza spirituale dell’alta sentimentalità e poeticità del cuore dell’ uomo. Andrea Bonanno Note:

1.

Afferma Plutarco, in “L’educazione dei fanciulli”, in tal senso, che “Una formazione corretta è fonte e radice di perfezione morale”, in quanto “L’età in fiore è sregolata nei piaceri, scalpitante e bisognosa di freno, tanto che, se non la si blocca con decisione, si finisce inavvertitamente per consentire la sua sventatezza di degenerare in comportamenti ingiusti”.

2.

Dice Marco Aurelio, in “Contro le lusinghe del mondo”, p. 53, in “Classici del Pensiero Libero - Greci e Romani”, ediz. Bur - Corriere della Sera, 2012, che “Devi adattar te stesso agli eventi ai quali il destino ti diede in sorte d’esser compagno. E ama, ma davvero (Corsivo nostro), gli uomini ai quali la sorte t’ha posto accanto”.

FUGIT HORA … Ed anche maggio è andato … Volano via in fretta dal calendario i foglietti e vola via in fretta anche la vita, con i suoi piaceri ed i suoi dispiaceri. Vola coi nostri desideri ed i nostri pensieri, vola via e non si ferma, vola per non ritornare. Si esaurisce il pacchetto dei foglietti interi … Sembrava oggi ed è già quasi ieri. 31 maggio 2015 Mariagina Bonciani Milano


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Il Pittore e Poeta

ELEUTERIO GAZZETTI in un saggio di

DOMENICO DEFELICE di Tito Cauchi

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OMENICO Defelice si è occupato in più occasioni di questo artista; adesso con il volume intitolato allo stesso, Eleuterio Gazzettti, vuole dimostrare che nell’artista la poesia e la pittura “sono non

consanguinee, ma la stessa cosa.” Trattasi di un approfondito studio critico, scritto con un

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unico afflato, ma che di fatto si divide in due parti: Biografia ampia di 23 paragrafi comprendenti foto dell’Artista (qualcuna in compagnia del Nostro) e sue illustrazioni ad olio complessivamente in numero superiore a 50, quasi tutte a piena pagina, che si concludono con una bibliografia critica; e un’Antologia di circa 25 pagine che riguarda poesie scelte e in parte commentate da Ugo Masetti. Eleuterio Gazzetti nasce a Magreta di Formigine (prov. Modena) il 30 giugno 1917, secondogenito di nove figli; in prossimità della stessa località ebbe i natali il venerabile Pietro Gazzetti eremita (1617-1671), suo antenato, sepolto a Noto, in Sicilia. Ordinato sacerdote nel 1944, rimase come cappellano a Camposanto (prov. Pisa) dal 1946 al 1948, poi a Castelnuono Rangone (Modena) dove maturò il suo ministero, fin quando prende possesso della parrocchia di Sozzigalli di Solliera, “lungo il fiume Secchia, terra del Lambrusco”. Grazie ai suoi guadagni di pittore ha realizzato una nuova canonica e restaurato l’ intero complesso dedicato ai fedeli e all’ oratorio. Domenico Defelice ricorda di quando sentì parlare per la prima volta del Gazzetti. Nel 1957 abitava a Reggio Calabria, decise con gli amici Ernesto Puzzanghera, Franco Saccà e Gerolamo D’Addio di andare a trovare Francesco Fiumara, direttore de La Procellaria, “una delle più belle riviste (…) di ispirazione socialista, ma imparziale”; durante la conversazione si parlò di Geppo Tedeschi, “l’ultimo dei futuristi, amico intimo di Marinetti”. In quell’occasione D’Addio riferì che il poeta, loro corregionale, era stato definito da un critico straniero l’usignolo dell’ Aspromonte; a quel punto il padrone di casa pronto con le sue battute, definisce il poeta Gazzetti l’usignolo della Valpadana. Rimasero commossi nell’apprendere della vita sacrificata di quell’uomo. È così che nasce nel Nostro il desiderio di approfondirne la conoscenza. E noi proviamo a seguirne le letture. Così rimase favorevolmente impressionato su Intorno al Presepe di Gesù (1951), da scriverne diffusamente. Gaz-


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zetti riesce ad essere semplice ed efficace con la poesia religiosa e le favolette, e raggiungere l’animo dei più piccoli a infondere letizia, essendo i suoi versi molto orecchiabili, adatte alla sensibilità dei fanciulli. Questo non

impedisce di affermare, a proposito di Melodie di cornamuse (1963) che, essendo “una ‘poesia d’occasione’ – come la definisce lo stesso Gazzetti – non sempre è sorretta da una elevata ispirazione: in molti versi scade di tono”. D’altronde egli era un educatore e spesso i suoi personaggi sono figure di pedagoghi come il nonno, la mamma, il maestro, il parroco. La stessa tenerezza è trasferita nella pittura. Arpa di Valpadana (1964), possiamo dire, è un inno alla natura riguardata come santa. Fra gli estimatori di Gazzetti abbiamo Marino Moretti con il quale è intercorsa una corrispondenza epistolare, Casimiro Bettelli che vi scopre del crepuscolarismo, ed altri critici. L’ infanzia nel villaggio natio, trapela in molte sue opere a contatto con la natura, sotto la vigile guida della madre. Defelice osserva che i versi più sentiti non sono quelli espressamen-

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te dedicati alla genitrice, e nei suoi versi raramente incontriamo il padre, ma lo troviamo di riflesso in altre circostanze, per esempio nell’abbattimento del grosso fico nell’orto di casa. La voce dell’uomo (1972) è diario intimo “è opera matura, in cui la poesia si fa tersa, quasi traslucida” sebbene sia concettosa ma non fatta di astrattezze; è contro l’uso abnorme che si fa della scienza (opera del diavolo). Interessante la lirica ‘La fatica di vivere’, più volte richiamata, che mette a confronto con “il mal di vivere” di Montale, ma con una differenza sostanziale perché il poeta ligure trova rimedio nella indifferenza, mentre il poeta emiliano vi oppone la speranza, il senso di giustizia da recuperare; in questo è simile ad altri due poeti del Sud (l’antico greco Leonida da Taranto e il calabrese Geppo Tedeschi). Eleuterio Gazzetti ha scritto anche alcuni saggi. Il pittore Gaetano Bellei (1952), altro modenese, che come lui non commercializzava le proprie opere; allo stesso Gazzetti “per la munificenza d’animo dell’autore, pagano le opere una miseria, meno di quanto costano, a volte, le stesse cornici” (pag. 57). Il cardinale Giovanni Morone patrizio modenese (1952), che presiedette il Concilio di Trento. Radiografia di un’anima, Suor Sa-


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muela Mainenti (1972), che si ispira alla santità della umilissima siciliana, vinta dal tumore; nata e morta nella stessa cadenza di calendario (5 gennaio, 1920-1972), con ciò dimostrando che i santi vivono insieme a noi. Il Gazzetti man mano si è distaccato dalle forme classiche per esprimersi un po’ più in libertà, ma sempre con armonia che un occhio e un orecchio attenti sanno cogliere in assonanze e in rime al mezzo. Dopotutto egli vive il suo tempo concretamente ed è molto vicino ai bisogni della gente comune. Egli ha informato la sua vita a due guide, la poesia, che non considera come mero divertimento, né come strumento per mettere al rogo tutti gli usurpatori; ma prendendo le distanze dai poteri forti semplicemente chiamandoli per quello che sono, così non possono essere considerati cattolici i democristiani corrotti (un po’ quello che ai nostri giorni, 2015, va urlando Papa Francesco). E si lascia guidare dalla coscienza nella consapevolezza della propria vocazione di fede; come commenta Defelice: Gazzetti “fa della poesia e della pittura strumento valido per rendere più penetrante e attuale il suo ministero sacerdotale.” (pag. 70) da ciò deriva il suo accostamento alle figure più deboli della società, il suo senso di penetrazione nelle coscienze nell’ ammaestramento ma senza pedanteria. Domenico Defelice definisce don Eleuterio Gazzetti poeta del colore, dal linguaggio simbolico, descrivendone con partecipato coinvolgimento la pittura, per esempio quella paesaggistica con il forte legame alla sua Valpadana, con una visione panica, parenetica e ascetica, una sorta di richiesta di perdono e di preghiera. Altro esempio, terreni arati sono come ferite inferte al corpo vivente, i colori rosso giallo e verde starebbero a rappresentare il sangue e gli umori della sofferenza; le acque del Secchia, come la purezza dell’ infanzia, il lavacro necessario. La serie delle Maternità, dei Ritratti (Totò, Ugo La Malfa, Aldo Moro), della Resistenza, temi religiosi (dei Crocifissi, la fuga dall’Egitto, la vita della Madonna, Gesù fanciullo nella bottega di

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San Giuseppe). Il calvario, simbolo per eccellenza del dolore, viene presentato senza incutere il senso del castigo e del lutto, pur nel rispetto del tragico evento, tende a rasserenare lo sguardo. Le figure umane presentano tratti fisici che comunicano la loro interiorità, nonché il pensiero intimo del pittore. Poesia e pittura, si travasano reciprocamente, spiritualità diffusa nella sua arte, parallelismi con i richiami evangelici; stretto rapporto simbiotico dei paesaggi: belli nei dipinti, ma tristi nelle stagioni fredde in poesia, questo perché lo scritto ha un valore più confessionale. Una figura molto celebrata è la Madonna variamente dipinta; ma, attento ai problemi della società, non chiude gli occhi nella rappresentazione per esempio di una ragazza madre o di Madonne contadine. La lettura della breve antologia di poesie non delude le aspettative; su di esse il Nostro si è ampiamente pronunciato, perciò mi limito a citare i seguenti versi, credo che in essi vi troviamo l’uomo con la sua poesia e la sua coscienza: “Chi sono? Adamo, Signore!/ La terra è buia e deserta la vita/ se Tu non passi per le nostre strade:/ non darmi solo aridi giorni.” Tito Cauchi DOMENICO DEFELICE, ELEUTERIO GAZZETTI, Ed. Pomezia Notizie, Pomezia (RM) 1984, Pagg. 160

Immagini di opere di Eleuterio Gazzetti: “Donna con le mani in tasca” (titolo dovuto a Defelice), olio su tela 40 x 60; “Paesaggio”, olio su tela 30 x 40; “Paesaggio”, olio su tela 40 x 50); “Paesaggio” (1963), olio su tela 30 x 40; “La Primavera” (1968), olio su tela 40 x 60.

È SERA La sera con gli occhi socchiusi saluta il giorno lasciandosi dietro dolore e gioia. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, MI


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Il Racconto

VITTIME di Anna Vincitorio

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NA enorme cascata di acqua fangosa, prorompente, vista però in lontananza. Si rinnovava nella visione il ricadere ritmico dell’acqua come una danza macabra che coinvolge e tutto sommerge. A valle, in lontananza un sentiero: uomini in fila e un carro dalle ruote cigolanti. Sul carro distesa, una donna vestita di bianco e col velo da sposa. Era immobile mentre il carro avanzava in un fluttuare d’immagini. Quello strano e irreale paesaggio e soprattutto le figure in processione non articolavano parola. La donna, che tra veglia e sonno, era spettatrice come da un grande terrazzo, a un certo punto scorge una delle figure librarsi verso l’alto: un uomo dal volto scuro con barba e tunica che imbracciava un fucile. Più avanti, sempre nella visone, gente in fuga e sangue che affiorava dal terreno come da una grande ferita, ma non si vedevano i corpi colpiti. Ancora in sequenza, occhi di bambini spalancati che si moltiplicavano in angosce di silenzio. Un brivido percuote la donna. È sola, terrorizzata e non sa spiegarsi quell’incubo. Accende la luce e vaga impaurita per la casa immersa in silenzi per lei inquietanti. Non può chiamare nessuno e l’ angoscia le resta dentro. Passa un po’ di tempo e si attenua ma non scompare la sensazione di profondo disagio da lei provata. Si ritrova da un’amica e incontra Luisa che appartiene al gruppo degli angeli della notte. Sono chiamati così perché di notte, appunto, aiutano gli homeless. Spesso questi si riparano nei cassonetti per sfuggire al freddo, oppure con giacigli di cartone e coperte dormono fuori dalle chiese sempre chiuse all’asilo dopo la messa della sera. Una bevanda, un piatto caldo, qualche parola scambiata che li faccia sentire ancora vivi; uno spiraglio anche se provvisorio tra l’ emarginazione più totale e il contatto umano. Anna vorrebbe unirsi a Luisa nei suoi viaggi notturni ma la blocca un senso d’impotenza;

