Pomezia Notizie 2016_11

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MONTALE, CARMELO BENE E LE PARALIMPIADI 2016 DI RIO di Giuseppe Leone

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O seguito in TV, alcune settimane fa, le Paralimpiadi di Rio, con uno stupore e una curiosità che mai avrei immaginato di provare. Avevo visto in precedenza alcuni momenti delle Olimpiadi d'agosto, ma lì neppure un'emozione, solo una vaga ammirazione verso chi eccelleva nelle varie specialità. Non è stata la stessa cosa, assistendo a queste gare di fine estate. Ho visto atleti in carne e ossa e in spirito piangere, ridere, arrabbiarsi, gioire, con tanto di belle interviste e di parole sincere. Uno spettacolo di uomini e donne tenuti per molto tempo lontano dai riflettori della notorietà. Ne ha tratto vantaggio la RAI che una volta tanto ha potuto rinunciare a programmi-spazzatura, per farci vedere una realtà, questa volta, non condizionata dai direttori di rete o da ragioni di audience. Uno spettacolo autentico, insomma, che gli atleti hanno fornito con la loro spontaneità e semplicità, coi loro gesti elementari, coi loro corpi come sono “qui e ora”, dopo che una cattiva sorte li ha fatti diventare altro da quelli che erano al momento della nascita. Nati due volte, li aveva definiti Giuseppe Pontiggia, parlando dei disabili e, più in particolare, di suo figlio affetto da tetraparesi spastica. Nati una prima volta alla vita, una seconda all'amore di tutti coloro che li attorniano, “apparentemente” normali, e con i quali devono pur sempre rapportarsi. Perciò, hanno vinto tutti: quelli che si son portati a casa una medaglia e quelli


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All’interno: Il cielo di Anna Maria Ortese, di Luigi De Rosa, pag. 4 Un’ambasceria da Nagasaki, di Ilia Pedrina, pag. 7 Roberto Torre: L’arlecchino volante, di Elio Andriuoli, pag. 10 Giuseppe Leone: D’in su la vetta della torre antica, di Domenico Defelice, pag. 12 Gennaro Maria Guaccio: Incontri indecisi, di Liliana Porro Andriuoli, pag. 14 Anna Vincitorio: Per vivere ancora, di Nazario Pardini, pag. 18 Sensazioni di Antonia Izzi Rufo, di Luigi De Rosa, pag. 20 Giovanni Prati, di Leonardo Selvaggi, pag. 22 Carlo Di Lieto: La donna e il mare, di Domenico Defelice, pag. 25 Leggendo Defelice, di Anna Aita, pag. 27 Il soldato Giovanni di Gianni Rescigno, di Tito Cauchi, pag. 29 Il Commissario, di Antonio Visconte, pag. 32 I Poeti e la Natura (Fernando Pessoa), di Luigi De Rosa, pag. 34 Notizie, pag. 45 Libri ricevuti, pag. 48 Tra le riviste, pag. 50

RECENSIONI di/per: Tito Cauchi (Non lasciarmi andare, di Maria Assunta Oddi, pag. 36); Aldo Cervo (Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca, pag. 36); Roberta Colazingari (Sensazioni, di Antonia Izzi Rufo, pag. 37); Antonio Crecchia (Dieci x Dieci, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 37); Domenico Defelice (Bartali... un cuore sui pedali, di Franco De Santis, pag. 39); Domenico Defelice (I merli del giardino di San Paolo e altri uccelli, di Giancarlo Baroni, pag. 40); Aurora De Luca (Odi impetuose, di Filomena Iovinella, pag. 41); Salvatore D’Ambrosio (Tavennesi nella grande guerra, di Antonio Crecchia, pag. 41); Salvatore D’Ambrosio (La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi, pag. 42); Elisabetta Di Iaconi (Aspra terra e creazione fertile nell’opera di Domenico Defelice, di Aurora De Luca, pag. 44).

Lettere in Direzione (Ilia Pedrina), pag. 51

Inoltre, poesie di: Elio Andriuoli, Mariagina Bonciani, Corrado Calabrò, Rocco Cambareri, Rudy De Cadaval, Domenico Defelice, Elisabetta Di Iaconi, Caterina Felici, Nino Ferraù, Antonia Izzi Rufo, Nicola Lo Bianco, Teresinka Pereira, Leonardo Selvaggi

che sono rimasti a mani vuote. Solo partecipando, essi hanno vinto contro l'apartheid, contro le avversità della sorte, contro i pregiudizi del mondo, contro la solitudine. E ha vinto pure chi li ha aiutati: la società civile del volontariato e delle associazioni che raccolgono fondi per la ricerca scientifica, le società sportive, le società dei tecnici, senza

il cui sostegno questi atleti difficilmente avrebbero potuto fare quello che hanno fatto. Loro, è vero, hanno dato, ma il volontariato e la ricerca hanno fatto il resto. Ma tutto questo - per dirla con Carmelo Bene - è l'azione che precede l'atto, i preparativi per giungere alla prova, come quelli di Monica Contrafatto, iniziati 4 anni prima in


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un letto d'ospedale, dove la bersagliera gelese dell'Esercito Italiano, persa la gamba destra in un attentato in Afghanistan, era a fare riabilitazione e a imparare a convivere con le protesi. E qui, proprio in quei giorni, vedeva in televisione Martina Caironi vincere, con una gamba sola, la medaglia d'oro alle Paralimpiadi di Londra del 2012; e sognava di diventare come lei, magari batterla ai prossimi giochi di Rio. Non l'ha battuta, ma, nella finale dei 100 metri piani T42, ha corso assieme a lei, giunta prima, guadagnandosi la medaglia di bronzo. Un atto davvero esemplare, giunto in chiusura di queste manifestazioni, risultato del coraggio di sperare e di sognare, “la scintilla che dice / tutto comincia quando tutto pare / incarbonirsi”. Unica nota stonata - mi spiace dirlo – solo il nome. Perché Paralimpiadi? Perché paragonare questi giochi alle Olimpiadi e far intendere che sono quasi come queste, quando tali non sono? Sono qualcosa di più che il gesto atletico; sono, per dirla ancora con Montale, “occasioni”, “istanti fatali dell'esistenza, quando in un baleno è possibile intravedere una realtà diversa,... un senso, un rapporto imprevisto e imprevedibile”. Arrivederci, allora, ai prossimi giochi di Tokio 2020, che si chiameranno? ... Giuseppe Leone Nella foto di pag. 1: Monica Contrafatto e Martina Caironi, medaglia di bronzo e medaglia d'oro nei 100 m piani T42, alle Paralimpiadi 2016 di Rio.

Caro Giuseppe, chissà che qualche nostro LETTORE, o qualche nostro COLLABORATORE, non ci suggerisca un bel nome con il quale chiamare i prossimi giochi di Tokio 2020! Colgo l’occasione per porgerne a tutti l’INVITO, assicurandoli che troveremo, poi, il modo da trasmettere quel nome agli organizzatori dell’evento. Grazie fin d’ora a chi vorrà accoglierlo. D. Defelice

LA MIA CULLA La mia culla non ebbe lana o piume o cornice di veli o di broccati; né gingilli né rasi o vezzi o nastri ornarono i suoi lati. Eppure le mie lunghe ninne nanne furono assai più dolci e più leggiadre: la mia culla fu fatta soltanto dalle braccia di mia madre. Nino Ferraù Da Immagine azzurra, Edizioni G. B. M., 1987


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IL CIELO DI ANNA MARIA ORTESE (È PIÙ VERO QUELLO “NATURALE” O QUELLO DEI QUADRI DI RAFFAELLO?) di Luigi De Rosa (I) OPRATTUTTO perché la sua scrittura appassionata e le tematiche dei suoi libri mi piacciono e mi interessano (a parte un po’ di “ribrezzo” iniziale per un personaggio insolito come il suo iguana, uno strano animale... con psicologia di donna, simbolo di un essere umano di una società pre-industriale) continuo a “coltivare” i libri e il mondo letterario di Anna Maria Ortese. Ma lo faccio anche perché la scrittrice (che era nata il 13 giugno 1914 a Roma per caso, ma era di sangue toscano per parte di madre e siculo-catalano per parte di padre, un Ortez divenuto poi Ortese) ha vissuto i suoi ultimi anni proprio nella mia cittadina in riva al mar Ligure, Rapallo, dove è morta il 9 marzo 1998 nel locale Ospedale.

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Tra l’altro (ma non ha la minima importanza, potendo rappresentare al massimo una “spia” di una certa nevrosi esistenziale) era una forte fumatrice, e frequentava assiduamente... la tabaccheria di mia suocera, posta nel pieno centro storico di Rapallo, all’inizio del Caruggio Drito (via Mazzini). La città di Rapallo ha ricordato degnamente la Ortese già soltanto due mesi dopo la sua morte, con un apposito Convegno di Studi i cui Atti sono stati curati dal ch.mo prof. Francesco De Nicola, dell’Università di Genova, e da Pier Antonio Zannoni. Il 5 aprile 2003, poi, nella Sala del Consiglio Comunale di Rapallo, si è svolto un “Ricordo di Anna Maria Ortese”, con la partecipazione del sindaco di allora dott. Roberto Bagnasco e del vicesindaco dott. Aldo Piccardo, nonché di Pier Antonio Zannoni, della R.A.I. Liguria, e dei critici e studiosi Leone Piccioni, Luca Clerici e Claudio Marabini. Ricordo le parole di Bagnasco: “Anna Maria Ortese ha trascorso a Rapallo un lungo, significativo e fecondo periodo della sua vita di scrittrice. Rapallo è orgogliosa e riconoscente per avere ospitato un personaggio di livello internazionale come lei...” Mentre il dott. Piccardo ha ricordato, tra l’ altro, la “discrezione” della scrittrice e ... purtroppo, le sue condizioni economiche “difficili”: “L’incontro di oggi richiama quanto già avvenne nel 1998. La presenza di Anna Maria Ortese a Rapallo è stata molto discreta. Qualcuno si accorse di lei quando fu applicata in suo favore la legge Bacchelli...” Quella frase “qualcuno si accorse di lei quando...” non può non suscitare nell’animo un’atmosfera di tristezza e di pensosa malinconia, al pensiero di tanti artisti e scrittori che, pur avendo trattato, nella loro vita, di grandi temi (e non di insulse sciocchezze, magari “televisive”...) finiscono col vivere, nella vecchiaia, in una penosa indigenza). Ma pare, comunque, che per tutta la vita abbia sofferto per gli assillanti problemi economici della sua famiglia numerosa, mentre lei era costretta a guadagnarsi il pane con l’arte dello scrivere libri (e di battagliare con i “grandi”


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editori). Della Ortese mi attraeva e respingeva quel suo comprensibile modo di vivere ombroso e appartato, quel suo esserci e non esserci, quel suo presunto “isolamento” – anche a causa del suo carattere piuttosto difficile – quella sua presunta irraggiungibilità. Anche perché poi si rivelava una ipersensibile infelice, una timida, una creatura sola e ferita dal vivere con “certa gente”. (“Quasi tutta la gente è muta, sorda e cieca, in questa società del consumismo”). Non diversamente, del resto, da molti scrittori e poeti, che possono dare l’impressione di essere degli aristocratici insofferenti del “volgo” o della massa, ma spesso, in realtà, sono dei timidi e introversi con problemi di comunicazione personale coi “comuni mortali”. Ma lei, del resto, in tema di esseri umani e di “mondo”, aveva idee precise: “I soli che possono amarmi sono coloro che soffrono. Se uno davvero soffre sa che nei miei libri può trovarsi. Solo persone così possono amarmi. Il mondo? Il mondo è una forza ignota, tremenda, brutale. Le creature belle che pure ci sono, noi le conosciamo poco, troppo poco”. Insomma, Anna Maria era una piccolagrande donna che viveva da sola (a parte il difficile ma insostituibile rapporto con la sorella), una donna che era bisognosa d’amore e protezione (il suo grande amore , quello con Marcello Venturi, era durato troppo poco, non le aveva dato quel calore immenso di cui necessitava) e che trovava il suo unico conforto e la sua consolazione nello scrivere bei libri (tra cui L’iguana e Il mare non bagna Napoli). Ma la gioia durava solo finché scriveva racconti e romanzi. Poi, dopo, come diceva lei stessa, “veniva lo strazio, cioè il rapporto con gli editori” (tra cui Bompiani, Vallecchi, Einaudi, Mondadori, Rizzoli, Adelphi). Al primo libro, Angelici dolori, uscito da Bompiani a Milano nel 1937, era succeduto Il mare non bagna Napoli, che in ventisei anni, dal 1953 al 1979, era uscito prima con Einaudi a Torino, poi con Vallecchi a Firenze, poi con Rizzoli a Milano, poi con La Nuova Italia, a Fi-

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renze. Fino a trovare una “sistemazione” con Adelphi a Milano nel 1994, e, nello stesso anno, col milanese Club del Libro, e nel 1999 con Adelphi-La Nuova Italia a Città di Castello. Ma è solo un esempio, delle “peregrinazioni” di suoi libri tra editori diversi. Perché, per esempio, anche L’iguana è uscito con cinque Editori diversi. Comunque, aggiungo, la gioia non sempre era tale, nemmeno quando scriveva, specialmente quando scriveva per obbligo di mestiere (era giornalista) i suoi numerosi articoli per il Corriere della Sera, Il Mattino, Repubblica, e tanti altri giornali. (II) Oggi, però, vorrei ricordare un solo aspetto (peraltro molto importante) dell’opera di questa scrittrice che sembra in una posizione eccentrica nel panorama della narrativa del Novecento ma che merita di essere meglio conosciuta e maggiormente valutata. Del resto, non potrei mai parlare della vita e dei libri (anche di belle poesie!) di Anna Maria Ortese meglio di quanto non lo abbiano già fatto Luca Clerici, Francesco De Nicola, Leone Piccioni, Claudio Marabini, Dacia Maraini. Alludo al tema della Realtà e del Sogno, della Finzione artistica o cosiddetta Irrealtà, che poi è anche il tema del Visibile e dell’ Invisibile, o del Fenomeno e del Noùmeno. Dai pregevolissimi studi del prof. Luca Clerici, docente all’Università di Milano, che ha illustrato a tutto tondo la vita, l’opera e l’ anima della Ortese, anche in quello stupendo libro che è Apparizione e visione (Mondadori 2002), risulta tra l’altro che, tra le poche esperienze vissute da ragazzina prima di abbandonare la scuola, ce n’è una da lei stessa confidata al poeta Dario Bellezza, caro amico degli anni Settanta. Si tratta di una visita di classe al Museo di Capodimonte, in cui è esposto un piccolo quadro di Raffaello. Ed ecco le “confidenze” di Anna Maria Ortese:


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“Tutte le altre cose le ho dimenticate, proprio perché quel Raffaello mi colpì. Rappresentava un cielo. E quel cielo – in qualche modo che devo ritenere straordinario – capovolgeva ogni idea che avevo sulla realtà, era più vero, più reale di ogni cielo del mondo reale. Sulla sua consistenza non potevano esserci dubbi. E la sua straordinarietà era in questo: che sostituiva dunque la prima creazione con una seconda, che si poneva però come la prima, perché preesistente a questa, essendo l’idea di questa. Diceva – o era come se dicesse – al cielo naturale: “Tu vai e vieni. Non resti. Ed ecco, io – Cielo di Raffaello – resto, perché non sono il cielo naturale, sono l’idea di qualsiasi cielo. Così, resto.” E ancora, molti anni dopo, a Rapallo, la Ortese scriveva: “Questo reale – o realtà – non è che un gran sogno, e la sua realtà è pura immaginazione. E ogni essere vivente viene da questa immaginazione”. (Da In sonno e in veglia, pag. 175). Tutto ciò pone le basi di quella specie di “doppia vista” che la Ortese eserciterà in tutta la sua vita. Secondo lei l’ Espressività non è un semplice riflesso del mondo, ma, in realtà, è un secondo mondo, una seconda realtà, “ un’immensa appropriazione dell’inespresso, del vivente in eterno. E tale inespresso sarebbe, sì, una realtà irreale, ma non tanto irreale se vedevamo la realtà vera continuamente disfarsi al pari di un vapore acqueo e la realtà irreale dominare l’ eterno.” Siamo lontani anni-luce dal neorealismo o dal realismo, compreso il “realismo magico” dello stesso Massimo Bontempelli che a suo tempo l’aveva lanciata nel mondo della grande editoria con il libro di racconti Angelici dolori, pubblicato da Bompiani una prima volta nel 1937, e in seconda edizione nel 1942. Sempre a proposito di atteggiamento di fronte alla cosiddetta “Realtà”, ho trovato sintomatico e illuminante quanto quella scrittrice sensibilissima e straordinariamente intelligente ha scritto di se stessa (nell’ Autodizionario degli scrittori italiani- a cura di Felice Piemontese, Leonardo, Milano 1990). Invece

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di autoincensarsi come Narciso, la Ortese scrive di se stessa, con provocatoria, sfacciata sincerità, nonostante le fossero stati assegnati i più importanti e prestigiosi Premi letterari (tra cui il Viareggio): “Anna Maria Ortese ritiene in verità impossibile esprimere un’opinione critica sul proprio lavoro, del quale ha un’idea molto confusa e anche irrilevante. Metà narrativa, metà giornalismo, ma casuale sempre, come sono stati tutti gli approdi della sua vita. E senza mai un progetto, perché non era in suo potere attuarne qualcuno. Un lavoro, quindi, affidato al caso. Spesso, eseguito male. (sic!). Motivazioni profonde non ne trova: se non lo scontento, del resto comune, e spesso l’indignazione, davanti a ciò che si chiama “reale”. E questo sentimento – che resta – le impedisce adesso di preoccuparsi se qualche futuro lettore potrà farsi di lei un’immagine più o meno vicina alla “realtà”. Di “realtà”, uno che sia in polemica eterna col “reale” non può averne. Difficile, soprattutto dal di dentro, capire “chi” sia veramente, o “che” voglia, uno che non accetta – non ama – quanto è “reale”. Anna Maria Ortese non sa cosa ha voluto, né “chi” è .” Luigi De Rosa

LUNA BLU (Perth, 2001) No, non dirò: Attimo fermati ! solo rallenta un poco rallenta un poco i battiti. Enorme, blu, non capita due volte nella vita di vederla sospesa in mezzo al cielo; di vederla e non crederla un miraggio. No, non dirò stanotte come Faust: Attimo, oh! Sei troppo bello, fermati! ma prenderò ad occhi aperti un Dilatrend per rallentare questa notte i battiti. Corrado Calabrò Roma


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UN'AMBASCERIA DA NAGASAKI IN VIAGGIO VERSO L'EUROPA, PER CONOSCERE L'OCCIDENTE E FERMARSI ANCHE A VICENZA di Ilia Pedrina

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HE Andrea Palladio e gli Accademici Olimpici fossero noti nel corso del Rinascimento interno alla Serenissima Repubblica di Venezia è stato ed è argomento di studio, fitto, intenso, internazionale e locale dalle dimensioni senza limiti. Che quattro giovani giapponesi, figli di importanti feudatari ed educati allo studio del latino, della musica occidentale con strumenti quali l'organo e l'antica chitarra-liuto è notizia finora adombrata dall'oblio. Almeno per me. A far chiarore, intimo, riservato, pensoso e pubblico, condiviso, manifestamente affascinante è sta-

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to un evento unico nel suo genere, interno al 69° Ciclo di Spettacoli Classici, sapientemente progettato e curato da Franco Laera, direttore artistico per il triennio 2016-2018, che ha aperto un percorso innovativo nei contenuti e negli spazi prestigiosi al cui interno si muoveranno, con una progettazione originale e ben ponderata, registi d'eccezione, attori e spettatori attratti dalla classicità calata nel contemporaneo. È anche per questa particolare tipologia di progettazione che viene dato per la prima volta spazio, nella scenografia fissa del Teatro Olimpico, all'Opera 'L'AMBASCERIA DELL'ERA TENSHO', con la Compagnia di Teatro Noh Sakurama-Kai, diretta dal Maestro e creatore poetico-testuale Sakurama Ujin, il giorno 20 settembre 2016, quale evento celebrativo del 150° anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia. Corre l'anno 1585 e da Nagasaki è partita una delegazione, vera e propria ambasceria, che vede in viaggio verso l'Occidente d'Europa i giovani Itō Mancio/Mansho. Chijima Norikazu, Nakaura Juria e Hara Martino, appena fuori dalla fanciullezza. Li accompagnano i loro precettori, appartenenti alla Compagnia di Gesù e suoi emissari nei territori feudali del Kyōshō, gesuiti insomma in tutto e per tutto: Nunzio Rodriguez e Diego de Mesquita. Sono loro che hanno pieni contatti, in Giappone con i ricchi feudatari, i dajimo, convertiti al cattolicesimo e desiderosi di fare cosa gradita al Papa di Roma, allora Gregorio XIII, rafforzando così la diffusione dell'Ordine, fortemente voluta da un gesuita italiano, Alessandro Valignano (1539-1606), il quale vuole aprire contatti bilaterali, anzi multilaterali in senso ampio, per i giovani feudatari d'Oriente e per i Cattolici che colà hanno preso piede e prestigio, dando così la sua solerte spinta. Il fregio monocromo sulla parte alta della parete a destra, entrando nell'antiodeo del Teatro Olimpico. raffigura l'interno del teatro stesso con l'ambasceria dei giovani giapponesi, vera delegazione, tutti in prima fila, nella platea, seduti con vesti all'occidentale perché a Roma, quando loro si erano presentati con


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costumi d'Oriente avevano determinato tale confusione che il Papa Gregorio XIII aveva a loro regalato stoffe e damaschi perché vestissero alla moda del tempo, quella dei nobili del Rinascimento italiano. Questa delegazione, come si ricava dalla scritta in caratteri stampati in basso, la 'JAPONENSIUM LEGATIS', viene accolta dal responsabile che è raffigurato nel fregio in piedi sul palcoscenico in rappresentanza degli Accademici del Teatro inaugurato da poco: si mostra in atto di dir loro cose ed ha alle spalle la scenografia fissa della città di Tebe e delle sue strade. Tutti gli altri intervenuti siedono sulle gradinate e ci sarà alla sera, in onore dei giovani feudatari giapponesi e dei loro accompagnatori gesuiti uno spettacolo d'eccezione: per voi che avete occhi ed intelletto per verificare ed approfondire, basterà digitare, in questa nostra era informatica globalizzante 'Vicenza e Giappone del '500 al Teatro Olimpico', articolo con relativo fregio, quasi in forma di fotografia dell'epoca, inserito nel Giornale di Vicenza il 20 settembre 2016. Con il grande palladianista Giovanni Zaupa, a suo tempo importante ospite di questa nostra Rivista, verificherò a chi fa riferimento la scritta nella parte alta del fregio stesso 'MDLXXXV ANG. CALID. PR', sicuramente uno dei notabili che ha promosso l'evento, forse uno dei Procuratori della Serenissima Repubblica di Venezia, il cui governo si caratterizzava anche per la presenza di rappresentanti provenienti dalla Terraferma. Sono loro, questi educatori gesuiti trapiantati nelle terre del Giappone, tutti insieme, che hanno scelto i giovani, in pieno accordo con le loro guide spirituali ed Itō Mansho ne sarà il perno di riferimento. Partono ragazzini, da Nagasaki appunto, nel 1582 e vi torneranno dopo cinque anni, ormai giovani maturati 'in itinere', carichi di esperienze e di coraggio, confermati nella fede e nel bisogno di capire, di confrontare gli usi, i costumi, le tradizioni, di aprire alla condivisione gli eventi vissuti, perché le cose conosciute, viste ed interiorizzate, da raccontare, sono veramente tante. Ecco le tappe del loro viaggio fino ad arri-

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vare a Vicenza: da Nagasaki a Macao, circumnavigando la penisola di Malacca, l'India ed il Sud dell'Africa fino ad arrivare a Lisbona, accolti come veri e propri ambasciatori con tutti gli onori di corte, dal Portogallo alla Spagna e poi da Alicante fino a Livorno, giunti il 1 marzo 1585. In Italia passano per Pisa, Firenze, Siena, per Roma, dove sono ricevuti dal Papa, fino a Perugia, Loreto, Bologna, Ferrara, Venezia, Padova, e finalmente ecco il loro arrivo a Vicenza. Il viaggio di ritorno sarà abbastanza simile a quello dell'andata perché dopo Verona, Mantova, Milano, salperanno da Genova per raggiungere Barcellona e poi nuovamente Madrid, Coimbra, Lisbona e le altre coste d'oltre Europa. I particolari di queste informazioni così preziose ci arrivano dai protagonisti dell'evento che precede lo spettacolo e che viene introdotto dal vice-sindaco ed assessore alla crescita Bulgarini d'Elci e dallo studioso e curatore artistico Franco Laera: lo stesso poeta, regista ed attore Sakurama Ujin, la storica e saggista Mariko Bando, la scrittrice e saggista Carmen Covito ed il prof. Bonaventura Ruperti, docente di Lingua e Letteratura Giapponese all'Università Ca' Foscari di Venezia. Alla sera la compagnia di Teatro Noh Sakurama-Kai, guidata dal severo ed emozionatissimo maestro Sakurama Ujin ha dato, con i suoi attori, vita intensa, allora, allo spettacolo 'L'AMBASCERIA DELL'ERA TENSHO', un evento in prima assoluta pensato nella linea formale ed antichissima del Teatro Noh, dal 2001 riconosciuto come patrimonio universale dell'umanità dall'UNESCO. Tutta la composizione, tra testo, musica per tamburi e flauto e voci di piccolo Coro in scena, recitazione e movenze lente, in passi di danza quasi rotanti contro la legge di gravità, ben si innesta all'interno del teatro palladiano operando tra i secoli che formano i millenni un tratto unico, silente, teso ed atteso dalla tua stessa spiritualità etica ed estetica, in sintonia, ad aprire un varco reale per accogliere nel vuoto ciò che fino ad ora ti manca. Scrive lo studioso Marcello Ghilardi, filosofo esperto di cultura ed estetica d'Oriente,


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punto attivo di riferimento nella Filosofia dell'interculturalità, nell'articolo 'Ambasciatori dell'altrove', pubblicato sul Giornale di Vicenza il 22 settembre 2016: “... Onorati alla partenza e durante il viaggio in Europa, i giovani incontrarono un misero destino al ritorno in patria, quando il nuovo capo militare Toyotomi Hideyoshi decretò l'espulsione o l' uccisione di tutti i cristiani. Questo è l'intreccio narrativo del dramma in stile no (o noh), parola giapponese che significa alla lettera 'capacità, abilità ma che da oltre sei secoli indica un preciso genere teatrale... Là dove il teatro classico greco mette in scena figure dell'ideale umano, il noh rappresenta condizioni umane, facendo leva sull'estrema rarefazione dei gesti e dei segni ma potenziandone la resa espressiva. I movimenti degli attori non sono tanto imitativi dei gesti che si compiono nella realtà: sono più spesso gesti 'puri', astratti, segno di un'estetica non legata alle esigenze del piacere mimetico. La narrazione del protagonista, Ito Mansho (interpretato dal maestro Sakurama), inizia con parole evocative: 'Giungendo alla deriva tra le onde del mondo fluttuante, qui vengo in visita lungo le vie del sogno'. È il giovinetto che parla, quasi fosse un'apparizione spettrale che rievoca il suo arrivo in Italia; ma è pure l'attore che si mostra ed esibisce il carattere al contempo onirico e concreto del teatro, luogo intenso per l'autoriflessione dell'umano... 'Ruota e ancora ruota il vento tra le foglie e i fiori... e quel rifulgere di fiori il vento disperde': è la considerazione malinconica del giovane Ito, che si sente destinato a una fine tragica. Con gesto misurato, si copre il volto col ventaglio: è lo scorrere di lacrime. Eppure sa che se 'il mare ci divide, le onde ci congiungono'...” (G.d.V., cit. pag 52). Il ritratto di Ito Mancio, dipinto dal Tintoretto a Venezia, nel 1585, ritrovato e restaurato di recente nell'Archivio Trivulzio di Milano, è stato esposto al Museo Nazionale di Tokyo dal 17 maggio al 10 luglio 2016 ed è stato oggetto di un convegno 'I PRIMI CONTATTI TRA ITALIA E GIAPPONE. CONSIDERAZIONI SULLA RECENTE SCO-

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PERTA DEL RITRATTO DI ITŌ MANSHO DIPINTO DA DOMENICO TINTORETTO', svoltosi a Milano il 18 maggio 2016, con la supervisione dell'avvocato Giangiacomo Attolico Trivulzio, Presidente della Fondazione omonima. La mia fascinazione rispetto all'evento è stata intensissima. Raggiungerò il testo poetico del maestro Sakurama, per una più accurata interiorizzazione dell'opera e del suo dilatato riverbero estetico ed etico. Ilia Pedrina

IL SOGNO DELLA CADUTA Là oltre il vetro immobile dal suo piedistallo il Parmigianino mi scruta con sguardo di pietra. Le tende nere le farfalle nere delle mani i brillanti neri dei seni trema lo specchio quando tutte le porte sono chiuse e quando attendo appaiono i fantasmi dai capelli che risuonano nella piazza deserta i fantasmi degli uomini muti degli uomini di cera che mi guardano fissi. Dovrò accendere tutti questi fantasmi questi uomini che volano ad ore fisse sulle mie rovine con le ali che partono sotto le chiome dovrò incendiare le scale perché più non esista che il sogno della caduta il sogno dello sciacallo e della mano accesa la mano come la lingua di un impiccato con cui ti accarezzi. Rudy De Cadaval Verona Dalla raccolta inedita Turbinio della vita: e dopo.

