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L'edizione del Premio 2015/2016 va alla bielorussa
Svetlana Aleksievich autrice, fra l'altro, di “Preghiera per Cernobyl”
CERNOBYL: DAL DISASTRO NUCLEARE DEL 1986 AI FASTI DEL NOBEL PER LA LETTERATURA di Luigi De Rosa
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OPO Hiroshima e Nagasaki, Cernobyl e Fukushima. E tanti altri disastri nucleari. Ma lo sfruttamento dell'atomo a fini pacifici (energetici), oltre che a fini più o meno segreti di guerra di distruzione totale, non si ferma. Le società più evolute sono diventate così civilizzate da scoprirsi vittime (praticamente impotenti) del ricatto del terrore nucleare. 1986 . Cernobyl, Ucraina. Nella notte del 26 aprile 1986, all'una, ventitré minuti e 58 secondi, esplode il reattore n° 4 della Centrale Elettronucleare “Lenin”. Segue un incendio terrificante. Vengono chiamati i vigili del fuoco, così come stanno, senza protezioni specifiche antiradiazioni. Praticamente in mutande. Corrono, col senso di
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All’interno: Nino Ferraù, di Domenico Defelice, pag. 4 Valeria Giannantonio: Giulio Salvadori nel mondo delle idee, di Giuseppe Leone, pag. 8 Alfonso Severino, di Liliana Porro Andriuoli, pag.10 Lo specchio turco di Marina Formica, di Carmine Chiodo, pag. 13 Giuseppe Leone: una diagnosi fra Leopardi e Bene, di Nazario Pardini, pag. 16 Due libri di poesie di Nevio Nigro, di Elio Andriuoli, pag. 18 La Tunisia, dalle origini alla colonizzazione romana, di Leonardo Selvaggi, pag. 20 Giuseppe Gangale in un libro di Giovanni Giudice, di Carmine Chiodo, pag. 23 Michele Giuttari: Il mostro, di Giuseppe Giorgioli, pag. 26 Giuseppe Leone: D’in su la vetta della torre antica, di Tito Cauchi, pag. 32 La poesia di Gaston Bourgeois, di Leonardo Selvaggi, pag. 35 Blu, di Anna Vincitorio, pag. 38 Orlando Sora in un libro di Giovanna Rotondo, di Giuseppe Leone, pag. 40 Premio Città di Pomezia 2016 (Regolamento), pag. 43 I Poeti e la Natura (Esiodo), di Luigi De Rosa, pag. 44 Notizie, pag. 53 Libri ricevuti, pag. 55 Tra le riviste, pag. 58
RECENSIONI di/per: Tito Cauchi (Dalle radici alle foglie alla poesia, di Isabella Michela Affinito, pag. 46); Tito Cauchi (Insolite composizioni, di Isabella Michela Affinito, pag. 48); Gianfranco Cotronei (Salvatore Porcu, di Tito Cauchi, pag. 48); Elisabetta Di Iaconi (Emozioni sparse al vento, di Anna Trombelli Acquaro, pag. 49); Elisabetta Di Iaconi (Probabilmente sarà poesia, di Isabella Michela Affinito, pag. 49); Antonia Izzi Rufo (Nicola Festa, di Leonardo Selvaggi, pag. 50); Giovanna Li Volti Guzzardi (Emozioni sparse al vento, di Anna Trombelli Acquaro, pag. 51); Laura Pierdicchi (Probabilmente sarà poesia, di Isabella Michela Affinito, pag. 51); Anna Vincitorio (Probabilmente sarà poesia, di Isabella Michela Affinito, pag. 52).
Lettere in Redazione (Ilia Pedrina), pag. 59
Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Loretta Bonucci, Lorella Borgiani, Rocco Cambareri, Domenico Defelice, Luigi De Rosa, Michele Di Candia, Elisabetta Di Iaconi, Enrico Ferrighi, Béatrice Gaudy, Paola Insola, Filomena Iovinella, Giovanna Li Volti Guzzardi, Leonardo Selvaggi
dedizione che li contraddistingue, e “puliscono” alla meglio, terra, prodotti della combustione, grafite incandescente, etc. assorbendo dosi altissime di radiazioni. In seguito, moriranno tutti, chi prima chi dopo. Anche con tumori mostruosi, ma con diplomi d'onore, per i figli orfani e le giovani
mogli vedove. La confinante Bielorussia, pur non avendo centrali nucleari, verrà coperta da una nuvola radioattiva a causa della direzione dei venti, e pagherà un prezzo enorme al “progresso”. Inquinati esseri umani, animali, terreni, foreste, prodotti della terra. (Solo dopo quattordici anni, alla fine del 2000, è stato
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spento l'ultimo dei tre reattori rimasti accanto al quarto, quello esploso...). 1991. Crolla, e sparisce, de iure et de facto, l' immensa U.R.S.S. (Unione Sovietica), che durava da una settantina d'anni con l'obiettivo di puntare alla realizzazione del Comunismo. Tutti quelli di una certa età ricordano il periodo di Gorbaciov, e poi di Eltsin, e poi la C.S.I. (Comunità di Stati Indipendenti). Non si può dire con facilità se il disastro di Cernobyl abbia affrettato, e di quanto, e in che modo) la caduta dell'Unione Sovietica. Resta però una concatenazione di fatti e di avvenimenti... 1997. La giornalista-scrittrice Svetlana Aleksievic, bielorussa di lingua russa (nata in Ucraina il 31 maggio 1948) pubblica il libro “Preghiera per Cernobyl”, tradotto da Sergio Rapetti per le Edizioni e/o di Roma, un lavoro enorme, frutto di un grandissimo numero di interviste sul campo a superstiti, parenti, testimoni, protagonisti, uomini, donne, bambini, membri del Partito Comunista o critici nei suoi confronti. Fa raccontare la tragedia direttamente dai protagonisti e dagli interessati rimasti coinvolti loro malgrado. Ne esce un libro avvincente, dove la trama è rappresentata dalla realtà, dove la vita e la morte sono chiaramente nelle mani del destino. Dove si consumano trasformazioni storiche di portata intercontinentale partendo anche dai minimi particolari della vita quotidiana dei singoli. A volte si leggono pagine di un afflato eroico, non nel senso retorico, ma in quello più umano e poetico del termine, facendoci ricordare i tempi migliori della letteratura russa. Con lo stesso metodo tecnico-letterario (interviste, racconti dei protagonisti, relazioni, con un forte intreccio fra giornalismo e letteratura) la Aleksievich ha costruito gli altri suoi libri. Ricordiamo in modo particolare Ragazzi di zinco, sulla guerra disastrosa condotta dall'URSS negli anni Ottanta-Novanta in Afganistan “per difendere le frontiere meridionali dellUnione...”, e con migliaia di propri giovanissimi soldati restituiti alle fa-
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miglie in casse di zinco.... Per non parlare di Tempo di seconda mano (Editore Bompiani) coi racconti dei drammi personali nella dissoluzione quotidiana della vita “sovietica” (processo che per la scrittrice continua tuttora), dove la critica al regime non si disgiunge da una certa pena e commiserazione per un tipo di homo sovieticus in buona fede, che ci aveva creduto e magari ancora ci crede... Per tornare a Cernobyl, nel marzo 2011 la Aleksievic ha scritto: “Chiedete alla gente di Cernobyl che muore per le radiazioni che cos'è per loro il progresso. Se preferiscono un nuovo modello di cellulare o di auto, o la vita. Dopo Hiroshima e Nagasaki, dopo Cernobyl, pareva ovvio che la società civile scegliesse un'altra via di sviluppo. Lontana dall' atomica. L'era atomica doveva essere chiusa. E invece continuiamo a vivere con la paura di Cernobyl, terre e case deserte, campi che tornano ad essere foreste, animali che vivono là dove viveva l'uomo. Centinaia di chilometri di cavi elettrici morti e di strade che non portano da nessuna parte. Pensavo di avere scritto del passato. Invece era il futuro.” Luigi De Rosa D. Defelice: Sotto l’ombrellone, biro, 1981 ↓
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di Domenico Defelice N Nino Feraù1, poeta, non mancano le contraddizioni. Le troviamo nel tema religioso, quando grida, come Giobbe, pur riconoscendosi particola di Dio, cui nulla si possa offrire oltre noi stessi, giacché altro non siamo che suo dono; le troviamo nel tema dell’amore: ha amato tante donne, pertanto, singolarmente e egoisticamente tutte trascurate. Eppure lui non si sentiva, né era un egoista. Pur godendo la donna, l’apostrofa “serpente di radice che t’incurvi/su rocce impraticabili/ove io solo son giunto,/terribile fanciullo” e definisce, il suo, un “pazzo amore di corsaro”; le troviamo nel tema della Natura, se è vero che, mentre grida contro la cementificazione, non decide di vivere in una spelonca, ma si affanna e suda per edificarsi Villa Quiete ed appariva felice e orgoglioso quando ci confidava di aver ricevuto in dono, come succursale bolognese del suo Ascendentismo, un piccolo appartamento; le troviamo nel tema del sociale, perché, mentre canta la purezza e la quasi primordialità della Natura, non disdegna gli agi dell’era moderna, la sua tecnologia, i mezzi che gli permettono viaggi comodi e la conduzione della sua rivista Selezione Poetica... Ferraù è stato uomo moderno, al passo con
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il suo tempo, ma dall’animo puro, non ancora completamente atrofizzato dalle scorie dell’ inarrestabile progresso. Le sue contraddizioni, piccole o grandi, lui le conosceva, le giustificava e le spiegava col separare il poeta dall’uomo, per lui entità assai diverse: “Come uomini si può essere d’un sol pezzo, cioè con una personalità compatta e definita, con un indirizzo ideale irremovibile e resistente a tutte le scosse, i dubbi, i ripensamenti; ma come poeti si riesce ad apparire più interessanti e più carichi di pathos umano quando non si è ancora arrivati ad una definitiva vittoria su sé stessi o al quietismo filosofico d’una statica saggezza, e si è, invece, ancora nel pieno della lotta per questo conseguimento: lotta tra noi e il destino, tra noi e il mondo, tra noi e noi stessi; lotta tra sogno e realtà, tra volontà e possibilità, tra istinto e coscienza, tra esigenze fisiche ed esigenze morali”. E calcava su questa differenza tra uomo e poeta, ritenendola necessaria, perché - concludeva - “Senza questi urti, difficilmente il cuore umano potrebbe riuscire a sprigionare le sue scintille poetiche”. La vocazione poetica in Nino Ferraù risale all’infanzia e trova nutrimento più che nei libri, nel diretto studio dell’ambiente, della famiglia, nell’osservazione attenta d’ogni particolare delle cose, quasi un’esplorazione fotografica, e nello scavo dell’animo. La sua poesia ha ancoraggi nel passato e presente e aspirazione al futuro vengono in lui avvalorati, vivificati da immagini e profumi di quel tempo, ancestrali: da ciò che chiama favole. Nino Ferraù - ci fa sapere Anna Maria Crisafulli Sartori - ha scritto “circa 150.000 versi” e non tutti sono stati pubblicati. Le sillogi Immagine azzurra, Orme di viandante, Grumi di terra, E sentirsi così..., Album, il recente Mosaico di luci, sono tutte postume, forse assemblate da altri, forse dal fratello Giuseppe; perciò, ciascuna di esse è una miscellanea, con la presenza, in ciascuna, quasi degli stessi temi. Ma se gli argomenti sono gli stessi, diverse sono le angolazioni dalle quali vengono affrontati, le vicende, le motivazioni, le situa-
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zioni e, con esse, gli sviluppi e i risultati. E ci son pure differenze di ritmi e di pathos, specie quando canta la Natura, nella quale affoga ogni cosa. Difficile è isolare la madre di carne dalla madre terra e lui si sente “come un frammento di vaso antico”, cioè, un reperto archeologico. “I miei grumi di terra” e “Radici” sono da considerarsi i due tempi di un’ unica composizione. Davanti alla Natura, il poeta si inginocchia come davanti alla divinità. “Idillio montano” è una poesia apparentemente d’amor violento. La donna viene inchiodata alla terra - alla quale tutti tendiamo, al cui ardore e al cui odore proviamo stordimento - per poi alla terra inchinarsi. Perfino la madre del poeta, da poco morta, ha “l’antico odore della terra” “protesa al dono della prima pioggia” (cioè nell’atto di donarsi mentre, nel contempo, voluttuosamente riceve). Reciproco scambio, insomma, non violenza arida. La donna è inchiodata alla nuda terra perché lo desidera; è la donna che si dona, non è violentata. Uomo e donna corrispondono alla legge eterna della
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Natura, rifiutando la quale tutto inaridisce e muore o, peggio, degenera, perché “se (con quell’ansia medesima/con cui laceriamo una busta/cercando la lettera attesa)/tu ancora non sciogli una veste/cercando una gioia profonda/tra i vinti pudori,/la donna intristisce infeconda,/le culle rimangono vuote/e inutili tutti gli amori...”. Il poeta è attento osservatore delle energie operanti nell’universo e delle quotidianità. Raramente i suoi versi son frutto d’esclusiva immaginazione; son diario di ciò ch’è lo svolgimento della vita umana. L’ immediatezza e la fluidità del dettato, la naturale musicalità derivano proprio dal non darsi regole ad ogni costo (pur rispettandone tante) e dal non sottoporsi a un lungo meditare. Pittore estemporaneo della parola, segna sulla carta con la penna ciò che in altre occasioni spargerebbe sulla tela col pennello. La speculazione pura, fine a se stessa, in Ferraù non esiste: Quando al tuo cuore chino la mia testa e bacio il fuoco delle tue parole, sento l’anima mia che sale, sale, come mercurio al sole. Ma quando te ne vai e tutto torna freddo, triste, nero la sento ridiscendere al mio zero. Egli osserva la donna dalle più svariate angolazioni. Ecco, per esempio, uno dei misteri più grandi e più antichi: la bambina che, all’improvviso, si trasforma in donna. È l’ istinto, presente nel regno animale e vegetale e che il poeta spiega con l’immagine - anche qui un bellissimo acquerello - della piantina dietro la finestra mentre si allunga verso l’ unico “rombo di vetro” rotto in cerca di aria e libertà. È lo stesso Ferraù a dirci come in lui nasce la poesia del sociale, in particolare quella in difesa della libertà e dei deboli, in qualunque parte del globo: Padova e Roma m’han narrato antiche favole e storie di poeti inquieti, ma la mia poesia non germogliava
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su quei dischetti sacri all’ozio dei signori. Non nacque nei caffè la mia passione di uomo e di poeta, ma tra i solchi della mia gente contadina o accanto alla fatica d’operai sfruttati da avidi padroni o lungo le corsie degli ospedali in cerca di ammalati senza parenti, di disperati senza amici, soli coi loro patimenti.” Le porte che serrano le case dei ricchi sono compatte e lucide - dice il poeta -, mentre quelle dei poveri hanno “fessure/o rughe scavate/dalle unghie del tempo/e dai gelidi inverni senza pane” (si ponga mente al crudo accostamento di unghie, gelo, frecce, sciabole, sega); ed è attraverso quelle fessure - autentiche e doloranti ferite - che, però, traspare, o meglio, “escono frecce e sciabole di luce”. Due mondi da sempre in contrasto e col quale dei due sta il poeta è evidente, come chiaro è l’invito alla solidarietà, all’aiuto reciproco, attraverso la domanda retorico-sarcastica e la sferzata del verbo “segare”: “Non hai provato, errando/per vecchie strade di periferia,/di segarti le mani a quella luce?” Su un tale invito Ferraù insiste anche altrove, allorché leopardianamente sprona all’unione nella lotta contro le avversità e il male. Se gli uomini si unissero l’un l’altro, se si abbracciassero anziché combattersi, dominerebbe il mondo l’armonia: Non c’è sventura umana né dolori di spiriti feriti che non diventi lieve come brina nella corolla di due cuori uniti. Le tempeste diventano una musica, le pietre della strada una tastiera, il pericolo e l’ombra una ragione per camminar più stretti... Il sociale gli ispira pagine quasi evangeliche. Quando invita a “Non temere di perdere i (...) beni” - perché l’anima può salire verso
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l’alto e l’eterno solo se alleggerita dal peso della materia; perché solo così, da “masso informe, si fa statua”, leggera e pura da congiungersi all’eterno -, sembra ascoltare il Vangelo affermare essere inevitabile che le tragedie accadano. Da Hiroshima, Ferraù risale alla catastrofe planetaria del futuro, allorché l’intero pianeta esploderà. Qualunque dramma può essere considerato “semenzario/di vita”. Ogni fine è sempre come una nuova alba; dopo ogni disastro, la vita riprende con più lena. Così, anche quando sarà tutta la terra una Hiroshima, da qualche parte, in qualche angolo, ci saranno di sicuro “due volti stupiti e superstiti” che assisteranno alla “nascita/della prima viola” “al piede dell’ albero bruciato”. Non cieco pessimismo, ma consapevolezza e speranza. Dal dolore del singolo, egli sale al dolore universale. Come noi, anche Ferraù dedica versi toccanti al dramma del povero Alfredino Rampi che ha commosso il mondo, simbolo di milioni di piccoli cristi, vere ostie ogni giorno immolate nel cunicolo del nostro egoismo. Ferraù lega quella morte orrenda ai tanti “nostri delitti”, a partire da “Giuda e Caino” fino ai “mostri di Brescia e Bologna”, alle tragedie della violenza e del terrorismo che ieri, come oggi, sono “la nostra vergogna”. E qui non possiamo non ricordare la lirica dialogata “Il Presepio”, che, da sola, basterebbe a descrivere l’alto concetto di moralità e di solidarietà che ha sempre improntato l’animo del Nostro. Abbiamo di fronte una coppia. Lei chiede a lui perché non ha fatto quest’ anno il presepe; l’uomo risponde di averne visti tanti, che ce ne stanno troppi, più degli altri anni, ma che, a colpirlo, è stato uno in particolare. Quale?, gli domanda la donna. Vieni, gli dice lui, riempiendo una borsa “con pane, burro, frutta ed altre cose”, Dopo un lungo cammino, i due si fermano “Dietro una porta vecchia” e la spingono. Ed ecco il vero, il più autentico e toccante Presepe: “Una baracca senza pavimento./Una stamberga peggio che una grotta./Nel focolare un tizzo semispento./Una panchetta, qualche sedia rot-
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ta...” Niente bue, niente asinello, niente Re Magi, niente “tepore delle pecorelle”. Tre statue formavano quel presepe della disperazione: “tre sole statue dallo sguardo assorto:/una madre col nero sulla testa,/un padre disperato, un figlio morto...”. È specialmente in Grumi di terra che troviamo questa filosofia spicciola del dolore, la consapevolezza della sua inevitabilità, assieme a una gran dose di un altrettanto inevitabile pessimismo, che non vuol dire mancanza di fiducia e, a limite, mancanza di fede. È solo riconoscersi fragile sotto la continua gragnuola di avversità, di ferinità, cioè, di au-
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sono le nostre braccia e le nostre mani annaspanti, “protese/come rami d’un albero sfrondato/verso un cielo distratto, quasi assente/al nostro gesto folle e disperato”. Domenico Defelice 1 - Sull’indimenticabile amico Nino Ferraù abbiamo intenzione di preparare uno dei nostri Quaderni Il Croco. Queste qui riportate sono solo alcune pagine.
SONO FARFALLE I MORTI Le ali asciuga la farfalla uscita appena dalla crisalide. Memoria non ha, non ha contezza d'essere stata bruco. Leggera svolerà fra qualche istante sul mare lucente profumato e fresco delle corolle. Crisalidi noi siamo per l'Eterno, celesti praterie ci attendono. Se i morti non si struggono per noi è che sono farfalle, cognizione non hanno della terra. Domenico Defelice
PAPILLONS SONT LES MORTS
tentica ferocia; una situazione, a ben riflettere, simile a quella vissuta dal Cristo in croce, allorché, dopo aver bevuto fino all’ultima goccia l’amaro calice, se ne esce col grido tremendo: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. Gesù non poteva non aver fiducia in Suo Padre; con quel grido egli solamente riconosceva l’insistenza della sofferenza, il suo accanimento oltre ogni capacità di umana sopportazione. E come le mani del Nazareno sulla croce erano la parte più alta, dopo che il resto del corpo aveva collassato, così di noi, sprofondati ogni giorno di più nelle sabbie mobili della sofferenza, a ergersi
Il essuie ses ailes, le papillon à peine sorti de l’état de chrysalide. Il n’a pas la mémoire, il n’a pas la connaissance d’avoir été chenille. Léger il volettera dans quelques instants sur la mer lumineuse parfumée et fraîche des corolles. Chrisalides nous sommes pour l’Eternel, de célestes prairies nous attendent. Si les morts ne se consument pas pour nous, c’est qu’ils sont des papillons, ils n’ont pas la cognition de la terre. Domenico Defelice Traduction de Béatrice Gaudy
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VALERIA GIANNANTONIO
GIULIO SALVADORI NEL MONDO DELLE IDEE di Giuseppe Leone
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OCENTE di Lingua e letteratura italiana nella facoltà di Lettere dell’ Università di Chieti, autrice di numerosi studi su poeti e scrittori di prima grandezza (Silone, D’Annunzio, Vico), Valeria Giannantonio ha raccolto ultimamente in volume alcuni suoi saggi rivolti ad approfondire momenti, tendenze, aspetti significativi della vita e dell’opera di Giulio Salvadori, un intellettuale emblematico e assai rappresentativo nella cultura italiana fra Otto e Novecento. Il tutto in un testo dal titolo Giulio Salvadori nel mondo delle idee, edito dalla Cesati di Firenze, nel febbraio 2015, nel quale la studiosa, particolarmente sensibile ai valori stilistici dei testi esaminati - dalle Lettere a cura di Nello Vian, agli Scritti Bizantini sempre a cura del Vian, alle Liriche e saggi a cura di Carlo Calcaterra e alla lettura di articoli, alcuni dei quali apparsi sul Fanfulla della domenica - ci fornisce un profilo unitario di “uno dei protagonisti” così scrive nella premessa, “di quella fantastica stagione letteraria che va sotto il nome di “bizantina”, di cui il Salvadori fu lucido interprete, con una personalità del tutto originale” (11). Si tratta di una mono-
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grafia, suddivisa in otto capitoli, in cui la Giannantonio viene saldando i due momenti che da sempre la critica ha individuato nell’ attività letteraria di Salvadori: quello dell’ intellettuale della prima ora un po’ bohemien e carducciano e quello della maturità segnato dal revisionismo religioso, che lo condurrà, prima, a recuperare il cristianesimo e a impegnarsi nell’insegnamento, dal ’90 al ’99 presso il Liceo Mamiani di Roma e successivamente all’Università Cattolica di Milano dove ha potuto maturare sempre di più idee di apostolato evangelico (57); e poi, a prender posizione nel primo conflitto mondiale, “un po’ incerta e ambigua tra interventismo e riprovazione morale dell’eccidio di sangue (12). Ne vien fuori un Giulio Salvadori in fieri, colto nel suo lungo itinerario artistico e umano: da seguace alla scuola del Carducci e fervente dannunziano, all’intellettuale collaboratore alla “Bizantina”, un “uomo poliedrico, ricco d’interessi che illuminavano il suo percorso di scrittura e di artista (28); dallo studioso - all’indomani della conversione - della vita di Dante, del dolce stil novo, della leggenda francescana, del pensiero sociale del Tommaseo, della lirica nazionale e cattolica del Poerio, della vita e l’arte di Alessandro Manzoni e di Antonio Fogazzaro, al sottile interprete di un mondo popolare, che si affiancava a quello intellettuale, dal quale non poteva prescindere per l’ispirazione futura della propria produzione artistica, al severo indagatore dei vizi della cultura contemporanea (28); dall’intellettuale sui generis, insomma, amante della vita, più che del chiuso delle biblioteche, al critico inesorabile di un’ età in movimento, che vantava una poliedricità di voci nel gran marasma creato dall’ unificazione dell’Italia (28). Un Salvadori non più diviso tra ‘bizantino’ e maturo, ma ravvisato “in una continuità mai interrotta nella produzione poetica dell’ autore” (77), che la Giannantonio individuò anche quando la sua vita fu investita dal vento della conversione (1885), che non portò mai il Salvadori a un rinnegamento in toto delle dottrine atee e materialistiche dei primi momenti,
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ma lo indusse a rivederle alla luce del cristianesimo, grazie a cui seppe conciliare l’ esperienza artistica con il riformismo religioso, e riscontrare nelle idee darwiniane una via di mediazione verso il cristianesimo (57). Ciò che lega il primo al secondo Salvadori, secondo la studiosa, è il filo dell’ideale, lo stesso che fu poi alla base dello sviluppo dell’ arte e della letteratura italiana sin dai tempi del volgare dantesco. Asserendo che l’ideale percorre l’intera attività umana e artistica del Salvadori, la Giannantonio aggiunge un ulteriore tassello ai suoi studi e alle sue tesi sul classicismo, che da sempre ha considerato, ora, latente, ora, manifesto, nel corso infinito della cultura italiana non solo letteraria, ma sempre e comunque modello a cui si richiamarono gli intellettuali italiani. E di modelli, per la studiosa, ne ebbe tanti il Salvadori: da Enrico Ferri, di cui ammirò la sua opera per avere fuso ragioni di scienza e principi d’arte, a Dante e Manzoni che gli dimostrarono, con le loro opere, “quanto feconda potesse essere la fede e quanto essa potesse adattarsi alla poesia” (77); a Tommaseo e Rosmini; al Fogazzaro che affrontò i due problemi della poesia e della scienza e gli spianò la strada alla conciliazione, e a cui Salvadori non negò mai la sua ammirazione, anche “quando il suo Santo venne messo all’indice dalla Chiesa (50). Tutti modelli invocati da parte di un “Salvadori idealista e spiritualista che conservò sempre nella vita una sensazione di insoddisfazione perenne, che nemmeno l’arte e la scienza… riuscirono a lenire in qualche modo, entro un tormento che la religione accentuava ancora di più, facendosi sentire come una sorta di vincolo dal quale l’anima non poteva prescindere” (29). Quello che veramente stupisce, sfogliando le 162 pagine di questo volume, impreziosito in copertina dall’Angelus di Jean Francois Millet, a felice rimando della “sintesi di preghiera e di educazione delle coscienze giovanili attraverso lo studio” (53) che caratterizzò l’intera esistenza del Savadori, è come la Giannantonio riesca, anche in questa circo-
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stanza, a fondere l’intreccio delle vicende di un autore con quelle di tanti altri intellettuali fino a fare di esse materia incandescente per un profilo biografico, che non può prescindere da una visione d’insieme delle condizioni culturali e politiche qual era quella dell’Italia post-unitaria. Lo aveva già fatto, ricostruendo il crepuscolarismo alla luce della personalità e dell’arte di Enzo Marcellusi, continua a farlo ora, in questo testo, dove la studiosa napoletana ha modo di mettere in mostra, qualora ve ne fosse ancora bisogno, accanto ai convincimenti dell’autore, anche i propri: che “l’ arte, insomma, doveva scaturire dalla vita, ma non quella banale e quotidiana, bensì quella che è capace di rasentare l’immortalità” (26). Una conclusione dalla forte impronta classicistica, pregna di impegno civile e morale, con cui la Giannantonio esorta che si può volare alto guardando non certo alle persone amiche della porta accanto, ma a quelle figure esemplari che, come Giulio Salvadori, seppero rendersi degne di stima e emulazione. Giuseppe Leone Valeria Giannantonio - Giulio Salvadori nel mondo delle idee - Franco Cesati Editore, Firenze 2015, pp. 162. € 17,00
SOFFIA IL VENTO Soffia il vento, vento primaverile; accarezza i miei capelli e li scompone, accarezza il mio viso, scaccia le nuvole dal cielo, e va, va, per montagne colline e pianure. L’erba dei campi ondeggia lievemente, le foglie degli alberi sembrano ali di uccelli prossime al volo. Loretta Bonucci Triginto di Mediglia, Mi
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UN POETA PARTENOPEO:
ALFONSO SEVERINO di Liliana Porro Andriuoli
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LFONSO Severino, poeta partenopeo sulla breccia ormai da più di due lustri, ha al suo attivo già cinque sillogi: Le parole liberate (2006); Percorso inverso (Edizioni Libroitaliano World, Collana Poeti italiani contemporanei, 2009); Atelier per signore (Associazione culturale La casa delle parole, 2011); Amico delle parole (Edizioni LietoColle, Collana Solodieci, 2013) e Minimo canzoniere (Edizioni Homo Scrivens, Collana Arti, 2013). Caratteristica primaria della sua poesia è la diretta comunicatività, che emerge da ogni suo testo in cui, sempre in maniera limpida e piana, parla di sé e del suo rapporto col mondo. Il che d’altronde si evince immediatamente sin dal titolo della sua prima silloge, Le parole liberate, con il quale ha inteso significare come il suo intento nel comporla fosse stato quello di eliminare ogni
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peso o impedimento alle sue parole, al fine di renderle atte ad esprimere quanto gli urgeva dentro e voleva comunicare ai suoi simili. E non a caso troviamo in lui la schiettezza e l’immediatezza di una vena capace di cogliere con facilità momenti essenziali di vita: “Sono qui, solitario, trasportato/dagli eventi e dagli anni, / spingo lo sguardo a riva, / i pescatori nel tramonto / dipanano le reti consunte / con avidi sguardi stupiti” (Ad un punto sospeso). Sembrerebbe da questi versi che il poeta, in tale momento della sua esistenza, si ritrovi a tu per tu con la realtà esterna che, se da un lato lo affascina, dall’ altro non gli si presenta facilmente decifrabile, se è vero che la sua poesia così termina: “Frenetici, voraci gabbiani / in volo s’ adoprano, / ovunque tentano sortite / mentr’io, sorpreso dalla vita, / resto / ad un punto sospeso”. Poeta della quotidianità, può inoltre definirsi Severino; un poeta in realtà capace di improvvise notazioni, quali: “Sono lo sposo /della mia solitudine” (Come talpa intanata) o “I garofani/bruciano il colore/nel profumo” (In questa stanza). Ma soprattutto Severino è un poeta dai cui versi costantemente affiora l’ assidua ricerca della parola: una parola che racchiude attimi privilegiati della sua avventura; una parola pronunciata sempre in maniera asciutta e intensa. “Viaggio raccontando parole” egli dice ad esempio nella poesia, L’amico delle parole; e nella successiva, L’anagramma, soggiunge: “Le parole erano amiche/parlavano,/ero con loro/loro con me”. Fondamentale nella vita di ogni uomo è senz’altro l’esperienza amorosa; e Severino, come uomo e come poeta, non poteva non cantare, e con grande felicità di intuizioni liriche, anche l’amore. Si vedano in proposito poesie quali Ballata per una donna (“Cosa resterà/di questa sera/cosa resterà/quando sarò solo”); Così ti vedo (“La falce di luna lassù / ha inciso l’incanto / nella tua pupilla nera”); La ragazza del pub (“La ragazza del pub / ha occhi azzurri / occhi / che bucano nuvole di fumo; / lampi / brillano sulle ciglia d’oro”). Nella sua poesia è inoltre presente l’ im-
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mersione nella “calda vita”, che si scopre ad esempio in Piazza San Domenico: “Piazza San Domenico/ai piedi dell’obelisco/ liberamente incatenato,/tendo le membra, le distendo,/respiro il vento,/l’aria dei vicoli, le strade”. E si veda anche Vorrei tornare: “La città bella nella sua normalità/è lì, bella da non darmi pace”; e ancora Visione: “Giro lo sguardo nello spazio/osservo la vallata/il paesaggio forte e selvaggio/ha colori rari e nuovi”. Né manca nella poesia di Alfonso Severino l’aspetto civile, che emerge ad esempio allorché si scaglia contro i mali del suo tempo: “Scampia: / ghetto, squallida periferia / di te conta il marchio, l’equazione / gente malaffare illegalità” (Epifania a Scampia); così come non mancano la partecipazione all’altrui sofferenza: “Un bambino / suonava una piccola fisarmonica / dal suono agrodolce: / era insieme lamento e speranza” (Un bambino) e lo sguardo di simpatia verso gli animali: “Geremia abita il mio quartiere // a volte muove la coda / a volte abbaia // ma per nessuno / è certo solo un cane” (Geremia). Passando a Percorso inverso, la seconda silloge di Alfonso Severino, notiamo subito come in essa egli si lasci incantare dalle cose normali di tutti i giorni: si leggano ad esempio Ad un punto sospeso, dove ci appare nell’istante in cui si sofferma a guardare il mare e Così ti vedo, dove rimane affascinato alla vista degli occhi di una donna; e ancora Un matrimonio poetico, dove è colto nel momento in cui contempla i propri cari addormentati. Affiora indubbiamente dai suoi versi l’immagine di un poeta che si lascia incantare dalle visioni che il mondo esterno gli offre, ma che al contempo è anche capace di soffermarsi per riflettere su ciò che quelle apparenze hanno suscitato in lui. D’altronde nella sua poesia troviamo un continuo alternarsi tra la visione e la meditazione da essa suscitata; il che dimostra come Severino sappia volgersi a indagare ciò che le apparenze velano o addirittura celano ai suoi occhi; come sappia arrestare il suo cammino per penetrare il mistero che nella nostra quotidiana