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il toccare con mano questa realtà la impaurisce. È più facile donare qualche euro e rimanere al caldo in casa sul far della notte. In passato aveva frequentato la sede di Fuori Binario e aveva conosciuto alcuni di loro. Chi scriveva sul giornale cercando di dare un contributo per la loro conoscenza, chi, ormai perso, viveva con l’unica compagnia del fiasco di vino. Un giorno Anna si trovò in Piazza S. S. Annunziata: un compagno era morto nella notte sotto il portico. Il viso, nella morte, si era liberato delle angosce di quel vissuto randagio. Le dissero che era ancora giovane. Una quarantina d’anni. Volle andare al funerale di quello sconosciuto. Un funerale diverso da quelli ai quali era solita partecipare. Non musica d’organo, incenso e profusione di fiori. Solo una ristretta fila di persone con negli occhi emarginazione e rassegnata povertà. Una buca nera accolse le spoglie dello sconosciuto. Perché aveva voluto essere là, perché volerlo accompagnare in quell’ultimo viaggio dove il freddo e la solitudine non lo avrebbero più ferito? Ne seppe il nome: Ivan; veniva da un paese lontano; era fuggito dalla guerra. Gli eccidi si susseguivano violenti. Gli scontri erano tra gente della stessa origine. Tutto dimenticato pur di ottenere una irrisoria vittoria di sangue. Il sangue dei propri fratelli. Le fu raccontata la storia di Ivan. Si susseguivano violenze inaudite nel suo paese. Aveva una moglie, Amina, da lui profondamente amata. Erano un tempo contadini e la loro vita la sera, si placava con lo scendere della notte nel tepore di un letto, testimone del loro amore e coi figli. La loro terra fu assalita e Amina morì uccisa assieme ai due figli; un terzo ancora inerme nel suo grembo. Lui, disperato li trovò dilaniati al suo ritorno dai campi. Pose lei e i bimbi sul carro per seppellirli sulla vicina collina che li aveva visti felici. Il dolore trasformato in furore, lo fece partecipare alla guerriglia fratricida e nel fragore assordante delle grida di guerra, imbracciato il fucile cominciò ad uccidere quelli che erano diventati per lui nemici e assassini. Non aveva più niente; solo ricordi di dolci nenie sussurrate al fuoco e lo sguardo incan-


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tato dei bimbi. Fuggì lontano in cerca di una terra senza guerre, ma solitudine e abbandono gli furono compagni. L’alcool e il freddo bruciarono quella parte di vita che ancora gli restava. Sei in pace ora; nel tuo viso composto adesso nuovamente vivi! Anna è turbata; ora comprende il suo incubo. Tra veglia e sonno il suo inconscio aveva recepito la sofferenza e visualizzato la storia di Ivan. Poteva solo ricordarlo e cercare una via contro le atrocità del mondo, dando un suo contributo. Divulgare queste storie. Non l’alcool e la solitudine avevano ucciso Ivan e altri come lui ma la cattiveria umana. Negli occhi di Anna una processione mistica di anime verso un mondo diverso senza violenze e efferate ingiustizie. Anna Vincitorio

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quella che partorì la casa, la parola, la memoria; fu proprio lei che spense il mio piacere. Riuscì perfino ad inserirsi nell’anima dell’anima con una sua finzione. Un sogno dentro il sogno. E sempre in sogno mi attendevano gli amici e il mio lavoro. Quando venne l’ora di partire si stagliava nel cielo un cumulo di nubi: una città sul mare, una piccola città che galleggiava sopra un immenso mare. Nazario Pardini Arena Metato, PI

SULL’ISOLA DI CRONO Passai tutto quel tempo coi pescatori dell’isola di Crono. Non era umano, non lo era quel verde che mordeva con tutta la sua forza. Non c’erano tracce della nostra civiltà poco civile. M’infilavo in quei tratturi dai rami macerati dal tempo. Si arcuavano e tappavano i profili tra gli intrichi sconnessi e misteriosi. È là che ti conobbi (amore è dire poco) bellezza rara nata ad ospitare le spelonche dei sogni. Onde celesti dell’Oceano più grande gli occhi tuoi. Esondarono su me con le cascate dei capelli lucenti di diamanti. Quanto può esser vera una finzione se gode l’anima in armonia con l’eros oltre ogni ragione. Mi ricordo: c’era una spiaggia bianca di sale. E una capanna sotto le palme al borbottio del mare. Il sogno non ha tempo e non lo ha l’amore che sognato resta sogno. Ma la ragione, quella che fece la storia, la sola facoltà che fa dell’uomo un essere pensante; la ragione,

PAESAGGIO IN CORSA Fremere di ali su pista di cielo. Meraviglia di attimi, il treno mi rapina di un puledro assorto in improvvisi incantamenti. E mi struggo, insonne, di pensieri. Rocco Cambareri da Da lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970


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I POETI E LA NATURA - 45 di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

IL CANTO DEL MARE DI RAINER MARIA RILKE (1875 - 1926)

“S

offio antichissimo del mare, vento del mare a notte: a nessuno tu vieni;

per chi vegli resisterti è una prova: soffio antichissimo del mare che spiri quasi solo per rocce primordiali, nient'altro che spazio trascinando con te da lontano... Oh, come ti sente una pianta di fico gravida di gemme alta nella luna.”

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(“Canto del mare” - Capri. Piccola Marina, traduzione di Giacomo Cacciapaglia) Tra i poeti che tra la fine dell'Ottocento ed i primi del Novecento furono attratti dalle bellezze artistiche e naturali dell'Italia troviamo anche il grande Rainer Maria Rilke, di lingua tedesca ma nato a Praga nel 1875. Dopo aver frequentato l'Accademia militare come cadetto, Rilke studiò a Praga, a Monaco e a Berlino. La Guerra del 1915- 18 influì negativamente sulla sua già finissima sensibilità, al punto che per dieci lunghi anni si rifiutò di pubblicare suoi scritti. Ma fece molti viaggi, specie a Parigi, dove frequentò André Gide e tradusse poesie di Paul Valéry. Morì di leucemia a soli cinquantun anni in Svizzera, nel Vallese, dove aveva abitato fin dal 1919 in una torre antica messagli a disposizione dal suo amico Reinhardt. Tra le sue opere si ricordano il Diario fiorentino (Milano 1990) sulle impressioni suscitate nel suo cuore e nella sua mente da una serie di capolavori della Pittura Italiana; il Libro delle immagini (1947); le Lettere ad un giovane poeta, scritte fra il 1903 e il 1908. Queste lettere costituiscono il suo manifesto poetico. Qui il poeta spiega i fondamenti della sua poesia e della sua concezione dell'arte, primo tra i quali la solitudine assoluta del poeta, che deve restare indifferente ai gusti ed alle reazioni del pubblico di fronte alle sue opere. Per non tacere del bisogno di dedicarsi alla poesia con abbandono totale. E, soprattutto, di ricercare sempre l'originalità, ( nelle tematiche, nelle immagini, negli atteggiamenti) rifuggendo dal calcare sentieri già percorsi da altri. Un'altra opera, Le nuove poesie, dedicate a Rodin, “ dischiudono – secondo la nota poetessa Maria Luisa Spaziani ( da non molto scomparsa) “ un nuovo filone dello stile rilkiano, diventato più plastico, talora addirittura parnassiano nel ritrovato culto della forma, dove il verso è però sempre venato da quell'ombra di presagio che è inconfondibile della sua arte...”.


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L'ultima opera di Rilke, com'è noto, è rappresentata dalle celebri Elegie Duinesi, scritte dal 1912 al 1923, nel periodo in cui era ospite della principessa Thurn und Taxis, nell'incantevole paesaggio marino di Duino, vicino a Trieste. Le “Duineser Elegien” rappresentano un mondo di poesia allo stato purissimo, aristocratico e romantico, col mito dell'eroe, parecchio lontano dai tempi in cui viviamo. Luigi De Rosa

ECCOMI Eccomi, stanca della giornata, stanca del niente mentre penso al passato e alle mille e mille cose che, una volta, impegnavano la mia vita, fatta di mille propositi. Loretta Bonucci

Qui sotto: Domenico Defelice - “Sulla spiaggia seguendo le notizie dal Mundial” (1982), olio su tela 30 x 40

Recensioni ISA MORANDO e EGIDIO MORANDO … ET FUGA TEMPORUM (Città del silenzio Edizioni, Novi Ligure, 2014) Il tema del fuggire del tempo è sempre stato, unitamente a quelli dell’amore e dell’odio, della vita e della morte, della pace e della guerra, tra quelli maggiormente frequentati dai poeti di tutte le letterature, dai greci ai giorni nostri. Non è da meravigliarsi quindi se due poeti a noi contemporanei, Isa ed Egidio Morando, l’abbiano assunto come base della loro ispirazione per un libro comune, dal titolo oraziano … et fuga temporum, che subito ci rimanda al Libro III delle Odi di questo autore. Qui però la fuga del tempo non viene contrapposta all’eternità della fama che al poeta viene dai suoi carmi che lo rendono immortale, bensì è rapportata alla brevità della vita umana, che ben presto dilegua, annullando ogni bene e ogni gioia. E invero il tema del fuggire del tempo emerge ad apertura di libro, sin dalla prima poesia, Ipogeo mediterraneo, che ci conduce in una grotta preistorica, quella di Valdemino, in Liguria, dove Isa Morando ammira “canne di stalattiti iridescenti”, formatesi nei secoli, goccia dopo goccia. Significativa è la chiusa: “Brilla una goccia sulla fronte nuda. / E scivola una lacrima, inattesa / a coniugare l’ora e l’ infinito”. Caratteristica di questo libro è infatti quella della sua unità tematica che si articola in mille guise, nascendo dalle più diverse occasioni, come avviene ad esempio nelle poesie dedicate ai nipoti dell’ autrice, Giorgio e Andrea, che sono protesi verso il futuro, che avanza e incontro al quale vanno fidenti.


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Tipico è il tuffo di Andrea: “nel tepore dell’acqua settembrina”, dove abbraccia il mare con la forza dei suoi giovani anni, quasi per appropriarsene. La fuga del tempo è tuttavia percepita da Isa Morando specie sull’onda dei ricordi, che ci fanno volgere indietro a guardare le età trascorse, come avviene in poesie quali La memoria e il ricordo, dedicata a Franca o come avviene in Le voci dell’estate, dove leggiamo questi versi: “La ragione implacabile del tempo / ha inghiottito l’infanzia”. Si vedano anche L’attesa: “La rete dei ricordi non si strappi / nell’ansia dell’attesa” e La fisarmonica di Carlin: “Ricordo, sì: stupore di bambina, / lui che abbracciava uno strumento strano”. Si veda inoltre Il giorno dell’Europa a San Benedetto, dove si legge: “Emergono figure dal passato / (il Figlio del Maestro, il Professore)…”. Il tono è evocativo, l’andamento elegiaco, l’ animo perso nella lontananza: “… le mie ragazze del Settantatré / come allora raccontano facezie / intrecciano ricordi e storie d’oggi” [Voi (Adriana, Laura, Lucia)]. Non c’è però nelle poesie di Isa Morando soltanto la tematica della fuga del tempo, cui è legata quella del tuffo nel passato e del ricordo. C’è in esse anche un vivo sentimento della natura (“Il miracolo, a un tratto. / Il sentiero si apre in larga strada. / … / Colline intorno, campi e prati in fiore / nell’azzurro del cielo”, Cammina cammina…); e c’è la presenza dell’altro, che molto può darci con la sua umana ricchezza (“Fra le case / la piccola terrazza / si fa calda emozione di parole. / Di gesti. Di figure”, Incontro). Sono, queste, poesie che confermano le doti della nostra poetessa, già nota per le sue precedenti sillogi, Duemiladieci e dintorni (2011) e Il quaderno di Matisse (2012); doti che possono riassumersi nell’estrema eleganza del dire, nella notazione colta e nell’incisività dell’espressione, che rendono fluidi e armoniosi i suoi testi. Le poesie di Egidio Morando si presentano invece come le prime edite da questo autore, quantunque siano state scritte in un lungo arco di anni. Anche in esse troviamo alla base il tema della “fuga temporum”, che procede inesorabile: “Tutto muta nel tempo” (Orme). E ancora: “… non è il tempo a scorrere; / è la vita che scorre, anzi fugge” (Soffermati a pensare); “Tempo di giovinezza / … / tempo di cieli e venti / e d’ombre brulicanti” (Tempo di giovinezza); ecc. Un tema, questo del fuggire del tempo, che in Egidio Morando trova forse il suo testo più significativo ne La meridiana, la poesia che chiude il libro: “La meridiana, serva impassibile del sole, / ne cattura l’inesorabile luce, / traducendola in ombra, l’