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! Non metterti in depressione, donna, per non potere eguagliar le tante statue che ci propina ogni giorno la TV. Ricordati che la bellezza può avere un limite: tramutarsi o prima o poi in bruttezza! Domenico Defelice


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ROBERTO TORRE L’ARLECCHINO VOLANTE di Elio Andriuoli

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ONOSCEVAMO Roberto Torre come un poeta di stampo prevalentemente lirico, come si ricava dai suoi precedenti libri di versi, quali: Se cadono gli astri (1996); Arie per un paese dipinto (1999); Una lucertola sul nido (2006); La foglia, il filo e la formica (2010). Ed ecco che ora egli fa ritorno sulla scena letteraria con un libro di tutt’altra specie, L’Arlecchino volante (preceduto da un’ampia ed acuta prefazione di Mirna Brignole), contenente poesie di stampo per lo più giocoso e ironico, alle quali Torre è pervenuto ad un’età cruciale della sua esistenza: “Quasi d’appresso ai settant’anni /… / declinai la vita al buonumore”, egli dice nella poesia introduttiva della raccolta; e così conclude: “Al mio paese / sopra i tetti rossi delle case / i galletti segnavento / indicavano tempo buono. // Non sono stato mai così bene” (Crucialità). L’Arlecchino volante di Roberto Torre si presenta a noi con delle caratteristiche ben definite, che vogliono esprimere un aspetto non trascurabile della personalità del suo autore: “Con un acrobatico volo / il mio arlecchino volante / capriolò nell’antimondo / di un sonoro sberleffo / e si coprì di tinte immaginate / … / Ora, tutto quello che mi va / quello che non mi piace / o che mi duole, / lo indico col dito” (L’Arlecchino volante). Questa maschera diventa pertanto il simbolo della trasgressione; dell’aspirazione del poeta a rendere piacevole la propria vita, venendo anche in contatto con persone gradevoli e cercando l’aspetto luminoso del mondo, piuttosto che quello torbido e oscuro: ”… ma cerco l’uomo vero, / cerco l’uomo nuovo, / cerco l’uomo / più comico che c’è” (Confidenziale); “Perché il peccato più grande / il vero male / è il tempo perduto dell’occasione sprecata” (Spiluccando); “Senza biasimi né lodi, / ho dissipato la mia serietà / restituendola al gioco, / ché il riso / è la resurrezione

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dei vivi” (Mi chiamo fortunato). Quella di questo libro di Torre non è però soltanto una poesia del gioco e del puro divertimento. Essa è anche una poesia che nasce dalla meditazione, come appare da certe sentenze che contengono un’assorta riflessione, quali: “E poi / non tutto il bene / porta al bene / e non tutto il caso / viene per caso” (Incipit allegria) e ancora: “… le verità sono soltanto sviste / in attesa di essere smentite” (Dislocazioni). Torre alterna così la serietà allo scherzo; e se è certamente scherzoso l’incipit di L’ esubero: “Sono in esubero, / anzi un esuberato, / un arlecchino che beve / a prese di stoltezza”; e se lievi appaiono certi suoi versi, quali questi, tratti da Rime amorose: “Sono un essere amabile, / quasi adorabile / … / Io punto tutto / sulle allegre compagnie” o esprimono una concezione ottimistica del mondo, come questi altri tratti da Alla fiera dell’uomo tranquillo: “… ci sono tante strade / che ancora si possono percorrere / ci sono tante aurore / che ancora devono risplendere”, altre volte queste poesie racchiudono una visione amara della vita o quanto meno contengono un palese turbamento dell’animo: “Parlo del falso dell’ usuale . / Parlo del bene / che non succede al male. // Parlo del buio spirituale, / dove la responsabilità importuna / e la leggerezza è un peso” (Block-notes). Si veda anche Dio e la fortuna, dove la poesia di Torre sembra percorsa da un sentimento di più amaro pessimismo: “Siamo spiaggiati / sopra una poltiglia nera, / tra le paludi delle acque morte / dove si nasconde il mare / o affumicati al sole / di questi roventi meridiani”. Certo, quella contenuta in questo libro è anche una poesia di critica sociale (e Mirna Brignole bene lo rileva nella sua prefazione), volta a colpire le manchevolezze e i dissidi dell’uomo a noi contemporaneo: il che appare evidente allorché il poeta dice: “Sono sgusciato via / da questa giostra dei pazzi / al suo penultimo giro” (L’altro volto del vento). Un’ amara critica del nostro tempo la troviamo anche in poesie quali Ascolta: “Tu non t’ av-


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vedi / delle dinamiche convulse / di questo nostro vivere a sproposito / … / Qui si respira un vento strano / siamo ammalati di velocità” o quali Come un top manager: “Siamo alla bieca, affascinante visione / dell’utile e del profitto”. È questa una risentita poesia civile, che qui si affianca a quella giocosa e di puro divertimento, la quale affiora sovente da questa raccolta, come avviene ad esempio in Ritrarsi è un dono, dove leggiamo: “… sulla Terra che dirocca / l’economia è un dolo”. Ma non è solo questo genere di poesia che diverge dalla tematica fondamentale del libro, dal momento che nella raccolta di Torre s’incontrano anche poesie schiettamente liriche, quali quella che egli dedica alla madre (Alla maniera dei simbolisti), che così inizia: “A volte ritorni / alla calda brezza della sera, / iscritta in un profilo / come la ruggine di un soffio / che s’incrina / sull’acqua ferma e vola” o quelle che egli dedica alla moglie: Per il tuo compleanno (“Siamo sempre noi, gli stessi di ieri / una storia minima, / un dettaglio, / taciuto nell’ intendersi / del suo vociferante accadere”) e Quasi un madrigale (“La mia sposa / ha occhi di lusinga / truccati di turchese. / Si pettina i capelli / col garbo del suo stile”. Vivo è inoltre in questo poeta il sentimento della natura, come appare, ad esempio, da poesie quali Il vecchio codirosso: “un vecchio codirosso / incappottato volteggiò / in un ghirigoro / sopra il balcone” o da Sommari: “Adesso vivo qui / tra l’idillio dei coltivi / e gli spiriti buoni dei boschi”. Quella di Torre è infine una poesia colta, se in essa troviamo un verso quale: “come un esperto fingitore” (Più guardingo) che subito richiama alla mente Pessoa o altri versi quali: “… e poi lasciatemi affondare / lasciatemi sparire, / quello che di me sapete / è solo l’ apparenza” (Mentre la terra soffre), dove s’ avverte l’eco del “lasciatemi divertire” del poeta de L’incendiario e di “Ciò che di me sapeste / non fu che la scialbatura” di quello degli Ossi di seppia. Un libro complesso, dunque, L’Arlecchino volante di Roberto Torre; ed anche un libro

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felicemente compiuto, per l’equilibrio in esso raggiunto tra negazione e affermazione che specialmente emerge dai seguenti versi, tratti da Tutti i colori della Panthalassa: “Ma persino la notte / più nera / lascia comunque dal buio filtrare qualcosa”. Il che è un invito a mai disperare, anche nelle più gravi difficoltà della vita. Elio Andriuoli ROBERTO TORRE: L’ARLECCHINO VOLANTE (Erredi, Genova, 2016 € 12,00)

DUEMILAUNO Vorrei essere negli occhi dei cavalli che nitriscono alle giumente nel sonno Vorrei essere negli occhi degli uccelli che dormendo ripassano gli assolo e ogni tanto distendono l’ali per contendere ai sogni il primo volo Vorrei essere negli occhi di coloro che guardavano questa cometa duemila anni or sono e che non sono E di coloro che nella notte d’un altro millennio torneranno a vederla per noi e per loro. Corrado Calabrò Roma

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 10/10/2016 Nel PD ci son le barricate. Sparano Cuperlo e Speranza, spara Bersani; è tutto un gran frastuono, minacce, urlii, raffiche di colpi, ma non muore nessuno, giacché, quel lungo e roboante tuono, è solo il plat-plà dei battimani! Domenico Defelice


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GIUSEPPE LEONE D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce di Domenico Defelice

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ELLA prima edizione del presente volume di Giuseppe Leone ci siamo interessati nel numero del settembre 2015. Questa seconda edizione, in veste editoriale più accattivante, reca modifiche alle pagine 84 - 88, nelle quali l’Autore investiga il fascinoso e intrigante tema della “donna che non si trova”, sia in Leopardi che in Bene. Sia l’uno che l’altro hanno avuto vita per certi aspetti similare, specie per quanto concerne infanzia e giovinezza. Entrambi sono stati a contatto con la Chiesa cattolica dei loro tempi la quale, dimentica che la Madonna fosse una donna, presentava come male assoluto il corpo femminile e come peccato gravissimo e spregevole ogni atto e ogni pensiero dell’uomo nei suoi confronti. Oggi, in proposito, è assai mutato il suo atteggiamento, ma almeno fino alla metà del Novecento è stato da guardona ed estrema mente punitivo, se è vero che, durante le confessioni, i sacerdoti conducevano precise indagini colleriche, con domande particolari sul sesso e minacce di pene eterne, provo-

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cando, a volte, veri e propri parossismi, paure ossessive, nevrosi incorreggibili nei soggetti più deboli. Ancora entrambi, Leopardi e Bene, hanno avuto madri discutibili dal punto di vista affettivo e serenità di crescita ed è da questi due fattori - religione e madre - che deriva, sebbene con esisti e atteggiamenti differenti, il loro rapporto malato con la donna. Carmelo Bene - scrive Leone - <<osserva che il ritorno agli anni dell’infanzia religiosa è stato, per lui, un motivo per raccontare come le effigi mariane adorate, che la sua curiosità infantile volle profanare scoprendone la loro inconsistenza strutturale ed estetica, lo abbiano portato presto alla disillusa considerazione e al rifiuto della vanità di qualsiasi culto d’immagine, facendo nascere da qui, non solo il desiderio dell’ irrappresentabile, ma anche la sua visitazione ossessiva dei corpi femminili, che non è il dongiovannismo dell’impotenza deprecato da “certo femminismo”, ma è “il femminile stesso che va a verificare i propri vuoti nella mortificazione del corpo donnesco”. (...) Da qui, “il (suo) dongiovannismo ostentato: questo giocare con le donne cresciute, che consistono, purtroppo, ingombrano, perché “hanno cessato di non essere, e non sono più quello che ci manca...”; quest’idea ossessiva che essere Don Giovanni significhi “mortificare la frequenza del presente di un corpo di donna, di più corpi di donna”; la certezza che il suo “calvario di Don Giovanni cominciò proprio in nome dell’assenza in lui custodita”>>. E prosegue: <<Anche in Leopardi corre quest’idea della “donna che non si trova”; corre, per esempio, nella concezione secondo cui il piacere non esiste come possesso del momento ma nell’attesa di un bene futuro (Sabato del villaggio) o nella cessazione di un dolore (Quiete dopo la tempesta); corre nei componimenti del cosiddetto “ciclo di Aspasia”, a partire dal ’30, dove il poeta concentra tutto sul “vero” e non lascia nulla all’immagine. E corre soprattutto dove, secondo quanto scrive Tellini, “la febbrile cantabilità erotica di Elvira e Consalvo risulta frenata, quasi castigata, dalla stilnovistica


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stilizzazione della “donna che non si trova”. Ma già il tema della “donna che non si trova” aveva avuto ampia e approfondita riflessione nella canzone Alla sua donna del ’23, dove il poeta - come scrive Fubini - “si è finalmente liberato da quel che vi era di fittizio, nelle precedenti poesie amorose o pseudo-amorose, riconoscendo nella sua reale natura quel che era per lui l’amore, non tanto amore per questa e quella creatura, quanto amore dell’amore, desiderio dell’amore”>>. Altre modifiche troviamo alle pagine 108 113 e riguardano il rapporto che i due hanno avuto con le opere di Shakespeare (Bene) e Omero (Leopardi). Bene non mette mai in scena le opere del grande autore inglese, ma delle opere shakespeariane si serve abbondantemente per dare risalto ai suoi drammi interiori di uomo e di artista, con l’utilizzo esasperato del proprio corpo e della propria voce. “Si chiami pure “massacro” dei testi, questa pratica teatrale - scrive Leone -, ma questo è il teatro di un artista che si è liberato del regista, dell’attore tradizionale e del copione imparato a memoria”. Anche Leopardi non segue Omero, ma in molti casi si lascia dalla sua alta poesia suggestionare, sicché nei Canti non son pochi i richiami e una figura emblematica, come quella del pastore. Ampliata risulta pure la Bibliografia. Domenico Defelice GIUSEPPE LEONE - D’IN SU LA VETTA DELLA TORRE ANTICA. Giacomo Leopardi e Carmelo Bene sospesi fra silenzio e voce - Grafiche Rusconi di Bellano (Lecco), 2016 - Pagg. 172, € 16,00

DOV’È TUO FRATELLO?1 Dov’è tuo fratello ? E che ne so ? Sono io il suo tutore ? Dov’è tuo fratello ? Eeh, non siamo gemelli siamesi. La vita è come la fortuna: è strabica.

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Ognun per sé e un qualche Dio per tutti. Dov’è tuo fratello ? L’ho visto incamminarsi giorni addietro con un figlio per mano e l’altro in braccio. Dov’è tuo fratello ? Pioveva e c’era nevischio nell’aria. Si sarà rifugiato in qualche ostello Dov’è tuo fratello ? Perché lo chiedi a me? Io cosa c’entro ? S’era fermato e parlava ai suoi figli sottovoce e tenendo gli occhi bassi. Qui, lo sai, s’adora il Dio Mammona; per chi non se l’intende con quel Dio qui, mi dispiace, per lui non c’è posto. Rispondimi! Dov’è tuo fratello ? Non ricordo nemmeno la sua faccia…. Ah, non ricordi com’è la sua faccia? Alza gli occhi e guardami in volto ! Corrado Calabrò Roma Il titolo e il ritornello mi sono stati ispirati da una poesia di Daniela Fabrizi. 1

LERMA Pietrificato mare l'orizzonte terso dei monti. Dopo l'acquazzone lo contempliamo da quassù, inseguendo sfumature e contorni. Arde quieta la luce. Una gran calma sopra il mondo riposa. Tu l'accogli dentro il tuo sguardo che si fa più attento a scoprire ogni bene. Lieve vola un insetto; sosta appena sul prodigio di un fiore. Si rinnova la leggenda dei giorni. Nudo è il cuore che tutto in sé racchiude. Sta la rocca nell'alto. Eco di un tempo smemorato, un grande albero si leva. Squilla sotto di noi l'acceso verde della pianura (e il rosso delle case). Elio Andriuoli Napoli


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GENNARO MARIA GUACCIO INCONTRI INDECISI di Liliana Porro Andriuoli

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L libro più recente di Gennaro Maria Guaccio è costituito da una raccolta di racconti intitolata Incontri indecisi, nella quale viene sviluppato il tema dell’incontro tra due esseri umani, che non sempre, ci dice l’autore nel Prologo, sfocia nell’amicizia, intesa come “il rapporto interpersonale ispirato alla cordialità e […] alla sincerità non ambigue”, ma che comunque costituisce un evento della nostra vita tale da farsi ricordare e che può diventare parte importante del nostro vissuto. L’amicizia, precisa l’autore, non va confusa né con l’affetto che può legarci a una persona, né tanto meno con l’amore, essendo questi, due sentimenti molto più forti e impegnativi sul piano emozionale rispetto alla semplice amicizia. Verissimo; ma vorrei aggiungere che non va nemmeno dimenticato che anche la semplice e normale amicizia con una data persona, in virtù dell’ammirazione, della stima o di altri sentimenti positivi che spontaneamente sorgono in noi e che avvertiamo nei suoi riguardi, può farci sentire legati a lei da un vincolo decisamente forte o comunque molto coinvolgente sul piano affettivo ed emozionale. Come non va sottovalutato nemmeno il carattere di reciprocità che caratterizza quasi sempre un rapporto amicale e che, in virtù di un effetto che potremmo chiamare di risonanza, lo amplia e lo rafforza. Frequenti, d’altra parte, sono nel nostro linguaggio quotidiano espressioni quali: “stringere amicizia” o “rompere l’amicizia”, che ci fanno intuire come profondo e intenso possa essere tale legame che si stabilisce fra due persone, quasi sempre incontratesi per puro caso nella fuga dei giorni. Ed improntati all’amicizia mi sembrano anche molti dei rapporti interpersonali che intercorrono fra i protagonisti di questi incontri di Gennaro Ma-

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ria Guaccio, malgrado la sua un po’ pessimistica dichiarazione nell’Epilogo del libro. In ogni caso nei ventuno racconti di Incontri indecisi l’incontro, anche se non sfocia sempre in amicizia, dà luogo a diversi sentimenti di differente intensità emotiva, ma che vengono sempre analizzati con penetrante intuito psicologico e con notevole abilità narrativa, in un susseguirsi di vicende nelle quali accanto alla figura dell’io narrante, sovente presente, compare spesso anche una figura femminile, dalla quale l’autore si sente irresistibilmente attratto. Già nel primo di questi racconti, Una donna elegante, l’incontro in questione avviene, appunto, fra l’autore e una donna con la quale pare essersi già incontrato in precedenza con una certa frequenza (“tu venivi giù come al solito…”; “E ce ne andammo al nostro caffè…”). Efficace la descrizione di questa figura femminile: una donna avvenente, dotata di fascino ed eleganza, e soprattutto estremamente ricercata, dal momento che sul suo collo nudo spicca un “vezzoso” ed “originalissimo” tatuaggio, rappresentante la molecola di un composto del carbonio. E non solo, ma ci viene anche detto che si tratta di una donna “dotta”, con molteplici interessi culturali, che rendono più vario e ricco il loro conversare, anche se, quello che più conta per l’autore non è tanto il colloquiare, quanto il trascorrere qualche ora in compagnia dell’amica, per la quale nutre una profonda simpatia. E così, fra un ricordo e l’ altro, anche questa volta, le ore insieme trascorrono piacevoli e veloci. Tuttavia l’ incontro si conclude un po’ troppo “in fretta”, con un semplice, “casto bacio sulla guancia”, lasciando l’autore “solo” e probabilmente un po’ deluso (“- Alla prossima… Ho avuto appena il tempo di dirti, ed eri già via”). Daniela, un’altra gentile figura femminile, i cui “capelli ruggine” (p. 15) ci ricordano molto da vicino “i capelli rossi a caschetto” dell’ amica del racconto precedente (facendoci addirittura ipotizzare che si tratti della stessa persona), s’affaccia anche nel secondo di questi racconti, Il camposanto delle Fontanelle, dove il problema della sopravvivenza


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dell’uomo oltre la morte costituisce il tema centrale, trovandovi largo sviluppo. Anche questo è un incontro programmato, una visita culturale al noto “cimitero delle Fontanelle”, a Napoli (città dove Guaccio vive). Si tratta di un luogo sotterraneo che anticamente (fino al 1600) veniva utilizzato come cava di tufo per costruire la città, ma che in seguito fu invece utilizzato come luogo di sepoltura, specie per far fronte al notevole numero di morti che si ebbero durante le gravi epidemie che colpirono Napoli (la peste del 1656 e il colera del 1836). La notorietà del luogo tuttavia è dovuta specialmente al particolare rito, detto culto delle “anime pezzentelle”, che vi si svolgeva, e che consisteva nell’adottare uno dei crani appartenente ad un’anima abbandonata al fine di trovargli un’adeguata sistemazione, in cambio della quale colui (o più spesso colei, trattandosi per lo più di comari del luogo) che se ne prendeva cura avrebbe ottenuto dei favori. Similmente ne Il convegno (è questo il titolo del terzo racconto del libro) ciò che maggiormente conta è l’affacciarsi di un’altra figura femminile: quella di una “collega di scuola” (ancora una volta di nome Daniela), che emerge con la sua luminosa presenza, ma anche con la sua pronta intelligenza, ravvivando gli interventi, spesso noiosi di un Convegno di Studi per docenti di materie scientifiche al quale partecipavano. Anche in La mia storia è breve (p. 46), compare una bella e giovane donna (ancora di nome Daniela!) della quale l’autore rimane affascinato; e così, complice la bellezza del luogo (Castiglione del lago) e la bella stagione (primo settembre) vive con lei alcune ore indimenticabili. L’immediatezza del sentire non esclude però in lui la meditazione che lo porta a riflettere e a pervenire all’amara constatazione che spesso purtroppo in questo mondo siamo “più soli” di quanto si possa ammettere “d’acchito” (p. 48). Così, anche se la bella e giovane donna che è con te, sulle prime, ti parla apertamente “di certi suoi problemi familiari che l’angustiano e le danno le emicranie” (p. 47), alla fine può dimostrarsi

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reticente, con delle “riserve nei tuoi confronti”, dato in definitiva per lei non sei altro che uno sconosciuto, incontrato poche ore prima. Rapido, e forse un po’ enigmatico, sarà ovviamente anche il saluto finale: un “sorriso dolcissimo sulle labbra”, ma un implacabile: “È tardi. Ho fretta”. Forse la “storia breve” del titolo non è solamente un’allusione alla celebre aria di Mimì, ma è piuttosto la constatazione della labilità dei momenti felici della vita. La figura di questa giovane donna è passata infatti come una meteora, ma ha lasciato nel narratore come la dolcezza di un sogno. E sono nuovamente delle presenze femminili a farsi avanti nel racconto intitolato A una donna (p. 86), dal quale emergono alcune figure quali quella della ragazza trovata sgozzata sul lago di Bolsena, che può forse evocare Santa Cristina, che ivi subì il martirio, o quella di Amalasunta, regina dei Goti, che pure in questo luogo trovò la morte. Ma tutto il racconto sfuma nel sogno e in visioni nelle quali si respira come un’aura misteriosa di magia; un’atmosfera collegata al leggendario regno di Agarthi, che si troverebbe, secondo quanto affermato dalla “teoria della Terra cava”1, all’interno del nostro pianeta. Così come trasuda magia, un altro racconto del libro, ispirato al sovrannaturale, che s’intitola Il diavolo a primavera. Ancora una donna è infine la protagonista di Incontri indecisi (p.114), il racconto che dà il titolo alla raccolta, nel quale si narra dell’incontro dell’autore con la sua vecchia insegnante di lettere, quasi ottantenne, che diviene l’occasione per stabilire con lei un rapporto reciproco di cordiale simpatia. In molti altri racconti del libro non si ha invece una diretta presenza dell’autore, il quale fa agire differenti personaggi, come avviene in La rosa di Santa Rita, che narra dell’amore tra Rita e Davide; un amore che ha un tragico epilogo, essendo Davide implicato in un equivoco giro d’affari che gli ha procurato molti nemici, sicché viene ucciso sul sagrato della chiesa il giorno stesso delle sue nozze. 1

https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_della_Terra_cava


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Più lievi sono racconti quali La vasca da bagno, dove si parla di un reperto archeologico, che offre a Guaccio il pretesto per alcune riflessioni sul tempo che passa implacabile sulle nostre vite. Il cane santo e il diacono Martino è invece incentrato sulla contesa tra Chiara, che vuol portare in chiesa il suo labrador e il diacono che non lo vorrebbe “in mezzo agli stretti corridoi di passaggio della piccola chiesa di San Tarcisio”, ma che poi è costretto ad accettarlo per l’intercessione del parroco don Gennaro. Seguono Un matrimonio di classe, celebrato con relativo rinfresco a Capri, che offre lo spunto per una sottile descrizione d’ambiente e Il seminarista, che contiene una serrata disputa teologica sull’essenza di Dio tra due allievi del Seminario, trasferendo così il lettore in un’atmosfera di alta spiritualità. In questo libro, nel quale si parla specificamente di “incontri” che, sebbene “indecisi” hanno lasciato un’impronta positiva, fanno invece da contrasto alcuni racconti come Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (un titolo pavesiano) che si conclude con la morte di Dorina, una ragazza “timoratissima”, ma anche “innamoratissima” di un giovane poco raccomandabile di nome Gufo, la quale diviene vittima di un caso di bullismo, addirittura durante una processione. Un risvolto drammatico sembra contenere anche Cioccolata e blyni, che però si rivela all’ultimo come uno scherzo di carnevale. Mosso da un sentimento di genuina pietà verso il prossimo è invece L’elemosiniera di Abdullah, un racconto nel quale questo povero nigeriano, immigrato in Italia, dona il ricavato della sua raccolta giornaliera di elemosine ad un altro più povero di lui. Decisamente incapace invece di stabilire rapporti di solidarietà e di umana amicizia è il professore di Economia dell’omonimo racconto, il quale termina in solitudine i suoi giorni, non essendo stato capace di legarsi nemmeno al suo cane. Di maggiore impegno e di più vaste proporzioni è Ansia metafisica, il racconto più lungo del libro, che narra la vicenda di Terasia, una

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donna quarantaseienne, nata e vissuta in campagna, nel maranese, la quale ha subito un trauma terribile da giovanissima, avendo assistito alla morte della madre, uccisa dal padre a causa del suo tradimento. Il marito infatti l’aveva colta in flagrante, mentre giaceva con un suo sottoposto, del quale si era invaghita. Donna insoddisfatta e delusa non aveva saputo sottrarsi alla tentazione di evasione che l’aveva colta in una giornata in cui il marito si era allontanato da casa. Ne era scaturito un processo e l’uomo era stato condannato a trent’anni di carcere, trascorsi i quali era tornato a vivere con la figlia. Terasia che era una giovinetta al momento del delitto, era stata cresciuta sotto la vigilanza del parroco, Don Paolino, che l’aveva fatta studiare e diplomare in ragioneria. La sua vita era trascorsa senza fatti di rilievo, tranne quello della proposta di matrimonio fattale da un giovane casalese, che però si era rivelato desideroso soltanto delle sue terre, per cui era stato allontanato, fortunatamente per tempo. Assidua era stata invece in Terasia l’ insorgenza metafisica che la portava a voler conoscere le cause del bene e del male che reggono la vita degli uomini. E ciò era certamente una conseguenza della sua diretta esperienza familiare. Il racconto si conclude comunque tragicamente con la morte del padre, schiacciato da una statua portata in processione durante una festa paesana, che crolla sulla via dove in quel momento si trovava. Terasia parte allora per l’Argentina, terra nella quale avrebbe voluto recarsi sua madre, unendosi a un gruppo di suore, “figlie di Calcutta”, che andavano in quella terra per compiervi la loro opera di misericordia. La festa dei morti descrive le impressioni nascenti da una visita al Cimitero Monumentale di Poggioreale, a Napoli, dove pare che i defunti non siano assiduamente visitati dai loro parenti, sicché sovente circolano tra le tombe per farsi compagnia. L’Annunziata tratta infine la storia di una trovatella che, divenuta adulta, va in cerca della madre e fortunosamente la trova. L’Epilogo chiude il libro con una nota di pessimismo, dato che in


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esso si afferma che nella vita “si incontrano anche brevi momenti di felicità, ma più spesso di tragedia” e che “non c’è più amicizia da nessuna parte”. Al di là di ogni pessimismo, resta comunque in noi il piacere di una buona lettura, con un amico che non può tradire: un libro, come questo di Guaccio, che per alcune ore ci ha fatto una piacevole compagnia. Liliana Porro Andriuoli GENNARO MARIA GUACCIO INCONTRI INDECISI - (Rolando Editore, Napoli 2016, € 12.00)

LA MORTE INDAGATA Ho visto forme compatte in sequenze di moti che si strugge a catena si distrugge: la foglia arsa o verde tarlata d’insetti sbilanciare la pianta queste che oscillano crostacea o in torbo rigoglio del suono s’imprime all’aria atomizzata o sfoca se contro la forma esperte al disgusto; ho visto terre ingorghe d’invisibili formicolii oceani a spirale a volgersi in montagne di sale e giù scatenarsi con borbottii e scoppi dalle discese fiorite di plancton che c’impiglia abissali di schiuma punti neri corpuscoli, scogli atolli continenti in fermento d’uccelli e animali volti di scampo, case attendere alla forma animata dal non - ragione, strade che ci aguzzano in questa bianchezza totale di forme; ho visto me, uomo, agonia d’animale compresa, la morte indagata toccata, dalla cerchia inumana; ho visto calpestio su forme viventi, mani strozzate in una stretta adunca chi non emette lamento, occhi che perdonando chiedono pietà, armi, forni la scienza bieca, macelli laboratori dove per le nostre interiora si vivifica chi non ha parola, il toro

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sciabolato che sgorgando rivoli di morte piange il proprio verbo gira sul proprio sangue e s’inginocchia, piante con radici farneticanti, pesci nelle reti, ruote schiacciare un gatto che dibattendosi sulla selce guarda cosciente la finale presenza con noi sempre, e poi degli oceani l’abisso che ci assalta ci rotola per discese dove amore perde; ho visto me, uomo, sbilanciato da questo precipizio che si dicembre uomo finito Rudy De Cadaval Verona Dalla raccolta inedita Turbinio della vita: e dopo.