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esistenza è racchiuso. Così, se ne I tuoi occhi egli è tutto volto a cogliere la realtà che gli appare dinnanzi: “Le braccia tese / e rami le mani, / catturare il canto / che tra le foglie dimora”, in Vivo il giorno è un pensiero improvviso che lo cattura: “Vivo il giorno e non conosco ieri / tutto cambia / la memoria i ricordi le emozioni”. E’ inoltre ancora da osservarsi come quella di Percorso inverso sia una poesia di luoghi e di cose non sempre facile, bensì mirante ad inseguire profondi pensieri. Emergono infatti da questo libro liriche quali Piazza San Domenico (una poesia che avevamo incontrata anche nella silloge precedente e già citata), tutta permeata da un’ariosa fisicità e Ode a Toulouse Lautrec, dalla quale si affacciano le figure più tipiche di questo grande pittore: “… ballano per sempre le tue ballerine/nella meccanica precisa dei loro corpi/… / … come te, avevano dentro il loro sogno d’ amore”. Molto importante per Severino è poi il ricordo, dato che la sua è sovente una poesia della memoria. Egli alterna infatti il ricordo al contatto diretto con la realtà. Si confrontino a tale proposito due poesie: … di giallo, che così inizia: “Nella piccola casa paterna / dopo la pioggia / nei momenti di tregua / una luce fluorescente / rendeva lo spazio surreale” e Davanti la bottega chiusa, che ha questo incipit: “Davanti la bottega chiusa / tutto ha sapore di cose consumate. / In questo posto desolato, vuoto, / tenuto in vita dal dissapore, / da un muto accento di malinconia. / Non c’è ordine, né gioia / l’aria incarna un freddo dolore”. Ed è proprio un sentimento di sottile malinconia che sovente pervade questi versi, come avviene anche in E’ un tempo: “E’ un tempo / un tempo d’ addormentarsi stanchi / da svegliarsi vuoti / è un tempo di non so / forse vedere, tentare / cosa corre nella noia e la calura”. Osservazioni analoghe possono farsi anche per le poesie di Atelier per signore, un libro nel quale Severino, poeta dai mille volti, crea una poesia ispirata dalla donna, che viene colta con tutto il suo fascino, negli aspetti più di-
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versi, ma sempre in maniera concreta e reale, come avviene per Budapest: “Nei tuoi occhi un po’ d’azzurro, / gentile signora, le mani leggere / come i tuoi volantini / rèclames per nuovi padroni”. Osserva Francesco D’ Episcopo nella sua introduzione al libro che “tra il poeta e l’amore c’è una complicità segreta, che si congiunge strettamente alla figura femminile, alla sua esuberante fisicità ma anche alla sua imprevedibile interiorità”. Anche qui ciò che subito colpisce è l’ immediatezza con la quale il poeta va incontro al lettore e lo cattura con la forza delle immagini e del ritmo, specialmente evidente nelle poesie d’amore, le più numerose del libro: “La falce di luna lassù/ha inciso l’ incanto/nella tua pupilla nera” (Così ti vedo); “Trovo spazio nel chiostro,/un quadrato di verde, un manto d’erba,/ciottoli, al centro un pozzo/per i desideri e per la luna” (Grazia all’ingresso); “L’acqua trova il mare/la riva bagna i ricordi/cheta/la vela aspetta” (L’ acqua trova il mare). Tra queste poesie d’amore ve ne sono alcune che hanno per oggetto la famiglia, dove l’ amore è più intimo e caldo, come avviene in quelle nelle quali Severino ci parla della moglie, del figlio, della madre. Citiamo a tale proposito da Chiami amore!: “Accennano un lume i tuoi occhi/stanchi del giorno/la mano nella mano di tuo figlio,/ch’è mio figlio” e da Se venissi da te un giorno: “Verrò da te un giorno,/verrò, vita mia,/con rose bagnate di pianto,/con rose dai petali profumati./Ti legherò forte all’unico sentimento possibile,/il perdono,/per la tua muta benedizione, madre mia”. Più introversa e meditativa si fa la musa del nostro poeta in un libro quale Amico delle parole, dove si nota un diffuso simbolismo e una più fonda musica del verso. Lo stesso può dirsi di Minimo canzoniere, da poco uscito. Un poeta ricco di spunti ed intenso Alfonso Severino: nell’attuale panorama della poesia partenopea, certo un poeta da ricordare. Liliana Porro Andriuoli
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ALLA MADRE Fu lunga la tua agonia, Madre. Ricordo i tuoi lamenti repressi nella penombra delle corsie, le corse da un ospedale all’altro per sottrarti alla morte. Invano. Soffristi, a lungo soffristi. Non una lagrima sul tuo volto ma i segni palesi del dolore. Al tuo commiato suonò la campana. Amaramente piansi. Riposino ora le tue ossa nella quiete del camposanto. E Addio, Madre, Addio. Enrico Ferrighi Verona
IL CIELO NEI TUOI OCCHI Il cuore batte il tempo dell’esistere sereno è il momento colmo d’emozione negli abbracci è l’amore che provo per te forte e ineguagliabile che sempre ti accompagna. Azzurro è il cielo nei tuoi occhi che sublime vibra nei rintocchi dell’anima e in questo mio corpo che anni fa ti donò la vita. Lorella Borgiani Ardea (Roma)
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LO SPECCHIO TURCO DI
MARINA FORMICA di Carmine Chiodo
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ARINA Formica è Professoressa di prima fascia di Storia moderna nell’Università di Torvergata, Dipartimento di Scienze storiche, filosoficosociali, dei beni culturali, ed ha al suo attivo pregevoli pubblicazioni storiche quali - solo per richiamarne alcune – La città e la rivoluzione. Roma 1798 -1799 (Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1994), Sudditi e ribelli, Fedeltà e infedeltà nella Roma di fine Settecento (Roma, Carocci, 2004), Album italiano. Immagini e storie dall’Unità a oggi (Electa, 2011), e ha infine curato con L. Lorenzetti, Il misogallo romano (Bulzoni, Roma, 1999). Straordinario, ricco di notizie e di un variegato e molteplice materiale, che la storica Marina Formica sa tratteggiare e coglierne l’ importanza. Il libro si basa su documenti di prima mano e si tiene pure conto della bibliografia, veramente sterminata, sugli argomenti e sugli autori di volta in volta trattati. Marina Formica sa muoversi nei vari materiali, libri, autori che hanno trattato dei turchi nell’età moderna. Un libro, questo della storica Formica, non erudito, non pesante ma scritto in modo da tener desta sempre l’attenzione di chi legge in quanto è scritto con un linguaggio molto vivo e immediato. Veramente notevole la capacità che dimostra la studiosa di vagliare e saper analizzare tutta una serie variegata e complessa di situazioni storiche, di testi, di autori, di avvenimenti storici. Difatti come dicevo prima - Marina Formica sa muoversi negli argomenti trattati e li sa presentare e analizzare con un linguaggio sempre chiaro e suggestivo. Ci dà in sostanza un libro piacevole a leggersi che non è fatto di solo storia ma pure di letteratura, e vi si parla di teatro, di musica, di giornalismo, di quelle scritture che hanno parlato dei turchi, dell’ Oriente, della ”Porta” a partire dal Cinquecento fino ad arrivare all’Ottocento, epoca in
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cui si hanno varie e diverse scritture sui turchi, rispetto alle epoche precedenti. Alla studiosa non sfugge nulla e ci consegna un’ opera unitaria e affollata, un quadro vivo e suggestivo di come l’Oriente, i turchi sono stati visti, considerati, trattati lungo i secoli già citati prima. Un turco visto come diverso, un turco osservato e visto e descritto in ogni suo aspetto dai viaggiatori che sono nominati uno per uno. Ecco come è strutturato il libro: Incontri! Alla scoperta dell’Altro; 2. Amico nemico: II: !. E(venti) di guerra: Lepanto. 2. Nuovi e(venti) di guerra: Vienna: III: Sguardi. 1. Non più nemici. 2, L’altra metà del cielo: sensualità, sogni, timori e, infine, l’indice dei nomi. Sostanzialmente questo libro di Marina Formica spazza via luoghi comuni sui turchi e ne dà una interpretazione nuova rispetto alle altre che sono state date nel corso del tempo. Nel libro ancora storia, letteratura, arte, teatro, musica sono ben amalgamati. Cosa intende fare, cosa intende mostrare con questo suo dettagliato e bel libro Marina Formica? La risposta si trova nelle battute iniziali dell’introduzione: ”’C’era una guerra contro i turchi’”. Questo, come nel “”Visconte dimezzato“” di Calvino, potrebbe essere l’ inizio ma solo l’inizio della storia che qui si tenta di ricostruire”. Ricostruire “l’altro”, il Sé: I “”Turchi di là, noi di qua. O viceversa: la guerra - come ancora si legge nell’introduzione - come una delle tante cose fatte dagli uomini, come il riconciliarsi e il far la guerra di nuovo; come trafficare, commerciare, come viaggiare; come scrivere, disegnare, leggersi. Nonostante in alcuni momenti ne siano stati enfatizzati oltremodo i toni, le immagini, i linguaggi, tra esterno e interno – tra Oriente e Occidente – è stato sempre lo stesso intrecciarsi, incontrarsi e scontrarsi” (v. p. 3 Dell’Introduzione). Le pagine di questo pregevole libro approfondiscono e analizzano in profondità, mediante la prospettiva dell’altro, alcuni precisi snodi relativi alle vicissitudini di quella che, con espressione “ormai logora e obsoleta quanto sfuggente, viene definita identità” (v: p. 5, sempre dell’Introduzione). Insomma il Turco
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viene qui ancora una volta impiegato come punto di osservazione per poter meglio capire fenomeni politici e culturali, che sono a lui estranei: la studiosa si riferisce in particolar modo ai discorsi sull’Italia e sull’Europa, a quelli sulle proprie minoranze interne (protestanti, ebrei...) e su gruppi tradizionalmente relegati in posizioni subalterne (le donne). E per quanto attiene a quest’ultime esiste tutta una letteratura, tutta una serie di testimonianze sapute ben analizzare e interpretare dalla studiosa: ”Amano i turchi l’ozio, il riposo, e la vita comoda, quindi è per questo loro vivere molle, per il clima, e per l’indulgenza del Corano in permettergli quante donne vogliono, perché le possono mantenere, sono per il bel sesso troppo trasportati“ (e viene citato il Dizionario storico delle vite di tutti i monarchi ottomani di Vincenzo Abbondanza, uno tra i testi più fortunati del secolo dei lumi). A guardar bene Marina Formica scandaglia molto bene, cogliendone le diverse sfumature e significati, la trattatistica politica, i racconti di viaggio, i fogli volanti, i giornali di ambito europeo mentre in Italia i discorsi sull’Altro assumono un ruolo centrale nella formazione della nostra cultura politica e nella elaborazione della nostra appartenenza identitaria. Ecco ancora il Turco visto come un avversario ammirevole, pure se bisogna temerlo; an-
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cora violento e cattivo, rozzo e ignorante, barbaro; nemico dei propri nemici e perciò utile alleato; e infine sodale inaffidabile e furbo; modello “di suddito devoto e obbediente. Viste allo specchio, le immagini del Turco in età moderna, lungi dall’essere univoche o statiche, riflettono i timori e le aspirazioni dell’Occidente, le sue preoccupazioni e i suoi conflitti” (v. la quarta di copertina del libro). In una Europa molto disorientata “dagli imprevedibili orizzonti delle nuove scoperte geografiche e dilaniata da innumerevoli lacerazioni interne, l’esigenza di difendere un’ identità vacillante si pone all’origine di una rappresentazione dell’alterità giocata sul contrasto e sull’opposizione” (Ivi). Ed ecco che quindi il Turco diventa l’Altro, per antonomasia come viene giustamente osservato, anche se poi né gli scontri né le rivalità con la Mezzaluna bloccheranno le persistenti trame di rapporti e commerciali e diplomatici tra gruppi di diversa fisionomia etnica e religiosa. Viene pure sottolineato come in una società alle prese con l’emergere di nuovi soggetti istituzionali e di nuove maniere di convivenza tra Chiese e Stati, quelli che sono i saperi e i discorsi sulla società ottomana si “alimentano di tradizioni preesistenti, d’intrecci e filoni sotterranei, di racconti di viaggio, di letture proibite; d’immagini da veicolare e di discorso da censurare, di realtà e di fantasie; di sogni e desideri a cui solo la lontananza dell’ oggetto descritto riesce a dare corpo e parola” (sempre dalla quarta di copertina si cita). Ho voluto abbondare in queste citazioni per mostrare ciò che il libro ci offre, il suo senso e fine. Comunque con l’Ottocento – con “il secolo, cioè, che segnerà la conclusione del viaggio come istituzione d’èlite, che vedrà l’ avvento della locomotiva, che assisterà alla moda del turismo breve e di massa -, le esperienze in Oriente sarebbero divenute altra cosa, perché altri sarebbero stati i soggetti, i tempi, gli spazi, gli strumenti e le forme della narrazione; altri i tratti politici identificativi delle nazioni e degli imperi; altri i turchi stessi. Non più temibili, non più coesi, questi
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avrebbero comunque continuato a fungere da scenario di narrazioni diverse, sfondo pittoresco e sensuale per quelle auree estetiche e romantiche che il secolo si stava apprestando a vivere” (v: pp. 210 - 211). Insomma – come viene ancora precisato alla fine dell’ introduzione al libro - “l’infedele ottomano“, la sua presenza ha “sollecitato interrogativi e forme di conoscenza senza i quali non saremmo forse riusciti mai a capire come ogni identità si nutra necessariamente dell’alterità e si definisca in primo luogo per un carattere del tutto aperto e mai definibile in assoluto e per sempre; come, cioè, da un’idea rigida di separazione possano solo nascere barriere, aggressività, conflitti: la storia (del Turco, dell’ Altro), insomma, ”’è sempre contemporanea’” (v. p. 13 della introduzione). Carmine Chiodo Marina Formica, Lo specchio turco. Immagini dell’altro e riflessi del sé nella cultura italiana d’ età moderna, Donzelli, Roma 2012, pp. 232.
LA FRANCE EST CHARLIE Ils fusillent la culture française Ils fusillent la liberté d’expression française Ils fusillent la fraternité et la tolérance françaises Ils fusillent la France Et la France blessée se relève sa culture contre la barbarie sa liberté d’expression contre la barbarie sa fraternelle unité contre la barbarie La France est debout pour que ses valeurs incarnées dans ses héros assassinés continuent à vivre Hommage funéraire qui transmet le témoin du courage des morts et ensemence avec détermination l’avenir NB Le 7 Janvier 2015, l’attentat commis par deux fanatiques islamiques contre le journal “Charlie Hebdo” a tué une partie des meilleurs dessinateurs satiriques français ainsi que d’autres personnes.
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Jamais, dans l’histoire de la France, ne s’était vu un nombre de manifestants aussi grand que dans la manifestation d’hommage aux victimes. Environ 4 millions de citoyens y participèrent.
LA FRANCIA È CHARLIE Fucilano la cultura francese Fucilano la libertà d’espressione francese Fucilano la fratellanza e la tolleranza francesi Fucilano la Francia E la Francia ferita si rialza la sua cultura contro la barbarie la sua libertà di espressione contro la barbarie la sua fraterna unità contro la barbarie La Francia sta in piedi affinché i suoi valori incarnati nei suoi eroi assassinati continuino a vivere Omaggio funerario che trasmette il testimone del coraggio dei morti e semina con determinazione l’avvenire Béatrice Gaudy in A VOTE! (3), Recueil inédit. NB Il 7 gennaio 2015, l’attentato commesso da due fanatici islamici contro il giornale “Charlie Hebdo” ha ucciso una parete dei migliori disegnatori satirici francesi ed anche altre persone. Mai nella storia della Francia si era visto un numero di manifestanti così grande come nella manifestazione d’omaggio alle vittime dell’attentato. Circa 4 milioni di cittadini vi parteciparono.
HO CONSUMATO Ho consumato anche questo giorno, è passato in fretta e in me non c’era gioia, i ricordi come fantasmi sono venuti a turbare il mio cuore, e piove. Loretta Bonucci
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GIUSEPPE LEONE: UNA DIAGNOSI COMPARATIVOESEGETICA FRA
LEOPARDI E BENE di Nazario Pardini
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FFRONTARE una diagnosi comparativo-esegetica fra Leopardi e Carmelo Bene non è sicuramente cosa da tutti i giorni. Leopardi filosofo? Di sicuro no. Tra l’altro, non conosceva neppure i grandi del tempo tipo Kant o Hegel; semmai pseudo filosofo nel senso crociano, un ingorgo sentimentale, dacché la trama delle meditazioni leopardiane rivela un che di gracile e di disarmonico come la mancanza di sistematica scientificità, che è la più settecentesca delle sue caratteristiche. Sì, volle essere filosofo nel senso moralista; nell’accezione degli intellettuali dell’illuminismo francese, ai quali parve operazione fruttuosa nella misura in cui ci si impegnasse su concreti o spiccioli problemi di vita vissuta. Ma veniamo al nocciolo; alla questione che Giuseppe Leone prende fin da subito in considerazione: quella dei suoni, delle voci, che caratterizzano sia la produzione del recanatese che di Carmelo Bene; e l’aspetto della solitudine e del dolore,
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in Leopardi simboleggiato in un passero che trascorre, appartato e solitario, il tempo della sua giovinezza, da cui il titolo; in Carmelo Bene (nella Lectura Dantis), “a mo’ di agape schopenhaueriana – come lo stesso amava definire le sue performance – il compassionevole ricordo delle vite tragicamente spezzate nel capoluogo emiliano”, della strage di Bologna. Interessante poi la lettura de L’infinito fatta con l’apporto di citazioni di numerosi critici, tipo Paolo Marzocchi o Alberto Folin. Per cui il canto degli uccelli, il muggito dei buoi, il mormorio delle fronde o del ruscello, riportano ad un passato scomparso per sempre. In parole povere la malinconia leopardiana viene colta dietro il dileguarsi di una voce; la poeticità dell’assenza. In Carmelo Bene nel suono che si fa personaggio. E come in Leopardi il suono è a scapito del visivo, in Carmelo, sempre nella lettura di Dante, riappare solo in veste di voce. Una ricerca puntigliosa e precisa convalidata da una dovizia di nomi autorevoli. Tanti i punti in comune fra i due artisti: il loro dialogo con la civiltà presocratica; la difesa a favore della voce contro il “morto orale” dello scritto; le polemiche contro le correnti artistiche alla moda; i pensieri sulla lingua, sulla poetica, sui costumi; sul fatto di bandire qualsivoglia di ragionamento storicistico, al contrario di Platone che bandiva la poesia dalla sua repubblica. Carmelo, non credendo nel Dio dei Cristiani, e credendo nel demone, esclude ogni possibilità di redenzione umana. L’inno ad Arimane conferma questa vicinanza fra i due per una visione anticristiana senza riscatti o sconti particolari. Il saggio continua nel capitolo due (Giacomo Leopardi e Carmelo Bene: “geni senza talento”) con il tema del mancato riconoscimento di un Leopardi filosofo, per colpa, soprattutto, di una critica letteraria poco attenta. Ciò che è avvenuto per Carmelo Bene che si rivoltava a tutti coloro che continuavano a chiamarlo attore, definizione per lui riduttiva. Nel terzo capitolo viene preso in considerazione il rapporto dei due con la religione. Da fanciulli e adolescenti sono stati religiosi a tal punto di avere persino servito Mes-
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sa. Ma mentre il poeta volgerà sempre più verso un pessimismo più acuto e radicale, l’altro tenderà verso il rifiuto dell’immagine, dacché si “osserva che il ritorno agli anni dell’infanzia religiosa è stato per lui un motivo per raccontare come le effigi mariane … lo abbiano portato alla disillusa considerazione e al rifiuto di qualsiasi culto d’ immagine…”. Per giungere al quarto capitolo, in cui si analizzano le peripezie critiche dei due geni nell’essere riconosciuti nella loro interezza (Leopardi e Bene. Geni ma senza premi). Simili anche qui per tutte le troncature che si sono tirati addosso fin dagli inizi. Numerose le testimonianze storiografiche addotte a supporto: da Vittore Branca, a Croce, ad altri che, almeno, hanno avuto il merito di averne parlato: Pietro Giordani, Giuseppe Montani, Vincenzo Gioberti, Alessandro Poerio; mentre Giuseppe Mazzini “diede un giudizio stroncatorio”. Il solo critico “che darà al Leopardi il rilievo che meritava è stato il milanese Carlo Tenca, il quale vide nel poeta recanatese <<l’erede della tradizione alfierianafoscolilana…>>”. Solo fra le due guerre ci sarà un effettivo ripensamento sull’opera leopardiana, dacché fin dalle origini si parlava di un pessimismo acuto dovuto alla malattia. Interessanti gli studi di: Vossler, di De Robertis, di Saba, Cardarelli, Bacchelli, di Svevo, Brancati, Calvino… per giungere a Ungaretti e Montale il più vicino, forse, quest’ultimo, al pessimismo leopardiano. Così Carmelo Bene “ha sempre avuto nei critici irriducibili nemici, ad eccezione di Arbasino, Pasolini, la Morante, Flaiano ed alcuni filosofi come Deleuze, Derrida, Lucan…”. L’opera si completa con il quinto ed ultimo capitolo (Leopardi e le opere di Bene) di cui riportiamo la emblematica chiusura: “… Dunque, ascoltiamo D’ in su la vetta della torre antica; ascoltiamo, in tutta la sua sonorità , questo “… schiaffo impensabile ai millenni dell’ espressionelogos-concetto”, come ebbe a qualificarlo lo stesso Carmelo Bene, parlando delle sue rappresentazioni. Del Buono potrà avere avuto le sue ragioni per ritenere i geni ingombranti e persino inutili, ma hanno ragione anche i
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geni a pretendere di essere ascoltati, per non subire la dittatura di chi genio non è”. Un libro di grande interesse speculativo, nuovo, generoso, ricco di riferimenti storiografici, che presuppone capacità analitiche e intuitive di rara creatività; quelle di uno scrittore aduso alla letteratura, all’estetica, e alla conoscenza poetica, alla cultura. Un testo che porta avanti concetti di non facile assunzione, ma resi agili da un linguismo scorrevole, narrativo, vincente e convincente. Un’opera che non occorre leggere due volte, o riprendere per rifinirne alcuni assunti: resta immediatamente incisa; alimenta interesse con la sua portata iconografica e pluridisciplinare. Una originale maniera di proporre un saggio storico-letterario. Partendo dai testi per dimostrare, e concludere con metodo apodittico, cartesiano, ciò che lo scrittore si ripropone. Di grande valenza critico-filologica l’apparato bibliografico a completare l’opera. Nazario Pardini Giuseppe Leone: D’in su la vetta della torre antica. (Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce). Il Melabò. Bellano (Lecco). Pgg. 142. € 16,00
NELLA TRAPPOLA DEL TEMPO Merita ancora passione la carne profuga del domani celebra tremori di amate parole l’inesorabile saggezza. Sui bordi di una strada malinconico il sorriso asperso e vigoroso rimane confuso nella trappola del tempo. Lorella Borgiani Ardea (Roma)
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NEVIO NIGRO DUE LIBRI DI POESIE: POSSIEDO LA TUA ASSENZA E OMBELICO DI LUNA di Elio Andriuoli
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OSSIEDO la tua assenza e Ombelico di luna sono i titoli dei due più recenti libri di poesie di Nevio Nigro. Il primo, edito da Crocetti, nel 2011, ci viene incontro con l’andamento sommesso e pensoso che è abituale a questo poeta e subito ci rivela quelli che sono i suoi contenuti, nascenti dall’onda lunga del ricordo. E invero qui i ricordi costituiscono l’autentico sottofondo della raccolta, offrendo continuo alimento alla voce dell’autore. Questi ricordi però sono permeati di “assenza”, il che conferisce un tono mesto alla parola poetica, che insegue immagini di un tempo felice ormai perduto. “La sera è mia / ma non / senza dolore” (Sera che va); “L’ ora è lenta / ed il silenzio / dolce. / Assenti / le parole / innamorate” (Attesa); “Dalle pieghe / del tempo / fuggono / giorni perduti” (Improvviso); ecc. Talora si affaccia in queste poesie una presenza femminile, cui il poeta si rivolge e che improvvisamente le anima. Nel vagheggiarla Nigro trova allora le sue espressioni più lievi: “Seguimi in questa sera / così non sarò solo” (Seguimi); “Nel mio pensiero / l’ ombra del tuo viso. / Invisibile vento / il tuo ricordo” (L’ ombra del tuo viso); “Rimani con me un poco. / Fai conto di essere rugiada / al sorgere di un’alba smarrita (Lontananze); ecc. Presto però ci si avvede che tale “presenza” si è perduta in un universo remoto che l’ ha resa per sempre irraggiungibile: “Solo gli occhi ricordo: / smeraldi / e ciglia nere. / Giacciono invece / le sue parole. / Confuse” (Occhi); “Dalle pieghe del tempo / ti penso. / Le tue mani / come un’onda nera” (Le tue mani); ecc. Ma l’”assenza” che Nigro lamenta può ri-
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guardare anche un amico caduto nell’ombra, com’è il caso di Claudio, di cui si parla nell’omonima poesia: “Abbiamo vissuto insieme / gli anni verdi. / Tu sempre mi ritorni. / Sotto gli antichi portici / cammina la tua morte”. Intenso è inoltre qui il sentimento dell’ “assenza” che investe le figure genitoriali, come emerge dalle poesie che evocano il padre e la madre del poeta, le quali risultano tra le più significative della raccolta. Si leggano per tutti i versi con i quali Nigro ricorda la madre, qui accomunata alle altre madri che “… se ne vanno in silenzio, / lentamente” e che “Giorno dopo giorno / salgono gli ultimi gradini / della scala della vita” (Le madri). Verso di lei il figlio leva il suo sguardo affettuoso e partecipe. Presente è inoltre nella mente del nostro poeta il colore e il calore della terra in cui è nato, la Tripolitania, da sempre rimpianta: “Tripoli, / voce nel vento. / Lontana sete” (Pupille). E’ da osservare infine che in questo libro non mancano i riferimenti culturali, come quello riguardante un frammento di Empedocle: “Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori dal mare”, la cui eco si avverte in questo incipit: “Anche io fui germoglio, / pesce che nuota veloce, fanciulla / e fanciullo” (Involuzione). Così è anche per un titolo: La vita è sogno, che evidentemente riecheggia quello del noto dramma di Calderón de la Barca. Nevio Nigro appare pertanto con questi agili ed essenziali versi un poeta ancora nel pieno della sua attività creativa; certo un autore che negli ultimi tempi sembra aver trovato una stagione felice al suo estro. Lo stesso può dirsi per il secondo libro di poesie di Nevio Nigro, del quale qui vogliamo occuparci, Ombelico di luna, apparso per i tipi dell’Editrice Blu di Prussia nel 2015, con l’Introduzione di Giorgio Bárberi Squarotti, il quale in essa, tra l’altro, scrive: “… io spero che Nevio prima o poi si convinca anche lui - quello che importa è esserne certi - che quello che si è fatto, che si è
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scritto e che si scriverà ancora sono quei modelli di verità che rimarranno molto al di là di questi mesi, di questi anni, di questi tempi dove tutto dura non più che una moda, poche settimane pochi mesi e poi scompare”. Il che costituisce un implicito riconoscimento da parte di questo insigne critico del valore del libro in questione. E’ questa infatti una silloge nella quale Nigro si esprime con la consueta essenzialità e nettezza di eloquio attraverso poesie che sono per lo più d’ amore, nelle quali egli si rivolge ad una donna, parlandole in maniera fresca e autentica. “Ricordo quel passo di danza / e i piedi sull’ erba bagnata. / Rivedo il tuo volto di nebbia / amica dal cuore segreto” (Lontananze); “Ti aspetterò / sul molo del mio mare. // Sai dove sono. / Insegnami la luce” (Seguimi); “Dormono lontananze / d’ amore. / Nel senso della notte / vanno i ricordi” (Sete). Vero è che l’amore di Nigro non sempre è pacificato; a volte anzi costituisce motivo di dolore e di affanno, come avviene in Ragazza amara: “Ragazza amara / che vieni a turbare / il mio tempo / è stanco il passo / che si fa memoria” o in Fanciulla antica, che evoca un amore ormai perduto nelle pieghe del tempo: “Il tuo viso scolora / e fuggono / le nuvole rosa. // In questa solitudine / senza parole / tu non sei più”. Nella maggior parte dei casi comunque l’amore per Nigro è quello della pienezza dei sensi, come può rilevarsi da Sposalizio: “Bianca seta da sposa, / notte di aurora nascosta, / profondità di canto / che fiorisce” o da Marisa: “Il tempo dei colori ritorna / tra il sole e la neve. // Appare Marisa / dagli occhi profondi / e dal lieto sorriso” o ancora da L’abbaglio: “I pini erano azzurri. / La sabbia d’oro. / Le carezze giovani”. Altre tematiche però, oltre a quella amorosa, s’incontrano in questo libro, qual è quella del compianto di una poetessa morta, espresso con quell’affettuoso rimpianto che è proprio dell’elegia: “L’inchiostro si seccò. // Le greche / melodie / ti seguirono / in volo” (Delos – Ricordo di Enrica di Giorgi). C’è poi, anche in queste poesie, il ricordo della terra in cui Nigro è nato, L’Africa, che
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con i suoi colori e suo profumo talvolta a lui fa ritorno a ridestare un’antica nostalgia: “La mia terra è laggiù. / L’ho lasciata bambino // Spesso ritorna…/…/ Col suo profumo / simile a un sospiro” (Un sogno). E c’è il rimpianto della perduta giovinezza: “Un tempo gli alberi / guardavano in segreto, / i giorni erano azzurri / e la felicità si lasciava baciare” (Una notte speciale). Dove però Nigro in questo libro, come già nel precedente, tocca i suoi toni più alti è in Ricordo del padre, una poesia nella quale intensa si fa la sua voce, nell’evocare la figura paterna, mentre una profonda tristezza lo tiene: “Un libro chiuso / nella mano bianca, / col dito dentro / per tenere il segno / … / «Nevio sei tu?» / chiedeva, e premuroso, / richiudeva la piccola finestra”. Pochi tocchi e subito l’ anziano genitore ci viene incontro e ci affascina con la sua gentile presenza. La poesia prosegue, descrivendo “l’alta persona, / l’ occhio azzurro e chiaro, / giovane ancora il viso, / la voce forte / diventata dolce”; “lo studio coi suoi libri” e il quadro che lo ritrae “col tocco e l’ermellino”. Nevio s’intrattiene un po’ con lui e va via. Ritorna a sera e lo saluta in fretta, perché stanco. Aveva avuto però quasi un “presentimento” nel voler ritornare a salutarlo: quella sarà infatti l’ultima volta che lo avrà visto vivo e un profondo rammarico ora lo morde dentro: ”Le tue parole / in quella dolce sera. / Arrivederci. / Non ti vidi più. / Anzi ti vidi, / ma non eri tu”. Il poeta commenta: “Ti rivedrò. / Non so il giorno, / né l’ora, / ma lo so. / Accompagnami / intanto / con la tua vecchia / mano, / con la tua mente / giovane, / con la tua voce / adesso lontana”. Una poesia certamente riuscita, tra le più compiute di questo autore, che bene conclude un libro nel quale domina la forza dei sentimenti, espressi con quella semplicità e con quella schiettezza che ce li rivelano autentici. Elio Andriuoli NEVIO NIGRO, DUE LIBRI DI POESIE: POSSIEDO LA TUA ASSENZA - (Crocetti Editore, Milano, 2011, € 10,00) E OMBELICO DI LUNA (Blu di Prussia Editrice, Piacenza, 2015, € 10,00)
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LA TUNISIA DALLE ORIGINI ALLA COLONIZZAZIONE ROMANA di Leonardo Selvaggi I A Tunisia ha una storia plurisecolare di contese tra sedentarismo e nomadismo, iniziata circa tremila anni fa con i primi insediamenti fenici e si è conclusa ai giorni nostri con l’affermarsi dell’economia stanziale su quella itinerante. La Tunisia è abitata da tempi immemorabili. Nei pressi di Gafsa, la romana Capsa, si sono trovati resti di insediamenti risalenti a 12- 14 millenni a.C. In quei tempi il deserto era ancora per buona parte coperto da praterie e foreste. Tra il IV-II millennio a.C. troviamo i Berberi, termine di derivazione latina, è una modificazione di barbaro, chiamati dai Romani anche Numidi, dediti in parte a una rudimentale agricoltura, in parte alla pastorizia. Nella zona pre-desertica avevamo i feroci Garamanti, i progenitori dei Tuaregh, vivevano di pastorizia e di incursioni predatorie. Si servivano di cavalli, il cammello introdotto tra il 500 e il 100 a.C. con probabilità dalla Mongolia. I fenici si vedono sulla coste tunisine intorno al 1100 a.C., provenivano dall’attuale Libano. Era più o meno l’epoca in cui in Anatolia veniva distrutta Troia. Non erano conquistatori, ma navigatori e commercianti, volevano avere degli scali lungo i viaggi verso la Spagna, dove andavano a prendere rame e stagno.