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ombra eterna. / Tu non cercare di ipotizzare / l’ attimo d’ombra della meridiana / che, solo, ti apparterrà. / Ti accarezzerà appena e passerà. / C’è sempre tanto da fare, / però la meridiana, / quale dio, non ne è consapevole”. Strumento per misurare lo scorrere del tempo, la meridiana diviene così quasi la metafora della nostra condizione umana, in continuo mutamento. Poeta dalla vena sovente satirica o ironica, Egidio Morando è naturalmente portato al sorriso, come avviene in Sogni, dove tra l’altro si possono leggere questi versi: “Ho sognato l’amicizia. / Ma non sapevo che, per la sola sua apparenza, / si pratichino tariffe non esposte, quindi illecite”. Si legga anche Fantasie agostane: “Dai giornali trapela / che il fisco ti pela. / Il fisco è Visco, / un vischioso vorace geco”. Vivo è inoltre in lui il gioco delle immagini, talvolta di stampo quasi espressionistico, come: “Ma l’orizzonte del cielo / è una ferita slabbrata” (So che rifiotta un turgere di panni). Si vedano anche: “L’ urlante mare del libeccio” (La pazienza del ragno) e “Ciechi muri trattengono / l’impeto assorto / di gru d’acciaio” (Dietro gli spigoli). Altre volte in Morando l’immagine è più lieve e distesa, come avviene ne I tempi delle colline: “Le colline in aprile galleggiano / su grondanti materassi di nebbia”. Si veda anche: “Sopra il brillio del mare che disquama” (Ivi). Genovese di nascita, Egidio Morando ha voluto rendere un omaggio alla sua città; e lo ha fatto con una poesia, Genova – 5 novembre 2002, nella quale narra come “Maestrale – greco – libeccio / … / si sono dati convegno nel porto di Genova”, sicché la città risplende di luce più viva, discoprendo tutti i suoi contorni in maniera quasi irreale e rivelandosi magicamente, come non mai, nei suoi “colori tesi e frementi”. A lettura terminata si ha l’impressione di aver incontrato un libro sicuramente valido, frutto di una collaborazione che ha dato luogo a un insieme armonioso e compiuto, certamente degno di attenzione. Elio Andriuoli

DOMENICO DEFELICE CANTI D’AMORE DELL’UOMO FEROCE Ed. Pomezia Notizie, Pomezia (RM) 1977, Pagg. 126, Lire 3.500 Canti d’amore dell’uomo feroce è raccolta poetica di Domenico Defelice, che si presenta autobiografica, mette insieme aspirazioni giovanili in tutte le sue esaltazioni; testo francese a fronte, a firma di


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Solange De Bressieux, membro della Società dei Poeti e Scrittori Francesi, protagonista di primo piano, con all’attivo ventisette volumi di poeti italiani tradotti in francese (al 1977) e collaboratrice di diverse riviste internazionali. Mentre Maria Grazia Lenisa, legata da amicizia, ce lo presenta come un poeta del canto “pur con tutte le sue ribellioni sintattiche”; richiama l’attenzione sulle angosce dell’ uomo feroce distante dalle opere d’amore precedenti, come per esempio di 12 mesi con la ragazza, tradotta per la Francia da un altro grande poeta che è Paul Courget. Il volume è diviso in tre parti legate fra loro (L’ uomo feroce, Canti per Clelia, Canti per i vivi e per i morti); la copertina, dello stesso autore, ha un disegno inquietante di un uomo con la clava. Arricchiscono il testo altri disegni e foto di famiglia. Apre la raccolta ‘Strimpellata dell’uomo feroce’, che giudico una sorta di manifesto poetico, su cui vale indugiare: “Se le tue dita arpeggiano / il mio viso un deliquio mi sento,/ al politico ladro non penso,/ al mafioso che ride,/ al turpe che viscido s’ aggira/ fra le ombre del Colosseo.// …// Dormire sopra una nube/ è abitare la casa di un re.// …// Ti dà fastidio la rima?/ Io non la cerco. Se casca/ ci

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stia.// …// … Il pianto/ mi si addice più del riso./ Sono l’uomo feroce e mansueto./ Sono figlio di quella società/ che ha messo in croce Cristo e che l’eterno/ brama”. Così si sente diviso fra Caino e i fratelli del Sud che sudano e cantano, tra la passione d’amore che lo divora e che pur ha consumato “sulle acque/ dello Stretto, in una barca…” e l’ interesse per i viaggi degli astronauti. Domenico Defelice vive a Roma la quotidianità; trova evasione fra le sale a luci rosse del Cinema Volturno e l’avanspettacolo dell’Ambra-Jovinelli; scorrazza e passeggia sotto la luna tra i Fori Romani e i vicoli, respira l’aria impregnata dei freschi prati che lo riportano alle sue origini. Impastato dalle lordure del mondo comprende che l’uomo sta perdendo la sua purezza; la nuova civiltà mette insieme per le strade scarichi dei motori rombanti e delle fabbriche, falchi e carcasse residue dei mattatoi; mentre i pensieri vagano per monti e campi, ruscelli e boschi vergini. Sente su di sé le contraddizioni del tempo in cui vive e piange per i sogni distrutti delle giovanette; pensa al richiamo di John F. Kennedy di “porre fine alla guerra”; ma sa che l’ uomo ha finito per fare solo buoni propositi che si rinnovano nelle cerimonie religiose più solenni. In un acrostico svela una Linda, baciata in un istituto scolastico, il cui vuoto è stato presto riempito da Margherita. L’avventura femminile trova meritatamente epilogo nei Canti per Clelia, per sublimare un sentimento che si è suggellato per tutta la vita; lo ha fatto mutuando dal mito, rinnovato ai suoi giorni. Clelia “Come fata” e in sua assenza sente una grande tristezza e solo con lei il suo canto d’amore si fa più aulico, bella come Venere e dal viso serafico, che pur lo crocifigge, o è la ‘Moderna eroina’, altera romana che sfugge a Porsenna re di Chiusi per abbracciare “quest’impossibile uomo del Sud”. Qui mi sembra insuperabile, impregnata di verità “So che il mio silenzio ti rattrista,/ …// Non crucciarti e perdona:/ tu stai in cima al mio cuore.” (pag. 78). Mi limito a considerare ammirevole, la testimonianza di affetti e di sentimenti di amicizia, che si arricchisce di ulteriori medaglioni maturati nel frattempo. Domenico Defelice rivolto al padre commenta: “Noi del Sud/ soffriamo tutti degli stessi mali/…// all’effusione blindato/ è il cuore del meridionale.”; mentre riferendosi alla madre dedica “Un canto fioco/ ché il troppo affetto la poesia uccide/ come il troppo dolore”; ricorda i nonni (Domenico e Carmela; Antonio e Annunziata); i genitori (Giuseppe e Rosa), la moglie Clelia, i figli Gabriella e Luca [il terzo non era ancora nato]. E non dimentica gli amici, fra cui Franco Saccà, Francesco Pedrina, Eleuterio Gazzetti, Nicola Iacobacci, Evi Boc-


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cone, Solange De Bressieux, Ada Capuana, Maria Grazia Lenisa, e la brigata dispersa (Adelchi Spinelli, Rocco Cambareri, Guglielmo Germano, Aldo Onorati). Può darsi che questa sia la parte meno poetica, ma la giudico ricca di sentimento e di valori. Tito Cauchi

SANTO CONSOLI LA TUA PRESENZA Il Convivio, Castiglione di Sicilia (CT) 2011, Pagg. 64, € 10,00 Il poeta siciliano Santo Consoli, nato nel 1946 alle falde del grande vulcano, a Misterbianco, ha un curriculum letterario di tutto rispetto: docente di Lingua e Letteratura Inglese nel Veneto per quasi un trentennio, ha pubblicato 24 raccolte, meritando considerevoli riconoscimenti. Enza Conti nella prefazione a La tua presenza, oggetto della nostra attenzione, afferma che protagonista vero della raccolta è il ‘ricordo’, che prende corpo attraverso “l’io interiorizzato e la necessità di superare la solitudine” grazie alla parola che si fa veicolo di un percorso esistenziale. I componimenti, dal verso libero e pur misurato, sono generalmente brevi, sono lampi che illuminano angoli di vita mettendone a vista aspetti arcani come le radici di due piante, quelle del Poeta e quelle della persona mancante, che si dispiegano in “Immagini vere,/ intagli sulle pareti del cuore.”, uscendo dalle tenebre. Il Nostro ha presente di continuo l’ombra della morte, dell’assenza, ma non si disarma; continua a parlarsi e a rivolgersi a un volto che gli appare in un’aura magica. È così che l’immagine si materializza negli occhi, nei capelli “sparsi al vento”, nelle dita che gli sfiorano il viso, fino a fondere pittura e poesia, così che “I nostri colori/ si salderanno/ in una infinita/ Vita della Morte.” (pag. 15). La persona cui si rivolge, mi pare sfumata in una emozione così profonda che amalgama le persone a prescindere da particolari vincoli; questa è la forza dell’amore che ci tiene uniti al genitore come i rami all’albero, o come un padre al proprio angioletto, o anche ci unisce agli elementi della natura; o, ancora, ci unisce ai sommovimenti interiori, ai cari che non ci sono più e a noi stessi, vissuti e rivissuti. Santo Consoli si nutre delle immagini che si concretizzano, trovando sollievo nella figura esile che fuga le ombre, e non di meno il cielo non appare del tutto schiarito: il palcoscenico della vita gli appare muto. Ma non rinuncia a cercare la bellezza del mondo, nel profumo dei prati, nell’acqua placida del mare, nelle cime delle montagne, nei colori

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dell’arcobaleno, nella tenerezza dei fanciulli, sulla scogliera. Ne La tua presenza avvertiamo un gran bisogno di conforto, come il gigante dormiente della sua Sicilia; questo è ciò che mi pare di comprendere nella conchiglia più volte evocata, nel vedere il Poeta accovacciato sulle ginocchia, nel vedere che qualcuno gli asciuga le lacrime. Egli sopperisce al vuoto con l’eponima che conclude l’itinerario esistenziale: “Ho vissuto con te/ il giorno perduto,/ la follia/ della mia poesia,/ le pagine del mio cuore./ Ho aspettato con te/ il sorriso di un giorno nuovo,/ la pazzia della gioia.” Tito Cauchi

FABIO DAINOTTI SELECTED POEMS Gradiva Publications, New York 2015,Pagg. 68, $ 20,00 Fabio Dainotti è nato a Pavia nel 1948, ma vive in Cava de’ Tirreni (Salerno) ed è un appassionato di Dante. Con Selected Poems propone componimenti editi e inediti. Il testo è scritto in italiano nelle pagine pari e in inglese a fronte nella traduzione di Rosaria Zizzo. Le brevi notizie sull’autore sono solo in inglese. Alcuni fra i testi citano versi in italiano, in latino e in spagnolo di scrittori e poeti come Corrado Alvaro, Saba, G. Gozzano, Ledo Ivo, Quasimodo, Lucrezio, Catullo, Neruda, Lorca, Proust, P. Celan; sono versi in dedica al fratello Gabriele (credo morto prematuramente), alla madre (abbattuta dalla malattia), al padre, alla nonna Anna Maria, a Elvira, Maria Giovanna, Celeste, Carla, Marilena, a T. Mann, a Francesco Siani. La poesia di Fabio Dainotti è polifonica, ora in un dialogo interiore per un confronto talvolta serrato, talaltra placido, avendo qualcosa da rimproverarsi e di rinnovarsi con lacrime purificatrici; ora mi sembra di avvertire un sottile filo di malinconia, un nascere e un morire insieme, una nostalgia che porta lontano, il tentativo di superare il sentimento della morte, rivivendo il tempo passato. Ora si fa criptica, nell’ombra della morte che ha devastato la madre, nel desiderio di tornare bambino e abbracciarla. Si nasce con la morte nel cuore fin quando la fiamma che brucia dentro non si trasformi nella passione che ci faccia desiderare qualcosa, più d’ogni altra; ma si fa anche velata di un sentimento d’amore, che in un unico grande abbraccio, stringe a sé ogni cosa. Selected Poems, ora si colora di accenti fantastici che portano il Poeta nei suoi luoghi dell’anima e negli incontri con persone care, si tratti di una cas-