EHI CRISTOFALO! Cristofalo segnava con il carbone le cantoniere di vie e palazzi a rischio di perdersi nella grande città non è mai arrivato a destinazione. Girava squieto ora non più rideva beffardo aveva vissuto molto dentro e fuori così com’era venuto se ne andava sputacchiando a destra e a sinistra prima però si mise a guardare il cielo di buon mattino si faceva la croce come al solito rimaneva in silenzio fermo davanti alla porta chiusa del Santissimo Salvatore che cosa pensava questo scemo chiunque passava lo salutava con la punta del naso sotto sotto lo derideva ehi Cristofalo lui non dormiva però faceva figure con il carbone affrescava tutta la chiesa bombardata di santi e diavoli sconosciuti scriveva pure fratelli attenti a non morire di soldi stragi e psicofarmaci. Nicola Lo Bianco Palermo


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ANNA VINCITORIO PER VIVERE ANCORA di Nazario Pardini

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NA narrazione chiara, semplice, arrivante, persuasiva e pervasiva, quella della Vincitorio. Chi avesse letto la sua poesia non stenterebbe di certo a riconoscervi quell’animo snello, pulito, ambizioso a mantenere in vita stagioni ora burrascose ora lucenti del suo vissuto. E qui c’è una vita con tutto il patrimonio umano ed oltre; ci sono riflessioni, memoriale, saudade, realismo, luoghi compagni dell’amore, amori compagni di luoghi, personaggi, figure, aspetti che non possono morire, così come muore un autunno con le sue foglie arrugginite. Non è di certo azzardato parlare di prosa poetica; di contaminazione poematica: sembra proprio che da questi racconti in diacronica successione ogni tanto faccia capolino la virtù versificatoria di Anna e che questa virtù manifesti la sua presenza con calore e ardore, con grazia e riservatezza, con pennellate di colori e ondate di malinconia. La realtà vi è con tutta la sua forza rappresentativa e mai come semplice ritrattazione bucolico-georgica; ma con tocchi di verismo in funzione analitico-psicologica; è lì per aiutare, con le sue immagini riposate, un animo che ha bisogno di configurazioni reali per concretizzarsi, per mostrarsi in tutta l a sua portata ontologica: “… Ca-

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stagne fumanti sotto l’arco e un vecchio pianino, l’ ultimo, che suona in via del Corso. Le grandi arterie sono frenetiche e pulsanti di luci sul far della sera; si stagliano i lampioni sull’ Arno pigro e sempre uguale. Suoni randagi raccolti dal vento riportano agli occhi gli uomini fanciulli di quest’epoca: la fuga dal presente, il viaggio in campagna. Azzurri paradisi della durata di un biglietto da mille euro. Gli addobbi sempre uguali; il Natale è diventato un cliché nuovo formato. Il vecchio Rivoire diffonde odor di cioccolata ai marmi infreddoliti. I luoghi di ritrovo sono sempre gli stessi: bande di ragazzi e vecchi demodés con la farfalla al collo si alternano tra la Comune di Ponte vecchio e le prime al Comunale… Cosa cercare ancora nella mia città? È sempre tutto eguale, anonimi sussurri, risate disperate, o perlomeno frettolose… Tutto tace.”. Un verismo disilluso di Anna, un verghiano approccio con la città che la contiene; pennellate di verità che ritrattano, una volta fattesi immagini, l’amarezza di un luogo da sempre specchio dell’anima della scrittrice: tanto amore, tante illusioni, delusioni, tanta storia che corre forse troppo eguale in un animo pronto alla fuga. Sta qui l’abilità della Vincitorio; ed è la stessa che ho rinvenuto nei suoi versi, scattanti, concisi, apodittici, e immensamente umani; la sua è una ricerca continua verso un amore che non c’è, verso un’isola che non esiste; un azzardo perpetuo verso mondi che vanno al di là delle nostre possibilità terrene. D’altronde è nell’indole umana cercare alcove ove far riposare un esistere stanco di sottrazioni esistenziali; di una realtà che la scrittrice rivive in tutta la sua bellezza sfumata e sfuggita; parlare di realismo lirico di fronte al suo percorso rievocativo ed evocativo non è di certo azzardato, dacché questa prosa ci riporta, senza dubbio, alla memoria quel Capasso il cui stile dominò per buona parte dell’altro secolo: “Lei cuciva, cuciva sempre, ma aveva tanto male alle gambe e le mani le dolevano sull’ago. I bei capelli, ora, erano grigi ma sempre intatta quella luce negli occhi di cerbiatta. Insieme ricordavamo i miei lontani giochi e quel pe-


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riodo strano e triste in cui al mattino, nel cortile sottostante. Si vedeva ogni tanto una piccola bara…”. Quanta poesia in queste righe, in questi imperfetti che ci dànno il senso della continuità! Del perpetrarsi di emozioni che stentano a morire! E quanto facile sarebbe tramutare in versi queste rimembranze cariche di pathos e di thanatos, di nostos e di fugacità; di ambiente e di storia. Sì, quella fugacità che contraddistingue il nostro passaggio terreno che noi vorremmo portare oltre il guado, nel bene e nel male: “… Qualche vecchio, ora, non c’è più; se n’è andato in un mattino di sole tanti anni fa, all’improvviso. Io, da quella morte, ho iniziato ad avere coscienza della mia vita e a lottare. I figli crescono e si instaura un diaframma che li fa sentire lontani…”. La vita, i suoi passaggi, il suo scorrere, le mutazioni, le scottature, la solitudine, la coscienza del tempus fugit. D’ altronde tutte le sottrazioni che abbiamo subite col passare dei giorni assumono un valore particolare fino a spogliarsi di quel secco e lancinante sconquasso che provocarono. Toccata e fuga in queste rimembranze; spesso si legge fra le righe, o in semplici cenni verbali, l’animo a volte stanco, altre attaccato a sprazzi di luce per vivere ancora. E chi dice che non sia proprio la sedimentazione di quei fatti a dare i frutti più nobili per una poesia o una prosa volte a concretizzare la nostra epigrammatica vicenda? PER VIVERE ANCORA. Questo il titolo del testo che raccoglie una successione di racconti suddivisa in tre parti: Per vivere ancora, eponimo, la prima; Ritratti, la seconda; Quadrilogia per una sera d’estate – Magia, la terza. Già il titolo ci fa da antiporta, da prodromico messaggio al leit motiv che compatta e tiene unite le varie storie: una serie di perle infilzate in una collana di rara pulcritudine. E quale sistema migliore per protrarre la nostra esistenza se non quello di ripescare nel fondo di noi stessi per ridare vita a ciò che l’oblio divorerebbe con la sua insaziabilità. Mi piace riportare a proposito l’ expilicit di un mio poemetto tratto dal libro Alla volta di Lèucade:

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“… Ed io fuggii scabro settembre, mese addolorato, dal sangue che si sperde in ogni dove dell’ultimo respiro della vita. Io ti lasciai e un salto nelle oniriche acque di Lèucade non mi concesse morte né oblio, ma solo la ricchezza d’immagini feconde rivissute da un’anima al di sopra delle povere storie del giorno. E ti rivissi, vita, con un sentire lieve e tanto amato che in ogni fatto lieto o meno lieto, ma scampato, vidi un superbo dono.”. E la Vincitorio “rapina” in continuazione fatti, vicende, personaggi, ambienti, per crearsi un mondo proprio; un mondo che vada oltre il tempo, anche se il tempo gli fa da cornice; che vada oltre le ristrettezze del nostro soggiorno per farne un tappeto di velluto su cui passeggere con la propria anima. “…Davanti a te si susseguivano lui e poi lui e lei e i bambini e gli altri. Difficile seguirti, eppure tu tendevi la mano. Bisogno di non sentirti solo; la casa ti opprimeva e la terrazza con sopra il cielo aperto era il luogo da cui avresti voluto spiccare l’ultimo volo.”. Quel volo che si fa oggettivazione universale di un’inquietudine umana; forse troppo umana per restare a terra. Ma forse Anna trova proprio il completamento delle sue vicissitudini in un sogno; ha bisogno di sogni per vivere; di vele leggere, gonfie di vento e di azzurra passione; è così che impregnerà il suo giardino vivendo il connubio col suo mare: Ho bisogno di sognare per vivere, ho bisogno di vele leggere, gonfie di vento e di azzurra passione Cosparsa di alghe impregnerò il mio giardino vivendo il mio connubio col mare Nazario Pardini Anna Vincitorio: per vivere ancora. Guida Editori. Napoli. 2012. Pg. 136. € 10,00


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CON LA RACCOLTA

“SENSAZIONI” ANTONIA IZZI RUFO VINCE IL 1° PREMIO “CITTÀ DI POMEZIA 2016” Mondo umano e Natura vanno a braccetto grazie alla vera Poesia di Luigi De Rosa

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ON questo altro meritato riconoscimento, ai pregi della prosatrice si aggiungono quelli (per me finora meno noti, ma superiori) della poetessa che, pur nella comprensibile misura dovuta al temperamento naturale ed alla educazione che l'ha plasmata, ci svela, nelle trentuno pregevoli liriche della silloge, con abilità letteraria non inferiore alla sincerità e alla spontaneità, le sue sensazioni più vere, più profonde. Il testo integrale della silloge “Sensazioni” è stato stampato ne Il Croco, quaderno letterario della rivista “Pomezia-Notizie”, uscito col n° 123 come supplemento al numero della Rivista di ottobre 2016: L'Introduzione è a firma di Domenico Defelice, organizzatore del Premio e Direttore della Rivista. Al di là di un'intensa vita di lavoro per e coi bambini e i loro parenti, al di là degli studi (oltre al diploma di abilitazione magistrale anche la laurea in pedagogia e vari corsi di specializzazione) al di là delle fatiche, delle gioie e dei dolori del passato e del presente (figli, nipoti, marito perduto e amaramente rimpianto) dei libri pubblicati, dei Premi vinti, dei giudizi critici lusinghieri, rimane la sorpresa del cuore e della mente di Antonia che, grazie al dono della Poesia, sono ancora meravigliosamente giovani, colmi di stupore nei confronti delle bellezze della Natura. Lei può anche negare, di fronte all'entusiasmo del giovane Yuky, di continuare ad inebriarsi, come lui, dell'incanto della Natura: la verità è che lei, che pur ha sempre privilegiato, nelle sue opere letterarie, il mondo umano degli affetti familiari, delle tradizioni del paese e dei

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suoi abitanti, dei valori fondanti di una determinata società, non ha mai smesso di palpitare per l'incanto magico, autonomo, universale della Natura. Di quella Natura poi così tenera e forte come quella del Sud in cui è cresciuta (nata a Scapoli, Isernia, risiede a Castelnuovo al Volturno). E ce lo dice con parole tanto semplici quanto efficaci: “...io più non avverto ciò che tu vedi e senti e non m'inebrio, come te, dell'incanto di questa natura selvaggia, primordiale, vi sono abituata, l'ho in me, la considero normale, senza nulla di speciale, anche se stupenda.” “Caro Yuky” Antonia ancora si perde nel magico del mare iridato del tramonto. La sua anima trabocca poesia nella pace e nel silenzio dell'alba. Così com'è affascinata da un bouquet di luci che rischiara nel buio un borgo collinare, e dai profumi d'erba e di fiori che risvegliano un'intensa voglia d'amore. Inevitabile il richiamo al problema delle origini e delle motivazioni dell'universo, con l'accenno ai corpi celesti (le lucciole del cielo, che occhieggiano statiche). Così come il richiamo al problema del Bene e del Male, con l'immagine di due categorie di uomini sotto lo stesso cielo, i buoni che rincorrono sogni e la schiera ferina di quelli che tramano delitti. Ma il tutto viene sovranamente dominato dal pensiero, che “blocca il cammino/ alla mente piccina/ che scruta che chiede/ che cerca e non trova”. Dove per pensiero, più che il pensiero filosofico, si dovrebbe intendere la spiegazione, ragionata ma di carattere religioso, e comunque metafisico, della realtà. Diversamente non si comprenderebbe perché la mente dell'uomo, o la ragione, venga definita impotente (come in effetti è) a spiegare il mistero dell'Universo e della Vita. Originale e caratterizzante, è la lirica Contrasto (pag. 17): “ Policromia di colori intorno e l'incanto.


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Sul verde fiorito il giallo e l'azzurro e riverberi di pace. Nero dentro me e bagliori di fuoco.” “Nero” e “bagliori” che dovrebbero dirla lunga sullo stato d'animo della poetessa e sulle sue reazioni di donna (del caldo Sud, per giunta) in una particolare situazione di sofferenza spirituale ed esistenziale: il mondo esterno (compresi gli “altri”) è quello che è, e raramente coincide con le idee e la sensibilità del poeta o della poetessa (alcune donne che scrivono poesie ripudiano il termine poetessa, sostenendo che quello di poeta vada bene sia per l'uomo che per la donna... senza contare i casi di omosex). Sono molto belle anche le poesie “Mare” e “Un coro d'armonia”, dove l'armonia tra Natura e Uomo si rivela in tutta la sua gioia anche nel campo cromatico oltre che in quello musicale. In ogni verso fiorisce un'immagine, per la gioia del lettore sia paziente che esigente. Qualche rima sparsa, molte assonanze, soprattutto una musicalità generale di linguaggio, sempre contenuto ed efficace, senza inflorescenze retoriche. In presenza di un temporale, o comunque di un mutamento meteorologico, la poetessa dice: “...del colore della tristezza/ si tinge l'animo mio, gli stessi/ assume attributi della Natura.”. E la compassione, cioè il soffrire o il godere insieme, tende a perfezionarsi. Poetessa e Natura sono tutt'uno. “E' questo soffrire senza lacrime che ti scava nel profondo e ti brucia senza fiamma il vero dolore...” Anche se, ad un cuore affamato di calore e comprensione, a volte può bastare anche un sole invernale, scialbo, ironico e freddo. “ Di nuovo respiro speranza, un sorriso mi brilla, anemico, negli occhi, un filo mi lega sottile, ancora, alla vita. Ma quanto poco dura!”. Luigi De Rosa

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PIANGI, UOMO “CHE BEN N’HAI DONDE” Quanto m'è noto la luce mi mostra dell'alba stamani: nulla di nuovo, come sempre stupore e motivo di riflessione. Nella valle lo sguardo si posa, un istante sul cimitero sosta da presso, per una preghiera, e su quello più in alto da tre luci distinto. Ai lati indi s'aggrappa dei monti e il tutto abbraccia, il manto verde scuro terrestre e il blu notte, ancora, del cielo che oltre le vette si stende. Libero vaga, scende sale, a destra svolta e a sinistra e poi... s'arresta di colpo, non può, più, proseguire. Sfondare la cappa di piombo, andare oltre? Impossibile. Ripiega allora nella fantasia e fila veloce, senza intoppi, oltre, tra nubi che s'azzuffano. Tutto uguale, non d'una via si scopre l'indizio né d'una meta. Non incoraggia l'opaco d'azzurro caos a proseguire, a cercare - perché nulla c'è da cercare in questo mare infinito che l'universo cinge ed altra non offre visione Ed oltre l'intreccio di fumo che ci sarà? La mente dianzi curiosa, tenace, vinta s'arresta, cede e in terra ripiomba mentre una voce, ignota, nello spazio il suo riso ironico tuona, e lo fa traboccare: <<Piangi, uomo, "che ben n'hai donde" >>. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo al Volturno (IS)


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GIOVANNI PRATI E IL SECONDO ROMANTICISMO di Leonardo Selvaggi I IOVANNI Prati nasce a Campo maggiore (Trento) nel 1814. All’ Università di Padova si iscrive alla facoltà di legge, senza portare a compimento gli studi. Sposa giovanissimo Elisa Bassi (1834), nel 1836 pubblica la prima raccolta di poesie. Dopo la morte della moglie nel 1840 si trasferisce a Milano, ove fa parte del gruppo di patrioti e letterati romantici della città. Ha un grande successo con una novella in versi, l’”Edmenegarda”, composta fra il ’40 e il ’50. Poema d’ambiente borghese. Seguono “Canti liberi”, “Canti per il popolo”, “Ballate”, “Storia e fantasia”. Successivamente è a Torino, Padova, Venezia, Firenze e Roma. Nel Piemonte nel 1844 pubblica “Memorie e lacrime” e “Nuovi canti”. La sua vita nomade cessa in seguito al secondo matrimonio con l’ attrice Lucia Arnaudon (1851). Scrive “Passeggiate solitarie”, “Nuovi versi”, “Nuove poesie”. Nel 1852 “Canti politici”, poesia ci-

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vile di una certa dignità e veemenza, anche se fredda. Fra il ’50 e il ’60 i poemi storici, quasi tutti in esaltazione di personaggi e avvenimenti piemontesi: “Rodolfo” (1853), “Ariberto” (1860), “Armando” (1868), “Amedeo VII di Savoia detto il Conte Verde”. II Mandato in esilio da Padova e da Milano per sospetto di liberalismo, sfrattato da Venezia e Firenze come albertista. Solo a Torino riesce a trovare quiete sotto gli auspici della Casa Sabauda. Giovanni Prati a Torino è nominato storiografo della Corona. È deputato nel 1862. Seguendo la corte sabauda è a Firenze nel 1865 e, grazie al suo spirito di italianità, a Roma nel 1871, dove è nominato direttore dell’Istituto Superiore di Magistero e nel 1876 Senatore. Il Prati è un menestrello vagante della poesia. Ha una produzione continua che pare non debba avere mai fine. Nessun poeta ha forse tanta facilità di vena, tanta varietà d’ispirazione. Vuole impersonare il tipo del poeta romantico: porta in versi sia le vicende della sua irrequieta e movimentata esistenza sia le idealità storico-politiche del suo tempo. È il letterato nel senso tradizionale del termine, è con l’Aleardi l’esponente più caratteristico del “secondo romanticismo”, vale a dire di quella specie di Arcadia romantica, sentimentale che fiorisce fra il 1840 e il 1860. Corrente letteraria che succede al vero e proprio romanticismo pacato e sereno nel Manzoni o impetuoso nel Berchet. Il “secondo romanticismo” è un indirizzo poetico che unisce il sentimentale al fantastico, il languido al tragico, con aspetti melodiosi, come nella musica del Bellini e del Verdi. Il patetico romantico, artificioso porta l’arte lontano dalla realtà. Un’atmosfera irreale si ha quando si trattano argomenti storici, patriottici. Il Prati conduce alle estreme conseguenze la sentimentalità morbida del romanticismo. Siamo alle espressioni di lamento, di orgoglio e di dolore. Non abbiamo il tormento dell’ intelligenza che aspira ad un ordine politico migliore. La poesia del Prati è trasparente, lussureggiante. Versi spesso belli, ma non contengono


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la malinconia che fa pensare al presente travagliato. III Nel decennio 1840-50 e nel ventennio successivo molti intellettuali perdono l’ardore patriottico-politico, non hanno una base ideologica, sono privi di creatività, sono inariditi. Un isolamento in sé stessi, un commiserarsi con espressività fatta di tenui, sfumate sensazioni. I poeti sia del genere sentimentale o patriottico danno attenzione alla loro persona scarna, immiserita. A questo progressivo interiorizzarsi, comune a tutto il secondo romanticismo si contrappone la fase organizzativa della borghesia italiana che sta creando una nuova politica. All’isolamento poetico si accompagnano un’angusta area di reale e tante ambizioni, sostenute da un desiderio di evasione verso altri mondi e altre culture. Il Prati ha una facilità di poetare come il Monti, tanta versatilità di fantasia, poche doti di poeta e poca disciplina letteraria. Scrive poemi filosofici con assenza di costruttività. Non mancano di certo in questi, come nelle opere citate, alcune poesie di un certo valore. Lo stesso poemetto “Edmenegarda”, che ha scarsa robustezza, piace ai suoi tempi e viene apprezzato per a presenza di toni byroniani e lamartiniani. Il Prati, fedele cantore dei Savoia, membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione con la sua produzione di vario contenuto dà significazione all’epoca del secondo romanticismo. Abbiamo un’ indeterminatezza, una tonalità oscura di sentimenti. Lo stesso che osserviamo nel Mazzini e nel Guerrazzi. Frequenti gli stati depressivi. Mancano le virili speranze, abbonda la tempestosità come in Chateaubriand. Non abbiamo motivi concreti. Nelle poesie e nei poemi figure di donne evanescenti come nel Grossi e nel Carcano. Donne infedeli dedite al vizio sembrano vivere tempi realistici, invece sono di carattere indefinito. Contrasti fra reale e ideale, nei poeti manca consistenza di fatti e di esperienze. Fatuità e poesia di posa. Malinconia grossolana, romanze piene di orrori, difetta l’estro fantastico. Romanticismo

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superficiale con l’illusione di avere profondità di pensieri e grandi ideali. Se si parla di popolo la parola non ha fremiti. Troviamo romanticismo italiano e straniero in un getto irrefrenabile di versi, incoerente per assenza di meditazione e di lima. Una parola facile e astratta, colorita, calda che canta delle cose più care, belle, grandi, della donna, della Patria, di Dio, dell’umanità. IV Alla fine della carriera poetica di Giovanni Prati, fra il ’76 ed il ’78 abbiamo i cento e più sonetti di “Psiche”, pieni di nostalgie e rimpianti con quadri idillici e un sereno realismo e la raccolta di poesie varie di “Iside”, esperienza romantica in una forma nuova, fantasiosa e moderna. Ci si avvicina alla moda del neoclassicismo che comincia a manifestarsi nelle opere letterarie. Il temperamento del Prati non cambia del tutto, anche se ritempra il pensiero. Abbiamo delle linee più nitide, un’espressione più composta. Non velleità di poeta civile né narcisismo sentimentale. Ridimensionata l’esperienza poetica con forme più pure. Si ammira la vita degli esseri più piccoli con umiltà e senso di nullità. In “Iside” poesie non di contenuto vago, c’è un mondo iridescente. Il Prati si chiude nel cerchio magico di una gioia infantile, si contenta dei doni che la vita fa a tutti. Rinuncia alle false complicazioni di un romanticismo mai approfondito con il sentimento, con la cultura e con profondità intuitiva. Sintesi di un mondo ingenuo, di incanti è la poesia “Incantesimo”, il suo capolavoro, senza appesantirsi in riflessioni, con un tono altamente spirituale, di divino oblio. Le malinconie romantiche superate. Ci si allontana dalle tristezze per raggiungere un regno senza nubi. Il Prati supera una realtà di delusioni, ha semplicità e idealità, mai raggiunte dalla sua poesia. Il poeta libero da ogni pena, felice, inebriato, celebra la vita, vista nell’anima molteplice delle cose. “Incantesimo” rappresenta la purificazione classica del suo torbido romanticismo. Un’altra lirica famosa è il “Canto d’ Igea”, ove l’eroe del poema “Armando”, af-


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fetto dal male del secolo, invita a vivere secondo natura, come rimedio alla sregolata vita romantica. È un inno alla sanità fisica e spirituale. Lontano è il passato di una vita avvelenata dalla malinconia e dalla fantasticheria. Giovanni Prati è vicino alla poesia del Parini. Negli ultimi anni si sente la fantasiosità romantica e ci si avvicina a modi sani e saggi. L’opera di Giovanni Prati è quasi tutta mediocre, ma il Prati è apprezzato per il suo temperamento di eterno adolescente, con un modo di vivere volgare, protagonista non della poesia, ma del suo tempo. Poeta perdigiorno, che non ha riflessione, un posatore, illuso, ama gli scenari. Il Carducci ha fatto dimenticare questa poesia vacua, senza carattere e il senso della misura. Il Prati rappresenta con la sua ricca produzione una significativa documentazione di un tempo, di una poesia decadente, evanescente. Muore a Roma nel 1884. Leonardo Selvaggi