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II Lo sviluppo della Tunisia con la fondazione di Cartagine, le cui origini sono incerte, si parla dell’anno 814, anche la storia di Didone immersa nella leggenda. Si dice che fuggì da Tiro in Libano, in seguito alle insidie del fratello Pigmalione. Didone fonda Cartagine con il consenso del re berbero dei Maxitani. L’ estensione non doveva essere maggiore dello spazio che doveva avere la pelle di un bovino. Con astuzia Didone taglia in piccole strisce la pelle di un bufalo con cui delimita una zona che poteva contenere un villaggio. Cartagine, significa Città nuova, nel 500 a.C. è già una potenza marinara. Il suo impero arriva fino alla Spagna meridionale, alle isole Baleari, alla Sardegna, alla Sicilia. Il tentativo di conquistare la Sicilia dà inizio allo scontro con Roma. Si ha la prima guerra punica (264241), che ha dalla parte di Roma Attilio Regolo e Caio Duilio e da parte cartaginese Annone e Amilcare. A Milazzo Cartagine viene sconfitta. La seconda guerra punica vede Annibale contro Fabio Massimo e poi contro Scipione. A Zama, nel centro della Tunisina, nel 204 a.C. Annibale è vinto. Roma impone tributi sempre più pesanti. Cartagine si ribella, abbiamo la terza guerra punica, 149-146. La Città tunisina viene rasa al suolo. Per oltre sette secoli Cartagine ha trasmesso il messaggio dell’Oriente, tenendo il predominio su tutto il mondo antico. Oltre alle città costiere, come Utica, fondata dai Tiri nel 1101 a.C., Agrumeto, si sono avuti abitati nell’interno: Dougga, importante per posizione geografica, vicino Cartagine, Thala, Capsa, Bulla Regia, Zama, che sono stati sedi di re dinastici. La lotta tra Cartagine e Roma va vista nello scontro trimillenario tra civiltà e cultura orientali e occidentali. Ricordiamo la guerra tra Greci e Persiani V sec. a.C., tra le truppe musulmane e quelle di Carlo Martello VIII sec. d.C., eserciti europei contro quelli turchi a Lepanto, 1571. L’Oriente sempre fermato. La guerra fredda tra Patto di Varsavia e Nato, 1945 – 1989 e le tensioni dell’integralismo islamico antioccidentale.
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III Dal 100 a.C. i Romani si insediano in Tunisia, chiamata Africa. La latinizzazione inizia con Cesare e continua con Augusto. Di tutti i paesi del Mediterraneo la Tunisia è quello più prospero e progredito. Oltre duecento città, molte di queste raggiungono splendore e opulenza. La Tunisia divenuta terra cristiana dopo la conversione dell’imperatore Costantino nel 313 d.C.. Si contrappone alla nuova fede l’eresia donatista, che in seguito accetta le deliberazioni prese dal concilio di Cartagine, grazie anche al sostegno dato all’ ortodossia da parte di S. Agostino. Nei 50 anni successivi continua la colonizzazione romana finché, dopo che Cesare sconfigge l’ultimo re dei Numidi, Giuba I, nel 46 a.C., non si pensa in modo più organizzato all’espansione della provincia. Tutte le costruzioni lasciate dai Romani realizzate grazie ai ricavi derivati dalla fertilità della terra. Frumento e cereali nelle pianure e nelle vallate del Nord che hanno fatto considerare la Tunisia il granaio di Roma. Terra da viti più a sud e terra da olivi al centro. Alberi da frutto nella penisoletta di Capo Bon, dove accanto all’olivo crescono il fico, il mandorlo e il melograno. La Tunisina ricca di culture varie già descritte da Plinio. Al museo del Bardo, a Tunisi, nonché nei musei di Scusse, di El Jem, di Sfax e di Cartagine si possono vedere i mosaici più belli che una volta pavimentavano il suolo e oggi sono esposti, appesi ai muri come quadri. Un celebre quadro trovato a Cartagine raffigura la bacchiatura delle olive in inverno, fiori in primavera, messi in estate, vendemmia e caccia delle anatre in autunno. Fu l’ Africa romana, proprio per la creatività e abilità nell’arte musiva, a fornire ad altre province dell’impero mosaicisti, come testimonia la bellezza della Villa del Casale di Piazza Armerina in Sicilia, del V secolo. La scoperta dei mosaici risale a un secolo fa. Prima di questa documentazione iconografica la civiltà romana in Africa è sopravvissuta grazie alle opere letterarie. L’Africa, terra di scrittura fin dall’arrivo dei Fenici; i Romani hanno continuato questa tradizione con iscrizioni, epitaf-
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fi. In mezzo a tanta classicità dominava Virgilio, si declamava negli ambienti culturali il suo poema nazionale, che cantava gli amori di Didone e di Enea, scritto in occasione della rinascita di Cartagine, voluta da Augusto nel 44 d.C.. Un mosaico trovato a Sousse rappresenta Virgilio in atteggiamento meditativo con un rotolo di papiro sulle ginocchia, attorniato da due muse, Clio e Melpomene. Oggi è al Museo del Bardo a Tunisi. IV Molti i grammatici, gli oratori, i pedagoghi, i giuristi, i poeti provenienti dall’Africa. Sotto Adriano Lucio Anneo Floro, storico dell’ impero, l’oratore Frontone di Cirta insegna eloquenza a Marco Aurelio. Apuleio, nato intorno al 125 d.C. a Madaura, scrive, verso il 170 d.C, la celebre “Metamorfosi o l’Asino d’ oro”, capolavoro della letteratura latina. Tertulliano, nato a Cartagine tra il 155 e il 160 d.C., morto intorno al 220, erudito e retore, scrive l’Apologeticum, confutando i pagani con eloquenza e tenacia. San Cipriano, vescovo di Cartagine nel 249, durante la persecuzione nel 258 condannato e decapitato, ha lasciato un ricco epistolario, fonte preziosa per la storia della Chiesa nel III sec. Sant’ Agostino, uno dei padri della Chiesa, nato a Thagaste nel 354, tra la Tunisia e l’Algeria, vescovo di Ippona, scrive le Confessioni, biografia vibrante di sincerità e di emozione e i De Civitate Dei, opera di valore universale. Ama il suo popolo che, dopo quattrocento anni di presenza romana, parla ancora nelle remote campagne il punico. S. Agostino muore ad Ippona nel 430, quando alle porte della città si trovano già i Vandali, che avrebbero regnato per un secolo su queste terre prima di essere cacciati dai Bizantini, dominatori fino all’arrivo degli Arabi. La presenza di Roma ancora oggi splende nella luminosa, fertile Tunisia con le testimonianze archeologiche, ammirevoli per la loro imponenza e bellezza. A Cartagine osserviamo i resti straordinari delle colonne di granito che ornavano il Frigidarium delle terme di Antonino Pio. A El-Jem, nella pianura della Tunisia
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centrale, vi è uno dei più spettacolari monumenti romani di tutta l’Africa, II-III sec., l’ Anfiteatro a tre ordini di arcate, ben conservato, il più grande dopo quello di Roma e Capua: il vanto della città romana di Thysdrus. I resti di Dougga sono dominati dal Capitolium, imponente costruzione romana nell’Africa settentrionale, dedicata a Giove, Giunone e Minerva. Rinvenuto nella stessa area il mosaico del IV secolo, che rappresenta Ulisse legato all’albero maestro della sua imbarcazione per sfuggire all’incanto delle Sirene. A Bulla Regia gli scavi hanno messo in luce ricche dimore di vari piani posti nel sottosuolo. Di grande interesse la tecnica costruttiva che permetteva di avere ambienti freschi, indispensabili per vivere nella valle della Mejerda, caratterizzata da un clima torrido. Sono Monumenti di grande maestosità che glorificano Roma nella sua storia di colonizzazione, ma soprattutto di civilizzazione, con tracce indelebili, un politica e di cultura. Passato che è rimasto nei secoli successivi base insostituibile per gli ulteriori progressi avuti di organizzazione Leonardo Selvaggi È QUI È qui che t'incontrai sotto questa luna e subito sperai nella fortuna. È qui che ti portai la prima volta e "sempre" e "mai" dicemmo sotto la volta. È qui che ti decanto pur il mio sentire poche righe ammanto so che sai capire.
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che possiam vivere essere ed ancora essere e comprendiamo anche il morire perché sappiam del ritornare. È qui che ci rincontreremo altri corpi avremo forse non ci riconosceremo m'ancora ci ameremo. È qui che aprirò il tuo cuore nutrendolo d'amore giochi purezza candore gioia stupore. È qui che tutto accade e siamo noi a farlo oppure nulla accade e siamo noi a farlo. Michele Di Candia ASPETTO... Aspetto con dolce frenesia che cresca l’erba e fioscano i girasoli, che i papaveri infiorino i campi e le spighe di grano si fanno mature per cantare inni di gioia per la mietitura. Oh Signore dacci il pane quotidiano, la salute, la pace e il Tuo perdono, fai fiorire i cuori secchi e rinsecchiti, allontana il diavolo che s’intrufola tra i più deboli, fa splendere la Tua luce fra tutti i popoli. Tanti alberi tutti in fila ci proteggono, i loro ombrelli verdissimi ci scaldano il cuore, profumo d’aria pura ci regalano ad ogni respiro, la vita risorge sotto la loro protezione, grazie del Tuo grande dono oh mio Signore! 20 – 6 – 2015 Giovanna Li Volti Guzzardi
È qui
Australia
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GIUSEPPE GANGALE IN UN LIBRO CURATO DA
GIOVANNI GIUDICE di Carmine Chiodo
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L libro, curato magistralmente da Giovanni Giudice (Presidente del ”Centro Greco-Albanese di Glottologia (Kjondyr i Arbresh ddituricle gkilluhoory)” Giuseppe Gangale“ di Crotone – San Nicola dell’Alto) presenta la figura e l’opera, le poesie di Giuseppe Gangale (1898 Cirò (KR), 1978 Muralto – Locarno (Svizzera)). La figura e l’opera sono sconosciute ai più e anche in Calabria pochi son quelle persone che abbiano di lui qualcosa, tantissimi ne ignorano l’esistenza. Ora Giovanni Giudice lo fa conoscere e soprattutto viene analizzato il poeta, lo scrittore, il filologo che è stato Giuseppe Gangale, il quale ha avuto una vita caratterizzata da varie esperienze: cattolico, ateo, protestante, ad esempio “Mai fermo,
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mai pago del raggiunto. Sempre insoddisfatto, sempre cercando” (M. Uffer). Giovanni Giudice delinea molto la vita di Giuseppe Gangale, che spesso ritornava in Calabria, tra i suoi. “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli” dice Gesù: Gangale stesso dice di esser nato a Cirò Marina, dove, nel 1898 [il 7 marzo], in una casa di campagna contrada S, Gennaro al Tirone], aprii gli occhi, Ma la mia vera dimora sarà Cirò Superiore. Mio padre Giovanni, fu un uomo legato alla tradizione cattolica, mentre mia madre, Maria Teresa Pollizzi, catanzarese è nata a Mesoraca e poi trasferitasi coi genitori a Catanzaro fu una donna colta e di idee aperte e liberali” (v. p. 7). Gangale ebbe una origine arbyresh e un giorno d’estate, una estate soleggiata, con un suo zio si imbattono in due donne albanesi che vengono a far legna e frasche, operazione a quei tempi proibita. Queste donne hanno vestiti dimessi e mediocri, ma pure agili ed eleganti nei loro stracci. Lo zio Filippo, guardaboschi, che dovrebbe multare quelle donne, si impietosisce di fronte a ciò che dicono quelle contadine: “My shity, na jemi ty vorfyn” “I shèsmi, na jeemi ty shkkrèeta” (le vendiamo, noi siamo povere). Lo zio le lascia andare. Comunque Giudice analizza altri fatti importanti della ricca e affascinante vita di Gangale, la sua collaborazione a “Conscientia”, i suoi articoli ivi apparsi, la sua attività di editore, creando la casa editrice appunto Doxa, messa in piedi con la liquidazione come direttore di “Conscientia” (16.000 lire). Con questa casa pubblica 13 libri, sette suoi, e poi pubblicò libri ad esempio di Lutero. Spirito inquieto e desideroso di nuove conoscenze e acquisizioni lascia poi l’Italia quando era nell’età i 36 anni e si porta a Berlino e qui riceve vari incarichi poi passa ancora all’ università di Tubinga e studia le minoranze del Nord e del Baltico: lingua estone, dialetti lapponi, ladino, lingua post-retiche; e nel 1938 ottiene la cittadinanza tedesca. Poi ancora Gangale va in Danimarca, Svezia, Finlandia e nel 1940 inizia l’insegnamento di italiano nell’Università di Aarhus. Gangale come
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glottologo e linguistica ha studiato la lingua romancia e Giovanni Giudice illustra in modo esaustivo le teorie linguistiche del carotano che soggiornò per motivi di studio in Danimarca, sulle Dolomiti per studiare il linguaggio ladino, dei ladini ma trova pure il tempo di ritornare nella sua diletta Calabria, dopo il primo incarico ricoperto nell’ Università di Copenanghen un incarico. In Italia il Gangale ebbe altri riconoscimenti e incarichi: quello dell’Accademia dei Lincei in Roma. Dicevo prima che Gangale ebbe diversi sentimenti religiosi. Calvinista, ma poi ritorna nel 1977 al cattolicesimo, e aveva 79 anni. Egli era convinto che le uniche chiese che hanno un futuro sono quelle che si rifanno ai movimenti popolari e che al popolo danno quella presenza e quella testimonianza di cui esso ha bisogno, mentre le chiese evangeliche storiche non hanno più alcun futuro, come dice intervistato il 16 giugno del 1978 da Lietta Pascal. Gangale è soprattutto – come dice Giovanni Giudice - un filologo e poeta, e le sue prime poesie in italiano appaiono nel libro Il Dio straniero (Doxa, Milano 1932). Gangale ci ha lasciato varie opere di contenuto religioso in lingua italiana, ha collaborato con vari articoli a diverse riviste e giornali¸ ha scritto articoli in danese e sulla lingua romancia, in lingua tedesca, ha composto poesie e prose nell’idioma sudsilvano; poesie in tedesco; ha effettuato varie traduzioni; ha scritto tanti racconti, opere teatrali. Ci ha lasciato varie opere e studi sugli albanesi di Calabria, e su di lui esiste una vasta bibliografia. Comunque Giovanni Giudice commenta e spiega in profondità le poesie di Giuseppe Gangale, e si tratta di poesie composte - come dicevo prima - in lingua italiana e poi seguono quelle in romancio e ladino, e poi ancora rapsodie arberiscae apocryphae, e ancora poesie in tedesco. Orbene Gangale scriveva queste poesie anche per tener viva la tradizione e la parlata delle minoranze linguistiche, da lui tanto amate e studiate. Egli compose le poesie ad esempio in romancio e in arbyresh verso il 1934, e lo scopo era quello di salvare
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queste minoranze minoritarie recuperando “le parole perdute“. Il poeta si sente arbyresh, è con tutti alle Russalle. Nella sua fantasia rivede se stesso, il suo paese natale, i reperti del tempio di Apollo presso Punta da Lice, la Madonna d’Itria, l’arciprete Agostino Gangale di Cirò suo antenato, i tre paesi arberyreshy della zona e la loro caratteristica. In questo canto il poeta Gangale con le sue capacità di sintesi, amalgama tutto: classico – pagano, romanico-cristiano, in una costruzione primigenia. Un commento, questo del Giudice alle varie poesie del Gangale molto preciso e minuzioso e l’attenzione dello studioso si basa su ogni strofa. Gangale ci ha lasciato vari canti e uno certamente tra i suoi più belli è quello dedicato alla città di Crotone: ”Argilla dei colli d’argilla/attorno alla città di Crotone,/senza foglie, senz’alberi,/ tu pallida, corpo esangue,/plasma primo, prima che/Dio spandesse dell’erbe la semenza /dal sacco della sua misericordia” (v. p. 203). Ci troviamo davanti a una poesia carica di immagini primordiali, di riflessione religiosa, esistenziale e classica. La misteriosa presenza di Dio avvolge ogni cosa. Tante volte è passato a piedi, in macchina, come scrive Giovanni Giudice, tra quelle brulle colline, un tempo cosi verdi. ”Saaheery ty shkov’ure mb’aany!” (quante volte io ti passai accanto!). Crotone un tempo città di Pitagora ora è zona industriale, la Crotone della Montecatini. Il poeta comunque partito da una descrizione arida e cruda, assai banale, si è subito innalzato ad “elevate intuizioni e riflessioni religiose e filosofiche. C’è Lucrezio, Foscolo, Dante, Calvino e…Gangale” (v, p. 206). I versi di Gangale sono “stazioni” di una molto personale ed originale ricerca di verità, rifrangenze speculari del “totus” infelice ma vibrante della condizione umana. Il tutto con “una misura poetica che è sostanzialmente rapsodica, in cui confluiscono, cioè, il dato etico, quello romantico, quello mitico, e in cui tonalità musicali di matrice evidentemente orientale si fondono con la timbricità della tradizione lirica occidentale. Grazie a Giovanni Giudice per averci fatto
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conoscere una personalità interessante di filosofo e linguista, oltre che un notevole poeta e scrittore. Carmine Chiodo Giovanni Giudice, Poesie di Giuseppe Gangale: Rradderi i Europes / Il ramingo d’Europa: Con testi in Italiano, Romancio, Arbyresh, Francese, Tedesco - Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2003.
LA COLLANA DI CRISTALLO Avevo una bellissima collana di rilucenti grani di cristallo, l'amavo tanto perché mi piaceva ammirare i colori che la luce giocando in essa sempre vi traeva.
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Neanche stasera possiamo mangiare dell’insalata (è radioattiva) o bere una buona tazza di latte (contiene iodio e stronzio). E’ stato vietato dal governo dopo lo scoppio al reattore nucleare laggiù in Ucraina (si troveranno dei capri espiatori ma l’atomo non sarà abbandonato, anzi, nuovi Paesi pretenderanno di potersene dotare). Proprio per questo si deve continuare ad amare la libertà, la pace e la giustizia, e la bellezza che non muore ma sempre si rinnova, e lavorare tutti, giorno dopo giorno, per un mondo veramente migliore, nonostante tutto l’odio che serpeggia per il mondo, nonostante le armi, il fuoco, il sangue. Luigi De Rosa
Mi ci ero abituata e la trattavo un po' con noncuranza e la lasciavo spesso sulla tovaglia dopo cena. Ma un giorno non so come per errore scuotendo la tovaglia dal balcone la mia bella collana di cristallo cadde in cortile e – orrore! -si spezzò.
Rapallo, Genova, 1986
Addolorata ne raccolsi i grani che, ricomposti, (uno rotto ne mancava) ridiedero splendore alla collana. Da allora la conservo con più amore ed attenzione ed evito con cura ogni cosa che possa danneggiarla. E ho ancora una bellissima collana di rilucenti grani di cristallo. L'amicizia è come una collana di cristallo. Mariagina Bonciani Milano
COME SI PUÒ CONTINUARE, DOPO CERNOBYL? (Utopie di poeta) Come si può continuare, dopo Cernobyl, a sognare ed a scrivere poesie ?