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siera a Milano o presso una stazione, del transito per Vicenza; l’addio alla figlia che parte; la casa a Battipaglia; la compagnia del cane; una passeggiata al lungomare o ai navigli di Milano. Od anche oltreconfine, come lo scalo a Malibù “di una lenta, annoiata maliardaria”, dove in quest’ultima parola, la prima ‘a’ è graficamente diversa dalle altre per un gioco lessicale; o si va a Brooklyn. D’altronde, Fabio Dainotti divertito, ammette: “Ho girato l’Europa in una vita anteriore./..// C’è uno che va in giro coi suoi versi/ in tasca, li declama nei locali, vive/ vendendo libri che lui stesso stampa; dicono/ che sia il poeta italiano più letto.” Credo che questa chiusura semiseria ne indichi il senso della vita e così abbia voluto caratterizzare il suo corpus poetico (mi sono fatto guidare dalla suggestione del climax poetico). Tito Cauchi

ANTONIO ANGELONE GLOSSARIO DIALETTALE FORLIVESE Francesco Ciolfi Ed., Cassino 2015, 95 pagg. 12 € Antonio Angelone, il direttore della rivista “Sentieri molisani”, oltre ad avere scritto libri di poesia e commedie, è anche da sempre uno studioso della storia, delle tradizioni e del dialetto del Molise, con particolare riguardo al suo paese natale, Forli del Sannio (Fòrli, senza l'accento sulla i) in provincia di Isernia. E' fresco di stampa un suo interessante “Glossario dialettale forlivese”, un saporoso volumetto di 2000 termini dialettali, iniziato nel 1985 e, dopo varie interruzioni, completato nel 2015. In una nota introduttiva, lo stesso Autore, che palesemente tende ad allargare il discorso da una parlata locale ai dialetti delle varie zone d'Italia, così conclude il proprio discorso : “ la parlata dialettale, a differenza della lingua nazionale, è stata sempre una “lingua” ricca di contenuto morale, religioso e sociale, abbastanza calda e simpatica. Secondo il giudizio di alcuni, il dialetto con il passare del tempo sarebbe destinato a scomparire. A giudizio dello scrivente, invece, questo meraviglioso patrimonio linguistico-culturale che ha fatto la storia e la cultura del nostro Paese per secoli, qualunque siano l'evolversi della lingua in Italia e l'inserimento di termini di lingue straniere, è e resterà sempre la più bella e la più calda espressione popolare, pur subendo anch'essa, come tutte le lingue, le trasformazioni a cui ogni società è soggetta.” Angelone, in fin dei conti,è un romantico, è un artista, e ha dato innumerevoli dimostrazioni di innamoramento per il suo paese. Ma non può, in definitiva non notare, e con dispiacere, che la globa-

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lizzazione avanza in tutto il mondo a grandi passi, e non tiene conto di certe realtà locali, per quanto amate e preziose.. Il dialetto sembra destinato a diventare sempre più un oggetto di indagine per studiosi e specialisti, seguendo il destino generale di avvicendamento ( per non dire nascite e morti) anche nel campo culturale, e più propriamente glottologico. Questo Glossario è preceduto dai testi approfonditi e interessanti di due preparate studiose : la Prefazione di Roberta Iannacito Provenzano, della York University di Toronto, Canada, e l'Introduzione di Ida Di Ianni. Luigi De Rosa

DOMENICO DEFELICE A RICCARDO (e agli altri che verranno) Il Convivio, 2015, pagg. 64, € 10,00 In “A Riccardo (e agli altri che verranno” le composizioni poetiche esprimono con efficacia acute osservazioni sui comportamenti, e i sentimenti di amore intenso, spesso uniti a riflessioni profonde sulla vita personale e su quella generale, sul vero senso della vita. Gli importanti insegnamenti morali scaturiscono dalle pagine con naturalezza e sensibilità. Caterina Felici

EUGENIO MORELLI LA SOLITA VITA PUBLIMEDIA - Febbraio 2015, € 10,00. Prefazione di Alessandro Biz Editore. Presentazione di Eugenio Morelli. Il dott. Eugenio Morelli è tanto affezionato all’A.L.I.A.S. che ogni suo libro è presente nella nostra biblioteca. Un dono speciale che io e tutti i nostri autori, apprezziamo con tanto interesse ed entusiasmo. Questa sua splendida creazione è un toccasana, perché con tanta responsabilità e amore, dà tanti consigli utili su come vivere questa nostra vita, che quotidianamente è colma di problemi. Il nostro dott. Eugenio Morelli ci indica la via per vivere meglio: “Come fossi il suo angelo custode decisi di entrare in azione per aiutare il mio amico ormai trascinato passivamente dalla sua travolgente passione, che gli aveva fatto perdere il lume della ragione.” Pagg. 26. Il Nostro Autore, ci presenta tante vicende vissute


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personalmente con persone di varie mentalità, soggetti depressi, soli, disperati, drogati, anche dei suicida, che lo avevano portato a conclusioni sconvolgenti, fra tante drammatiche vicende, coinvolto personalmente, ha scoperto che la preghiera è il porto sicuro per trovare la pazienza, la speranza e il coraggio per affrontare i problemi e cercare la giusta via della salvezza. Dio è sempre con noi e pregare ci rende fiduciosi e pronti ad accettare le avversità, la preghiera è la medicina che conforta il cuore bisognoso di cure e affetto per guarire. Eugenio Morelli è un bravissimo Medico, un Medico Speciale, spiega in questo interessantissimo libro, come difenderci dai tanti mali che affliggono l’ umanità, pronto sempre ad aiutare chi soffre, lui molto modesto e colmo d’amore inscindibile, si definisce sempre come il Signor Nessuno, ma chi lo conosce bene, lo stima, lo apprezza, desidera con tutto se stesso il suo aiuto, che lui è sempre pronto a donare immancabilmente, ed ecco che per tutti è il Signor Tutto, il medico dal cuore nobile, che straripa d’amore per il prossimo, sempre abile a sacrificarsi per i suoi pazienti ed a pregare, affinché Dio dà la forza e l’ingegno di guarire i mali che si presentano sempre puntuali per far soffrire i deboli e i bisognosi di cure. Noi siamo fortunati, abbiamo il Nostro Signor Tutto che prega per noi e ci fa guarire da tutti i mali. Invito tutti gli amici vicini e lontani, di leggere questo capolavoro, che contiene la magia del vivere meglio, LA SOLITA VITA! Giovanna Li Volti Guzzardi Australia

RIK SMITS L’ENIGMA DELLA MANO SINISTRA Odoya edizioni, 2013, 293 pagg., € 18.00 Le leggi si dividono in due grandi categorie: quelle scritte (che sono solo carta straccia e possono essere modificate e/o annullate del tutto dai despoti del momento) e quelle Non Scritte, che hanno un peso ed un valore ed un’influenza assai maggiore delle prime, consolidate dalla cattiveria naturale degli umanoidi e dalla tradizione plurisecolare. L’intero Universo si basa su due Leggi Non scritte, note ovunque e applicate da tutti con disciplina comunista. I Legge: Articolo Quinto: chi ha il coltello dalla parte del manico ha sempre vinto. II Legge: Tutto ciò che è diverso è sbagliato. Tutto ciò che è sbagliato è malvagio. Tutto ciò che è malvagio va eliminato.

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Il libro che oggi presento mostra, col massimo della chiarezza, l’applicazione della Seconda Legge Non Scritta. I Mancini sono tutti figli del Diavolo ed esseri eminentemente negativi. Perciò vanno fuggiti oppure obbligati a scrivere con la destra, l’unica mano giusta. Per completare del tutto questo discorso, dirò io due parole sulla questione. Affermare che il Lato Sinistro, in generale, è del Diavolo, significa ammettere automaticamente che Dio è solo un socio paritario al 50%, giacché, incapace e limitato com’è, ha potuto creare solo il Lato Destro di ogni cosa. Un simile atteggiamento non è solo blasfemo, ma, soprattutto, sciocco e pericoloso. Nel Regno di Aristonia, che non è un Paese Civile (e appunto perciò le cose vanno tutte benissimo!), quando due Reietti si incontrano, tendono la Mano Sinistra, GUANTATA DI ROSSO, a dita larghe e dicono: Ti saluto con la mano del cuore. Ti sono amico. Se uno straniero, imbecille e destrimano, chiede di stringere la Mano Destra, GUANTYATA DI BIANCO per i Reietti, viene punto a tradimento con una puntina da disegno: La Destra è foriera di tradimento. In effetti, Cavallo Pazzo, celebre capo Sioux, salutava gli amici con la sinistra, perché la destra stringe il pugnale e impugna la penna… con cui firmare trattati falsi, imposti dai Bianchi, doppiogiochisti e traditori! Questa è Storia, signori! Rik Smits, mancino assoluto (ovviamente!), ha messo già uno studio davvero interessante sul mancinismo nella Storia e su quanto sia stato combattuto e/o malvisto dai Normali (che sono sempre e comunque in torto, perché 100 vale assai meno di 1… giacché prevede due zeri! E zero non è che la Massa, mediocre ed incapace!), notando la questione dai più vari punti di vista. Per esempio, dal punto di vista religioso, ma anche da quello pratico (presso le popolazioni primitive, all’inizio del mondo), ma anche nel Mondo dell’Arte (Madonne con Bambino; la Legge di Tintin), seguitando a considerare la faccenda perfino dal punto di vista fisico naturale, dovuto o alla spontaneità o all’educazione (sbagliata) ricevuta dai propri genitori. E’ un libro molto chiaro e preciso, che spiega soprattutto perché i Diversi, in senso lato (non solo i Mancini) sono sempre stati cacciati con odio e sospetto dagli abilioni. E che spiega con chiarezza che la Caccia alle Streghe fu più una manovra politica da parte di Stato e di Chiesa che un fenomeno effet-


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tivo rispondente ad una realtà vera e riconosciuta. Ma la cosa più interessante di tutte è che questo testo, come suggerii nella premessa, mette in particolare evidenza la cattiveria tipica e naturale degli esseri umani che, stoltamente, ritengono che 100 valga più di 1 e che per questo la maggioranza ha ragione, sempre e comunque. E con quest’idea comunista in testa, ha giustificato vessazioni ed oppressioni sui mancini (ed altre categorie di Diversi), ritenendoli indegni di vivere e/o di essere accettati nel gruppo! Ma chi lo vuole il gruppo! Un aspetto davvero notevole sulla questione mancina è la Genetica… che influenza però solo il 10%, su 100 individui, a scrivere con la sinistra! Ma uomini protervi, come il dr. Brut (inglese), e gli infami Coen (USA) e Freud (Germania) (due ebrei, questi ultimi… ovviamente!), hanno suggerito che i Mancini sono la Disgrazia personificata creata da una genetica perversa: non solo sono sbagliati nell’ uso della mano e tendenzialmente criminali (preferibilmente assassini, come Jack lo Squartatore), ma condannati anche a morire 9 anni prima di qualsiasi destrimano che, per natura, è buono e bello. E purtroppo, canaglie siffatte, profittando del peso dovuto alla propria celebrità ed influenza, sono riusciti solo a spargere Male intorno a sé, facendo permanere pregiudizi assurdi in un mondo come il nostro ove la fredda Scienza vale assai più dell’ amore! Benché io sia destrimano assoluto, per mia natura spontanea, sono dalla parte dei mancini e se dovessi applicare io i metodi dei comunisti… lo farei ALLA LETTERA! Bisogna essere tutti uguali ed in una classe di 25 ragazzini c’è UN SOLO mancino? Si mozzi la destra agli altri 24. Che siano UGUALI al mancino ed imparino a scrivere con la mano giusta! Idee idiote meritano solo risposte idiote. Mi sembra corretto, tutto sommato! Un libro da leggere con molta attenzione, perché è davvero interessante e perché è davvero difficile da comprendere… specie per gli abilioni, ottusi e mediocri! Andrea Pugiotto