RECENSIONE Ti leggo e ti rileggo due, tre volte l’anno: Quaderni palesini Colloqui e amabili fraseggi Finzioni ed altri inganni... Ti leggo e ti rileggo e più mi sento vuoto e non ne scrivo. Quando mi sveglio, guardo alla finestra il traffico che scorra nella strada... Era la stanchezza che mi coglieva quando ascoltassi i notiziari... Ti leggo e ti rileggo nella perplessità più vuota ed or ne scrivo. L’aria mi si assottiglia e si dirada. Sento insistente un maglio che prende a pugni e schiaffi il congiuntivo. Domenico Defelice

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SUPER-MUJER PARA PRESIDENTE Estamos viviendo la época de super-mujeres, que en algunos países han dejado de ser sueño para emprender realidades. Quien ha podido crear el pueblo, puede también organizarlo para vivir en libertad la llevará a gobernar el Mundo. Teresinka Pereira USA

NON HO PIU’ SOGNI Non ho più sogni. L’ultimo se ne è andato scacciato dalla tua invisibile presenza. Mi consola il saperti sempre vicino a me, anche quando io non ti penso e sapere che il mio pensiero sempre ti raggiunge ovunque tu sia ormai. Mariagina Bonciani Milano

SEMPLIFICAZIONE NEI RICORDI Nei nostri ricordi spesso pochi fondamentali tratti di vita delle persone care scomparse bastano a noi per definirle giustamente. Nei giudizi sui vivi, invece, difficile è scindere nei grovigli di vita l’essenziale dal superfluo. Si può vivere distratti vicino a chi amiamo. Caterina Felici Pesaro


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CARLO DI LIETO LA DONNA E IL MARE di Domenico Defelice

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L saggio di psicocritica di Carlo Di Lieto sulla scrittura di Corrado Calabrò è strutturato in una breve Introduzione e tre lunghi capitoli: “Capogiri bi-logici e pensiero emozionale”, “ “La materia dei sogni”: l’amore come metanoia” e “Tracce mnestiche e “intermittenze del cuore” “. Sulle 254 fitte pagine del volume, il saggio copre le prime 132, il resto essendo occupato dall’Antologia, comprendente 44 poesie, il saggio “Il poeta alla griglia” - da Calabrò riproposto già più volte (“L’illuminista”, n. 8/9 - 2003 e in Mi manca il mare - Genesi editrice 2013, per esempio) -, alcuni brani dal romanzo Ricorda di dimenticarla e una Intervista a cura di Di Lieto apparsa sulle pagine di questo nostro mensile nel marzo 2015. A seguire la Biografia di Corrado Calabrò, la Bibliografia, la Bio-bibliografia, l’Indice iconografico e l’ Indice dei nomi. Carlo Di Lieto afferma che la scrittura di Corrado Calabrò, pur essendo stata oggetto di

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moltissime e validissime analisi, ancora “non è stata sufficientemente valorizzata nelle sue forti peculiarità psicologiche”; perciò il suo intento, in questo saggio, è di ovviare alla lacuna, effettuarne “un’analisi concentrica”, sviscerare i due soggetti fondamentali e assillanti della sua poesia - la donna e il mare mettendone in risalto “l’amore platonico e quello fisico” con gli innumerevoli, ma sem pre diversi e perciò sempre affascinanti e coinvolgenti effetti, svelando come il poeta sia sempre “alla ricerca del significato profondo”; cioè, “la realtà viene sospesa sul piano inclinato dell’illusione e viene raccontata mediante la vieta liturgia della parola, che riesce a trasmettere, con una resa incondizionata, le dissolvenze trasversali del sentimento amoroso” e “il mare, per il poeta, è l’ accogliente grembo materno”. “La poesia di Calabrò - scrive Di Lieto disattende al principio di non-contraddizione, perché si avvale di una logica simmetrica, dispiegando un discorso che afferisce alle “antitesi immediate” o all’universo dell’ indistinzione, nella realtà psichica del poeta” (p. 50); in essa, “Il dato simbolico ha sempre un supporto reale, un connotato che rinvia ad amori vissuti, come esperienza di vita, e ad un ricordo indelebile che ferisce la memoria del poeta”. “Nell’ordito poetico di Calabrò continua Di Lieto - non esiste un prima o un dopo, la sua memoria storica è data da un eterno presente, definendo un pensiero cosciente dividente e uno inconscio indivisibile”. “Calabrò è, senza dubbio, una delle voci poetiche più innovative e originali del secondo Novecento” e appartiene alla corrente del Realismo lirico fondata da Aldo Capasso; ma egli è, anche, “unico e inimitabile, perché nel suo verso c’è il respiro della sua anima, la sua vita”; “La capacità di Calabrò è nel saper collegare di continuo l’universo interno del proprio mondo con l’esterno della realtà”. Il lettore si sarà accorto che abbiamo abbondato nei riporti; il saggio di Di Lieto non è facile per coloro che, come noi - e non ci vergogniamo di confessarlo -, sono digiuni di psicologia e di psicanalisi. Così abbiamo tro-


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vato periodi con concetti profondi che hanno richiesto più letture e tanti termini che ci hanno costretto ogni volta a ricorrere al vocabolario. Né sempre ci è sembrato tutto chiaro, sicuramente dovuto alla nostra testé dichiarata impreparazione. Quando, per esempio, Di Lieto afferma che “La coscienza del poeta è affidata alla decantazione del non-detto e al “pensiero dominante”, che compensa l’eclissi della ragione”, vuol dire forse che nella poesia di Calabrò sia assente (“eclissi”), cioè, che non esista la ragione? Che sia tutta pura fantasia? Di Lieto precisa che “L’isotopo più ricorrente” in Calabrò sia il mare. Ha ragione, ma noi abbiamo dimostrato, recensendo Mi manca il mare, che, almeno a pari merito, c’è pure la luna, che nella scrittura di Calabrò non solo abbonda, ma ha un fascino particolare, smagato, affabulante, che parzialmente e meno coinvolgente ci è capitato di incontrare anche in altri due grandi poeti calabresi: Felice Mastroianni e Geppo Tedeschi. Per quanto concerne il saggio di Calabrò Il poeta alla griglia, Di Lieto scrive che egli “sa essere anche un attento esegeta della propria poesia” e che “questa sua capacità lo pone in

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condizione di ridefinirla, di volta in volta, criticamente, senza alcun compiacimento o indulgenza”. Un lavoro di grande spessore, questo del Di Lieto, che, unitamente alla vasta Antologia, consente di delineare meglio, e, per certi aspetti, in modo definitivo, la figura dell’ ormai notissimo poeta nato a Reggio Calabria, tradotto una trentina di volte, recitato in teatro e in spettacoli vari, vincitore di ambitissimi premi, onorato in Italia e all’Estero, come con la recente laurea honoris causa conferitagli, nel 2015, dall’Università di Mariupol. Domenico Defelice CARLO DI LIETO - LA DONNA E IL MARE Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò - Roberto Vallardi Editore, 2016 - Pagg. 254, € 12,00

COME I CIECHI MI TENGO AL PASSAMANO I Rossi e Bianchi sepolti in file strette. Fiori di pentecoste per i morti. Le tombe sono dei buchi neri nello spazio L’occhio qui vede l’erba, la mente oscilla come un bimbo che vaga sulle pietre sopra un fiume. (Ricordo un edificio dai grandi vetri a specchi il celeste il giallo dell’estate riflessa sino a noi. Figure all’interno forse di morti e forse ci guardavano, infusi di invidia e di pietà. La mente ci ricama. La mente è disinvolta.). Le navi bianche ignorano la noia ripetono il traghetto. Poi sbiadiranno sulle foto. Come i ciechi mi tengo al passamano mi ferisce, guardando, l’acqua accesa. La dicono profonda. Certo non nuoce ad essere d’accordo mentre la mente brancola cercando l’altra pietra bagnata per passare. Rudy De Cadaval Verona Dalla raccolta inedita Turbinio della vita: e dopo.


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LEGGENDO DEFELICE: Tutto quanto ha entusiasmato e fatto vibrare la sensibilità profonda della studentessa Claudia TRIMARCHI, raccolto nella sua tesi di laurea di Anna Aita

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NA bella immagine in copertina, dall’interpretazione chiara e, al tempo stesso, enigmatica, dona al volume quel pizzico di mistero che accresce interesse e curiosità invitando alla lettura immediata delle130 pagine circa che compongono il volume. In primo piano, la figura, in chiave particolarmente fascinosa, del volto del protagonista chiaramente affondato nella propria anima e visibilmente sofferente. Avvolto in una nuvola di pensieri, è contornato da volti travagliati e afflitti. La composizione evidenzia in maniera magistrale il tormento interiore del protagonista che tutto osserva, del mondo circostante, e tutto riporta, coinvolto e mesto, nelle sue scritture. In questa pubblicazione, Claudia Trimarchi ha raccolto nella sua tesi universitaria l’ universo poetico del noto Autore. Il titolo “La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice”, predispone ad una lettura sicuramente avvincente in cui tutte le sfumature delle profonde meditazioni poetiche di Domenico Defelice sono state affrontate e descritte con accuratezza e soprattutto con acutezza e intensità di pensiero. Di quanto scrive il prefatore al libro, Giuseppe Manitta, mi piace sottolineare, più che gli entusiastici commenti sulla poesia del Defelice, l’aver evidenziato il progetto dell’ Autrice e cioè “il recupero della buona letteratura”. Un altro importante aspetto messo in luce dal prefatore è la tenace volontà del Defelice

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nel fare cultura, determinazione testimoniata dalla rivista “Pomezia-Notizie”: “...un organo”, egli scrive, “che nella sua semplicità testimonia l’integrità della letteratura come missione più che come sfoggio”. Forte e generale è l’interesse su questa scrittura: dai grandi nomi ai meno conosciuti, tutti sono stati attratti dalle pagine di Claudia Trimarchi: Luigi De Rosa, Filomena Iovinella, Giovanna Li Volti Guzzardi, Liliana Porro Andriuoli, Roberta Colazingari, Marina Caracciolo, Elisabetta Di Iaconi e così via. La scrittura parte da un’interessante introduzione nella quale l’Autrice manifesta, come primo passo, l’intento di mettere in luce come la poesia sia una costante in tutta l’opera del Defelice; la ritroviamo infatti nella critica letteraria, nella narrativa e nell’opera d’arte. Procedendo nella scrittura, ella svela, inoltre, l’importanza di essersi potuta avvalere della disponibilità dell’opera “L’orto del Poeta”, lavoro che raccoglie un insieme di riflessioni, pensieri, articoli incompleti, che diventeranno sostanza delle pubblicazioni successive. Proprio attraverso queste letture, l’Autrice comprende l’inscindibilità esistente tra la vita dell’Autore e il suo percorso letterario: “Il vissuto esperienziale”, scrive infatti, “ispira l’ Opera e l’Opera lo restituisce alla vita rischiarato da una luce nuova”. Ecco, dunque, la funzione catartica della poesia, che innalza liberando dalla mediocrità e rigenera in quanto edificatrice di altre possibilità di vita. Dopo queste importanti precisazioni, Claudia Trimarchi inizia a raccontare la storia esistenziale e letteraria di Domenico Defelice, cammino che ripercorre con grande attenzione e coinvolgimento. La vita del nostro personaggio è ormai ben nota: la nascita ad Anoia, piccolo paese alle falde dell’Aspromonte, il trasferimento dapprima a Reggio Calabria, quindi a Rosarno e a Crotone dove va avanti con lavori saltuari mal pagati e grandi sacrifici soffrendo persino la fame, per approdare finalmente nella grande Capitale, città da sempre ammirata, desiderata e sognata. L’amore agognato e spesso deluso, le prime


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poesie, le scritture, le opere pittoriche, il giornalismo e, finalmente, la grande ascesa, su su, sempre più su. Lo specchio della vita nei versi: l’ironia, il sarcasmo, la rabbia, la denuncia. Tutto esamina minuziosamente la Trimarchi, sempre più entusiasta, sempre più compresa, sempre più coinvolta. La presa di coscienza del Defelice delle tante pecche di una società disonesta e corrotta, il decadimento morale e spirituale, la piaga della mafia... e su tutto, il disgusto, la ribellione in versi sentiti, persino rabbiosi. La Trimarchi legge, immagazzina, rimugina, ne fa parte della propria anima fino ad immergersi con lui nella dolente questione del Mezzogiorno. Tranne in alcune tematiche, la fantasia non è padrona dei versi del Defelice. Ciò che scrive è verità, vita quotidiana, esperienza vissuta sulla propria pelle o verificata direttamente. Un uomo singolare, un artista, un poeta vero, un letterato ispirato molto attento al mondo che lo circonda, un personaggio tutto d’un pezzo: sincero ad ogni costo. È così che Domenico Defelice prova a cambiare il mondo lasciandosi presentare, ancora una volta, da chi lo ha conosciuto, lo ha compreso profondamente e lo ha saputo apprezzare. Così accade alla bravissima dottoressa Claudia Trimarchi, le cui pagine abbiamo letto con grande entusiasmo. Anna Aita

A PISA Su una curva dell'Arno, nel tramonto. I colori che sfumano, la vita sospesa a un filo. Noi che contempliamo l'acqua che scorre. Il tempo s'è fermato sulla ruota dell'ora, e pare eterna la sua viva lusinga, in cui s'avvera la gioia in cui credemmo. Poi vacilla. Già la volta traspare d'altra luce. S'è compiuto il miracolo. In un rosso squarcio di nubi ancora il sole muore. S'accendono i lampioni della sera. Una bava di vento ci trascina

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verso altri miraggi ed altri albori. Ma l'eco di un evento dura in noi. Elio Andriuoli Napoli

ESOPOLITICA Abbiamo visto che Obama è capace di tutto, anche per essere il più importante presidente del mondo (...? ...) Tuttavia è difficile credere sarebbe stato in grado di invadere Marte, uno dei pianeti amichevoli verso la Terra. Cosa lui va cercando? Un dio con grandi occhi come un marziano senza pantaloni? Con la foto che ho visto, il Marziano sembrava dargli tutta l'attenzione che poteva mai ricevuta dai Terrestri! Teresinka Pereira USA Traduzione di Giovanna Li Volti Guzzardi, Australia

L’AVVENTURA UMANA Mi muovo tra la folla variopinta, un irrequieto fiume che senza posa scorre dai primordi. Stupita, insieme agli altri, mi sento parte di un disegno immenso che non si può spiegare. Sospinti dall’amore per la vita, interpretiamo un ruolo; ma la recitazione è improvvisata. La folla mi trascina in una comunanza di problemi. S’attenua lo sgomento e prosegue il percorso del destino che ci ha chiamato tutti ad affrontare l’avventura umana. Elisabetta Di Iaconi Roma


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GIANNI RESCIGNO IL SOLDATO GIOVANNI di Tito Cauchi da poche ore che ho completato la lettura del volume di Luigi De Rosa (“La grande poesia di Gianni Rescigno”) che mi ha evocato la figura del poeta di Santa Maria di Castellabate, sul quale avevo scritto alcune recensioni, una delle quali rischiava di sparire, vuoi perché la memoria elettronica è volatile, vuoi perché quella umana è limitata. Perciò la propongo dopo cinque anni. Gianni Rescigno (1937, Roccapiemonte, prov. di Salerno) con Il soldato Giovanni ha inteso fare un omaggio al proprio genitore, morto nel 1994, all’età di 103 anni. Nella prefazione di Giorgio Bàrberi Squarotti, il critico fa una sintesi del racconto riguardante il personaggio che ha partecipato a tre guerre (Libia, Primo e Secondo conflitto mondiale), definendolo “grandiosa epopea popolare in forza di un linguaggio saporoso, agile, alacre, spiritoso”. Osserva che gli eventi sono esposti in modo nudo e crudo, senza riportare commenti valutativi di sorta, ma qualche opinione morale viene formulata dal personaggio Ni cola, che sogna la sua Bettina; il commilitone fa da alterego, la coscienza vigile di Giovanni. Infine avverte che il romanzo inizia con notizie del nonno dell’autore e della sua terza moglie Giuseppa “possente, autoritaria, capace di tenere testa a qualsiasi uomo” grande bevitrice di vino, fino al momento dell’ultimo respiro.

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Il racconto procede in terza persona ed è vivacizzato da parti dialogate introducendoci nel cuore degli eventi. Nel Salernitano, Gioacchino (nonno paterno dell’autore), secondo di tre fratelli, manovali edili, assolti gli obblighi di leva [primi anni dell’Unità], per diversi anni lavora in Sicilia in proprio; era uno che si faceva valere. Sposò, ventisettenne, la sua prima donna che morì presto; ne sposò una seconda, che muore dopo avergli dato sette figli, ma di questi ultimi sopravvissero solo tre Giovanni (padre del Nostro), Giuseppe e Luigina. Al terzo matrimonio sposa Giuseppa, detta Peppa, (nonna acquisita), matrigna, affettuosamente chiamata ‘mammella’, vedova del custode del camposanto, la quale si cura e del cimitero e dei lavori dei campi, con attenta sorveglianza dei lavoranti; nel giudizio di lei questo marito di “forza ne aveva per la fatica e le femmine”. Gioacchino morirà per una malattia alle vie urinarie, amorevolmente assistito dal figlio Giovanni. Con il raggiungimento dell’età di venti anni ha inizio l’epopea de Il soldato Giovanni (1913); chiamato alla leva, con destinazione Libia, partenza da Napoli, assegnato ai reparti dei cavalleggeri, aveva svolto diversi lavori, ma non aveva la licenza elementare; lui era baldanzoso, intraprendente; è molto amico di Nicola. Si vantava di sparare perché glielo ordinavano, l’altro dice che in fondo i libici sono quelli che difendono la loro terra. Un giorno in un mercato incontra un suo cugino, cittadino turco che gestisce un bazar ambulante (pag. 35), che si identifica come Giovanni Rescigno. Per convalescenza rientra a casa senza avere potuto salutare l’amico Nicola. Con l’approssimarsi della Grande Guerra (1915) Giovanni fu destinato sul fronte contro gli austriaci a far parte della “pattuglia della morte”. Fatalità vuole che durante una battaglia s’imbatte con Nicola morente, che fa appena in tempo ad affidargli le ultime volontà: il suo pensiero per l’amata Bettina. Un anno dopo si guadagna i gradi di caporal maggiore e una medaglia di bronzo. Durante una licen-


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za “Trovò la matrigna più curva. I vecchi più vecchi... Di alcuni amici, già molto anziani quando li aveva salutati, restava il ricordo.” (46); decide di andare a trovare Bettina, quando una vecchia contadina gli riferisce che lei s’era sposata con un uomo “un po’ più anziano … però ha una posizione… si sono sposati una quindicina di giorni fa… Lei, la Bettina, era fidanzata con un bellissimo ‘guaglione’ del quartiere… un amore pazzo il loro… da romanzo… partito per il fronte non se ne è saputo più niente… la miseria ‘signuri’ è una brutta cosa. Povera figliola senza parenti… mica si poteva dare ai malaffari…” (49, puntini di sospensioni in parte nel testo). Luoghi richiamati sono: Udine, Cividale, Motta di Livenza, Caporetto, l’Isonzo, il Piave, Trento. Durante la libera uscita, nel padovano, il soldato incontra una bella ragazza che lo fa sognare per una notte; quando poi per la strada di ritorno apre il pacchettino donatogli dalla donna, vi scopre dei preservativi e commenta: “Ma guarda che razza di puttana mi doveva capitare tra i piedi… e io che quasi quasi avevo pensato di fare le cose sul serio” (56). Intanto la spagnola mieteva vittime più della guerra e così egli trascorre una licenza per convalescenza a casa e ha modo di pensare al futuro. Dà una mano alla mammella nei campi e sa di Luisella (nonna materna dell’ autore), la sarta più brava del paese, vedova con tre figlie nubili; lui fa un pensierino per Sisina (madre), che aveva ricevuto una buona istruzione scolastica, seguono Mariuccia e Cettina. Alla candidata desiderata manda la proposta di matrimonio tramite lo zio compare, così i due cominciano a frequentarsi, in casa, secondo le usanze.

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Giovanni congedato il 31 agosto 1919, sposa Sisina, in assenza della Luisella non risparmiata dalla epidemia. Lui focoso, risoluto e spirito laico, giudiziosa e religiosa lei. Lui bada alla campagna e svolge con carro attività di mercante di tessuti; la moglie gestisce un negozio e attende alle faccende domestiche. Dopo due anni ha luogo il primo parto, ma è andato male per inesperienza della levatrice, era un bel maschietto che si sarebbe chiamato Gioacchino. Poi ne giungeranno altri. L’ex soldato si industria in vari modi, per esempio compra dei maiali già ingrassati per scannarli e lavorarne le carni; ma una volta (pag. 75) un tizio, Aniello Sassolini, si presenta come amico del fratello Giuseppe, emigrato a Filadelfia e a suo dire benestante, che avrebbe commissionato una rilevante partita di salami e prosciutti. A spedizione avvenuta, dal porto di Napoli, l’ex soldato invia telegramma avvertendone il fratello, il quale è del tutto ignaro, così si scopre la truffa. Nel 1923 si respira aria politica diversa, così Giovanni si iscrive al fascismo. Ai figli Luisa, Giusi, Ada, si aggiunge Enza e dopo sette anni dalla nascita di quest’ultima, finalmente arriva un maschietto che fa esultare il padre. Il bambino che porta lo stesso nome del padre, Giovanni [il nostro Gianni, 1937], viene nutrito da un donnone, Lella, che aveva abbastanza latte; purtroppo Tonino, figlio della nutrice, muore. Nel 1940 Giovanni è richiamato alle armi, nuovamente soldato, saluta la moglie e i figli (pagg. 81 e 89). Rassicura la moglie: “Io faccio ciò che mi dicono di fare. Ormai ci sono e ci devo restare. Ma che ne sai tu di queste cose!... Sei femmina e fai la femmina!” (81). Viene assegnato ad una batteria antiaerea in Sicilia, in prossimità dell’Etna (Barriera del Bosco). Sisina intanto aiutava con i prodotti della terra chi ne aveva bisogno, anche se durante la notte alcune delle persone beneficate la ripagavano derubandola. Intanto zia Concetta vive in apprensione, ha il marito in America e il figlio in Albania. Gli americani avanzavano in Sicilia e i nostri indietreggiavano, così Giovanni si ritrova a Castellammare di Stabia (Napoli). Al suo rientro a casa di-


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strusse la camicia nera ed eliminò ogni segno della sua militanza fascista; quando gli angloamericani giungono a Salerno, vive nascosto in soffitta per sottrarsi alla loro vista, fin quando non fu sicuro di uscire. Gianni Rescigno non ha indugiato in descrizioni di vario genere, ma possiamo immaginare case crollate, come quella di zia Loretta (pag. 96, cugina di Sisina), per via dei bombardamenti; fatti di guerra, episodi di suicidi per non cadere nelle mani del nemico o di diserzioni per paura (a Caporetto); l’uso di qualche breve espressione in dialetto campano, siciliano o friulano. Il racconto si conclude fin quando il soldato Giovanni è più che novantenne e continua a meditare: “Nicola, amico mio, tu certamente sei in un posto buono, tu m’insegnavi e non capivo… che testa di cazzo sono… perdonate Vergine santa, m’è scappata la parola… perdonate.” (91). Dalla Bio-bibliografia indicata, apprendiamo che è copiosa la produzione delle opere il più delle quali con prefazione di Bàrberi Squarotti, segno che il critico tiene in buona considerazione il Nostro. A mio parere questo romanzo risente, delle reminiscenze di un vegliardo raccolte dal figlio, per via dei tempi verbali che fanno pensare a digressioni e a flash-back. Piuttosto mette in luce, non tanto il racconto in sé, simile a tanti altri del suo genere, quanto alcuni aspetti di natura antropologica: secondi e terzi matrimoni, mortalità infantile, analfabetismo, difficoltà di comprensione fra polentoni e terroni, battibecchi tra guaglioni e picciotti, solidarietà nel ceto contadino, diversa coscienza nella concezione della guerra nel caso di occupazione rispetto al caso di riappropriazione del territorio, ingenuità di un meridionale che scambia un incontro erotico per un impegno per tutta la vita, la considerazione in cui era tenuta la donna-femmina, l’atteggiamento di un vero fascista; e da controcampo la consapevolezza nelle figure marginali (Nicola, Mariuccia) che giudicano che “Le guerre bisogna sempre evitarle: il mondo vuole pace.” (pag. 61). Tito Cauchi GIANNI RESCIGNO, IL SOLDATO GIOVANNI, Genesi Editrice, Torino 2011, Pagg. 112, € 14

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VELIERO FIORITO Veliero fiorito il mio balcone. Chiudo gli occhi e mi stendo sopra una fetta di sole nel viola delle pervinche. Il vento scuote la tenda vela per viaggi senza scali. Veliero fiorito il mio balcone. Con gli occhi chiusi all’orizzonte posso fingermi spiagge dorate e palme e il cielo che bacia il mare. A richiami risa si alternano nel dolce sciacquio della risacca. Veliero fiorito il mio balcone. Appena gli occhi riapro, la gente per la strada impreca nell’affanno del giorno e l’eterno, sordo, infernale tramestio delle macchine. Domenico Defelice

INCOSCIENZA Da studi sul cervello sembrerebbe che quello di cui i ciechi sono privi è la vista a livello cosciente non - a livello inconscio - la visione. Uè, non fu un sordo a comporre la Nona? Corrado Calabrò Roma

AALLELUIA! AALLELUIA! ALLELUUIAAA! 8/10/2016 In Italia, per gli Inglesi, si parlano tre lingue diverse: Italiano, Italiano napoletano, Italiano siciliano. Alleluia! Alleluia! Per gli abitanti di Albione, insomma, siamo fermi al primo 1800, se, a chi si appresta a frequentar le scuole, chiedono che ne indichino una nei loro moduli d’iscrizione! Domenico Defelice


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Il Racconto

IL COMMISSARIO di Antonio Visconte

I

L professore Francesco Piscitelli era laureato in lettere classiche presso l’ Università Federico II di Napoli con ottimi voti. Mi par di vederlo tra il cortile del Salvatore e il chiostro di S. Marcellino, dove i svolgevano le lezioni di filologia e di geografia. Alla ottima formazione di base univa una moderna didattica suffragata dalla stima dei colleghi, che ogni anno lo eleggevano vicepreside dell’ istituto magistrale di Caserta, dopo il trasferimento da Capua. Venne il tempo degli esami di Stato e fu nominato presidente della commissione in una cittadina del basso Lazio, in provincia di Frosinone, nel frusinate, meglio conosciuto come la Ciociaria, terra austera di personaggi illustri, da Gina Lollobrigida a Giulio Andreotti, a Nino Manfredi e altri. La paura degli esami preoccupava gli alunni. “Perché ti vedo così angosciata?” chiedeva una madre alla figlia. “Non lo sai?” rispondeva costei, “deve venire il commissario”. “E che paura hai?” sosteneva la mamma, “hai sempre studiato e poi soltanto il presidente viene da fuori, mentre prima, tranne un solo membro interno, tutti gli altri erano esterni. Adesso sarete interrogati dai vostri stessi insegnanti che già vi conoscono”. “Però”, rispondeva la ragazza, “mi hanno detto che questo presidente viene dal sud ed è molto severo soprattutto con le donne e quando sono interrogate le alunne è sempre presente al colloquio, e se mi fa una domanda strana, io mi blocco e non vado avanti”. Questi discorsi non rimasero ristretti nell’ambito familiare, e divennero di pubblico dominio. I ragazzi ne parlavano dovunque, nei circoli, nei bar, nei negozi, nei giardini e in ogni angolo della strada. Erano atterriti per la loro scarsa preparazione, e più allarmati vedevi i commercianti. Il professor Piscitelli, colmo d’entusiasmo e dall’aspetto ieratico,