CERCATOR DI COMPRENSIONI Si in qualche modo anch'io c'ero tra quelle umane moltitudini per mari e per terre vaganti in cerca di case d'approdo. Qualcuno mi chiamò "fratello!" qualcuno grugnì a quello tutti gli altri senza più voce e tremanti alla speranza. Ma io guardandoli vidi ed in loro mi riconobbi ed in loro seppi ME STESSO anche se a volte non so... non mi comprendo del tutto e comprensioni migliorarmi dovrei di quelli innumerevoli... ME STESSO affinché l'approdo vivibile sia. Michele di Candia Inghilterra
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MICHELE GIUTTARI IL MOSTRO di Giuseppe Giorgioli ______________
Durante il mese di agosto ho voluto leggere tre libri, fra loro collegati, uno sul Mostro di Firenze di Michele Giuttari, un altro su varie storie di cronaca italiana, fra cui anche quella del mostro (o mostri di Firenze) di Carlo Lucarelli ed il terzo “La strana morte di Wilma Montesi” di Angelo Frignani, che avevo in casa da qualche tempo. Ne fornisco una breve recensione per la gradevolezza che ho avuto nel leggerli. In questo numero viene presentata la recensione del Libro “Il Mostro” di Michele Giuttari. _____________
E
CCO la dichiarazione di Michele Giuttari quando fu incaricato dal Procuratore Piero Luigi Vigna di indagare sul mostro di Firenze nel 1995 e dopo la condanna di Piero Pacciani il primo novembre 1994 come unico colpevole dei duplici omicidi dal 1974 al 1981, con relativa assoluzione per il delitti del 1968: “ho passato trentadue anni in polizia, più otto mesi e quindici giorni vissuti intensamente solo ed esclusivamente nel settore investigativo". Fu lui a intuire che Pietro Pacciani "non poteva aver fatto tutto da solo”. Anche se Pietro Pacciani era un uomo violento, già colpevole di un omicidio nel 1951, aveva tutte le caratteristiche del mostro. Così dichiara Giorgio De Rienzo sul Corriere della Sera: “Giuttari vuole testimoniare a ogni costo l'attaccamento a pochi semplici e saldi principi, in un mondo che li calpesta ogni giorno con una disinvoltura.” Il libro si divide in quattro parti. La prima parte illustra la cronistoria dei delitti dal 1968 al 1985, che si concluderà con il processo a Pacciani, riconosciuto colpevole di tutti i delitti dal 1974 al 1985. Il processo inizia il 19 aprile 1994, dura 41 settimane e si conclude il primo novembre 1994. La notte del 21 agosto 1968, all'interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata presso una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bian-
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co, muratore siciliano di 29 anni, sposato e padre di tre figli, e Barbara Locci, casalinga di 32 anni, di origini sarde. I due erano amanti; la donna era sposata con Stefano Mele, un manovale sardo emigrato in Toscana alcuni anni prima. Al momento dell'aggressione, intorno alla mezzanotte, i due sono intenti in preliminari amorosi. Sul sedile posteriore dorme Natalino Mele, di 6 anni, figlio di Barbara Locci e Stefano Mele. L'assassino si avvicina all'auto ferma ed esplode complessivamente otto colpi da distanza ravvicinata: quattro colpiscono la donna e quattro l'uomo. Verranno repertati cinque bossoli di cartucce calibro.22 Long Rifle Winchester con la lettera "H" punzonata sul fondello. Sarà il bambino che al suo risveglio darà l’ allarme. L’arma usata sarà la stessa di tutti i delitti del mostro dal 1974 in poi. Il 14 settembre 1974 ha luogo il primo duplice omicidio di apparente natura maniacale; Pasquale Gentilcore di 19 anni, impiegato alla Fondiaria Assicurazioni, e Stefania Pettini, 18 anni, segretaria d'azienda presso un magazzino di Firenze ed attivista del Partito Comunista Italiano, vengono uccisi in una strada sterrata nella frazione di Rabatta, vicino a Borgo San Lorenzo. Intorno alle 23:45 qualcuno spunta forse dall'attiguo vitigno e comincia ad aprire il fuoco. Pasquale Gentilcore, seduto al posto di guida, viene raggiunto da cinque colpi esplosi da una Beretta calibro.22 Long Rifle, la stessa utilizzata nel delitto del 1968; i colpi mortali arrivano dal lato sinistro della 127. La ragazza viene raggiunta da tre colpi che tuttavia non la uccidono; viene trascinata fuori dall' auto ancora viva, resa del tutto incapace di fuggire a causa delle profonde ferite alle gambe provocate dai tre proiettili, e uccisa con tre coltellate profonde allo sterno. Dopo averne disteso il corpo dietro l'auto, l'assassino continua a colpirla per altre 96 volte, colpendo anche il seno ed il pube. Successivamente l'omicida penetra la vagina della ragazza con un tralcio di vite; particolare questo che, anni dopo, farà pensare ad un possibile movente esoterico.
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Le sevizie sul corpo di Stefania furono tanto violente da causare, in sede processuale, lo svenimento di un Carabiniere, durante l'udienza in cui venivano mostrate le foto del corpo della ragazza. Tale dinamica si conferma simile in tutti i successivi delitti (tralcio di vite, asportazione del pube e di un seno, tipo di arma). L’unico delitto che non si infierì sulla donna è il delitto di due tedeschi giovani: l’assassino credeva che uno dei due fosse donna. Il primo dei due duplici omicidi del 1981 viene commesso nella notte tra il 6 ed il 7 giugno nei pressi di Mosciano di Scandicci. Le vittime sono Giovanni Foggi, 30 anni, dipendente dell'Enel, e la sua ragazza, Carmela De Nuccio, pellettiera di 21 anni. I due si conoscevano da pochi mesi ma avevano già programmato di sposarsi. Il 23 ottobre 1981, a soli quattro mesi di distanza dal precedente omicidio, a Travalle di Calenzano vicino a Prato, in località Le Bartoline, lungo una strada sterrata che attraversa un campo, a poca distanza da un casolare abbandonato, vengono uccisi Stefano Baldi, di 26 anni, operaio tessile di Calenzano e Susanna Cambi, commessa di 24 anni. La notte del 19 giugno 1982, a Baccaiano di Montespertoli vengono uccisi Paolo Mainardi, meccanico di 22 anni, e Antonella Migliorini di 19, dipendente di una ditta di confezioni. Il 9 settembre 1983, a Giogoli, vengono assassinati due turisti tedeschi, Jens-Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, entrambi di 24 anni, studenti presso l'Università di Münster che al momento dell'aggressione si trovano a bordo del loro furgone Volkswagen T1. I ragazzi vengono raggiunti e uccisi da sette proiettili, sparati con una certa precisione attraverso la carrozzeria del furgone, ma verranno messi a referto solo 4 bossoli sui 7 che si sarebbero dovuti effettivamente rinvenire. Le indagini successive al delitto permetteranno di stabilire che i colpi erano stati sparati da un'altezza di circa un metro e 30 centimetri da terra, il che fa supporre che l'assassino fosse alto almeno 1 metro e 80, o anche di più.
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Le vittime del penultimo delitto del Mostro di Firenze sono Claudio Stefanacci, studente universitario di 21 anni e Pia Gilda Rontini di 18 anni, da poco tempo impiegata presso il bar della stazione ferroviaria di Vicchio e majorette nella banda musicale del paese. L'auto dei giovani, una Fiat Panda celeste, è parcheggiata in fondo a una strada sterrata che si diparte dalla Strada Provinciale Sagginalese, contro il terrapieno di una collina. Quando vengono aggrediti, i due ragazzi sono seminudi sul sedile posteriore della Panda di proprietà del ragazzo. L'omicida spara attraverso il vetro della portiera destra colpendo il ragazzo quattro volte (di cui una alla testa), e due volte la ragazza (colpita al volto e al braccio che aveva probabilmente steso di fronte alla faccia come estremo gesto di difesa). L'ultimo duplice delitto (quello su cui si hanno più particolari e riscontri) avviene nella campagna di San Casciano Val di Pesa in frazione Scopeti, all'interno di una piazzola attorniata da cipressi, attigua ad un cimitero, in cui erano solite appartarsi le giovani coppie. Le vittime sono due giovani francesi, Jean-Michel Kraveichvili, musicista venticinquenne, e la trentaseienne Nadine Mauriot, commerciante, madre di due bambine piccole recentemente separata dal marito, entrambi provenienti da Audincourt. La prima parte si conclude con la condanna di Pacciani il primo novembre del 1994. Nella seconda parte vengono descritte le indagini di Michele Giuttari dal 1995 in poi. “Signor Procuratore, penso che Pacciani sia effettivamente responsabile, ma che dietro a lui ci siano altri.” Così Giuttari risponde al Procuratore Pier Luigi Vigna la mattina del 4 dicembre 1995. L’Appello è ormai prossimo e Giuttari si trova in una lotta contro il tempo. Inizia ad indagare sulle amicizie di Pacciani. Interroga ad uno ad uno Mario Vanni, deviato sessuale, Giancarlo Lotti, Filippa Nicoletti, Gabriella Ghiribelli, prostituta, Norberto Galli -protettore, Fernando Pucci... Viene a sapere, fra l’altro, che Filippa stava con un certo Salvatore Indovino, il quale era un “malato di
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sesso”, presso la cui colonica si facevano sedute spiritiche dove veniva anche Pacciani. Purtroppo Salvatore non poteva essere interrogato in quanto deceduto nel 1986. Durante un interrogatorio Pucci ammette di essere passato il giorno del delitto agli Scopeti e che due uomini lo abbiano minacciato di morte: erano Vanni e Pacciani! Tanti testimoni risultano morti: Milva Malatesta, vicina di casa di Salvatore Indovino morta carbonizzata con il figlio di tre anni all’interno di una Fiat Panda il 20 agosto 1993. Delitto rubricato ad opera di ignoti. Nel maggio 1991, pochi giorni prima di uscire dal carcere, il convivente di Milva Vincenzo Limongi fu trovato impiccato nella sua cella. Anche il padre di Milva fu trovato impiccato nella vecchia casa colonica dove viveva con la moglie. Un curioso caso di suicidio: i piedi toccavano terra. Il fruttivendolo di Prato, Domenico, nel mese di agosto del 1994 scomparve dalla sua abitazione. La madre di Milva aveva rapporti sessuali con Pacciani e con Vanni. Dopo vari interrogatori emerge che Vanni è riconosciuto colpevole, almeno per il delitto degli Scopeti, confermato da due testimonianze oculari (Pucci e Lotti, con il nome di”Alfa” e “Beta” in codice). Il 13 febbraio del 1996 Vanni viene arrestato. La notizia va su tutti i giornali. In mattinata però arriva la notizia che i giudici d’appello hanno respinto la richiesta di ascoltare i nuovi testimoni, sostenendo che non erano identificati perchè nei verbali erano stati indicati in codice con le lettere dell’alfabeto greco. Successivamente Pacciani, difeso dall’avvocato Nino Marazzita, viene assolto “per non aver commesso il fatto”. Tutte le prove a suo carico sono state smantellate. Viene interrogato Vanni in carcere: afferma che Lotti si è inventato tutto e che non c’entra con i delitti. Nella terza parte Michele Giuttari continua le sue investigazioni senza scoraggiarsi per l’assoluzione di Pacciani. Negli interrogatori comincia a trovare un coinvolgimento maggiore nei delitti di Giancarlo Lotti. E’ di particolare interesse l’interrogazione di Anto-
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nietta, che abitava vicino al mago Salvatore. Antonietta sposata con figli doveva subire sotto ricatto le avances e le violenze sessuali di Vanni e Pacciani. Sospetta che loro gli hanno ammazzato il marito di botte. Inoltre afferma che Vanni e Pacciani frequentavano la casa del mago Salvatore dove avvenivano le messe nere. Lotti, preso dal rimorso e sotto pressione del padre spirituale Don Fabrizio, confessa la sua partecipazione ai delitti e che i feticci asportati (seno, pube..) venivano consegnati da Vanni e Pacciani ad un dottore (dietro pagamento?). A questo punto Giuttari chiede alla Procura l’autorizzazione a eseguire accertamenti di natura patrimoniale e finanziaria nei confronti di Pacciani, Vanni e Lotti. Lotti confessa a Giuttari che ha dovuto subire un rapporto omosessuale da parte di Pacciani e per questo sotto ricatto ha dovuto partecipare al delitto di Baccaiano con Pacciani. Sia Vanni che Lotti e Pacciani erano sessualmente deviati. Giuttari scopre che i delitti si facevano in gruppo dove ciascuno aveva un compito assegnato: chi faceva il palo, chi sparava, chi infieriva con il coltello con le relative mutilazioni alla vittima. Giuttari scopre anche che Pacciani aveva nei vari uffici postali una somma pari a 157 milioni di lire. Il 12 dicembre 1996 la Prima Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione discute il ricorso proposto dal procuratore generale presso la Corte di Appello di Firenze contro la sentenza del 13.2.1996 che aveva assolto Pacciani. Praticamente viene stigmatizzato il comportamento del collegio giudicante che non aveva voluto ascoltare altri testimoni. Si ha così la sensazione che le vie della verità investigativa e di quella processuale si stanno finalmente ricongiungendo. E’ una vittoria di Michele Giuttari! Il 9 febbraio 1997 Lotti conferma di fronte al Giudice che ha dovuto subire un rapporto omosessuale da parte di Pacciani e per questo sotto ricatto ha dovuto partecipare al delitto di Baccaiano con Pacciani. Rigetta, fra l’altro,
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l’accusa di essere omosessuale. Nel capitolo X.V “Donne da macello” viene descritto che prima che il processo abbia inizio Giuttari riceve in ufficio la visita inaspettata di Lorenzo Nesi, il “collaboratore”, che parlava a rate. Viene a portare altre notizie su Vanni. Vanni frequentava una prostituta “gentile” e che lo soddisfaceva sessualmente, di 37 anni, di Firenze e di nome Clelia. La mattina del 14 dicembre 1983 viene trovata morta con violente coltellate. Altre donne nel periodo di attività del mostro vengono uccise a Firenze: Giuttari stila una tabella con citate 7 donne uccise, di cui 5 sono prostitute. Nel 1997 si svolge il processo a Vanni e Lotti: Lotti conferma di aver partecipato agli omicidi di Vicchio, Scopeti, Baccaiano e Giogoli. La domenica del 22 febbraio 1998 viene trovato morto Pacciani nella sua abitazione. Secondo il medico è morto per un arresto cardiocircolatorio. Lo scenario della sua abitazione è alquanto strana: finestre aperte, medicine e carte in disordine, luci spente (è morto di notte!). Giuttari non crede ad una morte per cause naturali e poi la morte è avvenuta di sabato notte, che è, fra l’altro, il giorno preferito dal “Mostro” per uccidere! Il 24 marzo 1998 il pubblico ministero Paolo Canessa riconosce il coinvolgimento insieme a Pacciani di Vanni e Lotti negli ultimi quattro duplici omicidi. Vanni viene condannato all’ergastolo e Lotti a trent’anni di reclusione. Tale sentenza non fa però luce sui mandanti degli omicidi, visto il possesso di somme ingenti del Pacciani (ha comprato un appartamento di 35 milioni e ha 157 milioni in buoni postali). La condanna di Vanni e Lotti verrà confermata in Appello nel 1999 e nel 2000 dalla Cassazione. Nella quarta parte Michele Giuttari continua le sue investigazioni sui mandanti dei delitti del Mostro. Questa volta Giuttari trova degli ostacoli nella sua attività investigativa in quanto viene chiamato a Roma il 20 agosto del 1998 presso la Direzione Centrale del Personale per un suo trasferimento. Non vi è
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più la volontà da parte della magistratura affinché si proseguano le indagini sui mandanti degli omicidi. Giuttari si oppone e prosegue nelle sue indagini. E’ costretto a ricorrere al TAR ed al Consiglio di Stato per impedire un suo trasferimento. Prende anche un periodo di aspettativa per motivi di salute e comincia l’attività di scrittore. Il 27 luglio del 2000 riesce a spuntarla e con due anni di ritardo riprende l’attività investigativa. E’ ormai fuori di dubbio la pista esoterica (delitti di sabato sera mentre le coppie facevano all’amore, notti di novilunio, tralcio di vite in vagina della donna uccisa a settembre 1974, ecc…). Dopo varie indagini Giuttari scopre che vicino al luogo dell’ultimo delitto del mostro si trovano alcuni cerchi in pietra costituenti un evidente segno esoterico. Indaga anche sul criminologo Francesco Bruno che aveva difeso Pacciani. Giuttari riceve lettere minatorie di morte! Ma la svolta accade quando viene interrogata il 6 novembre 2000 Maria, criminologa ed ex amante di un professionista fiorentino. Questo professionista era amico di un medico “Francesco di Foligno”, di cui si parlava di un suo coinvolgimento nei delitti del Mostro. Giuttari scopre che tale medico si chiamava Francesco Narducci e che era annegato nel lago Trasimeno un mese dopo l’ultimo delitto del “Mostro”. Non finiscono i colpi di scena: una certa signora Dora presso un istituto di Foligno riceve telefonate minatorie da un uomo e due donne con minacce di morte per lei e suo figlio, prospettandogli una fine simile a quella dei traditori Pacciani e Narducci! Su questi fatti inizia ad indagare il nuovo PM Mignini. Mignini interroga il 25 gennaio 2002 l’ispettore di polizia che aveva diretto le indagini della Squadra Mobile di Perugia e Foligno. Si chiama Luigi Napoleoni ed è ormai in pensione. Ricorda che la notte fra l’otto ed il nove ottobre del 1985 fu informato che era scomparso il dr. Francesco Narducci nei pressi del lago Trasimeno. Napoleoni fece un sopraluogo nella casa di Firenze del Narducci per trovare eventuali parti di corpo femminili. Partecipò al ritrovamento del cadavere di Narducci, annegato nel lago
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Trasimeno. Il PM Mignini indaga sulle ultime ore di vita di Narducci. L’otto ottobre del 1985, mentre stava in sala operatoria, nell’ ospedale di Monteluce a Perugia Narducci riceve una telefonata. Sospende il lavoro, torna a casa dalla moglie che rimane sorpresa, mangia velocemente e dice alla moglie che torna in ospedale. Invece va con la moto alla sua villa presso il lago Trasimeno e fa un giro con la barca a motore. Di lui non si sa più nulla fino alla mattina del 13 ottobre quando viene ripescato cadavere dal lago. Senza alcuna perizia legale viene archiviato il caso come disgrazia per annegamento. Giuttari viene di nuovo ostacolato nelle sue indagini con un tentativo di trasferimento a Prato. Inoltre riceve altre lettere minatorie e gli vengono squarciate le ruote della sua auto con un punteruolo. Si nutrono dei dubbi sulle cause della morte di Narducci. Viene fatta l’ autopsia e si scopre che il cadavere del lago non è quello di Narducci e che Narducci è stato strangolato! Il cadavere ripescato nel lago è stato portato in fretta e furia presso la villa del Narducci, dove probabilmente vi è stato lo scambio dei cadaveri. Sembrava vitale nascondere la morte di Francesco Narducci! Il 30 marzo 2003 muore Lotti portando con sé nella tomba i suoi segreti. Viste le resistenze che trova nelle sue indagini, Giuttari fonda un’Associazione il GIDES (Gruppo Investigativo Delitti Seriali – Firenze Perugia) con sede in un palazzo detto “Il Magnifico”. Nelle successive indagini si scopre che Francesco Narducci frequentava a Firenze sia Pacciani, che Lotti e Vanni. Si scopre anche che il farmacista di San Casciano Francesco Calamandrei era coinvolto nei delitti del “Mostro” e che frequentasse Narducci. Ignoti installano una borchia ISDN presso il GIDES per controllare i dati immessi nel PC dell’Ufficio di Giuttari. Giuttari il 20 gennaio 2004 fa perquisire la casa dell’ex farmacista Calamandrei. Successivamente il giornalista Mario Spezi scrive su “La Nazione” di Firenze che Giuttari ha fatto pubblicità al suo libro sulla pelle di Calamandrei. Il sindaco ed il parroco di San Casciano
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minacciano di querelare Giuttari per la sua accusa di omertà al paese di San Casciano. Giuttari si difende dicendo che l’omertà era solo per alcune persone di San Casciano che sono state reticenti durante le indagini, come ad esempio Vanni e Pucci. Il settimanale Gente con uno scoop scrive che Giuttari è stato rimosso dal suo incarico: notizia falsa! Nonostante tutte le incredibili polemiche contro l’operato di Giuttari, le indagini proseguono con altri colpi di scena. In un vecchio faldone viene ritrovato un fazzolettino sporco di sangue di gruppo B con un capello: Giuttari, consultando le carte, scopre che era stato consegnato il 4 ottobre 1985 da un certo Walter che lo aveva trovato sul luogo dell’ultimo delitto. Giuttari viene a recuperare la relazione di tredici pagine fatte a suo tempo. Insieme al fazzolettino erano stati trovati anche due guanti da chirurgo. I guanti non sono stati usati da Pacciani, Lotti e Vanni in quanto di taglia troppo piccola per loro. Il gruppo B fa pensare ad un’altra persona, che può essere la stessa dell’omicida della prostituta Clelia uccisa il 13 dicembre 1983: Clelia aveva fra le mani un ciuffo di capelli simili a quello trovato nel fazzolettino ed il sangue era di gruppo B. Siamo alle battute finali: la verità sui mandanti non viene ottenuta. Il tempo dirà se la verità investigativa sul “mostro di Firenze”coinciderà con quella giudiziaria o divergerà. A tutt’oggi la vicenda del Mostro di Firenze non si è ancora conclusa come risulta da una informativa giornalistica di Prato del 9 luglio 2015: - Le indagini sui delitti del Mostro di Firenze non sono ferme, proseguono sotto traccia e da qualche anno hanno cambiato "gestori": non più gli investigatori della squadra mobile di Firenze ma il Ros dei carabinieri. Il pm che le coordina è lo stesso, Paolo Canessa, che segue il caso dagli anni '80: adesso procuratore capo a Pistoia, ha comunque mantenuto la delega a indagare sugli omicidi delle coppiette. Secondo alcuni media di Prato e Firenze, il Ros si starebbe interessando ad alcune figure
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del cosiddetto "secondo livello", quello dei presunti mandanti dei delitti, o anche esecutori diretti degli omicidi, a cui apparterrebbero personaggi di ceto medio alto. Una pista che seguì la fase dei "compagni di merende", e che fu aperta dalle indagini sul farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, poi assolto nel 2008. Di recente l'interesse investigativo riguarderebbe un imprenditore tedesco immigrato in Toscana e imparentato con una famiglia di affermati imprenditori tessili di Prato. Ormai morto da alcuni anni, aveva vissuto in una villa presso Giogoli (Firenze), non lontano dal luogo di uno dei duplici delitti, cioè quello del 1983 dove vennero uccisi due giovani tedeschi in un camper. Secondo quanto emerge, il Ros - che tratta la vicenda con le modalità dei "cold case" - starebbe vagliando alcuni aspetti della vita dell' imprenditore tedesco dopo una segnalazione anonima. Sarebbero state sentite delle persone, anche se non ci sono conferme ufficiali dagli inquirenti. In passato per alcuni dei delitti attribuiti al maniaco sono stati condannati in via definitiva Mario Vanni e Giancarlo Lotti, accusati di essere gli esecutori materiali di quattro dei duplici omicidi. Pietro Pacciani, invece, morì in attesa di giudizio, dopo una condanna in primo grado, un'assoluzione in appello e un annullamento della Cassazione. Oltre a quella di Calamandrei, c'è stata inoltre l'inchiesta, archiviata, sul medico di Perugia Francesco Narducci. Inoltre, due mesi fa il Ros ha acquisito copia della registrazione di una trasmissione dedicata al Mostro dall'emittente Italia7 centrata su un reportage del documentarista Paolo Cochi: in base a più recenti studi scientifici di entomologi forensi e medico legali, andrebbe retrodatato il giorno dell'ultimo duplice delitto del maniaco, quello agli Scopeti: secondo la vecchia inchiesta era avvenuto l'8 settembre 1985, di domenica sera, ma per nuove valutazioni scientifiche la data andrebbe spostata di uno o due giorni indietro. L’autore Michele Giuttari è nato nel 1950 in provincia di Messina. Ha ricoperto incarichi alla Squadra Mobile di Reggio Calabria e
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successivamente ha diretto la Squadra Mobile di Cosenza e ha prestato servizio alla DIA di Napoli e Firenze. Dopo aver svolto nel 1993 le indagini sugli attentati di Mafia verificatisi a Firenze, dal 1995 al 2003 è stato capo della Squadra Mobile di Firenze, ricoprendo un ruolo determinante nelle indagini che hanno portato alle condanne dei Compagni di merende nella sanguinosa vicenda del Mostro di Firenze. Dal 2003 in poi è stato a capo di un pool investigativo denominato Gides (Gruppo Investigativo DElitti Seriali) in azione in Italia, alla ricerca dei possibili mandanti dei delitti del Mostro di Firenze. Nel 2006 ha subito, assieme al PM di Perugia Mignini, una denuncia per calunnia nell' ambito delle indagini sui mandanti del Mostro di Firenze. Nel 2008 è stato rinviato a giudizio per abuso d’ufficio in relazione alla denuncia del 2006. Il 22 gennaio 2010 viene assolto con formula piena perché il fatto non sussiste, assieme al PM di Perugia Dr. Giuliano Mignini, in relazione all'accusa iniziale e più importante di avere svolto indagini "parallele" e condannato, per ipotesi minori di abuso, ad un anno e sei mesi con l'accusa di aver fatto pressione su colleghi e giornalisti che avrebbero contrastato l'operato del Giuttari. Entrambi gli imputati vengono invece assolti dall'accusa di abuso d'ufficio in concorso in un'inchiesta collegata alle indagini perugine legate alla vicenda del Mostro di Firenze. Il Pubblico Ministero non ha impugnato l'assoluzione piena che è così definitiva. Il Dr. Giuttari ha ricoperto, dopo la fine delle indagini collegate, il ruolo di dirigente presso l'Ufficio centrale ispettivo ministeriale, organo dirigente della polizia di Stato. Dopo il pensionamento, il Dr. Giuttari si è dedicato all'attività di scrittore ed ha iniziato una lunga serie di interventi televisivi di commento degli episodi criminosi di attualità. A proposito dei suoi romanzi afferma: «Non ho dovuto cercare lontano. Parlo sostanzialmente di me stesso». Giuseppe Giorgioli MICHELE GIUTTARI - IL MOSTRO - Versione rilegata: Rizzoli - Edizione 2007, pag 360, Euro 18 €, ISBN: 88-17-00979-2.
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Rapporto tra silenzio e voce in un bel saggio di
GIUSEPPE LEONE D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA di Tito Cauchi
G
IUSEPPE Leone, ha insegnato letteratura italiana e storia negli Istituti Superiori; scrittore e saggista mostra particolare interesse critico verso alcuni personaggi della cultura, soprattutto facendone uno studio comparato. Nel suo repertorio, troviamo D’in su la vetta della torre antica, preso da un verso de Il passero solitario, con sottotitolo Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce. Il libro, di piccolo formato, è diviso in cinque sezioni ed è arricchito da un elenco di Opere e Bibliografia, e un Indice dei nomi (di circa 200 autori). L’attenzione è posta in particolare sul rapporto fra silenzio e voce, quindi sulla oralità (pronuncia e udito). Leone dedica il libro alla memoria del fratello Giovanni Antonio e dell’amico Vittoriano Esposito, grande estimatore del Recanatese; la copertina è di Bianca Banfi: un medaglione che raffigura Giacomo Leopardi e Carmelo Bene; in esergo leggiamo citazione di Friedrich Nietzsche, che sintetizzo nella domanda su perché scrivere. Il Nostro nella sua interessante premessa dichiara che non era stato un ammiratore di Bene, quando questi era in vita,
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giustificandosi con i pregiudizi che gli condizionarono “non poco la formazione giovanile”, né aveva compreso Leopardi, fin quando la sua attenzione si è posata sui contrasti “scrittura/oralità, silenzio/voce, significato/significante” che i due Artisti rilevavano come ostacoli alle rispettive opere. Il Nostro sostiene che sono stati “entrambi votati a togliere il pensiero e la scrittura dalle loro creazioni artistiche”, cioè spogliando la ragione dalla filosofia, in una parola con il depensamento. Il Nostro spiega che i due artisti, sono “accomunati dall’esperienza della torre: nella Torre Campanaria di Recanati, il primo” avendovi immaginato posato il Passero e “nella Torre degli Asinelli di Bologna, il secondo” per la lettura di Dante dall’alto della Torre (la quale, data l’altezza, agli occhi degli spettatori convenuti nella Piazza Maggiore, rendeva invisibile l’Attore, e quasi inaudita la sua voce). Considerata la delicatezza e la laboriosità dell’argomento, mi accingo con cautela e per necessità devo ridurre all’ essenziale; Intanto prendiamo nota di alcune dichiarazioni. Sul Leopardi, si ritiene che egli “faccia esperienza dell’infinito ad occhi chiusi, e che l’infinità in cui s’annega il pensiero del poeta sia un’infinità sonora” (Paolo Marzocchi); al pensiero sono affidati i Canti, così “il canto degli uccelli, il muggito dei buoi, il mormorio delle fronde o del ruscello” (Alberto Folin); e nello Zibaldone è il Poeta stesso che richiamava “l’importanza del suono e del canto, di tutto ciò che spetta all’udito, era pari agli effetti della luce o degli oggetti visibili”. Infine il Passero costituisce un “punto di arrivo” della sua poetica, passando prima per le Operette morali e prima ancora dall’Elogio degli uccelli, per concretizzare “l’immagine della voce” (come il titolo di un saggio di Franco D’Intino). Il confronto tra la visione della parola scritta ma muta e il sonoro della oralità, non deve essere inteso in contrapposizione. Su Bene è detto che “Non è più questo o quel personaggio che parla, ma il suono stesso diventa personaggio” (Gilles Deleuze); in parti-
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colare nello spettacolo teatrale il Leccese, parla di addizioni e di sottrazioni di vocali dell’attore, cioè di estendere e di amputare parti di un testo teatrale oltre che fare distinzione tra azione e atto, e distinguere il tempo tra chronos e aion (vedasi il suo Lorenzaccio); direi differenziare il tempo che fu e il tempo che è. Tanto che è stata giudicata “stravaganza” la sua mancata apparizione sulla scena e in ciò l’attore realizzava “la somma fra l’invisibile e l’inaudito” (Piergiorgio Giacchè), una maniera questa dell’ annullamento fisico che poteva intendersi come forma mistica da cui scaturisce l’opera Sono apparso alla Madonna. Tralascio gli aspetti filosofici che ci porterebbero lontano. Giuseppe Leone mette in relazione, per necessità argomentativa, la civiltà della scrittura e la civiltà della voce. Si tenga presente la funzione del teatro nell’antichità, essa “aveva il compito di consolidare valori tradizionali condivisi, il teatro dei popoli democratici – sostiene Toqueville – è il genere più adatto a introdurre innovazioni sociali e politiche.” (pag. 19, D’Intino). A parere di Leopardi e di Bene, la poesia e il teatro vengono uccisi dall’ intellettualismo introdotto tanto nella scrittura, quanto nel teatro, a cominciare da Platone “responsabile della morte del sonoro”; mentre i nostri due Autori sono contro la storia, e “a favore della voce contro il ‘morto orale’ dello scritto”. In entrambi gli artisti l’accento è posto sul pensiero della sonorità e dell’udibile. Leopardi ha ambito a sperimentare rappresentazioni teatrali, ma era inviso al padrone austriaco e pertanto non ne fu autorizzato, perciò il suo interesse si accresce nella ricerca della scrittura sonora e musicale che produca gli effetti desiderati. Credo che Bene abbia potuto realizzare quanto al primo sia stato negato; egli pone l’ accento sull’articolazione, sulla modulazione della voce, in prolungamenti o in accorciamenti; intendiamo la voce come “una sonorità immateriale, una musica in cui, come da una profondità immemorabile, ferve l’ essenza del mondo.” (pag. 31, Umberto Artioli). Ragionare intorno all’argomento non è cosa
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da poco, si rischia di girarci intorno, tranne che per gli addetti ai lavori. Si tenga presente del tipo di comunicazione nel teatro, che richiede un pubblico avvezzo al tipo di linguaggio; i frequentatori erano la maggior parte della popolazione. La tradizione orale è riconducibile a diversi fattori, uno è quello della mancata conoscenza della scrittura, così pure del linguaggio inteso nella sua complessità (voci, gesti, codici espressivi); man mano è diminuito il pubblico degli spettatori. Si pensi ai pupari siciliani e ai cantastorie di alcuni decenni fa per le strade del Sud paragonabili, per pubblico, al teatro antico. Giuseppe Leone rileva i molti parallelismi fra i due. In quanto ai nomi di battesimo all’ anagrafe: Giacomo Leopardi figlio di un conte, ne aveva sei (Recanati 1798 – Napoli 1837); Carmelo Bene figlio di un produttore di tabacco, ne aveva quattro nomi (Campi Salentina, Lecce, 1937 - Roma, 2002). Entrambi hanno avuto salute malferma; un’infanzia non goduta; costretti nel segno dell’educazione cristiana, avevano servito messa. I genitori di entrambi si rifiutavano di riconoscere nel proprio figlio la genialità. I genitori di Giacomo l’avrebbero voluto avviare alla carriera ecclesiastica, tanto che all’età di dodici anni il Poeta vestiva l’abito di abatino e aveva ricevuto la tonsura; essi vietavano ai figli di parlare con il fratello. Carmelo a 22 anni, già attore di teatro, viene fatto internare dal padre, come matto in manicomio, per avere sposato una donna più anziana di lui di sei anni (101); egli in Sono apparso alla Madonna racconta della sua esperienza di chierichetto. Entrambi sono grandi intellettuali. “Con loro si può dire che L’Italia abbia recuperato prestigio e reputazione, risollevandosi dallo stato di decadenza culturale in cui era caduta.”, di ciò non hanno dubbi Oreste Del Buono, Goffredo Fofi. I critici si erano interessati del Leopardi letterario mettendone in ombra il profilo filosofico, fatto emergere invece, per es., da De Sanctis e da Luporini; ma soprattutto è Emanuele Severino che sostiene che la filosofia d’Occidente è debitrice a Leopardi.