MARCELLO FOIS STIRPE Einaudi editore, 2009, 243 pagg. Questa storia comincia nel 1889, allorché Michele Angelo Chironi (19 anni, fabbro e figlio di fabbro) incontra Mercede Lai, 16 anni, che era andata in chiesa per pregare e trova il giovanotto al lavoro

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per una riparazione. Michele Angelo e Mercede sono, tecnicamente, due bastardi al 100%. Nel senso che sono due frutti illegittimi, e non riconosciuti!, di un’ora di piacere sessuale dei loro genitori. Due che si sono incontrati per caso, ma senza serie intenzioni di sposarsi e mettere su famiglia. Mercede è stata serva e quasi figlia della donna, la signora Lai, cui l’avevano affidata. Michele Angelo era finito al brefotrofio ed era stato adottato solo perché Giuseppe, fabbro di mestiere, rimasto vedovo e non essendo mai stato padre, non sopportava l’ idea di crepare senza lasciare un discendente purchessia! Così, i due scarti dell’amore mettono su famiglia e cominciano a fottere per far figli. Nascono due gemelli maschi, Pietro e Paolo, che saranno poi sgozzati, per furto, all’età di dieci anni. Poi altri due figli, maschio e femmina, a qualche anno di distanza. Nati morti, ambo. Poi altri due maschi: Luigi Ippolito e Gavino, pure loro a distanza di anni… E la storia seguita a dipanarsi, senza né lode né infamia, fra i pettegolezzi della gente, le cose fatte o non fatte per l’occhio del mondo, e, soprattutto, la consapevolezza che si nasce solo per fottere e far figli che, a loro volta, genereranno solo figli, e così via. Un bel programma di sviluppo demografico. Previsto dalla Bibbia, fra l’altro! E l’Amore? L’Amore non esiste. O meglio, Amore è il nome ipocrita di Sesso Procreativo. E basta. L’Amore, come sentimento e basta, va bene nei romanzi e per i pervertiti di cui è pieno il mondo (battone, omosessuali, pedofili, disabili di ogni genere…). La gente pratica non vive di Amore, ma di Programmi e di Disciplina! E la storia si dipana, fra il 1889 ed il 1943, con la stessa precisione – e freddezza – del rendiconto di fine mese redatto da Fantozzi rag. Ugo, da consegnare al Mega Direttore Galattico (il vero Dio in Terra ed in ogni luogo). Questo libro è la prova lampante, caso mai ce ne fosse bisogno, che l’Italia è solo un Paese di Santi e di Navigatori (due varietà di delinquenti sanguinari). E i Poeti? Dante Alighieri è solo nato a Firenze e Raffaello Sanzio solo ad Urbino e Carlo Goldoni solo a Venezia e Giovanni Verga solo a Palermo. Ma tutti loro appartengono alla Razza degli Artisti, nati, per volontà d’un Dio ironico ed umorista, in un paese di ladri, assassini, incapaci, voltagabbana ed intrallazzatori. Un paese dove non esiste né l’Allegria (appannaggio della Francia), né la Disciplina (appannaggio della Germania), né la Fede sincera (ap-


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pannaggio della Spagna) né un forte sentimento di nazionalismo xenofobo (appannaggio del Regno Unito, fino a poco tempo fa). Il testo di Fois non è che un’arlecchinata, senza né sale né sugo. Un pezzo di qua e uno di là. Originale? Mah!... Lo stile è manzoniano: si vede che s’è rassegnato a scrivere in lingua straniera, come quel polentone! Le parole dialettali che spuntano qua e là lo provano. Appartiene al Gruppo dei Dialettisti che, sotto sotto, lavorano per la creazione di 20 Satati sovrani, indipendenti l’uno dall’altro! L’adozione di Michele Angelo da parte di Giuseppe ricorda troppo da vicino I fratelli Cuccoli (Palazzeschi). La vita dura, tutta difficoltà e senza amore, rammenta troppo da vicino I Malavoglia, con un forte spruzzo de La vita agra. Il prologo, è un richiamo evidente di 1, nessuno, 100.000 (Pirandello). Oggi non ci sono più scrittori, ma ricamatrici di bianco, privi di idee e sempre seduti sul cesso, sperando che il cervello, inserito nelle natiche, si degni di partorire idee. Questa è la realtà odierna. E non c’è altro da dire. E Stirpe è uno spreco di soldi e di tempo. Ma è solo il mio modesto parere, come sempre. Fatevi la vostra idea! Andrea Pugiotto

LA SOSTANZA PRIMIGENIA Si è chiuso lo spazio, il bianco della neve tutto ravvolge intorno. Si è ristretta, tornata indietro la vita. Nel nulla tutto dileguato, a frantumi le strutture. Le poche cose divise, sostanza vera primigenia, rimane quello tenuto fra le mani. Sentimenti intensi, innalzamenti all’amore, azioni di bene, l’uomo ricrea se stesso. Ogni angolo riempie la donna come vaso, ricchezza di pane, calore fumigante, tutto sapore. Da dentro la dolcezza riversata piena di alimento con cura attenta. La neve, densa coltre di gelo, orla le superfici nella piatta afona atmosfera. Andiamo raggelati uguali a rami piegati sul tronco. Nei passaggi, segnati dalle pedate,

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sparute sagome in fila. Nuda la terra senza cielo è il mondo eterno che ci sostiene, sentiamo tutti insieme ritornati. Vedo mia madre, volto antico di sempre, nella dimora fatta unica, amata e felice. Famiglia e neve, rudimentali oggetti, persone che ricercano come cominciando nell’ammassato biancore il cammino retto, perso nelle ambiguità del tempo confuso nostro. Leonardo Selvaggi

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE AURORA DE LUCA PREMIATA AD ABANO TERME - Il 30 maggio 2015, nella cittadina termale in provincia di Padova, la nostra amica e collaboratrice Aurora De Luca ha ricevuto il Premio IPLAC X Premio Letterario Nazionale Voci - Città di Abano Terme, Sez. F, Libro di Poesia. Il Premio Speciale “Città di Abano Terme” le è stato conferito per il volume “Materia grezza”, edito dalla Genesi di Torino e recentemente presentato proprio alla Mostra del Libro della capitale piemontese. Alla brava e giovane poetessa gli auguri e i complimenti di tutta la grande famiglia di Pomezia-Notizie. ***


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CONVEGNO SU ANTONIO PIROMALLI Organizzato dall’Accademia Peloritana dei Pericolanti di Messina, dal Centro Internazionale Scrittori della Calabria e dal Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne - Università degli Studi di Messina, Cattedra di Filologia Classica - Ch.ma Prof. Paola Radici Colace, Cattedra di Letteratura Italiana - Ch.mo Prof. Giuseppe Rando -, martedì 9 giugno 2015 nella Sala dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti, Palazzo Rettorato dell’Università degli Studi, piazza Pugliatti, 2, Messina -, si è svolto un pomeriggio in ricordo di un Maestro che amò la Sicilia: ANTONIO PIROMALLI. A porgere i saluti sono stati il Ch.mo Prof. Girolamo Cotroneo - Emerito Università degli Studi di Messina, Direttore della Classe di Lettere, Filosofia e Belle Arti dell’ Accademia Peloritana dei Pericolanti -, il Ch.mo Prof. Mario Bolognari - Direttore del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne, Università degli Studi di Messina - e la Dott.ssa Loreley Rosita Borruto - Presidente del CIS della Calabria. A relazionare sono stati: il Ch.mo Prof. Giuseppe Rando - Ordinario di Letteratura Italiana Università degli Studi di Messina, Responsabile di Italianistica nel Comitato Scientifico del CIS - su “Piromalli poeta dall’analogia alla profezia”; il Ch.mo Prof. Antonino Zumbo - Ordinario di Filologia Classica, Prorettore Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria, Comitato Scientifico del CIS - su “Antonio Piromalli e Messina”; e la Ch.ma Prof. Paola Radici Colace - Ordinario di Filologia Classica Università degli Studi di Messina, Presidente Onorario del CIS, Responsabile del Teatro Antico e Moderno - su “Le pagine siciliane di Antonio Piromalli”. Presente il figlio Dott. Arch. Lanfranco Piromalli e un foltissimo e qualificato pubblico. *** PRESENTATO “IL VIAGGIO STELLARE” DI GUIDO ZAVANONE - Giovedì 11 giugno 2015, alle ore 16,30 presso l'Alliance française de Gênes (Via Garibaldi 20) - Genova - il prof. Vittorio Coletti, ordinario all'Università di Genova, ha presentato il poema “Il viaggio stellare" - "Le voyage stellaire" di Guido Zavanone. Nell’ occasione è stata inaugurata la mostra di quadri di nove pittori liguri: Milly Coda, Gigi Degli Abbati, Walter Di Giusto, Sergio Giordanelli, Luigi Grande, Bruno Liberti, Sergio Palladini, Raimondo Sirotti, Giuseppe Trielli . Letture, in francese e in italiano, di Viviane Ciampi e Milly Coda. L’ avvenimento ha avuto il patrocinio della FONDAZIONE MARIO NOVARO di Genova e dell’ ASSOCIAZIONE CULTURALE IL GATTO CERTOSINO. La mostra aveva per titolo: “La Poesia in-

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contra la Pitura”. Ecco, dal Catalogo, Taccuini d’artista di Guido Sommariva: “Viaggio col poeta. La poesia incontra la pittura”: un titolo siffatto non può non rimandare immediatamente, nella sua prima parte, all’itinerario celeberrimo e mirabile di Dante, guidato sapientemente da Virgilio e Beatrice, e fonte di ispirazione per artisti di ogni epoca, da Botticelli a Gustave Doré, fino a Salvador Dalì. Un titolo carico di suggestione e di fascino dunque, tanto più se, come in questo caso, la traccia per il percorso avventuroso che si dipana tra spazi siderali e appaganti paesaggi, appena superata la soglia del terzo millennio, è costituita da brani tratti dall’opera “Il viaggio stellare”, pubblicato nel 2009 dall’editore genovese San Marco dei Giustiniani nella collana Pietre di luna,

opera che si deve alla penna di Guido Zavanone, magistrato nonché uomo di lettere. Il volume si configura come un poemetto di 1372 versi, suddivisi in venticinque capitoli, e narra di un viaggio “lontano dal verdazzurro pianeta”; è la cronaca di un itinerario spirituale alla ricerca del senso della vita, attraverso galassie inesplorate e incontri con personaggi storici e contemporanei - e come non pensare al Piccolo Principe di Antoine de SaintExupéry?-, che si svolge in una coinvolgente dimensione onirica, e che cattura il lettore in un vortice fantasmagorico di sensazioni, suggestioni, riflessioni. Le stesse che ha suscitato nell’animo degli artisti coinvolti in questa iniziativa, promossa dalla Fondazione Mario Novaro. Milly Coda, Gigi Degli