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volendo rifarsi delle umiliazioni subite durante l’anno scolastico ad opera degli alunni maleducati, desideroso di ripristinare la dignità del docente, pensò di sistemarsi in un piccolo appartamento e di provvedere alle necessarie vivande. “Lasci stare, signor commissario, mi pagherà la prossima volta, siamo a sua completa disposizione”, gli diceva il macellaio. “Non si preoccupi, signor commissario, sia il benvenuto”, gli sussurrava il fruttivendolo, “le ho preparato una squisita primizia”. “Ma lei scherza? signor commissario, prenda tutto il pane che vuole e pensi alla salute”, esclamava il panettiere, “al resto ci pensiamo noi”. Neanche il locatore accettò la pigione, ché mai un commissario deve pagare. Il professor Piscitelli aveva trovato la città ideale, dove la cultura, supportata dai titoli di studio, godeva ampio favore. Terminate le prove scritte, ritornò in giro per i soliti acquisti. “Pezzo di mascalzone”, gli gridò il macellaio, puntandogli in faccia un coltello acuminato, “hai preso la merce senza pagarla”. “Imbecille farabutto, da dove sei uscito”, gli rimproverò l’ortolano, lanciandogli contro le uova fradice, “devi ancora scontare i meloni, ma io ti mando in galera, asino qualificato”. Il panettiere lo accompagnò alla porta riempiendolo di ingiurie e il padrone di casa gli fece trovare le valigie lungo le scale. Afflitto e desolato, asciugandosi le lacrime sotto gli occhiali e mormorando sottovoce: “Questo è il paese dei pazzi”, si precipitò nella scuola e si rifugiò in segreteria. “Non è il paese dei pazzi”, precisò la segretaria, “è un paese come tutti gli altri”. “E perché agiscono in questa maniera?”, chiese Piscitelli. “Quando siete venuto”, specificò la brava donna, “vi hanno scambiato per il Commissario di Pubblica Sicurezza e la gente aveva paura. Una volta incominciati gli esami, si sono accorti dell’equivoco in cui erano caduti e la reazione è stata immediata. Purtroppo una cultura che non diventa potere, non vale


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niente, e poco contano i diplomi che diamo a questi alunni! Vi consiglio di mettervi in congedo e di scappare da questa zona, altrimenti la macchia si allarga e scoppia uno scandalo”. Il professor Piscitelli accettò il consiglio e a posto suo fu nominato un altro commissario, che non ripeté l’errore e mandò la moglie a fare la spesa. La cultura, crocifissa durante l’anno, neanche con gli esami, aveva potuto risorgere. Antonio Visconte

Pag. 33 te hacen compañía y que tus sueños van reacendiendo cada día nobles y generosos para servir a todos! Mi pensamiento estará contigo y lo que deseo es un !FELIZ CUMPLEAÑOS el día 3 de octubre, 2016 ! Teresinka Pereira USA

RECENSIONE

INVISIBILE PRESENZA

Non è da onesti, Barbaro, leggere la Ero(s)diade di Contiliano per via subliminale e dire tutto ciò gran poesia. nobis ti manca per le morti bianche che Ratzinger bianco tutù razzola ideologia e morti neri in sacrestia. Ma andiamo, Marta, via! Saran soltanto scherzi, nulla più! Domenico Defelice

La tua invisibile presenza mi fa compagnia mentre ascolto questo Notturno di Borodin, che la radio inaspettatamente mi offre, mentre io seduta in poltrona leggo un libro del nostro amico James, e mi riposo nell’attesa di una tazza di tè.

PORTE SUL MONDO

E il suo dolce finale è come una carezza che mi giunga da te.

Tante porte sul mondo ora s’aprono a me perché d’esse, nella maturità, possiedo le chiavi. Caterina Felici Pesaro

!FELIZ CUMPLEAÑOS, DOMENICO DEFELICE! !Victoria muy merecida es cumplir años y expresar placer en vivir el presente haciendo felices los de la familia y los amigos ! !Que tus ojos sólo vean la alegría de los que

Mariagina Bonciani Milano

D. Defelice - Casa a Crotone (china, 1961)↓


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I POETI E LA NATURA - 61

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di quanto sia vivere.”

di Luigi De Rosa

Domenico Defelice - Metamorfosi (1991)

IL MARE E LA VITA NELLA POESIA DEL PORTOGHESE FERNANDO PESSOA (1888-1935) “Al di là Al di là del porto c'è solo l'ampio mare... Mare eterno assorto nel suo mormorare... Com'è amaro stare qui amore mio... Guardo il mare ondeggiare e un leggero timore prende in me il colore di voler avere una cosa migliore

Sembra quasi incredibile che una situazione spirituale di così sottile smarrimento e di così fondamentale infelicità (il desiderio di una cosa migliore del vivere, peraltro comune a tanti poeti ... e non poeti) sia stata resa con così pochi ma efficaci tocchi. Si aggiunga che Pessoa, nato a Lisbona, rimasto orfano di padre a sette anni, cresciuto a Durban in Sudafrica dove il patrigno era console del Portogallo, tornato poi a Lisbona, abbia fatto per una vita (breve, peraltro) il “corrispondente commerciale in lingue estere”, e ostentasse di vivere non per poetare... Lavorava solo due giorni la settimana, si faceva lui l'orario di lavoro, era insomma una specie di free lance nel settore. Conosceva perfettamente l'inglese, avendo vissuto fin da piccolo in Sudafrica, lingua con cui aveva cominciato, peraltro, a scrivere poesie dall'età di tredici anni. Quelle in lingua portoghese le avrebbe scritte dal 1908 in poi. Ma la sua vita non aveva un ubi consistam. Beveva forte, tanto che morì giovane per una cirrosi epatica... Faceva aspettare una donna per ore all' appuntamento, poi non ci andava. Magari si faceva rappresentare da un suo libro, che mandava in dono, Mensangem, Messaggio. Era cristiano ma di una setta particolare, anzi al suo proposito si è parlato di neopaganesimo estetico, oltre che di poesia d'avanguardia. Non faceva vita di famiglia, viveva quasi sempre in una camera ammobiliata in affitto. Come autore e letterato, si considerava “uno” e “plurimo”. Scriveva col nome di Fernando Pessoa ma si immedesimava anche in altri poeti e scrittori da lui inventati di sana pianta, ciascuno con una biografia accurata (“eteronimi”, a fronte di “Pessoa”, ortonimo) e ciascuno con una propria ispirazione ed un proprio stile, come se fosse una persona in carne ed ossa. Nonostante ciò, a volte Pessoa fa professione di assoluta modestia: “ Non sono niente./ Non sarò mai niente./Non posso voler essere niente./ A parte ciò, ho in me tutti i sogni del


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mondo.”. Affermazione, quest'ultima, che chiaramente contrasta con l'altra secondo cui “Grandi sono i deserti. E tutto è deserto”. Infine, la “provocatorietà” di quel suo definire il poeta un fingitore: “ Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente.” Comunque, nella poesia proposta questo mese agli amici lettori (l'originale è in portoghese, una lingua che rende bene questo tipo di dolore esistenziale) è evidente la “dipendenza” dell'Autore dalla Natura, e in modo specifico dal Mare, di cui subisce il fascino come (quasi) tutti i poeti. Un mare che sopravvive a tutto, un mare eterno, anche se sornione, assorto, ondeggiante e mormorante. Una forza, se vogliamo, estranea all'uomo, ma che questi trasforma spesso in simbolo della propria esistenza, e che comunque carica di significati “umani”. Luigi De Rosa

DESIDERIO Mi è pace l’itinerario alberato del ritorno. Il guanciale è nei plenilunii che spiovono su ondulati miei cari colli. In inverno la pioggia danzava sul capo fanciullo e stralunavo come tordo in fondi oliveti. D’estate era oceano di luce. Ho desiderio di lucciole, di poggiare in un trivio e sostare - lago quieto che ha aromi e intorno biancheggiare di zagare. Rocco Cambareri Da Da lontano - Ed. Le Petit Moineau, 1970.

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DIVINA ILLUSIONE La complessità delicata, soffice terreno ferace il sorriso diffuso vibrante, le fattezze morbide, vivide palpitanti d vita felice. Un grande cesto di delizie, presto trasvolato tutto il contenuto fresco olezzante al primo mattino. La prendi fra le braccia sostanza vera, ma è pure parvenza inesistente al tatto, più visione agli occhi. Fiore in pieno sole fasciato da raggi eterei, fiore autunnale dai petali carnosi fra le spine della siepe. Lo sguardo ridente che brilla in estensione, come dietro esili colonne a spiare scherzosa si nasconde, trasparente cristallo si ritrova in pienezza raccolta. La veste di filo bianco traforata leggera avvolge la sua sempre subitanea presenza immersa nella luce per tutto lo spazio intorno. Fantasma sognato penetrato nell’animo. Trasumanata dal velo flessuoso sulle forme, illusione della mente, fiamma accesa sull’altare dei pensieri, preghiera che si innalza al Creato, apparizione colorata di cielo, in divina ascesa alle alte mete sublimi, anima soffusa di incenso. Lucente rete di abbaglianti incanti che prende facendomi vivere estasiato, librata dalla fosca caligine che pesa su ogni giorno. La vita intatta che percorre in alto per la immobile atmosfera. Bagliore in faccia, superate le realtà periture. Il sorriso illuminazione che è ampiezza della felicità immortale. Il fango dei giorni trascinato dall’onda che appesantisce le scarpe delle fragili forze. La fatale vita che si snoda pensa ai giorni dopo, lineari le idee scorrono, le cose lontane che saranno diverse. Leonardo Selvaggi Torino

IL CROCO Il Quaderno letterario di POMEZIA-NOTIZIE di questo mese è dedicato al saggio di DOMENICO DEFELICE NINO FERRAÙ


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Recensioni MARIA ASSUNTA ODDI NON LASCIARMI ANDARE GdC Editrice, 2010, Pagg. 80, € 10,00 Maria Assunta Oddi, nativa di Trasacco (L’ Aquila), vive a Luco dei Marsi, accostando all’ insegnamento l’amore per la poesia, riscuotendo riconoscimenti. La raccolta Non lasciarmi andare è dedicata alla madre “creatura così mirabilmente terrena da essere celeste”, elevando così un monumento alle madri e alle donne più in generale. L’ha fatto con uno stile grazioso aprendo i componimenti alla gioia qualunque sia l’argomento e con una esposizione espressiva solare, che si modula in cinque sezioni l’ultima delle quali è la eponima. Impreziosiscono l’opera, in copertina “L’Angelo” opera in ferro battuto di Mauro Petricca e all’interno belle raffigurazioni a colori dei pittori Stefano Lustri e Antonella Oddi sorella della poetessa. La prefazione è di Romolo Liberale il quale afferma che questa non è poesia d’evasione, ma è poesia intrisa di vita. Egli chiama a sostegno “l’ ispirato concetto heideriano secondo il quale il pensatore nomina l’essere, il poeta dice il sacro”, così Rimbaud per il quale “il poeta è veramente un ladro di fuoco”, e richiama altre autorevoli voci (Giovanni Paolo II, Platone, il profeta arabo Hadit, Jaroslav Seifert che vuole il poeta “come un uccello che vola nella rete delle stelle”). Infine assicura che Maria Assunta non sarà lasciata andare, perché entra in empatia con il lettore. Assistiamo a un dialogo continuo con la madre, “Apri il mio cuore/ alla bellezza eterna”, ne evoca le ruvide mani avvezze ai lavori dei campi, il viso

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color melagrana, che emana una luce che illumina la notte e schiarisce l’intero mondo, le rughe che le segnano il tempo. Sotto i nostri occhi si animano di vivacità i vicoletti del paese. La madre ha trasfuso nella Nostra l’amore per tutte le creature e per il cosmo intero; la madre il cui solo nominarla diventa una preghiera, un accostamento al Divino. Gioia, nostalgia e malinconia insieme, fanno Poesia. Mi immagino la Poetessa accoccolata fra le braccia della madre. Maria Assunta Oddi, non usa un registro solenne, ma mite, quello di una figlia bambina verso la madre. Non è solo recupero della memoria, che non guasta, ma è il dovuto riconoscimento alla madre, ai genitori, agli affetti familiari più in generale; questo dovrebbe essere la regola. L’opera è pervasa di ricchezza di emozioni d’amore di cui la poetessa si nutre, a differenza del deserto di sentimenti cui la società si dirige. “… nessuno/ può saccheggiare amore/ al cui sol pensare/ si strugge il tempo” (pag. 13). Campeggiano il silenzio, la luna ed elementi della natura che fanno lievitare la poesia ad una dimensione metafisica e assumono valenze simboliche. Il tempo che, invece di essere corrosivo, irrobustisce gli affetti. “Come fiabe narrate/ a fare addormentar fanciulli/ scriverò memorie quiete/ d’affetti sereni/ promesse di versi eterni./ Per te, madre.” (47). La madre è una presenza immanente e costituisce una dichiarazione di poetica, degna di lasciare un segno. La madre è una Madonna, non è quella figura stereotipata a misura dei salotti televisivi. La Nostra è figlia, vede sua madre giovane ma anche la vede invecchiare. Pensa anche alle donne meno fortunate, alle donne provenienti dall’Est a cercar miglior fortuna. Nel congedarsi ci consegna un’ invocazione: “Non lasciarmi andare/ come foglia d’autunno/ disperato volo senza ritorno/ nella notte delle vissute stagioni.”, significando che la memoria non deve svanire. Tito Cauchi

AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE Ed. EVA, Venafro, giugno 2016; Ad Aurora De Luca bisogna riconoscere il merito, e il coraggio, di essersi occupata, nella tesi di Laurea, di un autore non oscuro di certo (molti infatti lo leggono e lo recensiscono su PomeziaNotizie), cui tuttavia ancora non si riconosce, da parte dei Santuari della Critica italiana, lo spazio


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che s’è meritato (e continua a meritarsi) nella zona alta del “Vocale Elicona”. Il testo, pubblicato dall’Editrice EVA di Venafro (come sempre attenta alle novità) è il primo tentativo di sistemazione critica di una produzione letteraria espansa – per così dire - su generi diversi, dalla poesia alla saggistica, cui lo scrittore (calabrese di nascita, oggi laziale di residenza) continua a conferire frutti copiosi della sua tracimante genialità creativa. Dal contesto delle sezioni di che si costituisce il lavoro della De Luca (dalle iniziali note metodologiche ai saggi critici di chiusura) vien fuori il volto autentico di Domenico Defelice, che è quello sanguigno, dell’uomo figlio della terra che l’accolse infante / e lo nutrìa…Volto – aggiungo – marchiato a fuoco (si legga Diario di anni torbidi) dall’ esperienza di vita che l’ha temprato. Gli studiosi che torneranno sull’opera dell’ intellettuale pometino, destinati a crescer di numero negli anni a venire, non potranno prescindere dalle pagine della neolaureata De Luca, il cui nome di battesimo segna l’ Aurora di una nuova stagione di studi sull’opera complessiva del Defelice, ivi compresa – del medesimo – l’arte pittorica. Aldo Cervo

ANTONIA IZZI RUFO SENSAZIONI Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Il Croco di Ottobre 2016 è dedicato alle liriche di Antonia Izzi Rufo. “Sensazioni” è il titolo della raccolta perché la poetessa cerca di riportare, il più fedelmente possibile, nero su bianco quello che le provoca nell’anima il ‘vivere la vita’ circostante. Osserva il paesaggio, le persone, gli agenti atmosferici e molto altro lasciandosi rapire dalle sensazioni che le provocano, è così che il “vento che sferza sibila ride carezze di gelo spande sul viso brio negli occhi tepore nel cuore”. E a proposito del tempo che passa, la poetessa ha una sua convinzione “suoi burattini siamo, com’ esso vuole ci dipinge”. La Rufo con i suoi versi riesce a portare alla luce il bene e il male, i contrasti dell’ambiente e degli umani e anche quando la sua prosa è nitida resta sempre un’ombra di riflessione: “foschia nell’aria. Grigio il tutto e immobile…Lo sguardo dell’anima s’arresta…come in attesa: della luce del sole? Della speranza?”. Insomma la vita è un “Incanto”, piena di colori, fioriture, speranze ma ha il suo “Limite” nelle sofferenze, nelle difficoltà, nella morte. Però per lei (e forse anche per tutti noi) c’è sempre una “Melodia d’autunno” per

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la quale ha un debole, così come per l’amore per le poesie che la “manda in visibilio”: il cammino della poetessa (e di ognuno di noi) è descritto come solitario, su foglie scricchiolanti autunnali “ammucchiate dal vento negli argini delle strade”; una melodia che si fa musica, quasi a rischiararci la strada. Roberta Colazingari SALVATORE D’AMBROSIO DIECI X DIECI Brignoli Edizioni, 2016. Ha tutta l’aria di un poemetto religioso questo recente lavoro del poeta, scrittore, giornalista e pittore casertano Salvatore D’Ambrosio. Strutturato in due parti (Ascendere e Sillabe incise sulla pietra), il libretto si compone di 227 versi sciolti di varia lunghezza (127 in Ascendere e 100, ossia 10x10, in Sillabe incise sulla pietra). Il tutto sull’onda di una forte suggestione di reminiscenza biblica. La figura della “montagna“ – metafora della “vita”, intesa come viaggio duro e faticoso per “ascendere” alle vette della libertà e della sapienza, che è “luce” dell’intelletto – e dello “scalatore” metafora dell’uomo che ha ricevuto dall’Alto un carico di responsabilità, quale risposta ferma, risoluta e inderogabile ad una chiamata - dominano la prima parte. Isaia, con l’espressione “monte del Signore” indica “la casa del Dio di Giacobbe” e su quel monte, secondo la sua visione, sarà stabilita la Chiesa di Cristo. Un cammino in salita, fatto con fervore e prudenza, spesso in solitudine, quella dell’uomo che aspira al possesso “della piena luce”. Un cammino fissato sulla volontarietà, che non prevede soste, che nega dubbi e ripensamenti nello “scalatore”, teso anima e corpo alla conquista della vetta; è pur vero che le conquiste “sfiancano, ma sono prova / di lealtà, di fedeltà”, di impegno a rimanere sulla retta via, a persistere nelle proprie decisioni e nelle proprie azioni, se queste sono rivolte al Bene, se finalizzate ad accrescere la fedeltà alla legge morale. Esempio tangibile di risposta alla “chiamata”, D’ Ambrosio indica quella di Mosè che, all’invito “categorico” del Monte Oreb: “Muoviti. Fammi vedere quello che sai fare”, risponde sollecito “senza tentennamenti o alternative”. Raggiunta la vetta dell’Oreb, non senza fatiche, lacerazioni fisiche e sfibranti apprensioni, Mosè può suggellare uno nuovo patto di fede integra con il Dio di Abramo, di Giacobbe e di Isacco attraverso l’osservanza delle leggi divine del Decalogo, del codice dell’Alleanza e delle leggi religiose.


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La “montagna” da conquistare è alla portata di tutti. Tutti vi possono ascendere, rispondendo alla chiamata e affrontando con ferma volontà la roccia del proprio destino, le infinite traversie che di volta in volta si frappongono al raggiungimento della “ricchezza” interiore, dell’esperienza vissuta come “dono”; dono da vivere come testimonianza di fede ai valori che danno senso e pregnanza di promesse alla vita. Raggiunta la vetta, ossia la pienezza di se stesso nella libertà e obbedienza alle sollecitazioni morali e religiose, affrancato da condizionamenti limitativi delle facoltà di pensare e agire a fin di bene, l’uomo che ha impresso nel cuore quanto “nella pietra è scritto a carattere di fuoco” e “fortificato da una indefinibile potenza”, può tornare alla “pianura”, ai suoi impegni quotidiani, a relazionarsi agli altri con sincerità, umiltà e lealtà, “esausto ma felice della conquista”, reso “muto non per lo sfinimento ma per l’immensità che lo riempie”. In questa dimensione culturale e spirituale sospesa tra la terrestrità e la soglia dell’infinito, sintetizzata da Immanuel Kant con la felice espressione “La legge morale dentro di me e il cielo stellato sopra di me”, il poeta colloca l’uomo “fiero della sua conquista di alleanza”, del suo cammino, come dice Isaia, “nella luce del Signore”, ossia dentro le “regole” stabilite con l’Alleanza. La rivelazione di Dio a Mosè è anche manifestazione del suo amore in senso materno, stabilendo con Israele lo stesso rapporto che unisce la madre al figlio: rapporto di responsabilità, fiducia, coerenza, lealtà, fedeltà e obbedienza ai reciproci doveri. Una madre, una vera madre ,“guscio dell’ umanità, per elezione della divinità” è tale proprio perché non si dimentica né abbandona i suoi figli. Così Dio: sempre fermo e coerente nel suo amore verso l’umanità. Agli uomini, fortificati nella saggezza e nella responsabilità, il compito di “riempire il guscio sacro alla divinità”, di fare dei popoli della terra un popolo unico, unito nella concordia, stretto in un patto d’obbedienza alla legge universale del rispetto e della solidarietà, affinché (ancora Isaia) le “loro spade si trasformino in vomeri e le loro lance in falci”. Solo allora “una nazione non alzerà più la spada contro un’altra” e gli uomini non avranno più bisogno di imparare e praticare l’arte della guerra. Questo il messaggio che si ricava dalla lettura dei versi finali di “Ascendere”. Un messaggio, però, destinato a rimanere inascoltato dai mercanti di armi e dagli accaparratori di beni materiali, dai seminatori di discordie, egoismi - historia docet – fino a quando la loro perversa natura umana rimarrà ugua-

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le a se stessa. Homo homini lupus: una verità antica quanto il mondo; e oggi, nell’era dei più esasperati fanatismi, fariseismi e partigianerie; dell’arrivismo, dell’ottusità senza confini; degli integralismi feroci e spietati; dei genocidi ed olocausti che vengono perpetuati per soddisfare la sete di sangue e di dominio di satanassi usciti dalle fiamme dell’inferno, il lupo si è fatto più subdolo e crudele che mai: non conosce né ragione, né amore, né pietà, né misericordia, ma soltanto l’istinto bestiale dell’uomo delle caverne. E come tale agisce, non conoscendo altro che il tornaconto personale o di parte. Il secondo modulo, posto sotto l’etichetta “Sillabe incise sulla pietra”, riverbera l’insegnamento dei Dieci comandamenti, e perciò si articola in dieci “porte” e ogni porta è descritta con dieci versi; è così spiegato il titolo della raccolta: Dieci x dieci. Prima porta. Ubbidiente alla chiamata, Mosè salì alla vetta del monte Sinai (Oreb), “dove il traguardo-limite sgomenta”; non vide il volto del Signore, ma ebbe la “percezione” della sua presenza, delle sua identità unica e assoluta “nel categorico amorevole” annuncio: “IO SONO IL SOLO”, non avrai altro Dio fuori che me. Seconda porta. All’annuncio seguì “il segno a fuoco”, indelebile e indistruttibile, perché uscito da mente divina e impresso nel cuore dell’uomo; segno di fedeltà reciproca, rappresentato dalle tavole della legge: segno di una presenza interna ed esterna all’uomo, e quindi di una fedeltà senza condizioni. Terza porta. Dio è l’Uno, Colui che è, che è sempre stato e sempre sarà. Il suo nome, in ebraico è Jahvé; nome sacro, da non pronunciare “invano”, nemmeno quando lo si trovi scritto nella Bibbia; sarà quindi indicato in eterno come Adonai, “il Signore”, Colui che “fece il mondo in un impeto di entusiasmo”. Quarta porta. Ricorda che accanto alla necessità, all’importanza, utilità e sacralità del lavoro, - inteso, naturalmente, non come sfruttamento dell’ uomo sull’uomo, ma in una forma di uguaglianza nella distribuzione degli utili - c’è la sacralità del giorno del ringraziamento – lo shabbat, giorno di riposo e di preghiera - dedicato al Signore. Quinta porta. L’uomo, divenuto adulto, deve assumersi la responsabilità di costruire una nuova famiglia, di trovarsi “compagnia e sostegno”, di amare la sposa e di procurarsi i beni necessari per sé e i membri della sua casa, senza però mai dimenticare di “onorare sempre la casa che prima aveva lasciato”; cioè: amare e onorare il padre e la madre. Sesta porta: Adamo ed Eva, “i due primitivi di Elohìm” (altro termine per indicare Dio), al tempo


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di Mosè, potevano vantare una lunga discendenza, la quale, all’uscita dell’Egitto, si trovava con “il mare chiuso” alle spalle e “davanti un deserto”. Fu questo “il momento dell’alleanza”, del dono del Decalogo, della consegna, da parte di Dio, delle “regole” che permettano a ciascuno di vivere e costruire il proprio avvenire nella giustizia e nella santità. Settima porta. Contiene la distinzione tra carne e spirito, tra i beni materiali e i beni spirituali. L’ uomo deve bandire da sé ogni avidità, ogni bramosia, né desiderare né invidiare i beni degli altri, ma di accontentarsi di quello che possiede, “che non è mai poco”. Egli, creatura di Dio, impasto di terra e soffio divino, è divenuto carne “per opera dello spirito” e, quindi, “risponde allo spirito e non alla carne”; ubbidisce alle regole stabilite con “l’ Alleanza” e non ai suoi istinti sensuali. Come “uno e per sempre è Alohìm”, così è, e deve essere, l’ integrità morale dell’uomo, nella sua perfetta compiutezza di carne e spirito, nella sua fedeltà ai valori spirituali. Ottava porta. Nemmeno alla terra l’uomo deve far mancare il suo rispetto, perché da essa Dio ha tratto la “sostanza” per crearlo. È un errore e un delitto accanirsi “su di essa per maggiore profitto: si vendicherà”; Ogni “torto” fatto alla madre Terra è sempre frutto “d’ignoranza”; è paragonabile all’ atto del “predone che spoglia sua madre”. Nona porta. Dispone l’uomo al rispetto della Legge. Egli deve camminare non all’ombra ma alla luce della “verità”; “il falso, infatti, è bestemmia senza riscatto… è un macigno che schiaccia”. È obbligo dell’uomo fissare nel cuore il significato dei “caratteri” incisi a fuoco e per sempre sulle tavole dell’alleanza. Decima porta. È un invito all’uomo a imparare a “governare” i suoi appetiti, a non lasciarsi “sovrastare” da insane e smodate brame di ricchezza, da desideri che innescano la “scintilla di possesso e di saccheggio”. Essere paghi di quello che ognuno possiede – casa donna bellezza – significa non solo riconoscere che il lavoro della creazione “fu fatto per tutti”, ma che tutti possono godere dei suoi frutti come “primizia”, come dono elargito a ciascuno dalla divina bontà del Signore. Completa questo raffinato e interessante lavoro poetico, una nota critica di Mons. Raffaele Nogaro, il quale non esita a definire – e a ragione – la poesia di D’Ambrosio “nuova e ardimentosa” in quanto “riesce a evocare – in modo quasi epico – tutta la grande fatica dell’uomo che vuole giungere alla pienezza dell’essere”. Antonio Crecchia