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In entrambi la conflittualità interiore è assente e quindi il ripiegamento dell’io in sé, ma le contraddizioni della vita vengono “cantate” anziché ragionate. Entrambi mascherano la interiorità in alter ego come nel Passero in Leopardi e nel Pinocchio in Bene, come rifiuto alla crescita di divenire adulto, e così rimanere bambini. Il loro interesse per i santi o per gli dei scaturiva non per devozione ma per l’età beata propria dei fanciulli; così, ancora San Giuseppe da Copertino è un alter ego di Bene per le sue bizzarrie. Entrambi senza premi per non essersi schierati con il potere imperante, pertanto sono stati osteggiati dai critici in generale; entrambi non hanno frequentato salotti dei potenti del mondo letterario. Leone commenta che con l’ assegnazione di premi si riesce a controllare “gli artisti e i gusti della massa”. Nel caso del “pessimismo” e delle infermità di Leopardi il solo critico che gli riconosce il merito è Carlo Tenca che lo definisce “l’erede della tradizione alfierana-foscoliana e nella sua poesia dolorosa l’estrema voce dell’esasperato individualismo alfierano” (pag. 87, citazione di Fubini). Bene non ha goduto del favore dei critici “Ad eccezione di pochissimi scrittori, come Arbasino, Pasolini, la Morante, Flaiano, e alcuni filosofi come Deleuze, Derrida, Lacan, o di critici come Piergiorgio Giacché, Jean-Paul Manganaro, Maurizio Grande, Giuditta Podestà” (96). In quanto alla posizione politica, Bene rifiuta le categoria di destra e di sinistra in quanto a lui non interessa il cittadino, ma interessa l’uomo. Era opinione dello stesso Bene che “Per capire un poeta, un artista […] ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista […]”. Giuseppe Leone, a conclusione, commenta: “i due geni hanno diffuso l’armonia della loro arte poetica, che canta e non descrive, e non più le passioni dell’io, ma della Natura che le ispira (Leopardi) e del linguaggio dal quale si è parlati (Bene)” (pag. 108). Penso che la lettura fatta con il solo pensiero evochi un’atmosfera atta a metterci in comunicazione con l’anima del suo autore, facendoci av-
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vertire il profumo delle parole; mentre la declamazione crei onde sonore che si diffondono nello spazio colpendo di più i sensi fisici; ma non inerpichiamoci più di tanto. Mi prendo la libertà di aggiungere che finalmente c’è un autore come Giuseppe Leone, che non spulci nell’immondizia per trovare di che sporcare la memoria di Leopardi, come commenta Domenico Defelice nella sua recensione osservando che “In Leopardi e in Bene, più che la voce stessa, è il suono il vero protagonista; anzi: è il colore del suono, più che il suono stesso.” (Pomezia Notizie, sett. 2015). Sul Recanatese sono interessanti i libri G. L. pessimista ma… non troppo di Angelo Manitta (Ed. Greco, Catania 1998, pagg. 64) e il corposo volume G.L. Percorsi critici e bibliografici di Giuseppe Manitta (Il Convivio, Castiglione di Sicilia, CT 2009, pagg. 322). Se andiamo a fondo, nelle varie letture, si rischia di mettere un autore sopra il letto dello psicanalista e discettare a più non posso, nel bene e nel male. È necessario educarsi alla lettura e all’ascolto dell’altro per comprendere il sentimento che anima la poesia. Tito Cauchi GIUSEPPE LEONE, D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce, Il Melabò, Lecco 2015, Pagg. 142, € 16,00
SOSTA C’è giocare di ali che nunziano avvento di primavera. E io mi sento nascere; e si dirada l’uggia d’inverno che m’inabissa. Uno spiraglio di cuore consentirebbe sosta all’intimo fuggire irreparabile. Rocco Cambareri Da Da lontano -Ed. Le Petit Moineau, 1970
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LA POESIA DI
GASTON BOURGEOIS tradotta da
DOMENICO DEFELICE di Leonardo Selvaggi I NFOSSATI in recinti ammorbati, insoddisfatti, non si sa quello che si vuole, la ragione compresa, riversata nei meccanismi, si va come dannati massificati e conturbati. I versi nostalgici riportano a pensare all’ aria aprica, sulle cime dei monti, alle sorgenti tra le rocce. Domenico Defelice nella traduzione del volume “Di schiuma e di vento” fa vivere la poesia, gli ansiti, le aspirazioni di Gaston Bourgeois che nella sua intuizione pura, spazia per ampiezze, sente il trasporto verso i luoghi non ancora deturpati dall’epoca tecnologica, dove l’atmosfera è più dolce e sana e riconforta lo spirito. La poesia trova le sue fonti primigenie, classiche, i silenzi dei ripensamenti. Domenico Defelice, legato da affettività a Gaston Bourgeois, nella sua traduzione, esprime la propria acutezza- intellettivo-morale. Pare che la raccolta lirica, “Di schiuma e di vento” venga a respirare lungo le rive del Tirreno, dove sopravvivono presenze di antichi miti, tracce di tutta una civiltà
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letteraria che rimane testimonianza sublime di umanità, perfezione di stile, spiritualità dalle lontane radici. In uniformità di sentire, attraverso il sapore e i profumi, che non possono non avvertirsi delle terre mediterranee, Gaston Bourgeois e Domenico Defelice corrono per valli fiorite, assolate, al canto dei grilli, fra campi e grano, su “...tappeti di muschio/morbidi sotto i passi”... “Sotto il sole e sotto la pioggia” a “respirare l’odore delle stagioni”. II Defelice ha portato la bella poesia di Gaston Bourgeois fra le pagine della sua illustre rivista “Pomezia-Notizie. Il quaderno letterario “Di schiuma e di vento” viene in un momento giusto, ad arricchire la lunga attività di un mensile svolta con tanta passione culturale e intensità di contenuti. Voci di Francia non sono mai mancate, ora Gaston Bourgeois quasi per far trionfare una poesia di grande sensibilità, di pensiero, leggiamo versi che sanno di poema. In quest’epoca malsana si vuole sfuggire alle molte deformazioni, alla fosca aria, intesa in vario modo, che non fa respirare, alla “...fuliggine/che cinge i muri delle nostre case”, al materialismo, all’ ingordigia, al disamore. Abbiamo una poesia che vince queste barriere. Fa vivere i sogni della prima età e il senso della giocondità, la spontaneità dei mortificanti modi, la speranza in tempi che potranno far ritornare più umane prospettive, sistemi sociali che consentono collaborazione e vero progresso. Nella bellezza della natura la libertà dell’uomo microcosmo. La splendidezza dei mari e dei cieli è la stessa che brilla nella poesia che abbiamo fra le mani. Leggiamo tutti i versi, dal primo fino all’ultimo, non si può tralasciare nulla, ogni parte è sostanza di carne e di ossa, di terra, di fede, di pensiero. Si colgono momenti inebrianti. Soprattutto l’ansietà di vivere sentimenti di umanità nella loro veridicità, nudità di essere. La rettitudine, la lealtà, che hanno generato amabilità, felici momenti, una poesia linda che ha mirato a perseguire i principi di giustizia e del bene comune, “verso cui
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camminato ho con passo sempre uguale/senza che niente abbia potuto vedere la immensa fatica”. Gaston Bourgeois ha vissuto con modestia e serenità, animo schivo, Defelice lo sa bene. Uomo combattivo nella sua semplicità e con orgoglio, con poche cose e tanta passionalità contro disavventure e amarezze. La sua personalità come la sua poesia si è alimentata alla vita, alle attività, ai pensieri che non hanno conosciuto flessioni. Animo adamantino contro le mode e le ambiguità. A viso aperto davanti alla realtà, con la indefettibilità dei sentimenti che dal fondo sono emersi con dignità umana. III La traduzione va dietro l’autore, osservando tutte le sfumature, anche le sottili pieghe espressive. Nulla è trascurabile, ogni verso è in emanazione spirituale. Si aggiungono delicatezze a delicatezze, soavità, specie dove le immagini risaltano, come ricami punteggiati su seta fine, piene di movimento. Poesia di una concretezza che è andata nel tempo riempiendosi, carezzevole che ci prende sulla pelle vibrante. Il tempo che si vive ha disteso malumori, solitudini, rendendo sviliti e sperduti. Spassionatezza, spontanei moti, tutto in una immutabilità di presenza, dal passato al presente, quello che era radicato dentro ha fruttificato con le proprie potenzialità. “Sono ancora io; amo cogliere il tempo.../Sono sempre io”... L’esaltazione del proprio essere al ritorno della luce dell’alba. Il poeta si sente vicino ai suoi sogni, nella chiarezza dell’aria ritrova se stesso, nella sua naturalezza. Gli arti piegati si sollevano, ridestati a nuova forza. Pare avere la giovinezza, il mondo come si vuole, senza decrepitezza, il trionfo della vita. Un istintivismo ramificato passa per tutta la poesia: “La polvere dell’ebbrezza sale/al galoppo della fantasia”... “via dalle lacrime, via dalla notte,/dai suoi segreti e dal suo dubbio”... Gaston Bourgeois nella silloge “Di schiuma e di vento” sta insieme agli altri per amare, spartire le sofferenze. Un poeta nella sua vera essenza che rifugge dai luoghi deserti, che ama lo splendore delle prime energie,
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che vuole tutto adornato e bello, in sintonia con quanto fermenta dentro. Si ha in orrore la vita “senza grido, senza dolore, dove non batte cuore,/dove l’indifferenza spegne la luce”... Poesia moderna con i tormenti del tempo che abbiamo e nel contempo con gli slanci della genuinità delle forme, fuori dalle meccanicità che hanno spazi sempre più angusti. La fuga verso la natura, la fonte prima di benessere. Domenico Defelice segue i momenti di estasi di Gaston Bourgeois, sentendosi compartecipe in pienezza di sé: “Sogno che oltre il muro della fabbrica/i viali siano popolati di ali e di canti,/che i pini fieri e dritti odorino di resina”... Si sente il peso di stare reclusi, nei recinti della città dove “il cielo è oscurato da un acre fumo/che copre con la sua nebbia le case dai grigi muri”... IV La città come la notte che abbatte con le tenebre le illusioni, chiudendoci dentro fobie che reclamano la passione di vivere. Si sogna la terra amata ricca di paesaggi, di valle in valle, il mare esteso all’infinito. Un paradiso che porta alle originarie sensazioni dell’ infanzia, ai magici oblii platonici come la stessa poesia di Gaston Bourgeois, psicologica e realistica, con drammatiche espressività, melanconica, piena di estensioni, con interiorità che sprofondano. Immaginifica, elegiaca. Attrattive sensuali scoprono desideri inespressi che vagano come spettri. Momenti che si risvegliano, passionalità, sete di bene: “Voglio bere al tuo pallido labbro/l’amaro sale degli oceani”... “sentire il tuo ventre di madreperla/fremere sul mio essere di carne”... La stessa traduzione non è pura trasposizione glottologica, è manifestazione poetica, è voce di propria appartenenza. Esterna tutte le tonalità dei contenuti, si fa multiforme, risonante. Tutta la poesia risaltata, con le rispondenze che rivelano amare verità umane. Descrizioni fini e deliziose mettono fuori un sentire tormentato. Profondità e lontananze, senso di arcano e di mistero. “E ascolto, attento al richiamo dei gufi,/al battito d’un’ala, al soffio d’un respiro”... “La primavera ride”... “le sie-
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paglie sono popolate d’echi e mormorii/e le dita sollecite di cogliere il mughetto/si spellano nei roveti dove nascono le more”. Sono versi straordinari di realtà meravigliosa. La terra si apre porosa, fermentante di gemme e di germogli. C’è un’anima sotterranea che si evolve e diventa luce. Gaston Bourgeois ha una poesia intrecciata di silenzi, di furtivi rumori, di trepidazioni, la sua persona ha legami panteistici con la natura. L’intelligenza si fa sentire come peso, tutto l’Universo ci prende. Il cielo come specchio con tanta trasparenza spande riflessi diffusi. Le parti più latenti sono illuminate, fanno vedere tutta una sostanza natia esistenziale. Gaston Bourgeois, tempo e uomo insieme, religiosità, sofferenze e amore formano il tessuto della sua poesia con spazi di superfici e spirituali in un tutto insieme. L’opera “Di schiuma e di vento” esprime problemi psicologici e sociali, unisce materia e spirito, cielo e terra. Una poesia ispirata che martella l’intelligenza, vicina all’uomo che nella sua fragilità si nullifica con il senso dell’eterno. L’animo del poeta di inesauribile ricchezza, tutta manifesta attraverso la traduzione di Domenico Defelice. Pare un terreno ferace, dai solchi tagliati con cura, trattato come fosse già pane, molta attenzione nel non trascurare nulla, nel non perdere nemmeno una briciola. Alimentati i semi, le radici sempre tenute sbalzate dalle croste che non danno respiro. La poesia di Gaston Bourgeois per confortare e farci riconoscere, per trovare i peccati e portare fuori le aspirazioni che vogliono toglierci dagli stati di oppressione. Leonardo Selvaggi
la rosa sopravvive in gennaio a dieci gradi sotto zero un po' sbiadita, fragile profumata di parole che dipanano sentieri nei mitici spazi che ti appartengono.
AFFINITÀ
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 16/12/2015 Mentre la Merkel pretende e impone che i Paesi dell’Europa proseguano nel blocco economico contro Mosca, le industrie della Germania fanno, con quelle russe, affari d’oro. Alleluia! Alleluia! Wurstel, Kohl und Pinkel e... ipocrisia! Domenico Defelice
A Maria Grazia Lenisa Non ti stupisce se io pure vaneggio cercando l'equilibrio nel tumulto folle delle emozioni fiorite dal disgelo. Nessuno sa che per noi
Siano tanti fiori ornamento sulla tenera erba appena nata quando approderai nel tempo che fu tuo e appartenne alla musa decima che Alceo volle divina, dolce, ridente. Paola Insola Torino
AZZURRI LABIRINTI Cellula enigmatica del cosmo percorro la mia strada, in attesa di un mondo sfolgorante, dove tutto è spiegato. Immagino corone luminose dove sarò captata, insieme alle altre cellule del cosmo. Forse la vita è un sogno cui seguirà un risveglio sorprendente. Forse è un pellegrinaggio diretto a sconosciuti santuari. E nel ritmo dei passi, che si confonde con i passi altrui si srotola il pensiero mentre contempla azzurri labirinti. Elisabetta Di Iaconi Roma
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Il Racconto
BLU di Anna Vincitorio
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A diagnosi era stata chiara: la situazione estremamente critica, avrebbe perso la vista se non si fosse intervenuti tempestivamente. Occorreva un donatore di cornea. Per Elena le giornate divennero interminabili; non sopportava più quel continuo andirivieni dai medici; incoraggiamenti forzati, frasi di circostanza. In più, nelle sue condizioni, intuiva di essere un peso per i familiari. Interrotte le scorribande dei figli costretti ad una vicinanza forzata in attesa degli eventi; il compagno accampava impegni improrogabili e si allontanava con passo veloce, le labbra atteggiate ad un sorriso di incoraggiamento. Poteva solo aspettare; pregare le sembrava improprio. La sua vista futura dipendeva dalla morte altrui. S ricordava, ormai erano passati dieci anni, della perdita della sua amica Anna; necessitava di un trapianto di cuore ma non aveva mai voluto accettarlo. A poco più di quarant’anni con aspettative di vita ridotte. Se ne era andata a un tratto e completamente sola. In casa, ancora nel surgelatore, il cibo per i suoi gattini (morti prima di lei). Il ricorrente suono della misericordia la innervosiva. “C’è sempre qualcuno che sta male; però chissà!” Anche inconsciamente si attanagliava all’idea di un trapianto... Avrebbe rivisto il mare, i colori, la vita insomma! Un giorno di fine ottobre improvvisamente la disponibilità delle cornee. Si sarebbe effettuato il trapianto. L’operazione si compì senza complicazioni e per lei nuovamente la luce, il sentirsi viva. L’ animava uno spirito nuovo. Tutto era importante e intorno a lei gli altri. Il tempo si dipanava in lunghissimi attimi; aspirava l’aria con le narici dilatate e percepiva a tratti un sottile profumo avvolgente. Non riusciva a individuarlo e le capitava di attardarsi nelle profumerie sperando che da qualche boccetta scaturisse l’aroma sconosciuto. Passarono alcuni mesi e si unì ad un gruppo di amici invitati
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nella campagna di Vinci. Le colline ondulate come lunghe braccia sfumavano nell’ orizzonte; sotto, gli ulivi già ramati. Ai primi di novembre l’olio. Davanti a loro una colonica e un giardino pensile dove l’erba si allungava scomposta tra cespugli di rose. Sotto la folta pergola una tavola di legno di castagno dalla grande sagoma irregolare. Li riceve una signora gentile e offre loro da bere. Nella vecchia casa grossi travicelli, un po’ di fuoco nel camino e rose bianche in un vaso. La casa è vuota ma sembra come abitata da lontane voci che bisbigliano parole o meglio, sussurri che provocano ansiosa inquietudine. Intravede delle foto in bianco e nero. Chi sono o erano e dove saranno adesso? Elena chiede del bagno. Scende due stretti scalini in pietra ed entra in un ampio locale con mangiatoie di quercia, soffitto a botte rosso, sabbiato; in fondo un tavolo da falegname con libri e ceramiche, un’antica macchina taglia-erba sotto una piccola finestra illuminata dall’oro dei girasoli. Apre il paletto di una porta scura: alla destra dello specchio liberty una mensola con sopra una bottiglia azzurra: “Blu di Bulgari pour homme”. Non dovrebbe ma, all’ improvviso, svita il tappo e annusa. Ha ritrovato lì quella fragranza a lungo percepita e che, a volte, pareva seguirla. È turbata. Sta per calare il sole ed è tempo di ripartire. La signora li saluta; porge loro una bottiglia d’olio e qualche rosa bianca. Elena dopo, chiede agli amici notizie della signora. Aveva avuto un marito. Si erano ritrovati dopo il divorzio. La malattia di lui e poi la morte. “Hai visto, Elena, in quella casa un predominio di azzurri”. Mentre si allontanano si sente come penetrata da uno sguardo. Si volge indietro: la stradina è vuota. Tutti gli anni a Careggi si celebra una messa per ricordare i donatori di organi. Elena non vuole mancare. La chiesa è gremita di tanti come lei e dei parenti dei morti. Parole commosse, musica e tutti in fila per la comunione. Prende l’ostia tra le mani, torna indietro. È commossa e grata. Il dono da lei ricevuto le ha permesso di vedere nuovamente. Si
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sente avvolgere da una scia di profumo, lo riconosce: è Blu di Bulgari. Volge lo sguardo e alla sua destra, la signora della casa di Vinci. Ha tra le mani una rosa bianca. Accanto a lei un giovane che la sorregge; ha due grandi occhi blu. Anna Vincitorio CANTO TUTTI I BAMBINI DEL MONDO Canto tutti i bambini del mondo perché, pur vivendo la loro infanzia, la loro adolescenza e la loro giovinezza, si trasformino in uomini e donne molto migliori di quelli che fino ad oggi li hanno preceduti. Anche se non sarà facile, perché non li aiutiamo abbastanza. Dovevamo coltivare la bellezza e la giustizia su questa Terra, dovevamo lottare tutti insieme contro vecchie e nuove miserie, contro vecchie e nuove malattie del corpo e dell'anima. Ma abbiamo anche perfezionato le Super-Bombe che annientano decine di città in un colpo solo, le guerre chimiche e batteriologiche, le crudeltà del terrorismo e delle rappresaglie sui civili inermi. Alla ricerca perenne del raggio della morte per ripulire la terra a fondo, senza risparmiare neppure i bambini! Luigi De Rosa UN’UNICA LUCE Percorrevo gli sguardi diffidenti del mondo sofferente lasciavo che i giorni diventassero pianto. Noncurante d’amore patteggiavo speranza
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titubante la mano elargiva carezze e un vestito di fiori indossava già ora la dimessa esistenza in un’unica luce e nei passi vicini. Lorella Borgiani Au pays de Hugo les Misérables sont ces familles qui dorment sur les trottoirs du 21ème siècle Au pays de Voltaire plus moyen de jouer Le Fanatisme ou Mahomet le Prophète Risque massacre grandissime Au pays des Droits de l’Homme la liberté des gens de bien est surveillée et les terroristes préparent leurs attentats sans encombre Victor Hugo (1802 - 1885) a écrit les Misérables en 1862;Voltaire (1694 - 1778) ha écrit Le Fanatisme ou Mahomet le Prophète en 1736.
*** Nel paese di Victor Hugo i Miserabili sono queste famiglie che dormono sui marciapiedi del 21° secolo Nel paese di Voltaire non c’è più modo di recitare Il Fanatismo o Maometto il Profeta Rischio massacro grandissimo Nel paese dei Diritti dell’Uomo la libertà delle persone perbene è vigilata e i terroristi preparano i loro attentati senza intralci Béatrice Gaudy Paris, France Victor Hugo (1802 - 1882) ha scritto i Miserabili nel 1862;Voltaire (1694 - 1778) ha scritto il Fanatismo o Maometto il Profeta nel 1736.
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Ripubblichiamo l’articolo già apparso nel numero scorso:
Un’originale lettura dei dipinti di
ORLANDO SORA NEL NUOVO LIBRO DI
GIOVANNA ROTONDO di Giuseppe Leone MAGGIO a Orlando Sora. Artista del Novecento è il titolo del volume che Giovanna Rotondo ha pubblicato in questi giorni con La vita felice, il secondo con la casa editrice milanese. Dopo Non è colpa di Pandora edito allo scadere del 2014, un racconto-saggio su un percorso di terapia di gruppo per i famigliari dei pazienti in trattamento per sostanze che creano dipendenze, la scrittrice lecchese torna a far parlare di sé, raccontandoci della sua attività di modella nello studio dell’artista Orlando Sora a Lecco. Si tratta di “un’affettuosa rievocazione” del pittore di origini marchigiane giunto nella cittadina lariana all’inizio degli anni Trenta, in 162 pagine, che raccolgono, seguite o precedute da un commento dell’autrice, un’ ot-
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tantina circa di dipinti fra nudi, studi, schizzi e disegni, opere giovanili, affreschi, composizioni, paesaggi, quasi tutti, ad eccezione di quelli dei suoi esordi, scelti “con l’ausilio della memoria e degli avvenimenti di quel periodo che va dalla fine degli anni Cinquanta all’inizio degli anni Settanta. Che cosa sia, o meglio, che cosa voglia essere questo libro, lo precisa la scrittrice stessa già nella premessa, affermando che non vuole essere un catalogo. E in effetti, il volume che, per le dimensioni e la prima di copertina recante una delle due composizioni della Fanciulla con l’ombrellino, sembrerebbe rimandare proprio alla forma di un catalogo, risulta essere tutt’altra cosa. Basta leggere in prefazione che il testo è una testimonianza preziosa che getta una nuova luce sull’opera di Sora, per intuire che il suo andamento muove nella direzione ora del racconto ora del saggio. Cosa che non è di poco conto a proposito di un’autrice che intende l’arte dello scrivere come percorso di conoscenza e di presa di coscienza progressiva. Come in questo libro, dove lei parla e scrive in nome della sua esperienza di modella e non come una storica dell’arte. Non può che avvantaggiarsene la sua scrittura sempre fresca e immediata e la sua ricerca, anch’essa spontanea e istintiva fino a rovesciare il tavolo della tradizione. Ne deriva che è lei, la modella, a ritrarre Orlando Sora. Lo descrive “magro tuttavia possente, con un viso che sembrava scolpito nella pietra, capelli ricci e neri con qualche filo grigio, occhi scuri e penetranti” (19-20); e non solo, lo ritrae anche mentre è all’opera: “Lui dipingeva assorto, indietreggiando spesso dalla tela per osservare con occhi socchiusi la composizione… continuava a mescolare i colori sulla tavolozza e a dipingere con i gesti di sempre, se qualcuno gli avesse parlato, l’ avrebbe guardato con occhi assenti” (19); per terminare, infine, con un profilo intorno alla sua moralità di artista onesto e sincero, oltre che di marito fedele e padre affettuoso. Omaggio a Orlando Sora è, allora, un
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libro col quale la scrittrice rivisita, modificandoli, il ruolo e la funzione della modella nell’ arte figurativa. Ignorata per secoli e, quando non è stata ignorata, sinonimo di prostituta, la modella acquista ora un volto, e con esso una nuova identità che rivela quanto la sua presenza pesi nell’economia dell’ ispirazione dell’artista. Per cui, è vero quello che scrive Gianfranco Scotti nella sua perfetta e illuminante prefazione: che “il racconto ci restituisce la figura di Orlando Sora, la sua carica umana, le sue debolezze, le sue convinzioni e le sue ostinazioni” (9); e che l’ autrice, “affascinata dalla personalità dell’ uomo e dell’artista… è riuscita ad avvicinarsi alla pittura, a comprenderne la forza e la bellezza, a impossessarsi dei linguaggi dell’arte, ad amarla nelle sue infinite declinazioni”; ma è altrettanto vero che la Rotondo, con la sua testimonianza di modella, faccia arrivare al lettore, in egual misura che il pittore con i suoi quadri, l’ immagine nitida e limpida di sé come donna e come scrittrice, facendo presto diventare questo suo libro “un medaglione di letteratura che incastona due biografie”. Sì una biografia di Sora, questo Omaggio, ma anche un’autobiografia della Rotondo, perché l’autrice, mentre pas-
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sa in rassegna la galleria dei quadri dell’artista “per raccontarci una storia, per metterci a parte delle sue sensazioni al momento dell’esecuzione, per rivelarci che cosa il pittore pensava delle sue opere, perché ne amava alcune e ne trascurava altre” (10), trova anche il modo per inserire altre sue personali riflessioni, tra cui, il dubbio se lui amasse sempre le donne che erano le sue modelle o posavano per lui (21); se l’ opera d’arte figurativa sia ispirata dall’artista o dal soggetto che si fa dipingere; se quando l’artista dipinge, esprime ciò che vede o si lascia guidare dalle sue sensazioni; o se, apparendo serena e sorridente in un dipinto e in un altro turbata e confusa, ciò è dovuto a come è lei in quel momento o è influenzato da ciò che avverte dentro di sé (33). Tutte domande che, se da un lato offrono spunti per un approfondimento dell’opera di Sora, dall’altro – ripetiamolo - gettano luce sulla personalità di una modella che sa interagire con l’artista per il quale posa, che vive con lui “in grande empatia” e col quale “si
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trasmettevano le reciproche sensazioni senza raccontarsele” (29); che non si stanca mai di porre altri interrogativi a lui e a se stessa: “perché non dipingi i fiori più spesso?” (73), “come mai ti chiamano maestro?” (77), “come fai a dipingere l’espressione delle persone?” (83), “perché eviti di far vedere le tue composizioni?” (105). Dunque, una scrittrice vera, Giovanna Rotondo, autentica anche in questa sua recente pubblicazione che non manca di riconfermare quanto di nuovo e di personale aveva già fatto notare in Non è colpa di Pandora, dove già salde apparivano le strutture portanti della sua letteratura: uno stile impersonale capace di narrare dall’interno l’argomento dell’opera e una scrittura come esperienza e trama del vissuto. Giuseppe Leone Giovanna Rotondo - Omaggio a Orlando Sora. Artista del Novecento - La vita felice, Milano, 2015, pp. 162. € 20,00 Immagini di Orlando Sora: Copertina del libro con la Fanciulla con l’ombrellino (1960), Paesaggio con la luna (1962), Affresco della Chiesa del Caleotto di Lecco (1951).