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Abbati, Walter Di Giusto, Luigi Grande, Sergio Giordanelli, Bruno Liberti, Sergio Palladini, Raimondo Sirotti, Giuseppe Trielli: sono questi gli artisti che hanno “accompagnato” il poeta, in alcuni momenti del lunghissimo viaggio, con le loro opere - quasi rapidi appunti grafici annotati in un taccuino - e che trasmettono, con l’immediatezza del segno e la forza del colore, sensazioni, palpiti, emozioni, scaturite dalla lettura del testo. Dall’immagine iniziale della nuvola estiva “azzurrognola e fitta”, che si rivelerà essere lo spiritoguida del protagonista, tradotta da Sergio Giordanelli in un coacervo di azzurri grumosi e materici che sembra alludere ad una primordiale purezza; a quella di Bruno Liberti che “registra” l’ineluttabile morte di una stella, astro “fulgido più di cento soli” di cui pare poter cogliere le colate magmatiche o avvertire il crepitio nei rossi intensi, fino alla drammatica e terrificante profondità del buco nero evocato da Raimondo Sirotti, “un buio cupo, attonito, sospeso”, al fondo del quale, tuttavia, un guizzo di luce, “la figura trepida ed amica”, può riaccendere la speranza. Il “vorticare delle stelle” che riporta l’uomo alla sua dimensione infinitesimale nell’angosciante vastità cosmica, ispira le tavole di Sergio Palladini, mentre il turbinio travolgente del viaggio interstellare, “in laghi d’ombra e d’azzurro”, affiora nei lavori di Milly Coda, con le suggestive immagini di un volo etereo che possiamo immaginare arrestarsi repentinamente davanti ad inquietanti presenze, apparizioni concrete nelle figure di Luigi Grande, che suggeriscono le “tante piccole ombre rilucenti” dei milioni di vittime innocenti dell’insensibilità umana, sulla quale Zavanone ci induce a riflettere con gli affondi vigorosi dei suoi versi. Ed ecco ancora l’ angoscia delle “ombre viventi”, evocate da Walter Di Giusto con il suo palazzo-fortezza pericolosamente inclinato sull’acqua in un’atmosfera brumosa, resa con una sinfonia di grigi appena intaccata dal rettangolo luminoso di una finestra e nella quale la presenza umana - il poeta e la sua guida - si coglie riflessa in uno specchio. Le vivacissime e fantasmagoriche figure di Gigi Degli Abbati, talvolta rutilanti di colori accesissimi, illustrano i versi dedicati a Giordano Bruno; allusioni alla “realtà e irrealtà d’un sogno” nascosta, con la parole di Zavanone, “nell’infinita cavità” del Dio creatore. Infine, dopo l’agognato perdono, invocato dall’ uomo pietoso ma irraggiungibile, la rasserenante presenza della guida al timone “vigile e serena”, con “aspetto di donna e polena”, resa viva negli enigmatici volti dipinti da Giuseppe Trielli. Azzurri algidi e siderali o cromatismi accesi, segni forti e taglienti, luci ed ombre che trascolorano, organismi

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viventi e forme di pura astrazione: disegni, studi, bozzetti che, attraverso lo sguardo dell’artista, in una dimensione immaginativa e surreale, indagano e reinterpretano i versi del poema e, sviluppando i temi dei brani prescelti con diversi linguaggi e differenti tecniche, accompagnano il lettore/visitatore in una coinvolgente esperienza e lo invitano a scoprire, o a riscoprire, Il viaggio stellare di Guido Zavanone. Giulio Sommariva Conservatore del Museo dell’Accademia Ligustica Nella immagine: Gigi Degli Abbati - da “Il Viaggio Stellare” di Guido Zavanone: XII - Giordano Bruno”. *** ACCADEMIA COLLEGIO DE’ NOBILI - Istituzione storico – culturale fondata nel 1689 - IL GRAN CANCELLIERE Firenze, 10 giugno 2015 Prot. 06/CA/15 - Oggetto: scomparsa del nostro Protettore Perpetuo. Carissimi Accademici Cavalieri e Dame, Amici, nella serata di domenica 7 Giugno 2015 solennità del Corpus Domini ci ha lasciati, improvvisamente, il nostro amatissimo Protettore Perpetuo S.E. il Conte Francesco Falletti di Villafalletto. Le esequie si sono svolte nella chiesa di Sant’ Egidio a San Pancrazio in Val d’Ambra il giorno 8 giugno alle ore 16.00. La celebrazione eucaristica è stata presieduta dal parroco don Agostino Valeri e concelebrata dal nostro Priore Accademico H.C. Conv. Padre Michele Agostino Corvelli O.P. e da fra Gabriele Panzeri FFB del Santuario della Madonna delle Vertighe di Monte San Savino. Altre messe sono state celebrate in suffragio del Protettore in varie chiese. Il Depositario Acc. Dama Patrizia Linda Rossini ha fatto celebrare una Messa ieri alle 17.30. La Legazione dell’Italia Centrale domenica 14 giugno alle ore 10.30 ha fatto celebrare una santa messa di suffragio nella Chiesa Parrocchiale di San Michele Arcangelo di Ponte Buggianese. Lo stesso ha fatto la Legazione dell’Italia Meridionale e dell’Italia Settentrionale. Chiedo a tutti di pregare per il nostro Protettore Perpetuo, per la famiglia e la nostra Istituzione. Un saluto fraterno in Gesù e Maria Vergine. Claudio Falletti di Villafalletto Condoglianze da tutta la grande famiglia di Pomezia-Notizie. *** ASSEGNATI 3 PREMI ALLA NOSTRA COLLABORATICE MARIAGINA BONCIANI - Mariagina Bonciani, poetessa, collaboratrice da alcuni anni del nostro mensile, ha ricevuto ben tre riconoscimenti in questi ultimi giorni. Il 30


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maggio, infatti, ad Abano, le è stato assegnato il Premio Speciale, per la poesia “Verona” al “Voci Città di Abano 2015”; domenica 7 giugno, in Palazzo Vecchio a Firenze, Alessandro Quasimodo ha letto la poesia “L’ascensore”, finalista al concorso 2015 “La montagna incantata”; il 12 giugno, infine, a Poppi, Segnalazione Particolare della Giuria per il volume “Poesia e Musica” (Editore Menna, 2014). Congratulazioni! *** EUGENIO MORELLI - Eugenio Morelli è nato a Trieste il 29 agosto 1946. Scrittore, poeta, saggista e critico d’arte. Ha ricevuto la formazione presso l’ Università degli Studi di Trieste, laureandosi in Medicina e Chirurgia nel 1985 e iscrivendosi all’ Albo dei Medici Chirurghi e Odontoiatri l’anno successivo. Vive a San Pietro di Filetto, nel Veneto ed esercita la propria attività medica a Conegliano. Nel tempo libero coltiva quella che è la sua passione di sempre, ovvero la scrittura, pubblicando ogni anno diverse nuove opere. Collabora in maniera continuativa col periodico di informazione della Marca Tevigiana “Il Piave”, facendone parte del comitato di redazione. Ha pubblicato: “Senza titolo” (raccolta di aforismi, 1994), “Cocci d’umanità” (1994), “Vita e parole” (1995), “Il signor Nessuno Una persona qualunque con la passione di scrivere” (1997), “Uno specchio di parole” (2000), “Un po’ per vivere, un po’ per morire” (2000), “L’alter ego” (2001), “Vita in casa di riposo” (2002, segnalato, nell’anno, al Premio Internazionale per la Pace di Torino), “Il gioco delle combinazioni” (2003), “Non solo parole” (2003), “Giorno dopo giorno” (2005), “Frammenti di un mosaico” (2006), “L’acqua del ruscello” (2006), “La salute in Italia. Riflessioni di un medico” (2007), “La sinfonia del tempo” (2008), “Punto di riferimento” (2010), “Il cervello umano e l’imponderabile” (2011), “Viaggio nella psiche - l’umana commedia nella vita di ogni giorno” (2011), “Il pensiero negato” (raccolta di articoli, 2011), “Vita e Poesia” (2012), “Vivere e morire - un giorno come un altro” (2012), “Viaggi di Versi” (2013), “Pronto, guardia medica?” (2013), “Sentire” (2014), “La solita vita” (2015). Ha ricevuto molti premi, tra cui: 1° Premio saggistica “Noi e gli altri”, 1997; 1° Premio “Lizza d’ Oro”, 2000; Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la narrativa, 2003. Il 2 giugno 2003, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana, a Roma, è stato nominato Cavaliere Ordine al merito della Repubblica Italiana; nel 2006, a Roma, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana, il 27 dicembre, è stato nominato Ufficiale Ordine al Merito della Repub-

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blica Italiana. Nell’ottobre del 2008 è stato insignito dell’attestato di benemerenza al merito della sanità pubblica.

Domenico Defelice - Scaffale (1964)

LIBRI RICEVUTI CARLO DI LIETO - Leopardi e il “mal di Napoli” 1833 - 1837) una “nuova” vita in “esilio acerbissimo” - Prefazione di Sandro Gros-Pietro - Genesi Editrice, 2014 - Pagg. 1088 + XII, € 60,00. Carlo DI LIETO vive e lavora a Napoli. Docente di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, è assiduo collaboratore delle riviste “Ariel”, “Misure Critiche”, “Riscontri”, “Silarus”, “Vernice”, “Nuova Antologia” e fa parte della Redazione di “Gradiva”, oltre che di “Vernice” e de “Il Pensiero Poetante”. Ha a suo attivo pubblicazioni inerenti al rapporto Letteratura/Psicanalisi e saggi critici, in chiave psicanalitica, sulla produzione pirandelliana, su Carducci, Leopardi e Pascoli, sulla poesia Otto-Novecento e su quella contemporanea. Critico militante, collabora a quotidiani con articoli letterari. Inoltre, ha scritto saggi su Papini, Bonaviri, Colucci, Mazzella, Calabrò e Fontanella e le seguenti monografie: “Pirandello e <la coscienza captiva>” (2006), “La


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scrittura e la malattia. Come leggere in chiave psicanalitica <I fuochi di Sant’Elmo> su Carlo Felice Colucci” (2006), “L’identità perduta”. Pirandello e la psicanalisi” (2007), “Pirandello Binet e “Les altérations de la personnalité” (2008), “Il romanzo familiare del Pascoli delitto, “passione” e delirio” (2008), “Francesco Gaeta la morte la voluttà e “i beffardi spiriti” “ (2010), “La bella Afasia”, Cinquant’anni di poesia e scrittura in Campania (1960 2010) un’indagine psicanalitica” (2011), “Luigi Pirandello pittore” (2012), “Psicoestetica” il piacere dell’analisi” (2012). Vincitore per la saggistica del 1° Premio del XLI Premio Letterario Nazionale, “Silarus” 2009, del 1° Premio Letterario internazionale 12a edizione “Premio Minturnae” 2009 e del 1° Premio Letterario Internazionale per la saggistica “Emily Dickinson”, XVII edizione 20132014. Componente della giuria del “Premio Corrado Ruggiero”, per la poesia e la narrativa italiana; socio dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” e dell’Unione Nazionale Scrittori e Artisti. I suoi testi sono in adozione presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, l’ Accademia di Belle Arti di Napoli e presso la Cattedra di Lingua e Letteratura italiana dell’Università Statale di New York. Dirige la collana “Letteratura e Psicanalisi” della Genesi Editrice e dal 2013 è componente la giuria del Premio Nazionale di Poesia, Narrativa e Saggistica “I Murazzi”. ** ALDO CERVO - Letture critiche nella produzione letteraria di Amerigo Iannacone - Edizioni EVA, 2010 - Pagg. 76, € 10,00. Aldo CERVO è nato nel 1944 a Caiazzo (Caserta), dove vive. Oggi in pensione, ha insegnato italiano e latino nei licei statali. Ha pubblicato: “Ipotesi narrativi” (racconti, 1987), “Nient’altro che la verità” (racconti, 1991), “Dai De Angelis ai Cervo (Caiazzo e le sue memorie)” (memorie storiche locali, 1994), “L’autunno di Montalba (romanzo, 1998, 2a ed. riveduta 2012), “Le Testimonianze di Amerigo Iannacone” (critica letteraria, 2000), “Cronaca delle cose occorrenti in Caiatia ne’ suoi anni ‘70” (2002), “Gli aneddoti del vescovo” (racconti, 2004), “Carichi pendenti” (racconti, 2005), “Giovanni Papini nel ‘900 letterario italiano” (saggio critico, 2006), “La Cinciallegra” (romanzo, 2008), “Frequentazioni letterarie” (2010), “Le radici della memoria” (2010), “Caiatini contemporanei” (2011), “Profilo di un irregolare” (2011), “Pasquinate al peperoncino” (2014), “Frequentazioni letterarie 2”. ** VITTORIO “NINO” MARTIN - ...il piacere di scrivere...” - Prefazione di Mario Rolfini; liriche tradotte in francese da Claudia Da Re; in copertina,