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FRANCO DE SANTIS BARTALI... UN CUORE SUI PEDALI DVD - R 16x, 2015 Si tratta del lungo filmato di un incontro con Andrea Bartali (figlio del grande campione), organizzato, ideato e condotto da Franco De Santis, Domenica 19 aprile 2015 ore 18,00 presso il Ristorante La Fenice - piano superiore - Mirabello Sannitico - CB. In circa due ore, si percorre la straordinaria storia di successi e di coraggio di Gino Bartali, il quale non è stato soltanto un grande campione di ciclismo, ma un grande uomo, che ha profuso a piene mani il bene di nascosto, evangelicamente, perché soleva dire: “Il bene si fa ma non si dice” e: “Ci sono medaglie che si attaccano al petto... e altre che si attaccano all’anima”; di entrambe egli ne ha ricevute onestamente tante. L’incontro, inserito all’interno dei festeggiamenti di San Giorgio, patrono di Mirabello Sannitico, ha avuto il concorso di diversi Enti, Banche, Ditte e Associazioni e ha richiamato un pubblico colto e numeroso, anche al di fuori della cittadina molisana e della città capoluogo Campobasso, con la partecipazione, tra gli altri, dell’Università degli Studi del Molise, del CONI, della Fondazione ON. lus Gino Bartali, della Federazione Ciclistica italiana. Franco De Santis, nel tracciare la figura del grande campione, accennando agli avvenimenti e alla storia in cui il ciclista si è trovato a vivere, ha dato agio al figlio Andrea Bartali di puntualizzare avvenimenti salienti della vita del padre, ricordando che il libro da lui scritto nel 2012: Gino Bartali, mio papà (Ed. Limina), ha l’intento di fare chiarezza su molti aspetti, anche alla luce delle tante iniziative, in Italia e nel mondo, tendenti alla creazione di film e spettacoli su un personaggio complesso e non del tutto ancora esplorato. Questo suo libro va ad accrescere la ormai vasta bibliografia sul grande campione, aggiungendosi a quelli di Marcello Lazzerini scritto in tandem con Romano Beghelli, per esempio, e a quelli di Leo Turrini, Paolo Alberati, Paolo Costa, Giuseppe Castelnovi, Aldo Grasso, Oliviero Beha, Simone Dini Gandini, Leonardo Coen e tanti altri. Nel corso della cerimonia sono stati fatti passare, sullo schermo della sala, numerose fotografie (sottolineate da una canzone di Giovanotti) e spezzoni di film rievocativi recenti e di filmati del tempo. C’è stato l’intervento del Sindaco di Mirabello Sannitico (Dott. Luciano Di Biase) e del Sindaco di Campobasso (Dott. Antonio Battista), città nella quale la cerimonia ha poi avuto seguito, come ha avuto seguito alla Università degli Studi del Molise


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il cui Rettore (Gianmaria Palmieri) era pure intervenuto a Mirabello. L’aspetto più interessante del grande campione e il meno conosciuto è stato il suo contributo alla salvezza di circa 800 cittadini ebrei (alcuni dicono più di un milione) nel periodo settembre 1943 - giugno 1944, allorché, quale membro dell’organizzazione clandestina DELASEM, ha compiuto numerosi viaggi in bicicletta trasportando documenti e foto tessere nascosti nei tubi del telaio, con i quali una stamperia clandestina falsificava i documenti necessari a fare espatriare ebrei in pericolo di vita (per questo, dopo la sua morte - avvenuta il 5 maggio 2000 -, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel 2005 gli assegnava la medaglia d’ oro al merito civile). Ricercato dalla polizia, trascorse 5 mesi nascosto da parenti e amici a Città di Castello. Il 2 ottobre 2011 Bartali è stato inserito tra i Giusti dell’Olocausto nel Giardino dei Giusti del Mondo di Padova e il 23 settembre 2013 è stato dichiarato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem, memoriale israeliano delle vittime dell’olocausto fondato nel 1953, quale “riconoscimento per i nonebrei che hanno rischiato la vita per salvare quella anche di un solo ebreo durante le persecuzioni naziste”. Gino Bartali, che era nato a Ponte a Ema il 18 luglio 1914, come ciclista ha vinto numerose corse e tappe, locali, nazionali e internazionali, tra cui tre Giri di Lombardia (1936, 1939, 1940), quattro Milano-Sanremo (1939, 1940, 1947, 1950), tre Giro d’Italia (1936, 1937, 1946) e due Tour de France (1938, 1948). Il Tour del 1948 è stato particolarmente drammatico. In seguito all’attentato a Roma a Palmiro Togliatti, in Italia c’era pericolo di guerra civile; si dice che il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e Giulio Andreotti gli abbiano telefonato scongiurandolo di adoperarsi a vincere il Tour per sviare e calmare gli animi esacerbati degli Italiani; Bartali si trovava in svantaggio, rispetto alla maglia gialla, di 20 minuti, eppure riuscì a recuperare e a vincere con lo stesso ampio distacco. Una vita difficile, gloriosa e straordinaria quella di Gino Bartali, insuperabile per rispetto e calore umano, burbero solo all’apparenza, all’apparenza scontroso. Proverbiale il suo “L’è tutto sbagliato, l’ è tutto da rifare!”, col quale voleva esprimere il suo disappunto e il suo turbamento per le cose storte che travagliavano il popolo italiano. Uomo coraggioso e di morale profonda: mai una bestemmia, mai una parolaccia, mai il dir male degli altri. Fu, nel 1937, anche terziario carmelitano con il nome di Fra Tarcisio di S. Teresa di Gesù Bambino. Durante le corse lottava da valoroso ma sempre nel rispetto degli altri e degli avversari.

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L’amore per le due ruote, confessa il figlio Andrea, gli derivò dal fatto che, non potendo frequentare la sesta elementare al proprio paese, il nonno gli acquistò una vecchia e pesante bicicletta con la quale egli si recava a scuola a Firenze. L’unico momento nel quale Bartali pensò di ritirarsi dalle corse fu quando, nel 1936, il fratello minore Giulio mori per una caduta in una gara di dilettanti. Il trauma fu forte in tutta la famiglia, tanto è vero che - ha precisato ancora il figlio Andrea - da allora la moglie Adriana Bani (sposata nel 1940 e dalla quale ebbe tre figli: Andrea, Luigi e Bianca), il nonno e gli altri parenti si rifiutarono sempre ad assistere alle sue volate e ai suoi arrivi per paura che cadesse e si facesse male. Ero io solo, dice Andrea, che assistevo ai suoi scatti mozzafiato. Un incontro culturale, di storia e di umanità, spesso commovente, questo incontro ideato e condotto da Franco De Santis e che fa onore anche a tutta la comunità di Mirabello Sannitico, che riesce a sollevarsi di molto da quelle che sono, quasi sempre, le sagre che ogni anno si svolgono sul territorio della nostra Nazione. Il DVD, ricevuto il 9 ottobre scorso, reca, in prima e in quarta di copertina, due foto in bianco e nero di Gino Bartali; sotto quella in quarta, quella storica nella quale Bartali e Coppi si scambiano la bottiglia d’acqua, troviamo scritto: “Pochi sono gli uomini di squadra/perché solo pochi sono così grandi/da pensare al bene comune/prima che a se stessi”; in alto alla foto, il caro Franco ha voluto vergare di tutto pugno una dedica allettante quanto ambigua: “A Mimmo... un pezzo della storia d’Italia auguri per questo importante traguardo”. Dell’avvenimento hanno scritto diversi quotidiani e si sono interessanti, con ampi servizi, televisioni come Telemolise e Rai3 regionale. Di Bartali, negli anni cinquanta, siamo stati tifosi sfegatati e la visione di questo filmato ha, perciò, suscitato in noi nostalgie e ricordi di quando vivevamo in un ambiente difficile, ma animati da progetti e entusiasmi. Domenico Defelice

GIANCARLO BARONI I MERLI DEL GIARDINO DI SAN PAOLO E ALTRI UCCELLI Prefazioni di Pier Luigi Bacchini e Fabrizio Azzali, illustrazioni di Vania Bellosi e Alberto Zannoni Grafiche STEP, Parma 2016 C’è la Nota dell’Autore, la Dedica, le due Prefazioni di Luigi Bacchini e Fabrizio Azzali, le belle illustrazioni di Vania Bellosi e Alberto Zannoni, gli esergo, le pagine bianche... Un libro troppo carico


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per i nostri gusti, che lo rendono quasi frammentario, anche se poi, a lettura avvenuta, tutto sembra necessario, giusto. Ma 24 pagine diverse dal testo su 80 sono almeno una novità. Nella prima poesia “Sugli alberi”, che, assieme all’ultima “Davanzali e tetti”, Pier Luigi Bacchini definisce “simili a colonne che introducono ad un ambiente appartato e un poco enigmatico”, il poeta accenna ai pidocchi e agli altri mali che travagliano gli alberi al par degli umani; così, tra insetti vari, il cancro che, anni addietro, ha quasi sterminato gli olmi (ricordiamo il grande successo del dramma di Ada Capuana La morte dell’olmo, del 1976, Defelice Editore) e quello più recente “dell’inchiostro dei castagni”, viene smentito il nostro comune pensare e che, cioè, quella vegetale sia una vita idillica. I versi di Giancarlo Baroni grondano solare ironia, tra passeri che becchettano, che si nascondono “dietro le nuvole”, o che se la ridono infischiandosi persino “della nebbia”, che forano “col becco”. Far parlare gli uccelli e le piante, descrivere i loro comportamenti quasi simili a quegli degli umani con la differenza che il loro agire non è mai tragicamente doloroso e doloso come il nostro -, farlo con pacatezza e umorismo, è qualità rara, sicché, al termine della lettura, l’animo nostro si sente lieto e leggero. È la filosofia di Baroni: “prendere distanza dalle cose/allontanarsene. Non oltre gli uccelli/né sotto gli uomini,/amando invece questi/quanto più si è capaci di afferrare/i segreti dei primi./Pari perciò trascurando/le voci che promettono/di farti troppo dissimile da entrambi”. Nel libro di Baroni non ci sono solo i merli del titolo che, con il loro nero mantello, fan “paura all’ allocco”; ci sono fagiani, tacchini, anatre, fringuelli, storni, rondini, tarabusini, beccacce, quaglie, aquile, aironi e colibrì che succhiano il nettare “come mosche e farfalle”; ci sono ciurli e pavoni e non manca il feroce falco di palude, che fa il suo mestiere, quello di cacciar l’anatra e spopparsela tranquillo e beato, “dopo averla spennata”, uncinandola “con gli artigli”. C’è pure, cioè, la crudeltà naturale (giacché in natura è tutta una catena di crudeltà, un mangiarsi reciproco dalla terra all’uomo). Ma non troviamo solo pennuti, stanziali e migratori, in libertà e in gabbia; in questo bellissimo libro ci sono pure “vespe e calabroni”, alberi a volte umanizzati, paesaggi e ambienti - la biblioteca -, Parma e la storia, con personaggi come Federico II e Ezzelino da Romano; e c’è la Natura: i canti e “le voci flautate dei richiami”, “il torrente innevato”, “cespugli/d’erba selvatica”, il “mattino intorpidito e ruvido” e la nebbia, “gli odori della terra”, prugnoli e sambuchi, “bacche rosse di biancospino”, i “profumi dolciastri” dei tigli... Tutto un Eden, in-

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somma, nel quale non manca il serpente naturale e quello più feroce: l’uomo. Particolare rilievo va dato alle illustrazioni. Sono tutte belle e fascinose, assai poetici gli acquerelli a colori, di Vania Bellosi; estrose, meticolose, perfette, incantevoli le chine di Alberto Zannoni. Gli acquerelli di Bellosi e le chine di Zannoni? Sicuramente è così, ma perché non specificare quali lavori son dell’una e quali dell’altro? Domenico Defelice

FILOMENA IOVINELLA ODI IMPETUOSE Secondo Premio Città di Pomezia 2015, Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2016 Le porterò con me queste fiamme Una poesia senza virgole, un flusso in piena di irriverente passione per la vita, che la odia – un odio che è in realtà contrasto, contraddittorio – e quindi la ama: lascio triplicare nell’aria l’alone misterioso/ delle deliziose e impetuose odi di cuore. Belle e forti le immagini, amplificate da belle e forti sonorità, come schiaffi e carezze in una sola mano: Il vento mi porta lontano/penetra nelle orecchie e/ sibila incanto./ Il vento mi porta lontano/ brucia gli occhi e/ irrora lacrime. Poesia di attese e braccia, di entusiasmi furiosi ed effimeri, di pazzia gelida d’Alaska e calda come il sale salmastro dei Caraibi, poesia stupefacente che è un’ode all’energia. Poesia in quanto simbolo, altro da sé, simbolo che autonomamente crea e ricrea la realtà: ne esce una ode che è sogno ad occhi aperti, nata tra la folla e in mezzo alla natura, completamente scalza e nuda avvolta nel prodigio e che fisicamente si alza oltremodo, oltresenso, oltremisura. Filomena Iovinella ha confezionato degli echi di montagna, riverberi di voce che si diffondono nell’aria e riecheggiano nella cassa toracica come nelle gole rocciose. Aurora De Luca

ANTONIO CRECCHIA TAVENNESI NELLA GRANDE GUERRA Caduti combattenti e reduci Ediemme-Cronache Italiane Salerno Un pensiero veramente geniale e commovente quello che il tavennese Antonio Crecchia, ora termolese di adozione, ha dedicato in occasione del centenario della Grande Guerra ai suoi concittadini che parteciparono alla prima grande guerra mondia-


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le. Crecchia è poeta soprattutto, e lo è di una profondità e inarrestabilità che lascia stupefatti. Sono infatti oltre venti le sue sillogi: per non parlare dei saggi, delle ricerche storiche, delle traduzioni, degli articoli sparsi in decine di riviste letterarie e di cultura sia italiane che straniere. La sua vena è inesauribile perché ciò che gli viene dal più intimo non riesce a fermarlo. È un continuo pensare, ricercare, appuntare fogli e fogli che diverranno libri, articoli, recensioni per amici e per chiunque voglia un suo parere. Disinteressato, disponibile, non lesina, si dona, spende ore ma anche soldi pur di accontentare e soddisfarsi di questa sua grandezza d’animo e fame di cultura. È in questo spirito che dopo mesi di paziente lavoro di ricerca, di ore a tavolino a mettere in buon ordine gli appunti presi, che ha realizzato il più bello dei suoi desideri: scrivere, testimoniare, raccontare dei suoi paesani che sacrificarono insieme ad altri italiani la loro vita per la Patria. Ne è venuto fuori uno stupendo libro di 185 pagine di poesia inusitata, mai da altri sperimentata. Niente di avanguardista, di astrusa illeggibilità, di complessa forma ermetica dove i concetti e soprattutto le parole sembrano essere state catapultate da un mondo a noi ancora sconosciuto. Antonio Crecchia in modo semplice, lineare, con un lessico familiare a tutti ha tratteggiato figure umane che hanno fondato la nostra Patria. Innanzitutto la ricerca nei polverosi archivi comunali, statali, militari, per estrapolare tutti o quanti più possibili nomi di giovani tavennesi nati alla fine dell’ottocento e per questo chiamati alle armi nel primo conflitto mondiale. Il lavoro lungo e paziente non lo ha scoraggiato. Di questo gliene siamo grati e in modo particolare chi scrive, perché egli non si è accontentato solo di dirci l’anno di nascita di ogni soldato, ma anche la paternità, la maternità, il mestiere a cui si era votato, gli studi effettuati e soprattutto per me che sono uno storico-postale, quale reparto, reggimento, corpo d’armata aveva servito. Inoltre il grado che aveva in partenza e quelli acquisiti sotto le armi. Minuziosamente riporta di ogni soldato, come in un foglio matricolare le battaglie a cui ha partecipato, le ferite, gli atti di eroismo e purtroppo di molti anche il luogo e il motivo della morte. Ha fatto forse senza rendersene conto, non solo un’opera poetica e letteraria ma anche un lavoro di portata storica non indifferente. Tutti i dati riportati, per esempio, saranno da me confrontati con quelli oggi esistenti in diverse pubblicazioni di storia-postale sulla Grande Guerra, e sono certo verranno fuori dei riscontri di date o di

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altro, fino ad oggi ignorati. La prima per esempio sarà la revisione dei fatti che interessarono il giovane Giovanni(Guido) Suriano, a cui ha dedicato un capitolo a parte. Misteriosità non ancor risolta sulla morte di questo giovane tenente, sebbene come tante dimenticata, obliata come si diceva una volta, dal tempo. Molto bello il libro anche per il racconto, sempre in versi, dell’accoramento delle madri, delle giovani mogli, delle fidanzate. Particolare anche il suo sguardo a coloro che tanto eroi non furono. Molti chiusi nella loro umana paura, si diedero alla diserzione, alla vendetta, al ladrocinio. Non manca, da parte di Antonio Crecchia, un pensiero alla pace e a quel sacrario di Redipuglia, anche esso oggi un poco dimenticato, nel quale sono raccolte le spoglie di migliaia di eroi nazionali, alcuni segnati solo con un numero perché obliati anche nel nome. Opera questa di Antonio da diffondere in modo particolare nelle scuole, dove si opera ben poco sulle vicende italiane dell’ultimo secolo. Non c’è retorica in questo, né revisionismo o altro “ismo” che chi vuole aggiungere aggiunga, ma c’è questa necessità di ritrovarsi di una Nazione nella sua storia che, con tutti i difetti e le mancanze, l’ha però resa una della civiltà più progredite del mondo. Non dico solo bravo, ma anche grazie a Crecchia che ha fornito un tassello nuovo e importante per la storia dell’Italia. Salvatore D’Ambrosio

CLAUDIA TRIMARCHI LA FUNZIONE CATARTICA E RIGENERATRICE DELLLA POESIA IN DOMENICO DEFELICE Il Convivio Editore-2016 La tesi di laurea in lettere moderne di Claudia Timarchi diventa, per i tipi del “Il Convivio Editore”, un testo molto interessante su di uno scrittore del nostro tempo e soprattutto un significativo e completo esame dell’opera di questo scrittore, che è Domenico Defelice, e delle ragioni del suo scrivere. Claudia Trimarchi ha lavorato sotto la guida del professore Carmine Chiodo collaboratore tra l’altro alla rivista Pomezia –Notizie diretta e fondata da Domenico Defelice quarant’anni orsono. La peculiarità del lavoro della neo dottoressa è nel fatto che si tratteggia in modo quasi completo una figura della letteratura italiana degli ultimi cinquant’anni. Il lavoro minuzioso e profondo della Trimarchi


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dovrebbe far comprendere a coloro che ancora storcono il naso al cospetto di quanti rendono grande servizio alla cultura italiana, in speciale modo a quella letteraria, ma che per vizio tipico della umana fragilità, diciamo cosi per non polemizzare troppo, considerano i non accreditati agli esclusivi clubs letterari, dei dilettanti o ancora degli insignificanti scrittori della domenica. Si ripete in questi ultimi tempi da più parti, forse per ipocrita voglia di fornire una qualche consolazione, che siamo tutti dei “grandi minori”. Che in fondo il premio non serve: basta essere bravi. L’aggettivo minore qui ha solo un riferimento, e ci credo, a una insufficiente attenzione che quasi sempre è rivolta a coloro che non hanno megafoni mediali per diffondere più largamente la loro voce letteraria. Se si è grandi non si può essere minor. Non si fanno, come si evince dalla scrittura-ricerca della Trimarchi, cose complesse, articolate, profonde come è accaduto, in anni di lavoro paziente e dedicato, al nostro Defelice. E poi minori rispetto a chi? A coloro che gruppi di potere hanno deciso di considerarli grandi in virtù di essere “compagniucci della parrocchietta?”. Il termine minore, sfogliando un buon vocabolario, serve ad indicare piccolezza relativamente a quantità, numero, durata, importanza, qualità: tutte cose che invece non sono presenti nella produzione artistica del Defelice. Inoltre, ricorda la Trimarchi, il Defelice ama, preferisce i “poeti minori” e quelli che sono fuori dai formalismi delle mode e soprattutto distanti anni luce dal dio denaro. Ripugna i baci, gli abbracci, le pugnalate alle spalle, lo squallido cabaret che è di scena nei premi letterari. È felicemente estraneo alle terrazze sovraffollate dove si consumano i diabolici riti della scelta di cinquine da votare, per eleggere vincitorimeteore di cospicui premi. La sua rivista Pomezia-Notizie diventa per questo il suo veicolo principale di mecenatismo culturale. Il lavoro certosino e puntuale della Trimarchi disegna un profilo del Nostro di una precisione e una profondità di cui le siamo grati. La tesi-libro della Trimarchi si fa per questo piena di citazioni, frutto di paziente e tenace ricerca. Pur di essere il più possibile accorta e sincera nell’ analisi si è, oserei dire, letteralmente tuffata nel mare di carta che il Defelice ha prodotto. E ne è venuta fuori solo quando è potuta riemergere con il suo tesoro stretto tra le mani. Defelice, ci spiega la Trimarchi, come tutti i ragazzi del sud è pieno di desideri e di volontà. Ma come tutti i ragazzi del sud, trova sempre tanti ostacoli sulla sua strada.

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Il ragazzo Defelice però è duro, più duro della sorte che lo avversa. Intende perseguire la sua vocazione che gli pulsa dentro con una forza dirompente, che abbatterà qualsiasi ostacolo. Leggendo il lavoro della Trimarchi capiamo che la sua è esigenza spirituale: ancora più che intellettuale. Per questo il suo scrivere assurgerà a funzione di riscatto, di purificazione, di liberazione da una sofferenza di uomo del sud, nato in un piccolo e misconosciuto paese del sud. Avviene per Defelice, la stessa cosa che ha interessato anche altri poeti meridionali, come Alfonso Gatto o Quasimodo, che abbandonano coraggiosamente il sud, ma lo celebrano continuamente: mai dimenticandolo. Lo scrittore-poeta Defelice è vicino in questo anche a P. P. Pasolini: versa nei suoi scritti tutto il suo autentico dolore per la terra nativa. Come fa P. P. P. per il suo Carso. Anzi lo Scrittore si fa veicolo e novello propugnatore della causa Meridionale, che è soprattutto frutto di un immobilismo di popolo, votato più al ”lagnismo” continuo che all’azione. Il riscatto, la mutazione, il cambiamento di vita si realizza solo se c’è in ognuno il desiderio di acquisire una “mentalità nuova”. E con questo desiderio e con queste idee che il Nostro parte dal suo “nido-Anoia” e si reca a Roma, città mito degli anni “50-“60 di quel secolo definito breve, proprio per la quantità di mutazioni che ha prodotto. Il Nostro però non si lascia intimidire né dalla grande città, né dagli eventi tra cui quelli importanti del “68. La contestazione la attua, ma con il suo metodo: ovvero contestando la contestazione stessa. Il suo obiettivo è il cambiamento di una mentalità, che dovrà formare una generazione italiana e soprattutto meridionale diversa. A tale proposito, non c’è bisogno che citi io, la dottoressa Trimarchi riporta abbondanti stralci significativi delle opere del Defelice. La cosa che mi interessa di più è la sottolineatura di Claudia, che riconosce nella poesia defeliciana una ricchezza di autobiografismo, con un lirismo ricorrente di impronta molto classica o tendente a privilegiare le più nobili e antiche forme di questo tipo di espressione letteraria. Le astrusità incomprensibili delle così dette avanguardie, o delle fugaci parentesi di arte modaiole, lo disturbano, lo rendono spesso nervoso fino al punto, come è suo carattere, da attaccare senza peli sulla lingua gli artefici di questo scempio letterario. La tesi della Trimarchi, come del resto tutti i lavori di questo tipo, devono avere un piano, uno schema, una trama diciamo così da seguire.