POLVERE DI OSSA Al tramonto la terra oscurata scende scoscesa in lungo canale e ampie fosse vorace, da luoghi lontani attratto. Rotolato nei panni impolverati e capovolti, la testa tormentata dai dirupi. L’impeto degli inizi, degli anni ammassati, in profondi anfratti le parti richiamate si esaltano riattaccate. Faville sparse correndo sopra la superficie come inseguendo stoppie infiammate. La mia terra incurvata in basso impastata di granuli feraci e polvere di ossa. Il sole lontano con raggi sfrangiati si muove con il cielo in estensione di Universo. La mente riempita di carni di fanciulle rispecchiate pudiche dagli occhi, nodose colme di vigore, paiono uscite da un’onda sabbiosa di mare,
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palpitanti come in rudi forme scodellate. Sono in avvallamenti lontani di tempo. Le mani non afferrano, tutto addosso era prima, sfumato appare oggi. Ferme com’erano le riconosco le strade lucide di pioggia, tentennavano i passi sopra i ciottoli interrati. Leonardo Selvaggi Torino
Les abeilles meurent par milliards par les poisons répandus sur les fruits et les légumes Quand il n’y aura plus assez d’abeilles pour polliniser les cultures les exploiteurs cupides de la technologie du fric continueront à s’enrichir en fabriquant des milliards de robots abeilles Et le miel vaudra plus que l’or *** Le api muoiono a miliardi dai veleni sparsi sulla frutta e la verdura Quando non ci saranno più abbastanza api per impollinare le colture gli sfruttatori cupidi della tecnologia della grana continueranno ad arricchirsi fabbricando miliardi di robot api E il miele varrà più dell’oro Béatrice Gaudy Paris, France
AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 17/12/2015 L’Europa a guida teutonica non può vivere a lungo. Alleluia! Alleluia! Se l’Italia egli altri Paesi non mostreranno coraggio ed orgoglio, la Germania continuerà il suo dominio e per tutto il continente sarà un disastro, come nel passato. Domenico Defelice
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Comunicato STAMPA XXVI Edizione CITTÀ DI POMEZIA L’Editrice POMEZIA-NOTIZIE - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM) - Tel. 06 9112113 – E-Mail: defelice. d@tiscali.it internet: http://issuu.com/domenicoww/docs/ - organizza, per l’anno 2016, la XXVI Edizione del Premio Letterario Internazionale CITTÀ DI POMEZIA, suddiviso nelle seguenti sezioni : A - Raccolta di poesie (max 500 vv.), da inviare fascicolata e con titolo, pena esclusione. Se è possibile, inviare, assieme alla copia cartacea, anche il CD; B - Poesia singola (max 35 vv.) ; C – Poesia in vernacolo (max 35 vv.), con allegata versione in lingua; D - Racconto, o novella (max 6 cartelle. Per cartella si intende un foglio battuto a macchina – o computer - da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1800 battute. Se è possibile, inviare, accanto alla copia cartacea, anche il CD); E – Fiaba (max 6 cartelle, c. s., lettera D); F – Saggio critico (max 6 cartelle, c. s.). Non possono partecipare alla stessa sezione i vincitori (i Primi classificati) delle trascorse Edizioni. Le opere (non manoscritte, pena l’ esclusione), inedite e mai premiate, con firma, indirizzo chiaro dell’autore e dichiarazione di autenticità, devono pervenire a Domenico Defelice – via Fratelli Bandiera 6 - 00040 POMEZIA (RM) - e in unica copia - entro e non oltre il 31 maggio 2016. Le opere straniere devono essere accompagnate da una traduzione in lingua italiana. Ad ogni autore, che può partecipare a una sola sezione e allegare un breve curriculum di non oltre dieci righe, è richiesto un contributo di 20 Euro per la sezione A e 10 Euro per le altre sezioni, in contanti assieme agli elaborati (ma non si risponde di eventuali disguidi) o da versare sul c. c. p. N° 43585009 intestato a :Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00040 Pomezia (RM). Le quote sono in
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euro anche per gli autori stranieri. Sono esclusi dal contributo i minori di anni 18 (autocertificazione secondo Legge Bassanini). Non è prevista cerimonia di premiazione e l’operato della Commissione di Lettura della Rivista è insindacabile. I Premi consistono nella sola pubblicazione dei lavori. All’unico vincitore della Sezione A verranno consegnate 20 copie del Quaderno Letterario Il Croco (supplemento di Pomezia- Notizie), sul quale sarà pubblicata gratuitamente la sua opera. Tutte le altre copie verranno distribuite gratuitamente, a lettori e collaboratori, allegando il fascicolo al numero della Rivista (presumibilmente quello di ottobre 2016). Sui successivi numeri (che l’autore riceverà solo se abbonato) saranno ospitate le eventuali note critiche e le recensioni. Ai vincitori delle sezioni B, C, D, E, F e ai secondi classificati per ciascuna sezione, verrà inviata copia della Rivista - o del Quaderno Letterario Il Croco - che conterrà il loro lavoro. Per ogni sezione, qualora i lavori risultassero scadenti, la Commissione di Lettura può decidere anche la non assegnazione del premio. La mancata osservazione, anche parziale, del presente regolamento comporta l’ automatica esclusione. Foro competente è quello di Roma. Domenico Defelice Organizzatore del Premio e direttore di P. -N. Vincitori della SEZIONE A delle precedenti edizioni: Pasquale Maffeo: La melagrana aperta; Ettore Alvaro:Hiuricedhi; Viviana Petruzzi Marabelli:Frammento d’estate; Vittorio Smera: Menabò; Giuseppe Nalli: A Giada; Orazio Tanelli (USA): Canti del ritorno; Solange De Bressieux (Francia): Pioggia di rose sul cuore spento; Walter Nesti: Itinerario a Calu; Maria Grazia Lenisa: La ragazza di Arthur; Sabina Iarussi: Limen; Leonardo Selvaggi: I tempi felici; Anna Maria Salanitri: Dove si perde la memoria; Giuseppe Vetromile: Mesinversi; Giovanna Bono Marchetti: Camelot; Elena Mancusi Anziano: Anima pura; Sandra Cirani: Io che ho scelto te; Veniero Scarselli: Molti millenni d’ amore; Sandro Angelucci: Controluce; Giorgina Busca Gernetti: L’anima e il lago; Rossano Onano: Mascara; Fulvio Castellani: Quaderno sgualcito; Nazario Pardini: I simboli del mito; Rodolfo Vettorello: Voglio silenzio; Isabella Michela Affinito: Probabilmente sarà poesia.
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I POETI E LA NATURA - 51 di Luigi De Rosa
Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)
“LE OPERE E I GIORNI” La Natura nel poemetto di Esiodo (VIII secolo a. C. - VII secolo a.C.)
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sìodo, poeta greco antico del periodo successivo a quello del leggendario Omero, si distingue da questi sia per la storicità della propria biografia e delle proprie opere, che per aver raffigurato nei suoi versi non una società greca aristocratica e guerriera ma una società contadina, dallo stile di vita semplice, quotidiano. Il padre di Esiodo era venuto in Grecia da Cuma, colonia greca dell'Asia Minore, e si era stabilito in Beozia, facendo il contadino. Aveva avuto due figli, Esiodo e Perse. Mentre Perse, per temperamento, preferiva vivere alla giornata e di espedienti, senza fiaccarsi a lavorare una terra peraltro aspra e dura, e preferendo correre dei rischi non sfruttando i propri terreni (fino a cadere in miseria) , il
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saggio e prudente Esiodo aveva cominciato, da giovane, a vivere del lavoro in campagna, con scrupolo e spirito di sacrificio, e con accorta gestione dei risparmi, dei beni, degli attrezzi e delle conoscenze tecniche necessarie in quei tempi. Lo scenario della sua vita, quindi, e la sostanza della sua educazione, sono rappresentati dalla vita in campagna, nel cuore della Natura. Una Natura non solo bella, ma che fornisce prodotti genuini e preziosi all'uomo, purché venga da questi rispettata. Alla morte del padre, Perse aveva imbrogliato il fratello Esiodo, per quanto riguardava l'eredità, con l'aiuto di giudici corrotti. Cosa che aveva addolorato e indignato Esiodo a tal punto da citare a rimprovero il fratello stesso, nel suo poema, senza risparmiare, altresì, i suoi strali contro i magistrati corrotti e contro l'ingiustizia diffusa nelle società umane. Tra le varie opere letterarie di Esiodo, ci limitiamo a ricordare la Cosmogonìa, la Teodicéa, il Catalogo delle donne, Lo scudo, ma concentriamo la nostra attenzione su Le opere e i giorni. Erga kài Hemèrai , tradotto in italiano con “Le opere e i giorni”, è un poema didascalico di 828 versi esàmetri, scritto fra il 710 e il 700 avanti Cristo in lingua greca antica (iònico). “Didascàlico”, come si sa, è un testo che tende ad “insegnare”, col quale il poeta si pone (e si poneva, specie nell'antichità) anche come “docente” o “maestro” nei confronti dei propri lettori. La parte che qui particolarmente ci interessa (ma la lettura dell'intero poema è quantomai interessante e culturalmente emozionante) è quella compresa tra i versi 353 e 617. Forse, per quanto attiene specificamente alla Natura, dal verso 383, perché i 30 versi intitolati “Precetti vari” contengono indicazioni e consigli pratici anche su altri settori della vita individuale e sociale. I versi dal 383 al 617 sono così raggruppati e intitolati : “L'aratura e la mietitura” ( 383-404); “L'inverno” (493 – 563); “La primavera” (564 – 581); “L'estate” (582-608); “L'autunno” (609 – 617). A titolo di esempio leggiamo, passim, dal
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verso 405, pur restando consapevoli che solo una lettura integrale del Poema può darci un'idea più precisa dell'Autore e dello stato del pensiero e della vita quotidiana in quell'epoca (parliamo di quasi tremila anni fa...!). “...Prima di tutto prepara la casa: una donna e un bue per l'aratro: che la donna non sia la moglie, ma una schiava che segua i tuoi buoi, prepara tutti gli arnesi adatti in casa...la stagione propizia passerà... non rimandare mai nulla all'indomani, o al giorno successivo... la diligenza giova al lavoro...chi sempre rimanda si trova ad affrontare guai... I versi di Esiodo ci rendono comunque palpabile un'atmosfera nella quale, allora (a parte quelle che a noi moderni appaiono come delle intollerabili ingiustizie sociali) sembrava esserci ancora una profonda unità fra la terra, il mondo vegetale, l'uomo, il mondo animale e quello degli Dei con Padre Zeus (Giove) in testa. Unità che in seguito si è spezzata, a vantaggio delle guerre sempre più crudeli e della violenza sempre più feroce e indiscriminata, del caos e del disordine perenni e rinnovantisi in sempre nuove forme. “ Stai attento al verso della gru che ogni anno, dall'alto delle nubi, ripete il suo lamento, ti annuncia il momento di arare e la stagione piovosa. Affrettati ( tu e i tuoi schiavi) di buon mattino a solcare il terreno, con il tempo secco o umido, per riempire i campi di spighe, ara in primavera, e d'estate la terra dissodata non ti deluderà. Prega Zèus ctonio e la venerabile Demèter affinché la spiga di Demèter sia robusta quando è matura. Dietro, un piccolo schiavo, tenendo la zappa, ricopra il seme, a dispetto degli uccelli, l'ordine è la cosa migliore per gli uomini, il disordine è la peggiore...” Luigi De Rosa
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SOTTO UN CIELO Vibra l’anima attraverso le corde mosse dalla corrente del fiume lenta, continua, stellata allunata, soleggiata. Sotto un cielo. Filomena Iovinella Torino
L’EUROPE DE LA GUERRE Vous construisez l’Europe de la guerre à la démocratie Pensées bâillonnées les peuples ne sont plus que des troupeaux condannés à élire seulement la marionnette de chair qui gesticule le mieux ou qui est la plus posée pour leur communiquer comme autant d’ordres vos politiques Et les peuples ont envie de casser votre Europe parce qu’elle détruit la démocratie Vous construisez l’Europe de la guerre l’Europe de la guerre à la démocratie! L’EUROPA DELLA GUERRA State costruendo l’Europa della guerra alla democrazia Pensieri imbavagliati i popoli non sono più se non greggi condannati ad eleggere solo solo la marionetta di carne che gesticola con più arte o quella più posata per comunicare a loro quali ordini le vostre politiche E i popoli hanno voglia di abbattere la vostra Europa perché essa distrugge la democrazia State costruendo l’Europa della guerra l’Europa della guerra alla democrazia! Béatrice Gaudy in A VOTE! (2), recueil inédit.
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Recensioni ISABELLA MICHELA AFFINITO DALLE RADICI ALLE FOGLIE ALLA POESIA Ediz. EVA, Venafro (IS) 2015, Pagg. 112, € 12,00 Isabella Michela Affinito è nativa di Fiuggi (1967, Frosinone) ma vanta “radici” pugliesi; di formazione artistica è grafica per professione, ha la passione della poesia e delle lettere classiche, dell’ archeologia e del cinema, e di tutto ciò che sa di cultura umanistica. Dalle radici alle foglie alla poesia è silloge che fa parte della cinquantina di opere pubblicate, fra raccolte, saggi e recensioni, per tutte le quali ha riscosso riconoscimenti. Questa raccolta è come un manufatto tutto elaborato dalla Nostra, così: prefazione e postfazione, autopresentazione ed esergo; sua è la rielaborazione del disegno in copertina di tronchi incrociati di due alberi del pittore poeta friulano Vittorio Martin; e non mancano le numerose citazioni come omaggio a grandi personaggi, storici e mitici. La prefazione, e quindi il libro stesso, apre così: “Se poi si pensa che all’origine dell’Uomo c’è stato
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“l’Albero”, allora questo è un motivo in più per snocciolare una silloge appropriata che vuole, possibilmente, raccogliere tutti i contorni, visibili e interiori”. Penso che tale incipit segnali un bisogno di comunicatività, un desiderio di contatto della Poetessa con i lettori, e quindi, ciò starebbe a indicare la ripresa di un pregresso. Afferma che l’albero con le sue radici sta a dimostrare saldezza, sete di vita, e con la sua chioma di foglie, rivolta al cielo, mostra la sua vitalità. Sembra osservare lo stato in cui la pianta è tenuta prigioniera per la sua fissità, succube della sua condizione, come dirà in chiusura del libro per bocca del poeta indiano Rabindranath Tagore: “Gli alberi sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo in ascolto.” Isabella Michela Affinito dichiara di innalzare l’ albero a simbolo ideale del suo Io, che non esiterei a definire, Io lirico struggente: “chiedimi/ se sono stata una figlia,/ …/ Ti chiederai se voglio/ tornare ad essere una foglia,/ ebbene no, non mi piaceva restare/ sospesa e nemmeno cadere/ a terra” (pag. 11). L’albero, antropomorfo, con tutte le sue parti di tronchi, rami e foglie, corteccia e nervature, si presta a una lettura conseguente. Così la foglia mi
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suggerisce per consonanza tanto la parola “figlia”, quanto la voce foglio su cui scrivere “poesia”. E così tutto il resto: depressione, condizione statica che si sublima nel verso “non c’è partenza né arrivo” (13). Ricorda che le stagioni rinnovano il ciclo vitale ma “poi a novembre tutto muore/ tranne il mio compleanno” (15), forse perché osserva il trascorrere del tempo lasciando immutata la sua condizione. Il senso di solitudine ristagna come la morte del nonno che è andato via senza salutarla: il nonno sembra essere l’unica presenza reale che subito si dissolve. La Poetessa vive una condizione di polvere o di clorofilla, voce richiamata con insistenza. Persistente la similitudine albero-uomo (maschio e femmina), così lei è la donna-albero che ha per compagne Tersicore, dea della danza, e Artemide che pur rimane ferma pronta a scagliare le frecce al cielo; dirà di essere una Dafne albero d’alloro. Lei, l’alberoPoeta avverte “la poesia si compie, senza che ce ne accorgiamo,/ la Natura vuole leggerla / prima che ce ne andiamo.” (45). D’altronde confida di identificarsi con un albero, soggetto agli eventi meteorologici con un destino incerto; in una sorta di transfert potremmo considerare la sete dell’albero come la ricerca del liquido amniotico, cioè dell’utero materno; le foglie, che permettono di respirare, si sostituiscono alle poesie; e la vitalità della pianta rappresenta la speranza. “Quando voglio/ dimenticare che sono/ stata un albero…/ …/ Vengo qui e/ comincio a cancellare/ con la gomma della/ metafora che cosa è/ più facile scrivere o/ disegnare?” (30). La fissità è più volte richiamata dall’immagine dei piedi a terra, o dalle radici affondate a terra; o dalla tenacia dell’edera, che pur arrampicandosi, sta sempre lì. Osserviamo da una parte l’edera persistente e rapace, e dall’altra il glicine con i suoi grappoli colorati, il salice piangente come la Maddalena ai piedi della Croce e incline come un Narciso innamorato di se stesso. Queste immagini possono tradursi in sentimenti, nei moti interiori invisibili ma esistenti. “Dalle radici alla formulazione di un pensiero riuscirci da solo,/lui anima verde senza la materia grigia è arrivato ad essere una poesia.” (38). Isabella Michela Affinito si confronta con i bachi del gelso che diventano farfalle “libere”; con le cicali che cantano la loro letizia allietando le estati; nell’inno alla Madre Natura osserva la dea Demetra spargere il seme di grano, commentando che le sue stagioni sono tutte uguali. Lei è la foglia, verde o secca, ne è la nervatura e come le linee della mano tiene impresso il proprio destino; ed anche se l’ albero è spoglio, lei, Donna-Albero, reclama la sua
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esistenza. Penso alla magia della trasfigurazione, alla Poetessa che non poteva descriversi meglio di così: “Io fui/ prigioniera di un tronco/ e non ricordo la forma/ che avevo…/ …/ Non fui più albero,/ ma mi rimase traccia/ di clorofilla nel sangue” (pag. 65). Ella rappresenta tante varietà arboree, ma prende commiato avvertendo che “solo noi poeti/ ravvisiamo l’albero blu!” Vero è che la poesia non pretende di sostituirsi alla pedagogia o alla precettistica morale o di qualsivoglia rivelazione; nondimeno quando riesca a riprodurre immagini e movimento, colori e profumi, che si traducano in emozioni, allora credo che abbia assolto alla sua funzione di catarsi e di coinvolgimento. Giova pertanto soffermarsi su alcuni particolari poetici per conoscere l’Autrice. Osservando i titoli del libro e delle poesie, oltreché naturalmente, i versi stessi, si ha l’impressione che si tratti di una poesia naturalistica, un inno alla Flora (della quale ricorre frequente il nome). La sua poesia si rivela fortemente metaforica, di uno struggimento metabolizzato, il cui dettato sentimentale si estende sulla condizione femminile di tutti i tempi; un esempio per tutti riguarda la grande ma sfortunata poetessa americana Emily Dickinson, più volte impersonata nella sua esperienza poetica; come pure, in altre occasioni, si sente molto vicina a personaggi femminili; questi accostamenti mi sembrano sconvolgenti. Alla luce di quanto sopraesposto, si spiegano le dediche e i riferimenti a pittori che hanno rappresentata la natura arborea e floreale in generale, come il friulano Vittorio Nino Martin che ha raffigurato il Cristo Crocifisso su tronchi ebraici; l’ olandese Vincent Van Gogh che dipinse varie volte cipressi, campi verdi e di grano (non manca una poesia esperimento riproponendo quella su Van Gogh inframmezzando spiegazioni drammatiche, a pag. 42); l’austriaco Gustav Klimt della Vienna “fin de siècle”; l’olandese Piet Mondrian che, dopo varie esperienze, fondò il movimento artistico detto Neoplasticismo; o ne ricorda il nome come per Monet nel fermare l’immagine di un salice piangente. Il lettore si sente diretto destinatario dei versi della raccolta Dalle radici alle foglie alla poesia ove l’ iniziale espressione razionale si mette da parte, lascia spazio all’Io lirico, interiore, come la linfa dell’albero. I richiami a personaggi storici o mitici, connotano il mondo interiore di Isabella Michela Affinito. È una poesia senza tempo, senza la realtà quotidiana; intima ma non intimista, di evasione ma non disimpegnata. Se così è, allora l’intera silloge si può sovrapporre alla storia del suo vissuto; ma sospendiamo nel rispetto dovuto al riserbo. Tito Cauchi
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ISABELLA MICHELA AFFINITO INSOLITE COMPOSIZIONI (VIII volume), Cenacolo Accademico Europeo, 2015, Pagg. 52, S.i.p. Isabella Michela Affinito riesce a coniugare poesia e arte figurativa, quale grafica (designer); nella sua esperienza artistica ha coltivato in modo particolare la cultura umanistica ove il pianeta donna ha un ruolo centrale; e la dedica a Insolite composizioni, sta a confermarlo “a tutte le donne che vogliono crescere per raggiungere le foglie e i loro frutti”, una silloge fra la cinquantina di opere pubblicate. In prefazione, soffermandosi su dotte citazioni, che confermano la sua passione e cultura artistica, spiega le ragioni della scelta di copertina, “La moderna donna – Albero di Klimt”, sua realizzazione stilizzata, una silhouette sormontata da una spirale, ispirata all’Albero della Vita del pittore austriaco Gustave Klimt, appartenente al Fregio Stoclet (a Bruxelles), con riferimento biblico al Bene e al Male. La raccolta comprende ventitré intestazioni tutte uguali, dalla “Composizione di titoli 155” alla “Composizione di titoli 177” (strane diciture, appunto insolite). La lettura offre un ventaglio di personaggi, miti classici greci e latini; e protagonisti che hanno segnato profondi emozioni, fatti rivivere, a loro volta, da grandi Poeti e Artisti di tutti i tempi. Una coreografia a iniziare dal testo 155, popolato da figure femminili: la Papessa del Dalì secondo lo stile Magritte; la Venere e la Flora del Botticelli (nel dipinto della Primavera, degli Uffizi di Firenze); la Calunnia che ha ispirato i grandi del Quattrocento; come anche la Madonna Povertà. Successivamente fa rivivere Venere nelle acque di Venezia, la Venere di Milo nelle acque dell’Egeo, la Venere Italica, ed anche Medea, Penelope, Dafne, ecc; ma anche la “donna moderna nei/ ritratti di Tamara/ De Lempicka.” (figura avvolta da leggenda). E sempre dello stesso tenore Isabella Michela Affinito, nelle sue Insolite composizioni, declama o semplicemente nomina, la Donna dei vari segni zodiacali, la Donna nell’arte dei miti classici, medievale e di tutti i tempi, in cui di tanto in tanto trova per sé una collocazione; così richiamando il paradiso di Klimt, pittore delle più belle donne, osserva un cristallo “che parla con/ amletiche risposte/ sul mio infinito/ domani che trattiene/ petali stanchi.” (157). Man mano le composizioni sono meno affollate, per fare posto a espressioni intime come per accostarsi alle Donne del lungo elenco, come a volere lasciare un segno di sé: “Sulla mia tela/ c’è una Venere/ di sale che a tratti/ scompare.” (158), oppure “La mia tela come/ quella di Penelope”. Sembra che assistiamo a una sorta di piacevole
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proiezione sulla storia dell’arte; tuttavia mi sembra così affollata che allenta la piacevolezza degli argomenti. La prima impressione mi porta a pensare che con ciò la Poetessa voglia annullare il tempo o, forse, che intenda annullare se stessa per una condizione senza tempo. Dall’opera traspare una persona garbata e dolce che invita al dialogo o meglio all’ascolto, lontana dal mondo reale che la circonda, vivendo in un mondo interiore ideale, tutto suo, che nessuno può scalfire. Difatti dirà a conclusione, fin da bambina osservando un dipinto, pensava: “L’ Annunciazione/ del Beato Angelico/ riempiva il mio/ mondo superiore/ col violinista di/ Chagall che allontanava/ la realtà dalle mie/ pagine bianche e/ nasceva una/ nuda poesia.” (177). Tito Cauchi
TITO CAUCHI SALVATORE PORCU Vita, Opere, Polemiche Editrice Totem, 2015, pagg. 308, € 20,00 La cosa più difficile nella vita è la moderazione, diceva l’imperatore Adriano, che se ne intendeva. Quindi, allorché Tito Cauchi in questo ponderoso saggio dalla lunga metabolizzazione ci regala ampie dimostrazioni di bilanciamento valutativo, risulta evidente l’avvolgente efficacia di un lavoro certosino di ricerca e di vicinanza ad un autore singolare come Salvatore Porcu. Questi, poligrafo esuberante, lasciò alla sua scomparsa (2005) un fondo cartaceo di migliaia di pagine innestando nell’amico Tito Cauchi una sfida insieme intellettuale ed esistenziale il cui risultato possiamo ora leggere in questo pregevole libro. La guerra e la caduta del fascismo sono i grandi eventi storici che fanno da sfondo a un nuovo profondo rivolgimento culturale e letterario dentro il quale Salvatore Porcu si immerse con l’efficace strumento del suo giornale Ordinismo laddove il nesso con la realtà socio-politica è direttamente determinante nell'elaborazione di una nuova ideologia. In Italia nell'immediato secondo dopoguerra, dopo l'esperienza della Resistenza, si fa vivissimo negli intellettuali (soprattutto delle più giovani generazioni) il bisogno di impegno concreto nella realtà sociale e politica del paese. L'antifascismo represso, prima, e poi l'adesione concreta o ideale al moto di rivolta popolare e l'entusiasmo per la riconquistata libertà, ma anche i problemi posti dalla nuova condizione storica determinano in molti scrittori la volontà e anzi l'esigenza di considerare il giornalismo come una manifestazione e uno strumento del proprio impegno.
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L'essere usciti da un'esperienza che non aveva risparmiato nessuno stabiliva un'immediatezza di comunicazione tra Salvatore Porcu e il suo pubblico di lettori dove ognuno aveva la sua opinione, ognuno aveva voglia di esprimere il proprio vissuto. In questo clima profondamente mutato si spiegano anche i giudizi nei confronti del decadentismo e dell'ermetismo: in generale si ripudia la tendenza ad evadere attraverso l’astensione dal confronto. Quindi, non si può non condividere il diffuso e prepotente bisogno di impegno concreto nel reale da parte di Salvatore Porcu laddove una vivace rappresentazione della realtà dà luogo, sul piano della riflessione culturale, ad importantissimi dibattiti che hanno per tema via via il ruolo e i doveri degli intellettuali nella società, il passato rapporto degli intellettuali col fascismo e quello successivo col partito comunista, il rapporto tra creatività artistica e impegno politico, tra ideologia e letteratura e via dicendo. In tal senso va dato atto al curatore Tito Cauchi dell’efficace scelta e distribuzione dei vari materiali onde rendere sempre interessante e vivace la lettura dei testi. Le numerose riviste citate e Ordinismo costituiscono ancora una volta il luogo deputato di dibattiti volti all'esigenza della scoperta dell'Italia reale, nella sua arretratezza, nella sua miseria, nelle sue assurde contraddizioni e insieme una fiducia schietta e rivoluzionaria nelle nostre possibilità di rinnovamento e nel progresso dell'intera umanità. E Salvatore Porcu tendeva a parlare dei problemi reali del nostro Paese contrapponendo polemicamente nuovi contenuti, utilizzando un linguaggio semplice, disadorno, antiletterario. E, a mio avviso, non c’è niente di meglio. Gianfranco Cotronei
ANNA TROMBELLI ACQUARO EMOZIONI SPARSE AL VENTO Il Croco / Pomezia Notizie dicembre 2015, Pagg.28 -4° Premio Città di Pomezia 2015 Anna Trombelli Acquaro, nata a Bianco (Reggio Calabria) ed emigrata in Australia nel 1958, da un decennio scrive poesie e favole, collaborando fattivamente all’A.L.I.A.S. Numerosi i premi vinti. Questo Croco (4° Premio al Città di Pomezia 2015) rivela una non comune capacità di trasmettere le emozioni che vengono dal profondo. Il tema dominante è la nostalgia: per la figura idealizzata della madre e per i profumi della terra natia.