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a colori, “Calle della Madonna”, di Vittorio Martin; all’interno, altre opere in bianco e nero e a colori dello stesso autore; in quarta, a colori, foto dell’ autore - Edizioni Cenacolo Accademico Europeo Poeti nella Società, 2015 - Pag. 80, s. i. p. Vittorio “Nino” MARTIN è nato a Stevenà il 10 agosto 1934. Pittore e poeta autodidatta (suo padre era un calzolaio). Artista poliedrico, dinamico, tecnicamente raffinato. Ha pubblicato tante opere, delle quali, alla rinfusa, ricordiamo: “Scritti e Schizzi”, “Parole e Disegni”, “Carta e Penna”, “Versetti e Bozzetti”, “Ieri e Oggi”, “Storie e Memorie”, “’Na s’cianta dhe storia”, “Stevenà e dintorni”, “Oltre la nebbia”, “Contrasto”, “Stevenà luci e ombre”, “Intrecci”, “Briciole di fantasia”, “Capricci”, “Mosaico”, “Passato Presente”, “Una luce nel buio”, “Spiragli di Luce”, “Gocce di vita”, “Di segni e di versi”, La stanza dell’anima”, “Silenzio dei sogni”, “Itinerario passionale”, “Stevenà amore mio”, “Scorie”, “Dal guscio della memoria”, “La voce del Poeta” (CD), “Pause di vita” (CD), Le sue poesie sono state tradotte in francese, spagnolo, inglese, tedesco, friulano. Gli sono state dedicate oltre 160 copertine su libri e riviste ed è stato recensito da centinaia e centinaia di firme importanti, su giornali, periodici e riviste specializzate. ** AA. VV. - Gesti di luce - Passeggiata letteraria sulle trace della scrittrice MARIA MESSINA DVD, documentario di Pina Mandolfo e Maria Grazia Lo Cicero, Palermo 2015. Ringraziamo il Dott. Antonino Testagrossa - Presidente dell’ Associazione “Progetto Mistrettra” - per avercelo inviato. Scrive l’illustre amico: “Questo DVD, che ho il piacere di omaggiarLe, è stato realizzato dalla Società Italiana delle Lettere, con cui abbiamo collaborato nell’organizzazione di un grande evento dedicato a Maria Messina, nella scorsa primavera. Si tratta della testimonianza di un impegno che da molti anni stiamo portando avanti, finalizzato alla valorizzazione del patrimonio culturale e artistico del nostro territorio./L’auspicio è quello di stimolare un autentico risveglio di tutte le forse sane, che possono dare impulso al cambiamento e rilanciare un comprensorio, come quello nebroideo, che merita per storia e tradizione di imboccare un percorso virtuoso di crescita e di sviluppo./Abbiamo avuto antenati che hanno saputo progettare e creare edifici e manufatti, ispirandosi al principio del “bello e dell’ornato”, è venuto il tempo di recuperare quello spirito e quella stessa sensibilità e di attuarla a tutti i livelli”. Il documentario, girato in occasione della passeggiata letteraria in onore di Maria Messina, è ambientato a Mistretta, città narrata dalla scrittrice. Con questo paesino, arroccato sui Ne-


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brodi, i suoi vicoli, i sontuosi palazzi e le chiese monumentali, Maria Messina instaurò un legame così forte da ambientarvi quasi tutta la sua produzione letteraria. Un paesaggio, quello di Mistretta, che alimenta “nelle più profonde radici” il suo animo mentre lo osserva “durante un bel crepuscolo d’estate, quando il cielo, tutto rosso e oro, accende i tetti delle case”. Questo si è cercato di riportare nelle immagini di questo lavoro, che riproduce anche la messa in scena di alcuni racconti, come se quei personaggi, descritti dalla scrittrice, tornassero a vivere in quelle strade. Maria Messina narra le donne, i loro desideri, i loro amori, ma, soprattutto, la loro condizione di vita, la rassegnata sudditanza, ai limiti della schiavitù, a loro riservata da un sistema culturale patriarcale. La regia del documentario è di Pina Mandolfo e Maria Grazia Lo Cicero; sceneggiatura di Pina Mandolfo; riprese di Maria Grazia Lo Cicero; montaggio di Marta Ruggiero; produzione, Associazione Progetto Mistretta e Società Italiana delle Lettere. Pina MANDOLFO è scrittrice, regista e sceneggiatrice. In campo letterario ha a suo attivo collaborazioni con riviste e quotidiani, la pubblicazione di saggi e racconti ed è stata tra le fondatrici della Società Italiana delle Lettere. In campo cinematografico ha curato l’organizzazione di numerose rassegne tra cui: “Il reale e l’ immaginario”, “L’immagine riflessa”, “Sesso, genere e travestitismi al cinema”, “Sally Potter e Virginia Woolf, rappresentazione del femminile”, “Vuoti di memoria”, “Le donne di Margarethe”. È autrice e co-sceneggiatrice del film “Viola di amore”, vincitore del NICE festival e del premio Capri. Sceneggiatrice e regista di lungometraggi, cortometraggi e documentari: “Silenzi e Bugie”, vincitore del Sotto18 Film Festival di Torino e Targa Cias, “Correva l’anno”, “Donne, sud, mafia”, “Orizzonti mediterranei: storie di migrazione e di violenze”, “Gesti di luce”, “Come un incantesimo”. Maria Grazia LO CICERO è docente di scuola primaria e formatrice didattica. In campo cinematografico, oltre che direttrice di fotografia, ha al suo attivo la regia e la coregia, con Pina Mandolfo, di lungometraggi, cortometraggi e documentari: “Silenzi e bugie”; “L’attesa”, “Carpe Diem”, “Giusto... è la vita”, “Io forse ma firu”, “Sara in rete”, “Correva l’anno”, “Donne, sud, mafia”, “Orizzonti mediterranei: storie di migrazione e di violenze”, “Gesti di luce”, “Come un incantesimo”. ** TITO CAUCHI - Profili critici - Premio Nazionale Poesia Edita Lenadro Polverini, 1a Edizione Anzio 2011 - 75 Recensioni - In copertina, a colori, “La Primavera” di Sandro Botticelli; in quarta, a colori, foto della Giuria: Angela Di Paola, Gianfranco Co-

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tronei, Tito Cauchi, Bertilla Crosara Polverini. Sono antologizzati: Adriano Accorsi, Cinzia Alphamaia, Bruno Amore, Maristella Angeli, Giovanni Aniello, Bettina Baldassari, Osvaldo Baldassarre, Amerigo Balsamo, Nevino Barbanera, Pietro Antonio Barbanera, Guido Basile, Daniela Basti, Clara Bianchi, Giovanni Bottaro, Carlo Bramanti, Emanuele Carelli, Maria Cassineri, Paola Casulli, Adele Catalano, Maria Vittoria Catapano, Antonino Causi, Fabio Clerici, Roberto Colle, Antonio Coppotelli, Leone D’Ambrosio, Ilaria Dernini, Grazia Di Lisio, Anna Maria Di Marcantonio, Angela Di Paola, Colomba Di Pasquale, Realino Dominici, Pasquale Ermio, Giovanni Galli, Roberto Gennaro, Giovanni Gentile, Annalisa Giorgino, Marina Giudicissi Angelini, Cesarina Giustozzi, Roberta Gozzoli, Lucio Isabella, Donato Ladik, Annibale Mandato, Francesco Manna, Fulvia Marconi, Luciano Mascioli, Stefano Massetani, Gianni Micciché, Fabrizio Miliucci, Giuseppe Napolitano, Antonio Nicolò, Patrizia Nizzo, Silvia Pascal, Silvio Perego, Renzo Piccoli, Fabio Poeta, Patrizia Portoghese, Mimma Raspanti, Simone Ruggeri, Domenico Ruggiero, Meth Sambiase, Paolo Sangiovanni, Patrizia Santi, Antonella Sergi, Salvatore Sibilio, Gian Piero Stefanoni, Conny Stockhausen, Rocco Giuseppe Tassone, Carla Tombacco, Antonio Turnu, Antonietta Ursitti, Remo Valitutto, Veruska Vertuani, Marco Vinci, Antonio Vitolo, Griffin Lou Zanutta. Editrice Totem, 2015, Pagg. 174, € 20. Tito CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie attività professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Calendario dei poeti” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2014). Monografia “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (2014). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’aperto. E’ incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di


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Poesia Edita Leandro Polverini, giungo alla quarta edizione (2014).

TRA LE RIVISTE ntl LA NUOVA TRIBUNA LETTERARIA - Rivista fondata da Giacomo Luzzagni - Direttore responsabile, Stefano Valentini, Dir. editoriale Natale Luzzagni, vicedirettore Pasquale Matrone Casella postale 15C - 35031 Abano Terme (PD). email: nuovatribuna@yahoo.it Riceviamo il n. \\8 (2° Trimestre 2015) del quale citiamo: “Carlo Emilio Gadda e Giuseppe Ungaretti”, di Luigi De Rosa; “Tradizioni letterarie. Il romancero spagnolo”, di Elio Andriuoli; “La leggenda di Tristano e Isotta nell’interpretazione di G. Von Strassburg”, di Liliana Porro Andriuoli e le firme di: Natale Luzzagni, Stefano Valentini, Rosa Elisa Giangoia, Pasquale Matrone (che, tra l’latro, recensisce “Michele Frenna nella sicilianità dei mosaici”, di Tito Cauchi). * LA RIVIERA LIGURE - Quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro - Presidente Maria Novaro - Corso Aurelio Saffi 9/11 - 16128 Genova e-mai: info@fondazionenovaro.it Riceviamo il n. 1(75-76), settembre 2014/aprile 2015, monografico, dedicato a Ivo Chiesa, con interventi di: Eugenio Buonaccorsi, Enrico Baiardo, Federica Natta, Matteo Paoletti, Marcella Rembado, Roberto Cuppone, Roberto Trovato, Livia Cavaglieri, Mauro Canova. * MAIL ART SERVICE - Bollettino dell’Archivio “L. Pirandello”, diretto da Andrea Bonanno - via Friuli 10 - 33077 Sacile (PN). Riceviamo il n. 89, marzo 2015, nel quale lo stesso Bonanno recensisce “Palcoscenico”, di Tito Cauchi e Domenico Defelice il libro di Andrea Bonanno “Il romanzo e la verifica trascendentale”. * SENTIERI MOLISANI - rivista d’arte, lettere e scienze, diretta da Massimo Di Tore, editoriale Antonio Angelone - via Caravaggio 2 - 86170 Isernia e-mail: sentieri.molisani@katamail.com Riceviamo il n. 1 (43), gennaio 2015, del quale segnaliamo le firme di: Brandisio Andolfi (che, tra l’ altro, recensisce “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici”, di Tito Cauchi), Carlo Olivari (“Alcuni momenti essenziali nella poesia di Imperia Tognacci”), Lino Di Stefano (<Antonia Izzi Rufo: “Un paese abbandonato”>) e poi ancora Orazio Tanelli,

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Luigi De Rosa, Leonardo Selvaggi, Giorgina Busca Gernetti, Giovanna Li Volti Guzzardi, Loretta Bonucci, Ciro Rossi. * IL PONTE ITALO-AMERICANO - rivista internazionale di cultura, arte e poesia diretta da Orazio Tanelli - 32 Mt. Prospect Avenue, Verona, New Jersey 07044, 973-857-1091 USA. Riceviamo il n. 1, marzo 2015, nel quale, a vario titolo, troviamo i nostri amici Anna Aita, Aldo De Gioia, Alda Fortini, Teresinka Pereira, Mariagina Bonciani e un mosaico di Michele Frenna. * SETTIMANE MUSICALI AL TEATRO OLIMPICO - XXIV Edizione 17/05/2014 - 06/2015, Vicenza, Teatro Olimpico - Grosso volume (inviato da Ilia Pedrina) di pagg. 208, che relaziona sul Festival 2015, soffermandosi su: “Aspettando il Festival”, “Eventi in programma”, “Seguendo il Festival”, “Progetto Giovani”, “Fuori Festival con Marsilio e Galla1880 Libreria”, “I protagonisti del Festival”. Le firme più importanti: Jacopo Bulgarini d’Elci - Vicesindaco del Comune di Vicenza -, Paolo Marzotto - Presidente Settimane Musicali al Teatro Olimpico -, Giovanni Battista Rigon - Direttore artistico del Festival -, Sonig Tchakerian - Responsabile progetto artistico per la musica da camera -, Giorgio Appolonia, Lorenzo Regazzo eccetera. Vengono, inoltre, riportati i libretti del “Don Giovanni” di Lorenzo Da Ponte, i “Canti veneziani” di Riccardo Held, “Il signor Bruschino” di Giuseppe Maria Foppa eccetera, opere eseguite durante l’ intera rassegna. Da pag. 180, a pag. 208, le note sui protagonisti del Festival. * IL SAGGIO - Mensile di Cultura del Centro culturale studi storici di Eboli, diretto da Geremia Paraggio, editoriale Giuseppe Barra - via don Paolo Vocca 13 - 84025 Eboli (SA) e-mail: ilsaggioeditore@gmail.com Riceviamo il n. 229 (aprile 2015) con allegato Il Saggio libri, poesia, arte n. 118/229, entrambi ricchi di articoli, poesie, rubriche. Invitiamo i nostri lettori ad abbonarsi (25 €) ed a collaborare. * SOLOFRA OGGI - La voce di chi non ha voce Direttore pro tempore Raffaele Vignola - e-mai: solofraoggi@libero.it Riceviamo il n. 4, aprile 2015, ricco, come sempre, di foto e di notizie. * L’ERACLIANO - organo mensile dell’Accademia Collegio de’ Nobili, fondata nel 1689 - Direttore responsabile Marcello Falletti di Villafalletto - Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (FI) e-mail: accademia_de_nobili@libero.it Riceviamo il n. 204206 del gennaio/marzo 2015, del quale segnaliamo