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Dico solo per coloro che ancora non hanno la pubblicazione, che il progetto di lavoro si è realizzato sviluppando quattro parti. Sintetizzando: Vita e opera; motivi lirici e universalismo; questione meridionale e urgenza sociale; la concezione della critica onesta. Nell’affrontare questo ultimo punto mostra la nostra Claudia, ancora un altro aspetto della poliedrica cultura dell’uomo poeta Defelice. Non è cosa inconsueta, ma piuttosto evento strano, che quasi tutti i poeti o i letterati, più in generale, hanno anche una predilezione per la pittura. Infatti Domenico ha prodotto anche molto in questo settore (vedi l’ immagine di copertina del librotesi), con buoni risultati in quanto è stato sempre sorretto dal sentimento di amore per le varie espressioni artistiche. E colui che si interessa di arte prima o poi si cimenta anche con la critica. Non è un fatto di esibizione, è una necessità intima. E la Trimarchi è andata ad analizzare anche questo altro aspetto dell’ Hortus defeliciano. Ama egli la pittura del Gazzetti, del Mallai e dello Scutellà. E non sbaglia poiché questi tre artisti, in modo diverso sia tecnicamente che interpretativamente, fanno riferimento al mondo classico. Sono quindi vicini al suo modo di sentire. E se il modo di sentire le cose ci porta verso una liberazione da vecchi schemi ed abitudini, conducendoci in un modo nuovo, rigenerato, che ha fatto tesoro delle cose buone del passato bruciando tutte le inutili e dannose, ci siamo rinnovati anche noi, ci siamo rigenerati, abbiamo subito una catarsi. Anche su questo termine è inutile filosofeggiare, la Trimarchi ha fatto centro, poiché scrivere, poetare, disegnare, argomentare, sono per il Defelice motivo di ritrovata serenità, di acquisizione di una pace con se stesso, ma soprattutto con un piccolo paese che, come egli stesso in una vignetta scomponendo il nome scrisse A… noia, cogliendone, come fa Stefano Bartezzaghi maestro di giochi di parole, quel significato e significante inequivocabili. E penso non ci sia bisogno di spiegare quanto, nonostante vi fosse nato, gli stesse stretto e fosse culturalmente lontano dalle sue più profonde aspirazioni, pur continuando sempre ad amarlo. L’unica citazione, esistente nel testo della Trimarchi, che mi è inevitabile riportare, per dare un senso a quello che qui si è scritto e soprattutto a quello che ha scritto Domenico Defelice, sono questi due versi della lirica che Raffaele Mangano gli dedicò nel 1969: Un trionfo di civiltà è l’opera del suo pensiero,… Salvatore D’Ambrosio

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AURORA DE LUCA ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE Edizioni Eva, 2016 Aurora De Luca (autrice e operatrice culturale, già conosciuta e affermata nonostante la sua giovane età) con questa ricerca portata avanti per scrivere la sua tesi di laurea su Domenico Defelice, si propone di “tirare fuori il volto dell’uomo e il volto del poeta”. Per la sua disamina, presenta un miscellanea di opere dell’autore ed esplora il mensile da lui fondato nel 1973 (Pomezia – Notizie). Dalle numerose pagine consultate (epistolari, saggi critici, raccolte poetiche) emerge il ritratto di quest’uomo onesto, contrario ai cenacoli autocelebrativi, in lotta con le ristrettezze economiche giovanili, poeta e pittore di grande spessore, dilaniato dai drammi sociali della sua Calabria. Il libro apre come un fiore i suoi petali: citazioni di poesie di Defelice, col commento entusiastico delle sillogi. Tutte le opere su cui la De Luca si dilunga sono lette con profonda partecipazione emotiva (“Alberi ?”, “Canti d’amore dell’uomo feroce”, “La morte e il sud”, “Dodici mesi con la ragazza”). Per ognuna è pronta una notizia biografica che permette al lettore di seguire agevolmente il dipanarsi della vita dell’autore, via via più impegnato come collaboratore di riviste letterarie, sempre più apprezzato da critici e letterati. E poi, la sua più conosciuta creatura: “Pomezia - Notizie, definita da Vittoriano Esposito “un mensile culturale di alta caratura”. A questa testata coraggiosa hanno partecipato collaboratori di spicco. Tanti gli autori presenti nel quaderno letterario “Il croco” e i partecipanti all’annuale premio letterario. Come non citare il Defelice commediografo e i saggi sui pittori che ha scoperto? Un altro tesoro viene menzionato: le oltre quattromila lettere ricevute da Defelice (che ora sono nelle biblioteche di Pomezia e di Anoia). Molte sono state scritte da Francesco Pedrina, che per Defelice è stato un maestro, e della poetessa Maria Grazia Lenisa. In chiusura, questa approfondita analisi critica ci presenta un’intervista col Defelice. Molto belle le conclusioni di questo validissimo studio. La De Luca dice, tra l’altro, del nostro autore: “mi è caro, perché è capace di scendere sotto la scorza delle cose, senza per questo ignorarne la superficie. Defelice è corale, è ecumenico, è multi comprensivo: in lui piangono e ridono molte voci. Mi è caro perché ha il grande dono dell’ironia”. Elisabetta Di Iaconi


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D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE IL “VENERE LAVINIA” A LORELLA BORGIANI - La nostra collaboratrice poetessa Lorella Borgiani ha vinto la 28a edizione del Premio Internazionale “Venere Lavinia”, con la poesia “Sale di vento”. La Giuria era composta da Andrea Giuseppe Graziano, Anna Maria Amori, Silvia Matricardi, Michelangelo Pastore e Giampiero Valenza. La cerimonia di premiazione si è svolta il 17 settembre 2016 presso lo Stabilimento Balneare Roma del comune di Ardea (RM) gestito dai fratelli Angelo e Fortunato Cavola, i quali organizzano il Premio con la collaborazione dell’Associazione “La Chiarantana”. 2a classificata è stata Stefania Andreocci, 3a Gianna Braghini e a Lucia Vichi è stata assegnata la “Targa Marlin 2016”. Complimenti vivissimi. *** NICOLA LO BIANCO PREMIATO A PALERMO - Designati i vincitori del Premio Nazionale di Poesia Himera, IV edizione 2016. Nella sezione opere edite in lingua italiana, la giuria presie-

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duta dal prof. Tommaso Romano, e composta da Giuseppe Bagnasco, Rita Elia, Alfio Inserra e Maria Antonietta Sansalone, ha attribuito il primo premio a Nicola Lo Bianco di Palermo per l’opera “Lamento ragionato sulla tomba di Falcone” Ed. Coppola e Di Girolamo. Il secondo premio a Guarnieri Angelo di Arenzano (Ge) per l’opera “Tempo nostro” Ed. Melangolo. Terzo premio ex aequo a Emma Di Stefano di Brindisi con l’opera “Imprecisi passaggi di tempo” ed. Sillabe di Sale e a Luigi Tudisco di Bari per l’opera “Sera” Ed. Schena. Premio Speciale a Pasquale Attard con “Il tuo regno viene” Ed. Thule. Segnalazioni di merito sono stati attribuiti ad Alberto Criscenti di Buseto Palizzolo (Tp) con l’opera “Disincanti”; a Pietro Manzella (Pa) con l’opera “Semi” Ed. Laterza; a Bachi Dardani ( Mi) con l’opera “Un segreto ancora” Ed. Melangolo. Inoltre è stata assegnata una Targa alla Memoria a Veniero Scarselli, biologo fiorentino che ha dedicato la sua vita alla ricerca scientifica e alla poesia poematica. Durante la Cerimonia di Premiazione che si è svolta domenica 18 Settembre presso l’Aula Consiliare del Comune di Termini Imerese in Via Garibaldi 1, alle ore 17,00, sono stati insigniti di onorificenza, in memoria del musicista termitano Giuseppe Mulè, due realtà musicali termitane che ne onorano il nome: il Coro polifonico G. Mulè presieduto da Gloriana Solaro e l’ Associazione Amici della Musica G. Mulè presieduta da Vincenzo Corso. Inoltre è stato assegnato il Premio alla Cultura ad una prestigiosa personalità. Ecco la motivazione del Premio a Nicola Lo Bianco, firmata dal Presidente della Giuria Prof. Tom-


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maso Romano e dalla Presidente Rita Elia: “Poesia di testimonianza e denunzia, quest’opera di Nicola Lo Bianco affronta, supportandolo con intenso lirismo, il problema della discriminazione, della omofobia e di tutte le altre devianze che sono piaghe della nostra società civile. Lamento viscerale che si fa ragionamento con la empatia in progress di alcuni flash drammatici che il poeta fa, quale commosso cantore di un dolore insanabile e ingiusto che travolge famiglia e società e tutto livella con ipocrita indifferenza. La poesia di Lo Bianco è incalzante, a tratti anela a farsi corale come nel teatro greco e come questo si fa dramma nelle agorà assolate della nostra terra, dove sembra non esserci né libertà né giustizia. Personaggi noti o ai più ignoti attraversano, con la loro commotiva dialogia, il palco di questa meravigliosa rappresentazione creata da Nostro poeta, con intensità di dettato e originalità di stile”. *** PREMIO SPECIALE HISTONIUM A SALVATORE D’AMBROSIO - Per il recente volume 10x10 Sillabe incise a fuoco sulla roccia - edizione Brignoli di Caserta, con nota critica di Mons. Raffaele Nogaro Vescovo Emerito della città -, il nostro amico e collaboratore Salvatore D’Ambrosio si è aggiudicato, alla XXXI edizione del Premio Histonium 2016, il premio speciale UNICO per la Campania. Il prestigioso concorso nazionale di poesia e narrativa è presieduto dal prof. Luigi Medea e patrocinato dalla Regione Abruzzo, dall' Amministrazione Provinciale di Chieti e dal Comune di Vasto. *** ABBIAMO PERSO UN POETA E UN ABBONATO: CIRO ROSSI NON È PIÙ TRA NOI Un male fisico fastidioso,/ha fiaccato il tuo forte tronco,…. Ciro Rossi il 6 settembre scorso se ne è andato dalla famiglia, dagli amici, dalla sua amata poesia per colpa di un male che in tre soli mesi lo ha fiaccato, così come nella lirica che anni prima aveva dedicato alla memoria di suo padre nella raccolta FORME D’APPARENZA. Nato nel 1937 nella frazione Sala di Caserta, per necessità di lavoro conduce studi di ragioneria, ma la sua passione è altrove: nei versi, nella poesia, nello studio dei grandi classici. Trova solo negli anni “80 il coraggio di tirare fuori i suoi scritti, incoraggiato da Stefano Quinti, Luigi Pumpo, Brandisio Andolfi, Leonardo Selvaggi, Amedeo Anelli. Prende così parte a vari concorsi letterari soprattutto nella sua regione Campania: Città di Pompei, Primavera Strianese, Penisola Sorrentina, Aeclanum (Mirabella Eclano Av), Il Tripode di Crotone. Collabora con discontinuità al Gazzettino Casertano, alle riviste letterarie

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Sentieri Molisani e Pomezia-Notizie; sempre con significativi articoli. Pubblica nel 2006 per i tipi di Bastogi nella collana Il Liocorno, la raccolta Le Mani In Grembo, che è un omaggio, come si legge nell’esergo a: “…tutti loro che mi hanno voluto bene e che dal cielo mi guidano…”. Si ripropone nel 2009, sempre per la Bastogi nella collana Il Liocorno con FORME D’APPARENZA, raccolta che dedica alla sua amata famiglia. Scriveranno su di lui: Pasquale Martiniello, Leonardo Selvaggi, Brandisio Andolfi, Anna Gertrude Pessina, Tommaso Pisanti, Luigi Pumpo, Iliana Onesti, Giorgio Barberi Squarotti, Rina Gambini, Salvatore D’Ambrosio. Non gli mancarono anche il riconoscimento di numerosi premi e la presenza delle sue poesie in raccolte antologiche. Salvatore D’Ambrosio La Direzione e la grande Famiglia di PomeziaNotizie si uniscono al dolore dei familiari dei, parenti e degli amici. *** NOBEL... PALCOSCENICI - Il 10 dicembre 1997, l’Accademia Svedese assegnava il Premio Nobel per la Letteratura a un giullare saltimbanco di talento: Dario Fo (quante polemiche!); a quasi vent’anni di distanza, l’ambito premio viene assegnato ad un altro genio dei palcoscenici, degli stadi e delle piazze, di luoghi, insomma, dove convergono centinaia di migliaia di fans e di cultori: Bob Dylan. Il 13 ottobre 2016 Dario Fo è morto all’Ospedale Luigi Sacco di Milano, all’età di 90 anni e lo stesso giorno il palcoscenico dell’Accademia svedese, per riempirne il vuoto, si è affrettata a metterci sopra Bob Dylan. Nessuna ironia, la nostra. Sia Fo, sia Dylan sono entrambi mostri sacri, che hanno saputo conquistarsi denaro e successo con la concretezza delle opere e il Nobel è un vero palcoscenico, perché il Premio più prestigioso del mondo. È vero che le scelte annuali della Giuria non sono sempre condivisibili, ma è altrettanto vero che tutti vi aspirino e che sicuramente nessuno ci sputerebbe sopra. Però sono in tanti a rilevare l’anomalia di questi ultimi vent’ anni, e cioè, che pure l’Accademia svedese, ormai, non assegna quasi più il premio per la letteratura a scrittori e poeti puri e semplici, ma a “personaggi”, cioè, a scrittori e poeti che vivano particolari condizioni, che rappresentino particolari tendenze, che siano seguiti da grande pubblico il quale, a volte, mira a tanti altri valori più che a quello letterario. Fo e Dylan sono, tra l’altro, entrambi trascinatori di folle ed entrambi votati all’operaismo proletario, intellettuali spesso di parte. Fo, per esempio, ha militato sempre nella Sinistra e solo negli ultimi anni


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era approdato al Movimento 5Stelle. Dario Fo era nato il 24 marzo 1926 a Sangiano ed è stato uno straordinario giullare, commediante di grande intelligenza, scenografo, attore, scrittore, pittore, costumista, impresario e persino cantante. Nel 1954 ha sposato Franca Rame, con la quale ha fatto anche coppia di teatro fino alla morte di lei, nel 2013. Si è sempre proclamato ateo, ma soleva dire “Io sono ateo ma forse Dio mi sorprenderà”. Elencare le sue opere sarebbe troppo lungo, eccone solo alcune: Il dito nell’occhio (1953), Gli arcangeli non giocano a flipper (1959), Chi ruba un piede è fortunato in amore (1961), Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), Settimo, ruba un po’ di meno (1964), Mistero buffo (1969, forse l’opera sua maggiore), Morte accidentale di un anarchico (1970), Fanfani rapito (1989), Lu Santo Jullare Francesco d’Assisi (1999). Tutte le sue opere teatrali seguono e in parte rinnovano i canoni della Commedia dell’Arte e sono state rappresentate nei più importanti teatri del mondo. Tagliente la sua satira politica, che lo ha portato ad essere amato e osannato da alcuni e altrettanto osteggiato e odiato da altri. Tra i suoi romanzi: La figlia del papa (2014), Un uomo bruciato vivo (2015), C’è un re pazzo in Danimarca (2015). Non si contano i premi ricevuti e le onorificenze. Bob Dylan (il suo vero nome è Robert Allen Zimmerman) è nato negli Stati Uniti d’America, a Duluth, nel Minnesota, il 24 maggio 1941. Ha avuto due mogli e ben sei figli. Cantante, compositore, scrittore, poeta, pittore, attore, scultore, conduttore radiofonico. Un grande ecclettico come si vede, che ha cavalcato il movimento di protesta americano degli anni sessanta. Ma, secondo noi, è eccessivo paragonarlo, se non per aspetti marginali, a Thomas Eliot e a Ezra Pound. La sua musica va dal rock al blues al folk (non quello classico, ma il nord americano), generi tutti in qualche modo rinnovati. Il sociale nei suoi lavori ha quasi sempre come tema la classe operaia delle fabbriche, nelle quali si suda e si pena, e la vita alienata della moderna società, a volte senza un vero senso, priva cioè di valori. Anche per Dylan, come per Fo, evitiamo l’elenco completo delle sue opere, perché sarebbe troppo lungo; ne indichiamo alcune, almeno tra le canzoni: Desolation Row; Like a Rolling Stone; Don’t think twice, it’s all right; I ain’t me babe; It’s all over now, baby blue; I want you; Just like a woman; Stuck inside of mobile with the Memphis blues again; Positively fourth street; All along the watchtower; Lay lady lay; The man in me; Wigwam; Forever young; you’re a big girl; hurricane; Sweetheart like you; You belong to me. Tantissimi i riconoscimenti, tra i quali ricordiamo: Grammy

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Award alla carriera (1991), Polar Music Prize (2000 - si può dire il Premio Nobel per la musica), Premio Pulitzer (2008), National Medal of Arts (2009), Presidential Medal of Freedom (2012). D. Defelice *** A FIRENZE GLI STATI GENERALI DELLA LINGUA ITALIANA - Si sono svolti, a Palazzo Vecchio di Firenze, il 17 e il 18 ottobre 2016, gli Stati Generali della Lingua Italiana nel Mondo, con la partecipazione del capo del Governo Matteo Renzi, il quale ha auspicato che anche la lingua faccia parte, da oggi in poi, del nostro migliore Made in Italy. C’è stato pure, il secondo giorno, l’ intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La lingua deve essere motore non solo dell’esportazione del nostro immenso patrimonio culturale, ma dell’economia in genere e quindi mezzo strategico del quale servirsi per i propri affari l’industria ed il commercio. L’Italiano continua ad essere la quarta lingua parlata nel mondo, dopo Inglese, Spagnolo e Cinese, anche perché, nel mondo, ci sono circa 80 milioni di nostri emigrati e loro discendenti. È giusto che da noi si dia grande importanza alle lingue estere, continuando, però, a parlare e a scrivere italiano, a partire da chi ci governa, da chi rappresenta le nostre istituzioni, sia in patria che all’estero, non scimmiottandone, cioè, un’altra pensando, così, di essere più moderni e più internazionali. La nostra cultura non dovrebbe essere considerata come un retaggio stantio, immobile, che o prima o poi finirà per essere appannaggio solo di sparuti gruppi di studiosi, ma corpo vivo, dinamico, e quindi modificabile e ricreabile nel corso degli anni; simile alla lingua, insomma, suo indispensabile supporto. Pensare e parlare italiano non solo in arte, moda e cucina, ma in qualunque altra attività e mettendoci pure una moderata dose di orgoglio. Occorre destinare più risorse umane ed economiche per imparare a parlare e a scrivere italiano ai tanti immigrati, così come fanno altre nazioni, Germania in testa. La nostra lingua va difesa nel mondo come sul nostro territorio, Alto Adige compreso, dove c’è una erosione continua e silenziosa dei toponimi di località e paesi. Rispettare tutti e tutte le lingue, ma non dimenticarsi mai di essere, prima di tutto, Italiani. D. Defelice *** Novi Ligure celebra De Pisis con una mostra - A sessant’anni dalla morte, il Museo dei Campionissimi di Novi Ligure e il Centro Studi in Novitate onlus celebrano Filippo de Pisis con un’importante mostra bibliografica e documentaria, a cura di Andrea Sisti, che esplora l’attività letteraria del grande


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artista ferrarese, ripercorrendola a partire dai testi giovanili e sperimentali fino agli articoli eruditi, alle cronache parigine, agli scritti di critica d’arte e all’intensa produzione poetica. Filippo de Pisis scrittore. Dalle avanguardie al dopoguerra propone oltre cento pezzi, tra rare prime edizioni, riviste, manoscritti e libri illustrati. Il percorso espositivo è articolato in due itinerari paralleli e dialoganti, che si svolgono intorno agli importanti carteggi di Filippo de Pisis con Mario Novaro, direttore della rivista letteraria “La Riviera Ligure”, e con la scrittrice Sibilla Aleramo, conservati, rispettivamente, presso la Fondazione Mario Novaro di Genova e la Fondazione Gramsci di Roma ed eccezionalmente esposti insieme in questa rassegna. Alla mostra si accompagna un nutrito programma di eventi collaterali, dedicati a de Pisis e alla cultura letteraria italiana della prima metà del Novecento. Evento organizzato dal Museo dei Campionissimi di Novi Ligure e dal Centro Studi in Novitate onlus, con il sostegno finanziario di Banca Finnat, Lions Club Borghetto Valli Borbera e Spinti, Lions Club Gavi e Colline del Gavi, Lions Club di Novi Ligure. Informazioni utili Filippo de Pisis scrittore. Dalle avanguardie al dopoguerra a cura di Andrea Sisti 22 ottobre 2016 – 8 gennaio 2017 Museo dei Campionissimi, Viale dei Campionissimi, 2, 15067 Novi Ligure (AL) Orari di visita: da martedì a venerdì, dalle 15 alle 19; sabato, domenica e festivi, dalle 10 alle 19; chiuso il 25 dicembre e il primo gennaio info: museodeicampionissimi@comune.noviligure.al.it, tel. 0143322634 IAT iat@comune.noviligure.al.it, tel. 014372585 www.comunenoviligure.gov.it fb: Museo dei campionissimi. Ingresso: euro 7,00 (intero); euro 4,00 (ridotto). Ingresso libero per i bambini fino a 5 anni e i titolari di Abbonamento Musei e Torino+Piemonte Card. Riduzione per i gruppi, i soci del Touring Club Italiano, Dopolavoro Ferroviario, Coop Liguria e Novacoop.

LIBRI RICEVUTI CARLO DI LIETO - La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò All’interno, foto e riproduzioni in bianco e nero Roberto Vallardi Editore, 2016 - Pagg. 254, € 12,00. Carlo DI LIETO vive e lavora a Napoli. Docente di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, è assiduo collaboratore delle riviste “Ariel”, “Misure Critiche”, “Riscontri”, “Silarus”, “Vernice”, “Nuo-

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va Antologia” e fa parte della Redazione di “Gradiva”, oltre che di “Vernice” e de “Il Pensiero Poetante”. Ha a suo attivo pubblicazioni inerenti al rapporto Letteratura/Psicanalisi e saggi critici, in chiave psicanalitica, sulla produzione pirandelliana, su Carducci, Leopardi e Pascoli, sulla poesia OttoNovecento e su quella contemporanea. Critico militante, collabora a quotidiani con articoli letterari. Inoltre, ha scritto saggi su Papini, Bonaviri, Colucci, Mazzella, Calabrò e Fontanella e le seguenti monografie: “Pirandello e <la coscienza captiva>” (2006), “La scrittura e la malattia. Come leggere in chiave psicanalitica <I fuochi di Sant’Elmo> su Carlo Felice Colucci” (2006), “L’identità perduta”. Pirandello e la psicanalisi” (2007), “Pirandello Binet e “Les altérations de la personnalité” (2008), “Il romanzo familiare del Pascoli delitto, “passione” e delirio” (2008), “Francesco Gaeta la morte la voluttà e “i beffardi spiriti” “ (2010), “La bella Afasia”, Cinquant’anni di poesia e scrittura in Campania (1960 - 2010) un’indagine psicanalitica” (2011), “Luigi Pirandello pittore” (2012), “Psicoestetica” il piacere dell’analisi” (2012), “Leopardi e il “mal di Napoli” (1833 - 1837) una “nuova” vita in “esilio acerbissimo” (2014). Vincitore per la saggistica del 1° Premio del XLI Premio Letterario Nazionale, “Silarus” 2009, del 1° Premio Letterario internazionale 12a edizione “Premio Minturnae” 2009 e del 1° Premio Letterario Internazionale per la saggistica “Emily Dickinson”, XVII edizione 20132014. Componente della giuria del “Premio Corrado Ruggiero”, per la poesia e la narrativa italiana; socio dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” e dell’Unione Nazionale Scrittori e Artisti. I suoi testi sono in adozione presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, l’ Accademia di Belle Arti di Napoli e presso la Cattedra di Lingua e Letteratura italiana dell’Università Statale di New York. Dirige la collana “Letteratura e Psicanalisi” della Genesi Editrice e dal 2013 è componente la giuria del Premio Nazionale di Poesia, Narrativa e Saggistica “I Murazzi”. ** GIANCARLO BARONI - I merli del giardino di San Paolo e altri uccelli - Prefazione di Pier Luigi Bacchini e Fabrizio Azzali, illustrazioni di Vania Bellosi e Alberto Zannoni - Grafiche STEP editrice, Parma, 2016 - Pagg. 80, € 10,00. Simpatica la dedica: “Settembre 2016/A Domenico Defelice/che conosce i segreti/delle piante,/questo libro di voli,/canti, ali, fischi/e cinguetti/con stima e cordialità/Giancarlo Baroni”. Giancarlo BARONI è nato nel 1953 a Parma, dove abita. Ha pubblicato due romanzi brevi (Irene, Irene, 1992; Gli amici di Magnus, 1996 e sei libri di poesia: Enciclopatia


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(1990); Simmetrie e altre corrispondenze (1993); Contraddizioni d’amore (1998); Cambiamenti (2001); I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli (prefazione di Pier Luigi Bacchini, 2009; nuova edizione, ampliata e illustrata, 2016) e Le anime di Marco Polo 2015). Alcuni suoi racconti compaiono nelle raccolte Prospettive di fuga (Mobydick, 1993), Brevemente (Mobydick, 1996, pubblicato in seguito come allegato alla rivista “Avvenimenti”), Confesso che ho bevuto (DeriveApprodi, 2004). Del 2004 è un libro di riflessioni letterarie intitolato Una incerta beatitudine. Diverse sue poesie possono essere ascoltate nel sito di RadioEmiliaRomagna (a cura di Vittorio Ferorelli, letture di Fulvio Redeghieri) e in Rai Radio 3. Una scelta significativa di versi si trova nei siti on line www.italian-poetry.org. (tradotti in inglese dal poeta Max Mazzoli) e autori.poetipoesia.com. Un’ ampia scelta si trova inoltre nelle riviste e nei blog letterari “Poesia e Moltinpoesia”; “Poliscritture”, “L’Ombra delle Parole” , “Pioggia Obliqua”. Nel 2009, 2010 e 2011 ha letto a “Fahrenheit” (Rai Radio 3) numerose sue liriche, alcune in occasione del “Festival della Poesia” di Modena (2010). Ha collaborato per quasi vent’anni alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”. ** FRANCO DE SANTIS - Bartali... un cuore sui pedali - Incontro con Andrea Bartali (figlio del grande campione), Domenica 19 aprile 2015 ore 18,00 presso il Ristorante La Fenice - piano superiore - Mirabello Sannitico - CB. DVD/Film, della durata di circa due ore. In prima e in quarta di copertina, due foto in bianco e nero di Gino Bartali. Francesco DE SANTIS è nato a Campobasso il 28.11.1968. Risiede a Mirabello Sannitico (CB). Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli studi di Bologna, è dipendente della Direzione Provinciale INPS di Campobasso. INIZIATIVE CULTURALI SVOLTE IN MOLISE. A MIRABELLO SANNITICO (CB): 28.05.2008 Palazzo Spicciati IDEATORE e PRESENTATORE del Convegno “VI RACCONTO I MISTERI”. Un incontro tra storia, diapositive e filmati sui Misteri di Campobasso con la partecipazione (oltre alle autorità locali) del Presidente dell’Associazione Misteri e Tradizioni arch. Liberato Teberino. 27.02.2011 Palazzo Spicciati IDEATORE e PRESENTATORE di un Incontro sulla “GIORNATA DELLA MEMORIA”. Un incontro (oltre alla presenza delle autorità locali) tra storia, diapositive, filmati e soprattutto tra i ricordi di Nicolangelo Ciamarra (ex deportato Campi di Sterminio Nazisti) e di Giovanni Tucci (ex deportato Campi di Concentramento Nazisti). 03.04.2011 Chiesa

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S.Maria Ass.ta ORGANIZZATORE e PRESENTATORE del Concerto del Coro degli Alpini “Stella del Gran Sasso” con la partecipazione (oltre alla presenza delle autorità locali) della Sezione Alpini di Campobasso e del Presidente Sezione Alpini Molise dott. Robustini. 15.04.2012 Palazzo Spicciati IDEATORE e PRESENTATORE del Convegno “IL MOLISANO SAGGIO”. Un incontro (oltre alla presenza delle autorità locali) con lo scrittore e poeta campobassano Ugo D’Ugo tra poesie, racconti e … gli oltre 1750 proverbi e modi di dire del popolo molisano (raccolti nell’omonimo libro donato dall’autore gratuitamente a tutti i presenti). 20.01.2013 Palazzo Spicciati IDEATORE e PRESENTATORE dell’Incontro sulla “GIORNATA DELLA MEMORIA”. Un incontro (oltre alla presenza delle autorità locali, del Comandante della Guardia di Finanza Regione Molise Gen. F. Verdolotti, e delle telecamere RAI) tra storia, diapositive, filmati, musiche e soprattutto tra i ricordi di Michele Montagano (ex deportato Campi di Sterminio Nazisti – Medaglia D’Onore e Presidente Nazionale Vicario “Ass.ne Nazionale Reduci Prigionieri”). 21.04.2013 Palazzo Spicciati IDEATORE e PRESENTATORE dell’Incontro “GRONCHI ROSA e granchi rosa”. Un incontro (oltre alla presenza delle autorità locali e di diversi collezionisti filatelici) su originali bizzarrie filateliche con illustrazione ed esposizione finale di un esemplare originale del famoso francobollo Gronchi Rosa. 30.03.2014 Chiesa S.Maria Ass.ta IDEATORE e PRESENTATORE dell’incontro “A Siracusa… dove pianse Maria”. In occasione di questo evento, (organizzato in occasione della presenza a S. Giovanni Rotondo del Reliquiario della Madonna delle Lacrime di Siracusa, poi visitato attraverso un viaggio organizzato con riuscitissima partecipazione ) è stata raccontata attraverso documenti e filmati inediti, la storia della lacrimazione di una statuetta della S. Vergine avvenuta a Siracusa nel 1953 ancora oggi unico miracolo inerente lacrimazioni riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa Cattolica. 19.04.2015 Rist.te La Fenice IDEATORE e PRESENTATORE dell’incontro “BARTALI…un cuore sui pedali” In occasione di questo evento, arricchito dalla presenza di Andrea Bartali (figlio di Gino Bartali) è stata raccontata attraverso documenti e filmati inediti, la storia del grande campione di ciclismo capace non soltanto di compiere imprese sportive, ma anche atti eroici come il salvataggio dalla deportazione nazista di più di 800 ebrei durante il periodo della seconda guerra mondiale nascondendo e trasportando documenti falsi nel telaio della sua bicicletta. Da sottolineare (in una sala riempita da oltre 400 persone) la presenza oltre che