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La silloge, orchestrata sul ricordo, presenta anche quadri di natura colorati, spesso avvolti nella luce splendente della luna. Questo mondo di memorie struggenti è espresso con uno stile semplice, lineare. Qualche esempio: “Mille ricordi, un balcone fiorito/ e la nostalgia dei vent’anni./ Attimi che baciano la mente/ di momenti speciali”; “Lenta cala la sera/ ed il tramonto fugace passa inosservato,/ tra boschetti di ulivi e di agrumi”. Anche le poesie brevi e sentenziose, insieme ai pensieri riportati in fondo ad ogni pagina, gettano luce sulla personalità appassionata, spontanea e saggia di questa scrittrice che ci invia i suoi versi dalla lontana Altona North a 10 Km da Melbourne. Elisabetta Di Iaconi
ISABELLA MICHELA ATTONITO PROBABILMENTE SARÀ POESIA Il Croco / Pomezia Notizie ottobre 2015, Pagg.20 1° Premio Città di Pomezia 2015 Personalità variegata quella della ciociara Isabella Michela Affinito, esperta di moda, di grafica, di fotografia, di cinema e di altro ancora. Ha pubblicato 60 raccolte di poesia e numerosi saggi, ottenendo prestigiosi premi. Collabora a diverse riviste letterarie. Questo Croco (1° Premio al Città di Pomezia 2015) contiene liriche originali, fresche e fantasiose che si soffermano su argomenti insoliti. Eccone alcuni: i rotondi fogli che indicano l’età degli alberi, uno specchio, i colori di un’antica anfora, una pietra, la polvere su una bottiglia (un omaggio a Giorgio Morandi). Colpisce il lettore soprattutto il linguaggio impiegato dall’Affinito: frantumato, allusivo e moderno. Qualche esempio: “Specchio il mare,/ specchio il lago,/ specchio il lucido/ davanti del metallo,/ Leonardo si guardò/ le rughe disegnò/ il primo uomo del/ Rinascimento. Ecco come inizia la lirica “Pensiero mistico”: “Viaggio tra/ gli spazi sconfinati/ della mente piegando/ docilmente le spighe/ di un campo libero/ dalla discordia…”. “Sei una pietra qualunque/ senza un nome scolpito/ o inciso sulla parte/ tua più liscia”. La poetessa si libra tra le zagare del Mediterraneo, tra i miti greci, tra i quadri di Picasso e inserisce qua e là riflessioni sorprendenti sulla vita umana (“lo scheletro dei fiori/ sarà l’inganno ultimo/ di quel sorriso che/ vi regalò la vita”). Le sue metafore andrebbero attentamente elencate, per apprezzarne l’originalità. La luna? “Sfera di vetro/ in cui si cela/ una vestale”. I bicchieri dei quadri di Morandi? “Soldati sugli attenti riuniti/
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senza spavento, militi/ ignoti senza la piastrina”. La sua poesia? “Accastellati stati/ interiori”. Elisabetta Di Iaconi
LEONARDO SELVAGGI NICOLA FESTA Ed. Unione Convergenza Universale, Nettuno 2002 - Pagg. 112, € 7,75 Leonardo Selvaggi è autobiografico in tutte le sue opere, ma in “Nicola Festa” lo è più che in ogni altra sua produzione letteraria. È in questo saggio, infatti, che lo conosciamo, meglio che in altri scritti, nella sua globalità e autenticità, nelle sue idee, nelle sue radici. Il racconto della vita del “classicista sommo della Basilicata” e quello della vita del “Dirigente Superiore del Ministero dei Beni Culturali” - ora in pensione - procedono in sintonia, perché il periodo formativo dell’età studentesca dei due, anche se nati in epoche diverse, si svolse nella loro comune terra d’origine, ossia a Matera, inserita nell’UNESCO e proclamata “Città Europea della Cultura”. Chi era Nicola Festa? Un figlio della Basilicata, nato a Matera il 17 novembre 1866. Fu allievo, negli anni 1882 - 1884, di Giovanni Pascoli nel “Liceo E. Duni” del capoluogo lucano. Il Poeta di San Mauro era giunto, in quella scuola, come professore di prima nomina di latino e greco, il 7 ottobre 1882. Nicola Festa era un suo allievo, intelligente e volenteroso; emergeva per profitto su tutti i suoi compagni. Studiava con interesse ogni materia. Le sue preferenze, però, andavano al latino e al greco che egli considerava non lingue morte ma lingue vive, lingue della cultura che costituivano la base di una sana e completa formazione culturale, che trasmettevano i valori umani, morali e civili degli scrittori di Roma e della Grecia antiche. Giovanni Pascoli aveva scoperto, fin dalle prime lezioni, la genialità innata del futuro filologo e sommo ellenista e gli aveva consigliato di frequentare l’Istituto di Studi Superiori (l’Università) di Firenze. Qui Festa ebbe come guida un altro grande maestro, Girolamo Vitelli. Importante per lui era la filologia. Divenne un traduttore geniale e a soli venticinque anni ottenne risultati straordinari sia come filologo che come paleologo. Fu proprio lui a portare gli studi italiani di filologia alla pari con quelli della Germania che primeggiava nei nostri confronti. Traduceva in greco come se fosse nativo dell’Attica, della Beozia, del Peleponneso. Tantissime le opere di classici latini e greci tradotte e commentate. Ne ricordiamo solo alcune: “Bacchilide”, scoperta nel 1896 in un papiro egiziano, “Giambico”, “De Communi ma-
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tematica scienza” che ebbe l’apprezzamento incondizionato dei dotti. Compilò “L’Indice dei Codici Laurenziani” e quelli bolognesi della Biblioteca Arcivescovile. Secondo la testimonianza del dantista Luigi Pietrobono parlò, in tre lezioni, all’Accademia dei Lincei, di Properzio e della sua Cinzia, argomento che aveva ascoltato da Giovanni Pascoli quando frequentava il “Liceo Duni”, ed ebbe un successo strepitoso. Fondò il Bizantinismo, s’interessò all’educazione dei giovani e all’avvenire della scuola affinché in essa venissero insegnate discipline umanistiche. Circa le traduzioni poetiche, egli ribatteva che la costruzione del metro non permetteva di rivelare il pensiero e i moti spirituali del poeta tradotto: la forma italiana veniva fuori forzata, sofferta; per entrare nel mondo classico, per avvicinarlo bisognava ricorrere alla prosa, il mezzo espressivo che restituiva l’aspetto autentico, naturale delle persone e degli ambienti. Uomo semplice, umile, eclettico, era legato in modo morboso ai luoghi natii, proprio come Orazio suo conterraneo, perché da essi erano partiti i primi slanci che lo avevano reso famoso. Militava nel Partito Popolare e collaborava alla rivista “Atene e Roma”. Per i suoi meriti venne nominato senatore. Nessuna adulazione né soggezione al Rergime. Fu criticato per le sue traduzioni in latino dei discorsi di Mussolini: ma egli lo faceva solo per motivi di studio, per esercizio linguistico. “Non era partecipazione la sua” commenta Selvaggi “solo considerazione attenta e con la giusta prudenza del flusso dei tempi. Lo stesso Mussolini lo apprezzava ed era entusiasta del suo elegante latino”. Giovanni Gentile gli affidò la volgarizzazione degli “Stoicorum veterum fragmenta”. Perché tanta ammirazione per Nicola Festa da parte di Selvaggi? Perché Festa era un suo conterraneo, e non solo per questo: Selvaggi frequentò anch’egli il “Liceo Duni” e di ciò era orgoglioso. “Al “liceo Duni” si aggiravano le ombre del Poeta delle “Miricae” e del suo antico scolaro, di Pascoli e di Festa”, come l’ombra di Omero tra le rovine di Troia, “ed io ne avvertivo la presenza, ne traevo ispirazione e sostegno morale” lo scrittore racconta “Io avevo saltato una generazione, mi sentivo minimizzato in un mondo non mio, oppresso dal classicismo di allora che imperava fra i compagni di aula”. Da Grassano si recava a Matera con la corriera. Alloggiava in una pensione e il cibo che gli davano lo lasciava spesso insoddisfatto, a stomaco vuoto. Quando non si saziava, andava in campagna a cercare fave e finocchi. Durante le vacanze aiutava il padre a impastare la calce. Non comprava tutti i libri, solo i fondamentali, gli altri se li faceva prestare e si disobbligava dando i compiti svolti. “I
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miei giorni hanno avuto asprezze e malvagie situazioni che mi hanno fatto guardare tutto dall’alto, al di sopra dei particolari” egli confessa. E quando, per motivi di lavoro, è costretto ad abbandonare il luogo natio, non fa altro che pensare al mondo che s’è lasciato alle spalle, alla Basilicata aspra e verde, con l’odore del pane nell’aria e del letame, con i suoi abitanti rozzi ma forti e onesti, “alla Basilicata dai caratteri di un ambiente primordiale, nel respiro puro della natura, con il senso dell’essenzialità saggia, solare, solitaria, industriosa della Magna Grecia” e non accetta i confort stereotipati, lo smog e la superficialità della città, rimpiange la genuinità della sua terra e della sua gente: l’animo suo “è rimasto attaccato alle pareti della sua casa e del suo paese”. Il suo rimpianto e la sua nostalgia sono gli stessi di Nicola Festa: nemmeno questi riesce a cancellare dalla memoria il ricordo dei luoghi d’origine, ha sempre negli occhi e nel cuore lo scenario meraviglioso dei “ “Sassi” di Matera, delle case che si aggrappano brulicanti al sole, vestite di tufo giallo e addossate le une alle altre”, protette dall’azzurro terso d’un cielo quasi sempre trasparente. “Nicola Festa, il classicista sommo della Basilicata”, è un libro che si legge d’un fiato e si gusta come un romanzo. Antonia Izzi Rufo
ANNA TROMBELLI ACQUARO EMOZIONI SPARSE AL VENTO 2° Premio Città di Pomezia 2015 - Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 La Poetessa Anna Trombelli Acquaro, è una grande affezionata sostenitrice dell’A.L.I.A.S. da moltissimi anni, ci siamo conosciuti alla premiazione del Concorso Internazionale dell’A.L.I.A.S. nel 1997, all’Istituto Italiano di Cultura di Melbourne, la Premiazione, l’abbiamo fatta per sette anni all’Istituto Italiano di Cultura e loro erano invitati, perché il marito era Presidente e Fondatore della Camera di Commercio Italiana ed era uno dei nostri sponsor. Anna, ha partecipato al suo primo concorso A.L.I.A.S. nel 1998 con poesia e narrativa, vincendo il primo premio, e non si è più fermata, ha vinto tantissimi premi ed ha pubblicato il suo primo libro di poesie con l’A.L.I.A.S. Editrice nel 1999. Ma il 4o premio, vinto quest’anno al Concorso Internazionale Città di Pomezia, l’ha resa tanto felice da voler pubblicare la sua silloge, al fantastico IL CROCO, con tanta gioia e tanto entusiasmo. La nostra Poetessa scrive con il cuore e l’anima, è
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una fonte di puri sentimenti nel dolce ricordo della mamma, della terra natìa e tanto lontana, le sue poesie, sono sempre intrise di nostalgia e d’amore infinito: “Mamma,/ sei stata il faro della vita/ per dare luce alla mia vita,/ sei stata quel raggio di sole/ a riscaldarmi quando avevo freddo, /tu sei stata la mia malinconia/ che ogni istante della mia vita/ mi ha fatto compagnia./ La lontananza ci ha impedito/ di stare insieme, ma nessuna cosa al mondo m’ impedirà/ di volerti bene.” Da un Fiore per Mamma. Pagg. 14. Sono parole, con tante emozioni sparse al vento, che ci catapultano in mille sensazioni dolorose, vissute da chi va lontano dalla sua terra, versi che colmano il cuore di dolci ricordi e gli occhi grondanti lacrime, pensando a quei tristi momenti di aver lasciato la mamma, la mamma che è legata ai figli fin dalla loro nascita e per tutta la vita. Ricordi che lacerano il cuore! La nostra Autrice è una miniera d’amore e lo dimostra in ogni suo scritto e nella dolcezza del suo sguardo, stare vicino a Lei è un attimo sublime, parla poetando, saluta recitando, scrive nell’armonia dei suoi versi dettati dal cuore, colmando di echi d’ amore chi ha la gioia d’immergersi nei suoi meravigliosi stati d’animo, che regalano amore incondizionato. Giovanna Li Volti Guzzardi Australia
ISABELLA MICHELA AFFINITO PROBABILMENTE SARÀ POESIA IL CROCO I quaderni letterari di Pomezia Notizie – ottobre 2015 La silloge Probabilmente sarà poesia di Isabella Michela Affinito, che ha meritato il primo premio Città di Pomezia 2015, si snoda mediante una struttura centrale i cui versi scorrono come un fiume in piena. Il pensiero spazia libero e spontaneo “dando voce a tutto” come ha ben definito Domenico Defelice nella prefazione. Non vi è infatti un tema costante, bensì la Affinito si accosta al linguaggio degli alberi i quali sanno tutto: “…Non è / vero che non hanno occhi / e non vedono le epoche, / sanno tutto e poi scrivono / solleticati nelle foglie…” . Oppure, gioca ironicamente con la vanità della “Padrona degli specchi”, la regina del reame che vorrebbe sempre apparire giovane ma “Padrona di ogni / specchio conservato per / apparire all’improvviso / nel mentre di un / sorriso che vorrebbe / restare giovane per / sempre invece, già / scompare nella mente.”. Continua poi rivolgendosi a un’anfora e riesce ad esaltarne la bellezza
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rievocando la passata storia millenaria. Entra pure nell’animo della pietra riuscendo a scavare “secoli di storia / trascorsi come attimi / dove tutto ci è stato tramandato / in pietra!”. Isabella Michela Affinito affronta diversi temi che denotano la sua preparazione culturale e una fervida immaginazione. E’ presente anche l’amore per la terra del sud, carica anch’essa di millenni di storia e l’influsso della Grecia si avverte in più liriche. Un altro testo rilevante è Picasso dopo Picasso, i cui versi rappresentano in poco spazio tutta l’ arte del grande artista. Altra bella poesia è quella dedicata in omaggio a Giorgio Morandi, che rispecchia una lieve atmosfera nella quale è palpabile il lirismo delle piccole cose quotidiane, come appunto le bottiglie, i bicchieri e gli oggetti poveri adoperati dal grande Maestro. La sua poetica si discosta dal prevalente sentire egotistico, e nei suoi versi non appare mai un accentuato lirismo. La Affinito sa coinvolgere con il suo sentire ciò che la circonda e ci regala momenti magici e soprattutto originali. Laura Pierdicchi
ISABELLA MICHELA AFFINITO PROBABILMENTE SARÀ POESIA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2015 “La poesia realizza in modi diversi il suo canto positivo... Si spinge in alto, verticale, vertiginosa; o frequenta terra, batte zone più quotidiane e basse e va in orizzontale. Per trovare una formula semplice”... possiamo anche ricorrere al - Canto di me stesso - di Walt Whitman, quando ci dice: “Il semplice fatto d’esistere - che vi è di meglio?”1 Domenico Defelice sulla poesia di Isabella Michela Affinito si interroga: “Poesia come gioco?” Io direi piuttosto, a mio modesto parere, gioco, ma di parole. Se poi da questo roteare d’immagini, colori, arcaismi, ricorso al mito, scaturiscono emozioni coinvolgenti, allora siamo di fronte alla poesia. Per un poeta è dovuto il riferimento agli elementi della natura che poi si personificano assumendo valenza che talvolta vola alto. Maurizio Cucchi2 con riferimento a un verso di Vittorio Sereni: “passiamo questa soglia una volta di più”, afferma: “Ecco come meglio non potrebbe essere espresso, la consapevolezza del proprio limite e della propria provvisorietà, il coraggio di guardarla in faccia e di proseguire... La poesia ha spesso questi atti di grandezza... il fatto stesso di scriverla è già un segno forte del suo valore positivo, della sua inestinguibile vitalità”. Così la nostra autrice ci stupisce con i suoi giochi di parole, con la personificazione degli og-
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getti. Usa talvolta termini inconsueti per un lettore scevro di cultura classica: (diffingo). È come se con accortezza di parole scelte e studiate volesse costruire una piramide per avvicinarsi al cielo. Ci riesce? Le si riconosce una originalità di linguaggio: nel “Parlare di un’anfora”, traspare la sua conoscenza di storia e critica d’arte in commistione col mito a cui ricorre frequentemente. D’altro canto, quale poeta è immune dal fascino dell’antica Grecia prima madre di ogni arte? “Ti chiedo di/farmi ascoltare i/dialoghi fra i due/colori che ti ricoprono,/il rosso di Socrate/e il nero di Ippia/così Platone avrà dato voce alla/mia bellissima anfora”. Abile nel costruire il gioco dei versi non riesce a nascondere il suo compiacimento nello scorrere di una poesia elitaria che acquista autentica spontaneità nel “Profumo di Sud”. È la sua terra natale che prende corpo in lei e si fa autentica voce. Affiora nei suoi versi anche il rimpianto di un passato classico del quale conserva il profumo - Petalo antico -: “Rispondimi/se senti che ti parlo/e forma ancora/una corolla, la stessa/del tempo tuo/antico, di quando/i fiori erano la voce/di chi amava/”. Anna Vincitorio 1 - Dalla prefazione di Maurizio Cucchi - 110 poesie per sopravvivere - Guanda edizioni - 2004. 2 - Idem.
È NOTTE È notte; è notte anche nel mio cuore, per le ferite subite durante la mia vita. Loretta Bonucci
IL CROCO I Quaderni Letterari di POMEZIA-NOTIZIE Il numero 121 di questo mese è dedicato a: ANNA VINCITORIO BAMBINI (2° Premio Città di Pomezia 2015)
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D. Defelice: Il microfono (1960)
NOTIZIE C’È FUTURO PER LA NOSTRA LINGUA? Il nostro editoriale di novembre ha suscitato qualche meraviglia, apprezzamenti e qualche smentita. Pensavamo, per esempio, che i Francesi fossero tutti orgogliosi della propria lingua e che lottassero per divulgarla oltre il possibile. Invece, a quanto pare, anche in Francia si soffre dello stesso nostro male! Ci scrive, da Parigi, la poetessa Béatrice Gaudy: “Parigi, stagione di sangue (attentati) Un sorridente buongiorno, Grazie tante per avere pubblicato un mio poema nel numero di novembre della Sua rivista scoperta con vivo piacere. Essa raccoglie numerosi testi interessanti e commoventi. Pensavo gli Italiani più fieri dell’italiano che non i Francesi della propria lingua. Invece no. È la stessa tristezza nei due paesi. Ma in francese, un proverbio dice: “Il peggio non è sicuro”. *** LE BARRIERE DEL MONDO... - Torino, 04 Dicembre 2015 C’è una notizia che non deve mancare mai C’è una notizia che non deve mancare mai - i grandi sogni Le barriere del mondo lasciano il vento a fischiare nelle gole del male. Gente che vive nel disincanto e non riesce più a sognare. Il mondo dei sogni distrutto e calpestato dagli scarponi rumorosi sopra le fragili macerie, il mondo stesso che deve osservare tentando di rialzarsi, guardare oltre quel limitato suo temporaneo vedere in uno specchio di demarcazione e vivere senza confine, legato all’incanto del sentire e del provare
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l’esistenza dell’invisibile. Aleggia il mistero invisibile che ha creato il mondo e anela in me il desiderio del grande sogno : libertà senza violenza. Ascolto incantata : “ imagine all the people living life in peace” ( J. Lennon) Filomena Iovinella *** DOBBIAMO SMETTERLA! - Il nostro editoriale del numero scorso ha avuto una eccellente eco, riproposto anche da altre testate, tra cui il quindicinale Il Pontino nuovo dell’1/15 dicembre (“La riflessione del giornalista Domenico Defelice”), segno che, come noi, molta gente è stufa di tante manfrine e lacrime di coccodrillo. Se non cambiano gli atteggiamenti dei paesi più industrializzati verso l’emigrazione, la fame nel mondo e molti altri problemi capitali, il nostro destino sarà quello di vivere perennemente sotto l’incubo di attentati e altre forme di violenza, più perniciosi di una guerra vera e propria perché subdoli, imprevedibili, forieri d’ ansie esiziali. *** ADDIO, ANTONIA! - Molti amici, collaboratori e i lettori hanno voluto esprimere le loro condoglianze per la morte di Antonia Defelice, avvenuta il 20 novembre 2015. “Sempre la morte ci induce a riflettere sulla vita terrena - ci scrive, da Pesaro, Caterina Felici -, su quella eterna, a cercare il vero senso del nostro vivere, a trovare in noi equilibri ed armonie, a beneficio degli altri e di noi stessi. Le sono vicina con il mio ricordo...”. Chiedendo scusa per i nomi che ci dovessero sfuggire, ringraziamo, in particolare: Giuseppe Leone (Pescate, Lecco), Eva Barzaghi (Roma), Claudia Trimarchi (Frascati, Roma), Leonardo Selvaggi (Torino), Giovanna Li Volti Guzzardi (Melbourne, Australia), Tito Cauchi (Lavinio, Roma), Anna Aita (Napoli). *** LECTURA DANTIS METELLIANA - Il 19 dicembre 2015, alle ore diciassette, nell’Aula Consigliare del Comune di Cava de’ Tirreni, si è svolta una Conferenza sul tema “Borges e Dante” dell’Isp. Prof. Agnello Baldi. A conclusione, si è proceduto alla consegna del Premio di Laurea “Fernando Salsano” per studi e ricerche in ambito dantesco. *** AD ANNA VINCITORIO IL PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA - Il 29 novembre, nel Castello Reale di Moncalieri, alla nostra collaboratrice, scrittrice e poetessa, Anna Vincitorio, è stato assegnato il Premio speciale della Giuria alla XXXVI edizione del Premio Letterario “Città di Moncalieri” per il volume “Il dopo Estoril”, Ed. Blu di Prussia. Ecco la motivazione: “Paesaggi
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senza tempo, ricreati pittoricamente dalla memoria. Versi che parlano della luce e del fragore di un mare (“che annienta, ammalia, seduce... e risorge in mille bocche di spuma”) lungo le deserte coste dell’Estoril, al quale fa da contraltare l’ombra opprimente di luoghi dove - tra asettici muri e fantasmi di camici bianchi - si soffre e si muore da soli. Una silloge ricca di immagini originali, di pennellate e guizzi espressivi di autentica poesia.” Il Premio, organizzato dal Circolo Culturale Saturnio, ha avuto il patrocinio della Regione Piemonte e del Consiglio Regionale. A condure la cerimonia è stata Alessandra Comazzi, giornalista de La Stampa; ha introdotto Wanda Sorbilli, Presidente Circolo Culturale Saturnio; sono intervenuti: Paolo Montagna - Sindaco della città di Moncalieri -, Mauro Laus - Presidente Consiglio Regionale del Piemonte -, Laura Pompeo - Assessore alla Cultura, Città di Moncalieri -; si sono esibiti, in concerto: Luigi Giachino - pianoforte -, Luciano Girardengo violoncello -, Giuseppe Nova - flauto -; voce recitante, Patrizia Scianca. Nel corso della cerimonia è stato consegnato il Premio Saturnio 2015 a Donna Allegra Agnelli, Presidente della Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro. Il Premio Saturnio è stato istituito nel 1988 e nel corso degli anni è stato assegnato a: Giorgio Bárberi Squarotti, Gianluigi Beccaria, Corrado Calabrò, Liana De Luca, Lidia De Vettori, Raffaella De Vita, Dario Fontana, Roberto Gabetti, Remo Girone, Angelo Jacomuzzi, Gabriele La Porta, Ernesto Olivero, Ottavia Piccolo, Luca Ronconi. Presidente del Premio è Alessandra Comazzi e la Giuria è composta da: Ernesto Aloia, Giovanni Chiellino, Adriana Cigna, Mirka Corato, Gianni Oliva, Anna Maria Mantovani, Pierantonio Miloni, Enrico Remmert, Emanuela Spagnolini. *** KERMESSE DI LETTERATURA E DI ARTE - Il 15 dicembre 2015, ore 17,00, Aula Consiliare della Provincia di Salerno, nell’ambito dei “Martedì Letterari”, si è svolta una “Kermesse di Letteratura e di Arte”, con il seguente programma: Fabio Dainotti “Selected poems” New York 2015 a cura della Prof. Virginia Corvino - Anglista; Giuseppe Milite - Gennaro Amato “Bellezza” con saggio critico di Giovanna Scarsi, Salerno 2015 a cura della Prof. Francesca Troisi - Vicepresidente dei Martedì Letterari; Alessandro Basso “La Fede e la stirpe” Salerno 2015 a cura dell’Avv. Pompeo Onesti - Scrittore; Gabriella Rienzi “Nadir... primavera senza papaveri” Salerno 2015 a cura del Prof. Karim Zarrouk - Esperto di lingua e letteratura araba. Presenti tutti gli autori. A presiedere: Prof. Luigi Reina - Università di Salerno, Pres.
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Onorario Martedì Letterari. Recital a cura del gruppo Teatro Liceo Classico Perito Eboli, Intermezzo musicale della violinista Marzia De Nardo. Brindisi Natalizio. Il Comitato Scientifico era composto da: Giuseppe Acocella, Sergio Campailla, Vincenzo Cappelletti, Alberto Granese, Sebastiano Martelli, Fabio Pierangeli, Antonio Pietropaoli, Luigi Reina, Giovanna Scarsi, Giulio Tarro, Luigi Torraca. *** DUE TESI DI LAUREA ALLA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA SULL’OPERA LETTERARIA DEL GIORNALISTA E SCRITTORE DOMENICO DEFELICE - Nello spazio di neppure quindici giorni, nel mese di dicembre 2015, ben due tesi di laurea sono state discusse, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università di Roma Tor Vergata, sull’opera letteraria del giornalista pometino, di origine calabrese, Domenico Defelice, che ha collaborato - o collabora a centinaia di Testate ( ricordiamo Nuova Antologia, Pietraserena, La Voce di Calabria, La Voce Pugliese, Il Corriere di Reggio, La Procellaria, Alla Bottega, La Voce del Mezzogiorno, Cronaca di Calabria, Minosse, Aspetti Letterari, La Gazzetta Ciociara, La Sonda, Luce Serafica, Satura, Vernice, Il Corriere di Roma ecc.), che è stato corrispondente per quindici anni del quotidiano Avvenire e che attualmente dirige il mensile PomeziaNotizie, da lui stesso fondato nel lontano 1973. Il 2 dicembre, infatti, nell’aula Rosati, alle ore dieci, ha discusso la sua tesi di laurea in Letteratura Italiana: Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, Aurora De Luca, di Rocca di Papa. La commissione era composta dal relatore chiarissimo prof. Rino Caputo, coadiuvato , dalle prof.sse Lardo, Benigni e Nardi. Il 15 dicembre, alle ore 12, è stata la volta di Claudia Trimarchi, di Frascati, con la tesi di laurea in Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea “La funzione catartica
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e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice”. Il lavoro di Aurora De Luca, oltre a una introduzione sulla metodologia utilizzata e a una “Miscellanea”, si sviluppa in due parti; la prima: “Il buongiorno del poeta”, si ramifica in “Amore: 12 mesi con la ragazza”, “Odio e amore: La morte e il Sud”, “Amore e odio: Canti d’amore dell’uomo feroce”, “Amore: Alberi?”, “Vita e poesia: Poesia è vita”; la seconda: “Pomezia-Notizie”, riguarda “Epistole”, “Fucina letteraria: Il mensile”, “Rispondenze: L’ epistolario”. Segue una Appendice (una intervista: “A passeggio con Domenico Defelice”), le Conclusioni, i Ringraziamenti e una Bibliografia di Domenico Defelice. La Tesi di Claudia Trimarchi, invece, dopo l’ Introduzione, a comporla sono quattro densi capitoli: 1) L’ortus del poeta: Vita e Opera”; 2) “Tra auto-
biografia e universalismo”; 3) “Dalla questione meridionale all’uomo grandemente feroce”; 4) “Nell’hortus del poeta: La concezione di una critica onesta e alcuni parallelismi tra l’opera pittorica di Gazzetti, Scutellà, Mallai, e l’opera poetica di Defelice”. Seguono le Conclusioni, i Ringraziamenti e la Bibliografia. Tutto ciò, a quanto sembra, è segno dell’interesse che suscita nei giovani l’opera di questo artista che da più di cinquanta anni lavora in solitudine, interessandosi sempre con passione di numerosi temi, come la scuola, il lavoro, la religione, la giustizia, la delinquenza, in pagine di prosa e di poesia, spesso venate di tagliente ironia, come nel recente libro (2014) Alleluia in sala d’armi. Parata e risposta scritto in tandem con il medico specialista psichiatra del Servizio Sanitario Nazionale di Reggio Emi-
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lia, Dott. Rossano Onano - e nel quale si affrontano problematiche come la durata del matrimonio (ormai quasi sempre a scadenza!), i gay, le tasse e le imposte, la politica, il razzismo, gli anziani eccetera. (n. s. p.)