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“La vita e l’opera della serva di Dio Giulia Colbert Falletti di Barolo nella luce della spiritualità francescana” e la rubrica “Apophoreta” di Marcello Falletti di Villafalletto, il quale recensisce 5 volumi, tra cui il saggio “Maria Grazia Lenisa” del nostro direttore Domenico Defelice. * IL CONVIVIO - Trimestrale fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) e-mai: angelo.manitta@tin.it ; enzaconti@ ilconvivio.org Riceviamo il n. 1 (60) del gennaio-marzo 2015, sul quale troviamo le firme, oltre quelle di Angelo Manitta e di Enza Conti (“Alda Fortini”), di: Carmine Chiodo (“Maurizio Soldini, La porta sul mondo”; “Renato Fiorito: Legami”), Biplab Majumdar, Anna Aita, Brandisio Andolfi (che si interessa, fra l’altro, di Edio Felice Schiavone), Leonardo Selvaggi, Andrea Pugiotto, Giovanna Li Volti Guzzardi, Loretta Bonucci, Giuseppe Manitta (“Vittorio Martin”), Antonia Izzi Rufo, Isabella Michela Affinito, Domenico Defelice (“Cellulosa”, di Aurora De Luca), Aurora De Luca, Orazio Tanelli. Allegato il n. 26 di CULTURA E PROSPETTIVE, di pagine 112, con le firme di: Giancarlo Micheli, Franco Orlandini, Giuseppe Cappello, Claudio Guardo, Leonardo Selvaggi, Pietro Nigro, Armando Dittongo, Rossella Cerniglia, Orazio Tanelli, Corrado Calabrò, Pietro Civitareale, Carmen Moscariello, Gianfranco Longo, Antonio Crecchia, Salvatore Agati, Gaetano Zummo, Claudio Toscani, Guido Zavanone, Maria Lenti, Antonia Izzi Rufo, Francesca Luzio, Sabato Laudato, Angelo Manitta eccetera. * IL CENTRO STORICO - Organo dell’ Associazione Progetto Mistretta - Presidente Nino Testagrossa, vice Luciano Liberti, direttore responsabile Massimiliano Cannata - via libertà 185 - 98073 Mistretta (ME). E-mail: Ilcentrostorico@virgilio.it - Ci giunge il n. 5-6 (maggio-giugno 2015), del quale segnaliamo “A colloquio con il filosofo Dario Antiseri: Elogio del Liceo Classico”, di Massimiliano Cannata; “I Giganti in trasferta”, di Giuseppe Ciccia; “La nuova “Vara” dell’ Addolorata”, di Santino Cristaudo; “Una visita all’EXPO, prime impressioni”, di Salvatore Manno; “Le quattro cascate di “Ciddia” sul fiume Serravalle, in territorio di Mistretta”, di Filippo Giordano; “A cento anni dalla Prima Guerra Mondiale riemergono ancora voci significative riaffioranti da nuovi diari e lettere dal fronte”, di Franca Sinagra Brisca; “Mistretta 1630 cronaca di un riscatto”, di Francesco Ribaudo. A pag. 22: Ritratti, a cura di Giuseppe Ciccia “Il giornalista e scrittore Domenico Defelice”.

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LETTERA AL DIRETTORE (Ilia Pedrina a Domenico Defelice)

Carissimo Direttore, eccomi a te da Salò, quando ci arriverò! Si, perché la Municipalità mi ha invitato per il giorno 6 giugno alle ore 18 all'inaugurazione del 'MuSa', il Museo di Salò! A Salò, dunque, capitale della Repubblica Sociale Italiana, qualche anno fa, poi via di nuovo a Parigi, capitale di una nazione, di uno stato sovrano da sempre, guerrafondaio fino all'osso: infatti dal giorno 11 giugno in poi, fino al 14, vicino a Place Saint Sulpice, dovrò incontrarmi con Jeannine Burny per il Marché de la Poésie. Allora allo stand della Fondation Maurice Carême arriverà anche il regista Patrick Brunie, che ha ripristinato archivisticamente ed artisticamente il film 'L'Hinumaine' restaurandolo in modo eccellente, di cui darò ampio e dettagliato ragguaglio a tutti i nostri Amici di penna e di lettura! Ti lascio immaginare, mio caro, cosa succederà, visto che dove passo o arrivo provoco sempre gran confusione di intenzioni e di obiettivi, frullando in tutto e per tutto gli elementi, naturali e non, che fino a quel momento avevano un buon percorso ed ordine certo costituito. È la mia innocenza che lo consente, affiancata da un concreto fervore per il cambiamento, profondo, epocale, dignitoso e necessario come l'acqua che si beve, come l'aria che si respira, come il sole in fuoco che ci illumina, come la Terra che ci ospita chiedendo solo in cambio rispetto: tutto questo ci dà sangue nelle vene, che ci scorre in vita vera, poi arriveranno Musica e Poesia, Amore ed ogni altro tipo d'Arte e d'Invenzione, che abbian pure a tema la Morte, questo è umano, nobile, saggio, dall'Inferno al Paradiso, sostando un poco in Purgatorio per vivere l'abbraccio di Dante con Casella. Parto carica d'emozioni incredibili, tutto merito dei prestigiosi eventi in programma per la XXIV Edi-


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zione delle Settimane Musicali al Teatro Olimpico, che già ho potuto apprezzare: il mozartiano dramma giocoso in due atti 'Don Giovanni' con Giovanni Battista Rigon, Direttore dell'Orchestra di Padova e del Veneto e Maestro Concertatore per la partitura dell'esecuzione a Vienna del 1788, che ha visto il Mozart a guidare il proprio lavoro, un poco più sobrio rispetto alla precedente prova pubblica a Praga, nel dicembre del 1787. Anche per il 'Don Giovanni', come per il 'Così fan tutte' dell'anno 2014 e per 'Le nozze di Figaro' del 2013, gli è al fianco il regista Lorenzo Regazzo, in perfetta, complice, ironica sintonia interpretativa. Si, carissimo, perché grazie all'affabilità della giovane Elisabetta Rigon, Musa addentro alle segrete cose organizzative di questo complesso di eventi, mi sono già gustata, oltre al 'Don Giovanni', il concerto inaugurale 'Memorie de la noche fra musica classica, jazz e poesia', con la partecipazione di Sonig Tchakerian al violino, Pietro Tonolo al sax -sono in programma anche sue composizioni importanti-, Paolo Birro al pianoforte e Roberto Rossi al trombone, oltre al poeta Juan Carlos Mestre, voce recitante e bandoneon, con tre sue poesie in lingua spagnola: 'Asamblea', 'Antepasados', 'El poeta'... E non ti dico altro, per ora, perché dobbiamo tornare a Salò, visto che oggi, 16 giugno, passa qui per Vicenza il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella assieme alla figlia Laura e verrà sicuramente accolto nella cornice del Teatro Olimpico. Tra le due Repubbliche anni di storia, di popoli, di sangue, di soprusi, di trame occulte ed occultate, di ingiustizie programmate ed eseguite sfrontatamente...Dice il Sindaco di Salò, Giampiero Cipani: “Sono felice e orgoglioso di condividere con voi questo importante traguardo della comunità salodiana: l'inaugurazione del MuSa, alla fine di un lungo percorso, colma un vuoto che ....pesava sulla città... Il MuSa non è solo un' operazione dell'Amministrazione: ad essa hanno aderito e partecipato, fino a farne quasi un'opera corale, le istituzioni cittadine, ma anche collezionisti, istituzioni e soggetti privati che a Salò sono legati da rapporti di lun-

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ga, appassionata frequentazione o collaborazione. Altrettanto forte è stato il sostegno delle istituzioni scientifiche e di tutela, segno della validità del nostro progetto. Alla Fondazione Opera pia Carità laicale e al suo Presidente, Giordano Bruno Guerri, il più sincero ringraziamento per aver accettato la scommessa di una gestione che, ne sono certo, sarà all'altezza delle aspettative.” Il sindaco Cipani lascerà la parola, caro Direttore, proprio al prof. G. B. Guerri, filosofo e studioso della Storia d'Italia, con fuoco sacro e capacità investigative e divulgative eccellenti, il quale raggiunge sempre egregiamente gli obiettivi di ricerca che si prefigge. Dice il Guerri: “... Oggi i musei sono uno strumento di sviluppo: culturale, sociale, economico, turistico, non soltanto una raccolta, più o meno importante, di testimonianze del passato. L'Amministrazione comunale di Salò ha dimostrato di saperlo ristrutturando in modo superbo l'antico edificio di Santa Giustina. Finalmente le sue grandi, luminose sale ospitano, in un percorso tematico, tutte le preziose raccolte di una città che - non a caso – i dominatori della bellezza veneziani chiamavano 'la Magnifica Patria': opere d'arte, raffinata liuteria, antichi macchinari, la collezione del Nastro Azzurro, persino mummie stravaganti sono il tesoro che circonda il chiostro, dove si svolgeranno concerti, spettacoli, incontri... Il MuSa culmina, temporalmente, con la pagina più drammatica della storia d'Italia e della città che ne fu involontaria protagonista: la Repubblica Sociale Italiana, la lotta di Liberazione. Dello studio e della conoscenza di quel periodo ci faremo carico, affinché ne nasca una nuova consapevolezza del passato in vista di un futuro migliore. Che il Comune di Salò abbia voluto affidare il MuSa all'antica istituzione dell'Opera pia Carità laicale rappresenta appunto un ponte tra passato e futuro, cultura e territorio, economia e bellezza. A nome dell' intero Consiglio di Amministrazione mi impegno a percorrere quel ponte in lungo e in largo, affinché la Magnifica Patria lo sia sempre di più.” È intervenuta anche Cristina Cappellini, Assessore alla Cultura, Identità e


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Autonomie della Lombardia... Purtroppo io non c'ero ed il materiale che ti ho citato l'ho ricavato da quanto gentilmente mi è stato inviato sia dalla Segreteria del Vittoriale che dal Comune di Salò! Infatti ho avuto un febbrone da puledra selvaggia, oltre i 40°: questi virus di nuovo conio non vengono ostacolati dal nostro sistema immunitario con la solita febbriciattola, evidentemente, ma impegnano l' organismo tutto in uno sforzo immane. Ho informato subito i responsabili di questa importante manifestazione ed anche Patrick Brunie: lui ci è andato e mi ha inviato subito una email entusiasta, perché ha conosciuto in Jeannine, novantenne, uno spirito libero, guerriero, innamorata amante della vita e della poesia. Ho detto loro che se vedono una gabbianella lungo la Rive Gauche della Senna, un poco spossata per il lungo viaggio dalla Laguna di Venezia e con la goccia al becco per il raffreddore, quella sarò io, in missione ed in metamorfosi, per condividere la loro gioia. Il festival-mercato si è concluso il 14 giugno, ed io domani invierò a Jeannine la copia di Pomezia Notizie, numero di giugno, bellissimo, prezioso, con i ricordi di Aida e le foto di Papà! Quanti riscontri poi per il tuo 'A Riccardo e agli altri che verranno'! Grazie. Mi sei caro, nella mente e nel cuore. Un affettuoso abbraccio. Ilia Qui sotto: D. Defelice - “Presa d’acqua in giardino”, olio su compensato (1983), cm. 16,50 x 24 e “Il sogno” (1983), olio su tavola, cm. 14 x 73.

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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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