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delle autorità locali, anche del Sindaco di Campobasso Antonio Battista, del Presidente della Federazione Ciclistica Italiana sez. Molise dott. Silvestro Belpulsi, del Presidente del CONI sez. Molise prof. Guido Cavaliere e del prof. Russo dell’ UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DE MOLISE. Tutti questi enti in aggiunta alla Fondazione Gino Bartali hanno concesso per questa manifestazione il loro gratuito patrocinio. CAMPOBASSO: 27.09.2014 Piazzetta Palombo Nell’ambito delle manifestazioni culturali dell’ evento Vivi la città PRESENTATORE dell’ incontro culturale con il poeta e scrittore Campobassano Ugo D’Ugo nel quale sono state ricordate le poesie, i racconti e le opere dell’autore. 05.11.2015 Sala Consiliare IDEATORE e CONDUTTORE dell’ evento patrocinato dal Comune di Campobasso “LETTERE DAL FRONTE : la prima guerra mondiale raccontata dai combattenti”. In occasione di questo evento, arricchito dalla presenza di noti professionisti ed artisti locali quali ALDO GIOIA e FRANCESCO VITALE (letture), ALESSIA D’ALESSANDRO (canto) ed ENRICO VARRIANO (chitarra) è stata raccontata la Prima Guerra Mondiale 1915-1918 mediante filmati inediti, canti degli alpini e soprattutto attraverso la lettura di lettere provenienti dai luoghi di combattimento - cercando di avvicinare per quanto più possibile lo spettatore alle esperienze quotidiane dei soldati vissute direttamente dalla trincea. Un coinvolgente racconto dell’evento Grande Guerra attraverso le fasi più salienti dello stesso. Da sottolineare in sala oltre alla presenza del Sindaco di Campobasso Antonio Battista, dell’ Assessore alla cultura dott.ssa Emma De Capoa e delle Autorità militari dei Corpi dell’Esercito, Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza della Provincia di Campobasso, anche la presenza di una bandiera originale di guerra proveniente per l’occasione direttamente dal Museo Storico della Guardia di Finanza in Roma. EVENTO SVOLTO PURE NEI COMUNI DI PIETRACUPA (CB) 01.11.2015, FERRAZZANO (CB) 04.11.2015 MIRABELLO SANNITICO (CB) 08.11.2015, SAN MARTINO IN PENSILIS (CB) 15.11.2015. ** TITO CAUCHI - Carmine Manzi Una vita per la cultura - In copertina, a colori, “Le ricorrenze periodiche di Carmine Manzi”, mosaico cm 39,7 x 32 di Michele Frenna (1999); in quarta, a colori, foto di Tito Cauchi e di Carmine Manzi - Editrice Totem, 2016 - Pagg. 140, e. f. c.. Tito CAUCHI, nato l’ 11 agosto 1944 a Gela, vive a Lavinio, frazione del Comune di Anzio (Roma). Ha svolto varie atti-

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vità professionali ed è stato docente presso l’ITIS di Nettuno. Tante le sue pubblicazioni. Poesia: “Prime emozioni (1993), “Conchiglia di mare” (2001), “Amante di sabbia” (2003), “Isola di cielo” (2005), “Il Calendario del poeta” (2005), “Francesco mio figlio” (2008), “Arcobaleno” (2009), “Crepuscolo” (2011), “Veranima” (2012), Palcoscenico” (2015). Saggi critici: “Giudizi critici su Antonio Angelone” (2010), “Mario Landolfi saggio su Antonio Angelone” (2010), “Michele Frenna nella Sicilianità dei mosaici” (monografia a cura di Gabriella Frenna, 2014), “Profili critici” (2015), “Salvatore Porcu Vita, Opere, Polemiche” (2015), “Ettore Molosso tra sogno e realtà. Analisi e commento delle opere pubblicate” (2016). Ha inoltre curato la pubblicazione di alcune opere di altri autori; ha partecipato a presentazioni di libri e a letture di poesie, al chiuso e all’aperto. E’ incluso in alcune antologie poetiche, in antologie critiche, in volumi di “Storia della letteratura” (2008, 2009, 2010, 2012), nel “Dizionario biobibliografico degli autori siciliani” (2010 e 2013), in “World Poetry Yearbook 2014” (di Zhang Zhi & Lai Tingjie) ed in altri ancora; collabora con molte riviste e ha all’attivo alcune centinaia di recensioni. Ha ottenuto svariati giudizi positivi, in Italia e all’estero ed è stato insignito del titolo IWA (International Writers and Artists Association) nel 2010 e nel 2013. E’ presidente del Premio Nazionale di Poesia Edita Leandro Polverini, giungo alla quinta edizione (2015). Ha avuto diverse traduzioni all’estero.

TRA LE RIVISTE POETI NELLA SOCIETÀ - Rivista letteraria, artistica e di informazione, organo dell’omonimo Cenacolo Accademico Europeo, presidente Pasquale Francischetti, direttore responsabile Girolamo Mennella - via Parrillo 7 - 80146 Napoli E-mail: francischetti@alice.it Riceviamo il n. 78 (settembreottobre 2016), con in prima di copertina, a colori, una pittura di Alda Fortini e in quarta, sempre a colori, opere di altri artisti: della nostra collaboratrice Susanna Pelizza, di Leda Panzone Natale e di Adua Biagioli Spadi. Tra le firme di nostri amici e collaboratori - presenti in questo numero, ricco di poesie, foto, recensioni, bandi di concorsi, rubriche varie - segnaliamo: Giovanna Li Volti Guzzardi, Isabella Michela Affinito e Susanna Pelizza. * IL PONTE ITALO-AMERICANO - Rivista internazionale di cultura arte e poesia fondata e diretta


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da Orazio Tanelli - 32 Mt. Prospect Avenue, Verona, New Jersey 07044, 973-857-1091- USA. Riceviamo il n. 2/2016, col quale si festeggia il suo 26° anno di vita. In copertina, a colori, la foto di Orazio Tanelli e sua moglie Franca, con l’Oscar per la letteratura consegnatogli dalla “Ruggero II” Accademia di Palermo. Il prof. Orazio Tanelli il 10 marzo scorso ha compiuto 80 anni. Cogliamo l’ occasione per augurargli ancora lunga vita, come la auguriamo a Il Ponte Italo-Americano, che testimonia negli USA e nel mondo la nostra lingua e la nostra cultura. In questo numero - oltre ai tanti interventi del direttore, il quale, nella rubrica “New Book Reviews” inserisce uno stelloncino per il recente volume di Claudia Trimarchi “La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice” - troviamo una lunga lettera di Mariagina Bonciani, poesie, numerosissime foto e tanti articoli e note di vari collaboratori. * LA RIVIERA LIGURE - Quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro diretto da Maria Novaro - Corso A. Saffi 9/11 - 16128 Genova - Email: info@fondazionenovaro.it Riceviamo il numero 81-82, tematico come sempre, dedicato a Sandro Pertini: libertà e giustizia, con gli interventi di: Giuseppe Milazzo (Sandro Pertini: una vita per la libertà), Adriano Sansa (Vivamente lo ringrazio), Eliana Quattrini (Un carteggio durato vent’ anni), Eugenio Buonaccorsi (Sul palcoscenico nasce la Resistenza Il processo di Savona di Vico Faggi), Eliana Quattrini (Ricordando “Il processo”). A chiusura, “Il processo di Savona” nei giudizi della critica, con giudizi di: Gina Lagorio, Roberto De Monticelli, Giuseppe Bartolucci, Arrigo Benedetti, Tullio Cicciarelli, Giovanni Mosca, Raul Radice, Carlo Marcello Rietmann, Ettore Capriolo, The Times, Gian Maria Guglielmino, Alberto Blandi, Ugo Buzzolan. * FIORISCE UN CENACOLO - Rivista mensile internazionale di Lettere e Arti Organo Ufficiale dell’ Accademia di Paestum, fondata nel 1940 da Carmine Manzi e oggi diretta da Anna Manzi - 84085 Mercato S. Severino (Salerno). E-mail: manzi.annamaria@tiscali.it Riceviamo il n. 7-9, LuglioSettembre 2016, come sempre ricco di articoli, saggi, poesie, foto, notizie. In apertura, “Luigi Pirandello”, di Maria Cristina Iavarone Mormile; Carla D’Alessandro, Maria Teresa Epifani Furno e Anna Aita si interessano del volume di racconti di Anna Manzi La gelida badante venuta dall’Est, mentre Nazario Pardini tratta de La casa di mio nonno di Antonia Izzi Rufo; abbiamo ancora Orazio Tanelli, direttore de Il Ponte-Italo-

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Americano, che si interessa di “Arturo Giovannitti” e “Aldo Marzi”, Anna Aita di “Aldo Marzi”, Leonardo Selvaggi di Renato Fucini e Padre Pio, Anna Manzi di un saggio di Anna Aita su “Salvatore Veltre”; Anna Aita, ancora, recensisce il volume di Tito Cauchi Carmine Manzi una vita per la cultura e Antonia Izzi Rufo il volume La funzione catartica e rigeneratrice della poesia in Domenico Defelice, di Claudia Trimarchi, di recente apparso con il Convivio Editore. Lungo sarebbe riportare l’ elenco completo degli autori presenti e degli argomenti. * SOLOFRA OGGI - La Voce di chi non ha voce, direttore Raffaele Vignola - via A. Giannattasio II trav. 10 - 83029 Solofra (AV) - E-mail: solofraoggi@libero.it Riceviamo il n. 8-9 (agosto-settembre 2016), con centinaia di notizie e foto del territorio, delle feste e delle tradizioni. Da evidenziare il lungo articolo di Michele Brescia (“Ancora un angolo di Sant’Andrea”) e il ricordo, a firma di Vincenzo D’Alessio, del poeta Biagio Torello.

LETTERE IN DIREZIONE (Da Vicenza, Ilia Pedrina, 17 ottobre 2016) Carissimo, eccomi a te ed a tutti voi, eletti e dignitosi amici per parlarvi di lei, della giovane poetessa ed autrice Aurora De Luca, mentre qui a Vicenza siamo in pieno 69esimo percorso degli Spettacoli Classici al Teatro Olimpico, sotto la guida del grande Direttore Artistico Franco Laera1. Lei è Aurora tra le nuvole, quelle che si creano, stupende, nelle diverse ore del giorno e nelle notti di luna piena, in riverbero sulle terre che accolgono i due diversi modi del darsi della luce, mentre le forme si lasciano cogliere dall'anima. Porto con me i volumetti che mi ha inviato, con belle dediche, ma tra tutti spicca ' Aspra terra e creazione fertile nell'opera di Domenico Defelice', vero ed importante traguardo nel suo percorso interno alla letteratura contemporanea. In me si fondono insieme i temi e le atmosfere che lei ha evocato nell'intervista a te del 10 novembre 2015, le scenografie palla-


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diane del Teatro Olimpico e della Basilica, quest'anno aperta a molti spettacoli volti a celebrare William Shakespeare, i suoni arditi in lingua italiana e greca della 'Delfi Cantata' con Moni Ovadia ad evocare il poeta greco Yiannis Ritsos, i giovani Artisti del Teatro del Lemming con la guida e la regia di Massimo Munaro, nelle movenze scattanti, terse ed indifferenziate per una 'W.S. The Tempest' profondamente interiorizzata, perché raccoglie al suo interno il tema dell'esilio, dall'essere come dal divenire, dal tempo come da ogni luogo, dalla propria nuda ragione che muove in canto la morte stessa, per rivivere emozioni di una infanzia mai cancellata. In un abbraccio umido d'acqua battesimale diventa chiaro e vero che l'uomo si salva solo attraverso l'uomo. A te lo posso dire: sono figlia del Caos e della Luna, per questo non riesco mai ad isolare le esperienze e lascio che insieme si facciano strada e traccia profonda dentro di me. Non sempre mi accade, ma per Aurora De Luca e per tutti questi eventi è stato così: lei si è inserita senza sforzo tra occasioni di straordinaria intensità e le sue rappresentazioni in versi si sono fuse con le differenti interiorizzazioni. Mi hai scritto: '… Ti posso solo dire che la poesia in me è sempre nata improvvisa (e difficilmente correggo) da profonda macerazione, mai voluta, sempre come spinta irrefrenabile dopo aver a lungo meditato sul dolore che costantemente ci governa dalla culla alla bara. Così le immagini poetiche spesso trava-

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licano i nostri stessi sensi, il nostro stesso pensiero, diventano inspiegabili anche per chi le crea, perché ciascuno ci possa trovare le proprie ansie, se stessi, il proprio interiore. Se la poesia rispondesse pienamente a quel che vuole il poeta, non sarebbe poesia...' (Lett. del 19 agosto u.s.). Mentre ti sto scrivendo, mi arriva il tuo plico con il numero di ottobre. Apro. Leggo. Brividi mi prendono perché l'elenco delle vittime, soffocate e sfatte nel corso del terremoto di Amatrice, provenienti dalla tua Pomezia è agghiacciante. Bambini, ragazzi, giovani adulti ed adulti nella piena maturità, ognuno con il suo diritto sacro e santo a procedere nella vita, nel tempo loro concesso per fare esperienze. Hanno cominciato a morire quando qualcuno ignobile e senza moralità ha provocato rovinose conseguenze su terreni che per natura esigono l'intelligenza dell'adattamento e la preventiva ed opportuna scelta di adeguate protezioni. Non si perdonano questi errori, nemmeno se tra voi arrivassero in ambasceria i titolati preposti a far condoglianze d'occasione. Non si devono accettare - e l'oblio subitaneo è pure una forma di passiva accettazione - queste consapevoli irresponsabilità che provocano disperazione, sofferenza, morte. Non si deve tollerare, per questa come per altre situazioni d'emergenza importante ma non fatale, che la superficialità delle scelte ed il bambinesco, fiducioso dormir fra due guanciali possano prendere il posto di una faticosa e necessaria informazione professionale accuratissima, ciascuno secondo la propria competenza, resa principio di legge morale. Allora questo comunicato introdotto dalle nude e chiare riflessioni di Giuseppe Leone apre la nostra ragione alla luce del confronto con chi, come Leopardi e Machiavelli, hanno trattato di terremoti, di inondazioni e di virtù, una luce che arrivi il più profondamente possibile nella coscienza di ciascuno di noi: “...Un secolo è passato inutilmente, invece, per il nostro paese, dove si registra la totale immobilità di una storia che non vuole cambiare la sua narrazione e di una mentalità che non intende allargare le sue vedute...”


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(G. Leone: 'Leopardi, Machiavelli e il terremoto di Amatrice', Pom. Not. Ottobre 2016, pag. 2) Allora è questo il momento per dirti un grazie infinito a testimonianza del tuo coraggio, che sfida ancora una volta il perbenismo di facciata: “... Giudicateci come volete, dite di noi quel che vi pare, ma siamo assolutamente contrari a tali esibizioni da stadio durante la celebrazione di un funerale, qualunque siano le motivazioni che spingano a un tale comportamento. Le esequie dovrebbero tornare ad essere momento di raccoglimento e di preghiera, non sagra di paese, con giovani sorridenti a cazzeggiare, gente a chiacchierare; abbiamo visto pure qualcuno sorbirsi il gelato, trangugiare bibite fresche, cani ad abbaiare e a correre tra la folla... C'è molto da lavorare sull'educazione del nostro popolo e bisogna farlo in fretta ed ad ogni livello... Occorre ridare ad ogni avvenimento, ad ogni parola la loro verginità, togliere ad ogni cosa, ad ogni avvenimento, ad ogni parola il velo d'ipocrisia che li fascia ormai e li nasconde...” (ibid. pag. 3). Ogni tua parola è da interiorizzare, così come è accaduto per quelle che mi hai inoltrato in tempo reale: “... Se l' uomo decapitasse di tanto in tanto l'orgoglio, così come io faccio, nel mondo ci sarebbe meno violenza, quella sola della Natura (terremoti, cataclismi vari, malattie eccetera) ma non quella che l'uomo ogni giorno ci aggiunge in soprappiù...” (lettera del 19 agosto 2016) e mi richiama il testo poetico di Yiannis Ritsos sulla stupidità resa palese là dove dovrebbe essere di casa la spiritualità ed il cogliere lo spirito del tempo, del tempio e del luogo, di quella 'Delfi' in forma di cantata che il grande interprete Moni Ovadia ha portato in doppia sonorità, greca ed italiana sulla scena del Teatro Olimpico, con la traduzione a cura di Nicola Crocetti e musica di Piero Milesi, un evento tragico e mitico ad un tempo, colto nella discorsività di accadimenti quotidiani, nella necessita di comunicare tra generazioni anche attraverso il silenzio, nel turbamento profondo che si prova quando si intuisce il vero, senza veli, e lo si riesce a vive-

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re come sacro: “...Giù, sulla grande strada, si ode il rumore delle auto, delle radio, degli autobus di gitanti: gridi e canti, mentre qui domina già il silenzio sacro, quasi circolare. Le grida delle ultime cicale e dei primi grilli assumono un'altra intonazione nel dominio delle rovine...” (fonte internet: Moni Ovadia: 'Cantata greca: DELFI' di Yiannis Ritsos, registrato il 19 ottobre del 2012 a Reggio Emilia). Tornerò ancora su questo poeta del nostro tempo, su te e sul tuo modo di porti di fronte alle giovani generazioni, così come il vecchio custode del tempio sacro di Delfi, ora in rovine, si propone al suo giovane compagno, in quella stanchezza che sa di lento addestramento alla fatica dell'esserci, con un senso che va oltre la parola, nello spirito forte del tempo, del tempio, del luogo, perché anche i vinti riescano a farsi sentire, consentendo alla Storia di trasformarsi. Bisogna che tutto questo si faccia '...pietra buona/ nelle nostre mani', come canta in parole l'Aurora delle nuvole, che in sé stessa così si sente, come 'un seme di guscio/ che si propone radice e chioma', a cancellare tracce d'ogni male! A lei, a te, a tutti voi un abbraccio duraturo, che porti consolazione. Ilia


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Carissima Ilia, affermi di essere “figlia del Caos e della Luna” e l’Aurora, per certi versi, ti somiglia. Anche lei, infatti, viene attratta contemporaneamente e irresistibilmente da una selva d’ interessi: insegna nuoto, gestisce un Premio che va prendendo sempre più importanza a livello nazionale, organizza incontri, dipinge, studia e coltiva la poesia che è terra e radici, armonia che s’innalza e improvviso precipizio, cioè, il canto dell’animo e quello più intenso e passionale della carne. Tu la trascini e l’accompagni inerendola tra musica e scena e lei in quest’ambiente ci sta bene, con “un canto piano”, “il ritmo del fiume opaco” e una quinta col primo piano “di soffioni intatti”, un “muro bianco” e, più distante, “un mare e migliaia di sponde”, con “interminabili attracchi di fortuna”. Giallo, bianco, azzurro, il variopinto degli approdi e il concerto di voci, suoni e di rumori. Aurora non ama solo la sua e la mia poesia, ma tutta quella che la emoziona, del passato e del presente; si sta interessando criticamente di Antonia Pozzi e ha in programma Gianni Rescigno; io, se la memoria non m’ inganna, l’ho ospitata su queste pagine per la prima volta con un fantasioso racconto. “L’Aurora delle nuvole” è giovane e verrà

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anche per lei il tempo del sociale e della più stretta testimonianza, perché, chi ama come lei visceralmente la poesia, è impossibile che viva cantando solo il proprio interiore, mentre intorno s’addensa la violenza dell’uomo e scorre il sangue. Domenico 1 - Nasce nel 1948 ad Acquaviva delle Fonti in Puglia, si trasferisce a Milano nel 1966 dove inizia i suoi studi universitari in Teatro e Sociologia della Comunicazione. Si laurea nel 1970 con il massimo dei voti. Tra il 1968 e il 1970 dirige il CTU Centro Teatrale Universitario di Milano. Dal 1971 al 1975 è assistente presso la cattedra di Storia del Teatro all'Università Cattolica di Milano e pubblica studi e ricerche sul teatro contemporaneo. Nel 1974 fonda con Sisto Dalla Palma il CRT / Centro di Ricerca per il Teatro di Milano, diventando l'artefice della scoperta e diffusione in Italia e in Europa del teatro d'avanguardia, da Peter Schumann a Tadeusz Kantor, dal Living Theater a Robert Wilson, da Jerzy Grotowsky a Meredith Monk. Sin da quegli anni inizia a collaborare con i più importanti Festival e istituzioni culturali come la Biennale di Venezia, il Piccolo Teatro di Milano, il Festival d'Automne di Parigi, il Berliner Festspiele, l'Holland Festival, il Festival dei Due Mondi di Spoleto e di Charleston, il Lincoln Center Festival di New York, il Festival di Melbourne. Nel 1980 fonda, con altri sei direttori artistici europei, l'Extra European Arts Committee (EEAC), dando vita per oltre un decennio al Festival delle Arti-Extraeuropee nel quale trovano spazio le forme di teatro popolare provenienti da tutto il mondo. Nel 1985 fonda a Milano - insieme ad un gruppo di professionisti del Centro di Ricerca per il Teatro - un nuovo organismo produttivo, il CRT Artificio/ Centro Ricerche Teatrali con il quale sostiene per un decennio l'attività artistica di Tadeusz Kantor e del suo Cricot 2. Dopo aver valorizzato il patrimonio artistico della bicentenaria Compagnia Carlo Colla e Figli, alla scomparsa di Tadeusz Kantor continua la sua attività produttiva ispirata al rinnovamento della scena teatrale con due nuclei artistici che fanno riferimento in particolare a Moni Ovadia prima ed a Robert Wilson poi. Nel 1989 affianca al CRT Artificio una struttura professionale dedicata a progetti ed eventi internazionali, Change Performing Arts, con la quale realizza anche importanti mostre interdisciplinari. Nel 2000 firma la direzione artistica della mostra “Stanze e Segreti” in collaborazione con Achille Bonito Oliva e Luigi Settembrini. Nel 2001 è il direttore artistico della Biennale di Valencia, dedicata alla comunicazione nelle diverse forme artistiche. Nel 2002 cura a New


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York con Gae Aulenti e Luca Ronconi la mostra “Made in Italy” dedicata alla creatività italiana della seconda metà del XX secolo. Nel 2003 cura il progetto multidisciplinare “Immaginando Prometeo”. Nel 2005 realizza lo spettacolo dell’Expo mondiale di Aichi 2005 con la regia di Robert Wilson. Nel 2007 dirige l’evento inaugurale di Dama-

sco Capitale della Cultura. Nel 2008 cura il progetto “L’Ultima Cena di Leonardo” ideato e diretto da Peter Greenaway. Nel 2009 produce il progetto di Peter Greenaway “Le nozze di Cana di Paolo Veronese” che va in scena nel corso della Biennale di Venezia all’Isola di San Giorgio. Nel 2010 cura la direzione artistica dell’evento “L’Italia delle Città” di Peter Greenaway alla Expo di Shanghai, “Perchance to dream” di Robert Wilson e Roberto Bolle al Center 548 di New York e “Tutti a tavola!” progetto espositivo multimediale alla Villa Reale di Milano e alla Pinacoteca di Brera. Sempre nel 2010 firma un omaggio a “Tadeusz Kantor / Macchine della memoria” in occasione del ventennale della scomparsa del regista polacco. Nel 2011 cura il Padiglione nazionale Ucraino per la 54 Biennale di Venezia. Nel 2012, infine, Franco Laera cura la programmazione di una serie di spettacoli in collaborazione con il SESC di San Paolo in Brasile e l’installazione/spettacolo “La settima onda” di Peter Greenaway a Salerno.

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e uguale, ma quei fragili strumenti che sono i loro stessi corpicini scompaiono così sostituiti dai nuovi che a lor tempo spariranno anch’essi per dar posto ad altri ancora come le foglie al bosco, come nel prato i fiori. Ma i loro cimiteri non conosco. Forse tutta la terra è loro tomba o come puri spiriti nel seno della natura tornano confusi. ... Troveremo appena sull’acqua dei canali sui prati o sui cespugli, come il fiore delle memorie, qualche penna d’ali... Nino Ferraù Da Orme di viandante, Edizioni G. B. M., 1985.

UN MONDO NUOVO Ho legato un’amaca ai rami alti del cedro. Supino una brezza leggera mi culla. Che mare vasto il cielo! Vedo quel che non vedevo oltre la siepe di rovo, dall’alto, e tutto è diverso e mi disorienta il mondo nuovo. Domenico Defelice D’ANNUNZIO IN SI BEMOLLE

LA MORTE DEGLI UCCELLI Mai ho saputo dove se ne vanno a morire gli uccelli. Di morti ho visto con malinconia soltanto quelli uccisi dall’uomo, ma non quelli che persero la vita per amore o vecchiaia o malattia. Sai tu dov’essi fermano le ali per nascondere l’ultimo respiro? Io non so se un compagno li conforti o se muoiono soli. Di tanti milioni di usignoli solo la loro musica è perenne

Piove, piove, piove... A furia di sostare nel canneto il tuo cervello è divenuto molle. Piove sopra le canne e sopra i gigli infranti. Neppure l’ironia ti salva ormai dalla mediocrità. D’Annunzio è in si bemolle e tu non ti sollevi dal cra cra. Domenico Defelice GIUGGIOLO Piccoli e colorati di pudore, più nòcciolo che polpa,


POMEZIA-NOTIZIE

Novembre 2016

un quasi niente conturbante come i tuoi baci, Imelda, e quei tuoi amplessi vera toccata e fuga che mi lasciano sempre in catalessi. Il tronco esile, le foglie lucenti e coriacee, i tanti aculei: ecco le fattezze del tuo corpo quasi legnoso eppur così piacevole allo sguardo e alle carezze le spine dei tuoi seni, i tuoi duri capezzoli, giuggiolo Imelda. Ho qui nel petto crude e profondissime ferite, ché mai cessò di sanguinare il cuore. Albero, se ti tocco, con dolore mi lasci, come Imelda, che ironica guardandomi mi dice: se tu ci trovi tanta somiglianza e perché abbiamo la stessa radice! Domenico Defelice

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Sotto, a fianco: Domenico Defelice - Giuggiolo Imelda (biro e matite colorate, 2016). AI COLLABORATORI Si invitano i collaboratori ad inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione), composti con sistemi DOS o Windows, su CD, o meglio, attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è necessario un contributo volontario. Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ ABBONAMENTI (con copia cartacea) Annuo... € 50.00 Sostenitore....€ 80.00 Benemerito....€ 120.00 ESTERO...€ 120,00 1 Copia....€ 5,00 ABBONAMENTO solo on line: http://issuu.com/domenicoww/docs/) Annuo... € 35 Versamenti: c. c. p. N° 43585009 intestato a Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Specificare con chiarezza la causale ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA ________________________________________ Stampato in proprio


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