LIBRI RICEVUTI GIANNICOLA CECCAROSSI - Fu il vento a portarti - Poesie d’amore con un saggio introduttivo di Antonio Bonchino; in prima bandella, giudizio di Giorgio Bárberi Squarotti - In copertina, a colori, “La promenade” di Marc Chagall (1887 1985) - Phalaenopsis Ibiskos Ulivieri, 2015 - Pagg. 60, € 12,00. Giannicola CECCAROSSI è nato a Torino il 18 agosto 1937 e vive a Roma. Figlio d’ arte (il padre Domenico era un grande musicista solista), si dedica alla poesia da molti anni. Proprio con il padre realizza nel 1970 il poemetto “Per i semi non macinati” per corno (Domenico Ceccarossi), voce recitante (Arnoldo Foà), coro e orchestra d’archi, musica di Gerardo Rusconi. Nello stesso anno vince il “Premio Nazionale di Poesia Reggiolo”. Dopo un lungo periodo dedicato alla carriera manageriale, inizia nel 1999 a partecipare a concorsi letterari aggiudicandosi numerosi primi premi, tra i quali: Città della Spezia, Il Porticciolo, Histonium, Città di Portovenere, Apud Montem, L’ Aquilaia, Giuseppe Stefanizzi, Nicola Mirto, Il Maestrale, Santa Margherita, Poetico Musicale, San Valentino, Le Cinque Terre, Padre Raffaele Melis, Amarossella, Mario Tobino, Città di Santa Maria a Monte, Franco Bargagna, Aeclanum, Il Quadrato, La Gorgone d’oro, Città di Bitetto, San Domenichino, Olinto Dini, L@ Nuov@ Mus@, Nosside, Santa Maria in Castello, Raffaello Cioni, Antica Sulmo, Il Litorale. Inoltre Premio all’Eccellenza (“Voci” Abano Terme) e Premio alla Carriera (“San Domenichino”). Ha pubblicato: Poesie (1967), Ora non è più tempo (1970), Le dieci lune (1999), Frammenti (2000), I fiori nella schiena (2000), La terra dentro (2001), I gridi nella mano (2002), È appena l’alba (2008), Aspetterò l’arrivo delle rondini (2011), Ed è ancora così lontano il cielo (2012), Casa di riposo (diario) (2013), Dove l’ erba trasuda narcisi (2014), La memoria è un grano di sale (2015). ** LEONARDO SELVAGGI - Il grande pittore impressionista Ottavio Carboni - In copertina, a colori, “Pescatori di tonno” (olio su tela cm. 60 x 80, 1956) di Ottavio Carboni - I tascabili di Cronache Italiane, Serie: poeti contemporanei/164, 2015 -
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Pagg. 24, s. i. p.. Leonardo SELVAGGI è nato a Grassano (Matera) e risiede a Torino. E’ stato dirigente superiore del Ministero per i Beni Culturali. Scrittore, poeta, saggista, ha ottenuto numerosissimi premi ed è collaboratore d’importanti testate editoriali ed è redattore di Cronache Italiane. Ha curato sei antologie di poesia contemporanea. Della sua attività letteraria hanno scritto centinaia di critici su giornali e riviste. Il Centro di Studi e Ricerca “Mario Pannunzio” gli ha conferito il Premio Speciale del Presidente della Repubblica per la letteratura 1988. Il 13 giugno 1989 gli è stata conferita l’ onorificenza di Ufficiale dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana”. Tra le opere, in versi è prosa, si ricordano: Le Ombre (1955); Diario poetico (1964); Frammenti (1970); Desiderio di vivere (1974); Vent’anni di poesia (1975); La transizione (1978); Lo sradicato ed altri scritti (1986); Pagine di un anno (1988); Le radici dell’essere (1990); L’ ultimo dei romantici (1991); La croce caduta (1993); Le feste degli altri (1993); Il mattino dell’ufficio (1993); Franti pensieri d’autunno (1994); Immigrato a Torino (1995); Poesie in due tempi (1996); Eterne illusioni (1997); I giorni del baratro (1998); Realtà e Poesia (1998); Stimolazioni e colloqui (1999); Michele Martinelli, La terra di Lucania e la sua gente negli anni cinquanta (1998); La poesia nel Dialogo Serale di Francesco De Napoli (1999); Arpeggi di mare - Saggio etico su “pensieri di sabbia” di Graziano Giudetti (1999); Sugli assetati di ordine e di giustizia (2000); Francesco Lo Monaco (2001); Saggi sulle “Poesie di Francesco Brugnaro” (2001); Brandisio Andolfi in “Alberi curvi d’ acqua” (2001); Lontano è il tempo della notte (2001); Le ultime pagine del Duemila (2001); Andrea Bonanno pittore e saggista dell’ uomo nella sua essenzialità primordiale (2002); L’ amore sopra il precipizio (2002); Vita e pensieri (2002); Poesie nella tempesta (2002); Nicola Festa il classicista sommo della Basilicata (2002); I tempi felici (2002); Iddio non conosce gli uomini (2002); L’altra valle (2003); L’anima e gli echi lontani (2003); Il divorzio e l’amore (2003); Storia e autobiografia (2003); La poesia di Carmine Manzi nella sua ultima evoluzione (2003); Ruggero Bonghi (2003); Brandisio Andolfi cantore dei tempi nostri (2003); Storia e autobiografia (2003); Il nostro tempo (2004); Alle fonti dell’essere (2004); La terra tutta ci prende (2004); Poesie di sempre (2004); Sui sentieri del cuore di Maria Teresa Epifani Furno (2004); Tra crisi di transizione la poesia di Amerigo Iannacone in stimolazioni etico-sociali (2004); AA. VV. Rino Cerminara nel secondo Novecento letterario italiano (2005); L’indignazione poetica (2005); Luigi Pumpo - Poeta della vita e della Na-
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tura (2005); Gli Italiani eterni immigrati (2005); Letteratura di ieri e di oggi (2005); Personaggi e storia umana (2005); La costante lunare e spirituale nell’ars poetica di Isabella Michela Affinito (2005); Polvere di ossa (2005); Vincenzo Rossi voce rappresentativa del ‘900 (2005); Lo specchio del cielo - Poesie 1996-2005 (2005); Bruno Giordano cantore dei nostri tempi (2005); La poesia di Amerigo Iannacone (2006); La critica di Leonardo Selvaggi sull’arte e sulla letteratura frenniana (2006); Estrosità immaginativa e Armonia poetica di Anna Aita (2006); Dalle poesie di Antonio Vitolo: il cuore antico dell’uomo in sentimentalità ed eterno amore (2007); Natura e Umanità (2007); Dalle opere di Antonio Angelone ritornano i pensieri e le amarezze dei grandi meridionalisti (2007); Umanità e grandezza lirica di Carmine Manzi (2008); Le dolcezze della vita (2008); Dai mosaici alle poesie (2009); Il mio esilio (2009); Domenico Defelice e le sue opere eticosociali (2009); Giudizi critici “Le avventure di Fiordaliso” di Antonio Angelone (2009); Poesia e tradizione nelle opere di Antonia Izzi Rufo (2009); Le poesie di Giovanni Cianchetti (2010); Alle fonti dell’essere e della vita - saggio sull’opera di Vittorio Martin (2010); Vittorio Martin poeta e pittore (2010); Nunzio Menna; Opere e attività culturali (2010); Il fantasma e altre poesie di Vincenzo Rossi (2010); Nel Diario di Domenico Defelice giovinezza e poesia (2011); Pantaleo Mastrodonato nella vita e nell’arte Profilo critico dello scrittore-poeta (2011); La poesia di Francesco Terrone (2012); Il dissolversi dell’uomo moderno (2012); Luce e saggezza nella poesia di Pasquale Francischetti (2012); Le commedie dialettali di Antonio Angelone (2012); Antonio Angelone e il suo mondo ideale (2013); Le opere di Nunziata Orza Corrado (2013); Il percorso letterario di Vincenzo Vallone (2013). ** NINO FERRAÙ - Mosaico di luci - Poesie, a cura di Anna Maria Crisafulli Sartori (Prefazione) - In copertina, Nino Ferraù riceve il primo premio di poesia Naxos (21 aprile 1968). Con lui: la moglie, Maria Marchese Ragona e il dott. Guido Lo Schiavo - Edizioni GBM, 2010 - Pagg. 80, € 10,00. Nino FERRAÙ nacque a Galati Mamertino (Messina) il 12 ottobre 1923 e morì a Messina il 23 dicembre 1984. A nove anni scrisse la prima poesia e, nel 1942, pubblicò il suo primo libro, “Diadema di Sangue”. Negli anni Cinquanta, fondò la corrente letteraria ‘Ascendentismo’, il cui organo ufficiale fu la rivista “Selezione Poetica” da lui fondata e diretta per oltre trent’anni. Dello stesso autore sono state pubblicate le raccolte “Orme di viandante” (1985), “Immagine azzurra” (1987), “Grumi di terra” (1988), “E sentirci così” (1990), “Album” (1993),
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“Pietre di fiume” (1998). Su di lui, ricordiamo il volume “Nino Ferraù Vita e scuola” (2002) di Anna Maria Crisafulli Sartori. A questo validissimo poeta, il nostro direttore ha intenzione di dedicare, appena possibile, uno dei nostri quaderni letterari Il Croco. ** LUCIANO ARMELI IAPICHINO (a cura di) - Nino Ferraù. Un intellettuale. La sua anima. La sua epoca - In copertina, foto di Giorgio De Chirico e Nino Ferraù - Leonida Edizioni, 2015 - Pagg. 120, € 10,00. Interventi di: Luciano Armeli Iapichino (Introduzione e Incontro con Nino Ferraù sulla banchina del tempo), Cosimo Cucinotta (Le parole ritrovate di Nino Ferraù), Antonio Baglio (Ferraù e il ruolo dell’intellettuale), Salvatore Giuseppe Vicario (L’Ascendentismo, Nino Ferraù e Salvatore De Maria), Sergio Di Giacomo (Poeta spirituale e attento divulgatore: la rivista “Selezione Poetica” di Nino Ferraù), Anna Franchina (Galati Mamertino ricorda Nino Ferraù). Luciano ARMELI IAPICHINO docente e scrittore siciliano, ha pubblicato “Il Tiranno e l’Ignoranza” (2009, Premio Internazionale Letterario ed Artistico Elio Vittorini), “Le vene violate. Dialogo con l’urologo siciliano ucciso non solo dalla mafia” (2011), “L’uomo di Al Capone. Tony Lombardo: dall’indigenza siciliana a “zar” del crimine della Chicago anni ‘20” (2014). Antonio BAGLIO insegna Storia contemporanea, Storia dei movimenti politici e sindacali e Storia del giornalismo nel Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università di Messina. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Il Partito nazionale fascista in Sicilia. Politica, organizzazione di massa e mito totalitario 1921 - 1943” (2005, con S. Fedele e V. Schirripa), “Per la pace in Europa: istanze internazionaliste e impegno antifascista” (2007), “Galati Mamertino nel Novecento. I. Dall’alba del secolo fino alla caduta del fascismo” (2009). Cosimo CUCINOTTA, già ordinario di Letteratura italiana e Letteratura italiana contemporanea presso l’ Università degli studi di Messina. Ha indagato aspetti e momenti della letteratura ottocentesca e novecentesca, in particolare di quella siciliana e dannunziana. Tra le sue opere monografiche: “Le maschere di don Candeloro” (1981), “Il cavaliere e la sua ombra. Studi dannunziani” (2001), “Le parole ritrovate. Itinerari testuali del primo Saba” (2005), “Mario Luzi. Le stagioni del giusto (1935 - 1960)” (2010). Sergio DI GIACOMO, storico e giornalista della “Gazzetta del Sud”. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: “Dall’Atlantico al Mediterraneo. I rapporti commerciali e diplomatici tra gli Stati Uniti e Livorno (1831 - 1860)” (2004), “Il Sud del console Goodwin. Il Regno delle due Sicilie nel report del
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console britannico in Sicilia (1840) (2010, con G. S. Minutoli e G. Ramires), “Il professor Pascoli a Messina e l’alunno sacerdote” (2012). Anna FRANCHINA, corrispondente della “Gazzetta del Sud”. Ha ottenuto riconoscimenti in concorsi nazionali di poesia e suoi componimenti figurano in diverse antologie poetiche. Salvatore Giuseppe VICARIO, medico e scrittore. Ha suggerito l’ inserimento del paese natio, Galati Mamertino, a Federico Zeri nel volume della “Storia dell’arte italiana” (vol. 8, 1981). Collaboratore della Treccani per il “Dizionario Biografico degli Italiani” e del Centro Studi Filologici e Linguistici Siciliani. Dal marzo 2014 collabora con il “Wall Street International”. Saggista particolarmente prolifico. Tra i suoi contributi citiamo: “Arte a Galati Mamertino nel XVII e XVIII secolo” (1973), “Trattamento Zeta” (2009), “Da CHALA’ AD a GALATI MAMERTINO. Contributi alla storia di Sicilia” (2012), “Ciarle di un vecchio medico curioso” (2015). ** FORTUNATO ALOI - La Questione Meridionale: radici, inadempienze e speranze - Un discorso sempre attuale pronunciato trent’anni fa - Camera dei Deputati, 30 luglio 1985 - Pagg. 16, s. i. p. Fortunato ALOI (conosciuto come Natino Aloi), è stato per anni docente nei vari licei della Città di Reggio Calabria. Sin da giovanissimo ha operato nel mondo della politica, da quella universitaria alla realtà degli Enti locali. Ha percorso un lungo itinerario: da consigliere comunale nella sua Città ed in altri centri della provincia (Locri) a consigliere provinciale, da consigliere regionale a deputato. Come parlamentare (per quattro legislature) ha affrontato temi di diverso genere ed in particolare si è occupato, con grande impegno, di scuola, cultura e di Mezzogiorno. Ha ricoperto l’ alta carica di Sottosegretario alla P. I.. E’ stato coordinatore regionale della Destra calabrese, ed anche Segretario per la Calabria del Sindacato Nazionale (CISNAL). Presidente dell’Istituto Studi Gentiliani per la Calabria e la Lucania, è componente la Direzione nazionale del Sindacato Libero Scrittori Italiani. Giornalista pubblicista, collabora a diversi giornali ed è attualmente direttore del periodico “Nuovo Domani Sud”. Autore di numerose pubblicazioni di storia, pedagogia, saggistica, politica e narrativa. Ha ottenuto riconoscimenti di valore scientifico come il “Premio Calabria per la narrativa” (1990) per il volume “S. Caterina, il mio rione” (Ed. Falzea); il Premio letterario “Nazzareno” (Roma) 1983 per l’ opera “I Guerrieri di Riace” (Ed. Magalini) ed il Premio “Vanvitelli” per la saggistica storica (1995) per il volume “Reggio Calabria oltre la rivolta” (Ed. Il Coscile) ed il Premio Internazionale “Il Berga-
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motto” (2004). Altri suoi lavori: “Cultura senza egemonia (Per un umanesimo umano)” (1997), Giovanni Gentile ed attualità dell’attualismo” (2004), “Tra gli scogli dell’Io” (2004), “<Neutralismo> cattolico e socialista di fronte all’intervento dell’Italia nella 1a guerra mondiale” (2007), “Riflessioni politico-morali e attualità dei valori cristiani” (2008), “Piccolo Taccuino di Viaggio” (2009), “La Chiesa e la Rivolta di Reggio” (2009), “Vox clamantis... Come può morire una democrazia” (2014).
TRA LE RIVISTE L CONVIVIO - Trimestrale di Poesia Arte e Cultura fondato da Angelo Manitta e diretto da Enza Conti - via PietramarinaVerzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT). e-mail: enzaconti@ilconvivio.org Riceviamo il n. 3 (62) del lugliosettembre 2015, dal quale segnaliamo: Matteo Collura, La badante, di Giuseppe Manitta; Corrado Calabrò: Acuérdate de olvidarla, di Angelo Manitta; Maria Gargotta: La Napoli letteraria di F. D’Episcopo, di Anna Aita; Imperia Tognacci: Là, dove pioveva la manna, di Carmine Chiodo e le firme di nostri collaboratori quali Loretta Bonucci, Antonia Izzi Rufo, Isabella Michela Affinito, nonché l’allegato, sempre splendido, CULTURA E PROSPETTIVE n. 28, di ben 192 pagine, con interventi di: Corrado Calabrò, Biagio Scognamiglio, Carmine Chiodo, Linda Torresin, Giuseppe Manitta, Carlo Di Lieto, Guglielmo Manitta, Georgia Chaidemenopoulou, Silvio Minieri, Pietro Nigro, Maristella Dilettoso, Claudio Guardo, Rossella Cerniglia, Antonio Crecchia, Leonardo Selvaggi, Silvana Del Carretto, Aldo Marzi, Leonardo Labita, Enrico Fichera, Carmen Moscariello, Salvatore Agati, Franca Alaimo, Lino Di Stefano eccetera. * IL GIORNALINO LETERARIO dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori (A.L.I.A.S.), a cura di Giovanna Li Volti Guzzardi e Daniel D’Appio - Avondale Heights Vic 3034 Melbourne - Australia Sito: http://www.alias.org.au - email: giovanna@alias.org.au - daniel@alias.org.au Una vera e piacevolissima sorpresa, questa bella rivista (non le manca nulla per essere tale), con poesie, racconti e scritti vari e illustrata con foto a colori. Ecco la presentazione a firma di Giovanna Li Volti Guzzardi: “Carissimi amici, Scrivere è un miracolo, chi scrive è un essere speciale! Noi siamo esseri
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speciali! Scrivere è la nostra passione che ci accomuna e ci rende la vita colma sempre di nuove idee, è per questo che ci è venuto in mente di creare un giornalino letterario che come sempre contiene i nostri pensieri, che nascono come fiori in un prato sempre verde che ci riempie il cuore di gioia. In 24 anni dell’A.L.I.A.S. abbiamo avuto sempre grandiosi successi, speriamo che anche questa nuova idea del giornalino avrà il suo meritato successo. Ma il successo dell’A.L.I.A.S. è sempre grazie ai partecipanti, quindi grazie a tutti voi poeti, scrittori e pittori vicini e lontani, senza di voi l’A.L.I.A.S. non esisterebbe, quindi è a voi che devo ringraziare, è a voi che devo essere grata, a voi ho dato il mio cuore, tutta me stessa nel nome della nostra madre Lingua Italiana. Parlare in italiano ci fa sentire in Italia, noi l’Italia l’abbiamo nel cuore e nella mente, basta pensarla ed ecco che arrivano un mare di parole per comporre i nostri versi, liriche che racchiudono dentro tanto sentimento, tanta nostalgia, tano amore che scorre come un fiume in piena per la nostra Terra lontana. Vi abbraccio tutti con tanto amore e buona lettura! La Vostra amica, Giovanna Guzzardi”. Gioiamo per questa iniziativa, anche perché c’era dispiaciuto sentire che l’ amica Giovanna Li Volti Guzzardi voleva ammainare le vele. Brava, è così che si fa, mettendosi in mare finché le forze lo permettono, lottando sempre con amore e coraggio contro ogni procella. Sappiamo come i nostri emigrati in ogni parte del mondo amino la nostra lingua e la Nazione: il loro è un amore vero, viscerale, che dà lezione ai tanti indegni italiani che qui l’Italia e la sua lingua le denigrano e le maltrattano, che con ruberie e corruzioni ogni giorno le avviliscono e le disonorano. Diciamo principalmente dei politici, che non fanno altro che dilaniarsi reciprocamente per questioni di bottega (per impinguirsi sempre più il portafoglio!), quando dovrebbero essere un solo cuore e una sola mente per il bene di tutti. Lunga vita, allora, a IL GIORNALINO LETTERARIO e all’amica Giovanna. Un sentito grazie per tanto coraggio. (dd) * LA RIVIERA LIGURE - Quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro diretto da Maria Novaro - Corso A. Saffi 9/11 - 16128 Genova - e-mail: info@fondazionenovaro.it Riceviamo il n. 77, maggio-agosto 2015, che ha per argomento “Diffondere la cultura visiva”. Vi leggiamo, oltre la “Prefazione” di Giorgio Bertone, gli interventi di Giorgio Bacci, Veronica Pesce, Alessandra Piatti, Livia Spano, Gabriella Bologna, Miriam Fileti Mazza, Giulia Toffoletti, Rocco Pietro Spigno, Giada Centazzo, Matteo Navone, ancora Giorgio Bacci e poi notizie e rubriche. Ogni numero è una
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vera antologia che si legge con gusto; essendo tematica, volta per volta presenta personaggi visitati e sviscerati da firme e punti di vista diversi; una rivista, insomma, da leggere e da conservare. Ricordiamo i bei numeri dedicati, per esempio, a Ivo Chiesa (il n. 75-76), Rubino Rubini (64/65), Renato Majolo (72), il Pinocchio di Collodi (66), Dino Campana (73), Italo Calvino (69), Ettore Cozzani (67/68) eccetera.
LETTERE IN REDAZIONE DA PARIGI, DOPO IL 13 NOVEMBRE 2015 Carissime Amiche, ed anche a voi, Amici devoti con alla guida fattiva e volitiva il nostro Direttore, un saluto da Parigi: oggi, 7 Dicembre 2015, mi trovo al Café des Concerts, proprio a fianco della nuova Philarmonie de Paris, inaugurata il 15 gennaio 2015, a pochi giorni dall'eccidio di Charlie Hebdo. Si, io qui a Parigi, dopo nemmeno un mese dalla strage del Bataclan. Avevo già comprato i biglietti del Thello, andata e ritorno e quello per il 'PROMETEO' di Luigi Nono, verso la fine di Ottobre, nulla sapendo di quanto sarebbe accaduto il 13 novembre 2015. Tutti mi hanno sconsigliato di partire mentre io, incoraggiata anche dal regista Patrick Brunie e da Martine l'amoureuse, sua compagna di viaggio e di vita, che avevano trovato i biglietti per l'opera di Nono, mi sono decisa ed ora mi preparo degnamente a questo evento straordinario, in programma stasera. Alla direzione dell'orchestra ancora il maestro Ingo Metzmacher, a quella dei cori Matilda Hofman ed alla proiezione sonora del live electronics il mitico André Richard. Partita da Vicenza alla sera, mi posiziono nel mio compartimento a quattro posti: arrivano due signorine inglesi, che non vogliono dare il loro passaporto al responsabile perché, dicono loro, sono inglesi, proprio inglesi, ma devono cedere, perché le frontiere si passano di notte ed i documenti devono essere tutti a disposizione dei responsabili. Poi arriva una giovane argentina, salita a Milano ed un poco disorientata, perché ha ancora negli occhi le bellezze di Roma, quella capitale che non deve disonorare l'Italia. Nel corso della notte, al vagone ristorante parlo a lungo con Romina, dipendente della società che detiene la proprietà del Thello: è di Palermo, la sua nonna conosce solo la lingua della sua terra e dei suoi avi, non l'italiano e lei rientra dai suoi una volta all'anno, perché qui a Parigi è di casa e nei turni di libertà resta da suo fratello, che abita nella
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periferia di Parigi da molti anni. Le piace scrivere poesie e racconti, le mostro la nostra Pomezia Notizie, quella che ha all'interno il mio articolo sul 'Prometeo': sorride, ha sete di conoscere tante cose e tanti luoghi del mondo, si prende nota. Il suo volto è dolce, il suo sguardo ha sfumature di fiera tristezza, ha studiato duro alla facoltà di Urbino, poi non ha concluso il triennio perché non ha conseguito la borsa di studio ed ha dovuto pensare a mantenersi lavorando. Quando rientra a Palermo non si trova bene perché i suoi coetanei, dice che non si danno da fare e passano le giornate al caffè. Nei colloqui brevi si generalizza, questo è certo, ma mi rendo conto che mi trovo di fronte una ragazza forte, coraggiosa, tenace. I suoi capelli lunghi le rendono ancora più dolce e fanciullesco il viso, lei se li accarezza, ogni tanto, e colgo così in lei un grande bisogno di tenerezza. Conosce Marinella, quella ragazza di Bologna che ho incontrato sempre su questa linea qualche anno fa e della quale ho parlato al nostro Direttore ed a tutti voi: lei mi dice che ha cambiato lavoro. Romina è stata in Marocco, accolta dalla gente del posto e si è inoltrata anche nel deserto, ama viaggiare ed avere contatti umani sinceri: questa è la sua forza, questa la radice dura e resistente della sua esistenza, questo il suo dilatato potere d' amare, anche lottando contro ogni discriminazione di sorta. Le piace parlare e farsi capire da me, così le ho promesso che ci terremo in contatto. La saluto alla Gare de Lyon, al mattino di questo giorno stupendo, alba d'un sole non stanco ed in luce, dovunque noi si sia in questa parte del globo. I gendarmi armati di mitra e quelli in borghese sono in giro, tra la gente e ciascuno sa dove andare, mentre l'altoparlante avverte di collaborare se si avvistassero bagagli incustoditi. Mi viene in mente, quando esco e vedo alta la torre dell'orologio che affianca la stazione, il film 'Totò a Parigi', quando per denaro si decide di eliminare il poveraccio che si trova per caso ad essere sosia del Marchese di Chemantel-Chateuax Boiron: il finale è lieto, i momenti avventurosi tanti, l'amaro talora prolungato. Bisogna vederlo più volte, questo come tutti gli altri film del Principe di Bisanzio, perché al loro interno saggezza ed ironia si trovano direttamente fusi e mascherati, per passare sotto silenzio ma non troppo tutte quelle note stonate che si ripropongono in ogni tempo, si, quelle che talora pesano sulle spalle di chi tiene stretta la propria dignità, vero e reale spessore della libertà. Per arrivare qui, in avenue Jean-Jaurès, al Polo Musicale del Parc de la Villette, nel 19° arrondissement, mi sono presa un taxi ed ho dialogato con questa persona, che è abbronzato assai e che crede in una Francia a misura di cittadini, senza tanta gloria e storia, una Francia
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che funzioni. Ieri ci sono state le primarie nelle diverse regioni ed il risultato sui giornali è riportato a chiare lettere: '...una vague blue Marine...', per dire che parecchie di esse sono con Marine Le Pen. Mi trovo di fronte alla Philarmonie de Paris, mi faccio il giro di tutti gli ampi spazi nel verde e scatto fotografie della nuova struttura creata dall'architetto Jean Nouvel, un gioco d'onde e di specchi rigonfi in lamine d'acciaio, che raccolgono i raggi del sole e le variazioni dell'aria, del cielo e delle cose tutt'intorno. In rete se ne trovano di belle, ma essere qui in carne ed ossa e frattaglie è ben altra cosa! Le pavimentazioni sono in forma di gabbiani intersecati tra loro in volo e in sfumature di rosa, grigio, bianco opaco: sento che il Gigi veneziano approva, vedremo poi, in ascolto, il suo lavoro stasera. Mi son portata dietro due piccoli volumetti, di peso piuma, sui quali sto lavorando in parallelo con altri contenuti: 'Immagini di città' di Walter Benjamin, che traccia il profilo di Parigi come quello di una città che vive di luce e di futuro, ed il Qoèlet, nella traduzione di Guido Ceronetti, si, quel re Salomone o chi per esso, che vuole assaporare la vita e le sue dolcezze attraverso la certezza consapevole che tutto debba finire, perché il vento ha fame ed avvolge ogni nostro moto! Patrick e Martine arrivano puntuali, verso le 19.00 e li incontro al Café de l'Horlogue, a pochi passi da qui, mi ospiteranno nella loro dimora in campagna ed io ricambierò al loro arrivo qui nel Veneto, a fine mese. In questo caffè un po' meno elegante ma pieno di clienti, tengo banco su Luigi Nono ed il mio francese è creativo ma comprensibile: una signora mi ascolta attentissima, anche perché l'opera di Nono è dura, difficile, bisogna sapersi abbandonare al suono ed ai movimenti pieni delle voci dei cori. Lei verrà e se ne parte per tempo. Quando noi arriviamo all'entrata, tra i giovani della biglietteria, veniamo a sapere che dalle 19.30 è iniziato un incontro con il pubblico per spiegare l'opera ed oltre ad altri, c'è anche il librettista Massimo Cacciari. Siamo in ritardo, preferiamo dividerci per raggiungere i posti che ci sono assegnati. All' entrata, nel settore del 'Balcon 1', mandano in visione il Video su Luigi Nono ed il suo mondo, quello edito da Archipel, a firma di Olivier Mille, che ho recensito su queste nostre care pagine: sono in molti ad ascoltare ed a leggere i testi in francese che traducono le parole di GiGi, schiette, disarmanti, sincere sempre! Riprenderò nuovamente questo lavoro in DVD ed opererò gli opportuni approfondimenti. Vi dirò ancora altre cose nel prossimo nostro incontro epistolare, nel 2016, che vi auguro carico di esperienze significative. Per ora saluto tutti con tanta cordialità. Ilia Pedrina
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AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 NO76 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio